La figura di don Abbondio domina tutto il primo capitolo. Essa ritornerà spesso nel corso del romanzo,
sempre in momenti cruciali (la notte degli imbrogli, la conversione dell'Innominato, la discesa dei
Lanzichenecchi, ecc.); di volta in volta si arricchirà di particolari, che la renderanno sempre più concreta ed
umanamente vera agli occhi del lettore. Fra tutti i personaggi dei Promessi Sposi, don Abbondio è il più
popolare, il più conosciuto; più ancora di Renzo e di Lucia, che sono i protagonisti del romanzo. Nel suo
tornare bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don
Abbondio è pigramente tranquillo; è sprofondato in una oziosità, di cui gode beatamente, come della cosa
più desiderata e più gradita. Di tanto in tanto, gira gli occhi intorno, non per contemplare le bellezze del
paesaggio, ma per esserne accarezzato e cullato, nell'ora del tramonto. Quando, voltata la stradetta, vede
in fondo i due bravi, prova, sulle prime, un sentimento che non è di paura, ma di fastidio stizzoso. In tale
sentimento persiste, anche quando s'accorge che l'aspettato è lui. Giacché don Abbondio non avrà una
mente d'aquila, ma non è uno sciocco; più in là gli scopriremo una buona dose di furberia e di scaltrezza.
Prima si domanda se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; e la coscienza lo
rassicura alquanto (quanta amara ironia in questo esame, in cui la coscienza d'un prete s'interroga non sulla
giustizia, ma sulla viltà!); poi si guarda furtivamente intorno, per vedere se per caso arrivi qualcuno. Poiché
non vede nessuno, decide di andare incontro al pericolo. Egli è lucido al punto da atteggiare la faccia a tutta
quella quiete e ilarità che può; e, quando arriva a fronte dei due galantuomini, dice mentalmente: ci siamo;
e si ferma su due piedi. C'è una specie di energia, di forza nel comportamento di don Abbondio. La cosa non
meraviglia, se riflettiamo che si usa parlare di «forza della disperazione». Paradossalmente, in don
Abbondio la fonte dell'energia è la sua assoluta, totale vigliaccheria. Manzoni scrive: Don Abbondio non era
nato con un cuor di leone. Invece di affermare che don Abbondio è un vile, nega che sia un leone. Egli usa
una «litote», una negazione che sembrerebbe attenuare la gravità della cosa, ma in realtà la sottolinea. Fa
spiccare quello che don Ahloondio non è, e che invece, e per i tempi e per lo stato di sacerdote, dovrebbe
essere.
PERPETUA
La serva di don Abbondio, in quasi tutto il romanzo, compare in coppia con il suo padrone. In letteratura, le
coppie di personaggi vengono spesso assortite in modo che, differenziandosi fra loro e contraddicendosi,
l'una metta in evidenza l'altra. Di Perpetua l'Autore ci dice, preliminarmente, soltanto due cose: che è
celibe, non per vocazione, ma per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per
non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche; che è serva affezionata e fedele,
che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione. Per il resto, il disegno del personaggio è affidato
totalmente al dialogo. In questo capitolo abbiamo il primo di una serie di indimenticabili «duetti» tra don
Abbondio e Perpetua. Perpetua è ciarliera, sfrontata, commediante; ma, pur nei suoi difetti, conserva un
popolaresco buonsenso, che le fa vedere le cose nella loro reale dimensione. Lo stesso buonsenso sta nel
suo parere d'informare dell'accaduto l'arcivescovo, perché faccia valere a protezione del curato la propria
autorità. È un parere tanto saggio, da risultare quello giusto successivamente, nello svolgimento dei fatti.
Ma don Abbondio lo trova scervellato e lo rigetta, inorridito. Il dialogo s'impernia, appunto, sul contrasto
tra la inettitudine di don Abbondio, accecato dalla paura, e la facile concretezza di Perpetua.
SINTESI CRITICA DEL CAPITOLO
Il primo capitolo dei promessi sposi tratta molti temi poetici di tutto il romanzo.innanzitutto il tema del
paesaggio che, man mano da una mirabile e precisa descrizione topografica, diventa sempre più un
paesaggio poetico, animato dalla presenza di don Abbondio e dei vari personaggi, i quali dànno anche la
misura dell'atmosfera storica del seicento spagnolo in Lombardia. è questa società che Manzoni intende sin
criticare in tutti gli aspetti dei suoi ridicoli e crudeli costumi. Quel paesaggio lombardo, cosl dolce e caro al
cuore del poeta, comparirà nei momenti più drammatici del romanzo, come un'oasi spiritualmente serena
e religiosa, costituendo una delle note più romantiche della sua arte narrativa.
Il secondo tema che questo capitolo fissa chiaramente è il rapporto tra la storia e l'interpretazione umana
che di essa dà Manzoni; infatti la presentazione dei bravi dà modo al poeta di fare una lunga digressione
storica, quasi come una vera stampa del Seicento spagnolo. Le grida, che qui Manzoni riporta quasi
integralmente, e che hanno fatto credere a critici come TOMMASEO DE SANCTIS che si tratti di vere
digressioni o di vere appendici, trovano una legittima giustificazione storica ed estetica, se si tien conto
dell'età romantica in cui Manzoni scrisse il suo romanzo e delle esigenze interne della sua stessa poetica, la
quale prescriveva il vero come argomento dell'arte; e per Manzoni il vero si identificava col vero storico. A
parte il fatto che Manzoni non tralascia, sia pure in queste lunghe citazioni storiche, di cogliere le sue note
ironiche e satiriche, che si manifestano in quei lunghi titoli nobiliari, in quelle brevi ma efficaci interruzioni,
che vogliono sottolineare il suo atteggiamento umoristico e cristiano, con cui critica la dominazione
spagnola del Seicento. Quelle digressioni costituiranno, da ora in poi, la trama, il tessuto storico- morale-
umoristico, in cui s'Innesterà la vicenda umana del protagonisti.
Il terzo elemento è il metodo narrativo con cui Manzoni presenta il personaggio di don Abbondio due volte;
una prima volta narrativamente, come rappresentazione di un momento saliente della vita del personaggio;
una seconda volta storicamente, quando vuole descrivere lo stesso personaggio ambientandolo nella storia
del secolo, in cui è costretto a vivere come vaso di terracotta In mezzo a vasi di ferro. E le ragioni estetiche
di tale metodo manzoniano trovano giustificazione psicologica nel suo umorismo; egli intende dare al suo
personaggio una vita intima ricca e ansiosa, che è poi il sistema del pauroso, il quale si trincera in una specie
di corazza di prudenza, di umiltà, per riuscire a vivere senza troppe paure. Perciò egli prima presenta il
personaggio immerso nell'azione, e ciò gli permette di cogliere tutte le più sottili sfumature psicologiche
della paura e della prudenza; poi cerca di giustificare il comportamento del povero parroco, inserendolo
nella vasta trama della storia del Seicento lombardo spagnolo, e trova la via di criticare e mettere in
caricatura le ipocrisie e il falso potere dei governanti dí quell'epoca. L'occhio del Manzoni è sempre rivolto
alla storia, dominata dalla violenza, che si fa chiamare legge (come egli aveva detto nell'Adelchi) e dalla
considerazione pessimistica di questa storia trae motivo per una fiducia e una attesa dell'intervento
provvidenziale di Dío. Il tema della Pentecoste sarà il motivo morale e religioso conduttore di tutto il
romanzo. Da notare ancora la vivacità del dialogato manzoniano sia nel breve colloquio con i bravi sia nel
colloquio più vivo e drammatico con Perpetua; questa naturalezza di espressioni e questa esigenza
profonda di realismo linguistico e psicologico, che chiarifica l'anima stessa dei personaggi, saranno d'ora in
poi elementi fondamentali dell'arte narrativa di Manzoni.
Dal punto di vista stilistico Manzoni ci, ha offerto, già da questo capitolo, i più vari
registri della sua prosa. Dapprima predomina il tono descrittivo e analitico del
paesaggio e una sottile precisazione di termini geografici, poi la prosa secentesca
delle gride, riferite da lui in modo autentico e intercalate da qualche breve ma
efficace rilievo umoristico e satirico. Ma Manzoni interrompe presto quel tono
descrittivo e prolisso per dar vita al dialogo breve, efficace e rapido. la prosa
riprende il suo tono narrativo-storico, in cui sí rivelano altre qualità che
costituiscono la fine poesia del sottodialogo che, per non saper che fare. Sono
appunto i momenti del soliloquio che ridimensionano il tono narrativo precedente,
variando l'intonazione del periodo in senso più drammatico. Poi è la volta di un
dialogo serrato, incalzante, tra il curato e la sua terribile Perpetua. In tal modo in
questo primo capitolo Manzoni ci ha dato la misura delle sue possibilità e delle sue
variazioni stilistiche, impastando felicemente prosa aulica del Seicento e prosa
ottocentesca parlata e ricondotta a tutti gli effetti espressivi. La chiusa, poi, così
pacata e solenne, sembra sottolineare l'auspicio di una notte serena al povero
curato e sembra anche concludere le ansie e i drammi di tutto il capitolo. In tal
senso il lettore avverte che ogni capitolo del romanzo ha una sua autonomia
artistica e stilistica, chiusa e conclusa in una circolare melodia. Per comprendere
meglio il valore oggettivo della narrazione manzoniana è bene istituire un raffronto
fra questo capitolo e quello di Fermo e Lucia.