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DELLO STESSO AUTORE
La briscola in cinque
Il gioco delle tre carte
Il re dei giochi
Odore di chiuso
La carta più alta
Milioni di milioni
Argento vivo
Il telefono senza fili
Buchi nella sabbia
La battaglia navale
Sei casi al BarLume
Negli occhi di chi guarda
nella collana «Corti»
Sellerio editore
Palermo
2018 © Sellerio editore via Enzo ed
Elvira Sellerio 50 Palermo
e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it
EAN 978-88-389-3784-2
A bocce ferme
A Marcello,
che per gli amici – cioè per tante,
tantissime persone –
sarà sempre il Maba
Quello che ricordiamo del nostro
passato
dipende enormemente
da quello che abbiamo fatto dire e
ridire
alle nostre lingue:
il resto è preda dell’oblio,
dimenticato.
ARTHUR SCHOPENHAUER
Inizio
– Freschino, eh?
– Sì, ma accettabile, dai. Stamani
era peggio. Io sono arrivato alle sei e
davanti alla porta c’erano dei
pinguini tutti in fila per un tè caldo.
Quella mattina, in effetti, quando
Massimo era arrivato al bar c’era un
freddo che mordeva le mani. Come
capitava spesso, ultimamente.
Una località di mare, d’inverno,
dà spesso un’impressione di
incompleto, come se fosse un teatro
di posa, più che un paese. In parte
per via dei negozi chiusi, perché
certi negozi stanno aperti solo
d’estate. In parte perché la quantità
di gente diminuisce drasticamente.
Ma soprattutto perché è inverno: fa
freddo, la luce è diversa, e case
pensate per essere fresche e
accoglienti d’estate, alla luce del
sole, nella bruma umidiccia
dell’inverno danno quasi l’idea di
sentirsi prese in giro.
– Comunque è più freddo
dell’anno scorso – disse Tiziana,
tirando fuori dalla borsa una sciarpa
giallo inca e avvolgendosela intorno
al collo.
– Assolutamente.
Che in bocca a Massimo voleva
dire «assolutamente vero». Erano
anni che a Pineta non arrivava un
freddo del genere. Temperature
sempre vicine allo zero, la mattina, e
che non di rado si avvicinavano più
da sotto che da sopra; ma per
fortuna, siccome siamo sul mare,
spesso e volentieri c’era anche
vento. Un vento cattivo e insistente,
a cui gli abitanti di Pineta non erano
abituati. Tanto per dare un’idea, per
aprire la porta del bar senza togliersi
i guanti Massimo aveva incollato
alla chiave un volante giocattolo di
plastica smontato da un vecchio
telecomando di videogioco, in modo
tale da poterla manovrare e ruotare
agevolmente a due mani.
– Ora poi dice che deve arrivare
anche il picco dell’influenza –
continuò Tiziana, mettendosi un
paio di guanti gialli di quelli che
servono più per tenere le mani in
tono che per tenerle al caldo.
– Pare di sì. E, tanto per
continuare con la catena di ovvietà,
se uno prende freddo l’influenza è
più facile beccarsela –. Massimo
sospirò, tirò fuori le mani guantate
dalle tasche, dette una piccola pacca
sulla spalla a Tiziana e lasciò la
mano appoggiata, delicatamente. –
Adesso, possiamo continuare in
maniera educata e impersonale a
palleggiare con discorsi inutili
oppure puoi dirmi cosa mi dovevi
dire di tanto urgente da farmi uscire
dal bar e farmi beccare un’altra dose
di freddo gratis assolutamente
inopportuna. A meno che tu non stia
cercando di farmi ammalare.
Tiziana restò un attimo in
silenzio, prima di rispondere.
– Guarda, forse potrebbe essere
una buona idea.
– In che senso?
– Massimo, scusa se mi permetto,
ma siamo soci, e io te lo devo dire.
Sbaglierei a non dirtelo.
– E allora dimmelo.
Tiziana prese un lungo respiro,
prima di parlare. E, quando aprì
bocca, lo fece continuando a
guardare davanti a sé. Da tempo,
ormai, Tiziana aveva capito che
Massimo parlava in modo diretto e
preferiva che gli si parlasse in modo
diretto. Quando si parlava di lavoro,
era facile. Quando si andava sul
personale, un po’ meno.
– Abbi pazienza, Massimo, ma
stai diventando insopportabile. Tratti
male chiunque. Finché lo fai con tuo
nonno e con quegli altri con cui hai
confidenza pace. Ma non è che puoi
mandare in culo le persone solo
perché ti chiedono una centrifuga.
– Estratto – puntualizzò Massimo.
– E comunque non le mando in culo.
– No, è vero. Le offendi proprio.
Cosa hai detto l’altro giorno al
Ciotti? Guarda che è inutile che tu
beva l’estratto di verdura, se non
smetti di mangiare con la vanga
obeso sei e obeso rimani?
– Stavo solo illustrando un dato di
fatto – rispose Massimo, allargando
le mani, come a mostrare su un
vassoio l’ovvietà che stava dicendo.
– Mi chiede l’estratto di carota e
sedano con tanto zenzero «perché
disintossica» e poi ci mangia due
panini salame e mastice. Un minimo
di coerenza ci vuole.
Appunto, un minimo di coerenza
– disse Tiziana, guardandolo negli
occhi. – Vale anche per te, sai,
Massimo caro. Fai il barista, mica il
dietologo. Se uno ti ordina due
panini e un estratto sono otto euro e
cinquanta di incasso, non
ottocentocinquanta calorie. Scusa
sai, ma a te che uno sia sovrappeso
non ti dovrebbe riguardare.
– Su questo se ne potrebbe
discutere – disse Massimo, alzando
un ditino scamosciato. – Se uno è
obeso prima o poi gli verrà qualche
patologia che andrà curata, e
siccome grazie a Dio siamo in un
paese civile, dove le cure mediche
non si rifiutano a nessuno, questo
vuol dire che quando il signor Ciotti
Attilio avrà il primo dei tre o quattro
infarti che lo aspettano verrà preso,
incastrato in un’autolettiga, portato
in ospedale e curato. E le spese di
tutte le cure per stasargli le arterie e
rimetterlo in piedi, per la gioia dei
salumai di tutto il litorale, lo sai a
chi toccano? – Massimo, con le
mani, indicò prima se stesso, e poi
Tiziana. – Alla società. Cioè, a me e
a te. Tutto, compresa la benzina
dell’ambulanza.
– Massimo, cosa c’è che non va?
– In che senso?
– Massimo, te lo chiedo con la
massima educazione: per favore,
non mi pigliare per il culo. C’è
qualcosa che non va. Sei nervoso.
Sei irritabile. Sei intrattabile –.
Tiziana, dopo averlo guardato un
attimo in modo intenso, le pupille
ferme da qualche parte tra cervello e
gola, riprese a camminare guardando
avanti. – Sono settimane che prima
di entrare al bar prego Dio che non
vada storto niente, perché alla prima
minuzia che non va come dici te son
santi e madonne. C’è Marchino che
prima di rivolgerti la parola m’ha
detto che conta fino a dieci.
– Ottima abitudine – approvò
Massimo. – Se poi iniziasse anche a
pensare a quello che dice sarebbe un
progresso inestimabile. Altrimenti
può stare zitto. Se uno non ha niente
da dire, può anche tacere.
– E se uno una cosa la può dire
educatamente, non c’è bisogno che
sia grezzo. La gente capisce lo
stesso. Massimo cominciava a
vedersi messo all’angolo. Stava
affiorando quella che era la
caratteristica principale di Tiziana, e
che all’inizio non emergeva in modo
immediato. Non stiamo quindi
parlando della simpatia, né
dell’intelligenza, né tantomeno delle
puppe; no,
quello a cui ci riferiamo è la
determinazione.
– Mica vero – tentò Massimo, più
per inerzia che per convinzione. – A
volte come lo dici è importante.
– Dai, Massimo. Hai delle
reazioni che sono sproporzionate.
Ho ragione o no? Sincero.
– Sì, potresti avere ragione.
– Bene. Allora, da socia e
soprattutto da amica, mi dici cosa
c’è che non va?
Massimo prese un respiro
profondo, non teatrale, ma
necessario, e ripensò a quella
mattina stessa, quando era entrato
nel bar.
Massimo adorava arrivare per
primo al bar. Il suo bar.
Perché quello era il suo bar.
Non tanto per una questione di
possesso formale, ma di proprietà
intellettuale. Quel bar era suo perché
lo aveva voluto lui, lo aveva messo
su lui, e lo aveva fatto crescere lui.
Quasi ogni particolare in quel bar
era stato scelto da lui. Dai più
banali, come il bancone tecnico in
legno e resina, o la carta dei caffè
che andava dalla semplice arabica al
Blue Mountain giamaicano passando
per il Caracolito dai chicchi
microscopici e profumati, ai più
inquietanti, come la Campana del Re
– una piccola campana in stile
Sudest asiatico, minuta ma molto
sonora, dotata di un batacchio
orizzontale, e che rintoccava ogni
qual volta che, a insindacabile
giudizio di Massimo, qualcuno nel
bar diceva una cazzata. E anche ora
che erano passati più di dieci anni e
il bar era in grado di camminare con
le proprie gambe e farsi degli altri
amici, i momenti più belli della vita
di Massimo erano quei trenta-
quaranta minuti mattutini che
passava da solo nel proprio locale,
prima che entrassero Tiziana,
Marchino o il primo cliente della
giornata.
A Massimo piaceva ogni singolo
momento di quei quaranta minuti,
scanditi dall’orologio a muro che al
posto delle ore, invece dei numeri,
aveva delle equazioni di secondo
grado la cui soluzione reale positiva
era l’ora indicata dalla lancetta. Gli
piaceva accendere le luci e vedere
gradatamente il bar che tornava alla
vita. Soprattutto, gli piaceva farsi il
primo caffè della giornata e mettersi
al tavolo d’angolo, a leggere il
giornale.
O meglio, a leggere i giornali (la
«Gazzetta», il «Corriere», il
«Tirreno», in quest’ordine per carità,
prima il piacere e poi il dovere). O
meglio ancora, a leggere i giornali
per primo, prima che arrivassero
orde di avventori incapaci di aprire
un giornale con delicatezza e che
lasciavano sul tavolo un coso
spiegazzato che più che un
quotidiano sembrava un maldestro
tentativo di spiegare la formazione
delle montagne tramite la tettonica a
zolle. Visigoti della carta stampata
tra i quali, appunto, il più temuto era
Aldo.
– Perché appunto? – chiese
Tiziana.
– Scusa, stavo pensando a voce
alta. Comunque «appunto» era
riferito al fatto che uno dei motivi
per cui mi girano è proprio Aldo.
– Perché ti squaderna i giornali?
Ma che mi leggi nel pensiero?
Sono così prevedibile?
– Perché è in pensione. È in
pensione eppure continua a
comportarsi come se il ristorante
fosse suo.
– Be’, però in quello c’eravamo
trovati d’accordo – disse Tiziana,
ricominciando a camminare. – Anzi,
eravamo contenti tutti e due che
Aldo rimanesse a dare una mano in
sala.
– Appunto. A dare una mano in
sala. Ma il caro e soprattutto vecchio
Aldo col cavolo che si limita a
quello. Fa gli ordini. Sceglie i piatti.
Parla con i fornitori, prende accordi.
E io mi ritrovo in magazzino
ventiquattro casse di spumante
Chiarebolle della tenuta Tebaldi
Santangeli a quindici euro più IVA la
bottiglia che non venderò mai se non
a prezzo di costo.
Tiziana, senza dire una parola,
continuava a camminare, ascoltando.
– Poi però tutto questo quando ha
voglia – continuò Massimo, con la
voce netta di quando tentava di non
infervorarsi. – Quando non ha
voglia, allora si ricorda di essere in
pensione. Così te hai in giro per il
ristorante uno che fa il cazzo che gli
pare solo quando gli pare, e quando
avresti bisogno lui è a Nepi, a
Digione o in un qualsiasi altro posto
desolato ma lontano a qualche
festival di musica preistorica, e
manco puoi chiamarlo al cellulare
«perché quando inizia il concerto va
spento», si vede che ’sti concerti
durano nove ore, sei di musica e tre
per portare via quelli che sono
spirati nel corso dell’esecuzione.
– Sì, non hai tutti i torti. Magari la
cosa gliela dobbiamo far presente.
Però con un po’ di tatto. È un uomo
di una certa età.
– Lui, sì. Invece altri sono
giovani.
– Massimo, se è per Marchino
guarda che l’estrattore lui ormai lo
usa...
– Non sto parlando dell’estrattore.
E nemmeno di Marchino. Il fatto è
che Aldo non è il solo che non ha
capito che il mio bar è il mio bar.
– Il nostro bar.
– Sì, va bene. Il nostro bar.
Comunque nostro. Tiziana Guazzelli
e Massimo Viviani. Vedi il nome
«Alice Martelli» nell’elenco dei
proprietari?
Ahi, ahi.
Alice Martelli, per tutti gli
abitanti di Pineta o quasi, era il
vicequestore aggiunto della questura
di Pisa. Per Massimo, Alice era
Alice. Ovvero la ragazza conosciuta
pochi anni prima e che era stata
prima una conoscenza, poi una
amica, e infine la sua fidanzata. Il
che aveva tanti aspetti positivi, in
gran parte all’inizio, e alcuni aspetti
negativi, di quelli che all’inizio
invece si pensa che non siano poi
così importanti, specialmente se sei
un maschio che ha l’ormone in
gabbia da un paio di lustri. Se tu
sarai solo sarai sempre tuo, annotava
Leonardo da Vinci a margine di uno
dei suoi taccuini. Massimo non lo
sapeva, ma se lo avesse saputo
avrebbe pensato che Leonardo era
un genio per davvero.
– Ma le pareti non starebbero
meglio di un color canapa,
Massimo? Senti Massimo, perché
non fai più il cappuccino con il latte
di soia? Sai Massimo, quella
campana di bronzo sul bancone non
si può vedere, perché non la sposti
da qualche altra parte, che so, in
magazzino? Abbi pazienza Massimo
ma sempre il «Corriere» e la
«Gazzetta» due palle, perché non
prendi «il Fatto?».
– Sì, su quello però te lo avevo
detto anch’io – fece notare Tiziana.
– E anche te mi avevi...
– E fin quando me lo proponi te,
Tiziana Guazzelli, mia socia e
comproprietaria, la cosa è nel tuo
pieno diritto. Se invece me lo
propone la mia fidanzata, che di
mestiere fa il commissario di
polizia, la cosa mi fa girare i
coglioni. Specialmente venendo da
una persona che già è entrata in casa
mia e l’ha trasformata in casa sua.
Che lo faccia a casa, va bene. Posso
sbuffare, ma va bene. Che lo faccia
al bar, anche no.
– Sì, capisco. Magari Alice è un
po’... cioè...
– È maniaca del controllo – disse
Massimo, asciutto.
– Senti chi parla.
Lo so. Lo so benissimo. Siamo in
due. Il problema è proprio che siamo
in due. Ora, io credevo di poter
risolvere il problema
tranquillamente suddividendo le
competenze. Tu fai quello che vuoi
in casa, va bene. Metti le tendine,
che sono orribili ma va bene.
Arredami il cesso come se fosse la
sala d’attesa di un casino birmano,
va bene. Ma il bar sarebbe anche
mio. Cioè, nostro. Comunque, non
tuo. E nemmeno ci lavori. Io ci entro
mai in commissariato a fare il tuo
lavoro?
– No, a dire il vero lo fai
direttamente dal bar – rispose
Tiziana, sorridendo. – Scusa
Massimo ma questo argomento io se
fossi in te non lo userei proprio.
Osservazione giusta, ed
opportuna.
Negli ultimi dieci anni, in
provincia, ci sono stati circa venti
omicidi (il circa è dovuto al fatto che
alcuni di questi non è chiaro se siano
omicidi o meno, e in un paio di casi
non è chiaro manco se ci sia il
morto); di questi venti, una buona
metà sono avvenuti sul litorale. Di
quelli avvenuti sul litorale, solo una
schiacciata minoranza è stata risolta
senza un significativo intervento di
Massimo e dei quattro habitué del
BarLume. Intendiamoci, il cittadino
ha il dovere di collaborare con le
forze dell’ordine; ma, in non pochi
casi, la collaborazione era sfociata
nell’ingerenza, se non proprio
nell’intralcio. I confini della
collaborazione, si sa, sono un po’
come quelli geografici ai tempi delle
grandi guerre: difficile andare
d’accordo sul punto in cui
dovrebbero stare, ma tutti concordi
sul fatto che, così come sono, non
vanno bene.
– Va bene, va bene, beccato –
disse Massimo, regalando al mondo
il primo sorriso della giornata. – Il
fatto è che mi sembra che tutti
vogliano dirmi cosa fare. Ho smesso
di fare il ricercatore perché volevo
essere libero...
– ... e non accetti che gli altri
siano liberi di dirti quello che
pensano. Non è da te, Massimo. C’è
qualcos’altro.
Sì, c’è qualcos’altro. Ma non è
facile da spiegare.
– Quella? La bambolina di
porcellana con le sopracciglia
disegnate?
– Quella lì, esatto. Roberta Serra.
Li ho avuti a cena al Boccaccio, il
ristorante di prima, per ben tre volte.
Tutte e tre le volte per la stessa data.
– Tiro a indovinare: il quattordici
febbraio?
– Mi inchino alla sua perspicacia.
– Non ci vuole tanto per
indovinare. Basta aver presente
Sbrodolini.
Senza dire una parola, Aldo annuì
con consapevolezza. Alto, pallido,
biondiccio, il sostituto procuratore
Brodolini aveva in faccia sempre la
stessa espressione di vaga
rassegnazione, e uno stile di vita
forgiato da decenni di obbedienza e
maglioni fatti a mano. Figlio di
magistrati e nipote di magistrati,
Sergio Brodolini appena finito il
liceo classico si era iscritto a legge,
dando gli esami al ritmo previsto
dall’ordinamento fino a laurearsi, a
ventitré anni, senza darsi importanza
né andando fuori corso. Il classico
bravo ragazzo che tutte le mamme
sognano per la propria figlia, ma che
alla stessa età della figlia in
questione lo avrebbero deriso senza
pietà.
Per descriverlo ad Alice, quando
aveva preso servizio a Pineta, a
Massimo era bastato un semplice
particolare:
Ti dico solo questo, Alice.
Quando entra al bar, Brodolini
ordina sempre la stessa cosa. Un
latte macchiato. Pur tuttavia, una
ragazza in qualche modo in facoltà
aveva avuto occasione di
conoscerla: Roberta Serra, appunto,
la quale aveva iniziato a invitarlo a
casa sua a studiare, e poco tempo
dopo anche a fare altro. Sostenevano
i maligni che senza l’aiuto di
Brodolini la Serra non si sarebbe
mai laureata, ma mancava la
controprova; era invece noto ed
innegabile che, poco dopo laureata,
la ragazza aveva piantato in asso il
fidanzato in procinto di diventare
magistrato e si era sposata, pochi
mesi dopo, con Matteo Corradi.
– Mettiamola così, Alice – disse
Aldo. – Lei si stupirebbe se uno
come Sergio Brodolini, avendo la
scusa per rompere i coglioni a
Matteo Corradi, non lo facesse,
anche usando le innegabili
prerogative del suo ruolo?
– Sì. No. Non... – disse Alice, che
sembrava in difficoltà nel mettere
d’accordo ciò che credeva con ciò
che sperava. – ... cioè, ragazzi,
questa sarebbe vendetta. Stiamo
comunque parlando di un magistrato
della repubblica.
– Cioè di un essere umano –
constatò Massimo, mentre
riappoggiava piano il batacchio della
campana.
Cinque
– Glomeruloazzurrite?
– Uno degli scherzi più belli che
abbia mai visto. Lo fece Alberto il
Corradi, quello della ditta
farmaceutica. Alice era seduta al
bar, un annetto prima, circa, con
davanti una tazza vuota, qualche
briciola di cornetto e una delle
giornate più vuote del decennio.
Nessuna
voglia di andare in questura a
passare scartoffie.
– Boia, che merda... – commentò
Pilade, con un sorriso che la diceva
larga su come l’insulto fosse in
realtà una medaglia al valor civile, e
guardando Aldo come chi dice vai,
parti, s’aspetta solo te.
E Aldo aveva incominciato a
raccontare di come, negli anni
Sessanta, quando si laureava uno di
Pineta era una festa per mezzo
paese. Anche perché all’epoca c’era
davvero da festeggiare: una laurea in
medicina, o in ingegneria, o in
chimica, voleva dire un bel lavoro
sicuro, salivi sull’ascensore sociale e
pigiavi il bottone dell’attico. Non
come ora, che ti prendi una laurea e
finisci in un call center. A volte, se
hai una laurea triennale in Gestione
del Conflitto Familiare, te la sei
anche andata un pochino a cercare;
altre volte, se magari hai un
dottorato in biologia, un po’ meno.
Allora, invece, le lauree erano vere,
e quando uno si laureava era una
festa. E tutte le feste cominciano al
ristorante.
Cominciò al ristorante anche la
festa di Oreste Berti, detto
Pisciacaffè, perché quando arrivava
il conto com’è come non è doveva
sempre andare in bagno. E anche in
quella occasione, il Berti fece patti
chiari: io vi invito al ristorante, ma
ognuno paga per conto suo. Fu
allora che Alberto Corradi, che
all’epoca aveva diciassette anni e
faceva la quarta periti chimici all’ITI,
ebbe la pensata. Durante la cena,
dopo aver debitamente istruito il
Delli Carri, medico neolaureato che
si stava facendo le ossa al pronto
soccorso del Santa Chiara, aveva
chiesto con nonchalance come
andasse il lavoro.
– Eh, c’è da lavorare parecchio –
aveva risposto il Delli Carri, tramite
la bella voce baritonale di Aldo. –
Ora poi che è arrivata in Europa la
glomeruloazzurrite c’è veramente
poco da scherzare. Abbiamo già
avuto i primi casi.
Glomeruloazzurrite?, chiesero tutti.
È una malattia tipica dell’Iran e
della Siria, spiegò il Delli Carri. Va
presa in tempo, sennò è letale, ma la
cura è costosissima.
Millecinquecento lire a dose, tieni
conto che all’epoca un operaio
guadagnava dieci, dodicimila lire al
mese. E anche curandosi, insomma,
non è detto.
Aldo si era messo a sedere, con
lentezza, mentre Alice ascoltava e
tutti gli altri la guardavano,
ascoltando, e apprezzando che
apprezzasse.
A quel punto, l’esca era gettata –
aveva continuato, incrociando le
gambe. – Tutti a chiedere
informazioni su questa
glomeruloazzurrite. Come si
prendeva, cosa succedeva, quali
erano i sintomi. L’unico sintomo
eclatante, disse il Delli Carri, era che
il sistema filtrante dei reni reagiva
con l’urea, dando un complesso di
colore caratteristico. In pratica, uno
andava in bagno e faceva la pipì
azzurra.
Alice aveva alzato un
sopracciglio, mentre le pupille le si
dilatavano lievemente. Aldo,
intanto, continuava.
– Nel frattempo, durante la cena,
era arrivato il dolce. Un bel
millefoglie con sopra le ciliegie
candite. Una di queste ciliegie, però,
era farcita di blu di metilene, che il
buon Alberto Corradi aveva fregato
in laboratorio, a scuola.
Alice si era voltata verso
Massimo, guardandolo come chi ha
capito, ma c’è ancora qualcosa che
non le torna.
– Il blu di metilene funziona come
una cartina di tornasole – aveva
spiegato Massimo, che spesso nel
corso di quel racconto ricopriva il
ruolo di inserto scientifico. – In
ambiente basico e in presenza di
glucosio, come ad esempio una
ciliegina sopra una torta, è incolore,
mentre in ambiente acido, come, che
so, l’urina di una persona che si
mangia quella ciliegina, è blu
intenso.
– Non ci credo. Ma che merde...
– Noi? Casomai Alberto e il Delli
Carri! – si era difeso Ampelio.
E comunque, Alice, non li devi
giudicare male – aveva detto Aldo,
con solennità. – Pensa che dal
giorno dopo, quando il povero Berti
telefonò al Delli Carri per dirgli che
aveva pisciato azzurro, il Delli Carri
lo curò amorevolmente in privato,
andando da lui tutti i giorni che Dio
mandava in terra, mattina e sera, e
somministrandogli dosi decrescenti
di blu di metilene procuratogli da
Alberto Corradi, sciolte in acqua,
bicarbonato e tanto zucchero. E
pensa che chiedeva solo mille lire a
dose. La visita no, quella era gratis.
– Matteo Corradi.
Alice mise di fronte a Massimo
un piattone colmo di spaghetti
letteralmente ricoperti di briciole di
pane abbrustolito. Spaghetti con la
muddica atturrata: pane raffermo
sbriciolato e tostato in padella con
un filo d’olio e un pochino di aglio.
Il formaggio dei poveri, le aveva
raccontato Massimo la prima volta
che lo aveva fatto, perché nella
Sicilia contadina non tutti si
potevano permettere di condire la
pasta col formaggio grattugiato. Una
tipica ricetta siciliana. Veramente,
aveva obiettato Alice, la pasta
condita col pane croccante la fanno
anche in Val d’Orcia. Se uno dei due
fosse stato siciliano, o senese,
probabilmente si sarebbero messi a
discutere su chi dei due avesse
ragione e la cosa avrebbe tolto
l’appetito a entrambi; essendo
entrambi toscani di costa, avevano
convenuto che tale abbinamento,
oltre a riempire efficacemente lo
stomaco dell’indigente, era
veramente bòno da fare schifo e
avevano diluviato la pasta senza
tanti discorsi inutili.
– Matteo Corradi – confermò
Alice, mettendosi a sedere. –
L’unico che conoscesse Ubaldo. E
per questo l’unico che, secondo
Brodolini, avrebbe avuto un motivo
per ucciderlo.
Massimo non disse niente, per
qualche secondo. Non perché non
gli interessasse, ma perché si stava
mettendo in bocca la prima
forchettata di pasta. La più buona,
quella che non ammette interferenze
di nessun tipo, nemmeno quelle
gradite, come due bei discorsi con la
tua fidanzata sull’ultimo morto
ammazzato fresco fresco.
– E secondo te? – chiese
Massimo, dopo aver deglutito.
– Secondo me... – Alice finì di
compattare il rotolino di spaghetti,
se lo mise in bocca e masticò,
continuando a rispondere a bocca
piena – ... thutti i forfi nhon ce li ha.
Ma c’è un fhroblema.
– C’è un problema sì. Se continui
a parlare mentre mangi gli spaghetti,
prima o poi ti soffochi. Prima
divorziato e poi vedovo anche no,
grazie.
– Perché il problema sarebbe solo
tuo, al solito, vero? Tipico dei
maschi. Ti faccio notare che a me
andrebbe un filino peggio.
Comunque, no – pausa, forchettata,
ciomp – il fhroblema è che Matt-
heocorradi ha un alibi.
– Un alibi. E sarebbe?
– Sarebbe che dalle due alle
cinque e mezzo del pomeriggio, cioè
al momento del delitto...
– Di questo siete sicuri? No,
perché è già successo...
– Al ’ento per cento – disse Alice
deglutendo. – Giaccherini è stato
ucciso tra le due e le quattro. E tra le
due e le quattro, anche più in là,
Matteo Corradi si trovava a casa sua,
con la moglie. La moglie,
interrogata dal magistrato, ha
confermato.
– La moglie e solo la moglie? –
Massimo non alzò nemmeno gli
occhi dal piatto. – Ho fatto bene
allora a usare il condizionale.
– Infatti. Anche io non ne sono
per niente convinta. E Sbrodolini,
figurati. Se potesse ricorrere alla
tortura, l’unica preoccupazione
sarebbe «su quali fondi faccio
acquistare la vergine di Norimberga?
Materiale d’ufficio o spese
mediche?» – Alice, giustiziata
l’ultima forchettata di pasta, passò
l’indice sul piatto e catturò le poche
briciole di pane rimaste,
ciucciandosi poi la punta del dito
con la soddisfazione di una
bimbetta.
– A proposito di spese, le hai mica
pagate le bollette?
– Le bollette... no, guarda,
Massimo, stamani ho avuto una
valanga di roba da fare e non ho
proprio avuto il tempo materiale.
Poi, se anche lo avessi avuto, le ho
messe in borsa e poi m’è passato di
mente. Se te le lascio me le paghi te?
Vanno pagate al più presto perché
domani quella della luce scade.
Guarda, te le prendo subito.
Mentre Massimo sparecchiava,
Alice prese la borsa di
inconsapevole animale andino e
cominciò a frugarci dentro. Dopo
non troppi secondi, iniziò a tirare
fuori la roba di malagrazia,
biascicando una sequenza di
incoerenze a denti stretti, tipo «altro
che smartphone, il giorno che
inventeranno la borsa intelligente
sarà un gran giorno per l’umanità,
altro che, ma dove cazzo, ecco, no,
questi fogli son tre volte che mi
tornano in mano, to’, più in basso di
lì non vai» mentre una cartella piena
di fogli e foglietti si squadernava per
terra.
Massimo, con pazienza, si mise a
raccogliere tutti i fogli che erano
fuoriusciti dalla cartella e che, pur
essendo in un appartamento con le
finestre chiuse, avevano trovato
misteriose correnti d’aria che li
avevano fatti planare negli angoli
più reconditi della stanza, tra cui uno
esattamente sotto al divano in
alcantara e piombo ghisato che
sarebbe stato più facile da spostare
se fosse stato imbullonato al
pavimento.
– Ooooh, eccole – disse infine
Alice, posando sul tavolo un
mazzetto di fogli rettangolari. – Che
poi non capisco perché non le vuoi
domiciliare, ’ste cavolo di bollette.
Ogni volta è un martirio.
A cose normali, Massimo avrebbe
risposto con pedante assertività che
era già successo che arrivassero
bollette da seicentonovanta euro per
l’acqua, e la cosa si era rivelata
puntualmente un errore. Però, se la
bolletta fosse stata domiciliata,
l’azienda dell’acqua i soldi se li
sarebbe presi lo stesso e quanto a
ridarteli magari in tre o quattro mesi
li rivedevi; nel frattempo dovevi
chiamare talmente tanti uffici che
due mesi dopo ti sarebbe arrivata
una bolletta del telefono da paura,
quella sì incontestabile. Ma nella
fattispecie Massimo non rispose, e
non rispose perché stava leggendo.
– Massimo?
E quando Massimo leggeva, la
sua concentrazione di solito era
notevole. In questo caso, però, dato
che quella che aveva davanti era una
sequenza di numeri incolonnati, ci si
sarebbe aspettati al massimo uno
sguardo distratto. Invece, a giudicare
dai movimenti oculari, la
concentrazione di Massimo su quei
fogli era più accesa che mai.
– Massimo, cosa cavolo fai?
– Leggo.
– Quello lo vedo – disse Alice,
prendendo con cura il foglio da sotto
il naso di Massimo.
– E allora perché me lo chiedi?
– Perché stavi leggendo un foglio
di tabulati telefonici – disse Alice,
mettendo il detto foglio nella
cartellina con scritto «Giaccherini
Ubaldo – SDI». – Va bene che leggi
di tutto, ma mi sembra che ogni
tanto tu prenda le cose un po’ troppo
alla lettera.
– Sempre fatto – rispose
Massimo, mentre si impadroniva
delle bollette. – Per esempio, se
qualcuno mi dice che le bollette le
paga lei, ho questa paradossale
tendenza a capire che quelle bollette
le pagherà lei.
– Mi dispiace, sai, tesoro, ma io
adesso sarei impegnata a indagare su
un omicidio e a raccogliere indizi
validi per poter arrestare una
persona.
– Se mi vai a pagare le bollette te
ne do uno – disse Massimo, mentre
riuniva le bollette in un bel mazzetto
ordinato.
– Massimo, su una cosa siamo
d’accordo – disse Alice, mentre
ricomponeva il cadavere della borsa.
– Meno ti occupi del mio lavoro, e
meglio sto. Non è per sfiducia, lo
sai. Certe cose meno si sanno in giro
e meglio è.
– Io ti offrivo un dato oggettivo,
non un pettegolezzo – ribatté
Massimo.
Sì, con una bieca transazione
commerciale dietro – rispose Alice,
compattando la borsa con qualche
pacca sui fianchi del defunto
animale. – Saresti capace di farlo
anche col tu’ figliolo, se mai ne
avremo uno.
Capita, a volte, che una parola
cambi completamente la situazione
comportamentale di un gruppo di
persone. Dipende dalla situazione, e
dipende dalla parola. Attenti, detta
da un professore, significa «attivate
al massimo il cervello», detta da un
sergente significa quasi il contrario.
Anche la parola «figlio», detta in un
discorso tra Massimo e Alice, in
quel periodo generava conseguenze
opposte a quella sensazione di
dolcezza e senso di protezione che
qualsiasi accenno a un bambino in
arrivo di solito produce.
– Alice, adesso te ne dico un altro
di dato oggettivo, e stavolta
esplicitamente – disse Massimo,
lentamente, in modo quasi scandito.
– Io ho quasi cinquant’anni. Te l’ho
detto, e lo sai. Non me la sento.
– Massimo, io invece ne ho
trentasette. Anche questo è un dato
oggettivo. Anzi, te ne aggiungo un
altro: su questa terra siamo sette
miliardi, di cui tre e mezzo maschi.
Magari qualcuno che ha le palle per
davvero riesco ancora a trovarlo.
Non c’è niente da fare. Dette da
una donna, le cose volgari sono
ancora più fastidiose.
Anche perché di solito hanno un
motivo.
– Massimo...
– Dimmi bella.
– Ma prima, quando mi hai detto
che se andavo a pagare le bollette mi
davi un indizio, dicevi sul serio?
– Ahimè, mi dispiace, no. Perché?
– No, nulla. Scusa. Buonanotte.
Otto
– Io ci andrei di rinquarto.
– Io no.
Pilade, dopo aver brandeggiato la
stecca avanti e indietro un paio di
volte, dette un colpo breve e deciso
e la palla (quella di avorio) partì con
silenziosa decisione verso la sponda
lunga. Sponda lunga, sponda corta,
per poi schioccare delicatamente
contro la palla gialla, mandandola
verso l’esterno del tavolo lungo una
direzione parallela al bordo di
velluto, mentre la palla bianca
proseguiva lungo la sponda lunga,
formando con la traiettoria della
gialla collega sferica un angolo retto
quasi perfetto.
– Ber troiaio – disapprovò
Ampelio.
– È un colpo di difesa – disse
Pilade, appoggiando alla sedia la
palla (quella di ciccia, in camicia e
pantaloni). – E comunque magari
quando tiro chètati un attimino.
Quando si gioca si sta zitti.
– E ci se n’è avvisti, stai
tranquillo – disse Gino, mentre si
avviava grifagno verso la difesa di
Pilade, deciso a smantellarla. –
Stamani ’un c’è verso di fatti di’
nulla. E sì che di cosine belline ne
dovresti sape’.
Pilade, coerentemente con quanto
sostenevano i colleghi di vecchiaia,
tacque. Gino, dopo una rapida
occhiata per confermare la prima
impressione, decise che si vedeva
quel tanto di palla che bastava per
tentare il filotto. Chinatosi sul
biliardo con tutta la rapidità dei suoi
ottant’anni, appoggiò la mano sul
panno aperta a ventaglio, prese la
mira e colpì. Palla, sponda, sponda,
sponda. E, in mezzo, una strage di
birilli.
– Gino, segna dodici – disse Gino,
avviandosi al segnapunti dopo
essersi rialzato dal biliardo con
orgogliosa cautela.
– Bella difesa, sì – commentò
Ampelio. – Ha fatto più punti lui
con un colpo che te in tutta la
mattina.
– Ragazzi, abbiate pazienza, ve
l’ho detto – disse Pilade, vedendo
che la sua capacità di difendersi
veniva messa in dubbio. – Non ne
posso parlare. Non è solo che ho
promesso ad Alice, ho firmato un
contratto di consulenza con la
Polizia di Stato. Ho sottoscritto che
non posso fare menzione ad alcuno
dei contenuti inerenti all’indagine
che trovo nei materiali a me
assegnati. Non posso farne cenno ad
alcuno.
– To’, ma io ’un sono mìa alcuno.
Io sono Ampelio.
– E io sono Pilade, e se prendo un
impegno ufficiale con la mi’ firma
sotto lo mantengo. Se facessero tutti
come me, questo mondo sarebbe un
posto parecchio migliore.
– Sì, ma anche parecchio stretto.
– Bimbi, io di quello che c’è
scritto sui diari non ne posso parla’ –
si trincerò Pilade. – Mi poi da’ der
ciccione finché ti pare, io non ti cào.
Se vi va bene è così, se ’un vi va
bene è così lo stesso.
– Carattere chiuso, certo...
In quel momento, la porta a
pendolo tra sala e bar si aprì ed entrò
Massimo, reggendo in mano un
vassoio.
– Allora, eccoci qua. Un bel
coffee break per il Dipartimento
Risorse Anziane. Corretto al
sassolino per il Rimediotti, caffè
semplice per il nonnaccio, spuma
bionda per Aldo e un bell’estratto di
sedano e finocchio per i
collaboratori delle forze dell’ordine.
Tutto giusto?
– A parte l’aggettivo che hai usato
per l’estratto, sì – disse Pilade. – Te
guarda lì cosa mi tocca butta’ giù.
Mettimelo lì, Massimo, grazie.
– Grazie una sega – disse
Massimo, riappoggiandosi alla porta
a pendolo per uscire. – Se vi lascio
tazze e bicchieri qui mi ritrovo il
biliardo col panno Missoni. Per cui,
giovanottini, quando volete bere
venite di qua al bar.
Ampelio, appoggiando la stecca al
muro, prese il bastone e dette una
piccola pacca lignea sulla spalla del
compagno.
– Via, Pilade, che un po’ di moto
ti fa bene.
– Anche a te ti farebbe bene –
ribatté Pilade, serafico. – Potresti
incomincia’ andando in culo, alle
vorte.
– Allora mòviti.
– Un attimo – disse Pilade,
portando le mani alla giacca. – Mi
sòna la tasca. Rispondo e arrivo.
– Sbrigati che l’estratto di sedano
è bòno fresco.
– L’estratto di sedano è bòno se se
lo beve quarcun artro... – rispose
Pilade mestamente, prendendo il
telefono in mano e premendo col
ditone. – Vilma, pronto. Sì. Sì.
Dimmi.
Mentre Pilade rispondeva alla
moglie, il resto della compagnia si
diresse verso il bar a passo
tranquillo, e si sistemò con calma al
solito tavolino.
Fu solo dopo qualche minuto che
Pilade, a passo placido, entrò nella
saletta del bar, mentre spegneva il
cellulare. Del resto Pilade o parla o
cammina, tutte e due le cose insieme
gli fanno venire il fiatone.
– Era la Vilma.
– De’, chi voi che ti telefoni a te?
Mattarella? – disse Ampelio, mentre
annusava il caffè.
– Se volete vi posso anche dire
cosa m’ha detto – fece Pilade,
accomodandosi al tavolino dopo
aver allontanato bene la seggiola.
– Se ci tieni tanto, vai. Siamo
tutt’orecchi. Cosa prevede il menù
di oggi? Pane e acqua?
Pilade allungò una mano verso il
bicchiere di succo verde, e ne prese
una sorsatina soddisfatta, come se
fosse qualcosa di buono per
davvero.
– No, quello tocca a Matteo
Corradi – disse, posando il
bicchiere. – L’hanno arrestato
mezz’ora fa.
– Ma cosa fa quell’altro?
Tiziana, entrando dalla sala del
ristorante, aveva inarcato le
sopracciglia.
– Eh, se l’è presa – disse
Ampelio, indicando col bastone
fuori dalla porta, con mestizia.
– Ma no, non Pilade. Massimo,
scusa sai, che tu mi fumi nel bar
passi – disse Tiziana arrivando
sorridente, ma decisa, dopo aver
preso un cencino da sotto il bancone
– ma che tu mi faccia questi troiai da
bimbo in gita anche no. Poi tanto ci
pulisco io, tocca sempre a me, e poi
guarda lì.
Tiziana, salendo su una seggiola,
iniziò a sfregare il vetro dall’alto,
tentando di mandare via la scritta
fatta col dito da Massimo, mentre
questo rimaneva attonito a guardare
la propria socia e i tre vecchietti
rimanenti rimanevano attoniti anche
loro.
– Macché, non viene via. Mi passi
il vetril, già che sei lì a non far
niente?
– Eccolo – disse Massimo
porgendo lo spruzzatore. – Scusa.
Avevo la testa da un’altra parte.
I quattro vecchietti meno uno si
guardarono, sospirarono e
cominciarono ad alzarsi in piedi, tra
tranate di seggiole e lamenti di
vertebre. Prima Pilade che non dice
nulla, e ora Massimo che chiede
scusa. Altro che Burian, qui sta
arrivando la fine del mondo. Sarà
meglio tornare al biliardo, vai.
– Allora, ragioniamo...
Ragioniamo in maniera scientifica...
chissà se ne sono ancora capace... se
mai ne sono stato capace, ma questo
è un altro paio di maniche...
comunque, stavolta mi sembra di
averlo fatto... Avevo una ipotesi da
falsificare... Matteo Corradi ha un
solo cellulare?... E l’ho falsificata...
e fin qui era facile.
Di nuovo solo, di nuovo a piedi,
di nuovo a spiegare a se stesso
quello che gli veniva in mente,
Massimo tornava verso casa.
Parlando da solo, come prima, nella
speranza che il Massimo di
mezzanotte fosse più adatto a capire
qualcosa del Massimo pomeridiano.
Unica differenza, invece della
pineta, era il solido e ben illuminato
marciapiede sotto i suoi piedi,
perché di notte la pineta era buia, e il
paese un po’ meno. Sarebbe stato
inopportuno, e un po’ da fessi,
ripercorrere la stessa strada del
pomeriggio.
– Adesso, ho un numero di
telefono... e la domanda è «di chi è
questo numero»... e questo è più
difficile... sarebbe facile, se io fossi
la polizia...
Sarebbe facile, certo. Ma
Massimo era ben conscio di non
essere la polizia. Ed era ben conscio
anche di qualcos’altro.
A lui, in fondo, non importava
così tanto che il colpevole venisse
trovato. Quello che gli rodeva
l’anima, in quel momento, era che
lui voleva capire chi fosse il
colpevole. Poi, lo prendesse chi di
competenza. Se era Alice, meglio.
Se lo meritava. Ma Massimo sentiva
il dovere di capire. Perché il passo
che aveva fatto in realtà sembrava
averlo portato più lontano dalla
soluzione che lui stesso si aspettava.
Aveva reso il problema più
complicato, e quindi più
interessante. Abbastanza
interessante da invadergli il cervello
e rendere temporaneo ogni altro
pensiero, perché tanto la mente
tornava sempre lì, e qualsiasi cosa
succedesse era in grado di attirare la
sua attenzione solo in modo
precario, se mai ci riusciva. Quando
sei concentrato su un problema, e
tutti i neuroni viaggiano coordinati
in un’unica direzione, la mente ha
un’inerzia tale che deviarla dalla sua
direzione è difficile, e anche i sensi
quasi non funzionano.
Fu per quel motivo che Massimo
non si accorse subito che qualcuno
lo stava chiamando al telefono. Ma,
una volta realizzato che la sua tasca
aveva iniziato a suonare la sigla di
Jeeg robot d’acciaio, forse era il
caso di rispondere.
– Pronto, Pilade?
– Pronto, Massimo –. La voce di
Pilade, al telefono, dava l’idea di chi
non vede l’ora di essere chiamato,
ma se aspetti che chiami lui addio. –
Com’è? Tutto bene?
Massimo, con la mano, verificò
che la porta dello stanzino fosse ben
chiusa. Preferiva sempre usare il
telefono fisso, quando era possibile.
Il cellulare andava bene per i
messaggi, ma a tenerlo all’orecchio
Massimo aveva sempre la
sensazione che gli si stesse
friggendo il cervello.
– Tutto bene. Te? Sei a casa?
– No, sono in Comune. Ero
venuto a saluta’ un paio di persone.
Lì ar barre com’è, è sempre in piedi?
– Per ora. Senti, mi ha detto
nonno che stamani sarebbe passato
dal bar un giornalista per una specie
di rimembranza del ’68, e voleva
intervistare nonno. Nulla di più
facile che scappi qualche domanda
sul caso Luraschi. E poi di lì...
– Sicuro che va a finire così. E io?
– E te saresti quello del gruppo
che ha più senso della
responsabilità. Mio nonno lo sai
com’è. Aldo pur di chiacchierare
parla anche di quello che non sa. Il
Rimediotti come lo pungi sprizza
come un palloncino...
– Dammi du’ minuti e arrivo.
E Massimo, uscito dallo stanzino,
rientrò a tutti gli effetti nel bar.
Trovando, oltre ai tre cavalieri della
pensione, anche Alice, in piedi
accanto al suo solito sgabello.
– Ciao bella. Dormito un po’?
– Come un’incudine. Scusa se
stamani non ti ho salutato ma ero in
coma. Poi fra poco si ricomincia, ho
pensato che era meglio se rimanevo
un po’ a letto. Tanto è ancora presto
per andare in questura.
– Hai fatto benissimo. Anzi, sai
cosa si fa? Ora cappuccino, e prima
di andare in questura facciamo una
passeggiata, così finisci di svegliarti.
E magari eviti di incontrare
giornalisti anche al bar. Alice parve
soppesare l’offerta di Massimo.
– Va bene, ma prima il
cappuccino.
– Ci vuoi un cornetto, o una
sfoglia?
– Niente, Massimo, grazie.
– Buongiorno, Pilade.
– Buongiorno? E son le tre e
quaranta – rispose Pilade, guardando
Alice. – Cosa si dice in questi casi,
Alice? Buongiorno, buonanotte?
– Buon futuro, allora. E grazie per
essere venuto, comunque.
Entrando nel bar, Massimo accese
le luci, e Pilade cedette il passo ad
Alice prima di entrare lui stesso.
Pilade Del Tacca non era mai stato
un uomo bello da ammirare, ma in
quel momento faceva un pochino
impressione. La barba di un
millimetro, grigia e ispida, che dava
un senso di trasandato, e i capelli
scarruffati, con un nido di merlo che
si alzava sulla nuca, dritto a ore
sette. E i vestiti col giro, come se si
fosse vestito al buio. O di fretta. O
tutt’e due.
Lascia sta’ il grazie, che ’un ci
sono abituato. Sai Massimo, io sono
un dipendente pubblico. Uno di
quelli che quando fanno il proprio
lavoro ammodino nessuno li
ringrazia, perché seòndo loro è tutto
dovuto, e quella vorta che ’un ci sei
o che ti sbagli allora tutti a
lamentassi –. Pilade si passò una
mano fra i capelli, tentando di
abbassare il nido ribelle. – Sono,
meglio, ero. Ero un dipendente
pubblico, ora sono in pensione.
E forse era proprio quel contrasto
che faceva impressione a Massimo,
che lo aveva sempre visto di giorno,
al bar, e solo ora si rendeva
pienamente conto che evidentemente
Pilade non usciva mai di casa senza
radersi di tutto punto e pettinarsi con
cura. Cosa che Massimo faceva una
volta alla settimana, se andava bene.
– Ma in Comune ci vai ancora,
giusto, Pilade? C’eri anche
stamattina.
– Sì, stamani ero in Comune –
rispose Pilade, dopo essersi seduto.
– Volevo da’ una controllata a una
cosa. Ero sicuro di ricordarmi bene,
ma volevo essere sicuro al cubo. Sai,
alla mia età si ricordano meglio le
cose di cinquant’anni fa che quelle
di ierlartro.
– E te lo ricordavi bene? – chiese
Massimo, mettendosi a sedere anche
lui.
– Sì, me lo ricordavo bene.
– Okay, okay – disse Alice, senza
mettersi a sedere. – Scusate, mi
sembra di essere al teatro
dell’assurdo. Adesso facciamo una
cosa: visto che Pilade ha voluto che
io fossi presente... In che ruolo,
Pilade? Fidanzata di Massimo o
vicequestore della Polizia di Stato?
– Come tutore delle forze
dell’ordine.
Bene. Allora mettiamo un po’ di
ordine, sennò non ci si capisce un
cazzo. Te, Massimo, domanda. Te,
Pilade, rispondi –. Alice,
sbadigliando, si voltò verso il
bancone. – Io faccio il caffè.
Scusate, ma altrimenti potete parlare
quanto volete, io mi addormento qui.
A bocce ferme
Dedica
Epigrafe
Inizio
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
X (Dividere la Risposta per sei
per ottenere il numero del
capitolo)
Otto
Nove
Dieci
Undici, mi sembra
Epilogo
Per finire
Table of Contents
Risvolto
Collana
Dello stesso autore
Frontespizio
Copyright
A bocce ferme
Dedica
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Tre
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Otto
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