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Un

cold case per i


Vecchietti del Bar-Lume.
Un vecchio omicidio mai
risolto, avvenuto nel
fatidico 1968, si riapre per
una questione di eredità.
Muore nel suo letto Alberto
Corradi, proprietario della
Farmesis, azienda
farmaceutica del litorale
toscano. Alla lettura del
testamento, il notaio ha
convocato anche la
vicequestore Alice
Martelli, perché nelle
ultime volontà del defunto
è contenuta una notizia di
reato. Erede universale è
nominato il figlio Matteo
Corradi, ma nell’atto il
testatore confessa di essere
stato lui l’autore
dell’assassinio del
fondatore della fabbrica,
suo padre putativo. Il 17
maggio del 1968 Camillo
Luraschi, capostipite della
Farmesis, era stato
raggiunto da una fucilata al
volto. Le indagini non
avevano trovato risultati,
forse perché il clima
politico consigliava di non
scavare troppo.
L’imbroglio nella linea di
successione obbliga alla
riapertura dell’inchiesta.
Matteo Corradi non
potrebbe, infatti, ereditare
ciò che il padre ha ottenuto
mediante un delitto. Alice
Martelli, la fidanzata
(eterna) di Massimo, in
questo caso non può fare a
meno dell’archivio vivente
di pettegolezzi costituito
dai quattro vecchietti, che
erano stati coinvolti tutti in
modi diversi nel
Movimento.
Le indagini si svolgono,
come al solito, tra la
questura e il BarLume di
Pineta dove Aldo, nonno
Ampelio, Pilade Del Tacca
del Comune, il Rimediotti
(detti anche i quattro «della
banda della Magliadilana»)
dissipano gli anni della loro
pensione, vanamente
contenuti dal gestore
Massimo, costretto a
esorcizzare con la logica le
ipotesi dei senescenti
occupanti della sala
biliardo del bar. Da dove
passano storielle
toscanacce di ogni genere.
L’inchiesta si imbatte in
svolte e nuovi delitti
obliquamente diretti a
occultare. E scomoda, in
stolidi playback, i ricordi
del Sessantotto nella zona.
Finché – tra dialoghi alla
Ionesco o da signor
Veneranda, battute
micidiali in polemica tra i
vecchietti e tra loro e il
mondo, perle di saggezza
buttate lì nel lessico più
scostumato e inattuale – si
fa strada l’unica maschera
triste di tutto il
palcoscenico, Signora la
Verità.
Marco Malvaldi, con la
serie del Bar-Lume, ha
rinnovato un genere, il
giallo comico di costume.
E, in A bocce ferme, la
parte del giallo puro si
prende una sua rivincita
senza sacrificio per la
risata. Una formula felice
di leggerezza intelligente e
intricato delitto, un sottile
pennello che dipinge
l’acquerello di un’Italia
esclusa dalla ribalta
mediatica, e che del Paese
vero, anche quello più
attuale, fa capire molte
cose.
Marco Malvaldi (Pisa,
1974), di professione
chimico, ha pubblicato con
questa casa editrice la serie
dei vecchietti del BarLume
con un grande successo di
lettori e da cui sono tratti i
film tv.
La memoria

1105
DELLO STESSO AUTORE

La briscola in cinque
Il gioco delle tre carte
Il re dei giochi
Odore di chiuso
La carta più alta
Milioni di milioni
Argento vivo
Il telefono senza fili
Buchi nella sabbia
La battaglia navale
Sei casi al BarLume
Negli occhi di chi guarda
nella collana «Corti»

La tombola dei troiai


Aria di montagna
Azione e reazione
Costumi di tutto il mondo
Marco Malvaldi
A bocce ferme

Sellerio editore
Palermo
2018 © Sellerio editore via Enzo ed
Elvira Sellerio 50 Palermo

e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it

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d’autore.
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autorizzata.

EAN 978-88-389-3784-2
A bocce ferme
A Marcello,
che per gli amici – cioè per tante,
tantissime persone –
sarà sempre il Maba
Quello che ricordiamo del nostro
passato
dipende enormemente
da quello che abbiamo fatto dire e
ridire
alle nostre lingue:
il resto è preda dell’oblio,
dimenticato.
ARTHUR SCHOPENHAUER
Inizio

Ciò che rende veramente belle le


feste di Natale è il fatto che il sei
gennaio arriva la befana.
Per l’essere umano qualsiasi
attività piacevole, se si prolunga, a
un certo punto inizia a risultare
inconsapevolmente molesta, per poi
diventare insopportabile. Tanto più
insopportabile quanto più le persone
intorno a noi non si rendono conto
che la nostra disposizione d’animo è
cambiata, e quel particolare stato
delle cose che fino a non molto
tempo prima ci accarezzava l’animo
adesso ci sta scartavetrando la
pazienza. Invece, con le feste di
Natale, questo problema te lo risolve
il calendario; arriva il sei gennaio e
via, si ricomincia.

Che la fine delle feste sia un


sollievo, quindi, è valido per la
maggior parte degli esseri umani.
Ancor più valido, in particolare,
quando tali esseri umani sono
negozianti. Libraie, commessi,
camerieri, cassiere, insomma
chiunque gestisca o lavori in un
pubblico esercizio solitamente vive
come una liberazione il momento in
cui può grattare via le decorazioni
natalizie dalla vetrina a cui lei stessa
(o lui stesso) le ha gioiosamente
appese (o appesi, nel caso si tratti di
prosciutti col berretto da Babbo
Natale) nei primi giorni di dicembre,
canticchiando una canzoncina a base
di slitte e renne con studiato
distacco. Sbriciolato dall’assalto
natalizio, e sfinito dal pigro
trascinarsi dell’inevitabile
Capodanno, con l’arrivo
dell’Epifania ogni negozio termina,
in qualche modo, la forzata
convalescenza in cui vivacchia
dall’inizio dell’anno e ricomincia
con la vita normale.
Insomma, per farla breve: il sette
gennaio è il giorno preferito dai
negozianti di tutto il mondo.
– Aldo, porca puttana, se mi
riappoggi al bancone la stecca
sporca di gesso prima ti sgozzo e poi
ti faccio pulire a te.
Figuratevi gli altri.

– Carattere chiuso – osservò


Aldo, spostando la stecca dal
bancone e appoggiandola al muro
color canapa tinteggiato di fresco. –
Senti, Massimo, mi era venuta in
mente una cosa...
Facendo il giro da dietro il banco,
Massimo prese in modo ostentato la
stecca dal muro e la rimise davanti
ad Aldo.
– Bene. Intanto che me la
racconti, mi fai il piacere di tenerti
quest’affare in mano. Così, uno,
eviti di sporcare ulteriormente che
già di sudicio in giro ce n’è anche
troppo, e due, provi l’ormai lontana
sensazione di avere qualcosa di duro
che punta verso l’alto davanti a te.
Se l’osservazione fosse venuta da
uno sconosciuto, probabilmente
Aldo lo avrebbe preso come un
insulto; se lo avesse detto il medico,
sarebbe stata una mera
constatazione; venendo da un amico,
ed ex socio, era semplicemente un
modo per sottolineare che i due si
conoscono da così tanto tempo e
hanno tale vicendevole stima della
rispettiva intelligenza da sentirsi dire
di tutto senza battere ciglio. Se non
siete nuovi di questo litorale, saprete
di certo che da queste parti, fra
amici, ci si insulta spesso su cose
senza significato, come la fede
calcistica o la città di provenienza, o
su cose che prima o poi riguardano
tutti, ineluttabili come la morte, le
tasse o l’uccello che resta giù,
testardo e inutile come un
sindacalista sordo. Se uno si offende
quando viene preso per il culo in
quanto juventino, o livornese, allora
non capisce che stiamo scherzando;
e se non capisce che stiamo
scherzando non c’è motivo di
passarci del tempo. La vita,
parafrasando Goethe, è troppo breve
per frequentare gli scemi. E Aldo
scemo non lo era di sicuro.
C’era stato un tempo, e ormai
sembravano decenni, in cui
Massimo e Aldo erano semplici
conoscenti, persone che si
incontravano per caso ogni tanto per
strada. Buongiorno, buonasera,
domani mette pioggia, insomma i
classici discorsi da marciapiede che
si fanno giusto perché rimanere in
silenzio sarebbe più disagevole. Poi
Aldo era rimasto vedovo, Massimo
si era scoperto becco, e i due
avevano incominciato a trascorrere
gran parte della loro giornata al
BarLume. Piano piano, complice
anche la piacevole calma di Aldo e
la sua non trascurabile ampiezza
culturale, i due erano diventati
amici. E quindi avevano cominciato
a insultarsi.
– Sempre signorile – incassò
Aldo, facendo girare la stecca tra i
palmi delle mani. – Io tutto questo
sudicio comunque non lo vedo. Te,
Marchino, lo vedi?
– Io vedo solo che perlomeno
stavolta non se la prende con me –
disse Marchino, scuotendo la testa e
allargando le mani. – Almeno
stavolta non c’entro.
Se invece siete nuovi di queste
parti, è bene sapere che la voce che
avete appena sentito è quella di
Marco Pardini, detto Marchino,
banconista ufficiale del BarLume da
un paio d’anni circa. Sul perché un
cristone di un metro e novanta con
una vistosa collezione di muscoli in
bellavista sia soprannominato
Marchino, le ipotesi valide sono due.
La numero uno è che qui siamo in
Toscana, un posto dove i tuoi figli
rimangono «i bimbi» anche quando
hanno cinquant’anni e un paio di
divorzi alle spalle. La seconda è che
Marchino, pur avendo trent’anni e
fischia, di solito ragiona come se ne
avesse otto, e quindi il soprannome
da terza elementare tutto sommato
non stona. Al di là di tutto Marchino
è un barman decente e professionale,
e – anche se Massimo non lo
ammetterebbe mai in pubblico –
pare che sia un gran bel figliolo,
cosa che sulla clientela femminile ha
il suo innegabile peso. Per cui
Marchino, nel tempo, da
complemento d’arredo è diventato
un componente di una certa
importanza all’interno del bar, e
anche se non si può certo dire che
lui e Massimo siano amici va
riconosciuto che Massimo lo tratta
spesso come un amico.
Cioè, lo insulta pesantemente.
– Te c’entri a prescindere –
rispose Massimo, indicando col
pollice al di là del bancone. – Quel
coso lì ogni volta che lo usi c’è da
pulire per un quarto d’ora. E gira
gira chi lo pulisce sono sempre io. E
non l’ho voluto io quel coso, sia ben
chiaro.
«Quel coso lì» era l’estrattore a
freddo di marca sudcoreana che
Marchino aveva insistito per avere a
tutti i costi, sostenendo che fosse un
oggetto indispensabile per un bar 2.0
come aspirava ad essere il nuovo
BarLume e spacciandolo come una
inestimabile fonte di valore
aggiunto, dato che con 20 centesimi
di carote, 70 centesimi di mele e 10
centesimi di zenzero produceva un
succo che, oltre ad essere squisito,
poteva essere venduto a tre euro e
cinquanta. Purtroppo, la procedura
per produrre tale delizia era lunga e
brigosa, dato che l’utensile girava
alla velocità di trenta giri al minuto,
che per un orologio è un ritmo da
capogiro ma per uno spremifrutta
significa circa tre minuti di agonia
prima di ottenere
l’agognato&salutare nettare. Tre
minuti di spremitura a cui andavano
aggiunti i centoventi secondi
necessari per sbucciare e mondare la
materia, prima perché secondo
Marchino la frutta andava sbucciata
sul momento («sennò si rovinano gli
enzimi»), e soprattutto i cinque
minuti netti necessari per pulire tutti
i minutissimi componenti del
manufatto («sennò si rovina il
meccanismo»); un totale di dieci
minuti durante i quali il barista non
poteva fare altro e i clienti che
entravano nel frattempo, dopo aver
capito l’andazzo, uscivano senza
salutare e andavano a prendere il
caffè da un’altra parte, cosa che
aveva portato Massimo a chiappare
l’estrattore e a chiuderlo a chiave
nello stanzino («sennò mi mandi in
rovina il bar»).
Poi, dopo una settimana di
trattative in cui Marchino dava a
Massimo del brontosauro, come età,
e Massimo dava a Marchino del
brontosauro, come quantità relativa
di cervello rispetto al corpo, si era
giunti ad un’intesa: l’estrattore si
poteva usare solo se il bar era vuoto
o quasi e dopo aver ricordato al
cliente che ci voleva del tempo. Se il
cliente insisteva, gli si diceva in
maniera ferma ma cortese che il
barista rispettava la sua salute e la
sua voglia di bere qualcosa di sano e
senza zuccheri aggiunti, gli si
versava un bicchiere d’acqua e gli si
indicava la farmacia del dottor
Parenti che è lontana e in zona
chiusa al traffico, vedrai ti fa meglio
un chilometro a piedi che un
bicchiere di succo di carota.

– Ho capito. Chiedo venia –. Aldo


fece per posare di nuovo la stecca
sul muro, ma la riprese in tempo. –
Comunque, tornando a noi, ti volevo
dire che stamani mi ha telefonato
Tebaldo Riccardi Santangeli.
– Mi fa piacere – replicò
Massimo. – E cosa ti ha detto, di
così importante?
– Innanzitutto mi ha detto che è
ancora in vacanza a Cuba, ma questo
non so quanto ci riguardi...
– Ci riguarda assolutamente.
Coglioni come il marchese Tebaldo
Riccardi Santangeli più lontani sono
e meglio è per tutti.
Aldo annuì lentamente.
– In secondo luogo, mi chiedeva
se ci aveva convinto il nuovo
prodotto e se avevamo intenzione di
fare un nuovo ordine un po’ più
consistente.
– Vedo tre problemi in questa
proposta – disse Massimo, facendo
segno a Marchino di preparargli un
caffè. – Problema primo, il nuovo
prodotto è l’ennesimo onesto
spumante da aperitivo che non
aggiunge né toglie niente, a parte
qualche ingiustificato euro in più
dalle tasche di chi lo compra, perché
per quello che è costa troppo, e non
vedo motivo per propagandarlo.
Problema secondo, trattare col
marchese Tebaldo Riccardi eccetera
eccetera è piacevole come lavarsi i
denti con la pasta d’acciughe, perché
è talmente coglione che ragionarci in
modo normale non è possibile.
– Sì, non è l’uomo più furbo del
mondo – ammise Aldo, alzando lo
sguardo dal tondino di cuoio in cima
alla stecca. – Anzi, probabilmente,
nemmeno del suo pianerottolo. Però
che te ne frega? Ha sempre parlato
con me.
– E qui si giunge al problema
numero tre – disse Massimo,
prendendo la tazzina dalle mani di
Marchino. – Perché il marchese
Tebaldo Riccardi Santangeli, l’unico
uomo al mondo che ha più cognomi
che capelli, tratta con te? E, più in
generale, perché tutti i produttori di
vino o agenti commerciali di generi
alimentari o grossisti di grissini
trattano con te, che sei in pensione,
invece che con me, che questo posto
sarebbe mio?
– Perchè sei simpatìo come un
Apino in mezzo alla strada –
propose Ampelio, entrando nel bar
dalla sala biliardo, stecca in mano e
basco in testa.
Sul fatto che Aldo fosse ormai in
pensione, Massimo aveva ragione da
vendere. Ma dimenticarsi che non
era il solo, e che i pensionati dentro
il bar erano spesso una schiacciante
maggioranza, talvolta si rivelava un
errore grossolano. A farglielo notare,
il più delle volte, era Ampelio. Al
secolo Ampelio Viviani, in gioventù
ciclista per hobby e ferroviere per
professione, anche se a giudicare dal
tempo che dedicava a ciascuna delle
due attività si sarebbe detto il
contrario. Nel presente, invece,
Ampelio era un soddisfatto
pensionato dai pomeriggi sempre
uguali ed ugualmente rassicuranti,
ormai più vicino ai novanta che agli
ottanta, ma sempre curioso e
rompicoglioni come un bambino
dell’asilo. Quando si invecchia, si
sa, si ritorna sempre un po’
all’infanzia.
– Davvero, Massimo. Avecci a
che fare con te ogni tanto è come
fassi un clistere – rincarò Pilade,
entrando subito dopo Ampelio con
la stecca tenuta mollemente tra
l’avambraccio e l’ascella, come un
cavaliere medievale in pausa caffè.
Se Ampelio era più vicino ai
novanta che agli ottanta, Pilade Del
Tacca da un bel pezzo non scendeva
sotto i cento, ragion per cui una
coalizione formata dalla moglie e
dal medico curante lo teneva a dieta
permanente da anni. I risultati non
venivano interpretati in maniera
univoca, visto che Pilade
spergiurava di essere dimagrito
(«Ormai son secco come un uscio»)
e gli altri erano d’accordo solo
parzialmente («Casomai più che un
uscio mi sembri un oblò»). L’unico
esito certo della dieta era stato
quindi di renderlo ancora più cinico,
fatalista e indisponente di prima, che
già non stava messo malissimo.
Quando parlava di antipatia, quindi,
Pilade sapeva quello che diceva, e
Massimo era sempre pronto ad
ascoltare le persone competenti.
– Va bene. Ammettiamolo, sono
antipatico. Perché non trattano con
Tiziana?
Il che, come domanda, era molto
sensata. Tiziana Guazzelli era
entrata al BarLume dieci anni prima,
dopo aver convinto Massimo con un
curriculum privo di esperienza e
pieno di speranza e una camicia
gialla priva di reggiseno e piena di
ogni ben di Dio, e piano piano si era
rivelata una vera e propria cupola,
pardon, colonna portante del
BarLume prima e del Bocacito poi,
fino a rilevare le quote di Aldo
quando quest’ultimo aveva deciso di
andare in pensione. Precisa, cortese,
puntuale, intelligente, Tiziana aveva
un unico difetto: Marchino. Ovvero
il Marco Pardini di cui si parlava
prima, proprio lui. Prima fidanzato,
poi sposato, poi lasciato, poi ripreso,
poi addirittura fatto assumere al
BarLume in qualità di banconista
aggiunto, nell’incredulità generale di
Massimo e dei vecchietti che ancora
oggi si chiedono per quale motivo
Tiziana abbia voglia di vedere
Marchino anche sul posto di lavoro,
visto che è opinione comune che già
averlo in casa è troppo. Ma torniamo
a noi, anzi, a loro; e lo facciamo
volentieri, perché proprio mentre
Massimo poneva la sua domanda la
porta a pendolo che separava il bar e
il ristorante si era aperta ed era
entrato l’oggetto del comprendere,
cioè Tiziana stessa, in pantaloni neri
attillati e camicetta bianca con una
giacca corta di pelle che le arrivava
appena sotto il seno e che rendeva il
quesito appena formulato da
Massimo ancora più arduo da
affrontare.

– ’Ngiorno a tutti – disse la


ragazza, sorridendo. – Massimo,
senti, devo andare dal
commercialista. M’accompagni?
Volentieri. Però se t’accompagno
lascio il bar in ostaggio a Marchino,
l’Estrattore a Freddo, e alla terribile
banda della Magliadilana.
– Mah, se non ci sono cose
urgentillime puoi anche andare te.
Non vedo cosa...
– Dai, Massimo – tagliò corto
Tiziana, indicando il grembiule
verde con la scritta «Marchesi
Riccardi Santangeli» ricamata,
coerentemente con quanto si diceva
prima, all’altezza del pube – levati
quella roba di dosso e vieni con me.
– Non lo dici mai col tono che
vorrei.
Tiziana sorrise, dando al proprio
socio una pacca affettuoso-
esplorativa all’altezza delle maniglie
dell’amore e tirando poi via il capo
del fiocco che annodava il
grembiule.
– Se eri Sean Connery magari te
lo dicevo più convinta. E comunque
occhio che queste sono molestie,
sai? Ti denuncio e mi prendo tutto il
bar.
– Veramente sei te che mi hai
toccato – disse Massimo, togliendosi
il grembiule di dosso. – Anzi, hai
anche iniziato a spogliarmi in
pubblico. Dopo quando ripassa il
vicequestore Martelli gli chiedo se è
il caso di sporgere denu...
– Altro che toccare. Sei molesto
ma quando fai così. Andiamo o devo
anche aprirti la porta?
Andiamo, andiamo. Ci
mancherebbe.
Uno

– Freschino, eh?
– Sì, ma accettabile, dai. Stamani
era peggio. Io sono arrivato alle sei e
davanti alla porta c’erano dei
pinguini tutti in fila per un tè caldo.
Quella mattina, in effetti, quando
Massimo era arrivato al bar c’era un
freddo che mordeva le mani. Come
capitava spesso, ultimamente.
Una località di mare, d’inverno,
dà spesso un’impressione di
incompleto, come se fosse un teatro
di posa, più che un paese. In parte
per via dei negozi chiusi, perché
certi negozi stanno aperti solo
d’estate. In parte perché la quantità
di gente diminuisce drasticamente.
Ma soprattutto perché è inverno: fa
freddo, la luce è diversa, e case
pensate per essere fresche e
accoglienti d’estate, alla luce del
sole, nella bruma umidiccia
dell’inverno danno quasi l’idea di
sentirsi prese in giro.
– Comunque è più freddo
dell’anno scorso – disse Tiziana,
tirando fuori dalla borsa una sciarpa
giallo inca e avvolgendosela intorno
al collo.
– Assolutamente.
Che in bocca a Massimo voleva
dire «assolutamente vero». Erano
anni che a Pineta non arrivava un
freddo del genere. Temperature
sempre vicine allo zero, la mattina, e
che non di rado si avvicinavano più
da sotto che da sopra; ma per
fortuna, siccome siamo sul mare,
spesso e volentieri c’era anche
vento. Un vento cattivo e insistente,
a cui gli abitanti di Pineta non erano
abituati. Tanto per dare un’idea, per
aprire la porta del bar senza togliersi
i guanti Massimo aveva incollato
alla chiave un volante giocattolo di
plastica smontato da un vecchio
telecomando di videogioco, in modo
tale da poterla manovrare e ruotare
agevolmente a due mani.
– Ora poi dice che deve arrivare
anche il picco dell’influenza –
continuò Tiziana, mettendosi un
paio di guanti gialli di quelli che
servono più per tenere le mani in
tono che per tenerle al caldo.
– Pare di sì. E, tanto per
continuare con la catena di ovvietà,
se uno prende freddo l’influenza è
più facile beccarsela –. Massimo
sospirò, tirò fuori le mani guantate
dalle tasche, dette una piccola pacca
sulla spalla a Tiziana e lasciò la
mano appoggiata, delicatamente. –
Adesso, possiamo continuare in
maniera educata e impersonale a
palleggiare con discorsi inutili
oppure puoi dirmi cosa mi dovevi
dire di tanto urgente da farmi uscire
dal bar e farmi beccare un’altra dose
di freddo gratis assolutamente
inopportuna. A meno che tu non stia
cercando di farmi ammalare.
Tiziana restò un attimo in
silenzio, prima di rispondere.
– Guarda, forse potrebbe essere
una buona idea.
– In che senso?
– Massimo, scusa se mi permetto,
ma siamo soci, e io te lo devo dire.
Sbaglierei a non dirtelo.
– E allora dimmelo.
Tiziana prese un lungo respiro,
prima di parlare. E, quando aprì
bocca, lo fece continuando a
guardare davanti a sé. Da tempo,
ormai, Tiziana aveva capito che
Massimo parlava in modo diretto e
preferiva che gli si parlasse in modo
diretto. Quando si parlava di lavoro,
era facile. Quando si andava sul
personale, un po’ meno.
– Abbi pazienza, Massimo, ma
stai diventando insopportabile. Tratti
male chiunque. Finché lo fai con tuo
nonno e con quegli altri con cui hai
confidenza pace. Ma non è che puoi
mandare in culo le persone solo
perché ti chiedono una centrifuga.
– Estratto – puntualizzò Massimo.
– E comunque non le mando in culo.
– No, è vero. Le offendi proprio.
Cosa hai detto l’altro giorno al
Ciotti? Guarda che è inutile che tu
beva l’estratto di verdura, se non
smetti di mangiare con la vanga
obeso sei e obeso rimani?
– Stavo solo illustrando un dato di
fatto – rispose Massimo, allargando
le mani, come a mostrare su un
vassoio l’ovvietà che stava dicendo.
– Mi chiede l’estratto di carota e
sedano con tanto zenzero «perché
disintossica» e poi ci mangia due
panini salame e mastice. Un minimo
di coerenza ci vuole.
Appunto, un minimo di coerenza
– disse Tiziana, guardandolo negli
occhi. – Vale anche per te, sai,
Massimo caro. Fai il barista, mica il
dietologo. Se uno ti ordina due
panini e un estratto sono otto euro e
cinquanta di incasso, non
ottocentocinquanta calorie. Scusa
sai, ma a te che uno sia sovrappeso
non ti dovrebbe riguardare.
– Su questo se ne potrebbe
discutere – disse Massimo, alzando
un ditino scamosciato. – Se uno è
obeso prima o poi gli verrà qualche
patologia che andrà curata, e
siccome grazie a Dio siamo in un
paese civile, dove le cure mediche
non si rifiutano a nessuno, questo
vuol dire che quando il signor Ciotti
Attilio avrà il primo dei tre o quattro
infarti che lo aspettano verrà preso,
incastrato in un’autolettiga, portato
in ospedale e curato. E le spese di
tutte le cure per stasargli le arterie e
rimetterlo in piedi, per la gioia dei
salumai di tutto il litorale, lo sai a
chi toccano? – Massimo, con le
mani, indicò prima se stesso, e poi
Tiziana. – Alla società. Cioè, a me e
a te. Tutto, compresa la benzina
dell’ambulanza.
– Massimo, cosa c’è che non va?
– In che senso?
– Massimo, te lo chiedo con la
massima educazione: per favore,
non mi pigliare per il culo. C’è
qualcosa che non va. Sei nervoso.
Sei irritabile. Sei intrattabile –.
Tiziana, dopo averlo guardato un
attimo in modo intenso, le pupille
ferme da qualche parte tra cervello e
gola, riprese a camminare guardando
avanti. – Sono settimane che prima
di entrare al bar prego Dio che non
vada storto niente, perché alla prima
minuzia che non va come dici te son
santi e madonne. C’è Marchino che
prima di rivolgerti la parola m’ha
detto che conta fino a dieci.
– Ottima abitudine – approvò
Massimo. – Se poi iniziasse anche a
pensare a quello che dice sarebbe un
progresso inestimabile. Altrimenti
può stare zitto. Se uno non ha niente
da dire, può anche tacere.
– E se uno una cosa la può dire
educatamente, non c’è bisogno che
sia grezzo. La gente capisce lo
stesso. Massimo cominciava a
vedersi messo all’angolo. Stava
affiorando quella che era la
caratteristica principale di Tiziana, e
che all’inizio non emergeva in modo
immediato. Non stiamo quindi
parlando della simpatia, né
dell’intelligenza, né tantomeno delle
puppe; no,
quello a cui ci riferiamo è la
determinazione.
– Mica vero – tentò Massimo, più
per inerzia che per convinzione. – A
volte come lo dici è importante.
– Dai, Massimo. Hai delle
reazioni che sono sproporzionate.
Ho ragione o no? Sincero.
– Sì, potresti avere ragione.
– Bene. Allora, da socia e
soprattutto da amica, mi dici cosa
c’è che non va?
Massimo prese un respiro
profondo, non teatrale, ma
necessario, e ripensò a quella
mattina stessa, quando era entrato
nel bar.
Massimo adorava arrivare per
primo al bar. Il suo bar.
Perché quello era il suo bar.
Non tanto per una questione di
possesso formale, ma di proprietà
intellettuale. Quel bar era suo perché
lo aveva voluto lui, lo aveva messo
su lui, e lo aveva fatto crescere lui.
Quasi ogni particolare in quel bar
era stato scelto da lui. Dai più
banali, come il bancone tecnico in
legno e resina, o la carta dei caffè
che andava dalla semplice arabica al
Blue Mountain giamaicano passando
per il Caracolito dai chicchi
microscopici e profumati, ai più
inquietanti, come la Campana del Re
– una piccola campana in stile
Sudest asiatico, minuta ma molto
sonora, dotata di un batacchio
orizzontale, e che rintoccava ogni
qual volta che, a insindacabile
giudizio di Massimo, qualcuno nel
bar diceva una cazzata. E anche ora
che erano passati più di dieci anni e
il bar era in grado di camminare con
le proprie gambe e farsi degli altri
amici, i momenti più belli della vita
di Massimo erano quei trenta-
quaranta minuti mattutini che
passava da solo nel proprio locale,
prima che entrassero Tiziana,
Marchino o il primo cliente della
giornata.
A Massimo piaceva ogni singolo
momento di quei quaranta minuti,
scanditi dall’orologio a muro che al
posto delle ore, invece dei numeri,
aveva delle equazioni di secondo
grado la cui soluzione reale positiva
era l’ora indicata dalla lancetta. Gli
piaceva accendere le luci e vedere
gradatamente il bar che tornava alla
vita. Soprattutto, gli piaceva farsi il
primo caffè della giornata e mettersi
al tavolo d’angolo, a leggere il
giornale.
O meglio, a leggere i giornali (la
«Gazzetta», il «Corriere», il
«Tirreno», in quest’ordine per carità,
prima il piacere e poi il dovere). O
meglio ancora, a leggere i giornali
per primo, prima che arrivassero
orde di avventori incapaci di aprire
un giornale con delicatezza e che
lasciavano sul tavolo un coso
spiegazzato che più che un
quotidiano sembrava un maldestro
tentativo di spiegare la formazione
delle montagne tramite la tettonica a
zolle. Visigoti della carta stampata
tra i quali, appunto, il più temuto era
Aldo.
– Perché appunto? – chiese
Tiziana.
– Scusa, stavo pensando a voce
alta. Comunque «appunto» era
riferito al fatto che uno dei motivi
per cui mi girano è proprio Aldo.
– Perché ti squaderna i giornali?
Ma che mi leggi nel pensiero?
Sono così prevedibile?
– Perché è in pensione. È in
pensione eppure continua a
comportarsi come se il ristorante
fosse suo.
– Be’, però in quello c’eravamo
trovati d’accordo – disse Tiziana,
ricominciando a camminare. – Anzi,
eravamo contenti tutti e due che
Aldo rimanesse a dare una mano in
sala.
– Appunto. A dare una mano in
sala. Ma il caro e soprattutto vecchio
Aldo col cavolo che si limita a
quello. Fa gli ordini. Sceglie i piatti.
Parla con i fornitori, prende accordi.
E io mi ritrovo in magazzino
ventiquattro casse di spumante
Chiarebolle della tenuta Tebaldi
Santangeli a quindici euro più IVA la
bottiglia che non venderò mai se non
a prezzo di costo.
Tiziana, senza dire una parola,
continuava a camminare, ascoltando.
– Poi però tutto questo quando ha
voglia – continuò Massimo, con la
voce netta di quando tentava di non
infervorarsi. – Quando non ha
voglia, allora si ricorda di essere in
pensione. Così te hai in giro per il
ristorante uno che fa il cazzo che gli
pare solo quando gli pare, e quando
avresti bisogno lui è a Nepi, a
Digione o in un qualsiasi altro posto
desolato ma lontano a qualche
festival di musica preistorica, e
manco puoi chiamarlo al cellulare
«perché quando inizia il concerto va
spento», si vede che ’sti concerti
durano nove ore, sei di musica e tre
per portare via quelli che sono
spirati nel corso dell’esecuzione.
– Sì, non hai tutti i torti. Magari la
cosa gliela dobbiamo far presente.
Però con un po’ di tatto. È un uomo
di una certa età.
– Lui, sì. Invece altri sono
giovani.
– Massimo, se è per Marchino
guarda che l’estrattore lui ormai lo
usa...
– Non sto parlando dell’estrattore.
E nemmeno di Marchino. Il fatto è
che Aldo non è il solo che non ha
capito che il mio bar è il mio bar.
– Il nostro bar.
– Sì, va bene. Il nostro bar.
Comunque nostro. Tiziana Guazzelli
e Massimo Viviani. Vedi il nome
«Alice Martelli» nell’elenco dei
proprietari?
Ahi, ahi.
Alice Martelli, per tutti gli
abitanti di Pineta o quasi, era il
vicequestore aggiunto della questura
di Pisa. Per Massimo, Alice era
Alice. Ovvero la ragazza conosciuta
pochi anni prima e che era stata
prima una conoscenza, poi una
amica, e infine la sua fidanzata. Il
che aveva tanti aspetti positivi, in
gran parte all’inizio, e alcuni aspetti
negativi, di quelli che all’inizio
invece si pensa che non siano poi
così importanti, specialmente se sei
un maschio che ha l’ormone in
gabbia da un paio di lustri. Se tu
sarai solo sarai sempre tuo, annotava
Leonardo da Vinci a margine di uno
dei suoi taccuini. Massimo non lo
sapeva, ma se lo avesse saputo
avrebbe pensato che Leonardo era
un genio per davvero.
– Ma le pareti non starebbero
meglio di un color canapa,
Massimo? Senti Massimo, perché
non fai più il cappuccino con il latte
di soia? Sai Massimo, quella
campana di bronzo sul bancone non
si può vedere, perché non la sposti
da qualche altra parte, che so, in
magazzino? Abbi pazienza Massimo
ma sempre il «Corriere» e la
«Gazzetta» due palle, perché non
prendi «il Fatto?».
– Sì, su quello però te lo avevo
detto anch’io – fece notare Tiziana.
– E anche te mi avevi...
– E fin quando me lo proponi te,
Tiziana Guazzelli, mia socia e
comproprietaria, la cosa è nel tuo
pieno diritto. Se invece me lo
propone la mia fidanzata, che di
mestiere fa il commissario di
polizia, la cosa mi fa girare i
coglioni. Specialmente venendo da
una persona che già è entrata in casa
mia e l’ha trasformata in casa sua.
Che lo faccia a casa, va bene. Posso
sbuffare, ma va bene. Che lo faccia
al bar, anche no.
– Sì, capisco. Magari Alice è un
po’... cioè...
– È maniaca del controllo – disse
Massimo, asciutto.
– Senti chi parla.
Lo so. Lo so benissimo. Siamo in
due. Il problema è proprio che siamo
in due. Ora, io credevo di poter
risolvere il problema
tranquillamente suddividendo le
competenze. Tu fai quello che vuoi
in casa, va bene. Metti le tendine,
che sono orribili ma va bene.
Arredami il cesso come se fosse la
sala d’attesa di un casino birmano,
va bene. Ma il bar sarebbe anche
mio. Cioè, nostro. Comunque, non
tuo. E nemmeno ci lavori. Io ci entro
mai in commissariato a fare il tuo
lavoro?
– No, a dire il vero lo fai
direttamente dal bar – rispose
Tiziana, sorridendo. – Scusa
Massimo ma questo argomento io se
fossi in te non lo userei proprio.
Osservazione giusta, ed
opportuna.
Negli ultimi dieci anni, in
provincia, ci sono stati circa venti
omicidi (il circa è dovuto al fatto che
alcuni di questi non è chiaro se siano
omicidi o meno, e in un paio di casi
non è chiaro manco se ci sia il
morto); di questi venti, una buona
metà sono avvenuti sul litorale. Di
quelli avvenuti sul litorale, solo una
schiacciata minoranza è stata risolta
senza un significativo intervento di
Massimo e dei quattro habitué del
BarLume. Intendiamoci, il cittadino
ha il dovere di collaborare con le
forze dell’ordine; ma, in non pochi
casi, la collaborazione era sfociata
nell’ingerenza, se non proprio
nell’intralcio. I confini della
collaborazione, si sa, sono un po’
come quelli geografici ai tempi delle
grandi guerre: difficile andare
d’accordo sul punto in cui
dovrebbero stare, ma tutti concordi
sul fatto che, così come sono, non
vanno bene.
– Va bene, va bene, beccato –
disse Massimo, regalando al mondo
il primo sorriso della giornata. – Il
fatto è che mi sembra che tutti
vogliano dirmi cosa fare. Ho smesso
di fare il ricercatore perché volevo
essere libero...
– ... e non accetti che gli altri
siano liberi di dirti quello che
pensano. Non è da te, Massimo. C’è
qualcos’altro.
Sì, c’è qualcos’altro. Ma non è
facile da spiegare.

– Dai, su – disse Tiziana, con


l’aria di chi ha capito e si accontenta
di aver piantato un primo chiodo in
una parete di sesto grado. – Adesso
sentiamo cosa ci dice il Volponi e
poi si torna al bar.
– Sentiremo. Poi, scusa, lo so che
i nomi non c’entrano niente con il
carattere delle persone, ma proprio
un commercialista che si chiama
Volponi dovevamo trovare?
Il dubbio di Massimo non era
privo di fondamenti. I due soci
infatti erano stati costretti a
cambiare studio commerciale dopo
aver scoperto, fra l’altro proprio
grazie a una segnalazione di Alice,
che il loro vecchio commercialista
incassava i soldi da destinare alla
previdenza dei dipendenti dei clienti
e li girava sul proprio conto
corrente, in attesa di espatriare in
qualche isoletta del Pacifico priva di
caos, smog ed estradizione. È vero
che, nello scegliere un
commercialista, è meglio se lo trovi
furbo; ma che sia furbo per conto
terzi, mi raccomando.
– Io lo conosco bene – rispose
Tiziana. – Prima, quando lavoravo
dal notaio, lo incontravo ogni
mattina. È una persona gentile,
educata.
– Tipico dei serial killer –
ammonì Massimo. – Era tanto un
bravo ragazzo. Salutava sempre. Poi
un giorno ha preso la motosega e ha
potato i vicini di casa.
Il notaio lo frequentava. Anzi,
erano proprio amici. E questo
chiudeva la questione. Se un giorno
Nostro Signore avesse identificato in
Pineta la nuova Gomorra e avesse
dovuto scegliere di risparmiare
l’unico giusto che vi dimorava,
c’erano pochi dubbi sul fatto che
avrebbe portato via il notaio Aloisi.
Da escludersi che il notaio fosse
amico di una persona disonesta
anche solo nelle intenzioni.
Il notaio Aloisi era la classica
brava persona di una volta, di quelle
che secondo l’opinione comune
oggigiorno non nascono più: un
omino vestito in maniera corretta ed
anonima, con un viso tranquillo in
mezzo a cui si protendeva un naso
grosso e bulboso che metteva, fin da
subito, una certa distanza tra il
notaio e chiunque gli stesse di
fronte. Escluso, a quanto diceva
Tiziana, il commercialista Giacomo
Volponi, con cui evidentemente
condivideva ben più della palazzina
a due piani adibita a studio
professionale, piano terra per il
notaio e primo piano per il
commercialista.
– Bene. Allora siamo a cavallo –
disse Massimo, appoggiando un dito
al campanello. – Dico davvero. Se è
così, possiamo stare tranquilli.
La porta si aprì, e Massimo pensò
di aver parlato troppo presto.
In piedi, sulla soglia, c’era Alice.
Che però in quel momento non
era Alice e basta. Sulla soglia, si
vedeva dalla faccia e dalla postura,
stava il vicequestore Alice Martelli.

– Ba’, eccoli – disse Alice. – E te


cosa ci fai qui?
– Potrei chiedere la stessa cosa a
te. Noi stiamo andando dal
commercialista. A patto che tu non
stia per arrestare anche questo.
– No, tranquilli. Ciao, Tiziana –
disse Alice, scambiandosi un bacio
sulle guance con affetto sincero. – Io
devo andare dal notaio.
Era una fortuna che, pure con la
sua tendenza a controllare
l’andamento del mondo a livello
subatomico, Alice non fosse gelosa.
Per forza, diceva Tiziana, si rende
conto di quanto le vuoi bene. Per
forza, concordava Ampelio, si rende
conto di quanto sei brutto. Se eri
Delèn Delòn vedrai ti regalava le
cinture colla tagliola al posto della
fibbia.
– Oh, che bello. Si eredita
qualcosa? Pensavo giusto giusto di
comprarmi il Nintendo Switch.
– Casomai eredito qualcosa. Non
siamo ancora sposati, caro il mio –
disse Alice. – Il giorno in cui farai di
me una donna onesta, ne potremo
parlare.
– Non sapevo che tu fossi una
donna disonesta – disse Massimo,
togliendosi il giaccone, come del
resto aveva fatto Alice. Il che
indicava che prospettava di rimanere
nello studio a lungo. Freddolosa
com’era, togliersi il cappotto per
meno di mezz’ora sarebbe stato
impensabile.
– Faccia poco il furbo, Viviani, o
la faccio arrestare per oltraggio a
pubblico ufficiale. Sono qui in
qualità di vicequestore, sa?
– Me lo immagino. Allora devi
arrestare il notaio?
– Spero proprio di no. Il notaio ha
semplicemente richiesto l’autorità
giudiziaria per presenziare
all’apertura di un testamento – disse
Alice bisbigliando. – Il che significa
che chi lo ha scritto,
inconsapevolmente o meno, sta
fornendo prove che riguardano un
reato.
– Ah, allora mi tranquillizzo –
disse Massimo. – Difficile che la
cosa mi riguardi.
E qui, al contrario di prima,
Massimo aveva parlato troppo
presto per davvero.
Due

– «Morta dopo un intervento a un


ginocchio a quarant’anni, la procura
archivia il caso per la seconda volta.
La parte civile si oppone».
Dal suo posto abituale, sotto
l’orologio, Gino Rimediotti leggeva
ad alta voce le notizie di cronaca,
sfogliando piano piano, e riaprendo
ogni volta il giornale con la massima
cura, stendendolo di fronte a sé
come se fosse incollato a una tavola
di compensato. Davanti a sé, oltre al
quotidiano, aveva un caffè corretto
alla sambuca e un tavolino grigio.
Sotto di sé, una sedia in tono con il
tavolino sia come colore sia come
design. Intorno a sé, l’indifferenza
generale.
– «Univerzità, scandalo a
economia e commercio. Stanati
quattro professori che facevano il
doppio lavoro in ateneo».
Anche perché ormai Gino, passato
più di un anno dall’operazione alla
gola che, pur salvandogli la vita, lo
aveva lasciato con la voce di Don
Zauker, è stato nuovamente operato
– una cosa piccola, in day hospital –
e munito di un nuovo sistema di
aerazione delle corde vocali, per cui
adesso le canne dell’organismo sono
nuovamente funzionanti e Gino è in
grado di parlare come prima. Così
uno dei divertimenti che
ultimamente avevano allietato le
anziane ma sempre attive mattinate
del BarLume, cioè prendere per il
culo il Rimediotti per come parla,
adesso non è più in auge, e ci si
limita a prenderlo per il culo per
quel che dice.
– De’, d’altronde son professori
d’economia – commentò Pilade,
quasi come se fosse un obbligo,
senza nemmeno posare la tazzina. –
Si vede che l’affari loro se li
gestiscan bene.
D’altronde, non è che le notizie
del quotidiano siano di quelle in
grado di risollevare l’umore di una
mattinata dello stesso colore del
tavolino e della sedia. Come quelle
del giorno precedente, del resto.
Nessun omicidio, nessuna morte
violenta, nessuna sparizione
misteriosa, insomma nessuna notizia
di quelle veramente interessanti.
Non è successo talmente una sega di
nulla che la lettura del giornale è
stata demandata al dopo pranzo,
rendetevi conto voi.
– «Arena, una nuova scala per
entrare in curva Nord. I tifosi
commentano il nuovo accesso allo
stadio: ce n’era bisogno».
– Son d’accordo. C’era bisogno –
approvò Ampelio, con ampi cenni
del capo. – Poi però ci vòle anche
una bella porta per chiudecceli
dentro una vorta che sono entrati.
E qui, Ampelio prese fiato,
apparentemente intenzionato a
proseguire il discorso con l’usuale
crescendo rossiniano di
provvedimenti – anzi, sai cosa ti dìo,
ci vorrebbe non solo di falli entrare
in curva, dovrebbero entra’
direttamente in campo e poi si fa
come l’antichi romani, un par di
leoni e via – tra l’usuale tacita
approvazione del resto del senato.
Se non fosse che, proprio in quel
momento, si aprì la porta a vetri ed
entrò Alice.

– Oh, finarmente quarcosa di


bello – disse Pilade, sorridendo alla
vista della ragazza. – O cos’è
successo stamani, che arriva dopo
pranzo a quest’ora?
– De’, è successo che fòri è
freddo e sotto le coperte è cardo –
disse Ampelio, sorridendo anche lui
alla quasi pronuora. – Dico bene o
dico giusto, Alice?
– Ma magari – disse Alice,
posando con cautela su una sedia
una enorme borsa di pelle di un
qualche innocente animale andino
preso, scuoiato, scamosciato e cucito
a sua insaputa. – Sono dovuta andare
dal magistrato subito prima di
pranzo e ci sono rimasta fino a ora.
E non ho nemmeno mangiato.
Amore, me lo fai un panino?
– Ssssubito – rispose Massimo,
solerte e anche un pochino
premuroso. – Salmone, salsa di
nocciole, aneto. Tanti bei grassi
insaturi per il buonumore.
– Bravo. E poi mi fai un
bell’estratto. Finocchio e cavolo
nero.
– Lì temo di non poterti assistere.
– Vabbè, se non hai il cavolo nero
finocchio e arance viene bene lo
stesso.
Massimo scosse la testa, piano ma
deciso.
– No, è che l’estrattore in questo
momento non è in funzione. Ho tutti
i pezzi in lavastoviglie –. E chi
vuole capire capisce.
– Allora manda la lavastoviglie e
quando è pronto me lo fai – rispose
Alice, con tono pratico. – Guarda, si
fa così.
E, allungata la manina, chiuse lo
sportello. Dopo un secondo, il
mostro iniziò a vibrare e irrorare,
con un gorgoglio minaccioso.
– Non era ancora piena – fece
notare Massimo, guardando prima la
lavastoviglie e poi la fidanzata.
– E vabbè, te aspetti sempre che
sia piena per mandarla? Per forza sul
banco c’è sempre casino. Secondo
me dovresti prendere una
lavastoviglie più piccola. Anzi,
prenderne una più piccola in
aggiunta a quella grande. Così
saresti molto più versatile.
Massimo, che era chino sul
tagliere, alzò un attimo gli occhi
nella specchiera, giusto in tempo per
vedere Tiziana che li abbassava, con
un sorriso a mezza bocca.
– Ma ’un ci sta’ a perder tempo a
ragionacci, Alice – disse Ampelio. –
Ormai lo dovresti ave’ capito, ir
mondo si divide ’n due. Da una
parte Massimo, da quell’artra le
perzone che hanno torto. Piuttosto,
come mai eri dar magistrato?
– Mi dispiace, Ampelio, ma non
posso dirglielo – fece Alice voltando
lo sgabello girevole verso il
vegliardo. – C’è di mezzo un reato
piuttosto grave, e una situazione
molto delicata. Non è il caso che
dica nemmeno una mezza parola.
– Ma via, Alice, ormai siamo in
famiglia.
– Appunto – disse Massimo,
mettendo di fronte ad Alice un
panino sontuoso, con il rosa del
salmone che tracimava dai bordi. –
Per evitare che in famiglia, nella mia
famiglia, nella nostra famiglia, si
verifichi un altro reato, ovvero un
vecchio che viene rinchiuso nello
sgabuzzino di un bar raffinato ed
inclusivo di proprietà del nipote,
evita di rompere le scatole e di
chiedere alla mia fidanzata cose che
non ti può dire.
– Davvero, Ampelio, non posso
dirvi nulla – disse Alice, prendendo
il panino ed annusandolo. –
Massimo, scusa, ma ci hai messo il
salmone affumicato?
– Certo.
– Scusa, io credevo che tu ci
avessi messo il salmone al naturale.
Quello marinato che mi ci avevi
messo l’altra volta. Non è che me lo
rifaresti col salmone al naturale?
– Se me lo vai a prendere a casa,
o al supermercato, volentieri. Qui
non lo tengo.
– Come, non lo tieni? Ma perché?
– Perché in confezioni grandi non
lo trovo, e a comprare le confezioni
normali costa più o meno il doppio.
L’altra volta ce lo avevamo per via
del cenone di Capodanno, ma non
possiamo tenerlo sempre.
– Dici? Secondo me invece
andrebbe parecchio – disse Alice,
addentando con circospezione dopo
aver guardato bene tutto intorno al
panino, come se il salmone potesse
resuscitare pur se oramai in fette. –
Guarda che ora come ora la gente è
parecchio attenta a quello che
mangia – ciomp – e se le fai trovare
più scelta è solo contenta. L’ho detto
anche ad Aldo, l’altro giorno, che
dovreste allargare un po’ l’offerta, e
anche lui era d’accordo con me.
Eh no, eh. Va bene che sei la mia
ragazza, ma adesso avresti anche un
attimino rotto i coglioni. Questo è
sabotaggio.
– Ne prendo nota. Il cliente è
sicuramente più contento.
L’esercente, moltiplicando la scelta,
si ritrova il frigo pieno di roba
destinata a scadere. Allora, per
cortesia, siccome il bar è mio,
lasciami la scelta di cosa servire al
bar e non interferire. Sarebbe come
se io dicessi coram vetulo che oggi a
pranzo eri dal magistrato per via del
testamento di Alberto Corradi.
Mangiare in modo scorretto, lo
sanno tutti, può far male alla salute.
Non solo da un punto di vista
chimico, o batteriologico, ma anche
da un punto di vista banalmente
idraulico. Alice, che stava
masticando con entusiasmo un
ulteriore boccone di quel panino che
evidentemente così schifo non
faceva – boccone non piccolo,
probabilmente – al momento in cui
Massimo finì la frase stava
deglutendo, e l’osservazione buttata
lì con nonchalance fece sì che il
boccone prendesse il tubo sbagliato.

– Ora mi dici come cazzo lo sai.


Alice, seduta non più allo
sgabello girevole del bancone ma su
una sedia accanto a un tavolino
grigio, aveva quasi smesso di tossire
e il suo colorito stava ritornando ad
essere gradevolmente diverso da
quello del tavolino. Intorno a lei,
premurosi, i quattro vecchiacci la
guardavano con apprensione
spedendo ogni tanto a Massimo uno
sguardo in tralice che significava
certo sei una merda, manca poco
strangoli la tua fidanzata, potevi
aspettare che andasse via e poi ce lo
dicevi, no?
– Deduzione logica – disse
Massimo, tentando di non risultare
saccente. Vero che aveva appena
salvato la vita della fidanzata con
una manovra di Heimlich da
manuale, ma anche vero che il
principale responsabile del mancato
soffocamento era stato lui. –
Stamani, quando sono arrivato dal
commercialista, mi hai detto tu
stessa che eri lì per un reato
connesso all’apertura di un
testamento. Mentre andavo via, ho
visto la macchina di Matteo Corradi
parcheggiata a dieci metri dallo
studio del notaio. Se a questo
aggiungi che Matteo Corradi è
l’unico figlio di Alberto Corradi,
proprietario della Farmesis e
deceduto dieci giorni or sono, le
probabilità che i due eventi non
fossero indipendenti era alta.
– E tu questo Matteo Corradi lo
conosci – colpo di tosse – oppure sai
a memoria le targhe di tutto il paese?
– Non c’è troppo bisogno di
targhe quando la tua macchina è una
Lotus Evora GT430, cioè un
oggettino da centocinquantamila
euro in versione base – disse
Massimo mettendo di fronte ad
Alice un bicchiere d’acqua. – Credo
che in tutta la Toscana ce ne siano
due. Riguardo a Matteo Corradi, ha
organizzato una specie di evento
elettorale nel bar un mese e mezzo
fa. Prima ci siamo sentiti un paio di
volte per telefono, e dopo non ci
sono stati altri contatti. Non so
molto, a parte che veste bene.
– Potresti prendere esempio –.
Colpetto di tosse, ma in calando. –
Sicché voi questo Alberto Corradi lo
conoscevate?
– Ir paese è piccolo – disse Pilade,
con aria innocente.
– Noi, eventualmente, quello che
si sa si racconta volentieri – disse
Ampelio, calcando sul noi.
– E va bene. Massimo, per favore,
chiudi la porta. E qualcuno si metta
di vedetta, tanto la porta è a vetri. Se
arriva gente, dimmelo dieci secondi
prima –. Alice guardò i vecchietti,
che erano schierati di fronte a lei con
le orecchie ritte come una muta di
dobermann. – Allora, stamani sono
andata dal notaio Aloisi. Dopo dieci
minuti, sono entrati questo Matteo
Corradi con la moglie e il notaio ha
cominciato con le cose formali...

– Allora. Di fronte ai convenuti


nominati, procedo con la lettura
innanzitutto dell’atto di ricevimento
del testamento.
Il notaio Aloisi, puntato il naso
con aria seria verso il foglio che
aveva davanti, aveva iniziato a
leggere. Dietro le sue spalle,
contemporaneamente, un proiettore
collegato al computer mostrava il
contenuto del foglio dattiloscritto
che il notaio si stava apprestando a
leggere.

«L’annoduemiladiciassetteilgiornoven
alleorediciassetteetrentainPineta,ava
dallapresenzadeisignoriMatteoCorra
intervenutiqualitestimoniaventiirequ
comemiconfermano,costituitosipers
signorAlbertoCorradidellacuiidentit
sonopersonalmentecerto...».
Seduto di fronte al notaio, con
l’aria compunta e partecipe di quello
che non capisce perché si deve fare
quello che si sta facendo ma sa che
va fatto, Matteo Corradi prese la
mano della moglie e gliela strinse.
La moglie, Roberta – una ragazza
dall’aspetto gradevole, che sarebbe
stato ancora più gradevole se un
qualche estetista criminale non le
avesse estirpato le sopracciglia fino
a darle uno sguardo vagamente
allucinato, simile a quello
dell’arbitro Collina – rispose
voltandosi quasi impercettibilmente
verso il marito e con un
microsorriso, solo gli angoli della
bocca. Il notaio Aloisi, nel
frattempo, aveva continuato
imperterrito nella lettura alla
velocità turbo tipica dei preliminari
notarili.
– «...
edinguisacheiltestamentononsipossaap
senzarotturaoalterazione.Avendoipr
Accanto alla scrivania, tranquilla
ma seduta su una fettina di sedia di
un paio di centimetri, Alice
aspettava il momento in cui sarebbe
successo il casino.
– «...
identitàdellaqualeionotaiosonopersona
sidisponequindiariceveredallemanid
Perché stava per succedere un
casino. E il notaio lo sapeva.
Per quello aveva chiamato Alice.
E, quindi, lo sapevano in due.
Due che diventavano tre se si
contava la segretaria del notaio,
Sharon, una trentacinquenne dal viso
color mogano che aveva portato i
faldoni necessari ed era andata via
come quella la cui presenza non è
richiesta e anche meglio così.
– «...
indataventisetteottobreduemiladiciasse
Gli unici, in quella stanza, che
non lo sapevano erano
evidentemente i diretti interessati.
Ovvero Matteo Corradi, il figlio del
de cuius di cui si stava per leggere il
testamento, interessato in quanto
presumibilmente unico erede, e la
moglie Roberta, interessata perché
con il predetto Matteo ci viveva e
anche con i soldi del predetto
Matteo ci viveva, non avendo più
lavorato dal giorno del matrimonio o
giù di lì.
– Allora. Avendo dato lettura
dell’atto di ricevimento, passo ora
alla lettura del testamento del
defunto Alberto Corradi.
E, presa con calma una busta già
aperta, ne aveva tratto un foglio
protocollo piegato in tre, che aveva
aperto e cominciato a leggere
tenendolo in mano.

– De’, l’aveva già aperta? Ma è


regolare?
– O Gino, ma secondo te? – aveva
detto Ampelio, voltandosi infastidito
dall’interruzione. – Se non l’aveva
già aperta chi glielo diceva chi erano
gli eredi, Robertogiacobbo?
Alice aveva posato una mano
sull’avambraccio di Ampelio,
calmandolo all’istante.
– Busta già aperta, certo: quando
riceve un testamento segreto, il
notaio è tenuto per legge ad aprirlo
quando ha notizia della morte del
testatore, e non può ignorarne il
contenuto. Quindi lui sapeva
esattamente cosa stava per leggere.
– E lei anche?
– Sennò non sarei rimasta lì.

– «Io sottoscritto Alberto Corradi,


nato a Pineta il ventisei gennaio
millenovecentoquarantotto, lascio
tutto quanto di mia proprietà, inclusi
eventuali altri beni mobili, immobili
e azionari di cui dovessi venire a
disporre nel periodo intercorrente tra
la data di questo presente testamento
e il mio decesso, a mio figlio Matteo
Corradi, nato a Pisa il venti
settembre millenovecentoottanta».
Il notaio aveva notevolmente
rallentato il ritmo di lettura, segno
evidente che adesso quello che
diceva andava ascoltato e non
soltanto udito. Dopo una piccola
pausa, un pochino più lunga del
tempo necessario per riprendere
fiato, aveva ripreso, apparentemente
concludendo:
– «Niente è dovuto a eventuali
parenti che dovessero manifestare o
avanzare diritti dopo la mia morte,
essendo il detto Matteo Corradi
l’unico mio consanguineo ancora in
vita».
Il notaio, sempre con il
testamento in mano, alzò lo sguardo
verso Matteo.
– A termini di legge, quindi, il
testamento è estremamente chiaro.
Lei è l’unico erede designato da suo
padre e non c’è spazio per
interpretazioni diverse da questa né
per eventuali ricorsi sulla
riconducibilità, essendo il
testamento statomi consegnato da
suo padre alla presenza sua e di altro
testimone.
Matteo Corradi, però, non rispose.
Non per educazione, né per serietà,
ma perché stava leggendo con aria
vagamente stupefatta il contenuto
del testamento che il proiettore
aveva temporaneamente stampato
alle spalle del notaio Aloisi. Quando
il notaio, dopo aver poggiato
delicatamente il foglio sulla
scrivania, aveva ripreso a leggere,
nella stanza l’unica persona ignara
di quello che c’era scritto sul
testamento era la signora Roberta
Serra.
– «A margine delle mie ultime
volontà, desidero rilasciare una
confessione» – lesse il notaio,
ancora più lentamente, come se
volesse essere certo di venire non
solo ascoltato, ma anche compreso.
– «Confesso di aver deliberatamente
ucciso il mio padre putativo,
Camillo Luraschi, in data diciassette
maggio millenovecentosessantotto.
Segue in questa e nella seguente
pagina una dettagliata descrizione
degli avvenimenti relativi al crimine
da me commesso».
E così adesso, nella stanza, tutti
sapevano cosa c’era scritto nel
testamento di Alberto Corradi.
Tre

– Boia – disse Ampelio, talmente


piano che non sembrava nemmeno
che lo avesse detto lui.
Ed era stato il primo commento
dopo circa dieci secondi.
Ma nemmeno dopo che Ampelio
aveva stappato il silenzio erano
venute nuove osservazioni. I quattro
vecchietti si guardavano l’un l’altro,
mentre Massimo li guardava tutti e
quattro.
– Mi guardi? – disse Pilade ad
Aldo, dopo qualche secondo.
– E chi devo guardare? – rispose
Aldo, allargando le mani. – Io nel
sessantotto ero imbarcato, qui c’eri
te e quegli altri.
– Te non c’eri, ma c’erano i tu’
amici.
Alice, intuendo che tra i due
sembrava esserci qualche dissapore
forse dovuto al particolare periodo
politico, si alzò dalla sedia,
frapponendosi fra i due prima che
incominciassero a volare dentiere.
– Buoni, buoni – disse, senza
guardare in faccia nessuno dei due. –
Io non c’ero nemmeno come
persona fisica, nel sessantotto. Per
cui, prima di tutto, visto che fra poco
devo tornare dal magistrato il quale
anche lui nel sessantotto era
aspirante embrione, mi spiegate un
attimo chi era questo Camillo
Luraschi?
I vecchietti si guardarono un
attimo. Non con malanimo, ma
ognuno sperando che fosse qualcun
altro a parlare. Poi, dopo qualche
secondo, Aldo si elesse speaker del
senato.

– Io non ero a Pineta quando è


stato ucciso, ma Camillo Luraschi lo
conoscevo piuttosto bene. Avevamo
parecchie passioni in comune, fra
l’altro. La musica barocca, il cibo, i
viaggi per mare.
– E la topa – ricordò Ampelio, a
mezza bocca.
– Quella piace a tanti – notò Aldo.
– Comunque, la vera mania di
Camillo era il lavoro. Aveva messo
su la Farmesis subito dopo la guerra.
La ditta di prodotti farmaceutici,
quella...
– La conosco. Quella che era di
proprietà di Alberto Corradi. Che ho
scoperto oggi essere il figlio
adottivo di Camillo stesso.
– Esatto. Camillo sposò Franca
Renata Corradi, la sua segretaria,
che era rimasta vedova nel
cinquanta, poco dopo che era nato
Alberto. Alberto è cresciuto in casa
sua e come babbo ha avuto sempre e
solo Camillo. Ma in casa Camillo
c’è sempre stato poco. Camillo
pensava a lavorare. Lavorava sodo,
lavorava tanto e lavorava bene.
– Pol’esse’ – disse Ampelio,
guardando in terra. – Però
pretendeva che quell’artri
lavorassero più di lui. Anche quelli
che già lavoravano troppo.
Vede, Alice, era il momento della
protesta studentesca. E qui siamo
accanto a Pisa –. Aldo alzò le
sopracciglia, poi si alzò del tutto in
piedi e cominciò a camminare su e
giù. – Novantamila persone, di cui
cinquantamila studenti universitari.
Un testone enorme su un corpo
rachitico, come diceva il Nardi. Un
assetto squilibrato. E infatti quello
successe, si perse l’equilibrio.
– Praticamente – si inserì Pilade –
gli studenti non si contentarono di
protestare all’università, ma
cominciarono a parlare anche con gli
operai e i lavoratori. Con tutti i
lavoratori, pubblici e privati.
– Lo so – disse Alice. – So anche
che qualcuno di voi è stato
protagonista in prima persona, vero
Ampelio? Fare arrossire Ampelio
era sempre stata considerata
un’impresa ben oltre l’impossibile.
C’era solo una cosa, da vecchio
socialista, che poteva far vergognare
Ampelio, ed erano delle insinuazioni
fondate sulla sua onestà.
– E lei come lo sa? – chiese Aldo,
mentre Ampelio prendeva un bel
color salmone selvaggio.
Alice si schiarì la gola,
guardandosi intorno.
– Quando avete incominciato,
diciamo così, a collaborare con la
giustizia, mi sono premurata di
andare a guardare se qualcuno di voi
era iscritto al casellario.
Deformazione professionale. Non
mi sembrate i tipi da nascondere le
cose.
– Troppo bòna – disse Pilade,
poco convinto.
– Comunque, ho visto che
Ampelio era stato arrestato in
flagranza di reato nel 1968, insieme
con altre sette o otto persone, per
rissa aggravata – continuò Alice,
con aria da pubblico ufficiale. – Non
c’erano altri dati, ma i nomi di
alcune di quelle persone parlavano
chiaro. Qualcuno di questi fa
politica ancora oggi. Allora erano di
estrema sinistra.
– Ero quasi ancor giovane e
stupido – disse Ampelio, sempre
guardando in terra. – E ho fatto una
stupidata. Ma c’era gente parecchio
più stupida di me, che però si
credeva parecchio intelligente. Io di
questa cosa non ne voglio parlare,
loro invece continuano a
chiacchiera’.
– Senti lì da che purpito – disse il
Rimediotti, ridacchiando.
– Io parlo tanto – disse Ampelio,
guardando male il compagno di
briscola. – Il problema degli stupidi
è sempre che parlan troppo. Se mi
son ritrovato in quer casino la corpa
è anche tua. Tua e di quelli come te.
Il Rimediotti alzò lo sguardo al
cielo, con gli occhi che dietro le
spesse lenti rettangolari sembravano
due uova di faraona. Per fortuna,
Aldo riuscì a riprendere la parola.
– Comunque, si parlava della
Farmesis e dell’entrata della politica
nella fabbrica – disse Aldo. – Perché
gli studenti andavano nelle
fabbriche, e parlavano. Parlavano, e
portavano giornali e opuscoli, fra
l’altro scritti con un linguaggio in
cui non ci avrebbe capito niente
nemmeno Umberto Eco. E loro li
davano agli operai.
– Ho capito, ma non era mica
colpa loro se gli operai non avevano
studiato – fece notare Pilade, dal
largo della sua saggezza. – Non
avevano studiato perché dovevano
lavorare.
– E infatti si sono fidati di questi
qua, che invece studiavano e basta,
tanto a lavorare ci pensavano quegli
altri – ribadì Aldo, continuando a
passeggiare tra i tavolini. – Sai, un
po’ come nell’antica Grecia, che
mentre gli schiavi coltivavano i
campi i cittadini potevano fare
filosofia. Solo che la Grecia ci ha
dato Socrate, Aristotele e Talete,
questi ci hanno dato D’Alema.
– E giustappunto, Ardo – disse
Pilade – loro volevano emancipalli
gli operai, mica falli rimanere
schiavi! Capisco che a te l’antica
Grecia e tutte le cose colla pòrvere
sopra ti garbino tanto, ma nel
ventesimo secolo ormai s’era
stabilito che gli òmini sono tutti
uguali. E questa è una verità che
bisogna ricordassi sempre: gli
uomini sono tutti uguali. Massimo,
io quella campana una volta o l’altra
te la metto per berretto.
– Dolente – disse Massimo,
mentre il suono della Campana del
Re si smorzava con lenta insistenza
– ma quando uno dice una cazzata è
mio preciso dovere rimarcarlo, e
parlare sopra un altro sarebbe
maleducazione.
– Perché, ti sembra tanto brutto
che l’òmini siano tutti uguali? Sei
convinto d’esse’ tanto migliore di
me?
– Dipende da cosa – disse
Massimo. – Come sommelier sono
sicuramente migliore. Come
fermaporta, o come zavorra,
sicuramente valgo meno. Diverso
non significa necessariamente
migliore, e io e lei siamo
chiaramente distinguibili. Chi
preferirebbe alla guida della sua
ambulanza, me o Räikkönen? Se mi
vuole dire che siamo tutti diversi
l’uno dall’altro, sono d’accordo. Se
mi vuole dire che dovremmo essere
tutti uguali di fronte alla legge o allo
stato, sono dalla sua parte. Se mi
dice che siamo tutti uguali, Pilade,
abbia pazienza, col cazzo.
– Ho capito, Massimo, Dio bòno.
Ma cosa gli devo dire io alle
persone? Non gli devo fa’ vede’ un
ideale più grande di loro, per falli
smòvere? Secondo te uno deve anda’
da un poveraccio e digli allora mi
dispiace che tu lavori quarantott’ore
la settimana e tu un ciabbia uno per
arriva’ a due, era meglio per te se
nascevi sultano?
Pilade prese fiato, che d’altronde
parlare per venti secondi di fila era
un’attività in grado di fargli
oltrepassare la soglia aerobica, e
venne rimpiazzato da Ampelio.
– Boia che scemi a ’un avecci
penzato, Pilade – disse il vegliardo,
amaro. – Gli si doveva di’ così,
certo. Senti pallino, te ormai l’hai
ner culo ma penza a’ tu’ figlioli, falli
studia’, magari quando son grandi
faranno l’inzegnanti precari alle
medie e saran poveri anche loro, ma
armeno se ne rendan conto.
– Vedi, Ampelio, ci sono tanti
modi per far rimanere il popolo
immobile – disse Aldo, guardando
fuori dalla porta a vetri. – Uno è
quello di tenerlo fermo, e si chiama
schiavitù. Un altro, molto più
subdolo, si chiama demagogia.
Consiste nel convincere ogni singolo
essere umano che tutti gli uomini
sono uguali in tutto. Alla fine,
l’effetto è lo stesso: visto che
ognuno fa come gli pare, non si va
da nessuna parte. Non c’è una
direzione, non c’è coerenza, c’è solo
casino. È molto più facile da
sconfiggere un esercito in cui
ognuno combatte da solo di uno che
sta fermo, basta aspettare che
comincino a spararsi tra di loro...
E sul loro, si fermò. Non tanto
perché avesse finito, quanto perché
Alice aveva preso una sedia, l’aveva
sollevata una quarantina di
centimetri da terra e l’aveva lasciata
cadere sul pavimento, ottenendo un
rumore non troppo dissimile da
quello degli spari di cui Aldo stava
blaterando.
– Alt. Alt. Alt – disse Alice,
calma, dopo aver ottenuto il silenzio.
– Mi dispiace per voi, ma il processo
al Sessantotto lo facciamo un’altra
volta. Oggi come oggi sarei
interessata ad un altro crimine, cioè
la morte di Camillo Luraschi.
Ampelio, abbia pazienza, lasci
parlare Aldo. Aldo, per favore, non
dirazziamo. E si metta a sedere, per
cortesia. Già mi sta venendo il mal
di testa, non mi ci metta anche il
torcicollo.
– Scusi – disse Aldo, mettendosi a
sedere. – Comunque, non è
totalmente fuori luogo quello che si
diceva. Si parlava delle riviste e
della stampa rivoluzionaria. Riviste
come queste, si diceva, arrivarono
anche alla fabbrica di Camillo. E ci
furono anche parecchi operai che le
lessero, si convinsero di averci
capito qualcosa e tentarono di
persuadere anche gli altri. Come
succede spesso quelli più esaltati e
facinorosi nello spiegare questi
concetti erano quelli che ci avevano
capito di meno. E fra questi c’era
tale Carmine Bonci.
– Carmine Bonci – Alice si
palleggiò il nome tra le labbra. – Lo
conoscete anche voi?
– De’, chieda a Ardo – disse
Ampelio. – Tanto sa tutto lui.
Vede, Alice – disse Aldo,
tentando una mediazione. – Volendo
leggere fra le righe, il concetto di
queste pubblicazioni, anche se
esasperato ed espresso in modo
rococò, poteva essere grossomodo
questo: l’operaio è il futuro, il
padrone è il passato. Carmine Bonci
era il classico prepotentello di paese,
che di questi giornali aveva capito
un concetto sottilmente diverso:
l’operaio ha ragione, ed il padrone
ha torto. E siccome l’operaio era lui,
allora andava bene. Su questo
almeno siamo d’accordo?
– Eia eia, alalà – disse Ampelio,
alzando il bastone.
– Con questo vizio di dare del
fascista a chi non è d’accordo avete
rovinato un paese. E non parlo di
Pineta. Comunque, Bonci tentò di
fomentare gli operai della Farmesis,
e ci riuscì. Scavalcando il sindacato,
gli operai andarono da Luraschi e gli
dissero che le gratifiche erano un
sistema da porci capitalisti, una
carota che il padrone usava per
innalzare il profitto, e che volevano i
premi produzione uguali per tutti.
Luraschi rispose che così sarebbe
stato. E, in effetti, così fu: premi
produzione pari a zero.
Aldo fece per alzarsi, ma dopo
aver guardato un attimo la
commissaria negli occhi rinunciò.
Degli altri, nella sala, si avvertiva
solo il respiro.
Si creò un’aria di tensione.
Luraschi provocava Bonci spesso e
volentieri. «Guarda che bel sol
dell’avvenire», diceva passando
davanti alla finestra. «Secondo me
però, senza protezione, a stare
troppo al sol dell’avvenire ci si
ustiona». Ci furono due episodi di
sabotaggio, e Luraschi era convinto
che fosse stato Bonci ad attuare o
progettare il danno. Mia moglie mi
disse che una volta, parlando agli
operai, si lasciò sfuggire che se
qualcuno avesse sparato al Bonci le
cose sarebbero andate meglio per
tutti, e quell’operaio lì sì che
avrebbe meritato una gratifica.
Insomma, come è come non è, una
sera verso le sei, mentre Camillo
Luraschi tornava a casa sulla sua
Lancia Fulvia, qualcuno lo fermò
vicino alla via del Fiume Secco.
Qualcuno che sicuramente
conosceva. E questo qualcuno, dopo
che Camillo ebbe abbassato il
finestrino, gli sparò una fucilata in
pieno viso e lo lasciò lì, morto sul
colpo.

Il bar rimase in silenzio per


qualche secondo, a disagio a parlare
di cose così brutte in mezzo a
patatine, caramelle, aperitivi e
succhi di frutta. E anche Aldo, detta
l’ultima frase, si guardò intorno
come chi ha detto tutto quello che ha
da dire.
– La cosa ebbe rilevanza a livello
nazionale – continuò Pilade, visto
che lui all’epoca dei fatti c’era e
insomma, visto che questo è un bar,
qualcuno dovrà pur parlare. –
Arrivarono giornalisti da tutta Italia.
E tutto il paese puntò il dito sul
colpevole.
– Carmine Bonci – concluse
Alice.
– De’ – disse Ampelio.
Da queste parti, il monosillabo in
questione può avere uno spettro di
significati pressoché autocompleto,
a seconda di come lo si pronuncia, e
riflette il bisogno ancestrale
dell’essere umano di dire qualcosa
anche quando non c’è veramente
bisogno di dire niente. Si può
esprimere ammirazione – de’
prolungato, in crescendo come tono
ma in diminuendo come volume –
disapprovazione – de’ corto, amaro e
che lascia la bocca stretta e storta,
come un caffè del distributore
automatico – o anche mera
accettazione dei fatti, con un de’
neutro, pronunciato scuotendo la
testa, esattamente come aveva
appena fatto Ampelio.
– E le indagini, cosa conclusero?
– Poco o nulla – disse Pilade, con
le mani intrecciate sul buzzo.
– De’, c’era da fa’ sta’ boni tutti –
intervenne Gino, con aria adunca. –
Se lo mettevano in galera succedeva
ir finimondo, con tutti que’
facinorosi a giro. Allora fecero du’
indagini a burro e formaggio e
fecero finta d’ ’un ave’ scoperto
nulla.
– Magari perché non c’era nulla
da scopri’ – disse Pilade, guardando
storto il coetaneo. – Prima di tutto
aveva un alibi.
– De’ – disse Gino, dando al
monosillabo l’espressione numero
due di cui sopra. – Roba da mettecci
la mano sur fòo. Artri tre debosciati
comunisti come lui che dissero che
era con loro a pesca’. Vedrai se li
interrogavano ammodino come dìo
io...
– Come dici te o come diceva lui?
– Fai te, tanto la sostanza è quella
– disse Gino, appoggiandosi sullo
schienale a braccia incrociate. – Il
Luraschi l’ammazzò il Bonci. E non
son l’unico a penzalla così, artro che
testamenti.
– E me lo riòrdo, vai, che non sei
stato l’unico – disse Ampelio,
guardando male il Rimediotti. –
Tanto che quell’artri n’avevano già
fatto il processo, e fecero anche la
sentenza.
– In che senso?
Pilade, guardandosi intorno,
sbuffò, e poi riprese la parola.
– Bisogna essere sinceri: tutti in
paese erano convinti che il colpevole
fosse Bonci. Qualcuno di più,
qualcuno di meno, qualcuno non ci
dormiva la notte. Comunque, il
Bonci venne isolato. Si isolò, e
venne isolato. Non vedeva più
nessuno, non parlava con nessuno,
proibì alla famiglia di vedere altre
persone e praticamente si chiuse in
casa. D’altra parte, tutto il paese
cominciò a trattarlo come un paria.
Anche quelli che gli avevano dato
un alibi, per intendersi. Poi, un
giorno, mentre il Bonci portava la
figliola a scuola, a Pisa, prima
d’entrare a lavorare, tre tizi a muso
coperto fermarono la macchina, lo
tirarono fuori e lo presero a
bastonate. E la figliola, Verdiana,
che era una bimba di nemmeno
vent’anni che faceva la quinta
ragionieri, tentò di difendere il padre
e si prese un paio di bastonate pure
lei.
Pilade guardò gli altri come a
cercare la loro approvazione
sull’accuratezza del racconto. Si
sistemò meglio sulla seggiola e
continuò.
– C’era un film degli anni
Settanta che s’intitolava la polizia
s’incazza. Ecco, quella volta lì la
polizia s’incazzò davvero. Anche
perché questa povera figliola ebbe
un’emorragia interna e, qualche
giorno dopo, morì. Bonci aveva
riconosciuto uno degli aggressori, il
Pezzi, un missino di Firenze con cui
aveva già litigato alle
manifestazioni. Gli altri due vennero
fuori, e confessarono tutti e tre.
Tre studentelli di legge,
avvelenati di politica anche loro –
concluse Aldo. – Uno di questi
venne portato in commissariato dalla
mamma. Questo me lo ricordo
anch’io, ero tornato da poco. E lì la
cosa, praticamente, si concluse. Un
po’ perché ne successero altre, un
po’ perché il Bonci, una volta uscito
dall’ospedale, prese armi, bagagli, la
moglie e gli altri figli e andò via. E
un po’ perché c’era l’impressione...
– Che fosse stata fatta giustizia? –
Massimo, da dietro il bancone, si
affacciò con le mani sul piano. –
Bene, bravi. Hammurabi sarebbe
fiero di voi.
– Cosa ne vuoi sape’, te – disse
Ampelio, a muso duro. – Eri nato da
un mese nemmeno. E io di probremi
ce n’avevo già abbastanza, fra il
lavoro, che poi mi trasferirono
anche, e tu’ madre che un giorno
torna a casa e mi dice babbo sono
incinta.
– Veramente te lo disse nonna
Tilde.
– E fece dimorto bene, sennò a tu’
madre ni levavo l’occhi – disse
Ampelio, scuotendo la testa. –
Ventun anni, al terz’anno di
ingegneria, e va con uno della
Normale che ’un si sapeva chi fosse
e cosa facesse –. Ampelio scosse la
testa di nuovo. – «Tranquilla babbo,
mi laureo lo stesso». E ti laurei sì!
Mi sono levato ir pane di bocca per
fatti studia’, e te come ciai un
minuto libero allarghi le cianche e
butti tutto all’aria?
Massimo, incontrando nello
specchio la faccia di Alice, riuscì a
stento a trattenere un sorriso. La
storia era nota, e nemmeno così
infrequente. La mamma di Massimo,
entrando come allieva alla Scuola
Superiore di Studi universitari
Sant’Anna, era andata di fatto a
vivere in collegio; un collegio
privilegiato, l’equivalente della
Scuola Normale per le scienze
ingegneristiche, mediche e
giuridiche, ma pur sempre un
collegio, tanto che al momento
dell’entrata la patria potestà veniva
acquisita anche dalla direttrice del
collegio, la quale si accertava che le
poche, studiose, timide ma pur
sempre adolescenti allieve
rincasassero e si trovassero in
camera alle dieci di sera, al riparo
dai ben più numerosi e ancor più
allupati allievi maschi. Dopodiché,
con spirito di servizio e torcia a pile,
la direttrice vegliava sui corridoi e
sull’integrità delle illibate allieve.
Tale patria potestà, ovviamente,
decadeva al compimento del
ventunesimo anno, quando l’allieva
diventava maggiorenne, ma restava
pur sempre ospite del collegio e,
quindi, lontana dalle mura di casa; e
succedeva non così di rado, nel
corso di quegli anni, che le allieve
dei vari collegi universitari a
ventidue anni partorissero. Come la
figlia di Ampelio, che appunto nel
millenovecentosessantotto aveva
dato alla luce un bel maschietto: lo
aveva chiamato Massimo, di nome,
come il babbo di Ampelio, e
Viviani, di cognome, come lei.
– Sempre stata indipendente,
mamma – disse Massimo, ridendo. –
Non mi sembra che ti sia andata così
male, in fondo. Comunque, scusate
il siparietto, credo che Alice voglia
riprendere le fila del discorso.
– Sì, non mi dispiacerebbe. Grazie
Massimo. Allora, ricapitolando –
disse Alice alzandosi e mettendosi la
borsa a tracolla – per l’omicidio di
Camillo Luraschi nessuno è stato
mai condannato?
– Mai nemmeno chiamato in
giudizio – disse Pilade, ampio in
tutti i sensi.
– E tutti voi eravate convinti che
fosse stato il Bonci?
– Per quel che conta, sì... – disse
Aldo.
– No – disse Ampelio.
– Sì, e lo son tuttora – disse Gino.
– E lei, Pilade?
– Allora sì. Sì, allora, mi tocca
ammetterlo, anche se dicevo di no,
ero convinto di sì.
– E ora?
– E ora è anche peggio –. Pilade
allargò le braccia e le mani, a palme
in su, gli finirono sulle cosce per
inerzia. – Perché Camillo Luraschi
lo conoscevo poco e male, ma
Alberto Corradi, il su’ figliolo
adottivo, quello che dice d’avello
ammazzato, lo conoscevo bene.
– Ah – disse Alice, interessata. –
E quindi?
– E allora, secondo me, Alberto
era l’ultima persona al mondo che
avrebbe ammazzato Camillo. Anzi,
era l’ultima persona al mondo che
avrebbe ammazzato qualcuno.

– Ecco, sì, Alice – disse Ampelio.


– Qui c’è da di’ le cose come stanno.
Alberto ’un era tipo da ammazza’
nessuno.
– Tutt’altro – confermò Pilade. –
Era uno che gli garbava scherzare.
Anche troppo.
– Va bene, ragazzi, credo di aver
capito. Insomma, secondo voi,
quante possibilità ci sono che
Alberto Corradi abbia davvero
ucciso Camillo Luraschi?
– Zero – disse Aldo.
– Zero – confermò Pilade,
scuotendo la testa, col mento
numero due che penzolava sotto il
mento titolare.
De’, zero – disse Gino, con la
bocca. È stato il Bonci, dissero le
mani, aprendosi con gesto di chi
dice ma allora non volete capire.
– Zero – disse Ampelio, fiero. –
Per dare un’idea...
– Abbia pazienza, Ampelio, ma
ora devo andare dal magistrato. E
domani, poi, mi sa che mi tocca fare
un giretto alla Farmesis. Massimo, ci
vediamo stasera a casa. A fare cena
ci pensi te?
Quattro

– «Confessa il delitto, si riapre il


caso Luraschi. A cinquant’anni
dall’omicidio, il testamento shock di
Corradi. Dal nostro inviato Dante
Frateschi. Pisa. Camillo Luraschi,
imprenditore farmaceutico noto in
tutto il litorale, venne ucciso mentre
tornava a casa, in auto, dalla moglie
e dal figlio. Un colpo di arma da
fuoco, esploso in circostanze mai
chiarite. Oggi, a distanza di mezzo
secolo, è lo stesso figlio, Alberto
Corradi, adottato in giovane età
dalla vittima, a confessare
l’omicidio». Alla grazia della
gratitudine.
Bello comodo sulla sedia,
Ampelio leggeva a voce alta dalle
pagine di un quotidiano nazionale.
Uno dei tanti che davano risalto a
quella che a quanto pareva era la
notizia del giorno non solo a Pineta,
ma anche in Italia: un uomo che
confessa nel testamento un omicidio
commesso cinquant’anni prima.
Certo, stante l’avvicinarsi delle
elezioni, le prime pagine erano
occupate dalle vicendevoli accuse di
candidati impresentabili di ogni
parte – di destra, di sinistra, di
centro e anche della volta celeste –
ma, in tutti i giornali o quasi, c’era
spazio per quella vicenda a metà tra
il curioso e il morboso, riguardante
un crimine dei bei vecchi tempi,
quando la violenza politica non era
parolacce, ma pallottole.
– «Confessione che fonti vicine
alla magistratura indicano come
circostanziata e credibile, tanto che
il sostituto procuratore Sergio
Brodolini ha disposto la riapertura
dell’inchiesta. Riapertura che, anche
a distanza di così tanto tempo,
appare opportuna. Il caso Luraschi
fu uno dei momenti più bui del ’68
pisano, che iniziò con gli scontri e
non finì certo lì; ancora oggi ci sono
persone a piede libero che si sentono
libere di concionare dall’alto di una
autorità conferitagli più dal coraggio
che dalla saggezza, e che libere,
forse, non hanno il diritto di essere».
– Come il Bonci – commentò il
Rimediotti con amarezza. – Tanto è
così, si fa entra’ chi vòle e si
mandano a giro l’assassini, dimmi te
se è una società siùra.
Pover’uomo, va capito. Il
Rimediotti è nostalgico. Nostalgico
del ventennio, un po’ lo è sempre
stato; oggi come oggi, però, è più
nostalgico del periodo in cui era
l’unico lettore ufficiale del giornale,
ruolo che gli è stato usurpato da
Ampelio durante il periodo post-
operatorio con la scusa che
sembrava di ascoltare Radio Londra,
e quindi nei giorni in cui legge
Ampelio prova a riprendersi la
scena.
Di siùro è una società democratica
– osservò Ampelio. – Pòle parla’
chiunque, anche te. «All’epoca dei
fatti i sospetti si appuntarono su
Carmine Bonci, che fu oggetto di
indagini approfondite e di una
campagna denigratoria dall’esito
tragico, senza che venisse provato
nulla a suo carico, e trascurando
ogni altro filone di indagine. Oggi la
confessione di Alberto Corradi getta
una nuova luce non solo sul caso,
ma soprattutto sulla necessità di
riaprirlo. Per quanto circostanziata,
nessuna confessione senza riscontri
rappresenta una prova; unica
certezza è che l’affare Luraschi non
ha ancora finito di avvelenare gli
animi e le coscienze di chi ne fu
coinvolto».
– Senti? Mi sa che anche lui è
d’accordo con me – disse, fiero, il
Rimediotti.
– Mah, ha appena finito di di’ che
il Bonci non c’entrava nulla...
– No, ha appena finito di di’ che
hanno indagato male – contestò il
Rimediotti. – E comunque bella
penna, questo tizio. Mi piace.
– E certo – osservò Aldo. – Alato
e retorico come Testa a Ginocchio
dal balcone di Piazza Venezia. Mi
sembra una montagna di discorsi a
vanvera. Molto più cogente quello
che c’è scritto sul «Corriere», a
pagina sedici.
La vera potenza del linguaggio
umano è che funziona anche quando
è incompleto. Una persona leggendo
un articolo di giornale in cui sono
state cancellate delle lettere, è in
grado di capire il testo anche con
prctuali di cncllatre vcin o supriori
al cnqanta pr cnt. Allo stesso tempo,
anche leggendo o udendo una parola
di cui ignorate la definizione, come
«cogente», siete tranquillamente in
grado di capire qual è il significato
della frase e di fare ciò che ci si
aspetta da voi.
Per cui, dopo aver aggrottato la
fronte, Ampelio allungò la zampa
destra, si impossessò del quotidiano
e andò a pagina sedici.
– «Nel testamento ammette: ho
ucciso mio padre. Un cold cheìs apre
una voragine sulla ditta di famiglia.
Di Diego Braida. Pineta, aperta
parentesi, Pisa. Una busta che si
apre, e dalla quale esce un
frammento di passato che non è
quello che ti aspetti. Succede spesso
nei romanzi, tanto più se gialli, che
il testamento di un genitore non
contenga quello che ti aspetti.
Succede, a volte, anche nel mondo
reale, ed è successo ieri a Pineta,
piccolo e anonimo borgo del litorale
toscano», anonimo l’hai a di’ a tu’
padre, «dove il testamento di
Alberto Corradi, patron di una ditta
farmaceutica del luogo, ha riaperto
un caso dimenticato da quasi
cinquant’anni. Era il 1968 quando
Camillo Luraschi, fondatore della
Farmesis, venne trovato morto
all’interno della propria auto. Un
colpo sparato dall’esterno, quasi a
bruciapelo, attraverso il finestrino
aperto. Chi non venne mai trovato fu
l’autore...».
– Questo lo dici te – disse il
Rimediotti.
Allora Gino, sarà un ber giorno
quando apriremo ir tuo, di
testamento. Uno scemo di meno a
giro per ir mondo. Dov’ero? Ah, sì.
«... e oggi Alberto Corradi, erede e
figlio adottivo della vittima,
all’epoca diciannovenne, confessa di
essere lui il colpevole. Una
confessione non certo utilizzabile in
sede penale, essendo defunto il reo
confesso, ma non priva di
implicazioni in sede civile. La quota
azionaria di maggioranza della ditta
di famiglia infatti è giunta in
possesso di Corradi per successione,
e sempre per successione sarebbe
stata destinata al figlio di Alberto
Corradi, Matteo, da tempo
nell’organigramma della ditta e
candidato al Senato...».
Ampelio abbassò il giornale, e
guardò Massimo.
– Cioè, aspetta. Cosa significa,
sede civile e sede penale?
– Significa che, a livello penale,
non puoi perseguire un morto –.
Massimo, le mani appoggiate sul
bancone, si sporse lievemente verso
l’uditorio. – Primo, perché non può
difendersi. Secondo, perché qualora
condannato dovresti incarcerarlo, e
per i compagni di cella non sarebbe
piacevole.
– Ma a livello civile – continuò
Aldo – ovvero per quello che, per
esempio, riguarda le successioni
testamentarie, l’eredità per
intendersi, allora sì che le cose
cambiano. Come ti immagini,
Ampelio, la legge non ti permette di
uccidere tuo padre e poi di entrare in
possesso dell’eredità che,
eventualmente, ti dovesse aver
lasciato. In termini legali, sei
indegno della successione.
– De’, mi sembra anche ir minimo
– commentò Ampelio. – Anzi, per
una vorta, devo di’ che ir termine
legale mi sembra parecchio adatto.
– Me ne rallegro – riprese Aldo. –
Allora, se non puoi entrare in
possesso di questi beni, allo stesso
tempo non ne puoi disporre. Cioè,
non li puoi lasciare in eredità, al
momento in cui muori.
– Ho capito – ridacchiò Ampelio.
– Allora ar povero Matteo Corradi
non gli tocca nulla?
Qui proprio non ti so aiutare. Ci
vorrebbe un rappresentante
dell’autorità giudiziaria. Però,
guarda, forse sta entrando la persona
giusta.
Detto, fatto. La porta a vetri si
aprì, e subito si richiuse. Fuori era
parecchio freddo, e la persona che
era appena entrata, oltre che
rappresentante dell’autorità
giudiziaria, era molto freddolosa.

– Eh, è un punto delicato –


confermò la commissaria, dopo che
venne fornita di sedia e cappuccino
d’ordinanza, con tanto tanto cacao
sopra, grazie Massimo. – Figurati, e
questa è veramente ridicola, che
nemmeno il magistrato sa come
riaprire le indagini.
– De’, le riapre – suggerì Ampelio
con fare da gerarca. Alice guardò
Ampelio con aria da geriatra.
– Sì, Ampelio, non è così facile.
In pratica, il magistrato non sa in
quale registro iscrivere il reato.
– ’Un ho capito – ammise
Ampelio. Fatto raro.
– Allora, l’Italia è il regno della
burocrazia. Su questo ci siamo,
immagino.
– Pacifico – riconobbe Pilade, che
grazie alla burocrazia di cui sopra ci
aveva campato, in tanti sensi.
– Benissimo. Quindi, quando un
pm ha notizia di reato per prima
cosa deve iscriverlo in un apposito
registro.
– Eh, il registro dell’indagati –
disse Gino, fiero di poter dire una
cosa apparentemente coerente. Alice
scosse il capo.
– No. Il registro degli indagati
non esiste. Esiste il registro delle
notizie di reato. O meglio, esistono
tre registri.
Alice alzò l’indice.
– Il modello 44, a carico di ignoti.
Alice alzò il medio, accanto
all’indice, e se lo afferrò.
– Il modello 21, a carico di
persone note. Alice estroflesse il
pollice.
– Il modello 46, ovvero notizie
anonime.
– De’, il modello 21. O cosa ci
vòle?
– Ci vuole che il modello 21 ha la
fastidiosa caratteristica di essere
riservato ai viventi, perché la nostra
legislazione non permette di
perseguire un morto, a meno che
non si ignori che sia morto. E in
questo caso, pare innegabile che
Alberto Corradi sia morto, e anche
se ha fatto solo finta ormai è stato
cremato, quindi se era uno scherzo
gli è riuscito anche troppo bene. Per
cui, modello 21, no.
Alice ripiegò il medio su se
stesso, lasciando pollice ed indice
protesi, come a significare che anche
nel prosieguo non c’era nulla da
fare.
– Modello 46, nemmeno, perché
qui la notizia non è anonima, anzi, è
una confessione firmata e depositata
da un notaio, quindi tutto il
contrario. Modello 44, idem con le
patatine, perché qui il reo è fin
troppo noto.
– Ho capito – disse Pilade. – Ma
allora, scusi, se non lo pòle indagare,
perché ci tiene tanto a indagarlo?
– Eh, bella domanda – disse
Alice, dopo una piccola sorsata al
cappuccino. – A quanto mi ha
spiegato, è per il problema legato
alla successione. Cioè, se Alberto
Corradi ha ucciso il padre, non
poteva ereditare le quote della
Farmesis. Né potrebbe lasciarle in
eredità, qualora venisse trovato
indegno, anche a posteriori rispetto
alla successione originaria.
– Anche dopo aver ereditato da
Camillo – tradusse Pilade per i non
adolescenti.
– Esatto. Ma... – Alice dette un
altro sorsetto – ... ma posso dire una
cosa da donna? Secondo me c’è
dell’altro. È come se ci fosse dietro
una questione personale. Mi sembra
che il pm abbia preso la cosa
parecchio di foga.
– De’, e tanto oramai è sempre
così – commentò Ampelio,
scuotendo la testa. – Ha visto la
notizia su’ giornali e ha detto guarda
guarda è la vorta che divento famoso
anch’io. E così invece d’indaga’ su
quarche reato di ierlartro va a
occupassi d’una ’osa successa
quando s’era piccini.
Si udì, non lontano, un rintocco di
campana. E cinque paia di occhiali,
uno da miope e quattro da presbite,
si voltarono lentamente verso il
bancone, dove Massimo era rimasto
immobile, con il batacchio ancora in
mano.
– Massimo, io te lo ridico...
– Abbiate pazienza, sono
consapevole che non sono affari
miei, ma credo che ai vecchiacci
manchi una informazione
fondamentale. Tu, invece,
l’informazione ce l’hai, ma non sai
inserirla nel giusto contesto e quindi
è priva di significato.
– Te invece sai tutto, via.
Non tutto, ma quanto basta –
ammise Massimo. – Stamani,
quando sono arrivato, ho avuto
tempo di leggere il giornale da cima
a fondo, e di leggere tutti gli articoli
sul caso Luraschi-Corradi. E su una
cosa molti articoli, non
incredibilmente, concordano. Il
magistrato che si occupa del caso si
chiama Brodolini. Sergio Brodolini.
Quattro dentiere si schiusero
piano in un largo sorriso, mentre
Massimo, dietro al bancone,
riappoggiava piano il batacchio alla
campana, con aria trionfante.
– Sì, è proprio lui. Brodolini.
Quindi lo conoscete.
– Ha voglia lei – disse Aldo.
– No, ha voglia lui – disse
Ampelio, con aria maliziosa.
– Vede, Alice – disse Aldo –
Sergio Brodolini era il fidanzato di
Roberta. La figliola del Serra, quello
della pescheria.
– Mi fa piacere per Roberta Serra,
chiunque ella sia. Che l’abbia
lasciato, intendo. È l’uomo più triste
dell’universo.
– Sì, ma non l’ha lasciato per
quello – disse Pilade. – L’ha lasciato
per sposare Matteo Corradi.

– Quella? La bambolina di
porcellana con le sopracciglia
disegnate?
– Quella lì, esatto. Roberta Serra.
Li ho avuti a cena al Boccaccio, il
ristorante di prima, per ben tre volte.
Tutte e tre le volte per la stessa data.
– Tiro a indovinare: il quattordici
febbraio?
– Mi inchino alla sua perspicacia.
– Non ci vuole tanto per
indovinare. Basta aver presente
Sbrodolini.
Senza dire una parola, Aldo annuì
con consapevolezza. Alto, pallido,
biondiccio, il sostituto procuratore
Brodolini aveva in faccia sempre la
stessa espressione di vaga
rassegnazione, e uno stile di vita
forgiato da decenni di obbedienza e
maglioni fatti a mano. Figlio di
magistrati e nipote di magistrati,
Sergio Brodolini appena finito il
liceo classico si era iscritto a legge,
dando gli esami al ritmo previsto
dall’ordinamento fino a laurearsi, a
ventitré anni, senza darsi importanza
né andando fuori corso. Il classico
bravo ragazzo che tutte le mamme
sognano per la propria figlia, ma che
alla stessa età della figlia in
questione lo avrebbero deriso senza
pietà.
Per descriverlo ad Alice, quando
aveva preso servizio a Pineta, a
Massimo era bastato un semplice
particolare:
Ti dico solo questo, Alice.
Quando entra al bar, Brodolini
ordina sempre la stessa cosa. Un
latte macchiato. Pur tuttavia, una
ragazza in qualche modo in facoltà
aveva avuto occasione di
conoscerla: Roberta Serra, appunto,
la quale aveva iniziato a invitarlo a
casa sua a studiare, e poco tempo
dopo anche a fare altro. Sostenevano
i maligni che senza l’aiuto di
Brodolini la Serra non si sarebbe
mai laureata, ma mancava la
controprova; era invece noto ed
innegabile che, poco dopo laureata,
la ragazza aveva piantato in asso il
fidanzato in procinto di diventare
magistrato e si era sposata, pochi
mesi dopo, con Matteo Corradi.
– Mettiamola così, Alice – disse
Aldo. – Lei si stupirebbe se uno
come Sergio Brodolini, avendo la
scusa per rompere i coglioni a
Matteo Corradi, non lo facesse,
anche usando le innegabili
prerogative del suo ruolo?
– Sì. No. Non... – disse Alice, che
sembrava in difficoltà nel mettere
d’accordo ciò che credeva con ciò
che sperava. – ... cioè, ragazzi,
questa sarebbe vendetta. Stiamo
comunque parlando di un magistrato
della repubblica.
– Cioè di un essere umano –
constatò Massimo, mentre
riappoggiava piano il batacchio della
campana.
Cinque

– Allora. Nome e cognome?


– Alice Martelli.
– Qualifica?
– Vicequestore della questura di
Pisa.
– Motivo della visita?
Vorrei saperlo meglio anch’io.

Per entrare all’interno degli uffici


della Farmesis, Alice aveva dovuto
per prima cosa consegnare il
documento a un addetto alla
sicurezza in giacca e cravatta, indi
riempire un formulario nel quale si
identificava e si giustificava per
essere andata fino lì a disturbare.
Indi, indossato un cartellino con
scritto «VISITATORE», Alice aveva
seguito un secondo addetto, stavolta
in tailleur, che dopo essersi sincerato
del fatto che il dottor Corradi e la
dottoressa Caruso avevano davvero
appuntamento con il vicequestore
Martelli aveva scortato lungo un
camminamento di mattoni
autobloccanti che portava a un
grosso fabbricato a tre piani, di vetro
semiriflettente. Era più facile entrare
in questura che lì dentro.
Ad accoglierla negli uffici era
stata una ragazza sulla trentina, in
tailleur, camicetta bianca e tacco 12
che evidenziava una chiappa
marmorea come il pavimento sul
quale stavano camminando.
– Vicequestore Martelli? – La
ragazza porse una mano dalle unghie
corte, stranamente prive di french. –
Sonia Caruso. Il dottor Matteo
Corradi in questo momento è in
riunione, molto probabilmente si
libererà solo nel pomeriggio. Nel
frattempo, come posso esserle utile?
E ti pareva. Manco Matteo
Corradi prendeva sul serio la
confessione di suo padre. Sennò
magari due parole con Alice avrebbe
trovato modo di scambiarle, no?
– Sì, la ringrazio – disse Alice,
mentre tentava di levarsi il giaccone
tenendo contemporaneamente la
borsa in equilibrio sul braccio
sinistro. – Se potessi farle qualche
domanda…
– Mi vuole lasciare la giacca? La
mettiamo qui, nel guardaroba degli
impiegati.
– Sì, grazie. Dicevo, se potessi
farle qualche domanda riguardo alla
ditta…
– Ma certo, volentieri. Gradisce
mica un caffè? Alla macchinetta
oppure vogliamo andare al bar qui di
fronte?
– No, no. La macchinetta va
benissimo –. E fuori fa un freddo
ignobile. Ora che mi avete fatto
entrare, col cavolo che esco di
nuovo.

– Medicinali, quindi. Di che tipo?


– chiese Alice, dopo un sorso di
caffè.
Facciamo medicinali equivalenti
di ogni tipo. Principalmente
antibiotici, ma abbiamo una
produzione differenziata per
necessità.
E il surplus dei medicinali lo
scaricate nella macchinetta del caffè,
evidentemente. Quest’affare sa di
aspirina.
– Avete una divisione di ricerca?
– disse Alice, dopo aver preso un
ulteriore, impavido sorso di caffè.
Magari c’è davvero dell’aspirina.
Con questo freddo, serve tutto.
– Molto ridotta, in realtà – disse
Sonia, che aveva tratto dalla borsetta
una bustina di stevia e l’aveva
aggiunta al suo decaffeinato. – I test
di bioequivalenza vengono fatti in
outsourcing, principalmente in India.
Abbiamo molti contatti con l’India,
siamo partner in parecchi progetti di
profilassi. Il governo indiano è
molto sensibile a queste tematiche.
– Capisco. Da quanto tempo
lavora qui?
– Da sei anni. È stato il mio
secondo lavoro. Prima sono stata in
Boheringer, a Siena, poi qui. Di
formazione sarei chimica, ma qui mi
occupo quasi esclusivamente di
knowledge transfer.
Sei anni. Tailleur. Non entri in
laboratorio da un lustro come
minimo. A giudicare dal fatto che
era lei ad accoglierla, e dall’età,
Sonia Caruso doveva essere una
project manager. Sei anni è un
periodo lungo, per questo tipo di
lavoro.
– Si trova bene?
– Molto. La ditta è in espansione,
ma un’espansione vera. È solida.
– E ha molti contatti con Matteo
Corradi?
– Sì, sono uno dei suoi
collaboratori più vicini – disse
Sonia, con un sorriso. – Uno dei
dieci, forse anche venti. Non c’è
molta attenzione alla piramide
gerarchica, qui in Farmesis. Per certi
versi siamo più una famiglia che una
ditta.
Alice vide brevemente
un’immagine di suo zio Alfredo che
tagliava le gomme del fuoristrada
del figlio primogenito Yuri «così
impari a bocciare dopo che t’ho
anche comprato la macchina,
stronzo».
– E Matteo Corradi è il papà?
– Una specie. Del genere severo,
ma gestibile. Molto capace come
amministratore.
– Simile al padre, o molto
diverso?
Quella era la domanda cruciale.
Quella che le ripassava nel cervello
da un paio di giorni, fastidiosa come
un pullman che va nella direzione
giusta ma è strapieno, e tu non sai se
è il caso di salirci o di aspettare
quello dopo.
Perché?
Perché Alberto Corradi aveva
confessato un omicidio nel proprio
testamento, rischiando di recare al
figlio un danno colossale?
Che rapporti c’erano tra i due?
Che tipo di persona era uno che
faceva una roba del genere?
– Alberto era una persona molto
espansiva, ma sul lavoro era
inflessibile. Badi bene, lui di
persona non ti trattava mai male.
Delegava ad altri –. Sonia allargò le
mani, abbassando la voce. – Non era
una persona cattiva. Era semplice.
Lui ti dava la sua assoluta fiducia.
Se per qualche motivo ti giocavi
la sua fiducia, eri finito. Non ti
considerava più.

Camminando dietro al custode


che la scortava verso il parcheggio,
Alice pensava.
Molto espansiva. Affabile. Ti dava
la sua assoluta fiducia.
Certo, detto da una che lavorava
lì, valeva quel che valeva. Cosa ti
doveva dire? Era uno stronzo che
mangiava i bambini crudi?
Se ti giocavi la sua fiducia, eri
finito. Non ti considerava più.
Davanti a lei, il custode
camminava, le mani in tasca, il
passo scoordinato, col piede destro
più pesante, che si staccava e
affondava, la gamba sinistra rigida,
quasi come un bastone. Quanti anni
avrà questo tizio? Sessanta?
Settanta?
– Scusi.
– Dica.
– Lei da quanti anni lavora qui?
– Quasi quaranta, ormai –. Il
custode ridacchiò. – Ho cominciato
nel millennio scorso. Ormai altri du’
mesi e vado in pensione.
– E Alberto Corradi lo conosceva
bene?
– Àvoglia. Il mi’ babbo lo
conosceva meglio, era anche lui qui,
lavorava al confezionamento. Ma
anch’io l’ho visto passare tutti i
giorni, insomma.
– E che tipo era?
Il signor Alberto? Una brava
persona. Mai un giorno d’assenza,
non era uno di quegli amministratori
dileguati che si legge oggi. Anche
con la febbre a trentanove veniva.
Era una persona ammodo.
– Un automa, insomma. E vizi
non ne aveva?
– Uno solo, n’aveva –. Il custode
sorrise. – Ma quello ’un gli bastava
mai. C’era da stacci attenti.
– Capisco. Anche qui in fabbrica,
con le dipendenti?
– In fabbrica, a casa, con l’amici...
– Con gli amici?
E che faceva, andava a puttane in
comitiva, il Corradi senior?
Il custode allargò il sorriso,
beffardo.
– Mi sa che lei ha equivocato,
signora. L’unico vizio di Alberto
erano gli scherzi.
– Scherzi?
– Scherzi. Scherzi tremendi.
– Aspetti un po’ – disse Alice,
fermandosi e mettendo la mano sulla
spalla del custode. – Ma per caso
Alberto Corradi è quello della
glomeruloazzurrite?
– Ah, ne l’han raccontato anche a
lei? – Il custode annuì, con fare
soddisfatto. – Quello è stato un
capolavoro, sì.

Alberto. Affabile. Ti dava fiducia.


Se te la giochi sono guai.
Alice camminava, le mani
guantate bene in tasca, i piedi
contratti dentro le scarpe, con le dita
che tentavano di abbracciarsi da sole
e di minimizzare il contatto col
marciapiede, gelido anche attraverso
suole e calze. Aveva trovato
parcheggio a cinquanta metri da
casa, ma anche quei cinquanta metri
erano troppi.
Alberto non sarebbe in grado di
ammazzare nessuno. Ampelio era
stato categorico, e anche gli altri.
Quei cari vecchiacci col cinismo di
un mercenario riconoscevano a un
essere umano l’incapacità di fare del
male.
Se non per scherzo. Ecco, gli
scherzi. Ad Alice tornò in mente
l’inverno di un anno prima, forse.
Quando aveva sentito la storia della
glomeruloazzurrite.

– Glomeruloazzurrite?
– Uno degli scherzi più belli che
abbia mai visto. Lo fece Alberto il
Corradi, quello della ditta
farmaceutica. Alice era seduta al
bar, un annetto prima, circa, con
davanti una tazza vuota, qualche
briciola di cornetto e una delle
giornate più vuote del decennio.
Nessuna
voglia di andare in questura a
passare scartoffie.
– Boia, che merda... – commentò
Pilade, con un sorriso che la diceva
larga su come l’insulto fosse in
realtà una medaglia al valor civile, e
guardando Aldo come chi dice vai,
parti, s’aspetta solo te.
E Aldo aveva incominciato a
raccontare di come, negli anni
Sessanta, quando si laureava uno di
Pineta era una festa per mezzo
paese. Anche perché all’epoca c’era
davvero da festeggiare: una laurea in
medicina, o in ingegneria, o in
chimica, voleva dire un bel lavoro
sicuro, salivi sull’ascensore sociale e
pigiavi il bottone dell’attico. Non
come ora, che ti prendi una laurea e
finisci in un call center. A volte, se
hai una laurea triennale in Gestione
del Conflitto Familiare, te la sei
anche andata un pochino a cercare;
altre volte, se magari hai un
dottorato in biologia, un po’ meno.
Allora, invece, le lauree erano vere,
e quando uno si laureava era una
festa. E tutte le feste cominciano al
ristorante.
Cominciò al ristorante anche la
festa di Oreste Berti, detto
Pisciacaffè, perché quando arrivava
il conto com’è come non è doveva
sempre andare in bagno. E anche in
quella occasione, il Berti fece patti
chiari: io vi invito al ristorante, ma
ognuno paga per conto suo. Fu
allora che Alberto Corradi, che
all’epoca aveva diciassette anni e
faceva la quarta periti chimici all’ITI,
ebbe la pensata. Durante la cena,
dopo aver debitamente istruito il
Delli Carri, medico neolaureato che
si stava facendo le ossa al pronto
soccorso del Santa Chiara, aveva
chiesto con nonchalance come
andasse il lavoro.
– Eh, c’è da lavorare parecchio –
aveva risposto il Delli Carri, tramite
la bella voce baritonale di Aldo. –
Ora poi che è arrivata in Europa la
glomeruloazzurrite c’è veramente
poco da scherzare. Abbiamo già
avuto i primi casi.
Glomeruloazzurrite?, chiesero tutti.
È una malattia tipica dell’Iran e
della Siria, spiegò il Delli Carri. Va
presa in tempo, sennò è letale, ma la
cura è costosissima.
Millecinquecento lire a dose, tieni
conto che all’epoca un operaio
guadagnava dieci, dodicimila lire al
mese. E anche curandosi, insomma,
non è detto.
Aldo si era messo a sedere, con
lentezza, mentre Alice ascoltava e
tutti gli altri la guardavano,
ascoltando, e apprezzando che
apprezzasse.
A quel punto, l’esca era gettata –
aveva continuato, incrociando le
gambe. – Tutti a chiedere
informazioni su questa
glomeruloazzurrite. Come si
prendeva, cosa succedeva, quali
erano i sintomi. L’unico sintomo
eclatante, disse il Delli Carri, era che
il sistema filtrante dei reni reagiva
con l’urea, dando un complesso di
colore caratteristico. In pratica, uno
andava in bagno e faceva la pipì
azzurra.
Alice aveva alzato un
sopracciglio, mentre le pupille le si
dilatavano lievemente. Aldo,
intanto, continuava.
– Nel frattempo, durante la cena,
era arrivato il dolce. Un bel
millefoglie con sopra le ciliegie
candite. Una di queste ciliegie, però,
era farcita di blu di metilene, che il
buon Alberto Corradi aveva fregato
in laboratorio, a scuola.
Alice si era voltata verso
Massimo, guardandolo come chi ha
capito, ma c’è ancora qualcosa che
non le torna.
– Il blu di metilene funziona come
una cartina di tornasole – aveva
spiegato Massimo, che spesso nel
corso di quel racconto ricopriva il
ruolo di inserto scientifico. – In
ambiente basico e in presenza di
glucosio, come ad esempio una
ciliegina sopra una torta, è incolore,
mentre in ambiente acido, come, che
so, l’urina di una persona che si
mangia quella ciliegina, è blu
intenso.
– Non ci credo. Ma che merde...
– Noi? Casomai Alberto e il Delli
Carri! – si era difeso Ampelio.
E comunque, Alice, non li devi
giudicare male – aveva detto Aldo,
con solennità. – Pensa che dal
giorno dopo, quando il povero Berti
telefonò al Delli Carri per dirgli che
aveva pisciato azzurro, il Delli Carri
lo curò amorevolmente in privato,
andando da lui tutti i giorni che Dio
mandava in terra, mattina e sera, e
somministrandogli dosi decrescenti
di blu di metilene procuratogli da
Alberto Corradi, sciolte in acqua,
bicarbonato e tanto zucchero. E
pensa che chiedeva solo mille lire a
dose. La visita no, quella era gratis.

La visita no, quella era gratis. Che


merde. Proprio uno scherzo da prete.
Perché si dice scherzo da prete? Che
io sappia i preti fanno sul serio.
Anche troppo. Torna qui, cervello,
ho bisogno di te. Anche perché ho
passato un pomeriggio da
Sbrodolini. Io sono sbriciolata, ma a
te ti ho lasciato riposare.
Perché Brodolini non demordeva.
Ci sono elementi che richiedono la
nostra attenzione, vicequestore. E
perché il Corradi Matteo non l’ha
ricevuta? È solo maleducato o
nasconde qualcosa? Dovrà tornare a
trovarlo, vicequestore. Questa storia
non è uno scherzo.
Non è uno scherzo. Siamo sicuri?
Però, d’altronde.
Proviamo a ragionare. Potrebbe
essere uno scherzo?
Confessi un omicidio – quello del
tuo patrigno – che non hai mai
commesso?
E che scherzo del menga è?
E soprattutto chi è che rompe le
scatole?
Alice, infilando la mano in borsa,
incespicò miracolosamente come
prima cosa nel telefono che vibrava.
Lo prese, strisciò col nasino la
piccola icona verde – togliersi i
guanti manco morta – e se lo portò
all’orecchio.
– Pronto.
– Sì vicequestore, sono Pardini.
– Ciao Pardini. Dimmi.
– Senta, ci hanno chiamato da
Porto Meloria. Hanno trovato una
persona morta in un appartamento.
Morte violenta. Ci può andare?
– E chi ci deve andare, sennò? Mi
dai l’indirizzo?
– Sì, è a Porto Meloria, vicino al
centro raccolta rifiuti, ha presente la
stradina quella che...
– No, sul momento no. Dammi
l’indirizzo.
– Sì, è quella stradina che
costeggia il centro raccolta, accanto
al fosso quello...
– Pardini, ho capito che è accanto
alla discarica. E che ci devo arrivare
a naso come i cani? Dammi
l’indirizzo. Anzi, scrivimelo su un
messaggino, grazie, così non ci son
dubbi. Ciao.
Alice buttò giù e sbuffò,
continuando a tenere il telefono in
mano. Dopo un paio di secondi,
sullo schermo comparve il numero
di Pardini.
«Via del Giglio 31».
Sbuffando di nuovo, Alice si mise
il telefono in tasca e si rincamminò
verso l’auto.
Quello non era uno scherzo di
sicuro. Via, prendiamoci un altro po’
di freddo.

– Freddo... Boia che freddo... Fa


un freddo bestia, e intanto a Alice le
è arrivato addosso un cold case... Mi
sembra adeguato... La borsa in tinta
con le scarpe, le pareti in tinta col
divano e il lavoro en pendant con la
temperatura... Se uno fa le cose,
tanto vale farle per bene... Il lavoro,
già... ovvero, un caso di omicidio... e
con questi quanti sono? Sei? Sette?
Ho perso il conto...
Solo nel buio, Massimo
camminava a passi discontinui,
veloci, ma che rallentavano
percettibilmente quando arrivava
sotto il cono di luce di uno dei rari
lampioni accesi. Il passo di uno che
sta andando da qualche parte, ma
che non ne ha troppa voglia. E,
come spesso capitava, mentre
camminava Massimo parlava da
solo.
Massimo parlava spesso da solo.
Aveva iniziato all’università, quando
ripeteva prima degli esami, a fare
finta di parlare davvero con il
professore. E siccome si era trovato
bene, aveva continuato a farlo anche
dopo. Non è male, a volte, parlare
con persone che esistono solo nella
tua testa. Ascoltano, reagiscono
come ti aspetti, ti danno ragione.
Cosa che nella realtà non capita
sempre. Specialmente se, come
stava succedendo in quel momento,
nel soliloquio di Massimo
l’interlocutore era Alice.
– Forse è un problema mio... tu
dici che succedeva anche prima,
solo che prima non lo notavo... poi
mi ci sono ritrovato coinvolto mio
malgrado, e da allora ci faccio
caso... lo noto... poi certo, vivere con
una che di mestiere fa il
vicequestore aiuta... esatto, tu fai il
vicequestore e io faccio il barrista...
orari strani, vivi al contrario di
quegli altri, non sai mai se ci sei e
quando ci sei... e mi vieni a dire che
vorresti...
E su quello che avrebbe voluto
Alice, il cellulare squillò.
Già, il cellulare. Uno dei tanti
adeguamenti di Massimo alla vita in
due, nonché al millennio in corso.
Alice, diceva il display proiettando
fotoni ad ampio spettro, e
promettendo imprevisti.
– Pronto bella.
– Ciao amore. Senti, arrivo a casa
un po’ in ritardo, non so di quanto.
Diciamo parecchio. Devo andare in
zona porto vecchio.
– Capito. Mi dispiace. Roba
brutta?
– Eh. Hanno trovato un tizio
morto in casa. Roba parecchio
cruenta, pare.
Massimo rallentò il passo, anche
se era esattamente sotto un
lampione. Un omicidio l’anno era
già tanto. Se si iniziava ad andare a
due alla volta, si incominciava a
sforare le quote europee.
– Un altro? Ma quanta gente
ammazzano da queste parti? È
un’impressione mia, oppure ormai
gli assassini prendono il treno e si
fanno portare qui quando devono
stempiare qualcuno?
– Massimo...
– No, scusa, mi immagino la
scena. Il futuro omicida che esce
dalla stazione e monta sul taxi.
Buongiorno, scusi, avrei voglia di
strangolare qualcuno, ha un buon
posto da consigliarmi? E il tassista,
che è un serial killer che ancora non
è stato catturato, che gli dice io
quando sgozzo vado sempre a
Pineta, mi ci son sempre trovato
bene. Clima sano, angoli bui e ci
sono delle ottime lavanderie a
gettoni, sa, tante volte il sangue
rimanesse sugli abiti...
Alice, al di là dello schermo,
ridacchiò.
– No, guarda, qui mi sa che è tutta
roba fatta in casa. Un vecchietto col
nipote tossico, che ha già dei
precedenti. Tutti prodotti del
territorio, sia nel piatto che in
cucina. Comunque devo andare là,
aspettare la scientifica e fare tutti i
rilievi.
– Ok. Se non mi devi dire altro, io
ti saluterei. Scusa ma fa un freddo
ignobile, e a tenere questo coso mi
sono dovuto togliere un guanto e
adesso ho una mano in cancrena...
– Dai, esagerato. Un freddo
ignobile è un’altra cosa. Siamo in
pieno riscaldamento globale. Hai
visto che i pruni sono fioriti, e siamo
in pieno inverno?
– Mi fa piacere per i pruni. Io non
sono una pianta.
– Be’, insomma, la reattività a
volte è quella. Comunque sì, c’è
dell’altro. Uno, in forno c’è l’arrosto
alle erbe, il sughetto è in frigo in un
coppino. Se mi finisci il sughetto
stanotte ti sveglio con una secchiata.
Due, ti voglio bene.
E riattaccò.
Massimo guardò un attimo il
cellulare, mentre i colori della foto
di Alice in costume si spegnevano
piano piano e il telefono ritornava al
consueto bianco e nero – una
vecchia foto di Pulici che prima di
entrare in campo si puliva le scarpe
con la bandiera della Juve.
Poi, sempre piano piano, forse un
pochino più piano, Massimo riprese
a camminare verso casa.
Anch’io ti voglio bene. È quello il
problema.

– Eh, è un problema. Ero convinta


che fosse una cosa a soluzione
automatica, e invece...
Alice, a letto, a gambe incrociate,
stava finendo di lucidare il piatto
con gli ultimi isolotti di sughetto.
Poi, con lo sguardo lievemente
strabico di quando guardava da
vicino qualcosa con cui avrebbe
interagito con piacere – la prima
patatina del pacchetto, un punto nero
sul naso di Massimo, cose così –
rimirò il pezzetto di pane unto e
saporito e se lo mise in bocca.
– ... e invece dovete partire
dall’inizio. Vieni, dai qua. Massimo
prese il piatto dal grembo di Alice e
andò verso la cucina. Alice,
disincrociate le gambe, lo seguì
ricominciando a parlare.
– Sì, non solo, anzi. Comunque
una delle cose è quella. Ti fa girare
le scatole. Sembrava il classico caso
da procedura. Vecchietto solo, con
bella pensione. Nipote mezzo
tossico, già noto alla questura. Dalla
scena, vedi quest’uomo con il cranio
sfondato da un colpo di oggetto
smussato. Insomma, la classica lite
degenerata in tragedia. Di chi
sospetti?
Massimo aprì la lavastoviglie, già
notevolmente piena, e ci incastrò in
qualche modo il piatto di Alice.
– Sì, certo. Il nipote.
Appunto. Il nipote. Pino Bardelli,
detto Pinolo per motivi sconosciuti.
Fra l’altro, ti farei vedere che tipo.
Massimo, chiusa la lavastoviglie, si
accertò che partisse prima di voltarsi
verso Alice.
– Ah, Pinolo? Allora lo conosco.
Un tipo alto, allampanatissimo, con
il piercing al naso, l’anello con le
palline in fondo che sembrano due
caccole di metallo, con gli occhi
persi e i dentoni, che somiglia a un
criceto a dieta.
– Quello, lui. Perché Pinolo, lo sai
mica?
– Diciamo che non brilla per
capacità intellettive. Insomma, è
duro come una pina. In più si
chiama Pino...
– Diminutivo di Giuseppe.
– No, si chiama proprio Pino. Il
babbo era un fan di Pino Daniele, si
dice. Comunque, Pinolo, mi dicevi.
Anzi, scusa, vuoi mica un caffè?
– Decaffeinato, grazie Massimo.
Ti dicevo, Pinolo. Che viene preso,
confortato, ascoltato.
Massimo, voltato verso la
macchina espresso (a cialde, almeno
in casa evitiamo di sporcare
ovunque, capisco che il caffè sia
meno buono ma almeno non
passiamo la vita a pulire anche il
bancone di casa, sei d’accordo
Massimo?), annuì come chi sa già
che cosa sta per sentire.
– Dopodiché viene interrogato per
scoprirne i movimenti, e...
Alice non scosse nemmeno la
testa.
– No, non ce n’è stato manco
bisogno. Il caro vecchio Pinolo era
al lavoro quando lo zio è stato
ucciso. Domani faremo tutti gli
accertamenti del caso, ma il suo
orario è incompatibile: entrata alle
14, uscita alle
20. Pinolo lavora al packaging, in
linea, se se ne fosse andato anche
solo cinque minuti se ne sarebbero
accorti tutti.
Alice prese il caffè dalle mani di
Massimo e ci mise due cucchiaini di
zucchero. Poi, preso il flacone della
panna spray, ne mise sul caffè una
generosa spruzzata. Non parendole
abbastanza, ne aggiunse una
ulteriore spruzzatina. Poi, per finire,
si inserì l’erogatore in bocca e pigiò
il tasto.
Ah, buona. Insomma, ti dicevo,
questo tipo sembra avere un alibi
assolutamente inconfutabile.
Inattaccabile. E anche il movente, a
quanto ho capito, non ci sarebbe.
Pare che la vittima e Pinolo, zio e
nipote, fossero sinceramente
affezionati l’uno all’altro. Vivevano
in casa insieme, e pare che le cose
non andassero così male. Figurati
che è stato proprio lo zio a trovargli
un lavoro.
– Ho capito. Nulla da fare, via. E
quindi, chi poteva avere interesse a
uccidere un uomo di... ottant’anni?
– Anche ottantacinque. È un
casino. Abbiamo una pista, ma
potrebbe essere una coincidenza.
Ma non lo è assolutamente, vero?
Altrimenti figurati se avresti
mangiato così di gusto. Ormai
Massimo conosceva Alice
abbastanza da sapere che la sua
fidanzata, quando era rilassata e
tranquilla, mangiava il giusto. Se era
depressa, se non aveva niente da
fare, se si sentiva le mani legate e
credeva di non avere davanti a sé
nessuna prospettiva, di mangiare
non se ne parlava. Quando invece
era sul pezzo, quando aveva un caso
veramente rognoso per le mani, e
cervello e nervi erano concentrati
sull’obiettivo, allora mangiava come
un alluvionato.
Via, giù. Sentiamo quale sarebbe
questa coincidenza. Alice alzò lo
sguardo su Massimo. Anche con gli
occhiali, gli occhi mandavano lampi
verdi.
– Eh, sarebbe che Pinolo lavora
alla Farmesis. Un lavoro che, come
ti dicevo, gli ha trovato direttamente
lo zio. Sembra che prima di andare
in pensione fosse capo contabile
della ditta.
Sei

– «Orrore a Porto Meloria.


Trovato in casa morto, il nipote si
difende. Pineta. Si è trovato di fronte
uno spettacolo raccapricciante al
momento di entrare
nell’appartamento della vittima. Che
poi era anche il suo appartamento.
Sono le ventuno e trenta quando
Pino Bardelli, 32 anni, nipote della
vittima, entra nel trilocale che
condivide con lo zio, Ubaldo
Giaccherini». Ora invece è tutto suo.
«In salotto, la macabra scoperta. A
terra, riverso al suolo...», perché la
gente sta anche in terra riversa
sull’armadio, secondo te. Si vede ni
devano ave’ detto questa roba la
legge solo i vecchi arteriosclerotici,
ripeti le cose tre o quattro vorte
sennò poi ci telefonano, «... il corpo
ormai senza vita del cadavere dello
zio». Tanto per esse’ chiari.
Ampelio, scuotendo la testa,
sistemò meglio il giornale e si
apprestò a continuare la lettura.
Intorno, non volava un catarro.
– «Ubaldo Giaccherini viveva da
anni in via del Giglio, dove da pochi
mesi aveva accolto in pianta stabile
il nipote, rimasto orfano di madre,
senza lavoro e senza abitazione». A
trentadu’ anni, orfano di madre e
senza ’asa, poverino. Io alla metà
de’ su’ anni arricciolavo i picconi.
Poveri noi.
– Sì, Ampelio, ma non è che il
lavoro cresca sugli alberi – fece
notare Aldo con una litòte.
– Vedrai, se ’un lo cerchi il lavoro
’un lo trovi – replicò Ampelio,
disposto a raccogliere la retorica di
Aldo come forma, ma non come
significato. – Intanto qui accanto c’è
il panettiere che son nove mesi che
cerca un apprendista, però come
dice alla gente che c’è da lavora’
dalle dieci di sera alle sei della
mattina arrivederci e grazie. Si vede
che preferiscano chiede’ un prestito.
Ora chiedano ir prestito per tutto.
Per comprassi ir televisore. O per
andacci in vacanza. Chiede’ un
prestito per anda’ in vacanza è come
incolla’ un tavolo rotto coll’olio
extravergine. Dico bene o dico
giusto, Tiziana?
– Io di prestiti ne ho preso solo
uno, per comprarmi casa quando mi
sono sposata – disse Tiziana,
appoggiando davanti ad Ampelio un
caffè con accanto una proibitissima
bustina di zucchero. Era un dato di
fatto che Ampelio continuava ad
essere diabetico, ma era un dato di
fatto anche che al momento
Massimo non era ancora arrivato, e
quindi festa.
– E lì hai fatto dimorto bene –
disse Pilade. – Lì casomai l’errore è
stato chi ti ci sei messa, ’n casa.
– Ma lasciatelo un po’ stare il mi’
damo, brutti vecchiacci – disse
Tiziana, ridendo mentre tornava
dietro al banco. – Non sarà una
cima, ma le cose importanti almeno
le impara.
E, prima di girarsi verso la
macchina del caffè, voltò gli occhi
per un momento verso Ampelio.
Come abbiamo detto, una delle
caratteristiche più potenti del
linguaggio umano è quella di essere
comprensibile anche quando è
incompleto. In questo caso la frase
di Tiziana, anche se completa a
livello grammaticale, non lo era a
livello semantico. Il significato
completo della frase, infatti, era un
altro, e poteva essere
tranquillamente inferito dal contesto.
Non sarà una cima, come Massimo,
ma le cose importanti almeno le
impara, lui.
– Sei riuscita a parlacci, poi, col
mi ’nipote? – disse Ampelio,
chiudendo il giornale.
– Ci ho provato – rispose Tiziana.
– Ma non è che m’abbia detto più di
tanto. Lo sai com’è fatto lui. Se si
deve lamentare di qualcosa che
viene in mente a lui, va giù diretto.
Se gli chiedi qualcosa te, ci mette
mezz’ora. Prima deve spiegarti il
perché, il percome, esporre gli
assiomi, le ipotesi, e poi la
dimostrazione. Comunque credo...
– Occhio... – provò ad avvertire
Aldo, alzando un attimo il braccio.
E su quello che credeva Tiziana la
porta a vetri si aprì, ed entrò
Massimo.
– Buongiorno a tutti. Chi vince?
– In che senzo?
– Mi riferisco alla partita di un
due tre stella. Sono entrato e vi siete
bloccati tutti all’unisono, nemmeno
la difesa del Milan di Sacchi –.
Massimo accennò ad Aldo, che era
rimasto col braccio alzato. – Guarda,
lì c’è anche Baresi. Non ci vuol
molto a capire di chi stavate
parlando, sono entrato e mi avete
messo in fuorigioco. Cos’ho fatto
stavolta che non va bene?
Madonna che freddo... – disse
Alice, entrando subito dopo
Massimo, levandosi dal viso una
sciarpa multicolore con prevalenza
di arancione che la copriva fino al
naso. – Cosa blateri?
– Nulla, nulla. Cappuccino,
Alice? – La ragazza, andandosi a
sedere al suo solito sgabello, annuì
con un sorriso ancora un pochino
congelato. Mentre Massimo
guadagnava la pedana dietro al
bancone, Tiziana si voltò rapida
verso la macchina del caffè ed iniziò
ad armeggiare.
– Allora, ragazzi, si fa per dire –
disse Massimo, guardando i
quadrumviri. – Di qualsiasi cosa
stavate parlando, abbiate pazienza,
ci importa una sega. Alice avrebbe
bisogno del vostro aiuto per un caso.
I quattro si guardarono, sollevati.
Se c’è da ciacciare dei fatti altrui,
siam qui.
– Quale, quello di ieri o quello di
oggi? – chiese Ampelio,
ringalluzzito.
– Bella domanda, Ampelio.
Diciamo un po’ per tutti e due.
Allora... – Alice protese il naso
verso il cappuccino e inspirò il caldo
tepore della schiuma di latte – ... se
siete d’accordo andiamo nella sala
biliardo, che si sta un pochino più
discreti. Massimo, posso portarmelo
di là?
– Fin tanto che stai a un metro dal
biliardo, hai voglia – rispose
Massimo, aprendo la lavastoviglie. –
Io se mi perdonate rimango qua, che
avrei un attimino da fare. Di
poliziotti in famiglia ce n’è già due,
non vorrei esagerare. Io faccio il
barrista.
– Bravo, allora fai il barrista e stai
lì – disse Alice, alzandosi con
cautela dopo aver preso il
cappuccino in mano tenendolo per il
piattino. – Bimbi, venite con me?
– Volentieri – disse Aldo,
esprimendo la volontà popolare. Si
va di là, al biliardo, a parlare di
qualche bel morto ammazzato, e
senza Massimo a mettere le rotelle
fra i bastoni. Meglio di così...

– Allora, gente – disse Alice,


dopo aver sistemato il cappuccino su
un tavolino – le cose stanno così.
Ieri sera, poco dopo le otto, è stato
rinvenuto il cadavere di Ubaldo
Giaccherini.
– E fin qui si sa – rassicurò
Pilade.
– Bene. Quello che non sapete, e
che non sa nessuno a parte me e il
procuratore, è che ieri mattina
Ubaldo Giaccherini ha telefonato a
varie persone. Le persone in
questione sono quattro.
Alice prese la tazza con le mani a
coppa, e se la appoggiò in grembo.
– Numero uno: Dante Frateschi,
giornalista di una nota testata
nazionale. Numero due: Giancarlo
Posinato, giornalista di altra nota
testata nazionale.
Alice dette un sorso al
cappuccino, poi ne dette un altro più
corposo, mentre davanti a lei le altre
quattro tazzine – un caffè, un
corretto al sassolino, un macchiato
caldo e un orzo in tazza grande –
rimanevano ferme, appoggiate al
tavolino.
– Numero tre: Sergio Brodolini,
sostituto procuratore.
Dietro alle quattro bevande,
quattro paia di orecchie (di cui una
potenziata da apparecchio
elettronico coreano quasi invisibile,
ma che si faceva sentire eccome)
stavano ferme, ma vibranti.
– Numero quattro... – Alice fece
un sospiro profondo, ad indicare che
secondo lei quello su cui puntare
l’indice era il nome che stava per
dire – ... numero quattro, Matteo
Corradi.
– E cosa gli ha detto? – chiese
Pilade.
– Cosa ha detto loro – corresse
Aldo.
– Cosa rompi i coglioni – chiosò
Ampelio. – Lascia parla’ Alice, per
cortesia, son settant’anni di fila che
chiacchieri.
– Sentilì da che pulpito. Prego,
largo ai giovani.
– Grazie. Allora, per certo posso
dirvi quello che Giaccherini ha detto
al procuratore, cioè, al facente
funzione.
– Chi?
– Il segretario. Ogni procura ha un
ufficiale di polizia che cura e tiene
in ordine le pratiche, le denunce, i
contatti con l’esterno. Insomma,
come se fosse il segretario. Si
chiama Gennaro Diologuardi.
Comunque, ci importa poco. Al
facente funzione, Giaccherini ha
detto di avere informazioni
importanti sull’omicidio di Camillo
Luraschi, e che data la risonanza che
aveva avuto il caso gli sembrava
opportuno parlarne con il
magistrato. Per quale motivo abbia
parlato con i due giornalisti non lo
so ancora, ma non mi sembra
assurdo ipotizzare che li abbia
chiamati per lo stesso identico
motivo.
– Pacifico – approvò Pilade. – In
fondo, fanno i giornalisti.
– E anche Matteo Corradi vedrai
che ’un l’ha chiamato per parla’ di
pallone – inferì Gino, annuendo con
vegliarda sapienza.
– Sì, credo proprio anch’io. Oggi,
per completezza, andrò a parlare con
i giornalisti. Voi, nel frattempo, mi
sapete dire qualcosa di Ubaldo
Giaccherini e di Matteo Corradi?
– Di Ubaldo non so tanto – disse
Pilade, dondolando la testa. – L’ho
visto in Comune, come tutti, e
quindi qualcosa so. Aveva
ottantacinque anni, era del...
– Le sottrazioni le sa fa’ la
signorina, Pilade – disse Ampelio. –
Vai ar sodo.
– Era un òmo tranquillo, solitario
e solo – continuò Pilade, con l’aria
rassegnata dell’impiegato a cui
viene impedito di fare bene il
proprio lavoro. – Di familiari aveva
solo una sorella che poi ha avuto un
figliolo, Pino, detto Pinolo. Poi la
sorella è morta qualche anno fa. Mai
sposato.
– Quelli come lui ’un si
sposavano – disse Ampelio con la
massima delicatezza possibile, con
la precisa volontà di fornire una
informazione secondo lui
fondamentale, ma consapevole che
le usuali acrobazie verbali con cui
definiva gli omosessuali ad Alice
non sarebbero state gradite.
Alice, dopo aver atteso qualche
secondo, girò la testa verso Aldo e
Gino.
– Sì, non c’è molto altro da
aggiungere – ammise Aldo,
guardando il proprio caffè. – Non
era il tipo che andava a cena fuori o
che buttava denaro. Sempre vestito
con proprietà, ma mai con
ricercatezza. Se dovessi azzardare,
pur non conoscendolo, direi che
doveva essere una persona molto
precisa e meticolosa.
– Sì, lo era – disse Alice. – Vi
avrei fatto vedere l’appartamento.
Ordinatissimo, pulito, rassettato.
Peccato solo quel cadavere con la
testa aperta accanto al tavolo, che
stonava un po’. Se fosse stato ancora
vivo, probabilmente il poveretto
sarebbe morto di sgomento nel
vedere come gli avevano ridotto il
salottino. Sono cinica, lo so. Ci
diventi, dopo un pochino, a fare
questo lavoro. Invece, Matteo
Corradi?
– Eh, Matteo Corradi lo conosco
già un po’ di più – disse Aldo. – Un
paio di volte è venuto a cena.
Ragazzo intelligente, ma forse è
convinto di esserlo un po’ più di
quanto non lo sia davvero. Di
mondo non ne ha visto tanto. Sa, è la
classica persona che quando va in
vacanza va in un villaggio turistico.
Magari alle Maldive, o in Messico,
ma tutto organizzato e guai se alle
otto non si cena. Da piccolino
giocava a pallone, dicevano che
fosse parecchio bravo.
– È bravo ma a butta’ via ’vaìni –
disse Ampelio, a bocca torta. – Uno
di quelli fissati con l’aggeggi tutti
tecnologici, se una cosa ’un serve a
una sega ma cià un microcìp dentro
tranquilla che Matteo der Corradi è
ir primo a compralla.
– Quello è vero – confermò
Pilade. – La mi’ moglie una volta
parlò con la sua, che gli disse che
avevano fatto la casa tutta
domotizzata. Pavimenti a
raffreddamento controllato, forno
che parte da solo a una cert’ora, e un
sistema d’allarme che l’ha comprato
lui perché per la NASA era un po’
troppo costoso. Fissato. Con quello,
e con le macchine. Ne cambia una
l’anno.
– Cosa ci fa? Le sfascia?
– No no, le cambia e basta – disse
Ampelio, ridacchiando. – Di
macchine ir bimbo der Corradi n’ha
sfasciata una sola in vita sua, l’è
bastato e avanzato. Aveva undici
anni, forze dodici.
– Undici anni e ha sfasciato
un’automobile?
– E non è finita, signorina – disse
Pilade, con l’aria di chi avrebbe una
bella storia da raccontare, peccato
che non c’è tempo. Alice, dopo
essersi messa in bocca il cucchiaino
con l’ultimo rimasuglio di schiuma,
si rese conto che il racconto era
compreso nel pacchetto
informazioni.
– A questo punto, son curiosa.
– Deve sapere, signorina, che
quella per le macchine è una
passione di famiglia – cominciò
Pilade, dopo essersi assestato sulla
seggiolina. – Anche al babbo di
Matteo, Alberto, gli piacevano
parecchio. E un giorno, s’era inizio
anni Novanta, Alberto Corradi si
compra il Land Rover.
– La macchina ideale se uno sta a
Pineta – commentò Alice.
– Vero? – Aldo, con noncuranza,
si inserì nella storia. – Difatti
Alberto, che era una persona
coerente, si rese conto subito di
questa incongruenza, e decise di
rimediare. Ho un fuoristrada nuovo,
ho un figlio di dieci anni, ho un
weekend libero. Dove vado? Vado
allo Zoo Safari di Fasano a vedere i
leoni, le giraffe e gli elefanti.
– Capisco – disse Alice. –
Rabbrividisco ma capisco.
– E cosa c’è scritto fuori dallo
Zoo Safari di Fasano, a lettere
grandi quanto uno degli animali
ospiti?
– Questo lo so. Non date da
mangiare agli animali.
– Bravissima, sette più. Solo che
mentre sono dentro lo zoo, la
famigliola felice del Mulino Bianco,
Matteo tira fuori le noccioline. E ha
la bella idea di aprire il finestrino e
dare una nocciolina all’elefantino. E
cosa fa l’elefantino?
– Verga dentro l’abitacolo un
metro di proboscide e inizia a
cercare quell’artre noccioline, de’ –
proseguì Ampelio. – E allora Matteo
Corradi, che è un genio, cosa fa?
Pigia il bottone dell’alzacristalli,
alza il vetro e stiaccia la proboscide
dell’elefantino ner finestrino.
A questo punto, Alice venne a
sapere, si verificarono alcune cose in
rapida successione. Numero uno,
l’elefantino, immobilizzato,
dolorante e anche parecchio
contrariato, inizia a barrire come un
ossesso all’interno dell’auto.
Numero due, il barrito di dolore del
cucciolo impaurito, come sovente
capita in natura, richiama la madre;
e siccome il cucciolo è un cucciolo
di elefante, arriva un’elefantessa.
Elefantessa la quale inizia a
martellare con la proboscide il tetto
della vettura, mentre il figlioletto
continua a strombazzare il suo
dolore nell’abitacolo. In un
momento di lucidità, Alberto
Corradi riesce comunque ad arrivare
al pulsante e a liberare l’elefantino,
per poi partire a tutta velocità verso
l’uscita, inseguito da un’elefantessa
incazzata che continua a bersagliare
il tettuccio di mazzate. All’uscita, i
guardiani si vedono arrivare questo
fuoristrada col tetto tutto ondulato
dalle botte, e con dentro tre persone
fuori di senno. I guardiani fermano,
ospitano, ascoltano, rassicurano e
per confortare il povero Alberto,
sconvolto dall’improvvisato
concerto di vuvuzela & percussioni,
gli offrono un paio di grappe per
calmare i nervi. Risultato, dopo un
quarto d’ora la famiglia del Mulino
Bianco è pronta a ripartire, sul
proprio fuoristrada bianco e con le
facce in tinta.
– Solo che, dopo una mezz’oretta,
in autostrada trovano un incidente –
continuò Ampelio. – E i poliziotti
che son lì a far circolare ti vedano
arriva’ questo trofano di macchina
cor tettuccio tutto ondulato che
sembrava la tettoia della festa
dell’Unità, e inzomma lo fanno
accosta’. Cosa n’è successo alla su’
macchina? chiede uno dei poliziotti.
Nulla, son stato rincorso da un
elefante, ma ora è tutto a posto, gli
risponde Alberto.
– Ora mi dica lei, da pubblico
ufficiale – si inserì Pilade, tronfio. –
Lei, cosa avrebbe fatto?
– Eh, magari un bel test con
l’etilometro...
– E infatti quello fecero. Via via,
si fa un ber test der palloncino. E
zàcchite!, ni ritirano anche la
patente.
– E la moglie la patente ’un ce
l’aveva mai avuta – chiuse Ampelio.
– Oh, ni toccò torna’ a casa cor
carrattrezzi.

– A parte questo, i rapporti fra


padre e figlio com’erano? Tra
Matteo e Alberto?
– Mah, direi normali. Matteo
aveva studiato per subentrare
nell’azienda di famiglia, lo sapevano
tutti. E il babbo non aveva motivo di
lamentarsi del figliolo, a parte la
politica.
Ci credo. Se il babbo era di
estrema sinistra, vedere il figliolo
che si candida con i liberal chic non
deve essere troppo piacevole.
– Ma nemmeno, sa? – disse
Pilade. – Piuccheartro Alberto era
proprio della politica che si era
disamorato. Diceva che faceva più
danni la politica del cancro. Certo,
vista la confessione, uno magari
questa affermazione la ’nquadra un
po’ in un artro contesto, ecco.
Comunque a Alberto ormai della
politica ’un gli importava nulla.
Mettiamola così, Alberto e Matteo
’un andavano d’accordo proprio su
tutto ma in fondo in fondo si
volevan bene. Un po’ come Camillo
e Alberto.
– Un po’ come in tutte le famiglie,
via – fece notare Alice.
– Sì, ma va detto che ’un si sta
parlando di una famiglia come
quell’artre.
– Per via del fatto che Alberto era
stato adottato?
– Innanzitutto, su questo c’è da fa’
chiarezza – disse Pilade. – Alberto
non è mai stato adottato da Camillo.
Camillo aveva sposato su’ ma’. È
diverso.
– E te come lo sai?
– A parte che di cognome faceva
Corradi, e non l’ha mai cambiato,
tieni presente che ho lavorato
all’anagrafe dar sessantotto...
– Che tu abbia lavorato è una
parola grossa – disse Ampelio. –
Timbravi il cartellino e andavi a fa’
colazione.
– ... dar sessantotto ar settantuno,
dicevo – tronfieggiò Pilade. – Poi
m’hanno trasferito allo stato civile.
E ci credo – approvò Ampelio. –
Tutti i certificati di morte sporchi di
marmellata e cappuccino, prima o
poi quarcuno si sarà lamentato.
Avran penzato che era meglio
mettetti a’ matrimoni.
– Invece a te quarcuno dovrebbe
mettetti sotto – rintuzzò Pilade. –
Comunque, quando parlavo di
famiglia che non è come quell’artre,
la cosa che intendevo è che sono
ricchi. Erano poveri, e son diventati
ricchi. Camillo ha fatto fortuna
durante la guerra, perché da
bimbetto faceva la fame. La Franca,
la seconda moglie di Camillo, donna
a ore, vedova e con un bimbo in
casa, in capo a sei mesi era la donna
più ricca der paese, ni mancava solo
la corona.
– La corona ce l’aveva – disse
Aldo. – Senza la «o». Camillo l’avrà
anche sposata, ma non è che si sia
messo il saio.
– Oimmèi, me lo fate fa’ un
discorso serio? – si alterò Pilade. –
Quello che voglio dire, Alice, è che
non è gente che ha sempre avuto i
soldi. Mi capisce?
Forse no.
A un certo punto, nel corso del
discorso, Alice si era visibilmente
persa e aveva incominciato a tener
dietro a quello che le stava
succedendo in testa, e non a ciò che
le arrivava alle orecchie.
– Abbia pazienza, Pilade, adesso
ho in testa un altro delitto – rispose
la ragazza dopo un paio di secondi.
– Anzi, a proposito di questo, ci
sarebbe un secondo favore che
dovrei chiederle.
– Ci mancherebbe. Dica, dica –
disse Aldo, sempre elegante e
servizievole con il suo prossimo,
specialmente quando era prossima,
giovane e carina.
In realtà, avrei proprio bisogno di
Pilade – rispose Alice, posando la
tazza sul piattino in maniera
delicata, come se avesse paura di
romperla. – Vedete, come dicevate
prima, Ubaldo Giaccherini era
veramente una persona precisa,
meticolosa e puntigliosa. Come tutte
le persone precise, specialmente
quelle un po’ d’altri tempi, teneva un
diario.
Un diario. Qualcosa con scritti i
cavolacci altrui vergati direttamente
dall’altrui in questione, altro che il
«Tirreno». Vedere, vedere.
Alice, dopo aver messo una mano
in borsa, ne tirò fuori una busta di
plastica con dentro alcuni grossi
quaderni con la copertina di pelle
nera.
– Lo abbiamo trovato nel corso
delle perquisizioni – disse Alice,
mentre i vecchietti non credevano
alle loro cataratte, visibilmente
frementi di fronte a tale miniera di
fatti loro. – Questi che vedete sono
relativi agli anni dal ’68 al ’71.
Crediamo che siano gli anni cruciali,
per capire cosa è successo a Camillo
Luraschi e cosa poteva sapere
Ubaldo Giaccherini in proposito, ma
li abbiamo comunque acquisiti tutti.
Sono scritti a mano, in un corsivo
preciso ma incredibilmente
antiquato. Per farla breve, io qui
dentro non ci capisco una mazza. Ho
provato a leggere una mezza pagina
e mi è venuto mal di testa –. Alice
alzò gli occhi verso Pilade, con uno
sguardo a metà fra il materno e il
complice. – Avrei bisogno di
qualcuno abituato a questo genere di
grafia, e abituato a scorrere
documenti.
O Alice, se è per quello anche noi
si sa legge’, eh – disse Ampelio,
sottolineando la sua affermazione
con delle piccole bastonate al
pavimento al posto delle virgole. – Il
Rimediotti per esempio è un
fenomeno. Le parole le indovina
tutte. Sa, lui è di quelli che lo
devono trova’ già scritto sur giornale
quello che penzano, sennò è un
casino.
– Ner casino c’era tu’ madre,
santa donna – rispose il Rimediotti.
– Comunque anch’io sono a
disposizione, eh, ner caso. Per fare ir
mi’ dovere per lo stato son sempre
qua. Io lavoravo per davvero, mica
come questi strusciamuri vì.
– Vi ringrazio, giovanotti, ma ho
bisogno di qualcuno cui conferire un
incarico ufficiale. E Pilade è la
persona adatta. Era un impiegato
comunale, e a certe cose ci è
avvezzo –. Alice, allontanata la
tazza, prese i diari e li rimise nella
borsa, che poi si mise a tracolla,
mentre si alzava e ridiventava
vicequestore Martelli. – Quindi,
Pilade, dovrebbe venire con me in
commissariato. Dovrebbe
compilarmi un paio di moduli e la
dichiarazione di assenza di conflitto
di interessi. Sempre che lei sia
d’accordo, Pilade, si intende.
– De’... – disse Pilade, alzandosi
in piedi.
Con quale intonazione lo disse,
non dovrebbe esserci bisogno di
spiegarlo.
X
(Dividere la Risposta per sei
per ottenere il numero del
capitolo)

– Sì, sì, esattamente come sta


dicendo lei. Ho ricevuto la
telefonata verso le dodici, circa. Non
le so dire l’ora esatta, ma tanto la
sapete già, presumo.
Seduto di fronte ad Alice, dietro
alla propria scrivania, Dante
Frateschi accavallò le gambe ed
intrecciò le mani, annuendo allo
stesso tempo con vigore. Il
giornalista aveva le gambe talmente
magre che, quando le incrociava, il
piede destro andava a intrecciarsi
dietro la caviglia sinistra e faceva
capolino da lì, oscillando come se
ammiccasse. Era già la seconda o
terza volta che lo faceva, e ogni
volta la commissaria ne rimaneva
ipnotizzata.
Alice, dopo un secondo, distolse
lo sguardo dalle scarpe dell’uomo e
lo riportò sugli occhi. Nessuna delle
due coppie era bella da vedere. Un
uomo alto, secco secco, con gli
occhi infossati dentro a un paio di
orbite viola e il volto pallido, con il
collo da cui spuntavano piccoli
ciuffi di barba bianca che il rasoio
mattutino evidentemente si
dimenticava spesso e volentieri.
Alice riportò lo sguardo al cellulare.
– Le dodici e diciotto – confermò,
leggendo sullo schermo gli appunti
presi quella mattina. – E che cosa vi
siete detti?
– Glielo posso dire parola per
parola – rispose il giornalista,
disintrecciando le gambe. – Guardi,
ero proprio qui. Pronto, dottor
Frateschi? In persona, rispondo io.
E fin qui niente di sorprendente.
Dante Frateschi, caporedattore, si
leggeva sul biglietto da visita
clamorosamente antiquato che stava
appoggiato sulla scrivania, accanto a
una tazza piena di penne, a un
piccolo mappamondo e a una
trentina di post-it e foglietti più o
meno polverosi. L’arredamento era
completato da un grosso schermo,
da una tastiera e da una bottiglia di
whisky, che erano palesemente i due
oggetti più usati della scrivania.
– Senta, mi chiamo Giaccherini
Ubaldo, mi dice. Cognome e nome,
come i carabinieri. Ho letto il suo
pezzo di stamani sul giornale, mi
dice lui. Sarebbe interessato a sapere
qualcosa di più sull’omicidio di
Camillo Luraschi? – Il giornalista
guardò Alice con occhio alcolico,
ma acuto. – Ho sentito un tono che
conosco bene. Dipende, rispondo io.
Da cosa, mi chiede lui. Dipende da
cosa mi vuol dire, gli rispondo, e da
cosa vuole per dirmelo.
Frateschi, mentre parlava, aveva
teso istintivamente la mano verso la
bottiglia; appena dopo averla presa,
la spostò di circa cinque centimetri a
destra, si fermò un attimo e
ricominciò a parlare.
Ha fatto finta di offendersi –
riprese. – Io non voglio soldi, mi
dice, ma per chi mi prende? Io
voglio che si metta una pietra sopra
a questa storia. Ha già fatto troppi
danni, non è il caso che ne faccia
ancora. Qui siamo d’accordo, gli
faccio io. Come si fa? La vengo a
trovare io o passa lei? Guardi, io
sono un po’ anziano, se passa lei mi
fa un favore. Va bene, gli faccio io.
Verso le due potrebbe andar bene?
Guardi, a quell’ora io faccio un
riposino. Poi ho un po’ da fare.
Preferirei se passasse alle cinque. Va
bene, allora. Passo alle cinque.
Indirizzo, ci vediamo dopo, buona
giornata, arrivederla e grazie.
– Dalle due alle cinque? – chiese
Alice. – E quanto durava ’sto
riposino?
– Si vede che aveva già contattato
altri colleghi – rispose Frateschi,
allargando i pollici ma restando a
dita intrecciate. – Non mi stupirei.
Fanno così, spesso. Chiamano tutti e
danno un assaggino. Poi ti fanno
capire che sono anziani, che vivono
con la minima, che un aiutino
sarebbe gradito, il suo collega
dell’altro giornale mi ha promesso
che un centinaio di euro me li
allunga. E poi ti guardano.
– Vuol dire che sapeva davvero
qualcosa, secondo lei?
– Di sicuro ne era convinto –
rispose Frateschi. – E di sicuro
valeva la pena di andarlo a trovare.
E così ho fatto.
– Alle cinque in punto?
– Alle cinque in punto – confermò
il giornalista. – Via del Giglio 31.
Da qui è vicino, s’arriva a piedi. Un
chilometro nemmeno.
Con questo freddo? – rabbrividì
Alice. L’idea di poter andare a piedi
in via del Giglio, uno dei posti più
ventosi del paese, una piana desolata
dove l’unico rilievo era la discarica,
pardon, ora si chiama centro di
conferimento raccolta differenziata
ma sempre una discarica rimane, era
una roba che la faceva star male solo
a sentirne parlare.
– Camminare fa bene – disse
Frateschi, con l’aria di chi sa di
poter contare su un valido sistema di
riscaldamento. – Vado, suono, nulla.
Suono di nuovo, nulla. Busso,
macché. Provo a aspettare cinque
minuti, penso, magari è in bagno.
Riprovo, ribusso, risuono. Nulla. È
anche uscita una signora a dirmi
guardi che mi sa che il sor Ubaldo
non c’è, è già il secondo che lo
cerca.
Anche il terzo, mi sa, pensò Alice.
Però il primo l’ha anche trovato.
– Lei ha idea di chi potesse
essere?
– Un collega, direi – disse
Frateschi, stringendosi nelle spalle.
– Gliel’ho detto, conosco il tipo.
Questo avrà contattato tutti i giornali
della regione, ci scommetto. Anzi,
sono stato scemo a andare così tardi.
Avrei dovuto andarci prima.
– Sei te che porti merda, Frateschi
– disse un altro giornalista, senza
voltarsi, gli occhi sullo schermo.
– Capita se fai la cronaca nera –
rispose l’uomo, annuendo sapiente.
– Ti chiamano solo quando muore
qualcuno. E io n’ho visti parecchi.
Sono trent’anni che faccio questo
lavoro.
– Però lei a questo caso ci tiene
particolarmente – disse Alice. Il
tono non era quello di una domanda.
– Si nota tanto? – chiese il
giornalista, mentre allungava la
mano verso la bottiglia, spostandola
di altri cinque centimetri verso
sinistra, si vede che la scrivania
aveva un po’ perso l’equilibrio.
– Si legge, piuttosto – disse Alice,
mostrando col dito il quotidiano di
due giorni prima.
– Sì, signor vicequestore – rispose
il giornalista. – O vicequestora?
– Io preferisco vicequestore.
– Ha ragione. Vicequestora non è
un titolo, è la formula d’inizio di una
litania. Vicequestora mortem
nostram amen. Non si può sentire.
Comunque sì, ci tengo. Sa, è stato il
mio primo caso. Ero uno sbarbatello
di provincia, col diplomino in tasca,
e mi trovo assegnato un caso di
importanza nazionale. È così che mi
hanno assunto.
– E perché l’hanno assegnato a
lei?
– Vallo a sapere – rispose
Frateschi. – Conoscevo bene
l’ambiente. Ero giovane, e
conoscevo i giovani. E nel delitto
c’erano coinvolti dei giovani. Si
credeva, si dava per scontato, che
c’entrassero dei giovani. Il mio
direttore credeva che magari i
giovani si sarebbero fidati di più di
un giovane. C’era il ’68, signor
vicequestore. Lei non ha idea di
come si viveva.
– Guardi, comincio a farmene
un’idea precisa, invece.
– Non credo proprio. Con tutto il
rispetto, sa cosa dovrebbe fare per
avere idea di cos’è stato il ’68?
– Cosa?
– Dovrebbe dare un’occhiata al
1967. Le foto di famiglia del 1967.
Le trasmissioni televisive del 1967.
Le foto di classe del 1967. Lì
capirebbe che salto c’è stato.
Comunque, tornando al nostro
discorso, s’era nel 1968. E qualcuno
c’è rimasto. E quando...
Lei mi diceva che si dava per
scontato che c’entrassero i giovani –
tranciò la commissaria, pardon, il
vicequestore. – E invece?
Frateschi alzò lo sguardo verso
Alice, con aria disillusa.
– E invece chi lo sa. Invece di
indagare, se la presero con un
poveraccio che aveva un alibi di
ferro. Decisero che doveva essere
stato lui, e non guardarono da
nessun’altra parte. Luraschi era un
industriale, e a qualcuno magari
pestava i piedi. Luraschi era
avvelenato di sesso, era fissato con
le donne, magari qualche marito
geloso poteva esserci. Si diceva
anche che avesse avuto un figlio al
di fuori del matrimonio. Andarono a
vedere qualcuna di queste piste? –
Frateschi prese il giornale con
l’articolo che lui stesso aveva
scritto, pochi giorni prima, e lo
ripiegò, con decisione. – Lei non ha
idea dello shock che fu per me,
ragazzotto pieno di ideali, che
sognavo di seguire gli inquirenti in
azione, vedere come si facevano le
indagini. Ho visto più di cento
omicidi nella mia carriera, e non ho
mai visto delle indagini fatte male
come quella volta.
– Stavolta vedremo di essere
all’altezza. Sempre che non sia
troppo tardi –. Alice, con sollievo, si
alzò dalla sedia. – Bene, signor
Frateschi. La ringrazio del suo
tempo. Se dovessi avere ancora
bisogno di lei...
– Mi trova qui, o al cellulare.
Ecco. Passi pure il mio numero al
magistrato direttamente, se vuole.
Alice non ne era sicura, ma il
rumore che sentì mentre
oltrepassava la porta sembrava
quello di un tappo di bottiglia che
veniva svitato.

Svitato, sì. Dispiace parlar male di


un collega, ma Frateschi ha qualche
problemino. Si figuri che gli hanno
anche ritirato la patente, vien qui in
treno da Livorno tutte le mattine. In
teoria sarebbe in pensione, ma non
ha niente da fare e nessuno con cui
stare. Ha avuto anche qualche
disgrazia, credo che quando era
giovane gli sia morta la moglie. Un
bravo giornalista, anzi bravissimo,
ma preferisco leggere i suoi articoli
che andarci a cena, ecco.
Alice non ribatté subito, perché
era troppo impegnata a attribuire
un’età alla persona che le stava
davanti.
Piccolo, magro, minuto,
Giancarlo Posinato era entrato in
redazione e si era andato a sedere
alla scrivania senza nemmeno
togliersi il cappello, un Borsalino
scuro che sarebbe stato più adatto a
suo nonno. Sotto il cappello, come il
gambo di un fungo, c’era un viso
liscio e privo di rughe, quasi privo di
espressione, interrotto solamente da
un paio di baffetti assurdi che
sembravano disegnati con il
pennarello. Più che un giornalista,
sembrava un bambino mascherato
da Zorro.
– Lei però non si occupa di
cronaca nera – osservò Alice,
puntando l’indice sull’articolo di
giornale che si era portata dietro.
– No, no. Non particolarmente. Io
sono più un giornalista investigativo.
Mi occupo di inchieste. Cerco di
segnalare gli illeciti, non aspetto che
qualcuno trovi un cadavere. Quello
non è giornalismo, è cronaca.
– E quindi perché si è occupato di
questo caso?
Perché, mi chiede. Per due motivi.
Primo, se da una parte trovo assurdo
che un magistrato perda tempo e
risorse dello stato per riaprire un
caso di cinquant’anni fa, dall’altra
non posso fare a meno di notare che
se la confessione di Alberto Corradi
fosse vera, la cosa in linea teorica
potrebbe avere delle conseguenze
pesanti a livello di successione. Se
davvero Corradi avesse ucciso
Luraschi – Posinato prese una Bic
col cappuccio nero dalla scrivania e
la tolse, lasciando al suo posto solo
quella col cappuccio rosso –, allora
ci sarebbe di mezzo una eredità
illegittima. Magari ci sono in giro
altri eredi esclusi a suo tempo – il
giornalista prese una matita dalla
tazza con lo stemma del Milan piena
di penne e la appoggiò sulla
scrivania, accanto alla biro rossa –,
che potrebbero rivendicare o
accampare diritti.
– E questo è un motivo – disse
Alice, guardando come affascinata
la penna e la matita sulla scrivania.
Poi, alzando lo sguardo, chiese: – E
il secondo?
– Il secondo – disse Posinato,
togliendo il cappello rosso alla biro
che aveva impersonato Alberto
Corradi e iniziando a giocherellarci,
rotolandoselo tra le dita – è che io
lavoro in un giornale, e seguo quello
che mi dicono di seguire. E se il
direttore mi dice di parlare del caso
Luraschi, io parlo del caso Luraschi,
e cerco di dire delle cose coerenti. E
di cavare sangue dalle rape, come in
questo caso.
E con l’uso di tale modo di dire,
Giancarlo Posinato si tolse anche il
proprio cappello, rivelando una
pelata che dette un drastico giro
all’indietro alla data di nascita,
mettendola più o meno all’epoca dei
fatti di cui si stava parlando, o anche
prima.
– È per questo che quando Ubaldo
Giaccherini l’ha contattata, è andato
a trovarlo? Voleva avere nuovo
materiale?
– Esattamente. Giaccherini per
telefono mi aveva detto in modo
molto chiaro che aveva delle
informazioni, e mi ha chiesto se ci
potevamo vedere. Mi ha dato
appuntamento alle quattro.
– E lei ci è andato?
– Alle quattro in punto ho suonato
il campanello. Poi, visto che nessuno
rispondeva, ho provato a chiamare al
telefono. Ho sentito il telefono che
squillava, su, nell’appartamento, ma
niente.
– Qualcuno l’ha vista?
– Sì, una vecchietta dalla casa
accanto. Sa, una di quelle che usano
la finestra come televisione.
– Le ha parlato?
– Mi ha chiesto se cercavo
qualcuno, io le ho detto che cercavo
Ubaldo Giaccherini. Lei mi ha detto
che abitava proprio lì, e che di solito
a quell’ora era in casa. Ho aspettato
qualche minuto, e poi sono andato
via.
– Non si è chiesto cosa potesse
essere successo?
– Lì per lì mi sono detto che
poteva essersi addormentato. Ho
provato a richiamare, la sera, ma
non mi ha risposto nessuno. La
mattina dopo ho scoperto il perché.
Sì. In effetti non c’era molto di
nuovo da scoprire.
– E quindi che ore erano, più o
meno, quando ha ritelefonato a
Giaccherini, la sera?
– Saranno state le nove, nove e un
quarto.

«... giunti sul luogo alle ore nove


e quarantacinque. Il luogo risulta
una villa viareggina su due piani. Il
piano terra è composto da un
ingresso, cui si accede direttamente
dalla porta d’ingresso, un salotto,
una cucina e un bagno, e al primo
piano c’è una zona notte composta
da due camere e un bagno (vedi
Allegato A). Al luogo si può
accedere dalla porta d’ingresso al
piano terreno così come da alcune
finestre il cui davanzale è ad una
altezza di cm 120 dal suolo. La
temperatura all’interno del luogo è
di 25.6° C rilevata tramite
termostato posto accanto alla porta
d’ingresso. La luminosità è
sufficiente. Non si apprezzano odori
o aromi di immediata rilevanza».
Ad ascoltare distrattamente la
voce monotona che leggeva, poteva
venire in mente di trovarsi in una
agenzia immobiliare al momento di
archiviare i resoconti delle visite
giornaliere degli appartamenti in
affitto. C’erano solo due piccoli
particolari che stonavano.
Il primo particolare era che
l’impiegato che stava leggendo il
resoconto aveva un’aria tranquilla e
rassegnata, con un pizzico di
tristezza di circostanza; più che
affittare case, uno che vende casse
da morto. Il secondo particolare era
che l’unico ritratto presente nel
piccolo studio in cui Alice si trovava
non era la foto della moglie
dell’uomo, ma quella del presidente
della Repubblica.
Cosa anche comprensibile,
pensava Alice, perché l’idea che
qualcuna potesse sposare un uomo
come Sergio Brodolini le rimaneva
aliena.
– «... il cadavere era riverso sul
pavimento del salotto, in posizione
semiprona (per la precisa
disposizione vedasi Allegato B). A
esame preliminare, il cadavere
presenta molteplici ferite al cranio
inferte presumibilmente con un
oggetto smussato...».
Uno che il primo giorno in cui
prendeva servizio metteva fuori
dalla porta la targhetta di bronzo con
scritto «S. Brodolini – Sostituto
procuratore della Repubblica» e poi
si lamentava perché i colleghi lo
chiamavano Sbrodolini.
– «... il nipote, a domanda,
rispondeva che non era in grado di
stabilire se mancasse qualcuno degli
oggetti che solitamente si trovavano
nella stanza...».
Uno che nella stanza in cui si
trovavano, a parte il ritratto di
Mattarella, aveva appese alle pareti
solo alcune riproduzioni di quadri
astratti del Novecento. Mondriaan,
Malevič, Kandinsky. Le piace l’arte
astratta? aveva chiesto Alice, stupita
e anche uno zinzino preoccupata che
un tipo così flaccido e ordinario
avesse un senso artistico tanto vicino
al suo. No, le aveva appese il mio
predecessore, io le ho solo lasciate
lì, aveva detto Brodolini. Non danno
certo fastidio, aveva aggiunto.
Quello era Sergio Brodolini: uno
che lasciava le cose come stavano. A
meno che non gli dessero fastidio.
Ma, apparentemente, erano
veramente poche le cose che lo
infastidivano.
«... la maniglia della porta
d’ingresso presenta evidenti tracce
di pulitura, così come i braccioli
della poltrona situata di fronte alla
posizione in cui è caduta la vittima,
reperto n. 6 (vedasi Allegato C)».
Giunto a quel punto del rapporto,
il magistrato distolse lo sguardo dai
fogli che teneva in mano e lo portò
su altri fogli che teneva sulla
scrivania.
– Stamani, come le avevo detto,
ho interrogato Bardelli Pino, il
nipote in questione.
– Pinolo.
– Esatto, Pinolo. Siamo tornati
insieme sulla scena del crimine. A
mente fredda, si è ricordato che
manca qualcosa. Un soprammobile,
una grossa ape di bronzo che stava
sul tavolo vicino al quale è stato
trovato lo zio.
Brodolini, prendendo in mano un
altro foglio, lo mostrò ad Alice. Sul
foglio, c’era il disegno di una
scultura a forma di uovo con un
pungiglione in fondo, o in cima,
insomma a una delle due estremità,
montata su una base cubica.
– Quindi, il Bardelli Pino ha
descritto l’oggetto al medico legale,
il quale conferma che è compatibile
con l’arma che ha ucciso il
Giaccherini Ubaldo –. Brodolini,
prendendo in mano un altro foglio,
continuò a parlare mentre scorreva
le righe scritte. – Il medico legale ha
stimato l’ora della morte tra le
quattordici e le sedici del giorno in
cui è stato trovato il corpo. Il nipote
conferma anche che lo zio aveva
dato appuntamento a varie persone
nel corso del pomeriggio. Conferma
inoltre che, di queste persone,
l’unica che lo zio conoscesse
direttamente era il Corradi Matteo.
C’erano poche cose al mondo, si
diceva prima, che infastidissero
Sergio Brodolini. Ma era palese,
dalla faccia, che in cima a tale breve
elenco c’era scritto:
«A) Esistenza di Matteo Corradi».
– Credevo di aver capito che la
conoscenza era assolutamente
superficiale – disse Alice,
scavallando le gambe e
accavallandole di nuovo, ma
nell’ordine opposto.
– Infatti, assolutamente
superficiale – ammise il magistrato,
annuendo, come se riconoscesse che
quello era l’unico modo adatto per
conoscere il detto Matteo Corradi, se
proprio uno doveva. – Ma entrambi
avevano contezza del ruolo l’uno
dell’altro. In particolare il Corradi
sapeva che il Giaccherini Ubaldo era
stato contabile nella ditta di
famiglia.
Il Giaccherini Ubaldo. Strano
come l’articolo determinativo
davanti al cognome, che in Toscana
si usa per dare un’aria di familiarità,
per dire «è proprio il Giaccherini
che conosco io, non un altro
Giaccherini», con il nome aggiunto
dietro diventi ancora più specifico e
assuma tutto un altro tono.
– Comunque, io sono convinto
che tale conoscenza si sia
sviluppata, nel corso della giornata
in cui il Giaccherini Ubaldo è stato
ucciso –. Il magistrato si permise un
lieve sorriso, di quelli fatti col
manuale d’istruzioni. – E anche lei è
d’accordo con me, mi diceva. E mi
diceva di avere una possibile pista di
indagine.
– Esatto – disse Alice, mentre
scavallava definitivamente le gambe
e si sedeva comoda. – Allora,
recentemente ho saputo che Matteo
Corradi è un fanatico della
tecnologia. In particolare, della
domotica e della informatizzazione
dell’abitazione. Se c’è qualcosa di
nuovo in giro che non ha, se lo deve
prendere prima di subito e
installarselo in casa.
Il magistrato fece una piccola
smorfia, come quello che sa di cosa
si sta parlando.
– Lei intende esaminare la
dotazione elettronica dell’abitazione.
– Esatto. Cerco tracce del
Pollicino digitale che abita in
ognuno di noi, per parafrasare il
Pascoli.
Se il magistrato aveva apprezzato
la citazione letteraria, non ne fece
cenno.
– Le firmo subito un mandato di
perquisizione per l’abitazione del
Corradi Matteo.

– Matteo Corradi.
Alice mise di fronte a Massimo
un piattone colmo di spaghetti
letteralmente ricoperti di briciole di
pane abbrustolito. Spaghetti con la
muddica atturrata: pane raffermo
sbriciolato e tostato in padella con
un filo d’olio e un pochino di aglio.
Il formaggio dei poveri, le aveva
raccontato Massimo la prima volta
che lo aveva fatto, perché nella
Sicilia contadina non tutti si
potevano permettere di condire la
pasta col formaggio grattugiato. Una
tipica ricetta siciliana. Veramente,
aveva obiettato Alice, la pasta
condita col pane croccante la fanno
anche in Val d’Orcia. Se uno dei due
fosse stato siciliano, o senese,
probabilmente si sarebbero messi a
discutere su chi dei due avesse
ragione e la cosa avrebbe tolto
l’appetito a entrambi; essendo
entrambi toscani di costa, avevano
convenuto che tale abbinamento,
oltre a riempire efficacemente lo
stomaco dell’indigente, era
veramente bòno da fare schifo e
avevano diluviato la pasta senza
tanti discorsi inutili.
– Matteo Corradi – confermò
Alice, mettendosi a sedere. –
L’unico che conoscesse Ubaldo. E
per questo l’unico che, secondo
Brodolini, avrebbe avuto un motivo
per ucciderlo.
Massimo non disse niente, per
qualche secondo. Non perché non
gli interessasse, ma perché si stava
mettendo in bocca la prima
forchettata di pasta. La più buona,
quella che non ammette interferenze
di nessun tipo, nemmeno quelle
gradite, come due bei discorsi con la
tua fidanzata sull’ultimo morto
ammazzato fresco fresco.
– E secondo te? – chiese
Massimo, dopo aver deglutito.
– Secondo me... – Alice finì di
compattare il rotolino di spaghetti,
se lo mise in bocca e masticò,
continuando a rispondere a bocca
piena – ... thutti i forfi nhon ce li ha.
Ma c’è un fhroblema.
– C’è un problema sì. Se continui
a parlare mentre mangi gli spaghetti,
prima o poi ti soffochi. Prima
divorziato e poi vedovo anche no,
grazie.
– Perché il problema sarebbe solo
tuo, al solito, vero? Tipico dei
maschi. Ti faccio notare che a me
andrebbe un filino peggio.
Comunque, no – pausa, forchettata,
ciomp – il fhroblema è che Matt-
heocorradi ha un alibi.
– Un alibi. E sarebbe?
– Sarebbe che dalle due alle
cinque e mezzo del pomeriggio, cioè
al momento del delitto...
– Di questo siete sicuri? No,
perché è già successo...
– Al ’ento per cento – disse Alice
deglutendo. – Giaccherini è stato
ucciso tra le due e le quattro. E tra le
due e le quattro, anche più in là,
Matteo Corradi si trovava a casa sua,
con la moglie. La moglie,
interrogata dal magistrato, ha
confermato.
– La moglie e solo la moglie? –
Massimo non alzò nemmeno gli
occhi dal piatto. – Ho fatto bene
allora a usare il condizionale.
– Infatti. Anche io non ne sono
per niente convinta. E Sbrodolini,
figurati. Se potesse ricorrere alla
tortura, l’unica preoccupazione
sarebbe «su quali fondi faccio
acquistare la vergine di Norimberga?
Materiale d’ufficio o spese
mediche?» – Alice, giustiziata
l’ultima forchettata di pasta, passò
l’indice sul piatto e catturò le poche
briciole di pane rimaste,
ciucciandosi poi la punta del dito
con la soddisfazione di una
bimbetta.
– A proposito di spese, le hai mica
pagate le bollette?
– Le bollette... no, guarda,
Massimo, stamani ho avuto una
valanga di roba da fare e non ho
proprio avuto il tempo materiale.
Poi, se anche lo avessi avuto, le ho
messe in borsa e poi m’è passato di
mente. Se te le lascio me le paghi te?
Vanno pagate al più presto perché
domani quella della luce scade.
Guarda, te le prendo subito.
Mentre Massimo sparecchiava,
Alice prese la borsa di
inconsapevole animale andino e
cominciò a frugarci dentro. Dopo
non troppi secondi, iniziò a tirare
fuori la roba di malagrazia,
biascicando una sequenza di
incoerenze a denti stretti, tipo «altro
che smartphone, il giorno che
inventeranno la borsa intelligente
sarà un gran giorno per l’umanità,
altro che, ma dove cazzo, ecco, no,
questi fogli son tre volte che mi
tornano in mano, to’, più in basso di
lì non vai» mentre una cartella piena
di fogli e foglietti si squadernava per
terra.
Massimo, con pazienza, si mise a
raccogliere tutti i fogli che erano
fuoriusciti dalla cartella e che, pur
essendo in un appartamento con le
finestre chiuse, avevano trovato
misteriose correnti d’aria che li
avevano fatti planare negli angoli
più reconditi della stanza, tra cui uno
esattamente sotto al divano in
alcantara e piombo ghisato che
sarebbe stato più facile da spostare
se fosse stato imbullonato al
pavimento.
– Ooooh, eccole – disse infine
Alice, posando sul tavolo un
mazzetto di fogli rettangolari. – Che
poi non capisco perché non le vuoi
domiciliare, ’ste cavolo di bollette.
Ogni volta è un martirio.
A cose normali, Massimo avrebbe
risposto con pedante assertività che
era già successo che arrivassero
bollette da seicentonovanta euro per
l’acqua, e la cosa si era rivelata
puntualmente un errore. Però, se la
bolletta fosse stata domiciliata,
l’azienda dell’acqua i soldi se li
sarebbe presi lo stesso e quanto a
ridarteli magari in tre o quattro mesi
li rivedevi; nel frattempo dovevi
chiamare talmente tanti uffici che
due mesi dopo ti sarebbe arrivata
una bolletta del telefono da paura,
quella sì incontestabile. Ma nella
fattispecie Massimo non rispose, e
non rispose perché stava leggendo.
– Massimo?
E quando Massimo leggeva, la
sua concentrazione di solito era
notevole. In questo caso, però, dato
che quella che aveva davanti era una
sequenza di numeri incolonnati, ci si
sarebbe aspettati al massimo uno
sguardo distratto. Invece, a giudicare
dai movimenti oculari, la
concentrazione di Massimo su quei
fogli era più accesa che mai.
– Massimo, cosa cavolo fai?
– Leggo.
– Quello lo vedo – disse Alice,
prendendo con cura il foglio da sotto
il naso di Massimo.
– E allora perché me lo chiedi?
– Perché stavi leggendo un foglio
di tabulati telefonici – disse Alice,
mettendo il detto foglio nella
cartellina con scritto «Giaccherini
Ubaldo – SDI». – Va bene che leggi
di tutto, ma mi sembra che ogni
tanto tu prenda le cose un po’ troppo
alla lettera.
– Sempre fatto – rispose
Massimo, mentre si impadroniva
delle bollette. – Per esempio, se
qualcuno mi dice che le bollette le
paga lei, ho questa paradossale
tendenza a capire che quelle bollette
le pagherà lei.
– Mi dispiace, sai, tesoro, ma io
adesso sarei impegnata a indagare su
un omicidio e a raccogliere indizi
validi per poter arrestare una
persona.
– Se mi vai a pagare le bollette te
ne do uno – disse Massimo, mentre
riuniva le bollette in un bel mazzetto
ordinato.
– Massimo, su una cosa siamo
d’accordo – disse Alice, mentre
ricomponeva il cadavere della borsa.
– Meno ti occupi del mio lavoro, e
meglio sto. Non è per sfiducia, lo
sai. Certe cose meno si sanno in giro
e meglio è.
– Io ti offrivo un dato oggettivo,
non un pettegolezzo – ribatté
Massimo.
Sì, con una bieca transazione
commerciale dietro – rispose Alice,
compattando la borsa con qualche
pacca sui fianchi del defunto
animale. – Saresti capace di farlo
anche col tu’ figliolo, se mai ne
avremo uno.
Capita, a volte, che una parola
cambi completamente la situazione
comportamentale di un gruppo di
persone. Dipende dalla situazione, e
dipende dalla parola. Attenti, detta
da un professore, significa «attivate
al massimo il cervello», detta da un
sergente significa quasi il contrario.
Anche la parola «figlio», detta in un
discorso tra Massimo e Alice, in
quel periodo generava conseguenze
opposte a quella sensazione di
dolcezza e senso di protezione che
qualsiasi accenno a un bambino in
arrivo di solito produce.
– Alice, adesso te ne dico un altro
di dato oggettivo, e stavolta
esplicitamente – disse Massimo,
lentamente, in modo quasi scandito.
– Io ho quasi cinquant’anni. Te l’ho
detto, e lo sai. Non me la sento.
– Massimo, io invece ne ho
trentasette. Anche questo è un dato
oggettivo. Anzi, te ne aggiungo un
altro: su questa terra siamo sette
miliardi, di cui tre e mezzo maschi.
Magari qualcuno che ha le palle per
davvero riesco ancora a trovarlo.
Non c’è niente da fare. Dette da
una donna, le cose volgari sono
ancora più fastidiose.
Anche perché di solito hanno un
motivo.

– Massimo...
– Dimmi bella.
– Ma prima, quando mi hai detto
che se andavo a pagare le bollette mi
davi un indizio, dicevi sul serio?
– Ahimè, mi dispiace, no. Perché?
– No, nulla. Scusa. Buonanotte.
Otto

– Io ci andrei di rinquarto.
– Io no.
Pilade, dopo aver brandeggiato la
stecca avanti e indietro un paio di
volte, dette un colpo breve e deciso
e la palla (quella di avorio) partì con
silenziosa decisione verso la sponda
lunga. Sponda lunga, sponda corta,
per poi schioccare delicatamente
contro la palla gialla, mandandola
verso l’esterno del tavolo lungo una
direzione parallela al bordo di
velluto, mentre la palla bianca
proseguiva lungo la sponda lunga,
formando con la traiettoria della
gialla collega sferica un angolo retto
quasi perfetto.
– Ber troiaio – disapprovò
Ampelio.
– È un colpo di difesa – disse
Pilade, appoggiando alla sedia la
palla (quella di ciccia, in camicia e
pantaloni). – E comunque magari
quando tiro chètati un attimino.
Quando si gioca si sta zitti.
– E ci se n’è avvisti, stai
tranquillo – disse Gino, mentre si
avviava grifagno verso la difesa di
Pilade, deciso a smantellarla. –
Stamani ’un c’è verso di fatti di’
nulla. E sì che di cosine belline ne
dovresti sape’.
Pilade, coerentemente con quanto
sostenevano i colleghi di vecchiaia,
tacque. Gino, dopo una rapida
occhiata per confermare la prima
impressione, decise che si vedeva
quel tanto di palla che bastava per
tentare il filotto. Chinatosi sul
biliardo con tutta la rapidità dei suoi
ottant’anni, appoggiò la mano sul
panno aperta a ventaglio, prese la
mira e colpì. Palla, sponda, sponda,
sponda. E, in mezzo, una strage di
birilli.
– Gino, segna dodici – disse Gino,
avviandosi al segnapunti dopo
essersi rialzato dal biliardo con
orgogliosa cautela.
– Bella difesa, sì – commentò
Ampelio. – Ha fatto più punti lui
con un colpo che te in tutta la
mattina.
– Ragazzi, abbiate pazienza, ve
l’ho detto – disse Pilade, vedendo
che la sua capacità di difendersi
veniva messa in dubbio. – Non ne
posso parlare. Non è solo che ho
promesso ad Alice, ho firmato un
contratto di consulenza con la
Polizia di Stato. Ho sottoscritto che
non posso fare menzione ad alcuno
dei contenuti inerenti all’indagine
che trovo nei materiali a me
assegnati. Non posso farne cenno ad
alcuno.
– To’, ma io ’un sono mìa alcuno.
Io sono Ampelio.
– E io sono Pilade, e se prendo un
impegno ufficiale con la mi’ firma
sotto lo mantengo. Se facessero tutti
come me, questo mondo sarebbe un
posto parecchio migliore.
– Sì, ma anche parecchio stretto.
– Bimbi, io di quello che c’è
scritto sui diari non ne posso parla’ –
si trincerò Pilade. – Mi poi da’ der
ciccione finché ti pare, io non ti cào.
Se vi va bene è così, se ’un vi va
bene è così lo stesso.
– Carattere chiuso, certo...
In quel momento, la porta a
pendolo tra sala e bar si aprì ed entrò
Massimo, reggendo in mano un
vassoio.
– Allora, eccoci qua. Un bel
coffee break per il Dipartimento
Risorse Anziane. Corretto al
sassolino per il Rimediotti, caffè
semplice per il nonnaccio, spuma
bionda per Aldo e un bell’estratto di
sedano e finocchio per i
collaboratori delle forze dell’ordine.
Tutto giusto?
– A parte l’aggettivo che hai usato
per l’estratto, sì – disse Pilade. – Te
guarda lì cosa mi tocca butta’ giù.
Mettimelo lì, Massimo, grazie.
– Grazie una sega – disse
Massimo, riappoggiandosi alla porta
a pendolo per uscire. – Se vi lascio
tazze e bicchieri qui mi ritrovo il
biliardo col panno Missoni. Per cui,
giovanottini, quando volete bere
venite di qua al bar.
Ampelio, appoggiando la stecca al
muro, prese il bastone e dette una
piccola pacca lignea sulla spalla del
compagno.
– Via, Pilade, che un po’ di moto
ti fa bene.
– Anche a te ti farebbe bene –
ribatté Pilade, serafico. – Potresti
incomincia’ andando in culo, alle
vorte.
– Allora mòviti.
– Un attimo – disse Pilade,
portando le mani alla giacca. – Mi
sòna la tasca. Rispondo e arrivo.
– Sbrigati che l’estratto di sedano
è bòno fresco.
– L’estratto di sedano è bòno se se
lo beve quarcun artro... – rispose
Pilade mestamente, prendendo il
telefono in mano e premendo col
ditone. – Vilma, pronto. Sì. Sì.
Dimmi.
Mentre Pilade rispondeva alla
moglie, il resto della compagnia si
diresse verso il bar a passo
tranquillo, e si sistemò con calma al
solito tavolino.
Fu solo dopo qualche minuto che
Pilade, a passo placido, entrò nella
saletta del bar, mentre spegneva il
cellulare. Del resto Pilade o parla o
cammina, tutte e due le cose insieme
gli fanno venire il fiatone.
– Era la Vilma.
– De’, chi voi che ti telefoni a te?
Mattarella? – disse Ampelio, mentre
annusava il caffè.
– Se volete vi posso anche dire
cosa m’ha detto – fece Pilade,
accomodandosi al tavolino dopo
aver allontanato bene la seggiola.
– Se ci tieni tanto, vai. Siamo
tutt’orecchi. Cosa prevede il menù
di oggi? Pane e acqua?
Pilade allungò una mano verso il
bicchiere di succo verde, e ne prese
una sorsatina soddisfatta, come se
fosse qualcosa di buono per
davvero.
– No, quello tocca a Matteo
Corradi – disse, posando il
bicchiere. – L’hanno arrestato
mezz’ora fa.

– Arrestato proprio, dice –


confermò Ampelio, dopo una rapida
telefonata alla Tilde, nonna di
Massimo, moglie di Ampelio e
amica di tutti, specialmente se c’è da
ciacciare su qualcuno. – Colle
manette e tutto. Sono andati a
prendello direttamente in ufficio,
mentre era lì tutto tronfio che
amministrava e delegava.
– Boia, deve essere successo
proprio ora ora – commentò
Marchino, guardando sul telefono. –
Non c’è ancora nemmeno sur sito
der «Tirreno».
– Sèi, ir sito der «Tirreno» – disse
Ampelio. – La Tilde le cose le sa
prima che succedano e anche se ’un
succedano, lei le sa lo stesso.
– Confermo – disse Massimo,
calmo. – Se lo sa nonna non è detto
che sia successo, ma se non lo sa di
sicuro non è successo nulla.
– E insomma n’hanno proprio
messo le manette? – chiese
Marchino, mentre i vecchietti
sedevano con gli occhi luccicanti,
orgogliosi di avere nuovamente il
centro della scena e del loro social
network analogico. Se è successa
una disgrazia, condividila su
Menagram.
– Eh, pare di sì – confermò
Ampelio.
– Una roba sobria – notò Aldo.
– Per una vorta che arrestano un
delinguente, sempre troppo pòo –
disse il Rimediotti, assertivo. –
Anzi, ogni tanto, quando
condannano quarcuno, ogni tanto ci
rivorrebbe un po’ di gogna. Un euro
a pomodoro marcio, e ci risani ir
bilancio dello stato. Quando è
condanna definitiva, eh, per carità,
però de’, per certi personaggi ci
finirei la pensione.
– Bravo brodo, così li ridai tutti ai
loro eredi – fece notare Aldo. – Con
uno come te Gino altro che
fascismo, s’era ancora ai tempi del
papa re. Massimo, scusa, ma
stamani non dicevi che il Corradi
aveva un alibi?
In teoria, sì – confermò Massimo,
guardando i vecchi nello specchio
mentre si preparava il secondo caffè
della giornata. – Però tieni anche
conto che l’alibi glielo ha fornito la
moglie. E a quanto so, solo e
soltanto la moglie. Fai abbastanza
presto a smontarlo, un alibi del
genere, se è falso. E se lo hanno
arrestato, ho come la sensazione che
lo fosse.
Breve silenzio, rotto solo da
Pilade che sollevava il bicchiere e
prendeva un sorso. Non un granché,
come rumore, ma non c’era
veramente altro da descrivere.
– Se tu vòi ti sei fidato – disse
Pilade infine, mentre posava sul
tavolo il bicchiere ancora mezzo
pieno, va bene la soddisfazione ma
un estratto di sedano è pur sempre e
comunque una roba che bevi perché
devi. – Se me lo dice la Vilma che
l’hanno arrestato, anche se ’un
telefoni in qua e in là...
– Io mi fido di chi si fida di me –
rispose Ampelio, rimettendo il
telefono sul bancone. – Ci si
conosce da una vita, e ’un ci vòi di’
nulla.
– È proprio per quello che non ci
vuole dire nulla, sai – ipotizzò Aldo,
mentre ravanava nell’impermeabile
e ne traeva un pacchetto di sigarette.
Indi, trovatolo, se ne mise una in
bocca. Poi, mentre tirava fuori
l’accendino, incontrò nella
specchiera lo sguardo di Massimo e
lo rimise a posto. – Comunque la
sostanza rimane quella – continuò,
senza togliersi la sigaretta dalle
labbra. – Pilade non ha la minima
intenzione di dirci cosa ha trovato
scritto nel diario, e se non ce lo dice
non abbiamo la benché minima
possibilità di scoprirlo da soli.
Dong.
I quattro vecchietti, dopo essersi
voltati verso Massimo, si
guardarono negli occhiali con
sconcerto. Poi, nuovamente, e
lentamente, si voltarono verso
Massimo, ancora con il batacchio
fumante in mano, mentre il suono
della campana si smorzava.
– Scusate, lo ammetto, questa
magari non è una cazzata clamorosa,
ma è comunque un errore.
E poi mi piace talmente tanto
usare questo oggetto che non ho
saputo resistere.
– E dove sarebbe, di grazia,
l’errore? – chiese Pilade. – Sei
convinto di riusci’ a fammi parlare?
Guarda, nemmeno sotto tortura.
– Mah, seòndo me Massimo
penzava più al ricatto – disse
Ampelio ridacchiando. – Ora
telefona alla tu’ moglie e gli dice
guarda Vilma che il tu’ marito ha
appena mangiato sei paste, io se
fossi in te per pranzo gli darei una
bella minestra di discorsi.
– No, non mi riferivo a quello –
disse Massimo. – Mi riferivo al fatto
che non abbiate la minima
possibilità di sapere cosa c’è scritto
sui diari di Ubaldo. Se ragionaste un
attimo, almeno una delle
informazioni fondamentali che
Pilade ha letto sul diaro, anzi,
probabilmente quella più
importante, potreste dedurla da soli.

Massimo poggiò una mano sulla


campana, delicatamente, come a
ringraziarla per il disturbo.
La vita è una questione di
cambiamenti – proseguì Massimo. –
La stessa cosa, lo stesso atto, ha
significati e conseguenze parecchio
profondi a seconda di cosa è
successo prima. Una bella canzone
ascoltata una volta ti dà piacere.
Ascoltarla cinquanta volte di fila
inizia a somigliare a una tortura. Lo
spiegavo giusto stamani al mio
vicino di casa, che ha avuto la bella
idea di tirare un secchio d’acqua
calda sul parabrezza per levarci il
ghiaccio. Risultato, il parabrezza è
esploso, e questo genio si è ritrovato
gli interni in lana di vetro, ma prima
della lavorazione. E sai come si è
giustificato questo fesso? Ma è tutto
l’inverno che lo faccio, finora non
era mai successo niente.
– Si vede che ieri notte era
parecchio più freddo del solito –
disse Aldo, giusto per far notare che
qualche rotella funzionava anche a
lui.
– Esatto. Allora, proviamo a
ragionare. Cosa è successo oggi, che
non era successo ieri? Quale
fondamentale novità siamo venuti a
sapere?
– De’, che Matteo Corradi è
indagato per l’omicidio – disse
Gino, cogliendo al volo
l’opportunità di dire qualcosa di
incontestabile.
– Quale omicidio, Gino? Abbia
pazienza ma ce ne sono due,
dobbiamo essere ambigui il meno
possibile.
– De’, quello...
– Quello di Ubaldo Giaccherini,
esatto. L’unico che la biologia gli
avrebbe consentito di commettere,
visto che nel ’68 non era ancora
nato. Ma è necessario tenere
presente che i due delitti sono quasi
sicuramente correlati. Adesso,
chiediamoci: se qualcuno viene
indagato per omicidio significa che
ne ha avuto sia l’opportunità che il
movente. Vuol dire che ci sono
fondati motivi per credere che
Matteo avesse un movente molto
forte per uccidere Ubaldo
Giaccherini, altrimenti il magistrato
non insisterebbe. Giusto?
– De’ – disse Ampelio, in
contrappunto, con l’intonazione al
comma uno di pag. 57.
– Allora, visto e considerato che
fino al giorno prima di ricevere la
telefonata Matteo Corradi non aveva
mai avuto praticamente alcun
rapporto con la vittima, significa che
il motivo dell’omicidio è molto
probabilmente legato a quello che
Ubaldo Giaccherini avrebbe voluto
dirgli. Che è, credo, la stessa cosa
che sta scritta nel diario di cui Pilade
adesso è filologo e custode. E cosa
avrebbe voluto dirgli, Ubaldo?
I quattro vecchietti si guardarono,
incerti nel decidere chi avrebbe
dovuto recitare il ruolo di Protagora
nel dialogo socratico di Massimo.
– Voleva digli chi aveva davvero
ucciso ir su’ nonno Camillo – disse
Ampelio, alla fine.
Massimo aprì le mani, e le
richiuse.
– Eccoci. Allora. Possiamo quindi
dedurre che dalla rivelazione su chi
aveva ucciso nonno Camillo, Matteo
aveva parecchio da perderci. E
questa cosa, badate bene, Ubaldo
Giaccherini probabilmente la
ignorava. Altrimenti, non so se
avrebbe telefonato con tutta questa
tranquillità a Matteo Corradi.
Comunque, di sicuro ignorava una
cosa fondamentale, perché la
ignoravano pressoché tutti.
– E sarebbe? – chiese Aldo, con la
sigaretta spenta ancora tra le labbra.
– Sarebbe il fatto che Alberto
Corradi non era mai stato adottato
ufficialmente da Camillo Luraschi.
È una cosa che ci ha detto Pilade,
quando ancora aveva diritto di
parola, vi ricordate?
Pilade rimase immobile. Cioè,
ancora più immobile. Aldo annuì
lentamente.
– E quindi, alla morte di
quest’ultimo – continuò Massimo –
non avrebbe avuto alcun diritto ad
ereditare, nel caso in cui Camillo
fosse morto senza lasciare
testamento. Cosa che, come
sappiamo, è effettivamente successa.
Camillo è morto senza lasciare alcun
testamento, nonostante avesse pochi
mesi di vita. Il che ci dà, tra l’altro,
un altro indizio pesante su quale sia
il nome scritto nel diario di Ubaldo.
– De’, a questo punto s’è capito
tutti – sbuffò Ampelio. – Anche lui
sapeva che era stato Alberto per
davvero.
Massimo scosse la testa.
– Contesto. Se Ubaldo avesse
confermato a Matteo che era stato il
padre a uccidere Camillo, non
avrebbe aggiunto nulla a quelle che
erano le prove già in possesso del
magistrato. Cioè una confessione
autografa e circostanziata, e non
ritrattabile in quanto il reo nel
frattempo si è reso defunto.
Difficilmente Ubaldo avrebbe potuto
far temere a Matteo di perdere
l’eredità, confermando questa cosa.
No, prima di ricevere la telefonata di
Ubaldo Matteo non aveva alcun
motivo di uccidere nessuno. Pensaci
un attimo. La catena di successioni
ereditarie è la seguente.
Massimo andò verso il vetro della
porta, ci alitò e cominciò a disegnare
col dito.
– Allora, il capostipite è Camillo,
il quale alla morte non avendo eredi
ufficiali lascia tutto alla moglie,
Franca Renata. Franca a sua volta ha
un unico figlio, Alberto, il quale a
propria volta ha un solo erede,
Matteo.
Sul vetro erano apparsi i quattro
nomi, uno di seguito all’altro,
ognuno unito da una freccia al
successivo, in ordine di eredità,
come Massimo aveva appena
spiegato.
– Camillo, Franca, Alberto,
Matteo. Se Alberto avesse ucciso
davvero Camillo, la linea ereditaria
non si sarebbe interrotta, perché
Franca avrebbe ereditato ugualmente
da Camillo.
Massimo, con gesto da
prestigiatore, mostrò come la linea
fosse bella diritta.
– A sua volta, alla propria
dipartita, perché c’era un’età
dell’oro in cui i vecchi morivano e si
toglievano dai coglioni e non
continuavano ad andare tutti i giorni
al bar a dare fastidio alla gente che
lavora, Franca avrebbe avuto tutto il
diritto di lasciare le proprie quote ad
Alberto, il suo unico legittimo figlio.
C’è un unico modo per mandare a
monte l’intera linea di successione,
ed è appunto quello di interromperla
a monte.
Massimo, dopo essersi tirato la
manica della maglia sul palmo,
cancellò la freccia che univa
Camillo a Franca, la moglie.
– Questo c’è scritto sul diario, e
questo voleva dire Ubaldo a Matteo
Corradi. Che a uccidere Camillo era
stata Franca.

– La fai facile – disse Ampelio,


dopo un momento di silenzio denso
e sciropposo, ma per nulla dolce. –
Qui c’è di mezzo una storia lunga
quarant’anni. C’è di mezzo tre eredi
e una ditta che se la chiudi parte un
casino che nemmeno Gomorra.
Aspetta, nonno. Non ci
confondiamo –. Massimo, ormai
completamente immerso nel 1968 e
nel suo clima di rottura delle regole,
prese una sigaretta e l’accese. Aldo,
che pure era sempre stato
conservatore, lo imitò nel giro di un
secondo. – Non sto dicendo che, se
fosse venuto fuori, Matteo avrebbe
perso l’eredità. Sto solo dicendo che
è possibile che perdesse l’eredità,
specialmente se un magistrato
rompicoglioni non sta facendo altro
se non cercare una scusa per poter
riaprire il caso. Rischi di perdere
l’eredità, e quindi perdi la testa. Non
sto dicendo che è automatico, sto
dicendo che è possibile. E
comunque non è questo che mi
interessa. Non siamo una corte di
giustizia, né un’aula di tribunale.
Siamo un bar, con annesso ospizio, e
stiamo facendo discorsi da bar. Per
cui, sempre con lo spirito del
discorso da bar, Pilade, ti chiedo: ho
ragione o no?
Pilade, sin dall’inizio del
discorso, era rimasto seduto, più
immobile del solito. Dopo qualche
secondo, con grossa meraviglia degli
altri, iniziò a disincagliarsi dalla
seggiolina.
– Massimo, mi tocca dirti due
cose – disse Pilade, dopo che si fu
liberato dall’abbraccio metallico
della seduta. – La prima è che ciai
davvero una bella testa.
– Sempre saputo – disse Ampelio,
con una puntina di orgoglio.
Hai una bella testa – ridisse
Pilade, mentre andava
all’attaccapanni. – Talmente bella
che se te continui a ragionare, e se io
continuo a venire al barre, magari mi
faccio sfuggi’ quarcosa che non
dovrei, e da un accenno che per me
non ha importanza te riesci a
ricostruire tutto. Laonde per cui,
Pilade si toglie da’ coglioni e finché
il caso non è chiuso sta dimorto a
casa. Tanto, casomai l’estratto me lo
fa anche la Vilma.
– Dai, Pilade, oramai quello che
dovevi tene’ segreto s’è capito –
disse Ampelio, con irritazione non
priva di un pochino di
preoccupazione.
– Avete capito una cosa. Cosa, io
non ve l’ho detto –. Pilade, infilatasi
la giacca, si accinse all’impresa di
chiudere i bottoni. – Ma capace che
se resto qui mi fate dire cose che
non dovrei dire –. Pilade chiuse il
primo bottone, in basso. – Cose che
so solo io, e solo io posso sape’.
– E Alice – disse Ampelio.
– No, nemmeno Alice – Pilade
chiuse il secondo bottone. – Alice
tuttalpiù me le può chiedere. E io a
quel punto le devo dire a lei, e solo a
lei, sennò oltre che fa’ casino
commetto un reato –. E il terzo e
ultimo bottone, guidato dalle dita
cicciottose e quasi infantili di Pilade,
trovò la via dell’asola. – Allora, è
meglio che vada a casa e aspetti lì
bòno. Io lo sapevo, che a me ir
sessantotto m’andava di traverzo.
E con apparente placidità Pilade si
diresse verso la porta, la aprì e uscì,
senza richiuderla, lasciando
Massimo fermo in piedi di fronte
alla porta a vetri, con la sigaretta che
veniva fumata dal vento.

– Ma cosa fa quell’altro?
Tiziana, entrando dalla sala del
ristorante, aveva inarcato le
sopracciglia.
– Eh, se l’è presa – disse
Ampelio, indicando col bastone
fuori dalla porta, con mestizia.
– Ma no, non Pilade. Massimo,
scusa sai, che tu mi fumi nel bar
passi – disse Tiziana arrivando
sorridente, ma decisa, dopo aver
preso un cencino da sotto il bancone
– ma che tu mi faccia questi troiai da
bimbo in gita anche no. Poi tanto ci
pulisco io, tocca sempre a me, e poi
guarda lì.
Tiziana, salendo su una seggiola,
iniziò a sfregare il vetro dall’alto,
tentando di mandare via la scritta
fatta col dito da Massimo, mentre
questo rimaneva attonito a guardare
la propria socia e i tre vecchietti
rimanenti rimanevano attoniti anche
loro.
– Macché, non viene via. Mi passi
il vetril, già che sei lì a non far
niente?
– Eccolo – disse Massimo
porgendo lo spruzzatore. – Scusa.
Avevo la testa da un’altra parte.
I quattro vecchietti meno uno si
guardarono, sospirarono e
cominciarono ad alzarsi in piedi, tra
tranate di seggiole e lamenti di
vertebre. Prima Pilade che non dice
nulla, e ora Massimo che chiede
scusa. Altro che Burian, qui sta
arrivando la fine del mondo. Sarà
meglio tornare al biliardo, vai.

– Eccoci. Dentro è venuto bene –


disse Tiziana, guardando la vetrata
con gli occhi che guizzavano da un
angolo all’altro con inconsapevole
rapidità. – Senti, già che ci siamo io
pulirei anche fuori. Mi dai una
mano?
– Hai voglia – disse Massimo,
aprendo la porta. – Mi dispiace per
la sigaretta, ero proprio
sovrappensiero.
Che non ci sei tanto con la testa lo
vedo anch’io – rispose Tiziana. –
Non solo ti sei scusato, prima, ora ti
stai scusando di nuovo. Guarda che
inizio a preoccuparmi.
– Sì, hai ragione.
– Eh no, eh – ridacchiò Tiziana,
mentre iniziava a strofinare con il
cencio sulla parte alta del vetro. – Se
poi mi dai anche ragione qui si
esagera.
– Non c’è nessun testimone a
parte quel bambino, che è
chiaramente inaffidabile, oltre che
eventualmente corruttibile – disse
Massimo, accennando a un bimbetto
di forse dieci anni che si avvicinava
senza badare a quello che gli stava
intorno, con lo sguardo immerso
nello smartphone. – Comunque, il
fatto è che tento di non incavolarmi
con Alice, e poi va a finire che mi
incavolo con tutti gli altri. Tanto è lì
che stiamo andando a parare, vero?
Tiziana non rispose, continuando
a sfregare contro il vetro, con le
anche e il sedere che si muovevano
in controtempo con il braccio, in
accordo con la legge di
conservazione della quantità di
moto, come cercava di pensare
sempre Massimo in quei casi per
distrarsi. Poi, fermandosi, si chinò
voltandosi verso Massimo e verso la
strada, esponendo alla vista dei
pochi utenti del marciapiede la più
bella scollatura del litorale toscano
isole comprese, nell’esatto momento
in cui il bambino, passando, alzava
gli occhi dallo smartphone e,
inevitabilmente, smetteva di
camminare e iniziava a pensare
anche lui a qualche legge naturale,
ma più che di fisica di biologia.
– Sai, Alice vorrebbe un figlio.
Lo dici come se non fosse una
bella cosa – disse Tiziana, strizzando
il cencino e spruzzandolo di
detergente.
– Tiziana, io ho quasi
cinquant’anni.
– Mio padre quando sono nata ne
aveva cinquantatré – disse Tiziana,
ricominciando a passare il cencio un
po’ più in basso mentre, poco più in
là, il bambino rimpiangeva di averne
solo dieci e tornava, a malincuore,
allo schermo dello smartphone,
troppo piatto per essere ancora
interessante.
– Va bene, te la metto in un altro
modo. Quando un eventuale mio
figlio avrà vent’anni, io ne avrò
settanta. Sempre che sia ancora al
mondo.
– Ah, dal punto di vista genetico
dovresti essere a posto – sorrise
Tiziana, accennando col mento
all’interno del bar, oltre la porta
aperta della sala biliardo, là dove
Ampelio stava ricostruendo
l’omicidio Luraschi puntando alla
testa di un confuso Rimediotti un
pericolosissimo bastone a canne
mozze. – Tuo nonno è più vicino ai
novanta che agli ottanta e viene in
bicicletta tutte le mattine. Non capita
mica a tutti.
– Sì, è veramente una situazione
improbabile – concesse Massimo. –
Molto più probabile che uno si
ammali e tiri il calzino prima.
Intendiamoci, è bellissimo che mio
nonno sia ancora in grado di andare
in bicicletta, specialmente quando la
usa per levarsi tre passi dai coglioni,
ma scommettere sul fatto che
arriverò a novant’anni anch’io mi
sembrerebbe...
– Massimo, qual è la cosa più
bella che ti sia mai successa?
L’evento che ti ha accelerato la vita
in modo maggiore? Sincero.
Massimo non ebbe molto bisogno
di pensare.
– Quando ho fatto tredici al
totocalcio.
– La seconda?
– Quando ho conosciuto Alice,
direi.
– Ne avevi previsto anche uno
solo, di questi due?
– Be’, direi che la risposta è
ovvia.
– Appunto, la risposta è ovvia –
disse Tiziana, passando al vetro
accanto. – Non è solo che non puoi
controllare tutto, Massimo. Secondo
me è proprio il contrario. Le cose
veramente importanti della vita
accadono per caso. Se tenti di
controllare ogni singolo aspetto
della tua vita e di non fare niente che
possa sfuggire alle tue previsioni,
non ti succederà mai niente di
veramente importante.
– Il che mi sta bene. Potrei anche
desiderare di vivere così.
– Tu sì. Alice, magari, no. Sai,
siete in due.
– Lo so. Se due persone sono in
disaccordo su una cosa, di solito uno
vince e l’altro perde.
– Mica detto. A volte si può
perdere tutti e due. Per esempio, se
non cambiamo discorso prima di
subito secondo me la tua fidanzata ci
arresta.
E Tiziana puntò gli occhi verso il
vetro, non dentro il bar, ma proprio
in superficie. Riflessa nella porta,
sdoppiata dal doppio vetro, il
vicequestore Martelli si trovava
circa a una ventina di passi, in
rapida diminuzione.

– Allora, sì, lo posso confermare


in via ufficiale. Sto andando in
questura ad interrogare Matteo
Corradi.
Alice, appoggiata all’estremità
nord del biliardo con entrambe le
mani, fece girare lo sguardo sui tre
vegliardi, che ascoltavano ognuno in
piedi di fronte alla propria sponda.
Ordinato il solito cappuccino, infatti,
Alice era entrata nella sala biliardo e
si era chiusa la porta alle spalle con
un’aria circospetta, ma non priva di
soddisfazione.
– Sono emerse delle circostanze
indiziarie che mettono in un’altra
prospettiva la posizione di Matteo
Corradi. In più, è stato possibile
provare che sia Matteo Corradi che
la moglie hanno reso falsa
testimonianza. Per questo sono
venuta. Sono venuta principalmente
a ringraziarvi.
I tre vecchietti, ognuno con la
propria stecca in mano, ascoltavano,
con un misto di educazione e
orgoglio. Alice, presa una palla dal
biliardo, la fece girare tra le dita,
come apprezzandone la lustra
perfezione.
– Sono venuta a ringraziarvi –
disse Alice, posando la palla sul
panno senza fare rumore. – Lei,
Ampelio, mi ha dato una grossa
mano parlandomi di Matteo e
dicendomi che era fissato con la
tecnologia. E anche lei, Aldo,
descrivendomi la casa di Matteo.
Abbiamo ottenuto un mandato di
perquisizione e siamo stati in grado
di analizzare la memoria di tutti i
singoli apparecchi domotici. Da
questa memoria emerge un quadro
coerente, nei cui particolari non
posso scendere, che evidenzia come
Matteo Corradi non fosse in casa tra
le due e le cinque di pomeriggio. Sia
lui che la moglie, Roberta, hanno
quindi mentito. Questa non è prova
di colpevolezza – Alice si guardò
intorno – ma non ne migliora certo
la posizione.
De’, pensarono
contemporaneamente i tre vecchietti,
ognuno con la stessa intonazione.
– A questo proposito, nel
ringraziarvi, sento di dovermi
scusare per non potervi fornire
dettagli né particolari sulle indagini
– continuò Alice, non tanto con il
tono di chi si scusa, quanto con
quello di chi spiega. – Il quadro
delle indagini è ancora allo stato
indiziario, anche se gli indizi sono
pesanti, e non possiamo concedere
un’unghia di vantaggio né agli
indagati né ai loro avvocati. Detto
come nelle fiction, non abbiamo
trovato una pistola fumante in mano
a Matteo Corradi, e dobbiamo
procedere portandolo a contraddirsi
il più possibile. Meno cose sanno
loro di quello che sappiamo noi su di
loro, e meglio è.
Mentre i vecchietti tentavano di
capire se avevano capito bene
l’ultima frase, Alice girò
nuovamente lo sguardo.
– In particolare, devo ringraziare
Pilade – disse Alice. – Senza di lui,
non saremmo stati in grado di
formulare una ipotesi di reato in
maniera precisa. A proposito, dov’è?
– Pilade? – Ampelio si strinse
nelle spalle. – Ha preso lo gnocco e
se n’è andato una mezz’ora fa.
Capace era un po’ nervoso.
D’artronde, se è stato sveglio tutta la
notte a leggere...
– Sì, lo credo bene. Ha fatto un
gran lavoro, davvero. Non posso
darvi dettagli, ma il suo contributo è
stato fondamentale.
’Un si preoccupi, signorina, i
dettagli ce l’ha dati Massimo – disse
il Rimediotti, candido come una
sogliola bollita.
Alice si voltò verso il pensionato,
in un silenzio talmente perfetto che
si sarebbe potuto sentir respirare una
statua.
– Massimo?
– Allora, Gino, che tu fossi scemo
ciò sempre avuto pochi dubbi –
disse Ampelio, appoggiandosi al
bastone – ma poi ir probrema è che
apri bocca e mi dai ragione.
– Cioè, ner senzo...
– Nel senso che sei coglione –
chiarì Aldo. – Ogni tanto, prima di
aprire bocca, bisognerebbe pensare
se è il caso o meno. E farsi
rimproverare su questa cosa da
Ampelio, poi, abbi pazienza, ma è
quasi paradossale.
– Salve a tutti – disse Massimo,
protendendo la testa nella sala
biliardo. – Pronte le ordinazioni per
la DIA, Direzione Investigativa
Anziani. Se venite di là vi rifocillo.
– E se resti un attimino qua avrei
una cosina da chiederti – disse
Alice, con la voce dolce di chi ha
giurato a se stessa davanti allo
specchio che non avrebbe mai più
fatto scenate in pubblico.
– Volentieri, però restate con la
sete – rispose Massimo, togliendo
anche la testa dalla porta e
continuando a parlare mentre si
allontanava. – Se invece venite di
qua, si possono fare tutte e due le
cose.

Io non capisco perché non


possiamo portarci le cose da bere di
là in sala biliardo – disse Alice,
mentre soffiava sul cappuccino. –
Non siamo mica all’asilo, ci
facciamo attenzione al biliardo.
– Che non siamo all’asilo, fidati
ma me ne son reso conto – disse
Massimo, dietro al bancone. – E
sono anche disposto a concedervi
che ci fate attenzione, la maggior
parte delle volte. Il problema è che
basta una volta che uno non ci fa
attenzione e mi riversa una colata di
spremuta sul panno. E a quel punto,
in accordo col secondo principio
della termodinamica, è
estremamente improbabile che la
macchia si riaggreghi allo stato
liquido, ridiventi spremuta e torni
nel bicchiere lasciando il panno
pulito.
– Sarà – disse Alice, pensosa. –
Secondo me con questo
atteggiamento però ci perdi. Intendo,
è un bar, non un lager. Se devi
sentirti dire non sporcare di qui e
non sporcare di qua, io se fossi in
loro resterei a casa. Io al posto tuo...
– Volesse il Grande Architetto che
restassero a casa. E comunque –
Massimo batté sul registratore di
cassa, e lo scontrino spuntò fuori
dalla cima della macchinetta,
entusiasta testimone di future tasse
da pagare – se guardi qui, su questo
foglietto, vedrai che c’è scritto
«BarLume di Crostata Granata
s.a.s.», non «Bar Aonda di Martelli
Alice» né tantomeno «Questura di
Pineta».
– E proprio qui ti volevo – disse
Alice con aria angelica. – Siccome
non c’è scritto Questura di Pineta,
quali sono i dettagli sul lavoro di
Pilade di cui ho sentito parlare or
ora, e che sarebbero stati forniti da
tale Viviani Massimo, barrista con
due erre e zero assennatezza?
Ohi, ohi.
– Ma nulla – disse Massimo,
ostentando calma. – Semplicemente,
quando è arrivata la notizia che era
stato arrestato Matteo Corradi, mi
sono chiesto che motivo avrebbe
mai potuto avere per uccidere
Giaccherini, dando per scontato che
l’arresto era in relazione con quel
reato. Da lì, è stato abbastanza facile
desumere che il movente poteva
essere la paura di vedere invalidata
la linea ereditaria, e l’unico modo
possibile perché questo avvenisse
era che Camillo fosse stato
assassinato da sua moglie, e che
Ubaldo Giaccherini lo sapesse e lo
avesse scritto sul diario, in modo
circostanziato e credibile.
– E Pilade lo ha confermato? –
chiese Alice, con una voce che,
nonostante il tavolino a cui era
seduta fosse dentro il bar, arrivava
direttamente da fuori, con tanto di
vento gelido.
– Diciamo che s’è risentito
parecchio, ha preso ed è andato via –
disse Aldo. – Così non cadeva in
tentazione.
– Che bello. Almeno uno che
pensa prima di aprire bocca –. Alice,
mettendosi la borsa a tracolla, si alzò
apparentemente senza fare caso al
fatto che il cappuccino era rimasto
intatto. – Io vado a fare il mio
lavoro, Massimo, e ti lascio al tuo.
Visto che è impossibile evitare che
tu pensi ai casi miei, se è possibile,
ti chiederei la cortesia di non dirmi
nemmeno una parola
sull’argomento.
– Nemmeno se fosse un ulteriore
indizio?
Nemmeno se fosse un ulteriore
indizio – confermò Alice,
mettendosi i guanti. – Adesso, si
procede come si fa negli stati di
diritto. Sai, interrogatori, avvocati,
mandati, tracciati, tutte quelle cose
pallosissime che servono per evitare
di mandare in galera un innocente o,
in questo caso, di portare davanti
alla giuria un insieme di indizi
insufficienti per condannare un
colpevole.
– Ah –. Massimo annuì, con
serietà. – Allora, in questo caso,
puoi tranquillamente sederti e finire
il cappuccino. Non ce la farai mai.
– Questo non lo puoi sapere –
disse Alice, dirigendosi verso la
porta.
– Posso, posso – disse Massimo. –
Manca la condizione iniziale per cui
ciò potrebbe avvenire.
– E sarebbe? – chiese Alice, con
la mano sulla porta.
– Me lo stai chiedendo? Posso
rispondere? Non ti incazzi?
– Sì, certo. Puoi rispondere –
permise Alice, con un sorriso
sincero come una promessa
elettorale.
– Semplice: Matteo Corradi è
innocente.
Alice si fermò un momento sulla
porta. Si guardò intorno, poi il
sorriso si addolcì e divenne più
sincero.
– E io che per un attimo ti ho dato
retta – disse, aprendo la porta. – Dai,
Massimo, ci si vede stasera. Ciao a
tutti.
E, sempre sorridendo, uscì nel
freddo a passo deciso. Massimo e i
tre la seguirono con lo sguardo, per
qualche momento.
– Mi sa che non ha capito che
parlavi sul serio – tentò Aldo, con
voce bassa e lenta. – Perché non
stavi scherzando, vero?
– No – confermò Massimo, senza
alzare la testa. – No, non stavo
scherzando affatto.
Nove

– Allora... Innanzitutto, silenziosa


preghierina di ringraziamento al
Grande Spaghetto che mi ha graziato
le chiappe... se Alice non pensava
che stessi scherzando mi metteva la
mano nella macchina per i toast... e
non avrebbe avuto tutti i torti...
Secondariamente, quanto sono
sicuro di quello che ho detto?
A passi lenti, ma distratti,
Massimo attraversava lentamente la
pineta, parlando da solo con assoluta
tranquillità. Infatti, nonostante la
luce del pomeriggio fosse ancora
sufficiente per vederci, c’era un
freddo tale che per entrare in pineta
era necessario avere delle
motivazioni veramente pressanti.
Cani di taglia extralarge con la
vescica gonfia come un dirigibile,
dosi da recuperare in qualche albero
cavo, o omicidi di cui trovare il
colpevole prima che la tua fidanzata
ti incrimini per mancanza dei soliti
sospetti.
Perché Matteo Corradi,
continuava a pensare Massimo, era
innocente. Doveva essere innocente,
a meno che non fosse estremamente
furbo.
E Matteo Corradi, Massimo lo
aveva deciso tanto tempo prima, non
era furbo. Poteva essere intelligente,
competente, deciso, autoritario, ma
furbo no.
A meno che.
– A meno che... certo, è una
possibilità... ma è così comune?...
oddio, certo, uno come Matteo
Corradi, fissato com’è con certe
cose... potrebbe anche averne due...
o anche tre... io già ne trovo
innaturale un singolo esemplare, ma
io sono vecchio... o meglio, mi sento
vecchio... ecco, mi vengono in
mente cose che non c’entrano un
tubo... Massimo, rimettiti giù a
pensare, da bravo... è così assurdo
che Matteo Corradi ne abbia due?...
No, non lo è affatto... Mi sa che ho
detto una bella cazzata... meno male
che Alice era convinta che
scherzassi...
E, piano piano, facendo un
cerchio piuttosto largo, Massimo si
avviò lento verso il bar.
Intorno a lui, nonostante il freddo,
si vedeva che la pineta stava
imbastendo le prove generali per il
ritorno della primavera. Spuntavano
le prime gemme dalle cime dei
rametti nuovi, e l’aria stessa,
sebbene fredda, era molto meno
umida e infida di qualche giorno
prima. Fra non molto, d’improvviso,
il calendario avrebbe preso il
sopravvento sulla meteorologia, e
nel giro di alcune settimane l’ora
legale avrebbe completato il lavoro.
Primavera, signori, primavera. Un
altro giro di giostra intorno al sole
completamente gratis per tutti voi,
per ognuno di voi, compresi quelli
che ormai ci hanno fatto l’abitudine
e non si meravigliano più per il
miracolo annuale della pineta che
torna alla vita, e magari invece si
esaltano per un gol trasmesso via
satellite di un tizio che nemmeno
conoscono, segnato contro una
squadra formata da undici tizi
anch’essi sconosciuti ma lontani,
mentre a qualche centinaio di metri
la loro pineta germoglia, il loro
giardino ricresce e la loro moglie si
tromba il vicino di casa.

La giornata, dopo la partenza di


Alice, era stata tranquilla, almeno
esternamente. Pochi clienti, nel
pomeriggio, come sempre, e
ordinazioni semplici – due tè, una
pasta, un tramezzino, ottime
occasioni per liberarsi delle giacenze
della colazione e tanto tempo per
pensare, specie se sei un barrista che
pensa a un omicidio senza avere a
disposizione tutti gli indizi necessari
per capire, ma che è convinto di aver
notato quello decisivo. Poi, per
fortuna, era arrivata l’ora
dell’aperitivo, e c’era stato troppo da
fare per pensare ancora al crimine;
almeno, quello riconosciuto a livello
legislativo. Perché dopo aver visto
lo stesso tizio – un ragazzo rasato a
zero con la barba folta – riempirsi il
piattino di plastica sette volte con
una piramide di roba a caso, a fronte
di una spesa di cinque euro per un
bicchiere di prosecco, cominci a
pensare che quello sia furto.
Ma siccome c’era la gente da
servire, sorvegliare e ringraziare,
l’unico sforzo intellettuale di
Massimo erano stati alcuni
vagheggiamenti su come fare per
incollare gli ultimi crostini ai vassoi,
così, per divertirsi un po’ nel vedere
il tipo col pelo ribaltato che andava
disinvolto a depredare il boccone e
faceva crollare in terra un domino di
piatti e cibarie, vedrai che almeno
così un minimo di vergogna la provi.
Poi, piano piano, le persone
avevano incominciato a scemare, e
Massimo si era tolto il grembiule e
aveva detto a Marchino e Tiziana io
vado un attimo a fumare una
sigaretta, torno fra dieci minuti.
Dieci minuti i quali, al contrario dei
clienti, erano andati via anche
troppo alla svelta, come sempre
quando tenti di trovare un senso ai
tuoi pensieri, tanto che quando
Massimo riaprì la porta a vetri dopo
il giretto in pineta di minuti ne erano
passati venticinque.

Appena entrato, infatti, Massimo


si vide venire incontro Tiziana senza
sorriso, ma con in mano taccuino e
grembiule.
– Fatto tanto tardi? – chiese
Massimo, vedendosi porgere la
divisa.
– No, è che c’è un cliente da
servire – disse Tiziana, accennando
alla sala biliardo. Più che incavolata,
sembrava imbarazzata.
– Se viene di qua lo servo
volentieri – disse Massimo,
mettendosi il grembiule. – Di là
tutt’al più posso prendere l’ordine.
– Ecco, bravo, intanto vai di là –
disse Tiziana, con un mezzo sorriso.
Massimo, dopo aver stretto il nodo,
aprì la porta della sala biliardo.
Appoggiato sul biliardo, il cliente
aveva una stecca in mano e una
biglia davanti, ma non sembrava
avere alcuna intenzione di giocare.
– Buonasera. Desidera qualcosa
da bere?
L’uomo alzò la testa, e nella
mente di Massimo scattò qualcosa,
una specie di cassetto interno che gli
diceva che quel tizio, per qualche
motivo, gli era noto.
– Sì, grazie. Vorrei un rum.
La voce. La voce che poco tempo
prima, al bar, parlava di seggio alla
camera e di posizione sicura. E il
vestito elegante, anche se
stazzonato. Tutti particolari che,
insieme al viso che ora Massimo
riconosceva, toglievano quell’uomo
dalla categoria «spettabile clientela»
e lo assegnava al più ristretto, ma
significativo insieme
«clientela sospettabile».
Buonasera, Matteo Corradi. Si fa
per dire.
– E come lo preferisce? – chiese
Massimo, rendendosi conto mentre
parlava che stava facendo la
domanda sbagliata. A giudicare dalla
faccia dell’uomo, avrebbe dovuto
chiedere «e quanto ne vuole?».
Matteo Corradi, dopo essersi
raddrizzato, prese dalla tasca il
telefonino e lo poggiò sulla sponda
del biliardo, come a significare che
più quel coso restava lontano e
meglio era; quindi, guardatosi
intorno, si portò sulla sponda
opposta e si chinò, valutando un
possibile colpo che lo potesse
portare in vantaggio su se stesso.
– Mi dia quello che prenderebbe
lei, se sua moglie l’avesse appena
lasciata.
– Ah, allora Demerara 1990. Si
fidi, so cosa dico.

– E io? Io cosa dico, ai


dipendenti? Si rende conto che avete
arrestato mio marito di fronte ai suoi
stessi dipendenti? Si rende conto?
Alice, coi gomiti appoggiati alla
scrivania, resistette per la decima
volta alla tentazione di guardare la
donna in mezzo alle sopracciglia.
Aveva letto una volta, in un
romanzo, che alle persone dava
fastidio, e da quel momento per lei
era diventato un gesto automatico,
quando conduceva un interrogatorio
con una persona che non le piaceva.
E Roberta Serra non le piaceva.
Ma, fino a quel punto, non aveva
tutti i torti. E non doveva indisporla.
– Mi lasci chiarire un punto,
signora. Suo marito è attualmente
trattenuto in stato di fermo in merito
all’omicidio di Ubaldo Giaccherini
–. Alice aveva fatto una piccola
pausa. – Si parla di omicidio. Di una
persona che è stata uccisa.
– Un fatto tremendo, certo – disse
Roberta Serra, con la faccia compita
e seria di una a cui le importa il
giusto. – E un fatto riguardo al quale
mio marito ha fornito un alibi
preciso. Ce lo ha davanti.
Con un cenno del mento, Roberta
indicò alcuni fogli sulla scrivania di
Alice.
– Come le ho già detto e come ho
già riferito, mio marito si trovava
con me, a casa nostra, al momento in
cui quel poveretto veniva ucciso. Sta
tutto scritto nella mia deposizione.
Alice, con una voce tutta miele e
latte, dette una piccola pacca sul
primo foglio del dattiloscritto, come
per rassicurarlo che era al sicuro.
– Certo. Per questo, al momento,
per cominciare, vorrei solo che lei,
per cortesia, me la riassumesse.
Anche nell’interesse di suo marito,
non crede?
Roberta sospirò, come una che sa
che il mondo va sopportato.
Capisco, volete vedere se la mia
testimonianza corrisponde, certo. E
va bene. Mio marito è arrivato a
casa verso le due. Stava appena
finendo il telegiornale. Abbiamo
mangiato qualcosa...
– Lei era già a casa?
– Sì. Come sta scritto lì, ero
rientrata a casa dalla palestra verso
l’una e un quarto. Le dicevo,
abbiamo mangiato qualcosa e poi
siamo andati in mansarda a leggere.
Era venerdì, era stata una settimana
pesante, avevamo voglia di
rilassarci.
– Rilassarvi, certo. Che lavoro fa
suo marito, signora? – chiese Alice,
sempre dolce.
– Prego?
– Le ho chiesto, che lavoro fa suo
marito, di preciso, alla Farmesis? La
carica che ricopre, formalmente,
quale è?
– Mio marito è amministratore
delegato. Il che è molto più prosaico
di quello che si creda, mi dia retta.
– Una ditta da... quanti
dipendenti, esattamente?
– Più di centosessanta. Niente di
incredibile rispetto al passato, negli
anni Novanta la Farmesis dava
lavoro a più di seicento persone –
disse Roberta, raddrizzandosi sulla
sedia. – Poi la crisi, la chimica
italiana che praticamente scompare,
e la ditta che diventa una
concessionaria di generici per altre
ditte. Ma è comunque una ditta sana,
e c’è tanto da fare. Ultimamente,
hanno assunto...
– È un lavoro impegnativo,
quindi.
– Molto, lei non si immagina...
cioè, mi scusi, lei si immagina
benissimo, credo.
– Temo di sì – rispose Alice, con
complicità. – Deve essere raro
averlo a casa.
– Talmente raro che quando
succede me lo ricordo bene – sorrise
Roberta. – E anche quando c’è, è
come se non ci fosse. Sempre
attaccato a quel cellulare, lo
chiamano ogni dieci minuti.
– Potrebbe staccarlo, ogni tanto.
– Sì, ci provi lei a chiederglielo.
Se glielo chiedo io, di qua entra e di
là esce.
– Davvero incredibile – disse
Alice, scuotendo la testa.
– Sì, ma del resto lo capisco –
continuò Roberta. – Intendo, quando
uno ha la responsabilità di...
– Non intendo quello, signora
Serra – disse Alice, cambiando tono.
– Intendo che è strano che il
cellulare di suo marito non risulti
attaccato alla rete wi-fi di casa
vostra proprio nel periodo che va
dalle due di pomeriggio alle cinque
di sera.
– Mah, se l’ha spento io non...
– No, non l’ha spento, signora –
disse Alice, tirando fuori una
cartellina color carta da zucchero. –
Nel periodo in questione il cellulare
è acceso, riceve due telefonate alle
quali non dà risposta e ne effettua
altre due. Detto in parole povere,
mentre suo marito è a casa, il
telefono di suo marito fa due
telefonate, e soprattutto il telefono di
suo marito non è in casa sua. Perché
questo – aveva detto Alice,
appoggiando sulla scrivania un
foglio pieno di cifre incolonnate
dopo averlo estratto dalla cartellina,
e battendo due volte con l’indice su
un numero cerchiato di rosso – è il
telefono di suo marito, giusto?

– Sì, è un iPhone X. Preso due


mesi fa, appena uscito.
Massimo aveva preso in mano il
cellulare di Matteo Corradi,
tenendolo delicatamente tra il
pollice e il medio.
– È aziendale? Intendo, l’ha preso
con la partita IVA?
– Questo? No, questo è mio,
personale. Del resto un telefono
aziendale nemmeno ce l’ho –.
Matteo Corradi strinse le labbra in
quello che, nelle intenzioni,
probabilmente era un sorriso. – Già
passo al cellulare metà del mio
tempo di veglia, se ne dovessi avere
anche due rischierei di diventare
bipolare.
A guardare Massimo dall’esterno,
mentre prendeva il telefono e lo
rimirava, sarebbe potuto sembrare
che il barrista stesse riflettendo se
fosse il caso o meno di investire del
denaro in un oggetto simile. E, a
osservarlo mentre lo appoggiava
attentamente sulla sponda, si sarebbe
detto che, dopo averlo soppesato e
aver considerato che quel telefono
costava più o meno come il biliardo
sul quale lo aveva appena
appoggiato, Massimo avesse
concluso che non si poteva
permettere di spendere tutti quei
soldi per un oggetto così piccolo e
sfracellabile.
In realtà, se qualcuno invece di
guardare avesse auscultato Massimo
con uno stetoscopio, avrebbe notato
che a dispetto dell’apparenza calma
e distaccata i battiti cardiaci del
barrista erano decisamente più
frequenti e più violenti del solito,
cosa certo non giustificabile con lo
sforzo fisico, poiché sollevare e
maneggiare un telefono – sia pure
così costoso – richiede
oggettivamente poca energia.
Bello, molto bello – disse
Massimo, e dopo aver posato il
telefono fece un cenno verso il
bicchiere vuoto. – Posso portare via?
– Sì, grazie. E già che c’è, me lo
riporti pieno, per favore. Lo stesso
va benissimo.
– Se promette di berselo un po’
più piano, volentieri. Sennò le posso
dare anche un torcibudella
qualunque. Lei sta per diventare
parlamentare, oltretutto...
– Non sto per diventare un bel
nulla, si fidi – disse Matteo, con un
sorriso mesto. – Il partito mi darà il
benservito nel giro di un paio di
giorni, forse già domani. Non hanno
bisogno di criminali, o almeno, non
di quelli come me, che riescono a
farsi indagare senza nemmeno
delinquere. Per cui, alle elezioni non
mi presenterò. Quindi, la rassicuro,
non rovinerò la mia immagine di
fronte ai futuri elettori. Me ne porti
pure un altro. Prometto che me lo
gusterò con più calma. Tanto, stasera
a casa non m’aspetta nessuno.
– Agli ordini.
E, uscito dalla sala biliardo,
Massimo posò il vassoio sul
bancone e salì sulla pedana
retrostante. Solo che, invece di
prendere la bottiglia di Demerara e
versare una seconda dose di
ansiolitico caraibico, Massimo
acchiappò il telefono – il proprio
telefono – e compose un numero, ma
senza premere il tasto verde di
chiamata. Quindi, presa dallo
scaffale la bottiglia di rum scuro, ne
versò un quantitativo lievemente
maggiore dello standard in un
bicchiere nuovo, lo posò sul vassoio
e si preparò a portare il tutto di là
nella sala, non senza aver aggiunto
accanto al bicchiere un ulteriore
cioccolatino. Solo un attimo prima
di entrare, con un tocco rapido del
pollice, dette il via alla chiamata.
– Ecco qua – disse, con un tono
da maggiordomo inglese fuori
servizio, rientrando nella sala del
biliardo con il vassoio. – Demerara,
millenovecentonovanta. Senta, abbia
pazienza, le posso fare una
domanda?
– Prego.
– Questo oggetto bellissimo – e
Massimo prese nuovamente in mano
il telefono che l’uomo aveva lasciato
sulla sponda, come a rimarcare che
in quel momento al Corradi serviva
qualcosa di vetro da portare alla
bocca, ma non anche all’orecchio –
a comprarlo senza offerte,
promozioni, cambi di compagnie
telefoniche e altre segate varie,
quanto costa?
– Mah, quello lì è sessantaquattro
giga, più o meno un migliaio di
euro. Mille e cento qualcosa, se non
ricordo male – disse Matteo Corradi,
distrattamente.
Il telefono, tra le dita di Massimo,
acconsentiva tacendo. E, stando
zitto, fermo e senza nemmeno
vibrare, anche se visibilmente
acceso e connesso col mondo,
implicitamente rispondeva anche
alla domanda che Massimo gli stava
rivolgendo in silenzio, tramite il
proprio cellulare.
Il numero che stai chiamando, gli
diceva il telefono, non è quello di
Matteo Corradi.

Ma non è solo il telefono di suo


marito che presenta incongruenze –
aveva detto Alice, mentre Roberta
sembrava cercare un punto dove
guardare. – C’è anche il fatto che lei
asserisce che suo marito è entrato in
casa alle due di pomeriggio, mentre
lei è rientrata a casa dalla palestra
all’una e un quarto. Ecco, dai dati
acquisiti dal software dell’allarme
che avete installato, e che...
– Chi le ha dato il permesso di
acquisire quei dati? – chiese
Roberta.
– Il sostituto procuratore, tramite
mandato di perquisizione esteso a
ogni apparecchio elettronico
afferente all’abitazione. E il sistema
di allarme che avete in casa rientra
nell’ambito del mandato. Lei lo
sapeva che il sistema di allarme di
casa tiene in memoria ogni volta che
la porta si apre e si chiude?
Io glielo avevo detto a quella testa
di cazzo che quel sistema di allarme
ci sarebbe costato troppo, dissero gli
occhi di Roberta, senza parlare.
– Ecco, il sistema ha memorizzato
due eventi «apertura del portoncino
di casa» – disse Alice, guardando il
foglio. – Uno alle tredici e
diciassette, apertura e chiusura, e
uno alle diciannove e dieci, apertura
e chiusura. Ora, siccome non ci sono
altre porte di accesso alla vostra
abitazione, mi dica: suo marito ha
l’abitudine di entrare dalla finestra?
– Vorrei vedere...
– Il suo avvocato?
– Mio marito. E, sì, vorrei anche
vedere il mio avvocato.

A quel punto ci siamo ritrovati


tutti e tre nella stanza – disse Matteo
Corradi. – Io, mia moglie e
l’avvocato. E la vicequestore mi ha
messo davanti tutte queste
incongruenze. Adesso, signor
Corradi, mi fa la tizia, vorrei sentire
la sua versione.
Seduto, sempre tranquillo, Matteo
Corradi raccontava, mentre
Massimo cercava di capire se
Matteo sapesse o meno che il
vicequestore in questione era la sua
fidanzata.
– Ho guardato mia moglie. Vede,
quando ero tornato a casa, la sera,
Roberta aveva capito che avevo fatto
una cazzata. Non so come ci riesca,
ma ci riesce sempre. Qualsiasi
cazzata, dal dimenticarmi di pagare
una bolletta in su. E stavolta la
cazzata era grossa. Ma lì per lì non
ha detto niente.
Eh, direi.
– Poi, il giorno dopo, è venuto
fuori sui giornali che qualcuno
aveva ucciso Ubaldo. Allora io sono
andato da lei e le ho detto: amore, ho
fatto una cazzata. Potrei finire nei
guai. E lei mi prende le mani e mi
dice: l’avevo capito. Adesso ci sono
io. Fidati di me. E così ci siamo
messi d’accordo.

– Sì, ci siamo messi d’accordo –


aveva detto Roberta, ergendo il collo
come Maria Antonietta di fronte alla
ghigliottina.
– Signor vicequestore... – provò a
dire l’avvocato Nannipieri – se mi
permette, avrei bisogno di parlare in
privato con i miei assistiti.
– Gherardo, non preoccuparti –
aveva detto Matteo.
– Fammi fare il mio mestiere,
Matteo – aveva ribattuto l’avvocato.
– Mi scusi, signor vicequestore...
– Avvocato, mi sembra che i suoi
clienti stiano manifestando la
volontà di parlare spontaneamente.
– È proprio questo che mi
preoccupa – aveva risposto
l’avvocato. – Matteo, Roberta, non
fate gli eroi. Quello che ora potrebbe
sembrarvi nobile fra un paio di
giorni vi sembrerà un errore
colossale.
– L’ho già fatto, l’errore colossale
– aveva ribattuto Matteo, fiero. –
Signor vicequestore, ho convinto io
mia moglie a rendere falsa
testimonianza. Al momento in cui...
– Ma cosa dici? – Roberta Serra si
erse, pur restando seduta. – Signor
vicequestore, non è andata così.
Quando mi sono accorta che mio
marito... mi scusi, che Matteo aveva
fatto quello che aveva fatto, sono
stata io a offrirgli la mia
testimonianza.
– Oh madonna... – aveva
commentato l’avvocato, a bassa
voce.
– Sono stata io a proporgli di
metterci d’accordo e di dire che era
stato a casa con me tutto il
pomeriggio, affinché non potesse
venire collegato a quello... – Roberta
si torse le mani – a quello che era
successo.
– Va bene. Allora, signor Corradi,
dove si trovava fra le due e le cinque
del pomeriggio del giorno in
questione?
Matteo Corradi aveva preso un
respiro profondo.
– Ero a casa della signorina Sonia
Caruso, in via delle Giunchiglie.

– E chi sarebbe questa Sonia


Caruso? – disse Massimo.
Sonia Caruso sarebbe, o meglio,
è, uno dei miei project manager –
disse Matteo, guardando in terra.
Poi, alzando gli occhi, completò: –
Ma è anche una delle gnocche più
strepitose che Dio abbia messo in
terra. E io, che sono coglione, ci
sono cascato. Erano mesi che mi
provocava. Ed erano mesi che ci
pensavo. Poi, con tutta questa
faccenda di babbo, del testamento,
di tutti ’sti casini, ho allentato la
guardia.
La porta della sala biliardo,
adesso, era chiusa. Tutto il contrario
della bocca di Matteo Corradi che,
invece, aveva definitivamente aperto
le cataratte. Forse il rum, forse il
crollo dell’adrenalina. O forse la
consapevolezza di non essere in
grado di reggere da solo una
giornata in cui era stato arrestato,
incarcerato, interrogato e infine
lasciato – dalla moglie – e rilasciato
– dalle forze dell’ordine. Sta di fatto
che Matteo aveva iniziato a parlare,
e Massimo stava lì, nel suo nuovo
ruolo di barrista consolatore.
– Praticamente venerdì mattina mi
ha chiesto di andare a casa sua per
discutere di alcune nuove
legislazioni sul Sovofusbir. Il che
era anche plausibile, se non fosse
che siamo finiti a letto.
Matteo Corradi si rigirò il
bicchiere tra le mani, come
specchiandosi in quel laghetto color
caramello, consapevole che
l’immagine che gli rimandava fosse
veramente la sua, anche se non gli
piaceva per niente.
– Lo sapeva lei, che sarebbe finita
così, e lo sapevo anch’io, quando ho
accettato l’invito. E dopo, quando
sono tornato a casa, credevo che lo
sapesse anche Roberta.

Io sapevo cosa? Io non sapevo un


cazzo, brutto stronzo imbecille d’un
porco schifoso! Un cazzo sapevo, io,
di te e di quella troia!
– Roberta, per cortesia...
– Per cortesia cosa, brutto pezzo
di merda? Eh?
– Roberta, ascoltami...
Roberta si era avventata
sull’avvocato Nannipieri come una
leonessa contro una zebra zoppa.
– Te t’ho ascoltato anche troppo,
deficiente. Te e quest’altro stronzo
di un puttaniere.
– Roberta, io credevo che avessi
capito...
– Capito? Cosa capito? Ma capito
cosa? Ora te lo spiego io cosa avevo
capito, demente! Io... io...
– Lei aveva creduto che suo
marito avesse ucciso Ubaldo
Giaccherini, vero? – disse Alice, con
voce neutra.

– Proprio così – disse Matteo,


dopo aver preso un sorso lento dal
bicchiere. – Mia moglie era convinta
che io avessi ucciso Ubaldo
Giaccherini. E allora mi ha preso da
parte e mi ha detto che mi avrebbe
aiutato lei. Gran donna, Roberta.
Sempre dalla mia parte, fin quando
la mia parte coincide con la sua.
Ecco, ora parlo come se fosse colpa
sua, e invece è colpa mia, c’è poco
da discutere. No?
Matteo alzò il bicchiere e lo
guardò controluce, cercando di
capire se quella traccia traslucida
che si intravedeva sul fondo fosse
ancora rum. Deciso che non lo era,
prese la bottiglia che Massimo gli
aveva messo accanto, versò e bevve.
Bastava cercare di non ragionare
con l’uccello, bastava. E invece,
niente. Per un’oretta a letto con una,
con una gran gnocca, eh, ma a letto
s’è visto parecchio di meglio, ora la
vita m’è andata a puttane. In senso
metaforico, eh, perché con gli
alimenti che mi toccherà pagare da
qui in avanti altro che case chiuse,
non mi resteranno i soldi nemmeno
per stare a casa mia. Le ho finito il
rum.
– Direi che gli ha reso onore,
piuttosto.
– Le ho finito il rum – ripeté
Matteo, sconsolato, e con un tono
con cui non si faceva fatica a
credergli. – Adesso sarà meglio se
prendo il portafoglio, pago e vado a
casa. Meglio per lei che riesco a
pagarla, e mi sa che sarà uno degli
ultimi ad avere questo privilegio, e
meglio per me che torno a casa. Non
so se sperare di trovarci Roberta o di
non trovarci nessuno. Io sto male,
ma mi sa che lei ora stia peggio di
me.
Se conosco bene la persona di cui
si parlava prima, bello mio, mi sa
che hai proprio ragione.

– Sì, in senso personale, le posso


dare ragione. Non è bello scoprire
che tuo marito ti tradisce,
specialmente di fronte ad estranei.
Ma in questo momento, signora, non
mi preoccuperei di suo marito. Da
un punto di vista legale, la sua
posizione non è migliore.
– Come? Ma se l’ha sentito anche
lei, mi scusi –. Roberta alzò verso
Alice due occhi talmente colati di
rimmel che più che una moglie
tradita sembrava il cantante dei Kiss.
– Ha sentito anche lei che quel
fetente...
– Ha avuto un rapporto con
un’altra donna. Sì. È un
comportamento disdicevole, ma non
è un reato. Rendere falsa
testimonianza, invece, sì.
– Anche se lo si fa per salvare il
proprio marito? Prima di rispondere,
Alice respirò profondamente. Se
fosse stata solo un vicequestore,
probabilmente
Alice per prima cosa avrebbe
pensato all’articolo 384 del codice
penale, il quale esclude il reato di
falsa testimonianza per chi vi è stato
costretto dalla necessità di salvare sé
medesimo o un prossimo congiunto
da un grave e inevitabile nocumento
nella libertà e nell’onore. Ma, prima
di essere un rappresentante
dell’autorità giudiziaria, Alice era un
essere umano.
– Suo marito chi, quello che ha
appena preso a schiaffi?
La faccia di Roberta Serra si
indurì di nuovo.
– Se intende quello che mi ha
tradito con una mignotta in tailleur e
minigonna, sì, proprio lui.
– Capisco. Vorrei sapere con che
criterio è pronta a perdonare e
difendere suo marito quando uccide
qualcuno, mentre invece lo lascia a
bagno dopo aver scoperto che l’ha
solo tradita.
Alice non credeva che Roberta
avesse ancora la forza di incazzarsi,
ma evidentemente si sbagliava. Mai
sottovalutare una donna.
L’ha solo tradita? Con che
criterio? Glielo spiego io, con che
criterio. Ho sposato Matteo a
ventisette anni, finito il praticantato,
quando potevo entrare in uno studio
di avvocati importante. Ci ho
rinunciato, per lui, e da quel
momento sono diventata la moglie
di Matteo Corradi. Lui in ditta, a
lavorare, a fare tardi, e io in casa, da
brava mogliettina. Lui tutti i giorni
fuori di casa tranquillo, perché tutti i
problemi in casa li risolvevo io. Lui
non ha perso un’ora di sonno
quando i figlioli piangevano, perché
a cullarli c’ero sempre io. Io ho
smesso di lavorare per Matteo. Io mi
sono annullata per Matteo. Io mi...
– Glielo ha chiesto lui?
– Come?
– Glielo ha chiesto lui? Glielo ha
chiesto qualcun altro? Qualcuno l’ha
obbligata a fare questa scelta?
Oppure, per caso, ha confuso delle
regole che esistevano solo nella sua
testa con quello che in quel
momento le andava di fare? – Alice
chiuse la cartellina con un
movimento talmente violento che
uno dei fogli che erano dentro volò
via per lo spostamento d’aria. – Mi
sta davvero dicendo che non aveva
la possibilità di continuare a
lavorare? Che è stata costretta a
smettere di lavorare, o meglio, a non
provarci nemmeno?
Roberta guardò Alice come se le
avesse appena pugnalato il proprio
peluche preferito.
– Certo, certo. Come se fosse
facile lavorare in un ambiente
prettamente maschile, cercando di
essere trattate alla pari...
– Non venga a dirlo a me quanto è
difficile lavorare in un ambiente
prevalentemente maschile, cioè
praticamente tutti escluse le scuole
elementari e i conventi di suore. Non
lo venga a dire a me. Lo so meglio
di lei, quanto è difficile. Lo so
perché lo faccio tutti i giorni. Lei
nemmeno ci ha provato.
– Io...
Lei adesso infila immediatamente
quella porta, e per carità la lasci
aperta uscendo. C’è odore di
ottocento, qua dentro. Ho bisogno di
cambiare aria. A tempo debito
riceverà notifica coi mezzi previsti
dalla legge per il reato di falsa
testimonianza.
E, chinando il capo sui fogli, fece
capire che il colloquio era finito.
Mai sottovalutare una donna,
appunto. Specialmente quando è un
vicequestore.

– Allora, ragioniamo...
Ragioniamo in maniera scientifica...
chissà se ne sono ancora capace... se
mai ne sono stato capace, ma questo
è un altro paio di maniche...
comunque, stavolta mi sembra di
averlo fatto... Avevo una ipotesi da
falsificare... Matteo Corradi ha un
solo cellulare?... E l’ho falsificata...
e fin qui era facile.
Di nuovo solo, di nuovo a piedi,
di nuovo a spiegare a se stesso
quello che gli veniva in mente,
Massimo tornava verso casa.
Parlando da solo, come prima, nella
speranza che il Massimo di
mezzanotte fosse più adatto a capire
qualcosa del Massimo pomeridiano.
Unica differenza, invece della
pineta, era il solido e ben illuminato
marciapiede sotto i suoi piedi,
perché di notte la pineta era buia, e il
paese un po’ meno. Sarebbe stato
inopportuno, e un po’ da fessi,
ripercorrere la stessa strada del
pomeriggio.
– Adesso, ho un numero di
telefono... e la domanda è «di chi è
questo numero»... e questo è più
difficile... sarebbe facile, se io fossi
la polizia...
Sarebbe facile, certo. Ma
Massimo era ben conscio di non
essere la polizia. Ed era ben conscio
anche di qualcos’altro.
A lui, in fondo, non importava
così tanto che il colpevole venisse
trovato. Quello che gli rodeva
l’anima, in quel momento, era che
lui voleva capire chi fosse il
colpevole. Poi, lo prendesse chi di
competenza. Se era Alice, meglio.
Se lo meritava. Ma Massimo sentiva
il dovere di capire. Perché il passo
che aveva fatto in realtà sembrava
averlo portato più lontano dalla
soluzione che lui stesso si aspettava.
Aveva reso il problema più
complicato, e quindi più
interessante. Abbastanza
interessante da invadergli il cervello
e rendere temporaneo ogni altro
pensiero, perché tanto la mente
tornava sempre lì, e qualsiasi cosa
succedesse era in grado di attirare la
sua attenzione solo in modo
precario, se mai ci riusciva. Quando
sei concentrato su un problema, e
tutti i neuroni viaggiano coordinati
in un’unica direzione, la mente ha
un’inerzia tale che deviarla dalla sua
direzione è difficile, e anche i sensi
quasi non funzionano.
Fu per quel motivo che Massimo
non si accorse subito che qualcuno
lo stava chiamando al telefono. Ma,
una volta realizzato che la sua tasca
aveva iniziato a suonare la sigla di
Jeeg robot d’acciaio, forse era il
caso di rispondere.

La curiosità per il superfluo,


diceva qualcuno, è quello che sopra
ogni cosa ci rende umani. Un’altra
cosa che ci rende umani, invece, è la
sensazione di fastidio che proviamo
quando siamo immersi in un’attività
totalmente coinvolgente (mangiare,
guardare un film, fare l’amore,
pensare a un delitto) e qualcuno,
magari oltretutto sconosciuto, ci
chiama al telefono. Per cui,
Massimo si tolse un guanto con i
denti e prese il cellulare dalla tasca
con malagrazia, guardando lo
schermo con sospetto per cercare di
capire chi fosse il rompicoglioni che
chiamava a mezzanotte e cinque.
Massimo dette una prima occhiata
al display, dove non c’era un nome,
ma un numero. Trequattrosette,
cinquantuno zerodue vattelappesca.
Qualche sconosciuto, appunto.
Ma quel numero, invece,
Massimo lo conosceva.
Era il numero che aveva chiamato
poco prima, al bar.
Il numero che aveva trovato sui
tabulati telefonici, quando erano
cascati dalla cartellina di Alice, e
che si trovava nel posto sbagliato, e
soprattutto al momento sbagliato.
Talmente sbagliato che aveva
attirato la sua attenzione, e lo aveva
imparato a memoria.
Con pollice tremante, Massimo
fece scorrere il piccolo pallino verde
verso destra, e portò il telefono
all’orecchio.
– Pronto – disse.
– Sì, ho trovato questo numero sul
mio cellulare... – disse una voce
gentile.
– Sì, buongiorno, mi scusi,
cercavo Remigio – disse Massimo,
sforzandosi di essere serio.
– Chi cerca, scusi?
– Remigio. Remigio Cottarelli –.
Ovvero il primo nome che mi è
venuto in mente.
– No, guardi, ha sbagliato numero
– disse la voce gentile, e riattaccò.
Massimo, lentamente, rimise il
telefono in tasca, dopo averlo
silenziato, come se volesse
ignorarlo.
Del resto, era anche
comprensibile. Probabilmente,
aveva appena parlato con un
assassino. Anche se ne ignorava
tutto, pure il nome e il cognome.
Dieci

– «... in seguito alla quale Matteo


Corradi è stato infine rilasciato dallo
stato di fermo, anche se il pubblico
ministero ha sottolineato che il
rilascio è avvenuto esclusivamente
in quanto non sussiste pericolo di
fuga. Sul prosieguo delle indagini,
infatti, gli inquirenti mantengono
ancora il più stretto riserbo, e non
manca la possibilità di nuovi,
clamorosi sviluppi già in giornata.
Stamani, secondo alcune
indiscrezioni, è prevista l’audizione
di Sonia Caruso, stretta
collaboratrice del Corradi all’interno
della Farmesis», ma la tiene stretta
anche a casa sua, altro che, «la quale
sarebbe in possesso di elementi
cruciali per l’indagine, nella quale la
posizione del Corradi non sembra
essersi affatto alleggerita». Invece la
posizione della signorina Caruso, mi
sembra d’ave’ capito, era parecchio
a pecora –. Ampelio, ripiegando il
giornale, sorrise con il senso di
soddisfazione di quando ne sai più
del giornalista, è raro ma può
capitare se frequenti i posti giusti. –
Te lo sapevi, Tiziana?
Primo, io non lavoro alla
Farmesis e quindi non lo so chi va a
letto con chi – disse Tiziana, un
occhio al registratore di cassa e un
altro al registro delle entrate della
sera prima. – Secondo, ieri sera
mentre Massimo era di là a
confessare Matteo Corradi io ero di
qua da sola come una cretina a fare
il fondo cassa, e non ho nemmeno
finito.
– Ma quarcosa avrai sentito anche
te...
– Io ho sentito solo una bella
osservazione elegante sulla
posizione della signorina Caruso. Al
solito, i commenti grezzi sempre
sulle donne – replicò Tiziana, con
gli occhi sui conti. – Non credo che
anche la posizione di Matteo Corradi
fosse tanto dignitosa. Anzi, magari
al Corradi piace farsi frustare dalla
signorina Sonia, te che ne sai?
– Assolutamente nulla, è vero –
concordò Aldo. – Però, Tiziana, se
mi permetti qui sei ingiusta. Puoi
dire tutto di Ampelio, ma non che
faccia distinzioni. Per lui, maschi o
femmine che siano, di commenti fini
e garbati non me ne ricordo tanti.
– Io parlo bene dell’amici –
commentò Ampelio, posando il
giornale.
– Figuriamoci allora se qualcuno
ti sta sulle scatole – commentò
Tiziana, alzando gli occhi con un
sorriso. – A proposito di amici, ma
Pilade sta male?
– E chi lo sa? – disse Gino. – Di
solito a quest’ora è qui. Sarà ir caso
di da’ uno squillo?
– No, vedrai è ancora un po’ sulle
sue – disse Aldo. – Scommetto
quello che vuoi che entro un’oretta è
qui.
– Lo conosci così bene?
Piuccheartro conosce la su’
moglie – commentò Ampelio,
picchettando il bastone in terra un
paio di volte. – Se penzi che io
chiacchieri troppo vai a trova’ la
Vilma, però un giorno che ’un ciai
niente da fa’, mi raccomando. E
’nzomma ir Corradi l’hanno
rilasciato, via. Massimo, te di nòvo
sai niente?
Massimo, che era appena entrato
dalla porta a pendolo con in mano
una cassa dell’anonimo spumante
Riccardi Santangeli, fece l’unico
gesto che poteva, cioè di no con la
testa.
– Nulla – confermò a voce, dopo
aver posato la cassa dietro al
bancone. – Del resto ieri quando
Alice è tornata a casa non aveva
troppa voglia di parlare del caso.
Anzi, non aveva troppa voglia di
parlare, punto. Figurati che è andata
a letto senza mangiare nulla. Vero
che era l’una e mezza, ma andare a
dormire senza nemmeno uno
spuntino non è da lei. Comunque fra
poco dovrebbe passare a fare
colazione, a quanto ho capito alle
dieci hanno un altro interrogatorio.
Puoi chiederglielo direttamente, se
vuoi.
– Passa fra poco? – Ampelio alzò
le sopracciglia. – Allora sarà il caso
di avvertire coso, lì, il giornalista.
– Frateschi? Pover’uomo, non
credo che Alice ci vada a litigare.
Più che altro è con quell’altro,
Posinato, quello del...
– Scusate, scusate – si inserì
Massimo. – Che cosa viene a fare
qui un giornalista?
– Ma nulla, è che siccome son
cinquant’anni dal sessantotto, allora
ora c’è pieno di commemorazioni,
libri, segate e artro. E siccome se
penzi a’ politici di oggi ti vien da
piangere, allora i giornalisti hanno
deciso di facci penza’ alla politica di
cinquant’anni fa.
– E perché cercano voi?
– Veramente cercano il tuo nonno
e basta – disse Aldo. – Sai, era
capostazione. E i primi scontri tra
polizia e studenti avvennero proprio
alla stazione di Pisa, esattamente
cinquant’anni fa, il quindici marzo.
– Capisco – disse Massimo,
uscendo di nuovo dalla sala verso il
magazzino.

– A Pisa? – chiese Tiziana. – Ma


te, Ampelio, non lavoravi a
Navacchio?
– A Navacchio, sì – confermò
Ampelio. – Però era un periodo che
c’era bisogno anche di chi lavorava
a Sarzana. Ti chiamavano e te
andavi. E io mi ritrovai a Pisa ner
giorno sbagliato. Ir giorno della
stazione.
– Il giorno della stazione – ripeté
Tiziana, con l’aria dello studente che
cerca di seguire, ma non capisce.
– Praticamente – si inserì Aldo –
cinquant’anni fa, il tredici di marzo,
ci fu il primo arresto di due studenti
universitari per motivi, diciamo così,
politici. Una mezza rissa con un
altro rappresentante degli studenti.
– Ma dove, proprio a Pisa? –
chiese la ragazza, chiudendo il
cassettino della cassa.
– Proprio a Pisa. Due ragazzotti
che entrarono in un’assemblea e
cercarono di impedirla. Il presidente
dell’assemblea si prese uno schiaffo,
o quel che era, e siccome non era la
prima volta che questi tizi si
comportavano come se il popolo
fossero solo loro decise di
denunciarli.
– Uno di destra?
– Ma meglio. Era uno che non era
abbastanza estremista. Quelli che
vennero arrestati, invece, erano
estremisti duri e puri. Cinesi, li
chiamavano.
– Erano de’ ragazzini – disse
Ampelio. – Tutti e tre, i due che
n’hanno tirato uno schiaffo e il terzo
che se lo prese e li denunciò. E
l’arrestarono. Era cinquant’anni fa
esatti.
– Sì, ma comunque l’hanno
liberati un po’ prima, sai, Ampelio.
Hanno fatto anche carriera. Mica
male, per gente che andava a
prendere a schiaffi chi non la
pensava come loro.
– Erano ragazzini – ribadì
Ampelio. – Guarda Massimo, com’è
istruito e accurturato ora, anche lui
da piccino si càava addosso, sai? La
gente cresce. Cresce anche facendo
le bischerate. Anch’io n’ho fatte
parecchie di bischerate all’epoca.
– Ma quindi, Ampelio, fu alla
stazione che t’arrestarono?
Ampelio, dopo aver guardato un
attimo la ragazza, le puntò lo
sguardo negli occhi.
– E te come lo sai?
– Me l’ha detto Marchino – disse
Tiziana, stringendosi nelle spalle, e
quindi sollevando ulteriormente le
puppe, ma nessuno lo notò. – Ne
parlavate l’altro giorno al bar.
– Ragazzi, in questo posto ’un si
pòle tene’ nascosto nulla, eh – disse
Ampelio tornando con lo sguardo su
Tiziana.
– Sarebbe la prima volta che te ne
lamenti – disse Aldo. – Comunque
no, Tiziana, Ampelio non fu
arrestato alla stazione, e nemmeno
negli incidenti del tredici marzo. Fu
arrestato un paio di mesi prima,
all’università.
– E cosa ci facevi all’università?
– Ero stato chiamato come
rappresentante der sindacato de’
ferrovieri – disse Ampelio,
appoggiandosi sul bastone e
facendone roteare lento il manico,
come se stesse mescolando il
pavimento. – C’era una riunione per
discutere di strategie di lotta.
– Artro che lotta, s’arrivò alla
rissa – fece notare Aldo. – Rissa
aggravata. Otto arresti, fra cui il
nostro eroe.
– Rissa aggravata?
– Ho dato du’ manate a uno che se
le meritava – disse Ampelio al
pavimento, ma con voce chiara e
scandita.
– Chiamale due manate – disse il
Rimediotti. – N’hai rotto la
mandibola.
Ampelio annuì, lentamente, non
senza una puntina di
compiacimento, guardando Tiziana
negli occhi mentre si ergeva sul
bastone. Ora mi vedi così, bimba,
con tre zampe, una sottile e due
troppo gonfie, ma quando avevo la
tua età ti saresti voltata te.
– Ero giovane – disse Ampelio. –
Ero stupido. Mi son trovato in una
situazione antipatica, e ho fatto una
bischerata.
– Io bischerate così non ne ho mai
fatte.
Te sei un caso a parte, Ardo. Te
sei nato vecchio. Io sono stato anche
giovane, e quando sei giovane non
stai mai fermo. Del resto, siamo così
di famiglia –. Ampelio scosse la
testa. – Me lo riòrdo sempre quando
Massimo era piccino, che sartava e
chiacchierava fisso e ’un c’era verzi
di tenello bòno, e se gli dicevi
Massimo stai fermo ti diceva va
bene nonno e andava via a corza. E
la su’ nonna al dottor Cipolloni gli
chiese: «O dottore, ma è regolare
che ’un ubbidisca mai?». E il
Cipolloni la guarda e fa: «Signora,
ha quattro anni. Se lo voleva buono
e ubbidiente doveva farlo scemo».
Ampelio annuì, orgoglioso come
sempre di quel nipote scostante,
rompicoglioni e così intelligente.
– Da giovani le bischerate le
fanno tutti. Bisogna distingue’ tra
bischerata e reato, però, sennò artro
che galere piene. Infatti quella vorta
lì la questura di Pisa, che ci
conosceva bene o male tutti, lasciò
perdere. Ci portarono in questura,
una ramanzina e via.
– Comunque la situazione
peggiorava, e s’arrivò al tredici di
marzo – disse Aldo. – Agli scontri in
Sapienza. Robetta, a quanto dice
Ampelio.
– Ma infatti, robetta – confermò il
vecchietto. – Anche lì la questura di
Pisa conosceva tutti e tre, e
probabirmente avrebbe anche
lasciato perde’. L’ordine di cattura
arrivò direttamente da Firenze.
– Sèi, figurati se da Firenze
arrivavano a arresta’ uno a Pisa... –
tentò il Rimediotti.
Invece me lo riòrdo dimorto bene
– troncò Ampelio. – Io ero ’n
ferrovia, mìa come te a perde’ le
raccomandate. Du’ giorni prima
l’arrestarono. Così ir quindici di
marzo, cioè oggi, ma cinquant’anni
fa, la manifestazione. E questi
scialucchi invece di occupa’
l’univerzità arrivarono alla stazione,
si misero a sede’ su’ binari e
fermarono tutto. Volevano che
arrivasse la polizia. E andò a fini’
che la polizia arrivò per davvero.
Du’ legnate, quarche sassata, e
l’hanno riarzati, e per come era
partita è andata anche troppo bene.
Poi ci furon degli strascichi.
Denunce, arresti, rappresaglie. Il
figliolo del Ghignola si mise in testa
d’occupa’ la stazione di Navacchio
da solo e si sdraiò su’ binari cinque
minuti prima che passasse il diretto
da Empoli, mancapòo l’arrotano.
– Vedi? Ecco la sinistra –. Aldo
indicò Ampelio. – Finché protestano
fuori dal mio giardino, sono degli
eroi. Appena mi rompono i coglioni
a me, però, son dei delinquenti.
– Sentite bimbi, a me se parlate
dei bei tempi del sessantotto quando
eravate ancora anziani mi importa il
giusto –. Massimo, rientrando dalla
porta a pendolo, appoggiò l’ultima
cassa di spumante dietro il bancone
e prese il taglierino. – Vi chiederei,
se il giornalista guardacaso va a fare
qualche domandina sul caso
Luraschi, e di lì al caso Giaccherini
è un attimo, di far finta di essere
anche sordi, oltre che vecchi e
rincoglioniti.
Ampelio, tirandosi su il basco
sulla fronte, guardò Massimo dritto
negli occhi. Si stupiva sempre,
Massimo, del contrasto fra il resto
del viso del nonno, con la pelle che
sembrava cuoio anticato, e gli occhi
lucidi, vigili, giovani.
– Senti, palle, ner ’68 si diventava
maggiorenni a ventun anni. Ora si
diventa maggiorenni a diciotto. Io
ero maggiorenne allora, quando te
più che càarti addosso non facevi, e
sono maggiorenne ora. E faccio un
attimino cosa mi pare.
– Ah be’, se la metti così,
liberissimo.
– ’Un ciò bisogno che me lo dìa
te. Che son libero lo so da solo.

– Pronto, Pilade?
– Pronto, Massimo –. La voce di
Pilade, al telefono, dava l’idea di chi
non vede l’ora di essere chiamato,
ma se aspetti che chiami lui addio. –
Com’è? Tutto bene?
Massimo, con la mano, verificò
che la porta dello stanzino fosse ben
chiusa. Preferiva sempre usare il
telefono fisso, quando era possibile.
Il cellulare andava bene per i
messaggi, ma a tenerlo all’orecchio
Massimo aveva sempre la
sensazione che gli si stesse
friggendo il cervello.
– Tutto bene. Te? Sei a casa?
– No, sono in Comune. Ero
venuto a saluta’ un paio di persone.
Lì ar barre com’è, è sempre in piedi?
– Per ora. Senti, mi ha detto
nonno che stamani sarebbe passato
dal bar un giornalista per una specie
di rimembranza del ’68, e voleva
intervistare nonno. Nulla di più
facile che scappi qualche domanda
sul caso Luraschi. E poi di lì...
– Sicuro che va a finire così. E io?
– E te saresti quello del gruppo
che ha più senso della
responsabilità. Mio nonno lo sai
com’è. Aldo pur di chiacchierare
parla anche di quello che non sa. Il
Rimediotti come lo pungi sprizza
come un palloncino...
– Dammi du’ minuti e arrivo.
E Massimo, uscito dallo stanzino,
rientrò a tutti gli effetti nel bar.
Trovando, oltre ai tre cavalieri della
pensione, anche Alice, in piedi
accanto al suo solito sgabello.
– Ciao bella. Dormito un po’?
– Come un’incudine. Scusa se
stamani non ti ho salutato ma ero in
coma. Poi fra poco si ricomincia, ho
pensato che era meglio se rimanevo
un po’ a letto. Tanto è ancora presto
per andare in questura.
– Hai fatto benissimo. Anzi, sai
cosa si fa? Ora cappuccino, e prima
di andare in questura facciamo una
passeggiata, così finisci di svegliarti.
E magari eviti di incontrare
giornalisti anche al bar. Alice parve
soppesare l’offerta di Massimo.
– Va bene, ma prima il
cappuccino.
– Ci vuoi un cornetto, o una
sfoglia?
– Niente, Massimo, grazie.

– Allora oggi ti tocca il terzo


vertice del triangolo, ho sentito.
Con andatura efficace, Alice e
Massimo si dirigevano verso
l’automobile. Due passi giusto per
accompagnarla alla macchina, anche
perché si vedeva che Alice non
aveva nessuna fretta di andare in
questura.
– Esatto. Sonia Caruso, project
manager della Farmesis. Ormai di
lei so tutto. Trentadue anni, laureata
in Chimica e Tecnologia
Farmaceutica, brevetto di subacqueo
professionista.
– E tutte queste cose come le sai?
Te le ha dette Matteo Corradi?
Alice, continuando a camminare,
fece vedere il cellulare.
– Me le ha dette il suo profilo di
LinkedIn. Guarda qua.
Massimo vide la foto di una
ragazza in giacca dietro a un leggìo
da oratore, di quelli da convention
aziendale. Dietro alla ragazza, le
lettere «Farmes» che
campeggiavano in blu su uno
schermo bianco suggerivano in
modo discreto ma efficace dove
lavorasse il soggetto.
– Bellina. Deve averci anche il
pigiama con scritto Farmesis.
– Quello che ho pensato anch’io.
Una che se vuole una cosa la ottiene,
vero?
– Sì, dà l’idea. E perché la volete
interrogare? Solo per verificare
l’alibi di Matteo, o c’è dell’altro?
– Mah, non è chiaro. Brodolini
dice che la ragazza è testimone
essenziale e va sentita, ma secondo
me ha qualcosa in mente.

Rientrato al bar, Massimo trovò


tre persone in più rispetto a quante
ne aveva lasciate.
La numero uno, Marchino, era
logico e giusto trovarsela lì, perché
in fondo era il suo posto di lavoro.
La seconda, ovvero Pilade, era
anch’essa attesa, perché aveva detto
che sarebbe andato al bar e quando
Pilade prometteva di fare qualcosa,
pur spiacevole che fosse, la faceva.
La terza Massimo non la conosceva,
ma non era difficile immaginarsi che
fosse il giornalista di cui i vecchietti
parlavano prima. Tutto era come da
aspettarsi, dunque.
L’unica cosa che stonava era il
fatto che Marchino stava
partecipando attivamente alla
discussione. Cosa che capitava
raramente, e quando si parlava di
politica, praticamente mai.
– E comunque io ’un son
d’accordo. Mi sembra una cosa un
po’ troppo cerebrale. Ora, non che
nell’ambiente sian tutti stupidi, però
di storici e di filosofi ce n’è pochi.
Invece di gente che sa parlare bene...
– Oh, alla grazia di Massimo –
interruppe Pilade. – Forse lui lo sa.
Proviamo un po’ a chiedello a lui.
– Mah, potrebbe anche sapello –
osservò Ampelio, con distacco
olimpico. – Se è quarcosa che ’un
serve a nulla, ir bimbo lo sa guasi
sempre.
– Sono commosso dalla fiducia –
disse Massimo. – Però dovreste
saperlo che a me di discutere di
politica mi importa zero.
– Veramente, non stiamo parlando
di politica – disse il giornalista,
volgendo verso Massimo uno
sguardo furbo, appesantito da due
grosse borse agli occhi, e
porgendogli una mano dalla pelle
diafana. – Stavamo parlando di
ultras. Piacere, Frateschi.
– Massimo – rispose, appunto,
Massimo, stringendo la mano che gli
veniva porta. – Ultras? Avevo capito
che dovevate parlare del ’68.
– Appunto – disse Marchino. – Te
lo sapevi che il tifo organizzato, gli
ultras, sono nati proprio nel
sessantotto?
– No – rispose Massimo, asciutto.
Non lo sapevo, e mi importa anche
una ricca sega.
Millenovecentosessantotto, sicuro
– disse il giornalista. – All’inizio in
Inghilterra, come movimento di
aggregazione dei giovani, che
cercavano un posto che fosse di loro
esclusiva competenza. Da noi, e in
Francia, furono le università. In
Inghilterra, visto che la protesta non
partiva dagli studenti, ma dai
lavoratori, furono gli stadi.
Massimo annuì con compunzione,
notando nel contempo che il tizio
aveva davanti un bel bicchierozzo di
whisky, cosa che essendo le dieci di
mattina incontrava la sua massima
disapprovazione. Non che di
alcolisti non ne vedesse – in fondo,
pur se contemporaneo ed
accattivante, era pur sempre un bar –
ma c’era qualcosa in quell’uomo che
gli dava sottilmente fastidio.
– Capisco – disse Massimo. – E il
motivo del contendere?
– È proprio sull’origine del nome
– spiegò il giornalista, dopo un bel
sorsetto ambrato. – Io sapevo che
derivava da ultra-royaliste, ultra
realisti. Che erano, in realtà, dei
terroristi. Terroristi francesi che si
opponevano all’indipendenza
dell’Algeria. Ma il suo banconista,
che pare sia esperto dei gruppi in
questione, non è d’accordo.
– Io la sapevo diversa, tutto qui –
si schermì Marchino. – Poi però non
è che ciò studiato.
– E cos’è quello che sapevi te? –
disse Massimo, senza lasciar
trasparire lo stupore per il fatto che
Marchino sapesse qualcosa.
Praticamente, il primo gruppo
ultras che si è costituito in Italia,
proprio con il nome ultras, è quello
della Sampdoria. Ultras Tito
Cucchiaroni, nati nel ’68 –.
Marchino allontanò la mano a palmo
in giù, come scostando i possibili
dubbi. – Io però sapevo che ultras
era un acrostico. Uniti Legneremo
Tutti i Rossoblù A Sangue. Me
l’hanno confermato gli stessi ex
ultras della Samp.
– Gente disinteressata – rispose
Frateschi, il giornalista. – Una storia
così bella sarebbe un peccato
smentirla. Anche se la versione
corretta fosse la mia pure io avrei
risposto così, se fossi un ultras della
Samp. Lei, che mi dicono avere una
cultura sterminata, ci può aiutare?
– L’unico modo in cui posso
aiutarvi è farvi un caffè – disse
Massimo. – Per il resto, non sono in
grado di dirimere la questione.
Posso solo far notare due cose.
– Ce le dica, allora.
– Punto uno, la frase che ha detto
Marchino sembra costruita apposta
per far collimare le lettere iniziali
con una parola già esistente. Mi
sembra molto forzata. Non è
difficile costruire frasi di senso
compiuto che vanno a formare
acrostici.
– Vero – notò il giornalista. –
Tanto per restare sul calcistico, mi
ricordo che uno degli sponsor della
Juve era la Upim, ovvero «Unione
Per Imbrogliare Meglio». E la
seconda?
La pregherei di non dire parolacce
nel mio bar. La seconda è che, in un
caso o nell’altro, la scelta del nome
indica degli estremisti esagitati con
dei grossi problemi personali, che
riescono a risolvere solo in branco, il
che mi porta ad escluderli dalla mia
cerchia di amicizie. E anche di
dipendenti. Per cui, caro Marchino,
questa tua approfondita conoscenza
della sottocultura da stadio mi porta
a pensare se sia o meno il caso di
rinnovarti il contratto.
– Non gli dia retta, eh – disse
Marchino. – Scherza. A Massimo il
calcio piace, non gli piacciono i
tifosi.
– Non mi piace il branco – disse
Massimo. – Non mi piace vedere
persone che fanno cose che da sole
non farebbero mai. È la logica del
beduino che mi fa orrore.
– La logica del beduino?
– La logica del beduino –
confermò Massimo. – I quattro
assiomi da cui derivano i
comportamenti di un branco. Il
mondo si divide in amici e nemici.
Primo, il nemico di un mio amico è
mio nemico. Secondo, il nemico di
un mio nemico è un mio amico.
Massimo andò a prendere posto
dietro al bancone, allacciandosi di
nuovo il grembiule verde, e
continuando a chiedersi per quale
motivo perdurasse quella sensazione
di fastidio.
– Terzo, l’amico di un mio
nemico è mio nemico. Quarto, e più
preoccupante, l’amico di un mio
amico è mio amico. Anche se è il
peggior fetente sulla faccia della
terra. La logica del branco, quella
per cui l’uomo ha fatto le peggiori
carognate sulla faccia della terra.
Il giornalista annuì, posando il
bicchiere.
– Sa, è molto vicino a come
ragionavano le persone nel ’68.
Massimo alzò le sopracciglia,
mentre si voltava verso la macchina,
e incontrò il proprio sguardo nella
specchiera. Per un secondo o due,
rimase a guardarsi senza vedersi.
Poi, scrollando la testa, aprì un
cassetto e ne tirò fuori un lungo
coltello da pane.
E così, ecco chiarito l’ultimo
mistero. Quello che prendeva la sua
meravigliosa intuizione, la buttava
nel cesso e tirava lo sciacquone.
Pensiamo a fare il barrista, vai,
che è meglio. C’è da preparare per il
pranzo, per esempio. Grembiule,
c’è. Coltello, c’è. Derrate, di là. Via,
al lavoro.
– Sì, molto ’68, questo modo di
ragionare. Se non sei con me, sei
contro di me – continuò Frateschi,
mentre Massimo andava nel
retrobottega. – E la gente aveva la
memoria lunga, sa, signor Pardini.
– Lasci perdere Pardini. Mi
chiamano tutti Marchino.
– Va bene, Marchino. La gente
ricordava, specialmente quelli in
alto. Per qualcuno il ’68 è finito il
primo gennaio del sessantanove, per
altri è finito parecchio dopo. Come
lei, vero, Ampelio? Io mi ricordo
che lei dopo i fatti della stazione
venne trasferito d’ufficio, vero?
– Trasferito, sì – annuì Ampelio. –
Venni mandato capostazione a
Pracchia, sull’Appennino, fra
Modena e Pistoia. Due anni ci sono
stato, fra ’r sessantotto e ’r settanta.
Un posto der cazzo, un freddo
becco, e c’era più gradi sur
termometro che persone. Ero un
dipendente pubblico, e la punizione
fu quella lì. Ma c’è gente che n’è
andata anche peggio. Ner sessantotto
era brutta, ma dall’anno dopo iniziò
a esse’ peggio.
– Ho capito, ma punizione per
cosa?
– Rissa aggravata – disse
laconicamente Aldo, tentennando
solenne il capo.
– Arieccoci – sospirò Ampelio.
Diede un par di gollettoni a uno in
Sapienza, durante una riunione –
tentò di minimizzare il Rimediotti. –
Niente di grave, eh.
– Uno di destra? Un fascista?
– Certo che siete fissati coi
fascisti – disse Aldo. – Comunque
no, non era certo di destra, il
Colleoni. Anzi, era uno parecchio
sinistro.
– Colleoni, certo. Mi ricordo. Era
un professore della Normale. E
come mai si è picchiato con
Colleoni?
– Veramente non si sono picchiati
– puntualizzò Pilade. – Ampelio l’ha
preso a cazzotti. È diverso, vero,
Ampelio?
– Abbia pazienza, Frateschi, non
ne parlo volentieri –. Ampelio,
appoggiandosi al bastone, scosse la
testa. – Ci son poche cose in vita
mia che mi fanno prova’ vergogna, e
questa è quella peggiore, devo esse’
sincero.

– Lei che ne pensa?


– Sembra sincera.
– Lei dice?
Alice aveva guardato un attimo
Brodolini, seduto dietro la sua
scrivania. Aveva addosso la stessa
giacca da tre giorni, e la camicia
doveva essere la numero sei di uno
stock da dodici tutte uguali. Tutto
sempre uguale, incluso il tono di
voce del facente funzione («dottor
Brodolini, c’è Martelli») che la
annunciava sempre allo stesso
modo.
– A lei non è sembrata sincera? –
chiese Alice, di rimando.
– Non ne sono sicuro – disse
Brodolini, con l’aria che sembrava
dire «sono sicuro di no».
– E cosa c’è che non le torna?
– Vorrei rivederli insieme tutti e
tre. Vede, ho una mia congettura su
come potrebbero essere andate le
cose.

– Mi piace l’uso del termine


congettura – disse Massimo. – Di
solito quando gli avvocati vogliono
parlare di convinzioni dei magistrati
nei confronti di qualcuno usano la
parola teorema. Invece è una
congettura. Bravo Brodolini. E quale
sarebbe la congettura?
Alice, appoggiando la forchetta
sull’orlo del piatto ancora quasi
pieno, si versò un bicchiere d’acqua.
– Praticamente, Brodolini mi ha
fatto notare che la scena del crimine,
dell’omicidio di Giaccherini, è stata
ripulita perfettamente. Non ci sono
impronte digitali, non ci sono tracce
di sangue a parte quelle clamorose
sul cadavere, e l’arma del delitto è
stata portata via. Un lavorino pulito
pulito. Sembra un delitto passionale,
però fatto da un professionista.
– Un ossimoro, direi. Ne vuoi
ancora un goccio? – chiese
Massimo, versandosi un po’ di vino.
– Sì, grazie, mi ci vuole –. Pausa-
sorso. – Un ossimoro, dicevi.
Aspetta a sentire quello che arriva
ora. Perché la tesi di Brodolini è che
chi ha ucciso Ubaldo Giaccherini sia
uno che si intende di indagini.
Qualcuno che è dentro l’ambiente.
– Non ti seguo. Come un
poliziotto?
– Non necessariamente. Anche
come un avvocato. Magari un
avvocato che non ha esercitato per
tanto tempo, anche perché si è
sposata giovane e ha smesso di
lavorare.
– Roberta Serra?
– Esatto.
– Cioè, in pratica, mi stai dicendo
che Brodolini sospetta che mentre
Matteo e Sonia sono lì che
consumano, Roberta esce di casa,
dalla finestra si intende, perché la
porta non registra nessun
movimento di entrata e uscita, va a
casa di Giaccherini, gli somministra
un colpo di soprammobile in testa e
torna a casa, sempre passando dalla
finestra. Alla faccia del delitto
passionale. Qui siamo a livelli da
James Bond.
– Sì, è quel che penso anch’io –
rispose Alice, dopo qualche
secondo. – Ho provato a farlo
presente a Brodolini, ma credo di
aver capito quello che dicevate.
Quest’uomo li odia letteralmente
tutti e due. Sia Corradi che la Serra.
Non sta più indagando, questa roba
assomiglia a una fissazione.
– E tu che possibilità hai di fargli
cambiare idea?
In astratto, dovrei portargli
ulteriore materiale probatorio che
reindirizzi le indagini –. Alice, dopo
aver fatto ruotare lentamente il vino
nel bicchiere, sembrò capire che era
troppo grande per giocarci, e che
quella roba aveva bisogno di essere
bevuta per riuscire a farti pensare ad
altro. – In concreto, non ne ho idea.
Cioè, dovrei portargli l’assassino
impacchettato, col fiocchetto e tutto.
Il che al momento mi è impossibile.
Non ho una direzione su cui
indagare, perché fin dal primo
momento tutte le indagini si sono
concentrate su Matteo Corradi, e
adesso, tanto per dirne una,
chiunque abbia portato via l’arma
del delitto, cioè la statuetta di bronzo
a forma di ape, ha avuto tempo non
solo di buttarla via, ma anche di
rifonderla, se ne ha avuto voglia. E
in questo momento magari è un
grazioso oggetto ornamentale a
forma di assassino che fa il gesto
dell’ombrello. Titolo dell’opera:
«Non mi beccherete mai». Se non
dici qualcosa anche te, Massimo, mi
tocca continuare a sparare cazzate di
questo genere, e non è bello, sai?
– Sì. È che non ho niente da dire.
Il che non era esattamente vero.
Semplicemente, Massimo stava
pensando ad altro. O meglio, stava
pensando se era il caso di dire ad
Alice quello che aveva deciso di
dirle.
– Anzi, una cosa da dire ce
l’avrei.
– Ora ti riconosco. Avanti, dai,
dammi qualche suggerimento
mirabolante. Dimmi, dimmi. Vorrei
nome dell’assassino, codice fiscale,
ultimo domicilio conosciuto, locali
che è solito frequentare, tante volte
non fosse in casa al momento
dell’arresto. Io intanto faccio il
caffè.
– Sai, per un attimo ho avuto la
sensazione di aver capito qualcosa,
ma oggi... – Massimo si schiarì la
voce. – E comunque non volevo
parlare di assassini. Volevo parlare
di altri crimini. Di furti, per la
precisione.
– Di furti?
Sì, signor vicequestore. Volevo
confessare un furto. Furto aggravato.
Ho rubato un oggetto dal mobile del
bagno di un rappresentante delle
forze dell’ordine. Alice fece un
sorriso con una piccola crepa di
stanchezza.
– Furto con scasso, quindi?
– No, direi con destrezza. Vede, il
vicequestore in vicequestione è la
mia fidanzata.
– Ah. Pure. E cosa avrebbe
rubato, sentiamo?
– Questo.
E Massimo mise la mano nella
tasca anteriore della felpa, dove
aveva nascosto il corpo del reato.
Ovvero, la scatoletta di pillole
anticoncezionali di Alice.
Sulle possibili reazioni di Alice,
Massimo aveva messo in conto le
seguenti due:
1) Io sono qui che parlo del mio
lavoro, cioè di un mio problema, e tu
arrivi, mi fai il colpo di teatro, cambi
discorso e ti aspetti che mi metta a
piangere per la commozione e la
contentezza, ma per chi mi hai
preso, scusami ma vado a letto, è
stata una giornata di merda e sono
stanca.
2) Che bello Massimo, però ora
rimettile a posto che sennò stasera
non le trovo e poi me le scordo e mi
si sballa tutto, domani ne parliamo
che ora sono stanca. Invece, Alice
posò il bicchiere accanto al piatto
molto lentamente e si alzò in piedi.
– È un reato grave – disse,
andando di fronte a Massimo. –
Rischia di venire scoperto. Ha
intenzione di restituirle?
– Assolutamente nessuna.
– Allora dovrò punirla – disse
Alice, mentre gli tirava giù la zip
della felpa.

Al buio, sotto le coperte, Alice


dormiva. Addosso, un pigiama con
gli orsetti. Accanto, Massimo in
mutande, con le mani intrecciate
dietro la testa.
Se fosse stata sveglia, Alice si
sarebbe resa conto che già da
qualche minuto, anzi, probabilmente
da un quarto d’ora buono, Massimo
aveva chiuso gli occhi ma non
dormiva affatto. A un certo punto,
addirittura, si era seduto sulla
sponda del letto e aveva
incominciato a dondolarsi piano
piano, avanti e indietro, sempre a
occhi chiusi anche se nella stanza
c’era buio. Buio talmente pesto che
quando Massimo, a un certo punto,
prese il cellulare e lo toccò, la luce
del display sembrò talmente tanta
che la stanza parve risvegliarsi.
E, insieme alla stanza, Alice.
– Massimo?
Massimo, il telefono all’orecchio,
non rispose.
– Massimo, che fai?
Massimo continuava a non
rispondere. In quel momento, però,
all’altro capo del telefono rispose
qualcun altro.
– Pronto? Buongiorno signora,
sono Massimo. Massimo Viviani del
BarLume. Mi potrebbe passare
Pilade?
Breve silenzio.
– Sì signora, ne sono consapevole.
Per essere precisi, le tre e un quarto.
Potrebbe passarmelo lo stesso?
Breve silenzio.
– Pronto, Pilade? Ciao, sono
Massimo. Senti, ho bisogno di
vederti. Ce la faresti ad essere al bar
fra una mezz’oretta?
Silenzio breve, ma intenso.
– Sì, certo. Certo. Grazie. A fra
poco.
E Massimo, alzatosi, andò
all’armadio e iniziò a vestirsi.
– Massimo, che cacchio fai?
– Vado a parlare con Pilade.
– Ma sono le tre di notte...
– Se va in porto quello che
abbiamo deciso di cominciare
stasera devi provare ad allenartici,
ad essere svegliata all’improvviso
alle tre di notte. Dai, su, mettiti
qualcosa e andiamo.
– Andiamo? – Alice si tirò le
coperte sulla testa. – Io non vado da
nessuna parte. Anzi, se non mi
riaddormento quando torni...
– Dolentissimo, ma Pilade ha
detto che se non ci sei anche te non
apre bocca. E lo sai come è fatto,
Pilade. Difficile da smuovere.
Undici, mi sembra

– Buongiorno, Pilade.
– Buongiorno? E son le tre e
quaranta – rispose Pilade, guardando
Alice. – Cosa si dice in questi casi,
Alice? Buongiorno, buonanotte?
– Buon futuro, allora. E grazie per
essere venuto, comunque.
Entrando nel bar, Massimo accese
le luci, e Pilade cedette il passo ad
Alice prima di entrare lui stesso.
Pilade Del Tacca non era mai stato
un uomo bello da ammirare, ma in
quel momento faceva un pochino
impressione. La barba di un
millimetro, grigia e ispida, che dava
un senso di trasandato, e i capelli
scarruffati, con un nido di merlo che
si alzava sulla nuca, dritto a ore
sette. E i vestiti col giro, come se si
fosse vestito al buio. O di fretta. O
tutt’e due.
Lascia sta’ il grazie, che ’un ci
sono abituato. Sai Massimo, io sono
un dipendente pubblico. Uno di
quelli che quando fanno il proprio
lavoro ammodino nessuno li
ringrazia, perché seòndo loro è tutto
dovuto, e quella vorta che ’un ci sei
o che ti sbagli allora tutti a
lamentassi –. Pilade si passò una
mano fra i capelli, tentando di
abbassare il nido ribelle. – Sono,
meglio, ero. Ero un dipendente
pubblico, ora sono in pensione.
E forse era proprio quel contrasto
che faceva impressione a Massimo,
che lo aveva sempre visto di giorno,
al bar, e solo ora si rendeva
pienamente conto che evidentemente
Pilade non usciva mai di casa senza
radersi di tutto punto e pettinarsi con
cura. Cosa che Massimo faceva una
volta alla settimana, se andava bene.
– Ma in Comune ci vai ancora,
giusto, Pilade? C’eri anche
stamattina.
– Sì, stamani ero in Comune –
rispose Pilade, dopo essersi seduto.
– Volevo da’ una controllata a una
cosa. Ero sicuro di ricordarmi bene,
ma volevo essere sicuro al cubo. Sai,
alla mia età si ricordano meglio le
cose di cinquant’anni fa che quelle
di ierlartro.
– E te lo ricordavi bene? – chiese
Massimo, mettendosi a sedere anche
lui.
– Sì, me lo ricordavo bene.
– Okay, okay – disse Alice, senza
mettersi a sedere. – Scusate, mi
sembra di essere al teatro
dell’assurdo. Adesso facciamo una
cosa: visto che Pilade ha voluto che
io fossi presente... In che ruolo,
Pilade? Fidanzata di Massimo o
vicequestore della Polizia di Stato?
– Come tutore delle forze
dell’ordine.
Bene. Allora mettiamo un po’ di
ordine, sennò non ci si capisce un
cazzo. Te, Massimo, domanda. Te,
Pilade, rispondi –. Alice,
sbadigliando, si voltò verso il
bancone. – Io faccio il caffè.
Scusate, ma altrimenti potete parlare
quanto volete, io mi addormento qui.

– Oggi, o meglio stamani, quando


sono entrato al bar, ho avuto
l’impressione che ci fosse qualcosa
che mi dava fastidio, ma non ho
capito subito che cosa. Ci ho
riflettuto stanotte, mentre tentavo di
addormentarmi.
– Penza te che io c’ero riuscito –
disse Pilade.
– Beato te. Io non ci riuscivo,
perché Alice russava. Non lo sapevo
che Alice russasse. Non l’avevo mai
sentita russare prima d’ora. Si vede
che di solito mi addormento prima
di lei.
Alice annuì, con un gesto breve e
incalzante, e Massimo capì che
meno si perdeva in dettagli
d’ambiente e meglio era.
– Comunque, ho iniziato a
pensare al fatto che ai rumori non
riesci ad abituarti. Puoi abituarti alla
luce, agli odori, a tante cose, ma un
rumore fastidioso non c’è modo di
ignorarlo, anzi, più lo senti e più ti
dà noia.
– Come quando abbaia un cane –
disse Pilade.
– O come quando spettegolano
quattro vecchi. Grazie, Alice.
Alice mise una tazzina davanti a
Massimo e una davanti a Pilade, e si
andò a sedere fra i due, con la
propria tazzina tra le dita. Caffè, non
cappuccino. Anzi, per essere precisi,
espresso doppio.
– Ecco, era questo che mancava
stamattina. La conversazione era tra
Marchino e il giornalista, Frateschi.
Dante Frateschi, se la memoria non
mi inganna.
– Esatto. Dante Frateschi.
– Invece, gli altri quattro, zitti. Un
paio di frasi buttate là, giusto per far
vedere che respiravano ancora.
Come se non si fidassero. Non è da
voi.
Pilade prese la tazzina, ruppe una
bustina di zucchero e ce la versò
dentro. Poi, dopo aver mescolato
con calma, bevve. Alice, che stava
partecipando alla conversazione solo
girandosi lentamente di volta in
volta verso chi parlava, come un
arbitro di una partita di tennis fra
bradipi, lo guardava, in silenzio.
– Ce l’avevi detto anche te di non
fidarci del giornalista – disse, dopo
aver bevuto.
– Io vi ho detto di non fidarvi del
giornalista. Ma secondo me
qualcuno ha detto di non fidarsi di
Dante Frateschi.
– E perché l’avrebbe fatto?
– Perché, dici. Il perché me lo
devi spiegare te. Io ti posso dire solo
che aveva ragione.
Massimo dette un primo sorso al
caffè. Anche se più sveglio di così
era impossibile.

– Un paio di giorni fa, mentre


Alice rimetteva a posto una cartella
con dentro i fogli del caso, le sono
scappati dei fogli. Uno di questi
fogli era un tabulato telefonico. Le
telefonate ricevute ed effettuate da
Ubaldo Giaccherini il giorno della
sua morte.
– Allora ti ci eri fissato davvero,
su quel foglio – disse Alice,
voltandosi verso Massimo quasi di
scatto. – Non era una mia
impressione. Avevi visto qualcosa
per davvero.
No, non era una tua impressione.
C’era qualcosa, ma non sapevo se
dirtelo. Avevo pensato che lo
avevate preso in considerazione di
sicuro; solo il giorno dopo, quando
mi sono trovato Matteo Corradi nel
bar, mi sono reso conto che forse
non ci avevate fatto caso.
– Nel tabulato c’erano quattro
numeri di telefono, ordinati per ora e
minuto di chiamata, e durata della
chiamata. Ora, io sapevo che Ubaldo
Giaccherini era stato ucciso tra le
due e le quattro, me lo aveva appena
detto Alice. Dei quattro numeri che
avevano chiamato, tre avevano
continuato a telefonare anche dopo
le quattro. Tre numeri di tre persone
che avevano preso un appuntamento
con Ubaldo. Ce n’era uno solo che
non aveva più chiamato, dopo
quell’ora. Come se sapesse che
chiamare sarebbe stato inutile,
perché i morti non rispondono al
telefono. E quel numero non era
quello di Matteo Corradi.
– Cioè, tu ti ricordi il numero di
Matteo Corradi a memoria?
– Certo. Io mi ricordo a memoria
tutto quello che potrebbe servirmi. E
il numero di Matteo mi sarebbe
potuto servire, quindi l’ho imparato.
– Un giorno mi dovrai spiegare
come fai.
– Un altro giorno, volentieri.
Insomma, quel numero non era
quello di Matteo Corradi. O almeno,
non era quello che conoscevo io.
Matteo avrebbe anche potuto avere
due telefoni. In fondo spesso gli
imprenditori ce l’hanno, no? Un
telefono pubblico e uno privato.
Solo che Matteo Corradi ne ha uno
solo.
Massimo si voltò verso Alice, che
a sua volta si voltò verso Pilade.
– Sì, è vero. Brodolini mi ha fatto
acquisire tutte le utenze delle
persone coinvolte. Matteo Corradi
ha un solo cellulare –. Poi, si rivolse
di nuovo di nuovo verso Massimo. –
E tu come fai a saperlo?
– Glielo ho chiesto. E ho fatto una
prova, l’altro giorno, quando me lo
sono visto capitare nel bar. Il
numero che non aveva più chiamato,
il numero che apparteneva alla
persona che sapeva che era inutile
chiamare, non apparteneva a Matteo.
Era così impossibile pensare che
appartenesse all’assassino?
Chiunque egli fosse? E qui torniamo
a stamattina, o meglio, ieri mattina.
Massimo finì il caffè con un
ultimo sorso. Anche se era la prima
volta che la usava, il caffè fatto da
Alice alla macchina del bar non era
affatto male.
– Ieri notte, dopo aver incontrato
Matteo, ho ricevuto una telefonata.
Mi ha telefonato lo stesso numero
sconosciuto che avevo chiamato, per
sentire chi ero. Mi sono inventato
una cavolata, ho detto che avevo
sbagliato numero, e finita lì.
Massimo guardò prima Alice, e
poi Pilade. Entrambi lo stavano
seguendo, senza perdersi una sillaba.
– Poi, oggi, al bar, mi sono
convinto di essermi sbagliato anche
come ragionamento, perché ho
riconosciuto la voce che mi aveva
richiamato al telefono. Era la voce di
Dante Frateschi.
E Massimo, mentre parlava,
guardò di nuovo Alice. Ferma,
immobile, con l’unica eccezione
delle pupille che scattavano
velocemente a destra e a sinistra, in
su e in giù, cercando di seguire le
traiettorie del proprio cervello.
– Questo mi ha deluso, e, insieme,
tranquillizzato. Si vede che il mio
ragionamento, che era solo
probabilistico, era sbagliato. Molto
probabile, pensavo, che il
proprietario del numero sia anche
l’assassino. Ma per uccidere
qualcuno ci vuole un movente. E che
motivo potrebbe aver avuto, Dante
Frateschi, per uccidere Ubaldo
Giaccherini? Nessuno.
E, qui, Massimo si voltò verso
Pilade.
Pilade, guardando Massimo,
sorrise. Poi, lentamente, alzandosi,
si diresse verso il bancone, e verso
la piccola campana di bronzo che
stava appoggiata dietro. Con
lentezza, tirò indietro il batacchio, e
lo lasciò andare. Il suono metallico
della campana riempì il bar.
– Stavolta, Massimo, la cazzata
l’hai detta te.
– L’ho fatto apposta.
– Lo so. Ma de’, già che m’hai
fatto alza’ alle tre di notte, armeno
fammi diverti’ un attimino.

– Riformulo quindi quello che ho


detto – riprese Massimo, mentre
Alice lo guardava con gli occhi
sgranati. – Dante Frateschi non
aveva nessun motivo che io sapessi.
Giusto, Pilade?
– Nessuno che tu sapessi, giusto –
annuì Pilade, con mesto orgoglio.
– Aspetta, aspetta. Pilade, tu sì?
Mi stai dicendo che tu ne eri a
conoscenza?
Pilade prese un largo respiro.
– Diciamo che sospettavo
qualcosa, ecco. Sì, diciamo che
sospettavo qualcosa.
E messa la mano nella borsa, ne
tirò fuori un quadernetto con la
copertina rosso sbiadito, farcito di
articoli di giornale.
Finalmente, Massimo vedeva con
i suoi occhi il diario di Ubaldo
Giaccherini.

1 gennaio 1968. Il giorno giusto


per cominciare un diario. Speriamo
di riuscire a tenerlo, stavolta –
quante volte ho deciso di
cominciare, ho cominciato, e poi
lasciato lì dopo due pagine. Basta
non scrivere un giorno, e si smette
per un pezzo di vita. Per cui ho
deciso: nulla dies sine linea. Ogni
giorno qualcosa da scrivere, perché
ogni giorno succede qualcosa che va
ricordato. Anche quando non
succede niente – e quello sì, sarebbe
un giorno eccezionale, e degno di
nota!
Ieri alla festa aziendale parlai
con Franca, come sempre. Mi
ritrovo sempre a parlare con lei,
sono cinque anni ormai. Ma sono
ingiusto. Perché mi lamento
dell’unica persona che mi dà retta,
invece che ringraziarla – non lo so,
si vede che son fatto diverso anche
in quello. C’è un contabile nuovo,
che viene da Spezia e sta sempre
solo – chissà. E poi ci sarebbe da
vedere se gli vado a genio. Ieri non
tentai nemmeno di attaccar bottone,
le feste aziendali della fine dell’anno
non sono certo l’ideale per certe
situazioni. Già me li vedevo, i cari
colleghi, a circondare il poveretto.
– La calligrafia è antiquata, ma lo
stile è anche peggio – commentò
Pilade, voltando pagina. –
Comunque, il diario è tutto su questo
tono qui. Sembra di leggere un
Harmony, di quelli che legge la mi’
moglie.
– Sì. Il giorno che organizzeremo
un premio letterario, ci
preoccuperemo dello stile. Vai
avanti.
– Ubaldo ha mantenuto il suo
proposito – disse Pilade, con
l’empatia tipica di chi riconosce un
collega di sacrifici, e ne comprende
l’eroismo. – Tutti i giorni scrive
qualcosa. A volte due righe, a volte
de’ poemi. Quando capita qualcosa
di interessante, allega articolo di
quotidiano, ritagliato e incollato. Il
giovane contabile di Spezia non
compare più, si vede gli garbava le
donne. Invece la Franca torna, e
parecchio.

10 gennaio. Oggi Franca parlava


con la Lepori al confezionamento.
Anche la Lepori ha un figliolo che
finisce il liceo, le sentivo che
parlavano di come fare per
mandarli a scuola. Potrebbe
accompagnarli Camillo con la
macchina tutti e due, diceva la
Franca – mi veniva da ridere, e da
piangere, insieme. A pensare che
con quella macchina Camillo ci
porta in camporella la stessa
svergognata con la quale stai
parlando, Franchina mia bella, non
li faresti tutti questi discorsi gentili.
Chissà cosa sa, chissà quanto sa.
Povera. Essere triste – è brutto.
Essere triste quando tutti credono
che tu sia felice, che tu abbia tutto
per essere felice – è peggio.
Pilade cercava, voltando, le
pagine più importanti,
soffermandosi ogni tanto a leggere a
voce alta delle giornate. Accanto,
Massimo e Alice guardavano il
diario, cercando di far corrispondere
alle parole che uscivano dalla bocca
del pensionato i ghirigori antiquati
che si rincorrevano sui fogli, in una
staffetta di ricordi.
3 marzo. M’è arrivata Franca in
lacrime, nello studio, oggi dopo il
desinare. M’ha confermato che
Camillo sta male, e parecchio. Non
era dimagrito per la tensione, o il
nervoso – ha il cancro allo stomaco.
Ho chiesto chi lo cura. La Franca
mi ha risposto: «Fra qualche mese
lo cura solo il Signore». Poveracci!
I soldi non comprano la felicità,
figuriamoci la salute.
– E s’arriva al punto cruciale –
disse Pilade, voltando la pagina. –
Quello che Massimo ha indovinato
da solo.

19 maggio 1968. Mi trema la


penna, non so se riuscirò. Oggi,
dopo i funerali, siamo restati a casa
di Franca, per confortarla. Il bimbo
non c’era. Piano piano, le persone
sono andate via. Resta un attimo,
Ubaldo, mi ha detto. Voglio fare due
parole con te. Io me l’aspettavo – la
ditta, vorrà sapere i conti come
sono. Rimanemmo soli, infine. Mi ha
preso l’avambraccio, e mi ha chiesto
se ero suo amico. Lo sai, le ho detto,
perché me lo chiedi? Perché ho da
dirti una cosa brutta. Brutta. La
devo dire a qualcuno, sennò non ci
dormo. Ma tu mi devi promettere di
tenerla per te. Prometto, dissi. Non
sapevo quanto sarebbe pesata
questa parola.
E iniziò a raccontare che Camillo
le aveva detto che aveva preso
un’altra donna, tempo prima.
Un’operaia della fabbrica. La
Lepori? chiesi. Macché Lepori, di
lei l’ho sempre saputo. Una giovane,
una di vent’anni. Giovane e forte, e
fertile. Capito, Ubaldo? Fertile.
L’ha messa pregna, la cagna. Come
l’ha detta, questa parola – ancora
mi mette i brividi. Come se potesse
morderla, la disgraziata.
Già capivo il suo stato – credevo
di capirlo. Ma lei mi ha stretto la
mano fra le sue, più forte ancora. Lo
capisci, mi ha detto, perché l’ho
fatto?
Capii. Subito. Feci finta di non
capire, ma prima ancora che lei me
lo dicesse, avevo la certezza.
Lo capisci, mi disse, perché ho
ucciso mio marito?
Non so scrivere cosa è accaduto
dopo – promisi di non farne parola
con nessuno, nuovamente, e intanto
pensavo. E penso ancora, e ancora
penso.
Sennò stanotte non dormo – le sue
parole. E io, stasera, invece, come
dormirò?
– E fin qui lo sapevamo. Franca
ha ucciso Camillo Luraschi, suo
marito.
Pilade annuì, lentamente.
– E Ubaldo ha continuato a
scrivere. E a inframmezzare il diario
di paginate e paginate di articoli di
giornale che parlavano del caso. Ci
sono due interviste al Carmine
Bonci, quello che venne accusato
dell’omicidio. C’è la ricostruzione
del delitto. E c’è una cosa che
all’inizio non ci davo peso, e a un
certo punto invece ci faccio caso.
Gli articoli sono firmati tutti dallo
stesso nome.
– Dante Frateschi – disse
Massimo.
Dante Frateschi – confermò
Pilade, intrecciando le mani sulla
panciona. – Quello che mi dava noia
era che avevo l’impressione che
questo Frateschi c’entrasse, ma non
capivo perché. Non riuscivo a capire
perché. Allora mi sono messo a
leggelli, quest’articoli. Tutta una
prolusione sul Bonci, su quest’uomo
dalla reputazione rovinata, sullo
stato che reprimeva ma non
difendeva. Ho pensato che col Bonci
il Frateschi ci doveva ave’ passato
parecchio tempo. Era praticamente il
solo, però. Se ne parlava quando
venne fuori la storia del testamento
di Alberto, ve lo ricordate? Il Bonci
venne isolato, non gli parlava
nessuno, non lo andava a trovare
nessuno, e la famiglia idem. Allora
m’è venuta un’idea.
Espirando piano, dal naso, Pilade
sembrò cercare di concentrarsi.
Quando era entrato al bar, due ore
prima, il pensionato era spettinato,
irsuto, ma palesemente lucido e
sveglio. Adesso sembrava stanco.
Molto più stanco di quando era
entrato.
– Sarà stato tutto quer parlare di
figlioli, di figlioli che arrivavano, di
donne incinte, ma m’è venuto a
mente che se il Frateschi era l’unico
che frequentava il Bonci, poteva
avere fatto amicizia con la figliola.
– La figliola?
– La figliola. Verdiana, si
chiamava. Quella che morì quando
quegli stronzi di Firenze
aggredirono il babbo.
– Sì, adesso che me lo dice mi
ricordo qualcosa – disse Alice. – È
quella ragazza che è morta per
l’aggressione? Quella che hanno
ucciso a bastonate?
Massimo guardò Pilade con
intenzione. Si è svegliata da poco,
non è ancora lucida. In condizioni
normali avrebbe già capito. Vacci
piano, ti prego.
– No, è questo il punto, Alice. È
morta per l’aggressione, ma non è
stata uccisa a bastonate. È morta per
un’emorragia interna, qualche
giorno dopo.
– Un’emorragia interna causata
dalle... oh cazzo...
Alice si voltò verso Massimo, con
l’angoscia che traboccava dagli
occhi.
– Esatto – disse Massimo. –
Verdiana Bonci era incinta.

Esattamente quello che era venuto


in mente a Massimo, poche ore
prima. Due, forse tre ore prima,
dopo che avevano fatto l’amore,
quando Alice gli aveva detto:
«Guarda che non viene al primo
tentativo, sai? Anzi, alla mia età e
alla tua età, ci vorrà parecchia
pazienza. Mi sa che bisognerà stare
un po’ più insieme». Esatto, non
vengono al primo tentativo. Quasi
mai.
E bisogna starci, a stretto contatto
con una persona. Passarci del tempo.
Con chi passava del tempo Verdiana,
che la mattina andava a scuola e il
pomeriggio stava a casa, isolata dal
mondo? Con chi poteva aver passato
del tempo? Con l’unico che in quel
periodo frequentava la famiglia
Bonci. Dante Frateschi.
– Era quello, vero, che potevi
sapere solo te, Pilade? – Massimo,
mentre parlava, ogni tanto gettava
un’occhiata veloce ad Alice. Che
adesso aveva l’aria, se possibile,
ancora più angosciata di prima. – Il
certificato di morte lo può richiedere
chiunque, ma il certificato della
causa di morte...
... lo può vedere solo un pubblico
ufficiale. Cioè un poliziotto, o uno
che lavora all’anagrafe –. Pilade
annuì, come un saggio Buddha. – E
io quel certificato me lo ricordavo.
Come fai a non ricordartelo?
Diciott’anni, aveva, ed era morta.
Per un’emorragia interna dovuta alla
gravidanza. Perché era stata
picchiata mentre era incinta. In tutti
questi anni me l’ero scordato, ma
quando m’è tornato in mente ho
fatto due più due.
Pilade sospirò.
– La bimba non era sposata.
Diciott’anni e faceva le superiori.
Era uno di quei guai che
succedevano all’epoca, anche
parecchio spesso.
– Ne so qualcosa – disse
Massimo.
Seguì qualche momento di
silenzio. Pilade guardò Alice, con
uno sguardo che metteva in chiaro
che lui aveva detto tutto quello che
aveva da dire, e non era stato lui a
buttare giù dal letto nessuno alle tre
di notte.
Alice, quindi, guardò Massimo. E
Massimo prese un respiro bello
fondo.
– A questo punto, credo che le
cose siano chiare. Frateschi arriva a
casa di Ubaldo Giaccherini, non alle
cinque, quando ha l’appuntamento,
ma prima. È il caso della sua vita,
quello che gli ha in qualche modo
segnato l’esistenza. E trova un tizio
che, bello bello, gli racconta che a
uccidere Camillo Luraschi è stata la
moglie, Franca. E che lui l’ha
sempre saputo. Che ha le prove, che
può fornire un resoconto esaustivo
di come sono andati i fatti.
Massimo si alzò, e cominciò a
camminare, come faceva Aldo
quando ragionava parlando dei bei
tempi andati. Non per far tornare
meglio i pensieri, ma per cercare di
mitigare il nervosismo che lo aveva
preso quando si era svegliato, e che
adesso, nonostante stesse per
arrivare al punto risolutivo, si era
fatto più forte.
Avrebbe potuto farlo anche
cinquant’anni prima. Avrebbe potuto
farlo anche quando un innocente,
Carmine Bonci, era stato accusato
dell’omicidio, messo da parte come
un paria e additato dall’intero paese.
Ma non l’aveva fatto, e per causa
sua era morta un’altra persona. Era
morta la sua fidanzata, la ragazza
che si era fidata completamente di
lui, in un pestaggio destinato al
padre. Dante Frateschi non riesce a
crederci. Ma quando realizza che
quello che gli sta raccontando
Ubaldo è tutto vero, sbrocca. Prende
la prima cosa che gli capita sotto
mano e sfonda la testa al disgraziato.
Ci fu un rumore improvviso di
chiavi, e la porta del bar si aprì
piano, come se non volesse
disturbare. Dietro la porta, dal buio
delle cinque e mezzo di mattina,
entrò Tiziana, con gli occhi sgranati.
– Ma voi cosa ci fate qui a
quest’ora?
Massimo guardò Alice con una
domanda negli occhi. Alice, quasi
impercettibilmente, annuì.
– Vieni, Tiziana, siediti. Te lo
spieghiamo subito.

E fu Alice a raccontare tutto, con


la voce scandita e non priva di
emozione di una studentessa, di
fronte a quella strana commissione
d’esame riunita in un orario
impossibile e composta da due
baristi e un pensionato, guardando
ogni tanto il presidente di
commissione – il barista maschio –
per cercare conforto nella sua
approvazione. Il presidente annuiva,
calmo, mentre l’esaminanda
rispondeva alle rare, ma precise
domande del membro più giovane
della commissione.

– Ma perché Franca ha ucciso suo


marito, quando questo tipo aveva
pochi mesi da vivere? – chiese
Tiziana.
– Lo spiega Ubaldo nel diario –
rispose Alice, indicando Pilade, che
confermò annuendo. – Camillo,
quando scoprì di essere in punto di
morte e di avere un figlio naturale in
arrivo, disse alla moglie che aveva
intenzione di cambiare il testamento,
per lasciare al nascituro parte delle
sue proprietà. Voleva mettersi a
posto con la coscienza, nella sua
testa. Ma Franca non era d’accordo.
Camillo era suo marito, e vedersi
privata di una parte di quello che
secondo lei le spettava...
– ... per vederlo andare al frutto
dell’albero di corna che le era
cresciuto in testa... – precisò
Massimo.
– ... la faceva letteralmente
impazzire – completò Alice, con
un’occhiataccia. – Quindi, ha deciso
di anticipare la dipartita di suo
marito da questo mondo. La
confessione che c’è nel diario è
esaustiva, e precisa. Come lo ha
aspettato, come gli ha sparato, dove
ha nascosto il fucile, che abbiamo
ritrovato seguendo le sue
indicazioni.
– Ecco, a questo proposito – disse
Tiziana, dopo un attimo – io ti
ringrazio della fiducia che mi stai
dando nel raccontarmi tutto questo,
ma... quanto c’è, di ufficiale, in
quello che mi stai dicendo? Cioè,
avete in mano prove inoppugnabili
che sia stato questo poveraccio,
questo Frateschi, a... sì, insomma...
– No – disse Massimo, asciutto,
anticipando Alice. Alice, dopo un
secondo, riprese:
– No, non le abbiamo. Abbiamo
un quadro coerente, a questo punto.
Ma prove, per dirla schietta, non ne
abbiamo punte. Non abbiamo
nemmeno l’arma del delitto.
– Ecco, infatti – disse Tiziana. –
Pensavo a quello. Un’ape di bronzo,
con la base di legno, giusto?
– Presumiamo di sì.
– Ecco, e... è un oggetto piuttosto
voluminoso? Piuttosto pesante? In
fondo, è stato usato per...
Alice andò in aiuto a Tiziana, con
dolcezza.
– ... sfondare il cranio a qualcuno?
Sì, è pesante e piuttosto grosso. Più
o meno così –. E Alice, con le mani,
formò nell’aria una specie di
ectoplasma delle dimensioni di un
piccolo cocomero. – Decisamente
ingombrante.
– Ecco, esatto, ingombrante.
Pensavo proprio a quello. Io un
posto dove provare a cercare, se
volete, ce lo avrei in mente.
Epilogo

– «La dinamica dell’evento è stata


ormai accertata, anche grazie alla
piena collaborazione del Frateschi, il
quale ha aiutato gli inquirenti nella
completa ricostruzione della
giornata in cui ha avuto luogo il
delitto. Dopo aver preso
appuntamento con il Giaccherini per
le cinque, il Frateschi si è presentato
con largo anticipo a casa della
vittima. In breve, si è sviluppato il
litigio che ha portato poi il Frateschi
a colpire. In seguito, il Frateschi ha
pulito con cura ogni punto
dell’appartamento sul quale poteva
aver lasciato tracce e che, da esperto
di cronaca nera, sapeva che la
polizia scientifica avrebbe
ispezionato. Sempre grazie alle sue
conoscenze di procedura, si è reso
conto che l’arma del delitto, una
scultura bronzea, non poteva essere
lasciata in loco. Nel colpire, infatti,
Frateschi si era ferito lievemente a
una mano con la base di legno,
scheggiatasi per la violenza del
colpo inferto, e sporcando così la
base stessa. Una traccia minima, ma
penetrata e impregnata nel legno,
che non era possibile rimuovere. Per
questo la decisione di asportare la
scultura e di liberarsene».
E se ’un c’era la mi’ bimba, cor
cavolo che la ritrovavano – disse
Marchino, orgoglione (è una parola
composta, non credo sia necessario
spiegarla).
Il Rimediotti, buttando giù il
giornale, guardò la ragazza con gli
occhi sgranati dietro gli occhiali.
– Già, Tiziana, ma com’è questa
storia che t’è venuto in mente a te
der centro raccorta?
– Eh – disse Tiziana, guardando
Marchino con inspiegabile affetto. –
Ho provato a mettermi nei panni
dell’assassino. Devo liberarmi di un
oggetto pesante. Sono a piedi,
perché non ho la patente...
– E meno male – osservò
Ampelio. – Con quer che beve,
n’aveva già fatte parecchie artre di
vittime.
– ... e sono mingherlino. E sono
lontano da casa mia. In più, devo
riessere qui di nuovo fra poco,
perché l’appuntamento ce l’ho alle
cinque e magari sarebbe sospetto se
non mi facessi vedere. Devo uscire
di qui senza farmi vedere, buttare
questo coso e tornare. E sono in
mezzo a una piana fatta di campi,
nella stagione della semina. Se
lascio ’sto coso in un campo, o in un
fosso, lo trovano subito. Una
scultura di bronzo in mezzo alla
terra, insomma, si nota. Qual è un
posto in cui non si nota, un
soprammobile di bronzo con la base
di legno?
– De’, in mezzo a’ rifiuti –
completò Pilade.
– Esatto. Allora che cosa può fare,
Frateschi? Prende il codice fiscale
dal portafoglio di Ubaldo e con
quello va alla discarica, col coso
sporco di sangue bello chiuso in un
sacchetto nero. Passa la tessera,
entra, lo tira negli ingombranti e se
ne va. Tempo una settimana,
passeranno i camion e porteranno
tutto allo smaltitore.
Ecco, questo volevo di’ – disse
Marchino, appoggiandosi al bancone
e mettendo così in mostra due
braccia definite dai muscoli e dai
tatuaggi, la mia bimba sarà bella e
intelligente ma guarda lì anch’io che
mercanzia che porto in dote – certo
che comunque hanno avuto un bel
culo a trovarlo sempre lì. Proprio per
un pelo.
– Tu vedessi – ridacchiò Pilade. –
Appena Alice ha realizzato cosa
diceva Tiziana, ha preso il cellulare
e ha tirato fòri una voce che ’un la
sentivo da’ tempi der KGB. Era le
cinque e cinquanta e i camion dello
smaltitore arrivavano alle sei di
mattina.
– E fosse stato il male della
telefonata – disse Alice, entrando
dalla porta seguita da Massimo.
Scattò un applauso, spontaneo. E
breve.
– Smettetela immediatamente o
chiamo la polizia, brodi – disse
Alice, sorridendo.

Fosse stato il male della telefonata


– continuò Alice, mentre Massimo
prendeva il comando del bancone e
si installava alla macchina del caffè.
– Una volta fermati i camion
abbiamo dovuto partire con la
perquisizione. In quattro a rufolare
nella spazzatura, con il camionista e
quell’altro stordito del centro
raccolta che parlottavano e ci
pigliavano per il culo. Occhio a non
inquinare le prove, ci diceva questo
stupido. Meno male l’ha trovato il
Tonfoni il sacchetto giusto, se lo
trovavo io lo spaccavo in testa a uno
dei due, così oltre a commettere un
omicidio compromettevo anche le
indagini. E invece via, portato il
sacchetto alla scientifica, esame del
DNA sul sangue rimasto sopra la base
di legno, e su quella base di legno ce
l’abbiamo inchiodato. Senza
quell’oggetto, sarebbe stato
veramente un casino.
– Via, allora ora che è arrivata lei
’un c’è più bisogno der giornale –
disse Ampelio, speranzoso. Non
tanto di sentire la sua futura nuora,
quanto di chetare il Rimediotti.
– No no, Ampelio – sorrise la
commissaria. – Abbia pazienza,
voglio sentire cosa scrivono. Sono
curiosa.
Detto, fatto. Il Rimediotti, fiero
della sua rinnovellata posizione di
lettore ufficiale, brandì il quotidiano
e lo riportò in posizione.
– «Dando prova di incredibile
freddezza, l’omicida è rimasto
immobile all’interno
dell’appartamento mentre giungeva
il nostro inviato, che aveva anch’egli
un appuntamento con la vittima al
quale si era presentato con
puntualità, senza sapere che era
ormai troppo tardi. Questo fatto ha
fornito al Frateschi, in seguito, un
apparente alibi, in quanto la stessa
persona che aveva parlato alle
quattro con il nostro inviato avrebbe
parlato, in seguito, con lui alle
cinque». Ma senti lì che
trappolone...
– Esatto. La signora Zaira Rindi,
abitante in via del Giglio dieci, che
ha parlato prima con Posinato e poi
con Frateschi, ma non ha visto
Frateschi arrivare alle due e mezzo
perché stava facendo un pisolino.
Massimo, sei veramente un fesso.
– Dovere – disse Massimo, che
aveva appena messo davanti ad
Alice un cappuccino su cui aveva
disegnato con la pennina di
cioccolata il cappello di Sherlock
Holmes.
Alice, dopo un sorso
corroborante, continuò:
– Frateschi aveva visto che
Ubaldo era una persona metodica, e
che aveva un’agenda su cui si era
segnato tutti gli appuntamenti della
giornata. Secondo lui, quell’agenda
lo scagionava, a patto che si fosse
fatto vedere al momento del suo
secondo arrivo, alle cinque. Cioè
all’orario segnato in agenda. Non
era pensata male, ripeto. Se non
avessimo trovato quella cavolo di
ape di bronzo nell’immondizia non
ce l’avremmo mai fatta ad
incastrarlo. Per cui, stavolta, i miei
ringraziamenti vanno a Tiziana.
In altri tempi Tiziana, che mentre
ascoltava si era rimessa a lavorare,
sarebbe arrossita fino alla radice dei
capelli. Adesso, si limitò a sorridere,
con un pochino di imbarazzo.
– È stata solo fortuna – disse. –
Sarebbe venuto in mente anche a
voi, solo che eravate stanchi. Io ho
trovato la pappa pronta e ci ho solo
grattato il cacio sopra.
Il Rimediotti, dato il giusto riposo
all’ancia, prese fiato e si accinse a
continuare, ma fu interrotto da
Alice.
– Alt, alt, alt – stava dicendo la
ragazza a Tiziana, con il suo miglior
sorriso da volpe. – Già nel mondo
del cavolo in cui viviamo le donne
sono considerate meno degli uomini,
e lo sai perché? Perché siamo più
umili. Siamo meno portate a dire che
lo sappiamo fare se non abbiamo la
minima idea di come farlo. Come
fanno gli uomini. Gli uomini quando
dicono «non c’è problema» vogliono
dire «non vedo il problema». Poi
però vedono che non hanno idea di
come risolverlo, il problema, e tocca
risolverlo a qualcun altro, di solito
una donna.
– Sì, a volte sì – concesse Aldo. –
Però in questo caso, se non fosse
venuto in mente a qualcuno che le
cose potevano essere diverse da
come sembravano, nemmeno lo
indagavate, il Frateschi. Sono stati
Pilade e Massimo a azzardare che
potesse entrarci qualcosa, e tutto
questo perché si ricordavano bene
una cosa. Si ricordavano che le
vittime del caso Luraschi, in realtà,
erano state due. Una di serie A, il
Luraschi, quello che si era beccato i
titoloni, e una di serie B, Verdiana
Bonci, una specie di effetto
collaterale che si erano scordato
tutti.
– Vedi? – disse il Rimediotti, con
tono amaro per lo scarso interesse
verso la carta stampata, ormai il
giornale non lo considera più
nessuno, si informano tutti su
Internet o al bar. – Te l’eri scordata
anche te la vittima donna, Alice. E
invece era quella più importante di
tutte.
– Stavo in pensiero che non fosse
colpa mia, Rimediotti – disse Alice,
con un sorriso che quel giorno lì
poche cose sarebbero riuscite a farle
passare. – Perché non si converte
all’Islam? Lì le donne hanno un
ruolo ben preciso, mi sembra,
rispetto all’uomo.
– Perlamordiddio, mi ci manca
anche l’Islam – disse Gino,
chiudendo definitivamente il
giornale. – Io oramai le donne le
sopporto e basta, e per sopportalle
mi tocca becci sopra. Se mi
proibiscano anche ir vino addio, mi
tiro una revorverata. Piuttosto, io ’un
ho capito una cosa.
– Ora ti riconosco, Gino – disse
Ampelio, dandogli una pacca sulla
spalla. – Dicci, cosa c’è che non ti
torna?
– E ’un vi dovrebbe torna’
nemmeno a voi – disse Gino. – Ma
se Alberto Corradi ’un ha
ammazzato nessuno, perché sur
testamento cià scritto che era stato
lui a ammazzare Camillo?
La domanda del Rimediotti
galleggiò sul bar per qualche istante.
In effetti, da quando il caso Luraschi
era diventato il caso Giaccherini, la
questione del testamento era passata
in secondo piano.
– Io credo di saperlo – disse
Massimo, dopo qualche secondo.

– Da come me lo avete descritto,


mi sembra di capire che Alberto
Corradi fosse un buontempone, una
persona simpatica, che amava la sua
famiglia, sua moglie, suo figlio e il
suo lavoro.
– Simpatico, sì – disse Ampelio. –
E anche parecchio fortunato.
– In una cosa, però, aveva avuto
sfortuna – rispose Massimo. – Dopo
che sua madre si era sposata, il
padre putativo era stato ucciso. E
Alberto aveva sempre dato la colpa
di questa morte alla politica. Non a
un partito, o a una fazione, ma alla
politica. Una delle cose che rendono
gli uomini più propensi a odiarsi. Si
era sempre disinteressato di politica,
e riteneva la politica un male.
– Ho capito – disse Pilade. – Parli
del su’ figliolo.
Esatto. Non credo che Alberto
fosse contento del fatto che Matteo
avesse deciso di prendere un
impegno politico, fino a venire
candidato alle elezioni. La cosa non
poteva piacergli, sia per quello che
Matteo avrebbe fatto, sia per quello
che da quel giorno in poi avrebbe,
necessariamente, trascurato. Il
lavoro. La ditta di famiglia. Fare
politica a volte è necessario, ma
trascurare il lavoro per fare politica
può essere pericoloso. Questo
pensava Alberto, vi torna?
– Senza dubbio – rispose Pilade, a
buzzo fermo.
– Ecco. Io credo che Alberto, con
quel testamento, abbia cercato di far
escludere Matteo dalle liste
elettorali. Confidava nel fatto che
avere un padre presunto omicida lo
avrebbe dissuaso dall’impegno, e
che avrebbe fatto ripensare le alte
sfere del suo partito sull’opportunità
di candidarlo, specie in un momento
come questo, dove pare che l’onestà
sia l’unico prerequisito richiesto a
un candidato.
– Sembra che la cosa ti dia
fastidio – disse Ampelio. – ’Un ti
torna? Li vorresti tutti pregiudicati?
– Dico che non basta – disse
Massimo. – Se bastasse l’onestà
come garanzia di un buon governo,
non vedo perché fare le elezioni.
Facciamo una lista di incensurati e
tiriamo a sorte. A chi tocca, tocca.
Marchino, per esempio, è
incensurato, ma a me mette i brividi
saperlo possibile presidente del
consiglio.
– Ora cosa c’entro io?
– Te c’entri a prescindere – disse
Massimo, andando dietro al
bancone. – Chi l’ha messi i piatti di
polistirolo nel bidone della plastica?
Quante volte te l’avrò detto che quei
piatti sono di polistirolo caricato col
gesso e si buttano
nell’indifferenziato?
– Mamma mia, Massimo, mi
sembri mi’ pa’. Quante volte te l’ho
detto di qui, quante volte te l’ho
detto di va’...
– Sempre poche – troncò
Massimo, guardando fuori dalla
porta a vetri. – Vedrai se te le diceva
più spesso, certe cose, venivi su più
furbo. Ora fatti perdonare e vai in
magazzino, che è arrivato il camion
del prosecco.
– E te che ne sai? – chiese
Marchino, mentre si avviava. –
Carattere chiuso...
– Già, Massimo – disse Alice. –
Marchino ha parecchio ragione. Te
che ne sai?
– Di cosa? Di come si cresce
senza babbo? Io un babbo ce l’ho
avuto –. Massimo indicò con la testa
verso il tavolino d’angolo, dove
Ampelio troneggiava godendosi la
scena. – Eccolo là. Sempre presente,
che tu lo volessi o no.
– E io invece di figlioli n’ho tirati
su due, e manco mezzo che sia
venuto come credevo io – disse
Ampelio, con tono burbero, ma con
gli occhi che brillavano. – Mi son
torto ir pane di bocca per favvi
studia’, una mi scodella un nipote e
poi parte a giro per ir mondo e si
vede una vorta ogni morte di papa, e
quell’artro è andata a fini’ che ha
aperto un barre. Me l’avessero detto,
vi mandavo tutt’e due a lavora’ la
terra.
– Bravo. A me invece mi tocca di
andare a accompagnare Alice in
commissariato, abbiate pazienza ma
mi godo una mezz’oretta d’aria
fresca. Ci si vede dopo.

O allora – disse Ampelio,


appoggiandosi bene al bastone per
tirarsi su, mentre guardava dalla
porta a vetri Massimo e Alice che
camminavano sul marciapiede – ’un
c’è niente da fa’. Quer figliolo cià
cervello, ma lo usa solo quando ni
pare a lui. Speriamo in bene, senti.
Io il mio l’ho fatto.
– Coi figlioli, Ampelio, è sempre
questa storia qui – disse Aldo,
avviandosi verso la sala biliardo. – È
un po’ come la storia del testamento
di Alberto. Credi di far del bene, e
fai del male. E se hai fatto bene o
male, lo scopri dopo che sei morto.
– Certo che comunque, Ampelio –
si inserì Tiziana – lei è stato bravo,
ma sua moglie è stata eroica. I primi
due anni poi è stata anche sola. Sua
moglie e sua figlia qui, e lei
sperduto nell’Appennino pistoiese a
contare i lupi. Ma perché non me
l’ha mai raccontato?
– Cosa? Che m’avevano mandato
fra’ lupi per punizione? Meno ci
penzo, meglio è. E ir bello è che
anche lì fu per causa di Massimo.
Ancora ’un era nato, e già rompeva
’coglioni.
– Per causa di Massimo?
Ampelio, alzando le sopracciglia,
guardò Tiziana con occhi ancor più
vispi del solito. Poi, voltandosi verso
Aldo, cominciò a parlare.
– Devi sapere, Tiziana, che nel
periodo di cui si parla la Maria
Luigia, la mi’ figliola, era incinta di
sette mesi. Ed erano sette mesi che
si rifiutava di dire chi fosse il babbo
der bimbo. Tanto a lui non gliene
frega niente, diceva. Si crede
importante, si crede superiore, ma è
un vigliacco. Te dammelo fra le
mani, ni dicevo io, lo faccio senti’ io
importante. Gli faccio dedica’ anche
una via. E lei nulla.
Ampelio si voltò verso Tiziana,
sempre a sopracciglia alzate.
– Si sapeva solo che era un
normalista. E un giorno, era
gennaio, siccome ero a capo del
sindacato ferrovieri a Pisa, mi
invitano a questo dibattito alla
Normale sulle strategie di lotta
unificate fra i compagni studenti e i
compagni lavoratori. Io ’un ci
volevo andare, ma mi convinsero.
– Chi la convinse? I suoi
colleghi?
– Ma meglio – disse Ampelio con
tono amaro, indicando il Rimediotti
col bastone. – Fu questo scialucco
vì, inzieme alla mi’ moglie, Dio li fa
e poi ’un l’accoppa. Vacci, così
chiedi informazioni alli studenti. Voi
che ’un lo sappiano chi
s’accompagnava alla tu’ figliola?
Ampelio prese fiato, abbassando
il bastone.
– E io, durante la riunione, provai
a chiede’ quarcosa. La feci furba, o
armeno penzai. Il ragazzo della mi’
vicina di casa non c’è? dissi a un
tizio che faceva anche lui
ingegneria. Chi è la tu’ vicina,
compagno? mi fa lui. E io, la Maria
Luigia Viviani, dico. La Viviani, un
ragazzo? mi fa lui. Ma la Viviani è
innamorata persa del Colleoni, caro
compagno, mi fa. Colleoni? faccio
io. Professor Stefano Colleoni,
ordinario di Analisi Superiore della
Scuola Normale. Alla tua vicina
piacciono maturi, compagno. Forse
anche te sei un po’ troppo giovane
per lei, dammi retta.
Bei tempi, sembrarono sospirare
in coro i quattro vecchietti.
Inzomma, mi feci di’ chi era
questo Colleoni, ma ormai avevo
capito chi mi stavo per ritrova’
davanti – continuò Ampelio, mentre
Tiziana lo guardava con due padelle
al posto delle pupille. – E infatti me
lo ritrovo davanti, era lì anche lui
all’assemblea. Un òmo di
quarantacinque anni, arto, distinto,
con una giacca marrone di velluto,
una cravatta rossa di lana e,
soprattutto, un anello d’oro qui,
all’anulare sinistro. Professor
Colleoni? gli chiesi. Dimmi
compagno, mi fa lui. Qui ’un ce n’è
compagni, gli risposi. Io sono il
babbo di Maria Luigia. Maria Luigia
Viviani.
Tiziana, sempre a occhi
spalancati, si voltò verso Aldo. Che
annuì, solenne.
– Sai, sembra assurdo dirlo oggi,
ma nel 1968 il divorzio non esisteva.
L’abbandono del tetto coniugale era
un crimine. E la prova del DNA non
l’avevano ancora inventata.
Dovunque la si guardasse, non era
una bella situazione.
Tiziana si voltò nuovamente verso
Ampelio.
– E lui, cosa disse?
– Nulla disse, bimba. Mi bastò la
faccia. Sbiancò come un morto.
Ascolta, compagno, mi fece, e mi
mise una mano sull’avambraccio –.
Ampelio sospirò, e allargò le
braccia. – Ci credi, Tiziana, se ti
dico che la cosa che mi riòrdo subito
dopo sono i poliziotti? Quer che è
successo in que’ cinque minuti, è
come se fossi stato da un’artra parte.
– E ti cianno mandato, vai, da
un’artra parte, ber mi’ Ampelio –
disse Pilade, con mestizia, alzandosi
anche lui.
– M’hanno mandato in tanti posti,
caro Pilade. Io però son sempre
tornato.

Vecchiano, 15 aprile 2018


Per finire

È già difficile scrivere un libro


ambientato ai nostri giorni senza
l’aiuto di qualcuno, figuriamoci un
libro ambientato in un’epoca in cui
non si sia vissuto.
Per questo, i ringraziamenti di
questo libriccino sono più sentiti che
mai.
Ringrazio Barbara Baroni per
avermi spiegato il funzionamento
dei testamenti e degli atti notarili,
nonché per avermi fornito il primo
spunto per iniziare questa vicenda.
Ringrazio Francesco Carlesi per
avermi spiegato che non si può
inquisire un morto, e avermi
suggerito una via legale plausibile.
Ringrazio Lia Marianelli per le
telefonate in cui mi ha spiegato il
suo ’68 e per avermi ospitato, da
ritardatario, nel proprio studio
quando lei era preside e io studente.
Mi chiedono spesso se ho fatto
scuole di scrittura creativa; la mia
principale scuola di scrittura è stata
il liceo scientifico Ulisse Dini, e
questo non me lo dimenticherò mai.
Ringrazio Adriano Sofri; non credo
che ci sia motivo di spiegare perché.
Ringrazio Sergio Schiavone per
avermi illustrato i molti, e talvolta
incredibili, modi in cui un uomo può
lasciare il proprio DNA nel luogo in
cui ha commesso un delitto.
Ringrazio, come sempre, la tribù
degli editor privati: Samantha,
Liana, Mimmo, Letizia, Virgilio,
Serena, il Totaro & la Cheli.
E, per finire, ringrazio la mia
città, Pisa, e i suoi abitanti, per le
storie sempre nuove che mi permette
di raccontare senza muovermi da
casa, e senza mai dovermi inventare
troppo...
Indice

A bocce ferme
Dedica

Epigrafe

Inizio
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
X (Dividere la Risposta per sei
per ottenere il numero del
capitolo)
Otto
Nove
Dieci
Undici, mi sembra
Epilogo
Per finire
Table of Contents
Risvolto
Collana
Dello stesso autore
Frontespizio
Copyright
A bocce ferme
Dedica
Epigrafe
Inizio
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
X (Dividere la Risposta per sei per
ottenere il numero del capitolo)
Otto
Nove
Dieci
Undici, mi sembra
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Per finire

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