Il dāna è una delle virtù buddhiste più esaltate, ed è strettamente connessa alla graduale espansione
del saṅgha, la comunità buddhista. “Dono” dalla radice dā “dare”, per estensione “generosità”, è una
delle tre basi dell’attività meritoria, puññakiriyavatthu, l’agire che consente di accumulare merito:
dāna “donare”, sīla “moralità”, bhāvanā “pratica contemplativa”; dalla radice bhū “essere”, dalla
forma causativa deriva l’astratto bhāvanā “il fatto di far essere, l’azione di far essere”, che nel contesto
buddhista indica la coltivazione del citta “interiorità, mente” (aspetti cognitivi ed emotivi del
soggetto), farlo essere, fargli recuperare la sua vera natura e comprende tutte le tecniche e metodi di
meditazione/contemplazione.
Il dāna è il pilastro della comunità buddhista, sia quella ristretta (monaci e monache), sia quella estesa
(che include laici e laiche). Senza il dāna il saṅgha non potrebbe esistere, anche perché i monaci, a
cui è proibito lavorare1 e svolgere attività diverse dalla predicazione. In virtù di ciò, fanno affidamento
sulla generosità delle donazioni dei laici, che costituisce un supporto materiale al saṅgha. Obbligo di
base per i laici che desiderino far parte della comunità buddhista laica è che debbano offrire almeno
un pasto al giorno e periodicamente delle vesti modeste.
I laici, mettendo in pratica la virtù del dāna, ottengono puṇya/puñña, “merito”, il quale ha degli effetti
sul karman, come prosperità nelle vite future o possibili rinascite in condizioni di vita migliori2, tra
le quali la più favorevole è quella in cui il soggetto ha la possibilità di udire la predicazione del dharma
e conseguire la liberazione. Ma diversamente dal karman, il dāna può portare una serie di benefici
direttamente in questa vita. Nel Dakkhiṇa Vibhaṅga Sutta “discorso sull’analisi delle offerte”, viene
detto che chi pratica il dāna diviene una persona gradita agli altri; sarà avvicinato dagli Arhant stessi,
che accetteranno l’elemosina da lui per primo e a lui per primo predicheranno. Egli godrà di buona
reputazione in vita, sarà rispettato entro un’assemblea/riunione, e dopo la morte andrà certamente
incontro a un destino felice (ignoto ma certamente felice).
Si dice che dare l’elemosina a operatori religiosi, sāmana e brahmana, porti grandi frutti, come i semi
piantati in un terreno fertile già dissodato e irrigato; ancora più se il dāna è rivolto a una persona
virtuosa, sīlavata “dotata di moralità”, che nell’Aṅguttaranikāya 4.328 è definita come colei
(l’operatore religioso) che segue il nobile ottuplice sentiero. È quella che ha abbandonato i cinque
stati mentali, costituiti da kāma “desiderio”, vyāpāda “malevolenza”, thīnamiddha “pigrizia e
torpore”, uddaccakukucca “agitazione e ansia”, vicikicchā “dubbio”. Al loro posto, ha acquisito
altri cinque stati mentali/fattori: sīla “moralità”, samādhi “concentrazione”, paññā “conoscenza,
saggezza”, vimutti “liberazione”, vimuttiñāṇadassana “la visione di liberazione e conoscenza”, una
forma avanzata di conoscenza e visione, caratteristica del liberato.
Secondo il Saṃyutta Nikāya 3.24, il dāna rivolto al sīlavata reca al donatore un gran frutto
(mahāpphala).
Ma secondo il Dhammapada, il dāna che supera tutti gli altri è quello del dhamma, ovvero la
predicazione.
Si parla del dāna già nel canone antico, in lingua pāli. In una specifica sezione del vināya piṭaka,
sulla disciplina, 1.15.18, l’Anupubbhikathā, “le istruzioni graduali”, contiene la Dānakathā,
“narrazione del dāna”. Si racconta che si possono donare otto beni (beni che i laici possono donare ai
monaci): cibo, medicine, acqua, vesti/stoffe, veicoli, ghirlande, profumi, unguenti, giacigli, residenze
Se ci si occupa dei primi periodi del buddhismo (che nasce nel V secolo a.C.) non ci sono
testimonianze epigrafiche dato che la scrittura verrà introdotta in India solamente nel III secolo a.C.
Le prime attestazioni della scrittura corrispondono agli editti dell’imperatore Maurya Aśoka.
Se ci si occupa invece di un’epoca successiva (della quale giungono testimonianze scritte), scopriamo
che tra le iscrizioni che commemorano donazioni dirette a monasteri buddhisti si ha una
preponderanza di donatori mercanti.
Ricordiamo che generalmente i monasteri buddhisti indiani erano sostenuti da donazioni, in quanto
ogni forma di lavoro era interdetta ai monaci dal classico codice monastico (diversamente da alcune
comunità di monaci cinesi che, oltre alla pratica, coltivavano la terra); essi potevano dedicarsi
esclusivamente alla predicazione del dhamma.
Le donazioni che contribuivano al mantenimento del monastero e della comunità sembra che
provenissero per la maggior parte dai mercanti; esistono prove epigrafiche che i maggiori donatori
fossero gilde, corporazioni mercantili. Nonostante la dominanza di tali gruppi, esistevano anche altre
categorie di donatori come contadini, carpentieri, funzionari del governo, pescatori, medici, fabbri,
artigiani, professionisti.
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Radice lubh, quarta classe “amare, desiderare”
Questi soggetti effettuavano donazioni o perché erano devoti buddhisti, mettendo in pratica la virtù
della generosità (dāna), o perché era implicita l’idea dello scambio: la donazione al monastero
permetteva una più ampia predicazione del Dharma e corrispondeva ad un accumulo di puṇya/puñña
“merito, il quale garantiva effetti già nella vita in corso, o una migliore rinascita nella vita successiva
(quella più favorevole in cui si poteva assistere alla predicazione del dhamma).
Ma a chi rivolgere il dāna per ottenerne il più grande frutto (Mahāpphala)? A questa domanda, posta
da Sakka (il dio Indra) al re Pasenādi4 nel Saṃyutta Nikāya 11.16 il Buddha risponde: al saṅgha,
la comunità ristretta, ovvero quella di coloro che hanno raggiunto un certo livello di realizzazione,
gli Arhant, quelli che sono entrati nella corrente, quelli che se ne sono andati (hanno raggiunto il
Nibbāṇa) e quelli che torneranno.
Il contrasto che emerge è quello tra un passato in cui ancora la buona novella buddhista non veniva
predicata, e il periodo in cui viene predicato il dharma. La generosità mostrata in quel periodo portava
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Compare di frequente nel canone antico.
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Vi si fa riferimento spesso nel canone antico
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La formula per la conversione: Buddham saranam gacchami, Dhammam saranam gacchami, Sangham saranam
gacchami
frutti non paragonabili a quelli che avrebbe portato all’epoca della predicazione del Buddha, ovvero
un grande puṇya e un mahāpphalam.
Nel Dakkhiṇa Vibhaṅga Sutta “il discorso dell’analisi delle offerte”, si dice che ciò che viene offerto
al saṅgha è come se fosse donato al Buddha stesso. Questo perché dopo la scomparsa del Buddha,
ovviamente non è più possibile donare al Sammasambuddha, una delle forme di dāna supreme, ma è
ancora possibile donare al saṅgha. Se un’elemosina offerta a un animale vale 100, avrà un centinaio
di frutti, un’elemosina offerta a una persona ordinaria varrà 1000, e un’elemosina offerta a una
persona ordinaria virtuosa varrà 100.000, e un’elemosina offerta a una persona virtuosa e che ha
superato l’attaccamento (lobha/rāga) e i 5 stati mentali (kāma, vyāpāda, thīnamiddha,
uddaccakukucca, vicikicchā) e ha acquisito gli altri 5 (siila, samādhi, paññā, vimutti,
vimuttiñāṇadassana) varrà 100.000 milioni, e una singola offerta rivolta a una persona che ha
intrapreso l’entrata nella corrente/che è sul sentiero è incalcolabile. Un’elemosina offerta a un
Paccekabuddha avrà un risultato incalcolabile in termini di frutti, pari a quelli che risulterebbero
dall’elemosina offerta al Tathāgata.
La tarda letteratura canonica, in particolare i Jātaka7, una corposa raccolta di racconti inerenti alle
vite precedenti di Gotama come Bodhisatta (in pāli), quando ancora non aveva ancora raggiunto
l’illuminazione, ma era comunque destinato ad essa (anche se in realtà parlano del
presente→ricordiamo che in India non vi era una concezione della storia), tende ad esaltare i mercanti.
I Jātaka sottolineano il ruolo dei vessa (parte del terzo várṇa) o vaiśya, le persone comuni, e
all’interno di questo gruppo, il ruolo dei mercanti, tanto che spesso il protagonista principale è un
mercante (ad esempio Buddha in una delle sue precedenti incarnazioni). Questo induce a pensare che
i mercanti trovassero il buddhismo più attraente del brahmanesimo. Non a caso i periodi di massima
fioritura del buddhismo (gli ultimi secoli prima e dopo Cristo) coincidono con il momento di maggior
fortuna della classe mercantile (periodo in cui cominciano a formarsi grandi centri urbani).
Nel Dīghanikāya “raccolta dei discorsi lunghi (Dīgha “lungo”) troviamo diverse volte un’esaltazione
della vita e delle attività mondane e dell’attività lavorativa (vartha). Il Sigālakasutta afferma che un
uomo saggio, abile nella sua professione, scrupoloso (laico) splende/riluce come un fuoco di
segnalazione (metafora), raccoglie la ricchezza come l’ape raccoglie il miele e questa
ricchezza/prosperità cresce sempre più alta, come un termitaio→esaltazione della vita mondana e fa
riferimento ad un’attività tesa a produrre ricchezza. Questa ricchezza va divisa in 4: di ¼ si può godere
liberamente (è giusto godere di ciò che si è prodotto), 2/4 vanno investiti in imprese commerciali, e
l’ultimo quarto va tenuto da parte per i tempi di carestia. Ciò che emerge è un’ovvia discrepanza tra
testi buddhisti del canone (Jātaka e Dīghanikāya) e la parallela letteratura del Dharmaśāstra,
giurisprudenza tradizionale hindu, i codici legislativi brahmanici, la letteratura sull’etica e diritto
hindu (Dharma “etica, diritto, dovere, ordine sociale”), diffidente nei confronti dei mercanti.
Questo perché certe attività erano ritenute dal Dharmaśāstra impure, come l’attività mercatile, in
quanto le merci ed il denaro circolano (in generale) senza distinzione di classe, e in quanto il mercante
viaggia, sia via terra che via mare, ed entra in contatto con estranei; il Dharmaśāstra vuole che le
terre al di fuori dell’India (unica terra pura) fossero considerate impure e che chi viaggiava per mare
venisse colpito da impurità rituale. La circolazione delle merci e delle idee, il contatto con estranei,
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Nei Jātaka confluisce tutta una serie di materiali (leggende, folklore, materiali storici), spesso anche non originalmente
buddhisti/che non hanno nessuna specifica morale buddhista (racconti che esistono per il puro gusto della narrazione).
quindi, va contro il principio della purezza contenuto nel Dharmaśāstra. [Una delle prime regole che
sono d’ausilio a conservare la purità (soprattutto per le classi elevate) è che non si può prendere cibo
da chiunque, ma solo da soggetti autorizzati (brahmani o membri di una casta che si occupa per
tradizione di fornire cibo ai brahmani)→ principio che va contro alla libera circolazione delle merci].
Al contrario il buddhismo incoraggia i monaci e i mercanti a viaggiare per diffondere il più possibile
la buona novella.
Per il Dharma Hindu principale preoccupazione è il mantenimento della purezza e dei confini fra le
classi sociali→principale preoccupazione→struttura sociale; la struttura sociale garantisce la
purezza, ma la purezza garantisce la struttura sociale. Per il Dharma buddhista (Bauddha Dharma)→
principale preoccupazione è quella escatologica, del destino individuale, dell’individuo e non del
gruppo. Nel Dharma Hindu l’individuo conta poco e si ragiona in termini di gruppi. *quando gli
inglesi arrivarono in India, ebbero grandi difficoltà con i contratti, che non avvenivano tra individui,
ma tra gruppi sociali/caste. Il buddhismo ha persegue l’intento di salvezza universale, il
brahmanesimo si rivolge solamente agli strati alti della società e sostiene che la massima virtù è
perseguire il proprio dovere sociale (e rituale) senza uscire/deragliare dalla propria unità sociale-
inteso come classe sociale e casta (raggruppamento più piccolo)collegata al territorio.
Il buddhismo non si preoccupa della purità rituale e non condanna l’impurità di certe attività8, come
quella mercantile, ragion per cui si guadagna il sostegno di coloro che sono impegnati in quest’ultima
attività. Vi sono dei sutta in cui il Buddha a più riprese sostiene che le classi sociali sono funzioni,
ma la distinzione tra le classi non implica una distinzione sostanziale fra i soggetti, che sono sottoposti
alle stessi leggi morali e di natura (il buddhismo diffonde l’idea dell’uguaglianza; un individuo è
brahmano in quanto svolge il mestiere del brahmano, non perché è nato come tale; un individuo è
nobile perché svolge il mestiere delle armi, non perché è nato nella classe dei nobili). L’appartenenza
ad una classe sociale non è sancita per jāti “nascita”. Il Buddha sostiene che gli uomini sono tutti
uguali, non vi è una differenza sostanziale; se un brahmano compie un furto o un omicidio nella
prossima vita andrà all’inferno. Se un nobile compie un furto o un omicidio nella prossima vita andrà
all’inferno. Le differenze tra di essi sono legati alla funzione, alla professione che hanno all’interno
della società.
Emerge in ambito hindu una frattura: da una parte si assiste al successo economico dei mercanti, ma
dall’altra essi venivano collocati ad un livello molto basso della società→in quanto avevano rapporti
commerciali con stranieri o con classi ancora più basse, come gli śūdra, erano considerati impuri.
È comprensibile quindi che i mercanti, relegati al livello più basso della gerarchia sociale nonostante
il loro successo, abbiano preferito rivolgersi al buddhismo, tra l’altro non contrario alla mobilità
sociale (il brahmanesimo invece tendeva a scoraggiare la mobilità tra classi9): siccome nel buddhismo
le classi sociali rappresentano delle funzioni, non vi è alcun impedimento per un soggetto che voglia
migliorare il proprio status sociale.
L’importanza del ceto mercantile si deduce anche dal fatto che lo stato imperiale Maurya e i successivi
dipendevano dalle attività mercantili dei vessa e dalla circolazione delle merci. Un impero in
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Ragion per cui il buddhismo diventò attraente anche per i non-indiani, i quali non facendo parte del sistema hindu e
considerati impuri, venivano relegati nelle classi più basse del sistema castale.
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Ci si deve sposare all’interno della stessa classe sociale e all’interno della stessa classe di appartenenza, oppure, la
classe sociale della moglie deve essere sempre più bassa rispetto a quella del marito.
espansione richiedeva un sistema fiscale e distributivo complesso, al quale poteva contribuire
solamente o principalmente il ceto mercantile.
Qual è il rapporto tra stato/impero e ceto mercantile? Da un lato l’impero aveva bisogno di un sistema
fiscale al quale poteva contribuire solamente il ceto mercantile, dall’altro il ceto mercantile aveva
bisogno delle strutture imperiali che permettevano l’espansione10 del mercato, che assicuravano la
percorribilità delle strade e che rendevano i confini sicuri. Il ceto mercantile pagava molte tasse, ma
in cambio riceveva dall’impero protezione, la possibilità di un mercato sempre più vasto e di operare
entro confini sicuri.
Qual è il rapporto tra buddhismo e ceto mercantile? La letteratura buddhista ci mostra il rapporto tra
buddhismo e classe mercantile non negli strati più antichi, dove la relazione sussiste tra buddhismo
e khattiya/kṣatriya/nobili. Da una parte il buddhismo offre una religione compatibile con le attività
e aspirazioni della classe mercantile (scoraggiando le rigide divisioni sociali), dall’altra la classe
mercantile supporta il saṅgha (fanno donazioni, come attestano le iscrizioni di donazioni). Aśoka
abbracciò il buddhismo (così dà ad intendere nelle sue iscrizioni) e secondo scritture buddhiste, jaina
e degli Ājīvika, il suo predecessore Bindusara (il cui predecessore Chandragupta si convertì al
jainismo), pur non essendo buddhista apparteneva ad una corrente ascetica affine al buddhismo.
La dottrina buddhista, quindi, mostra una relazione particolare tra buddhismo e mercanti (comunque
divisi in caste), in particolare con una categoria specifica: il seṭṭhi, genericamente “mercante”, nello
specifico “rappresentante, banchiere, amministratore, tesoriere” di una gilda, colui che si occupa delle
donazioni al monastero per conto della gilda che rappresenta. Se prendiamo il Vināya, terza sezione
del canone buddhista, il “codice monastico” (ogni norma è giustificata da una storia→fonte molto
importante sull’ambito di azione dei buddhisti), si parla di due personaggi celebri anche in tutta l’Asia
orientale, i fratelli Tapussa e Bhallika, due fratelli mercanti che divennero i primi discepoli laici del
Buddha. La storia dei due mercanti si trova nel Vināya pāli Mahāvagga, nel Mahīśākavinaya e nel
Dharmaguptakavinaya; tra le fonti sanscrite, è citata nel Lalitavistara, cap. 24, e in Mahāvastu III11.
Si convertirono prendendo rifugio nel Buddha, nel Dharma (non nella comunità dato che non era
ancora stata fondata), tramite la formula: Buddham saranam gacchami, Dhammam saranam
gacchami. La leggenda vuole che il Buddha abbia donato loro otto capelli (risultato della tonsura),
che sarebbero divenute le prime tra le tante reliquie del buddhismo.
Nei Jātaka, il futuro Buddha è spesso rappresentato egli stesso come un mercante, oltre a essere
rappresentato come brahmano o come kṣatriya12.
Nel canone, la figura del mercante è valorizzata anche attraverso alcuni personaggi menzionati nei
sutta; tra questi, Anāthapiṇḍika, grande seṭṭhi “tesoriere” della gilda dei mercanti della città di
Sāvatthi, importante centro commerciale del Nord-Est dell’India. Secondo le scritture, si dice che
abbia raggiunto il livello del sotāpanna, colui che è entrato nella corrente, colui che è sicuro che nel
10
L’Arthaśāstra “dottrina economica, economia” dice che l’impero si deve sempre accrescere, non può mai stagnare.
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Per ulteriori approfondimenti sulla leggenda e le problematiche legate ad essa si ricordano in particolare Bareau 1963,
106-23 e Granoff 2005
12
Secondo la biografia tramandata, Buddha nasce come kṣatriya. Questa rappresentazione corrisponde ad una
costruzione posteriore, e suscita una serie di incongruenze: Gotama è anche il nome di uno dei sette Ṛṣi vedici,
appartenente alla classe dei brāhmaṇa. Come può uno kṣatriya ricevere il nome di un membro della classe degli
operatori religiosi? Il padre del Buddha è noto con il nome di Suddhodhana “colui il cui riso è puro”, un nome classico
del mercante, khattiya.
corso di alcune vite raggiungerà la bodhi “comprensione” e la mukti “liberazione”. Si dice che comprò
un ampio appezzamento di terreno dal sovrano locale, il principe Jeta, per farvi costruire un monastero
(il famoso Jetavana), il dono più grande al saṅgha, e regalò numerose dimore, foresterie,
parchi/giardini alla comunità.
Dietro al racconto si cela la realtà storica dei rapporti privilegiati tra il saṅgha e i mercanti. Il
buddhismo, anche se apparentemente insiste sulla rilevanza dell’ascetismo e dà estrema importanza
al Sangha dei monaci, è di fatto fiorito con l’aiuto del ceto mercantile
Ma se i mercanti sono così importanti per il buddhismo, perché le scritture buddhiste esaltano in
maniera particolare anche i khattiya “nobili” (tanto è vero che Gotama stesso è presentato come un
khattiya/kṣatriya “nobile”)? Nonostante la classe dei mercanti fosse riconosciuta come principale
sostenitrice del buddhismo, soprattutto in termini economici, negli strati più antichi del canone
vengono esaltati i Khattiya/kṣatriya “nobili, guerrieri” piuttosto che i vessa/vaiśya (persone comuni,
tra cui mercanti, agricoltori e lavoratori in generale). Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le radici
stesse della letteratura canonica e del buddhismo risalgono ad un periodo anteriore all’ascesa della
classe mercantile, ragion per cui essa non si riflette pienamente in tutte le sezioni del canone (viene
alla ribalta in un secondo momento della storia del buddhismo).
Gli archeologi hanno trovato tracce di quelli che sembrano monumenti buddhisti (di tipo primitivo)
risalenti al VI secolo a.C.; il buddhismo è molto più antico dell’epoca dell’urbanizzazione (che
corrisponde anche all’ascesa del ceto mercantile).
Probabilmente i primi sponsor del buddhismo furono gli kṣatriya, i quali avevano a loro volta un
motivo per sostenere il buddhismo. Spesso di origine straniera13 (i Rajput ancora adesso rivendicano
la loro origine iranica) venivano disprezzati dalla classe brahmanica per via dell’impurità associata
alle loro origini. Solo successivamente si sono integrati nella società indiana andando ad occupare il
secondo várṇa.
Qual è il rapporto tra khattiya e saṅgha? Da una parte i khattiya esercitano il dāna verso il saṅgha,
donando acqua, vestiti, residenze ecc. costituendo il supporto materiale del saṅgha. In cambio il
saṅgha si dedica alla loro esaltazione nel canone; sono descritti come generosi e saggi mecenati.
Scambio: dāna in cambio dell’esaltazione.
Curiosità
Nei testi hindu, in ordine di importanza: brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya e śūdra. Nelle scritture
buddhiste i khattiya sono all’apice, seguiti da brāhmaṇa, vessa e sudda, lasciando intendere un
implicito riconoscimento del buddhismo da parte dei khattiya.
Le classi di mercanti veneravano gli yakṣa, semi divinità/geni locali, che diventeranno parte del
pantheon buddhista; tale culto veniva disapprovato dal brahmanesimo, in quanto ritenuto inferiore.
Il declino del buddhismo avverrà insieme al declino della classe mercantile, con il crollo dei grandi
imperi, il sorgere del feudalesimo che non incoraggia un’economia di mercato, e l’espansione del
13 Lo stesso Aśoka della dinastia Maurya, e Kanishka della dinastia Kushana, avevano origini straniere.
commercio, ma piuttosto un’economia stagnante, di sussistenza, che diverrà la caratteristica
economia di villaggio indiana, riscontrabile fin quasi ai giorni nostri.