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CAPITOLO 10 SCIENZA, TECNICA, SOCIETÀ

1. Premessa
2. Sapere scientifico e tecnologia
Il “sapere scientifico” è un sistema di organizzazione della conoscenza, complesso e
articolato, che emerge in Europa alla fine del XVI secolo. La scienza è intesa come l’insieme
dei metodi di conoscenza e dei relativi prodotti che risalgono alla sistematizzazione
galileiana e che ha fornito la spinta per la Rivoluzione Industriale, contribuendo alla
costruzione del mondo nel quale viviamo. Con questa definizione collochiamo la scienza
all’interno delle pratiche e dei processi che l’hanno generata e che essa continua a
plasmare evitando così di aggiudicarle un carattere autonomo e avulso dal sociale.
Per comprendere a pieno il Sapere Scientifico bisogna considerarlo insieme a un altro
sapere, quello della Tecnologia. La tecnologia definisce l’insieme delle competenze
intellettuali e pratiche che consentono lo svolgimento delle attività umane. Per molto
tempo il progresso della conoscenza tecnica è stato separato dalla conoscenza scientifica. Il
lavoro degli artigiani era separato da quello dei sapienti e vigeva una distinzione tra le arti
“liberali” e le arti “tecniche”. Le arti liberali erano la filosofia, la poesia e la musica, ed erano
considerate arti delle classi superiori. Mentre le arti tecniche erano svolte dai servi, dagli
schiavi e dalla gente che apparteneva alle classi inferiori. Tra questi due mondi la
separazione era netta: difficilmente una persona appartenente alla classe superiore si
sarebbe occupata delle tecniche e delle arti pratiche. Eppure, a dispetto di questa forte
distinzione il sapere tecnico nel corso dei secoli si è evoluto, fornendo soluzioni di
adattamento agli uomini nel loro ambiente. Sono state migliorate le tecniche agricole, le
tecniche di guerra, la tecnica della lavorazione dei metalli ecc.
Karl Marx nel Capitale, ha colto il carattere della tecnologia quale raccordo tra gli esseri
umani e la natura attraverso un comportamento attivo che condiziona le relazioni sociali.
3. La scienza nuova
Paolo Rossi definisce la Rivoluzione scientifica come quel processo in cui la conoscenza di
tipo speculativo e teoretico che aveva per oggetto la natura, si è saldata con quello della
tecnica, tipica delle arti e dei mestieri. L’epoca Moderna è caratterizzata proprio dall’unione
tra sapere scientifico e tecnica. Grazie a questa unione è stato possibile raggiungere livelli di
benessere che non erano neanche immaginati nel passato. Rossi ricorda che durante il
Rinascimento si è attribuito un forte valore al lavoro tecnico e al sapere pratico e questo
comportò un forte cambiamento nei valori sociali e si diete dignità alle attività pratiche
umane. La conoscenza non ha più un carattere individuale ma viene condivisa e diventa
conoscenza pubblica grazie al linguaggio e ai metodi che sono condivisi da un’intera
comunità, quella degli scienziati.
4. Il periodo aureo della scienza e della tecnica
Tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento si ha un’alleanza tra scienza e tecnica che
viene ricordata come “periodo aureo”. L’unione tra sapere scientifico e sapere tecnico ha
dato vita ad allungare i tempi di deperibilità degli alimenti, scoprire medicine in grado di
debellare malattie mortali, invenzione del motore a vapore, scoperta dei fertilizzanti chimici
e l’ingresso delle macchine agricole in agricoltura. Ma si deve notare che tutte queste
innovazioni hanno riguardato solo il mondo occidentale, e con le molte innovazioni sono
andate emergendo anche le profonde disuguaglianze tra gli esseri umani perché non tutti
potevano permettersi dei costi così alti.
5. La sociologia per la scienza
Auguste Comte con la sua “legge dei tre stadi” ha affrontato il ruolo del sapere tecnico e
scientifico nell’ambito dell’evoluzione sociale. Il sapere positivo, infatti, è un traguardo sia
per il singolo che per l’intera umanità. Uno stadio conclusivo raggiunto il quale l’umanità
potrà conseguire livelli di prosperità e benessere mai conseguiti prima. Comte affida agli
scienziati il compito di plasmare il nuovo livello di società. Il sapere scientifico permette la
fine dello stato di guerra continua che fino ad allora aveva caratterizzato l’umanità. Per
Comte le Scienze vengono classificate in base al loro livello di complessità. Le prime scienze
a raggiungere lo stadio positivo sono le scienze come l’astronomia dette SCIENZE PIU’
SEMPLICI dopo queste ci saranno scienze via via più COMPLESSE quali la fisica e la biologia.
Comte considera la SOCIOLOGIA una delle discipline scientifiche più complesse che
raggiunge per ultima lo stadio del pieno sviluppo positivo.
6.La sociologia della scienza
Le principali questioni affrontate dai sociologi che si occupano di scienza sono: come viene
prodotto il sapere scientifico? Come è costruito l’ethos dello scienziato? Quali sono le
dinamiche materiali e sociali che permettono uno sviluppo tecnico e scientifico?
7.Robert k. Merton: genesi e principi dell’ethos scientifico
Il primo approccio sistemico in sociologia della scienza è stato proposto dal sociologo
statunitense Robert K. Merton. Egli vuole dare una spiegazione sulle modalità con cui il
sapere scientifico viene prodotto e diffuso all’interno di una comunità di scienziati. Merton
parte dal presupposto che per la prima volta sono gli scienziati ad essere l’oggetto degli
studi sociologici attraverso uno schema classico che deve trovare la genesi e le
caratteristiche di un ETHOS comune a tutti gli scienziati di una comunità.
Gli scienziati si definiscono come coloro che condividono un ETHOS basato sui principi:
universalismo, comunismo, disinteresse e scetticismo organizzato. Attraverso questi principi
la scienza porta al termine il suo fine che è quello di accrescere la “conoscenza verificata”.
-l’universalismo indica che si può giungere alla verità scientifica senza tener conto delle
caratteristiche personali del ricercatore quali, razza, lingua, religione ecc.
-comunismo è per Merton un elemento dell’ETHOS scientifico che serve per promuovere la
collaborazione sociale nella produzione della verità scientifica, la quale non è mai opera di
un solo scienziato
-disinteresse l’attività scientifica non deve mai avere un interesse a provare la verità
scientifica di una certa teoria.
Il dubbio sistemico impone allo scienziato di non dare nulla per scontato, Merton considera
questo dubbio una grande risorsa per la scienza che pone delle frizioni nel rapporto tra lo
scienziato e la società esterna ai laboratori. Infatti molto spesso la società pretende delle
certezze dagli scienziati e dalla scienza che non sempre sono in grado di dare.
8. Il programma forte
Molti sociologi all’inizio degli anni Sessanta si allontanano dalla teoria di Merton e dalla
concezione positivista della scienza.
David Bloor sociologo dell’università di Edimburgo, crea un Programma Forte per lo studio
sociologico della conoscenza scientifica. Secondo questo Programma, la sociologia della
scienza ha il compito di studiare il processo di produzione della conoscenza scientifica,
come ad esempio cosa accade nei laboratori alle persone in carne ed ossa che ci lavorano.
Secondo Bloor, gli elementi sociali entro cui si produce il fatto scientifico devono essere
tenuti presenti come elementi che sono parte integrante di questa pratica e non considerati
come dei semplici elementi di disturbo rispetto a ciò che prescrive il metodo.
Le linee guida di questo programma sono:
-la causalità: che indica la necessità della sociologia della scienza di indagare sulle condizioni
storiche, sociali e psicologiche che stanno a monte della produzione del sapere scientifico.
-l’imparzialità: secondo il programma, quando il sociologo studia e valuta le pratiche di
laboratorio non deve farsi condizionare dal fatto che un certo esperimento ha avuto esito
negativo
-simmetria: le spiegazioni devono valere sia per i risultati positivi che negativi
-la riflessività: i criteri dello studio della produzione del sapere scientifico si riversano sulla
conoscenza sociologica.
In definitiva questo Programma tende a superare due concetti: Il modello teologico che
considera la conoscenza scientifica orientata verso la realtà naturale, e vuole superare il
modello empirista che lega la conoscenza all’esperienza individuale
9. Gli studi di laboratorio
I sociologi Bruno Latour, Steve Woolgar e Karin Knorr-Cetina hanno creato un nuovo stile
di ricerca basato su un approccio microsociologico, basato sulla quotidianità della ricerca
scientifica. Questo approccio studia il laboratorio dove operano gli scienziati con i loro
saperi, passioni, difetti, momenti di depressione e di euforia. Una delle tesi di fondo di
questo approccio è la messa in discussione del lavoro concreto degli scienziati e la
discriminazione che ne risulta, per esempio, negli articoli scientifici.
Secondo Latour un documento diventa scientifico quando le sue asserzioni finiscono di
essere isolate e quando il numero delle persone coinvolte nella sua pubblicazione sono
molte ed esplicitamente indicate nel testo. A questo punto dopo averlo letto è il lettore che
si sente isolato. La realtà secondo l’autore diventa quindi una conseguenza del fatto
scientifico. Egli introduce il termine “agonismo” dove vuole intendere le attività degli
scienziati che non sono orientate ad un criterio di verità o di attinenza alla natura ma sono
attività caratterizzate da dispute, rapporti di forza e capacità di stringere alleanze.
10. Alcune questioni relative alla tecnologia
Nel senso comune la tecnologia è l’insieme di tutte quelle applicazioni e conoscenze che gli
scienziati fanno nel chiuso dei loro laboratori. Secondo questa linea troppo semplicistica a
monte, nei laboratori, gli scienziati producono le scoperte, al centro ci sono i tecnici che le
traducono in invenzioni, manufatti e nuove pratiche e infine a valle le persone comuni
inseriscono questi manufatti nella vita quotidiana.
Le scienze sociali da quando si occupano di tecnologia, sono chiamate a rompere questa
visione lineare della tecnologia e rendere omaggio alla complessità e all’articolazione dei
processi tecnologici.
11. La costruzione sociale della tecnologia
Nell’ambito degli studi sociali di scienza e tecnica, i prodotti della tecnologia sono
considerati degli artefatti, vale a dire dei prodotti di pratiche sociali complesse,
caratterizzate da interessi molteplici. Tra gli approcci più importanti agli studi di tecnologia
vi è quello detto della costruzione sociale della tecnologia. In un testo fondamentale per
questa prospettiva, Bijker, Hughes e Pinch mettono in luce tre significati del termine
“tecnologia”:
- In un primo luogo, vi è il livello degli oggetti fisici o artefatti, per esempio le biciclette,
le lampadine. Bakelite.
- In secondo luogo, il termine tecnologia può essere riferito ad attività o processi,
come per esempio la produzione dell’acciaio o la forgiatura.
- In terzo luogo, il termine tecnologia può essere riferito a ciò che le persone sanno
così come a ciò che fanno, un esempio è il “know how” che entra nella progettazione
di una bicicletta o nell’operare con un apparecchio ad ultrasuoni in una clinica
ostetrica.
Quindi acanto agli aspetti tecnici, è necessario tenere conto degli aspetti sociali e politici.
Tenere nel giusto conto significa che si intendono superare due opposti determinismi: da
un lato quello tecnico, secondo il quale è il contenuto tecnico ad indicare le linee di
sviluppo e di usabilità dell’artefatto; dall’altro il determinismo sociale, parimenti pericoloso
che riduce tutto alle dinamiche sociali. Secondo Pellegrino il cambiamento sociale e quello
tecnico avvengono insieme quindi si devono comprendere entrambi.
Due sono i fondamenti che costituiscono questa teoria:
-Il primo è l’Empirical Programme of Relativism (EPOR) che studia come una certa scoperta
si basi sulla FLESSIBILITA’ INTERPRETATIVA. Un esempio tipico di questo modo di
interpretare i percorsi di sviluppo di una certa tecnologia è offerto proprio da Bijker. Si
pensi al percorso di sviluppo di una bicicletta. In un primo momento si trattava di ruote di
ferro o di legno, una caratteristica che per gli utenti di allora, soprattutto i maschi
utilizzavano a scopi agonistici, non rappresentava affatto un problema il fatto che le
vibrazioni fossero forti. Al fine ti attrarre l’uso della bici anche verso il mondo femminile,
Dunlop introdusse lo pneumatico di gomma che permise di ridurre in modo decisivo le
vibrazioni. Ma la cosa interessante, oltre all’uso femminile dell’utenza dei bicicli, fu che
dopo un primo momento di perplessità anche il pubblico maschile che prima era orientato
all’agonismo, iniziò ad apprezzare quell’innovazione che riusciva non solo a minimizzare le
vibrazioni ma riusciva anche ad aumentare la velocità. Quindi ogni innovazione è portatrice
di significati e potenzialità differenti per ogni gruppo di utenti. Ma la FLESSIBILITA’
INTERPRETATIVA ad un certo punto si esaurisce quando lo sviluppo di un artefatto si
stabilisce sulla linea di sviluppo considerata naturale. Questa fase coincide con la sua
MATURITA’.
-Il secondo è la Social Construction of Technology (SCOT) che è orientato a identificare i
gruppi sociali che hanno un interesse perché un certo artefatto si affermi oppure no e che
quando questo avvenga, avvenga con determinate caratteristiche. Secondo Bijker, sempre
con la bicicletta. I giovani sportivi hanno avuto un ruolo importate per via delle loro
richieste sul chiedere sempre maggiori performance velocistiche. Dobbiamo parlare anche
della formazione di anti-ciclisti che riescono anche loro a incidere sullo sviluppo delle
biciclette con le loro azioni di boicottaggio.
CAPITOLO 11 CONSUMI, PRATICHE E STILI DI VITA
1. La rivoluzione dei consumi
Nell’ambito dello studio dei consumi troviamo diverse interpretazioni del momento storico
in cui è nata la società dei consumi. La comprensione del fenomeno del consumo rientra in
uno scenario sociale nel quale si sono realizzate talune specificità storiche. La prima è il
dominio dell’industria sulla distribuzione delle forze di lavoro, sulla formazione e
distribuzione del reddito e sui processi di accumulazione. Si assiste infatti a una vera e
propria ideologia del lavoro. Per capire il ruolo dei consumi si deve capire il diverso ordine
sociale che si è andato a creare nelle epoche. Con la grande trasformazione si assiste al
definitivo passaggio da una società ascrittiva, nella quale gli individui godevano di privilegi
di status derivanti dalla nascita, a una società acquisitiva, fondata sul mercato libero in cui
gli individui si pongono in maniera autonoma, creando una stratificazione non più per stati
ma per classi. Il passaggio da una società all’altra ha dato vita al terzo stato, in cui la
possibilità di emanciparsi non dipende più dalla nascita, ma è il frutto di meccanismi che
danno la possibilità a tutti gli individui di scegliere il proprio destino. Con la rivoluzione
industriale le modalità tradizionali di produrre e consumare mutano: i beni vengono
prodotti in misura maggiore di quanto sia necessario. Nasce così un vero e proprio modello
consumistico, che secondo Campbell deriva dal diffondersi dell’etica romantica e dal suo
culto dell’espressività individuale (possibilità di esprimere la propria unicità e specificità, al
di là del duro lavoro, delle privatizzazioni autoimposte e della disciplina che impone l’etica
protestante). La società capitalistica, per continuare a crescere, non può prescindere solo
da masse di lavoratori ma anche da masse di consumatori; il far soldi e consumare
diventano imperativi della società capitalistica ai quali gli individui non possono sottrarsi
perché essi costituiscono il motore centrale della società. George Ritzer sostiene l’esistenza
di una vera e propria teoria dei consumi alla quale milioni di consumatori in tutto il mondo
non possono sottrarsi di professarne il culto.
2. Il consumo nei classici del pensiero sociologico: classi, ceti e status symbol
La sociologia dei consumi nasce nel 1899 con l’opera di Thorstein Veblen “La teoria della
classe agiata. Studio economico sulle istituzioni”. Nella sua interpretazione, così come in
quella di autori come Marx – Simmel – Weber, il consumo appare in grado di riflettere i
fenomeni e le dinamiche della società in cui si inserisce. Il paradigma dell’homo
oeconomicus, proposto dagli economisti neoclassici, sostiene che i consumatori sono
individui isolati che si approcciano al mercato sulla base del loro reddito e in base ai bisogni
considerati universali. Il modello del self interest teorizza un soggetto definito dall’agire
razionale rispetto allo scopo, motivato solamente dal perseguimento di interessi economici
tramite l’utilità, ossia la capacità dei beni di soddisfare i bisogni. Per la sociologia i
comportamenti economici sono, invece, il frutto del mutamento degli equilibri sociali. Con
l’interpretazione fornita da Marx la produzione produce l’oggetto del consumo, il modo di
consumo e l’impulso al consumo. Attraverso il concetto di alienazione egli giustifica
l’adattamento degli individui alle mutevoli esigenze della produzione; l’alienazione è una
condizione in cui gli individui sono dominati dalle forze che essi stessi hanno creato e si
contrappongono a loro come forze aliene. Simmel ritrova nella mobilità sociale e nei
rapporti tra classi ordinate gerarchicamente una delle chiavi di lettura del fenomeno della
moda proponendo due livelli di analisi:
-Imitazione-differenziazione: insita nel rapporto individuo società che si manifesta nel
conflitto e consenso esistente in ogni relazione sociale. La moda in quanto imitazione
permette un senso di appartenenza al gruppo, al contempo però, consente di porsi in
posizione antitetica al gruppo medesimo, apportando trasgressioni allo scopo di
differenziarsi.
-Rapporti tra classi: le classi superiori modificano le mode e lo stile di consumo per rendere
faticosa la rincorsa all’ascesa sociale.
Attraverso l’analisi degli autori classici si è pervenuti alla definizione dell’agire di consumo
come agire sociale dotato di senso, di un significato, socialmente comprensibile se collocato
nelle dinamiche della società industriale organizzata in classi e ceti dell’inizio del
Novecento.
3. Il consumo come linguaggio: pratiche e stili di vita
Dopo quasi settant’anni dall’opera di Veblen il tema del consumo torna a essere di grande
rilevanza collocandosi all’interno di una riflessione più ampia. Come affermano Horkheimer
e Adorno nell’opera “Dialettica dell’illuminismo”, il consumo è il fine ultimo a cui tende
l’industria culturale. L’industria culturale ha come scopo quello di portare la cultura alle
masse e le comunicazioni di massa hanno lo scopo di promuovere un adattamento
generalizzato al sistema sociale e sostenere il mercato invitando a consumare i prodotti
standardizzati, le merci, su cui si fonda il sistema capitalistico Baudrillard e Bourdieu, con
un’analisi critica del consumo, affermano che la vita degli oggetti non si esprime solo nella
loro materialità e nel loro uso, ma nel significato simbolico che essi hanno (studiano la vita
immateriale degli oggetti materiali). Così come il linguaggio non esiste per la necessità
individuale di parlare ma serve per assicurare la comunicazione tra soggetti, allo stesso
modo si scambiano oggetti-segni, cioè gli status symbol, per la loro capacità di comunicare
informazioni sulla posizione sociale e sulla differenza degli individui, dei gruppi e degli strati
sociali che entrano in relazione. La differenza deve cogliersi a partire dalla
manipolazione e dall’organizzazione degli oggetti-segni all’interno di specifiche
grammatiche di classe. È la sintassi che ordina la combinazione oggetti-segni, che funge da
elemento fondamentale di discriminazione tra le classi e gli individui. Ciò significa che il
codice che detta le regole cambia a seconda della diversa posizione delle classi nella
stratificazione sociale e dal livello culturale da esse posseduto. Il consumo come struttura di
scambio è un linguaggio universale a cui tutti possono accedere (Baudrilard ci parla di
consumo come alibi democratico) ma vi sono veri e propri dialetti di classe che si
contrappongono al linguaggio ufficiale. A sua volta, dietro i dialetti di classe, si nascondono
delle vere e proprie strategie di preservazione dello status delle classi superiori. Nel sistema
del consumo il rapporto con gli oggetti è mediato dal codice del proprio gruppo di
appartenenza che fa sì che gli individui all’interno del gruppo possano esprimere le loro
posizioni, le loro ambizioni e anche eventuali frustrazioni; forte è anche l’influenza della
semiotica per la quale sono le regole grammaticali a dare vita ad un linguaggio e a
precedere le singole parole. I singoli oggetti come singole parole, come segni, in un discorso
la cui significazione dipende dalla grammatica, ovvero dalle regole combinatorie che li
preesiste. Come asserisce Bourdieu, esiste un rapporto tra gusto e struttura di classe, quindi
tra gusto e differenze esistenti all’interno del sistema sociale che fondano il processo
sociale della distinzione che deriva dalle dimensioni complessive del capitale posseduto dai
soggetti delle varie classi (capitale economico-culturale-sociale).
-capitale economico, è quello legato alla ricchezza e alla professione;
-capitale cultuale, legato alla cultura acquisita all’interno dell’ambiente familiare e legato
alla cultura acquisita grazie al sistema educativo;
-capitale sociale legato al nome, al prestigio, alla reputazione, alla gloria, all’autorità.
Tra questi capitali c’è un rapporto di interdipendenza che mette in luce la differenza in un
primo livello dove le diverse classi possono suddividersi tra coloro che più usufruiscono del
capitale e coloro che ne sono sprovvisti; in un secondo livello invece c’è una
differenziazione all’interno delle stesse classi.
Poi, definisce il concetto di habitus come capacità di produrre pratiche e opere classificabili,
di distinguere e di valutare queste pratiche e questi prodotti e costituisce il gusto, mediante
il quale viene costruito un determinato immaginario sociale e un preciso stile di vita
L’habitus appare nella sua DIMENSIONE STRUTTURATA, nei termini in cui genera e
organizza pratiche e sia nella sua DIMENSIONE STRUTTURANTE, delimitando il campo delle
possibilità di pensiero e di azioni effettive.
4. Il consumo nella società individualizzata.
Negli ultimi anni la sociologia si è focalizzata sulla dimensione micro del consumo, piuttosto
che su quella macro delle strutture. L’esperienza del consumo, fondata sul piacere, sembra
rispondere a quella richiesta di senso che oggi gli individui non riescono a trovare in
maniera organizzata. Si tratta di una teoria del comportamento del consumo che,
indagando sulle motivazioni che conducono i consumatori alla scelta di acquisto, svela
ancora una volta una dimensione critica: la capacità del sistema capitalistico di
autoriprodursi.
CAPITOLO 12 LA CULTURA
1. Cultura e analisi culturale nelle scienze sociali
Il concetto di cultura nelle scienze umane è una categoria di giudizio, un concetto di valore.
La cultura è, secondo M. Arnold “quanto di meglio è stato detto e scritta dall’uomo”.
Parlare di cultura significa adottare un principio selettivo e elevarla a norma universale.
L’antropologia culturale che si interessa dello studio dell’uomo in quanto essere culturale
ha contribuito ancora di più a rendere problematica la nozione di cultura nella disciplina
sociologica. Gli antropologi si sono specializzati nello studio delle culture umane, culture al
plurale, per sottolineare la diversità e la pluralità dei modi di essere e di vivere degli uomini,
i sociologici, invece, si sono interessati allo studio delle strutture sociali e delle forme di
organizzazione sociale. Quindi agli antropologi era affidato lo studio dei sistemi culturali
mentre ai sociologi quello dei sistemi sociali. La cultura è l’oggetto fondamentale per la
sociologia perché, gli oggetti culturali popolano le nostre società e le nostre vite nella
società, pensiamo all’importanza che hanno i romanzi, i film, le canzoni, vestiti, i programmi
televisivi nelle nostre vite; quindi, viviamo in un mondo pieno di oggetti e immagini che
sono carichi di significati e di simboli. La cultura della società elementare, la società che una
volta era chiamata “primitiva”, era piena di oggetti e pratiche religiose, mentre la cultura
della società moderna si esprime nelle arti, nei media e nella moda. La divisione del lavoro
tra antropologi e sociologi è andata scomparendo quando le società primitive si sono
evolute e sono trasformate in società sempre più complesse e interconnesse. Pensiero
comune ai sociologi e agli antropologi è che non esiste STRUTTURA SOCIALE senza una
STRUTTURA CULTURALE e viceversa. La cultura è una costante fondamentale nella vita
sociale. Dove si attribuiscono significati, dove ci si chiede il senso delle cose e degli eventi lì
c’è cultura. Gli esseri umani esistono socialmente nella misura in cui interpretano e danno
senso al proprio agire e a quello degli altri, e così facendo producono e usano la cultura.
Lo scienziato sociale opera su due strutture quindi: sulla struttura sociale e su quella
culturale. Infatti, non ci può essere struttura sociale senza cultura, così non ci può essere
cultura senza struttura sociale.
2. L’invenzione del concetto di cultura in senso socio-antropologico
In senso socio-antropologico, le fonti del concetto di cultura sono due.
1)Il termine cultura è stato usato nella prima metà dell’Ottocento dai tedeschi che
definivano “kultur” per indicare ciò che in Francia veniva definita società.
Gustav F. Klemm, filosofo e storico, ha definito la cultura come categoria centrale per la
comprensione e ricostruzione della storia universale dell’umanità, secondo uno sviluppo
evoluzionistico unilineare fondato su tre stadi: lo stato selvaggio, l’addomesticamento e la
libertà. Tylor invece definisce la cultura in termini antropologici, affermando che la cultura è
quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società.
Quindi con il termine “cultura” si intende quell’insieme complesso che l’uomo acquisisce e
conosce vivendo nella società attraverso il contatto sociale. Secondo questa linea di
pensiero, non tutte le società non partecipano alla cultura con lo stesso grado di perfezione.
2) La seconda fonte è da individuare nell’opera del filosofo post-illuminista Johann Gottfried
Herder che afferma che le società umane sono troppo diverse tra loro per far parte di un
unico processo lineare. Egli quindi afferma che gruppi sociali diversi hanno culture diverse.
Herder è il padre del RELATIVISMO CULTURALE. Herder è ricordato quindi per la sua teoria
di CULTURE DI POPOLI, al plurale, riconoscendo a queste culture tre principali
caratteristiche:
-l’essere comparabili e aperte alla contaminazione con altre culture;
-l’essere prodotti di un’interazione sociale, per cui la lingua gioca un ruolo fondamentale nel
costruire un mondo di senso e di sentimenti condivisi;
-l’essere trasmesse in fora di tradizione secondo lo sviluppo storico dell’umanità.
Lo storico Herder definisce due tipi di culture: una relativista e una universale. La
concezione relativista della cultura sta ad indicare i differenti modi di vivere e di pensare dei
popoli, ai loro costumi morali e caratteri nazionali; mentre la concezione universale indica il
livello generale di sviluppo delle facoltà umane. Le due accezioni herderiane di cultura
(relativista e universale) avranno come erede Alfred Weber.
3. Origini della sociologia culturale tedesca simmel, m. weber e a. weber.
La sociologia culturale tedesca trae le sue origini da due presupposti: la distinzione tra
natura e cultura, e la distinzione tra cultura e società. Queste due distinzioni non sono
due poli
Opposti ma anzi hanno elementi in comune quali:
-hanno in comune il concetto di SPIRITO, che è espressione dell’interiorità dell’uomo;
-hanno in comune l’idea che i fenomeni culturali non sono soggetti a leggi universalistiche
delle scienze naturali ma sono soggette ai mutamenti della società in cui si manifestano
Per Simmel sono due gli aspetti fondamentali:
 La fondazione della sociologia come nuova scienza della cultura,
 La fondazione della sociologia come nuova scienza della cultura, la tensione tra
cultura oggettiva e cultura soggettiva che sta all’origine dei processi di
individualizzazione della modernità.
La sociologia si presenta come una scienza “riflessiva” che indaga le forme di sociazione.
Queste si distinguono a seconda del numero e dell’intimità dei rapporti reciproci esistenti
tra persone. Il processo culturale della modernità si spiega secondo Simmel grazie a una
tensione creatrice (spirito soggettivo) che spinge l’uomo ad innalzare la qualità della
propria vita producendo “cose”. Con la crescita smisurata della cultura oggettiva aumenta
però anche la distanza di questa dallo spirito soggettivo fino a giungere a una loro
contrapposizione. Mentre la soggettività interiore è infatti sempre più frammentata, la
cultura oggettiva diventa sempre più organizzata in SFERE CULTURALI DI VALORE che
possiedono un senso proprio e si pongono come forze autonome. Nella metropoli, cuore
della cultura moderna, questa contrapposizione si sviluppa secondo una dinamica precisa:
quando aumentano gli stimoli esterni della cultura (esempio, i negozi con le merci, i
continui rapporti con gli sconosciuti ecc) così si ha un’intensificazione della vita nervosa
(spirituale) nell’uomo. Per proteggersi dall’eccesso degli stimoli esterni della cultura,
l’individuo sviluppa un atteggiamento BLASE’, CIOE’ SI DISTACCA EMOTIVAMENTE VERSO
CIO’ E VERSO CHI LO CIRCONDA. Il denaro è un esempio di questo processo di
oggettivazione culturale poiché trasforma le differenze qualitative in differenze
quantitative, diventando MEDIUM principale delle relazioni sociali urbane. Questo alla fine
produce nell’individuo, un desiderio di distinguersi che si esplicita in fenomeni di ordine
estetico come la moda e che si incarna soprattutto nella figura dell’eccentrico. Max Weber
si sofferma sull’idea DI RELAZIONE AL VALORE per indicare l’interesse umano verso
segmenti strappati dalla corrente degli avvenimenti del mondo e dotati di SENSO
INTERSOGGETIVO. Secondo Weber le scienze culturali sono interessate a realtà empiriche
che sono collocate all’interno di spazio e tempo, come ad esempio nazioni o epoche, che
diventano culturali quando vengono messe in relazione con idee al valore da individui
posizionati nella storia. Poiché le idee al valore sono mutevoli e non si possono spiegare
attraverso le leggi di casualità deterministica, è necessario allora limitarne l’arbitrarietà.
Questa funzione di limitazione è offerta dagli idealtipi, che sono modelli costruiti su
elementi concreti della realtà che il pensiero astrae e mette insieme in immagini di senso.
Negli studi sul protestantesimo, Weber mette in relazione due fenomeni culturali: l’etica
protestante e lo spirito del capitalismo. Secondo Weber l’etica protestante ha in sé sia lo
spirito capitalista che lo spirito della modernità poiché porta gli individui verso una
CONDOTTA DI VITA RAZIONALE, che si fonda sull’idea di professione. Quindi l’elemento
cardine della cultura moderna occidentale è la crescente razionalizzazione in ogni ambito
della cultura. Alfred Weber, fratello minore di Max, pone l’attenzione sui due concetti di
cultura relativista e universale di Herder, influenzato dalla forte contrapposizione
nell’Ottocento tra il concetto di civilizzazione e quello di Kultur, la civilizzazione diventerà il
carattere dell’artificiosità della cultura francese mentre la Kultur sarà sinonimo
dell’autenticità dello spirito del popolo tedesco. Secondo Alfred i processi di civilizzazione
seguono un percorso lineare del progresso (tecnico scientifico), mentre i movimenti
culturali (kultur) seguono l’evoluzione della coscienza umana verso stadi sempre più
consapevoli e riflessivi dell’io.
4 In America
La tradizione herderiana avrà come massimo esponente l’antropologo Franz Boas,
antropologo nato in Germania e poi emigrato negli Stati Uniti che diventerà la figura di
spicco di tutta l’antropologia culturale americana. Per Boas, le caratteristiche culturali delle
differenti popolazioni sono da ricondurre a cause esclusivamente culturali. La teoria si basa
sulla società americana del XX secolo dove il concetto di cultura era influenzato da nozioni
di tipo biologico-raziale, da cui Boas prende subito le distanze. Egli critica anche la teoria
dell’evoluzionismo culturale di Tylor, dove afferma che le società con simili modelli culturali
si trovano a un simile stadio di evoluzione. Boas non è interessato a trovare delle leggi
universali che governano i processi culturali ma vuole cercare di comprendere i singoli
processi storici delle culture. Questo tipo di approccio consente di comparare differenti
culture e fare delle generalizzazioni sulla base di casi etnografici ben definiti. Si guarda
quindi alle pratiche degli individui in uno specifico contesto socio-culturale e a come gli
individui si comportano verso l’ambiente naturale, verso gli altri gruppi, verso i membri
del proprio gruppo e se stessi.
La teoria culturale di Robert Ezra Park ha origine dall’osservazione della città di Chicago nei
primi decenni del Novecento. Chicago, infatti, è una metropoli caratterizzata da un mosaico
di popolazioni e culture urbane segregate. Per Park questi differenti mondi tendono a
integrarsi secondo quattro processi distinti: competizione, conflitto, accomodamento e
assimilazione, così la vita urbana sembra essere un complicato tessuto di relazioni sociali.
Questa complessità rilancia da un lato la questione dell’ordine sociale (dei comportamenti
devianti rispetto ai modelli di vita sociale normali) e dall’altra offre ai singoli degli stimoli e
un senso di libertà. Per capire la vita delle metropoli Park ci parla dell’uomo considerato
marginal man (uomo marginale), che è il prodotto dei processi di immigrazione e
acculturazione che avvengono all’interno della metropoli. Il marginal man non è né un
emarginato né un outsider ma è colui che vive ai confini di una cultura ed è a contatto con
altre culture, tra loro diverse e potenzialmente antagoniste. Il marginal man ricopre nello
stesso momento sia il ruolo di cosmopolita che quello dello straniero. A differenza
dell’uomo simmeliano però l’uomo marginale non assume una posizione di osservatore
distante dalla società in cui vive, ma incorpora una situazione di passaggio dalla propria
cultura di origine a quella di arrivo. La sua assimilazione culturale non si risolve con
l’assorbimento nella cultura dominante, ma semplicemente la sua esperienza urbana sui
generis diventa con il tempo normale. In questo senso quindi l’uomo marginale è
considerato agente di cambiamento culturale perché è espressione non solo di una nuova
soggettività, ma anche di una nuova forma di vita moderna, segnata da crisi e mutamenti
continui che Park chiama URBANITA’.
Negli stessi anni in cui opera Park, Talcott Parsons, il più importante esponente dello
struttural-funzionalismo americano, costruisce la sua teoria DELL’AZIONE SOCIALE. Parsons
riprendendo la teoria di Weber sull’agire come “intenzionalmente orientato verso uno
scopo”, trasforma la relazione scelta-valore dell’azione dove la relazione è di tipo
NORMATIVA. Gli attori sociali hanno una limitata possibilità di scelta all’interno di un frame
di norme e valori che condividono con gli altri membri della società, per cui l’integrazione
sociale risulta dal comportamento umano. Parsons nell’opera The social system, rielabora
questa teoria affermando che il sistema culturale è quell’insieme di valori, credenze e
simboli che svolge la funzione di mantenere o ristabilire l’ordine sociale. A questo sistema
culturale sono da ricondurre anche i comportamenti normativi degli attori che agiscono
secondo le aspettative reciproche legate ai ruoli che ricoprono all’interno della società.
Parsons affronta anche il rapporto tra società e cultura, cioè tra sistema culturale e sistema
sociale, dove riconosce alla cultura gli elementi dell’astrattismo e la riduzione dei significati
culturali a schemi normativi predeterminati dal sistema culturale della società.
Un altro importante antropologo che definisce il sistema culturale è Clifford Geerz, che non
considera la cultura come un sistema di adattamento normativo degli individui alla società
ma la cultura è una rete di significati attraverso cui gli attori costituiscono un ordine di
senso che fa da fondamento alle loro pratiche. L’etnografia si occupa di portare alla luce la
gerarchia delle strutture di significato che si sono insediate nel tempo. Geerz infine,
distingue tra diversi livelli di comprensione: il senso comune, che è vicino all’esperienza
diretta, il pensiero scientifico, che si basa sull’astrattezza e sulla riflessività, e il pensiero
estetico, che trova espressione attraverso il linguaggio metaforico.
5. Cultura e analisi culturale nel marxismo.
Marx basa la sua teoria sulla cultura sulle fondamenta della teoria hegeliana. Marx ci parla
di materialismo storico basato sulle teorie di Hegel. Per Hegel ‘umanità, dopo aver scoperto
la propria spiritualità, si aliena ad essa nella natura, per tornare infine su se stessa in forma
di “spirito assoluto”. La materia del mondo (natura), è quindi solo una tappa del processo
dello spirito. Per Marx questo rapporto si deve invertire. La storia dell’umanità non è il
riflesso di un’idea assoluta che si dispiega nel tempo, ma dipende dall’evoluzione dei
rapporti di produzione. Questi costituiscono la struttura della società, mentre le forme
religiose, politiche e filosofiche (in breve la cultura) ne rappresentano la sovrastruttura,
sono cioè il prodotto delle forze materiali di produzione che stanno alla base. Marx
sottolinea anche l’importanza della dimensione simbolica: le stesse merci, come il denaro,
sono riconosciuti nel loro carattere di feticcio, ed è in questa loro forma immaginaria che
sono oggetti di adozione da parte degli uomini, cioè dei loro umani produttori e
consumatori, snza che questi siano consapevoli della loro genesi umana. Marx chiama tutto
questo REIFICAZIONE, cioè la trasformazione che si opera nelle coscienze umane dei
rapporti tra persone. La dimensione simbolica in questo caso può contribuire alla
riproduzione dell’ordine sociale fintanto che esso riflette le strutture materiali, economiche
e produttive attraverso cui gli uomini si garantiscono la loro sopravvivenza appunto
materiale, fisica, organica e corporale.
Sulla base del materialismo storico di Marx si sono sviluppate tre prese di posizione che
hanno una caratteristica in comune: denunciare il determinismo economico.
Il primo è l’italiano Antonio Gramsci, che parla del concetto di egemonia. Per Gramsci nelle
società, l’egemonia della classe dominante non è assicurata solo da apparati coercitivi, ma
soprattutto da apparati ideologici, quali la scuola, l’arte e la letteratura. Queste fanno da
struttura e da sostegno a quelle che Gramsci definisce senso comune, o folklore, cioè una
sorta di “filosofia spontanea” delle classi subalterne, che è come un conglomerato
incoerente di frammenti di visioni del mondo che hanno origine da varie epoche storiche. Il
senso comune può essere scalfito perché non risponde a nessuna legge di natura, ma
piuttosto costituisce la coscienza più superficiale che deriva da quanto è stato fino ad allora
assimilato in modo acritico. Gramsci riconosce poi alle masse una seconda coscienza, il
buon senso, che si manifesta sono occasionalmente e in modo improvviso nelle attività e
azioni favorendo così delle rotture nel corso della storia. La teoria marxista viene ripresa
anche in Germania, da un gruppo di studiosi della scuola di Francoforte. Questi affermano
due punti fondamentali.
1) l’idea che i sistemi di pensiero sono strutture della coscienza spiegabili solo in relazione a
definite posizioni sociali e a una determinata epoca.
2) la dialettica è un processo aperto, per cui non esiste conciliazione tra pensiero e
condizioni materiali dell’esistenza. Adorno ci parla di INDUSTRIA CULTURALE. In quanto
questa trasformerebbe i beni culturali, beni spirituali per antonomasia, in merci
standardizzate, pensate intenzionalmente per essere consumate dalle masse che trovando
in esse facili strumenti di evasione e intrattenimento garantiscono ingenti profitti ai loro
produttori. Adorno parla di acquisizione di cultura che è un processo di appropriazione che
attraversa un lungo processo di apprendimento e ha come fine l’autonomia del soggetto.
L’industria culturale fa avvicinare i soggetti alla cultura in modo facile attraverso l’acquisto
di standardizzati beni semi-culturali, che usufruiscono in modo parassitario del prestigio dei
beni culturali senza condividerne la loro funzione critica. Negli anni Sessanta e Settanta in
Gran Bretagna, nell’Università di Birmingham nascono i cultural studies. Questi hanno come
idea di fondo che le merci culturali (in particolare, i prodotti massmediatici) operano come
“testi” insiemi polisemici e multivocali dei segni, e quindi siano pertanto aperte alle
interpretazioni più disparare da parte di differenti pubblici. Il termine cultura per i cultura
studies non ha un’accezione umanistico o estetico bensì politico.
6. La tradizione francese: da Durkheim a Bourdieu
A partire dagli anni Sessanta e Settanta dalla Francia arrivano nuovi stimoli e nuovi impulsi
sul ripensamento del concetto di cultura. Nelle scienze sociali francesi del XIX secolo,
all’interno dell’Illuminismo, il concetto di cultura è poco usato e limitato alla sua versione
più elitaria come spirito di individui “colti”, mentre dominanti sono il concetto di
universalista di “civilizzazione” Emile Durkheim padre fondatore della sociologia e
dell’antropologia francese, non usa mai il concetto di cultura. Per Durkheim i fenomeni
sociali hanno una dimensione culturale in quanto sono allo stesso tempo “fenomeni
simbolici”. Per Durkheim ogni civiltà contribuisce alla civilizzazione umana, respingendo
così ogni differenza per natura tra primitivi e civilizzati. Durkheim definisce la
civilizzazione come RAPPRESENTAZIONE COLLETTIVA. Per rappresentazione collettiva si
intende il prodotto di credenze e convinzioni condivise che fano da collante tra i membri
di una società. Ispirando sentimenti di solidarietà e unità organizzano le relazioni sociali tra
individui, come nel caso della religione. Per Durkheim, infatti, la religione è un insieme di
credenze e pratiche religiose che cementificano una comunità di credenti delimitando
uno spazio-tempo sacro, distinto da quello quotidiano nel quale i membri della comunità
proiettano inconsciamente l’immagine idealizzata della società stessa. Le rappresentazioni
sociali mediano il rapporto tra cultura intesa come sistema di categorie mentali e
classificazioni simboliche, e società intesa come struttura del gruppo sociale. La cultura
nella concezione durkhemiana non è un semplice specchio o riflesso della società (come
nella concezione marxista), ma è una rappresentazione collettiva con una propria
dinamica e logica, sia perché è prodotta da individui che si relazionano ad altri individui,
sia perché rappresenta e quindi rende presente a quegli stessi individui, l’esperienza
collettiva e i sentimenti del gruppo sociale a cui essi appartengono.
La cultura quindi è per D. quello che consente al gruppo sociale di esistere dentro e fuori
le coscienze individuali e di persistere a riprodursi nel tempo.
La concezione di cultura accolta dal movimento intellettuale dello strutturalismo francese
affonda le radici nel pensiero durkheimiano. Lo strutturalismo francese presenta sei
caratteristiche essenziali.
1. Distingue tra un livello profondo di realtà e uno superficiale che è determinato dal
primo;
2. 2. Il livello profondo è strutturato: la priorità è qui data all’organizzazione degli
elementi piuttosto che a essi presi singolarmente;
3. La struttura ha carattere oggettivo e necessario;
4. La struttura è più importante dei processi;
5. La struttura è più importante delle azioni che vengono spiegate attraverso la struttura
stessa (sono cioè determinate dalle sue reti di relazioni);
6. La cultura è un linguaggio da decodificare.
Principale esponente dello strutturalismo francese è l’antropologo Cloude Levi- Strauss per
il quale il linguaggio è la condizione stessa di possibilità della cultura: quindi non solo il
linguaggio è cultura, ma la cultura è linguaggio e funziona come linguaggio. La cultura è
ciò che sottrae l’umanità dal caos: organizza l’esperienza del mondo secondo regole che
sono radicate nella mente umana. Le istituzioni sociali (dal matrimonio ai riti locali, dai miti
alla cucina) vengono generate dall’organizzazione di categorie universali (freddo-caldo,
crudo-cotto, terra-cielo), secondo un codice oppositivo binario. Quindi culture differenti si
sviluppano da uno stesso sistema di unità elementari e seguono leggi universali che
regolano le strutture profonde della mente umana.
La teoria di Bourdieu nasce dalla contaminazione e dalla combinazione di elementi
durkheimiani e weberiani discostandosi sia da una visione funzionalista della cultura, la
quale presuppone codici simbolici già dati attribuendogli una funzione integrativa, sia da
un determinismo economico per cui la cultura è una sovrastruttura simbolica che deriva
da una struttura economica. Lo strutturalismo di Bourdieu è detto STRUTTURALISMO
GENETICO perché si riferisce alla dimensione storica dei fenomeni sociali e culturali. Dallo
strutturalismo classico Bourdieu ne conserva il PRINCIPIO DI RAZIONALITA’, per cui i
significati non sono mai intrinseci ma sono sempre legati al sistema da cui sono stati
generati, come le parole hanno significato solo rispetto alla lingua di cui sono elementi). B.
come Durkheim usa poco il termine “cultura”, ma lo scompone in più termini quali: habitus,
pratica, capitale culturale, doxa. Con il termine HABITUS, B. indica una GRAMMATICA
GENERATIVA di pratiche sociali che orienta il comportamento degli attori secondo schemi
interpretativi e di classificazione inconsci, divenuti una seconda natura, che sono stati
appresi nei primi anni di vita ma la cui origine è stata dimenticata. Habitus è strumento di
conoscenza pratica, che consente di elaborare strategie, adattarsi a nuove situazioni tutto
secondo le possibilità che ci viene offerto dalle strutture costitutive dell’ambiente in cui si
è formati e in quello in cui ci si trova ad operare. L’ambiente delle società moderne si
presenta sempre più differenziato in spazi sempre più specializzati (quello economico, quello
politico, quello religioso, quello scolastico, quello artistico). Gli agenti a questo punto, si
muovono all’interno di campi secondo il proprio habitus, per il mantenimento o il
miglioramento della propria posizione sociale in essi. La struttura sociale di ciascun
“campo” è così definita da relazioni oggettive, ossia dai rapporti di forza tra gli attori
sociali o classi di attori sociali che occupano una posizione simile. Quindi il concetto di
campo serve per definire una struttura sociale gerarchica e conflittuale mentre l’habitus è
quel dispositivo che consente la riproduzione ma anche il cambiamento. Bourdieu afferma
che le posizioni degli attori sono definite sia in base alle risorse economiche, sia in base alle
risorse culturali che questi hanno a loro disposizione. Il CAPITALE CULTURALE è ciò di cui
dispongono gli attori in relazione alla sfera culturale e si presenta in tre orme: capitale
culturale incorporato, espresso principalmente attraverso l’habitus e legato all’ordine
sociale; capitale culturale istituzionalizzato, espresso sotto forma di titoli scolastici, e altre
certificazioni; capitale culturale oggettivato espresso in beni e oggetti culturali (dai libri ai
dischi) di cui si dispone. La DOXA è l’oggettivazione del punto di vista
dominante sul mondo sociale, così il sistema di gerarchie, di preferenze e convenzioni
sociali egemoni viene naturalizzato cioè dato per scontato. Il MONDO SOCIALE non è
percepito come luogo di conflitto tra gruppi differenti con interessi antagonisti, quanto
invece è considerato come un ORDINE SOCIALE. Attraverso la doxa viene legittimata la
riproduzione della struttura sociale esistente. Quindi è interesse dei membri della classe
dominante, affinché mantengano la loro autorità e il proprio prestigio, questa non deve
essere messa in discussione.
7. Lo studio della cultura nella sociologia contemporanea.
Lo studio sociologico contemporaneo della vita culturale si basa su due prospettive
analitiche. La prima è quello dello studio dei processi e dei meccanismi che regolano la
produzione e il consumo di oggetti e beni culturali siano essi romanzi, fumetti, opere d’arte,
programmi televisivi ecc. Questa prospettiva si basa su ciò che sta a monte e a valle dei
contenuti simbolici. La seconda che è basata su una sociologia culturale più radicale, entra
nella trama dei significati che costituisce la sfera culturale riconosciuta come dimensione
costitutiva e più profonda della vita sociale in ogni sua forma, inclusa quella della
materialità economica e politica.

CAPITOLO 13 VITA QUOTIDIANA E COSTRUZIONE DELLA REALTA’ SOCIALE


1. Gli studi sulla vita quotidiana
Il quotidiano è ciò che ricorre ogni giorno e che abbiamo sempre sotto ai nostri occhi lo
rende così ovvio da non badarci nemmeno. La vita quotidiana è l’insieme degli ambienti,
delle pratiche, delle relazioni e degli orizzonti di senso in cui una persona è coinvolta più
spesso. Per persone diverse gli elementi che costituiscono la vita quotidiana possono essere
differenti: pensiamo a un ospedale, non è un’ambiente quotidiano per chi si ritrova a
riceverne cure, ma lo è per i medici e gli infermieri che vi lavorano. La sociologia dà
importanza allo studio sulla vita quotidiana perché è il perno principale intorno a cui ruota
la vita di ogni individuo ed è il luogo dove si riproduce l’ordine che regola il mondo sociale.
Simmell è stato uno dei primi sociologi a dare importanza allo studio della vita quotidiana in
quanto ogni dettaglio della vita, banale o ordinario che sia, è connesso all’insieme di cui è
parte e costituisce la via per la sua comprensione. La comparsa della vita quotidiana come
tema esplicito della ricerca sociologica è avvenuta nel corso del Novecento. La sociologia
nordamericana si è sviluppata verso lo STUDIO DELLE PRATICHE COMUNICATIVE E DELLE
INTERAZIONI ORDINARIE; quella europea si intreccia con la vita sociale. In autori come
Anthony Giddens l’attenzione per la vita quotidiana si situa nel cuore della teoria sociale,
perché è nel quotidiano, dove si fanno ripetizioni continue di pratiche, gli individui
confermano le istituzioni entro le quali vivono.
2. Mondo dato per scontato, senso comune e processo di tipizzazione
Nell’agire quotidianamente diamo per scontate atteggiamenti e comportamenti altrui,
quindi possiamo dire che noi agiamo e ci comportiamo seguendo un senso comune, cioè in
molte situazioni sociali noi facciamo quello che gli altri si aspettano. Es. su un autobus
occupo un posto libero e resterò in piedi aggrappandomi agli appositi sostegni, ma non mi
laverò i denti all’interno del bus. Quando parliamo quindi di comportamento dato per
scontato e di senso comune è importante ricordare il sociologo Alfred Schutz, fondatore
della sociologia fenomenologica, quella disciplina che intende la realtà sociale come
fenomeno, nel senso che è “realtà” ciò che appare ed è soggettivamente percepito ed
esperito come tale. Schutz quindi vuole intendere che noi afferriamo solo alcuni pezzi della
realtà, cioè quelli che sono rilevanti per noi. Schutz definisce la vita quotidiana la realtà per
eccellenza, cioè quell’ambiente in cui l’individuo è immerso per la maggior parte del
tempo e all’interno del quale svolge un gran numero di attività. La vita quotidiana viene
costruita per S. intersoggettivamente, cioè gli individui si accordano tra di loro su norme,
regole, comportamenti e atteggiamenti da rispettare al fine di avere meno problemi
possibili nello svolgimento delle normali attività giornaliere. Per questo la vita quotidiana è
intesa come un mondo dato per scontato, dove noi agiamo considerando le azioni degli
altri. Es. do per scontato che se paggio per strada le persone non mi verranno addosso.
Questo modo di pensare ci porta a sospendere il dubbio secondo il quale “il mondo e gli
oggetti posso essere diversi da come appaiono”. Per mettere da parte questo dubbio
applichiamo due processi: quello di tipizzazione e il senso comune. IL PROCESSO DI
TIPIZZAZIONE. Quando facciamo una TIPIZZAZIONE noi creiamo un TIPO (ideale), cioè
costruiamo una tipologia (di cose, persone, eventi, situazioni) che ci permette di
semplificare la complessità dell’esistente e di agire con più facilità all’interno delle
situazioni di vita quotidiana nella quale ci troviamo. La tipizzazione per Schutz non è
soltanto una caratteristica dello scienziato sociale ma è di tutti gli individui, a prescindere
dal loro ruolo che ricoprono nella società. Infatti, Schutz ci dice che tutti tendiamo a
tipizzare, cioè tutti creiamo delle tipologie di condotte, comportamenti e atteggiamenti che
ci permettono di condurre una vita quotidiana con maggiore semplicità.
IL SENSO COMUNE. Il senso comune è legato al processo di tipizzazione, è quel sapere che
ci consente di muoverci pragmaticamente all’interno del mondo. Il senso comune ci
permette di svolgere senza troppi problemi le attività, le azioni e le interazioni che
caratterizzano la nostra vita quotidiana. Svolgiamo queste azioni in modo automatico senza
pensare ogni volta al da farsi, es. scendere dal letto, salire sull’autobus, prendere un caffè al
bar ecc.
Con senso comune intendiamo quindi quell’’atteggiamento naturale di intendere la realtà
sociale e quotidiana allo stesso modo di come la intendono gli altri individui con i quali
interagisco. Così facendo mettiamo tra parentesi il dubbio che le azioni ordinarie possano
svolgersi in maniera diversa da come normalmente si sviluppano. Scutz in due saggi
evidenzia bene l’importanza del senso comune. In questi due saggi egli ci parla di due
figure: lo straniero e il reduce, dove mostra quanto sia importante il senso comune per una
vita quotidiana priva di traumi e come il dubbio abbia sempre la possibilità di emergere.
Nello STRANIERO, dove per straniero intende il migrante che arriva in un nuovo paese
diverso dal suo luogo di origine, es. studente Erasmus. Schutz sottolinea che è importante
abituarsi al nuovo senso comune, cioè apprendere una nuova routine, regole culturali e
contestuali, comportamenti e forme di interazione differenti da quelli alla quale si era
abituati. Nel
REDUCE, dove per reduce si intende la figura del milite che torna a casa dopo la guerra.
Schutz evidenzia la crisi che attanaglia coloro che si trovano catapultati nella vecchia
quotidianità domestica, ma che ai loro occhi risulta nuova a causa degli ani trascorsi al
fronte. Per Schuts, nel caso del
reduce c’è bisogno di un addomesticamento dei luoghi, pratiche o interazioni, un nuovo
apprendimento del senso comune che caratterizza l’ambiente in cui si è fatto ritorno.
3. Perché’ la realtà è una “costruzione sociale”?
LA REALTA’ È UNA COSTRUZIONE SOCIALE. Noi decidiamo di dare un nome alle cose, di
costruire relazioni, accordi, regole. Pensiamo ad esempio al “lunedì”, in natura non esiste
ma è l’uomo che ha deciso di dare un nome a una frazione di tempo che scorre e quindi ha
istituzionalizzato il concetto di “giorno”. Dire che la REALTA’ è una costruzione sociale
significa fare riferimento a un noto libro scritto da due allievi di Schutz: Peter Berger e
Thomas Luckmann, dal titolo The social construction of reality. In questo libro si parla di
REALTA’ SOCIALE che è quell’insieme di interazioni, routine, stili di vita, istituzioni e
consumi che viene deciso dagli individui tramite accordi in comune. La REALTA’ NATURALE
INVECE È DA IDENTIFICARE IN QUEGLI EVENTI CHE NON SONO FRUTTO DI ACCORDI TRA
UOMINI, COME MAREE, TEMPORALI, TRAMENTI, TERREMOTI. Rispetto a questi fenomeni
naturali ciò che costruiamo socialmente è il modo di nominarli e di interpretarli, ma non
creiamo i fenomeni stessi. Il libro studia quello che i membri di una società danno per
scontato riguardo a cosa sia la realtà sociale e come possiamo fare per conoscerla. I due
autori spiegano questi concetti attraverso degli esempi molto semplici.
C’è un uomo che si trova in un ambiente isolato, senza nessun altro essere umano con cui
interagire. Quest’uomo dovrà provvedere alla sua sopravvivenza, con il tempo riuscirà a
risolvere tutti i problemi quotidiani che si troverà di fronte e riuscirà a creare una certa
quotidianità. O meglio dire, scoprirà ogni volta dei modi di condotta che utilizzerà ogni
qualvolta si troverà di fronte a problemi che ha già risolto. Tali modi comportamentali
diventeranno poi delle ABITUDINI, cioè comportamenti semiautomatici che non
impongono un grande sforzo di pensiero. Quindi secondo gli autori, il processo di
istituzionalizzazione sociale parte da quando le azioni iniziano a diventare ABITUDINI.
Successivamente l’uomo viene raggiunto da un altro uomo, che proviene anch’esso da un
contesto isolato e che ha già in sé delle abitudini individuali. Tra i due uomini sorgerà quindi
un problema di interazione e condivisione di comportamenti, e quando si risolveranno
questi problemi significa che gli individui hanno tipizzato i loro comportamenti e si
muoveranno su uno sfondo di conoscenze comune. L’insieme delle tipizzazioni che i due
condividono costituisce un insieme di routine, cioè abitudini condivise il cui significato è
dato per scontato: è in via di definizione il noto senso comune. Nell’ultimo passaggio,
appare un terzo e ultimo individuo che è rimasto isolato come i suoi predecessori. Questo,
naturalmente si troverà di fronte due individui che hanno comportamenti condivisi e
strutturati, e quindi il terzo avrà a che fare con qualcosa di già dato cioè UN ‘INSTITUZIONE.
I comportamenti, le abitudini e le routine poi verranno SOGGETTIVIZZATI dai singli individui
che compongono una società. Perché anche se si rispettano le regole condivise da tutti,
ognuno poi ha la libertà di interpretarli a modo proprio.
4. “Tutto il mondo è come un palcoscenico” attore sociale e approccio drammaturgico.
Abbiamo detto che la realtà è una costruzione sociale, allora gli individui che agiscono
all’interno di questa li possiamo considerare come attori che agiscono su un palco e
ricoprono dei ruoli a seconda dei contesti in cui si trovano ad agire. Questa visione ci viene
offerta dal sociologo canadese Erving Goffman, uno dei più grandi esponenti delle scienze
sociali che si è formato durante la scuola di Chicago. La sociologia di Goffman viene
definita microsociologia, cioè l’insieme degli studi sui comportamenti, azioni, relazioni,
ruoli e ordine sociale che costituiscono la vita quotidiana degli individui. Goffman osserva
tutti questi aspetti utilizzando sia fonti accademiche come libri di etichetta, ricordi di
diplomatici, memorie autobiografiche sia ricerche etnografiche. Goffaman è ricordato per il
suo approccio allo studio della società che è chiamato approccio drammaturgico, secondo
il sociologo per analizzare al meglio le pratiche quotidiane si deve usare il modello
drammaturgico del teatro. Perciò gli individui per G. sono chiamati ATTORI CHE RECITANO
DEI RUOLI O PARTI SUL PALCOSCENICO DELLA VITA SOCIALE. Goffaman analizzando le
interazioni faccia a faccia degli individui nella vita quotidiana afferma che:
1 ci deve essere un PUBBLICO al quale devono essere destinate le interazioni-
rappresentazioni;
2 c’è una differenza tra RIBALTA E RETROSCENA, che sono i due luoghi principali dove gli
attori sociali ricoprono ruoli e recitano parti. La RIBALTA è il fronte del palcoscenico, cioè il
luogo pubblico dove i comportamenti sono in sintonia con le regole dell’ambiente in cui ci si
trova. Il RETROSCENA è spazio più privato, in cui gli attori si tolgono la maschera ufficiale e
professionale per indossarne una meno formale. Con l’approccio drammaturgico Goffman
divide la scena di vita quotidiana due volte: la prima divisione la attua tra gli attori che
svolgono il ruolo principale e il pubblico che contribuisce alla rappresentazione e alla
definizione della situazione (es. lezione universitaria, il pubblico sono gli studenti che
ascoltano il docente e gli permettono che lui effettui la sua performance, insieme danno
vita alla rappresentazione). La seconda divisione è tra ribalta e retroscena, dove possono
scambiarsi di posto e mutare a seconda del cambiamento della situazione sociale.
Dall’approccio di Goffamn ci vengono dati tre concetti fortemente interrelati tra loro:
frame, framework e key. FRAME. “cornice” è lo strumento che usiamo per inquadrare una
situazione sociale in cui ci troviamo e la definiamo secondo regole nostre di comprensione e
di interazione. Es. in uno stadio si tengono eventi sportivi. FRAMEWORK. “lavoro di
inquadramento” è l’azione che compiamo per entrare dentro la situazione in cui veniamo a
trovarci, per poter agire dal suo interno, capendo solo dall’interno le dinamiche e le regole
che la costituiscono. Es. se in uno stadio si svolge una partita di calcio io so che posso urlare
a squarciagola per incitare la squadra. KEY. “chiave” è il passaggio che riguarda la
comprensione di alcune sfumature che caratterizzano quel tipo di interazione che prende
forma all’interno della situazione sociale in cui ci troviamo. Es. allo stadio durante la partita
se vorrò essere ironico nei confronti dei tifosi avversari intonerò un coro piuttosto che un
altro. Ma Goffman viene ricordato per il CONCETTO DI ISTITUZIONE TOTALE, nell’opera
ASYLUMS egli racconta di un periodo trascorso all’interno dell’ospedale psichiatrico di St.
Elizabeth di Washington, dove assunse il ruolo di infermiere. Attraverso l’osservazione
partecipante analizza i comportamenti dei medici, degli infermieri e dei pazienti.
Soprattutto la sua attenzione si focalizza sul concetto di istituzione totale che:
1 si basa sulla riproduzione di rituali mortificatori nei confronti dei nuovi pazienti;
2 prevede una rigida divisione tra membri dello staff;
3 all’interno dell’ospedale si crea una collocazione spazio-temporale a sé, separata dal
normale scorrere della vita quotidiana di quelli che vivono al di fuori di quella istituzione.
4 rompe quelle barriere che di solito separano gli ambiti lavoro-tempo libero- famiglia,
facendo convergere tutte le attività all’interno di un unico ambiente, l’ambiente spesso
convince i pazienti che sono davvero malati; ad es se mi trovo in un gruppo di persone
malate di mente e compio le loro stesse azioni, vivo nel loro stesso contesto e partecipo ai
loro rituali allora è probabile che sono malato anch’io.
5. Quotidianità conflittuali: campi, forme di capitale e habitus
La vita quotidiana è anche luogo di conflitti: un insieme di spazi, relazioni e ambienti in cui si
sviluppano lotte per il raggiungimento di un obiettivo. Bourdieu sostiene che il “reale è
razionale” cioè la realtà sociale si può comprendere soltanto facendo interagire gli elementi
che la compongono. Nella vita quotidiana, nelle relazioni di tutti i giorni esistono particolari
ambienti che B. chiama “campi”. Per Campi si intende uno spazio sociale abitato da
persone che sono in relazione l’una con l’altra e che sono costrette ad agire (vengono
chiamati “agenti”). Nella vita quotidiana sono presenti molto campi, tanti quanti sono gli
ambiti della realtà sociale (campo economico, campo accademico, campo scolastico, campo
sportivo ecc). “far parte di un campo” significa investire all’interno di esso e essere in
competizione per un obiettivo; il fine principale degli agenti è quello di riuscire prevalere
sugli altri e far adottare agli altri membri del gruppo la propria visione dominante. Per
visione si intendono tutte quelle categorie di percezione e valutazione della realtà sociale.
All’interno del campo chi ha l’autorità per imporre agli altri la propria visione del mondo è
chiamato leader di quel campo che avrà a disposizione tutte le risorse materiali e la
possibilità di obbligare gli altri a guardare la realtà dalla sua prospettiva. LOTTA PER IL
RICONOSCIMENTO. Ogni agente che si trova nel campo lotta per imporre i propri principi di
visione dominante, il che significa lottare per essere riconosciuti, considerati dagli altri
membri. Il riconoscimento primario arriva proprio dagli appartenenti al campo, i quali
condividono lo stesso investimento nel gioco e sono legittimati ad agire in quel determinato
campo. Lo strumento che permette di prendere parte ai giochi e alle lotte simboliche che
avvengono all’interno dei campi è il CAPITALE, cioè la qualità e la quantità di risorse che un
agente può vantare. Esistono per B. tre tipi principali di capitale: economico che consiste
nell’insieme delle risorse materiali detenute (mezzi di produzione, denaro ecc), sociale che
riguarda i rapporti intrattenuti dall’agente (persone e luoghi frequentati, cerchia sociale di
appartenenza), culturale che riguarda le competenze e le conoscenze detenute. A questi tre
tipi si aggiunge il capitale simbolico, che è l’insieme delle caratteristiche materiali e ideali
che rendono ciascun agente unico e diverso dall’altro (lingua, religione, etnia, nazionalità).
Il capitale quindi è l’arma che permette di agire, lottare, muoversi e prendere posizioni
all’interno del campo e solo grazie a quest’ultimo il capitale esiste (quindi il campo
contribuisce a formare il capitale, ma il capitale modifica relazioni e rapporti di forza
presenti nel campo). SE il capitale
rappresenta lo strumento attraverso il quale situarsi e agire nei diversi campi, l’HABITUS
rappresenta il nostro computer di bordo, cioè quella capacità di vivere le situazioni in cui ci
troviamo senza sprofondare nel caos cognitivo, cioè ci allontana dal non sapere come
comportarci. L’ habitus è costituito da una parte attiva
e da una passiva, ed è legato alle relazioni oggettive nelle quali sono immersi gli agenti.
L’habitus è quell’istinto che ci fa prendere un sentiero piuttosto che un altro ed è
caratterizzato da una forte elasticità: esso si adatta ai ---- sociali che esprimiamo nel corso
della nostra vita.
Habitus e capitale sono definiti come strumenti di azione e posizionamento sociale: essi ci
permettono di agire e reagire all’interno degli ambiti sociali in cui siamo coinvolti. Quindi se
il campo è lo spazio sociale, il luogo materiale e simbolico all’interno del quale viviamo, il
capitale rappresenta lo strumento principale di lotta e azione sociale, mentre l’habitus è la
nostra capacità di adattarci alle situazioni sociali, di seguire una strada piuttosto che
un’altra, basandoci anche su esperienze vissute.
6. Emozioni e vita sociale.
Dalla metà degli anni Settanta negli Stati Uniti appaiono i primi studi sulla sociologia delle
emozioni. Secondo Turnaturi la sociologia delle emozioni si basa su degli elementi focali:
- Le emozioni, come le percezioni, le idee e i comportamenti, si costituiscono socialmente;
- le emozioni sono attivate direttamente dalle relazioni che s’instaurano tra gli attori;
- esiste una componente normativa delle emozioni, in quanto in ogni società ci sono delle
regole dove si decide quali emozioni siano accettabili e come queste devono essere
manifestate;
- le emozioni e la loro espressione cambiano nel corso della storia come cambiano le
pratiche relazionali e le costruzioni mentali che le accompagnano;
- le emozioni vanno sempre distinte dalle loro espressioni;
- le emozioni hanno una funzione cognitiva.
Le emozioni servono per studiare i comportamenti collettivi e individuali nella realtà sociale
e servono per la scoperta di sé. Quindi si crea un rapporto tra conoscenza e emozioni;
usando in modo appropriato i nostri stati emozional-sentimentali si riesce ad entrare ad
agire e ad uscire dalle diverse situazioni sociali in cui ci troviamo nella nostra vita
quotidiana. Ed è attraverso la gestione di questi stati che noi possiamo interagire con gli
altri soggetti. Quindi le emozioni sono costruzioni culturali che risentono della nostra
socializzazione e delle regole dell’ambiente interno del quale agiamo e interagiamo.
L’indagine sociologica studia attraverso le emozioni la nostra società e ha individuato:
-il lavoro emotivo: lo sforzo che ciascuno di noi compie nel privato per modificare le proprie
emozioni e adeguarle alle situazioni sociali in cui ci si ritrova.
-il lavoro emozionale: obbligo di manifestare emozioni in base all’ambiente lavorativo (es.
l’hostess che è costretta a sorridere e tranquillizzare i passeggeri).
-le regole dei modi di sentire: norme sociali e culturali che vincolano ad adottare
determinati comportamenti e a manifestare particolari emozioni a seconda della società e
del contesto in cui si trova ad agire, altrimenti ci potrebbe essere l’allontanamento dalla
relazione e l’impossibilità di interagire pienamente in essa.
CAPITOLO 14 LE DIFFERENZE DI GENERE
1. Premessa
Le differenze tra donne e uomini si possono distinguere in base a due elementi
fondamentali: il sesso e il genere. Il sesso è determinato dall’apparato genitale, cioè gli
organi sessuali interni ed esterni e dei livelli ormonali; mentre per genere si intende il
processo di costruzione sociale di queste caratteristiche biologiche. Il genere indica
l’insieme dei processi con i quali la società trasforma i corpi sessuati in identità, ruoli,
compiti, differenziando socialmente le donne dagli uomini.
2. Sesso e corpi.
Il sesso riguarda le differenze biologiche e anatomiche tra maschi e femmine.
L’appartenenza sessuale è determinata dai VENTITREESIMO PAIO DI CROMOSOMI che
può essere composto da due cromosomi uguale oppure divisi: se è uguale, cromosomi XX,
in termini fisici l’embrione sarà una femmina; se i cromosomi sono diversi, cromosoma X
e cromosoma Y, sarà un maschio. Il processo di differenziazione sessuale comincia dalla
sesta settimana dopo il concepimento; fino a quel momento tutti gli embrioni sono tutti
sessualmente bipotenziati. Intorno alla sesta-ottava settimana se è presente un cromosoma
Y allora le ghiandole (gonadi) si trasformeranno in testicoli, mentre se il cromosoma Y è
assente, diventeranno ovaie cioè si svilupperanno genitali femminili.
Nel caso della formazione degli organi genitali maschili, i testicoli appena formati iniziano a
rilasciare ormoni sessuali ANDROGENI (IL Più CONOSCIUTO è IL TESTOSTERONE) che
completeranno lo sviluppo dei genitali interni ed esterni. E’ molto interessante notare che il
testosterone, tipicamente considerato un ormone maschile è presente anche nel corpo
femminile. Lo stesso discorso vale anche per gli ESTROGENI, ormoni sessuali tipici
dell’organismo femminile ma sono presenti in quantità ridotte anche nel corpo maschile.
Il testosterone è tra tutti gli steroidi quello che ha più attività androgena di tutti; è il
principale ormone costruttore di muscoli e condiziona molta il comportamento aggressivo.
Spicca anche tra le sostanze ANTI-INVECCHIAMENTO: infatti uno dei segni
dell’invecchiamento è proprio la riduzione dei livelli di testosterone circolante e una
diminuzione quindi della massa e della forza muscolare. Il test. Influenza anche le funzioni
cognitive ed emotive ed esercita effetti protettivi sull’umore e sulle sindromi depressive.
Il testosterone è presente come detto anche nel corpo femminile: le ovaie producono sia
androgeni che estrogeni. Svolge funzioni importanti anche per la vita sessuale di una donna.
Gli estrogeni sono un gruppo di ormoni tipici dell’organismo femminile che si trovano nelle
ovaie; ma sono presenti anche nei testicoli maschili in minore quantità. Gli ESTROGENI
regolano la MATURAZIONE SESSUALE intervenendo nello sviluppo dell’apparato genitale,
permettono la fecondazione e la gravidanza, regolando il ciclo mestruale. Dato importante
da sapere è che le donne possiedono fino alla menopausa. Più estrogeni degli uomini,
quindi hanno un minor rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. Gli estrogeni hanno un
effetto positivo sulle funzioni celebrali quali l’attenzione, la contrazione, la memoria e il
consolidamento del tessuto osseo sia per maschi che per le femmine.
3.Il genere
Con GENERE si intende il processo di costruzione sociale delle caratteristiche biologiche,
cioè la dimensione culturale dei corpi: sono i comportamenti connessi con le aspettative
sociali legate allo status di uomo o donna.
Il termine GENERE proviene dall’anglosassone GENDER. E molte femministe, tra la fine del
Settecento e l’inizio dell’Ottocento avevano già riflettuto sulla tematica di genere. Il
femminismo è un movimento complesso che si è manifestato con in epoche diverse con
determinate caratteristiche. Infatti possiamo parlare di quattro femminismi o quattro
ondate. -La prima
ondata, va dalla seconda metà del 19 secolo ai primi anni del 20 esimo secolo, che
sottolinea le diverse dimensioni delle disuguaglianze di genere.
-la seconda ondata, chiamata anche “neofemminismo, anni Sessanta Settanta, trasforma le
differenze tra donna e uomo in risorse, e usa la diversità di genere per combattere il
patriarcato e l’oppressione femminile.
-la terza ondata, si ha negli anni Novanta, subendo l’influenza della modernità e della
globalizzazione mette in luce le differenze “al femminile” e inizia a mutare il concetto di
genere. -la quarta ondata, avviata nel 21
esimo secolo, è la sintesi tra esigenze e modalità espressive e narrative delle donne.
La tematica sul concetto di genere quindi parte dai processi di discriminazione da parte
delle donne. Il rapporto tra genere e sesso è il tema principale del dibattito neofemminista.
Tra gli anni Sessanta e Settanta le studiose femministe hanno esplorato la complessa
relazione tra genere e potere, focalizzando la loro attenzione soprattutto sul ruolo
subordinato, di riproduzione della donna e sulla istituzionalizzazione del dominio maschile.
Le neofemminste contestano la presunta “inferiorità” del genere femminile che nel corso
della storia è passata come fatto “naturale” delle cose.
4. Differenze e disuguaglianze
DIFFERENZE DI GENERE. La costruzione sociale del maschile e del femminile si basa su un
sistema di disuguaglianze imperniato sulle differenze di genere. Le differenze fisico-
biologiche sono da sempre alla base dei processi discriminatori che hanno segnato donne e
uomini. Come si nota donne e uomini presentano caratteristiche fisiche diverse: i maschi
sono grandi e forti mentre le femmine sono più vulnerabili e fragili a causa delle gravidanze
e delle attività di accudimento dei bambini. Queste differenze hanno assunto nella società
umana un significato culturale, segnato dalla diseguale distribuzione di risorse materiali e
simboliche.
In molte culture si fa combaciare l’appartenenza di genere con in preciso orientamento
sessuale, quello eterosessuale. L’orientamento eterosessuale corrisponde all’attrazione per
persone del sesso opposto, ed è considerata come l’unica strada per la sopravvivenza della
specie. L’eterosessualità è stata istituzionalizzata in una forma normativa e imposta di
rapporti sociali, di identità e di discorsi. Monique Witting
femminista materialista francese ha definito l’eterosessualità come un regime politico,
come “un nucleo di natura che resiste a ogni revisione”. Sempre per la femminista questo è
un regime culturale e politico che tende a trasformare dei concetti in leggi generali che si
mantengono veri per tutte le società, per tutte le epoche e per tutti gli individui. Quindi in
base a questo regime i corpi maschili e femminili sono definiti dalla società per garantire un
mondo ordinato sulla base della riproduzione e produzione sociale.
L’apprendimento dell’identità di genere passa attraverso i comportamenti che la cultura
definisce come funzionali e caratteristici dei ruoli maschili e femminili. In questo processo
giocano un ruolo importante tutte le agenzie di socializzazione;
La socializzazione discriminatoria colpisce anche i bambini e i ragazzi a causa della rigidità
del modello di maschilità dominante che viene proposto dalla società.
Le definizioni stereotipate di femminilità e maschilità portano delle conseguenze; da una
parte, influenzano negativamente i processi di autostima e quindi alimentare nel bambino
sentimenti di sottomissione e passività, dall’altro invece possono portare alla violenza,
all’omofobia, alla transfobia e anti-femminilità.Per concludere, la maschilità è stata
associata alla dimensione pubblica, al senso del diritto al potere, al dominare, mentre la
femminilità è collegato al privato, alla cura/produzione e subordinazione. Il genere, terra di
confine rappresenta una grande risorsa ma anche un aspro terreno di battaglia dove vede
lo scontro continuo tra tradizione e mutamento sociale.
5. Futuri prossimi
La nostra epoca storica si basa sull’idea che nulla poggia su basi definite e stabili. Così i
PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE della nostra epoca sono caratterizzati da innumerevoli
PLURALISMI. I processi di globalizzazione sono quei processi di crescita delle
interdipendenze culturali, sociali, economiche e politiche a livello mondiale. La modernità
contemporanea non ha regole precise e afferma la consapevolezza che il futuro non può
essere immaginato e affrontato basandosi sul passato. Lo sviluppo tecnologico ha favorito
la crescita di nuovi modi di comunicare e ha accelerato il confronto tra culture, soggetti e
identità differenti favorendo l’emergere di nuove forme del sé. Nell’attuale fase storica si
stanno ridimensionando i confini delle identità tra donne e uomini. Particolare attenzione si
sta danno alla nuova generazione che ha compiuto la maggiore età dopo il 2000, definita
GENERAZIONE MILLENIAL. I Milleniall sono “i nativi digitali” che hanno elevate competenze
tecnologiche: sono molto più consapevoli e partecipativi e meno individualisti. I Millenial
mostrano di essere molto convinti delle loro capacità e sono molto decisi nel farle valere.
Appaiono molto aperti e tolleranti al cambiamento e alla diversità rispetto alle precedenti
generazioni questo perché la loro infanzia è stata segnata da un approccio educativo
neoliberale e perché la tecnologia ha favorito lo sviluppo del senso di fiducia in se stessi. Le
caratteristiche dei Millenial sono descritte con tre “c”:
-confident: credono in sé stessi e vogliono emergere,
-connected: sono nativi digitali, quindi il loro strumento essenziale per la crescita della loro
consapevolezza è la rete;
-open to change: sono ottimi alleati del cambiamento;
L’essere sempre connessi e in continua relazione li porta ad essere aperti, curiosi, aggiornati
e consapevoli da far parte di una collettività. La quarta ondata del movimento femminista è
stata influenzata da questa nuova generazione grazie al web e ai social network sono state
coinvolte le ultime generazioni di donne che ne sono le protagoniste.
Nonostante l’avvicinamento generazionale e la forza di una generazione come quella dei
Millenial, continuano ad esistere divisioni culturali e discriminazioni tra il maschile e il
femminile, come ad esempio, le donne sono le prime vittime della violenza dei diritti umani
(femminicidio, stupri, percosse, abusi, incesti); la parità salariale non è stata ancora
raggiunta, nel mondo del lavoro le donne lavorano meno degli uomini.

CAPITOLO 15 ETÀ, GENERAZIONE, MEMORIA


1. La crisi della continuità del mondo sociale
I temi dell’età della vita e della memoria si legano alla crisi della continuità del mondo
sociale avviata dai processi di mutamento sociale prodotti dalle società moderne e
contemporanee: ciò che ieri era ritenuto necessario oggi risulta superato il giorno dopo.
2. La sociologia del corso di vita
Lo studio sull’età degli individui ha preso avvio negli anni Sessanta. Talcott Parsons ha
riconosciuto l’importanza della relazione che esiste tra l’organizzazione della società e l’età
degli individui che ne fanno parte. Come pure Samuel Eisenstadr si è soffermato sui
rapporti tra generazioni e sul ruolo svolto dal gruppo dei pari nel processo di
socializzazione. Secondo il sociologo e psicologo Glen Elder l’età è vista come indicatore di
tre dimensioni temporali: il tempo o arco della vita, è il tempo che va dalla nascita alla
morte e che assume l’età cronologica come indicatore del processo di invecchiamento; il
tempo storico, indica la collocazione dell’individuo nel processo storico in quanto
determinato dall’appartenenza di coorte (la coorte è l’anno di entrata dell’individuo in un
determinato sistema); il tempo sociale, è quella dimensione del tempo in cui possiamo dire
che un bambino è in età scolare o che un adulto è in età lavorativa.
2.1 La costruzione sociale dell’età
La definizione di corso di vita degli individui è un’espressione che racchiude la dimensione
psicologica, sociale e culturale dell’età. Ma questa espressione subisce continue mutazioni
nel corso del tempo: l’essere bambino, l’essere adolescente, giovane, adulto o anziano, tutti
questi passaggi on sono uguali per tutte le epoche e per tutte le società.
Nella sua opera “padri e figli nell’europa medievale e moderna” Aries spiega come
l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza siano espressioni di modernità. Nel mondo
medievale, infatti, l’infanzia durava massimo fino a 7 anni, il tempo necessario al bambino
di essere autonomo e potesse fare a meno delle cure materne. Dopo i 7 anni venivano
considerati dei piccoli adulti: si vestivano e si comportavano come degli adulti e svolgevano
attività lavorative. Aries osserva anche che nel passato le madri e i padri avevano un
atteggiamento di indifferenza nei confronti degli figli piccoli, questo dovuto al fatto che
c’era un’elevata mortalità infantile che quindi spingeva gli adulti ad assumere un
atteggiamento di difesa: cioè i genitori sapevano che i figli piccoli potevano morire molto
facilmente e a essi si affezionavano solo dopo che avevano raggiunto almeno il 1 anno di
vita. Questa
situazione cambiò in età moderna. Grazie ai processi che caratterizzarono la modernità,
quali: industrializzazione e urbanizzazione, la trasformazione del lavoro, il miglioramento
delle condizioni di vita con il conseguente abbassarsi del tasso di mortalità infantile, con
l’affermazione dell’educazione scolastica nazionale e le trasformazioni del rapporto
genitore-figlio; l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza cominciarono a essere riconosciute
come fasi specifiche del corso di vita. In particolare si avviò un processo di riconoscimento
e di tutela dei bambini e degli adolescenti che interessò prima i maschi delle classi più alte e
dopo tutte le altre classi sociali e le femmine.
Nel confronto che Aries fa tra le due diverse società, quella medievale e quella moderna,
possiamo affermare che il significato che viene attribuito all’età e alle diverse fasi della vita
cambia in base al tempo e cambia da cultura a cultura ed è il risultato della determinazione
biologica e del processo di costruzione sociale: il dato biologico si intreccia con le definizioni
culturali che ogni società dà dell’essere bambino, adolescente, giovane, adulto e anziano.
2.2 Coorti e strati di età
In molte ricerche sull’età viene usata la parola COORTE, che proviene dalla demografia.
Secondo il demografo canadese Ryder, una coorte è l’aggregato degli individui (all’interno
di una popolazione definita) che hanno sperimentato lo stesso evento nello stesso
intervallo di tempo. Se questo evento è la nascita si parla allora di coorte di nascita:
comprende tutti coloro che sono nati nello stesso arco temporale e quindi invecchiano
insieme attraversando la stessa sequenza di ruoli quali: l’essere scolaro, figlio, studente,
lavoratore, marito, pensionato. Man mano che i membri di una coorte invecchiano o
muoiono nascono altri individui che formano nuove coorti. L’appartenenza a una stessa
corte viene indicata anche a eventi diversi: ad esempio tutti coloro che si sono
immatricolati all’università nello stesso anno, o coloro che sono entrati a far parte di una
certa organizzazione nello stesso intervallo di tempo. Ryder sostiene che vi è inoltre un
mutamento sociale, cioè quando si registrano dei cambiamenti nei processi di
invecchiamento e nelle transizioni da un’età all’altra. Queste diversità risultano dal fatto
che corti diverse incontrano sistemi di risorse e vincoli che orientano in maniera differente
le transizioni del corso di vita. I processi di successione
delle coorti e di invecchiamento degli individui insieme ai processi sociali che riguardano il
mutamento dei ruoli connessi all’età, determinano gli STRATI DI ETA’, cioè la stratificazione
della società in aggregati di individui che hanno l’età simile. Questi strati di età sono diversi
tra loro per ampiezza e composizione di genere. Se pensiamo, ad esempio agli anni
sessanta, il periodo del baby boom notiamo che gli strati più giovani avevano un maggior
numero di individui rispetto agli adulti e agli anziani. Ci viene quindi da dire
che nel concetto di età è doppiamente presente l’idea di mutamento. Questo significa che
da un lato l’età ha un carattere peculiare che la distingue dalle altre forme di stratificazione
sociale. L’età è quindi detta condizione transeunte, cioè provvisoria, e in mutazione
continua; ciascuno di noi deve per forza attraversare le diverse età della vita. Dall’altro sono
le specifiche attribuzione dei ruoli che vengono assegnati all’individuo che mutano nel corso
del tempo e nelle differenti culture: ad esempio, l’entrata nel mondo della scuola, il
raggiungimento della maggiore età, l’andare in pensione sono tutte considerate in base
all’età ma che possono cambiare da una società all’altra.
Oggi il cammino biografico degli individui è più personale e meno standardizzato. I figli non
svolgono più il lavoro dei genitori ma seguono un percorso basato sulle proprie scelte
personali. Un altro esempio che serve per attualizzare questo concetto ci viene dato
dall’importanza che avevano i riti di passaggio. I riti di passaggio erano quelle cerimonie che
accompagnano la nascita, la pubertà, il matrimonio e la morte e che svolgono la funzione di
rendere socialmente visibile l’entrata dell’individuo in una nuova fase della vita. Nelle
società premoderne questi rituali erano molto presenti e avevano anche un carattere
abbastanza vincolante nella società mentre nell’epoca moderna questo è andato a perdersi
quasi del tutto. Ma nelle società moderne i riti di passaggio sono oggi di carattere più
individuale come: prendere la patente, votare per la prima volta, sono tappe importanti per
il riconoscimento della maturità sociale.
2.3 L’idea sociologica di generazione
Nell’ambito egli studi sull’età dobbiamo per forza dare importanza al concetto di
generazione del quale troviamo la definizione già in Auguste Comte. Comte afferma che il
passaggio da una generazione all’altra e il rinnovamento continuo che esso garantisce sono
l’oggetto dell’evoluzione della società. Ma solo il sociologo Mannheim ha dato la giusta
definizione di generazione. Mannheim è il fondatore della sociologia della conoscenza,
cioè quell’approccio sociologico che studia le relazioni che intercorrono tra conoscenza e
società e le forme concrete che tali relazioni assumono. Le generazioni posso essere viste
come esempi empirici di condizioni sociali che influenzano lo sviluppo della conoscenza e
del sapere. Per Manneheim la generazione NON E’ UN GRUPPO CONCRETO INTESO NEL
SENSO DI COMUNITA’, I CUI COMPONENTI SONO UNITI DA LEGAMI CONCRETI E RECIPROCI
COME LA FAMIGLIA E LE ASSOCIAZIONI, MA CORRISPONDE A UN’INSIEME DI INDIVIDUI
LEGATI TRA DI LORO DA UNA “COLLOCAZIONE AFFINE” CHE GLI UOMINI HANNO NELLO
SPAZIO SOCIALE, FENOMENO COMUNE ALLA CONDIZIONE DI CLASSE E ALLA
GENERAZIONE.
Per Mannheim la generazione ha 3 dimensioni:
- la generazione intesa come INSIEME POTENZIALE, cioè coloro che ne fanno parte sono
nati nello stesso arco temporale e sono esposti alle stesse esperienze culturali.
-quando si ha una reazione a queste influenze, cioè quando gli individui entrano in
relazione diretta e dinamica con uno specifico evento producendo dei legami creativi tra
loro si costituisce la GENERAZIONE EFFETTIVA.
-di conseguenza la generazione effettiva, sviluppa L’UNITA’ DI GENERAZIONE che
favoriscono la nascita di gruppi concreti.
Il passaggio da una dimensione all’altra è condizionato dai processi sociali che fanno
intervenire il cambiamento e le interazioni sociali. Un esempio sono le proteste
studentesche degli anni Sessanta. Qui in termine generazione sta ad indicare la condizione
che tutti gli uomini hanno vissuto in quegli anni. I giovani che hanno partecipato alle
manifestazioni in piazza, all0occupazione delle scuole e università costituiscono una
generazione effettiva, perché questi hanno reagito, seppur in maniera diversa, alle stesse
influenze storico-culturali. Alla generazione effettiva non appartengono i ragazzi che pur
trovandosi nella stessa collocazione di generazione, ma vivendo lontano dai luoghi della
protesta non hanno partecipato attivamente alla mobilitazione. L’unità di generazione
indica quei giovani che hanno reagito in modo unitario, proponendo specifici modelli di
agire e visioni del mondo comune; ne sono un esempio gli Hippy che rappresentano
all’interno della stessa generazione effettiva, due diverse unità di generazione.
Dobbiamo ancora dire, che le generazioni effettive e le unità di generazione non sono
sempre presenti sulla scena sociale ma obbediscono alle condizioni storiche: si formano
cioè in periodi di intenso mutamento sociale, quando è continua la ridefinizione degli
atteggiamenti e delle visioni del mondo. Mannheim quindi afferma che se questi prendono
forma dai processi di trasformazione della società, allora questi si propongono anche come
generatori di mutamento. Manneheim lega il tema delle generazioni a quello della memoria
e della dimenticanza sociale. Secondo il sociologo le idee, i valori e i comportamenti
cambiano attraverso il processo inarrestabile della successione delle generazioni, il quale
produce un0inevitabile selezione nella trasmissione del patrimonio culturale. Mannheim si
sofferma anche sulla stratificazione dell’esperienza. Noi abbiamo vari stati di esperienza,
ma solo le esperienze dell’età giovanile che sono le “prime impressioni” servono per
formare il modo di orientarci nella realtà sociale. Quindi ogni esperienza successiva si
orienta sulla base di questi primi gruppi di impressioni. Sulla base di queste prime
impressioni si tracciano quelle che Mannhei chiama memorie collettive e stratificate, che
sono differenti tra le varie generazioni presenti sulla scena sociale: uno stesso evento
interpretato ed elaborato in maniera di versa in virtù della varietà dei modi di orientarsi nel
mondo e di interpretarlo propri a ogni generazione. Quindi a causa degli eventi alla qual ci
si è esposti si viene a creare una memoria collettiva generazionale formata da credenze,
convinzioni, simboli che caratterizzano l’identità di quella generazione.
3. La sociologia della memoria
La coscienza che la società ha del proprio mutamento è propriamente moderna. Nella
modernità si fa sempre più stretto il rapporto tra memoria e società.
3.1 La nascita della memoria come tema sociale
L’emergere della memoria come tema sociale si colloca tra la fine dell’Ottocento e l’inizio
del Novecento, quando il passaggio dall’età tradizionale a quella moderna è segnata dalla
percezione diffusa di una rottura nella continuità sociale e la consapevolezza che era
difficile usare il passato per illuminare il presente e fare previsioni per il futuro. Il passaggio
tra i due secoli si caratterizza per l’apparire sulla scena culturale di grandi opere sulla
memoria: da Sigmund Freud a Henri Bergson, james Joyce e Italo Svevo. Questi autori si
interessano alla memoria intesa come dimensione personale, che vede il soggetto nella sua
forma individuale. Gli scienziati sociali includono la memoria nelle teorie sociali e così la
memoria non è più vista come un fatto individuale ma gli scienziati ne svelano la
dimensione intersoggettiva e ne rinviano il suo funzionamento ai socio-culturali.
Alla fine degli anni Ottanta del Novecento si verificano dei fenomeni che sconvolgono la
normale vita sociale: globalizzazione e flussi migratori portano dei forti cambiamenti a
livello etnico, nazionale e locale, si crea anche una forte identità sovra-nazionale. Negli
stessi anni si spolverano i drammi della Shoah, del colonialismo, le diverse forme di
dittatura con l’aggiunta dei mass media e della tecnologia. Quindi oggi possiamo dire che
“c’è un dovere di memoria” cioè il dovere di ricordare il passato. Anche a livello di
normative ad esempio, l’Unione Europea nel 2000 ha sancito il 27 gennaio (data di apertura
dei cancelli di Auschwitz) come giorno della memoria della Shoah. Al riguardo infatti oggi si
parla di “viaggi di memoria” e “incontri con testimoni” che vengono rivolti alle giovani
generazioni per conoscere la realtà storica dei campi di concentramento.
3.2 La memoria come ricostruzione del passato
Per parlare di memoria in sociologia dobbiamo per forza rifarci a Halbwachs, allievo di
Durkheim, che ha parlato di stratificazione sociale e il tema dei consumi. Sulla teoria della
memoria Halbwachs ci lavora per oltre vent’anni sviluppando tre principali scritti su questo
tema: i quadri sociali della memoria, memorie di terrasanta e la memoria collettiva.
Halbwachs prende come base per la sua teoria sociologica, la teoria della conoscenza di
Durkheim. Secondo Durkheim le categorie della conoscenza, cioè i quadri o gli strumenti
permanenti della nostra vita mentale (nozioni di tempo, spazio, numero, causa, sostanza,
personalità ecc) hanno un’origine sociale, sono cioè il prodotto della storia che sono stati
costruiti attraverso i secoli, le società, le generazioni. Halbawachs si oppone alla teoria
filosofica che si basa sulla contrapposizione tra spirito e materia e introduce un nuovo
elemento il sociale. La memoria secondo Halbwachs non è né spirito nel senso metafisico
né materia nel senso in cui lo intendono i biologi e i neuropsicologi. Ma la memoria ha a
che fare con le rappresentazioni collettive, è quindi UN’ISTITUZIONE che proviene da
un’operazione complessa: nessuna memoria è possibile al di fuori dei punti di riferimento
che la società e i gruppi ai quali l’individuo appartiene offrono per fissare i ricordi
individuali e permettere il successivo riconoscimento, Sono un esempio il linguaggio, le
date, i luoghi, i grandi eventi storici, vicende familiari e professionali che scandiscono la
vita di ognuno. Appartenere a una famiglia, a una collettività, a una nazione, a un gruppo
professionale o religioso, significa possedere in comune con altri un insieme di credenze, di
norme, di modi di fare e soprattutto di un linguaggio trasmessi attraverso le generazioni.
Halbwachs chiama questi punti di riferimento forniti dalla società quadri sociali della
memoria, che hanno il compito di assicurare la socialità della memoria. La memoria è
quindi qualcosa che ha a che fare con il nostro stare in società: non è un fatto individuale e
non corrisponde a contenuti che si conservano in maniera immutata nella psiche dei
soggetti. L’attività del ricordare per H. è un processo
ricostruttivo: il passato si presenta in forme sempre diverse in funzione esclusiva dei nostri
interessi attuali e del posto che occupiamo nel presente. Ciò significa che la coscienza
attuale che noi abbiamo del nostro passato è in realtà una ricostruzione sempre parziale,
che compiamo attraverso i punti di riferimento che ci fornisce la società e cioè i quadri
sociali. H. ci parla quindi di memoria collettiva, la cui funzione principale è di garantire la
coesione e l’identità di un gruppo sociale. Questa affermazione sottolinea il fatto che
l’individuo isolato non esiste e che i quadri sociali sono l’unica condizione che rende
possibile i ricordi individuali; e pone quindi l’importanza sul gruppo, che precede l’individuo
in quanto proviene dalla teoria collettiva di Dukheim che è superiore a tutti gli individui. La
memoria però diventa anche una pratica sociale. E si materializza nella stampa, nella
fotografia, nel cinema. Le pratiche sociali di memoria non corrispondono soltanto a queste
memorie artificiali, ma si collegano anche a atti narrativi come le testimonianze e alle
istituzioni culturali come i musei biblioteche e gallerie, agli artefatti urbani come
monumenti, statue, e come le commemorazioni cioè ricordare i personaggi del passato.
Un’altra pratica di memoria sociale è la patrimonializzazione di monumenti o “luoghi della
memoria” che sono beni da preservare per le generazioni future. Le nuove tecnologie
aumentano la possibilità di tramandare e conservare il passato sia in ambito privato che
pubblico.
3.3 Memoria critica
I teorici della scuola di Francoforte parlano di un approccio che vede la memoria come
critica dell’identità cioè come un riconoscimento, elaborazione e assunzione dei suoi lati
nascosti e trascurati. Uno degli esponenti di questo approccio è Walter Benjamin. Secondo
Benjamin il Novecento europeo è stato caratterizzato da un nesso memoria e potere. Dove
i regimi totalitari hanno manipolato la storia e hanno cancellato la storia di vittime e
testimoni al fine di voler dominare il corso della storia e volerlo usare a fini totalizzanti. La
memoria ferita dei vinti, cioè coloro che sono stati vittime di ingiustizie, la memoria deve
assumersi le responsabilità di imporre alle nuove generazioni di ricordare e di elaborare.
Infatti, la responsabilità di ricordare è un obbligo che hanno tutte le generazioni e
rappresenta la base per il riconoscimento dei traumi che chiedono riparazione e giustizia.
Sono responsabile oggi della mia azione di ieri ma sono anche responsabile delle
conseguenze future delle mie azioni.

CAPITOLO 16 IL LASCITO DEL COLONIALISMO E LA RELAZIONE CON L’ALTRO


1. Inclusione, esclusione, razzismo
La gestione dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo e l’esperienza quotidiana delle
discriminanti sperequazioni tra Nord e Sud all’interno della società italiana, hanno entrambi
questi due casi una matrice comune: il razzismo ereditato dal passato coloniale e fascista. Si
parla di un razzismo socialmente legittimato che è parte integrante del discorso pubblico,
culturale e politico. La costruzione sociale della razza avviene all’intersezione di una serie di
variabili come genere, classe, sessualità, religione, nazionalità e cittadinanza. Quanto al
fenomeno del razzismo s’intreccia con alte forme di discriminazione come sessismo,
xenofobia, intolleranza religiosa, sfruttamento economico e discriminazione legale.
Nella Costituzione europea leggiamo il preambolo: l’Europa riunificata dopo esperienze
dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene
di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e i bisognosi. Con questa premessa si
annunciano intenti democratici, aperti e trasparenti, che spesso però sono rimasti sono
delle buone intenzioni. Il dibattito pubblico, l’elaborazione della memoria collettiva e
l’assunzione delle responsabilità dell’Europa colonialista e imperialista sono stati scarsi. In
questo capitolo si va a studiare il passaggio dal periodo coloniale a quello postcoloniale
parlando a tal proposito di “trauma culturale”. Secondo questa concezione la mancanza di
responsabilità da parte del colonialismo ha agevolato nuove forme di razzismo
postcoloniale. Oggi a essere stigmatizzati sono gli immigrati in quanto tali. Dal 1988 al 2012
sono morte almeno 18.673 persone lungo le frontiere della “fortezza Europa”, di cui 2.552
solo nel 2011, anni di nascita delle primavere arabe.
2. L’eredità coloniale rimossa
La società europea è segnata dai totalitarismi della modernità europea. Hannah Arendt
afferma che nel totalitarismo c’è una forma di potere del tutto nuova: questa forma di
potere è basata sull’ideologia e sul terrore che disprezza qualsiasi forma di legalità. Per la
filosofia, l’imperialismo coloniale è descritto come l’incubatore dei totalitarismi e il
razzismo coloniale è visto come il precursore dell’antisemitismo razzista che caratterizzò il
genocidio degli ebrei e il nazismo. L’imperialismo delle nazioni europee dell’Ottocento
consentì di esportare capitali, potere e minoranze indesiderate (criminali, rifugiati,
vagabondi) oltre a uomini di potere senza scrupoli, in zone dove questi ultimi non erano
tenuti a rispettare le regole e le leggi della nazione. La conquista dell’Africa e dell’Asia
accompagnò lo sviluppo della civiltà europea. Il colonialismo era basato sul controllo di
terre e di beni di altri popoli che sono stati un fattore di ricchezza per il capitalismo e per la
modernità europea. Le pratiche coloniali erano: commercio, saccheggio, guerre, genocidi,
schiavitù, ribellioni. Hannah Arendt considera L’IMPERIALISMO come tappa essenziale nella
genesi del nazismo, e vede nella violenza coloniale una sintesi tra razzismo, massacro e
amministrazione burocratica. Il razzismo e la burocrazia nacquero indipendentemente l’una
dall’altra ma in Africa queste si sono incontrate dando luogo a delle atrocità. L’Ottocento e
il Novecento c’è un immaginario europeo che si articola in due visioni: da una parte c’è la
modernità, l’industrializzazione, e lo sviluppo delle scienze in Occidente e dall’altra c’è l’età
primitiva e selvaggia dei popoli colonizzati dalle nazioni europee. Nell’Ottocento le forze
coloniali hanno realizzato stermini di intere popolazioni in Africa. Edgar Morin considera il
razzismo come l’ultimo stadio del razzismo. Infatti si parla di razzismo biologico e
colonialismo che si vanno a sviluppare nello stesso tempo. I popoli europei hanno portato
avanti l’espressione di “missione civilizzatrice” e di estinzione di razze inferiori. Infatti le
leggi razziali degli anni Trenta, dirette soprattutto verso gli ebrei, sia nell’Italia fascista che
nella Germania nazista, erano già previste e applicate nei confronti delle popolazioni extra-
europee. Infatti fino a quando tali violenze erano dirette contro i popoli colonizzati, gran
parte dei cittadini europei, dei politici e delle opinioni pubbliche non si scandalizzò. Infatti
ammazzare un indigeno non equivaleva a uccidere un uomo bianco. Lo scandalo del
nazismo agli occhi delle altre nazioni europee nasce dal fatto che Hitler intendeva applicare
agli europei ciò che fino ad allora era stata una politica contro i popoli colonizzati. Il
colonialismo è stato sostenuto da ideologie che lo hanno reso plausibile e lo hanno
legittimato. L’immaginario coloniale razzista aveva una forte componente sessista infatti la
colonizzazione dell’Africa veniva simbolizzata con la conquista, con lo stupro della donna
nativa.
3. L’assenza di un “trauma culturale”
L’esperienza totalitaria del nazifascismo e del genocidio del popolo ebreo è stata elaborata,
costruita come trauma collettivo e integrato nella memoria europea. Costruire una
memoria europea significa fare i conti con il lascito negativo della propria storia.
Rivendicare la propria civiltà, dopo gli orrori dei totalitarismi è stato possibile in Europa solo
dopo aver attraversato la propria MEMORIA NEGATIVA, assumendone le responsabilità.
Jeffrey C. Alexander parla di TRAUMA COLTURALE come COSTRUZIONE SOCIALE, un trauma
non è una ferita, ma è una costruzione come discorso pubblico dominante. Traumi
individuali e traumi collettivi sono per questo autore due dimensioni diverse. Un evento
traumatico deve assumere lo status di male, deve diventare il male. E questa per Alexander
è una questione di rappresentazione. Per produrre questa rappresentazione intervengono
la sfera religiosa, estetica, giuridica ecc.Per trasformare questi eventi traumatici in traumi
culturali servono i gruppi sociali e gli imprenditori della memoria che sono molto potenti e
influenti da rendere i casi di “sofferenza estrema”, simboli e rituali riconosciuti al di là della
storia degli accadimenti originali. Antisemitismo e razzismo rimandano a STRUTTURAZIONI
COGNITIVE E PSICHICHE a livello individuale molto simili: chi è razzista, nell’intimo tende ad
essere anche antisemita e sessista. Strategie pubbliche di contrasto a questi fenomeni
intaccano tutte e tre queste tendenze nelle persone. Quindi l’elaborazione dell’Olocausto
inteso come trauma culturale e la conseguente denuncia pubblica del’antisemitismo sono
tappe principali in questi processi. Roberto Beneduce praticando un’archeologia del
trauma, sottolinea che difficilmente un trauma, per chi lo ha subito può trasformarsi in
esperienza. I suoi pazienti sono rifugiati, torturati e immigrati che arrivano dalle regioni del
mondo dove la follia della storia e la sofferenza individuale si sono inesorabilmente avvinte
l’una all’altra. Queste regioni sono ex colonie dove la violenza coloniale del passato si è
trasmessa alle generazioni successive. La memoria gioca un ruolo fondamentale nel
costruire e preparare la violenza del futuro. A partire dall’esperienza clinica con rifugiati e
immigrati Beneduce parla di un nesso tra ESPERIENZA INDIVIDUALE E I QUADRI SOCIALI
DELLA MEMORIA. Conoscere i traumi subiti dalle vittime di questi soprusi potrebbe essere il
primo passo verso un processo di riconoscimento, verso una costruzione autocritica di una
memoria coloniale da parte nostra.
L’evento traumatico non viene subito compreso, ha una sua struttura temporale: si parte
dalla latenza connessa agli accadimenti e un ritardo dell’esperienza storica. Le vittime molto
spesso appaiono stupite e ammutolite. A partire dal vissuto delle vittime, il trauma pone un
conflitto tra il DOVERE DELLA MEMORIA E IL BISOGNO DI DIMENTICARE. Un caso può essere
quello delle donne nigeriane portate in Europa per prostituirsi: imprigionate tra la violenza
simbolica, coercizione fisica, riti di possessione e abusi sessuali. Queste vittime molto
spesso chiedono un riconoscimento della RESPONSABILITA’ MOROALE E STORICA dei loro
carnefici. Ma il più delle volte purtroppo restano inascoltate.
4. Il mediterraneo tra razzismo coloniale e razzismo postcoloniale
Quale nesso vi è tra la mancata elaborazione del colonialismo come trauma, la
legittimazione più o meno aperta del razzismo e i processi migratori che interessano
l’Europa di oggi? Adorno, analizzando l’elaborazione del passato nella Germania post-
nazista, annotava che i meccanismi psicologici della rimozione dei ricordi angoscianti sono
funzionali a scopi inerenti al reale. Lo sfruttamento degli ex colonizzati, oggi migranti e
extracomunitari, la razializzazione etnica del mercato del lavoro e la criminalizzazione dei
processi migratori, rimandano a questi scopi inerente al reale. Oggi le coste del
Mediterraneo sono divise: le coste settentrionali rappresentano un ritardo rispetto al Nord
Europa, mentre le coste meridionali sono in perenne conflitto con quelle europee rispetto
ai flussi migratori. Il mare stesso è diventato sempre più una frontiera armata per separare
l’Europa dall’Africa e dall’Asia Minore. Nel 1995 la Dichiarazione di Barcellona,
dichiarazione di solo intenti senza carattere vincolante, dove si stabilirono degli accordi
multilaterali tra i paesi arabi del Mediterraneo e L’Unione Europea. I processi della
globalizzazione hanno accelerato le migrazioni, generando le contaminazioni che hanno
prodotto a loro volta ibridazione fra culture.
5. Le nostre responsabilità, la nostra alienazione
Che tipo di Europa vogliamo? Se vogliamo costruire un’Europa democratica, aperta verso le
altre sponde del Mediterraneo occorre che DECOSTRUIAMO L’EREDITA’ COLONIALE,
assumerne le responsabilità e aprire nuovi spazi e nuove relazioni postcoloniali. Secondo
Jean-Paul Sartre abbiamo bisogno di decostruire prima noi stessi, cioè dobbiamo uccidere il
colonialista che vivacchia in ognuno di noi. La vergogna diceva Sartre, ha una dimensione
etica, è ciò che ci rende umani. Dobbiamo imparare ad assumerci le responsabilità per il
dolore degli altri, lottando contro il razzismo dentro di noi e nella vita quotidiana che ci
circonda.

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