prof. Panci
09/04/20
30 e lode
INTRODUZIONE AL DIRITTO DEL LAVORO
ORIGINI
se si può dire che nel corso del tempo c’è sempre stato un lavoro prestato (dal c.d. debitore
della prestazione di lavoro) nell’interesse altrui (del cd. creditore della prestazione di lavoro),
parimenti non si può dire di uno specifico diritto avente lo scopo di disciplinare il rapporto di
lavoro. questo, infatti, faceva parte del comune diritto dei contratti.
a supportare la tesi interviene il codice civile del 1865 che non menzionava né regolava
espressamente il contratto di lavoro, ma prevedeva solo la locazione di opere (artt. 1570, 1627 e
1628). in particolare, erano due gli schemi cui il contratto di lavoro veniva ricondotto:
1. locazione delle opere (locatio operarum): il debitore prestatore di lavoro mette a disposizione
del datore di lavoro le proprie energie lavorative in vista della soddisfazione di un interesse
del creditore della prestazione di lavoro durevole nel tempo = adempimento della
prestazione di tipo continuativo e durevole nel tempo
2. locazione dell’opera (locatio operis): il debitore della prestazione di lavoro si impegna a
realizzare un’opera o un servizio a favore del datore di lavoro = adempimento della
prestazione di tipo istantaneo, che si conclude al momento della consegna del c.d. opus
perfectum.
tuttavia, a seguito della rivoluzione industriale e con la nascita del lavoro operaio in fabbrica, ci
si accorge dell’esigenza di tutelare forme di lavoro diverse rispetto a quel lavoro artigiano che
era stato fino a quel momento presente e dunque tutelato. i vuoti di tutela vengono colmati,
anche se in parte, da vari interventi:
leggi sociali: in materia di infortuni sul lavoro e di lavoro di donne e fanciulli
giurisprudenza probivirale: istituisce il collegio dei probiviri, chiamati a decidere secondo
equità sulle controversie tra industriali e operai
raccolte delle Camere di Commercio: offrono un regolamento parziale tipo, privo di valore
legale ma che riuscì ad esercitare una forte influenza nella pratica concreta delle negoziazioni
legge sull’impiego privato, successivamente parzialmente abrogata.
contemporaneamente emerge la figura di Ludovico Barassi, padre del Diritto del Lavoro, che
cercò una mediazione tra lo schema locativo fino a quel momento usato e le nuove esigenze
emerse a seguito della rivoluzione industriale e della nascita del lavoro operaio in fabbrica. in
particolare, individua i tratti caratteristici dei contratti di locazione:
locazione delle opere: assoggettamento del debitore della prestazione di lavoro e potere
direttivo del datore di lavoro
locazione dell’opera: mancanza di assoggettamento.
questo è il pensiero che influenzò la produzione legislativa successiva ma, soprattutto, il codice
civile del 1942 che, abbandonando lo schema del contratto locativo, introduce la nozione di
contratto di lavoro riconducendola allo schema dello scambio e conservando la dicotomia
elaborata da Barassi: laddove si parlava di locazione delle opere e dunque di assoggettamento
(subordinazione) si introduce il concetto di lavoro subordinato (art. 2094 cc); laddove si parlava
di locazione dell’opera e dunque di mancanza di assoggettamento si introduce il concetto di
lavoro autonomo (art. 2222 cc). in particolare:
lavoro subordinato (art. 2094 cc): lavoro manuale o intellettuale prestato dal lavoratore alle
dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro, verso il pagamento di una retribuzione
lavoro autonomo (art. 2222 cc, contratto d’opera): il prestatore d’opera si impegna a
realizzare un’opera o un servizio verso il pagamento di un corrispettivo senza alcun vincolo
di subordinazione.
= il rapporto di subordinazione rappresenta il discrimen tra il lavoro subordinato e il lavoro
autonomo: è proprio la mancanza della subordinazione che consente di affermare con certezza
che si è in presenza di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 2222 cc.
FUNZIONE
è a lungo prevalsa, ed è tutt’ora dominante, l’idea che il diritto del lavoro abbia la funzione di
tutelare il lavoratore subordinato concepito come soggetto contrattualmente debole. NB ciò
non significa che la funzione del diritto del lavoro sia quella di risolvere i conflitti tra datore di
lavoro e lavoratore a favore di quest’ultimo; ciò perché la Carta Costituzionale sancisce non solo
principi di tutela del lavoro, ma anche principi di tutela dell’iniziativa economica privata (art.
41 Cost).
FONTI
le fonti del diritto sono qualunque atto o fatto idoneo a introdurre norme giuridiche vincolanti
all’interno dell’ordinamento giuridico. nello specifico caso del Diritto del Lavoro, le fonti si
dividono in:
fonti sovranazionali:
norme di diritto internazionale: elaborate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro
(OIL), nata al fine di tutelare il lavoro e la dignità del lavoratore. gli strumenti che ha a
disposizione sono:
raccomandazioni
progetti di convenzione ratificati dagli stati membri. NB l’italia ha ratificato tutti i
progetti di convenzione e i più importanti sono:
o in materia di diritti sindacali e tutela antidiscriminatoria
o in materia di eguaglianza fra lavoratori e lavoratrici
o in materia di ferie annuali retribuite
norme di diritto comunitario: non è necessaria una ratifica, in quanto gli stati membri
hanno delegato alla comunità ampie porzioni della loro potestà (art. 11 Cost). gli strumenti
utilizzati sono:
regolamenti: precetti generali e astratti immediatamente applicabili a tutti gli stati membri
decisioni: provvedimenti diretti a regolare situazioni specifiche e dunque con destinatari
specifici
direttive: individuano degli obiettivi lasciando la libertà agli stati membri di raggiungerli
con qualunque strumento o mezzo sia ritenuto da questi idoneo. il loro scopo è uniformare
la legislazione dei singoli stati membri.
fonti nazionali:
Carta Costituzionale:
o art. 1: fonda la Repubblica sul lavoro
o art. 4: individua il lavoro come lo strumento attraverso il quale l’individuo concorre al
progresso materiale e spirituale della società
o art. 35: estende la tutela da parte della Repubblica al lavoro in tutte le sue forme e
applicazioni (si fa riferimento tanto al lavoro subordinato quanto al lavoro autonomo)
o art. 36: introduce il concetto di retribuzione proporzionata rispetto alla quantità e alla
qualità del lavoro eseguito e sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al
lavoratore e alla sua famiglia; delega alla legge ordinaria la fissazione della durata
massima della giornata lavorativa; introduce il diritto del lavoratore al riposo
settimanale e alle ferie annuali retribuite, definito irrinunciabile
o art. 37: tutela il lavoro delle donne
o art. 38: sancisce principi con riguardo ai soggetti inabili al lavoro
o art. 39: afferma che l’organizzazione sindacale è libera; nei commi successivi vi è il
regolamento delle organizzazioni sindacali e dei contratti collettivi con efficacia erga
omnes, ma non vi è mai stata una legge di attuazione dei commi in questione e per
questo sono da sempre inapplicati
o art. 40: introduce il diritto di sciopero e ne subordina l’esercizio nelle forme previste
dalle leggi che lo regolano
leggi ordinarie e qualunque altro atto avente forza di legge: parlando di legislazione
ordinaria si fa riferimento al codice civile del 1942, che categorizza:
o lavoro subordinato nell’impresa (artt. 2094 e ss. del cc)
o lavoro autonomo (artt. 2222 e ss. del cc)
o lavoro subordinato prestato per fini non inerenti l’impresa (artt. 2239 e ss. del cc).
l’evoluzione normativa in questo settore è stata caratterizzata dall’elaborazione di leggi
che pur non rientrando nell’ambito del codice civile hanno introdotto principi
fondamentali:
necessaria giustificazione del licenziamento (l. 604/1966)
Statuto dei lavoratori (l. 300/1970)
l. 276/2003: contratto a progetto
l. 92/2012: modifica molti aspetti
usi normativi = consuetudini: comportamenti ripetuti nel tempo e accompagnati dalla
convinzione della loro doverosità morale e sociale. si differenziano dagli usi negoziali e
aziendali e prevalgono rispetto alla legge quando prevedono condizioni più favorevoli
per i prestatori di lavoro (art. 2078 cc)
contratto collettivo/contratto individuale: nell’esperienza corporativa il contratto
collettivo corporativo era una fonte e veniva per questo richiamata dalle preleggi; con
l’avvento della Costituzione repubblicana, però, il contratto collettivo corporativo viene
meno e viene ricondotto, come precedentemente detto, al diritto comune dei contratti. per
la sua importanza, però, possiamo comunque definire il contratto collettivo come fonte
extra-ordinem.
rapporto tra legge e contrato collettivo: il contratto collettivo non può derogare in
peggio quanto stabilito dalla legge, potendo solo introdurre trattamenti migliorativi in
favore del lavoratore salvo che la legge non disponga diversamente
rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale: il contratto individuale non può
derogare in peggio quanto stabilito dal contratto collettivo, potendo solo introdurre
trattamenti migliorativi in favore del lavoratore.
a causa dell’elevato tasso di inderogabilità della legge e dei contratti collettivi
all’autonomia privata (contratti individuali) resta poco margine e dunque risulta avere un
ambito molto ristretto.
SUBORDINAZIONE E QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
LAVORO SUBORDINATO a tempo pieno ed indeterminato
art. 2094 cc: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a
collaborare nell’impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e
sotto la direzione dell’imprenditore”.
l’articolo in questione, rubricato “prestatore di lavoro subordinato”, non definisce il contratto
di lavoro subordinato e ciò viene anche confermato dal fatto che ci troviamo nel libro V del
codice civile inerente al lavoro, mentre i contratti si trovano nel libro IV inerente le
obbligazioni. nonostante ciò è opinione prevalente che di implicito ci sia la definizione del
contratto di lavoro subordinato per la presenza della formula “che si obbliga”, che si riferisce
ad un’obbligazione e questa nasce proprio da un contratto.
requisiti del contratto di lavoro subordinato:
accordo delle parti (datore di lavoro – lavoratore): il ruolo di tale requisito è stato aumentato
a seguito della riforma del collocamento poiché, con il passaggio dalla funzione statica del
collocamento alla funzione dei servizi dell’impiego svolti dai centri dell’impiego, si passa da
assunzioni mediante chiamata numerica ad assunzioni dirette con solo obbligo di
comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro
causa: scambio di lavoro verso retribuzione, dedotta proprio dalla formula dell’art. 2094
“chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare prestando il proprio lavoro (…)”. si tratta,
come vediamo, di prestazioni corrispettive che rendono il contratto di lavoro subordinato un
contratto a prestazioni corrispettive. nonostante ciò, la corrispettività non è piena, perché:
vi sono ipotesi in cui il lavoratore ha diritto a ricevere la retribuzione anche qualora non
abbia eseguito la prestazione (es. ferie, malattia)
ai sensi dell’art. 36 Cost. la retribuzione deve essere, oltre che proporzionale rispetto alla
quantità e alla qualità del lavoro, anche sufficiente ai fini di garantire un’esistenza libera e
dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia
oggetto:
o prestazione di lavoro = mansione: criterio di determinazione qualitativo dell’oggetto
dell’obbligazione poiché le mansioni individuano i compiti specifici del lavoratore
o retribuzione
forma: non è richiesta la forma scritta, per cui il contratto può essere concluso anche
oralmente. ci sono però delle specificazioni da fare:
la forma scritta è richiesta dalla pubblica amministrazione in caso di assunzione ai fini di
una prova dell’esistenza del rapporto di lavoro
vi sono tipologie di contratto o clausole inserite nel contratto per cui il legislatore può, di
volta in volta, richiedere la forma scritta o ai fini della prova della loro esistenza (ad
probationem tantum) o ai fini della validità sostanziale degli stessi (ad substantiam actus).
SUBORDINAZIONE
la caratteristica principale del rapporto di lavoro subordinato si evince dalla formula “alle
dipendenze e sotto la direzione” presente nell’art. 2094 cc.
non si tratta di un’endiadi (coppia di termini con significato unico e unitario), ma
semplicemente di termini che descrivono aspetti connessi ma diversi e che insieme identificano
il vincolo tipico della subordinazione.
proprio per questo, possiamo dire che la subordinazione è di due tipi:
subordinazione tecnica: si riferisce alla formula “sotto la direzione dell’imprenditore” e
comporta:
l’assoggettamento del prestatore di lavoro subordinato al potere direttivo del datore di
lavoro per quanto riguarda la disciplina e l’esecuzione del lavoro
l’assoggettamento del prestatore di lavoro subordinato al potere del datore di lavoro di
modificare unilateralmente l’oggetto del contratto (mansioni o luogo di esecuzione della
prestazione di lavoro, art. 2103 cc)
l’assoggettamento del prestatore di lavoro subordinato al potere del datore di lavoro di
comminare sanzioni disciplinari: sanzioni private a fronte dell’inadempimento del
lavoratore delle obbligazioni su di esso gravanti in forza del contratto di lavoro
subordinato (potere disciplinare)
subordinazione funzionale: si riferisce alla formula “alle dipendenze dell’imprenditore” ed
esprime il collegamento tra l’attività del lavoratore e il risultato cui tende l’imprenditore.
NB il risultato è un elemento esterno al contratto che però rappresenta una parametro
attraverso cui valutare l’adempimento della prestazione di lavoro del lavoratore.
PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
l’individuazione del contenuto tipico della subordinazione non elimina, però, il problema della
qualifica dei rapporti di lavoro che si trovano al confine tra il lavoro autonomo e il lavoro
subordinato.
secondo l’opinione prevalente la definizione del lavoro autonomo è data dall’art. 2222 cc che,
in realtà, definisce il contratto d’opera: contratto in cui il prestatore d’opera si obbliga, verso
corrispettivo, a realizzare un’opera o un servizio con il lavoro prevalentemente proprio e senza
vincolo di subordinazione. ed è proprio quest’ultima formula che definirebbe il lavoro
autonomo, ma in negativo, come assenza di subordinazione. ciò significa che tra il lavoro
autonomo e il lavoro subordinato non vi è soluzione di continuità ed è proprio questo che causa
un problema di qualificazione dei rapporti che si trovano al confine tra i due (es. rapporto di
collaborazione coordinata e continuata: rapporto di lavoro di carattere autonomo (o pseudo-
subordinato) che si svolge con modalità difficilmente distinguibili da quelle che caratterizzano
il lavoro subordinato).
proprio per queste difficoltà la giurisprudenza si è sforzata di individuare un insieme di criteri
che, in casi dubbi, possono costituire un ausilio per la qualificazione del rapporto di lavoro.
INDICI GIURISPRUDENZIALI DELLA SUBORDINAZIONE
NB nessuno degli indici, da solo considerato, è idoneo a qualificare il rapporto come
subordinato o autonomo perché ciascun indice può far riferimento tanto al lavoro subordinato
quanto al lavoro autonomo
NB non esiste un elenco legale degli indici.
direttive: tipiche del lavoro subordinato con riferimento all’art. 2104 cc quando afferma che il
lavoratore subordinato deve rispettare le disposizioni (direttive) impartite dall’imprenditore
per l’esecuzione o la disciplina del lavoro.
seppur tipiche del lavoro subordinato, non rappresentano da sole un indice idoneo a definire
un rapporto di lavoro come subordinato, in quanto esistono rapporti di lavoro autonomo in
cui il creditore della prestazione lavorativa può impartire al lavoratore autonomo delle
istruzioni di carattere generale che si distinguono dalle direttive solo da un punto di vista
quantitativo; inoltre, esistono rapporti di lavoro subordinato in cui le direttive si riducono a
mere istruzioni di carattere generale (accade nei rapporti di lavoro subordinato
caratterizzati da una professionalità molto elevata – es. il dirigente cui l’imprenditore
richiede il raggiungimento di un determinato risultato lasciandolo libero di determinate le
modalità attraverso cui raggiungerlo – e nei rapporti di lavoro subordinato caratterizzati da
una professionalità molto bassa – es. addetto delle pulizie cui il datore di lavoro dà istruzioni
molto generali al fine di indicare, molto semplicemente, ciò che deve essere pulito)
oggetto dell’obbligazione lavorativa (in disuso a seguito di critiche): si distinguono:
o obbligazioni di mezzi: il debitore della prestazione lavorativa si impegna a realizzare con
diligenza una determinata attività senza però obbligarsi a raggiungere un certo risultato
o obbligazioni di risultato: il debitore si impegna a realizzare un determinato risultato.
generalmente si ritiene che il contratto di lavoro subordinato sia fonte di obbligazioni di
mezzi, mentre il contratto di lavoro autonomo sia fonte di obbligazioni di risultato. in
realtà, però, il lavoro autonomo può atteggiarsi tanto a obbligazione di risultato quanto a
obbligazione di mezzi (es. prestazione del medico che assiste il paziente con diligenza senza
assicurarne la guarigione). per questo motivo l’indice in questione permette di escludere la
natura subordinata del rapporto di lavoro quando l’obbligazione dedotta in contratto è di
risultato, ma non consente di escludere la natura subordinata del rapporto di lavoro quando
l’obbligazione dedotta in contratto è di mezzi, perché propria anche del lavoro autonomo
inerenza del rapporto di lavoro all’impresa: tipica del lavoro subordinato, che richiede
l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale. tuttavia, esistono lavori autonomi
in cui il rapporto di lavoro inerisce l’impresa, per cui si dice che l’indice da solo considerato
non permette di qualificare con certezza il rapporto di lavoro come subordinato
rischio:
o rischio della mancanza o impossibilità del lavoro: grava su tutti i lavoratori, sia autonomi
che subordinati
o rischio dell’inutilità del lavoro eseguito: mentre nel lavoro subordinato il lavoratore si
impegna ad eseguire il lavoro con diligenza senza assicurarne il risultato e per questo tale
rischio non grava su di lui, che ha comunque diritto alla retribuzione, nel lavoro
autonomo il rischio dell’inutilità del lavoro eseguito grava sul lavoratore in quanto
nell’esecuzione del suo lavoro si impegna a raggiungere un determinato risultato che, se
non raggiunto, non gli dà il diritto al corrispettivo.
ma anche questo indice, se usato da solo non è attendibile, in quanto si fonda sull’oggetto
dell’obbligazione di cui si è parlato precedentemente
subordinazione socio-economica: si riferisce all’inferiorità socio-economica del lavoratore
rispetto al datore di lavoro. anche questo criterio risulta inadatto, in quanto:
la subordinazione socio-economica non sta alla base dell’art. 2094 cc, che pone al centro la
subordinazione tecnico-formale
esistono rapporti di lavoro autonomo in cui il lavoratore si trova in una posizione di
inferiorità socio-economica rispetto al committente
volontà e comportamento delle parti: secondo l’art. 1362, comma 2 cc l’interpretazione del
contratto deve essere svolta anche alla luce del comportamento delle parti posteriore alla
stipulazione dello stesso. ciò porta la giurisprudenza a svalutare il ruolo del nomen juris
scelto dalle parti in quanto, anche qualora queste stipulino un contratto che definiscono
autonomo, tale volontà sarà travolta nel momento in cui nel concreto svolgimento del lavoro,
diano vita ad un rapporto di lavoro subordinato.
il metodo realmente accettato dalla dottrina ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro è
il metodo sussuntivo: qualifica il rapporto di lavoro in base ai tratti qualificativi della
fattispecie.
POTERI E OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO
la stipulazione del contratto di lavoro comporta la nascita di un complesso di situazioni
soggettive attive e passive connesse tra loro in capo al datore di lavoro e al lavoratore. si parla
di connessione tra le varie situazioni soggettive in quanto alla posizione attiva di uno
corrisponde la posizione passiva dell’altro e viceversa es. al diritto soggettivo attivo del datore di
lavoro di ricevere la prestazione lavorativa del lavoratore corrisponde la situazione soggettiva passiva
del lavoratore consistente nell’obbligazione di eseguire la prestazione lavorativa.
POTERI DEL DATORE DI LAVORO
art. 2086 cc: “l’imprenditore è a capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi
collaboratori”,
che individua la posizione di supremazia del datore di lavoro all’interno dell’impresa. tale
posizione di supremazia spiega perché con la stipulazione del contratto, il datore di lavoro si
vede riconoscere un insieme di poteri, per cui non esiste un’elencazione tassativa o legale, ma
una serie di elaborazioni dottrinali. secondo una di queste, in particolare, i poteri del datore di
lavoro discendenti dalla stipulazione del contratto di lavoro sono:
1. potere direttivo: potere di carattere organizzativo attraverso cui il datore di lavoro può
conformare le prestazioni dei singoli lavoratori subordinati per far sì che queste siano
coordinate tra loro al fine di realizzare le esigenze e gli interessi dell’impresa.
è un potere molto ampio, che secondo un’opzione ricostruttiva si traduce in quattro aspetti
principali:
potere gerarchico, art. 2086: il datore di lavoro ha una posizione di supremazia
potere direttivo in senso proprio, art. 2104: il lavoratore subordinato è tenuto ad osservare
le disposizioni impartite dall’imprenditore per l’esecuzione del lavoro
potere organizzativo, art. 2104: obbligo del lavoratore di rispettare le disposizioni
impartire dall’imprenditore concernenti l’organizzazione del lavoro
potere di modifica unilaterale del contenuto del contratto stipulato dalle parti (jus
variandi): potere eccezionale rispetto a qualunque altro contratto di diritto comune, che
permette la modifica dello stesso solo previo accordo delle parti. sono previsti:
o variazione delle mansioni, art. 2103: il datore di lavoro deve infatti assegnare al
lavoratore non solo le mansioni per cui è stato assunto, ma anche quelle equivalenti che
non richiedano una variazione della retribuzione, nonché, temporaneamente, delle
mansioni superiori
o trasferimento, art. 2103: il datore di lavoro può modificare il luogo dell’esecuzione della
prestazione di lavoro a fronte di comprovate* ragioni di carattere tecnico, organizzativo
o produttivo = mutamento definitivo del luogo di esecuzione della prestazione di
lavoro (entro i confini nazionali, in quanto secondo l’opinione prevalente l’obbligo che
grava sul lavoratore non è cosi ampio da costringerlo, con un atto unilaterale, a
trasferirsi all’estero).
*secondo la giurisprudenza si tratta di ragioni che, in caso di contestazione da parte del
lavoratore, devono essere provate dal datore di lavoro; altra parte della giurisprudenza
aggiunge, che oltre alla funzione di prova per il datore di lavoro, prevedano l’obbligo
da parte del datore di lavoro di comunicare, oltre al trasferimento, anche le ragioni
oggettive dello stesso.
dal trasferimento si differenziano la trasferta e il distacco: la prima comporta un
mutamento temporaneo del luogo di esecuzione del contratto; il secondo comporta, per
il datore di lavoro, l’invio temporaneo di un proprio lavoratore ad un altro e distinto
datore di lavoro. il distacco, in particolare, si differenzia dal trasferimento per il
carattere temporaneo e dalla trasferta perché vengono soddisfatte le esigenze di un
datore di lavoro diverso da quello che ha assunto il lavoratore stesso. alcune
specificazioni sul distacco:
il datore di lavoro distaccante continua ad essere gravato dal trattamento normativo
e retributivo del lavoratore
il distacco, che di norma non necessita del consenso del lavoratore, richiede il
consenso quanto comporta un mutamento di mansioni
quando il distacco comporta uno spostamento del luogo di esecuzione del lavoro
superiore a 50km, è ammissibile solo a fronte di comprovate ragioni di carattere
tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo
2. potere di controllo: la sua natura è dibattuta, in quanto c’è chi afferma sia un’ulteriore
manifestazione del potere direttivo e chi invece sostiene sia un potere senz’altro connesso
al potere direttivo, ma rispetto a questo autonomo e distinto (√). a sostegno di ciò, il fatto
che il potere di controllo sia previsto e regolato da norme di legge diverse rispetto a quello
che riconoscono, regolano e limitano il potere direttivo, oltre alla diversità del bene giuridico
protetto (dignità e riservatezza del lavoratore nell’ambito del potere di controllo).
il potere di controllo si esplica nel potere del datore di lavoro di verificare l’esattezza
dell’adempimento del lavoratore di tutti gli obblighi su di esso gravanti in forza della
stipulazione del contratto di lavoro subordinato.
limiti legali a tale potere sono disciplinati dagli artt. 2 e ss. dello Statuto dei lavoratori:
art. 2, guardie giurate: personale addetto allo svolgimento di mansioni che hanno ad
oggetto la tutela e salvaguardia del patrimonio aziendale. è fatto divieto, al datore di
lavoro, di servirsi delle guardie giurate se non per fini di tutela e salvaguardia del
patrimonio aziendale. per questo non possono accedere ai locali di lavoro a meno che non
sia necessario per lo svolgimento della loro mansione e non possono contestare al datore
di lavoro fatti che non attengano alle proprie mansioni
art. 3, personale di vigilanza: personale addetto allo svolgimento di mansioni che hanno
ad oggetto la vigilanza dell’esecuzione della prestazione di lavoro. il datore di lavoro ha
l’obbligo di comunicare i nominativi del personale addetto alla vigilanza ai lavoratori
interessati del controllo
art. 4, impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo: visto con un occhio di sfavore, in
quanto si ritiene che il controllo a distanza attuato con forme sia palesi che, a maggior
ragione, occulte, possa tradursi in stringente e penetrante fino a comprimere in modo
eccessivo la dignità e la riservatezza del lavoratore. è previsto il divieto del controllo a
distanza dell’attività lavorativa svolta dal lavoratore subordinato, salvo che tale
controllo sia reso necessario da esigenze di carattere organizzativo o da esigenze di tutela
di sicurezza sul lavoro purchè vi sia un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali
o, in mancanza di questo, purchè vi sia l’autorizzazione del direttore della Direzione
territoriale del lavoro.
disposizioni particolare sono previste dall’art. 8 del decreto legge 138/2011 in tema di
sostegno degli accordi di prossimità: i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni
sindacali comparative più rappresentative a livello nazionale o territoriale o quelli stipulati
dalle rappresentanze sindacali aziendali, possono derogare a tutte le norme di legge,
anche inderogabili, del diritto del lavoro, salvi i principi costituzionali e quelli di diritto
comunitario = attraverso l’accordo ex art. 8 d.l. 138/2011 si può superare la necessità
dell’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali ai fini del’installazione di un
impianto audiovisivo o di altre apparecchiature idonee a costituire strumento di controllo
a distanza del lavoro svolto dai lavoratori subordinati.
art. 5, accertamenti sanitari: è fatto divieto, al datore di lavoro, di svolgere direttamente
accertamenti sull’idoneità del lavoratore alla prestazione di lavoro o sulla sua infermità
dovuta a malattia o a infortunio. per effettuare i relativi controlli su idoneità e infermità
il datore di lavoro dovrà servirsi, rispettivamente, degli istituti previdenziali competenti
e di enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico.
art. 6, visite personali di controllo: in linea generale sono vietate, ma quando si tratta
della tutela e della salvaguardia del patrimonio aziendale vengono concesse a
determinate condizioni:
che siano effettuate all’uscita dei luoghi di lavoro
che siano effettuate con meccanismi che salvaguardino la dignità e la riservatezza del
lavoratore
art. 8, divieto di indagini sulle opinioni (politiche, religiose, sindacali o su fatti non
rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale) dei lavoratori ai fini
dell’assunzione o durante il rapporto di lavoro
3. potere disciplinare, previsto dall’art. 2106 cc e procedimentalizzato dall’art. 7 dello Statuto
dei lavoratori. è il potere del datore di lavoro di comminare sanzioni disciplinari al lavoratore
nel caso di inosservanza degli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105: obbligo di diligenza,
obbligo di osservanza e obbligo di fedeltà.
la sua funzione, sostiene l’opinione tradizionale, ha carattere conservativo, in quanto è lo
strumenti attraverso il quale il datore di lavoro può sanzionare l’inadempienza del lavoratore
subordinato senza necessariamente ricorrere ai rimedi generali previsti dai contratti di
diritto comune ( risoluzione, scioglimento).
l’art. 2106, nel definire il potere disciplinare, introduce il principio di proporzionalità tra
sanzione e infrazione contestata.
l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori procedimentalizza l’esecuzione del potere disciplinare
introducendo importanti principi:
principio di legalità: il codice disciplinare deve essere portato alla conoscenza dei
lavoratori mediante affissione dello stesso in un luogo accessibile a tutti i lavoratori. non
sono permesse altre modalità di pubblicità anche se avessero lo stesso effetto (consegna a
mano, invio, ecc)
principio della contestazione preventiva e specifica degli addebiti: prima di poter
comminare una sanzione disciplinare il datore di lavoro deve contestare gli addebiti al
lavoratore in modo specifico
principio contraddittorio: salvo l’ipotesi di rimprovero verbale, tra contestazione
dell’infrazione e comminazione della sanzione disciplinare deve decorrere un termine non
inferiore ai 5 giorni; il lavoratore, dopo la contestazione, ha la possibilità di chiedere di
essere sentito a sua difesa o di far intervenire, a questo scopo, l’assistenza della
rappresentanza sindacale dell’associazione sindacale cui partecipa o a cui abbia conferito
espressamente il mandato.
il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare ha dei mezzi di tutela:
tutela giudiziaria: sospende l’applicazione della sanzione fino all’emanazione del
provvedimento da parte del giudice
procedimento arbitrale innanzi alla Direzione territoriale del lavoro: entro 20 giorni dalla
comminazione della sanzione disciplinare il lavoratore può promuovere la costituzione di
un collegio arbitrale formato da tre membri: un rappresentante del lavoratore, un
rappresentante del datore di lavoro e un presidente scelto di comune accordo o, in
mancanza di questo, dal direttore della Direzione territoriale del lavoro
procedimento arbitrale prevista dal contratto collettivo.
OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO
obbligo di corrispondere la retribuzione
obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore
obbligo di tutela assicurativa e previdenziale
obbligo di accertamenti sanitari sul lavoratore addetto a mansioni per cui sia obbligatoria
la sorveglianza sanitaria
obbligo di informazione.
INQUADRAMENTO E CLASSIFICAZIONE DEI LAVORATORI
SUBORDINATI
l’inquadramento, comunemente ritenuto espressione del potere direttivo del datore di lavoro,
viene disciplinato dall’art. 96 delle disposizioni di attuazione del codice civile: l’imprenditore
deve far conoscere al lavoratore subordinato, al momento dell’assunzione, la categoria e la
qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. possiamo
dunque dire che l’inquadramento è una classificazione dei lavoratori, al fine di collocarli
all’interno dell’impresa, basata su tre criteri: categoria, qualifica e mansione.
tali criteri richiamano innanzitutto principi di tipicità sociale prima che giuridica e hanno la
funzione di consentire di raggruppare in categorie omogenee diversi profili professionali che
siano espressione di professionalità analoghe. il raggruppamento è necessario al fine di
differenziare il trattamento normativo e retributivo applicabile ai diversi lavoratori – l’art. 36
cost. parla di giusta retribuzione con riferimento alla proporzionalità della stessa rispetto alla quantità e
alla qualità del lavoro e alla sufficienza a garantire un’esistenza dignitosa al lavoratore e alla sua
famiglia.
CRITERI DI CLASSIFICAZIONE
1. categoria: è il criterio più ampio e comprende anche gli altri. infatti, la categoria rappresenta
l’entità classificatoria all’interno della quale è possibile rinvenire diversi profili professionali
a loro volta raggruppabili in qualifiche differenti cui corrispondono diverse mansioni.
l’art. 96 delle disposizioni di attuazione al codice civile stabilisce che le qualifiche
professionali possono essere, nell’ambito delle categorie legali* di cui all’art. 2095, stabilite e
raggruppate secondo un ordine di importanza che queste assumono nell’ordinamento
dell’impresa.
dalle categorie legali ex art. 2095 si distinguono le categorie contrattuali, elaborate dalla
contrattazione collettiva. il ruolo di queste è individuabile a partire dal secondo comma del
medesimo articolo nella parte in cui afferma che i criteri di appartenenza di ciascun
lavoratore alle categorie legali devono essere determinate da leggi speciali (o corporative,
ormai abrogate a seguito dell’abrogazione del codice corporativo); le leggi speciali che fanno
riferimento a tali criteri, però, sono poche e per questo insufficienti ed è proprio qui che sta la
funzione delle categorie contrattuali.
*categorie legali ex art. 2095 cc:
dirigenti: non esiste una definizione legale né una norma di legge in grado di stabilire se
una determinata prestazione lavorativa sia o meno di carattere dirigenziale. è per questo
che la giurisprudenza si è sforzata di individuare il tratto caratteristico di tale categoria:
l’elevato contenuto professionale e lo spiccato carattere fiduciario della prestazione
lavorativa, per cui il dirigente viene considerato un alter ego dell’imprenditore. ma tale
elaborazione è stata superata dalla contrattazione collettiva, che ha esteso la qualifica di
dirigente a tutti i soggetti che, pur non svolgendo funzioni corrispondenti a quelle proprie
dell’alter ego dell’imprenditore, svolgono prestazioni lavorative in grado di incidere
sulle scelte di politica aziendale e sull’individuazione degli obiettivi complessivi
dell’azienda superamento dell’atto di nomina, una volta considerato condicio sine qua
non per acquistare il titolo di dirigente.
alcune specificazioni:
o il soggetto che è formalmente qualificato come dirigente, ma che in concreto non svolge
funzioni proprie della categoria viene considerato uno pseudo-dirigente; il soggetto che
formalmente non è qualificato come dirigente, ma che in concreto svolte funzioni
proprie della categoria ha diritto alla promozione (art. 2103) entro i termini previsti dal
contratto collettivo
o trattamento normativo: alla categoria dirigenziale non è applicabile gran parte dello
statuto protettivo del lavoratore subordinato. per questo motivo, al fine di bilanciare il
deficit normativo, la categoria in questione si è impegnata per imporre alla controparte
datoriale una contrattazione collettiva separata (per cui il contratto collettivo di lavoro
dei dirigenti è diverso rispetto a quello del resto dei lavoratori) che le garantisce ampie
tutele
► art. 7 dello Statuto dei lavoratori inerente il procedimento disciplinare: in passato è
stato oggetto di contrasto giurisprudenziale in quanto c’era chi affermava che,
proprio in virtù dell’elevato livello di professionalità, non fosse possibile
l’applicazione dell’articolo in questione e dunque del potere disciplinare più in
generale; dall’altra parte, al contrario, c’era chi affermava che il dirigente era
comunque un collaboratore subordinato dell’imprenditore e che per questo era
sottoponibile al potere disciplinare. il contrasto è stato risolto da una pronuncia della
Corte di Cassazione del 2007 nel senso dell’ultima tesi
o trattamento retributivo: in conformità con il principio di corrispettività, per cui un
maggiore apporto qualitativo della prestazione lavorativa comporta una retribuzione
superiore rispetto agli altri lavoratori
quadri: la formulazione originale del codice civile del 1942 e dunque la formulazione
originale dell’art. 2095, non includeva anche tale categoria, introdotta nel corso degli anni
’80 dalla legge 190/1985. secondo tale legge appartiene alla categoria dei quadri il
lavoratore che, pur non appartenendo alla categoria dirigenziale, svolge funzioni con
carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli
obiettivi d’impresa.
qual è, dunque, il discrimen tra la categoria dei dirigenti e quella dei quadri? si può dire
che mentre i dirigenti concorrono a individuare gli obiettivi dell’impresa, i quadri si
impegnano ad attuarli.
o la categoria dei quadri, al contrario di quanto è riuscita a fare quella dei dirigenti, non è
stata in grado di ottenere un contratto collettivo separato, per cui sottostanno al
contratto collettivo previsto per impiegati e operai
o trattamento normativo: al contrario dei dirigenti, alla categoria dei quadri è
tranquillamente applicabile quanto previsto dallo statuto protettivo dei lavoratori
o trattamento retributivo: in applicazione del principio di corrispettività, avranno una
retribuzione minore rispetto a quella dei dirigenti proprio in virtù del minore apporto
della loro prestazione lavorativa
impiegati e operai: la loro definizione si basa sulla distinzione tradizionale per cui
l’impiegato è un prestatore di lavoro prevalentemente intellettuale che collabora
all’impresa, mentre l’operaio è un prestatore di lavoro prevalentemente manuale che
collabora nell’impresa. è proprio la distinzione terminologica “collaborazione
nell’impresa” e “collaborazione all’impresa” unita alla distinzione normativa effettuata dai
contratti collettivi che, un tempo, distingueva le due categorie. tale distinzione è però oggi
venuta meno, soprattutto a seguito dell’avvento del meccanismo dell’inquadramento
unico* e dell’innovazione tecnologica che ha fatto sì che il lavoro operaio non fosse più
solo meramente manuale.
*meccanismo dell’inquadramento unico: utilizzato nei contratti collettivi, che classificano i
lavoratori subordinati sulla base di livelli di retribuzione, individuati attraverso una
declaratoria generale, con lo scopo di individuare i livelli professionali dei lavoratori che
devono appartenere ai vari livelli retributivi. importante specificazione è legata all’assenza
di disparità del trattamento normativo tra i lavoratori dei vari livelli.
qualifica e mansioni: oltre ad essere criteri di classificazione del personale, sono anche criteri
attraverso cui viene determinato qualitativamente l’oggetto dell’obbligazione dedotta in
contratto. infatti, se nel contratto non ci fossero riferimenti a qualifiche o mansioni non sarebbe
possibile individuare il tipo di prestazione lavorativa richiesta e si avrebbe un’obbligazione con
oggetto non determinato né determinabile e dunque nulla.
2. qualifica: indica lo status professionale che il lavoratore ricopre all’interno
dell’organizzazione. ad ogni qualifica corrisponde un insieme di mansioni ad essa inerenti
es. alla qualifica di segretaria corrispondono le mansioni di rispondere al telefono, organizzare
l’agenda del datore di lavoro, ecc.
3. mansioni: compiti specifici del lavoratore subordinato.
proprio perché all’interno del concetto di qualifica troviamo anche quello di mansione, parte
autorevole della dottrina afferma che questi criteri siano il risvolto della stessa medaglia; altra
parte, al contrario, afferma che nonostante sia difficile effettuare una differenziazione tra i due,
sono comunque da considerare distinti in quanto diversi sono gli effetti giuridici che
discendono dall’uno e dall’altro.
OBBLIGHI DEL PRESTATORE DI LAVORO SUBORDINATO
la stipulazione del contratto di lavoro comporta la nascita di un complesso di situazioni
soggettive attive e passive connesse tra loro in capo al datore di lavoro e al lavoratore. si parla
di connessione tra le varie situazioni soggettive in quanto alla posizione attiva di uno
corrisponde la posizione passiva dell’altro e viceversa es. al diritto soggettivo attivo del datore di
lavoro di ricevere la prestazione lavorativa del lavoratore corrisponde la situazione soggettiva passiva
del lavoratore consistente nell’obbligazione di eseguire la prestazione lavorativa.
premessa
il lavoratore subordinato, in quanto debitore di una prestazione lavorativa, così come ogni altro
debitore di qualunque rapporto obbligatorio, deve innanzitutto adempiere nel rispetto dei
doveri di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375), eseguendo la prestazione con diligenza
(art. 1176). inoltre, è richiesto il rispetto dei doveri preparatori all’adempimento:
comportamenti di carattere preliminare che il debitore deve osservare per porsi nelle condizioni
di adempiere correttamente. com’è ovvio, più aumenta l’area dei doveri preparatori più viene
compressa la sfera privata del lavoratore subordinato es. se il chirurgo di una clinica privata, l’unico
in grado di eseguire una determinata operazione chirurgica, il giorno prima di questa va a giocare a
calcetto e si infortuna, rendendosi impossibilitato a compiere l’operazione, si ipotizzerà un
comportamento inadempiente per violazione dei doveri preparatori.
obbligo di eseguire la prestazione lavorativa, dedotto dall’art. 2094: “è prestatore di lavoro
subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il
proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore”. in realtà, però, l’obbligo in questione del prestatore di lavoro, non è la
mera prestazione di lavoro, che essendo priva di specificazioni renderebbe il contratto nullo,
bensì la prestazione di una specifica attività lavorativa e dunque l’esecuzione di mansioni.
l’art. 2103 disciplina il contenuto delle mansioni che devono essere assegnate al lavoratore;
tale articolo ha subito un’importante modifica a seguito dell’introduzione dell’art. 2 d.lgs.
81/2015 che ha interamente riscritto l’articolo lasciando comunque intatti i concetti
principali: mobilità orizzontale, mobilità verticale in melius e mobilità verticale in pejus.
NB nell’art. 2103 si parla, ovviamente, anche delle mansioni per cui il lavoratore è stato
assunto: è un diritto o un dovere? mentre l’opinione della dottrina classica è nella direzione
di un dovere, in quanto principale e caratteristico obbligo del lavoratore, la giurisprudenza si
afferma nel senso contrario: poiché l’adibizione a mansioni inferiori è vietata perché
determinerebbe una lesione della professionalità del lavoratore e poiché la medesima lesione
professionale del lavoratore si realizzerebbe riducendolo all’inattività, l’esecuzione di
mansioni e, più in generale, della prestazione lavorativa è, per il lavoratore, un diritto
► mobilità orizzontale:
formulazione originaria dell’art. 2103: prevedeva un’equivalenza delle mansioni di
destinazione rispetto a quelle per cui il lavoratore era stato assunto: l’equivalenza era da
ricercare non nell’analogia del contenuto della prestazione quanto più nell’omogeneità
della professionalità richiesta, tuttavia era comunque necessario svolgere anche un
esame di tipo soggettivo con riguardo all’omogeneità del bagaglio professionale
richiesto al lavoratore in sede di mansione equivalente rispetto a quello necessario ai
fini dello svolgimento della mansione di provenienza
nuova formulazione dell’art. 2103: si passa dalla nozione di equivalenza alla formula
“mansioni riconducibili allo stesso livello di categoria legale di inquadramento”, per
cui non sarà più necessario verificare l’omogeneità del bagaglio professionale del
lavoratore essendo invece sufficiente la comparazione dell’omogeneità della
professionalità richiesta.
► mobilità verticale in melius:
formulazione originaria dell’art. 2103: prevedeva che il lavoratore potesse essere adibito
a mansioni superiori da cui però discendeva il diritto al trattamento economico e
normativo corrispondente nonché il diritto alla promozione dopo il superamento del
tempo previsto dalla contrattazione collettiva e comunque non superiore a 3 mesi.
con inerenza alla promozione, in particolare, nacque un dibattito circa la possibilità, da
parte del lavoratore, di rinunciarvi: parte della dottrina rispondeva negativamente, in
quanto si trattava comunque di una disposizione dell’imprenditore nei confronti del
lavoratore subordinato; altra parte, al contrario, affermava che dal momento in cui la
promozione e dunque l’adibizione definitiva a mansioni superiori comportava un
aumento di responsabilità e dunque, un cambio di vita del lavoratore, questo avesse il
diritto di rinunciarvi
nuova formulazione dell’art. 2103: prevede aspetti di continuità con il vecchio testo e
aspetti di discontinuità rispetto a questo, di cui i più importanti sono:
o espressa disciplina della volontà del lavoratore di rifiutare la promozione, che
risolve il dibattito nato nel vigore della formulazione originaria
o tempo necessario per maturare il diritto alla promozione: si passa da 3 a 6 mesi NB
mentre i 3 mesi precedenti operavano solo in mancanza di una specifica disciplina
della contrattazione collettiva, ma comunque la vincolavano qualora presente, i 6
mesi ora previsti operano si in mancanza di specifica disciplina della contrattazione
collettiva, ma non la vincolano, lasciandola dunque libera di prevedere tempi di
maturazione del diritto alla promozione anche superiore rispetto alla previsione
dell’art. 2103.
► mobilità verticale in pejus:
formulazione originaria dell’art. 2103: non prevedeva espressamente una disciplina
delle mansioni inferiori, ma il divieto di ricorrervi era implicito nell’ultimo comma
dello stesso articolo quando si affermava la nullità di qualunque patto contrario
rispetto a quanto disciplinato. e dal momento in cui veniva disciplinata l’assegnazione
di mansioni per cui il lavoratore era stato assunto, di mansioni equivalenti e di
mansioni superiori, ben si comprende come l’adibizione a mansioni inferiori in quanto
non prevista fosse ritenuta implicitamente vietata. in realtà però un divieto del genere
risultava essere eccessivamente rigido, e per questo intervennero la giurisprudenza e il
legislatore: la giurisprudenza introdusse la possibilità di ricorrere al c.d. patto di
demansionamento: accordo tra le parti per cui il lavoratore viene adibito a mansioni
inferiori solo a condizione che questo rappresenti per lui un’obiettiva esigenza o
convenienza; il legislatore intervenne invece a disciplinare tre ipotesi tassative in cui il
ricorso all’adibizione a mansioni inferiori era legittimo: per evitare un licenziamento
collettivo, nel caso di donna in stato di gravidanza e nel caso di lavoratore con
sopravvenuta inabilità psico-fisica
nuova formulazione dell’art. 2103: l’adibizione a mansioni inferiori viene declinata in
due accezioni:
o esercizio dello jus variandi del datore di lavoro:
adibizione a mansioni inferiori = il lavoratore viene adibito a mansioni appartenenti
ad un livello di inquadramento inferiore purchè rientrante nella medesima categoria
legale: è possibile ricorrervi nel caso di modifica dell’assetto organizzativo
dell’azienda che incida sulla posizione del lavoratore e nelle altre ipotesi previste dai
contratti collettivi; è previsto, quando necessario, l’assolvimento dell’obbligo
formativo, per il quale si ha il dubbio sul soggetto sul quale gravi e il cui
inadempimento, è precisato, non determina la nullità dell’adibizione a mansioni
inferiori.
sono previste inoltre una serie di tutele, quali: la comunicazione per iscritto
dell’assegnazione a pena di nullità (ad substantiam) e la conservazione del livello di
inquadramento e del trattamento retributivo – fatta eccezione per le indennità
previste per l’esecuzione di specifiche mansioni, che verranno meno
o patto di demansionamento: il legislatore recepisce un orientamento
giurisprudenziale che si era formato nel vigore della formulazione originaria dell’art.
2103, prevedendo che vi si può ricorrere per tre motivi tassativamente indicati nel
medesimo articolo: interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro,
acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita.
tramite il patto di demansionamento, al contrario di quanto avviene nel caso di
esercizio dello jus variandi del datore di lavoro, è possibile modificare, oltre che la
mansione e il livello di inquadramento, anche la categoria legale e il livello di
retribuzione. per questo motivo sono inserite una serie di tutele a favore del
lavoratore, quali: la stipulazione dell’accordo nelle sedi protette (davanti al giudice,
ai sindacati, alla Direzione territoriale del lavoro o innanzi alla commissione di
certificazione dei contratti di lavoro) e la possibilità, per il lavoratore, di farsi
assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del
lavoro.
obbligo di collaborazione, dedotto dall’art. 2094: “è prestatore di lavoro subordinato chi si
obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. tale obbligo
viene in realtà svalutato dalla dottrina tradizionale nel timore che possa portare ad una
comunione di scopo tra datore di lavoro e lavoratore subordinato che risulterebbe,
ovviamente, incompatibile con la natura di contratto a prestazioni corrispettive quale è il
contratto di lavoro; altro orientamento, al contrario, oltre ad affermare che dall’obbligo di
collaborazione non discende una comunione di scopo, sostiene che sia un obbligo importante
in quanto implica una funzione organizzativa che consente al datore di lavoro, coordinando
i diversi apporti lavorativi dei suoi lavoratori, di indirizzare le varie prestazioni ai risultati
produttivi dell’impresa (che restano comunque un elemento esterno al contratto)
obbligo di diligenza e osservanza, dedotto dall’art. 2104: “il prestatore di lavoro deve usare la
diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da
quello superiore della produzione nazionale. deve inoltre osservare le disposizioni per
l’esercizio e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di
questi dai quali gerarchicamente dipende”
o diligenza, richiesta da:
natura della prestazione dovuta: in linea con l’art. 1176 che richiede di eseguire la
prestazione con la diligenza del buon padre di famiglia o con la diligenza richiesta
dalla natura dell’attività = la natura della prestazione parametra la diligenza richiesta
al lavoratore alla qualità e alla professionalità richiesti dalla prestazione stessa
dall’interesse dell’impresa: parametra la diligenza richiesta al lavoratore all’esattezza
dell’adempimento con riferimento agli obiettivi aziendali, comunque esterni al
contratto di lavoro
dall’interesse superiore della produzione nazionale: da ritenere tacitamente abrogato a
seguito dell’abrogazione dell’ordinamento corporativo
o osservanza: come si legge direttamente dall’articolo, richiede di obbedire a tutte le
disposizioni concernenti l’esecuzione e la disciplina del lavoro
obbligo di fedeltà, dedotto dall’art. 2105: “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per
conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
l’organizzazione e i metodi di produzione dell’impresa o farne uso in modo da poter recare
ad essa pregiudizio”. sono previsti, dunque, due obblighi:
1) divieto di concorrenza: sussiste finchè dura il rapporto di lavoro salvo che le parti non
abbiano stipulato un patto di non concorrenza ex art. 2125 per il periodo successivo alla
cessazione del rapporto di lavoro. tale patto è legittimo solo se rispetta tre condizioni:
1. deve risultare da atto scritto
2. deve essere ristretto entro archi temporali e spaziali ben determinati
3. deve essere riconosciuto al lavoratore subordinato un giusto compenso
2) obbligo di riservatezza: sussiste anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro e
proprio per questo, secondo l’opinione prevalente, non riguarda qualunque informazione
aziendale, ma solo quelle che siano coperte da segreto o che abbiano un contenuto
riservato.
DIRITTI DEL LAVORATORE DI CONTENUTO ECONOMICO
diritto alla retribuzione, dedotto dall’art. 2094: “è prestatore di lavoro subordinato chi si
obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. si tratta di un
diritto specifico, nonché il primo e più importante del lavoratore e allo stesso tempo
rappresenta l’obbligo corrispondente e sinallagmatico che grava sul datore di lavoro proprio
in forza della stipulazione del contratto di lavoro.
il riferimento principale, peraltro di rango costituzionale, alla retribuzione, è presente
nell’art. 36 cost., in riferimento al principio della giusta retribuzione e dunque alla sua
proporzionalità e sufficienza, per il quale è importante specificare che fa riferimento al
lavoratore in generale senza ulteriori attributi. per questo, unitamente all’interpretazione
dell’art. 35 cost. che afferma che la repubblica tutela il lavoro in ogni sua forma e
manifestazione, si pensa che il principio di proporzionalità e sufficienza riguardi la
retribuzione di ogni lavoratore in ogni forma di lavoro; ma non è cosi: l’opinione dominante
in dottrina e giurisprudenza sostiene che l’art. 36 cost. faccia riferimento solo al lavoro
subordinato.
secondo la dottrina, inoltre, il principio della giusta retribuzione previsto dall’art. 36 cost. e
costituito dalla proporzionalità e dalla sufficienza della stessa, sancisce due obbligazioni
diverse e contrapposte: la prima è considerata obbligazione di tipo corrispettivo, che
parametra la retribuzione alla qualità del lavoro – intesa come professionalità – e alla
quantità di lavoro eseguita; la seconda è considerata, invece, obbligazione di tipo sociale, con
la funzione di temperare il primo parametro.
in aggiunta a tutto questo, la giurisprudenza e la dottrina ormai consolidate affermano che
l’art. 36 cost. sia una norma immediatamente precettiva, applicabile e che dunque non abbia
bisogno di alcuna normativa ordinaria di attuazione.
la giurisprudenza, al fine di rendere concreto il principio della giusta retribuzione, ha
elaborato la determinazione giudiziale della retribuzione derivandolo dall’interpretazione
combinata degli artt. 36 cost. e 2099 cc.: essendo l’art. 36 cost. una norma immediatamente
precettiva, si ritiene preveda implicitamente la nullità di qualunque clausola che preveda una
retribuzione non proporzionata e non sufficiente per violazione di una norma imperativa,
per altro di rango costituzionale; in aggiunta a questo l’art. 2099, 2° comma prevede che in
mancanza di norme corporative e di accordo tra le parti, la retribuzione del lavoratore
subordinato debba essere stabilita dal giudice e, la giurisprudenza, aggiunge anche in caso
di accordo nullo. in tutti questi casi, in cui quindi vi sia una clausola nulla, vi è la necessità di
integrazione da parte del giudice che, appunto, determina il quantum retributivo.
ma come può, il giudice, stabilire quale sia la retribuzione proporzionata e sufficiente di ogni
lavoratore? ricorrendo alla determinazione dei contratti collettivi, che classificano i lavoratori
in base alla professionalità attribuendo a ciascuno un diverso livello retributivo. ma il
contratto collettivo, ricordiamo, a causa dell’inattuazione dei commi 2 e ss. dell’art. 39 cost. in
materia, appunto, di contratto collettivo di lavoro, non è applicabile a chi non sia iscritto ad
un’organizzazione sindacale. in tutti questi casi, infatti, si fa riferimento a una combinazione
degli artt. 36 cost. e 2099 cc.
forme di retribuzione, art. 2099 commi 1, 3:
a) retribuzione a tempo: è il tipo di retribuzione principale e più diffusa che ha come unità di
misura il tempo (più si lavora più si viene retribuiti). all’interno di questa categoria, una volta
vi era la distinzione tra retribuzione operaia, denominata salario, e retribuzione impiegatizia,
denominata stipendio, in quanto ci si basava sul pagamento giornaliero degli operai e quindicinale
o mensile degli impiegati. ad oggi, è evidente, tale distinzione non esiste più a seguito
dell’introduzione del meccanismo dell’inquadramento unico
b) retribuzione a cottimo: forma di retribuzione importante, ma sicuramente secondaria in
cui l’unità di misura è il numero di prodotti che il lavoratore realizza. in realtà, però unità
di misura di questo tipo di retribuzione, se pur indirettamente, è sempre il tempo, inteso
come il tempo che il lavoratore impiega per produrre i prodotti di cui si parlava all’inizio.
infatti, il cottimo richiede il rispetto di determinati ritmi di lavoro; per essere ben
retribuito, dunque, il lavoratore dovrà rispettare il ritmo di lavoro previsto dall’impresa.
questo è il motivo per cui in alcune ipotesi la retribuzione a cottimo è vietata, mentre in
altre è obbligatoria: è vietata nei contratti di natura formativa (contratto di apprendistato)
ed è obbligatoria nei contratti in cui il lavoratore è addetto ad una catena di montaggio.
all’interno della retribuzione a cottimo possiamo effettuare alcune distinzioni:
1) cottimo pieno e cottimo misto: nel primo caso la retribuzione è determinata a cottimo,
mentre nel secondo una parte è determinata a tempo e la restante a cottimo
2) cottimo individuale e cottimo collettivo: nel primo caso è preso in considerazione il
risultato individuale, mentre nel secondo è preso il risultato collettivo (squadra)
c) retribuzione corrisposta, in tutto o in parte, con la provvigione, la partecipazione agli utili
e la partecipazione a prodotti o il pagamento in natura:
provvigione: forma di retribuzione tipica del lavoro autonomo in cui il lavoratore tratta
affari per conto del datore di lavoro (contratto di agenzia); può essere usato anche nel
lavoro subordinato ove il prestatore di lavoro deve trattare affari per conto del datore di
lavoro (contratti del commesso)
partecipazione agli utili: l’unità di misura è la percentuale sugli utili prodotto
dall’impresa; non determina una comunione di scopi e dunque un contratto associativo,
ma resta un contratto a prestazioni corrispettive
partecipazione a prodotti o pagamento in natura: forma di retribuzione assai poco
diffusa se non in alcuni settori quali pesca e agricoltura.
componenti della retribuzione, determinate dalla contrattazione collettiva:
componenti fisse:
o paga base: minimo retributivo riconosciuto al lavoratore in forza dell’inquadramento
o scatti di anzianità: riconosciute al dipendente dopo un totale di anni di permanenza
presso lo stesso datore di lavoro
o indennità di contingenza: adegua la retribuzione al costo della vita sulla base di vari
indici: si è passati dal precedere come riferimento il tasso di inflazione dell’ISTAT a
prendere come riferimento l’IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello
europeo); tale indice tuttavia è visto con sospetto in quanto non tiene conto delle spese
effettuate per i beni energetici, che sono quelli che influenzano maggiormente il tasso di
inflazione.
componenti variabili:
o mensilità aggiuntive: tredicesima e quattordicesima
o premi di produzione: corrisposti al lavoratore in ragione di risultati produttivi
o indennità di vario tipo
o super-minimo individuale: compenso aggiuntivo riconosciuto al lavoratore rispetto
alla paga base. ci si chiede se sia in misura fissa, e dunque corrisposto anche a seguito
dell’aumento della retribuzione o se venga riassorbito dalla stessa in seguito al suo
aumento; la giurisprudenza è intervenuta affermando che, salvo diversa decisione delle
parti, il super-minimo individuale viene riassorbito dall’aumento retributivo.
diritto al trattamento di fine rapporto, dedotto dall’art. 2120 novellato nel 1982 in sostituzione
della vecchia indennità per anzianità che aveva già sostituito l’indennità per licenziamento. è una
somma di denaro che deve essere corrisposta al lavoratore in qualunque caso di cessazione
del rapporto di lavoro (licenziamento, dimissioni, pensionamento, ecc).
si calcola sommando, per ogni anno del rapporto di lavoro, la retribuzione dovuta nel
medesimo anno 13,5 che rappresenta la media delle 13-14 mensilità di norma previste dal
contratto collettivo; nel caso di anno non lavorato interamente la quota retributiva dell’anno
cui si fa riferimento deve essere proporzionalmente diminuita; nel caso di frazioni di mese
saranno considerate come interi se pari o superiori ai 15 giorni.
NB il tfr è un accantonamento virtuale. la giurisprudenza, infatti, afferma che non esiste,
accanto all’accantonamento, un effettivo diritto del lavoratore a recepirlo, se non alla
cessazione del rapporto di lavoro, salvo il ricorso di alcuni presupposti e il rispetto di alcuni
limiti. l’anticipazione del tfr, infatti:
può essere richiesta dal lavoratore che abbia maturato un’anzianità di servizio di almeno
8 anni
può essere richiesta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro
può essere richiesta nella misura massima del 70% del tfr maturato fino al momento della
richiesta
non può essere data se non nei limiti del 10% degli aventi diritto e comunque nel limite
del 4% di tutti i dipendenti dell’impresa
la richiesta deve essere motivata da una delle causali previste espressamente dalla legge:
l’art. 2120 prevede causali quali spese mediche per terapie o interventi straordinari accertati da
strutture pubbliche competenti e acquisto della prima casa per sé o per i figli, documentato da
atto notarile (per quest’ultimo punto la Corte Costituzionale è intervenuta per chiarire che sono
sufficienti anche il contratto preliminare o qualsiasi altro documento che attesti un vincolo,
anche futuro, di acquisto)
le disposizioni speciali prevedono causali quali spese durante congedi per assistenza ai figli e
spese durante i congedi per formazione.
nozione di retribuzione utile ai fini del calcolo del tfr
il 2° comma dell’art. 2120 fa riferimento alle somme che siano state corrisposte in
dipendenza dal rapporto di lavoro e a titolo non occasionale, formula che secondo
l’opinione diffusa deve essere letta in modo combinato. infatti, se cosi non fosse, qualificare
una somma come somma corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro consentirebbe di
ritenere tale anche una somma che sia stata semplicemente occasionata dal rapporto di
lavoro; ma una somma tale, secondo il 1° comma del medesimo articolo (“retribuzione
dovuta”), non dovrebbe essere calcolata ai fini del computo del tfr. per questo motivo
bisogna considerare anche la seconda parte della formula, in riferimento alla non
occasionalità del titolo, che si riferisce non all’erogazione monetaria (retribuzione corrisposta
occasionalmente), bensì al titolo dell’erogazione stessa (retribuzione non corrisposta a titolo
occasionale, ma continuativo).
infine, gli ultimi due commi dell’art. 2120: il 3° regola le ipotesi tassative in cui in caso di
sospensione del rapporto lavorativo viene comunque riconosciuto, ai fini del calcolo del tfr,
una retribuzione figurativa (1) sospensione per infortunio, malattia o gravidanza 2)
sospensione per cassa integrazione); il 4° e il 5° regolano i meccanismi di difesa del tfr e
degli accantonamenti annuali dal tasso di inflazione (la somma annualmente accantonata
deve essere annualmente rivalutata nella misura fissa dell’1,5% e in una misura variabile pari
al 75% del tasso di inflazione accertato dall’ISTAT).
indennità per causa di morte
l’art. 2122 si preoccupa di regolare gli esiti dell’indennità sostitutiva del preavviso e il tfr:
entrambe devono essere riconosciute ai superstiti del defunto, nelle persone della moglie, dei
figli e, se conviventi, dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo.
il 3° comma afferma che, qualora mancassero i superstiti, l’indennità deve essere devoluta in
base alle disposizioni della successione legittima; ma la Corte Costituzionale è intervenuta e
ha dichiarato il comma parzialmente incostituzionale nella parte in cui non consente al
lavoratore di disporre del tfr tramite il testamento. è stato quindi stabilito che, in caso di
mancanza di superstiti si fa riferimento al testamento e, in mancanza di questo, alle
disposizioni della successione legittima.
la misura riconosciuta a ciascun soggetto, però, viene regolata dall’articolo in questione in
modo estremamente superficiale: “se non vi è accordo tra i superstiti la somma deve essere
distribuita secondo il bisogno di ciascuno”.
diritto alla posizione contributiva: posizione giuridica produttiva di effetti giuridici di tipo
economico. corrisponde infatti all’obbligo sorgente in capo al datore di lavoro in sede di
stipulazione di contratto, di versare all’INPS il contributo previdenziale, calcolato in
percentuale sulla retribuzione lorda del lavoratore
diritto al trattamento economico di opere dell’ingegno e invenzioni, per le quali occorre
effettuare una distinzione:
o invenzioni di servizio: realizzate dal lavoratore subordinato nell’esecuzione di una
prestazione di lavoro che ha ad oggetto l’attività di invenzione. per questo motivo il
lavoratore sarà si l’autore dell’opera, ma non ha diritto ad alcun compenso aggiunto in
quanto la retribuzione era diretta proprio a compensare quell’attività inventiva
o invenzioni aziendali: realizzate dal lavoratore subordinato nell’esecuzione di una
prestazione di lavoro che non ha ad oggetto l’attività di invenzione. ed è necessaria
un’ulteriore distinzione:
invenzioni effettuate nell’esecuzione della prestazione lavorativa: i diritti di
sfruttamento economico dell’opera spettano al datore di lavoro, mentre al lavoratore un
equo indennizzo
invenzione semplicemente occasionata dal rapporto di lavoro che, pur riguardando il
campo di attività dell’azienda, viene compiuta al di fuori della prestazione lavorativa
prevista dal contratto: i diritti di sfruttamento economico dell’opera spettano al
lavoratore, mentre al datore di lavoro il diritto di prelazione: diritto di sfruttamento
economico dell’opera ad una somma che tiene conto degli eventuali aiuti che il datore
di lavoro ha fornito al lavoratore per le invenzioni.
DIRITTI PERSONALI DEL LAVORATORE SUBORDINATO
premessa
i diritti personali del lavoratore non hanno una disciplina organica nel codice civile, ma trovano
riconoscimento in diverse disposizioni sia di rango costituzionale che ordinario: nel primo
caso possiamo far riferimento agli artt. 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 3 (uguaglianza), 4
(diritto al lavoro), 32 (diritto alla salute), 35 (tutela del lavoro), 36 (diritto alla retribuzione, al
riposo settimanale e alle ferie), 37 (diritti della donna lavoratrice) e 41 (iniziativa economica
privata); nel secondo caso citiamo gli artt. 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) e 2103
(modifica unilaterale delle mansioni) del codice civile e gli artt. 1 (libertà di opinione), 8 (divieto
di indagini personali) e 15 (divieto di atti discriminatori) dello statuto del lavoratore.
i diritti personali del lavoratore prescindono dal contenuto economico della prestazione in
quanto vengono riconosciuti al lavoratore in quanto persona, al fine di tutelarlo. questa
specificazione è importante, soprattutto rispetto a qualunque altro contratto di scambio in cui
il fulcro è l’avere e non la persona dei contraenti.
la tutela della persona del lavoratore si può classificare, a fini meramente descrittivi in quanto
non esiste, in realtà, un’elencazione legale, in questo modo:
diritti di libertà, che comprendono:
1) diritto di svolgere le mansioni: come detto già precedentemente, secondo la dottrina
classica, nell’art. 2094, che definisce il lavoratore subordinato, l’esecuzione della
prestazione e dunque lo svolgimento delle mansioni, non è considerato un diritto, quanto
più l’obbligo principale del lavoratore in forza della stipulazione del contratto. di altro
orientamento è invece la giurisprudenza, che analizzando l’art. 2103 afferma che dal
momento in cui il divieto all’adibizione del lavoratore a mansioni superiori vige al fine di
evitare una lesione della sua professionalità, a maggior ragione deve essere considerata
lesione della professionalità del lavoratore l’inattività; ed è proprio da questa
considerazione che nasce l’affermazione che l’esecuzione della prestazione e dunque lo
svolgimento delle mansioni sia un diritto. e in realtà tale impostazione sembra essere
compatibile con gli artt. 1206 e 1207 cc che disciplinano la mora credendi: situazione in
cui il creditore (datore di lavoro) non coopera con il debitore (lavoratore subordinato) per
permettergli l’esecuzione della prestazione; quando il debitore mette in mora il creditore,
il primo ha diritto al risarcimento dei danni derivanti dal rifiuto della prestazione da parte
del creditore
2) diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero: riconosciuto costituzionalmente, nei
confronti dei cittadini, dall’art. 21, è disciplinato, per la più particolare categoria dei
lavoratori, dall’art. 1 dello statuto dei lavoratori. quest’ultimo non solo regola il diritto di
manifestare il proprio pensiero, ma di manifestarlo liberamente nei luoghi di lavoro
3) diritto di riservatezza: disciplinato dall’art. 8 dello statuto dei lavoratori come divieto di
indagine sulle opinioni. in particolare viene vietato al datore di lavoro e a terzi da lui
incaricati di indagare sulle opinioni sindacali, politiche, personali o su qualunque altro
fatto non rilevante ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore ai
fini dell’assunzione o durante il rapporto di lavoro.
vi è però un’eccezione, costituita dalle organizzazioni di tendenza: organizzazioni basate
su particolari credenze sindacali, politiche o religiose
diritto all’integrità psico-fisica: riconosciuta dall’art. 2087 cc, è affiancata da una disciplina
specialistica molto complessa*. in particolare, l’art. 2087 afferma che l’imprenditore è tenuto
ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo le particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro. vi sono dunque tre parametri sui quali si deve basare l’obbligo del
datore di lavoro all’integrità psico-fisica del lavoratore:
particolarità del lavoro, basata sullo specifico settore dell’impresa
esperienza, basata su ciò che è accaduto nel passato
tecnica, riferita alle varie conoscenze scientifiche e tecnologiche inerenti il settore
dell’impresa.
secondo un’opinione diffusa, dalla violazione dell’art. 2087 discende una responsabilità di
tipo contrattuale. l’articolo, infatti, integra i doveri del datore di lavoro secondo lo schema
delineato dall’art. 1374 cc: il contratto obbliga le parti non solo a quanto stabilito dal contratto
ma anche a quanto stabilito dalla legge che, in questo caso, è lo stesso art. 2087.
dalla responsabilità contrattuale del datore di lavoro deriva la possibilità, per il lavoratore, di
avvalersi dell’eccezione di adempimento ex art. 1460 cc: nei contratti a prestazioni
corrispettive, quando una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può rifiutarsi di
eseguire la propria prestazione.
*la disciplina che affianca l’art. 2087 in tema di diritto all’integrità psico-fisica è sintetizzabile
in due riferimenti:
o testo unico sulla sicurezza sul lavoro, che garantisce la prevenzione dei pericoli per la
salute del lavoratore e il coinvolgimento del lavoratore nella realizzazione della sicurezza
nei luoghi di lavoro
o disciplina della malattia e degli infortuni professionali (dPR 1124/1985 e d.lgs. 38/2000),
che prevede il principio dell’automaticità della prestazione: il lavoratore subordinato ha
diritto alla prestazione previdenziale dell’INAIL anche se il datore di lavoro abbia omesso
il versamento dei contributi previdenziali.
in particolare, quando si parla di integrità psichica, si può far riferimento al mobbing, di
creazione giurisprudenziale: insieme di comportamenti reiterati in un lungo arco temporale
che vengono posti in essere con l’intenzione di perseguitare un determinato lavoratore,
emarginarlo e, in alcuni casi, di costringerlo alla rassegna delle proprie dimissioni. tale
reato prevede tre requisiti:
1) intenzione
2) reiterazione in un lungo arco temporale
3) danno al lavoratore.
il danno all’integrità psico-fisica è suscettibile di risarcimento sia come danno patrimoniale
che come danno non patrimoniale: nel primo caso il risarcimento sarà per le spese mediche
sostenute o per il mancato guadagno (causa infortunio); nel secondo caso il discorso è più
complesso. il danno non patrimoniale è disciplinato dall’art. 2059 cc che prevede che possa
essere risarcito solo nelle ipotesi stabilite dalla legge. per un lungo tempo la giurisprudenza
considerava solo un’unica ipotesi: il danno morale soggettivo ex art. 185 cp (sofferenza di
colui che abbia subito il danno); successivamente, invece, ha ampliato oltremodo la categoria
sostenendo che dal momento in cui era risarcibile il danno non patrimoniale nelle ipotesi
previste dalla legge, a maggior ragione lo sarà nelle ipotesi in cui il bene leso è tutelato
dalla costituzione. per questo sono stati individuati come danni non patrimoniali:
o danno biologico: danno derivante dalla lesione dell’integrità psico-fisica che sia
medicalmente accertabile e che può tradursi in un’invalidità permanente o temporanea
o danno esistenziale: alterazione delle abitudini di vita del soggetto che viene indotto, in
forza della condotta lesiva, ad alterare le scelte che normalmente avrebbe fatto.
la giurisprudenza, però, ha fatto un passo indietro a seguito di una sentenza della
cassazione del 2008: la categoria del danno non patrimoniale, a differenza del danno
patrimoniale, è una categoria tipica. esiste quindi un unico danno patrimoniale di cui il
danno biologico o esistenziale potranno essere, al limite, delle specificazioni e non delle
fattispecie autonome e distinte
diritti connessi alla tutela contro le discriminazioni: non esiste un’unica norma di
riferimento, ma le fonti sono molteplici - tra queste troviamo la l. 135/1990 sulla
discriminazione dei lavoratori sieropositivi, il d.lgs. 286/1998 cioè il testo unico
sull’immigrazione, il d.lgs. 215 e 216/2003 in materia di discriminazione diretta e indiretta* e
il d.lgs. 198/2006 in tema di pari opportunità tra uomo e donne. nonostante le molteplici
fonti nessuna di queste sancisce un principio generale di non discriminazione
(discriminazione vietata sempre e comunque), che viene invece intesa come un
comportamento collegato ad una determinata causale discriminatoria tipizzata (prevista
dalla legge): costituisce discriminazione quella fatta a causa dell’orientamento sessuale, ma
non quella sulla fisicità di un soggetto. di conseguenza, potremo dire che non esiste neanche
un principio che sancisca la parità di trattamento tra lavoratori, per cui un lavoratore
subordinato può pretendere dal datore di lavoro la garanzia dei minimi di trattamento
normativo e salariale imposti dalla legge e dal contratto collettivo, ma non potrà pretendere
che gli vengano riconosciuti gli stessi trattamenti normativi e retributivi riconosciuti a un
altro lavoratore qualora fossero superiori ai minimi imposti. ed è proprio questo il motivo
per cui il datore di lavoro può riconoscere ad un lavoratore il super-minimo individuale
senza per questo essere costretto a concederlo a tutti gli altri.
*d.lgs 215 e 216/2003 in materia di discriminazione diretta e indiretta:
o discriminazione diretta: comportamento per cui una persona, in ragione di determinate
causali tipizzate dalla legge, venga trattata in modo diverso da come sia stata o da come
sarebbe stata trattata un’altra persona nella situazione analoga e priva della causale
discriminatoria
o discriminazione indiretta: comportamento che, pur se apparentemente neutro, è tale da far
si che una persona, in ragione di una causale discriminatoria tipizzata dalla legge, venga
trattata in modo diverso da come sia stata o da come sarebbe stata trattata un’altra persona
nella situazione analoga e priva della causale discriminatoria
diritti connessi alla gestione del tempo nell’esecuzione della prestazione lavorativa, tra i
quali troviamo il diritto all’orario di lavoro e il diritto alle ferie. inizialmente regolati dagli
artt. 2107 e 2108 cc e da una disciplina specialistica che nel tempo era stata fortemente
integrata dalla disciplina collettiva, successivamente tale disciplina specialistica fu abrogata
in gran parte dal d.lgs. 66/2003 che fissa principi di carattere generale e contiene ampie e
significative deleghe alla contrattazione collettiva affinchè integri la disciplina di legge.
1) diritto all’orario di lavoro: l’art. 36 cost. delega alla legge la determinazione della giornata
massima lavorativa, per cui il decreto che regola l’orario di lavoro avrebbe dovuto
accogliere tale delega che, apparentemente *, ha raccolto solo in parte. il d.lgs. 66/2003,
infatti, non ha determinato la durata massima della giornata lavorativa, ma si è limitato a
regolare l’orario settimanale: orario settimanale normale di 40h e orario settimanale
massimo di 48h. si tratta, tuttavia, di c.d. limiti medi:
si riferiscono alla durata media della prestazione lavorativa nel corso della settimana
calcolata su un arco temporale di 12 mesi nell’orario normale e di 4 mesi nell’orario
settimanale massimo di lavoro
non individuano delle durate fisse della settimana lavorativa, che possono variare a
seconda dei casi (orario plurisettimanale).
*secondo un’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza il decreto in questione è
comunque da considerare coerente e conforme alla costituzione in quanto pur non
regolando direttamente la durata massima della giornata lavorativa, questa è ricavabile
dalla disciplina del riposo giornaliero. secondo il d.lgs. 66/2003 il riposo settimanale deve
essere di almeno 11h consecutive e quindi, essendo la giornata di 24, si deduce che la
durata massima della giornata lavorativa è di 13h.
cos’altro disciplina il d.lgs. 66/2003?
riposo settimanale: dichiarato come diritto irrinunciabile dall’art. 36 cost. deve essere
di almeno 24h consecutive, deve seguire le 11h del riposo giornaliero e deve essere
goduto preferibilmente di domenica
pausa: diritto del lavoratore quando l’orario di lavoro giornaliero supera le 6h
lavoro notturno, inserito accanto ad una serie di tutele di tipo preventivo e soggettivo:
o limiti preventivi:
il lavoratore notturno deve essere sottoposto a controlli sanitari sia prima che ne
corso dello svolgimento del lavoro
è fissata la durata massima giornaliera a 8h consecutive
o limiti soggettivi: divieto di adibizione di determinate categorie di lavoratori quali la
donna incinta, la madre nel primo anno di vita del figlio, ecc.
è considerato lavoro notturno il lavoro prestato in un periodo di almeno 7h che
ricomprenda l’intervallo dalla mezzanotte alle 5 del mattino; è lavoratore notturno colui
che esegue una prestazione di almeno 3h consecutive durante il periodo notturno e
colui che esegue la prestazione nel periodo notturno per almeno 80 giorni
lavoro straordinario: lavoro prestato oltre l’orario settimanale normale (40h).
al lavoratore “straordinario” viene riconosciuta una maggiorazione della retribuzione
o il riposo compensativo.
il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto.
nel caso in cui non vi sia una disciplina collettiva applicabile al rapporto di lavoro, il
ricorso al lavoro straordinario è legittimo se si fonda su un accordo tra le parti e
comunque nel limite delle 250h annue
2) diritto alle ferie, considerato irrinunciabile dall’art. 36 cost. il d.lgs. 66/2003 attribuisce al
lavoro subordinato il diritto a ferie pari a 4 settimane salvo la possibilità del contratto
collettivo di lavoro di introdurre disposizioni migliorative.
il periodo delle ferie è determinato dal datore di lavoro in base alle esigenze dell’impresa,
ma secondo un’opinione tradizionale deve tenere conto anche dei bisogni del lavoratore.
il lavoratore ha diritto, se lo richiede, a fruire di 2 settimane consecutive di ferie nell’anno
di maturazione; le restanti 2 devono essere comunque usufruite non oltre i 18 mesi
successivi all’anno di maturazione.
proprio perché diritto irrinunciabile secondo la costituzione, vi è il divieto di
monetizzazione del mancato godimento delle ferie salva la rimanenza alla cessazione del
rapporto di lavoro.
se nel periodo di ferie vi è malattia, queste vengono sospese e riprese a seguito della
guarigione. la giurisprudenza precisa che la malattia suscettibile di sospendere le ferie è
quella che sia reale e in grado di compromettere l’effettivo godimento delle ferie da parte
del lavoratore.
MODIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO: TRASFERIMENTO
D’AZIENDA
premessa
la modificazione del rapporto di lavoro può essere oggettiva o soggettiva: nel primo caso
determina un mutamento del contenuto del rapporto di lavoro; nel secondo caso determina il
mutamento di una delle parti contraenti. c’è inoltre da fare un’ulteriore specificazione:
la modificazione oggettiva del rapporto di lavoro è molto poco frequente perché vista con
sospetto dal legislatore. infatti, può portare ad una novazione del rapporto di lavoro che
comporta un danno per il lavoratore che vede compromessi i diritti connessi all’anzianità
del servizio. proprio per questo motivo le poche modificazioni oggettive sono regolate dalla
legge: mutamento delle mansioni, mutamento del luogo dell’esecuzione della prestazione
lavorativa e mutamento dell’orario di lavoro
la modificazione soggettiva del rapporto di lavoro è invece più usata, ma: mentre il
lavoratore, salva qualche eccezione prevista dal legislatore, non può cedere il contratto di
lavoro perché caratterizzato dall’intuitus personae, il datore di lavoro può cedere il contratto
di lavoro e trasferire il lavoratore ad altro datore di lavoro. quest’ultima ipotesi è prevista in
due istituti:
o artt. 1406 e ss, in materia di cessione: è previsto che ciascun contraente può cedere, con il
consenso dell’altro, il contratto
o art. 2112, in materia di trasferimento d’azienda: mutamento della titolarità del contratto di
lavoro che, a differenza della cessione, non richiede il consenso dell’altro contraente
(lavoratore subordinato); non è previsto il diritto di opposizione del lavoratore.
trasferimento d’azienda
è disciplinato dall’art. 2112 cc e dall’art. 46 della l. 928/1990.
art. 2112:
o comma 1: in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con il datore
cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. si tratta, dunque, di due
garanzie:
continuazione del rapporto di lavoro: NB non è una garanzia che può essere data per
scontata, in quanto se il trasferimento riguardasse l’intero complesso aziendale, ci si
troverebbe di fronte ai presupposti per l’intimazione al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo plurimo o per il licenziamento collettivo che questo comma rende
impossibile
conservazione di tutti i diritti inerenti al rapporto di lavoro: il lavoratore potrà
continuare a vantare nei confronti del cessionario il trattamento normativi e retributivi
che ha fonte nel contratto individuale nonché nel contratto collettivo* che fino al
momento del trasferimento il cedente aveva applicato.
cosa si intende per “diritti”? situazioni giuridiche soggettive perfette, per cui
l’opinione prevalente afferma che non possono essere incluse le aspettative di diritto
che sono una situazione giuridica, ma non perfetta e non integrante un diritto
o comma 2: prevede la responsabilità solidale tra cedente e cessionario rispetto ai crediti che
il lavoratore subordinato aveva al tempo del trasferimento. NB la responsabilità solidale
prescinde dalla conoscenza o dalla conoscibilità dei crediti rispetto al lavoratore; sono
previste delle ipotesi in cui il lavoratore può liberare il cedente dalla responsabilità
solidale.
alla responsabilità solidale per i crediti si affianca la responsabilità solidale per i debiti ex
art. 2560 che, al contrario dei precedenti, devono risultare dalle scritture contabili e
dunque presuppongono la loro conoscibilità nei confronti del cessionario
o *comma 3: regola la disciplina collettiva applicabile al rapporto di lavoro in caso di
trasferimento d’azienda. è previsto che il cessionario debba applicare, fino alla loro
scadenza, i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali applicati dal cedente salvo
che tali contratti vengano sostituiti da contratti collettivi di pari livello applicabili
all’impresa del cessionario.
nonostante l’apparente chiarezza della norma, vi sono due interpretazioni contrapposte:
1) l’opinione prevalente in giurisprudenza e dunque la più importante considera la
formula “contratti applicabili” come “contratti effettivamente applicati”. si afferma
dunque che la sostituzione dei contratti collettivi del cessionario rispetto a quelli del
cedente sia automatica sempre a condizione che i contratti siano di pari livello (contratto
nazionale sostituito da contratto nazionale, ecc)
2) c’è chi afferma che l’impostazione appena considerata non sia compatibile né con la
disciplina comunitaria del trasferimento d’azienda né con l’interpretazione consolidata
del primo comma. dunque la sostituzione del contratto collettivo del cessionario
rispetto a quelli del cedente non è automatica (devono essere applicati fino alla loro
scadenza) salvo che in seno alla procedura di consultazione sindacale e in seno
all’esame congiunto delle ragioni del trasferimento, non intervenga un accordo tra
cedente, cessionario e organizzazioni sindacali che preveda la sostituzione automatica
del contratto collettivo del cedente con quello del cessionario
o comma 4: il trasferimento d’azienda non è causa di licenziamento, ma non sospende
l’applicazione della disciplina di licenziamento; il lavoratore che abbia visto mutare
significativamente le condizioni lavorative a seguito del trasferimento d’azienda può, nei
tre mesi successivi, rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa ex art. 2119 e
ricevere l’indennità per giusta causa (indennità per mancato preavviso)
o comma 5: prevede due ipotesi di trasferimento:
1) trasferimento dell’intera azienda: l’articolo in questione definisce l’azienda come
l’attività economica organizzata con o senza scopo di lucro, che si differenzia dalla
nozione di azienda ex art. 2555: complesso di beni strumentali organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa; il trasferimento d’azienda viene definito
come il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata con o senza
scopo di lucro che consegua ad un contratto di compravendita, di usufrutto d’azienda,
di affitto d’azienda, fusione o comunque a qualunque atto caratterizzato dal mutamento
della titolarità nell’esecuzione dell’attività economica organizzata con o senza scopo di
lucro
2) trasferimento di una parte d’azienda: l’articolo in questione definisce la parte d’azienda
come l’articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda. ma ciò pone due problemi:
raffronto della nozione di parte d’azienda e ramo d’azienda: nella formula originaria
dell’art. 2112 il legislatore aveva disciplinato solo il trasferimento d’azienda, ma la
dottrina e la giurisprudenza avevano ritenuto che quella disciplina poteva applicarsi
anche al trasferimento del ramo d’azienda. ai fini dell’applicazione della disciplina
in questione il ramo d’azienda si dice caratterizzato da due elementi: autosufficienza
per stare sul mercato e autonomia del risultato produttivo.
secondo l’opinione prevalente l’attuale nozione di parte d’azienda coincide con la
nozione di ramo d’azienda; secondo altra opinione minoritaria ma comunque
autorevole, invece, la nozione di parte d’azienda è più ampia rispetto a quella di
ramo d’azienda perché questa può essere definita come articolazione funzionalmente
autonoma anche se manca uno o entrambi gli elementi che caratterizzano il ramo
d’azienda
preesistenza dell’articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda: l’articolo in
questione afferma che la parte d’azienda può essere identificata tale dal cedente e dal
cessionario anche al momento del trasferimento, formulazione che ha abrogato
l’inciso che richiedeva la preesistenza della parte d’azienda; nonostante questo
l’opinione prevalente e la giurisprudenza sono accordi nell’affermare, in linea con la
normativa comunitaria, che l’interpretazione deve comunque essere nel senso della
preesistenza della parte d’azienda al trasferimento
o comma 6: introduce norme di tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda con
contestuale esternalizzazione delle funzioni. il fenomeno dell’esternalizzazione delle
funzioni è meglio noto come outsourcing: per motivi organizzativi l’azienda esternalizza
determinate funzioni appaltandole ad una società esterna che si occuperà della loro
gestione. l’art. 2112 prevede che se il datore di lavoro decide di trasferire come parte
d’azienda il servizio mensa e contestualmente stipula un contratto d’appalto con il
cessionario per fargli svolgere il servizio di mensa, allora cedente e cessionario sono posti
ad un regime di solidarietà che impone loro la solidarietà sia nei trattamenti retributivi
che previdenziali nel limite dei due anni successivi alla cessione dell’appalto
art. 46 l. 428/1990: disciplina la procedura sindacale d’informazione e consultazione, che
hanno la funzione di coinvolgere il sindacato nel trasferimento d’azienda affinchè, fatte le
valutazioni sulle ragioni e sull’impatto sul lavoratore, possa trovare un accordo con cedente e
cessionario per assumere iniziative che eliminino o quantomeno diminuiscano gli impatto
negativi che il trasferimento potrebbe avere sul lavoratore.
la procedura in questione si compone di due fasi:
1. fase dell’informazione sindacale: cedente e cessionario, direttamente o tramite i sindacati
cui aderiscono, comunicano l’evento del trasferimento d’azienda attraverso
un’informativa. l’obbligo di informazione sindacale sorge quando il trasferimento
interessi l’azienda o parte d’azienda nella quale siano occupati più di 15 lavoratori (che
dunque vengono trasferiti).
destinatari:
rappresentanze sindacali unitarie
rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 dello statuto dei
lavoratori che operino nelle attività produttive interessate
organizzazioni sindacali che abbiano stipulato il contratto collettivo applicato
nell’unità produttiva interessata al trasferimento
contenuto:
data del trasferimento
ragioni del trasferimento
valutazione dell’impatto economico, giuridico e sociale sulla posizione del lavoratore
eventuali misure che cedente e cessionario intendono prendere nei confronti del
lavoratore trasferito
tempi: entro 25 giorni prima del raggiungimento dell’accordo definitivo o entro 20
giorni prima del raggiungimento di un’intesa vincolante
2. fase della consultazione sindacale: si apre solo se i sindacati che hanno ricevuto
l’informativa richiedono un esame congiunto entro 7 giorni dalla ricezione
dell’informativa sul trasferimento. a quel punto cedente e cessionario sono tenuti, nei 7
giorni successivi dalla richiesta, ad avviare l’esame congiunto. questo dovrà concludersi
entro 10 giorni e il legislatore lascia libere le parti di arrivare ad un accordo o meno. il
mancato raggiungimento dell’accordo, infatti, non ha alcuna ripercussione sul
trasferimento.
l’omissione di uno dei due obblighi (di informativa sindacale e di avviamento dell’esame
congiunto) è espressamente qualificata dallo stesso art. 46 l. 428/1990 come ipotesi di
condotta antisindacale: non significa che il trasferimento d’azienda è invalido, in quanto la
condotta incriminata riguarda solo il rapporto di lavoro; significa che il trasferimento
d’azienda è inefficace rispetto al rapporto di lavoro e che dunque non avrà luogo fin quando
l’omissione non sarà sanata.
trasferimento d’azienda in crisi
a seguito di diversi interventi di adattamento dell’attuale disciplina del trasferimento d’azienda
viene stabilito che, se in seno all’esame congiunto venga raggiunto un accordo sul
mantenimento anche parziale dell’occupazione, allora la disciplina dell’art. 2112 su
trasferimento d’azienda troverà applicazione solo e soltanto nei limiti stabiliti dall’accordo
quando si tratta di azienda in crisi.
l’azienda si ritiene in crisi quando: sia stato accertato lo stato di crisi a norma di legge, sia stata
disposta l’amministrazione straordinaria con continuazione dell’attività, sia stata aperta la
procedura del concordato preventivo e quando vi sia stata l’omologazione di un accordo di
ristrutturazione dei debiti.
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO: LICENZIAMENTO
INDIVIDUALE, DIMISSIONI, RISOLUZIONE CONSENSUALE E
LICENZIAMENTI COLLETTIVI
il licenziamento individuale, cosi come le dimissioni, sono espressione del potere di recesso
rispettivamente del datore di lavoro e del lavoratore la cui conseguenza è l’estinzione del
rapporto giuridico.
il potere di recesso è un potere comune a tutti i contratti di diritto comune, ma nell’ambito dei
contratti di lavoro riceve una disciplina particolare prevista dagli artt. 2118 e 2119 cc. in
particolare, la formulazione originaria della disciplina codicistica trattava il licenziamento e le
dimissioni in maniera paritaria; successivamente, invece, il legislatore si è reso conto che tra i
due istituti e dunque tra i contraenti esiste una differenza fondamentale: il lavoratore è un
soggetto contrattualmente debole. a seguito di questa consapevolezza sono stati fatti degli
interventi normativi proprio al fine di limitare il potere di recesso del datore di lavoro
lasciando invariato quello del lavoratore:
l. 604/1966: norme sui licenziamento individuali
art. 18 dello statuto dei lavoratori: tutela dei lavoratori in caso di licenziamento
l. 108/1990: disciplina il licenziamento discriminatorio
l. 92/2012: riforma Monti-Fornero, che colpisce trasversalmente tutta la disciplina dei
contratti individuali e, tra le previsioni più importanti, vi è la modifica dell’art. 18 dello
statuto dei lavoratori che è stato praticamente riscritto.
licenziamento individuale
art. 2118 cc, potere di recesso libero: disciplina il potere di recesso ad nutum stabilendo che
ciascuno dei contraenti può liberamente recedere dal contratto con il solo obbligo del
preavviso, senza dunque alcun vincolo per quanto riguarda la motivazione del recesso. in
alternativa all’obbligo di preavviso vi è la possibilità di corrispondere una somma di denaro
definita indennità sostitutiva del preavviso. la disciplina di quest’ultima è rimessa alla
contrattazione collettiva che fissa il periodo di preavviso e l’ammontare dell’indennità a
seconda dell’anzianità di servizio del lavoratore.
il licenziamento ad nutum inizialmente era un potere di recesso generalizzato che il datore di
lavoro poteva utilizzare in qualunque contratto; a seguito dell’evoluzione normativa, e in
particolare della l. 604/1966 e della l. 108/1990, il campo di applicazione del licenziamento ad
nutum è stato ristretto a casi residuali:
licenziamento del dirigente
licenziamento del lavoratore in prova
licenziamento di un lavoratore ultrasessantenne che abbia maturato il diritto alla pensione
licenziamento di lavoratori familiari
licenziamento di atleti
licenziamento di lavoratori domestici
licenziamento intimato ai sensi dell’art. 2110: quando si supera il periodo massimo di
comporto (tempo durante il quale, in caso di assenza per malattia o per infortunio, il
lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro). NB in questo caso però il
licenziamento non è svincolato da motivazione, come prevede il potere di recesso ad
nutum ex art. 2118, in quanto la motivazione è proprio il superamento del periodo
massimo di comporto
art. 2119 cc, recesso per giusta causa: ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato o prima della scadenza del termine del contratto
di lavoro subordinato a tempo determinato quando si verifica una causa che non consente la
prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro.
come vediamo nello stesso articolo non viene data una nozione di giusta causa, che viene
invece definita tramite gli effetti che provoca. secondo la dottrina rientrano nel concetto di
giusta causa tutti quei comportamenti del lavoratore subordinato tali da integrare un
inadempimento in senso tecnico degli obblighi su di lui gravanti in forza degli artt. 2104 e
2105 (obbligo di diligenza e obbligo di fedeltà); si afferma quindi che possa essere “giusta
causa” di recesso solo il comportamento inerente il rapporto di lavoro stesso. secondo altra
opinione, invece, rientrano nel concetto di giusta causa non solo i comportamenti che
integrano un inadempimento contrattuale in senso tecnico, ma anche i comportamenti
estranei al contratto che abbiano come caratteristica la produzione dell’effetto descritto
dall’art. 2119: impossibilità di prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro
l. 604/1966, che rappresenta il primo intervento normativo effettuato per limitare il potere
di recesso del datore di lavoro. il principio più importante previsto è il principio di
necessaria giustificazione del licenziamento: il datore di lavoro può esercitare il potere di
recesso nei confronti del lavoratore solo ove vi sia una giusta causa o un giustificato motivo
soggettivo od oggettivo.
o licenziamento per giustificato motivo soggettivo: il licenziamento è determinato da un
notevole inadempimento del lavoratore
o licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il licenziamento è determinato da
ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro o il regolare
funzionamento di essa.
anche se nell’articolo sono previste tre ragioni di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, genericamente si parla di ragioni oggettive in quanto la giurisprudenza ha
sempre considerato queste tre ragioni come una unitaria e mai autonome e distinte tra
loro. la stessa giurisprudenza per questo motivo sostiene che vi sia giustificato motivo
oggettivo quando vi sia:
un’effettiva ed economica modifica dell’organizzazione aziendale tale da determinare il
venir meno della posizione lavorativa del lavoratore licenziando es. l’installazione di un
impianto di sorveglianza fa venir meno la necessità della posizione lavorativa del guardiano
notturno e per questo il suo licenziamento sarà per giustificato motivo oggettivo
un nesso di causalità tra le scelte imprenditoriali e la soppressione della posizione del
lavoratore licenziando
impossibilità verificata di repechage: ricollocamento del lavoratore licenziando in
un’altra posizione aziendale per lo svolgimento di mansioni equivalenti o, in mancanza
di queste, di mansioni inferiori che il lavoratore può accettare in deroga alla disciplina
inderogabile dell’art. 2103 cc.
la l. 604/1966 ha disciplinato anche altri aspetti:
o intimazione del licenziamento, art. 2: la formulazione originaria prevedeva l’obbligo di
comunicazione scritta del licenziamento e l’obbligo di comunicazione scritta dei motivi
del licenziamento solo qualora il lavoratore ne avesse fatto richiesta. l’art. 2 è stato
successivamente novellato dalla l. 92/2012 che ha sostituito l’obbligo eventuale con un
obbligo di comunicazione scritta dei motivi del licenziamento contestuale alla
comunicazione scritta dello stesso licenziamento
o modalità di impugnazione del licenziamento, art. 6 novellato anche questo dalla l.
92/2012: introduce un doppio termine decadenziale:
termine stragiudiziale: entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento il
lavoratore può impugnarlo tramite lettera stragiudiziale
termine giudiziale: nei successivi 180 all’impugnazione il lavoratore deve proporre il
ricorso giudiziale, richiedere il tentativo di conciliazione o chiedere la costituzione
del collegio arbitrale
o tutela obbligatoria, art. 8: opera nel momento in cui il giudice accerta che il licenziamento è
privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo od oggettivo, a seguito della quale
il datore di lavoro viene condannato alla riassunzione del lavoratore o a corrispondergli
un’indennità compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità che può, in base all’anzianità di servizio,
essere elevata a 10 o a 14 mensilità. NB la riassunzione comporta la costituzione di un
nuovo rapporto di lavoro, ma non è obbligatoria; la corresponsione di un’indennità al
lavoratore è idonea a risolvere il contratto di lavoro subordinato
art. 18 statuto dei lavoratori: prevede una tutela reale che viene applicata anch’essa in caso di
licenziamento illegittimo ma che, al contrario di quella obbligatoria, non è idonea alla
risoluzione del contratto di lavoro subordinato.
il testo originario dell’art. in questione prevedeva che il giudice avrebbe dovuto ordinare la
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nonché condannare il datore di lavoro alla
corresponsione di un risarcimento danni al lavoratore subordinato la cui somma sarebbe stata pari
all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva
reintegrazione; a seguito della modifica e della completa riscrizione dell’art. 18 dello statuto
dei lavoratori ad opera della l. 92/2012, la tutela reale è stata sostituita con quattro diversi
regimi di tutela:
1) tutela reale con risarcimento danni in misura piena: il giudice ordina la reintegrazione del
lavoratore e condanna il datore di lavoro a risarcire il danno del lavoratore il cui
ammontare è pari all’ultima retribuzione globale dal giorno del licenziamento al giorno
dell’effettiva reintegrazione . come possiamo notare, però, questa tutela ricorda molto la
tutela reale originaria. qual è la differenza?
o è prevista la detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento danni = al
risarcimento danni viene sottratta la somma che il lavoratore ha eventualmente
percepito lavorando altrove durante il periodo di estromissione illegittima dall’azienda
e la somma residuale è quella che viene corrisposta al lavoratore come effettivo
risarcimento danni
o è prevista l’indennità sostitutiva di reintegrazione: il lavoratore, dopo che venga
ordinata la sua reintegrazione nell’azienda, può, entro 30 giorni dal deposito della
sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio se antecedente al
deposito, richiedere, in luogo della reintegrazione, il versamento di 15 mensilità, con la
conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro
o il campo di applicazione è estremamente ristretto: prima la tutela reale con risarcimento
danni in misura piena era applicabile a prescindere dalle dimensioni dell’impresa; con la
nuova disciplina è invece applicabile solo nelle ipotesi tassativamente previste dal
comma 1 dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori:
licenziamento discriminatorio
licenziamento di una donna in gravidanza
licenziamento di una donna nel primo anno del figlio
licenziamento per causa di matrimonio
licenziamento determinato da motivo illecito determinate
licenziamento negli altri casi di nullità previsti dalla legge
in tutti gli altri casi si applicano le restanti tre tutele di sotto elencate.
2) tutela reale con risarcimento danni in misura limitata, comma 4: il giudice ordina la
reintegrazione del lavoratore e condanna il datore di lavoro a risarcire il danno del
lavoratore il cui ammontare è pari all’ultima retribuzione globale di fatto nel limite massimo di
12 mensilità.
vi è una novità del campo di applicazione:
nel caso di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo deve
essere accertata l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento (al fine di poter
applicare la tutela reale con risarcimento danni in misura limitata)
nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere accertata la
manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento (al fine di poter
applicare la tutela reale con risarcimento danni in misura limitata); può essere anche
applicata nel caso di superamento del periodo massimo di comporto e nel caso di
sopravvenuta inabilità psico-fisica del lavoratore
nei casi non rientranti nel comma 1 dell’art. 18 e nei casi diversi da quelli previsti dal
comma 4 dello stesso articolo si applicano le restanti due tutele di sotto elencate.
3) tutela indennitaria in misura piena, comma 5: il giudice dichiara risolto il rapporto di
lavoro subordinato (come previsto dalla tutela obbligatoria) condannando il datore di
lavoro al risarcimento danni del lavoratore che ammonta all’ultima retribuzione globale di
fatto da un minimo di 12 mensilità ad un massimo 24 mesi.
il campo di applicazione è generalizzato.
4) tutela indennitaria in misura limitata: il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro
subordinato (come previsto dalla tutela obbligatoria) condannando il datore di lavoro al
risarcimento danni del lavoratore che ammonta all’ultima retribuzione globale di fatto da un
minimo di 6 mensilità ad un massimo 12 mesi.
al contrario del campo di applicazione generalizzato della tutela indennitaria in misura
piena, questo tipo di tutela è applicabile solo in tre ipotesi tassative:
inefficacia del licenziamento per violazione dell’obbligo di contestuale dichiarazione dei
motivi del licenziamento
violazione della procedura preventiva di comunicazione del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo introdotto dall’art. 7 l. 604/1966*
violazione della procedura disciplinare ex art. 7 dello statuto dei lavoratori
dell’intimazione al licenziamento disciplinare**.
*procedura preventiva di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: le imprese con un
minimo di 15 dipendenti hanno l’onere di dare preventiva comunicazione del licenziamento
alla Direzione territoriale del lavoro, inviando la comunicazione anche al lavoratore
interessato. nel comunicato devono essere indicate le ragioni del licenziamento e le misure di
outplacement che l’impresa intende prendere per favorire la ricollocazione del lavoratore sul
mercato del lavoro. a seguito della comunicazione la Direzione territoriale del lavoro deve
convocare le parti per un esame congiunto che deve concludersi entro 20 giorni dalla
convocazione e che può concludersi con esito positivo o negativo.
**licenziamento disciplinare: licenziamento imputabile ad un inadempimento in senso tecnico
da parte del lavoratore degli obblighi su di esso gravanti in forza degli artt. 2104 e 2105 (obbligo
di diligenza e obbligo di fedeltà).
secondo la dottrina classica questo tipo di licenziamento non è soggetto all’art. 7 dello statuto
dei lavoratori in tema di procedimento disciplinare e ciò per due motivi:
1) il potere disciplinare è un potere di carattere conservativo che il licenziamento non ha
2) l’art. 7 esclude dal novero delle sanzioni disciplinari quelle che possono comportare un
mutamento definitivo del rapporto di lavoro, che in questo caso sarebbe la cessazione a
seguito del licenziamento.
altro orientamento giurisprudenziale, invece afferma che essendo il licenziamento disciplinare
imputabile a un inadempimento in senso tecnico del lavoratore degli obblighi su di esso
gravanti in forza degli artt. 2104 e 2105 e derivando da questi due l’applicazione di sanzioni
disciplinari ex art. 2106, il licenziamento disciplinare può essere considerato una sanzione
disciplinare e dunque può essere applicato l’art. 7 dello statuto dei lavoratori.
tale ultima impostazione è stata riconosciuta dalla l. 92/2012.
dimissioni
art. 2118 cc, potere di recesso libero: disciplina il potere di recesso ad nutum stabilendo che
ciascuno dei contraenti può liberamente recedere dal contratto con il solo obbligo del
preavviso, senza dunque alcun vincolo per quanto riguarda la motivazione del recesso. in
alternativa all’obbligo di preavviso vi è la possibilità di corrispondere una somma di denaro
definita indennità sostitutiva del preavviso. la disciplina di quest’ultima è rimessa alla
contrattazione collettiva che fissa il periodo di preavviso e l’ammontare dell’indennità a
seconda dell’anzianità di servizio del lavoratore
art. 2119 cc, recesso per giusta causa: ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato o prima della scadenza del termine del contratto
di lavoro subordinato a tempo determinato quando si verifica una causa che non consente la
prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro.
risoluzione consensuale
è disciplinata dall’art. 1372 che prevede che il contratto può essere sciolto anche per mutuo
consenso.
tanto per la risoluzione consensuale quanto per le dimissioni e dunque, più in generale, per il
potere di recesso del lavoratore, il legislatore non ha previsto una limitazione al contrario di
quanto invece ha fatto con il potere di recesso del datore di lavoro. tuttavia, la l.92/2012 ha
comunque introdotto una procedura di convalida al fine di arginare i fenomeni delle dimissioni
in bianco (lettera di dimissione senza data fatta firmare al lavoratore al momento
dell’assunzione al fine di poter essere completata di data dal datore di lavoro e dunque resa
efficace nel momento in cui questo lo riterrà opportuno) e di risoluzioni consensuali in frode
alla legge: entro 30 giorni dalla comunicazione delle dimissioni del lavoratore o dalla data della
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il datore di lavoro ha l’onere di invitare il
lavoratore a convalidare le dimissioni o la risoluzione innanzi alla Direzione territoriale del
lavoro. la convalida può avvenire attraverso due alternative:
1. conferma del lavoratore dell’intenzione di dimettersi o di accettare la risoluzione
consensuale del rapporto di lavoro
2. sottoscrizione del lavoratore della ricevuta comunicazione con cui il datore di lavoro ha
comunicato agli uffici competenti la cessazione del rapporto di lavoro.
le dimissioni o la risoluzione consensuale divengono inefficaci nel momento in cui, a seguito
dell’invito da parte del datore di lavoro al lavoratore alla loro convalida, questo le revoca o non
ne sottoscrive la convalida.
licenziamento collettivo
è espressamente escluso dal campo di applicazione della l. 604/1966. fu proprio la loro
esclusione che indusse la giurisprudenza e la dottrina a cercare di delineare i contorni della
fattispecie del licenziamento collettivo per riduzione del personale distinguendola dal quella
del licenziamento plurimo per giustificato motivo oggettivo. nel tentativo di delinearne le
caratteristiche si basarono sugli accordi interconfederati del 1950 e del 1965 con cui veniva
disciplinato il licenziamento collettivo per riduzione del personale nel settore dell’industria.
fu proprio a seguito di questi accordi che la materia del licenziamento collettivo divenne
oggetto di interesse della normativa comunitaria che, a tal proposito, elaboro delle direttive
alla cui attuazione il legislatore italiano ha provveduto con l. 223/1991. tale legge individua due
fattispecie di licenziamento collettivo:
licenziamento per messa in mobilità dei lavoratori (art. 4): è il licenziamento che colpisce i
lavoratori che già in precedenza erano stati messi in cassa integrazione guadagni
straordinaria*; a differenza del licenziamento per riduzione di personale, questo prescinde
da requisiti numerici, spaziali o temporali, ma anche dalle dimensioni dell’impresa.
*cassa integrazione guadagni straordinaria: istituto consistente in una prestazione economica
erogata dall’INPS a favore dei lavoratori sospesi dall’obbligo di eseguire la prestazione
lavorativa o che lavorano in orario ridotto. la ratio dell’istituto è di aiutare le aziende che si
trovano in momentanea difficoltà sgravandole, in parte, dai costi della manodopera non
utilizzata
licenziamento per riduzione del personale (art. 24): è un licenziamento collettivo soggetto a
specifici requisiti causali, numerici, spaziali e temporali. in particolare è applicabile solo alle
imprese che abbiano almeno 15 dipendenti, in cui il licenziamento sia dovuto ad una
riduzione o trasformazione dell’attività o a cessazione di questa; è inoltre applicabile quando
vi sia l’intenzione di licenziare* almeno 5 dipendenti, entro 120 giorni, nell’ambito di una
stessa unità produttiva o di più unità produttive collocate nella stessa provincia.
*intenzione di licenziare = il licenziamento per riduzione del personale non è applicabile
sulla base di quanti dipendenti verranno effettivamente licenziati, ma di quanti dipendenti il
datore di lavoro intendeva licenziare all’inizio del procedimento; se nel corso di questo il
datore di lavoro decide di riassorbirne una parte, si potrà comunque procedere al
licenziamento collettivo e non ad una pluralità di licenziamenti individuali.
1. procedura di informazione e consultazione sindacale
nonostante le differenze delle due fattispecie di licenziamento, vi è un punto in comune: la
procedura di informazione e consultazione sindacale attraverso cui potrà essere intimato il
licenziamento. è idealmente divisa in tre fasi:
1. fase dell’informazione sindacale: il datore di lavoro, direttamente o tramite i sindacati cui
aderiscono, comunica l’evento del licenziamento attraverso un’informativa.
destinatari:
rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 dello statuto dei
lavoratori che operino nelle attività produttive interessate
rappresentanze sindacali unitarie
associazioni di categoria nell’ambito delle quali queste rappresentanze sono state
costituite
contenuto:
ragioni tecniche, produttive e organizzative del licenziamento
ragioni tecniche, produttive e organizzative per cui il personale che si intende licenziare
è in esubero
profili professionali dei lavoratori che risultano in esubero
misure di outplacement
in caso di omissione, incompletezza o non veridicità dell’informativa sarà dichiarata
l’illegittimità dell’intera procedura e dunque del licenziamento
2. fase della consultazione sindacale: si apre solo se i sindacati che hanno ricevuto
l’informativa richiedono un esame congiunto entro 7 giorni dalla ricezione dell’informativa
sul licenziamento. a quel punto il datore di lavoro è tenuto, nei 7 giorni successivi alla
richiesta, ad avviare l’esame congiunto. questo dovrà concludersi entro 45 giorni e il
legislatore lascia libere le parti di arrivare ad un accordo o meno.
la funzione della consultazione sindacale è di verificare la regolarità formale del
procedimento, individuare possibili misure alternative al licenziamento (quali il
riassorbimento intero o parziale del personale in esubero) e individuare i criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare.
dopo l’esame congiunto, a prescindere dall’esito, il datore di lavoro dovrà comunicare alla
Direzione territoriale del lavoro la conclusione di questa fase e, in caso di esito negativo e
dunque in caso di non raggiungimento dell’accordo, ci si avvierà alla terza fase
3. fase amministrativa con partecipazione della Direzione territoriale del lavoro: la Direzione
territoriale del lavoro convoca il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali per svolgere,
con la sua partecipazione, un ulteriore esame congiunto da concludersi entro 30 giorni.
anche in questo caso il legislatore lascia libere le parti di arrivare ad un accordo o meno.
specificazioni sull’accordo:
i termini di 45 e 30 giorni previsti per la fine degli esami congiunti sono dimezzati nel caso
in cui il numero dei lavoratori da licenziare fosse inferiore a 10
come detto precedentemente, durante gli esami congiunti della seconda e della terza fase, le
parti non sono obbligate ad arrivare ad un accordo; nonostante questo il legislatore ha
previsto una serie di misure convenienti sia per il datore di lavoro che per le organizzazioni
sindacali, al fine di favorire il raggiungimento di un accordo e in particolare:
o il datore di lavoro che raggiunga l’accordo accede ad una serie di sgravi in termini
economici e contributivi
o le organizzazioni sindacali che raggiungano l’accordo ottengono il riassorbimento del
personale licenziando e in particolare la derogabilità dell’art. 2103 in materia di divieto di
demansionamento del lavoratore piuttosto che la stipulazione di un contratto di
solidarietà interna con cui la crisi dell’impresa viene ripartita su tutti i lavoratori attraverso
una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e dunque della retribuzione
il legislatore non regola il contenuto dell’accordo, che però si compone sicuramente di due
elementi:
1. criterio di scelta dei lavoratori da licenziare, art. 5: i criteri di scelta devono essere stabiliti
in relazione alle esigenze tecniche, produttive ed organizzative dell’azienda.
nel caso in cui l’accordo non fosse stipulato è lo stesso articolo in questione a stabilire i
suddetti criteri:
carichi di famiglia
anzianità (l’opinione prevalente afferma ci si riferisca a quella di servizio e non a quella
anagrafica, che sarebbe discriminatoria)
esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’impresa.
tali criteri non sono ordinati in modo gerarchico e anzi è proprio l’art. 5 a specificare che
devono essere utilizzati in concorso tra loro. secondo l’opinione più diffusa il criterio
comunque più rilevante è l’ultimo, in quanto in linea con le finalità del licenziamento
2. possibile efficacia sanante dell’accordo: la giurisprudenza in passato si era chiesta se il
raggiungimento di un accordo in sede di esame congiunto avesse potuto avere efficacia
sanatoria degli eventuali visi dell’informativa sindacale della prima fase del procedimento
di licenziamento. a questo interrogativo la stessa giurisprudenza rispondeva
negativamente, ma a seguito degli interventi della l. 92/2012 si deve rispondere
affermativamente; l’opinione che va formandosi aggiunge inoltre che ai fini dell’efficacia
sanatoria dell’accordo non è sufficiente il suo raggiungimento da parte del datore di
lavoro e delle organizzazioni sindacali coinvolte, ma è necessario che lo stesso accordo dia
atto dei vizi dell’informativa sindacare e manifesti espressamente la volontà di sanarli.
2. intimazione al licenziamento
a seguito della procedura di informazione e consultazione sindacale il datore di lavoro che
ritiene di non poter riassorbire tutto o parte di lavoratori di cui aveva dichiarato l’esubero,
procede al licenziamento collettivo attraverso l’intimazione di tanti licenziamenti individuali.
la comunicazione del licenziamento deve essere fatta al lavoratore in forma scritta e con il
rispetto dell’obbligo del preavviso; entro 7 giorni dalla comunicazione il datore di lavoro deve
comunicare alle organizzazioni sindacali e alla Direzione territoriale del lavoro l’elenco dei
lavoratori licenziati indicando il nominativo, il luogo di residenza, la qualifica professionale e i
criteri di scelta applicati. attraverso quest’ultima comunicazione sia i sindacati che il lavoratore
potranno verificare la legittimità dell’applicazione dei criteri di scelta e dunque stabilire se il
licenziamento potrà o meno essere impugnato. ricordiamo che l’impugnazione del
licenziamento è disciplinata dall’art. 6 della l. 604/1966 che prevede due termini:
termine stragiudiziale: entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento il lavoratore
può impugnarlo tramite lettera stragiudiziale
termine giudiziale: nei successivi 180 all’impugnazione il lavoratore deve proporre il ricorso
giudiziale, richiedere il tentativo di conciliazione o chiedere la costituzione del collegio
arbitrale.
sanzioni per vizio del licenziamento
in caso di violazione dell’obbligo della forma scritta della comunicazione del licenziamento
la tutela applicata al lavoratore e dunque la sanzione per il datore di lavoro sarà la tutela
reale in misura piena: il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore e condanna il datore
di lavoro a risarcire il danno del lavoratore il cui ammontare è pari all’ultima retribuzione
globale dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione
in caso di violazione dell’applicazione dei criteri di scelta per l’individuazione del
lavoratore da licenziare la tutela applicata al lavoratore e dunque la sanzione per il datore di
lavoro sarà la tutela reale in misura limitata: il giudice ordina la reintegrazione del
lavoratore e condanna il datore di lavoro a risarcire il danno del lavoratore il cui ammontare è
pari all’ultima retribuzione globale di fatto nel limite massimo di 12 mensilità
in caso di omissione, incompletezza o non veridicità dell’informativa, non sanata
dall’accordo, la tutela applicata al lavoratore e dunque la sanzione per il datore di lavoro sarà
la tutela indennitaria in misura piena: il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro
subordinato (come previsto dalla tutela obbligatoria) condannando il datore di lavoro al
risarcimento danni del lavoratore che ammonta all’ultima retribuzione globale di fatto da un
minimo di 12 mensilità ad un massimo 24 mesi.
TUTELA DEI DIRITTI DEL LAVORATORE
INDISPONIBILITA’ DEI DIRITTI
il Diritto del lavoro è caratterizzato da un alto tasso di inderogabilità sia della disciplina
legislativa che della disciplina dei contratti collettivi, che significa che l’autonomia privata
può derogare solo in senso migliorativo. a questo alto tasso di inderogabilità corrisponde un
regime di disponibilità limitata dei diritti che entrano a far parte del patrimonio del
lavoratore e questo perché sarebbe inutile che l’ordinamento da una parte riconosce al
lavoratore un diritto che non può derogare e dall’altra gli permette di disporne nel momento
successivo in cui entra nel suo patrocinio. per evitare dunque che l’inderogabilità venga
aggirata, il legislatore limita il lavoratore subordinato nella possibilità di disporre dei suoi
diritti. tale limitazione prevede un doppio regime:
indisponibilità assoluta: ha un regime di carattere eccezionale e opera ogni qualvolta vi sia
una previsione normativa che rende nullo qualunque patto contrario a ciò che viene
stabilito es. l’art. 2103 in tema di mansioni afferma che è nullo ogni atto contrario alla disciplina
contenuta dallo stesso articolo
indisponibilità relativa: ha un regime di carattere generale e opera ogni qualvolta in cui non
opera l’indisponibilità assoluta.
la disciplina dell’indisponibilità relativa è contenuta nell’art. 2113 in tema di rinunzie* e
transazioni*: è stabilito che le rinunzie e le transazioni che hanno ad oggetto diritti del
prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e contratti collettivi
concernenti i rapporti di cui all’art. 409 cpc non sono valide; l’impugnazione di tali rinunzie
e transazioni deve essere proposta, a pena di decadenza, entro 6 mesi dalla data di cessazione
del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della transazione se intervenute dopo la
cessazione del rapporto di lavoro; le rinunzie e le transazioni di cui detto precedentemente
possono essere impugnate con qualunque atto scritto, anche stragiudiziale, purchè idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore; sono valide ab origine le rinunzie e le transazioni
intervenute in apposite sedi o quelle effettuate ai sensi degli art. 185, 410 e 411 cpc.
in particolare:
la *rinunzia è un negozio giuridico recettizio con cui il lavoratore dispone di un diritto
che fa parte del suo patrimonio; i negozi giuridici recettizi sono quelli con uno specifico
destinatario e che per questo producono i loro effetti solo quando portati alla conoscenza
dello stesso
la *transazione è un contratto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine a una lite già iniziata o prevengono una lite che potrà sorgere
il riferimento all’art. 409 cpc che rimanda ai rapporti di lavoro interessati dall’articolo in
questione, consente di affermare che l’art. 2113 si applica non solo ai rapporti di lavoro
subordinati in senso tecnico ma anche ai rapporti di lavoro autonomi para-subordinati
il primo comma, nel parlare dell’invalidità di rinunzie o transazioni che abbiano ad
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti dalla disciplina inderogabile della legge e
del contratto collettivo, non specifica se si tratti di un vizio di nullità o di annullabilità. a
farci pensare nel senso di un’annullabilità della rinunzia o della transazione è il secondo
comma che fa riferimento all’impugnazione di queste entro un termine di 6 mesi e che se
si trattasse di una nullità non verrebbe citata perché insanabile
il termine di decadenza di 6 mesi decorre dalla fine del rapporto di lavoro: questo al fine
di tutelare il lavoratore che nel corso del contratto con il datore di lavoro potrebbe non
avere il coraggio di far valere un proprio diritto per paura di una ritorsione
l’ultimo comma ritiene valide le rinunzie o le transazioni effettuate ai sensi degli artt. 185,
410 e 411 cpc. tali articoli fanno riferimento alle rinunzie o transazioni avvenute in sede
sindacale, amministrativa o giudiziale che si ritengono valide in quanto effettuate innanzi
a terze parti che ben avrebbero potuto giudicare le scelte fatte
dall’art. 2113 sono da escludere i diritti futuri: per spiegarne le ragioni basterebbe dire che,
come detto all’inizio, si sta parlando di diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore
subordinato; ma occorre fare un’ulteriore precisazione: i diritti futuri, benché oggetto di
formali rinunzie o transazioni, non potranno mai essere realmente delle rinunzie o delle
transazioni in quanto non rappresentano il loro contenuto tipico e anzi hanno la
funzione di modificare la disciplina del rapporto individuale per il futuro.
PRESCRIZIONE ESTINTIVA E PRESUNTIVA
la prescrizione estintiva è un istituto di carattere generale che riguarda ogni contratto e ogni
diritto. per quanto riguarda la prescrizione dei diritti si fa riferimento all’estinzione del diritto
per effetto del suo mancato esercizio per il tempo stabilito dalla legge, generalmente di dieci
anni; vi sono poi speciali categorie di diritti la cui prescrizione è ridotta a tre o cinque anni,
come nel caso dei diritti di credito del lavoratore subordinato (5 anni).
secondo la disciplina generale la prescrizione del diritto inizia a decorrere dal momento in cui
il titolare del diritto può farlo valere, ma per il lavoratore subordinato vi è una disciplina a
parte creatasi a partire da una pronuncia della Corte Costituzionale: evidenzia che il lavoratore
in costanza di rapporto di lavoro potrebbe non avere il coraggio di far valere il proprio diritto di
credito per paura di una ritorsione da parte del datore di lavoro; per questo motivo dichiara la
parziale incostituzionalità della disciplina codicistica sulla prescrizione dei diritti in generale,
nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del diritto di credito del lavoratore
subordinato decorreva non dal momento in cui il diritto poteva essere fatto valere ma dal
momento in cui il rapporto di lavoro fosse cessato.
a seguito di questa pronuncia muta il panorama in tema di licenziamenti, sia con l’introduzione
del principio di necessaria giustificazione ad opera della l. 604/1966, sia con l’introduzione
della tutela reale ad opera dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. a seguito di questi vi sono
stati nuovi interventi della Corte Costituzionale e della giurisprudenza che erano accordi
nell’affermare che: nei rapporti di lavoro in cui il lavoratore subordinato poteva essere
licenziato solo per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, l’assenza di tali
causali permetteva al lavoratore di ottenere (comunque) una tutela reale e per questo era
inesistente la sua paura di far valere il proprio diritto di credito nei confronti dei datore di
lavoro; tali rapporti di lavoro sono stati definiti “resistenti” e a questi doveva essere applicata la
disciplina generale della decorrenza a partire dal momento in cui il lavoratore avrebbe potuto
far valere il proprio diritto. al contrario, sono definiti rapporti “non resistenti” quelli in cui il
lavoratore non può essere tutelato in questo senso e in cui quindi la paura di una ritorsione del
datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore avesse fatto valere i propri diritti di credito nei suoi
confronti era totalmente fondata e giustificata; per questo motivo, per questi rapporti, la
decorrenza della prescrizione partiva dalla cessazione del rapporto di lavoro.
questo quadro, però, alla luce del nuovo testo dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, potrebbe
essere messo in discussione negando la distinzione tra rapporti resistenti e rapporti non
resistenti e affermando che i diritti di credito del lavoratore subordinato hanno un termine
prescrizionale che decorre, sempre e comunque, a partire dalla cessazione del rapporto di
lavoro, questo perché il nuovo testo dell’art. 18 prevede che la tutela reale non sia applicata
sulla base della dimensione dell’impresa interessata al licenziamento, ma solo nell’ipotesi
residuale in cui il vizio del licenziamento è particolarmente grave (manifesta insussistenza del
fatto posto alla base del licenziamento, ecc). posto che dunque il lavoratore non sa a priori se gli
verrà applicata la tutela reale o meno e che dunque il suo timore di una ritorsione è fondato e
lecito, la decorrenza della descrizione partirà, come previsto dalla prima pronuncia della Corte
Costituzionale, dalla cessazione del rapporto di lavoro.
accanto alla prescrizione estintiva abbiamo la prescrizione presuntiva, che determina
un’inversione dell’onere della prova, che ora grava sul creditore, che deve provare
l’inadempimento del debitore. tale tipo di prescrizione è superabile mediante giuramento
decisorio o confessione giudiziale, molto difficili da ottenere; per questo motivo la
giurisprudenza guarda con occhio sospetto l’applicazione di questo istituto ai rapporti di
lavoro nonostante venga prevista espressamente. in particolare sono previste due ipotesi di
prescrizione presuntiva:
1) un anno nel caso di retribuzioni che devono essere pagate a periodi non superiori al mese
2) tre anni nel caso di retribuzioni che devono essere pagate a periodi superiori al mese.
decadenza
diversa dalla prescrizione che estingue un diritto per il suo mancato esercizio nel tempo
stabilito dalla legge, la decadenza corrisponde all’impossibilità di agire a tutela di un proprio
diritto per il mancato compimento di un determinato atto o di una determinata attività nel
tempo stabilito dalla legge, molto più breve rispetto a quello previsto nella prescrizione. un
esempio potrebbe essere l’impugnazione delle rinunzie o delle transazioni, prevista a pena di decadenza
entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (…).
FONDO DI GARANZIA PER I CREDITI DI LAVORO, PRELAZIONE SUI BENI DEL
DATORE DI LAVORO E INTERESSI E RIVALUTAZIONE MONETARIA
il legislatore, al fine di favorire la possibilità per il lavoratore di soddisfare concretamente il
proprio credito nei confronti del datore di lavoro, ha previsto alcune misure:
fondo di garanzia per i crediti di lavoro: fondo finanziato con i contributi versati dal datore
di lavoro, ha la funzione di intervenire nelle ipotesi di insolvenza dello stesso datore di
lavoro. in qualunque modo sia accertata l’insolvenza (procedura concorsuale o infruttuoso
inizio di un’esecuzione forzata), il fondo di garanzia interviene erogando due prestazioni
fondamentali:
1) trattamento di fine rapporto: erogato direttamente dall’INPS
2) retribuzioni: vengono erogate le ultime 3 retribuzioni dovute purchè rientranti nel
periodo dei 12 mesi antecedenti l’apertura della procedura concorsuale o della data
d’inizio dell’infruttuosa esecuzione forzata
prelazione sui beni del datore di lavoro: di norma i crediti sono divisi a seconda che vi sia
una causa legittima di prelazione o meno (crediti chirografari). nel caso dei crediti del
lavoratore subordinato il legislatore riconosce che questi abbiano un privilegio generale sui
beni mobili del datore di lavoro, che però possono facilmente sfuggire alla massa attiva; per
questo motivo viene stabilito che se il lavoratore non riesce a soddisfarsi sui beni mobili del
datore di lavoro, potrà avere un privilegio speciale sui beni immobili. NB il lavoratore è
preferito solo rispetto ai creditori chirografari
interessi e rivalutazione monetaria: l’ultimo comma dell’art. 429 cpc afferma che il giudice,
con la sentenza con cui condanna il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore una
determinata somma di denaro a titolo di retribuzione, lo condanna anche, a prescindere dalla
domanda della parte, al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria.
una piccola tutela, però, la riceve anche il datore di lavoro in quanto viene limitata
l’aggredibilità dei crediti del lavoratore:
pignorabilità parziale della retribuzione: le retribuzioni che il datore di lavoro deve
corrispondere al lavoratore subordinato possono essere pignorate nel limite di 1/5 delle
retribuzioni dovute, che può essere elevato fino al massimo della metà delle retribuzioni
dovute nel caso di concorso di più creditori e di procedure esecutive
limitazione del sequestro conservativo: il sequestro conservativo delle retribuzioni ancora
dovute al lavoratore subordinato è ammesso nel limite di 1/5 delle retribuzioni dovute
limitazione della compensazione: la disciplina generale afferma che la compensazione non
può operare quando uno dei due crediti sia impignorabile. vista la limitata pignorabilità
della retribuzione, allora anche la compensazione è operabile solo nel limite di 1/5 delle
retribuzioni dovute.
ALTRE FORME DI LAVORO SUBORDINATO
1. RAPPORTI DI LAVORO FLESSIBILI
la categoria dei rapporti di lavoro flessibili comprende una pluralità di rapporti di lavoro in cui
alcuni aspetti del rapporto (orario di lavoro, durata, retribuzione, ecc) ricevono una disciplina
flessibile e quindi derogatoria rispetto a quella ordinaria prevista dall’art. 2094 (lavoro
subordinato a tempo pieno e indeterminato).
da ciò deriva un rapporto di genere a specie tra il contratto tipico ex art. 2094 e il contratto
flessibile: quest’ultimo, infatti, ha tutti gli elementi propri del primo, cui si aggiungono alcuni
elementi di specializzazione. da ciò discende anche l’affermazione per cui se è vero che ai
contratti flessibili viene applicata una disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria, è pur
vero che gli aspetti non regolati dalla disciplina derogatoria sono regolati da quella ordinaria in
via diretta.
contratto a tempo determinato: contratto di lavoro subordinato con un termine di scadenza,
decorso il quale il contratto si risolve senza che il datore di lavoro o il lavoratore debbano
esercitare una qualche forma del potere di recesso. la specialità sta proprio nell’inserimento
di un termine finale.
l’evoluzione normativa di questo tipo di contratto ha inizio nel codice civile del 1942, che
prevedeva una disciplina scarna e per niente limitativa, in quanto il datore di lavoro non
aveva alcun interesse ad apporre un termine finale perché poteva recedere liberamente dal
contratto, con il solo obbligo del preavviso, ai sensi dell’art. 2118; se avesse apposto il
termine, al contrario, avrebbe infatti determinato la sua impossibilità di liberarsi dal
lavoratore ante tempus se non in presenza di una giusta causa (art. 2119).
la l. 230/1962 introduce una disciplina rigida del contratto a tempo determinato, stabilendo
che il lavoratore poteva essere assunto a tempo determinato solo in presenza di tassative
ragioni giustificatrici indicate dal legislatore nella stessa legge; l’apposizione del termine di
scadenza al di fuori delle ragioni previste determinava la conversione del contratto a tempo
determinato in contratto a tempo indeterminato.
a seguito della l. 604/1966 e della modifica dell’art. 18 dello statuto del lavoratore che
introduceva la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro ha avuto un
crescente interesse nell’apposizione di termini di scadenza; per questo motivo il legislatore,
al fine di liberalizzare l’uso del contratto a termine, ha introdotto, qualche anno dopo, la
previsione, da parte dei contratti collettivi, di ulteriori causali.
è intervenuto anche il legislatore europeo che, con direttiva comunitaria 99/70 ha
ridisciplinato la materia del contratto a tempo determinato. in attuazione di tale direttiva il
legislatore italiano ha promulgato il d.lgs. 368/2001:
abroga la precedente normativa l. 230/1962
riconosce efficacia alle causali della contrattazione collettiva
ridisciplina ex novo la materia del contratto a tempo determinato: se il sistema precedente
si fondava sull’esistenza di un numero chiuso di causali giustificative dell’apposizione del
termine, il nuovo sistema prevede un numero aperto: l’art. 1 infatti affermava la possibilità
di apporre un termine al contratto di lavoro subordinato in presenza di un’unica macro
ragione: ragioni oggettive di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo =
delega all’autonomia privata individuale il compito di specificare nel caso concreto quale
ragione specifica abbia giustificato l’apposizione del termine.
un nuovo intervento viene poi fatto con l. 92/2012 che rende non necessaria la specificazione
della causale in due ipotesi:
1) primo contratto a tempo determinato che non abbia durata superiore a 12 mesi
comprensivi di proroga
2) ogni altra ipotesi prevista dal contratto collettivo, anche aziendale, stipulato dalle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
si arriva poi ai giorni nostri con il d.lgs. 81/2015, modificato con d.l. 87/2018 e convertito in l.
96/2018 – decreto dignità, applicabile a tutti i contratti stipulati a seguito dell’entrata in
vigore di tale decreto:
ripristina le ragioni giustificatrici quale requisito di legittimità dei contratti stipulati per
un periodo superiore ai 12 mesi = se il contratto ha durata fino a 12 mesi può essere
acausale. le ragioni giustificatrici possibili in caso di contratto a tempo determinato
superiore ai 12 mesi sono:
a) esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività
b) esigenze di sostituzioni di altri lavoratori
c) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili
dell’attività ordinaria
riduce la durata massima del contratto da 36 a 24 mesi
diminuisce il numero di proroghe consentite da 5 a 4; la proroga viene liberamente
negoziata se interviene nei primi 12 mesi di durata del contratto, oltrepassata questa soglia
deve essere accompagnata dall’individuazione e specificazione delle esigenze oggettive e
temporanee
nel caso di continuazione di fatto del rapporto dopo la scadenza del termine sono previsti
due termini di tolleranza a seconda dell’iniziale durata del contratto: 30 giorni se il
contratto aveva durata inferiore a 6 mesi e 50 giorni se il contratto aveva durata superiore
a 6 mesi
il rinnovo del contratto è possibile dopo uno stacco temporale che varia a seconda
dell’iniziale durata del contratto: 10 giorni se il contratto aveva durata inferiore a 6 mesi;
20 giorni se il contratto aveva durata superiore a 6 mesi; in ogni caso il rinnovo è
assoggettato all’obbligo di specifica indicazione delle esigenze oggettive e temporanee
= qualora questi limiti non vengano rispettati si applica la sanzione della trasformazione del
contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato;
il lavoratore che intenda far valere l’illegittimità del termine deve, a pena di decadenza,
impugnare il contratto entro 180 giorni dalla cessazione del singolo rapporto: il giudice
che accerterà l’illegittimità del termine disporrà la conversione del contratto a tempo
determinato in contratto a tempo indeterminato e condannerà il datore di lavoro a
risarcire i danni subiti dal lavoratore attraverso il versamento di un’indennità pari alla
retribuzione globale di fatto del minimo di 2,5 mensilità fino ad un massimo di 12;
resta invariato il requisito di legittimità del contratto che prevede che l’apposizione del
termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto.
contratto a tempo parziale: contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato o
indeterminato, con un orario ridotto rispetto all’orario standard di 40 ore settimanali. la
specialità sta proprio nella riduzione dell’orario di lavoro.
la stipulazione di tale contratto risponde a due esigenze:
1) realizzazione di un’organizzazione del lavoro più flessibile nell’interesse delle imprese
2) conciliazione tra vita professionale e familiare in relazione ai bisogni dei lavoratori.
introdotto nel nostro ordinamento dalla l. 863/1984, è stato modificato dal d.lgs. 61/2000 e
viene oggi disciplinato dal d.lgs. 81/2015:
il contratto a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova e
deve contenere puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della
collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e
all’anno.
in mancanza della forma scritta il lavoratore può chiedere l’accertamento della sussistenza
di un rapporto di lavoro a tempo pieno a decorrere dall’accertamento giudiziale; in
mancanza di indicazione della durata della prestazione il lavoratore potrà chiedere la
sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a decorrere dalla data della sentenza e
avrà diritto al risarcimento del danno; in mancanza di indicazione della collocazione
temporale dell’orario, la lacuna verrà colmata dal giudice secondo equità, tenendo conto
delle esigenze del prestatore di lavoro e del datore di lavoro e il lavoratore avrà diritto al
risarcimento del danno
possibilità di modifica delle ore o della collocazione temporale della prestazione:
a) possono essere previste clausole elastiche o flessibili; richiedono un preavviso al
lavoratore di almeno due giorni lavorativi a pena della nullità delle clausole stesse; il
rifiuto del lavoratore alle modifiche introdotte non può costituire giustificato motivo di
licenziamento; è previsto un diritto di ripensamento del lavoratore nel caso in cui sia
uno studente o nel caso in cui si trovi in particolari condizioni
b) è previsto il lavoro supplementare: lavoro prestato in aggiunta a quello concordato nel
contratto individuale entro la durata del tempo pieno
c) è previsto il lavoro straordinario: lavoro prestato in aggiunta a quello concordato nel
contratto individuale oltre la durata del tempo pieno; è regolato dalla disciplina
ordinaria.
lavoro intermittente: contratto di lavoro subordinato con cui il lavoratore si mette a
disposizione del datore di lavoro che può utilizzarne la prestazione lavorativa secondo le
esigenze individuate dal contratto collettivo. la specialità sta proprio nell’intermittenza e
dunque nella non continuità del rapporto di lavoro.
introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs. 276/2003, è stato modificato dal l.92/2012 e
viene oggi disciplinato dal d.lgs. 81/2015:
il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato solo in presenza di alcune causali
oggettive e soggettive:
o causali oggettive:
esigenze individuate dai contratti collettivi
periodi predeterminati dagli stessi contratti collettivi
o causali soggettive: il lavoratore può avere meno di 24 anni o più di 55 anni
sono previste due varianti:
1) lavoro intermittente con obbligo di disponibilità: il lavoratore è obbligato a rispondere
alla chiamata; riceverà un’indennità di disponibilità mensile determinata dal contratto
collettivo
2) lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità: il lavoratore potrà rifiutarsi di
eseguire la prestazione lavorativa richiesta dal datore di lavoro; riceverà una
retribuzione relativa alle ore effettivamente lavorate
il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova
è previsto un limite: il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato, con lo stesso
datore di lavoro, per una durata massima di 400 giornate nell’arco di tre anni solari; in
caso contrario vi sarà la conversione del contratto a lavoro intermittente in contratto a
tempo pieno indeterminato.
lavoro ripartito: contratto di lavoro subordinato con cui due lavoratori si impegnano ad
adempiere solidalmente ad un’unica e identica obbligazione lavorativa. la specialità sta
proprio nella presenza di un’obbligazione solidale nei confronti di due soggetti.
è disciplinato dal d.lgs. 81/2015:
richiede la stipulazione mediante forma scritta ai fini della prova. deve inoltre contenere la
percentuale temporale di lavoro che deve essere svolto da ciascun lavoratore; in
mancanza di qualunque indicazione ogni lavoratore sarà interamente obbligato nei
confronti del datore di lavoro
i lavoratori sono liberi di determinare discrezionalmente la sostituzione tra loro e di
modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro; la
sostituzione di terzi sono vietate salvo il consenso del datore di lavoro
le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori comporta l’estinzione dell’intero
vincolo contrattuale salvo che l’altro non richieda la trasformazione del contratto di
lavoro ripartito in normale contratto di lavoro subordinato.
LAVORO ETERORGANIZZATO
il lavoro eterorganizzato è stato introdotto con l’art. 2 del d.lgs. 81/2015. in particolare, è
previsto che la disciplina del lavoro subordinato sia applicata anche ai rapporti di
collaborazione che si concretino in una prestazione lavorativa continuativa, esclusivamente
personale e le cui modalità di esecuzione sono determinate dal committente anche con
riferimento al tempo e al luogo della prestazione.
così come accadeva per l’art. 409 n.3 cpc, anche in questo caso non viene introdotta una vera e
propria nuova tipologia contrattuale, quanto più un insieme di rapporti di lavoro caratterizzati
da:
continuità della prestazione: come nel caso del lavoro coordinato, si ritiene che il carattere
continuativo della prestazione consenta di ricondurre il lavoro eterorganizzato alla categoria
dei rapporti di durata, cioè ad esecuzione continuata o periodica; allo stesso modo, seppur
non vi è nessuna specifica in merito, si ritiene che vi sia un’opinione contraria che invece
afferma che la continuità della prestazione non evochi necessariamente i rapporti di durata,
ma che possa essere integrata anche nel caso di rapporto ad esecuzione prolungata purchè la
fase preparatoria dell’adempimento abbracci un lungo arco temporale durante il quale il
creditore e il debitore della prestazione pongono in essere una collaborazione che abbia
durata apprezzabile
esclusiva personalità del lavoratore: ricorda l’art. 409 n. 3 cpc dal quale però si discosta in
quanto questo prevedeva la prevalenza della personalità del lavoratore. in questo caso,
invece, parlando di esclusiva personalità del lavoratore, si esclude totalmente la possibilità di
servirsi di collaboratori cosi come di beni strumentali
determinazione delle modalità di lavoro da parte del committente: si ritiene che tale
formulazione faccia riferimento ad un potere unilaterale del committente tanto per quanto
riguarda le modalità di esecuzione quanto con inerenza alle modalità spazio-temporali della
prestazione stessa. un potere cosi configurato è di difficile distinzione rispetto al potere
direttivo ex art. 2094 in materia di disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa del
lavoratore subordinato e per questo si afferma che tale rapporto di lavoro debba essere
ricondotto allo schema del lavoro subordinato; altro orientamento, invece, afferma che dal
momento in cui si fa riferimento ad un committente e ad una prestazione di lavoro svolta a
suo favore, si evoca lo schema del contratto d’opera e dunque si tratta di lavoro autonomo.
a proposito di quest’ultimo dibattito, però, c’è da dire che in realtà proprio l’articolo che
introduce il lavoro eterorganizzato lo assoggetta alla disciplina del lavoro subordinato e che per
questo sia proprio la subordinazione un’ulteriore caratteristica del rapporto di lavoro in
questione. tuttavia, si specifica che alcuni rapporti di lavoro, seppur riconducibili allo schema
del lavoro eterorganizzato e dunque teoricamente assoggettabili alla disciplina del lavoro
subordinato, ricevono una disciplina specifica da parte della contrattazione collettiva: avviene
per esempio in quei settori con particolari esigenze organizzative e produttive, piuttosto che nei
confronti di professionisti intellettuali il cui svolgimento dell’attività è legato all’obbligo di
iscrizione in un apposito albo e nei confronti della pubblica amministrazione.
QUAL E’ IL DISCRIMEN TRA LAVORO COORDINATO E LAVORO
ETERORGANIZZATO? hanno in comune la personalità, più o meno esclusiva, della
prestazione, cosi come la continuità della prestazione; si differenziano invece per la
configurazione del rapporto di lavoro, uno autonomo e l’altro subordinato, ma il tratto
differenziale più importante riguarda l’organizzazione del lavoro: nel lavoro coordinato è
rimessa all’accordo delle parti, nel lavoro eterorganizzato è rimessa alle decisioni del
committente.
LAVORO AGILE
il lavoro agile è stato introdotto dall’art. 18 della l. 81/2017 che lo definisce come una modalità
di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita di comune accordo dalle parti,
caratterizzato dalla modalità di organizzazione della prestazione lavorativa per fasi, cicli o
obiettivi, in cui non vi sono precisi vincoli di orario e luogo di lavoro, con la possibilità di usare
strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa, con l’unico limite della durata
massima della giornata lavorativa e del lavoro settimanale.
anche in questo caso, come nei precedenti, non viene determinata una vera e propria nuova
tipologia contrattuale ma, al contrario di quanto avviene precedentemente, anziché creare una
nuova categoria di rapporti di lavoro basati su determinate caratteristiche, qui si introduce una
specifica modalità di organizzazione del lavoro subordinato, applicabile a qualunque forma di
questo tipo di rapporto di lavoro salvo i casi in cui, per la struttura della prestazione, tale tipo di
organizzazione non è possibile.
disciplina, l. 81/2017:
forma: scritta, ai fini della regolarità amministrativa e ai fini della prova
durata: può essere indistintamente a tempo determinato o a tempo indeterminato; nel primo
caso non è necessaria la specificazione o il ricorso alle causali
contenuto: deve regolare le modalità di organizzazione concreta del lavoro, l’esercizio del
potere di controllo per quanto riguarda la prestazione svolta all’esterno dei locali aziendali,
ferma restando l’applicazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori quando ci si trovi
all’interno di questi, e l’esercizio del potere disciplinare, con l’individuazione delle condotte,
poste in essere durante l’esecuzione della prestazione svolta all’esterno dei locali aziendali,
che portano all’applicazione delle sanzioni disciplinari
modalità di recesso: giustificato motivo oggettivo o ad nutum (quest’ultimo solo nel contratto
a tempo indeterminato)
trattamento economico e normativo: non deve essere inferiore rispetto a qualunque altro
lavoratore subordinato che svolga la medesima prestazione all’interno dei locali aziendali.
QUAL E’ IL DISCRIMEN TRA LAVORO COORDINATO E LAVORO AGILE? in realtà le
categorie sono di difficile distinzione e per questo facilmente sovrapponibili. presentano infatti,
entrambe, la caratteristica dell’organizzazione del lavoro rimessa all’accordo delle parti.