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POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


1. Introduzione

A cura di: Dalila Vescovi, Diego Berzi

v2.8
Indice
1 Richiami di analisi tensoriale 3
1.1 Campi scalari, vettoriali e tensoriali . . . . . . . . . . . . . . 3
1.2 Operazioni tra vettori e tensori . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
1.3 Operatore nabla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.4 Teoremi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
1.5 Momento meccanico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

2 Proprietà dei fluidi 13


2.1 Grandezze fondamentali e unità di misura . . . . . . . . . . . 13
2.2 Fluido come mezzo continuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
2.3 Proprietà dei fluidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

2
1 Richiami di analisi tensoriale
1.1 Campi scalari, vettoriali e tensoriali
Consideriamo un sistema di coordinate spaziali cartesiane ortogonali. Le
grandezze che verranno prese in considerazione possono essere campi scalari,
vettoriali o tensoriali.

Campo scalare
Un campo scalare è una funzione che varia nello spazio (il generico punto
nello spazio è individuato dalle coordinate x, y e z) e nel tempo, t, e il cui
argomento è uno scalare (ovvero da un numero):

a = a(x, y, z, t).

Campo vettoriale
Un campo vettoriale è una funzione che varia nello spazio e nel tempo e il
cui argomento è un vettore:

a = a(x, y, z, t).

Nel sistema di riferimento cartesiano, un vettore può essere rappresentato


mediante le sue componenti scalari lungo i tre assi (Fig. 1)

az
a
ay
ax y

Figura 1: vettore nel piano cartesiano.

a = (ax , ay , az ) .

La terna di riferimento x, y, z può, equivalentemente, essere rappresentata


come x1 , x2 , x3 , per cui il vettore a può anche essere espresso come:

a = (a1 , a2 , a3 ) .

Introducendo i versori (vettori aventi modulo unitario; si veda più avanti


per la definizione di modulo) dei tre assi:

3
î = (1, 0, 0) versore dell’asse x,
ĵ = (0, 1, 0) versore dell’asse y,
k̂ = (0, 0, 1) versore dell’asse z,
il generico vettore a può essere espresso anche come

a = ax î + ay ĵ + az k̂,

o anche
a = a1 î + a2 ĵ + a3 k̂.
Per comodità e brevità di scrittura è opportuno introdurre la notazione
indiciale. Secondo questa convenzione, gli enti matematici vengono rap-
presentati con dei pedici che prendono il nome di indici. Utilizzando la
notazione indiciale, la generica componente del vettore a viene indicata co-
me ai , dove i è l’indice e può assumere i valori 1, 2 e 3 (o, in modo del tutto
equivalente, x, y e z).
In notazione indiciale si adotta la convenzione secondo la quale i termini con
indici ripetuti si intendono sommati (convenzione di Einstein), per cui, per
esempio:
3
X
ai bi = ai bi = a1 b1 + a2 b2 + a3 b3 .
i=1

Anche i versori dei tre assi vengono espressi con tale notazione come îi , con
i = 1, 2, 3, dove evidentemente î1 = î, î2 = ĵ, î3 = k̂. Allora la scrittura
compatta ai esprime la componente scalare di a nella direzione îi , e il vettore
a è definito come

a = ai îi
X3
= ai îi = a1 î1 + a2 î2 + a3 î3
i=1
= ax î + ay ĵ + az k̂.

Tornando alla definizione di vettore, questo è definito da direzione, modulo


e verso.
Il modulo di un vettore a rappresenta la sua lunghezza ed è dato da

|a| = a = ai ai
q
= a2x + a2y + a2z .

La direzione è individuata dalla retta su cui giace il vettore. Consideriamo


per comodità il caso piano di Fig. 2. In questo caso
ay
α = arctan
ax

4
y

ay a

α
ax x

Figura 2: direzione di un vettore.

è l’angolo che la direzione del vettore a forma con il semiasse positivo delle
ascisse.
Il verso rappresenta l’orientamento del vettore e dipende dal segno delle sue
componenti. Se la componente ax è positiva, ad esempio, allora a ha verso
concorde con l’asse x.

Dato un campo vettoriale a = a(x, y, z, t), tutte le sue componenti sono


funzioni scalari che variano nello spazio e nel tempo (campi scalari):

a = ax (x, y, z, t)î + ay (x, y, z, t)ĵ + az (x, y, z, t)k̂.

Viceversa, una terna di campi scalari (ax , ay , az ) rappresenta le componenti


scalari di un campo vettoriale solo se alla direzione individuata dal versore
n̂ = nx î + ny ĵ + nz k̂ è associata la componente scalare

an = ni ai
= nx ax + ny ay + nz az .

Campo tensoriale
Un campo tensoriale è una funzione che varia nello spazio e nel tempo e il
cui argomento è un tensore:

a = a(x, y, z, t).

In generale un tensore di ordine n è un ente matematico descritto da 3n


componenti. Quindi un tensore di ordine 0 è rappresentato da 30 = 1 com-
ponenti, cioè è uno scalare; un tensore di ordine 1 è rappresentato da 31 = 3
componenti, cioè è un vettore; un tensore di ordine 2 (che è quello che ci
interessa nell’ambito di questo corso) è rappresentato da 32 = 9 componenti,
ovvero è una matrice 3 × 3. In questa dispensa, con il termine tensore si farà
riferimento sempre ad un tensore di ordine 2. Per cui, il generico tensore a

5
viene rappresentato come
 
axx axy axz
a =  ayx ayy ayz  .
azx azy azz

Il generico elemento del tensore a viene espresso in notazione indiciale come


aij con i, j = 1, 2, 3 (o anche i, j = x, y, z).
Dato un campo tensoriale a = a(x, y, z, t), allora tutte le sue componenti
sono funzioni scalari che variano nello spazio e nel tempo. Inoltre, le tre righe
della matrice rappresentano le tre componenti (campi) vettoriali ax , ay , az
del campo tensoriale a:
ai = aij îj
= (aix , aiy , aiz ) .
Viceversa, una terna di campi vettoriali ax , ay , az definisce le componenti
vettoriali di un campo tensoriale solo se alla direzione individuata dal versore
n̂ = nx î + ny ĵ + nz k̂ è associato il vettore

an = ni ai
= nx ax + ny ay + nz az .

6
1.2 Operazioni tra vettori e tensori
Prodotto scalare tra due vettori
Il prodotto scalare di due vettori, a = (ax , ay , az ) e b = (bx , by , bz ), indicato
con a · b, è lo scalare definito da
a · b = ai bi
= ax bx + ay by + az bz .
Il prodotto scalare soddisfa le seguenti proprietà:
• a · b = b · a (simmetria)
• a · b = 0 ⇐⇒ a⊥b (il prodotto scalare è nullo se i vettori sono
ortogonali)
• a · îi = ai .
Il prodotto scalare di un vettore per sé stesso,
a · a = ai ai
= a2x + a2y + a2z = a2 ,
risulta pari al quadrato del modulo del vettore stesso.

Prodotto misto tra un vettore e un tensore


Il prodotto misto tra un vettore, a, e un tensore, b, indicato con a · b, è il
vettore definito da
 
  bxx bxy bxz
a · b = ax ay az  byx byy byz 
bzx bzy bzz
= ai bij îj
= (ax bxx + ay byx + az bzx ) î + (ax bxy + ay byy + az bzy ) ĵ+

+ (ax bxz + ay byz + az bzz ) k̂.

Prodotto vettoriale tra due vettori


Il prodotto vettoriale di due vettori, a = (ax , ay , az ) e b = (bx , by , bz ),
indicato con a × b, è il vettore definito da

î ĵ k̂

a × b = ax ay az
bx by bz

= (ay bz − az by ) î + (az bx − ax bz ) ĵ + (ax by − ay bx ) k̂


dove |·| denota il determinante della matrice.

7
Prodotto tensoriale tra due vettori
Il prodotto tensoriale di due vettori, a = (ax , ay , az ) e b = (bx , by , bz ),
indicato semplicemente con ab, è il tensore definito da
 
ax
  
ab = 
 ay
 bx by bz

az
 
ax bx ax by ax bz
 
 ay bx ay by
= ay bz 
.
az bx az by az bz

Il generico elemento ij-esimo di ab si denota come



ab ij = ai bj .

Prodotto di Hadamard tra due tensori


Il prodotto di Hadamard tra due tensori, a e b, indicato semplicemente con
a ◦ b, è il tensore definito da
 
axx bxx axy bxy axz bxz
 
a◦b=  ayx byx ayy byy ayz byz 
.
azx bzx azy bzy azz bzz

Il generico elemento ij-esimo di a ◦ b si denota come


 
a◦b = aij bij .
ij

Prodotto matriciale tra due tensori


Il prodotto matriciale tra due tensori, a e b, indicato con a · b, è il tensore
definito da
  
axx axy axz bxx bxy bxz
a · b =  ayx ayy ayz   byx byy byz  .
azx azy azz bzx bzy bzz

Il generico elemento ij-esimo di a · b si denota come


 
a·b = aik bkj .
ij

8
1.3 Operatore nabla
L’operatore differenziale vettoriale nabla, ∇, è definito come un vettore che
ha per componenti gli operatori di derivata parziale lungo le tre direzioni:

∇= îi
∂xi
∂ ∂ ∂
= î + ĵ + k̂
∂x ∂y ∂z
 
∂ ∂ ∂
= , , .
∂x ∂y ∂z
L’operatore nabla consente di scrivere in forma compatta alcuni operatori
differenziali, quali il gradiente, la divergenza e il rotore.

Gradiente di un campo scalare


Dato un campo scalare a = a(x, y, z, t) continuo e differenziabile nello spazio,
si definisce gradiente di a il seguente campo vettoriale
∂a
grad a = ∇a = îi
∂xi
∂a ∂a ∂a
= î + ĵ + k̂
∂x ∂y ∂z
 
∂a ∂a ∂a
= , , .
∂x ∂y ∂z
In notazione indiciale la generica componente scalare di ∇a si denota come
∂a
(∇a)i = .
∂xi

Gradiente di un campo vettoriale


Dato un campo vettoriale a = a(x, y, z, t) continuo e differenziabile nello
spazio, si definisce gradiente di a il seguente campo tensoriale

 
 ∂x 
 ∂ 
  
grad a = ∇a =   ax ay az
 ∂y 

 
∂z

∂ax ∂ay ∂az


 
 ∂x ∂x ∂x 
∂ax ∂ay ∂az
 
= .
 
 ∂y ∂y ∂y 
∂ax ∂ay ∂az
 
∂z ∂z ∂z

9
La generica componente scalare di ∇a si denota come
∂aj
(∇a)ij = .
∂xi

Divergenza di un campo vettoriale


Dato un campo vettoriale a = a(x, y, z, t) continuo e differenziabile nello
spazio, si definisce divergenza di a il seguente campo scalare
∂ai
div a = ∇ · a =
∂xi
∂ax ∂ay ∂az
= + + .
∂x ∂y ∂z
Si noti che il punto · rappresenta l’operazione di prodotto scalare tra il
vettore nabla e il vettore a.

Divergenza di un campo tensoriale


Dato un campo tensoriale a = a(x, y, z, t) continuo e differenziabile nello
spazio, si definisce divergenza di a il seguente campo vettoriale
∂ai
div a = ∇ · a =
∂xi
∂ax ∂ay ∂az
= + +
∂x ∂y ∂z
∂aij
= îj
∂x
 i   
∂axx ∂ayx ∂azx ∂axy ∂ayy ∂azy
= + + î + + + ĵ+
∂x ∂y ∂z ∂x ∂y ∂z
 
∂axz ∂ayz ∂azz
+ + + k̂.
∂x ∂y ∂z
La generica componente scalare di ∇ · a si denota come
 ∂aij
∇·a j = .
∂xi

Rotore di un campo vettoriale


Dato un campo vettoriale a = a(x, y, z, t) continuo e differenziabile nello
spazio, si definisce rotore di a il seguente campo vettoriale

î ĵ k̂

∂ ∂ ∂
rot a = ∇ × a = .
∂x ∂y ∂z
ax ay az

Il simbolo × denota il prodotto vettoriale tra il vettore nabla e il vettore a.

10
1.4 Teoremi
Siano W una regione generica (un volume) delimitata dalla sua frontiera A
(superficie che racchiude il volume W ), e n̂ il versore entrante a A. Sia-
no inoltre a e a un campo vettoriale e un campo scalare, rispettivamente,
continui e differenziabili. Allora valgono i seguenti teoremi.

Teorema della divergenza


Z Z Z Z
∂ai
∇ · a dW = dW = − ai ni dA = − a · n̂ dA. (1)
W W ∂xi A A

Teorema del gradiente


Z Z Z Z
∂a
∇a dW = îi dW = − a ni îi dA = − an̂ dA. (2)
W W ∂xi A A

11
1.5 Momento meccanico
Si definisce momento meccanico di una forza F rispetto al generico polo O
il vettore
M = b × F,
in cui b rappresenta il vettore posizione di qualsiasi punto giacente sulla
retta di applicazione di F rispetto al polo stesso.

y θ
F
b
b sinθ O
+
x

Figura 3: Momento meccanico.

Considerando per semplicità il caso piano (dove cioè F e b sono complanari


e giacciono sul piano x − y), Fig. 3, allora:

M = (0, 0, Mz ) = Mz k̂

dove
Mz = b F sin θ,
dove θ è l’angolo tra i due vettori. M è dunque diretto lungo
l’asse z (ovvero
è ortogonale al piano su cui giacciono i vettori F e b), e b sin θ rappresenta
il braccio di F rispetto al polo O ed è pari alla distanza tra O e la retta di
applicazione di F. Inoltre, fissata una convenzione per le rotazioni positive
(in figura si sono assunte positive le rotazioni antiorarie), il segno di Mz è
positivo se la rotazione generata dal vettore rispetto al polo è concorde con
la convenzione scelta, negativo altrimenti. Per esempio, con riferimento alla
Fig. 3, Mz è negativo, quindi M è discorde con l’asse z.

12
2 Proprietà dei fluidi
2.1 Grandezze fondamentali e unità di misura

Tabella 1: Grandezze fondamentali e unità di misura.

Grandezze Unità di
fondamentali di misura
Lunghezza [L] m
Tempo [t] s
Massa [M ] kg
Temperatura [T ] K (◦ C)

In Cinematica le grandezze fondamentali sono: [L] e [t];


In Dinamica le grandezze fondamentali sono: [L], [t] e [M ];
In Termodinamica le grandezze fondamentali sono: [L], [t], [M ] e [T ].

2.2 Fluido come mezzo continuo


Mezzo continuo:
• approccio fisico: mezzo nel quale non si possono scorgere vacanze;
• approccio matematico: in ogni punto del mezzo è possibile definire le
grandezze mediante funzioni continue.
Dato un volume di fluido, si distinguono due tipi di forze:
• forze di volume Fv : proporzionali al volume di fluido (per esempio la
forza di gravità). Dal momento che il volume e la massa sono legati
attraverso la densità (si veda il Par. 2.3), sono anche proporzionali
alla massa del fluido e possono essere equivalentemente definite forze
di massa;
• forze di superficie Fs : forze che vengono esercitate su una qualsiasi
parte del sistema attraverso la sua superficie di contorno.
Un sistema continuo è in equilibrio quando:
X X
Fv + Fs = ma,

dove m è la massa del sistema e a la sua accelerazione.


Consideriamo una porzione infinitesima di superficie dA appartenente ad un
volume di fluido. Su questa agisce una forza infinitesima (di superficie) dFs .
Si definisce sforzo unitario:
dFs
lim = Φn
dA−→0 dA

13
 
[M ] [L] 1 [F ] N
L’unità di misura dello sforzo è: Φn → 2 · 2 → 2 → m2 . La
[t] [L] [L]
spinta elementare su dA è, dunque, esprimibile come dFs = Φn dA. Si può,
allora, calcolare la forza di superficie agente su una superficie finita A come
Z
Fs = Φn dA.
A

Rispetto alla giacitura di dA, di normale n̂, è possibile scomporre lo sforzo


in una componente normale σ ed una tangenziale τ (Fig. 4).
La componente normale σ può essere di compressione o di trazione. Per
convenzione, in meccanica dei fluidi, si assumono positivi gli sforzi normali
di compressione. La maggior parte dei fluidi in condizioni usuali non sop-
porta sforzi normali di trazione. La componente isotropa (che non dipende
dall’orientamento della superficie) degli sforzi normali viene chiamata pres-
sione (Statica dei Fluidi, Par. 1.1).

Φn
τ
σ

n
dA

Figura 4: componente normale e tangenziale dello sforzo su dA.

2.3 Proprietà dei fluidi


Le proprietà dei fluidi si possono classificare in

• Intensive: non dipendono dalle dimensioni del sistema, e in particolare


dal volume. Ad esempio, sono grandezze intensive la temperatura, la
densità, la viscosità.

• Estensive: dipendono dalle dimensioni del sistema. La massa è una


proprietà estensiva.

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Densità
La densità è la massa per unità di volume:

[M ] kg
ρ→ 3 → m3
[L]

Per l’acqua, ρ = 1000 kg/m3 ; per l’aria a temperatura ambiente, ρ = 1.29


kg/m3 .

La densità è funzione di temperatura e pressione. La legge che lega queste


tre grandezze è detta equazione di stato del fluido e in generale si esprime
come
ρ = ρ(p, T ).
Per un liquido, la densità varia poco con la pressione e diminuisce all’au-
mentare della temperatura. Caso particolare è l’acqua, per cui la massima
densità viene raggiunta a 4◦ C.

Figura 5: andamento della densità con la temperatura per l’acqua.

Per un gas perfetto, l’equazione di stato è data da

pW = nRT

dove: W è il volume, n il numero di moli contenuto nel volume, R = 8.314472


J/(mol K) la costante universale dei gas e T la temperatura espressa in gradi
Kelvin.
M
Il numero di moli è dato da n = dove M è la massa contenuta nel
Mmol
volume e Mmol è la massa di una mole.

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M
Quindi, essendo ρ = ,
W
pMmol
ρ= .
RT

Peso specifico
Il peso specifico è il peso per unità di volume
 
F N
γ = ρg → 3
→ 3
L m

Per l’acqua, γ = 9810 N/m3 ; per l’aria a temperatura ambiente, γ = 12.68


N/m3 .

Comprimibilità
La comprimibilità è la proprietà di un fluido di modificare il proprio volume
(e quindi la propria densità) al variare della pressione a cui è soggetto.
Consideriamo un fluido, soggetto ad una pressione p, che occupa un volume
W (Fig. 6).

Figura 6: volume di fluido soggetto ad una pressione p.

In condizioni isoterme (T = cost), sperimentalmente si osserva che ad una va-


riazione di pressione dp, corrisponde una variazione di volume dW , secondo
la legge:
dW dp
=− (3)
W ε
dove ε [N/m2 ] è il modulo di elasticità a compressione cubica.
La conservazione della massa implica che: ρW = cost; differenziando si
ottiene
dW dρ
ρdW + W dρ = 0 =⇒ =− ,
W ρ

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da cui segue che ad una variazione di pressione corrisponde una variazione
di densità:
dρ dp
= (4)
ρ ε
Nei liquidi ε è molto grande, per cui la densità si mantiene circa costante
al variare della pressione: ε elevato =⇒ dρ ∼ = 0 =⇒ ρ = cost.
Il modulo di elasticità a compressione cubica dell’acqua a 10◦ C è pari a
εw (T = 10◦ C) = 2.003 · 109 N/m2 .
Se le variazioni di pressione sono elevate, integrando la relazione (4) si ottiene
 
p − p0
ρ = ρ0 exp .
ε
Gas e vapori sono invece molto comprimibili; ε dipende dal loro stato
e dal tipo di trasformazione che stanno subendo. Se consideriamo una
trasformazione politropica, per un gas perfetto, per cui vale la
pW n = cost
differenziando si ha che
W n dp + pnW n−1 dW = 0
e dalla (3) si ricava
dp
W dp − pnW =0
ε
e quindi
ε = np.
Per gas a pressione atmosferica soggetti a trasformazioni isoterme (n = 1),
ε∼
= 105 N/m2 .

Viscosità
La viscosità è una proprietà dei fluidi che lega gli sforzi tangenziali alle ve-
locità di deformazione.
Consideriamo un fluido tra due lastre piane parallele poste a distanza ∆y.
La lastra superiore, di area A, viene messa in moto, ad una velocità V , da
una forza orizzontale di modulo F . La lastra inferiore invece resta ferma. In
condizioni di moto laminare, il profilo di velocità che si sviluppa tra le due
lastre è lineare e varia tra zero (in corrispondenza della lastra inferiore) e V
(sulla lastra superiore). Per mantenere una differenza di velocità tra le due
lastre, ∆V , costante (in questo caso ∆V = V − 0 = V ), nonostante l’attrito,
è necessaria una forza F costante. Tale forza risulta sperimentalmente pro-
porzionale alla differenza di velocità ∆V , alla superficie A ed inversamente
proporzionale allo spessore ∆y:
∆V
F ∝A .
∆y

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Superficie in movimento con velocità V F

∆y

Superficie ferma

Figura 7: flusso laminare tra due lastre piane parallele.

La costante di proporzionalità nella relazione precedente è la viscosità dina-


mica µ [N s/m2 ], quindi lo sforzo tangenziale risulta

F ∆V ∂u
τ= =µ =µ
A ∆y ∂y
dove y è la direzione normale al moto del fluido e u è la componente di ve-
∂u
locità parallela alle lastre. La quantità è detta velocità di deformazione.
∂y
Oltre alla viscosità dinamica, si definisce la viscosità cinematica: ν = µ/ρ
[m2 /s].

La configurazione di flusso descritta prende il nome di flusso di Couette pia-


no, e, a causa del fatto che le due lastre piane devono essere di lunghezza
infinita, non è fisicamente realizzabile.
Uno strumento che si può utilizzare per determinare la viscosità (reometro)
è costituito da due cilindri coassiali come quelli riportati in Fig. 8 (flusso di
Couette rotante).

18
re
ri h

F
ωre
ωi ri

ωi F
ω

Figura 8: flusso laminare tra due cilindri coassiali.

Il comportamento di µ è differente per gas e liquidi. Per i gas la viscosità


aumenta all’aumentare della temperatura, per i liquidi invece, la viscosità
diminuisce all’aumentare della temperatura.

In generale, la legge che lega sforzi tangenziali e velocità di deformazione è


detta equazione reologica, e si esprime come
 
∂u
τ =f .
∂y

Per un fluido Newtoniano, la funzione f è lineare, come già visto, e le ca-


ratteristiche reologiche sono indipendenti dal tempo. Esistono altri tipi di
fluidi per cui la f ha un diverso comportamento.

Esercizio
Un olio lubrificante è posto tra due piatti piani paralleli. Un piatto è fis-
so, l’altro si muove con velocità V = 3 m/s. Data la distanza tra i due
piatti h = 2.6 cm, determinare lo sforzo di taglio nel lubrificante, noto che
µolio = 0.26 N s/m2 .

Soluzione:
du V 3 Ns m 1
τ =µ = µ = 0.26 · · · = 30 Pa.
dn h 0.026 m2 s m

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Tensione superficiale
Le superfici di separazione (interfaccia) tra sostanze non miscibili possiedo-
no energie associate con esse perché lavoro deve essere fatto per generarle.
L’energia per unità di area associata con tali superfici è detta energia su-
perficiale ed ha come dimensioni J/m2 . La tendenza dei sistemi fisici a
minimizzare l’energia ad essi associata fa sı̀ che essi tendano a minimizzare
anche le superfici di intefaccia.
Nel caso dei fluidi, si preferisce introdurre il concetto di tensione superfi-
ciale σT , che è la forza per unità di lunghezza, in N/m dunque, che si deve
applicare tangenzialmente a una superficie di interfaccia per mantenerla in
equilibrio. La ragione sta nel fatto che, in generale, una molecola è sottopo-
sta ad azioni attrattive o repulsive da parte delle molecole che la circondano.
Se consideriamo una molecola che si trova all’interfaccia tra due fluidi non
miscibili (Fig. 9a), per esempio una molecola d’acqua all’interfaccia tra aria
e acqua, essa subisce da un lato le azioni attrattive delle molecole d’acqua,
e dall’altro quelle delle molecole d’aria. Poiché le forze esercitate dall’aria
sono molto inferiori rispetto quelle esercitate dalle molecole d’acqua (la den-
sità dell’aria, e di un gas in genere, è molto inferiore a quella dell’acqua,
cioè ci sono molte meno molecole d’aria che di acqua a parità di volume),
le forze di attrazione non sono simmetriche. Questo fa sı̀ che la risultante
delle forze sulla molecola sia rivolta verso la massa d’acqua e la molecola
stessa tenda a “sfuggire“ dall’interfaccia muovendosi verso l’interno della
massa d’acqua, diminuendo la superficie di interfaccia. Per evitare che la
superficie di interfaccia diminuisca occorre, dunque, mantenere in tensione
la superficie stessa che si comporta, di conseguenza, come una membrana
elastica. Vale la pena notare che energia superficiale e tensione superficiale
sono due modi di descrivere lo stesso fenomeno e rappresentano la stessa
proprietà fisica: è facile dimostrare che J/m2 = N/m.

(a) (b)

Figura 9: (a) schema delle forze di attrazione su molecole di un liquido a


contatto con un gas. (b) Pellicola di liquido sospesa all’interno di un telaio
metallico ad U dotato di un lato mobile.

20
Esperimento: consideriamo una pellicola di liquido a contatto con un gas
e sospesa all’interno di un telaio metallico ad U, con un lato mobile di
lunghezza b (Fig. 9b). La pellicola di liquido tende a tirare il lato mobile
verso l’interno per minimizzare l’area della sua superficie. Per mantenere
fermo il filo, è necessario applicare una forza F nella direzione opposta.
Quindi, la tensione superficiale σT risulta
F
σT =
2b
(il fattore 2 a denominatore è dovuto al fatto che il liquido presenta due
superfici a contatto con il gas).
Alcuni esempi di applicazione del concetto di tensione superficiale sono
riportati nella dispensa degli Esercizi di Statica dei Fluidi.

21
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


2. Statica dei Fluidi

A cura di: Diego Berzi

v1.2
Indice
1 Meccanica dei fluidi in quiete 3
1.1 Pressione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
1.2 Equazione indefinita della statica dei fluidi . . . . . . . . . . . 5
1.2.1 Fluidi incomprimibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
1.2.2 Fluidi comprimibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.3 Equazione globale della statica dei fluidi . . . . . . . . . . . . 10

2 Spinte statiche 12
2.1 Spinte su superfici piane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
2.1.1 Metodo meccanico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
2.1.2 Metodo geometrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
2.2 Spinte su superfici curve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16

2
1 Meccanica dei fluidi in quiete
1.1 Pressione
Il vettore sforzo φn dipende, in generale, dalla posizione e dall’orientamen-
to della superficie infinitesima sulla quale agisce, e può avere orientamento
qualsiasi rispetto a quest’ultima (Cap. 1, Par. 2.2). Nel caso di Fluidi New-
toniani, la componente tangenziale alla superficie dello sforzo risulta pro-
porzionale alla derivata della velocità nella direzione normale alla superficie
stessa (Cap. 1, Par. 2.3). Se i Fluidi sono in quiete, la velocità e tutte le sue
derivate spaziali e temporali sono nulle. Ne risulta che, nel caso di Fluidi
Newtoniani in quiete, lo sforzo ha necessariamente solo componente normale
alla superficie infinitesima su cui agisce.
Consideriamo ora un volume infinitesimo di fluido in quiete costituito da
un tetraedro, detto di Cauchy [2], avente tre facce (dAx , dAy , dAz ) orientate
come gli assi cartesiani e la quarta faccia dA di orientamento generico con
normale n̂ (Fig. 1).

φx
i
φy φn
j
n
y
k
x φz

Figura 1: Tetraedro di Cauchy.

Perché questo volume infinitesimo sia in equilibrio, occorre che sia verificata
la seconda legge della dinamica (Cap. 1, Par. 2.2), che, in statica, si riduce ad
affermare che la somma delle forze esterne diPsuperficie P e di volume agenti
sul fluido deve essere pari al vettore nullo ( Fs + Fv = 0). Le forze
di superficie sono ovviamente quattro, una per ogni faccia, e possono essere
espresse come prodotto del vettore sforzo per l’area infinitesima su cui agisce.
Per il tetraedro considerato risulta, dunque,

φx dAx + φy dAy + φz dAz + φn dA + ρf dW = 0, (1)

dove f rappresenta la generica forza di volume per unità di massa. Al primo


ordine, possiamo trascurare il contributo della forza di volume nella Eq.(1),
dal momento che il volume è un infinitesimo di ordine superiore rispetto

3
alla superficie. Dato che, per un fluido in quiete, l’unica componente di
sforzo presente è quella normale alla superficie, ciascun vettore sforzo può
essere rappresentato come prodotto della componente scalare del vettore
nella direzione del versore normale alla superficie per il versore stesso (ad
esempio, φx = φxx î, dove φxx è la componente scalare in direzione x di φx ).
Si può, allora, scrivere:

φxx îdAx + φyy ĵdAy + φzz k̂dAz + φnn n̂dA = 0. (2)

Proiettando in direzione y,

φyy dAy + φnn ny dA = 0, (3)

dove ny è la componente scalare in direzione y del versore n̂, cioè il coseno


direttore di n̂ con l’asse y. Dato che ĵ e n̂ sono discordi, l’angolo α compreso
tra i due versori è maggiore di 90◦ . La superficie dAy può essere ottenuta per
via trigonometrica, moltiplicando la superficie dA per il coseno di 180 − α
(Fig. 2).

z
180°- α
180°- α
n j
dA y α
dA
180°- α
y

Figura 2: Proiezione del tetraedro di Cauchy sul piano y − z.

Ne risulta che

dAy = cos(180 − α)dA = − cos αdA = −ny dA, (4)

e l’Eq.(3) si riduce a φyy = φnn . Ripetendo il ragionamento per le direzioni


x e z si arriva a dimostrare che

φxx = φyy = φzz = φnn = p, (5)

dove lo scalare p rappresenta la pressione.


Il tetraedro di Cauchy ci fornisce anche un’altra informazione. Sosti-
tuendo le relazioni tra le aree nell’Eq.(1), trascurando la forza di volume e
dividendo tutto per dA, si ottiene che alla direzione n̂ = nx î + ny ĵ + nz k̂ è
associato il vettore
φn = nx φx + ny φy + nz φz . (6)
L’Eq.(6) indica che i vettori φx , φy e φz costituiscono le componenti vet-
toriali di un campo tensoriale (Cap. 1, Par. 1.1). Si costruisce, dunque, il

4
tensore degli sforzi Φ ponendo, su ciascuna riga, le tre componenti scalari
delle componenti vettoriali:
 
φxx φxy φxz
Φ = φyx φyy φyz  .
φzx φzy φzz
Gli elementi sulla diagonale rappresentano le componenti normali degli sfor-
zi, mentre gli elementi rettangolari (extra-diagonali) rappresentano le com-
ponenti tangenziali. Il tensore degli sforzi per un fluido in quiete si riduce a
una matrice diagonale con tutti gli elementi uguali a p. In forma matriciale,
dunque,
Φ = pI, (7)
dove I è la matrice identità
 
1 0 0
I = 0 1 0 .
0 0 1
Usando la notazione indiciale, si scrive, semplicemente, φij = pδij , con δij
delta di Kronecker (δij = 1 se i = j, δij = 0 se i 6= j).

1.2 Equazione indefinita della statica dei fluidi


Prendiamo un volume infinitesimo di fluido in quiete dW , costituito da un
parallelepipedo di lati dx, dy e dz, aventi le facce parallele a due a due agli
assi del nostro sistema di riferimento cartesiano (Fig. 3). Possiamo scrivere
la seconda legge della dinamica come
X
Fs + ρf dW = 0. (8)

dz ∂p
p+ dy dx dz (- j )
p dx dz j ∂y

dx
x
dy

Figura 3: Volumetto di controllo per la determinazione dell’equazione


indefinita della statica dei fluidi.
Per esprimere le forze di superficie utilizziamo la nozione di pressione, in-
trodotta nel paragrafo precedente, e la Meccanica del Continuo (Cap. 1,

5
Par. 2.2). Innanzitutto, distinguiamo le tre facce che hanno per normali i
versori î, ĵ e k̂ degli assi cartesiani (ricordando che in Meccanica dei Fluidi,
per convenzione, il versore normale alla superficie è entrante nel volume)
dalle tre facce parallele alle prime, e distanti da queste dx, dy e dz, aventi
per normali i versori opposti −î, −ĵ e −k̂. Sulle tre facce che hanno come
normali î, ĵ e k̂, lo sforzo ha solo componente normale pari alla pressione p.
Sulle tre facce che hanno come normali −î, −ĵ e −k̂, la pressione si determi-
na mediante un’espansione in serie di Taylor troncata al primo ordine. Ad
esempio, per quanto riguarda la superficie infinitesima che ha per normale
∂p
−î, la pressione è pari a p + ∂x dx. Moltiplicando la pressione per la super-
ficie e per il versore normale si ottiene il vettore forza che agisce su quella
superficie. L’Eq.(8) diventa, dunque,
 
∂p
pdydz î + p + dx dydz(−î)+
∂x
 
∂p
pdxdz ĵ + p + dy dxdz(−ĵ)+
∂y
 
∂p
pdxdy k̂ + p + dz dxdy(−k̂) = −ρf dW. (9)
∂z

Semplificando, con dW = dxdydz, l’Eq.(9) risulta

∇p = ρf , (10)
∂p
dove ∇p = ∂x i
îi . L’Eq.(10) è l’equazione indefinita che governa la
statica dei fluidi.
Nel caso in cui l’unica forza di volume presente sia la forza peso (statica
dei fluidi pesanti), la forza di volume per unità di massa risulta f = −g∇z̃,
dove g è l’accelerazione di gravità e z̃ è la coordinata lungo la verticale
geodetica, presa positiva verso l’alto (il gradiente di z̃ non è altro che il
versore associato con tale coordinata). L’Eq.(10), quindi, diventa

∇p = −ρg∇z̃. (11)

Vale la pena notare che la scelta del sistema di riferimento è arbitraria. L’u-
so di una notazione differente per distinguere la coordinata geodetica dalla
coordinata z del nostro sistema di riferimento cartesiano è, dunque, giusti-
ficata. A questo punto occorre distinguere i due casi di fluido comprimibile
e incomprimibile.

1.2.1 Fluidi incomprimibili


Nel caso di fluido incomprimibile, la densità è costante e può essere porta-
ta all’interno dell’operatore gradiente nell’Eq.(11). Ammettendo che anche

6
l’accelerazione di gravità sia costante, dividendo tutto per γ = ρg e sfrut-
tando la proprietà distributiva del gradiente rispetto alla somma, l’Eq.(11)
si riduce a  
p
∇ z̃ + = 0, (12)
γ
che rappresenta la Legge di Stevino [1]. Tale legge dice che la quota piezo-
metrica, data dalla somma della quota geodetica z̃ e dell’altezza piezometrica
p/γ, per un fluido pesante incomprimibile in quiete è costante,
p
z̃ + = cost = z̃P CI . (13)
γ

L’Eq.(13) indica che la pressione diminuisce linearmente con la quota geo-


detica, e che il luogo dei punti a pressione costante (superfici isobare) è
costituito da piani orizzontali. Si parla, in questo caso, di distribuzione
idrostatica delle pressioni. Il valore della costante z̃P CI si può determinare
se si conosce il valore della pressione in corrispondenza di una determinata
quota. La costante z̃P CI ha, ovviamente, le stesse dimensioni (metri) di z̃ (e
p/γ). Si può intepretare z̃P CI come la quota geodetica del piano orizzontale
in corrispondenza del quale le pressioni sono nulle, definito piano dei carichi
idrostatici (P.C.I.). La pressione in ogni punto del volume di fluido può
essere determinata come
p = γh, (14)
dove h = z̃P CI − z̃ è l’affondamento del punto considerato rispetto al piano
dei carichi idrostatici.
Nel caso di fluidi con piccolo peso specifico (γ → 0), se le variazioni
di quota geodetica non sono troppo elevate, l’Eq.(12) sembra suggerire che
sia la pressione, e non la quota piezometrica, a essere costante nel fluido.
L’Eq.(13) suggerisce anche che, in questo caso, il piano dei carichi idrostatici
si trova all’infinito. Tale argomento non è del tutto corretto, visto che la
Legge di Stevino vale solo per fluidi incomprimibili, e i fluidi a piccolo peso
specifico non possono essere considerati tali (rimandiamo al prossimo para-
grafo per una trattazione rigorosa dei fluidi comprimibili). Comunque, nel
caso di volumi occupati da gas, la distribuzione di pressione può essere consi-
derata uniforme, se le variazioni di quota geodetica sono piccole (dell’ordine
delle decine di metri). Nel caso dell’aria, per esempio, la pressione atmosfe-
rica è sostanzialmente una costante. Dal momento che, nella maggior parte
delle applicazioni, l’aria è sempre presente, risulta conveniente depurare di
tale costante i valori di pressione. Si definisce, allora, pressione relativa p la
differenza tra il valore di pressione non depurato (assoluto) p∗ e la pressione
atmosferica (assoluta) p∗atm ≈ 105 Pa. Si può, dunque, definire un piano dei
carichi idrostatici relativo e uno assoluto; quest’ultimo si trova più in alto
del primo di una quantità pari a p∗atm /γ. In termini relativi, la pressione
atmosferica risulta ovviamente nulla. Questo è particolarmente utile perché,

7
se un liquido in quiete è direttamente a contatto con l’atmosfera, la quota
della superficie di interfaccia (che si chiama superficie libera) coincide con la
quota del piano dei carichi idrostatici relativo (si ammette che la pressione
sia continua attraverso l’interfaccia).
Per la stragrande maggioranza dei fluidi, gli sforzi normali possono essere
solo di compressione, non di trazione. Questo equivale ad affermare che la
pressione assoluta non può essere negativa. Risulta, dunque, giustificata la
convenzione della Meccanica dei Fluidi di definire il versore normale a una
superficie come entrante nel volume (proprio per rappresentare con valori
positivi lo scalare pressione assoluta). In termini relativi, invece, la pressione
può essere positiva o negativa (depressione). In ogni caso, dalla definizione
di pressione relativa, deve necessariamente valere p ≥ −p∗atm . Quest’ultimo
rappresenta un vincolo fisico sui valori di pressione relativa di cui occorre
tenere conto in talune situazioni.

1.2.2 Fluidi comprimibili


Nel caso di fluidi comprimibili la densità non è costante. Per questo mo-
tivo, l’Eq.(11) da sola non è sufficiente per determinare la distribuzione di
pressione all’interno del fluido. Ad essa va affiancata la legge che lega la
densità alla pressione e alla temperatura, detta Equazione di stato. Tale
equazione è una caratteristica del fluido in esame. Se il fluido è un gas, una
buona approssimazione è l’equazione di stato dei gas perfetti [3], che può
essere scritta come:
p RT
= , (15)
ρ Mmol
dove R ' 8.31 Jmol−1 K−1 è la costante universale dei gas perfetti, T è la
temperatura e Mmol è la massa molare. Se ricaviamo la densità dall’Eq.(15)
e la sostituiamo nell’Eq.(11),

∇p gMmol
= ∇ ln p = − ∇z̃. (16)
p RT

L’Eq.(16) può essere facilmente integrata se ipotizziamo che il fluido sia


isotermo (a temperatura costante), e risulta
 
gMmol
p = p0 exp − (z̃ − z̃0 ) , (17)
RT

dove p0 è la pressione (nota) alla quota z̃0 di riferimento. La pressione dimi-


nuisce, dunque, esponenzialmente con la quota geodetica, e non linearmente
come nel caso dei fluidi incomprimibili.
Se per comodità sostituiamo ψ = p/p0 e ξ = z̃gMmol /(RT ), l’Eq.(17)
diventa semplicemente:
ψ = exp(ξ0 − ξ). (18)

8
Espandendo in serie di Taylor nei dintorni di ξ0 ,

∂ψ
ψ =1+ ∆ξ + O(∆ξ 2 ), (19)
∂ξ ξ=ξ0

dove abbiamo usato la condizione ψ0 = 1 e ∆ξ = ξ − ξ0 . Usando l’Eq.(18)


nell’Eq.(19) otteniamo

ψ = 1 − ∆ξ + O(∆ξ 2 ). (20)

Risostituendo le espressioni di ψ e ξ, ed omettendo i termini di ordine ∆ξ 2 ,


p0 Mmol
p ≈ p0 − g(z̃ − z̃0 ), (21)
RT
che con l’Eq.(15) si riduce a

p ≈ p0 − ρ0 g(z̃ − z̃0 ), (22)

cioè alla Legge di Stevino. La Legge di Stevino è, dunque, una buona ap-
prossimazione anche nel caso dei gas perfetti, a patto che i termini di ordine
∆ξ 2 nell’Eq.(20) siano effettivamente trascurabili. Visto che nell’equazione
è presente un termine di ordine 1, diciamo che la Legge di Stevino è una
buona approssimazione se ∆ξ 2 è al massimo di ordine 10−2 . Questo significa
che ∆ξ deve essere al massimo di ordine 10−1 . Sostituendo l’espressione di
∆ξ, otteniamo un vincolo sulla variazione di quota

10−1 RT
z̃ − z̃0 < . (23)
gMmol

Per l’atmosfera terrestre a temperatura ambiente (Mmol ≈ 30 g/mol, T =


300 K e g = 9.81 m/s2 ), la massima variazione di quota risulta pari a circa
1000 m. Per variazioni di quota geodetica maggiori di questa, la Legge di
Stevino non è più una buona approssimazione e si deve ricorrere all’Eq.(17).
Vale la pena notare che per variazioni di quota dell’ordine dei 10 m (di-
mensioni massime dei serbatoi artificiali), il termine ∆ξ nell’Eq.(20) risulta
di ordine 10−3 , e, quindi, anch’esso trascurabile. In questo caso, l’Eq.(22)
diventa, semplicemente,
p ≈ p0 , (24)
cioè la pressione del gas può essere considerata praticamente costante (di-
stribuzione uniforme delle pressioni).
Un’ultima osservazione riguarda la variazione di densità con la quota
geodetica. Usando l’Eq.(15) nell’Eq.(17), otteniamo
 
gMmol
ρ = ρ0 exp − (z̃ − z̃0 ) . (25)
RT

9
Dal momento che la densità di un gas è pari alla massa m di una molecola
moltiplicata per il numero n di molecole per unità di volume, l’Eq.(25) è
equivalente a  
gMmol
n = n0 exp − (z̃ − z̃0 ) . (26)
RT
Questo significa che il numero di molecole diminuisce esponenzialmente con
la quota geodetica, e tale diminuzione è tanto più sostenuta quanto maggiore
è la massa molare del gas, a parità di temperatura. Questo spiega perché
negli strati più esterni dell’atmosfera terrestre sono presenti gas leggeri co-
me l’idrogeno e l’elio (Mmol = 2 g/mol e 4 g/mol rispettivamente) e non
l’ossigeno (Mmol = 32 g/mol).

1.3 Equazione globale della statica dei fluidi


Abbiamo visto come l’Eq.(11) possa essere utilizzata per ottenere la distri-
buzione di pressione all’interno di un volume di fluido pesante in quiete. Da
un punto di vista pratico, la conoscenza della pressione in un determinato
punto ha valore limitato, mentre è più utile determinare la forza finita che
un fluido in quiete esercita su una certa superficie, finita anch’essa, con cui
è a contatto.
Il tipico procedimento per passare da quantità infinitesime a quantità
finite è quello di integrare le equazioni indefinite su di un volume finito W
(detto volume di controllo) di fluido. Nel caso di fluidi in quiete, dunque,
integrando l’Eq.(10), Z Z
∇pdW = ρf dW. (27)
W W
Il termine a destra dell’Eq.(27), nel tipico caso in cui la forza di volume sia
la forza peso (f = −g∇z̃), si può scrivere come
Z Z 
G=− ρg∇z̃dW = − ρdW g∇z̃, (28)
W W

e rappresenta il peso del fluido contenuto nel volume di controllo. Il termine


a sinistra dell’Eq.(27) può essere convenientemente riscritto utilizzando il
teorema del gradiente:
Z Z Z Z
∂p
∇pdW = îi dW = − pni îi dA = − pn̂dA, (29)
W W ∂xi A A

dove A è la superficie di contorno del volume di controllo W . Si può allora


definire Z
Πp = pn̂dA (30)
A
come la risultante delle pressioni sulla superficie A (forza che dall’esterno
viene esercitata sul contorno del volume di fluido), e riscrivere l’Eq.(27),

10
semplicemente, come
G + Πp = 0, (31)
che rappresenta l’equazione globale della statica dei fluidi pesanti.

11
2 Spinte statiche
I problemi connessi con i fluidi in quiete si riducono alla determinazione della
forza che i fluidi esercitano su una superficie, solitamente, ma non necessa-
riamente, di separazione con un corpo solido. La forza che i fluidi esercitano
sulla superficie è uguale ed opposta alla forza che la superficie esercita sui
fluidi. Abbiamo visto che tale forza dipende dalla distribuzione delle pressio-
ni sulla superficie e dalla geometria della superficie stessa (Eq.30). Conviene
distinguere, a questo punto, tra superfici piane e superfici curve (dette anche
superfici gobbe).

2.1 Spinte su superfici piane


2.1.1 Metodo meccanico
Si consideri la superficie piana generica di area A, che giace su un piano
inclinato di un angolo α rispetto al piano dei carichi idrostatici P.C.I. di un
fluido pesante incomprimibile in quiete, come rappresentato in Fig. 4. De-
finiamo retta di sponda (R.D.S.) l’intersezione tra il P.C.I. e il piano su cui
giace la superficie. Fissiamo un sistema di riferimento in cui l’asse Y coinci-
de con la R.D.S. e l’asse X giace sul piano contenente A ed è ortogonale a Y .

a
η Sp ond Y
a di
Rett
P.C.I.
α
0
α X
h = Xsinα

XG A p n dA
G dA

ξ Πp
CS
ξG X

Figura 4: Spinta su superficie piana generica.

La forza esercitata dalla superficie sul fluido è data dall’Eq.(30). Nel caso
di superfici piane, n̂, che rappresenta il versore della superficie infinitesima

12
dA, è costante, per cui Z 
Πp = pdA n̂. (32)
A

La pressione si calcola dall’Eq.(14), noto l’affondamento h. Con riferimento


alla Fig. 4, risulta
h = X sin α, (33)
per cui l’Eq.(32) diventa
Z 
Πp = γ XdA sin αn̂. (34)
A
R
Per definizione, XG A = A XdA, dove XG è la coordinata X del baricentro
della superficie A. Dunque, visto che hG = XG sin α è l’affondamento del
baricentro rispetto al P.C.I.,

Πp = γhG An̂ = pG An̂, (35)

dove pG è la pressione del fluido in corrispondenza del baricentro della super-


ficie. La spinta S che il fluido esercita sulla superficie, è uguale ed opposta
alla forza Πp che la superficie trasmette al fluido:

S = −Πp = −pG An̂. (36)

Essa è ortogonale alla superficie piana, e ha modulo pari al modulo della


pressione nel baricentro moltiplicato per la superficie:

|S| = |pG |A. (37)

Il verso della spinta dipende dal segno della pressione nel baricentro.
Se pG è positivo, la spinta S è discorde col versore n̂ (il fluido ‘spinge’ la
superficie). Se pG è negativo, la spinta è concorde con il versore n̂ (il fluido
‘tira’ la superficie). Queste considerazioni valgono solo nel caso in cui le
pressioni sono relative. Se utilizziamo pressioni assolute, il fluido non può
che ‘spingere’ la superficie, cosı̀ che la spinta assoluta risulta sempre discorde
col versore n̂.
La retta di applicazione di S coincide con quella di Πp . Per determi-
narla dobbiamo garantire che la somma dei momenti infinitesimi generati
dalle forze infinitesime pn̂dA rispetto a una retta sia uguale al momento
generato dalla risultante Πp rispetto alla stessa retta. Definiamo il centro
di spinta (C.S.) come il punto di intersezione tra la retta di applicazione di
Πp (normale alla superficie) e il piano contenente la superficie A. Sia ξ la
coordinata X del C.S. (distanza del centro di spinta dalla retta di sponda)
e η la coordinata Y . Il momento di Πp rispetto all’asse Y , pari alla com-
ponente di Πp nella direzione n̂ moltiplicato per la distanza del C.S. dalla

13
R.D.S., deve essere uguale alla somma dei momenti delle forze infinitesime
rispetto alla R.D.S.:
Z 

Πp · n̂ ξ = pXdA n̂ · n̂, (38)
A

dove la X all’interno dell’integrale rappresenta il braccio della forza infinite-


sima rispetto alla R.D.S.. Usando l’Eq.(33) e l’Eq.(35), visto che n̂ · n̂ = 1,
l’Eq.(38) diventa
Z 
2
γXG sin αAξ = γ X dA sin α, (39)
A

da cui si può ricavare ξ come


I
ξ= , (40)
M
con I = A X 2 dA momento d’inerzia della superficie A rispetto alla R.D.S.
R

e M = XG A momento statico della superficie A rispetto alla R.D.S..


Per determinare la coordinata η, procediamo allo stesso modo, ma cal-
colando i momenti rispetto all’asse X. Si ottiene,
Z 

Πp · n̂ η = pY dA n̂ · n̂, (41)
A

da cui
IXY
η= , (42)
M
R
dove IXY = A XY dA è il momento centrifugo della superficie A rispetto
agli assi X e Y . Se la superficie A è dotata di un asse di simmetria parallelo
all’asse X, il momento centrifugo rispetto ad esso e alla R.D.S. è nullo. Il
C.S. appartiene, dunque, a tale asse di simmetria. Una rappresentazione più
comoda dell’Eq.(40) può essere ottenuta notando che
Z Z Z Z
2 2 2
(X − XG ) dA = X dA + XG dA − 2 XXG dA. (43)
A A A A

Dal momento che XG non varia in A, la si può portare fuori dagli integrali
e ottenere:
Z Z Z
2 2 2 2
(X − XG ) dA = X dA + XG A − 2XG A = X 2 dA − XG2
A. (44)
A A A

Il primo termine a sinistra dell’uguale nell’Eq.(44) rappresenta il momento


d’inerzia IG della superficie A rispetto ad un asse baricentrale parallelo alla
R.D.S.. Abbiamo appena dimostrato il teorema di Huygens-Steiner, o degli
assi paralleli, che, nel caso in esame, si riduce a

I = IG + XG M. (45)

14
Usando l’Eq.(45) nell’Eq.(40) otteniamo

IG
ξ= + XG = ξG + XG . (46)
M
La quantità ξG rappresenta la distanza del C.S. dal baricentro della super-
ficie misurata lungo X. Questa rappresentazione è più comoda dell’Eq.(40)
perché IG non dipende dalla posizione del P.C.I., ma solo dalla geometria
della superficie (il valore di IG per le geometrie più comuni è tabellato).
Dal momento che IG è una quantità positiva e M ha lo stesso segno di XG ,
l’Eq.(46) indica che il C.S. si trova sempre più lontano del baricentro dalla
R.D.S..
I risultati ottenuti in questo paragrafo sono validi anche nel caso in cui
la superficie sia a contatto con un fluido di piccolo peso specifico. In questo
caso, l’analisi si semplifica, perché la pressione può essere considerata distri-
buita in maniera uniforme: la R.D.S. si trova all’infinito (o a meno infinito se
la pressione è negativa), per cui anche il momento statico M è una quantità
infinita e il C.S. coincide col baricentro della superficie (ξ = XG dall’Eq.46).

2.1.2 Metodo geometrico


Esiste un metodo semplice per la determinazione della spinta su una super-
ficie piana che si basa su concetti di natura geometrica. R
Notiamo che l’integrale nell’Eq.(32) rappresenta il volume Wp = A pdA
di un solido (detto solido delle pressioni) che si costruisce riportando,
perpendicolarmente alla superficie A, segmenti di lunghezza p in corrispon-
denza di ogni elemento infinitesimo dA: il volume del solido delle pressioni
ha come dimensioni quelle di una forza, e si deve ammettere che possa avere
valori negativi qualora il fluido sia in depressione. La spinta sulla superficie
piana A si calcola, allora, come

S = −Πp = −Wp n̂. (47)

Il solido delle pressioni è un caso particolare di cilindroide, volume com-


preso tra una superficie piana di base perpendicolare alle generatrici e una
superficie piana inclinata rispetto alle generatrici. Il volume Wp si calcola
facilmente come altezza in corrispondenza del baricentro della superficie di
base moltiplicata per la superficie stessa, i.e.,

Wp = pG A, (48)

in accordo con l’Eq.(36).


Anche il centro di spinta (e, di conseguenza, la retta di applicazione)
può essere facilmente determinato attraverso il metodo geometrico. Se indi-
chiamo come pdA = dWp l’elemento infinitesimo del volume del solido delle

15
pressioni, e usiamo l’Eq.(47), le Eqs. (38) e (41) possono essere riscritte come
R
Wp XdWp
ξ= , (49)
Wp
e R
Wp Y dWp
η= . (50)
Wp
Le coordinate del centro di spinta corrispondono, dunque, per definizione,
alle coordinate del baricentro del solido delle pressioni.

2.2 Spinte su superfici curve


Nel caso in cui si voglia determinare la spinta che il fluido esercita su una
superficie curva, la trattazione del paragrafo precedente non è più valida.
La ragione sta nel fatto che non esiste un unico versore normale alla su-
perficie curva: n̂ non può essere considerato costante e, quindi, tirato fuori
dall’integrale nell’Eq.(30).
Data la superficie curva A0 a contatto col fluido o con più fluidi stratifi-
cati, per i quali la distribuzione delle pressioni sia continua, si individua un
volume di controllo W con i seguenti criteri:

• la superficie A0 deve essere parte del contorno del volume W (può


coincidere con l’intera superficie di contorno del volume);

• il resto del contorno (se esiste) deve essere costituito da superfici piane;

• il volume di controllo deve essere riempito con i fluidi, in modo che la


superficie A0 sia a contatto con gli stessi fluidi con cui è a contatto
nella realtà;

• i fluidi nel volume di controllo devono avere la stessa distribuzione di


pressioni che hanno nella realtà;

• le superfici di separazione tra fluidi diversi devono essere orizzontali.

Il volume di controllo deve essere in equilibrio, per cui deve valere l’equa-
zione globale della statica (Eq.31). La risultante delle pressioni agenti sulla
superficie di contorno di W , Πp , può anche essere scritta come

Πp = Π0 + Σni=1 Πi , (51)

dove Π0 è la risultante delle pressioni su A0 , mentre Σni=1 Πi è la somma delle


risultanti delle pressioni sulle restanti n superfici piane che costituiscono il
contorno del volume di controllo. Sostituendo nell’Eq.(31), risulta

Π0 = −G − Σni=1 Πi . (52)

16
Il problema del calcolo della spinta su una superficie curva è stato trasfor-
mato, dunque, nel calcolo di una forza peso e di n spinte su superfici piane
(determinate come spiegato nel paragrafo precedente). La spinta S cerca-
ta può essere uguale a +Π0 o a −Π0 , in funzione del volume di controllo
scelto (si veda a questo proposito la dispensa sugli Esercizi di Statica dei
Fluidi).

17
Riferimenti bibliografici
[1] Stevin, S., De Beghinselen der Weeghconst (1586).

[2] Cauchy, A.-L., De la pression ou tension dans un corps solide, Exercices


de Mathématiques 2, 42 (1827).

[3] Clapeyron, E., Mémoire sur la puissance motrice de la chaleur, Journal


de l’École Polytechnique XIV, 153-190 (1834).

18
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


3. Cinematica dei Fluidi

A cura di: Diego Berzi

v1.3
Indice
1 Nozioni fondamentali 3
1.1 Velocità e accelerazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
1.2 Moti relativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
1.3 Punto di vista Euleriano e Lagrangiano . . . . . . . . . . . . 6
1.4 Tipologie di moto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

2 Analisi delle deformazioni del fluido 8


2.1 Gradiente di velocità e sua decomposizione . . . . . . . . . . 8
2.2 Significato fisico del tensore delle velocità di deformazione . . 9
2.3 Significato fisico del tensore delle rotazioni rigide . . . . . . . 12

2
1 Nozioni fondamentali
1.1 Velocità e accelerazione
Data una particella di fluido che, in un certo istante di tempo t, si trova in un
punto individuato dal vettore posizione x = xi îi in un sistema di riferimento
cartesiano inerziale (assoluto), si definisce velocità della particella il vettore

dx d(xi îi ) dxi


v= = = îi , (1)
dt dt dt
di componenti scalari vi = dxi /dt, dove l’operatore d/dt rappresenta la
derivata totale (assoluta o sostanziale) nel tempo. Questo risultato deriva
dal fatto che, per un sistema di riferimento inerziale, dîi /dt = 0. Il vettore
velocità è una funzione dello spazio e del tempo, v = v(x, y, z, t); costituisce,
dunque, un campo vettoriale detto campo di moto del fluido.
Il luogo dei punti successivamente occupato da una particolare particella
di fluido è detto traiettoria. La traiettoria è una linea, lungo la quale
possiamo definire un’ascissa curvilinea s. Se definiamo il versore t̂ tangente
in ogni punto alla traiettoria, lo spostamento infinitesimo della particella nel
sistema di riferimento inerziale può essere scritto come dx = t̂ds (Fig. 1(a)).
Dalla definizione di velocità, otteniamo
dx dx ds
v= = = vs t̂, (2)
dt ds dt
dove vs = ds/dt rappresenta la componente scalare della velocità nella
direzione tangente alla traiettoria, unica presente.

ds
s

t dθ
s r

z n
y
x
(a) (b)

Figura 1: (a) traiettoria di una particella; (b) cerchio osculatore.

A partire dalla conoscenza della velocità della particella di fluido, è possibile


ricavare il vettore accelerazione nel sistema di riferimento assoluto come
dv d2 x d2 xi
a= = 2 = îi , (3)
dt dt dt2

3
di componenti scalari ai = d2 xi /dt2 = dvi /dt. Se deriviamo rispetto al
tempo la velocità espressa dall’Eq.(2), otteniamo

dv d2 s dt̂
a= = 2 t̂ + vs . (4)
dt dt dt
Si può dimostrare facilmente che la derivata temporale assoluta del versore
tangente è normale al versore stesso e diretta verso il centro del cerchio
osculatore (tangente alla traiettoria nel punto considerato). Indicando con
n̂ il versore associato a tale direzione, risulta

dt̂ dθ
= n̂, (5)
dt dt
dove dθ è la variazione infinitesima dell’angolo al centro del cerchio oscula-
tore (Fig. 1(b)). Dal momento che rdθ = ds, dove r è il raggio del cerchio
osculatore, l’Eq.(4) si può scrivere come

a = as t̂ + an n̂, (6)

dove as = d2 s/dt2 = dvs /dt è l’accelerazione tangenziale, mentre an = vs2 /r


è l’accelerazione normale o centripeta.

1.2 Moti relativi


Consideriamo ora il caso generale in cui un sistema di riferimento sia in moto
relativo rispetto ad uno assoluto (inerziale). Utilizziamo l’apice per indicare
le grandezze associate al sistema di riferimento relativo. La posizione assolu-
ta della particella di fluido può essere ricavata come x = xo +x0 = xoi îi +x0i î0i ,
dove xo rappresenta la posizione assoluta dell’origine del sistema di riferi-
mento relativo, e x0 è la posizione della particella nel sistema di riferimento
relativo (Fig. 2).


x
x ‘ ‘
k j
k ‘
x0 i
i j

Figura 2: sistema di riferimento assoluto e relativo.

La velocità assoluta della particella si può, allora, scrivere come

dx0 dx0 dxoi dx0 dî0


v= + = îi + i î0i + x0i i . (7)
dt dt dt dt dt

4
L’ultimo termine a destra dell’Eq.(7) è presente perchè il sistema di riferi-
mento relativo può essere, in generale, non inerziale. La derivata temporale
assoluta del versore si può scrivere, attraverso la relazione di Poisson, come

dî0i
= ω × î0i , (8)
dt
dove ω è il vettore velocità angolare associato con la rotazione del sistema
di riferimento relativo rispetto a quello assoluto. Otteniamo, allora,

dî0i
x0i = ω × x0 , (9)
dt
e l’Eq.(7) diventa
v = v o + v 0 + ω × x0 , (10)
dove: vo = dxo /dt è la velocità assoluta dell’origine del sistema di riferi-
mento relativo; v0 = vi0 î0i = (dx0i /dt)î0i è la velocità di trascinamento trasla-
torio; ω × x0 è la velocità di trascinamento rotatorio. L’Eq.(10) permette di
esprimere la velocità nel sistema di riferimento assoluto a partire da quella
relativa e viceversa.
L’accelerazione si ottiene derivando rispetto al tempo l’Eq.(10):

dvo dv0 dω dx0


a= + + × x0 + ω × . (11)
dt dt dt dt
Il primo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(11) rappresenta l’accelerazione
assoluta dell’origine del sistema di riferimento relativo, ao = dvo /dt. Il
secondo termine si può scrivere, usando l’Eq.(8), come

dv0 dx0i 0 d2 x0i 0 dx0i dî0i


 
d
= î = î + = a0 + ω × v0 , (12)
dt dt dt 1 dt2 i dt dt

dove a0 = (d2 x0i /dt2 )î0i è l’accelerazione della particella nel sistema di riferi-
mento relativo. Il terzo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(11) rappresenta
il contributo dovuto all’accelerazione angolare dω/dt. Inoltre, abbiamo già
visto che
dx0
= v 0 + ω × x0 . (13)
dt
L’Eq.(11) si può scrivere, quindi, come


a = ao + a0 + 2ω × v0 + × x0 + ω × (ω × x0 ), (14)
dt
dove: 2ω × v0 è l’accelerazione di Coriolis; dω/dt × x0 è l’accelerazione tan-
genziale del vettore x0 ; ω × (ω × x0 ) è l’accelerazione radiale (centripeta) del
vettore x0 .

5
1.3 Punto di vista Euleriano e Lagrangiano
Finora abbiamo parlato di velocità e accelerazioni della particella di fluido,
cioè della velocità e dell’accelerazione viste da un osservatore che è in grado
di identificare la particella e di seguirla lungo il suo moto. Il punto di vista di
questo osservatore è detto Lagrangiano, e la maggior parte delle equazioni
della Fisica sono scritte utilizzando tale approccio.
Nel caso della Meccanica dei Fluidi, risulta, spesso, più opportuno met-
tersi nei panni di un osservatore fisso in un sistema di riferimento inerzia-
le, che vede come le grandezze sono distribuite nello spazio in ogni istante
di tempo, senza associarle ad una particolare particella di fluido. Questo
secondo punto di vista è detto Euleriano.
Matematicamente, il punto di vista Lagrangiano si caratterizza per l’uso
della derivata temporale assoluta (o sostanziale). Per passare dal punto
di vista Lagrangiano a quello Euleriano si utilizza il concetto di campo,
secondo il quale una generica grandezza ξ = ξ (t, x(t), y(t), z(t)) è funzione
del tempo t e delle coordinate spaziali, x, y e z, a loro volta variabili nel
tempo. Utilizzando il concetto di derivata di funzione composta, si può
scrivere
dξ ∂ξ dx ∂ξ dy ∂ξ dz ∂ξ ∂ξ ∂ξ ∂ξ ∂ξ
= + + + = + vx + vy + vz , (15)
dt ∂t dt ∂x dt ∂y dt ∂z ∂t ∂x ∂y ∂z
o, in forma compatta,
dξ ∂ξ ∂ξ
= + vj , (16)
dt ∂t ∂xj
dove il simbolo ∂ è usato per indicare la derivata parziale. L’Eq.(16) rap-
presenta la regola di derivazione Euleriana, che permette di passare dalla
forma Lagrangiana a quella Euleriana delle equazioni (e viceversa).
Si dimostra facilmente che l’Eq.(1) esprime la velocità in un sistema di
riferimento inerziale sia nel caso di punto di vista Lagrangiano che Eule-
riano. Diversa è, però, la rappresentazione del campo di moto del fluido
nei due casi. Il concetto di traiettoria è, infatti, un tipico concetto Lagran-
giano, incompatibile col punto di vista Euleriano, dove, per definizione, le
particelle di fluido sono indistinguibili. Nel punto di vista Euleriano si uti-
lizzano le linee di corrente, definite come le curve tangenti, in ogni punto
e istante per istante, ai vettori velocità. La traiettoria rappresenta la storia
di una singola particella; la linea di corrente, in un certo istante, fornisce
informazioni relative a infinite particelle.
Applichiamo ora la regola di derivazione Euleriana a ciascuna delle com-
ponenti dell’accelerazione, cosı̀ come espressa dall’Eq.(3), e otteniamo
dvi ∂vi ∂vi
a= îi = îi + vj îi . (17)
dt ∂t ∂xj
Riconosciamo nell’ultimo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(17) un pro-
dotto misto vettore-tensore (Cap. 1, Par. 1.2): in particolare, tra il vettore

6
v e il tensore ∇v (Cap. 1, Par. 1.3), il cui generico elemento posto all’in-
tersezione tra la riga j-esima e la colonna i-esima è ∂vi /∂xj . In forma
compatta Euleriana, l’accelerazione nel sistema di riferimento inerziale si
scrive, dunque, come
∂v
a= + v · ∇v. (18)
∂t
Il primo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(18) è l’accelerazione locale
(variazione della velocità nel tempo in un punto dello spazio fissato). Il
secondo termine rappresenta l’accelerazione convettiva (dovuta a variazioni
di velocità nello spazio a tempo fissato).

1.4 Tipologie di moto


Dalla descrizione del punto di vista Euleriano, e dall’applicazione della re-
gola di derivazione rappresentata dall’Eq.(16), abbiamo capito che, nella
Meccanica dei Fluidi, si distinguono le variazioni locali (nel tempo a spa-
zio fissato) della velocità dalle sue variazioni spaziali (nello spazio a tempo
fissato). Da questa distinzione discende immediatamente la definizione dei
possibili regimi di moto di un fluido.
Si definisce moto stazionario o permanente il moto per il quale la
velocità (e tutte le altre grandezze) risultano indipendenti dal tempo (seb-
bene possano variare nello spazio). Se il moto è stazionario, traiettorie e
linee di corrente coincidono. Se la dipendenza dal tempo non può essere
trascurata, il moto è detto non-stazionario o vario.
Si definisce moto uniforme il moto per il quale la velocità non varia
nello spazio. In senso debole, è detto moto uniforme anche il moto per
cui la velocità non varia almeno nella direzione principale del flusso. Il
moto non-uniforme, in genere, è un moto tridimensionale (3D), per sua
natura molto difficile da affrontare. La dimensionalità spaziale del moto può,
tuttavia, ridursi in presenza di simmetrie. Altre strategie per diminuire la
dimensionalità spaziale del problema verranno illustrate in seguito.

7
2 Analisi delle deformazioni del fluido
2.1 Gradiente di velocità e sua decomposizione
Abbiamo visto (Cap. 1, Par. 2.2) che nella Meccanica dei Fluidi il fluido vie-
ne trattato come un mezzo continuo. Questo significa che tutte le grandezze
ad esso associate (densità, velocità, sforzi, ecc.) sono considerate variabi-
li continue. Questa proprietà è stata sfruttata, per esempio, per ottenere
l’equazione indefinita della Statica (Cap. 2, Par. 1.2). Applicata alla Ci-
nematica, la Meccanica del Continuo ci permette di definire la velocità del
fluido in un punto dello spazio che si trova nell’intorno infinitesimo di un
altro punto O, in un determinato istante di tempo. Infatti, espandendo in
serie rispetto al punto O,
∂v ∂v ∂v ∂vi
v = vO + dx + dy + dz = vO + dxj îi , (19)
∂x ∂y ∂z ∂xj
dove le derivate si intendono valutate nel punto O e dx, dy e dz rappre-
sentano le componenenti scalari del vettore distanza dx da O (al solito,
l’espansione in serie di Taylor è arrestata al primo ordine). L’ultimo termi-
ne a destra dell’uguale nell’Eq.(19) è il prodotto misto tra il vettore dx e il
tensore ∇v, per cui
v = vO + dx · ∇v. (20)
Il tensore gradiente di v, in forma esplicita, risulta
 ∂v
x ∂vy ∂vz 
 ∂x ∂x ∂x 
 ∂vx ∂vy ∂vz 
∇v =   . (21)
∂y ∂y ∂y 
∂vx ∂vy ∂vz
 
∂z ∂z ∂z
Si può sempre pensare di esprimere un tensore come somma di un tensore
simmetrico e di uno emisimmetrico. Lavorando sugli elementi del tensore
∇v, infatti,
   
∂vi 1 ∂vi ∂vj 1 ∂vi ∂vj
(∇v)ji = = + + − . (22)
∂xj 2 ∂xj ∂xi 2 ∂xj ∂xi
Il primo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(22) rappresenta il generi-
co elemento j-i di un tensore, D, simmetrico (Dij = Dji ), che, in forma
esplicita, risulta
     
∂vx 1 ∂vy ∂vx 1 ∂vz ∂vx
+ +
  ∂x  2 ∂x ∂y 2  ∂x ∂z  


 1 ∂vy ∂vx ∂vy 1 ∂vz ∂vy 
D=  + + , (23)
 2  ∂x ∂y  ∂y 2 ∂y ∂z 
  
 1 ∂vz ∂vx 1 ∂vz ∂vy ∂vz 
+ +
2 ∂x ∂z 2 ∂y ∂z ∂z

8
chiamato tensore delle velocità di deformazione.
Il secondo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(22) rappresenta il generi-
co elemento j-i di un tensore, Ω, emisimmetrico (Ωij = −Ωji ), che, in forma
esplicita, risulta
     
1 ∂vy ∂vx 1 ∂vz ∂vx
0 − −
 2 ∂x ∂y 2  ∂x ∂z  

  
 1 ∂vx ∂vy 1 ∂vz ∂vy 
Ω=  − 0 − , (24)
 2  ∂y ∂x   2 ∂y ∂z 
 
 1 ∂vx ∂vz 1 ∂vy ∂vz 
− − 0
2 ∂z ∂x 2 ∂z ∂y

chiamato tensore delle rotazioni rigide.


L’Eq.(20) diventa, quindi,

v = vO + dx · D + dx · Ω. (25)

2.2 Significato fisico del tensore delle velocità di deformazio-


ne
Per comprendere il significato fisico dei termini del tensore D, e la ragione
della sua denominazione, dobbiamo, innanzitutto, distinguere gli elementi
diagonali da quelli extra-diagonali (rettangolari). Per semplicità, analizzia-
mo il caso di un moto bidimensionale nel piano x-y. L’estensione al caso
3D è immediata. Se il moto è piano, sia D che Ω si riducono a matrici
quadrate 2x2. Prendiamo quattro punti (O-P -Q-R) all’interno del dominio
geometrico occupato dal fluido che, all’istante t0 , costituiscano i vertici di un
rettangolo di lati dx e dy infinitesimi. Senza perdita di generalità, poniamo
l’origine del sistema di riferimento nel punto O e supponiamo che la velocità
in O sia nulla, vO = (0, 0). Le velocità
 degli altri tre punti sicalcolano facil-

∂vy ∂vy
mente per mezzo dell’Eq.(19): vP = ∂v x
dx, dx ; v R = ∂vx
dy, dy ;
  ∂x ∂x ∂y ∂y
∂vy ∂vy
vQ = ∂v ∂vx
∂x dx + ∂y dy, ∂x dx + ∂y dy .
x

Per mettere in evidenza il ruolo dei termini diagonali di D, conviene met-


tersi nel caso particolare in cui sia i termini rettangolari di D che i termini di
Ω sono nulli. Tale condizione è verificata se poniamo ∂vx /∂y = ∂vy /∂x = 0.
In questo caso particolare,
 le velocità
 dei punti sono:
 vO = (0, 0); vP =
∂vx
 ∂vy ∂vx ∂vy
∂x dx, 0 ; vR = 0, ∂y dy ; vQ = ∂x dx, ∂y dy . Dopo un intervallo di
tempo infinitesimo dt, il rettangolo OP QR si trasforma, dunque, nel rettan-
golo OP 0 Q0 R0 (Fig. 3). I lati si allungano, mentre gli angoli rimangono retti.
Gli elementi diagonali di D generano, dunque, cambiamenti di superficie (di
volume nel caso 3D) senza cambiamenti di forma. Calcoliamo ora l’allunga-
mento subito dai lati del rettangolo paralleli all’asse delle x, che coincide con
la lunghezza del segmento P P 0 . Esso è pari al prodotto della velocità del

9
y ‘ ‘
R Q
∂ vy
dy dt R Q
∂y

dy


O P P x
dx ∂ vx
dx dt
∂x

Figura 3: deformazione lineare.

punto P per l’intervallo di tempo dt. Il rapporto tra l’allungamento P P 0 e


la lunghezza iniziale del lato OP è detto allungamento unitario in direzione
x, dx , e risulta:
∂vx
PP0 dxdt ∂vx
dx = = ∂x = dt. (26)
OP dx ∂x
Dall’Eq.(26) si ottiene
∂vx dx
= , (27)
∂x dt
cioè che il primo termine sulla diagonale di D rappresenta la velocità di
∂v d
deformazione lineare in direzione x. Analogamente, ∂yy = dty e, nel caso
3D, ∂v dz
∂z = dt . Nel caso 3D, possiamo calcolare la variazione di volume dW
z

che subisce un parallelepipedo di lati infinitesimi dx, dy e dz (e, dunque,


volume iniziale W = dxdydz) per effetto dei termini diagonali di D. Risulta,
infatti,
   
dx dy dz
dW = dx + dxdt dy + dydt dz + dzdt − dxdydz. (28)
dt dt dt
Dividendo tutto per W , svolgendo il triplo prodotto di binomi e trascurando
gli infinitesimi di ordine superiore a uno, otteniamo
1 dW dx dy dz ∂vx ∂vy ∂vz
= + + = + + = ∇ · v, (29)
W dt dt dt dt ∂x ∂y ∂z
cioè che la divergenza di v, che coincide con la traccia (somma degli elementi
diagonali) del tensore D, rappresenta la dilatazione volumetrica (variazione
percentuale di volume nell’unità di tempo). I moti in cui la divergenza di
v è nulla vengono detti isocori perché il volume si conserva (dal greco iso,
uguale, e chóra, volume).
Torniamo ora al caso piano iniziale. Per mettere in evidenza il ruolo dei
termini rettangolari di D, conviene mettersi nel caso particolare in cui sia
i termini diagonali di D che i termini di Ω sono nulli. Tale condizione è

10
verificata se poniamo ∂vx /∂x = ∂vy /∂y = 0 e ∂vx /∂y = ∂vy /∂x. In questo 
∂v
caso particolare, le velocità dei punti sono: vO = (0, 0); vP = 0, ∂xy dx ;
   
∂vy
vR = ∂v ∂y
x
dy, 0 ; v Q = ∂vx
∂y dy, ∂x dx . Dopo un intervallo di tempo infi-
nitesimo dt, il rettangolo OP QR si trasforma, dunque, nel parallelogramma
OP 0 Q0 R0 (Fig. 4). La lunghezza dei lati rimane inalterata (al primo ordine),

∂ vx
y dy dt ‘
∂y Q

R R Q

dy ‘
∂ vy
P dx dt
∂x
O P x
dx

Figura 4: deformazione angolare.

mentre gli angoli si deformano. Gli elementi rettangolari di D generano,


dunque, cambiamenti di forma senza cambiamenti di superficie (di volume
nel caso 3D). Calcoliamo ora la diminuzione dγz subita dall’angolo retto
ˆ (il pedice z sta a indicare che la deformazione è avvenuta a causa
ROP
di rotazioni dei lati attorno all’asse z). Dal momento che gli spostamenti
ˆ 0 e ROR
sono infinitesimi, gli angoli P OP ˆ 0 si possono confondere con le loro
tangenti, per cui risulta:
∂vy ∂vx
dy dydt
0 0
ˆ 0 ) = − P P − RR = −
ˆ 0 + ROR dx dxdt
dγz = −(P OP − . (30)
OP OR dx dy

Dall’Eq.(30) si ottiene
 
1 ∂vy ∂vx 1 dγz
+ =− , (31)
2 dx dy 2 dt

cioè che l’elemento x-y del tensore D rappresenta la metà della velocità
di deformazione angolare sul piano perpendicolare
  a z. Analogamente,
1 dγy ∂vy
1 ∂vz ∂vx
= − 2 dt e, nel caso 3D, 2 dy + dz = − 12 dγ
1 ∂vz
 x
2 dx + dz dt .

Complessivamente, il tensore D si può rappresentare come


dx 1 dγz 1 dγy
 
− −
 1dtdγz 2 dt 2 dt 

dy 1 dγx 
D=  − 2 dt − . (32)
 1 dγ dt 2 dt 
y 1 dγx dz 
− −
2 dt 2 dt dt

11
2.3 Significato fisico del tensore delle rotazioni rigide
Ritorniamo al caso piano, con il rettangolo iniziale OP QR. Per mettere in
evidenza il ruolo dei termini di Ω, conviene mettersi nel caso particolare in
cui sia i termini diagonali che rettangolari di D sono nulli. Tale condizione
è verificata se poniamo ∂vx /∂x = ∂vy /∂y = 0 e ∂vy /∂x = −∂vx /∂y > 0. In
questo
 caso
 particolare,
 le velocità
 deipunti diventano:
 vO = (0, 0); vP =
∂vy ∂vx ∂vx ∂vy
0, ∂x dx ; vR = ∂y dy, 0 ; vQ = ∂y dy, ∂x dx . Dopo un intervallo
di tempo infinitesimo dt il punto R si è spostato nella direzione negativa
dell’asse delle ascisse, mentre il punto P si è spostato nella direzione positiva
dell’asse delle ordinate. Dal momento che, per spostamenti infinitesimi, gli
∂ vx
dy dt y ‘
∂y
‘ Q
R Q
R
dy ‘ ∂ vy
P dx dt
∂x
O P x
dx

Figura 5: rotazione rigida.


ˆ 0 e ROR
angoli P OP ˆ 0 si confondono con le loro tangenti, risulta

PP0
∂vy
∂x dxdt
− ∂v
∂y dydt
x
RR0
ˆ
P OP =0 = = = = RORˆ 0. (33)
OP dx dy OR
Il rettangolo OP QR ha, quindi, subito una rotazione rigida attorno all’asse
z senza deformarsi (Fig. 5). Dividendo l’angolo di rotazione per l’intervallo
di tempo otteniamo la velocità di rotazione angolare ωz . Dall’Eq.(33) risulta
   
∂vy 1 ∂vy ∂vy 1 ∂vy ∂vx
= + = − = ωz , (34)
∂x 2 ∂x ∂x 2 ∂x ∂y
cioè che l’elemento x-y del tensore Ω rappresenta la velocità di rotazione
1 ∂vx ∂vz

angolare
 attorno
 all’asse z. Analogamente, nel caso 3D, 2 ∂z − ∂x = ωy
1 ∂vz ∂vy
e 2 ∂y − ∂z = ωx . Il tensore Ω si può, quindi, rappresentare come
 
0 ωz −ωy
Ω =  −ωz 0 ωx  . (35)
ωy −ωx 0
I termini ωx , ωy e ωz possono essere visti come componenti scalari di un
vettore, ω. Si dimostra facilmente (Cap. 1,Par. 1.3) che
1 1
ω = ∇ × v = w, (36)
2 2

12
dove w, il rotore di v, è detto vorticità. Con questo, l’Eq.(25) si può anche
scrivere (Cap. 1, Par. 1.2) come
1
v = vO + dx · D + w × dx. (37)
2
L’Eq.(37) mostra che il campo di moto di un fluido nei dintorni di un punto
può essere scomposto in una componente detta di traslazione rigida (vO ), in
una componente di deformazione (dx · D) e in una componente di rotazione
rigida ( 12 w × dx).
Possiamo utilizzare l’analisi appena svolta sul gradiente di velocità per
scrivere l’Eq.(18) in maniera alternativa. Infatti, l’accelerazione convettiva
nell’Eq.(18) si può esprimere come
 
∂vi ∂vi ∂vj ∂vj
v · ∇v = vj îi = vj + − îi =
∂xj ∂xj ∂xi ∂xi
 
∂vj ∂vi ∂vj
vj îi + vj − îi =
∂xi ∂xj ∂xi
 
1 ∂(vj vj ) ∂vi ∂vj
îi + vj − îi . (38)
2 ∂xi ∂xj ∂xi

Riconosciamo nell’ultimo termine a destra dell’uguale nell’Eq.(38) il prodot-


to scalare tra il vettore velocità e il doppio del tensore Ω, per cui
1
v · ∇v = ∇(v · v) + v · 2Ω. (39)
2
Ricordando la relazione tra prodotto scalare di un vettore per sé stesso e
il suo modulo (Cap. 1, Par. 1.2) e la relazione tra vorticità e tensore Ω
utilizzata nell’Eq.(37), l’accelerazione si può infine scrivere come

∂v 1 2
a= + ∇v + w × v. (40)
∂t 2

13
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


4. Dinamica dei Fluidi

A cura di: Diego Berzi

v1.2
Indice
1 Bilancio di massa 3
1.1 Forma indefinita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
1.2 Forma globale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
1.3 Correnti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6

2 Bilancio di quantità di moto 9


2.1 Forma indefinita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
2.2 Forma globale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

3 Bilancio di momento della quantità di moto 14

2
1 Bilancio di massa
Il bilancio di massa esprime il principio di conservazione della massa. Es-
sendo la massa una quantità scalare, vedremo che tale bilancio si ridurrà
ad una equazione scalare detta equazione di continuità. L’equazione di
continuità può essere espressa in forma indefinita (nella quale compaiono
quantità locali) o globale. A sua volta la forma indefinita può essere espres-
sa usando un punto di vista Lagrangiano o Euleriano. Un caso particolare
di equazione di continuità può essere ricavato per le correnti, definite, ge-
nericamente, come un fascio di linee di corrente tra di loro quasi-parallele.
Ci limiteremo qui ad analizzare il caso di fluidi non reattivi, cioè fluidi che
non subiscono reazioni chimiche e/o nucleari.

1.1 Forma indefinita


Il bilancio di massa per una particella di fluido non reattivo afferma, sem-
plicemente, che la sua massa m si deve conservare, cioè che la sua derivata
sostanziale nel tempo deve esssere pari a zero. In termini matematici,
dm
= 0. (1)
dt
La massa è pari al prodotto di densità ρ e volume W per cui l’Eq.(1) diventa,

d(ρW ) dW dρ
=ρ +W = 0. (2)
dt dt dt
Dividendo tutto per il volume, e ricordando che la variazione percentuale
di volume nel tempo è pari alla divergenza del vettore velocità (Cap. 3,
Par. 2.2),

+ ρ∇ · v = 0. (3)
dt
L’Eq.(3) rappresenta l’equazione di continuità in forma indefinita Lagran-
giana.

z
∂ (ρ vy )
dz ρ vy + dy dt dx dz
ρ vy dt dx dz ∂y

y
dx
x
dy

Figura 1: volume di controllo infinitesimo per la derivazione del bilancio di


massa in forma Euleriana.

3
Prendiamo ora in considerazione un parallelepipedo infinitesimo fisso nel-
lo spazio, avente lati dx, dy e dz, e facce parallele a due a due con gli assi
del sistema di riferimento, attraversato da particelle di fluido (Fig. 1). Il
principio di conservazione della massa applicato a tale volume afferma, sem-
plicemente, che la massa entrata in un certo intervallo di tempo meno quella
uscita deve essere pari alla massa accumulata. Consideriamo ora le due facce
del parallelepipedo aventi per normale un versore parallelo a quello dell’asse
y. Le particelle che nell’intervallo di tempo infinitesimo dt attraversano la
faccia che ha per normale il versore concorde con ĵ sono solo quelle che si tro-
vano a una distanza pari a vy dt da essa (le altre componenti di velocità sono
tangenti alla superficie e non contribuiscono al flusso di massa attraverso
essa), cioè che si trovano nel volume vy dtdxdz. La massa entrata attraverso
quella superficie nell’intervallo di tempo dt risulta, dunque, ρvy dtdxdz. La
massa che, nell’intervallo di tempo dt, attraversa la superficie che ha come
normale il versore discorde con ĵ è pari a
∂(ρvy )
ρvy dtdxdz + dydtdxdz, (4)
∂y
con il consueto uso della Meccanica del Continuo (espansione in serie arre-
stata al primo ordine). Tale massa deve intendersi come uscita dal volume,
per cui, complessivamente, la massa netta entrata nel volume nell’intervallo
di tempo dt attraverso le facce normali all’asse y risulta
 
∂(ρvy ) ∂(ρvy )
ρvy dtdxdz − ρvy dtdxdz + dydtdxdz = − dxdydzdt. (5)
∂y ∂y
Procedendo in maniera analoga per le facce normali all’asse x e all’asse
z, si determina che la massa netta complessivamente entrata nel volume
nell’intervallo di tempo dt attraverso la sua superficie di contorno è pari a
 
∂(ρvx ) ∂(ρvy ) ∂(ρvz )
− + + dxdydzdt = −∇ · (ρv)dxdydzdt. (6)
∂x ∂y ∂z
Tale massa netta entrata deve eguagliare la massa accumulata nel volume
nello stesso intervallo di tempo. La massa accumulata si calcola come massa
contenuta nel volume dopo un intervallo di tempo dt meno quella inizial-
mente contenuta nello stesso volume. La massa iniziale è pari al prodotto
della densità per il volume infinitesimo, ρdxdydz; quella finale si ottiene ap-
plicando ancora la Meccanica del Continuo (con un’espansione in serie nella
variabile temporale invece che in quelle spaziali). La massa accumulata
nell’intervallo di tempo dt è, dunque, pari a
∂ρ ∂ρ
ρdxdydz + dtdxdydz − ρdxdydz = dtdxdydz. (7)
∂t ∂t
Equagliando l’Eq.(6) e l’Eq.(7) e dividendo tutto per dtdxdydz si ottiene
∂ρ
+ ∇ · (ρv) = 0, (8)
∂t

4
che rappresenta l’equazione di continuità in forma indefinita Euleriana
conservativa. Ricordiamo che un’equazione differenziale si dice in forma
conservativa (o divergente) se i coefficienti che compaiono davanti alle deri-
vate sono costanti. Le forme conservative sono da preferirsi nel caso in cui
si debbano integrare numericamente le equazioni differenziali, per ridurre
il rischio di instabilità e oscillazioni numeriche (artificiali, non fisiche) nelle
soluzioni.
L’Eq.(3) e l’Eq.(8) sono del tutto equivalenti, e si può sempre passare da
una forma all’altra utilizzando la regola di derivazione Euleriana (Cap. 3,
Par. 1.3),
dρ dρ ∂vj ∂ρ ∂ρ ∂vj ∂ρ ∂(ρvj ) ∂ρ
+ρ∇·v = +ρ = +vj +ρ = + = +∇·(ρv)
dt dt ∂xj ∂t ∂xj ∂xj ∂t ∂xj ∂t
(9)
Nel caso di fluidi incomprimibili (ρ = cost), l’equazione di continuità in
forma indefinita (sia Euleriana che Lagrangiana) si riduce semplicemente a

∇ · v = 0, (10)

e il moto è detto isocoro (Cap. 3, Par. 2.2).

1.2 Forma globale


L’equazione di continuità in forma globale si ottiene integrando l’Eq.(8) su
un volume di controllo finito W costante nel tempo e fisso nello spazio,
Z  
∂ρ
+ ∇ · (ρv) dW = 0. (11)
W ∂t

Applicando la proprietà distributiva dell’integrale rispetto alla somma,


Z Z
∂ρ
dW + ∇ · (ρv)dW = 0. (12)
W ∂t W

dove il primo termine a sinistra dell’uguale rappresenta il termine di accu-


mulo. Il secondo termine può essere convenientemente riscritto, usando il
teorema della divergenza, come
Z Z Z Z
∂(ρvj )
∇ · (ρv)dW = dW = − ρvj nj dA = − ρv · n̂dA, (13)
W W ∂xj A A

dove A è la superficie di contorno del volume W . Suddividiamo ora la


superficie di contorno in due porzioni: una, che denominiamo Ae , per la
quale il prodotto scalare tra v e n̂ è positivo (la massa sta entrando nel
volume); una, denominata Au , per la quale il prodotto scalare tra v e n̂ è
negativo (la massa sta uscendo dal volume). L’Eq.(11) si può, allora, scrivere
come R 
∂ W ρdW
= Me − Mu , (14)
∂t

5
usando la regola di Leibniz [1]: l’integrale di una derivata è uguale alla deri-
vata dell’integrale se il dominio di integrazione non dipende dalla variabile
di derivazione (come in Rquesto caso, dove il volume W è costante nel tem-
po). La quantità Me = Ae ρv · n̂dA rappresenta il flusso di massa, detto
R
anche portata massica, entrante nel volume, mentre Mu = − Au ρv · n̂dA
rappresenta il flusso di massa uscente.
Se il fluido è incomprimibile, l’Eq.(14) diventa, semplicemente,

Qe = Qu , (15)
R R
dove Qe = Ae v · n̂dA e Qu = − Au v · n̂dA rappresentano, rispettivamente,
la portata volumetrica entrante e uscente.

1.3 Correnti
Come già detto, le correnti sono un insieme di linee di corrente quasi-parallele
tra di loro. Se intersechiamo la corrente con un generico piano otteniamo una
sezione piana della corrente stessa. Nel punto di intersezione tra tale sezione
e la singola linea di corrente possiamo distinguere tra componente normale
e tangenziale alla sezione del vettore velocità in quel punto. Si può, allora,
ottenere la media areale sulla sezione delle componenti di velocità normali e
tangenziali. Se la velocità media tangenziale è pari a zero, la sezione si dice
trasversale al flusso. Il luogo dei punti costituiti dai baricentri delle infinite
sezioni trasversali è l’asse della corrente. Lungo l’asse si definisce un’ascissa
curvilinea s che individua la direzione del flusso (Fig. 2). La dimensionalità

A
s

Figura 2: corrente e area trasversale.

spaziale del problema, nel caso delle correnti, può essere ridotta calcolando,
per qualsiasi grandezza di interesse, la media areale sulla sezione trasversale
e assegnando tale valore (istantaneo) alla coordinata s di quella particolare
sezione. Il moto si riduce, allora, a mono-dimensionale (ogni grandezza può

6
variare nel tempo e lungo la coordinata spaziale s), con non trascurabili
benefici dal punto di vista concettuale e computazionale.

A ∂M
M+ ds
∂s
M

ds
Figura 3: tronco di corrente di lunghezza infinitesima.

Prendiamo un tronco di corrente di lunghezza infinitesima ds compreso


tra due sezioni trasversali (Fig. 3). Essendo la corrente definita come un
fascio di linee di corrente, in ogni istante la massa può entrare o uscire solo
attraverso le sezioni trasversali. Chiamiamo A la superficie della sezione
trasversale con normale concorde al vettore velocità media. Attraverso tale
sezione entra la portata massica M . Sfruttando la Meccanica del Continuo,
calcoliamo la portata massica che esce attraverso la sezione trasversale posta
a distanza ds dalla prima come,
∂M
M+ ds. (16)
∂s
Complessivamente, la massa netta entrata nell’intervallo di tempo dt attra-
verso il contorno del tronco di corrente risulta
 
∂M ∂M
M dt − M + ds dt = − dsdt. (17)
∂s ∂s
Al solito, la massa netta entrata deve eguagliare la massa accumulata nello
stesso intervallo di tempo. Calcoliamo il termine di accumulo come diffe-
renza tra massa contenuta nel tronco di corrente dopo l’intervallo di tempo
dt e quella iniziale. La massa iniziale è pari a ρAds, mentre quella finale,
sempre sfruttando la Meccanica del Continuo ed espandendo in serie nella
variabile temporale, risulta
∂(ρA)
ρAds + dtds. (18)
∂t
Sottraendo all’Eq.(18) la massa iniziale, equagliando il risultato all’Eq.(17)
e dividendo tutto per dsdt, otteniamo
∂(ρA) ∂M
+ = 0, (19)
∂t ∂s
che rappresenta l’equazione di continuità delle correnti (si applica, ad esem-
pio, nella Gasdinamica).

7
In condizioni di moto stazionario, l’Eq.(19) si riduce a

∂M
= 0, (20)
∂s
che afferma che la portata massica rimane costante lungo s.
Se il fluido è incomprimibile, l’Eq.(19) diventa

∂A ∂Q
+ = 0, (21)
∂t ∂s
dove Q è la portata volumetrica. In condizioni di moto stazionario oppure
nel caso in cui la sezione A sia rigida (come nel caso del moto di fluidi
incomprimibili all’interno di condotte), l’Eq.(21) si riduce a

∂Q
= 0, (22)
∂s
che afferma che la portata volumetrica è costante lungo s.

8
2 Bilancio di quantità di moto
L’equazione di continuità da sola non è sufficiente a determinare una solu-
zione al moto dei fluidi. Rappresenta, infatti, una equazione scalare nelle
quattro incognite costituite dalla densità e dalle tre componenti della velo-
cità. Ad essa devono, dunque, essere affiancate altre equazioni di bilancio.
Nel seguito, analizziamo il bilancio della quantità di moto dei fluidi, in forma
indefinita e globale, che non è altro che la seconda legge della dinamica o
seconda legge di Newton. Essendo la quantità di moto un vettore, il bilancio
di quantità di moto è un’equazione vettoriale che corrisponde a tre equazioni
scalari.

2.1 Forma indefinita


Prendiamo il solito volume infinitesimo di fluido dW , costituito da un pa-
rallelepipedo di lati dx, dy e dz, aventi le facce parallele a due a due agli
assi del nostro sistema di riferimento cartesiano (Fig. 4). Per esso, la secon-

∂ φy
z - φy + dy dx dz
∂y
dz

x dz
φ yd y
dx
x
dy

Figura 4: volume di controllo infinitesimo per la derivazione del bilancio di


quantità di moto.

da legge della dinamica afferma che la somma delle forze esterne agenti sul
volume deve eguagliare la forza di inerzia. Distinguendo, come al solito, le
forze esterne in forze di superficie Fs e di volume, si può, dunque, scrivere
che X
Fs + ρf dW = ρadW, (23)

dove, al solito, f è la forza di volume per unità di massa e a è l’accelerazione.


Per esprimere le forze di superficie utilizziamo la nozione di sforzo. A diffe-
renza del caso statico, gli sforzi possono avere sia componente normale che
tangenziale alla superficie. Distinguiamo le tre facce che hanno per normali
i versori î, ĵ e k̂ degli assi cartesiani dalle tre facce parallele alle prime, e
distanti da queste dx, dy e dz, aventi per normali i versori opposti −î, −ĵ e

9
−k̂. Sulle tre facce che hanno come normali î, ĵ e k̂, gli sforzi sono rappre-
sentati dai vettori φx , φy e φz . Sulle tre facce che hanno come normali −î,
−ĵ e −k̂, lo sforzo si determina mediante un’espansione in serie di Taylor
troncata al primo ordine. Ad esempio, per quanto riguarda  la superficie
 in-
∂φy
finitesima che ha per normale −ĵ, lo sforzo è pari a − φy + ∂y dy , dove
il segno meno tiene conto del fatto che la normale è discorde con il versore
dell’asse y. Moltiplicando lo sforzo per la superficie si ottiene il vettore forza
che agisce su quella superficie. L’Eq.(23) diventa, dunque,
 
∂φx
φx dydz − φx + dx dydz+
∂x
!
∂φy
φy dxdz − φy + dy dxdz+
∂y
 
∂φz
φz dxdy − φz + dz dxdy = −ρ(f − a)dW. (24)
∂z

Semplificando, con dW = dxdydz, l’Eq.(24) risulta

ρ(f − a) = ∇ · Φ, (25)

∂φ
dove ∇ · Φ = ∂xjj è la divergenza del tensore degli sforzi. L’Eq.(25) è
l’equazione indefinita di bilancio di quantità di moto per qualsiasi sostanza
(non necessariamente un fluido). Sarà il legame costitutivo tra il tensore
degli sforzi e le deformazioni (reologia) a specificare il tipo di sostanza cui
siamo interessati.
A seconda di come esprimiamo l’accelerazione, possiamo ottenere la for-
ma Euleriana o Lagrangiana dell’equazione di bilancio della quantità di moto
(Cap. 3, Par. 1.3). Nel caso in cui l’unica forza di volume sia la forza peso
(f = −g∇z̃), il bilancio di quantità di moto risulta

d2 xi
ρ îi + ρ (2ω × v) + ρω × (ω × x) = −ρg∇z̃ − ∇ · Φ. (26)
dt2
dove si è ipotizzato che il sistema di riferimento relativo sia in rotazione
a velocità angolare costante rispetto ad uno assoluto, come è il caso di un
fluido soggetto alla rotazione terrestre rispetto al sistema delle stelle fis-
se (Cap. 3, Par. 1.2). Il secondo e il terzo termine a sinistra dell’uguale
nell’Eq.(26) rappresentano, rispettivamente, la Forza di Coriolis e la For-
za Centripeta per unità di volume (forze apparenti). Il vettore velocità
v e il vettore posizione x nell’Eq.(26) si intendono valutati nel sistema di
riferimento in moto relativo. Se supponiamo che il fluido si trovi sulla su-
perficie terrestre, la forza centripeta è un vettore perpendicolare all’asse di
rotazione terrestre e diretto verso l’asse stesso. Si è soliti portare la forza

10
centripeta a destra dell’uguale nell’Eq.(26) e sommarla alla forza peso. Il
vettore −g∇z̃ − ω × (ω × x), detto accelerazione efficace di gravità,
non è diretto radialmente rispetto alla Terra. Il suo modulo è massimo ai
poli (dove coincide con g) e minimo all’equatore (dove è pari a g − ω 2 <,
con < raggio della Terra). Per la Terra ω ≈ 7.3 × 10−5 Hz (1 giro ogni 24
ore) e < ≈ 6.4 × 106 m; la correzione ω 2 < all’equatore risulta dell’ordine di
10−2 m/s2 , per cui trascurabile nelle normali applicazioni. Anche la forza di
Coriolis risulta trascurabile rispetto, per esempio, al primo termine a destra
dell’uguale nell’Eq.(26), a meno che il volume di fluido di interesse non ab-
bia un’estensione geometrica dell’ordine del km. Questa affermazione verrà
dimostrata in seguito, quando ci occuperemo del bilancio di quantità di mo-
to per fluidi reali. Esclusi i casi di correnti oceaniche e atmosferiche alla
scala continentale, dunque, la forma indefinita Lagrangiana del bilancio
di quantità di moto risulta, semplicemente,
dv
ρ = −ρg∇z̃ − ∇ · Φ. (27)
dt
Usando la regola di derivazione Euleriana, l’Eq.(27) si può scrivere come
∂v
+ ρv · ∇v = −ρg∇z̃ − ∇ · Φ,
ρ (28)
∂t
che rappresenta la forma indefinita Euleriana non-conservativa del bi-
lancio di quantità di moto. Il primo termine a sinistra dell’uguale nel-
l’Eq.(28) rappresenta l’inerzia locale, mentre il secondo termine rappre-
senta l’inerzia convettiva.
Per ottenere la forma conservativa del bilancio di quantità di moto basta
aggiungere un termine a primo membro nell’Eq.(28):
 
∂v ∂ρ
ρ + ρv · ∇v + v + ∇ · (ρv) = −ρg∇z̃ − ∇ · Φ. (29)
∂t ∂t
Il termine tra parentesi quadre è quello che compare nell’Eq.(8) (continuità)
ed è sempre nullo, per cui l’Eq.(29) effettivamente coincide con l’Eq.(28).
Usando la notazione alla Einstein e sfruttando le proprietà della derivata del
prodotto di due funzioni, riscriviamo i termini a primo membro dell’Eq.(29)
come
∂vi ∂vi ∂ρ ∂(ρvj ) ∂(ρvi ) ∂(ρvj vi )
ρ îi + ρvj îi + vi îi + vi îi = îi + îi . (30)
∂t ∂xj ∂t ∂xj ∂t ∂xj
Con questo, l’Eq.(29) diventa, in forma vettoriale,
∂(ρv)
+ ∇ · (ρvv) = −ρg∇z̃ − ∇ · Φ, (31)
∂t
dove vv è il prodotto tensoriale del vettore velocità con sé stesso (Cap. 1,
Par. 1.2). L’Eq.(31) rappresenta l’equazione di bilancio di quantità di moto
in forma indefinita Euleriana conservativa.

11
2.2 Forma globale
Come al solito, la forma globale si può ottenere integrando l’equazione in-
definita su di un volume W finito costante nel tempo e fisso nello spazio.
Sfruttando la proprietà distributiva dell’integrale rispetto alla somma, la
forma globale dell’Eq.(31) si può scrivere come
Z Z Z Z
∂(ρv)
− dW − ∇ · (ρvv)dW − ρg∇z̃dW − ∇ · ΦdW = 0. (32)
W ∂t W W W

Il primo termine a sinistra dell’uguale nell’Eq.(32) risulta


R 
∂ W ρvdW
Z
∂(ρv)
I=− dW = − , (33)
W ∂t ∂t

usando ancora una volta la regola di Leibniz [1] di inversione tra le operazioni
di derivazione e di integrazione; I rappresenta la variazione nel tempo della
quantità di moto del volume W (inerzia associata con la non-stazionarietà
del moto). Il secondo termine diventa, con il teorema della divergenza,
Z Z Z Z
∂(ρvj vi )
− ∇·(ρvv)dW = − îi dW = ρvj nj vi îi dA = ρ(v·n̂)vdA,
W W ∂xj A A
(34)
dove A è la superficie di contorno del volume W . Introduciamo, dunque, il
flusso di quantità di moto,
Z
M= ρ(v · n̂)vdA, (35)
A

che ha la sua origine nell’inerzia convettiva. Vale la pena notare che il flusso
di quantità di moto è un vettore che è sempre entrante nel volume: per
le porzioni di superficie in cui v è concorde con n̂, v · n̂ è positivo e M è
concorde con v (dunque entrante nel volume); per le porzioni di superficie in
cui v è discorde con n̂, v · n̂ è negativo e M è discorde con v (dunque ancora
entrante nel volume). Il terzo termine a sinistra dell’uguale nell’Eq.(32) era
già stato introdotto analizzando il caso statico (Cap. 2, Par. 1.3),
Z Z 
G=− ρg∇z̃dW = − ρdW g∇z̃, (36)
W W

e rappresenta il peso del fluido contenuto in W . Il quarto e ultimo termine


a sinistra dell’uguale nell’Eq.(32) si può scrivere, usando ancora una volta il
teorema della divergenza, come

∂φj
Z Z Z
− ∇ · ΦdW = − dW = φj nj dA. (37)
W W ∂xj A

12
L’analisi del tetraedro di Cauchy (Cap. 2, Par. 1.1) mostra che, in prima
approssimazione,
φj nj dA = φn dA, (38)
per cui possiamo definire Z
Π= φn dA (39)
A
come la risultante degli sforzi sulla superficie di contorno del volume W . In
definitiva, l’equazione di bilancio della quantità di moto in forma globale
risulta
I + M + G + Π = 0. (40)

13
3 Bilancio di momento della quantità di moto
A questo punto abbiamo ricavato 1 equazione scalare di continuità e 3 equa-
zioni scalari di bilancio di quantità di moto. Le incognite del problema sono
la densità (1), le componenti del vettore velocità (3) e le componenti del
tensore degli sforzi (9). Chiaramente il problema non è chiuso: abbiamo
più incognite che equazioni. Possiamo pensare di aggiungere l’equazione di
stato, cioè il legame tra densità, pressione e temperatura che sussiste per
la particolare sostanza che stiamo considerando. Anche ipotizzando di tra-
scurare le variazioni di temperatura, come è il caso di buona parte delle
applicazioni nella fluidodinamica ambientale (diverso è il caso in cui il fluido
venga usato, per esempio, in ambito industriale nei circuiti di raffreddamen-
to), questo introduce un’incognita ulteriore, la pressione, per cui il numero
delle informazioni mancanti per chiudere il problema rimane inalterato. Ta-
le numero (9) corrisponde, non a caso, al numero degli elementi del tensore
degli sforzi: dobbiamo introdurre quelli che vengono chiamati legami co-
stitutivi o equazioni reologiche, cioè quelle relazioni che intercorrono tra
gli elementi del tensore degli sforzi e le deformazioni subite dal fluido. In
realtà, possiamo ridurre il numero dei legami costitutivi da introdurre ap-
plicando una variante della seconda legge della dinamica, che afferma che,
per un qualsiasi sistema fisico, la somma dei momenti delle forze esterne ri-
spetto ad un polo deve eguagliare il momento della forza di inerzia rispetto
allo stesso polo (bilancio di momento della quantità di moto).

dz
z o
xo dx
x dy

y
x

Figura 5: volume di controllo infinitesimo per la derivazione del bilancio di


momento della quantità di moto.

Prendiamo il solito volume infinitesimo di fluido dW , costituito da un


parallelepipedo di lati dx, dy e dz, aventi le facce parallele a due a due agli
assi del nostro sistema di riferimento cartesiano (Fig. 5), e caratterizzato dal
vettore posizione x rispetto all’origine del sistema di riferimento cartesiano.
Prendiamo ora un polo O il cui vettore posizione sia xo . Il momento della
forza di inerzia rispetto al polo O vale

(x − xo ) × ρadW, (41)

14
mentre quello della forza di volume risulta

(x − xo ) × ρf dW, (42)

Per quanto riguarda i momenti delle forze di superficie, distinguiamo, al


solito, le tre facce che hanno per normali i versori î, ĵ e k̂ degli assi cartesiani
dalle tre facce parallele alle prime, e distanti da queste dx, dy e dz, aventi per
normali i versori opposti −î, −ĵ e −k̂. I momenti degli sforzi che agiscono
sulle tre facce che hanno come normali î, ĵ e k̂, sono pari a (x − xo ) × φx ,
(x − xo ) × φy e (x − xo ) × φz . I momenti degli sforzi che agiscono sulle
tre facce che hanno come normali −î, −ĵ e −k̂ si determinano, ancora una
volta, mediante un’espansione in serie di Taylor troncata al primo ordine. Ad
esempio, per quanto riguarda  la superficie infinitesima cheha per normale
∂[(x−xo )×φy ]
−ĵ, il momento risulta − (x − xo ) × φy + ∂y dy , dove il segno
meno tiene conto del fatto che la normale è discorde con il versore dell’asse
y. Moltiplicando per le rispettive superfici, e sommando i vari contributi,
con le ovvie semplificazioni, otteniamo

∂[(x − xo ) × φj ]
− dW. (43)
∂xj

Il bilancio del momento della quantità di moto risulta, dunque,

∂[(x − xo ) × φj ]
− + (x − xo ) × ρf = (x − xo ) × ρa. (44)
∂xj

Sviluppando il primo termine a sinistra dell’uguale nell’Eq.(44) con la re-


gola di derivazione del prodotto di due funzioni, e sfruttando la proprietà
distributiva del prodotto vettoriale rispetto alla somma,
!
∂(x − xo ) ∂φj
× φj = (x − xo ) × ρf − ρa − . (45)
∂xj ∂xj

Il termine a destra dell’uguale nell’Eq.(45) è nullo per via del bilancio di


quantità di moto rappresentato dall’Eq.(25). L’Eq.(45) diventa

∂(x − xo ) ∂(xi − xoi )


× φj = îi × φj = îj × φjk îk = 0. (46)
∂xj ∂xj

Dato che îj × îk = −îk × îj , segue immediatamente che φkj = φjk , cioè che
il tensore degli sforzi è simmetrico. Delle 9 componenti del tensore, solo 6
risultano effettivamente indipendenti tra di loro, per cui 6 sarà il numero di
legami costitutivi da introdurre per chiudere il problema e potere sperare di
risolvere il moto dei fluidi.

15
Riferimenti bibliografici
[1] Flanders, H., Differentiation Under the Integral Sign, The American
Mathematical Monthly, 80, 615-627 (1973).

16
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


5. Fluidi Ideali

A cura di: Diego Berzi

v1.3
Indice
1 Teorema di Bernoulli 3

2 Estensione alle correnti 7

2
1 Teorema di Bernoulli
Abbiamo visto (Cap. 4, Par. 3) che per risolvere il moto dei fluidi abbiamo
bisogno di 6 legami costitutivi per gli elementi del tensore degli sforzi. Tali
legami costitutivi dipendono dalla particolare sostanza al cui moto siamo
interessati.
Per semplicità, consideriamo nel seguito il caso di Fluido Ideale, per
il quale gli sforzi tangenziali sono nulli. Gli sforzi tangenziali sono nulli se
la viscosità è nulla, oppure se il gradiente di velocità nella direzione tra-
sversale al flusso è nullo (Cap. 1, Par. 2.3). Mentre la prima condizione è
effettivamente irrealizzabile, la seconda si può verificare per fluidi reali in
regioni sufficientemente lontane da pareti solide (come vedremo meglio in
seguito). La condizione di fluido ideale, allora, oltre ad essere propedeutica
alla successiva analisi dei fluidi reali, ha anche diverse applicazioni pratiche
(per esempio in ambito aereonautico). Dal momento che gli sforzi tangen-
ziali sono nulli, il tensore degli sforzi Φ per un fluido ideale si riduce a pI,
esattamente come avviene per un fluido qualsiasi in statica (si veda la di-
mostrazione in Cap. 2, Par. 1.1). La divergenza del tensore degli sforzi che
compare nell’equazione indefinita di bilancio della quantità di moto (Cap. 4,
Par. 2.1) si riduce, allora, a gradiente di p:
∂φji ∂(pδji ) ∂p
∇·Φ= îi = îi = îi = ∇p, (1)
∂xj ∂xj ∂xi
con δji delta di Kronecker, e l’equazione di bilancio della quantità di moto
per fluidi ideali diventa
ρ(f − a) = ∇p. (2)
L’Eq.(2) e l’equazione di continuità (Cap. 4, Par. 1.1) costituiscono le Equa-
zioni di Eulero [1], che governano la dinamica dei fluidi ideali (detti anche
inviscidi). Queste 4 equazioni scalari non sono, in realtà, sufficienti a risol-
vere i problemi di dinamica dei fluidi ideali, dal momento che le incognite del
problema sono i 5 campi scalari rappresentati dalle tre componenti scalari
del vettore velocità, dalla pressione e dalla densità. L’equazione mancante
è costituita, ovviamente, dall’equazione di stato.

t
b
s

Figura 1: traiettoria e terna di riferimento intrinseca.

Analizziamo ora il moto di una particella di fluido ideale (Ipotesi 1)


soggetta al campo gravitazionale (f = −g∇z̃, Ipotesi 2). L’Eq.(2) si può

3
scrivere come
v2
 
dv
ρg∇z̃ + ∇p = −ρ t̂ + n̂ , (3)
dt r
dove si è scomposta l’accelerazione nelle sue componenti tangenziale e cen-
tripeta (Cap. 3, Par. 1.1). Nell’Eq.(3), v è l’unica componente della velocità
nella direzione tangente alla traiettoria (per semplicità di notazione abbia-
mo omesso il pedice s rispetto al Cap. 3, Par. 1.1), indicata dal versore t̂
(Fig. 1), mentre n̂ è il versore normale, cioè diretto verso il centro del cer-
chio osculatore di raggio r. Il versore perpendicolare a t̂ e n̂ è il versore
binormale b̂ (si osservi che l’accelerazione non ha componente lungo que-
sta direzione). Dividendo l’Eq.(3) per γ = ρg, e ipotizzando che il fluido
sia incomprimibile (Ipotesi 3), cosı̀ da poter portare la densità all’interno
dell’operatore gradiente, si ottiene, raccogliendo l’operatore nabla,
v2
   
p 1 dv
∇ z̃ + =− t̂ + n̂ . (4)
γ g dt r
Proiettando l’Eq.(4) lungo la direzione binormale si ottiene
 
∂ p
z̃ + = 0, (5)
∂b γ
cioè che la distribuzione di pressioni lungo la binormale è idrostatica. Pro-
iettando l’Eq.(4) lungo la direzione normale si ottiene
v2
 
∂ p
z̃ + =− . (6)
∂n γ gr
L’Eq.(6) ci dice che, se la traiettoria è curva, la quota piezometrica aumenta
verso l’esterno della curva. Nel caso particolare di traiettoria rettilinea, in
cui il raggio di curvatura tenda all’infinito, l’Eq.(6) si riduce a
 
∂ p
z̃ + = 0. (7)
∂n γ
Proiettando l’Eq.(4) lungo la direzione tangenziale, si ottiene
 
∂ p 1 dv
z̃ + =− . (8)
∂s γ g dt
Visto che v = v(s, t), la regola di derivazione Euleriana (Cap. 3, Par. 1.3)
applicata all’Eq.(8) fornisce
   
∂ p 1 ∂v ∂v
z̃ + =− +v . (9)
∂s γ g ∂t ∂s
Riarrangiando e portando v sotto il segno di derivata,
v2
 
∂ p 1 ∂v
z̃ + + =− . (10)
∂s γ 2g g ∂t

4
Nel caso in cui il moto sia stazionario (Ipotesi 4) si ottiene, finalmente,

v2
 
∂ p ∂H
z̃ + + = = 0, (11)
∂s γ 2g ∂s

dove H = z̃ + p/γ + v 2 /(2g) è il Trinomio di Bernoulli o Carico Totale.


L’Eq.(11) ci dice che lungo la traiettoria di una particella di fluido ideale,
pesante, incomprimibile, in condizioni di moto permanente il carico totale
si mantiene costante (H = cost). Questo è l’enunciato del Teorema di
Bernoulli [2] e le Eqs. (1)-(11) ne costituiscono la dimostrazione.
Del teorema di Bernoulli può essere data un’interpretazione energetica.
Se moltiplichiamo la quota geodetica z̃ per il peso della particella mg, con
m massa della particella, otteniamo l’energia potenziale gravitazionale pos-
seduta dalla particella di fluido. La quota geodetica rappresenta, dunque,
l’energia potenziale gravitazionale per unità di peso della particella di fluido.
Anche l’altezza piezometrica p/γ può essere vista come una forma di energia
per unità di peso della particella di fluido. Dato che la pressione è rappre-
sentativa dello stato in cui si trovano le molecole costituenti il fluido (ad
esempio dipende dalla temperatura termodinamica che è indice dell’energia
cinetica di traslazione, rotazione e vibrazione delle molecole), la quantità
p/γ rappresenta l’energia interna per unità di peso della particella di flui-
do. La quantità v 2 /(2g), detta Altezza Cinetica, rappresenta l’energia
cinetica per unità di peso della particella di fluido. Il teorema di Bernoulli,
allora, esprime, semplicemente, il principio di conservazione dell’Energia
Meccanica per unità di peso posseduta dalla particella di fluido: la som-
ma di energia potenziale e energia interna può solo trasformarsi in energia
cinetica e viceversa. Il fatto che, partendo dal bilancio di quantità di moto,
si sia arrivati al principio di conservazione dell’energia è dovuto alla natu-
ra conservativa delle forze (sono cioè dotate di potenziale) che compaiono
nell’Eq.(2). Vedremo più avanti che, nel caso di fluidi reali, forze non con-
servative, associate con gli sforzi tangenziali, sono presenti nell’equazione
di bilancio di quantità di moto; in quel caso, il principio di conservazione
dell’energia meccanica non è valido.
Una dimostrazione più elegante del teorema di Bernoulli si ottiene dal-
l’Eq.(3), se l’accelerazione si scrive come indicato alla fine del Cap. 3, Par. 2.3,
 
∂v 1 2
ρg∇z̃ + ∇p = −ρ + ∇v + w × v , (12)
∂t 2
dove w è la vorticità. Se il moto è stazionario e il fluido incomprimibile,
l’Eq.(12) diventa
v2
 
p
ρg∇ z̃ + + = −ρw × v. (13)
γ 2g
Moltiplichiamo ora scalarmente entrambi i membri dell’Eq.(13) per il vet-
tore velocità. Dal momento che il prodotto vettoriale della vorticità per

5
la velocità è un vettore ortogonale alla velocità stessa, il prodotto scalare
v · (w × v) è nullo, per cui

v2
 
p
v · ∇ z̃ + + = 0. (14)
γ 2g

L’Eq.(13) indica che la componente del gradiente del trinomio di Bernoulli


nella direzione della velocità (traiettoria) è nulla: l’energia si conserva.

6
2 Estensione alle correnti
Dal momento che, nella pratica, si incontrano spesso le correnti, risulta
naturale estendere ad esse il teorema di Bernoulli.

dQ

dA

Figura 2: tubo di flusso.

Innanzitutto, definiamo il Tubo di Flusso come il volume di spazio oc-


cupato da una particella di fluido in moto lungo la sua traiettoria. Conside-
riamo, dunque, la corrente come costituita da infiniti tubi di flusso, ciascuno
dei quali di area trasversale infinitesima dA (Fig. 2). Nel caso di fluido idea-
le, pesante, incomprimibile e in condizioni di moto permanente, per ogni
tubo di flusso vale il teorema di Bernoulli, per cui il carico totale H è co-
stante. Nel caso di fluido incomprimibile, l’equazione di continuità (Cap. 4,
Par. 1.3) dice che la portata infinitesima del tubo di flusso dQ = vdA rimane
costante. Sempre per l’ipotesi di incomprimibilità, anche il peso specifico γ
è costante. Si definisce dP = γHvdA la Potenza Meccanica infinitesima
del tubo di flusso. Nelle ipotesi in cui vale il teorema di Bernoulli, dunque,
dP è costante per ogni tubo di flusso,
R cioè si conserva. Per estensione, si
conserva anche la quantità P = dP , dove l’integrale si intende calcolato
su tutti i tubi di flusso che costituiscono la corrente. Il teorema di Bernoulli
esteso alle correnti dice, allora, che la potenza meccanica P di una corrente
di fluido ideale, pesante, incomprimibile, in condizioni di moto permanente
rimane costante (principio di conservazione della potenza meccanica):
v2
Z Z Z  
p
P = dP = γHvdA = γ z̃ + + vdA = cost. (15)
A A γ 2g
Una formulazione diversa del teorema di Bernoulli esteso alle correnti
si ottiene nel caso in cui le traiettorie siano quasi rettilinee (Correnti Li-
neari o Gradualmente Variate). Il raggio di curvatura di ciascuna delle
traiettorie che costituiscono la corrente gradualmente variata tende all’infi-
nito, per cui vale l’Eq.(7). Tale equazione e l’Eq.(5) indicano che la quota
piezometrica rimane costante su due direzioni tra di loro perpendicolari. Su
tutto il piano individuato da queste due direzioni, dunque, cui appartiene la
sezione trasversale A della corrente gradualmente variata, la quota piezome-
trica si mantiene costante (cioè la distribuzione delle pressioni è idrostatica).

7
L’Eq.(15) diventa, dunque,
  Z
p γ
P = γ z̃ + Q+ v 3 dA = cost, (16)
γ 2g A

dove Q = A vdA è la portata della corrente. Il termine Pc = γ A v 3 dA/(2g)


R R

rappresenta la Potenza Cinetica posseduta dalla corrente. Per valutarlo


occorre conoscere la distribuzione delle velocità locali v lungo la sezione
trasversale al flusso. Nel caso delleR correnti, conviene utilizzare la Velocità
Media V , definita come Q/A o A vdA/A. Se la velocità v non è distribuita
in maniera uniforme lungo la sezione, A v 3 dA 6= V 3 A. Introduciamo, allora,
R

il Coefficiente di Coriolis o di ragguaglio della potenza cinetica,


definito come R 3
v dA
α= A 3 . (17)
V A
Per i fluidi ideali, in realtà, α = 1: tutte le particelle che transitano per
una certa sezione trasversale avranno iniziato il loro moto a partire da una
condizione in cui il contenuto energetico è lo stesso (per esempio, da un
serbatoio in cui il fluido è fermo, dove vale la legge di Stevino, per cui
la quota piezometrica, cioè l’energia potenziale, è costante). In assenza
di perdite energetiche, l’energia iniziale si conserva; in corrispondenza della
sezione gradualmente variata, la quota piezometrica è costante, per cui anche
l’energia cinetica, e, quindi, la velocità, saranno necessariamente costanti.
Per i fluidi reali, invece, la distribuzione di velocità sulla sezione trasversale
non è uniforme e α 6= 1. In ogni caso, con l’Eq.(17), l’Eq.(16) diventa
 
p γ
P = γ z̃ + Q + αV 3 A = cost, (18)
γ 2g

e, dividendo tutto per γ e Q (entrambi costanti),

p V2
Hm = z̃ + +α = cost, (19)
γ 2g
dove Hm rappresenta il Carico Totale Medio o Energia Meccanica Me-
dia per unità di peso della corrente. Per una corrente gradualmente variata
di fluido ideale, pesante, incomprimibile, in condizioni di moto permanente,
dunque, il teorema di Bernoulli torna a essere una variante del principio di
conservazione dell’energia meccanica.
Nel caso dei fluidi reali, come già detto, l’energia meccanica non si conser-
va, ma diminuisce nel senso del moto, trasformandosi in calore. Per correnti
gradualmente variate di fluidi reali, incomprimibili, in condizioni di moto
permanente, l’Eq.(19) diventa

∂Hm
= −J, (20)
∂s

8
dove J è la Cadente Energetica Media della corrente. Determinare un’e-
spressione per la cadente è stato uno dei principali temi di ricerca nell’ambito
della Meccanica dei Fluidi fino ai primi decenni del ventesimo secolo. L’ap-
proccio più semplice è quello di condurre esperimenti e di identificare la
dipendenza della cadente dalle variabili del problema. Prima di illustrare i
risultati ottenuti con tale approccio, conviene, però, discutere di come, in
generale, vanno condotte le sperimentazioni.

9
Riferimenti bibliografici
[1] Euler, L., Principes géneraux du mouvement des fluides, Mém. Acad.
Sci. Berlin, 11, 274-315 (1755).

[2] Bernoulli, D., Hydrodynamica, sive de viribus et motibus fluidorumcom-


mentarii. Opus academicum ab auctore, dum Petropoli ageret, congestum,
J.R. Dulseckeri (1738).

10
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


6. Analisi Dimensionale

A cura di: Diego Berzi

v1.0
Indice
1 Introduzione 3

2 Teorema Π 4

3 Modellazione 8
3.1 Condizione sufficiente del teorema Π . . . . . . . . . . . . . . 8

2
1 Introduzione
In ambito scientifico e/o tecnologico occorre, spesso, predire il valore di una
determinata grandezza fisica, detta variabile di stato o dipendente, a
partire dai valori noti di altre grandezze fisiche dette variabili di controllo
o indipendenti.
Al più alto livello di sofisticazione, tale predizione può essere ottenuta
risolvendo un modello matematico, rappresentazione della realtà fisica
attraverso equazioni matematiche, in cui le variabili di controllo rappresen-
tano i parametri di input. Purtroppo, tale approccio non è sempre pratica-
bile: se il problema fisico è particolarmente complesso, potrebbe non esistere
un modello matematico riconosciuto valido da buona parte dalla comunità
scientifica; oppure può darsi che il modello matematico non sia risolvibile con
gli attuali strumenti matematici e/o numerici (troppe e/o troppo complesse
equazioni).
Un’alternativa, che può anche essere utilizzata in parallelo ai modelli
matematici, è quella di condurre degli esperimenti (fisici e/o, più recente-
mente, delle simulazioni numeriche al calcolatore) su di un modello fisico
e/o numerico, e misurare direttamente il valore della variabile di stato per
un determinato insieme di variabili di controllo. Gli esperimenti possono,
anche, essere utilizzati per determinare a posteriori delle leggi empiriche
(sotto forma di espressioni matematiche o rappresentazioni grafiche) che
consentano di determinare il valore della variabile di stato anche per va-
lori delle variabili di controllo diverse da quelle che si sono utilizzate nel
corso della sperimentazione. Naturalmente, bisogna accertarsi che il model-
lo fisico o numerico sia una buona rappresentazione della realtà, e che la
sperimentazione sia condotta in maniera efficiente.

3
2 Teorema Π
Prendiamo una generica variabile di stato g0 e supponiamo che esista un
legame fisico tra di essa e n variabili di controllo gi , con i che va da 1 a n.
Si può, allora, dire che
g0 = f (g1 , g2 , g3 , ..., gn ), (1)
dove f rappresenta una funzione a priori incognita, da determinare, per
esempio, attraverso una sperimentazione. Il procedimento più razionale per
effettuare una sperimentazione è quello di far variare le variabili di controllo
una alla volta, mantenendo costanti tutte le altre. In questo modo, si studia
l’influenza di quella particolare variabile di controllo sul problema, evitando
confusioni o sovrapposizioni di effetto con altre variabili. Supponendo di
utilizzare, per ogni variabile di controllo, almeno 10 valori, il numero di
esperimenti necessario per indagare completamente la dipendenza di g0 dalle
n variabili di controllo è pari al numero di permutazioni di n gruppi di 10
elementi, cioè 10n . Il numero di esperimenti da effettuare è, dunque, molto
elevato, anche se le variabili di controllo sono poche.
Le variabili che compaiono nell’Eq.(1) sono dimensionali, nel senso che
sono espresse in un sistema di unità di misura standard. La scelta di un
particolare sistema di unità di misura è del tutto arbitraria. In quanto tale,
non può avere conseguenze sulla sussistenza del legame fisico tra variabile di
stato e variabili di controllo. Risulta, dunque, lecito passare da un sistema
di unità di misura standard a uno intrinseco al problema oggetto di studio.
Scegliamo una base costituita da un numero k di variabili di controllo che
siano tra di loro dimensionalmente indipendenti, dove k deve essere suffi-
ciente ad esaurire i gradi di libertà dimensionali delle variabili in gioco. Ad
esempio, in un problema meccanico indipendente dalla temperatura, tutte le
unità di misura delle variabili del problema si possono costruire a partire dal-
la terna Lunghezza, Massa e Tempo: in questo caso risulta, dunque, k = 3,
e si parla di terna base. Esprimiamo ora tutte le variabili del problema nel
nuovo sistema di unità di misura. Per fare questo occorre determinare la
misura di ogni grandezza rispetto alle grandezze base. Consideriamo, per
semplicità, il caso k = 3, e supponiamo che la terna base sia costituita dalle
grandezze g1 , g2 e g3 . La misura della grandezza g0 rispetto a tale terna è
g0
Π0 = , (2)
g1 g2β g3γ
α

in cui α, β e γ sono 3 esponenti che si determinano imponendo che Π0 sia


adimensionale (numero puro), cioè che
[g0 ] = [g1 ]α [g2 ]β [g3 ]γ , (3)
dove le parentesi quadre indicano le dimensioni della grandezza. L’Eq.(3)
corrisponde ad un sistema di 3 equazioni scalari. La misura Π0 è anche

4
chiamata gruppo Π associato con la grandezza g0 . Allo stesso modo, si
determinano i gruppi Π associati con tutte le variabili del problema. Dal
momento che il legame fisico espresso nell’Eq.(1) deve sussistere anche nel
nuovo sistema di unità di misura, possiamo scrivere

Π0 = f ∗ (Π1 , Π2 , Π3 , ..., Πn ). (4)

La funzione che compare nell’Eq.(4) è, in generale, diversa da quella che


compare nell’Eq.(1), banalmente per via dei fattori numerici di conversione
delle unità di misura. Per quanto riguarda g1 , risulta
g1
Π1 = = 1, (5)
g1 g20 g30
1

per via dell’ipotesi di indipendenza dimensionale delle grandezze che costi-


tuiscono la terna base. Analogamente, risulta Π2 = Π3 = 1. L’Eq.(4) si
riduce, allora, a
Π0 = f ∗ (Π4 , ..., Πn ). (6)
Combinando le Eqs. (2) e (6), si può sempre ottenere il valore dimensionale
di g0 come
g0 = g1α g2β g3γ f ∗ (Π4 , ..., Πn ). (7)
Abbiamo appena dimostrato che, in un sistema fisico, è sempre possibile,
con una scelta opportuna del sistema di unità di misura, ridurre il numero
delle variabili di controllo di tante unità quante sono le unità di misura fon-
damentali. Questo è l’enunciato del Teorema di Buckingham [1], detto
anche Teorema Π. Tale teorema, enunciato e dimostrato agli inizi del no-
vecento, è uno dei pilastri della Scienza moderna e garantisce, tra le altre
cose, l’universalità delle leggi fisiche, se espresse in termini adimensiona-
li. La funzione f ∗ dell’Eq.(6) ha, infatti, carattere universale: i coefficienti
numerici che in essa compaiono sono adimensionali ed il loro valore è indi-
pendente dal sistema di unità di misura nel quale sono espresse le grandezze
gi originarie. Il fatto di avere ridotto il numero delle variabili di controllo
permette di ridurre il numero di esperimenti necessario per determinare il
legame funzionale tra la variabile di stato e le variabili di controllo: si passa,
infatti, dai 10n esperimenti necessari nel caso dell’Eq.(1), ai 10n−3 nel caso
dell’Eq.(6) (una riduzione di 3 ordini di grandezza!). Sfortunatamente, per-
sino in ambito ingegneristico, diverse discipline non fanno uso del teorema Π,
con la conseguenza che molte indagini sperimentali risultano sovrappopolate
di esperimenti, con inutile spreco di tempo e denaro. Per quanto riguarda
la scelta delle grandezze facenti parte della base, essa non è univoca. Per
ridurre il rischio di condurre più esperimenti di quelli strettamente necessa-
ri, meglio, però, scegliere quelle che si pensa abbiano veramente effetto sul
problema.
A parte i vantaggi di ridurre il numero di esperimenti e di ottenere leggi
in forma universale, la formulazione del problema in termini adimensionali,

5
sfruttando il teorema Π, ha anche un vantaggio pratico. Come già detto,
una sperimentazione ideale dovrebbe essere condotta variando un parametro
di controllo alla volta. Purtroppo, questo non è sempre possibile. Si pen-
si, ad esempio, al caso dei fluidi: è difficile variare una delle proprietà del
fluido (densità, viscosità, comprimibilità e tensione superficiale) senza, con-
temporaneamente, variare le altre. Nella formulazione adimensionale, però,
è possibile variare il gruppo pi-greco associato con una variabile di controllo
agendo su una qualsiasi delle grandezze che lo compongono. Ad esempio,
si può variare il gruppo Π4 nell’Eq.(6) agendo su una qualsiasi tra le gran-
dezze dimensionali g1 , g2 , g3 e g4 . Questo consente, dunque, una maggiore
elasticità sperimentale.
Vale la pena ribadire che l’incognita del problema risulta essere la forma
della funzione f ∗ nell’Eq.(6) (legge empirica). A priori, non è, dunque,
necessario conoscere l’influenza delle variabili di controllo sulla variabile di
stato, ma è certamente necessario identificare correttamente le variabili di
controllo (tipico approccio a scatola chiusa). In particolare [2, 3]:

• tra le variabili di controllo vanno incluse le caratteristiche geome-


triche del dominio, le condizioni al contorno cinematiche e le forze
esterne (condizioni dinamiche) agenti sul sistema, oltre, naturalmen-
te, alle proprietà fisiche del materiale o dei materiali oggetto di
studio. Se la variabile di stato è una variabile locale, le coordinate
x, y e z del punto in corrispondenza del quale viene misurata la va-
riabile di stato rientrano tra le variabili di controllo. In un problema
non-stazionario, anche il tempo t deve essere incluso tra le variabili di
controllo.

• Le variabili di controllo devono essere, effettivamente, indipendenti tra


di loro: se esiste un legame tra alcune delle variabili di controllo, una
di esse deve essere omessa. Ad esempio, se una variabile di controllo è
rappresentata dal diametro di una sezione circolare, l’area della stessa
sezione non va inclusa tra le variabili di controllo; allo stesso modo, se
tra le variabili di controllo ci sono area di una sezione e velocità media
sulla sezione stessa, la portata deve essere omessa.

• Se nel corso di una sperimentazione si tiene costante un parametro


di controllo, non significa che non si stia studiando l’influenza di quel
parametro sulla variabile di stato. Infatti, il parametro di controllo
può anche rimanere costante (per esempio l’accelerazione di gravità
è una costante per tutti gli esperimenti condotti sulla Terra), ma il
gruppo Π ad essa associato, che coinvolge anche le grandezze base,
può variare nel corso della sperimentazione.

• Il gruppo Π associato con una variabile adimensionale (ad esempio un


angolo) è la stessa variabile adimensionale.

6
• I gruppi Π associati alle variabili di controllo si possono combinare a
patto di mantenerne numero e indipendenza. Per esempio, al posto di
Π4 e Π5 si può usare 1/Π4 e Π5 , oppure Π4 /Π5 e Π24 , e cosı̀ via.

Tornando all’Eq.(6), può succedere che, quando un certo parametro di


controllo Πk diventa molto piccolo (o molto grande), scompaia la dipendenza
di Π0 da esso. In termini matematici, tale condizione si scrive:

∃ finito lim Π0 6= 0. (8)


Πk →0(Πk →∞)

Se si verifica questo, si dice che Π0 diventa autosimile rispetto a Πk . É


importante che il limite sia diverso da zero (autosimilitudine completa);
se il limite è uguale a zero, si parla di autosimilitudine incompleta,
e non si può più affermare che scompaia la dipendenza di Π0 da Πk . In
quest’ultimo caso, però, è, di solito, possibile determinare un esponente a
tale per cui
Π0
∃ finito lim a 6= 0, (9)
Πk →0(Πk →∞) Πk

cioè Π0 risulta infinitesimo di ordine a rispetto a Πk (viene esplicitata in


forma monomia la dipendenza da Πk quando quest’ultimo è molto piccolo o
molto grande).

7
3 Modellazione
La funzione f ∗ nell’Eq.(6), che ha carattere universale, può essere utilizzata
per predire il comportamento di sistemi fisici di dimensioni diverse da quello
sul quale è stata condotta la sperimentazione. In altre parole, si può usare
un modello per predire il comportamento della realtà (prototipo). Per
fare questo, è necessario conoscere il rapporto tra una generica grandezza
misurata sul modello e la corrispondente (omologa) grandezza del prototipo,
e tale rapporto (detto scala) deve essere lo stesso per grandezze omogenee.
Se si verifica questo, se, cioè, il rapporto tra grandezze omogenee e omologhe
nei due sistemi è una costante, si dice che i due sistemi sono in similitudine
completa.
Esistono anche accezioni parziali di similitudine. Ad esempio, si parla di
similitudine geometrica se il rapporto tra le lunghezze di due segmenti
omologhi nei due sistemi è costante, indipendentemente dalla scelta della
coppia di segmenti omologhi. Tale rapporto viene solitamente indicato co-
me λ e denominato scala geometrica. L’esistenza della scala geometrica
implica che esista una scala per qualsiasi grandezza di tipo geometrico. Ad
esempio, le scale delle aree λA e dei volumi λW risultano uguali a λ2 e λ3 , ri-
spettivamente (visto che [A] = [L]2 e [W ] = [L]3 ). Si parla di similitudine
cinematica se il rapporto tra le velocità di due punti omologhi (scala del-
le velocità λV ) nei due sistemi è costante, indipendentemente dalla scelta
della coppia di punti omologhi. Si parla di similitudine dinamica se il
rapporto tra le forze agenti su due punti omologhi (scala delle forze λF )
nei due sistemi è costante, indipendentemente dalla scelta della coppia di
punti omologhi.
In un problema meccanico, se due sistemi sono in similitudine geome-
trica, cinematica e dinamica allora sono in similitudine completa: la scala
di qualsiasi grandezza è univocamente determinata dalla conoscenza di tre
scale di grandezze dimensionalmente indipendenti tra di loro. Allo stesso
modo, se la scala di qualsiasi grandezza è univocamente determinata dalla
conoscenza di tre scale di grandezze dimensionalmente indipendenti tra di
loro, allora i due sistemi fisici sono in similitudine completa.

3.1 Condizione sufficiente del teorema Π


Prendiamo ora due sistemi fisici, un modello e un prototipo, e definiamo
la relazione funzionale tra variabile di stato e variabili di controllo nei due
sistemi. Identifichiamo con un apice le grandezze relative al modello. Per il
prototipo,
g0 = f (g1 , g2 , g3 , g4 , ..., gn ), (10)
mentre per il modello

g00 = f 0 (g10 , g20 , g30 , g40 , ..., gn0 ). (11)

8
In generale le due funzioni sono diverse. Passando alla formulazione in
termini adimensionali, utilizzando come terna base le grandezze g1 , g2 e g3
per il prototipo e le omologhe g10 , g20 e g30 per il modello, si ottiene

Π0 = f ∗ (Π4 , ..., Πn ), (12)

e
Π00 = f ∗ (Π04 , ..., Π0n ). (13)
La funzione f ∗ nelle Eqs. (12) e (13) è la stessa (universale). Se ora ipotiz-
ziamo che i gruppi Π associati con le variabili di controllo siano gli stessi nei
due sistemi (Πi = Π0i con i che va da 4 a n), ne risulta necessariamente che
Π0 = Π00 . Dalla definizione di gruppo Π risulta, dunque,

g0 g00
= , (14)
g1α g2β g3γ g10α g20β g30γ

e, riarrangiando,
λ0 = λα1 λβ2 λγ3 , (15)
dove λ0 = g00 /g0 è la scala della grandezza g0 , e λ1 = g10 /g1 , λ2 = g20 /g2
e λ3 = g30 /g3 sono le scale delle grandezze g1 , g2 e g3 , rispettivamente.
L’Eq.(15) ci dice che la scala di qualsiasi grandezza è univocamente deter-
minata dalla scala di tre altre grandezze (si noti che non necessariamente
tali grandezze devono coincidere con le grandezze della terna base), e ci dice
come passare da una misura sul modello alla corrispondente grandezza nel
prototipo. Quello che abbiamo appena dimostrato prende il nome di condi-
zione sufficiente del teorema Π: è sufficiente che i gruppi Π associati alla
variabili di controllo siano uguali perché due sistemi siano in similitudine
completa. Nel progettare un modello, dunque, bisognerebbe rispettare tale
condizione e fissare le variabili di controllo in modo che i gruppi Π ad esse
associati siano uguali a quelli del prototipo. Nel fare questo, ci rimangono
solo 3 gradi di libertà (nel caso di problemi meccanici; in un caso generico,
tanti gradi di libertà quante sono le grandezze base) nella scelta arbitraria
delle scale del problema; tutte le altre scale sono determinate da relazioni
del tipo rappresentato nell’Eq.(15).
Nell’ambito della Meccanica dei Fluidi, siamo costretti a fissare più di 3
scale: oltre alla scala geometrica, spesso imposta da ragioni logistiche e/o
economiche, infatti, siamo costretti a scegliere le scale legate alle proprietà
fisiche del fluido stesso (densità, viscosità, comprimibilità e tensione superfi-
ciale) e la scala della gravità. Il risultato è un problema sovravincolato, per
cui è impossibile rispettare la condizione sufficiente del teorema Π: in gene-
re, almeno 3 dei gruppi Π associati alle variabili di controllo devono essere
diversi nel prototipo e nel modello, che non sono, dunque, in similitudine
completa. Se siamo fortunati alcuni dei vincoli in eccesso possono essere
eliminati se il problema non dipende dalla gravità (se non ci sono interfacce

9
tra fluidi a diverso peso specifico) e/o da una o più delle proprietà fisiche del
fluido (ad esempio, se non ci sono interfacce tra fluidi non miscibili, il proble-
ma non dipende dalla tensione superficiale). Altri vincoli in eccesso possono
essere rilassati se nel prototipo sono presenti autosimilitudini (bisogna però
garantire che tali autosimilitudini siano presenti anche nel modello). Se, no-
nostante tutto, il problema rimane sovravincolato, bisogna accettare il fatto
che i due sistemi non possono essere simili e cercare di stimare l’effetto della
mancata similitudine nel passaggio da modello a prototipo.

10
Riferimenti bibliografici
[1] Buckingham, E., On physically similar systems; illustrations of the use
of dimensional equations, Phys. Rev., 4, 345-376 (1914).

[2] Franzetti S., Guadagnini, A., and Ballio, F., Appunti di Similitudi-
ne e Modelli, corso di idraulica II, Sezione Ingegneria Idraulica, DICA,
Politecnico di Milano.

[3] Guadagnini, A., and Riva, M., Appunti di Similitudine e Modelli, Sezione
Ingegneria Idraulica, DICA, Politecnico di Milano.

11
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


7. Fluidi Viscosi: moto in condotte

A cura di: Diego Berzi

v1.5
Indice
1 Cadente energetica media 3
1.1 Moto laminare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
1.2 Moto turbolento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.2.1 Legge dei tubi lisci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.2.2 Legge dei tubi scabri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.2.3 Transizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.3 Fluidi comprimibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

2 Perdite localizzate 15

2
1 Cadente energetica media
Abbiamo visto (Cap. 5, Par. 2) che, nel caso di una corrente di fluidi rea-
li, l’energia meccanica non si conserva, ma diminuisce nel senso del moto
trasformandosi in calore. Abbiamo chiamato cadente energetica media J il
modulo della derivata del carico totale medio lungo la coordinata curvili-
nea s. Per definizione, essa rappresenta la pendenza locale della Linea dei
Carichi Totali (LCT) medi rispetto all’orizzontale. Vediamo ora come sia
possibile determinare la cadente per via sperimentale, ricorrendo ai concetti
illustrati nel Cap. 6.
Per semplicità, consideriamo di fare esperimenti su di un fluido viscoso e
incomprimibile in moto stazionario all’interno di una condotta cilindrica ad
asse orizzontale e a sezione circolare costante (Fig. 1). In queste condizio-
ni, l’equazione di continuità (Cap. 4, Par. 1.3) afferma che la portata Q si
mantiene costante su ogni sezione trasversale al flusso. Se la geometria della
condotta, di diametro D, è costante, non vi sono ragioni per cui la cadente J
vari lungo s. La LCT è, dunque, una retta inclinata rispetto all’orizzontale;
dal momento che la portata e la sezione A della condotta non variano lungo
s, anche la velocità media trasversale della corrente V = Q/A non varia lun-
go s. La linea piezometrica, distante dalla LCT una quantità pari all’altezza
cinetica media, risulta, dunque, parallela alla LCT (Fig. 1). La pendenza
della LCT si può, perciò, determinare dalla diminuzione di quota piezome-
trica per unità di lunghezza L della condotta, facilmente misurabile tramite,
ad esempio, un manometro differenziale. In una condotta ad asse orizzontale
(z̃ costante), la variazione di quota piezometrica equivale alla variazione di
altezza piezometrica p/γ. Essendo il fluido incomprimibile, quest’ultima si
determina dalla diminuzione di pressione ∆p. Nel sistema appena descritto,
dunque, la caduta di pressione per unità di lunghezza ∆p/L rappresenta
la variabile di stato. Le variabili di controllo nei nostri esperimenti sono
costituite: dalle proprietà fisiche del fluido circolante, cioè dalla densità ρ
e dalla viscosità µ (la tensione superficiale non conta, non essendo presenti
interfacce tra fluidi non miscibili); dalla geometria della condotta, cioè dal
diametro D e da una misura delle asperità superficiali della condotta stessa,
la scabrezza R, avente le dimensioni di una lunghezza; dalla velocità me-
dia V (in alternativa potrebbe essere utilizzata la portata Q). La relazione
funzionale tra la variabile di stato e le variabili di controllo è, dunque, del
tipo
∆p
= f (ρ, µ, D, R, V ). (1)
L
Per determinare la funzione f nell’Eq.(1) dovremmo effettuare almeno 105
esperimenti. Per ridurre il numero di esperimenti, passiamo a un sistema
di unità di misura intrinseco al problema. Dobbiamo scegliere 3 variabili
di controllo tra di loro dimensionalmente indipendenti che costituiscano la
base del nuovo sistema di misura. Scegliamo come grandezza geometrica

3
il diametro D e come grandezza cinematica la velocità media V . Come
grandezza dinamica, possiamo scegliere la densità ρ (e, in tal caso, si parla di
terna inerziale, visto che i termini inerziali nell’equazione di bilancio della
quantità di moto sono proporzionali alla densità) o la viscosità µ (terna
viscosa). Come detto, entrambe le scelte sono perfettamente lecite (ma
vedremo in seguito che una può risultare più conveniente dell’altra in certe
situazioni). Dal momento che, nella maggior parte dei problemi pratici,
l’inerzia conta, scegliamo la terna inerziale. Nel nuovo sistema di unità di
misura, l’Eq.(1) diventa
∆p
Π∆p/L = L 2 = f 0 (Πµ , ΠR ) . (2)
ρV
D
dove Πµ = µ/(ρV D) e ΠR = R/D. L’inverso del gruppo Πµ associato con la
viscosità quando si usa una terna inerziale (ma si dimostra facilmente che è
anche il gruppo Π associato con la densità quando si usa una terna viscosa)
prende il nome di numero di Reynolds [1, 2], Re = ρV D/µ, ed è una
misura del rapporto tra le inerzie e le forze viscose. Il gruppo ΠR associato
con la scabrezza viene chiamato scabrezza relativa. L’Eq.(2) si può anche
scrivere come
∆p  
L = f 00 Re, R . (3)
ρV 2 D
D
Per le considerazioni fatte in precendenza, la caduta di pressione per unità
di lunghezza è pari al prodotto della cadente per il peso specifico del fluido,
∆p/L = γJ, per cui  
γJ 00 R
= f Re, . (4)
ρV 2 D
D
Esplicitando la cadente, con γ = ρg, e moltiplicando e dividendo per 2, si
ottiene
V2
J =λ . (5)
2gD
dove λ = 2f 00 (Re, R/D) prende il nome di indice di resistenza. L’Eq.(5)
rappresenta la formula di Darcy-Weisbach [3, 4] per la determinazione
della cadente, che ha un’origine sperimentale, e che qui è stata ricavata
ricorrendo alla sola analisi dimensionale. Ovviamente, il problema rimane
quello di determinare la dipendenza dell’indice di resistenza dal numero di
Reynolds e dalla scabrezza relativa. A tale scopo, sarà sufficiente effettuare
infinito alla seconda esperimenti (diciamo almeno 102 ). Prima di esporre
quale è stato il risultato di tali esperimenti, descriviamo brevemente una
famosa esperienza condotta da Osborne Reynolds [2] alla fine dell’Ottocento.

4
2 LCT JL
α V
2g
Δp LP
γ

Q
D

Figura 1: moto stazionario in una condotta cilindrica a sezione circolare.

Figura 2: flusso di tracciante nell’esperienza di Reynolds (disegni originali


dello stesso autore [2]) per (a) moto laminare; (b) moto turbolento; (c) zona
di instabilità.

Reynolds introdusse una piccola quantità di tracciante (sostanza ca-


ratterizzata dal fatto di assumere la stessa velocità del fluido all’interno del
quale viene rilasciata) all’interno di una condotta cilindrica ad asse orizzon-
tale e a sezione circolare nella quale un fluido era fatto circolare in condizioni
di moto stazionario. Per numeri di Reynolds minori di un certo valore criti-

5
co, Rec ≈ 2100, il flusso di tracciante si manteneva ben confinato e parallelo
all’asse della condotta (Fig. 2a), indipendentemente dalla posizione di rila-
scio. Da quest’osservazione, Reynolds trasse correttamente la conclusione
che le traiettorie delle particelle di fluido fossero tra di loro parallele: “the
elements of the fluid follow one another along lines of motion which lead in
the most direct manner to their destination” [2]. A questo regime di moto
venne dato il nome di moto laminare. Per numeri di Reynolds abbastanza
elevati, il tracciante si disperdeva uniformemente all’interno della condotta
(Fig. 2b), indice di irregolarità e disordine nelle traiettorie delle particelle
di fluido: (the elements of fluid) “eddy about in sinuous paths the most
indirect possible” [2]. A questo regime di moto venne dato il nome di moto
turbolento. Per numeri di Reynolds intermedi, Reynolds descrisse un regi-
me di transizione in cui il flusso era spazialmente eterogeneo, con blocchi di
flusso laminare alternati a “flashes” [2] di moto fluttuante turbolento (zona
di instabilità).

1.1 Moto laminare


Per ragioni che verranno chiarite in seguito, in condizioni di moto laminare
λ non dipende dalla scabrezza relativa, per cui λ = λ(Re) e sono sufficien-
ti un’infinità (diciamo 10) di esperimenti per determinare tale dipendenza.
In realtà, un uso più accorto del teorema Π ci consente addirittura di de-
terminare la forma della dipendenza dell’indice di resistenza dal numero di
Reynolds senza dover ricorrere alla sperimentazione (e, conseguentemente,
di ridurre ulteriormente il numero di esperimenti da effettuare). Se il mo-
to è stazionario e le traiettorie sono rettilinee e parallele, infatti, i termini
inerziali nell’equazione di bilancio della quantità di moto si annullano (una
dimostrazione rigorosa di questo verrà fornita in seguito). Questo significa
che la densità non ha influenza sul moto laminare e non deve comparire
tra le variabili di controllo della caduta di pressione per unità di lunghezza.
L’Eq.(1) diventa, allora,
∆p
= f (µ, D, V ). (6)
L
L’unica scelta possibile per adimensionalizzare il problema è, dunque, quella
di utilizzare la terna viscosa µ, D e V . Passando alla formulazione in termini
di gruppi Π, l’Eq.(6) si trasforma nella

∆p
L = f 0 (1, 1, 1) = C, (7)
V
µ 2
D
dove C è una costante. Per la determinazione del valore di C è sufficiente,
in linea di principio, effettuare un solo esperimento (meglio comunque farne
diversi e poi mediare per via delle incertezze sperimentali). Il risultato di

6
questo ipotetico esperimento sarebbe C = 32. Vedremo più avanti come
questo risultato possa essere ottenuto per via puramente teorica. L’Eq.(3)
ci dice che
∆p
L = λ, (8)
ρV 2 2
D
cioè che, a meno di una costante, l’indice di resistenza rappresenta il gruppo
Π associato con ∆p/L usando una terna inerziale. Combinando l’Eq.(7) e
Eq.(8) otteniamo
2Cµ 64
λ= = , (9)
ρV D Re
che è l’espressione dell’indice di resistenza in condizioni di moto laminare
(e rappresenta un ramo di iperbole equilatera nel piano Re − λ). Vale la
pena ribadire che, se non ci fossimo accorti della non dipendenza di λ da
ρ, il fatto di scegliere una terna inerziale invece che una viscosa avrebbe
comportato l’onere di effettuare un numero di esperimenti molto maggiore
rispetto a quanto strettamente necessario. É, dunque, importante scegliere
come grandezze costituenti la terna base quelle che sicuramente hanno in-
fluenza sul problema. Notiamo anche che, mentre l’Eq.(8) suggerisce che la
caduta di pressione per unità di lunghezza dipende dal numero di Reynolds,
l’Eq.(7) rivela che questa dipendenza è solo apparente. É questo un tipi-
co esempio di correlazione spuria. Sembra che λ dipenda dal numero di
Reynolds, e, quindi, dalla densità, solo perché nella definizione di λ stesso
compare la densità: esiste cioè una variabile (in questo caso la densità) che
influenza sia la variabile di stato che quella di controllo. La correlazione
dell’Eq.(7) indica solo la presenza di una variabile comune, non la presenza
di un rapporto di causa-effetto. Bisogna prestare attenzione a non inter-
pretare sempre una correlazione come un rapporto causa-effetto, ignorando
la possibilità di correlazioni spurie; il rischio di tali interpretazioni errate
aumenta in quegli ambiti in cui i fenomeni non sono influenzati da un nu-
mero limitato di variabili di controllo (si pensi alla medicina, alla biologia
o all’economia), e/o dove il metodo scientifico non è applicato o è applicato
in maniera approssimativa.
Come già detto, superato il numero di Reynolds critico, il flusso di trac-
ciante nell’esperienza di Reynolds diventa irregolare. In realtà, per numeri
di Reynolds fino a 10000, il moto laminare è ancora possibile: esso è, però,
instabile ed è sufficiente una piccola perturbazione (per esempio un impulso
trasmesso attraverso il contorno della condotta) perché zone di moto tur-
bolento si alternino a blocchi di moto laminare. Per Re compresi tra 2100
e 10000 il valore di λ dipende fortemente dalle condizioni della sperimen-
tazione (dispersione dei dati sperimentali), sebbene la tendenza di λ è di
aumentare col numero di Reynolds: si parla di zona critica. Recentemen-
te [7], è stato dimostrato come questa dispersione dei dati sperimentali sia

7
solo apparente. Si può infatti esprimere il λ complessivo nella zona critica
come somma pesata (Fig. 3) del λ associato con i blocchi di moto laminare
(espresso dall’Eq.(9)) e di quello associato con le zone di moto turbolento
(espresso dalla successiva Eq.(11)). Superato il valore di 10000, il moto è,
nella pratica, sempre turbolento.

Figura 3: indice di resistenza (qui indicato con f ) in funzione del numero


di Reynolds nella zona critica (da Cerbus et al. [7]). In (a) si nota che
l’indice di resistenza complessivo non segue nessun andamento particolare,
mentre in (b) si vede che i contributi separati dei blocchi laminari e della
zone turbolente seguono l’Eq.(9) (flam ) e l’Eq.(11) (fturb ), rispettivamente.

1.2 Moto turbolento


In condizioni di moto turbolento, l’indice di resistenza dipende, in generale,
sia dal numero di Reynolds che dalla scabrezza relativa.

1.2.1 Legge dei tubi lisci


Cominciamo a considerare il caso di tubi lisci, per i quali la scabrezza (e,
quindi, anche la scabrezza relativa) è nulla. Vedremo in seguito che in realtà
nessun tubo reale è effettivamente liscio. Si deve intendere questa condizio-
ne come una condizione di autosimilitudine rispetto alla scabrezza relativa:
per valori sufficientemente bassi di R/D (il limite dipende dal numero di
Reynolds), la scabrezza relativa smette di influenzare il valore di λ. In que-
sto caso, i risultati sperimentali sono ben interpolati dalla seguente formula
di derivazione semi-analitica (ne ripercorreremo la derivazione in uno dei
prossimi Capitoli)  
1 2.51
√ = −2 log10 √ , (10)
λ Re λ
che prende il nome di formula di Prandtl-von Kármán per tubi lisci
[5, 6]. L’Eq.(10) è trascendente e non consente il calcolo esplicito di λ a

8
partire dal numero di Reynolds: bisogna ricorrere a metodi iterativi. Una
formula esplicita, valida però solo per numeri di Reynolds compresi tra circa
4000 e 100000 è stata suggerita da Blasius [8]

λ = 0.316Re−0.25 . (11)

Sperimentalmente [9] si è visto che una condotta può essere considerata liscia
se
√ R √
Re λ ≤ 10 2. (12)
D

1.2.2 Legge dei tubi scabri


Analogamente all’autosimilitudine rispetto alla scabrezza relativa, l’indice
di resistenza presenta anche un’autosimilitudine rispetto al numero di Rey-
nolds: per valori sufficientemente elevati di Re (il limite dipende dalla sca-
brezza relativa), il numero di Reynolds smette di influenzare il valore di λ. In
questo caso, i risultati sperimentali sono ben interpolati dalla seguente for-
mula di derivazione semi-analitica (anche in questo caso, ne ripercorreremo
la derivazione in uno dei prossimi Capitoli)
 
1 1 R
√ = −2 log10 , (13)
λ 3.71 D

che prende il nome di formula di Prandtl-von Kármán per tubi scabri


[5, 6]. La condizione di autosimilitudine rispetto a Re prende il nome di
moto assolutamente (o puramente) turbolento. Sperimentalmente
[9] si è visto che il moto è assolutamente turbolento se
√ R √
Re λ ≥ 140 2. (14)
D
Spesso si indica l’indice di resistenza in moto assolutamente turbolento come
λ∞ .

1.2.3 Transizione
√ √ √
La condizione per cui 10 2 ≤ Re λR/D ≤ 140 2, e λ dipende sia dal nu-
mero di Reynolds che dalla scabrezza relativa, si chiama moto turbolento
di transizione. Prima di presentare i risultati sperimentali relativi a tale
regime di moto, occorre definire in maniera un po’ più rigorosa la scabrezza.
Un’osservazione al microscopio delle asperità che caratterizzano la su-
perficie interna di una condotta reale mostra come siano presenti picchi e
valli distribuiti in maniera casuale; i moderni paesaggi urbani consentono
di farsi un’idea della scabrezza superficiale senza ricorrere al miscroscopio
(Fig. 4). Come è ovvio, è impossibile caratterizzare la distribuzione di una
variabile aleatoria con un solo parametro. Per ovviare a questo problema,

9
Figura 4: Midtown Manhattan (New York, USA).

Figura 5: rappresentazione della scabrezza artificiale utilizzata negli


esperimenti di Nikuradse [9].

i primi esperimenti [9] riguardanti il moto turbolento in tubi scabri sono


stati effettuati utilizzando una scabrezza artificiale costituita da uno strato
di granelli sferici di sabbia omogenea aventi diametro uniforme d (Fig. 5).
In questo caso, la scabrezza R coincide esattamente con il diametro d. La
Fig. 6 mostra i risultati degli esperimenti condotti da Nikuradse [9], in ter-
mini di indice di resistenza λ in funzione del numero di Reynolds, per valori
diversi della scabrezza relativa. Tale grafico viene chiamato arpa di Niku-
radse, per via della somiglianza delle curve interpolanti con le corde dello
strumento musicale. Come si nota, per Re minori di 2000, tutti i punti col-
lassano sulla curva del moto laminare, Eq.(9), qui rappresentata come una
retta perché il grafico è in scala bilogaritmica. Per Re maggiore di 2000 e
minore di 4000, λ aumenta col numero di Reynolds. Se la scabrezza relativa
è sufficientemente elevata, l’indice di resistenza continua ad aumentare con
Re fino al raggiungimento della condizione di moto assolutamente turbo-

10
lento, dove i punti sperimentali si dispongono lungo una retta orizzontale.
Per valori minori di scabrezza relativa, i punti sperimentali di λ seguono la
curva dei tubi lisci, data dall’Eq.(10), all’aumentare di Re, fino a quando
la condizione data dall’Eq.(12) è soddisfatta; ad un aumento ulteriore del
numero di Reynolds corrisponde un distacco graduale dalla curva dei tubi
lisci ed un successivo aumento di λ con Re fino a raggiungere la condizione di
moto assolutamente turbolento. La spiegazione fisica di questa osservazione
sperimentale verrà data in uno dei prossimi Capitoli.
Nel caso di tubi cosiddetti commerciali, cioè caratterizzati da scabrezza
disomogenea, il primo problema è quello di definire la scabrezza. Per questo,
si rinuncia ad un criterio puramente geometrico in favore di uno energeti-
co. In condizioni di moto assolutamente turbolento, l’indice di resistenza si
calcola dall’Eq.(13). Invertendo, si può, allora, usare la relazione
R 3.71
= √ , (15)
D 100.5/ λ∞
per determinare una scabrezza equivalente a partire dalla conoscenza del va-
lore dell’indice di resistenza in moto assolutamente turbolento λ∞ : in altre
parole, due condotte aventi lo stesso diametro, una caratterizzata da sca-
brezza omogenea e una da scabrezza disomogenea, hanno la stessa scabrezza
equivalente se l’indice di resistenza in moto assolutamente turbolento è lo
stesso. A parte il problema riguardante la definizione della scabrezza, i tubi
commerciali si differenziano da quelli a scabrezza omogenea per il compor-
tamento nella regione di moto turbolento di transizione. Nel caso dei tubi
commerciali, infatti, l’indice di resistenza è sempre una funzione decrescente
del numero di Reynolds in tale zona. I dati sperimentali dell’andamento del-
l’indice di resistenza col numero di Reynolds nel caso di moto turbolento di
transizione in tubi commerciali sono ben rappresentati dalla seguente legge
 
1 2.51 1 R
√ = −2 log10 √ + , (16)
λ Re λ 3.71 D
che prende il nome di formula di Colebrook-White [10], ottenuta combi-
nando gli argomenti dei logaritmi delle due formule di Prandtl-von Kármán.
In realtà, la formula di Colebrook-White descrive correttamente l’andamen-
to di λ per tutte le condizioni moto turbolento; comprende, infatti, come casi
limite sia l’Eq.(10) che l’Eq.(13). Tale formula e quella del moto laminare,
Eq.(9), consentono, allora, di calcolare l’indice di resistenza in ogni condi-
zione di moto. Un’alternativa, largamente utilizzata prima della diffusione
dei calcolatori, è costituita dall’uso di un famoso diagramma rappresentante
le curve λ − Re interpolanti i dati sperimentali relativi a tubi commerciali di
diversa scabrezza relativa equivalente. Tale diagramma è noto come abaco
di Moody [11] ed è riportato in Fig. 7. Il confronto tra Fig. 7 e Fig. 6
mette in evidenza la differenza di comportamento nel moto turbolento di
transizione in tubi commerciali e tubi a scabrezza omogenea.

11
Figura 6: arpa di Nikuradse [9]. L’indice di resistenza, il numero di Reynolds
e la scabrezza sono qui indicati come f , NR e , rispettivamente.

1.3 Fluidi comprimibili


Una trattazione approfondita del moto in condotta di fluidi comprimibili è
al di là dei nostri scopi. Ci limiteremo qui ad analizzare le conseguenze del-
l’inserimento della comprimibilità  tra le variabili di controllo della caduta
di pressione per unità di lunghezza. Nel caso di fluidi comprimibili, l’Eq.(1)
diventa
∆p
= f (ρ, µ, D, R, V, ). (17)
L
Utilizzando la solita terna inerziale per l’adimensionalizzazione, determinia-
mo il gruppo Π associato con la comprimibilità:
 1 1
Π = = = , (18)
ρV 2 Ca Ma2
p
dove Ca = V 2 /(/ρ) è il numero di Cauchy e Ma = V / /ρ è il numero
di Mach. Il numero di Mach rappresenta il rapporto tra la velocità media
del fluido e la velocità del suono nel fluido stesso (come è noto, Ma = 1
rappresenta il confine tra flussi subsonici e flussi supersonici). L’Eq.(17)
si può riscrivere, dunque, in forma adimensionale, usando la relazione tra

12
Figura 7: abaco di Moody [11]. L’indice di resistenza, il numero di Reynolds
e la scabrezza sono qui indicati come f , R e e, rispettivamente.

∆p/L e cadente, come


 
00 R
λ = 2f Re, , Ma . (19)
D

L’indice di resistenza risulta, dunque, anche funzione del numero di Mach.


Sperimentalmente, si vede che esiste una condizione di autosimilitudine ri-
spetto a Mach quando Ma < 0.3. In tale situazione, il flusso può essere con-
siderato incomprimibile (anche se il fluido non lo è), e, per valutarne l’indice
di resistenza, si può utilizzare, se si tratta di tubi commerciali, l’abaco di
Moody.
Abbiamo visto come determinare l’indice di resistenza da inserire nella
formula di Darcy-Weisbach per determinare la cadente energetica media,
che coincide con la pendenza locale della LCT. La diminuzione di energia
meccanica media ∆H che la corrente subisce dopo aver percorso un tratto di
condotta a sezione costante e asse rettilineo di lunghezza L è, dunque, pari
a ∆H = JL. Questa diminuzione di energia meccanica, che si trasforma
in calore, viene chiamata perdita distribuita. Le perdite distribuite sono
vincolate all’esistenza della cadente J, cioè al fatto che sia definita la deriva-
ta del carico totale medio rispetto alla coordinata curvilinea s. Esistono casi

13
in cui tale condizione non è verificata; questi casi sono associati con brusche
variazioni nella geometria della condotta (brusca variazione nel diametro,
presenza di curve a gomito) e/o con la presenza di elementi di disturbo del
flusso (ad esempio, valvole per il controllo della portata). Ogni qualvolta
esiste una discontinuità nel carico totale medio, con quest’ultimo che dimi-
nuisce bruscamente, si parla di perdite localizzate (o concentrate). Si
noti, per completezza, che variazioni discontinue nel carico totale sono as-
sociate anche con la presenza di macchine operatrici in grado di scambiare
energia meccanica con il fluido (pompe e turbine).

14
2 Perdite localizzate
Nel caso di perdite localizzate, la variazione di carico totale medio ∆Hloc è
dovuta ad una perdita di pressione ∆ploc aggiuntiva rispetto alla variazione
di pressione che si avrebbe anche nel caso di fluido ideale per via della brusca
variazione di geometria. ∆ploc risulta funzione della densità, della viscosità,
di un qualche diametro e velocità media (prima o dopo la variazione di
geometria), della scabrezza e della forma, intesa come uno o più coefficienti
adimensionali rappresentativi della geometria:

∆ploc = f (ρ, µ, D, V, R, forma). (20)

Adimensionalizzando mediante la terna inerziale, otteniamo


 
∆ploc 0 R
= f Re, , forma . (21)
ρV 2 D

La dipendenza dal numero di Reynolds e dalla scabrezza relativa è quasi


sempre trascurabile, per cui l’Eq.(21) si può riscrivere, con ∆Hloc = ∆ploc /γ,
come
V2
∆Hloc = K , (22)
2g
dove K è un coefficiente di perdita che dipende solo dalla forma (geometria).
L’Eq.(22) mostra che le perdite di carico localizzate sono proporzionali al-
l’altezza cinetica. Si rimanda al Par. 2.1.2 degli Esercizi di Dinamica dei
Fluidi per un elenco dei casi più comuni di perdite localizzate.

15
Riferimenti bibliografici
[1] Stokes, G.G., On the Effect of the Internal Friction of Fluids on the
Motion of Pendulums, Trans. Cambridge Philos. Soc., 9, 8-106 (1851).

[2] Reynolds, O., An experimental investigation of the circumstances which


determine whether the motion of water shall be direct or sinuous, and of
the law of resistance in parallel channels, Philos. Trans. Royal Soc., 174,
935-982 (1883).

[3] Darcy, H., Recherches Experimentales Relatives au Mouvement de L’Eau


dans les Tuyaux, Mallet-Bachelier, Paris (1857).

[4] Weisbach, J., Lehrbuch der Ingenieur- und Maschinen-Mechanik,


Braunschwieg (1845).

[5] von Kármán, T., Mechanische Ähnlichkeit und Turbulenz, Nachrichten


von der Gesellschaft der Wissenschaften zu G´’ottingen, Fachgruppe 1,
Mathematik, 5, 58-76 (1930).

[6] Prandtl, L., Neuere Ergebnisse der Turbulenzforschung, Zeitschrift des


Vereines deutcher Ingenieure, 77, 105-114 (1933).

[7] Cerbus, R.T., Liu, C., Gioia, G., and Chakraborty, P., Laws of
Resistance in Transitional Pipe Flows, Phys. Rev. Lett., 120, 54502
(2018).

[8] Blasius, H., Das Aehnlichkeitsgesetz bei Reibungsvorgängen in Flüssi-


gkeiten, Mitteilungen über Forschungsarbeiten auf dem Gebiete des
Ingenieurwesens, 131, 1-41 (1933).

[9] Nikuradse, J., Strömungsgesetze in Rauhen Rohren, ForschHft. Ver. Dt.


Ing., 361 (1933).

[10] Colebrook, C.F., Turbulent flow in pipes, with particular reference to


the transition region between the smooth and rough pipe laws, Journal of
the ICE, 11, 133-156 (1939).

[11] Moody, L.F., Friction factors for pipe flow, Trans. ASME, 66, 671-684
(1944).

16
POLITECNICO DI MILANO

Meccanica dei Fluidi


8. Fluidi Viscosi: equazioni generali

A cura di: Diego Berzi

v2.1
Indice
1 Bilancio di quantità di moto 3
1.1 Forma indefinita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
1.2 Forma globale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8

2 Equazioni in forma adimensionale 10

3 Soluzioni analitiche 14
3.1 Flusso piano di Couette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
3.2 Flusso piano di Poiseuille . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
3.3 Flusso piano di Couette-Poiseuille . . . . . . . . . . . . . . . 19
3.4 Moto di Poiseuille in condotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
3.5 Lubrificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28

2
1 Bilancio di quantità di moto
1.1 Forma indefinita
Vediamo ora di definire i 6 legami costitutivi per gli elementi del tensore
degli sforzi da introdurre nelle equazioni di bilancio di quantità di moto
(Cap. 4, Par. 2) nel caso di Fluidi Reali.
I legami costitutivi devono esprimere la relazione (reologia) tra gli sforzi
applicati e le deformazioni subite dal fluido. Limitiamo la nostra attenzione
ad una particolare categoria di fluidi, denominati Fluidi Stokesiani, per i
quali:

• quando la velocità si annulla, il tensore degli sforzi Φ si riconduce al


caso statico pI (Cap. 2, Par. 1.1).

• Gli sforzi dipendono dalle velocità di deformazione (identificate dal


tensore delle velocità di deformazione D, Cap. 3, Par. 2.1) e non dalle
deformazioni. Questo perché, a differenza dei solidi, la deformazione in
risposta ad uno sforzo finito è infinita (questa caratteristica si riflette
nel fatto che i fluidi non hanno forma propria, ma assumono quella
del recipiente che li contiene), mentre la velocità con cui avviene la
deformazione è finita.

• La funzione che lega gli sforzi alle velocità di deformazione è indipen-


dente dal sistema di riferimento adottato.
La prima condizione è soddisfatta se

Φ = pI + Φdev , (1)

dove Φdev è un tensore, detto deviatore degli sforzi, che si annulla quando
è nulla la velocità. La seconda condizione implica che
 
Φdev = f D , (2)

dove f è una funzione tensoriale di D. Con Eqs. (1) e (2), dunque,


 
Φ = pI + f D . (3)

Immaginiamo ora di ruotare il nostro sistema di riferimento cartesiano. Iden-


0 0
tifichiamo con Φ e D i tensori degli sforzi e delle velocità di deformazione
nel nuovo sistema di riferimento (la pressione p è uno scalare indipendente
dal sistema di riferimento). La terza condizione cui devono sottostare i fluidi
0 0
Stokesiani implica che l’Eq.(3) continui a valere, con Φ e D invece di Φ e
D: 0  0
Φ = pI + f D . (4)

3
Introducendo la matrice T dei coseni direttori tra gli assi del vecchio e del
nuovo sistema di riferimento, il tensore degli sforzi nel nuovo sistema di
0 −1
riferimento si ottiene come Φ = T · Φ · T, per cui, con l’Eq.(3),
0 −1 −1 −1  
Φ = T · Φ · T = T · pI · T + T · f D · T
−1 −1  
= pT · I · T + T · f D · T
−1 −1  
= pT · T + T · f D · T
−1  
= pI + T · f D · T, (5)

dove abbiamo sfruttato la proprietà distributiva del prodotto matriciale ri-


spetto alla somma, il fatto che una matrice moltiplicata per la matrice iden-
−1
tità è uguale a sé stessa e il fatto che T · T = I. Confrontando le Eqs. (4)
0 −1
e (5), con D = T · D · T, si vede che deve essere
 
−1 −1  
f T · D · T = T · f D · T. (6)

Ogni funzione del tipo f = f 1 +f2 I, con f 1 funzione tensoriale D e f2 funzione


scalare di D invariante col sistema di riferimento, rispetta l’Eq.(6) se vale
 
−1 −1  
f 1 T · D · T = T · f 1 D · T, (7)

dal momento che f2 I è invariante a trasformazioni del sistema di riferimen-


−1
to (T · f2 I · T = f2 I). Esistono tre combinazioni degli elementi di D
che sono invarianti col sistema di riferimento: l’invariante lineare (traccia),
I1 , quadratico (somma dei minori principali), I2 , e cubico (determinante),
I3 , che rappresentano i coefficienti del polinomio caratteristico, le cui radici
sono gli autovalori della matrice D [1]. Il coefficiente scalare f2 deve, dun-
que, necessariamente essere funzione di tali invarianti, f2 = f2 (I1 , I2 , I3 ).
Riassumendo, e raccogliendo i termini che moltiplicano la matrice identità,
l’espressione  
Φ = [p + f2 (I1 , I2 , I3 )] I + f 1 D , (8)
 
con le condizioni che sia soddisfatta l’Eq.(7) e che f 1 0 = 0 e f2 (0, 0, 0) =
0, rappresenta la reologia dei Fluidi Stokesiani.
A questo punto, limitiamo ulteriormente la nostra analisi a quei fluidi,
chiamati Fluidi Newtoniani, per i quali la dipendenza del tensore degli
sforzi da quello delle velocità di deformazione è lineare. Con tale ipotesi,
scompare la dipendenza
  dagli invarianti non lineari I2 e I3 , e risulta, neces-
sariamente, f 1 D = aD e f2 (I1 ) = bI1 , con a e b coefficienti numerici. La

4
forma
 più generale del legame lineare tra Φ e D implicherebbe, in realtà,
f 1 D = a ◦ D, cioè il prodotto di Hadamard tra una matrice di coefficienti
numerici a e D (Cap. 1, Par. 1.2). Si verifica facilmente, però, che tale
espressione è incompatibile con l’Eq.(7), a meno che gli elementi di a non
siano tutti uguali tra di loro e pari ad a.
L’Eq.(8) diventa, dunque,

Φ = (p + b∇ · v)I + aD, (9)

dal momento che I1 , la traccia del tensore D, risulta uguale alla divergenza
della velocità (Cap. 3, Par. 2.2). Incidentalmente, l’Eq.(9) mostra che Φ e D
sono collineari: entrambi sono simmetrici, per cui diagonalizzabili [1], ed
il sistema di riferimento, detto sistema di riferimento principale, nel quale i
due tensori sono diagonali coincide. Vediamo ora quale è il significato fisico
dei coefficienti a e b.
L’Eq.(9) deve valere anche nel caso, analizzato sperimentalmente, di flus-
so tra lastre piane parallele, dove la lastra superiore è in moto con velocità
costante e la lastra inferiore è ferma (Cap. 1, Par. 2.3). In quel caso, risultava

∂u
τ =µ , (10)
∂y
dove τ è lo sforzo tangenziale che agisce sulla lastra superiore, parallela alla
direzione del moto x e perpendicolare all’asse y (e avente normale discorde
rispetto a quella dell’asse y), e µ è la viscosità dinamica. L’Eq.(10) è detta
Legge di Newton. Lo sforzo tangenziale τ , rappresenta, dunque, la com-
ponente in direzione x dello sforzo che agisce sulla faccia che ha per normale
l’asse (−y), cioè τ = Φ−yx = −Φyx . Dall’Eq.(9) si ottiene

Φyx = aDyx , (11)

e, ricordando la definizione del tensore delle velocità di deformazione,


 
1 ∂u ∂v a ∂u
Φyx = a + = , (12)
2 ∂y ∂x 2 ∂y

visto che, nel caso in esame, v = 0. Confrontando le Eqs. (10) e (12) si


ottiene a = −2µ. Dal momento che a è il solo coefficiente che moltiplica
i termini rettangolari di D nell’Eq.(9), esso (e, quindi µ) è indice della
resistenza che il fluido oppone a cambiamenti di forma.
Calcoliamo ora l’invariante lineare (traccia) del tensore degli sforzi dal-
l’Eq.(9):

tr(Φ) = (p + b∇ · v)tr(I) + atr(D) = 3p + 3b∇ · v + a∇ · v, (13)

5
essendo la traccia della matrice identità uguale a 3. In statica, la velocità
è nulla, per cui la traccia del tensore degli sforzi è pari a 3p. Nel caso di
fluidi incomprimibili, la traccia del tensore degli sforzi è sempre pari a 3p
perché l’equazione di continuità indica che la divergenza della velocità è
nulla (Cap. 4, Par. 1.1). L’ipotesi di Stokes [2], verificata sperimental-
mente, è che la traccia del tensore degli sforzi sia pari a 3p anche nel moto
di fluidi comprimibili. Tale ipotesi è verificata se risulta b = −a/3. Il coeffi-
ciente b, che moltiplica la divergenza della velocità nell’Eq.(9), quantità che
esprime la variazione percentuale di volume nell’unità di tempo, è indice
della resistenza che il fluido oppone a variazioni di volume: per questo viene
denominato viscosità di dilatazione.
Con le espressioni appena ottenute per i coefficienti a e b, l’Eq.(9) diventa
 
2
Φ = p + µ∇ · v I − 2µD, (14)
3
che rappresenta la reologia dei Fluidi Newtoniani.
Inseriamo ora la reologia dei Fluidi Newtoniani nell’equazione di bilancio
di quantità di moto in forma indefinita (Cap. 4, Par. 2.1). Sia nella forma
Lagrangiana che in quella Euleriana compare la divergenza del tensore degli
sforzi, che, usando l’Eq.(14), risulta
   
2   2
∇·Φ = ∇· p + µ∇ · v I−∇· 2µD = ∇ p + µ∇ · v −2µ∇·D, (15)
3 3
visto che la divergenza di uno scalare che moltiplica la matrice identità è
uguale al gradiente dello scalare stesso (Cap. 5, Par. 1) e ipotizzando che
la viscosità dinamica sia omogenea all’interno del fluido (non vari nello spa-
zio). La divergenza del tensore delle velocità di deformazione che compare
nell’Eq.(15) si può scrivere come
 
∂Dji 1 ∂ ∂vj ∂vi
∇·D = îi = + îi =
∂xj 2 ∂xj ∂xi ∂xj
1 ∂ 2 vi
 
1 ∂ ∂vj 1 1
îi + îi = ∇(∇ · v) + ∇2 v, (16)
2 ∂xi ∂xj 2 ∂xj ∂xj 2 2
dove si è introdotto l’operatore Laplaciano ∇2 (prodotto scalare del vet-
tore nabla con sé stesso). Introducendo l’Eq.(16) nell’Eq.(15) e raccogliendo,
si ottiene  
1
∇ · Φ = ∇ p − µ∇ · v − µ∇2 v. (17)
3
Possiamo utilizzare questo risultato e sostituire la divergenza del tensore
degli sforzi nell’equazione di bilancio di quantità di moto (ad esempio in
quella Euleriana non conservativa, Cap. 4, Par. 2.1), ottenendo
 
∂v 1
ρ + ρv · ∇v = −ρg∇z̃ − ∇ p − µ∇ · v + µ∇2 v, (18)
∂t 3

6
che, insieme all’equazione di continuità (Cap. 4, Par. 1.1),

∂ρ
+ ∇ · (ρv) = 0, (19)
∂t
e all’equazione di stato ρ = ρ(p, T ) costituiscono un sistema di 5 equazioni
scalari nelle 5 incognite ρ, p, vx , vy e vz che consentono di risolvere com-
pletamente la dinamica isoterma dei fluidi Newtoniani comprimibili
(se la temperatura non è costante occorre introdurre un’ulteriore equazio-
ne di bilancio energetico per risolvere anche il campo delle temperature).
Esse costituiscono le Equazioni di Stokes [2] per fluidi comprimibili in
forma indefinita (George Gabriel Stokes fu il primo nel 1845 ad includere
nelle equazioni governanti il moto dei fluidi viscosi il termine associato alla
viscosità di dilatazione).
Se il fluido è incomprimibile (ρ = costante), l’equazione di continuità si
riduce, come sappiamo (Cap. 4, Par. 1.1), a

∇ · v = 0, (20)

che, introdotta nell’Eq.(18), riduce l’equazione di bilancio di quantità di


moto alla
∂v
ρ + ρv · ∇v = −ρg∇z̃ − ∇p + µ∇2 v. (21)
∂t
Le Eqs. (20) e (21) costituiscono le Equazioni di Navier-Stokes [2, 3] per
fluidi incomprimibili in forma indefinita (4 equazioni scalari nelle 4 incognite
p, vx , vy e vz ).
Le equazioni di Navier-Stokes sono equazioni differenziali alle derivate
parziali che necessitano, per essere risolte, di condizioni iniziali e condizioni
al contorno. Non possono essere risolte per via analitica se non in casi estre-
mamente semplici che vedremo in seguito. In effetti, non è ancora nemmeno
stata dimostrata l’esistenza e/o la regolarità della soluzione delle equazioni
di Navier-Stokes nel caso generale 3D. Le caratteristiche delle equazioni di
Navier-Stokes che le rendono, in generale, difficili da risolvere sono la non-
linearità, dovuta alle inerzie convettive (ρv · ∇v), e l’ellitticità, dovuta al
termine viscoso proporzionale al Laplaciano della velocità (µ∇2 v). Il ter-
mine convettivo è responsabile, come vedremo, della mancata attenuazione
delle piccole perturbazioni del moto (instabilità) all’origine della turbolen-
za; inoltre, la non-linearità è la ragione per cui, in generale, non esiste una
soluzione analitica delle equazioni di Navier-Stokes. L’ellitticità implica, in
generale, che la soluzione sul contorno del dominio (condizioni al contor-
no) dipende dalla soluzione all’interno del dominio, rendendo il problema
implicito.
Il fatto che nell’Eq.(21) compaia l’accelerazione di gravità sembra sug-
gerire che questa debba sempre fare parte delle variabili di controllo in un
problema fluidodinamico. Visto che, in statica, l’Eq.(21) si riduce ad un

7
bilancio tra il gradiente di pressione e il termine gravitazionale, definiamo

∇pstat = −ρg∇z̃, (22)

con pstat che rappresenta la componente idrostatica della pressione. Se


introduciamo l’Eq.(22) nell’Eq.(21) otteniamo
∂v
ρ + ρv · ∇v = −∇pe + µ∇2 v, (23)
∂t
dove pe = p − pstat rappresenta l’eccesso della pressione rispetto alla compo-
nente idrostatica. Il termine gravitazionale nelle equazioni di Navier-Stokes
è, dunque, solo responsabile di aggiungere una componente idrostatica alla
pressione. Le incognite vere delle equazioni di Navier-Stokes sono la velocità
e l’eccesso di pressione rispetto all’idrostatica. L’accelerazione di gravità non
rientra tra i parametri di controllo in un problema fluidodinamico, a meno
che non esistano condizioni al contorno governate dalla gravità (interfacce
tra fluidi a diverso peso specifico). Questo spiega perché g non è stata consi-
derata un parametro di controllo nello studio della cadente energetica media
(Cap. 7, Par. 1).

1.2 Forma globale


Ricaviamo ora le equazioni di Navier-Stokes in forma globale. Al solito,
bisogna identificare un volume di controllo finito W , costante nel tempo
e fisso nello spazio, ed integrare le equazioni su di esso. La forma globale
dell’equazione di continuità è stata ottenuta in precedenza (Cap. 4, Par. 1.2).
Per quanto riguarda il bilancio di quantità di moto, riscriviamo innanzitutto
l’Eq.(21) in forma conservativa, con il procedimento già illustrato nel Par. 2.1
del Cap. 4. Otteniamo
∂ (ρv)
+ ∇ · (ρvv) = −ρg∇z̃ − ∇p + µ∇2 v, (24)
∂t
e, integrando sul volume e spostando tutti i termini a secondo membro,
Z  
∂ (ρv) 2
− − ∇ · (ρvv) − ρg∇z̃ − ∇p + µ∇ v dW = 0. (25)
W ∂t
Tre di questi termini li abbiamo già incontrati (e manipolati) nel Par. 2.2
del Cap. 4. In particolare,
R 
∂ W ρvdW
Z
∂(ρv)
− dW = − = I,
∂t ∂t
Z W Z
− ∇ · (ρvv) dW = ρ(v · n̂)vdA = M,
W A
Z Z 
− ρg∇z̃dW = − ρdW g∇z̃ = G. (26)
W W

8
Il termine contenente il gradiente di pressione è lo stesso termine che compare
nell’equazione globale della statica (Cap. 2, Par. 1.3),
Z Z
− ∇pdW = pn̂dA = Πp . (27)
W A

L’unico termine che rimane è quello contenente il Laplaciano della velo-


cità. Riscriviamolo, usando la notazione alla Einstein, e il teorema della
divergenza (Cap. 1, Par. 1.4), come

∂2v
Z Z Z
2 ∂v
µ∇ vdW = µ dW = − µ nj dA
W W ∂xj ∂xj ∂xj
ZA
∂v ∂xj
= − µ dA
A ∂xj ∂n
Z
∂v
= − µ dA, (28)
A ∂n

essendo, per definizione, il coseno direttore nj = ∂xj /∂n. Introduciamo,


dunque, la risultante degli sforzi viscosi
Z
∂v
Πµ = − µ dA. (29)
A ∂n

Con questa, l’equazione di bilancio di quantità di moto di Navier-Stokes in


forma globale risulta

I + M + G + Πp + Πµ = 0. (30)

9
2 Equazioni in forma adimensionale
Le equazioni di Stokes e le equazioni di Navier-Stokes ricavate nel Par. 1 sono
in forma dimensionale: tutti i termini che vi compaiono hanno dimensione
non nulla. Una volta risolte (di come si risolvono tali equazioni parleremo
diffusamente in seguito), la soluzione trovata si applica solo al particolare ca-
so in esame. Ad esempio, se abbiamo a che fare con due fenomeni simili, ma
a diversa scala (Cap. 6, Par. 3), dobbiamo risolvere le equazioni in ciascuna
delle due situazioni, con inutile spreco di risorse. Cosı̀ come conviene usare
una formulazione in termini adimensionali quando si cerca la dipendenza di
una variabile di stato da variabili di controllo (Cap. 6, Par. 2), allo stesso
modo conviene che anche le equazioni governanti un problema siano espresse
in termini adimensionali. Per fare questo, occorre innanzitutto determinare
le grandezze scala del problema, cioè le variabili di controllo che fissano
l’ordine di grandezza delle quantità ad esse omogenee.
Consideriamo le equazioni di Stokes. Nelle Eqs. (18) e (19) compaiono
come variabili la pressione, la densità e la velocità che variano nello spazio e
nel tempo. In generale, dunque, esisteranno una pressione P , una densità R,
una velocità V , una lunghezza L e un tempo T caratteristici del problema
in esame. Per esempio, L rappresenta una dimensione caratteristica del
dominio geometrico all’interno del quale vogliamo risolvere il moto del fluido;
T potrebbe rappresentare il periodo di oscillazione di una forzante del moto
avente carattere periodico (come nel caso del flusso sanguigno). Una volta
individuate le grandezze scala, si costuiscono le variabili adimensionali (nel
seguito identificate usando l’accento anticirconflesso) dividendo la variabile
dimensionale per la grandezza scala ad essa omogenea: per le coordinate
spaziali risulta x̌ = x/L, y̌ = y/L e ž = z/L; per la variabile temporale
ť = t/T ; per le componenti della velocità ǔ = u/V , v̌ = v/V e w̌ = w/V ;
per la pressione p̌ = p/P ; per la densità ρ̌ = ρ/R. Se le grandezze scala
sono state individuate correttamente, le quantità adimensionali sono tutte di
ordine di grandezza uno. Scriviamo ora nell’Eq.(19) le variabili dimensionali
come prodotto della grandezza scala per la variabile in forma adimensionale.
Risulta
R ∂ ρ̌ RV ˇ
+ ∇ · (ρ̌v̌) = 0, (31)
T ∂ ť L
dove ∇ ˇ = (∂/∂ x̌j )îj , e le grandezze scala sono state estratte dagli ope-
ratori di derivazione essendo variabili di controllo (costanti) del problema.
L’Eq.(31) è ancora dimensionale: i termini che vi compaiono hanno come
unità di misura nel sistema internazionale kg/(m3 s) (portata massica per
unità di volume). I coefficienti costruiti sulla base delle grandezze scala che
moltiplicano i termini dell’equazione forniscono l’ordine di grandezza dei
termini stessi. Possono, quindi, essere utilizzati per confrontare tra di loro
i vari termini, ed eventualmente scartare quelli che risultano trascurabili,
semplificando la soluzione del problema. Dividiamo l’Eq.(31) per il coef-

10
ficiente moltiplicativo del termine associato con il flusso di massa RV /L,
ottenendo
∂ ρ̌ ˇ
St + ∇ · (ρ̌v̌) = 0, (32)
∂ ť
dove St = L/(V T ) è il numero di Strouhal, una quantità adimensio-
nale che rappresenta il rapporto tra il tempo che il fluido impiega per at-
traversare il dominio geometrico, L/V , ed il tempo scala associato con la
non-stazionarietà del moto T (è l’inverso del gruppo Π associato con la va-
riabile tempo quando si usa la terna inerziale per adimensionalizzare). Se
St → 0, significa che il fluido attraversa il campo di moto molto prima che
gli eventuali effetti della non-stazionarietà comincino a farsi sentire: il pri-
mo termine dell’Eq.(32) può essere trascurato e il moto del fluido è come se
fosse stazionario. Ripetiamo ora il procedimento per l’Eq.(18). Prima però
ricordiamo che la divergenza della velocità esprime la variazione percentuale
di volume nell’unità di tempo (Cap. 3, Par. 2.2) e che sussiste un legame
di proporzionalità tra la variazione di volume e l’incremento di pressione
tramite la comprimibilità (Cap. 1, Par. 2.3), per cui

1 dW 1 ∂p
∇·v = =− . (33)
W dt  ∂t
Inoltre, per maggiore generalità, supponiamo di essere in un sistema di ri-
ferimento solidale con la Terra, e, quindi, in rotazione con velocità angolare
costante di modulo pari a ω. A primo membro dell’Eq.(18) compare, dunque,
anche la forza di Coriolis (abbiamo già dimostrato che la forza centripeta
equivale ad introdurre una correzione trascurabile nella forza peso, Cap. 4,
Par. 2.1). Con l’Eq.(33), il bilancio di quantità di moto nelle equazioni di
Stokes si scrive
 
∂v 1µ ∂p
ρ + ρv · ∇v + ρ (ω × v) = −ρg∇z̃ − ∇p − ∇ + µ∇2 v. (34)
∂t 3 ∂t

Scriviamo le variabili dimensionali nell’Eq.(34) come prodotto della gran-


dezza scala per la variabile in forma adimensionale,

RV ∂ v̌ RV 2 ˇ z̃ˇ − P ∇p̌
ˇ v̌ + ωRV ρ̌ ω̌ × v̌ = −Rg ρ̃∇

ˇ
ρ̌ + ρ̌v̌ · ∇
T ∂ ť L L
 
1 P µ ˇ ∂ p̌
− ∇
3 LT ∂ ť
µV ˇ 2
+ 2 ∇ v̌, (35)
L
con ω = ω ω̌. L’Eq.(35) è ancora dimensionale: i termini che vi compaiono
hanno come unità di misura nel sistema internazionale N/m3 (forza per unità
di volume). Dividiamo l’Eq.(35) per il coefficiente RV 2 /L che moltiplica le

11
inerzie convettive; in altre parole, pesiamo tutti i termini dell’equazione
rispetto alle inerzie convettive. Risulta

∂ v̌ ˇ v̌ + 1 ρ̌ ω̌ × v̌ = − 1 ρ̃∇

ˇ z̃ˇ − Eu∇p̌
ˇ
Stρ̌ + ρ̌v̌ · ∇
∂ ť Ro Fr2
1 Ma2 ˇ ∂ p̌
 
− Eu St∇
3 Re ∂ ť
1 ˇ2
+ ∇ v̌, (36)
Re
dove:

• Ro = V /(ωL) è il numero di Rossby, che rappresenta il rapporto


tra le forze di inerzia e la forza di Coriolis (è l’inverso del gruppo Π
associato con la velocità di rotazione del sistema di riferimento quando
si usa la terna inerziale per adimensionalizzare); se Ro → ∞, le forze di
inerzia sono preponderanti rispetto alla forza di Coriolis, e quest’ultima
può essere trascurata nell’equazione di bilancio della quantità di moto.
Sulla Terra, ω è dell’ordine di 10−4 Hz, e la tipica velocità scala V
nelle normali applicazioni è dell’ordine di 1 m/s; il numero di Rossby
è, dunque, sempre molto maggiore di 1, per dimensioni L del campo di
moto inferiori al kilometro. Se non siamo interessati alla soluzione di
flussi nell’ambito di fenomeni geofisici e/o atmosferici, possiamo perciò
trascurare la forza di Coriolis nella scrittura dell’equazione di bilancio
della quantità di moto.

• Fr = V /(gL)1/2 è il numero di Froude, che rappresenta il rapporto


tra le forze di inerzia e la forza peso (è l’inverso della radice quadrata
del gruppo Π associato con la gravità quando si usa la terna inerzia-
le per adimensionalizzare). In realtà, se si introduce l’eccesso della
pressione rispetto all’idrostatica pe , la forza peso non compare più
esplicitamente nell’equazione di bilancio di quantità di moto, e il nu-
mero di Froude non è presente nell’Eq.(36). Come già detto, il numero
di Froude (cioè la gravità) non rientra tra i parametri di controllo, a
meno che non compaia nelle condizioni al contorno.

• Eu = P/(RV 2 ) è il numero di Eulero, che rappresenta il rapporto


tra le forze di pressione e le forze di inerzia (è il gruppo Π associato con
la pressione quando si usa la terna inerziale per adimensionalizzare).

Il numero di Reynolds, Re, e il numero di Mach, Ma, che compaiono nel-


l’Eq.(35) sono stati introdotti in precedenza (Cap. 7), e possono essere in-
terpretati, rispettivamente, come il rapporto tra le forze di inerzia e le forze
viscose e il rapporto tra le forze di inerzia e le forze necessarie a comprimere
il fluido. Questo spiega perché, per valori elevati del numero di Reynolds
(situazione tipica nella pratica), le inerzie contino più delle forze viscose, e

12
sia consigliabile utilizzare una terna inerziale per adimensionalizzare il pro-
blema (Cap. 7, Par. 1). Per Ma → 0, le forze necessarie a comprimere il
fluido sono molto maggiori delle forze di inerzia, e il flusso può essere consi-
derato incomprimibile (autosimilitudine rispetto al numero di Mach, Cap. 7,
Par. 1.3). Le Eqs. (32) e (36) rappresentano le equazioni di Stokes in
forma adimensionale.
Nel caso di fluido incomprimibile, ρ̌ = 1 e Ma = 0, per cui, introducendo
l’eccesso di pressione rispetto all’idrostatica e trascurando la forza di Coriolis
(Ro → ∞), le Eqs. (32) e (36) si riducono a
ˇ · v̌ = 0,
∇ (37)

e
∂ v̌ ˇ e+ 1 ∇
ˇ v̌ = −Eu∇p̌ ˇ 2 v̌,
St + v̌ · ∇ (38)
∂ ť Re
che rappresentano le equazioni di Navier-Stokes in forma adimensio-
nale.
Se non esiste un particolare tempo scala rappresentativo della non sta-
zionarietà del moto (per esempio perché non sono presenti forzanti di natura
periodica), si usa il tempo scala convettivo L/V per adimensionalizzare le
variabili temporali. Allo stesso modo, non è sempre necessario identifica-
re una pressione scala: se non ci sono timori che si verifichino fenomeni di
cavitazione (transizioni di fase connesse con abbassamenti localizzati della
pressione al di sotto della tensione di vapor saturo con susseguente implo-
sione delle bolle di gas e generazione di onde d’urto estremamente violente)
si può semplicemente usare la pressione dinamica ρV 2 per adimensiona-
lizzare le pressioni. In questi casi risulta St = Eu = 1, e l’Eq.(38) si riduce
a
∂ v̌ ˇ e+ 1 ∇
ˇ v̌ = −∇p̌ ˇ 2 v̌.
+ v̌ · ∇ (39)
∂ ť Re
Senza condizioni al contorno governate dalla gravità o dalla tensione superfi-
ciale (come nel caso di presenza di interfacce tra fluidi non miscibili; l’inverso
del gruppo Π associato con la tensione superficiale σT quando si usa la ter-
na inerziale è il numero di Weber, We = ρV 2 L/σT , che rappresenta il
rapporto tra le forze di inerzia e le forze legate alla tensione superficiale), il
moto del fluido è interamente determinato dal solo numero di Reynolds.

13
3 Soluzioni analitiche
Ricaviamo ora alcune soluzioni analitiche delle equazioni di Navier-Stokes.
Come già detto, non è possibile risolvere, in generale, analiticamente tali
equazioni per via della presenza del termine non-lineare rappresentato dalle
inerzie convettive. Per ottenere soluzioni analitiche, dunque, occorre consi-
derare configurazioni di flusso in cui il termine delle inerzie convettive è nullo
(condizioni di moto laminare in geometrie semplici) o trascurabile. Questo
limita le possibili applicazioni delle soluzioni analitiche delle equazioni di
Navier-Stokes. Ciononostante, esse si sono rivelate utili per confermare le
ipotesi alla base delle equazioni (cioè la reologia dei fluidi Newtoniani) dopo
il positivo confronto con gli esperimenti. Più recentemente, le soluzioni ana-
litiche vengono largamente utilizzate per verificare l’accuratezza di codici di
calcolo per la soluzione numerica delle equazioni di Navier-Stokes.

3.1 Flusso piano di Couette


Consideriamo il caso di due lastre piane indefinite parallele poste a distanza
δ, di cui una ferma e l’altra in moto con velocità costante V ; nell’interca-
pedine tra le due lastre è presente un fluido Newtoniano incomprimibile di
densità ρ e viscosità dinamica µ (Fig. 1). Usiamo un sistema di riferimento
in cui l’asse x individua la direzione del moto e l’asse y è perpendicolare
alle lastre. La lastra ferma si trova a y = 0, mentre quella in moto si trova
a y = δ. Visto che una delle due lastre si muove rispetto all’altra, anche
il fluido presente nell’intercapedine si metterà in movimento, per via della
condizione (verificata sperimentalmente) di aderenza (no-slip) dei fluidi
reali alla parete. Ipotizziamo: (1) che la velocità del fluido abbia solo com-
ponente in direzione x, v = (u, 0) (essendo il problema piano ignoriamo la
direzione z): questo equivale ad ipotizzare che il moto del fluido sia lamina-
re; (2) che il gradiente di pressione in direzione x sia nullo, ∂pe /∂x = 0. La
configurazione di flusso appena descritta prende il nome di flusso piano di
Couette e l’abbiamo già incontrata quando abbiamo introdotto il concetto
di viscosità (Cap. 1, Par. 2.3).

y V

∂p
δ e
=0
∂x
x
0

Figura 1: flusso piano di Couette.

14
Risolviamo le equazioni di Navier-Stokes in forma adimensionale. In-
dividuiamo come grandezze scala la velocità V della lastra superiore e lo
spessore dell’intercapedine δ. Non essendoci né una pressione scala né un
tempo scala caratteristico (essendo la velocità della lastra costante, il moto
risulta essere stazionario), usiamo le Eqs. (37) e (39), in cui il numero di
Reynolds risulta Re = ρV δ/µ. L’equazione di continuità per un moto piano
risulta
∂ ǔ ∂v̌
+ = 0, (40)
∂ x̌ ∂ y̌
che, essendo v̌ = 0 per l’ipotesi di laminarità del moto, si riduce a
∂ ǔ
= 0. (41)
∂ x̌
L’Eq.(41) ci dice che l’unica componente di velocità presente, se varia, varia
solo in direzione y̌. La determinazione della funzione ǔ = ǔ(y̌), cioè del pro-
filo di velocità in forma adimensionale, costituisce precisamente l’obiettivo
del problema. Proiettiamo ora l’Eq.(39) nelle direzioni x̌ e y̌,

1 ∂ 2 ǔ ∂ 2 ǔ
 
∂ ǔ ∂ ǔ ∂ ǔ ∂ p̌e
+ ǔ + v̌ =− + + 2 (42a)
∂ ť ∂ x̌ ∂ y̌ ∂ x̌ Re ∂ x̌2 ∂ y̌

1 ∂ 2 v̌ ∂ 2 v̌
 
∂v̌ ∂v̌ ∂v̌ ∂ p̌e
+ ǔ + v̌ =− + + . (42b)
∂ ť ∂ x̌ ∂ y̌ ∂ y̌ Re ∂ x̌2 ∂ y̌ 2
I termini legati alle inerzie locali sono nulli perché il moto è stazionario,
mentre v̌ e le sue derivate sono nulle per la laminarità del moto. Inoltre,
sempre per ipotesi, ∂ p̌e /∂ x̌ = 0. L’Eq.(41) ci dice che ∂ ǔ/∂ x̌ = 0, per cui
risulta nulla anche la ∂ 2 ǔ/∂ x̌2 . In definitiva,

∂ 2 ǔ
0= (43a)
∂ y̌ 2
∂ p̌e
0=− . (43b)
∂ y̌
Come anticipato, l’ipotesi di laminarità del moto ha reso nulle le inerzie
convettive. L’Eq.(43b) ci dice che l’eccesso di pressione rispetto all’idrosta-
tica non varia nemmeno in direzione y̌ (la pressione è ovunque distribuita
in maniera idrostatica). L’Eq.(43a) ci dice che la curvatura del profilo di
velocità in direzione y̌ è nulla, cioè che la velocità è distribuita in maniera
lineare. Integrando due volte, otteniamo

ǔ = Ay̌ + B, (44)

dove A e B sono le costanti di integrazione da determinare con le condizioni


al contorno. É interessante notare che il numero di Reynolds non compa-
re nell’espressione del profilo di velocità, che risulta, dunque, indipendente

15
dalla viscosità del fluido. Le due condizioni al contorno sono costituite dalla
condizione di no-slip alla parete, u(0) = 0 e u(δ) = V , o, in forma adimen-
sionale, ǔ(0) = 0 e ǔ(1) = 1. Con queste si ottiene A = 1 e B = 0, per cui
l’Eq.(44) diventa, semplicemente,

ǔ = y̌. (45)

Il profilo di velocità è riportato in Fig. 2.

y̌ y̌

uˇ τˇ

Figura 2: profili di velocità e sforzo tangenziale nel flusso piano di Couette.

Possiamo determinare lo sforzo tangenziale utilizzando l’Eq.(10) (la legge


di Newton). Adimensionalizzando, otteniamo

τ µ ∂u µV ∂ ǔ 1 ∂ ǔ 1
τ̌ = 2
= 2
= 2
= = , (46)
ρV ρV ∂y ρV δ ∂ y̌ Re ∂ y̌ Re

visto che, dall’Eq.(45), risulta ∂ ǔ/∂ y̌ = 1. L’Eq.(46) indica che lo sforzo


tangenziale è costante lungo y̌ (Fig. 2). In forma dimensionale, risulta

V
τ =µ , (47)
δ
come da verifica sperimentale.

3.2 Flusso piano di Poiseuille


Consideriamo ora il caso di due lastre piane indefinite parallele poste a
distanza δ, entrambe ferme; nell’intercapedine tra le due lastre è presente
un fluido Newtoniano incomprimibile di densità ρ e viscosità dinamica µ
(Fig. 3). Usiamo un sistema di riferimento in cui l’asse x individua una
direzione parallela alle lastre e l’asse y è perpendicolare alle lastre. Una
lastra si trova a y = 0, mentre l’altra a y = δ. Ipotizziamo: (1) che la
velocità del fluido abbia solo componente in direzione x, v = (u, 0) (essendo
il problema piano ignoriamo la direzione z): questo equivale ad ipotizzare che
il moto del fluido sia laminare; (2) che sia imposto un gradiente costante di
pressione in direzione x, ∂pe /∂x = cost. La configurazione di flusso appena
descritta prende il nome di flusso piano di Poiseuille. La forzante del moto
del fluido è rappresentata dal gradiente di pressione.

16
y

∂p
δ e
≠0
∂x
x
0

Figura 3: flusso piano di Poiseuille.

Anche in questo caso risolviamo le equazioni di Navier-Stokes in forma


adimensionale usando come grandezze scala lo spessore δ e il modulo della
velocità media V del flusso lungo la direzione y (al momento incognita). Il
numero di Reynolds ha, anche in questo caso, l’espressione Re = ρV δ/µ.
Visto l’ipotesi di laminarità del moto, l’equazione di continuità si riduce
all’Eq.(41), e anche in questo caso si annullano tutti i termini delle inerzie
convettive nelle Eqs. (42). Anche le inerzie locali sono nulle visto che la
forzante è costante nel tempo e, quindi, il moto è stazionario. Le Eqs. (42)
si riducono, allora, a
∂ p̌e 1 ∂ 2 ǔ
0=− + (48a)
∂ x̌ Re ∂ y̌ 2
∂ p̌e
0=− . (48b)
∂ y̌
L’Eq.(48b) ci dice che la pressione è distribuita in maniera idrostatica lungo
y̌. L’Eq.(48a) ci dice che il gradiente di pressione in direzione x̌ (la for-
zante del moto) è esattamente bilanciato dal termine viscoso (la resistenza
al moto). Ci dice anche che la curvatura del profilo di velocità rispetto a
y̌ è costante, cioè che la distribuzione della velocità lungo y̌ è parabolica.
Integriamo una prima volta l’Eq.(48a) ottenendo
∂ ǔ ∂ p̌e
= Re y̌ + A. (49)
∂ y̌ ∂ x̌
Integrando l’Eq.(49) otteniamo
Re ∂ p̌e 2
ǔ = y̌ + Ay̌ + B, (50)
2 ∂ x̌
dove A e B sono costanti di integrazione. La costante di integrazione A
si ottiene considerando la simmetria del problema rispetto a y = δ/2. In
corrispondenza dell’asse di simmetria, la velocità non può che presentare un
massimo (o un minimo), visto che, in corrispondenza delle lastre, la velocità
è nulla. La condizione di simmetria ∂ ǔ/∂ y̌ = 0 quando y̌ = 1/2 fornisce
Re ∂ p̌e
A=− . (51)
2 ∂ x̌

17
La condizione di aderenza ǔ(0) = 0 fornisce B = 0. In definitiva, il profilo
di velocità risulta
Re ∂ p̌e
ǔ = − y̌(1 − y̌). (52)
2 ∂ x̌
Il segno del gradiente di pressione in direzione x imposto determina la cur-
vatura della parabola rappresentata dal profilo di velocità, e, quindi, anche
il verso del moto (ricordiamo che la velocità è nulla in corrispondenza delle
lastre). Se ∂ p̌e /∂ x̌ < 0 (gradiente favorevole) la parabola presenta con-
cavità verso il basso (rispetto all’asse x) e il fluido si muove nel verso delle
x positive. Se ∂ p̌e /∂ x̌ > 0 (gradiente avverso) la parabola presenta con-
cavità verso l’alto e il fluido si muove nel verso delle x negative. Il profilo
di velocità è rappresentato in Fig. 4 nei due casi di gradiente favorevole e
avverso.

y̌ y̌

∂ pˇ
e
<0
∂ x̌
uˇ τˇ

(a)

y̌ y̌

∂ pˇ
e
>0
∂ x̌
uˇ τˇ

(b)

Figura 4: profili di velocità e sforzo tangenziale nel flusso piano di Poiseuille,


con gradiente (a) favorevole e (b) avverso.

Dal momento che, per definizione, il modulo della velocità


R 1 media lun-
go y è pari a V , in forma adimensionale deve risultare che 0 |ǔ| dy̌ = 1.
Integrando l’Eq.(52) e ponendo l’integrale uguale a 1, otteniamo

Re ∂ p̌e
= 1, (53)
12 ∂ x̌

cioè Re = 12 |∂ p̌e /∂ x̌|−1 . In forma dimensionale, risulta

δ 2 ∂pe

V = , (54)
12µ ∂x

18
che permette di determinare la velocità media a partire dal gradiente di
pressione in direzione x. Lo sforzo tangenziale adimensionale si calcola come
nell’Eq.(46), per cui, usando l’Eq.(49),
1 ∂ ǔ 1 ∂ p̌e
τ̌ = =− (1 − 2y̌). (55)
Re ∂ y̌ 2 ∂ x̌
Lo sforzo tangenziale risulta, allora, distribuito in maniera lineare lungo y
(Fig. 4), ed è pari a zero in corrispondenza dell’asse di simmetria.

3.3 Flusso piano di Couette-Poiseuille


Consideriamo ora il caso di due lastre piane indefinite parallele poste a di-
stanza δ, di cui una ferma e l’altra in moto con velocità costante V ; nell’in-
tercapedine tra le due lastre è presente un fluido Newtoniano incomprimibile
di densità ρ e viscosità dinamica µ (Fig. 5). Usiamo un sistema di riferimen-
to in cui l’asse x individua la direzione del moto e l’asse y è perpendicolare
alle lastre. La lastra ferma si trova a y = 0, mentre quella in moto si trova
a y = δ. Ipotizziamo: (1) che la velocità del fluido abbia solo componente
in direzione x, v = (u, 0) (essendo il problema piano ignoriamo la direzione
z): questo equivale ad ipotizzare che il moto del fluido sia laminare; (2) che
ci sia un gradiente costante di pressione in direzione x, ∂pe /∂x = cost. La
configurazione di flusso appena descritta prende il nome di flusso piano di
Couette-Poiseuille, e rappresenta, evidentemente, una combinazione dei due
casi analizzati in precedenza.

y V

∂p
δ e
≠0
∂x
x
0

Figura 5: flusso piano di Couette-Poiseuille.

Usiamo come grandezze scala lo spessore δ e la velocità V della lastra


superiore. Invece di risolvere le equazioni di Navier-Stokes seguendo la stes-
sa procedura svolta nei due casi precedenti, notiamo che, con l’ipotesi di
laminarità del moto, le inerzie convettive si annullano, per cui le equazio-
ni differenziali diventano lineari. In queste condizioni vale il principio di
sovrapposizione degli effetti, e il profilo di velocità è dato, semplicemen-
te, dalla somma dei profili di velocità del flusso di Couette e di quello di
Poiseuille, cioè
Re ∂ p̌e
ǔ = − y̌(1 − y̌) + y̌. (56)
2 ∂ x̌

19
y̌ y̌

∂ pˇ
e
<0
∂ x̌
uˇ τ̌

(a)

y̌ y̌

∂ pˇ 2
e
0< <
∂ x̌ Re
ǔ τ̌

(b)

y̌ y̌

∂ pˇ 2
e
>
∂ x̌ Re
ǔ τ̌

(c)

Figura 6: possibili profili di velocità e sforzo tangenziale nel flusso piano di


Couette-Poiseuille.

Allo stesso modo, la distribuzione degli sforzi tangenziali risulta la somma


delle distribuzioni nei due casi esaminati in precedenza,
1 ∂ p̌e 1
τ̌ = − (1 − 2y̌) + . (57)
2 ∂ x̌ Re
A seconda del segno del gradiente di pressione imposto e del segno della
derivata della velocità rispetto a y in corrispondenza della lastra inferiore
(per la legge di Newton equivalente al segno dello sforzo tangenziale in y̌ =
0, che, dall’Eq.(57) si annulla quando ∂ p̌e /∂ x̌ = 2/Re), possiamo avere i
seguenti casi:
∂ p̌e
(a) < 0: la concavità del profilo parabolico di velocità è verso il basso
∂ x̌
e le velocità sono positive in tutto il campo di moto;
∂ p̌e 2
(b) 0 < ≤ : la concavità del profilo parabolico di velocità è verso
∂ x̌ Re
l’alto e le velocità sono positive in tutto il campo di moto;

20
∂ p̌e 2
(c) > : la concavità del profilo parabolico di velocità è verso
∂ x̌ Re
l’alto e il campo di moto presenta un’inversione del flusso. Ponendo
la velocità pari a zero nell’Eq.(56), si ottiene la posizione y̌ del punto
di inversione: le velocità sono positive per y̌ ≥ 1 − 2/(Re∂ p̌e /∂ x̌) e
negative per y̌ < 1 − 2/(Re∂ p̌e /∂ x̌).

I profili di velocità nei vari casi (e i corrispondenti profili di sforzo tangen-


ziale) sono riportati in Fig. 6.

3.4 Moto di Poiseuille in condotta


Risolviamo ora il caso di un fluido Newtoniano incomprimibile che si muove
in condizioni di moto laminare con portata Q costante in una condotta
cilindrica a sezione circolare di diametro D (e raggio R) e asse rettilineo
inclinato rispetto all’orizzontale di un angolo ψ (moto di Poiseuille in
condotta, Fig. 7). Questo caso è stato analizzato in precedenza utilizzando
un approccio sperimentale (Cap. 7).

2 LCT JL
α V
2g
Δp LP
γ

y
D ψ
x

z
Q
L

Figura 7: moto di Poiseuille in condotta.

Fissiamo un sistema di riferimento in cui l’asse x è diretto come l’asse


della condotta ed è concorde col verso del moto (l’unica componente di
velocità non nulla è quella in direzione x, cosı̀ che v = uî). Risolviamo per
il caso in esame le equazioni di Navier-Stokes, Eqs. (20) e (21), in forma

21
indefinita dimensionale. L’equazione di continuità,
∂u ∂v ∂w
+ + = 0, (58)
∂x ∂y ∂z
si riduce a
∂u
= 0, (59)
∂x
con l’ipotesi di laminarità del moto (v = w = 0). Le equazioni di bilancio
di quantità di moto,
∂u ∂u ∂u ∂u ∂p ∂ z̃
ρ + ρu + ρv + ρw =− − ρg + µ∇2 u (60a)
∂t ∂x ∂y ∂z ∂x ∂x
∂v ∂v ∂v ∂v ∂p ∂ z̃
ρ + ρu + ρv + ρw =− − ρg + µ∇2 v (60b)
∂t ∂x ∂y ∂z ∂y ∂y
∂w ∂w ∂w ∂w ∂p ∂ z̃
ρ + ρu + ρv + ρw =− − ρg + µ∇2 w, (60c)
∂t ∂x ∂y ∂z ∂z ∂z
considerando che il moto è stazionario, che v = w = 0 e che vale l’Eq.(59),
diventano, dividendo tutto per γ = ρg e riarrangiando,
 
∂ p µ
z̃ + = ∇2 u (61a)
∂x γ γ
 
∂ p
z̃ + =0 (61b)
∂y γ
 
∂ p
z̃ + = 0. (61c)
∂z γ
Le Eqs. (61b) e (61c) ci dicono che la distribuzione delle pressioni è idro-
statica sulla sezione trasversale al flusso: si tratta, infatti, di una corrente
gradualmente variata (Cap. 5, Par. 2). Per risolvere l’Eq.(61a), passiamo ad
un sistema di riferimento in coordinate cilindriche con l’asse x che coincide
con l’asse x del sistema di riferimento Cartesiano, l’asse r che misura la di-
stanza radiale dall’asse della condotta e l’anomalia θ che misura la rotazione
attorno all’asse (Fig. 8).
Riscriviamo il Laplaciano di u nell’Eq.(61a) in coordinate cilindriche e
notiamo che la derivata in direzione x della quota piezometrica è uguale a
−J,con J cadente energetica media, per cui
∂2u 1 ∂ 1 ∂2u
 
2 ∂u γJ
∇ u= 2
+ r + 2 2
=− . (62)
∂x r ∂r ∂r r ∂θ µ
La derivata seconda della u rispetto a x è nulla per via dell’Eq.(59), mentre
la derivata seconda rispetto a θ è nulla per simmetria. Quindi,
 
1 ∂ ∂u γJ
r =− , (63)
r ∂r ∂r µ

22
y

r
z θ
0

Figura 8: sistema di riferimento in coordinate cilindriche.

e, integrando,
∂u γJ r2
r =− + A, (64)
∂r µ 2
dove A è la costante di integrazione. Per simmetria, la velocità deve neces-
sariamente presentare un massimo in corrispondenza dell’asse (∂u/∂r = 0
per r = 0) per cui risulta A = 0. Integrando l’Eq.(64), otteniamo

γJ r2
u=− + B, (65)
µ 4
dove B è una seconda costante di integrazione, che ricaviamo imponendo la
condizione di aderenza alla parete (u = 0 per r = R). In definitiva,

γJ R2 − r2
u= , (66)
µ 4
cioè il profilo di velocità sulla sezione trasversale al flusso è parabolico. La
velocità massima in corrispondenza dell’asse (r = 0) vale

γJD2
umax = , (67)
16µ
con D = 2R. La portata si calcola come integrale della R R velocità sull’area
della sezione trasversale: in coordinate cilindriche Q = 0 u2πrdr, per cui
R
πγJR4 πγJD4
Z
γJ
Q= (R2 − r2 )2πrdr = = . (68)
4µ 0 8µ 128µ

L’Eq.(68) prende il nome di formula di Hagen-Poiseuille [4, 5], e, a parte


le poche implicazioni pratiche (perché sia valida il moto deve essere lami-
nare, come, per esempio, il moto del sangue nelle vene e nei capillari), la
sua verifica sperimentale è risultata storicamente la prima conferma della

23
validità della legge di Newton (proporzionalità tra sforzi e velocità di defor-
mazione). Dividendo la portata Q per l’area della sezione trasversale πD2 /4
otteniamo la velocità media sulla sezione,
γJD2 umax
V = = , (69)
32µ 2
che risulta pari a metà di quella massima. Dall’Eq.(69) otteniamo l’espres-
sione della cadente energetica in condizioni di moto laminare,