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FEDRO

Lui e la sua opera rimasero per molto tempo non apprezzate dai contemporanei, neanche da Seneca che definì la favola “un'impresa non ancora
tentata degli ingegni romani”.
Dalla sua opera ricaviamo che è nato in Macedonia, ed è andato a Roma da bambino, probabilmente come schiavo (libertus Augusti). È quindi
probabile che sia stato a fianco dell'imperatore per la sua cultura e che, come molti liberti di madrelingua greca, si sia dedicato all'insegnamento (le
favole infatti erano comunemente usate come libri di testo nelle scuole).
Fedro non ottenne mai con la sua poesia i risultati sperati e fu addirittura ingiustamente accusato da Seiano. Infatti nel prologo del libro III, Fedro si
lamenta dell'ingiustizia, ovviamente dopo la morte di Seiano nel 31: è questo il principale indizio cronologico.

Di Fedro ci sono arrivati 5 libri di favole in versi (100 complimenti). Altri 30 nell’Appendix Perottina.
Nel prologo del libro I indica la sua fonte greca: Esopo, uno scrittore greco vissuto nel V secolo a.C.
Secondo la tradizione, Esopo, schiavo originario della Frigia, avrebbe raccolto il materiale favolistico greco dando forma ad una materia che viveva in
modo orale e popolare.
La favola divenne così un genere a sé stante, costituito da brevi racconti di fantasia con significato pedagogico e morale: propongono modelli di
comportamento positivi o negativi con massime e proverbi, che esprimono saggezza popolare, con spunti di critica sociale, protesta dei deboli contro i
potenti.
La forma più caratteristica della favola esopica è l'apologo animalesco, che ha come protagonisti animali parlanti, simboli di caratteri e atteggiamenti
umani.

L'opera di Esopo era in prosa, mentre Fedro sceglie la poesia, non usa però l'esametro, che dopo Lucilio era diventato il metro della satira, ma adotta
il senario giambico, comune delle parti dialogate della commedia, genere che ha in comune con la favola l'intento di divertire il pubblico, il carattere
realistico, la rappresentazione della vita quotidiana e di personaggi comuni.
La favola assume molto spesso un andamento drammatico, in quanto inscena dialoghi in forma diretta.

Il suo scopo è duplice: Il poeta intende divertire, ma anche ammaestrare. Vuole inserire qualcosa di suo, oltre al modello di esopo: la varietas e la
brevitas sono i capisaldi della poetica fedriana.

La brevitas è da intendere non solo alla modesta quantità di libri e l'estensione dei componimenti, ma anche alla capacità di condensare i contenuti
narrativi e gli insegnamenti morali, così da ottenere attenzione e consenso dei lettori grazie alla concisione e la tensione stilistica.
Un esempio è la volpe e l’uva, diventata addirittura un proverbio.

La morale è un'altra caratteristica della favola. Segue il racconto, spiegando in modo esplicito il significato simbolico, in modo da assicurare la
comprensione del messaggio morale.

La varietas viene utilizzata per superare gli schemi ripetitivi dell'apologo animalesco e si manifesta dal libro I, dominato da animali parlanti, a quelli
successivi, in cui compaiono personaggi umani (mitologici o storici, come Esopo o Socrate).

Troviamo inoltre alcune storielle realistiche come quella della vedova e del soldato, corrispondente alla novella della matrona di Efeso, narrata nel
Satyricon di Petronio.

La visione e l'interpretazione della vita che emergono dalla raccolta corrisponde al punto di vista degli umili, degli esclusi al potere. Tuttavia non
troviamo un atteggiamento satirico, ovvero aspro pungente, l'intento moralistico sembra infatti rivolto contro i difetti e gli errori umani piuttosto che
contro i singoli individui, senza che emergano la volontà o la speranza di contribuire a mutare un mondo ingiusto.

La morale che si ricava è infatti spesso amara e pessimistica, ma anche rassegnata, basata sulla legge del più forte; non a caso infatti la raccolta si apre
con la favola del lupo e dell'agnello. Il povero il debole, se vogliono sopravvivere evitando guai, devono stare al loro posto e accettare le regole del
gioco, cercando nella prudenza e nell’astuzia i mezzi per difendersi dalle ingiustizie della prepotenza. È una morale rinunciataria, che deplora il male
ma lo considera inevitabile e non si illude di potervi porre rimedio.
All'interno di questa visione, ereditata da Esopo, a cui aderisce completamente sulla base delle proprie esperienze personali, Fedro inserisce talvolta
spunti di derivazione diatribica, tra cui emerge il valore della libertà, considerata il bene più prezioso.
SENECA
Insieme a Cicerone, è l’esponente più illustre della prosa filosofica romana e l'unico poeta tragico latino di cui si sono conservate le opere.
È segnato da vistose contraddizioni e terminò la sua vita travagliata con un suicidio stoico.
Nelle sue opere filosofiche riprese temi dell'antica filosofia morale rinnovandoli con il suo pensiero e stile.

1) Vita
Apparteneva a una ricca famiglia provinciale di rango equestre. Nacque a Cordova, Spagna, intorno al 4 a.C.
Si recò molto presto a Roma, dove studiò retorica e filosofia.
Abbandonò la vita contemplativa per non dispiacere a suo padre e intraprese il cursus honorum, rivestendo la questura. Le sue qualità oratorie gli
promettevano una brillante carriera, ma i rapporti con gli imperatori furono difficili. Caligola gli fu talmente ostile da progettare di farlo uccidere.
L'imperatore Claudio, istigato dalla moglie Messalina, lo accusò di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola odiata da Messalina, e lo condannò
all'esilio in Corsica.
Il suo esilio durò dal 41 al 49, quando fu richiamato a Roma dalla nuova moglie di Claudio, Agrippina, che lo voleva come precettore del figlio
Nerone.
Egli entrò così nel palazzo imperiale iniziando un periodo di servizio al potere. Quando Claudio morì, infatti, gli successe Nerone e Seneca si trovò ad
essere consigliere imperiale di un non ancora diciottenne ed ebbe praticamente nelle sue mani il governo dell'impero, insieme ad Agrippina e al
prefetto del pretorio Afranio Burro. Ma la sua speranza, espressa nel De clementia, di fare del giovane principe un sovrano esemplare, si rivelò
un’illusione. Nel 59 Nerone fece uccidere Agrippina.
Non si sa che ruolo abbia avuto Seneca in questo delitto, ma rimase comunque al fianco di Nerone, probabilmente per cercare di controllare e
contenere le sue azioni. Quando Burro morì, la situazione si fece insostenibile e Seneca chiese a Nerone il permesso di abbandonare l'attività pubblica
e di ritirarsi a vita privata per dedicarsi ai suoi studi. Dal 62 al 65 egli realizzò la vita contemplativa a cui aspirava fin dalla giovinezza, ma non riuscì
a mettersi al riparo dall’ostilità di Nerone: nel 65, quando fu scoperta la congiura pisoniana, il filosofo fu considerato tra i complici e costretto a
togliersi la vita. Secondo Tacito egli affrontò la morte con coraggio e serenità ispirandosi alle “morti filosofiche” di Socrate e altri sapienti del
passato.

2) Dialogi
Un gruppo di 10 opere di argomento filosofico: 9 sono in un libro solo, una, il De ira, è in tre libri.
I dialoghi di Seneca Non sono come quelli di Platone e Cicerone in cui la discussione si svolge tra più personaggi, in una cornice drammatica e con
un’ambientazione storica, L'autore parla sempre in prima persona, avendo come unico interlocutore il destinatario dell'opera.

L’impianto dei Dialogi non corrisponde, quindi, a quello dei dialoghi veri e propri, Ma risente dell'influenza della tradizione diàtriba cinico-stoica,
caratterizzata da un’impostazione discorsiva, la tendenza a rivolgersi direttamente al destinatario e la frequente introduzione di domande e obiezioni
con un interlocutore fittizio, portavoce di opinioni comuni o di posizioni diverse da quelle dell'autore, spesso presentato impersonalmente con formule
del tipo si quis dicat.

Dialoghi di genere consolatorio


CONSOLATIO AD MARCIAM
È l'opera più antica, scritta prima dell'esilio, forse nel 37, in cui Seneca si propone di consolare Marcia, donna dell'alta società romana, che soffre per
la perdita del figlio Metilio. Il testo si inserisce nella tradizione della consolazione filosofica, che aveva avuto illustri esempi nella letteratura greca e
che in quella latina era rappresentato in particolare dalla consolatio di Cicerone per la morte della figlia.
Seneca riprende gli argomenti dei filosofi di varie scuole per consolare chi ha subito un lutto e si impegna nella dimostrazione che la morte non è un
male, sviluppando sia la tesi della morte come fine di tutto sia quella della morte come passaggio ad una vita migliore.

CONSOLATIO AD HELVIAM MATREM


Ha come destinatario la madre dell’autore, che soffre per la sua condanna e la sua lontananza. Seneca sviluppa i temi caratteristici degli scritti
consolatori riguardo all’esilio, proponendosi di dimostrare che esso non è un male, ma un semplice mutamento di luogo, che non può togliere
all'uomo l'unico vero bene, la virtù. in più il sapiente, secondo la dottrina del cosmopolitismo stoico, ha come patria il mondo intero.

CONSOLATIO AD POLYBIUM
Rivolta a un potente liberto dell'imperatore Claudio, in occasione della morte di suo fratello. L’tteggiamento dell'autore è diverso. Essendo una
consolatio mortis, la parte argomentativa ricalca i tratti della letteratura consolatoria: l’ineluttabilità del destino, la dimostrazione razionale che la
morte non è un male e che è insensato compiangere chi non è più in vita, in quanto “aut beatus aut nullus est”, o è felice o non esiste più, e quindi non
prova sofferenza.
Tuttavia il vero scopo dell'autore, il richiamo all’esilio, condiziona l'opera, che diventa un pretesto per rivolgere all’imperatore una supplica. il
filosofo elogia non solo Polibio e il fratello morto, ma soprattutto Claudio di cui esalta le imprese militari e alla cui clemenza si affida nella speranza
di ottenere la grazia.

Dialoghi-trattati
DE IRA
Scritto posteriormente alla morte di Caligola, è diviso in tre libri, in cui il filosofo si propone di combattere l'ira, la più odiosa delle passioni,
pericolose e funeste. Contrariamente alla dottrina peripatetica, che in alcune circostanze la giustificava, Seneca afferma che l'ira non è mai accettabile
né utile, in quanto prodotta da un impulso che offusca la ragione; la definisce una breve follia. Indica poi i rimedi ad essa, ovvero i mezzi per
prevenirla e placarla. Tra i personaggi spicca quello di Caligola, su cui l'autore sfoga il suo odio, descrivendolo come una bestia assetata di sangue.

DE BREVITATE VITAE
Scritto probabilmente l'anno in cui Seneca torna dall'esilio, è dedicato all'amico Paolino. Il filosofo sostiene che gli uomini hanno torto a lamentarsi
per la brevità della loro esistenza perché la vita, se sai farne buon uso, è lunga. Ma gran parte degli uomini la spreca in occupazioni vane: sono coloro
che Seneca chiama occupati, contrapposti al sapiente che sfrutta bene il suo tempo ricercando verità e saggezza. Chi pone i suoi obiettivi in
circostanze indipendenti da lui, non può assicurarsi l'autárkeia, l'autosufficienza, la libertà da ogni condizionamento esteriore, che assicura pace e
serenità.

DE VITA BEATA
Scritta nel periodo in cui il filosofo era al potere a fianco di Nerone, è divisa in due parti: nella prima, di carattere teoretico, l'autore espone la dottrina
morale stoica, secondo cui la felicità coincide con la vita secondo natura, ossia secondo ragione, e che indica la virtù come sommo bene,
polemizzando contro gli epicurei che identificano in sommo bene con il piacere.
La seconda parte e anch’essa polemica, ma con implicazioni personali. Seneca respinge le critiche di chi accusa i filosofi di incoerenza, di non vivere
secondo i precetti che professano. L’autore non parla esplicitamente di se stesso, ma i suoi nemici gli rimproveravano il fatto di possedere enormi
ricchezze e di condurre una vita dispendiosa e lussuosa, in contrasto con lo stoicismo. Il filosofo non nega la fondatezza delle accuse, ma si difende
dicendo di non essere ancora riuscito a raggiungere gli obiettivi prefissati. La sua difesa, elaborata con eloquenza e vigore, si incentra sul tema delle
ricchezze, sostenendo che il filosofo non le ama e non soffre quando ne è privato.

DE TRANQUILLITATE ANIMI
Risale al periodo in cui l'autore collaborava con Nerone ed è dedicata all'amico Anneo Sereno, immaginando che gli chieda consiglio, trovandosi in
una condizione di insicurezza spirituale, spinto da impulsi contrastanti. Il filosofo, dopo aver descritto i sintomi di un animo inquieto e insoddisfatto,
indica alcuni rimedi che aiutano a raggiungere la tranquillità dell’animo: impegno nella vita attiva per il bene comune, amicizia dei buoni, parsimonia
e frugalità, accettazione di morte e avversità.

DE OTIO
Scritto intorno al ritiro, Seneca si rivolge di nuovo ad Anneo Sereno affrontando il problema dell’impegno e del disimpegno, ossia della vita attiva o
di quella contemplativa, chiedendosi se il sapiente debba partecipare alla vita attiva. Il filosofo sostiene la validità della scelta dell’otium, osservando
che la posizione storica secondo cui il sapiente deve impegnarsi politicamente a meno che le circostanze glielo impediscano, coincide con quella
epicurea secondo cui il sapiente non deve impegnarsi, a meno che le circostanze glielo impongano. Seneca afferma che è praticamente impossibile
trovare uno Stato in cui il filosofo sia in condizione di agire coerentemente con i suoi principi.

DE PROVIDENTIA
Seneca risponde all'amico Lucilio che gli hai chiesto perché i buoni sono colpiti dai mali, se l'universo è retto dalla provvidenza divina, come afferma
lo stoicismo. Il filosofo sostiene che in realtà non sono veri mali quelli che gli uomini considerano tali: sono prove a cui gli déi sottopongono i buoni
per temprarli e aiutarli a perfezionarsi moralmente.

DE CONSTANTIA SAPIENTIS
Dedicato ad Anneo Sereno, il filosofo dimostra la tesi storica secondo cui il sapiente non può essere colpito da alcun oltraggio e alcuna offesa, perché
la sua forza e la sua superiorità morale lo rendono invulnerabile di fronte a qualsiasi attacco esterno, in quanto per lui l'unico bene è la virtù, che
nessuno gli può togliere.
3) Trattati
I trattati De Clementia,De beneficiis e Naturales quaestiones sono altre opere filosofiche che la tradizione non ha compreso nella raccolta dei
Dialogi,da cui non differiscono nell’impostazione formale.
In essi Seneca parla sempre in prima persona rivolgendosi a un dedicatorio con cui immagina dialogare e discutere. Rileviamo un impianto
argomentativo e dialettico energico e l’uso di procedimenti diatribici come la polemica con interlocutori fittizi ed il frequente ricorso ad aneddoti e ad
esempi tratti dalla storia greca e romana.

DE CLEMENTIA (trattato di filosofia politica)


in cui Seneca teorizza ed esalta la monarchia illuminata. Rivolgendosi a Nerone,Seneca lo elogia perché,pur disponendo di un potere illimitato,egli da
prova di possedere la virtù più grande del sovrano: la clemenza(definita come la moderazione e l’indulgenza che chi ha il potere di punire adotta
spontaneamente nell’infliggere pene).
Questa virtù contraddistingue il re giusto rispetto al re tiranno,garantendo la stabilità dell’impero,amore e riconoscenza,rispetto all’odio derivante
dalla crudeltà.

Seneca prende atto realisticamente del fatto che il principato è una monarchia assoluta. Proprio per questo pone al centro del suo discorso,
considerandola virtù politica, non più la giustizia ma la clemenza, una qualità che implica un rapporto di dipendenza in quanto esercitata dal superiore
nei riguardi degli inferiori. Il punto di riferimento non è più costituito dalle leggi ma dalla volontà del principe.
Seneca cerca di motivare teoricamente la realtà positiva del principato e trova un supporto nella dottrina politica storica, che tradizionalmente
indicava nella monarchia la miglior forma di governo a condizione che il re fosse sapiente. Ecco quindi che Seneca presenta Nerone come tale,
attribuendogli tutte le virtù proprie del sovrano perfetto.

L’opera si risolve così in un elogio del principe e nella sua figura Seneca proietta un modello ideale: i comportamenti esemplari che gli attribuisce
corrispondono a un programma politico che implicitamente lo esorta a realizzare le sue speranze.
E anche evidente il carattere astratto e utopistico di questo programma politico la cui realizzazione è affidata esclusivamente alla libera volontà del
sovrano e dipende dall’importo abile eventualità che quest’ultimo si identifichi con la figura del sapiente stoico.

DE BENEFICIIS (tra etica e politica)


Sette libri,dedicato all’amico Ebuzio Liberale.
Seneca, seguendo fonti greche prevalentemente storiche, da precetti sul giusto modo di fare e di ricevere benefici, da lui presentati come il
fondamento della convivenza civile.sono presenti i temi dell’aiuto reciproco, dei doveri del superiore verso gli inferiori, della liberalità, della
riconoscenza e dell’ingratitudine.

DE NATURALES QUAESTIONES (trattato di scienze naturali)


Si tratta di un trattato sui fenomeni atmosferici e naturali in sette libri, dedicato a Lucilio, il destinatario delle epistole. Gli antichi facevano rientrare
nel campo filosofico anche le scienze naturali, considerate pertinenti alla fisica, una delle tre parti della filosofia,insieme alla morale e alla logica.
Anche in quest’opera Seneca propone uno scopo morale: liberare gli uomini dai timori che nascono dall’ignoranza dei fenomeni naturali e insegnare
loro il giusto uso dei beni messi a disposizione dalla natura.
Viene esaltata più volte la ricerca scientifica, considerata il mezzo con cui l’uomo può innalzarsi al di sopra di ciò che è puramente umano ed elevarsi
fino alla conoscenza delle realtà divine.
Infine per Seneca,il progresso scientifico porterà alla luce le verità ancora ignote.

4) Le Epistole a Lucilio
Sono l’opera filosofica più importante di Seneca, quella in cui esprime la sua visione della vita e dell’uomo. Si tratta di una raccolta di lettere scritte
dopo il ritiro dell’attività politica,dal 62 al 65 e ne sono conservate 124, distribuite in 20 libri. Il destinatario è Lucilio, un amico.
Le epistole, sono una continua riflessione su problemi di filosofia morale. Seneca si presenta come un uomo che, giunto ormai alla vecchiaia, si
dedica esclusivamente alla ricerca e al perfezionamento morale. Egli assume nei confronti dell’amico più giovane l’atteggiamento del consigliere e
del maestro, per aiutarlo a raggiungere quella sapienza che tuttavia ammette egli stesso di non possedere ancora, ma di cercare giorno per giorno in un
processo di auto educazione.
In realtà Seneca scrive non solo per l’amico ma soprattutto per i posteri.
dunque si tratta di epistole letterarie, nel senso che sono state scritte con il preciso scopo di essere pubblicate.
Ciò non implica il fatto che le lettere se notizie o che i fatti siano inventati, uno dei tratti caratterizzanti del genere epistolare era infatti il riferimento
personale ad avvenimenti, circostanze e occasioni della vita quotidiana.
L’impiego degli spunti tratti dalla vita quotidiana è utilizzato in funzione morale: le esperienze personali vengono sempre trasformate in occasioni di
riflessione da cui trarre utili ammaestramenti.
Un altro tratto tipico del genere epistolare presente nelle lettere di Seneca è il modo di procedere dell’esposizione: libero, disinvolto, colloquiale, non
volgare. Il filosofo assimila infatti il suo discorso al sermo, una conversazione familiare, informale, tra amici.
Tipica del sermo è l’assenza di sistematicità nell’esposizione della materia, evidente sia all’interno delle singole lettere sia nella disposizione di esse
all’interno della raccolta. Tale disposizione non sembra corrispondere a un progetto chiaramente definito.
Si individua tuttavia un filo conduttore nel progressivo avanzamento del destinatario sulla strada della conoscenza filosofica: a partire dall’epistola 30
Seneca, compiacendosi dei progressi dell’allievo, abbandona l’ammaestramento adatto ai principianti per passare a metodi di insegnamento più
impegnativi.
Ma i progressi di Lucilio non sono soltanto di tipo intellettuale, ciò che più conta per Seneca è il perfezionamento morale che coincide con la scelta
dell’otium.
il filosofo esorta ripetutamente Lucilio a lasciare le sue occupazioni politiche e relativi doveri sociali per dedicarsi esclusivamente allo studio e alla
pratica della sapienza.

Contenuti:
•l’otium,il secessus e la ricerca della virtù:
Seneca ha capito che solo nella Sapientia risiedono la vera gioia e i veri valori e che essa si può realizzare soltanto impegnandosi totalmente nella
lotta contro le passioni, gli impulsi e desideri irrazionali che aggrediscono e minacciano l’uomo, privandolo della pace dell’anima.
Egli si presenta dunque intento alla ricerca del vero bene, la virtù, e raccomanda Lucilio di liberarsi dei falsi giudizi e di astenersi ad ogni occupazione
frivola e moralmente inutile; afferma anche di evitare il contatto con la folla, limitandosi alla compagnia di pochi e scelti amici e dedicandosi a un
dialogo continuo con i grandi filosofi del passato.

•l’autonomia di pensiero
la dottrina a cui Seneca aderisce e propone all’amico e quella storica tuttavia non esita a criticare aspetti dello Stay scisma che non si sente di
approvare e rivendica la propria autonomia e indipendenza di giudizio. Inoltre cita spesso massime di Epicuro (filosofo di cui forse Lucilio era
simpatizzante) riguardo a temi epicurei come il disimpegno (otium), l’amicizia, la preparazione alla morte.

•il tempo e la morte


i temi dominanti,insieme a quello dell’otium,sono il tempo e la morte presenti fin dalla lettera di apertura. Avvicinandosi alla fine della vita, Seneca si
prepara a morire, convinto che liberarsi della paura della morte sia compito specifico del filosofo: chi ha realizzato il vero scopo dell’esistenza, ossia
la virtù, e pronto a morire in qualsiasi momento, senza rimpianti né timori; egli infatti ha raggiunto la perfetta libertà da ogni condizionamento
esteriore, ha conquistato l’autarkeia propria del sapiente.

•la valutazione qualitativa del tempo vissuto


Stolto è invece chi teme la morte, perché si ribella a un imprescindibile necessità di natura.
Alla valutazione quantitativa del tempo, tipica di chi ha una visione errata dell’esistenza, se ne deve sostituire una qualitativa: non conta quanto, ma
come si vive.
la morte, poi, non è temibile per nessuno: rappresenta la liberazione dei mali dell’esistenza.

Lo stile della prosa senecana


•ricerca della persuasione e del coinvolgimento emotivo:
nelle epistole, è presente un tono linguaggio colloquiale e confidenziale, questo stile non è sostanzialmente diverso da quello dei dialoghi e dei trattati:
costante in tutta la produzione filosofica di Seneca è l’atteggiamento dell’autore che si impegna in un dialogo vivace, serrato, appassionato, con
l’intento di persuadere e coinvolgere emotivamente il destinatario

•il gusto “asiano” e le sententiae:


I mezzi di cui si serve il filosofo sono quelli della retorica dei suoi tempi, dominata da un gusto che possiamo definire “asiano“ in quanto presenta
analogie con quello stile concetto oso, ricco di figure, a cui Cicerone applicava tale denominazione.
È quello stile incentrato sulla sententia,sulla frase ad effetto.

•l’organizzazione sintattica:
nell’organizzazione sintattica e fonico ritmica del discorso il nucleo centrale non è più il periodo, ma la frase.
Il periodico ampio costituito ipotatticamente si spezza, dando luogo a una netta prevalenza di brevi proposizioni in cui spesso alla paratassi si
accompagna l’asindeto, cioè l’assenza di quei nessi congiunzionali che esplicitano i collegamenti logici del discorso. Seneca lascia spesso impliciti
Tallinn essi, conferendo allo stile maggiore tensione e rigore; oppure li sostituisce con altri di tipo fonico semantico come l’anafora, l’epifora, figure
di ripetizione.

•la concisione e la pregnanza delle sententiae:


Lo stile di Seneca fa ampio uso della concinnitas: l’antitesi,il parallelismo,l’omoteleuto,l’anafora,la figura etimologica,il poliptoto.
Tali procedimenti servono a forgiare sentenze morali in cui il pensiero sia espresso nel modo più intenso,penetrante e incisivo,così che nel minimo di
parole sia concentrato il massimo di significato.

5) Le tragedie
Sono dieci,nove delle quali sono di carattere mitologico mentre una,intitolata Octavia,è una pretesta(cioè di ambientazione romana)ma viene
considerata opera di un imitatore(in una scena di allude alla morte di Nerone,avvenuta tre anni dopo quella di Seneca).
Caratteristiche:
•cronologia: incerta e discussa, l’ipotesi più probabile è che siano stati scritti nel periodo in cui il filosofo era accanto a Nerone come precettore e poi
come consigliere, per mettere davanti agli occhi del giovane principe gli effetti del potere dispotico (in quasi tutte le tragedie è presente la figura del
tiranno tratteggiata in termini violenti e negativi) e delle passioni sregolate.

•la fruizione delle tragedie: un altro problema era se fossero state rappresentate per essere lette in teatro o per essere lette in occasione di recitazioni
organizzate in case private. Sicuramente le tragedie sono state composte per la lettura davanti a un pubblico selezionato.

•intento pedagogico e morale: al centro di tutte le tragedie troviamo lo scatenarsi di sfrenate passioni, non dominate dalla ragione e le conseguenze
catastrofiche che ne derivano. Il significato pedagogico e morale si individua dunque nell’intenzione di proporre esempi dello scontro nell’animo
umano di impulsi contrastanti positivi e negativi.

•razionalità e furor: da un lato c’è la ragione, dall’altro c’è il furor(impulso irrazionale,la passione,rappresentata come manifestazione di pazzia in
quanto sconvolge l’animo umano).
in questa lotta, lo spazio dato al furor, alla malvagità e alla colpa, al versante oscuro, è senza dubbio preponderante.
L’interesse per la psicologia delle passioni,sembra far dimenticare al poeta le esigenze filosofiche e morali. Inoltre è caratteristica delle sue tragedie
l’accentuazione degli aspetti più truci e sinistri.

•pathos e ammaestramento morale: in realtà la visione pessimistica insistenza sugli elementi cupi appaiono funzionali a quel valore di esemplarità
negativa che personaggi tragici rivestono gli occhi del filosofo. Sono mezzi attraverso cui l’autore tenta di raggiungere il suo principale obiettivo
ovvero l’ammaestramento morale. Del resto il pathos, l’enfasi, e la predilezione per i particolari orridi e raccapriccianti erano già presenti nei tragici
latini arcaici.
•prevalse a della parola sull’azione
il poeta rivolge scarsa cura all’articolazione organica della trama e da grande spazio ad elementi privi di funzionalità drammatica, come lunghissime
tirate moralistiche, ampie digressioni mitologiche.

•lo stile
ne deriva un tono declamatorio e magniloquente, che costituisce un ostacolo per il lettore moderno, infastidito dalla ridondanza e dalla ripetitività
connesse con la tecnica della variazione sul tema e della sovrabbondanza delle apostrofi, delle esclamativi, delle interrogative retoriche. Nonostante
l’enfasi, il gusto dei toni accesi, e dell’ornamentazione sovraccarica, nelle tragedie lo scavo negli abissi tenebrosi dell’animo umano e profondo e
potente e la tensione raggiunge il culmine d’intensa emozione.

6) Apokolokyntosis (zucca)
Occupa un posto a sé un’operetta appartenente al genere della satira menippea.
La satira menippea, così chiamata dall’ iniziatore del genere Menippo di Gadara, era caratterizzata a livello formale dalla mescolanza diversi e di
prosa, a livello contenutistico dalla commistione di serio e di scherzoso. L’operetta è stata scritta in occasione della morte di Claudio: in esso Seneca
da libero sfogo al suo odio e al suo disprezzo per colui che lo aveva perseguitato e condannato all’esilio.
Per quanto riguarda il titolo, l’interpretazione ha suscitato ipotesi diverse: da una parte alcuni pensano che si intenda “divinizzazione di quello
zuccone di Claudio” altri pensano che voglia significare “trasformazione in zucca” con la contrapposizione alla parola greca aphotheosis che significa
“trasformazione in dio”.
L’autore promette all’inizio dell’opera che riferirà fedelmente gli avvenimenti che seguirono alla morte dell’imperatore. Il racconto comincia dal
momento in cui le parquet recidono finalmente il filo della sua vita e Apollo intona un canto di gioia per l’inizio del regno felice di Nerone. Mentre
sulla terra tutti esultano, Claudio si reca in cielo e si presenta Giove, ma non viene riconosciuto perché parla in modo incomprensibile; Giove affida
dunque Ercole l’incarico di capire chi sia e l’eroe, spaventato dall’aspetto mostruoso di quel personaggio, si prepara alla sua 13ª fatica. In seguito
troviamo gli dei a concilio per discutere la proposta di divinizzare Claudio; nella discussione interviene Augusto che pronuncia una violenta
requisitoria contro il nipote, accusandolo di aver assassinato numerosi membri della sua famiglia e chiedendo una severa punizione.
Claudio viene dunque trascinato agli inferi, passando per la via sacra assiste al suo funerale e soltanto allora capisce di essere morto, vede Roma in
festa e ascolta un ironico canto funebre in su onore.
Agli inferi gli si fa incontro la folta schiera delle sue vittime; sottoposto a un processo come quelli che era solito fare sulla terra, è condannato a
giocare eternamente ai dadi con un bussolotto forato. Compare poi Caligola che lo reclama come suo schiavo.
Per quanto riguarda lo stile, l’operetta è notevole per la perfetta padronanza con cui l’autore si muove tra livelli linguistici e stilistici diversi, dal
colloquiale basso alla parodia dello stile alto e solenne dell’epica, dal tono leggero e ironico al sarcasmo più feroce.

Brani Seneca
Tema: schiavitù
Come si diventa schiavo?
Gli schiavi fanno parte del patrimonio del pater familias. Il passaggio dalla condizione di libero a quella di schiavo poteva avvenire:
 durante la guerra: il vincitore, infatti, aveva diritto di ridurre in schiavitù i prigionieri, che a Roma venivano venduti all'asta
 schiavitù per debiti, che consegnava come schiavo al creditore il debitore.
 I bambini non riconosciuti diventavano proprietà di chi li raccoglieva allevava e poteva o venderli o sfruttarli personalmente
 nascere schiavi: appartenevano al padrone i figli dei suoi schiavi
La schiavitù non era una condizione irreversibile: era possibile passare alla condizione di liberto o per concessione del padrone o con il pagamento
della somma necessaria.

Testo 2: Come trattare gli schiavi


Contenuto in “Epistulae ad Lucilium”, epistola 47
Seneca ha appreso con piacere che l'amico Lucilio tratta i suoi schiavi con familiarità. Il filosofo confuta alcune opinioni sulla schiavitù tanto diffuse
quanto false. Tutti gli uomini sono partecipi della ragione, che compenetra l'intero universo, e sono, di conseguenza, uguali. Anche gli schiavi quindi
hanno piena dignità di uomini, sono compagni di abitazione, amici di umile condizione e soggetti, come tutti, alla sorte. Eppure essi sono considerati
alla stregua di bestie da padroni crudeli e arroganti, come se la condizione servile fosse uno stato connaturato. Al momento del pasto, in particolare,
sono obbligati ad assistere in piedi, immobili e in silenzio, agli eccessi del padrone e degli ospiti.
Seneca afferma che bisogna trattare gli schiavi nel modo in cui si vorrebbe essere trattati dal proprio padrone perché, anche se in quel momento non si
ha nessun padrone, in futuro potrebbe accadere.
Non bisogna giudicare una persona sulla base del suo mestiere, per quanto umile sia, ma per la sua condotta, in quanto su quest'ultima si ha potere,
mentre il primo è casuale.
L’autore, inoltre, sfida il suo interlocutore dicendo che tutti sono schiavi di qualcosa: chi della lussuria, chi dell’ambizione, chi della speranza e chi
della paura.
Nella prospettiva delineata da Seneca ogni relazione interpersonale, anche tra individui appartenenti a classi differenti, si dovrebbe fondare sul
rispetto reciproco e non sulla paura: tuttavia la società romana, basata sullo sfruttamento di manodopera servile, non viene qui né condannata né posta
in discussione.

Tema: il valore del tempo


Nel De brevitate vitae, in cui il filosofo esorta Paolino a lasciare i suoi impegni di funzionario e a rivolgersi interamente allo studio e alla pratica
della sapienza, il valore del tempo e l'individuazione dei modi migliori per impiegarlo sono sottoposti a un'attenta analisi, condotta secondo gli
insegnamenti dello stoicismo.

Testo 4: La vita è davvero breve?


Nei capitoli iniziali del De brevitate vitae Seneca introduce l’argomento del trattato: contrariamente a quanto afferma la maggior parte degli individui,
il tempo a disposizione di ogni uomo non è di breve durata, ma è reso tale dagli impegni superflui. Il sapiente conosce la natura profonda della vita e
sa adattarsi ai suoi ritmi, acquisendo il dominio su di sé e sulle cose. Il valore dell’esistenza umana si deve calcolare, quindi, non sulla durata, ma
sulla qualità, ossia sulla capacità di chi la vive di non perdersi in attività e in passioni prive di senso.

Testo 5: Un esame di coscienza


Per dimostrare la tesi che non siamo poveri, ma prodighi del nostro tempo, il filosofo immagina di rivolgersi direttamente a un uomo anziano e di
invitarlo a fare un rendiconto del suo passato, riflettendo su tutto ciò che gli ha fatto perdere tempo.
In conclusione, Seneca fornisce la causa per cui questo accade: gli uomini vivono come se fossero destinati a vivere per sempre virgola non fanno mai
caso a quanto tempo è trascorso e continuano a perderne come se ne avessero una provvista infinita.

Testo 6: Il valore del passato


Seneca spiega quale debba essere il corretto rapporto dell'uomo con le tre parti in cui viene suddiviso il tempo: presente, passato e futuro. Il passato,
rispetto all'incerto futuro e al fuggevole e quasi inafferrabile presente, ha il vantaggio di costituire un'acquisizione definitiva e immutabile.
Il giusto rapporto con il passato, tuttavia, è possibile solo al sapiente, che rievoca volentieri le azioni virtuose che ha compiuto. Gli occupati, invece,
ossia gli uomini stolti sempre affaccendati in attività inutili, non hanno né tempo né voglia di rievocare il passato: qualora si fermassero per un istante
a riflettere, si accorgerebbero con spavento di essersi affannati tanto e non aver concluso nulla.

Testo 7: La galleria degli occupati


Il numero delle persone indaffarate in inutili occupazioni è più ampio di quanto si possa immaginare: solo chi si dedica in maniera esclusiva alla
ricerca della verità e della saggezza, infatti, non spreca assolutamente il suo tempo. Seneca esemplifica tale giudizio attraverso una rassegna di
personaggi impegnati in attività prive di senso, i quali sciupano la loro esistenza ricercando il successo politico, la ricchezza, la gloria sportiva, la cura
del corpo, il divertimento e il lusso sfrenato, la fama letteraria: un'impietosa sfilata di vizi che rivela come l'uomo si alieni da se stesso e dai suoi
simili.

Testo 8: Riappropriarsi di sé e del proprio tempo


La lettera posta all'inizio delle Epistole ad Lucilium funge da prologo all'intera raccolta e riprende uno dei temi principali della riflessione filosofica di
Seneca: la conquista del dominio su se stessi e sulla liberazione dal condizionamento esterno, al fine di raggiungere la sapienza. Seneca afferma che il
cammino verso la perfezione è spesso ostacolato da un uso scorretto del tempo e da una scarsa considerazione del suo valore. Gli uomini si ingannano
che la morte sia davanti a loro, invece tutto il tempo che hanno alle spalle lo possiede la morte. Il tempo è importante perché è l'unica cosa che
appartiene davvero all'uomo, ma nessuno se ne accorge e si ritiene debitore per averlo ricevuto in dono. L'autore invita, quindi, Lucilio a non sprecare
il suo tempo e a valorizzare ogni attimo. Questo permette di superare le debolezze della condizione umana e di raggiungere la saggezza.
Dopo il ritiro della vita politica la meditazione sul trascorrere del tempo si arricchisce di una nota autobiografica: Seneca avverte l'insensatezza della
sua vita passata e percepisce chiaramente di avere anche egli sciupato il suo tempo.

Testo 14: L’esperienza quotidiana della morte


Nell’epistola 24 Seneca discute con l'amico Lucilio della morte e cerca di dimostrargli che il sapiente non deve temerla. Il filosofo sottolinea che essa
non è un evento che ci coglie all'improvviso, ma un esperienza quotidiana, in quanto la vita di giorno in giorno decresce. L'ora della morte dunque
non è che il compimento di un lungo percorso iniziato con la nascita e proseguito lungo tutta la vita. Così come la clessidra non viene svuotata
dall'ultima goccia d'acqua, ma da tutta quella defluita prima.

Tema: le passioni
Secondo la filosofia storica, l'uomo reca in sé una porzione di quel logos divino che regge in modo provvidenziale il cosmo e guida tutte le sue parti
verso la perfezione. Tuttavia in questa concezione dell'uomo non è assente la possibilità del male, rappresentato dalle passioni. Esse infatti, alla
stregua delle malattie del corpo, minacciano la salute dello spirito e impediscono di conseguire l'apatia, ossia la totale assenza di ogni affezione
dell'animo, che è il traguardo cui deve tendere chi aspira alla saggezza. Solo un severo e continuo autocontrollo può evitare che le passioni penetrino
nell’animo e lo travolgano irreparabilmente.
Seneca, con l'intento di giovare a se stesso e al prossimo, sottopone a esame differenti tipi di passione, le loro cause, il loro sviluppo, le modalità di
difesa o di cura. Si sofferma, con attenzione particolare, sull’ira, a cui dedica un trattato in tre libri: essa è considerata la più pericolosa di tutte, poiché
si sostituisce interamente alla ragione e priva l'uomo dell' autocontrollo.
L'indagine sul bene prezioso della tranquillità e sui modi di conquistarlo, condotta nel De tranquillitate animi, fornisce al filosofo l'occasione per
condurre un'analisi del disagio esistenziale e alla mancanza di equilibrio interiore che impediscono di raggiungere la serenità dell'animo.
Allo stesso tema è dedicato il De vita beata: Seneca dimostra che solo chi conduce un'esistenza coerente e rispettosa dei dettami della ragione si libera
da tutti i condizionamenti e raggiunge la vera felicità.

Testo 9: L’ira (contenuto nel libro I del De ira)


Prendendo spunto dall'esortazione rivoltagli dal fratello Novato perché scriva come si possa porre rimedio all'ira, passione violenta che induce a
desiderare la rovina altrui anche a costo della propria, Seneca inizia descrivendone minuziosamente le manifestazioni esteriori. Paragonata a una follia
di breve durata, essa cancella ogni remora morale e rende ostinati e ciechi nei confronti della ragione e della verità. L'aspetto degli iracondi appare
sconvolto dalla veemenza di tale sentimento: sguardo minaccioso, movimenti rapidi e bruschi, occhi fiammeggianti, volto sfigurato, respiro
affannoso, corpo irrequieto. Il vizio, così come si presenta nella fisionomia di chi ne è schiavo, può forse dirsi brutto a vedersi quanto detestabile a
sopportarsi.

Testo 10: La lotta contro l’ira


Nel terzo libro del De ira Seneca prosegue l'esame dei danni provocati dall'ira, la cui pericolosità cresce a dismisura quando si impadronisce delle
masse dei potenti. Tuttavia i mezzi per tentare di controllarla esistono. Bisogna impedire con ogni sforzo che l'ira si manifesti all'esterno: il volto,
anziché contrarsi, dovrà distendersi, la voce divenire più dolce, l'incedere più misurato, così da soffocare ogni slancio nefasto. A poco a poco l'intimo
dell'animo, preda di una passione divoratrice, si uniformerà all'atteggiamento esteriore e l'uomo diverrà degno di gareggiare con Socrate stesso,
modello supremo di perfetto autocontrollo.

Testi 11-12: L’angoscia esistenziale


Nel De tranquillitate animi Seneca si rivolge all'amico Anneo Sereno come un maestro a un discepolo, per discutere con lui della tranquillitas, cioè
della quiete dell'animo. Per dimostrare come raggiungerla, il filosofo procede per contrasto: passa in rassegna i temperamenti incapaci di raggiungere
la pace interiore e successivamente considera le azioni positive necessarie a conseguire questo sommo bene.
Tra gli uomini insoddisfatti vengono enumerati coloro che sono insicuri delle proprie decisioni e facilmente se ne pentono, e coloro che si annoiano e
cercano continui cambiamenti a uno stato che non li soddisfa mai.
Il giudizio di Seneca è particolarmente intransigente nei confronti di coloro che rinunciano all'indagine interiore e vivono una vita rivolta alla ricerca
di impossibili distrazioni: l'imperativo è invece quello di non sfuggire a se stessi e di disprezzare i rimedi transitori. L'esempio del malato che cerca un
sollievo momentaneo al dolore delle proprie ferite sfregandole e tormentandole, con il risultato di aggravare la propria sofferenza, è particolarmente
realistico e crudo, e sottolinea l'esito autodistruttivo della ricerca di piaceri illusori.

Testo 13: La felicità consiste nella virtù


Al tema del raggiungimento della felicità è interamente dedicato il De vita beata.
Nella prima parte dell'opera Seneca fa corrisponderà la felicità con un'esistenza dedita alla virtù.
Nel capitolo 16, in cui si passa alla seconda parte, il filosofo riesamina la natura della felicità: L'uomo, in quanto essere razionale, realizza pienamente
se stesso nella misura in cui uniforme ogni suo atto al principio razionale, il logos. Chi osserva questa condotta Si libera da ogni condizionamento
esterno e attinge alla condizione di superiorità degli dèi.
Vi sono tuttavia anche uomini che percorrono la strada del perfezionamento, ma ancora non hanno raggiunto la virtù: i vincoli che impediscono di
conseguirla si sono allentati, ma occorre l'intervento benevolo della Fortuna affinché tali condizionamenti vengano meno. Tra queste persone vi è
anche Seneca, che aspira alla sapienza, si impegna, ma è consapevole della propria imperfezione.

LUCANO
Nato a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C., era nipote di Seneca.
Educato a Roma, fu allievo dello stoico Anneo Cornuto e completò la sua istruzione ad Atene.
Vicino agli ambienti di corte grazie a Seneca, fu chiamato a Roma da Nerone, che gli conferì l'onore della questura. Nel 60 d.C. cantò con grande
successo le Laudes Neronis.
La sua carriera poetica ebbe una brusca svolta quando il favore del princeps lo abbandonò, trasformandosi in ostilità, al punto che gli fu vietato di
pubblicare i suoi versi. Tale rottura può essere attribuita a motivazioni personali e letterarie, o in chiave politica: si può supporre che la caduta di
Seneca abbia influito negativamente sui rapporti tra Nerone e Lucano. Nel 65 Lucano aderì alla congiura di Pisone e, scoperta la cospirazione, egli fu
costretto a darsi la morte a neanche 26 anni.

Bellum Civile
È noto anche con il titolo di Pharsalia, da una definizione dello stesso poeta. Composto da 10 libri, tratta della guerra civile tra Cesare e Pompeo, che
ebbe il suo momento decisivo nella battaglia di Farsalo.
La morte impedì a Lucano di terminare il poema, che si interrompe all'inizio della rivolta contro Cesare scoppiata ad Alessandria d’Egitto. Si suppone
che fosse sua intenzione scrivere altri due libri.
Lucano utilizzò molto probabilmente come fonti principali Tito Livio e le sue opere sulle guerre civili, ma trattandosi di opere perdute non si sa con
quanta fedeltà le abbia seguite.
Sono individuabili (mediante il confronto con il De belli civili di Cesare) le modifiche e le deformazioni dei fatti storici apportate dal poeta in
funzione delle esigenze ideologiche e artistiche.

Caratteristiche dell’epos (canto epico) di Lucano


Lucano elimina dal suo poema l'apparato epico tradizionale, rendendolo atipico:
 recupera l'elemento soprannaturale per mezzo di sogni, visioni, profezie (esempio: macabra scena di necromanzia della maga Eritto,
sollecitata da Sesto Pompeo ad anticipare l'esito della battaglia di Farsalo)
 sceglie un tema singolare: il racconto di un evento funesto, in quanto narra la caduta rovinosa e malaugurata della libertas repubblicana,
fatta coincidere con la fine irreparabile della grandezza e della gloria romane
 il poeta invece che celebrare gli eventi che narra, li deplora.
 vengono inseriti elementi stoici: l’ideale di virtù è proposto in termini stoici, Catone è presentato come l'incarnazione del sapiente stoico,
l'esaltazione del suicidio come affermazione di libertà
La negatività del tema incide sull’idea di sublimità: non potendo ancorarsi all'ideologia della grandezza di Roma, Lucano ricerca l'elevatezza richiesta
dal genere epico nella grandiosità e nell’eccesso, che investe sia i personaggi sia la vicenda. V privilegiati i momenti eccezionali, le circostanze fuori
dalla norma, ricche di tensione e di pathos. Tra queste situazioni è frequente il motivo della morte, che rivela quel gusto per il truculento e il macabro.
La tecnica narrativa e decisamente selettiva: il poeta riassume brevemente alcune parti della vicenda importanti dal punto di vista storico per
concentrarsi su eventi di particolare intensità drammatica. La narrazione è dunque costruita mediante una serie di rapidi episodi di larghezza
diseguale. Troviamo inoltre ampissime digressioni, in cui l'autore fa sfoggio della sua erudizione. Tale struttura risulta caratterizzata da una notevole
staticità: sull’interesse per la narrazione prevale l'esigenza di descrivere commentare. Un esempio è contenuto nel libro IX, in cui si racconta
l'attraversamento del deserto libico da parte dell’esercito pompeiano guidato da Catone, con la rappresentazione vivida della morte di alcuni soldati,
descritta come un orribile metamorfosi provocata dal morso letale di serpenti velenosi.
Inoltre, il narratore, riprendendo e accentuando la tendenza al racconto soggettivo, già presente nell’Eneide, interviene frequentemente in prima
persona a commentare gli avvenimenti. Ne deriva un tono oratorio e magniloquente, che rivela il gusto per le declamazioni, tipico della cultura del
primo secolo d.C.

I personaggi
Anche i personaggi appaiono influenzati dal concetto di sublimità di Lucano. Nel bellum civile troviamo figure che assumono atteggiamenti estremi
ed eccessivi e modi di esprimersi solenni ed enfatici. Il carattere cupamente negativo del tema esclude la possibilità di un personaggio positivo che
sostenga la vicenda dall'inizio alla fine, come avviene per Enea: è questa un’altra differenza rispetto all'epos virgiliano. Alcuni interpreti hanno
definito il bellum civile un poema senza eroe.

Cesare, promotore e vincitore della guerra, è sempre presentato in una luce sfavorevole dal narratore, che pronuncia su di lui giudizi fortemente
negativi. Egli viene raffigurato come il genio del male, animato da una sorta di smania o di furia distruttiva che lo spinge a sovvertire ogni legge
umana e divina per inseguire i suoi scopi criminosi. Nel costruire il ritratto di Cesare, Lucano adotta un procedimento tipicamente epico, la
similitudine: l'antieroe è paragonato ad un fulmine per la sua rapidità e per la sua forza distruttiva. Un tratto su cui più volte Lucano insiste è la sua
empietà verso la patria e gli dei, che fa di lui un personaggio antitetico rispetto al Pius Eneas. Ad esempio, Cesare varca prepotentemente il Rubicone
nonostante il divieto della patria e quando i suoi soldati esitano a eseguire il suo ordine di abbattere un bosco sacro, presso Marsiglia, egli rivendica la
responsabilità del sacrilegio.

Di fronte a questa immagine di eroe negativo, i valori positivi sono affidati alle figure dei due antagonisti, Pompeo e Catone.
Il primo, benché sia presentato come il difensore della legalità repubblicana, non ha una statura propriamente eroica. Egli appare, fin dal ritratto
iniziale, un guerriero in declino, ormai abbandonato dalla Fortuna. Nel corso dell’azione risulta poi debole, passivo, incerto, timoroso, privo di fiducia
in sé e nei suoi soldati, destinato inevitabilmente alla sconfitta. Nel suo ritratto viene paragonato a una quercia, una chiara allusione al libro IV
dell’Eneide di Virgilio, in cui Enea, irremovibile di fronte alle suppliche di Didone, è paragonato a una valida quercus che resiste all'infuriare dei
venti. In Lucano, invece, la quercia non è più salda sulle radici ed è destinata a cadere al primo soffio di vento. Si tratta dunque di una ripresa per
antifrasi: il poeta segnala allusivamente al lettore colto la differenza e la distanza tra l'eroe epico virgiliano e Pompeo, in declino, debole passivo.

Completamente positiva è invece la figura di Catone, che per rappresenta al tempo stesso il campione della legalità repubblicana e l'incarnazione del
sapiente stoico. Egli tuttavia non occupa una posizione tale da permettergli di accamparsi come vero protagonista. D’altra parte la morte prematura ha
impedito a Lucano di descrivere il suo momento di maggiore gloria: il suicidio eroico. Anche la figura di Catone partecipa di quella dimensione
grandiosa e titanica che caratterizza il bellum civile e che in lui si traduce in un’immensa statura morale, capace di condannare rovesciare i giudizi del
fato. Infatti, afferma solennemente il poeta, victoris causa deis placuit, sed victa catoni: la causa dei vincitori piacque agli dei, ma quella dei vinti a
Catone.

Il linguaggio poetico di lucano


Quella appena citata è una brillantissima sententia, giocata su parallelismo, antitesi e figura etimologica. Essa pone subito in evidenza uno degli
elementi più tipici dello stile di Lucano: la concettosità. L'autore condivide il gusto della cultura del suo tempo per la frase a effetto, incisiva e
pregnante, che colpisce e sorprende il lettore. Le sententiae sono il sintomo di un gusto per la forma carica, energica e appassionata. Lo scopo
principale dell'arte di lucano è “che si crei una tensione, la più forte possibile e che mai si allenti”.
Ne deriva un tono costantemente alto e teso, pieno di magniloquenza e di enfasi, con l'adozione dei procedimenti propri dello stile patetico (apostrofi,
interrogative retoriche, esclamative) e con il ricorso, nei frequenti discorsi diretti, di moduli tipici della tragedia (ampie orazioni contrapposte,
monologhi ricchi di pathos, compianti, invettive).

Brani Lucano
Testo 1: Il proemio
Può essere suddiviso in due sequenze:
-i primi versi introducono l'argomento; secondo la tradizione epica, il centro della narrazione è la guerra, tuttavia si tratta non semplicemente di una
guerra civile, ma addirittura “più che civile”: essa coinvolge non solo dei concittadini, ma dei congiunti, poiché i due contendenti sono legati da
vincoli di parentela (Pompeo aveva sposato Giulia, figlia di Cesare);
-nella seconda sequenza Lucano si rivolge direttamente al popolo romano, responsabile e protagonista, insieme ai leader politici, di un conflitto che
non conduce alla conquista di territori lontani, ma alla devastazione dell'Italia: impresa che, in altre poche, non era riuscita ai più temibili avversari di
Roma, come Pirro e Annibale.
Il proemio, che continua con un elogio di Nerone e un'analisi delle cause della guerra, appare complesso e articolato ed evidenzia fin dall'inizio il
carattere antiepico dell'opera, che si presenta pertanto come una sorta di Eneide alla rovescia. La guerra, infatti, non è sinonimo di res gestae e di
virtus romana, come in Virgilio, ma è l'espressione di una corruzione dei costumi che ha portato al rovesciamento delle normali regole della
convivenza civile: il poeta si accinge a narrare un assurda realtà, sostituendo i toni celebrativi dell'epos tradizionale con il biasimo e l'invettiva.

Testo 2: Una funesta profezia


Il libro VI del bellum civile mette in luce la tecnica di Lucano, che spesso si rifà agli schemi del modello virgiliano per capovolgere il messaggio.
In entrambi i poemi, il libro VI contiene una descrizione dell'oltretomba. Nell'Eneide Enea, che cerca informazioni sul futuro che lo attende dopo
tante peregrinazioni, incontra nei campi Elisi il padre Anchise che gli presenta le anime dei più importanti personaggi che contribuiranno alla
grandezza di Roma, compreso lo stesso Augusto (scopo celebrativo). Nel poema di Lucano, Sesto Pompeo consulta l'anima di un soldato morto in un
recente combattimento per conoscere l'esito della battaglia di Farsalo.
Chiare sono le analogie, ma ancora più significative le differenze. Al posto del pius Enea, protagonista dell’episodio è un personaggio negativo, Sesto
Pompeo, figlio indegno del Magno. Costui, per conoscere il proprio futuro non consulta l'oracolo di Apollo, come aveva fatto l'eroe troiano recandosi
dalla Sibilla, ma si affida alla maga Eritto, che ricorre a pratiche empie. Indulgendo al gusto del macabro, tipico dell'arte del tempo, Lucano propone
una raccapricciante descrizione della terribile megera e delle atrocità compiute nel rituale necromantico (evocazione dei morti).
Inoltre alla rassegna virgiliana delle grandi personalità della storia romana, si contrappone in questo brano una rappresentazione capovolta degli
inferi, dove le anime dei malvagi si rallegrano e le anime giuste assistono disperate al crollo dei valori tradizionali e agli assurdi scontri tra
concittadini. Infine, mentre a Enea era stato predetto un futuro glorioso, una morte cruenta attende Pompeo e i suoi figli; lo stesso Cesare, vincitore
della guerra, è vicino alla fine.

PERSIO
1) Vita
Nato a Volterra nel 34 in una ricca famiglia equestre, studiò a Roma, fu allievo di Anneo Cornuto, con il quale strinse un forte legame. Condusse una
vita ritirata e morì prematuramente a Roma nel 62.
Dopo la sua morte, Cornuto pubblica postume le sue Satire, che riscuotono grande successo.

2) La poetica
L’opera comprende sei satire, per un totale di 650 esametri ed un componimento di 14 coliambi, in cui l’autore parla della propria poesia. Scrivendo
satire, Persio prese come punto di partenza la ben delineata traccia delle affermazioni teoriche e della prassi di Orazio.

La satira I
Qui Persio introduce la sua forte polemica contro la letteratura dei suoi tempi, deridendo la vanagloria dei poeti moderni e ponendo in ridicolo le
recitationes, cioè le pubbliche letture di poesie. Critica insomma la riduzione dell’arte a oggetto di intrattenimento, privo di ogni consistenza morale.
Pone quindi in guardia da una raffinatezza fine a sé stessa, collocando la propria produzione sotto il segno del verum, ponendosi sulla linea dei suoi
antecedenti Lucano ed Orazio.

Spunti di poetica nella satira V


Sono qui presenti molti esempi che definiscono la concezione di Persio della propria poesia:
- Equilibrio tra forma e contenuto
Affermando di voler seguire “il parlare della gente in toga”, cioè la lingua dei cittadini romani, enuncia la sua scelta di adeguarsi al sermo,
prendendo come base la conversazione urbana ed uno stile né troppo altisonante né sciatto. Non rinnega infatti l’importanza della forma,
indicando la sua forma preferita nella iunctura acris, ossia l’associazione ardita e sorprendente di parole. La forma deve essere però non
fine a sé stessa, associata a contenuti adeguati.
- La vita di tutti i giorni
Mentre nella satira I si era limitato ad ancorare la satira al verum, qui aggiunge un altro elemento, cioè i mores, i comportamenti umani.
L’autore affronta una tematica quotidiana, contrapposta agli inverosimili eccessi della tragedia.
- La satira come medicina
I mores sono però corrotti, ed il compito del poeta satirico è una sorta di intervento medico volto a curarli. Lo strumento principale è
l’ingenuus ludus, lo scherzo non volgare, che permette di colpire a fondo il vizio.
Vengono così fissati due punti rilevanti: l’impostazione moralistica e l’importanza dello spirito.

I contenuti delle altre satire


- Satira II: rivolta all’amico Macrino, svolge il luogo comune del rivolgere agli dei preghiere oneste
- Satira III: si apre con la visione di una mattinata estiva passata a dormire dopo una sbornia, invece che ad approfondire la filosofia. Da qui
l’autore delinea la necessità per i giovani di attenersi alle norme dello stoicismo, che insegnano come comportarsi rettamente. Nella
seconda parte si tratta il tema delle malattie dello spirito.
- Satira IV: si sviluppa il luogo comune del “conosci te stesso”. Vi è Socrate che rimprovera Alcibiade, che vuole entrare in politica senza
possederne i requisiti. Il satirico fa notare come nessuno approfondisca la conoscenza di sé stesso, preferendo criticare il prossimo.
- Satira V: dedicata al maestro Cornuto, si apre con la sezione letteraria già trattata, proseguendo poi con espressioni di profonda amicizia
verso il maestro, che ha scelto di istruire i giovani e che ha comunicato all’autore lo stoicismo, che viene raccomandato al pubblico.
- Satira VI: si presenta come una epistola ad un amico, Cesio Basso, a cui chiede notizie ed informandolo su di lui. Partendo da qui,
evidenzia l’importanza di vivere contenti dei propri beni, rivangando il tema oraziano della metriotes, il senso di misura. Come si può
notare, c’è la prevalenza di un atteggiamento fortemente critico. Nella sua ansia di correggere non si concentra tanto sul trovare soluzioni,
quanto sul portare a galla i problemi.
3) Lo stile

Scegliendo il modello del sermo, ha una maggiore apertura verso:


- Vocaboli ed espressioni colloquiali
- Termini volgari e gergali
- Grecismi e barbarismi
- Parole infantili o onomatopeiche
Vi è inoltre una tendenza a rimaneggiare il materiale linguistico per ottenere effetti insoliti.

La iunctura acris
Partendo dal concetto oraziano della callida iunctura, trae un’associazione sorprendente di parole. Essa avviene accostando termini usati in senso
proprio ad altri usati in senso figurato, come ad esempio per l’espressione verba togae, cioè le parole di quelli con la toga. Lascia quindi sottintesi dei
nessi logici, affidando al lettore il compito di ricostruirli.

PETRONIO

1) Il Satyricon
È una delle opere più affascinanti ed enigmatiche della letteratura classica: è un romanzo anomalo rispetto agli altri perché misto di prosa e di versi.
Non è certa l'identificazione del suo autore e dubbio è il significato del titolo. Esso rappresenta la vita quotidiana nei suoi aspetti più bassi.

2) La questione dell’autore
L’opera è attribuita a Petronio, la cui persona ci viene descritta dallo storico Tacito. Egli fu sicuramente un personaggio vissuto nel I secolo, alla corte
di Nerone. Entrato nella sua cerchia più ristretta grazie alla sua grande sensibilità artistica, suscitò l’invidia del prefetto del pretorio Tigellino. Egli lo
accusò di essere amico di uno dei promotori della congiura pisoniana, accusa che portò alla condanna a morte il grande scrittore. La sua morte, come
lui, fu disinvolta ed eccentrica, contrapponendosi alla morte eroica di Seneca.
Ci sono prove che confermano l’appartenenza di Petronio al periodo neroniano, quali:

- In vari passi dell’opera sono citati personaggi famosi appartenenti al periodo di Nerone
- Un personaggio polemizza contro l’epos di Lucano
- Vi è un inserto poetico dallo stesso titolo di un componimento di Nerone riguardante la presa di Troia
- Si colgono analogie e forme di linguaggio rispetto a Seneca
In generale si può dire che i temi ed i problemi dibattuti riportano all’ambiente culturale del I secolo.

3) Il contenuto dell'opera
Il Satyricon ci e prevenuto in forma frammentaria e la materia è stata ordinata in 141 capitoli.
La vicenda è narrata in prima persona da un giovane di nome e Encolpio, che rievoca le avventure e le peripezie di un viaggio compiuto in compagnia
di un bellissimo giovinetto, Gitone, di cui è innamorato.
Si può dividere la trama dell'opera in 5 blocchi narrativi, in particolare:
- nel primo, Encolpio è alle prese con il retore Agamennone che disserta sulla decadenza dell'eloquenza
- nel secondo avviene l'incontro con il ricco Trimalchione, nella cui casa ha luogo la cena in cui il padrone esibisce la sua ricchezza disgustando
Encolpio

4) La decadenza dell’eloquenza
All’inizio dell’opera i protagonisti, Encolpio ed il retore Agamennone, dibattono sull’educazione dei giovani e sulla decadenza dell’eloquenza.
Encolpio è il primo a parlare, trovando la causa della decadenza nei maestri e nelle scuole, denunciando la lontananza dalla realtà dei temi trattati e
rifiutando la retorica fine a sé stessa.
Agamennone risponde in maniera più pragmatica, sostenendo che i maestri insegnano ciò che è gradito agli studenti, che altrimenti diserterebbero la
scuola. Essi non creano il cattivo gusto, ma non sono capaci di contrastarlo. Sottolinea la responsabilità dei genitori, che per loro ambizione personale
costringono i figli al Foro senza una preparazione adeguata.
È probabile che nessuna tra queste sia la posizione dell’autore che, con distacco ironico, prende le distanze sia da chi, come Encolpio, ha posizioni
eccessivamente dogmatiche che esprime con lo stesso tono declamatorio che critica, sia da chi, come Agamennone, cela la meschinità morale sotto
l’apparenza austera.

5) La questione del genere letterario


Il Satyricon viene abitualmente chiamato romanzo, ma nelle letterature classiche non esiste un genere letterario che corrisponda esattamente al
romanzo moderno. il Satyricon ha in comune con i romanzi antichi il fatto di raccontare vicende complesse e avventurose; pone anch’esso al centro
della narrazione un amore ostacolato da circostanze sfavorevoli e rivali. Tuttavia, mentre nei romanzi greci gli innamorati sono devoti e fedeli, il
rapporto tra Encolpio e Gitone è caratterizzato dall’infedeltà di entrambi. Si rileva un atteggiamento parodico nei confronti delle trame stereotipate di
certi romanzi.
Il Satyricon ha però alcune analogie con la satira menippea: la lingua e lo stile variegati e aperti a tutti i registri.

6) Il romanzo
Sebbene esso oggi occupi un posto di tutto rilievo nella letteratura, in quella antica esso non aveva neanche un nome preciso, poiché esso era ritenuto
ai margini della cultura ufficiale.
Questo genere nacque quindi probabilmente in età ellenistica, quando la prosa, fino ad allora usata per l’informazione oggettiva, fu impiegata anche
per l’invenzione fantastica, rivolgendosi ad un pubblico culturalmente meno elevato con una letteratura di intrattenimento e di consumo. Questi testi
sono storie d’amore, che presentano lo schema fisso di due giovani che si innamorano, vengono separati e costretti ad affrontare delle traversie a
causa degli dei o del fato, per giungere infine ad un felice ricongiungimento della coppia. Si notano subito le analogie con le commedie, rispetto alle
quali però i romanzi sono molto più complicati ed avventurosi, adatti ad un pubblico vasto e semplice. Si tratta di una letteratura di consumo: questi
racconti si possono definire popolari, in quanto fanno riferimento a situazioni e sentimenti comuni, in cui il pubblico può rispecchiarsi. Il romanzo
riflette dunque la mentalità della sua epoca.

7) Il realismo petroniano
Il Satyricon è un capolavoro di comicità, passando infatti dall’umorismo raffinato e sottile alla battuta oscena. È appunto per questo che ad essere
rappresentati sono i ceti bassi, poiché la vita comune era convenzionale oggetto di ironia, attraverso una descrizione realistica dai caratteri però
grottescamente deformati. L’opera di Petronio si inserisce quindi in questo realismo in un modo del tutto peculiare, sia per quanto riguarda
l’impostazione narrativa sia attraverso immediatezza e concretezza.
Sebbene sia chiaro che Petronio si diverta a descrivere questi ambienti, mantiene sempre un signorile distacco e senza alcun coinvolgimento,
coniugando critica ed ironia.
Vi è un succedersi frenetico di avvenimenti e situazioni, che porta ad un senso di insicurezza e ad una visione frantumata della vita, oscurata dal
pensiero della morte che incombe.

8) Il plurilinguismo
Lo stile è il mezzo principale per questa comunicazione, poiché può facilmente adattarsi alle varie situazioni. Predomina il linguaggio colloquiale, ma
i vari personaggi si esprimono in modo diverso. Ad esempio, il narratore, Encolpio, ha uno stile semplice e disinvolto, aperto alle volte a
colloquialismi e volgarismi. A volte lo stile si eleva notevolmente, con intenti parodistici. In contrapposizione a questi momenti alti ci sono quelli più
bassi quando i personaggi hanno una scarsa cultura. Questo è un linguaggio colorito e ricco di irregolarità, attraverso cui Petronio esprime il suo
distacco e la sua critica a questo mondo.

Brani Petronio
Trimalchione entra in scena
Collocazione: Satyricon
I tre protagonisti del romanzo sono invitati dal retore Agamennone a partecipare alla cena di Trimalcione. Trimalcione è un rozzo liberto arricchitosi
con i commerci. Si dà goffamente le arie di gran signore; ama circondarsi di parassiti ignoranti e di intellettuali spiantati; conserva però tutta la
volgarità derivatagli dalla sua origine e dalla sua educazione. Questa caratteristica negativa può essere inoltre notata dal goffo discorso che imposta
durante il banchetto, dopo aver armeggiato con uno stuzzicadenti d’oro. Le portate offerte ai convitati sono incredibili e stravaganti e suscitano in
Encolpio un senso di fastidio e di disgusto.

Lo stile è basso, pieno di volgarismi volti a trasmettere la bassezza di quell’ambiente.

La presentazione dei padroni di casa


Collocazione: Satyricon
Il protagonista chiede informazioni ad un commensale sull’identità di una donna che intravede. Gli viene quindi detto che si tratta della moglie di
Trimalchione, un personaggio molto particolare. Degna di nota è senz’altro la sua determinazione, è infatti lei a tenere nota delle ricchezze che
possiede il marito in quanto quest’ultimo, sebbene molto ricco non è in grado di gestire il patrimonio o comunque di quantificarlo. E’ presentata
infatti come un personaggio dalle testa sulle spalle, che non si ubriaca mai e molto attaccata ai beni materiali del marito.

Trimalchione fa sfoggio di cultura


Collocazione: Satyricon
Nell’episodio della cena di Trimalchione, la volgarità dell’ospite non è ravvisabile solo nei suoi gesti e negli oggetti pacchiani di cui si circonda, ma
anche soprattutto nel suo sermo, che ne denuncia l'umile origine a dispetto della smisurata ricchezza. Infatti le parole di Trimalchione offrono un
prezioso esempio del sermo vulgaris, colorito ed espressivo, effettivamente parlato dalle classi meno colte. Né un esempio la spiegazione fantasiosa
dell’origine dei pregiati vasi corinzi, in cui egli dimostra tutta la sua ignoranza in materia di storia. Trimalchione afferma che dopo la caduta di Troia,
Annibale fece bruciare tutte le statue di bronzo, d'oro e d'argento, che si mischiarono fra loro in un'unica lega. Così i fonditori presero il materiale da
quell’ammasso e ci fecero degli oggetti.

Il testamento di Trimalchione
Collocazione: Satyricon
la cena si avvia alla conclusione e Trimalchione, appesantito dal vino, sembra ormai dominato dal solo pensiero della morte: legge il proprio
testamento, in cui afferma che libererà i suoi schiavi alla sua morte, prassi abbastanza comune Roma. si coglie una probabile parodia della dottrina
stoica sull’uguaglianza naturale di tutti gli uomini. Successivamente trimalchione discute con l'amico Abinna il progetto della propria faraonica
tomba, che rivela la smania del liberto di esibire le sue ricchezze anche dopo la morte.

La matrona di Efeso
Collocazione: Satyricon
Il vecchio poeta Eumolpo sulla nave racconta a Encolpio e Gitone una novella. La trama non è originale, ma risale alla tradizione novellistica
anteriore contenuta nella raccolta di fedro: una donna onesta e fedele al marito, dopo la morte di quest'ultimo, si mostra una vedova inconsolabile, ma,
lasciatasi sedurre da un soldato, pur di salvare l'amante, espone sulla croce il cadavere del marito.
Dall'apertura iniziale del racconto (“C’era una volta…”) si potrebbe pensare alla presenza di una fiaba, ma la specificazione del luogo (Efeso) annulla
l’indeterminatezza di questa. L'ambientazione ha una duplice funzione: quella di garantire la veridicità del fatto e rinviare alla novellistica erotica
(infatti la città al tempo degli antichi greci era nota per la libertà e la vivacità del modo di vivere).

I personaggi della vicenda sono: la matrona, il soldato e l’ancella. La matrona è la protagonista, il soldato può svolgere due funzioni: o l’eroe, che
salva la matrona dalla morte e dalla tristezza, o l’antagonista, che impedisce alla protagonista di perseguire l’obiettivo che si era stabilita di
raggiungere. L’ancella rappresenta il mezzo con cui il soldato ha conquistato la matrona: essa è stata la prima a cedere alle tentazioni ed è stata lei a
convincere la matrona ad uscire dal lutto. Di conseguenza può essere intesa come aiutante o falso aiutante.

Lo Spannung si verifica con la situazione problematica che appare: non sorvegliando il corpo crocifisso, esso viene tolto dalla croce e seppellito, e
così il soldato rischia la pena riguardo alla sua negligenza, ovvero la morte. Lo scioglimento è caratterizzato dalla fervida intelligenza della matrona
che sostituisce il corpo mancante con quello di suo marito, riuscendo ad ingannare tutto il paese ed affermando la saggia frase: “Preferisco appendere
un morto piuttosto che uccidere un vivo”.
Petronio non giudica né condanna, tant'è che racconto si conclude con una battuta di spirito. l'intera novella è giocata sul rovesciamento delle
apparenze: il comportamento di tutti i personaggi segue un percorso di degradazione che comporta il ribaltamento dei ruoli iniziale. Per smascherare
quest’ipocrisia basta il richiamo del cibo e del sesso che, insieme alla morte, sono i temi dominanti del romanzo.

MARZIALE
1) La vita
Quanto sappiamo su di essa è derivato dalla sua opera.
Nasce nella Spagna Tarragonese intorno al 40, nel 64 si trasferisce a Roma, dove sopravvive grazie alla sua attività poetica e alla protezione dei
mecenati.
Nel 98 lascia definitivamente Roma per tornare in Spagna, con l’aiuto economico di Plinio il Giovane
Una ricca signora gli dona una casa ed un podere, vive i suoi ultimi anni al riparo dalle preoccupazioni, ma provando nostalgia per Roma. Muore tra il
102 ed il 104.

2) Le opere
In ordine cronologico: Liber de spectaculis (80); Xenia e Apophoreta (84-85); Libri I-XI degli Epigrammata (86-98); Libro XII degli Epigrammata
(101-102)

3) La poetica
Il rapporto con il vero
Contrario alla mitologia, che trova truculenta, si dedica ad una poesia incentrata sulla realtà e sull’essere umano, facendo riaffiorare un tema già
presente nella satira di Persio. Differenziandosi da lui, Marziale preferisce però scontrarsi contro la colpa piuttosto che contro i colpevoli, escludendo
ogni funzione moralistica e preferendo puntare sull’intrattenimento.

Le prime raccolte

- Liber de spectaculis
Sono una trentina di canti dedicati ai giochi che nell’80 inaugurarono l’anfiteatro flavio. La vita di Roma viene qui colta dall’unico punto
di vista del divertimento rappresentato dai giochi del circo. Oltre al motivo adulatorio, spesso presente, vi è la volontà di lavorare sugli
eventi, cogliendone gli aspetti strani ed inconsueti per magnificarli.
- Xenia e Apophoreta
Sono collegate alla festa dei Saturnali, occasione in cui i romani si scambiavano doni. I componimenti di queste due opere si presentano
come biglietti con cui accompagnare i regali: gli Xenia si riferiscono più a cibo e bevande, mentre negli Apophoreta troviamo anche altri
oggetti. Tale destinazione è una convenzione letteraria, che imprime ai versi il carattere di poesia di consumo. L’adesione alla realtà si
riduce ai singoli oggetti, presentati nelle caratteristiche, nella destinazione e nell’uso, in una sorta di spiritoso inventario delle cose della
vita.
4) Gli Epigrammata
I precedenti letterari
Nel corso dei secoli l’epigramma era già stato molto sviluppato, permettendo a Marziale di spaziare in tutti gli ambiti. Il poeta non rifiuta a priori
nessuna delle precedenti esperienze, privilegiando però una poesia legata alla realtà. Secondo una prassi comune, egli pone la sua poetica sotto
l’auspicio di poeti precedenti, il più noto dei quali è Catullo, da cui Marziale riprende la varietà metrica e la vivace aggressività, rinunciando però
all’attacco personale.

La tecnica compositiva
Anche stilisticamente si allaccia alla tradizione anteriore, mostrando la tendenza a concentrare gli elementi comici nell’ultima parte di un epigramma,
carattere che diventa fondamentale nella sua poesia. Per questo i suoi carmi hanno una struttura bipartita, costituita da un momento di attesa e da una
conclusione. Il minimo impianto scenico degli epigrammi è tutto funzionale all’affermazione finale, che giunge imprevista e fulminante.
Esso è solo il più cospicuo tra numerosi procedimenti dell’autore, uno tra i quali l’enumerazione, che accentua spiritosamente le caratteristiche di un
personaggio o di una situazione, talvolta smentite con una battuta finale.

Un carattere quasi costante degli epigrammi di Marziale è, infine, la presenza del personaggio dell'autore.

I temi

- Comico-realistico
Rappresenta la tematica presente in circa metà degli epigrammi. Il mondo reale non viene interpretato obiettivamente, ma in modo
brillante e spiritoso. Viene assunta l’esperienza quotidiana ai suoi livelli più semplici e bassi, con una compiaciuta insistenza sui dati
puramente fisici e sui particolari più ripugnanti. L’argomento sessuale fornisce una copiosa materia, che viene trattata sia in modo osceno
sia in modo delicato.
- Rappresentazione dei tipi umani
Questi componimenti hanno una carica aggressiva e mordace, che prende di mira tipologie umane. In questo contesto di riferimenti
realistici assume importanza la figura dei clientes, che il poeta inserisce a più riprese nei suoi versi.
- Carmi celebrativi
Proseguendo la tradizione epigrammatica, sono rivolti sia ad amici che a figure potenti, soprattutto i principes regnanti.
- Epigrammi funerari e descrittivi
Qui l’autore rivive e rielabora in modo personale la tradizione, raggiungendo spesso risultati molto suggestivi. Negli epigrammi descrittivi
sono trattati invece luoghi o oggetti, che vengono abbinati a fatti del passato, che possono essere fatti di attualità o casi curiosi.
- L’amore
La vena erotica è ben rappresentata, descritta come desiderio fisico, che viene però trattata anche in maniera gentile, soprattutto nella
descrizione della persona amata.
- Gli spunti autobiografici e le riflessioni personali
Un gruppo di epigrammi contiene idee, convinzioni e gusti dell’autore. Essi svolgono talvolta luoghi comuni, mentre in altri casi rivelano
le più autentiche aspirazioni del poeta, prima tra tutte l’aspirazione ad una vita semplice e senza pretese, reinterpretando in maniera pratica
l’idea oraziana del giusto mezzo.

Lo stile
Causa la molteplicità dei temi trattati, varia a seconda degli epigrammi, passando dal livello superiore delle poesie encomiastiche al limite inferiore
dei componimenti comici. In essi il lessico è fortemente colloquiale, con la forte presenza di vocaboli bassi ed osceni.
Il materiale linguistico viene trattato con grande raffinatezza, attraverso l’ordine delle parole ed il sapiente uso delle figure retoriche.

Brani Marziale
Una poesia che sa di uomo
Collocazione: Epigrammata
Metro: distici elegiaci
In questo componimento l’autore sente il bisogno di spiegare il suo rifiuto della poesia alta e mitica, che si occupa di fatti inverosimili, mentre i suoi
epigrammi rappresentano la vita ed i comportamenti umani, permettendo al lettore di conoscere sé stesso. Pur attribuendo alla sua poesia la funzione
di intrattenimento, Marziale non rinuncia al valore formativo che l’epica non garantisce, essendo vuota. Nella poesia sono appunto richiamati i vari
miti attraverso una ripetizione di interrogative, evidenziando come ognuno di essi di fatto non insegni nulla. Partendo con lo stile alto della poesia che
critica, conclude con un tono più colloquiale, che indica il tipo di poesia a cui lui si dedica.

Distinzione tra letteratura e vita


Collocazione: Epigrammata
Marziale si rivolge qui all’imperatore Domiziano, che emanò un editto contro le opere diffamatorie. L’autore qui precisa come la sua poesia sia solo
per divertire, senza la volontà di offendere nessuno, mettendo in guardia al pubblico dall’attribuirgli un’aggressività che non esiste realmente, in
quanto deride vizi ed atteggiamenti generici.
Il console cliente
Collocazione: Epigrammata
Tra le consuetudini analizzate da Marziale vi è anche quella della clientela. Il poeta stesso vi si sottopose cercando la protezione dei potenti,
sottostando anche a pratiche come la salutatio. In questo componimento il protagonista esprime il suo disagio non solo verso le mansioni quotidiane,
ma anche per la concorrenza di chi, come Paolo, cerca la protezione pur essendo console. Quindi, mentre da una parte lamenta la sua inferiorità,
dall’altra accusa Paolo di aver perso la dignità, che dovrebbe essere particolarmente cara ad un console.

QUINTILIANO
1) La vita
Nasce in Spagna nordorientale tra il 30 ed il 40, studia a Roma, dove svolge con successo l’attività di avvocato. Insegna retorica per un ventennio,
diventando il primo professore finanziato dallo stato.
Nel 94 Domiziano gli affida due giovani da preparare per la successione imperiale. Morte ignota.

2) L’institutio oratoria (formazione dell’oratore)


È un trattato in dodici libri, dove Quintiliano fa confluire la sua ventennale esperienza di insegnamento. Enuncia fin dall’inizio la volontà di scrivere
un’opera completa, delineando la figura dell’oratore fin dall’infanzia e trattando tutti i problemi attinenti alla scienza retorica.
Egli si pone fin dall’inizio sulla linea di Cicerone, specialmente per quanto riguarda la concezione della retorica come scienza, che si propone di
formare il cittadino esemplare.

3) La decadenza dell’oratoria
L’intitutio oratoria si può considerare una summa della teoria retorica antica. L’autore cita spesso fonti greche e latine, discutendo con grande
pacatezza le posizioni assunte, costituendo quindi una preziosa raccolta di materiale ordinato che riguarda uno dei settori più importanti della cultura
greca e latina.
L’opera ha inoltre delle implicazioni in rapporto alle condizioni storiche e culturali dell’epoca in cui è sorta, ed in particolare a due problemi: la nuova
funzione dell’oratore ed il cambiamento delle tendenze stilistiche. Entrambi i problemi sono impostati in termini di corruzione, indicando le cause
della decadenza dell’eloquenza in fattori di ordine tecnico e morale, individuando Cicerone come il culmine dell’oratoria.
A prima vista stupisce la mancanza di una prospettiva storica, poiché Quintiliano propone modelli di eloquenza legati all’era repubblicana, in un
periodo in cui l’oratoria ha totalmente perso la sua funzione politica. Nel libro XII delinea la figura dell’oratore come se nulla fosse cambiato dai
tempi di Cicerone. Egli afferma ad esempio che l’oratore dà le prove più alte quando riesce ad orientare le decisioni del popolo e del Senato, senza
considerare che nessuno dei due ha più la minima influenza, poiché tutto è nelle mani del principe.
A ben vedere però, l’impostazione moralistica data dall’autore fa un’abile copertura ideologica del regime.
Questo è palese se si considera la definizione di oratore come vir bonus dicendi peritus, che per Quintiliano indica la totale subordinazione al regime,
che pone cioè il bene pubblico prima di quello privato. Visto però che lo stato è interamente gestito dall’imperatore, viene raccomandato all’oratore di
collaborare con lui, adoperando moderazione e temperanza.

4) Le scelte stilistiche
Il retore assume verso di esse una posizione equilibrata, criticando l’atticismo per la sua spoglia e disadorna semplicità, combattendo però anche
contro gli stili moderni, che definisce senza misura nell’uso dei procedimenti retorici, dovuta alla sfrenata ricerca del consenso. Quintiliano decide di
conferire alla sua esposizione una certa eleganza, attraverso un abbondante uso di figure retoriche.

Brani Quintiliano
Vantaggi e svantaggi dell’istruzione individuale
Collocazione: institutio oratoria
Per la prima volta viene affrontato il problema se sia preferibile che l’allievo usufruisca di un insegnamento collettivo o di un insegnamento
individuale. Quanti preferiscono gli insegnamenti individuale ritengono che l'istruzione collettiva possa essere nociva per la formazione del bambino,
il quale può essere influenzato eventuali comportamenti scorretti di compagni di scuola, inoltre se un maestro lavora con un unico allievo, dedicherà a
lui maggiore attenzione. Quintiliano è personalmente favorevole all'insegnamento collettivo. Egli afferma che non è scontato che in casa il bambino
sia lontano dal rischio della corruzione morale: lo stesso precettore, gli schiavi o spesso anche i genitori possono costituire esempi di comportamenti
immorali. A scuola l’allievo ha occasione di stare a contatto con altri studenti, sviluppando capacità realazionali e comunicative; inoltre può misurare
i propri limiti, istaurare amicizie durature e imparare non solo dai propri errori, ma anche da quelli dei compagni.

Vantaggi dell’insegnamento collettivo


Collocazione: institutio oratoria
Dopo aver analizzato i vantaggi e gli svantaggi dell’istruzione individuale, Quintiliano si concentra sui pregi dell'insegnamento collettivo, che,
secondo lui, è vera educazione e non semplice trasmissione di nozioni. Nella scuola pubblica il bambino, che dovrà sperimentare diversi contatti
sociali confrontandosi con gli altri ed essendo giudicato, impara a vivere in una società ed evita di subire i danni psicologici e cognitivi propri di chi
non è avvezzo al confronto: non sarà timido, la sua intelligenza sarà continuamente sollecitata, non diventerà né vanaglorioso né incerto. Ogni giorno
trascorso a scuola, pertanto, è una palestra di vita, in cui il fanciullo comprende le regole sociali: viene scoraggiata la pigrizia, sono incentivati la
diligenza, l'ambizione, purché quest'ultima sia stimolo alla virtù. Inoltre a casa il bambino può apprendere solo ciò che gli viene insegnato, mentre a
scuola anche quanto insegnato ad altri.

Il maestro ideale
Collocazione: institutio oratoria
Quintiliano esamina le qualità umane e professionali necessarie al perfetto maestro, nella consapevolezza che oltre alle competenze disciplinari egli
deve possedere alcune capacità proprie della sua funzione di docente. In primo luogo non deve avere né tollerare vizi, deve instaurare con gli allievi
un rapporto educativo basato sull’affetto e sulla stima reciproci, deve infine evitare atteggiamenti eccessivi, ad esempio essere troppo severo o troppo
indulgente, che provocano reazioni dannose per gli allievi, come lo scoraggiamento e l' allontanamento dagli studi. Solo così il suo insegnamento può
penetrare nell'animo degli scolari e nutrirlo, facendo sì che le nozioni apprese diventino sapere autentico e contribuiscano alla crescita intellettuale e
umana dei discenti.

SVETONIO
1) Vita
Nacque attorno al 70 da una famiglia di rango equestre, ignoto è il luogo di nascita (forse Osta). Per qualche tempo esercito a Roma la professione di
avvocato, Inter prendendo poi la carriera amministrativa nella burocrazia imperiale. Ricoprì anche cariche di sovrintendente negli archivi imperiali (a
studiis), delle biblioteche pubbliche (a bibliothecis) e della redazione della corrispondenza dell'imperatore Adriano (ab epistulis). L'imperatore lo
destituì con la motivazione ufficiale di aver trattato con eccessiva familiarità l'imperatrice Sabina.
La sua morte posta da alcuni nel 126, d'altri nel 140.
abbiamo notizie di molti scritti, di cui restano scarsi frammenti. Le uniche opere conservate sono quelle biografiche: il De viris illustribus e il De vita
Caesarum.

2) De viris illustribus
L'opera, che riprende il titolo della raccolta di biografie di Cornelio Nepote, restringere il campo di interesse al mondo romano e ai letterati, suddivisi
in 5 categorie: poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori. Si è conservata solo quest'ultima parte, mutila nel finale, che rende un'idea di come
ciascuna delle parti fosse organizzata. A un indice, che elenca gli autori che saranno trattati cronologicamente, segue una sezione introduttiva, che
traccia la storia della grammatica e della retorica in ambito romano. Seguono brevi profili dei maestri illustri nelle due discipline.
Delle altre parti del De viris illustribus rimangono solo biografie isolate. Alla sezione De poetis si assegnano le tre biografia di Terenzio, Orazio e
Lucano.

3) De vita Caesarum
Più ampie articolate sono le vite dei 12 Cesari , da Giulio Cesare a Domiziano. Svetonio si propone di far conoscere il personaggio protagonista,
illustrandone azioni pubbliche, carattere e aspetto.
Per ogni imperatore la parte iniziale fornisce notizie relative alla famiglia, nascita, educazione, carriera e vicende fino all'assunzione del potere, in
ordine cronologico (per tempora) e con esposizione narrativa. A esse subentra la parte descrittiva virgola di solito più estesa virgola che presenta i
tratti della personalità dell'imperatore e le caratteristiche del suo regno per categorie (species), senza cronologia.
Questo schema non è applicato rigidamente a tutte le biografie, che variano notevolmente, adattandosi sia il materiale oggettivamente disponibile sia
il giudizio globale che lo scrittore vuol far emergere.
In alcune vite sono individuati nel regno un primo periodo positivo e un secondo in cui il principe manifesta vizi e comportamenti da tiranno. La vita
di Caligola, ad esempio, è organizzata in due sezioni fondamentali: il princeps e il monstrum. Dopo i provvedimenti Clementi e liberali del princeps,
Svetonio illustra la crudeltà del monstrum, che prescrive ai carnefici di uccidere lentamente “perché il condannato si accorga che sta morendo”.
Le vite sono accomunate dalla centralità della figura dell'imperatore e dalla tendenza a caratterizzarla sia attraverso eventi storicamente rilevanti sia
attraverso fatti di poco conto. A un’accentuazione dei tratti propri del genere biografico è attribuito il grande spazio riservato agli aneddoti curiosi e
piccanti, le battute di spirito, alle frasi celebri, alle abitudini stravaganti ed ai costumi sessuali libertini o perversi. Anche una certa propensione per il
meraviglioso e romanzesco, che si rivela soprattutto nella gran quantità di presagi registrati in tutte le vite, si può considerare proprio del genere.

Altri temi appaiono invece peculiari dell’autore, in linea con le conoscenze di un erudito e di un funzionario statale. Grande attenzione è dedicata agli
interessi culturali e alle attività letterarie degli imperatori. Svetonio registra inoltre una quantità di informazioni di carattere giuridico, amministrativo,
economico e fiscale, che rivelano interesse per gli aspetti concreti del funzionamento dello Stato. Certamente l'accesso agli archivi gli fornì
documentazioni di prima mano sia su questi argomenti sia sui segreti della vita degli imperatori.

Non sembra che Svetonio abbia particolari ambizioni stilistiche: coerentemente con il suo interesse per i fatti, scrive in modo semplice, corretto e
chiaro, con termini tecnici e grecismi. Non abbellisce discorsi e parole dei suoi personaggi, ma li riscrive come gli storici, così come erano conservati
nei documenti di cui fa uso.
GIOVENALE
Nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, tra il 50 e il 60 d.C ; era di condizione sociale ed economica non elevata. Ebbe tuttavia un’ottima
formazione retorica ; si è dedicato all’avvocatura e alle declamazioni. Morì dopo il 127.
Scrisse 16 satire in esametri (di cui l’ultima incompiuta), divise in cinque libri. L’opera fu composta in un lungo arco temporale che si estende da
pochi anni dopo il 100 a pochi anni dopo il 127.

La sua poetica
L’attività poetica di Giovenale prosegue una tradizione rappresentata da Lucilio, da Orazio, da Persio, che avevano elaborato il concetto di satira,
fissando le caratteristiche di questa forma letteraria.
Il poeta sceglie di operare:
• in un rapporto dialettico con i precedessori Lucilio e Orazio;
• attacca la cultura contemporanea traendo spunto da una delle sue manifestazioni più caratteristiche, le recitationes, presentate come istituzioni
inutili;
• svaluta la mitologia.
La realtà appare come un elemento nuovo; in base alla tradizione satirica il verum coincide con il quotidiano, con situazioni e personaggi che non
hanno nulla di eccezionale. Giovenale tende invece a enfatizzare gli eventi che riporta, sono rappresentati come casi mostruosi, assumono una
dimensione grandiosa e perversa e per questo provocano sdegno.
Nella prima satira Giovenale enuncia l’argomento principale della sua poesia: il comportamento umano, ma visto nel suo aspetto deteriore, dato il
livello di corruzione raggiunto nella Roma del suo tempo. Giovenale non si propone di educare e di correggere: alla sua satira attribuisce una funzione
non terapeutica, bensì di denuncia, rivolta non contro gli individui, ma contro i vizi. Il mezzo di cui si serve per affrontare la materia è quello
dell’indignatio, invece del tradizionale ludus(spirito).

Le satire dell’indignatio
La fase più importante del moralismo di Giovenale è quella dell’indignatio, rappresentata dalle prime sette satire. Lo sdegno è un atteggiamento scelto
dall’autore per provocare adeguate risposte emotive nei lettori: il poeta non è solo sdegnato, ma vuole apparire tale e desidera suscitare l’indignazione
del pubblico.
L’indignatio costituisce l’unica caratteristica importante del personaggio del satirico: altri particolari più personali sono scarsi.
Le prime sette satire rappresentano un nucleo omogeneo caratterizzato da una concezione negativa della realtà; nella sua protesta l’autore assume
come punto di riferimento il mos maiorum: il costume degli antenati viene di solito evocato con un nome, un termine, un’allusione, un esempio, ma
costituisce il metro costante secondo cui egli misura la perversità e la corruzione dei tempi moderni.
Il poeta considera i costumi contemporanei nelle loro ripercussioni sociali, ossia nelle conseguenze che hanno per gli altri. Il caso più significativo è
quello della valutazione delle divitiae, che sono un motivo ricorrente nella poesia dell’autore. Egli non prende in considerazione i riflessi della
ricchezza sul singolo, ma pone in primo piano i suoi effetti sul vivere associato.
la ricchezza appare infatti rilevante per i comportamenti negativi che induce in chi la possiede, soprattutto in rapporto i poveri, e per le difficoltà che
causa questi ultimi: è un elemento di discriminazione iniquo.
In questo contesto assume importanza il tema della clientela, già affrontato da Marziale che, adottando pienamente il punto di vista del cliente, aveva
descritto spiritosamente i disagi della sua condizione. Giovenale individua nell’antico istituto del patronato un elemento originario è centrale del mos
maiorum, in grado di garantire l’armonia tra i poveri e i ricchi.
Nella prima satira, troviamo un’ampia sezione che descrive la giornata umiliante dei clienti.
Il tema viene trattato anche nella satira 3, in cui il satirico, dopo una breve introduzione, cede la parola un altro personaggio, l’onesto e povero cliente
Umbricio, che pronuncia un atto d’accusa verso l’intera vita di Roma. La sopravvivenza del cliente è insidiata anche dalla concorrenza sleale dei greci
e degli orientali, che sono pronti a ogni bassezza e pretendono di saper fare tutto. Emerge qui, come in altre satire, la profonda avversione dell’autore
per i popoli dell’oriente, una posizione dettata dalla convinzione che la cultura ellenica abbia rovinato il mos maiorum.
Nelle satire 2 e 6 vengono presi di mira gli omosessuali e le donne.
Nella satira 4 viene presa di mira la corte imperiale di Domiziano, partendo da un aneddoto: il dono fatto all’imperatore di un enorme rombo. Le
dimensioni del pesce creano problemi di cottura e l’imperatore convoca il consilium principis, gruppo di amici che lo consigliavano nelle questioni
delicate. Questo fatto genera un movimento parodico che affoga nel ridicolo la corte imperiale.
La satira 5 narra il banchetto offerto dal patrono Virrone: il cliente Trebio viene attaccato con violenza dal poeta per la mancanza di dignità che lo
spinge ad accettare ogni umiliazione in cambio di un invito a cena. attraverso le fasi successive del banchetto viene poi dimostrata l’indegnità del
trattamento riservato al cliente, al quale sono offerte le vivande peggiori.
Nella satira 7 Giovenale denuncia le intollerabili ristrettezze in cui versano poeti, storici, avvocati, retori, grammatici.

La satira sei: contro le donne


La più lunga scritta da Giovenale (circa settecento esametri). L’autore vuole convincere l’amico Postumo a non sposarsi: per distoglierlo dall’insano
proposito di prendere moglie, gli presenta una serie di ritratti di donne accomunate dai peggiori vizi. L’obiettivo polemico di Quintiliano è soprattutto
la donna sposata dell’alta società, personificazione della corruzione morale che egli vedeva costantemente presente a Roma, mentre schiave, prostitute
e liberte potevano godere di maggior emancipazione sessuale.
La satira inizia con il ricordo e l’idealizzazione dell’età dell’oro in cui viveva sulla Terra la Pudicitia, dea preposta alla fedeltà coniugale, che rendeva
le donne ancora virtuose. Con l’evoluzione del genere umano, però, tanto la Pudicitia quanto Astrea, dea della giustizia, lasciarono il mondo e da quel
momento non è più esistita tra gli uomini (e soprattutto tra le donne) la fedeltà matrimoniale. Dopo aver provocatoriamente consigliato all’amico di
evitare il matrimonio preferendo o il suicidio o l’unione con un ragazzino, Giovenale inizia una carrellata di figure femminili per dimostrare come le
donne siano diventate oramai inaffidabili, da quando hanno assunto una libertà che dovrebbe appartenere, dal suo punto di vista, solamente agli
uomini.
Invece di essere brave mogli e madri, le donne romane si dedicano ad attività maschili: si vantano esperte di giurisprudenza e di oratoria, addirittura si
reputano letterate, che studiano a fondo i poeti e i trattati di grammatica ed esibiscono le loro doti nei banchetti.
Sono donne leggere e infingarde, che tradiscono il marito con attori e gladiatori, capaci di seguire i loro amanti fino in capo al mondo, abbandonando
casa e figli, o persino di farsi prostitute sotto falso nome pur di soddisfare la propria lussuria; tra queste si trova anche Messalina, la moglie
dell’imperatore Claudio. Oltre ad essere infedeli sono anche amanti del lusso, sperperano denaro, eccedono nel trucco, parlano in greco per darsi un
tono. Giovenale mette quindi in allerta Postumo, e con lui tutti gli uomini che intendano sposarsi, sulle conseguenze del matrimonio: nessuna libertà
sarà più concessa, né di decidere come tagliarsi la barba né di scegliere gli amici, perché tutta la vita dell’uomo sarà condizionata dai capricci della
futura moglie.
L’autore si interroga sulle cause che hanno portato a una tale degenerazione morale e, ricordando i tempi lontani dell’epoca annibalica in cui le
matrone erano ancora virtuose, istituisce un nesso tra la decadenza etica dell’età contemporanea e l’assenza della guerra e della povertà, che sono
capaci di soffocare sul nascere gli eccessi di lusso e lussuria. Le donne moderne si ubriacano, si eccitano tra loro con spettacoli volgari e poi vanno a
letto con i loro schiavi o con gli eunuchi. Inoltre, fingono di amare il canto per poi amare i cantori, si vantano di essere erudite, si truccano con
esagerazione, fanno frustare gli schiavi per capriccio, si affidano irrazionalmente a indovini e ciarlatani di ogni tipo. Addirittura alcune arrivano a
uccidere i propri figli o i propri mariti, come fecero le mitiche Medea o Clitemnestra. Osserva però Giovenale che mentre le eroine tragiche agivano
spinte dalla follia, le matrone romane uccidono per calcolo e per denaro.

Il secondo Giovenale
L’abbandono dell’indignatio e il ritorno a filone moraleggiante
A partire dalla satira 8 la poesia di Giovenale comincia ad assumere caratteri e movenze diversi.
Il poeta non vuole più soltanto denunciare una realtà abnorme, ma proporre anche comportamenti corretti e positivi. Riprende dunque, quel filone
moraleggiante prevalente nell’opera dei suoi predecessori.
Riappare soprattutto la concezione di fondo della diatriba e della filosofia stoica: l’idea che gli unici veri beni sono quelli interiori, come la virtù,
mentre quelli esteriori non sono che apparenza, indifferenti dal punto di vista della felicità.
Muta anche la valutazione della ricchezza: se in precedenza era ritenuta quasi sempre fonte di un potere ingiusto, ora invece diviene un falso bene,
desiderabile solo dalla stoltezza umana.
tali nuove tendenze rendono più pacati i componimenti, senza tuttavia spegnere l’impeto e la foga propria dell’autore e che ora perlopiù si indirizzano
non contro il male i malvagi, ma contro l’errore e gli illusi. Alla precedente indignatio subentrano l’ironia e lo scherno.
La produzione di Giovenale mostra dunque al suo interno una notevole variabilità, che da un momento iniziale di piena tensione passa a una fase
successiva più varia ed eterogenea Ne deriva un’evoluzione tematica delle satire, già iniziata con Persio: la satira non è più puro intrattenimento, ma
una visione negativa del mondo, con un atteggiamento appassionato e concitato.

Espressionismo, forma e stile delle satire


Alla rappresentazione degli aspetti distorti della realtà corrisponde in Giovenale uno stile fortemente espressionistico. L’enfasi, il calore, la tensione
che sostengono il discorso dell’autore danno spesso l’impressione di una requisitoria.
Determinante è l’uso della retorica, il suo influsso si coglie sia nell’impostazione dei singoli componimenti, sia nello stile che appare artisticamente
molto elaborato e ricco di artefici retorici. Notevole importanza hanno poi quei procedimenti che si propongono di manifestare ed indurre nel
pubblico forti emozioni, come le interrogative retoriche, le esclamazioni, le apostrofi.
Anche l’aspetto linguistico e complesso: ci troviamo la componente colloquiale a ciò si aggiungono vocaboli volgari, ma talvolta anche costrutti
elevati.
Questo stile misto appare idoneo alla poesia dell’autore perché può cogliere le bassezze della realtà e al contempo trascriverle in termini di mostruosa
grandezza.

Brano: Roma, “città crudele” con i poveri


Tratto dalla satira 3.
Il cliente Umbricio, che ha deciso di lasciare la città per recarsi in provincia, elenca i pericoli cui è esposta a Roma la gente umile: crolli, incendi,
inconvenienti del traffico, incidenti, aggressioni notturne. Proprio di fronte alle difficoltà più gravi emergono in modo evidente le differenze tra la
situazione dei ricchi e quella dei poveri in una città che è diventata “crudele“: con un’amara ironia, il poeta osserva come il povero che abbia perso la
casa per un incendio e condannato definitivamente alla rovina, mentre tutti soccorrano il ricco che si trovi in una situazione analoga, nonostante
questo riesca a risollevarsi con facilità, addirittura ricostruendo una casa più sfarzosa di prima.
La città è diventata invivibile per la gente comune a causa della corruzione, dell’insopportabile e umiliante condizione di clienti. Non c’è più spazio
per i mestieri dignitosi e le ricompense per le fatiche oneste non sono sufficienti per andare avanti. Viene denunciata l’ipocrisia e l’onnipotenza del
denaro perché a Roma “tutto si compra”.
Segue una rappresentazione delle strade di Roma affollate, caotiche, rumorose, piene di malviventi e pericolose per i continui incendi, crolli, violenze
e rumori. Addirittura, il poeta afferma ironicamente (ma con un fondo di verità) che uscire di casa senza prima aver fatto testamento significa essere
imprudenti.

TACITO
La nascita si può collocare tra il 55 e il 58 d.C., godeva di notorietà e fama come oratore.
Non sappiamo con certezza il luogo di nascita.
La carriera politica e il matrimonio con la figlia di Giulio Agircola, console nel 77, indicano che era di condizione sociale elevata e di famiglia
benestante. Nell’88, sotto Domiziano, raggiunse la pretura. Ricoprì poi il consolato sotto Nerva, nel 97, come consul suffectus.
Gli venne attribuito il preconsolato della provincia d’Asia nel 112. La morte è incerta,forse intorno al 120.
La sua attività letteraria ha inizio in età matura, dopo la morte di Domiziano. Questo dato è di grande importanza in quanto l’esperienza negativa della
tirannide di questo sovrano, da cui però egli personalmente non aveva subito alcun danno, è assunta dall’autore come punto di partenza delle sue
riflessioni politiche e dell’attività storiografica.

L’Agricola
Al suo primo scritto, una biografia encomiastica del suocero Agricola, composta e pubblicata tra la fine del 97 e l’inizio del 98, l’autore premette un
ampia prefazione che non gli serve solo per presentare e giustificare l’opera, ma anche per forgiare il proprio personaggio di scrittore, chiarendo la sua
posizione nei confronti del passato regime ed esponendo i suoi programmi storiografici. Egli ricorda con sdegno le persecuzioni degli intellettuali
sotto Domiziano, mai nominato esplicitamente nella prefazione, rende omaggio a Nerva e a Traiano, che hanno restituito la libertà di parola.
In realtà la figura di Agricola che si appresta a celebrare non è quella di oppositore, ma di un attivo collaboratore dei principi, e progredito nella
carriera fino all’importante carica di governatore della Britannia, assegnatagli da Domiziano.
È comprensibile che Tacito provi un certo imbarazzo nell’esaltare una scelta di vita prudente e opportunista quale era stata quella del suocero. A
questo imbarazzo reagisce in due modi:
• tenta di presentare Agricola come una delle vittime innocenti di Domiziano, A tale scopo insiste sulla gelosia che i successi militari del suocero
avrebbero suscitato nel principe e riporta la diceria secondo cui la morte di Agricola sarebbe stata causata dal veleno fatto gli somministrare
dall’imperatore. Si premura e dichiara che si trattava di un rumor. Tuttavia il racconto è costruito in modo da gettare sul principe i più neri sospetti.
• il secondo mezzo impiegato in difesa del suocero, è utilizzato di fronte al dilemma se sia più virtuoso e più utile ostinarsi nell’opposizione a un
principe malvagio o accettare di collaborare, assecondandolo e supportandolo per poter lealmente servire la patria, nell’interesse della Repubblica.
Tacito sceglie questa seconda alternativa, pertanto tutta l’opera e percorsa da una polemica sottile contro gli oppositori stoici( che sì conquistarono
la gloria di una morte piena di ostentazione, ma non furono di alcun utilità allo Stato).
Nella biografia del suocero, l’autore espone la vita del personaggio in ordine cronologico lineare, dalla nascita alla morte. Alle notizie sulla famiglia,
la patria, l’educazione, segue il resoconto delle varie tappe della carriera, fino al consolato.dopo il consolato gli viene affidato il comando in
Britannia, che terrà per sette anni e al resoconto delle imprese nell’isola è dedicata la sezione più ampia della biografia, preceduta da un ex cursus
sulla geografia e sui popoli della regione.
il resoconto si dilata enormemente quando giunge al settimo e ultimo anno e alla vittoriosa campagna contro i Caledoni nel nord dell’isola.
Gli ultimi nove anni della vita del personaggio sono condensati in pochi drammatici capitoli che dipingono la crescente gelosia di Domiziano per la
fama del suocero ed espongono i sospetti sulla causa della sua morte. Concludono l’opera un bilancio complessivo della vita del defunto, e una
commossa apostrofe al morto.
Questa biografia è particolare in quanto mancano del tutto gli aneddoti, i pettegolezzi, i particolari curiosi: l’interesse si concentra in modo esclusivo
sull’aspetto pubblico del protagonista.anche l’excursus etnografico sulla Britannia sono del tutto inconsueti per una biografia.anche gli ampi discorsi
diretti del capo dei Caldoni, Calago, e di Agricola sono inusuali. Si avvicinano molto al De Catilinae coniurationes di Sallustio.
Lo stile è in armonia con la nobiltà e la dignità della materia, sono utilizzati molteplici registri e toni.

La Germania
Nel 98 pubblica la sua seconda opera. Il titolo esatto è “l’origine e la regione dei germani“: si tratta di uno scritto di carattere etnografico, che non
differisce dagli excursus su paesi e popoli stranieri spesso inseriti nelle opere storiografiche greche e latine.
Il tema era indubbiamente di attualità nel 98, quando Traiano si trovava sul confine del Reno come legato della Germania superiore e sembrava in
procinto di riprendere la guerra in quella zona. Il testo si compone di due parti:
•una descrizione complessiva della Germania trans Renata, indipendente da Roma, dei suoi abitanti, e dei loro costumi;
• una rassegna più specifica delle singole popolazioni e delle loro peculiarità.
Nella sua indagine sui germani Tacito non appare mosso da una curiosità autentica e disinteressata per la vita e le usanze di quel popolo straniero: è
Roma il suo punto di riferimento fisso, la sua preoccupazione costante e quasi ossessiva.
Da un lato egli manifesta sincera ammirazione per i costumi semplici e austeri e per la sanità morale dei barbari, che rispettano e praticano quelle
virtù che la tradizione attribuiva ai romani del buon tempo antico. Per questo la trattazione è condotta, nella prima parte, sul filo di un polemico
confronto con i corrotti costumi romani contemporanei.
L’autore non si limita a descrivere in positivo le usanze praticate dei barbari, ma sottolinea anche le usanze che essi non conoscono e non praticano,
con riferimento trasparente alla ben diversa situazione romana: le donne germaniche non assistono a spettacoli, non partecipano a banchetti, non
demandano ad ancelle e nutrici l’allevamento dei figli, tra i germani non si praticano nella limitazione delle nascite e l’infanticidio. Naturalmente lo
storico non trascura di condannare abitudini che considera riprovevoli, ma comunque prevale un quadro positivo della società germanica.
Affiora però, nella seconda parte, in contrasto con l’ammirazione per le molte virtù, un atteggiamento di superiorità e a volte di ripugnanza e
disprezzo per i sistemi di vita ancora tanto rozzi e primitivi.
Sostiene infine che il più grave difetto dei Germani sia la discordia.

Il dialogus de oratoribus
Dedicato al tema della decadenza dell’oratoria, si distingue dalle altre opere per lo stile soprattutto perché l’attribuzione al nostro autore è tuttora
oggetto di discussione tra gli studiosi. La data in cui si immagina che si svolga l’azione è il 75.
Marco Apro e Giulio Secondo, i più noti avvocati del tempo, maestri e modelli del giovane Tacito, si recano a far visita a Curiazio Materno, senatore
e oratore che ha da poco abbandonato l’oratoria per la poesia tragica.
L’arrivo di un quarto interlocutore, Vipstano Messalla, crea una breve pausa che serve ad impostare l’argomento centrale: i motivi delle differenze tra
l’oratoria antica e quella moderna.
Il primo a parlare è Apro: la sua tesi è che nell’età contemporanea non vi è decadenza ma evoluzione e trasformazione, in armonia con il mutare dei
tempi. Ai tempi moderni è adatto uno stile rapido e brillante, ricco di sententiae.
Messalla afferma la decadenza dell’oratoria contemporanea dovuta alla negligenza dei genitori nell’educare i figli, al livello scandente delle scuole e
alla futilità dei temi delle declamazioni.
Dopo il capitolo 35 viene proposta una causa diversa del declino della grande oratoria, non morale né tecnica, ma politica. L’oratoria è paragonata a
una fiamma, che per bruciare deve essere alimentata. Nell’età repubblicana essa trovava alimento nella competizione politica, con i dibattiti in Senato
e discorsi davanti al popolo, in cui ciascuno cercava di guadagnarsi il favore.
Dopo aver individuato nella perdita della libertà politica la causa più profonda del declino dell’eloquenza, l’autore, fa esprimere al personaggio di
Materno una pacata accettazione della realtà contemporanea.
È difficile dire se uno dei personaggi sia in maniera esclusiva il portavoce dell’autore, si assegna questo ruolo a Materno ma a causa della difesa dello
stile moderno, anticlassicistico e anticiceroniano, anche ad Apro.

Le opere storiche
•Le Historie
Si aprono con un’ampia prefazione all’inizio della quale l’autore condanna gli storici del principato, inaffidabili o per servilismo o per ostilità contro i
potenti. Ne consegue la necessità di una nuova storiografia onesta e obiettiva, come quella che l’autore si prefigge di attuare.
Offre una rapida panoramica della situazione di Roma e delle province all’inizio del 69, per individuare i fattori di crisi che condussero alla guerra
civile, narrata nei primi tre libri.
La materia del quarto libro è il consolidamento a Roma del regime Flavio e la grave rivolta dei Batavi.
Nel quinto libro si narrano i preparativi, per l’assedio di Gerusalemme da parte di Tito, figlio di Vespasiano; un ampio excursus etnografico sui
Giudei è animato da viva ostilità per questo popolo.
L’attenzione ritorna poi alla rivolta di Giulio Civile, capo dei Batavi, in Germania, in seguito a cui verrà la vittoria per Roma.
Le Historie devono affrontare i problemi derivanti dalla complessità di uno scenario in cui l’azione si svolge in teatri differenti e topograficamente
molto distanti. Lo storico tende quindi a organizzare il racconto dedicando ad avvenimenti contemporanei blocchi narrativi distinti e successivi. È
presente inoltre un andamento asimmetrico, con un forte rallentamento nella sezione iniziale, in cui i tre libri sono dedicati al solo anno 69.

•Gli annales
Si aprono con una prefazione molto breve, che comprende un sommario di storia costituzionale romana e poi un nuovo giudizio di condanna sugli
storici del principato, le cui opere sono guastate o dall’adulazione o dall’odio.
Tacito decide quindi di trattare brevemente gli ultimi tempi di Augusto e poi il principato di Tiberio e gli avvenimenti successivi.
Dal libro 1-4 l’autore traccia la figura di Tiberio, un processo di trasformazione dell’imperatore in tiranno, attraverso il graduale affiorare della sua
vera natura viziosa e crudele.
I libri 11-12 riguardano la seconda parte del principato di Claudio, che non presenta alcuna evoluzione, dominato dai liberti e dalle mogli, debole e
incapace.
Dal libro 13-16 si parla del principato di Nerone, in cui è presente la degenerazione del protagonista in tiranno, preceduta da una serie di
delitti( Agrippina, Octavia, Britannico ...)
Due sono i momenti di svolta individuati dallo storico:
-la morte della madre toglie ogni freno alla degenerazione dei costumi privati dell’imperatore;
-la svolta politica del regno, nel 62, è messa direttamente in relazione con la morte di Burro, il ritiro di Seneca e l’ascesa del nuovo prefetto del
pretorio.
da questo momento l’eliminazione fisica delle persone sgradite degli oppositori diventa pratica consueta.
In quest’opera la narrazione procede anno per anno, con la consueta alternanza di vicende interne ed esterne. Si nota tuttavia un’accelerazione del
racconto rispetto alle Historie.

La concezione storiografica di Tacito


Intende indagare e ricostruire il vero con autenticità, in modo da esporlo obiettivamente.
Lo storico presenta frequentemente più interpretazioni di un fatto; questa tendenza lo porta a citare spesso i rumor che inserisce con incredulità e
scetticismo, in quanto provenienti dagli strati bassi della popolazione. Lo scrupolo di registrare tutte le versioni finisce così per tradursi in un racconto
ambiguo, talora anche tendenzioso, per il rilievo conferito a determinati elementi a scapito di altri: un racconto che, pur senza alterare i fatti, orienta
implicitamente l’interpretazione in una precisa direzione.
Tacito forma inoltre sui difetti, sui vizi, sulle debolezze dei personaggi, severi giudizi di condanna cui non sfugge quasi nessuno. Emerge dalle opere
una concezione profondamente pessimistica della natura umana, una tendenza a scorgere o a sospettare di ogni atto le motivazioni meno nobili.
La componente politica e morale viene accentuata ed esaltata e diventa l’elemento portante della narrazione storica, al centro della quale l’autore non
pone più i grandi eventi militari e civili ma gli intrighi di corte, le lotte per il potere. L’idea centrale è la necessità del principato, causa ed effetto della
decadenza morale, politica e intellettuale della società romana, in primo luogo della classe dirigente, di cui lo storico rileva in particolare, con sdegno,
la propensione all’adulazione e al più basso servilismo nei confronti dei principi.
Tacito prende atto della profonda crisi che ha portato alla fine della Repubblica, della degenerazione della classe senatoria e della scomparsa del
popolo come entità politica; si rende conto che il processo è irreversibile, ma non può aderire con entusiasmo e convinzione al principato, concentra la
sua attenzione sugli aspetti negativi oscuri dell’operato dei principi.
Non ha ideali ne soluzioni da proporre, ma non per questo rinuncia giudicare con severità la realtà che rappresenta.

La prassi storiografica
Tacito propone il personaggio come elemento centrale della narrazione, porta in primo piano l’individuo da cui dipendono e a cui fanno riferimento i
fatti.
L’opera di Tacito si avvicina alla biografia ma egli sa distinguere lucidamente la dimensione pubblica dei suoi personaggi.
Tende a cercare con profonda attenzione le cause delle azioni nell’animo umano e a dare particolare rilievo alle motivazioni interiori, alle passioni e ai
sentimenti. Numerosi sono i procedimenti con cui l’autore costruisce le sue figure:
-ricorre al ritratto, impostato trascurando quasi sempre le caratteristiche fisiche per concentrarsi sulle qualità e sui difetti morali.
-utilizza discorsi diretti, impiegati per sviluppare temi politici generali che stanno a cuore dello storico; in una situazione appropriata un personaggio
diventa portavoce dell’autore e ne espone con eloquenza le riflessioni.
-utilizza i discorsi indiretti, espongono considerazioni, commenti, congetture, permettono al narratore di delineare lo sfondo e l’atmosfera in cui si
muovono gli eventi.
Movimenta infine la narrazione l’inserzione di descrizioni di morto tragiche e di catastrofi, volti a sollecitare la partecipazione emotiva del lettore.

La lingua e lo stile
Lo stile dell’autore non è omogeneo e compatto, presenta notevoli differenze e varianti, talora anche all’interno della stessa opera.
Il tipico stile di tacito è quello delle opere storiche in cui sfoggia un modo di esprimersi pieno di vigore, tensione e gravità, lontano dall’uso comune.
Si ispira a Sallustio, con cui condivide la predilezione per i termini rari e per determinati costrutti. La lingua è caratterizzata da una coloritura arcaica
e poetica, sono abbandonati gli arcaismi fonetici mentre risultano frequenti quelli morfologici. Il colorito poetico è ottenuto sia con espressioni e
metafore tratte da Virgilio e Lucano, sia con nessi e costrutti ricercati e suggestivi. Il vocabolario è molto ricco ma anche selettivo: evita termini bassi
e volgari, parole comuni e banali, esclude i grecismi e i termini tecnici che sostituisce con perifrasi.
La ricerca della varietas si nota nella struttura dei periodi, conferisce un andamento spezzato.
Presente anche la sententia, la chiusa epigrammatica del periodo, che riassume o generalizza il senso di un avvenimento, inserisce un giudizio, un
commento inatteso.

Brani Tacito
Testo 1: la prefazione dell’Agricola
Il primo tema proposto alla riflessione è l’incolmabile distanza fra presente e passato e fra sé e gli scrittori antichi: Tacito afferma che un tempo
(nell’età repubblicana) compiere azioni memorabili e celebrarle (solo per dovere di coscienza non per spirito di parte o ambizione) era cosa normale e
consueta. Molti narrarono la propria vita considerando questo un segno di fiducia nei propri meriti, non presunzione.
Mentre ora, accingendosi a narrare la vita del suocero defunto, egli si deve giustificare.
Egli ricorda poi con sdegno le conseguenze tragiche che l’elogio di due fieri oppositori del principato, Trasea Peto (simbolo dell’opposizione
antimperiale sotto Nerone) ed Elvidio Prisco (suo erede ideale) (mandati a morte rispettivamente da Nerone e da Vespasiano) aveva avuto per gli
autori, Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, entrambi perseguitati e fatti perire da Domiziano, e per le opere stesse fatte ardere sulla pubblica
piazza. Da questi eventi particolari il discorso si allarga ad una condanna generale del regime di Domiziano (che non è mai esplicitamente nominato):
con la soppressione della libertas, con la messa al bando dei filosofi, con un controllo poliziesco esercitato sulle persone e sulle loro parole, ogni
nobile attività letteraria e culturale è stata soffocata e impedita.
Solo con la morte del tiranno e con l’avvento della nuova radiosa era inaugurata da Nerva, che ha saputo unire principato e libertà, “realtà un tempo
inconciliabili”, “si torna finalmente a respirare”. L’omaggio (obbligato ma probabilmente sincero) reso a Nerva e al suo successore, Traiano, lascia
però subito posto alla sconsolata considerazione che i rimedi agiscono più lentamente dei mali e che risuscitare l’attività degli ingegni è più difficile
che soffocarla, e al doloroso rimpianto per i quindici anni(quanto era durato il principato di Domiziano, dall’81 al 96) trascorsi in forzato silenzio: “un
ben lungo periodo nella vita di un uomo”, commenta l’autore. Tacito intende comunque approfittare della restituita libertà di parola per tramandare “il
ricordo della passata servitù e la testimonianza dei beni presenti”.

Testo 2: Il discorso di Calgaco (Agricola)


Durante il settimo e ultimo anno della campagna contro i Caledoni, nell’imminenza dello scontro, i generali degli opposti schieramenti, Calgaco e
Agricola, pronunciano contemporaneamente due discorsi alle truppe.
L’autore ripropone in forma diretta l’uno in seguito all’altro, riprendendo una convenzione storiografica già ampiamente sfruttata da Sallustio e da
Livio.
L’esortazione attribuita al capo dei Caledoni, consiste quasi per intero in un atto d’accusa contro i romani, nel loro duplice aspetto di conquistatori e
dominatori.
Il discorso di Calgaco è stato sicuramente inventato da Tacito, che ha attribuito al generale barbaro argomenti contro l’imperialismo romano.
Tacito rielabora e sviluppa questi temi nella prima parte del discorso del capo dei barbari, dedicata ai metodi e ai fini delle guerre di conquista.
La seconda parte presenta, dal punto di vista dei popoli assoggettati, i metodi del governo romano nelle province: abusi di potere e soprusi sono messi
sullo stesso piano degli obblighi normalmente imposti ai provinciali, come il servizio militare e i tributi; tutti sono visti da Calgaco come segno di
quella servitus contro la quale egli incita i suoi a combattere.

Testo 3: Purezza razziale e aspetto fisico dei Germani (La Germania)


Tacito presenta l’aspetto fisico e i costumi dei popoli germanici come conseguenza dei luoghi in cui abitano. Il clima freddo e umido della Germania
richiede la prestanza fisica degli abitanti, mentre il clima temperato mediterraneo è la condizione migliore per lo sviluppo di società in cui si educhino
sia la forza che l’intelligenza. Le notazioni oggettive e coloristiche(gli occhi azzurri, i capelli rossi, la grande corporatura) si mescolano con i dettagli
che fanno emergere la natura bellicosa dei germani( gli occhi sono turci, i corpi adatti all’assalto) ma anche la loro scarsa capacità di adattamento a
condizioni ambientali diverse da quelle a cui sono abituati (non sopportano il caldo e la sete).
Questa è «gente senza astuzia né malizia», secondo lo storico latino, che però non cade nell’idealizzazione dei Germani. Tuttavia, Hitler scorgerà in
questo scritto una ‘prova’ della superiorità della razza ariana.

Testo 4: la fedeltà coniugale (La germania)


Tacito descrive la vita familiare dei Germani, l’istituzione del matrimonio e l’importanza conferita alla fedeltà coniugale. Si tratta di una descrizione
indiretta dell’immoralità romana, che ha distrutto la santità del matrimonio e l’integrità della famiglia. Infatti, dalla descrizione della fedeltà delle
donne germaniche emerge il contrasto con i vizi a cui si abbandonavano le matrone romane, anche se l’autore non si pronuncia mai direttamente su
questa contrapposizione.
Le donne germaniche vengono allevate all’incirca come i maschi e si sposano alla loro stessa età; a Roma, invece, esse vengono date in spose anche a
dodici anni, perciò prevale l’immagine della donna esile e delicata,molto più giovane del marito.
Le popolazioni germaniche erano per la maggior parte di costumi monogamici, anche se ai capi era concessa la possibilità di avere alcune concubine
per allargare la linea dinastica.
Tacito parla anche del comportamento delle donne presso i Germani mettendo in evidenza la loro pudicizia, in contrasto con la viziosità delle matrone
romane e le pene a cui sono sottoposte nel caso in cui si dovessero lasciar andare a qualche vizio: le donne germaniche erano tenute alla più rigorosa
castità coniugale, potevano avere un solo marito, infatti, alle vedove difficilmente era concessa la possibilità di risposarsi. Le adultere erano rarissime,
d’altronde la punizione per queste donne era molto severa: quando una donna germanica commette adulterio, il marito le taglia il capelli, la denuda
alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la frusta rincorrendola per tutto il villaggio.

Testo 5: Il punto di vista dei Romani,il discorso di Petilio Ceriale (Historiae)


Nel 70 d.C. Petilio Ceriale comanda l’esercito inviato in Gallia per ripristinare la difesa del Reno dopo la rivolta promossa da Giulio Civile, che nel
69 aveva pensato di approfittare della confusa situazione politica – era l’anno dei tre imperatori – per sollevare la popolazione dei batavi. In questa
occasione il generale romano rivolge alle nazioni ribelli un abile discorso, con il quale cerca di convincerle a sottostare al dominio di Roma
prospettandone i vantaggi: la Gallia deve scegliere tra la Germania e il mondo mediterraneo; senza la tutela di Roma, ai galli verrebbe a mancare
qualsiasi difesa contro i germani; solo Roma è in grado di mantenere la pace e di garantire la prosperità delle Gallie sottraendole all’avidità dei popoli
confinanti.  Il discorso schietto e brutale si addice perfettamente alla distrazione e al personaggio di Ceriale(uomo d’armi, non oratore) ma ha anche
un significato più vasto. La giustificazione delle conquiste romane è una sorta di replica a distanza alle accuse di Calago nell’Agricola.

Testo 6: Il proemio degli Annales


Iniziano con un breve proemio articolato in due parti.
Nella prima Tacito passa in rassegna la storia di Roma, dimostrando che dall'istituzione della res publica fino a Cesare Augusto l'accentramento dei
poteri nelle mani di uno solo o di pochi individui è stato un fenomeno eccezionale e di breve durata.
Nella seconda parte l’attenzione si concentra sulla produzione storiografica: mentre in epoca repubblicana non sono mancate opere di buona qualità,
nell'età giulio-claudia il servilismo e la paura degli intellettuali o il loro risentimento contro principi defunti hanno prodotto falsificazioni del vero
storico.
Di qui la scelta di trattare questo periodo con atteggiamento imparziale.
La rievocazione del passato di Roma, il giudizio sulla storiografia recente, l'indicazione della materia e la dichiarazione di imparzialità sono luoghi
comuni dei proemi storiografici. Essi, tuttavia, sono sviluppati in modo da porre al centro dell'attenzione il tema principale dell'opera: l'analisi del
potere assoluto e della condizione di soggezione psicologica che esso ha generato nella classe dirigente romana( di cui gli intellettuali sono una parte
integrante e significativa).
Lo stile è sostenuto, incisivo e "anticlassico".
Testo 7: La tragedia di Agrippina (Annales)
Agrippina, madre di Nerone, è appena sfuggita un attentato preparato dal figlio, che ha messo a disposizione una nave studiata per sfasciarsi a
comando. Pur essendo ferita una spalla, la donna riesce a raggiungere a nuoto la spiaggia e farsi portare nella sua villa. Il racconto si apre con la scena
affollata e rumorosa della gente comune che, appena saputo del naufragio, accorre alla spiaggia per portare soccorso.
Alla gioia per la notizia che Agrippina è salva fa riscontro lo sgomento destato dalla vista di un corpo di guardia schierato di fronte alla sua villa: la
folla si dilegua.
Seguendo il percorso dei sicari, lo storico conduce il lettore all’interno della casa , fino alla camera da letto, dove la donna, nella penombra, si trova
in compagnia di una sola ancella, che subito l’abbandona, come già hanno fatto gli altri servi.
La donna più potente di Roma si trova sola di fronte alla morte e inutilmente finge di non credere a un coinvolgimento del figlio nella vicenda.
Energia fino in fondo, quando tutto è perduto ed è stata già colpita alla testa, ordina ai suoi assassini di trafiggerla al ventre, evidentemente per punire
la parte di sé che ha nutrito il “Mostro“.
La contrapposizione tra la caotica scena di apertura e la solitudine in cui si consuma l’ultimo atto della vita della donna, il ricorso a discorsi diretti
brevi e intensi, è significante.

Testo 8: Nerone e l’incendio di Roma (Annales)


Tra il 18 il 19 luglio del 64 a Roma scoppiò un enorme incendio che distrusse gran parte della città. Nerone, che si trovava ad Anzio, raggiunse
immediatamente Roma e cerco di portare sollievo alla popolazione allestendo baracche provvisorie, facendo arrivare beni di prima necessità e
diminuendo il prezzo del grano.
Ciò nonostante inizia diffondersi la voce che il principe stesso avesse fatto applicare l’incendio e si fosse ispirato al tragico scenario della città in
fiamme per comporre il suo poema sulla caduta di Troia.
Gli storici sono attualmente concordi nell’escludere che sia stato Nerone ad appiccare l’incendio: la calura estiva, il vento, la presenza di numerosi
magazzini nella zona dove l’incendio ebbe inizio, il fatto che gli edifici fossero gli uni a ridosso degli altri avvalorano l’ipotesi di una causa
accidentale. Tacito stesso registra diverse versioni dell’accaduto ma, pur senza prendere una posizione netta, suggerisce un’interpretazione
tendenziosa: il racconto dell’incendio si apre e si chiude con un’allusione alle voci che accusano Nerone; l’autore dimostrerà di non credere a tali
dicerie, ma sottolineerà, maliziosamente, che il principe approfittò comunque del disastro per edificare la sontuosa domus aurea.

Testo 9: la persecuzione dei cristiani (Annales)


Una parte della sezione relativa all’incendio di Roma è dedicata alle persecuzioni dei cristiani. L’autore racconta che Nerone, per stornare i sospetti da
sé, attribuì la responsabilità dell’incendio i cristiani e, approfittando dell’ostilità del popolo nei loro confronti, li sottopose alle più raffinate torture con
l’accusa di “audio per il genere umano“. Il passo riveste un importante valore documentario perché costituisce una delle prime testimonianze pagane
sulla figura di Gesù, sulla diffusione del cristianesimo a Roma e sui pregiudizi anticristiani.
Tacito mostra un atteggiamento ambivalente: da un lato condivide il giudizio negativo sul cristianesimo e considera i martiri meritevoli delle
punizioni loro inflitte, dall’altra egli li assolve dall’accusa di aver provocato l’incendio e sottolinea come l’eccessiva crudeltà di Nerone abbia finito
per provocare un moto di compassione nei loro confronti.

Testo 10: l’assemblea (Germania)


È dedicato a illustrare la composizione, il funzionamento e le funzioni dell’assemblea di tutti gli uomini liberi della tribù (gli schiavi ne erano esclusi),
cui è affidata la decisione sulle questioni più importanti. L’autore affronta questo aspetto della civiltà germanica con un atteggiamento moralistico e
nostalgico. Affiora qui l’ideale politico conservatore di Tacito secondo cui il popolo dovrebbe esercitare il potere decisionale opportunamente guidato
e contenuto dalla superiore saggezza dei capi

APULEIO
Nacque intorno al 125 d.C. a Madaura in Numidia (l’odierna Algeria) da una famiglia molto facoltosa. Compì i suoi studi di grammatica e di retorica
a Cartagine. Ad Atene studiò eloquenza e approfondì gli studi filosofici; venne a contatto con il platonismo, le correnti mistiche, l’aristotelismo.
In Africa conobbe la ricca vedova Pudentilla, la madre di Ponziano, suo compagno di studi, e la sposò.
Nel 158, morto l’amico Ponziano, i parenti della moglie gli intentarono un processo. Lo accusarono di aver plagiato e sedotto Pudentilla con filtri
malefici e formule magiche e dell’omicidio dello stesso Ponziano.
Apuleio si difese da solo con un’orazione pervenuta dal titolo Apologia o De magia, in cui rigettava l’accusa, dimostrando l’ignoranza e la malafede
dei suoi accusatori e impostando la sua difesa sulla distinzione tra filosofia e magia.
Apuleio trascorse gli anni restanti della sua vita a Cartagine. Qui esercitò le professioni di avvocato, medico, bibliotecario e conferenziere. Morì
presumibilmente non oltre il 170 d.C.

Il de Magia, i Florida e le opere filosofiche


 Il de Magia o Apologia
Si tratta di un’ampia orazione giudiziaria che fu rielaborata dall’autorevole in vista della pubblicazione secondo una prassi corrente dell’antichità.
Fin dall’inizio lodato e presenta i sostenitori dell’accusa come spregevoli, se stesso e il giudice come uomini caratterizzati da onesta morale.
Nella prima parte del discorso Apuleio sgombra il campo da accuse secondarie, ricavate da comportamenti interpretato dagli accusatori come indizi di
immoralità( l’uso dello specchio o del dentifricio).
Dal capitolo 25 ha inizio la confutazione dell’accusa di magia. Alla magia volgare, come la intendevano i suoi nemici e con la quale egli afferma di
non aver mai avuto a che fare, Apuleio contrappone una magia più nobile, consistente in un particolare rapporto del filosofo con la realtà divina, che
non conferisce alcuna capacità di influire direttamente sulle cose umane ma permette a colui che è capace di possederla una superiorità su tutti gli altri
uomini.
L’opera si conclude con l’esibizione della prova decisiva del disinteresse di Apuleio: la lettura del testamento di Pudentilla, che nomina suo erede il
figlio.
 Florida
si tratta di 23 estratti di ampiezza disuguale, ricavati in epoca imprecisata dai suoi discorsi.
Il contenuto e quanto di più vario ma anche di più superficiale si possa immaginare: davvero l’autore , secondo la tradizione dei sofisti, è in grado di
parlare di qualsiasi argomento, dalle curiosità di paesi esotici come l’India agli aneddoti storici.
 trattati filosofici
ci sono giunti inoltre sotto il suo nome alcuni trattati filosofici,il De Platone et eius dogmate, dedicato alla biografia e alla dottrina di Platone, e il De
Mundo, traduzione latina assai libera di un’opera greca attribuita ad Aristotele.

Le Metamorfosi
La fama di Apuleio è legata soprattutto alle metamorfosi, un’opera narrativa conosciuta anche sotto il titolo non originale “l’asino d’oro“.
La trama del romanzo presenta notevoli somiglianze con un’operetta greca “Lucio o l’asino“, conservata tra quelle di Luciano, ma sicuramente non
autentica.
Le due opere risalgono a una fonte comune, ma differiscono considerevolmente: il romanzo di Apuleio è più ampio, anche perché integrato s variato
da una serie di narrazioni secondarie inserite nella trama principale come “novelle”.
Interessante è il rapporto con la fabula Milesia, l’autore stesso a fare espresso riferimento a tale genere letterario, fin dalle prime parole del Proemio.
Sappiamo che le fabulae Milesiae erano racconti piacevoli e leggeri, di argomento erotico, noti per la loro licenziosità. Tuttavia l’opera del nostro
autore, sia per la sua struttura sia per il messaggio religioso che porta con sé non sembra potersi ridurre a quest’unica matrice.

•Il racconto si apre, dopo il Proemio, con la presentazione del protagonista, Lucio, che narra in prima persona le proprie avventure. Nel romanzo si
possono distinguere tre sezioni narrative, dotate di caratteristiche diverse. La prima corrisponde ai tre libri iniziali, che contengono le vicende di Lucio
fino alla sua trasformazione in asino. Questa parte è la più compatta e unitaria, dominata dai temi della curiositas, di Lucio e della magia intorno ai
quali ruota tutta la vicenda.

•La seconda sezione corrisponde ai libri dal 4 al 10: È la più ampia e include, oltre alle numerose peripezie di Lucio asino, il maggior numero di
inserzioni novellistica, tra cui la favola di amore psiche, che rappresenta la più lunga e complessa inserzione narrativa del romanzo.questa parte
centrale a una struttura assai libera e disorganica: si risolve in una serie di episodi che si susseguono l’un l’altro, legati unicamente dalla costante
presenza dell’asino.potremmo definire la struttura di questa seconda sezione “paratattica” in quanto costa un’avventura all’altra secondo il semplice
rapporto del prima e del poi, si confà in maniera particolarmente calzante il titolo di “romanzo picaresco“ (un tipo di narrazione che si sviluppa nella
Spagna del seicento). La struttura di questo romanzo è caratterizzata infatti dalla presenza di una serie indefinita di episodi giustapposti che possono
essere cresciuti a piacere.ne deriva un’impressione di caos e disordine negli avvenimenti. Nelle metamorfosi il disordine non è la conseguenza di
un’incapacità di organizzare la materia è il mezzo dello scrittore per comunicare la confusione del mondo che circonda Lucio trasformato in asino.

•La terza sezione infine corrisponde al solo libro 11, in cui avvengono le conversione di Lucio ai misteri di Iside, il suo ritorno alla forma umana e
l’adesione al culto di Osiride. È importante notare che il romanzo è costituito da 11 libri: è il numero insolito per un’opera letteraria, ma un valore
simbolico perché nella religione isiaca l’iniziazione avveniva nell’11º giorno, dopo 10 giorni di preparazione. in quest’ultima parte, all’apparenza
slegata rispetto a quanto precede, l’autore spiega, per bocca del sacerdote di Iside, il significato di tutta la vicenda: Lucio ha colpevolmente ceduto
alla propria eccessiva inclinazione verso la curiositas, Che gli ha procurato disavventure e danni di ogni genere; si è abbassato a perseguire serviles
voluptates( con allusione alla relazione con Fotide); ha cercato di violare le leggi della natura ricorrendo alla magia. Per questo egli è stato mutato
nell’animale più brutto e più disprezzato, simbolo di grossolana ignoranza e di bassa sensualità, fino a che la provvidenza della dea Iside gli è venuta
in soccorso e lo ha riscattato, donandoli nuovamente la forma umana.

Le caratteristiche,gli intenti e lo stile dell’opera


La scelta del romanzo
Apuleio sceglie la forma letteraria del romanzo. Sceglie una forma che ai suoi tempi era lo strumento di intrattenimento prediletto da un vasto
pubblico di lettori, per diffondere un messaggio ricco di implicazioni letterarie, filosofiche e religiose. Coesistono nell’opera due intenti differenti: il
piacere di raccontare e di divertite il lettore, l’intento serio ed edificante. Apuleio si ricollega esplicitamente alla tradizione delle fabulae Milesiane,
caratterizzate dalla licenziosità. Le novelle erotiche sono numerose, hanno quasi sempre al centro il tema dell’adulterio e presentano una notevole
varietà nello sviluppo narrativo, talora brevissimo, talora ampio complesso, con l’intreccio di più racconti incastrati l’uno nell’altro.
L’aspetto e l’intento edificanti si rivelano, invece, nella conclusione del romanzo, quando viene proposta un’interpretazione globale della vicenda di
Lucio in termini di caduta nella colpa e di successivo riscatto attraverso una serie di disavventure.

Il significato allegorico della fabula di amore e psiche


questa componente dell’opera affiora anche nella novella di amore e psiche Che si può leggere come una sorta di re duplicazione della trama
principale è un’anticipazione dei suoi significati: prima un avventura erotica( la relazione di Lucio con Fotide e di Psiche con Amore), poi la
curiositas punita con la perdita della condizione beata( per Lucio la forma umana è un elevata condizione sociale, per Psiche la vita nel castello
incantato), quindi le peripezie e le sofferenze( le disavventure di Lucio e le prove imposte da Venere a Psiche), concluse dall’azione salvifica del dio.
il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale di Amore che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto e lo fa di sua
spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.

Le implicazioni autobiografiche
la conclusione del romanzo aggiunge implicazioni autobiografiche; quando infatti nell’ultimo libro il Osiride rivela il proprio sacerdote che giungerà
da lui un Madaurense Per essere iniziato ai sacri misteri, l’autore sostituisce se stesso a Lucio, autorizzando e suggerendo, una lettura della vicenda in
chiave autobiografica.l’elemento che più vistosamente accomuna il finale dell’opera e ciò che sappiamo della vita dell’autore e l’iniziazione a riti
misterici, ma un altro importante punto di contatto tra il romanzo e chi l’ha scritto è costituito dalla magia: non si può escludere che nell’opera
Apuleio abbia voluto riprendere, in un ambito in modi differenti, il fine già perseguito nel De Magia, di difendersi dall’accusa di praticare le arti
magiche. Il giudizio sulla magia infatti decisamente negativo: essa provoca quella trasformazione dell’uomo in asino che l’emblema della sua
degradazione.
Lo stile
la lingua e lo stile del romanzo sono perfettamente in linea con le tendenze e con i gusti del II secolo. L’autore riassume nel proprio modo di
esprimersi sia le correnti arcaizzanti sia lo stile fiorito, elaborato e ornato delle scuole di retorica.
È presenta una raffinata elaborazione artistica.
Il segno cotidiano è accolto in coerenza con la scelta di un genere letterario “popolare” e con l ambientazione realistica della vicenda. Numerose sono
le allusioni e le reminiscenze poetiche.

Brani Apuleio
Testo 1: Lucio diventa asino
Incuriosito dalle pratiche magiche della sua ospite Panfila, Lucio chiede con insistenza alla serva Fotide, di dare anche a lui un po’ di quello cuento
che rende possibile la trasformazione in gufo. Ottenutolo, se lo spalma sul corpo, ma l’effetto non è quello desiderato perché, elemento dopo
elemento, il risultato della metamorfosi è un asino: la serva nella fretta ho sbagliato barattolo, ma sicura Lucio che rimedierà il suo errore
procurandogli, all’alba, le rose che gli permetteranno di tornare all’aspetto originario.

Testo 2: la preghiera a Iside


Siamo all’inizio dell’11º libro. Lucio asino, dopo tante disavventure, in una notte di luna piena, in bocca quella che gli sembra la manifestazione
terrena della divinità suprema, adorata dagli uomini sotto svariate forme. In risposta alla sua preghiera, Iside apparirà subito dopo a Lucio,
confermandogli di essere oggetto di culto con diversi riti e con molteplici nomi dei luoghi più lontani della terra: emerge chiaramente il sincretismo
religioso che caratterizzava il punto della dea, molto diffuso in età imperiale e non solo in tutte le regioni Che si affacciano sul Mediterraneo, ma
anche nell’Europa centrale. Dopo il suggestivo notturno che apre il libro l’ampio e il solenne periodo che introduce un’invocazione alla regina del
cielo inizia la preghiera di Lucio che ricalca formule tipiche del linguaggio liturgico.
Nel brano è presente l’identificazione di Iside con Demetra, già nota ad Erodoto.
Demetra secondo il mito aveva insegnato agli uomini a coltivare le messi. 

Testo 3: il ritorno alla forma umana il significato delle vicende di Lucio


È la conclusione delle avventure di Lucio asino: secondo le promesse di Iside egli può mangiare le rose della ghirlanda portata da un sacerdote
durante la processione in onore della dea, ritrovando la forma umana. 
La trasformazione, tanto attesa dal protagonista e dai lettori del romanzo, è descritta accuratamente ed efficacemente secondo i moduli della
metamorfosi inaugurati da Ovidio: lo scrittore si sofferma sui singoli particolari che permettono di cogliere l’evento meraviglioso nel suo
svolgersi.quindi sta cercate di Iside pronuncia un solenne discorso in cui spiega Lucio le ragioni e il significato della sua esperienza: egli si è
abbandonato colpevolmente agli impulsi della curiosità che lo hanno travolto nel caos della fortuna cieca.a quest’ultima si contrappone la provvidenza
divina, rappresentata da Iside, benevola e misericordiosa: la metamorfosi dell’asino in uomo, grazie all’intervento della divinità, e dunque liberazione
e rinascita, dopo il percorso di morte dello spirito che ha caratterizzato le vicende di Lucio.egli potrà ora assicurarsi la protezione della dea
arruolandosi nella sacra milizia dei suoi devoti, ossia consacrandosi al suo culto. 

Testo 4: psiche, fanciulla bellissima e fiabesca


la fiaba di amore psiche posta quasi al centro del romanzo e viene narrata da una vecchia donna per consolare una fanciulla rapita dalla banda di
briganti da qui stato catturato anche Lucio asino.
L’incipit presenta gli aspetti tipici della fiaba: l’indeterminatezza geografica (si parla di una generica città e la scena poi si allarga alle isole vicine e i
paesi del continente e dei quali accorrono molti per ammirare la bellezza di psiche) la presenza di un re di una regina, le tre sorelle (il numero tre,
spesso ricorrente nei racconti folclorici, ritornerà più volte nel corso della novella), la bellezza straordinaria della protagonista.
Tipicamente fiabeschi sono inoltre gli elementi magici, presenti nel seguito del racconto (ad esempio alcuni oggetti si animano esprimendo sentimenti
umani, anche gli animali parlano e aiutano psiche).
Anche il tempo è indeterminato e non è possibile calcolare il succedersi dei giorni, dei mesi: infatti si dice genericamente “Giorno dopo giorno“.
Psiche grazie alla sua bellezza diviene “un’altra Venere“ che dimora tra i mortali e a cui sono rivolte le preghiere. Viene così trascurato il culto della
vera Venere, suscitando la sua ira e la sua vendetta.
La partecipazione degli dei all’azione, nel contesto della cultura antica, riporta al genere epico: in questo caso Venere, adirata e desiderosa di
vendetta,  richiama il topos della collera di una divinità che funge, all’inizio del racconto, da motore dell’azione.  

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