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Storia della guerra fredda

Federico Romero
Capitolo 1
Origini della guerra fredda, 1944-1949
Ciò che si andava delineando nei mesi conclusivi della Seconda guerra mondiale era
un’inedita geografia di potenza in cui gli Stati Uniti e Unione Sovietica primeggiavano.
Infatti, l’URSS di Stalin non poteva concepire la coesistenza internazionale se non chiave
intrinsecamente conflittuale. Il governo degli Stati Uniti, invece, si convinse che una ferma
contrapposizione ai sovietici fosse la via più efficace per promuovere interessi, ideali e
identità di una coalizione occidentale.
La Seconda guerra mondiale si sommava ai traumi della Prima guerra mondiale, al
conflitto ideologico che aveva imperversato nel ventennio successivo, alla crisi economica
e all’ascesa del totalitarismo: l’effetto era una profonda rottura culturale e psicologica che
imponeva a ogni paese di rifondare la nazione.
Nel 1941 i sovietici avevano già chiarito ai britannici di voler vedere riconosciute le
conquiste territoriali ottenute nel 1939 e nel 1940 grazie ai protocolli segreti del patto con
la Germania.
Infatti era questo il primo tassello della concezione della sicurezza fondata sul dominio
territoriale di Stalin. Il secondo tassello era il controllo sui paesi dell’Europa orientale in
modo da formare una profonda fascia di sicurezza da cui non potessero giungere
aggressioni militari.
Ed il terzo era il controllo sulla Germania, attraverso la distruzione del suo potenziale
militare e gli accordi con gli alleati sul suo futuro. Alle conferenze alleate di Teheran e
Jalta, l’idea di una zona di sicurezza sovietica in Europa orientale fu sostanzialmente
accettata, e si discusse solo delle sue modalità. Quello che Washington e Londra
cercarono di limitare fu il rischio che Mosca
instaurasse un controllo unilaterale chiudendo l’area a influenze esterne e imponendo una
sovietizzazione dei nuovi regimi politici. Ci si accordò quindi sulla suddivisione della
Germania in zone di occupazione, sullo spostamento a Ovest dei confini polacchi e sulla
prospettiva di elezioni libere per formare governi rappresentativi.
Gli Stati Uniti, attraverso Bretton Woods, intendeva stemperare i conflitti sociali e
nazionali,consolidare i regimi democratici e dare un fondamento duraturo alla pace. La
questione dell’accettazione del liberalismo politico ed economico non riguardava tanto gli
sconfitti, visto che gli Stati Uniti condividevano l’idea di eliminare la potenza tedesca e
giapponese e consentire una ricostruzione di quei paesi solo sotto una vigile tutela
internazionale; nei confronti della Gran Bretagna e della Francia, il governo statunitense
sapeva di avere in mano
leve politiche e finanziarie. Il grande interrogativo riguardava i sovietici. Roosevelt, infatti,
riteneva che la cooperazione con i sovietici fosse essenziale per la condotta della guerra e
per questo fu pronto ad accettare un ruolo preminente dell’URSS in Europa orientale.
Roosevelt aveva fiducia in un sistema collaborativo a guida americana, che includesse i
sovietici; Stalin credeva in un’inconciliabilità storica che rendeva la collaborazione tra
capitalismo e comunismo un’opzione temporanea e strumentale. L’ideologia americana
presupponeva una condizione naturale di pace minacciata solo dall’aggressività delle
dittature; quella staliniana, all’opposto, postulava il conflitto internazionale come normalità.
Di fronte al compito di ridisegnare l’intero sistema internazionale, le due visioni finirono per
fungere da fonti di
divaricazione, diffidenza e, infine, ostilità.
- Tra il 1945 e il 1947 gli ex alleati si trovarono intorno a diversi tavoli negoziali. Fu qui che
l’incommensurabilità delle due visioni divenne palpabile, tramutandosi in diffidenza
profonda e, infine, nella convinzione che la cooperazione favorisse i disegni più pericolosi
del rivale. Il nodo centrale fu l’assetto della Germania occupata. Per i sovietici la priorità
era di ottenere le riparazioni; per gli americani e i britannici, invece, la priorità divenne la
ripresa economica tedesca e volevano che le riparazioni fossero liquidate solo dal surplus
di una produzione ben riunificazione della Corea, a libere elezioni in Europa orientale e
all’unificazione di tutta la Germania in Occidente. Ma il gruppo dirigente sovietico non
intendeva abbandonare l’ostilità verso l’Occidente e concludere la guerra fredda, bensì
regolamentarne gli aspetti più pericolosi.
Chruščëv decise quindi di privilegiare la progettazione di missili intercontinentali armati di
testate termonucleari. Ma c’era un secondo versante: quello di una nuova rivalità giocata
sul piano delle alleanze, con un inedito attivismo della diplomazia sovietica al di fuori della
sua tradizionale area d’influenza. Nel 1954 la Cina iniziò a beneficare di un colossale
programma di aiuti tecnici e finanziari sovietici; poi fu la volta dell’India per stringere
collaborazioni economiche e politiche con il paese simbolo dell’indipendenza postcoloniale
e della neutralità.
La svolta della politica estera post-staliniana investiva un terzo spazio: quello del blocco
sovietico in Europa orientare. CHRUŠČËV sollecitò un’estensione ai paesi satelliti dei
livelli minimi di benessere popolare. Ma volle anche correggere la scelta della rottura con
Tito.
L’URSS non subiva più il contenimento reagendo solo con azioni aggressive che
aumentavano l’isolamento sovietico. CHRUŠČËV invece stava provando a estendere il
suo raggio d’azione per mobilitare altri fronti contro l’Occidente e simultaneamente
conduceva una vigorosa campagna d’opinione quale paladino della pacificazione.
- Fu tuttavia il rapporto sui crimini di Stalin a costituire una svolta: non fu infatti più
possibile sottovalutare o nascondersi il carattere brutale e oppressivo del socialismo
sovietico, la cui influenza ideale e culturale iniziò il suo declino storico. Il regime comunista
si stava infatti sgretolando rapidamente, e la sua caduta poteva innescare sollevazioni
anche negli altri paesi dell’Est. Tali considerazioni furono rese ancora più acute dal
simultaneo accendersi della crisi di Suez.
Nasser, leader egiziano, non voleva tanto allinearsi all’Est quanto giostrare tra i due
schieramenti, in modo da massimizzare le sue opzioni. Londra e Parigi strinsero un
accordo con Israele per intervenire autonomamente. Fu così deciso che Israele avrebbe
attaccato nel Sinai; subito dopo un corpo di spedizione franco-britannico sarebbe
intervenuto con il pretesto di tenere entrambi i contendenti lontano dal canale. L’intervento
franco-britannico a Suez si
trasformò in un fallimento. Oltre alle critiche dei paesi africani e asiatici, infatti, Londra e
Parigi si trovarono di fronte a una brusca reazione americana: Eisenhower condannò
l’intervento.
All’Est ogni tensione ideale veniva sepolta dalla necessità di vivere la stabilizzazione come
pura sopportazione; all’Ovest quel che restava del mito sovietico andava in frantumi.
I due blocchi e i loro confini erano ormai intoccabili. E non era solo l’intransigenza
sovietica a evidenziare questa conclusione. L’Occidente aveva assistito alla parabola della
crisi sovietica senza neppure pensare di poter intervenire a condizionarne il corso. La
cortina di ferro si mostrava effettivamente invalicabile in entrambe le direzione e
immodificabile. La vera novità che Suez annunciava era la rilevanza che il nazionalismo
dei paesi extraeuropei stava assumendo nella politica mondiale.
Capitolo 3
Un antagonismo globale, 1957-1963
L’ a v v e n t o d i m i s s i l i i n t e r c o n t i n e n t a l i a r m a t i d i t e s t a t e n
u c l e a r i r e s e c i a s c u n b l o c c o enormemente più vulnerabile, tanto da
trasformare la guerra in un’opzione pressoché suicida.
Ma prima di giungere a tale consapevolezza, l’antagonismo bipolare conobbe il suo
momento di massima drammaticità. La tentazione di usare la diplomazia atomica per
ottenere vittorie simboliche, posizioni più vantaggiose e influenza nel Terzo Mondo portò
infatti alle crisi più pericolose dell’intera guerra fredda. L’idea dominante era ormai che la
sfida si giocasse sulla capacità di attrarre i paesi del Terzo Mondo verso il proprio modello
politico ed economico.
Per quanto riguarda questo punto, l’amministrazione Eisenhower era in seria difficoltà per
la vulnerabilità degli stessi Stati Uniti alla critica antirazzista. Infatti la lotta per
l’uguaglianza e i diritti civili degli afroamericani portava alla ribalta il carattere
contraddittorio della libertà americana. I sovietici, invece, non erano appesantiti da un
simile bagaglio. Potevano anzi fungere da utile punto d’appoggio per i movimenti e i regimi
indipendentisti. Questa opportunità
geopolitica fu il fattore principale che sospinse Chruščëv ad appoggiare il processo di
decolonizzazione. Proprio mentre il mito sovietico si sgretolava in Europa,
l’antimperialismo cercava di ricostituirlo su scala globale. L’apice di questo sforzo fu
raggiunto dopo la rivoluzione castrista del 1959 a Cuba. I dirigenti sovietici si convinsero
che il Terzo Mondo fosse l’arena in
cui si sarebbe deciso il confronto storico tra imperialismo e socialismo e presero, dunque,
a stringere sistematicamente rapporti con i movimenti rivoluzionari.
Il presidente Kennedy, intanto, varò un piano di aiuti all’America Latina per mostrare che la
crescita economica e la democrazia politica potevano avanzare mano nella mano. La
scelta di concentrarsi sull’America Latina era emblematica, poiché la rivoluzione castrista
aveva fatto balenare il rischio che il populismo radicale aprisse le porte della regione al
comunismo.
- La prima bomba termonucleare era esplosa il 1° novembre 1952 da parte degli
americani, ma gli esperimenti sovietici non furono da meno. Nell’opinione pubblica si
diffuse rapidamente la sensazione di essere giunti sul ciglio di un precipizio spaventoso.
Fu Eisenhower a predisporre una dottrina che mirava a rendere improbabile la guerra
atomica senza rinunciare ai vantaggi che la superiorità nucleare conferiva agli USA.
Dichiarando l’intensione statunitense di fronteggiare un qualsiasi atto di aggressione con
una “rappresaglia
massiccia”, il presidente degli Stati Uniti perseguiva diversi scopi. Il primo era di
massimizzare il potere deterrente che derivava dalla propria schiacciante superiorità e
inibire quindi l’avversario sovietico. Il secondo era di contenere le spese di un ampio
apparato militare convenzionale. Il terzo obiettivo era quello di prospettare una guerra
apocalittica per prevenire l’insorgere di ogni conflitto, anche limitato. Ma la “rappresaglia
massiccia” era un tipo di deterrenza che poteva agire su potenze come Mosca o Pechino,
ma era senza efficacia nel Terzo Mondo. Soprattutto, quella della “rappresaglia massiccia”
diveniva un’eventualità tanto meno credibile quanto più aumentava la vulnerabilità del
territorio e della popolazione americana. Se la “rappresaglia massiccia” usava la
preponderanza americana per dissuadere e intimidire l’avversario, il problema dell’URSS
era di attenuare la propria inferiorità strategica e costringere
gli USA ad accettare la coesistenza pacifica con il comunismo e così accrescere il
prestigio e la potenza dell’URSS su scala mondiale. Il fulcro di questa strategia sovietica fu
la costruzione di missili balistici intercontinentali capaci di portare una testata nucleare sul
territorio nemico; ciò avrebbe comportato uno stallo nucleare e dunque aumentato la
libertà d’azione del blocco socialista. Ciò ebbe un enorme impatto psicologico e politico.
La collaborazione economica e tecnica tra Cina e URSS si era enormemente intensificata.
I cinesi volevano disporre di armi atomiche per accrescere la propria sicurezza e
contrastare la preminenza americana nella regione. I sovietici iniziarono a fornire a
Pechino le tecnologie per edificare un’industria nucleare. Cominciò tuttavia a maturare una
discordia politica e strategica,
spingendo Pechino a marcare propri spazi di autonomia dall’URSS. I sovietici compresero
che Mao metteva in pericolo la strategia di distensione con gli USA. Decisero quindi di
bloccare il trasferimento di tecnologie nucleari la Cina.
- Dal 1958 Chruščëv provò a forzare la mano all’avversario. Il luogo più ovvio per un
braccio di ferro con l‘Occidente era Berlino Ovest. Da Berlino continuavano a uscire
migliaia di persone il cui esodo verso Ovest dissanguava il paese di risorse. Chruščëv
lanciò quindi un ultimatum all’Occidente: se entro sei mesi non si fosse concluso un
trattato di pace tedesco, con la fine del
regime di occupazione e la fuoriuscita delle potenze vincitrici da Berlino, l’URSS avrebbe
firmato un trattato separato con la RDT , lasciandole la piena sovranità sugli accessi a
Berlino Ovest, riconoscendone quindi la legittimità. Ma nessun governo occidentale era
disposto ad abbandonare Berlino piegandosi al diktat sovietico e Chruščëv non riuscì a
portare gli occidentali al tavolo negoziale.
Dopo la rottura sino-sovietica, Chruščëv incontrò Fidel Castro, che mirava a incrinare
l’egemonia americana nell’America Centrale e stava entrando in rotta di collisione con gli
Stati Uniti. Eisenhower, intanto, ordinò di pianificare azioni clandestine per abbatter il
regime rivoluzionario cubano. Chruščëv vide in Fidel Castro l’emblema delle lotte di
liberazione che avrebbero fuso nazionalismo e socialismo: fare dell’URSS il referente
mondiale di quei movimenti era un
imperativo ideologico e una scelta strategica per rafforzare il blocco socialista nella guerra
fredda. Chruščëv offrì quindi sovvenzioni economiche e assistenza tecnica a Cuba. Sotto il
presidente Kennedy, 1400 esuli anticastristi armati e organizzati dalla CIA sbarcarono
nella Baia dei Porci, sulla costa meridionale di Cuba, per innescare un’insurrezione che
rovesciasse il regime rivoluzionario ma l’operazione fallì. Nella difesa di Cuba, Chruščëv
colse l’opportunità di
avvicinarsi al riequilibrio strategico e forzare gli americani a una coesistenza negoziata. Gli
Stati Uniti aveva schierato in Italia e in Turchia missili a medio raggio capaci di colpire i
paesi dell’Est e l’URSS. Crusche si sentì legalmente giustificato a schierare armi
analoghe, dotate di testate nucleari, sul territorio cubano. Gli Stati Uniti, che già trovavano
difficile convivere con Cuba
come emblema del socialismo rivoluzionario nel Terzo Mondo, non potevano accettare
che divenisse una piattaforma nucleare dell’URSS. Fu perciò unanime il consenso sulla
necessità di rigettare il tentativo sovietico di diminuire l’asimmetria strategica. Kennedy
quindi annunciava il blocco navale, chiedeva una risoluzione dell’ONU per lo
smantellamento dei siti missilistici e intimava a Chruščëv di rimuoverli. Il timore che si
potesse scivolare verso la guerra condizionò subito il Cremlino: ai reparti di stanza a Cuba
fu ordinato di non usare le armi nucleari, neanche di fronte a un’invasione, senza un
esplicito ordine di Mosca. Chruščëv propose di ritirare i missili in cambio dell’assicurazione
che gli Stati Uniti non avrebbero attaccato Cuba; Castro invece chiedeva a Mosca di
scatenare un’offensiva nucleare sugli Stati Uniti in caso di loro aggressione all’isola.
Kennedy decise di accettare la proposta di Chruschev; in via riservata Robert Kennedy
garantì ai sovietici che gli Stati Uniti avrebbero rimosso i loro missili dalla Turchia qualche
mese dopo il ritiro dei missili sovietici da Cuba. Questo doveva però rimanere un accordo
segreto, a
cui gli USA non si ritenevano impegnati se Mosca l’avesse mai reso pubblico.
Intanto, l’economia della RDT rischiava il collasso e i suoi dirigenti implorarono Mosca di
autorizzarli a chiudere il confine. Chruščëv autorizzò la costruzione di una barriera che
impedisse ai cittadini della RDT di lasciare il paese: il 13 agosto 1961 le guardie di
frontiera della RDT iniziarono la costruzione del Muro di Berlino.
- Le due superpotenze erano dunque accomunate da uno stato di massima vulnerabilità.
La loro sicurezza finiva allora per risiedere nella capacità di regolamentare la condizione di
“distruzione reciproca assicurata”. Ma Mosca e Washington rimanevano immersi nei loro
orizzonti di rivalità.
L’URSS voleva eliminare l’inferiorità strategica e conquistare un’effettiva parità con gli Stati
Uniti, per impedire altre umiliazioni come quella cubana e sostenere la trasformazione
socialista del Terzo Mondo; ne derivò uno sforzo decennale per moltiplicare il proprio
arsenale. Gli Stati Uniti, invece, temevano delle vittorie del comunismo nel Terzo Mondo.
Ne discendeva la necessità di mantenere la propria superiorità per rassicurare gli alleati
che partecipavano al
contenimento e non perdere la capacità di poter agire con risolutezza nelle crisi locali; ne
discendeva un’intensificazione dell’arsenale nucleare, ma anche delle forze convenzionali.
Sia la Francia che la Cina, per assumere un ruolo più attivo nello scenario internazionale,
avevano avviato un proprio progetto nucleare. Da questa situazione Mosca e Washington
decisero di incontrarsi per discutere della non proliferazione nucleare, che proibisse il
trasferimento di tecnologie nucleati ai paesi che non si impegnassero a usarle solo per fini
energetici. Evitare la diffusione delle armi atomiche agli stati che ancora non le
possedevano avrebbe sancito lo status privilegiato delle superpotenze, consolidato la loro
superiorità, facilitato il controllo sugli alleati e diminuito i rischi del conflitto.

Capitolo 4
Disordine bipolare, 1964-1971 Fu nel Vietnam che il contenimento globale di Washington
andò incontro alla disfatta politica e psicologica più che militare. Dopo la rivoluzione
cinese, Washington aveva visto nel Vietnam un fronte cruciale del contenimento in Asia
(Vietnam del Nord = comunista; Vietnam del Sud = filoccidentale). Nel 1959 il regime
comunista del Nord decise di passare all’offensiva, iniziando a infiltrare uomini e armi al
Sud, e l’anno successivo i comunisti si univano con altre forze di opposizione del Sud in
un Fronte nazionale di liberazione (FNL). L’eventuale caduta del Vietnam del Sud avrebbe
incrinato la credibilità della potenza americana quale garante dei propri alleati, in quanto
sarebbe stata una vittoria comunista di valore esemplare. Dal 1961 gli Stati Uniti si
impegnarono quindi a fianco del Vietnam del Sud, inviando rifornimenti e consiglieri
militari. Fu Johnson, succeduto a Kennedy, a trasformare quella del Vietnam in una guerra
americana su vasta scala: nel 1964 sfruttò un presunto incidente navale nel Golfo di
Tonchino per ottenere dal Congresso l’autorizzazione a usare la forza contro l’aggressione
comunista e furono quindi
intensificati i bombardamenti sul Nord. I Vietcong capirono che il conflitto acquisiva una
grande rilevanza internazionale, dalla quale fecero discendere una strategia che puntava a
conquistare il sostegno internazionale e indurre il popolo americano a opporsi alla guerra
(proteste studentesche). Nel 1968 giunse la svolta, quando l’FNL e l’esercito del Nord
lanciarono un attacco a sorpresa in tutto il Sud assaltando cento città e molte basi militari.
Per Washington la motivazione strategica stava nel potenziale effetto domino che una
vittoria comunista avrebbe potuto innescare (cosa che non si verificò). Per i sovietici
costituiva, invece, la volontà di uscire dalla condizione di inferiorità e raggiungere la parità
strategica con gli USA.
Mosca quindi fornì armamenti anche sofisticati al Vietnam del Nord. I dirigenti
nordvietnamiti usarono abilmente la concorrenza sino-sovietica per strappare il massimo
degli aiuti da entrambe le potenze comuniste , mantenendo simultaneamente una forte
autonomia decisionale.
- Rivendicare l’unificazione della Germania aveva perso di senso politico dopo il Muro di
Berlino, che indicava la necessità di una lunga coesistenza tra i due stati tedeschi. Fu il
leader socialdemocratico tedesco Brandt a guidare il ripensamento della Repubblica
federale tedesca
sulle possibilità del paese nell’Europa divisa. Dal 1962 auspicò una politica verso Est:
l’idea fondamentale era che si sarebbe potuti giungere alla riunificazione della Germania
solo dopo una progressiva pacificazione tra i due blocchi.
- Negli anni in cui le due superpotenze iniziavano il loro stentato dialogo per
regolamentare la minaccia nucleare, dal Terzo Mondo sorgeva una pressione via via più
organizzata per lo sviluppo economico. Sotto il profilo pratico, le economie chiuse dei
paesi socialisti offrivano pochi sbocchi commerciali e ancor più scarsi capitali. I loro aiuti
tecnici e militari erano concentrati sui paesi con alto valore simbolico o strategico, come
Cuba o l’Egitto. I paesi occidentali, per
parte loro, volevano materie prime a basso prezzo e aprivano i loro mercati con cauta
gradualità. Essi aumentavano gli aiuti ma mantenevano un forte controllo sulla loro
destinazione, selezionando i paesi e i progetti verso i quali nutrivano particolari interessi di
carattere politico o commerciale.
Le ripercussione del disgelo furono assai forti nei paesi dell’Europa orientale, dove le
esigenze di riforma e le espressioni di dissenso incarnavano anche il desiderio nazionale
di allentare il dominio di Mosca. La Romania, la Polonia e l’Ungheria cercavano
apertamente di usare i contatti con la Germania e l’Occidente per diversificare i loro
scambi e aumentare la propria autonomia
dall’URSS. Fu in Cecoslovacchia che queste tensioni si coagularono in un poderoso moto
riformista: dal 1967 il paese aveva inaugurato legami commerciali con la Germania
occidentale e persino con gli USA. I vertici dell’URSS e degli altri regimi dell’Est vedevano
insomma emanare dalla Cecoslovacchia un rischio di contagio liberale che li impauriva. I
dirigenti sovietici ritenevano ormai indispensabile intervenire per bloccare la
“controrivoluzione”, assicurare la
saldezza dell’alleanza e salvaguardare i propri regimi. Mosca quindi optava per l’azione
militare, invadendo la Cecoslovacchia. Non incontrarono una resistenza armata, ma
l’opposizione generalizzata di quasi tutta la popolazione. Brežnev infatti teorizzava che la
sovranità di ogni membro della comunità socialista era limitata dagli interessi del
movimento comunista internazionale, e quindi dell’URSS. In Occidente, agli occhi delle
nuove generazioni, l’URSS assumeva ora l’immagine di una dittatura pura e semplice. La
guerra ideologica usciva
definitivamente di scena per essere sostituita dalla centralità dei diritti civili e umani.
- Nel 1970 si svilupparono le prime rivolte operaie nel blocco socialista, che segnalarono il
pericolo dell’insoddisfazione popolare. Il regime comunista rispose con il ricorso ai crediti
occidentali per aumentare la disponibilità di beni di consumo essenziali: erano segni chiari
delle insufficienze strutturali del sistema, che avrebbero condotto a una dipendenza via via
più profonda dall’Occidente. Mentre in Occidente e nel resto del mondo permaneva la
convinzione che alla forza dello stato sovietico corrispondesse una sostanziale solidità del
sistema. Ma il
controllo dei regimi socialisti sulla popolazione e i propri confini restava intatto. I
conservatori tedeschi e di tutta Europa temevano che la guerra fredda finisse con un
disarmo occidentale e un sostanziale rafforzamento del blocco sovietico.
Molto importante fu la svolta di Pechino. Per tre anni la Cina era stata totalmente assorbita
nei conflitti interni della “rivoluzione culturale”, secondo la quale l’URSS incarnava il cattivo
esempio da estirpare per avanzare sulla strada del comunismo. L’URSS era la grande
potenza che aveva voluto controllare la rivoluzione cinese e le ambizioni del nuovo stato
rivoluzionario, imponendo un rapporto non paritario tra i due partiti comunisti. I sovietici,
allarmati, irrobustirono la loro presenza militare sui confini, ma Pechino pensò di mostrarsi
risoluta per
dissuadere Mosca. La rottura ideologica tra i due colossi comunisti era divenuta un
conflitto di potenza. La scelta di Mao fu di mettere da parte il radicalismo ideologico, porre
fine alla rivoluzione culturale e iniziare a lanciare segnali d’interesse nei confronti degli
Stati Uniti per fare uscire la Cina dall’isolamento. Gli Stati Uniti mostrarono subito il loro
interesse a un reingresso della Cina nel sistema internazionale e c’era, soprattutto, la
convinzione di poter usare la ricerca di rapporti con la Cina per turbare i sovietici, ovvero
come carta aggiuntiva con
cui premere su Mosca in chiave diplomatica. Washington infatti acquisiva la possibilità di
sfruttare la rivalità tra le due potenze comuniste per dialogare con Mosca da posizioni più
forti.

Capitolo 5
Apogeo e disfatta della distensione, 1972-1980Alla fine degli anni Settanta le due alleanze
erano nuovamente avvolte in una spirale antagonistica di riarmo e si accusavano a
vicenda di coltivare pericolose strategie espansionistiche. Infatti nel 1979 l’URSS invadeva
l’Afghanistan. USA e URSS tornavano insomma a immergersi in una “seconda guerra
fredda” con modalità non troppo diverse dalla prima: aspra polemica ideologica, intenso
riarmo e conflitto indiretto in guerre locali in Asia, Africa e America centrale.
Gli Settanta erano stati accompagnati dalla crisi, crisi dell’America e della sua egemonia
internazionale: sconfitti in Vietnam, sfidati dall’URSS su nuovi fronti, meno capaci di
guidare gli alleati e controllare i focolai di instabilità, gli Stati Uniti attraversarono gli anni
Settanta interrogandosi con crescente incertezza sulla propria solidità, identità e direzione
di marcia. I dirigenti sovietici vedevano in questa fragilità sistematica i segni di
un’incipiente crisi del capitalismo. In realtà alla fine del decennio un nuovo
conservatorismo americano poteva
proclamare una rinnovata fiducia nel mercato e nella democrazia, mentre il Cremlino era
più che isolato che mai.
- Per quanto riguarda la guerra del Vietnam, visto che non si poteva più vincere, Nixon
optò per una duplice strategia di ripiego. Da un lato sdrammatizzare l’impatto domestico
del conflitto e, dall’altro, negoziare col Vietnam del Nord un ritiro delle forze americane
senza che ciò configurasse una plateale sconfitta. La prima strada fu quella della
“vietnamizzazione”: le forze armate e i loro compiti vennero passati all’esercito
sudvietnamita. Per quanto riguarda la
seconda via, Nixon cercò in un primo momento di piegare il Vietnam del Nord con la
pressione militare, ma si giunse alla conclusione che il massimo che si poteva ottenere era
un intervallo di tempo tra il completo ritiro delle proprie forze e l’eventuale capitolazione del
Sud. Il 30 aprile 1975 il Vietnam era riunificato sotto il regime comunista.
Nel 1972 Cina e Stati Uniti erano ora palesemente affiancanti dal comune interesse a
contenere
l’influenza sovietica in Asia. I dirigenti sovietici concepivano le relazioni internazionali
come manifestazione del conflitto storico tra imperialismo e socialismo e perciò restavano
scettici sull’ipotesi di una vera distensione. Nella nuova diplomazia triangolare (USA,
URSS, Cina) gli americani giocavano ora su entrambi i tavoli. Importante e necessaria a
entrambi, la distensione tuttavia non spegneva la rivalità bipolare, né era pensata a tal
fine: la rendeva meno pericolosa.
Per Mosca era necessaria per condurre la lotta comunista libera dalla guerra. Per
Washington era funzionale a condizionare i comportamenti internazionali dei sovietici.
Questo carattere della distensione fu subito evidente al di fuori dell’Europa: in Cile, nel
1970, il successo elettorale del fronte delle sinistre guidato dal socialista Allende attivò
immediatamente la reazione dell’amministrazione Nixon. Si temeva infatti che
l’esperimento cileno potesse trovare imitatori in altre zone dell’America Latina. Furono
quindi promosse operazioni di destabilizzazione del governo cileno.
Più esemplare fu la crisi mediorientale del 1973. Sia Israele che i paesi arabi (Egitto e
Siria) tendevano a sfruttare l’interessamento strategico degli Usa e dell’URSS per i propri
fini locali.
Ma proprio questo ragionamento risucchiava sempre più il conflitto mediorientale negli
scenari della rivalità bipolare globale (Israele = USA; Egitto e Siria = URSS). Fu Kissinger
a imprimere una svolta decisamente bipolare alla diplomazia del conflitto: fin tanto che
Israele rimaneva abbastanza forte militarmente da non essere sconfitta sul campo, si
obbligavano i paesi arabi a cercare una soluzione negoziata. E infatti gli egiziani chiesero
un cessate il fuoco, ma le forze israeliane erano sul punto di sconfiggere quelle egiziane e
tardavano quindi a fermare le ostilità.
Quindi Brežnev propose a Nixon di intervenire congiuntamente per far rispettare il cessate
il fuoco e ventilò la possibilità di un intervanto unilaterale in caso di rifiutò. Kissinger rifiutò
la proposta di Mosca e minacciò un escalation della crisi in caso d’intervento sovietico, ma
allo stesso tempo intervenne su Israele per fermare le azioni militari. Israele aveva vinto e
negli anni successivi l’Egitto recise l’alleanza con Mosca. La crisi mediorientale aveva
dimostrato il carattere limitato e parziale della distensione.
- Tra i dirigenti sovietici si diffuse la convinzione che la distensione derivasse direttamente
dalla forza dell’URSS che aveva costretto gli Usa a scendere a patti. Tuttavia essi erano
ancora timorosi delle contaminazione culturali che potevano derivare dagli accresciuti
contatti con l’Occidente: in URSS come nei paesi satelliti partì quindi un’intensificazione
dei controlli e della repressione del dissenso. Tutto ciò provocò molto scalpore in
Occidente e gli Stati Uniti presentarono un emendamento che vincolava l’attuazione degli
accordi commerciali alla liberalizzazione dell’emigrazione dall’URSS. Quando
l’emendamento fu approvato, i sovietici recisero l’accordo commerciale: era il primo
strappo nel tessuto della distensione.
Nel 1975 fu firmato l’Atto di Helsinki da 37 paesi europei, insieme agli USA e al Canada.
Una
sezione importante di tale Atto riguardava obbligo per i firmatari a rispettare i diritti
dell’uomo e le libertà fondamentali. Insieme alla crescente circolazione delle persone, di
mode e prodotti occidentale, ciò avviò una lenta erosione della già scarsa legittimità
pubblica dei regimi sovietici e della loro capacità di domini. Helsinki si sarebbe rilevata una
pietra miliare verso la trasformazione e il crollo finale dell’ordine della guerra fredda.
Nella logica di Kissinger i vantaggi della distensione avrebbero dovuto indurre Mosca a
moderarsi e accettare lo status quo nel Terzo Mondo. Ma al Cremlino, per i dirigenti
sovietici la parità riconosciuta nella distensione implicava il loro diritto e dovere di
esercitare un ruolo globale per approfondire la crisi dell’imperialismo. Mosca tardò a
comprendere che le manifestazioni della
propria forza non avevano l’effetto di indurre gli Stati Uniti verso una maggiore concordia
bipolare, Bensì quello di accrescere la diffidenza verso la distensione.
- Nel 978 il presidente Carter mediava lo storico accordo di pace tra Egitto e Israele,
rimarcando così il ruolo centrale degli USA, e la relativa marginalità dell’URSS, in Medio
Oriente. Cruciale fu anche la questione sugli armamenti: Carter proponeva profondi tagli
agli arsenali strategici. Era un cambio di rotta sorprendente e sgradito ai sovietici, che
imperniavano la loro deterrenza sul gran numero di armi. Tra il 1977 e il 1979 la
distensione conosceva perciò una precipitosa discesa. Il primo ostacolo sorse in Europa.
Nel 1976 i sovietici iniziarono a sostituire delle loro vecchie armi nucleari puntate
sull’Europa occidentale con nuovi e più veloci missili. Per paura che essi potessero
minacciare l’Europa occidentale si decise di porre nuovi missili nucleari in
Europa. Si tornava quindi a quella dinamica di riarmo antagonistico. Ciò che portò alla fine
della distensione fu l’intervento sovietico nella crisi afghana, che consentì l’occupazione da
parte dell’Armata Rossa dei punti nevralgici dell’Afghanistan, e con quest’azione permise il
ritorno a un antagonismo bipolare incondizionato. Morte le speranze di distensione, le
esitazioni cessarono e Carter aumentò le spese per la difesa e gli aiuti militari al Pakistan.
L’errore dei dirigenti sovietici era stato la loro interpretazione trionfalistica della distensione
che aprì la strada all’erosione di un impero sempre meno sostenibile, impegnandosi in
ruoli troppo estesi per le loro forze. Per gli Stati Uniti, la combinazione di forza militare e
fragilità imperiale dell’URSS suggeriva nuovi sistemi strategici: si doveva costruire una
preminenza miliare che consentisse di usare a proprio vantaggio le situazioni di crisi; si
doveva sfruttare la dipendenza economica dell’Est dai prestiti e dalle tecnologie
occidentali per imporre condizioni politiche rigorose; si doveva agire per ridurre le sfere di
influenza sovietica; si doveva sostenere i movimenti che operavano contro i regimi
filosovietici nel Terzo Mondo e aiutare i paesi dell’Est a consolidare una maggiore
autonomia da Mosca.

Capitolo 6
Il cerchio si chiude, 1981-1990
Bersaglio principale degli statunitensi diveniva ora la psicologia della distensione che,
ormai tramontata nei suoi aspetti operativi e simbolici, andava archiviata anche nel suo
aspetto essenziale: la legittimazione dell’URSS come interlocutore paritario. Reagan
mirava perciò a cambiare sia la dinamica che la rappresentazione pubblica
dell’antagonismo bipolare e voleva così accumulare le risorse per costringere i sovietici a
negoziare da posizioni di inferiorità.
Le difficoltà di Mosca crescevano del resto a vista d’occhio: l’influenza internazionale
dell’ideologia comunista era in caduta. Nel 1980 in Polonia nasceva il sindacato, il
Solidarno, che divenne un contropotere indipendente che dava vita a un dualismo di
autorità senza precedenti in un paese comunista. Mosca decise di non poter intervenire
militarmente contro il sindacato, ma il dualismo di potere divenne tuttavia sempre più
difficile da gestire, in quanto appariva perennemente minaccioso per i dirigenti comunisti. Il
primo ministro polacco decise quindi di promulgare la legge marziale e sospendere tutti i
diritti acquisiti da Solidarno. Per quanto cruciale fosse la solidità del blocco socialista,
dall’altra parte vi era ora il deterioramento economico di tutta l’area e quindi l’importanza
acquisita dalle relazioni con i paesi occidentali per l’accesso ai loro crediti: i frutti della
distensione intraeuropea stavano quindi fungendo da vincolo alla potenza sovietica.
Un fronte importante dell’offensiva reaganiana per inginocchiare i sovietici era che l’URSS
andava colpita nei suoi distaccamenti più deboli ed esposti, scegliendo i terreni giusti per
infliggere delle sconfitte emblematiche al totalitarismo sovietico. Il primo di questi fronti era
l’Afghanistan, dove l’invasore sovietico era odiato non solo dall’Occidente ma da gran
parte del Te r z o M o n d o . A p a r t i r e d a l 1 9 8 3 f u s v i l u p p a t a u n ’ a
m p i a r e t e i n t e r n a z i o n a l e c h e p r o v v e d e v a all’addestramento e
all’armamento della resistenza afghana. Un ulteriore teatro era l’America centrale, in
particolare il Nicaragua; ciò era dovuto alla ferma convinzione che gli Stati Uniti dovessero
tornare a esercitare un’incontrastata egemonia sull’America centrale. I sandinisti reagivano
a questo atteggiamento minaccioso statunitense affidandosi sempre più al blocco sovietico
per il rifornimento di armi e all’internazionalismo rivoluzionario. Washington non
poteva tuttavia muovere guerra apertamente e l’amministrazione Reagan avviò perciò una
serie di operazioni clandestine che presto si gonfiarono fino a configurare una guerra
indiretta, ma ampia.
- Il rinnovato antagonismo bipolare riportava in primo piano il pericolo nucleare: ciascuno
dei due arsenali annoverava ormai migliaia di bombe, pronte al lancio entro pochi minuti.
L’amministrazione Reagan promosse il programma di rafforzamento militare che, oltre a
irrobustire le forze convenzionali, prevedeva grandi investimenti per rinnovare l’arsenale
strategico con nuove bombe e missili. I dirigenti sovietici tuttavia non avevano intenzione
di piegarsi e arretrare, né sotto il profilo simbolico né in termini militari, e reagirono quindi
con il linguaggio dell’intransigenza. Il 1983 vide così un crescendo di tensione per la paura
nucleare.
Questa pressione allarmistica produsse la tragedia: un aereo di linea coreano penetrato
per sbaglio nello spazio aereo sovietico in Estremo Oriente fu intercettato e abbattuto dai
caccia sovietici, che temevano di avere a che fare con un aereo spia americano. Reagan
pensò dunque che fosse giunto il momento di riaprire un qualche dialogo con i sovietici, in
modo da trovare
nuove vie per fuoriuscire dal ricatto atomico. La risposta per il disarmo nucleare sarebbe
venuta dal modo in cui il gruppo dirigente sovietico avrebbe deciso di affrontare i dilemmi
interni che lo assediavano: Gorbačëv riconosceva apertamente le drammatiche difficoltà
del sistema sovietic e era aperto alla ricerca di nuove soluzioni. Gorbačëv voleva infatti
liberarsi di quell’immagine di torvo militarismo oppressivo che si era creata nella
percezione internazionale dell’URSS.
Cercò quindi di migliorare le relazioni con alleati importanti come l’India e l’Iraq e aumentò
gli aiuti al Nicaragua sandinista.
Nel 1985 i sovietici mostrarono interesse a una riduzione degli armamenti e la Casa
Bianca chiese loro delle aperture sui diritti umani e dei passi indietro in Afghanistan e in
America centrale. All’inizio del 1986 Gorbačëv propose pubblicamente un piano di
riduzione graduale e bilanciata delle armi nucleari. Gorbačëv stava iniziando a demolire
uno dei pilastri della guerra fredda. Voleva invertire la corsa agli armamenti, fino a
smantellare gli arsenali nucleari, per
ragioni strategiche oltre che economiche. Egli proponeva di rimpiazzare la distruzione
reciproca assicurata con una logica di ragionevole sufficienza difensiva. Per la prima volta,
Mosca e Washington dialogavano non per stabilizzare la guerra fredda bensì per
smontare il meccanismo della rivalità militare che la alimentava. Nel 1987 Gorbačëv
iniziava anche a smantellare i
pilastri dell’autoritarismo sovietico: la repressione del dissenso cessava, le radio straniere
non venivano più oscurate.
- Nel flusso di queste trasformazioni ciò che restava ancora largamente insondabile era il
futuro della geometria bipolare. Infatti l’indebitamento continuava ad approfondirsi e
spingeva inesorabilmente le economie socialiste verso l’Ovest. Un’influenza non minore
era esercitata dal massiccio flusso di informazioni sostenuto dalla moltiplicazione dei
contatti attraverso la cortina
di ferro, dai viaggi e dalla penetrazione delle TV e dei media occidentali. In primo luogo
perché facilitava e amplificava la critica ai regimi che saliva dai gruppi del dissenso. In
secondo luogo perché l’esposizione dei giovani alla cultura di massa occidentale tendeva
ad liberarli dai veicoli d’indottrinamento e socializzazione dei regimi. E infine perché
l’incessante paragone con gli standard della vita materiale e civile all’Ovest ribadiva giorno
dopo giorno l’inequivocabile fallimento della promessa socialista. Gorbačëv stesso stava
del resto spingendo le sue riforme al
di là della tradizione sovietica. Nel novembre 1989 si pensava anche a una parziale
apertura dei confini tedeschi, ma nel caos di un regime in fibrillazione una comunicazione
alla stampa indusse le televisioni ad annunciare l’apertura totale dei confini. Nel giro di
poche ore migliaia di berlinesi si riversarono ai posti di frontiera lungo il muro e le guardie,
prive di ordini, cedettero alla pressione e aprirono i passaggi. L’impero sovietico che Stalin
aveva costruito non
c’era più. Era quindi svanita la divisione dell’Europa in due blocchi separati e contrapposti,
di cui il Muro di Berlino era stato il simbolo più tetro e apparentemente più solido. Il sipario
calava non solo sulla guerra fredda ma sull’intero contesto ideologico e politico che l’aveva
generata.

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