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INTRODUZIONE
1. Processo, prove, verità.
Premessa. È attraverso le prove che il processo persegue il proprio scopo
accertativo.
Verità processuale. Il processo penale è uno strumento finalizzato alla ricerca della
verità in relazione ad un fatto del passato. Per indicare il risultato conoscitivo
ottenuto all’esito del rito penale si impiega il termine di “verità processuale” che
allude alla ricostruzione che è possibile effettuare in base alle regole probatorie e di
giudizio che operano nel processo penale. Questo concetto si contrappone a quello
di verità storica, che indica i fatti così come effettivamente sono accaduti.
Nel sistema attuale: la legge regola ex ante l’ingresso e la formazione delle prove nel
processo penale. Tali canoni delineano il perimetro entro il quale il giudice può
motivare il proprio convincimento. Successivamente egli valuta gli elementi di prova
che le norme processuali gli hanno consentito di portare in camera di consiglio.
Quando la ricostruzione probatoria non consente di raggiungere un livello di
“certezza processuale” al di là del ragionevole dubbio, la legge la regola in dubio pro
reo, che impone al giudice il proscioglimento dell’imputato, trasformando il dubbio
in decisione.
2. Il principio dispositivo.
La verità convenzionale. La verità convenzionale si ottiene quando il volere delle
parti converge verso un medesimo risultato. Si solca il terreno della cosiddetta
“giustizia negoziata”. Nel 1988, il fenomeno “consensuale” si manifestava
esclusivamente nell’ambito dei riti alternativi, ove il consenso delle parti plasmava
sia i mezzi, sia i contenuti dell’esito processuale. Solo tra la fine degli anni 90 e
l’inizio del nuovo millennio lo spazio riconosciuto al potere negoziale delle parti in
relazione alla formazione della prova nel rito ordinario ha subito un ampliamento.
Ragionevole dubbio e poteri del giudice. Tale principio opera in un momento ben
preciso, ossia quando il giudice non è in grado di pervenire ad un convincimento
razionale sulla reità al di là di ogni ragionevole dubbio.
CAPITOLO I
SISTEMI PROCESSUALI E REGOLE SULLA PROVA
1. considerazioni introduttive.
Esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad
un’organizzazione dello Stato di matrice totalitaria corrisponde un rito penale nel
quale la difesa della società prevale su quella dell’imputato e viceversa in un regime
garantista si dà all’imputato una tutela prevalente.
Il sistema inquisitorio. La materia della prova è scarsamente disciplinata. Si
attribuiva al giudice il potere di attivarsi d’ufficio per perseguire i reati ed acquisirne
le prove (giudice inquisitore). Si basa sul segreto e sulla scrittura.
Il sistema accusatorio. la prova è oggetto di un’attenta e penetrante
regolamentazione. Il giudice non esercitava alcun potere d’ufficio, poiché erano le
parti ad avere l’iniziativa. L’avvio del processo, il suo svolgimento e la ricerca delle
prove erano lasciati ad una parte, e cioè all’accusatore (ad es., la persona offesa o
un suo parente). Il giudice si limitava a prendere decisioni su istanza di parte. Al
potere di iniziativa e di richiesta dell’accusatore corrispondevano analoghe facoltà
esercitabili dall’accusato personalmente o mediante difensore. Questo sistema si
fonda sul contraddittorio e sull’oralità
Nel momento in cui occorre giudicare se un determinato ordinamento appartenga
prevalentemente all’uno o all’altro sistema, conta molto quali elementi si
considerino essenziali al fine di distinguerli: la linea di discrimine è costituita dalla
contrapposizione tra oralità (il giudice decide solo in base a prove assunte
oralmente davanti a lui) e scrittura (il giudice decide su prove scritte, cioè si limita a
leggere i verbali anteriori compiuti da altri). All’origine logica della distinzione tra
sistema inquisitorio ed accusatorio sta infatti la fondamentale contrapposizione tra
principio di autorità e principio dialettico.
Il sistema accusatorio attenuato. In realtà, esistono anche altre versioni del sistema
accusatorio, che ne attenuano alcuni tratti. Tant’è che il nostro ordinamento, dopo
aver accolto nel 1988 un modello accusatorio di tipo quasi puro, ha dovuto
apportare a più riprese delle modifiche.
498 e 499). Il limite del codice del 1988 è quello di essere stato elaborato sulla base
di studi teorici, senza che vi sia stata una precedente sperimentazione pratica dei
nuovi istituti. Il sistema delineato dal codice non è completo, appare piuttosto come
un “palazzo non finito”. Si pensava: se il nuovo modello è basato su principi buoni,
allora automaticamente ne scaturirà un buon processo penale. Con il senno di poi,
emerge l’erroneità di un simile atteggiamento culturale. I principi servono per
comprendere la funzione delle norme, ma non hanno virtù innate.
La riforma del giusto processo. Sta di fatto che il 10 novembre 1999 è stata
definitivamente approvata la riforma dell’art 111 Cost: si tratta della legge cost. 23
novembre 1999, n. 2, recante l’«inserimento dei principi del giusto processo nell’art.
111 della Costituzione». Così sono stati resi espliciti quei principi che, a giudizio di
molti studiosi, erano già ricavabili dalla Carta fondamentale.
La legge n.63 del 2001. L’entrata in vigore dei principi del “giusto processo” ha
imposto al legislatore ordinario di predisporre in tempi brevi una modifica del
sistema probatorio. Con la legge 1° marzo 2001, n. 63, il Parlamento ha cercato di
dare attuazione all’art. 111 Cost, operando essenzialmente su due fronti. Per un
verso, è intervenuto sulla disciplina delle qualifiche dei dichiaranti e ha previsto una
riduzione dell’area del diritto al silenzio. Per un altro verso, ha modificato la
normativa in materia di dichiarazioni raccolte unilateralmente nel corso delle
10. Principi del giusto processo e Convenzione europea dei diritti umani.
Le prime sentenze gemelle. Il concetto di giusto processo individua un modello
processuale dotato di connotati peculiari scolpiti nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948, nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nel Patto internazionale sui
diritti civili e politici del 1966. Tale complesso di garanzie oltre a trovare riscontro
nelle norme costituzionali già esistenti e nei nuovi commi dell’art. 111 Cost., è
operativo nel nostro ordinamento in virtù dell’art. 117, comma 1 Cost., così come
interpretato dalle note sentenze “gemelle” della Corte costituzionale. Con tali
pronunce il Giudice delle leggi ha affermato che i Trattati internazionali ai quali
l’Italia ha aderito devono considerarsi quali norme interposte che, attraverso l’art.
117, comma 1 Cost., fungono da parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi,
con un rango inferiore alla Costituzione e superiore al quello della legge ordinaria.
Una posizione particolare è assunta dalla Convenzione europea dei diritti umani, che
prevede l’istituzione di un organo giurisdizionale, la Corte europea, al quale è
affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. La naturale
conseguenza dell’art. 32 comma 1 CEDU è che tra gli obblighi internazionali assunti
dall’Italia con la ratifica della Convenzione «vi è quello di adeguare la propria
legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte
specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione».
Le seconde sentenze gemelle. La compenetrazione tra le garanzie riconosciute dalla
Carta fondamentale e quelle sancite dalla Convenzione europea è stata
ulteriormente precisata dalla Corte costituzionale con le cd. “seconde sentenze
gemelle “del 2009. La consulta ha ribadito:
-l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla
Convenzione europea, così come interpretata dalla relativa Corte;
-l’obbligo che grava sui giudici comuni di dare alle norme interne un’interpretazione
conforme ai precetti convenzionali ed il dovere che, infine, incombe sulla Corte
CAPITOLO II
IL METODO PROBATORIO
1. Il sillogismo giudiziario.
La logica del giudice. Il giudice, in primo luogo, accerta se l’imputato ha commesso il
fatto che gli è stato addebitato nell’imputazione; in secondo luogo interpreta la
norma incriminatrice al fine di ricavarne quale è il fatto tipico punibile; infine, valuta
se il fatto storico, che ha accertato, è “conforme” al fatto tipico previsto dalla legge.
La decisione è stata definita un “sillogismo’’: il fatto storico, ricostruito attraverso le
prove, è la premessa minore; la norma penale incriminatrice è la premessa
maggiore; la conclusione consiste nel valutare se il fatto storico rientra nella norma
incriminatrice. Questa è la “logica” che applica il giudice: essa si basa sul principio
secondo cui i fatti (accadimenti naturalistici) possono essere valutati in base a
norme (giudizi di valore).
La sentenza. La decisione pronunciata dal giudice si presenta come una
“sentenza”: essa è composta da una motivazione e da un dispositivo.
Nella motivazione: il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso
del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall’imputato (motivi “in
fatto”); quindi interpreta la legge e individua il “fatto tipico” previsto dalla norma
penale incriminatrice (motivi “in diritto”); infine valuta se il fatto storico rientra nel
fatto tipico (giudizio di conformità).
Nel dispositivo: il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto
storico commesso dall’imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma
incriminatrice, il giudice condanna; se il fatto storico non è conforme al fatto tipico,
il giudice assolve l’imputato con una delle formule previste dal codice (art. 530: il
fatto non sussiste, l’imputato non ha commesso il fatto, il fatto non costituisce
reato). Il dispositivo è la parte della sentenza in cui il giudice emette un “ordine”,
che può essere di condanna o assoluzione.
circostanza indiziante, che viene denominata fatto secondario e dalla quale, con una
ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale.
Ad es.: un testimone dice di aver visto un uomo uscire di corsa dalla porta di una
abitazione ad una determinata ora. La polizia trova nell’abitazione una donna, tale
Sempronia, che risulta morta mezz’ora prima del fatto descritto dal testimone.
Sentito il testimone, questi identifica in Caio la persona che aveva visto uscire
dall’abitazione. Caio, interrogato dalla polizia, si avvale della facoltà di non
rispondere, pur essendo amico della vittima. Accertati questi fatti, si prova a
formulare regole di esperienza ricavandole da casi simili al fatto provato (circostanza
indiziante). Alle circostanze emerse si possono applicare due massime di esperienza
opposte. In base ad una prima massima, colui che esce dall’abitazione dell’amica,
senza recarsi subito a chiedere soccorsi o denunciare il fatto alla pubblica autorità, è
autore dell’omicidio. In base ad una seconda massima, colui che esce dall’abitazione
dell’amica, senza … (come prima)… è cosi spaventato dal delitto, che ha scoperto, da
non riuscire ad agire razionalmente. La circostanza indiziante non permette di
ritenere in modo univoco la responsabilità di Caio. Può accadere che
nell’appartamento la polizia trovi un’impronta digitale sul coltello insanguinato e la
confronti con quella presa da Caio. In base ad una legge scientifica, se in due
impronte si riscontrano diciassette punti simili e sono assenti difformità, esse
appartengono alla medesima persona. Confrontate le impronte, un consulente
tecnico riscontra diciotto punti, simili; pertanto si ricava la prova di un’ulteriore
circostanza indiziante: Caio ha impugnato l’arma del delitto. A sua volta, a questo
fatto è applicabile una regola di esperienza che ci consente di affermare che, molto
probabilmente, Caio ha ucciso Sempronia con quel coltello. Viene poi trovata, sul
vestito che indossava Caio in quella occasione, una macchia di sangue di Sempronia.
Caio afferma di essere da tempo legato sentimentalmente a Sempronia, di essere
entrato in casa di lei con una chiave in suo possesso, di averla trovata distesa per
terra, di averla toccata, di aver compreso che era morta, di aver maneggiato il
coltello e di essere poi uscito sconvolto. A questo punto, vi sono indizi gravi sulla
responsabilità di Caio soltanto se si riesce a dimostrare che la versione resa non è
attendibile. Potrebbe esservi il testimone Mario che afferma che Caio aveva litigato
il giorno prima con Sempronia per motivi di gelosia. Ma, anche al caso in esame si
possono applicare due massime di esperienza diverse. Si può ritenere che la gelosia
è tale da costituire un valido movente per l’uccisione, oppure si può ritenere che la
gelosia non è un sentimento così forte da indurre una persona a compiere un atto
sconsiderato. Il giudice dovrà scegliere, in base alle risultanze del caso concreto,
quale delle due massime di esperienza deve essere applicata. Ad es. si deve porre il
problema se Caio era una persona violenta. Il fatto storico può essere accertato
anche sulla base di circostanze indizianti ulteriori che, pur non essendo legate al
fatto stesso da una relazione causa-effetto, confermano la possibilità di attribuirlo
all’imputato. Ad es. può risultare che l’omicida aveva capelli rossi, o che possedeva
scarpe sportive di una determinata marca. Se Caio presenta requisiti e dettagli, è
evidente che le circostanze indizianti a suo carico si rafforzano ulteriormente. Esse
consiste nella regola in base alla quale la stessa persona non può trovarsi
contemporaneamente in due luoghi differenti. In tal caso, può avvenire che un solo
indizio sia idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come
lo ha ricostruito il pubblico ministero. Naturalmente l’elemento di prova sul quale si
basa l’alibi, come ogni altro elemento di prova, deve essere sottoposto al vaglio di
attendibilità da parte del giudice. L’alibi consiste in una prova critica “negativa” nel
senso che mira a dimostrare l’inesistenza dei fatti affermati dall’accusa.
h. Le leggi scientifiche probabilistiche. Fino a questo momento abbiamo
accennato alle leggi scientifiche cd universali, e cioè a quelle leggi che hanno un
elevato grado di predizione; si tratta, ad es, delle leggi della fisica o della chimica.
Ma dobbiamo dare atto che nel processo penale sono utilizzate anche le leggi
probabilistiche, che cioè hanno un grado di predizione non elevato. Si tratta, ad es,
delle leggi della scienza medica. Vi è una disciplina scientifica che merita una
apposita menzione. La dattiloscopia si basa sull’osservazione empirica secondo la
quale non si riscontrano due individui che abbiano le medesime impronte digitali.
Quando si devono mettere a confronto impronte che denotano un numero minore
di 17 punti simili, la probabilità di esattezza nella identificazione decresce, ma può
restare comunque alta quando una delle minuzie è raramente riscontrabile.
Probabilità statistica e probabilità logica. Non vi è nessuna autorità scientifica che
può determinare in astratto quale è il livello sufficiente di probabilità che serve per
risolvere un caso concreto. La probabilità statistica non deve confondersi con la
probabilità logica. Si tratta del giudizio circa l’idoneità di una o più leggi scientifiche
a spiegare il singolo caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice. La
probabilità logica, denominata anche “certezza processuale al di là del ragionevole
dubbio”, è apprezzata dal giudice sulla base degli elementi di prova raccolti in un
determinato processo. La legge scientifica da sola non basta. La probabilità logica è
un concetto che viene in rilievo non soltanto quando si tratta di leggi scientifiche.
Essa esprime uno standard probatorio costante nel processo penale, che discende
dalla presunzione di innocenza e che consiste nella certezza processuale ai di là del
ragionevole dubbio. Pertanto, anche qualora la prova si basi su massime di
esperienza, per condannare occorre una forte probabilità logica.
Il ragionamento del giudice. Quindi il procedimento logico seguito dal giudice è: al
fatto noto è applicata una massima di esperienza (o una legge scientifica). Il
procedimento è di tipo induttivo. Se sono ricavate due regole aventi differenti
probabilità di validità, il giudice deve scegliere quella che si adatta meglio al caso
concreto. Individuata la regola di esperienza (o la legge scientifica), il giudice la
applica al fatto noto: si tratta di un ragionamento di tipo deduttivo. IMPORTANTE è
che: a) il fatto da provare costituisce l’antecedente causale del fatto noto; b) siamo
in presenza di un ragionamento probabilistico e, pertanto, il nesso causale tra i due
fatti è soltanto probabile. Quello delineato non è un giudizio di certezza assoluta,
bensì di probabilità logica, che esprime una certezza relativa alle prove raccolte.
Nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste
l’istituto della prova legale. Nel processo civile si ha prova legale in tutte quelle
ipotesi nelle quali la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella
valutazione di un determinato elemento di prova (ad es. la confessione: ovvero la
confessione resa in giudizio «forma piena prova contro colui che l’ha fatta, purché
converta su fatti relativi a diritti non disponibili». Viceversa, nel processo penale la
confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non
attendibile).
L’aver soddisfatto l’onere di introdurre la prova (in senso formale) non comporta
automaticamente l’aver soddisfatto l’onere della prova in senso sostanziale. Una
parte soddisfa l’onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il
giudice dell’esistenza del fatto storico da essa affermato. A sua volta, la mancata
osservanza dell’onere di introdurre un determinato mezzo di prova (onere formale)
non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda, perché un’altra parte del
processo potrebbe chiedere l’ammissione di quel determinato mezzo di prova.
Acquisito l’elemento di prova, il giudice deve valutare se esso è idoneo a dimostrare
l’esistenza di un fatto oggetto di prova; e ciò a prescindere dalla circostanza che sia
stato introdotto o meno dalla parte che aveva l’onere sostanziale della prova di quel
determinato fatto. Si tratta del c.d. principio di acquisizione della prova.
I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio. I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio
costituiscono un’eccezione al potere dispositivo delle parti sulla prova; in altri
termini, toccano l’onere della prova in senso formale, inteso come onere di
introdurre il mezzo di prova nel processo, ma non incidono sull’onere sostanziale.
Ad ogni modo l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir
meno l’onere del pm di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo
per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti (2006 sentenza Greco).
Il canone del ragionevole dubbio, non è mai intuizionismo del giudice. Il giudice
valuta liberamente le prove ma se esse lasciano residuare un dubbio in grado di
convincere una persona razionale egli è obbligato a prosciogliere. Tra intimo
convincimento e ragionevole dubbio la barriera è data da quello che la dottrina
definisce «modello normativo della motivazione in fatto» che rende uniforme il
criterio valutativo dei giudici, in conformità al principio di legalità, di uguaglianza e
di ragionevolezza.
Occorre poi tenere presente come non sia necessario che l’eventuale spiegazione
alternativa formulata risulti caratterizzata da una probabilità logica al di là del
ragionevole dubbio. Proprio in virtù del canone in dubio pro reo, è sufficiente che
essa appaia “non irragionevolmente ipotizzabile”.
Concordanza. L’ultimo passaggio nella ragionevole valutazione degli indizi concerne
quel profilo che viene denominato “concordanza” e che allude all’assenza di
contraddizioni logiche tra i medesimi. L’analisi di tale profilo è soltanto un passaggio
da effettuare in ultima battuta, giacché presuppone necessariamente
un’antecedente valutazione in termini di precisione e gravità da svolgersi
singolarmente per ogni indizio in sé. Non conta che l’ipotesi ricostruttiva sia
probabile, occorre che si tratti dell’unica ipotesi formulabile.
f. Il superamento della teoria della “convergenza del molteplice”. Il dibattito
più acceso sulla prova indiziaria riguarda, l’oggetto su cui deve vertere la valutazione
di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 192 co2. Due sono le
interpretazioni prospettate: una tradizionale ed una legata allo standard del
ragionevole dubbio.
g. L’orientamento tradizionalista. In base ad un primo orientamento dottrinale
e giurisprudenziale, cd tradizionalista, la prova indiziaria deve emergere da una
valutazione globale ed unitaria degli indizi: essi devono certamente essere gravi,
precisi e concordanti, ma comunque sempre nel loro insieme, e non considerati
isolatamente. È questa la tesi della cd “convergenza del molteplice”: ciò che conta è
solo il risultato finale della operazione di co-valutazione degli indizi. Ecco allora che
un indizio non grave o non preciso diventa sufficiente in quanto è integrato da altri
non gravi o non precisi, ma convergenti nell’indicare la responsabilità dell’imputato.
L’orientamento garantista. In base ad un secondo orientamento, cd garantista, è
necessario che ciascun indizio abbia le tre caratteristiche.
La tesi tradizionalista è fondata su 4 argomentazioni.
1) Primo argomento tradizionalista. Una prima argomentazione ha per oggetto
l’interpretazione dell’art. 192, co2, secondo cui «i requisiti della gravità e precisione
vanno riferiti alla generalità dei fatti indiziari disponibili». Tuttavia in questo modo si
rischia di rendere inutile la riforma del codice; infatti, già nel 1978 si è voluto dare a
quello che poi è diventato l’art. 192 una formulazione dalla quale risultasse un
significato “incisivo”, a mo’ di divieto. Pertanto, l’interpretazione della voluntas legis
impone che il singolo indizio abbia le caratteristiche della gravità, precisione e
concordanza.
2) Secondo argomento tradizionalista. In base ad una seconda argomentazione,
la convergenza del molteplice permetterebbe di superare la deficienza dei singoli
indizi perché, si sostiene, «è in grado di aumentare la probabilità dell’ipotesi
accusatoria». Il difetto del ragionamento sta nell’utilizzare quella regola di giudizio
che ritiene provata l’ipotesi “più probabile che no”, che è accettabile nel processo
civile, ma che è stata abbandonata nel processo penale.
3) Terzo argomento tradizionalista. Una terza argomentazione cerca di risolvere
il medesimo problema in modo più sofisticato, perché si limita a considerare che «la
probabilità dell’ipotesi accusatoria aumenta con l’aumentare del numero degli indizi
convergenti in quella direzione». Il ragionamento si riferisce a quella corrente
giurisprudenziale che riteneva accettabile la regola che esprime la probabilità
statistica. Ma si può obiettare che a partire dalla sentenza delle Sezioni unite
Franzese del 2002 ormai è comunemente accettato che nel processo penale il
criterio della probabilità statistica è stato sostituito dalla regola dell’alta probabilità
razionale, dalla sentenza Franzese, che è integrata quando in base alle prove
raccolte si può escludere al di là del ragionevole dubbio ogni spiegazione alternativa
del fatto.
4) Quarto argomento tradizionalista. Quest’ultimo attribuisce alla convergenza del
molteplice la virtù secondo cui «la concordanza può rimediare alla eventuale
equivocità degli indizi singolarmente considerati, contribuendo a rendere fondata la
dimostrazione del thema probandum». La coincidenza sarebbe sufficiente ad
indicare il responsabile del reato.
A fondo di tale ragionamento sta una vera e propria presunzione di reità a carico
dell’imputato. In mancanza di fatti certi che indicano la sua responsabilità, soccorre
il vecchio criterio inquisitorio in base al quale si chiede all’imputato di discolparsi e
ovviamente un tale criterio non può più trovare accoglimento nel nostro sistema.
h. Gli effetti sulle regole di giudizio. Il ragionevole dubbio impone al giudice di
prosciogliere qualora l’imputazione non risulti provata. Si tratta di una regola di
giudizio in senso stretto. Viceversa, si può condannare quando si è raggiunta una
certezza processuale al di là del ragionevole dubbio. Il peso sta tutto nella parola
ricostruttive risultanti dalle allegazioni delle parti. In ogni caso, l’esercizio dei poteri
officiosi «non fa venir meno l’onere del pubblico ministero di provare il fondamento
dell’accusa». Anche se è stato il giudice ad introdurre il novum nel processo, l’onere
della prova e il canone della probabilità logica restano immutati: l’accusa deve
convincere il giudice della reità al di là del ragionevole dubbio.
m. La scelta dell’art 533. Il legislatore ha inserito la norma sul ragionevole
dubbio nell’art. 533, comma 1 che regola la sentenza di condanna, ma in realtà, è
l’art. 530, comma 2 sulla sentenza di proscioglimento che, tradizionalmente,
costituisce il referente decisorio del giudice nel momento in cui ritiene di non essere
convinto delle prove d’accusa. Quest’ultima norma stabilisce che il giudice
proscioglie anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova della
reità dell’imputato. Allo stesso modo il co3 prevede che il giudice debba
prosciogliere se vi è la prova di una causa di giustificazione o di una causa personale
di non punibilità o «se vi è il dubbio sull’esistenza di esse». La dottrina ha rilevato
che l’art. 530, comma 2 non stabilisce il principio del ragionevole dubbio. In
particolare, il termine “insufficiente’’ è un concetto che deve essere riempito di
contenuto attraverso un parametro esterno costituito, appunto, dalla “sufficienza”.
Parimenti, il fatto che le prove d’accusa siano contraddittorie tra di loro non
specifica il grado di contraddittorietà che è idoneo a giustificare il proscioglimento.
Presunzione di innocenza e onere della prova. Tale principio comporta che debba
essere il pubblico ministero a provare la reità dell’imputato. Soltanto dopo che il pm
ha assolto al proprio onere spetterà alla difesa convincere il giudice dell’innocenza.
Attenendosi a tali considerazioni è del tutto coerente che lo standard probatorio sia
disciplinato nella norma sulla sentenza di condanna, ossia l’art. 533. Spetta al
pubblico ministero portare elementi tali da eliminare nel giudice ogni ragionevole
dubbio sull’innocenza, che è presunta finché non si dimostri il contrario.
n. L’onere della prova delle cause di non punibilità. La particolarità del processo
penale sta nel fatto che il dubbio va a favore dell’imputato anche quando questi ha
l’onere della prova, e cioè quando egli deve convincere il giudice dell’esistenza di un
fatto favorevole. Ai sensi dell’art. 530, comma 3, «se vi è la prova che il fatto è stato
commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di
non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia
sentenza di assoluzione». Il legislatore non ha inserito nella norma in oggetto
l’aggettivo “ragionevole”. Tuttavia, l’art. 530, comma 3 deve interpretarsi
congiuntamente all’art. 533 comma 1 come modificato dalla legge n. 46 del 2006.
Pertanto, l’imputato avrà soddisfatto l’onere della prova e sarà prosciolto se avrà
fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sull’esistenza della scriminante. Ciò
è razionalmente giustificabile perché è soltanto l’imputato che può ricevere dalla
decisione un pregiudizio nel suo diritto di libertà personale.
La prova dei fatti favorevoli. Occorre tenere conto che l’imputato, se pure ha
l’onere di provare i fatti a sé favorevoli, tuttavia non ha quei poteri coercitivi di
ricerca delle fonti di prova che spettano soltanto al pm e alla pg. Pertanto, per far
sorgere il ragionevole dubbio, egli potrebbe limitarsi ad asserire l’esistenza di un
fatto (es una causa di giustificazione o un alibi) e spetterà poi all’autorità inquirente
condurre le indagini per evitare che nel giudice si formi un convincimento
favorevole all’imputato. Tuttavia quest’ultimo ha l’onere di indicare con sufficiente
precisione i fatti e di introdurre almeno un principio di prova (ad es deve indicare
con esattezza il luogo nel quale afferma di essersi trovato).
6. L’inutilizzabilità
a. Nozione. Nel processo penale non tutte le prove possono essere utilizzate. Esiste
una serie di regole di esclusione volte a tutelare molteplici interessi. Il termine
“inutilizzabilità” descrive due aspetti del medesimo fenomeno, da un lato, indica
l’esistenza di una delle ricordate regole di esclusione; da un altro lato, illustra il
regime giuridico al quale è assoggettato l’atto acquisito in violazione di tali regole:
esso non può essere posto a fondamento di una decisione.
Si può cogliere una differenza fondamentale tra inutilizzabilità patologica e
fisiologica.
Inutilizzabilità patologica. Con l’espressione “inutilizzabilità patologica” si è
consueti indicare quel vizio che colpisce le prove acquisite in violazione dei divieti
stabiliti dalla legge. I divieti probatori scolpiscono il volto stesso della prova. Vi sono,
infatti, limiti posti a tutela dell’attendibilità della prova e limiti posti a presidio dei
diritti fondamentali dell’individuo, che prescindono dall’attendibilità dell’elemento e
costituiscono gli sbarramenti “etici” che l’ordinamento pone a sé stesso
nell’accertare i fatti di reato.
Inutilizzabilità fisiologica. Essa concerne quegli atti di indagine che, pur formatisi
validamente in ossequio alle norme che li disciplinano, tuttavia non possono essere
utilizzati per la decisione dibattimentale perché assunti senza contraddittorio. Gli atti
raccolti in modo unilaterale nel corso delle indagini preliminari sono, di regola,
inutilizzabili nel dibattimento. Infatti, il codice pone la regola (salvo eccezioni) in
base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione soltanto le prove
legittimamente acquisite nel dibattimento. In base a tale disposizione, un’eventuale
inosservanza dei divieti di lettura degli atti compiuti nelle fasi anteriori (art. 514)
comporta l’inutilizzabilità degli stessi ai fini della decisione.
In questi casi l’inutilizzabilità diventa una sorta di “griglia selettiva” degli elementi di
prova che possono essere posti a base della decisione dibattimentale. Con tale
strumento si munisce di una sanzione processuale il principio del contraddittorio.
Quindi le prove raccolte durante le indagini preliminari che non sono state
legittimamente acquisite in dibattimento non sono utilizzabili nella decisione in
quanto non hanno subito il vaglio del contraddittorio. L’inutilizzabilità fisiologica,
oltre ad un aspetto oggettivo, ha pure un profilo di tipo soggettivo, che concerne le
prove formate in contraddittorio, ma senza la partecipazione di chi potrà essere
attinto dal relativo risultato.
b. Inutilizzabilità generale e speciale. Con riguardo ad entrambe le
inutilizzabilità è possibile distinguere tra speciale e generale.
Inutilizzabilità generale. Per l’inutilizzabilità fisiologica, nel codice vi è una
previsione generale nell’art. 526, comma 1 in base al quale «il giudice non può
idonea a limitare il diritto di difesa, senza contare che finisce per trasferire altrove la
sede naturale del giudizio.
secondo luogo, la decisione deve essere basata sulle prove che sono state
acquisite in tale fase. Tutto ciò al fine di permettere una valutazione “di prima
mano” sull’attendibilità delle dichiarazioni.
Il principio di “identità” fra il giudice che decide e quello che ha assistito al
dibattimento è posto dall’art. 525, co2, in base al quale «alla deliberazione (della
sentenza) concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno
partecipato al dibattimento».
Il principio di immediatezza è invece espresso dall’art 526: «il giudice non può
utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite
nel dibattimento». Il codice non dispone che soltanto le prove assunte oralmente in
dibattimento siano utilizzabili, ma, viceversa, ammette che lo siano tutte le prove
legittimamente acquisite in tale fase. Facendo ciò, la norma rinvia alle singole
disposizioni che stabiliscono quando l’acquisizione è legittima (ad es la lettura dei
verbali degli atti irripetibili).
c. Il principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio comporta la
partecipazione delle parti alla formazione della prova. Nella prova dichiarativa ciò
avviene quando le parti pongono le domande e formulano le contestazioni. Così,
gli elementi di prova si formano in modo dialettico: si ha il contraddittorio «per la
prova». Sotto questo profilo, l’oralità è funzionale al contraddittorio perché
permette il massimo della dialettica processuale. Il nuovo co4 dell’art 111 Cost
enuncia che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella
formazione della prova». Si tratta dell’espresso riconoscimento costituzionale del
metodo dialettico inteso come la migliore forma di conoscenza e dunque, di
regola, il giudice in dibattimento deve decidere soltanto in base alle prove
raccolte nel contraddittorio.
Vi possono essere situazioni nelle quali è attuato il contraddittorio, ma non
l’immediatezza. Ciò avviene quando, durante le indagini preliminari, si svolge
l’incidente probatorio che costituisce un’anticipazione dell’udienza dibattimentale
senza la presenza del pubblico (artt 392 e ss). Il contraddittorio è assicurato in
quanto l’escussione di una persona avviene mediante l’esame incrociato ad opera
del pubblico ministero e del difensore dell’indagato; tuttavia, se le dichiarazioni
verbalizzate sono lette nel successivo dibattimento il principio di immediatezza non
è rispettato. Infatti i principi dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio non
hanno valore in se stessi, bensì servono ad accertare la verità nel modo migliore.
Essi hanno un valore strumentale, in quanto assicurano la correttezza del risultato,
ma non sempre nella realtà è possibile attuarli in modo assoluto. Si pone allora la
necessità di prevedere alcune eccezioni e cioè delle deroghe ragionevoli, ad es. se il
testimone di un reato è stato minacciato prima del dibattimento, diventa
determinante conoscere quale versione dei fatti aveva esposto nel corso delle
indagini o anche nel caso in cui sia morto. Il nuovo co5 dell’art 111 Cost ha tipizzato
le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del
contraddittorio.
indicare temi di prova o rivolgere domande al dichiarante. Sono materie nelle quali
dal 1988 ad oggi sono intervenute più volte la Corte costituzionale, le Sezioni unite
della Cassazione e perfino il legislatore. Occorre avere ben chiari i due modelli
opposti che il Parlamento italiano con la legge-delega dei 1987 ha voluto evitare
effettuando, viceversa, una scelta volta ad accogliere un equilibrio intermedio.
Sistema inquisitorio. Si riteneva che tanto più si poteva accertare la verità quanto
maggiori erano i poteri conferiti al giudice. Infatti, in base al codice del 1930 il
giudice aveva l’obbligo «di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti che
appaiono necessari per l’accertamento della verità»; e cioè, poteva ricercare,
ammettere ed assumere la prova con la pienezza dei poteri coercitivi e senza
separazione delle funzioni processuali.
Sistema accusatorio. Nel modello accusatorio di matrice anglo-americana, il potere
di iniziativa probatoria spettava soltanto all’accusa ed alla difesa ed il giudice non
aveva alcun potere di ammissione della prova d’ufficio. In quel sistema da tempo è
accolta la c.d. teoria sportiva del processo, in base alla quale ciò che conta è
assicurare la regola, e cioè la formazione della prova in contraddittorio, e poi “vinca
il migliore”. In quel modello il giudice deve essere un notaio, un arbitro, che ha il
solo compito di “risolvere una lite”. Il processo penale è espressione della
concezione utilitaristica che domina il diritto angloamericano. In base a tale teoria
filosofica, non esiste il “giusto” in sé; tutto ha un fondamento pattizio, in base ad un
“contratto” ed anche i diritti fondamentali dell’uomo sono rinunciabili mediante
consenso dell’interessato. Tutelati i diritti soggettivi, che in quanto tali sono
rinunciabili, non hanno spazio le esigenze oggettive di accertamento del fatto di
reato. Si può avere, dunque, un “processo senza verità”, cosa che gli stessi studiosi
anglo-americani oggi criticano. Mirjan Damaska, giurista e studioso americano, ha
intitolato il suo ultimo libro «il diritto delle prove alla deriva», perché non c’è un
giudice che regge il “timone” dell’imbarcazione”: il diritto alla prova è totalmente
rinunciabile e disponibile. Se la parte rinuncia ad esercitare il suo diritto, il giudice
non ha alcun potere di iniziativa probatoria.
Il sistema accusatorio temperato. La legge delega del 1987 ha accolto un sistema
accusatorio temperato, nel quale il processo penale ha anche una funzione cognitiva
e cioè il miglior accertamento dei fatti è considerato un “valore”. L’accertamento dei
fatti non può essere lasciato nella piena disponibilità di parte, perché altrimenti
anche il diritto di libertà diverrebbe disponibile. In tale modello, il contraddittorio
nella formazione della prova è, oltre che un diritto individuale, un metodo oggettivo
di conoscenza per giungere al miglior accertamento della verità e, quindi, ad una
sentenza giusta. D’altra parte, anche le garanzie di indipendenza della magistratura
sono serventi rispetto alla funzione cognitiva del processo: l’indipendenza è la
condizione-base perchè la decisione del giudice sia il più possibile oggettiva, ossia
conforme a quanto risulta dalle prove.
Premesso che la regola del sistema accusatorio è l’iniziativa probatoria di parte (art.
190, comma 1), ne consegue che l’iniziativa probatoria del giudice penale deve
essere rispettosa del principio della separazione delle funzioni: l’iniziativa probatoria
svolta dal giudice d’ufficio è configurata come residuale (nei casi stabiliti dalla legge
al co2) e si tratta uno strumento che serve per raggiungere lo scopo del processo, e
cioè la verità.
Il bilanciamento tra poteri delle parti e poteri del giudice. In un modello
accusatorio temperato, la separazione delle funzioni impone un bilanciamento che
limiti il potere di iniziativa d’ufficio del giudice. In primo luogo, l’iniziativa deve
essere svolta dal giudice, di regola, dopo che le prove sono state acquisite in
contraddittorio, e non prima che si svolgano i “casi” dell’accusa e della difesa. In
secondo luogo, lo scopo deve essere limitato ad assumere quelle prove che
risultano assolutamente necessarie per l’accertamento del fatto di reato, e cioè
prove decisive sia nel senso della reità, sia nel senso dell’innocenza. Il sistema
accusatorio, sia pure temperato, incontra un limite: mai il giudice può formulare
un’ipotesi autonoma rispetto a quella individuata dal pm nell’imputazione. Dunque,
l’iniziativa probatoria del giudice deve rispettare due regole: il carattere “successivo”
e “non esaustivo” (nel senso che, una volta che siano stati esercitati dal giudice, le
parti possono riprendere l’iniziativa probatoria) dei poteri stessi.
I singoli poteri officiosi del giudice. (poteri di iniziativa del giudice) In primo luogo,
il giudice (e cioè l’intero organo giudicante) anche d’ufficio può disporre che sia data
lettura integrale o parziale degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento.
Tuttavia la lettura delle dichiarazioni può essere disposta soltanto dopo l’esame
della persona che le ha rese, a meno che l’esame non si svolga. In secondo luogo, il
presidente dell’organo giudicante «anche su richiesta di altro componente del
collegio» può indicare alle parti «temi di prova nuovi o più ampi, utili per la
completezza dell’esame» (art. 506, co1). Si tratta di un potere di “suggerimento”
dopo che si sono svolti i “casi” dell’accusa e della difesa. Il presidente può soltanto
sollecitare le parti ad ampliare un tema di prova, ma ovviamente restando
all’interno dell’imputazione formulata dal pm. A seguito della sollecitazione,
l’iniziativa probatoria spetta alle parti, che possono accogliere o meno il
“suggerimento”. Il presidente del collegio giudicante può rivolgere domande al
testimone (o altro dichiarante) “già esaminato”, e cioè soltanto al termine
dell’esame incrociato. Il comma 2 dell’art. 506 è stato modificato in tal senso con la
legge n. 479 del 1999, che ha aggiunto la frase «solo dopo l’esame e il
controesame». Questo ha lo scopo di evitare che il giudice possa “bruciare”, con
interventi maldestri, i possibili obiettivi probatori delle parti. Tra l’altro, egli non
conosce gli atti del fascicolo del pm e può compromettere l’accertamento della
verità se formula domande inappropriate.
b. L’iniziativa probatoria del giudice al termine dell’istruzione dibattimentale. In
base all’art. 507, «terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta
assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi
di prova». “Terminata l’acquisizione delle prove” significa dopo che si sono conclusi i
“casi” dell’accusa e della difesa. Il requisito della “assoluta necessità” può dirsi
integrato quando la prova appaia «decisiva». L’ammissione d’ufficio di nuovi mezzi
di prova in base all’art 507 può conseguire sia ad una iniziativa autonoma del
giudice, sia ad una richiesta di parte affinché il giudice provveda in tal senso.
hanno affermato che l’inciso «terminata l’acquisizione delle prove» (art 507) indica il
«punto» dell’istruzione dibattimentale in cui può avvenire l’ammissione di nuove
prove; non costituisce il presupposto per l’esercizio del potere del giudice.
Il diritto alla prova contraria. Infine, la sentenza ha sottolineato che, ove il giudice
ammetta d’ufficio una prova, resta salvo il diritto delle parti all’ammissione della
prova contraria.
Le Sezioni unite Greco. Tale orientamento è stato ribadito dalle Sezioni unite Greco
nella pronuncia del 2006. Anche in quel caso si trattava di una ipotesi in cui il giudice
era chiamato a supplire all’inerzia della pubblica accusa nella presentazione delle
liste testimoniali. Per un verso, la Corte ha affermato che lo scopo dell’art. 507 è
quello di consentire al giudice, che non si ritenga in grado di decidere per la
lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, di ammettere le
prove che gli consentono un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti.
Da un altro lato, le Sezioni unite hanno precisato che l’obiezione spesso prospettata,
in base alla quale l’acquisizione d’ufficio delle prove farebbe venire meno la terzietà
del giudice, costituisce un equivoco. La Cassazione si chiede, infatti, perché mai non
dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso. Un tale potere non è un
residuo del principio inquisitorio, bensì «vale a fondare un processo veramente
“giusto”». Ancora, ad avviso della Corte, il potere integrativo del giudice non nuoce
alla difesa e non mina il principio di parità tra le parti per due motivi: anzitutto,
perché tale potere è conferito sia con riferimento alle lacune dell’accusa, sia con
riguardo alle inerzie della difesa. In secondo luogo, perché si inserisce in un sistema
caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, che impone una costante
verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero.
Ancora sulla sentenza costituzionale n. 73 del 2010. È intervenuta, infine, la Corte
costituzionale con la sentenza n. 73 del 2010. Con tale pronuncia, il Giudice delle
leggi ha lasciato intendere che un vero rischio per l’imparzialità del giudice potrebbe
verificarsi solo nel caso di inerzia totale delle parti: il giudice diverrebbe accusatore
o difensore.
d. il principio dispositivo attenuato. È possibile ritenere che il codice accoglie in
materia probatoria un principio dispositivo “attenuato’’ che consente la libera
esplicazione del diritto alla prova spettante alle parti, ma non preclude i poteri di
iniziativa probatoria d’ufficio; se mai, limita il potere discrezionale del giudice nel
respingere le richieste di ammissione di prove, formulate dalle parti e
assolutamente necessarie.
L’indisponibilità della libertà personale. La necessità di accogliere un principio
dispositivo attenuato si ricava dall’oggetto stesso sul quale il processo va ad
incidere, e cioè la libertà personale. Poiché si tratta di un diritto fondamentale
inviolabile e indisponibile (art. 13 Cost.) non è possibile che l’esito accertativo del
processo sia interamente rimesso al potere dispositivo delle parti. Pertanto, ne
deriva che, in presenza di un panorama probatorio lacunoso e integrabile, il giudice
non può applicare direttamente la regola del ragionevole dubbio, ma deve
intervenire esercitando, se possibile, i propri poteri officiosi.
Le conclusioni sono che: i poteri esercitabili dal giudice d’ufficio toccano soltanto
l’onere della prova in senso formale, ma non incidono sull’onere sostanziale (di
convincere il giudice). Restano valide le regole probatorie, e cioè spetta pur sempre
a chi accusa l’onere di provare i fatti al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Queste
affermazioni risultano confermate dalla sentenza delle Sezioni unite Greco del 2006
e come si desume dalla questa sentenza i poteri esercitabili d’ufficio dal giudice non
rappresentano una deroga ai “divieti probatori”, che devono essere osservati anche
da tale soggetto (ad es, non potranno essere usati metodi o tecniche idonei ad
influire sulla libertà di autodeterminazione del dichiarante).
principio di acquisizione, l’oggetto di prova è già stato inserito nel processo; esso
deve ritenersi messo a disposizione della Giustizia. Da ciò si ricava che la rinuncia
alla prova “principale” non ha efficacia su quella “contraria”. Colui che ha ottenuto
l’ammissione di quest’ultima ha il diritto di vederla assunta, nonché di ottenere
l’assunzione della prova “principale”.
che devono essere messi in correlazione con lo standard probatorio dell’oltre ogni
ragionevole dubbio.
Il “risultato probatorio”. L’art 192, co1, con l’espressione “risultato probatorio”
indica chiaramente l’esito di un percorso argomentativo. Infatti, non vi sono dati di
fatto che siano accettabili di per sé, ovvero “prove” il cui valore sia determinato a
priori; al contrario, in ogni caso è necessaria quell’attività raziocinante del giudice
che serve ad accertare l’attendibilità della dichiarazione e la credibilità della fonte.
L’art 192 richiede l’esposizione dei criteri (es delle massime di esperienza) utilizzati
nella valutazione degli elementi di prova; l’art 546, co1, lett e, attraverso il vaglio
delle opposte ragioni, recepisce e traduce l’esigenza del confronto tra le diverse
ipotesi ricostruttive del fatto, che sono state elaborate dalle parti. In altri termini i
due articoli sono complementari in quanto l’uno indica i mattoni con i quali costruire
l’edificio dell’altro. Naturalmente, il ragionamento del giudice non avrà il carattere
dell’inconfutabilità logica, bensì quello della accettabilità razionale.
La confutazione delle prove contrarie. L’art 546, co1, lett e, richiede che, nel
giustificare le proprie scelte in ordine alle prove che stanno alla base del suo
convincimento, il giudice dia conto anche dell’eventuale esistenza di prove che con
tale convincimento contrastano e delle ragioni per cui egli le ha ritenute non
convincenti; deve cioè, indicare le ragioni che lo hanno portato ad escludere le
ipotesi antagoniste.
Il carattere dialogico della motivazione. La struttura della motivazione assume un
carattere dialogico (altri dicono “binario”), nel senso che essa deve dar conto del
conflitto sulle prove e sulle ipotesi. Una motivazione che prendesse in
considerazione solo le prove a favore, sarebbe un ragionamento coerente, ma
perderebbe la struttura dialogica che è legalmente imposta.
Esiste un nesso inscindibile tra giurisdizione e motivazione, come emerge dalla Cost
all’art 111, co6: «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». La
motivazione è, dunque, una “componente strutturale necessaria” dei provvedimenti
del giudice. Il requisito della completezza della motivazione deve riguardare sia la
decisione in fatto, sia quella in diritto. Quest’ultima non suscita particolari problemi;
talvolta, le sentenze sono motivate in diritto in modo sin troppo esteso. Spesso,
invece, le sentenze non sono adeguatamente motivate in fatto, come se si volesse
sottolineare che tale aspetto ha minore importanza. Invece, una corretta
giustificazione della ricostruzione del fatto costituisce la premessa per un’esatta
applicazione della norma. L’esposizione delle prove, tuttavia, non basta ad esaurire
il dovere di motivare in fatto. Motivare significa, infatti, «rendere esplicito anche il
canone di argomentazione utilizzato per arrivare all’affermazione della sussistenza
(o della insussistenza) del fatto imputato».
mai, quello dello storico e dello scienziato sono due metodi di accertamento a
disposizione del giudice e che differiscono tra loro.
Lo storico. Il compito dello storico è quello di ricostruire come si è svolto un fatto
che è avvenuto nel passato e che ha cessato di esistere. Si tratta di un fatto non
ripetibile (lost fact) che può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha
lasciato nel mondo del reale o nella memoria degli uomini. Gli strumenti, dei quali
egli si serve, consistono nelle prove rappresentative e indiziarie. Ove non sia
presente una prova rappresentativa (es un testimone oculare, un documento ecc) lo
storico utilizza le tracce che ancor oggi sono presenti. Si tratta della prova critica (o
indiziaria): ad un fatto provato viene applicata una regola di esperienza che
permette di accertare ciò che è probabile sia avvenuto in passato.
a. Il giudice e lo storico. L’attività del giudice è molto vicina a quella dello storico
perché il fatto di reato è non ripetibile ed appartiene al passato; il giudice lo conosce
mediante le prove sottoposte. Ma le differenze sono molteplici. Innanzitutto
l’attività dello storico è libera, mentre quella del giudice è vincolata da regole legali.
Il fatto da accertare. Lo storico accerta quei fatti, singoli o collettivi, che a lui
sembrano utili per ricostruire un macroevento; nel fare ciò, utilizza i criteri più vari:
rilevanza culturale, sociale, economica, politica, religiosa ecc. Viceversa, il giudice
accerta un fatto singolo al fine di valutare la responsabilità penale una persona in
relazione ad un’imputazione formulata da un organo di accusa; per il giudice, l’unico
criterio di valutazione è quello previsto dalla legge penale e l’unica responsabilità è
quella individuale.
Il metodo di ricerca. Per lo storico il metodo di ricerca delle prove è libero: egli può
utilizzare anche intercettazioni effettuate illecitamente, informazioni confidenziali o
documenti contenenti dichiarazioni anonime. Per il giudice il metodo di ricerca,
ammissione, assunzione, e valutazione delle prove è fissato dalla legge.
Il tempo del processo. Lo storico non ha limiti di tempo: può sospendere il proprio
giudizio su determinati fatti in attesa che si aprano archivi al momento chiusi. Al
contrario, il giudice non può sospendere il giudizio; il processo penale si deve
i rapporti tra giudice e scienziato. Quest’ultimo può riferire al giudice soltanto quale
è la probabilità statistica astratta di collegamento tra un tipo di fatto (la causa) ed un
altro tipo di fatto (l’effetto). Spetta al giudice valutare la probabilità logica di un
singolo accadimento; e cioè, se nel caso concreto quella determinata causa ha
operato senza che altre concause siano intervenute e se la persona, che ha posto in
essere quel determinato fatto, è rimproverabile penalmente. Non è sufficiente
provare la causalità generale (statistica); occorre anche provare la causalità
individuale. In definitiva, il giudice non può delegare allo scienziato il tema
dell’accertamento del fatto e della responsabilità penale.
Post-positivismo scientifico. Dagli studi degli anni ‘40 si è iniziato a mettere in crisi
questa concezione. Si è constatato che la scienza è limitata: di un fenomeno è
possibile cogliere un numero limitato di aspetti e rappresentarli con una legge
scientifica. La scienza è incompleta: non appena altri aspetti del medesimo
fenomeno sono conosciuti, la legge scientifica deve, se possibile, essere aggiornata
e modificata, se non è possibile, deve essere abbandonata. La scienza è fallibile:
ogni legge scientifica ha un tasso di errore che deve essere ricercato; la conoscenza
del tasso di errore è l’unico indice che una teoria è stata seriamente testata. Questa
nuova concezione si basa su un principio diverso da quello di verificazione; infatti, in
base a questa seconda filosofia, perché una legge sia ritenuta “certa”, non basta che
essa sia confermata dall’esperienza mediante il ripetersi costante delle sue
verifiche, ma occorre che sia sottoposta a tentativi di falsificazione.
esso applicabili, quali sono le conseguenze che devono essersi verificate. Quindi si
procede alla osservazione empirica per verificare in concreto se tali conseguenze si
sono verificate. In caso positivo, la regola è validamente applicabile. In caso
negativo (e cioè se anche solo una conseguenza non si è verificata) si deduce che la
regola potrebbe non essere valida.
La provvisorietà della scienza. Il carattere di provvisorietà della scienza non deve,
però, scoraggiare né portare a pensare che questa sia inutile o inaffidabile. Infatti la
scienza progredisce attraverso l’avvicendarsi di teorie una migliore dell’altra. Inoltre,
tra una scoperta scientifica e quella successiva esistono i cd periodi di scienza
normale, nei quali la comunità scientifica accoglie una determinata teoria e vi si
riconosce. Al tempo stesso non possiamo sostenere che la verità non esiste. Il
giudice in un dato momento storico ha il dovere di decidere anche se la decisione
può fondarsi su elementi che in futuro potrebbero essere falsificati.
allora si può mettere in dubbio che la regola di esperienza sia applicabile al caso
concreto.
Il caso Garlasco e la teoria dell’evitamento. Un’applicazione del metodo scientifico
alle massime di esperienza è stata effettuata nel caso Garlasco. In quella sede ci si è
interrogati a lungo sulla verosimiglianza della versione, data dall’imputato, che
affermava di aver raggiunto, dalla porta di ingresso, un determinato punto della
casa, ma non si era sporcato le suole delle scarpe, mentre, viceversa, il percorso tra
l’ingresso di casa e il punto in questione era disseminato di macchie di sangue
fresco. Il ragionamento del pubblico ministero si basava sulla seguente massima di
esperienza: “l’uomo cammina seguendo il percorso più breve da un punto ad un
altro”. Se così fosse stato, non sarebbe apparsa verosimile la versione dell’imputato,
che affermava di aver effettuato il percorso senza sporcarsi le suole delle scarpe:
questa era una delle prove a carico. Il giudice di Vigevano ha disposto una perizia
sulla posizione delle macchie di sangue e sulla probabilità di evitare le stesse nel
percorrere tale cammino. Il giudice ha conferito l’incarico ad un esperto
dell’Università di Torino, un ingegnere, che ha effettuato un esperimento utilizzando
un finto pavimento, macchiato di sangue, e ha chiesto ad alcuni sperimentatori di
correre da un punto all’altro della stanza così ricostruita in laboratorio. Tutti hanno
evitato di calpestare le macchie di sangue in base alla cd strategia di evitamento
delle macchie di sangue, connessa a processi mentali automatici, non pienamente
consapevoli, comportanti lo spostamento delle traiettorie del cammino e la
riduzione della lunghezza dei passi. L’esperimento è stato apprezzato dagli studiosi
di psicologia, perché ha accertato qual è il comportamento umano “spontaneo”,
cioè senza caratteristiche di intenzionalità. In tal modo è stato fatto un tentativo di
falsificazione della massima di esperienza e si è applicato il medesimo metodo con
cui si deve operare per la prova scientifica. Si è così dimostrato che l’essere umano
tende a camminare evitando di calpestare le macchie di sangue fresco. Se il giudice
avesse condiviso l’ipotesi d’accusa e avesse utilizzato nel suo ragionamento
decisionale la massima di esperienza del pm avrebbe operato una considerazione
non rispondente a come in effetti l’essere umano si comporta nella situazione
specifica osservata. La morale è che il compito delle parti o eventualmente del
giudice d’ufficio è di sottoporre la singola massima al tentativo di smentita, alla
stregua di quanto accade quotidianamente per le leggi scientifiche.
17. L’incontro tra teoria generale del reato e conoscenza giudiziale: l’accertamento
del rapporto di causalità.
a. L’insufficienza esplicativa delta teoria della condicio sine qua non. In materia di
accertamento del nesso di causalità, al fine di integrare la disciplina tratteggiata
dall’art. 40 cp (“nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione”) la dottrina penalistica ha elaborato
nel tempo articolate teorie. La giurisprudenza quasi unanime ha recepito la più
antica e semplice tra tutte le impostazioni: la teoria della condicio sine qua non.
Una condotta è causa di un evento se, eliminando mentalmente la condotta, viene
meno anche l’evento (cd giudizio controfattuale: che va contro il reale svolgimento
dei fatti). Per affermare l’esistenza del nesso causale occorre chiedersi se in
assenza della condotta l’evento si sarebbe ugualmente verificato. I problemi sono
dovuti al fatto che la condicio sine qua non è soltanto un procedimento logico e,
per funzionare, richiede che si conosca la legge scientifica in base alla quale una
determinata condotta provoca un determinato evento.
Recentemente si sono sviluppati settori nei quali è assai arduo accertare il nesso di
causalità, ad es nell’ambito della sicurezza sul lavoro, rischio ambientale, attività
medico-chirurgica ecc. La sempre maggior complessità dei casi ha reso più difficile
l’individuazione delle leggi scientifiche di “copertura”.
L’intuizionismo giudiziale e la causalità in re ipsa. È stata forte la tentazione
dell’intuizionismo giudiziale. Addirittura fino agli anni Novanta, molti giudici hanno
applicato il procedimento di eliminazione mentale senza ricorrere alle leggi
scientifiche, ma colmando in via d’intuizione la lacuna conoscitiva relativa al
rapporto tra condotta ed evento e ravvisando una sorta di causalità in re ipsa, in
base alla quale la sola esistenza dell’evento è sufficiente a dimostrare l’esistenza
causale della condotta ipotizzata.
La sussunzione sotto leggi scientifiche dì copertura. Successivamente, si è percepito
che il principio di legalità e il canone in dubio pro reo erano del tutto incompatibili
con un simile modo di procedere e di ragionare. Così si è iniziato ad applicare il cd
“procedimento di sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura”, detto anche
modello nomologico-deduttivo. Dalla validità astratta della legge scientifica, si
ricavava l’esistenza in concreto del rapporto di causalità. Tuttavia, si è finito per
commettere l’errore opposto. Gradualmente la scienza, da referente
tranquillizzante, si è trasformata in una sorta di prova legale che sottraeva al giudice
ogni margine di valutazione, vincolandolo ai risultati della perizia. Si prospettavano
fattispecie “a perizia vincolante”, in relazione alle quali l’organo decidente non
poteva discostarsi dal parere degli esperti. Questa seconda tendenza copre un arco
di tempo che va dagli anni ‘90 al nuovo Millennio.
In quel periodo, la giurisprudenza ha accolto la teoria della condicio sine qua non
con l’integrazione di leggi scientifiche di copertura. Tuttavia si è registrato il formarsi
di due orientamenti contrapposti in relazione alla percentuale di validità statistica
della legge necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale.
Un primo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità dovesse essere
ritenuto esistente se vi erano serie ed apprezzabili probabilità che l’evento fosse
conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento aveva affermato che il nesso
causale esisteva soltanto se la legge scientifica, che esprimeva il rapporto tra
condotta (attiva od omissiva) ed evento, aveva un coefficiente percentuale vicino
alla certezza.
dal rilievo che nel processo penale è possibile condannare soltanto se l’esistenza del
fatto e la responsabilità dell’autore risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio.
Ciò significa che in relazione all’esistenza del rapporto di causalità nel processo
penale è sempre necessario un giudizio di certezza.
Il modello causale bifasico. Il Collegio ha prospettato un modello bifasico di
accertamento del nesso causale. Una prima fase nella quale, ex ante, si ricerca in
astratto la legge scientifica applicabile al caso. Una seconda fase nella quale, ex
post, si verifica se l’evento verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di
quella legge. Nel quadro di quest’ultimo step, fondamentale importanza riveste la
cd prova per esclusione di qualunque fattore causale diverso e alternativo rispetto a
quello ipotizzato.
La probabilità logica. Il passaggio successivo è stato il chiarimento “epistemologico”
su quale tipo di giudizio probabilistico possa e debba venire in gioco al fine di
eliminare ogni ragionevole dubbio. Il giudice non deve soffermarsi sulla percentuale
di validità statistica della legge, considerata in astratto. Egli deve ritenere provato
oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto sottoposto alla sua
attenzione esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Si tratta di un
punto cruciale che segna il passaggio dalla probabilità statistica alla cd probabilità
logica. Il procedimento logico da applicare non è di tipo deduttivo ma inferenziale-
induttivo. Una simile soluzione postula l’applicazione della legge scientifica tenuto
conto di tutte le prove: sono le prove che consentono di individuare, o “sotto
determinano”, la legge causale applicabile. Al fine di raggiungere siffatto standard
conoscitivo lo strumento fondamentale è il contraddittorio tecnico effettuato
attraverso gli esperti (perito e consulenti di parte) attraverso il quale si riproduce
all’interno del processo quella dialettica che alimenta l’evoluzione scientifica
attraverso la spiegazione e la falsificazione. Data la limitatezza della conoscenza
umana nel misurare la validità astratta di una legge gli scienziati devono dare per
esistenti alcune condizioni ignorate o meramente supposte (cd assunzioni tacite,
indicate con la clausola coeteris paribus, letteralmente “a parità di tutte le altre
circostanze”). Si può affermare che una legge funziona in una data percentuale di
casi, ipotizzando che in quei casi non vi siano altri fattori condizionanti o non
operino altre leggi sconosciute. Ebbene, nella valutazione della probabilità logica la
clausola coeteris paribus (a parità di tutte le altre circostanze) deve essere riempita
dai contenuti delle risultanze processuali ed impone di
tenere conto di tutte le peculiarità del caso concreto, ivi compresi gli altri fattori
condizionanti. Nel giudizio sul nesso causale occorre escludere l’esistenza di fattori
condizionanti alternativi. Si tratta di un’operazione complessa poichè, normalmente,
nell’era della modernità è raro che ci si trovi ad accertare eventi dovuti ad un’unica
causa. Si parla di causalità multifattoriale (web causation).
La fase ex ante. Per la Cassazione, nel giudizio ex ante si possono utilizzare anche
leggi statistiche, purché si attui il procedimento bifasico delineato dalla sentenza
Franzese e quindi si proceda anche al giudizio ex post. Quanto alla scelta, ex ante,
delle leggi scientifiche la Cassazione ha affermato che quando il sapere scientifico
non è consolidato o non è comunemente accettato perché vi sono tesi in irrisolto
conflitto, spetta al giudice prescegliere quella da preferire. Per valutare
l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono; le basi
fattuali sulle quali essi sono condotti; l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della
ricerca; il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi; la discussione critica che
ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in
discussione l’ipotesi, sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono
formate; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di
consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, occorre valutare se
esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete,
significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione
probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Gli esperti dovranno essere
chiamati non solo ad esprimere il loro personale seppur qualificato giudizio, ma
anche a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi che consentano al
giudice di comprendere se possa pervenirsi ad una “metateoria” in grado di fondare
affidabilmente la ricostruzione. Di tale complessa indagine il giudice è infine
chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche e
fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile».
La fase ex post. Quanto alla fase ex post, i giudici di merito devono indicare
espressamente le specifiche circostanze in grado di confermare o di falsificare
l’ipotesi espressa dalla legge generale ed astratta. In particolare, nel caso
dell’amianto, occorre indicare gli elementi concreti in base ai quali è possibile
affermare che l’effetto dose-risposta si è effettivamente verificato nel caso di specie,
in relazione alla singola vittima. Se ci si ferma alla fase ex ante si arriva ad affermare
un mero aumento del rischio di ammalarsi e cioè alla probabilità statistico-astratta,
senza arrivare a stabilire la probabilità logica in concreto.
La sentenza Fincantieri. Un differente approccio è stato accolto da una pronuncia
successiva. Ad avviso della Cassazione, una volta provato che i lavoratori erano « a
contatto costante con le micidiali polveri di amianto […] in assenza di qualsivoglia,
pur rudimentale, protezione individuale o sistema di abbattimento delle polveri»,
esiste « il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del datore di lavoro di
idonee misure di protezione ed il decesso del lavoratore in conseguenza della
protratta esposizione alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile
determinare l’esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi
prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche
solo sul tempo di latenza». Infine, il giudizio ex post sulla probabilità logica che nel
caso concreto la legge scientifica della dose-dipendenza funzioni « può serenamente
trarsi dalla vicenda clinica delle vittime, illustrata nella sentenza di merito,
emergendo che, in linea di massima il rischio decresce (anche nel solo senso che
l’insorgenza della malattia si allontana nel tempo) col trascorrere del tempo
24 e 27 Cost). Tali norme delineano in capo a tale soggetto una situazione soggettiva
che consiste in un pieno diritto di non collaborare.
In relazione a tutti gli altri individui, i quali potrebbero rivestire la qualifica di
testimoni, da sempre si ritiene che le norme costituzionali, che tutelano l’interesse
alla repressione dei reati, giustifichino una generale servitus iustitiae che rende
punibile il rifiuto di rispondere o la falsità. In ogni caso la tutela della libertà morale
riveste un ruolo fondamentale.
Il modello di tutela. Emerge, dunque, il clichè in base al quale è tutto vietato salvo
ciò che è espressamente consentito.
applicabili sono assai divaricati tra di loro. Invero, con la sentenza n. 34 del 1973 la
Corte costituzionale ha affermato che nel corso di tale attività non si pone la
necessità di tutelare il diritto al silenzio perché si è al di fuori di un rapporto diretto
o indiretto tra individuo e autorità. In base ad un simile approccio, quando viene
effettuata una captazione occulta, per un verso, la persona “spiata” non rilascia
dichiarazioni all’inquirente, bensì ad altri individui estranei alle indagini; per un altro
verso, sembrerebbe non intaccata la libertà di autodeterminazione perché non vi
sono influenze esterne sul processo volitivo di dichiarare.
Tertium genus. Per questi motivi in materia di captazioni occulte non vengono
tutelati il diritto di difesa, la presunzione di innocenza, né la libertà morale e
l’imputato è trattato alla stregua di ogni altro individuo. L’armamentario
sanzionatorio posto a tutela del foro interno opera esclusivamente quando
l’interlocutore, dichiarato o mascherato, è l’autorità. In relazione alle captazioni
l’ordinamento garantisce altri diritti costituzionali quali la segretezza delle
comunicazioni e l’inviolabilità del domicilio.
dall’art. 188. Si tratta di una frontiera inesplorata per il processo penale, in relazione
alla quale occorre prestare attenzione.
posti dall’art. 189 devono ritenersi operativi. Le difficoltà sono dovute soprattutto
all’impossibilità di un previo contraddittorio.
Il principio di legalità della prova. Il sistema appare, dunque, informato al principio
di legalità della prova, in base al quale quest’ultima costituisce uno strumento di
conoscenza regolato dalla legge. In effetti, il codice predispone nel dettaglio il
catalogo dei mezzi di prova, nonché dei mezzi di ricerca della prova. Accanto agli
strumenti probatori espressamente regolati, però esiste la “valvola di sicurezza”
della prova atipica che rispetta i parametri dell’art 189 e viene, quindi, introdotta
mediante un procedimento di tipo formale.
Non sostituibilità. Proprio perché la prova atipica non mira a destrutturare i modelli
tipici previsti dal codice, ma svolge piuttosto una funzione integrativa, la dottrina è
unanime nel richiamare l’attenzione sulla necessità che essa non si risolva in uno
strumento per aggirare i requisiti delle prove tipiche. Pertanto, occorre ritenere
ricavabile dal codice un principio di non sostituibilità in senso forte che vieta
l’aggiramento di forme probatorie poste a garanzia dei diritti dell’imputato o
dell’attendibilità dell’accertamento; pena l’inutilizzabilità.
2. La testimonianza
a. Considerazioni preliminari. Il codice distingue in modo netto tra due mezzi di
prova: “la testimonianza” (artt 194 ss.) e “l’esame delle parti” (artt 208 ss.). La
distinzione riguarda aspetti sia di diritto processuale, sia di diritto penale sostanziale.
Il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi al giudice e di dire la
verità (artt. 198 cpp e 372 cp). Viceversa l’imputato, quando si offre all’esame
incrociato ai sensi dell’art. 208, non ha l’obbligo di presentarsi (art. 208), né
l’obbligo di rispondere alle domande (art 209, co2), né l’obbligo di dire la verità. La
distinzione trova una conferma nella normativa sulla incompatibilità a testimoniare.
In base all’art 197 la qualità di imputato è di regola incompatibile con la qualità di
testimone, salvo eccezioni.
Il testimone e le parti sono esaminati sui fatti che costituiscono oggetto di prova, e
cioè sulla responsabilità dell’imputato e sui fatti che servono a valutare la credibilità
delle fonti e l’attendibilità degli elementi di prova. La deposizione avviene nella
forma dell’esame incrociato (art. 209 co1).
Definizione di testimone. La qualità di testimone può essere assunta dalla persona
che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che, al tempo stesso, non riveste
una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l’incompatibilità a testimoniare (es
la qualifica di imputato, o di imputato di un procedimento connesso o collegato, o di
responsabile civile, o di soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria, art
197). La persona così delineata diventa “testimone” soltanto se e quando su
richiesta di parte (o d’ufficio) è chiamata a deporre davanti ad un “giudice” nel
procedimento penale.
Gli obblighi del testimone. Il testimone ha i seguenti obblighi:
-in primo luogo ha l’obbligo di presentarsi al giudice (art. 198); se non si presenta
senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento
coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di una
somma di denaro (da euro 51 a euro 516) nonché alle spese alle quali la mancata
comparizione ha dato causa.
-In secondo luogo ha l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le
esigenze processuali (art. 198).
-Infine, il testimone ha l’obbligo di «rispondere secondo verità alle domande che gli
sono rivolte». Se tace ciò che sa, afferma il falso o nega il vero, commette il delitto di
falsa testimonianza (art. 372 c.p.).
L’art. 384, co2 cp individua ipotesi nelle quali la fattispecie della falsa testimonianza
non è integrata a causa dell’assenza della corretta attribuzione della qualifica
soggettiva di testimone che costruisce il presupposto per l’integrazione del reato: il
fatto commesso non è tipico e cioè non corrisponde alla fattispecie incriminatrice.
-Di tali esigenze si sono fatte carico le leggi n. 66 del 1996, n. 269 del 1998 e n. 228
dei 2003, che hanno introdotto un secondo limite che riguarda i procedimenti per i
delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e si tratta di persone indicati
nell’art. 472, comma 3-bis. Le domande aventi ad oggetto la «vita privata» o la
«sessualità» della persona offesa dal reato sono di regola vietate; sono consentite se
sono «necessarie alla ricostruzione del fatto».
In terzo luogo, le dichiarazioni, rispetto alle quali opera il divieto, sono quelle rese
«nel corso del procedimento» (art. 62); l’espressione deve essere intesa nel senso di
“in occasione” di un atto tipico e non “durante la pendenza” del procedimento (ad
es un testimone, che ha assistito ad un colloquio tra un indagato e altra persona o
che ha ricevuto una dichiarazione fuori da un atto del procedimento, può riferire
quanto ha sentito dire). Infine, il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che
abbiano una valenza di “prove”, e non quelle che siano rilevanti come “fatti storici di
reato” che devono necessariamente essere accertati mediante un processo penale.
Il divieto sulle dichiarazioni rese nel corso di programmi terapeutici. Il d.lgs 2014, n.
39 di attuazione della Direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo
sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, che sostituisce la
decisione quadro 2004/68/GAI, ha introdotto nell’art. 62 un nuovo co2. La
disposizione stabilisce che il divieto di testimonianza indiretta «si estende alle
dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall’imputato nel corso di programmi
terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di
minori». La ratio della disposi