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INTRODUZIONE
1. Processo, prove, verità.
Premessa. È attraverso le prove che il processo persegue il proprio scopo
accertativo.
Verità processuale. Il processo penale è uno strumento finalizzato alla ricerca della
verità in relazione ad un fatto del passato. Per indicare il risultato conoscitivo
ottenuto all’esito del rito penale si impiega il termine di “verità processuale” che
allude alla ricostruzione che è possibile effettuare in base alle regole probatorie e di
giudizio che operano nel processo penale. Questo concetto si contrappone a quello
di verità storica, che indica i fatti così come effettivamente sono accaduti.

il lost fact ed il volto di Medusa.


Verità storica. La verità storica è l’utopia del rito penale: il processo “perfetto” è
quello che fornisce un risultato coincidente con il reale svolgimento dei fatti. Il fatto
storico non può rivivere, è un lost fact, esso deve essere ricostruito nel processo
attraverso le prove. Il rito penale guarda all’indietro ed è perennemente esposto al
rischio di imbattersi nel volto di Medusa: l’errore ricostruttivo pietrifica l’istanza
accertativa e può provocare un danno. Poi, una volta individuata la verità storica
occorre distinguere tra due questioni: la prima è costituita dai “mezzi” attraverso i
quali un fatto storico può essere “riprodotto” all’interno del processo, si allude al
problema dell’ammissione delle prove e dei relativi limiti, nonché allo spazio che
deve riconoscersi al potere dispositivo delle parti in tale materia.
La seconda questione concerne i “contenuti” dell’accertamento. Si tratta cioè del
metodo usato dal giudice per la ricostruzione del lost fact rievocato: si parla di
epistemologia giudiziaria, ossia le modalità con le quali si forma la conoscenza
all’interno del processo.

Nel sistema attuale: la legge regola ex ante l’ingresso e la formazione delle prove nel
processo penale. Tali canoni delineano il perimetro entro il quale il giudice può
motivare il proprio convincimento. Successivamente egli valuta gli elementi di prova
che le norme processuali gli hanno consentito di portare in camera di consiglio.
Quando la ricostruzione probatoria non consente di raggiungere un livello di
“certezza processuale” al di là del ragionevole dubbio, la legge la regola in dubio pro
reo, che impone al giudice il proscioglimento dell’imputato, trasformando il dubbio
in decisione.

2. Il principio dispositivo.
La verità convenzionale. La verità convenzionale si ottiene quando il volere delle
parti converge verso un medesimo risultato. Si solca il terreno della cosiddetta
“giustizia negoziata”. Nel 1988, il fenomeno “consensuale” si manifestava
esclusivamente nell’ambito dei riti alternativi, ove il consenso delle parti plasmava
sia i mezzi, sia i contenuti dell’esito processuale. Solo tra la fine degli anni 90 e
l’inizio del nuovo millennio lo spazio riconosciuto al potere negoziale delle parti in
relazione alla formazione della prova nel rito ordinario ha subito un ampliamento.

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Un’attuazione tecnica di tale fenomeno è rappresentata, nel nostro sistema,


dall’acquisizione concordata di atti di indagine al fascicolo per il dibattimento, che
può essere accompagnata, o meno, da una rinuncia alla acquisizione della omologa
prova in contraddittorio. L’accordo tra le parti è divenuto un istituto regolare e
rappresenta una manifestazione del principio dispositivo. Non sempre, però, la
giustizia negoziata permette di raggiungere la verità storica, la verità convenzionale
pura può anche essere una non-verità. Il potere dispositivo, come gli altri poteri, si
presta ad abusi. È possibile che l’attività delle parti persegua di fatto altri scopi e
conduca ad una deviazione rispetto al fine della ricerca della verità storica, che resta
l’aspirazione principale del processo.
3. la conoscenza umana tra limiti ontologici e limiti etici: la verità processuale.
La verità processuale. La verità processuale, più nello specifico, si può definire come
quel risultato che si ottiene attraverso l’impiego di tutti e soli gli strumenti
accertativi di cui il processo dispone.
Limiti conoscitivi. La verità processuale si ottiene attraverso i mezzi che la scienza e
l’esperienza del singolo momento storico inducono ad accreditare, ma la ricerca è
vincolata da una serie di limiti. Di qui nascono quelle regole di esclusione delle
prove, preordinate alla salvaguardia della qualità del risultato probatorio. Questi
assicurano la tendenziale coincidenza tra verità processuale e verità storica.
Limiti etici. La verità processuale non è eticamente neutra. Esistono regole di
esclusione atte a tutelare i fondamentali diritti dell’individuo che impongono di
rinunciare a determinati dati cognitivi, a prescindere dall’idoneità di tali metodi a
produrre risultati attendibili. Questi limiti possono imporre talvolta una
divaricazione tra le “due verità” in nome di interessi individuali.
È proprio a cagione di questi sbarramenti epistemologici ed etici che la verità
processuale indica il confine oltre il quale non è possibile andare.
I poteri officiosi del giudice. Se il potere dispositivo delle parti fosse assoluto, esso
potrebbe trasformarsi in una rinuncia al contraddittorio nella formazione della
prova, anche qualora fosse indispensabile per accertare un determinato fatto. Per
evitare un rischio del genere viene in questione il potere officioso del giudice:
ovvero, il giudice ha il compito di evitare che ci si fermi prima del raggiungimento
del confine estremo consentito dalla verità processuale. Ecco allora che, quando
l’accordo (o l’inerzia di parte) mette a repentaglio l’accertamento, subentra il potere
officioso del giudice al fine di riattivare, a tutela della verità, l’altro strumento di
conoscenza, costituito dal contraddittorio, che non è totalmente disponibile dalle
parti. Accusa e difesa possono accordarsi sulla lettura di atti raccolti in segreto,
possono rinunciare all’escussione di una prova già ammessa, possono accettare
l’acquisizione di un documento, ma resta il potere di controllo del giudice, che può
ordinare di assumere la fonte di prova in contraddittorio. Nel rito penale la verità
convenzionale è accettabile solo se si avvicina a quella processuale.

5. La verità processuale claudicante: il ragionevole dubbio.


Il ragionevole dubbio. La regola di giudizio in dubbio pro reo è proprio
l’incarnazione dello scarto che vi è tra verità storica e verità processuale.

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Ragionevole dubbio e poteri del giudice. Tale principio opera in un momento ben
preciso, ossia quando il giudice non è in grado di pervenire ad un convincimento
razionale sulla reità al di là di ogni ragionevole dubbio.

CAPITOLO I
SISTEMI PROCESSUALI E REGOLE SULLA PROVA
1. considerazioni introduttive.
Esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad
un’organizzazione dello Stato di matrice totalitaria corrisponde un rito penale nel
quale la difesa della società prevale su quella dell’imputato e viceversa in un regime
garantista si dà all’imputato una tutela prevalente.
Il sistema inquisitorio. La materia della prova è scarsamente disciplinata. Si
attribuiva al giudice il potere di attivarsi d’ufficio per perseguire i reati ed acquisirne
le prove (giudice inquisitore). Si basa sul segreto e sulla scrittura.
Il sistema accusatorio. la prova è oggetto di un’attenta e penetrante
regolamentazione. Il giudice non esercitava alcun potere d’ufficio, poiché erano le
parti ad avere l’iniziativa. L’avvio del processo, il suo svolgimento e la ricerca delle
prove erano lasciati ad una parte, e cioè all’accusatore (ad es., la persona offesa o
un suo parente). Il giudice si limitava a prendere decisioni su istanza di parte. Al
potere di iniziativa e di richiesta dell’accusatore corrispondevano analoghe facoltà
esercitabili dall’accusato personalmente o mediante difensore. Questo sistema si
fonda sul contraddittorio e sull’oralità
Nel momento in cui occorre giudicare se un determinato ordinamento appartenga
prevalentemente all’uno o all’altro sistema, conta molto quali elementi si
considerino essenziali al fine di distinguerli: la linea di discrimine è costituita dalla
contrapposizione tra oralità (il giudice decide solo in base a prove assunte
oralmente davanti a lui) e scrittura (il giudice decide su prove scritte, cioè si limita a
leggere i verbali anteriori compiuti da altri). All’origine logica della distinzione tra
sistema inquisitorio ed accusatorio sta infatti la fondamentale contrapposizione tra
principio di autorità e principio dialettico.

2. la prova nel sistema inquisitorio.


Il principio di autorità. Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità,
secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al
soggetto inquirente. Su di lui si cumulano tutte le funzioni processuali: egli è sia
giudice, accusatore e difensore. Quindi ad un unico soggetto sono conferiti pieni
poteri nella ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova. Non si
avverte la necessità di disciplinare la materia della prova, anzi, un’eventuale
regolamentazione si tradurrebbe in un limite all’accertamento della verità. Dunque
qualsiasi prova è ammissibile allo scopo di permettere all’inquisitore di accertare la
verità.

La prova nel sistema accusatorio

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Il principio dialettico. Si ritiene che la verità si possa meglio accertare se le funzioni


processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi contrapposti. Ad un
organo imparziale spetta soltanto di decidere sulla base di prove prodotte
dall’accusa e dalla difesa.
I poteri di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione devono essere divisi tra il
giudice, l’accusa e la difesa in modo che nessuno di essi possa abusarne. Colui che
accusa ha l’onere di ricercare le prove e di convincere il giudice della reità
dell’imputato, la difesa ha il potere di ricercare le prove idonee a convincere il
giudice che l’imputato non è colpevole, o che le modalità di svolgimento del fatto
addebitato devono essere ricostruite in modo diverso. Il giudice deve soltanto
decidere se ammettere, o meno, il mezzo di prova che viene richiesto e nel corso
dell’esame, di regola, si limita a valutare l’ammissibilità delle domande formulate. Il
giudice deve rimanere in una situazione di assoluta imparzialità e neutralità psichica.
La separazione delle funzioni processuali si attua mediante il principio del
contraddittorio: assicura che, prima della decisione, il giudice permetta alla parte
interessata di sostenere le proprie ragioni; ad ogni parte deve essere data la
possibilità di mettere in dubbio l’esistenza del fatto affermato dalla controparte. Ciò
comporta che non può essere utilizzata per la decisione la dichiarazione di una
persona se alla controparte non è permesso di interrogarla in sede di controesame.
La separazione delle funzioni. Il sistema della divisione delle funzioni nel processo
tende ad evitare che l’uso di un potere degeneri in abuso. Montesquieu disse: «è
una esperienza eterna che qualunque uomo, che ha un determinato potere, è
portato ad abusarne […]. Perché non si possa abusare di un potere, bisogna che, per
la disposizione delle cose, il potere arresti il potere».

Sistema processuale e regime politico.

I regimi politici totalitari. Come è facile evincere il sistema processuale inquisitorio


è tipico dei regimi politici totalitari. La mancanza del contraddittorio è un espediente
efficace per realizzare ogni arbitrio e per creare una “verità di Stato”. In tale
contesto, il processo penale funziona come strumento di controllo sociale, infatti il
messaggio trasmesso è molto forte, perché è accompagnato dalla condanna ad una
sanzione penale, che può essere anche la pena di morte. Il rito penale è usato come
strumento di lotta politica, come veicolo per diffondere un’ideologia e la pubblicità
serve a dare risonanza al messaggio, esplicito o anche implicito, che si vuole lanciare
mediante il processo. L’imputato è oggetto di ogni curiosità; la sua dignità è
annientata ancor prima che il giudice decida se è colpevole.
I regimi politici garantisti. Il giudice deve soltanto accertare se l’accusa ha
dimostrato che l’imputato è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Se il
giudice si rivela parziale, le parti devono avere il potere di ricusarlo. Gli strumenti
che tendono a ridurre gli arbitrii sono la separazione delle funzioni processuali di
accusa, difesa e giudice e la parità tra i poteri delle parti in tema di prova. Nel
sistema accusatorio la pubblicità svolge la funzione di permettere all’opinione

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pubblica di verificare se la Giustizia è amministrata in modo corretto e se i diritti


della persona umana sono rispettati.
È vero che il sistema inquisitorio utilizza una sorta di ‘’terrorismo di stato’’ capace di
debellare le più agguerrite bande criminali, ma tale modello non garantisce a
sufficienza contro il rischio che sia condannato un innocente.

Gli svantaggi del sistema accusatorio puro.

Difetti. I difetti addebitati ad un sistema accusatorio puro sono una eccessiva


combattività che, se non regolata opportunamente, rischia di giungere fino al
linciaggio del testimone. Gli ampi poteri di cui gode l’accusa pubblica (polizia e
pubblico ministero), impediscono al giudice di esercitare un efficace controllo
soprattutto nei momenti anteriori al dibattimento. Le regole che escludono le prove
raccolte fuori da tale fase tutelano i diritti di libertà del cittadino, ma tendono ad
ostacolare l’accertamento del fatto di reato. Già da queste prime osservazioni si può
ricavare come sia necessario porre temperamenti.

Il sistema accusatorio attenuato. In realtà, esistono anche altre versioni del sistema
accusatorio, che ne attenuano alcuni tratti. Tant’è che il nostro ordinamento, dopo
aver accolto nel 1988 un modello accusatorio di tipo quasi puro, ha dovuto
apportare a più riprese delle modifiche.

5. Dal codice del 1930 al codice del 1988.


La contrapposizione tra i sistemi appare tradotta nelle scelte fondamentali che in
Italia hanno ispirato, rispettivamente, il codice del 1930 ed il codice del 1988.
Il codice del 1930 Apparteneva ad un sistema misto prevalentemente inquisitorio;
esso attribuiva ampi poteri al giudice e non dava una sufficiente regolamentazione
alla materia delle prove. Il giudice era “il signore del processo e delle prove”;
durante l’istruzione la verità era ricercata in segreto con ampi poteri coercitivi. Una
volta arrivate al dibattimento, le parti avevano scarsi poteri di controllo: la verità era
già stata raccolta ed era racchiusa nei verbali degli atti istruttori. il libero
convincimento opera soltanto nel momento della valutazione della prova e non
nelle fasi della ricerca e dell’assunzione: era quindi invocato a sproposito. La filosofia
del sistema era ben sinterizzata nell’art. 299 cpp 1930, secondo cui «il giudice
istruttore compie tutti gli atti necessari per ricerca della verità».
Il codice del 1988. Ha recepito la scelta del sistema accusatorio, indicata come linea
direttiva dalla legge-delega n. 81 del 1987. I poteri del giudice e delle parti sono
distribuiti in vario modo nelle fasi della ricerca, dell’ammissione, dell’assunzione e
della valutazione della prova. La decisione di dedicare un intero libro del codice alla
materia della prova è coerente con la scelta di fondo. Nel libro terzo del codice
viene delineato un vero e proprio “diritto delle prove”. Al giudice è riservato il
potere di decidere; alle parti è attribuito il potere di ricercare le prove, di chiederne
l’ammissione, di contribuire alla formazione delle stesse. L’istituto che esprime nel
modo più cristallino la filosofia del modello accusatorio è l’esame incrociato (artt

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498 e 499). Il limite del codice del 1988 è quello di essere stato elaborato sulla base
di studi teorici, senza che vi sia stata una precedente sperimentazione pratica dei
nuovi istituti. Il sistema delineato dal codice non è completo, appare piuttosto come
un “palazzo non finito”. Si pensava: se il nuovo modello è basato su principi buoni,
allora automaticamente ne scaturirà un buon processo penale. Con il senno di poi,
emerge l’erroneità di un simile atteggiamento culturale. I principi servono per
comprendere la funzione delle norme, ma non hanno virtù innate.

6. Alle origini della costituzionalizzazione del “giusto processo”.


Gli anni successivi al 1988. Il testo originario del codice limitava in modo eccessivo
la possibilità di utilizzare, ai fini della decisione, i verbali delle dichiarazioni rese in
segreto prima del dibattimento. Con la famosa inversione di tendenza del 1992,
dapprima la Corte costituzionale, ed il legislatore immediatamente dopo, avevano
ecceduto nel senso opposto, estendendone l’utilizzabilità. Di conseguenza, è
risultato leso il principio del contraddittorio, che costituisce il fulcro del sistema
accusatorio. Ciò ha innescato un vivace dibattito culturale che auspicava il recupero
delle garanzie. È possibile affermare che un parziale ritorno alla tutela del
contraddittorio si è avuto, per la fase anteriore al dibattimento, con la legge 1995, n.
332, e per quella dibattimentale, con la legge 1997, n. 267. In particolare, la legge n.
267 del 1997 si era occupata dell’ipotesi delicata nella quale un imputato nel corso
delle indagini avesse reso dichiarazioni contro un altro imputato. Il legislatore aveva
limitato l’utilizzabilità delle dichiarazioni, raccolte unilateralmente prima del
dibattimento, al caso in cui l’imputato connesso si fosse sottratto al confronto con
l’accusato chiudendosi nella facoltà di non rispondere. Siffatto provvedimento fu
tacciato di un eccesso di garantismo idoneo a compromettere l’efficienza del
processo specialmente nella spinosa materia della criminalità organizzata. Le
reazioni hanno indotto la Consulta a ridimensionare le scelte poste a base della
legge del 1997. Invocando il principio di ragionevolezza, la Corte, con la notissima
sentenza 2 novembre 1998, n. 361, ha ritenuto che la situazione dell’imputato
accusatore, chiamato a deporre su di un “fatto altrui”, fosse assimilabile a quella del
testimone. Di conseguenza ha esteso a tale ipotesi le norme che permettevano di
utilizzare le precedenti dichiarazioni del teste che fosse rimasto silenzioso. La
sentenza ha suscitato critiche da parte del Parlamento, convinto che la corte avesse
mal interpretato i principi costituzionali. Così le Camere hanno voluto offrire una
interpretazione “autentica” della Costituzione e in 12 mesi il progetto di revisione
della Carta fondamentale è stato definitivamente approvato con una maggioranza
superiore ai due terzi. Il legislatore è stato capace di uscire dall’impasse portando a
compimento la prima riforma della Costituzione in materia di processo penale. Il
Parlamento ha riconsiderato quella parte del progetto della Commissione
Bicamerale 1997 (art. 130) che aveva cercato di rendere effettive le norme della
Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Poiché la nostra giurisprudenza si
rifiutava di riconoscere valore costituzionale a tali disposizioni, la Bicamerale aveva
proposto di inserire direttamente nella Carta fondamentale il nucleo centrale delle
garanzie, e cioè i principi del “giusto processo”.

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La riforma del giusto processo. Sta di fatto che il 10 novembre 1999 è stata
definitivamente approvata la riforma dell’art 111 Cost: si tratta della legge cost. 23
novembre 1999, n. 2, recante l’«inserimento dei principi del giusto processo nell’art.
111 della Costituzione». Così sono stati resi espliciti quei principi che, a giudizio di
molti studiosi, erano già ricavabili dalla Carta fondamentale.

7. I principi “generali” sulla giurisdizione


a. la riserva di legge. Il legislatore costituzionale ha introdotto nell’art. 111 Cost,
cinque nuovi commi che consacrano alcuni principi cardine, sintetizzati
nell’espressione “giusto processo”. I primi due commi sanciscono canoni idonei ad
informare di sé i processi nei quali si ravvisa l’esercizio di un potere giurisdizionale, i
commi 3, 4 e 5 tracciano direttrici che si riferiscono specificamente al rito penale.
Il primo comma (co.1) dell’art. 111 sancisce che «la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge». La norma prevede una riserva di legge in
materia processuale: soltanto il legislatore può regolare lo svolgimento del
processo.
b. Il “giusto processo”. Si allude ad un ideale di giustizia che preesiste rispetto
alla legge ed è direttamente collegato ai diritti inviolabili di tutte le persone
coinvolte nel processo.
c. Il contraddittorio “debole”. Nel secondo comma sono enunciati principi che si
riferiscono a tutti i tipi di processo, e quindi anche al rito penale. La prima parte
della norma afferma che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in
condizione di parità dinanzi a giudice terzo ed imparziale». Il principio del
contraddittorio viene menzionato nel suo significato più ampio e generale. Secondo
la classica definizione esso postula che la decisione del giudice sia emanata audita
altera parte. Si tratta dunque di un’accezione “debole” del principio. Ciò che conta è
che l’ascolto vi sia, ma la norma non prende posizione sulle modalità con le quali
tale canone deve esplicarsi. II contraddittorio è menzionato anche dal comma 4
della norma in esame, ma si tratta in tal caso del significato “forte” del principio, che
allude al metodo dialettico nella formazione della prova.
d. La parità delle parti. Il comma 2 sancisce il canone della parità tra le parti. Si è
sostenuto che tale criterio ha una portata applicativa diversa nel processo civile e in
quello penale: se nel civile è possibile attuare la piena “eguaglianza delle armi” tra
attore e convenuto, nel rito penale, viceversa, occorre tenere conto della diversità
di posizione, istituzionale e sostanziale, che intercorre tra il pm e l’imputato. In
buona sostanza, secondo il principio di adeguatezza, il concetto di parità deve
adattarsi al tipo di processo (civile o penale) ed alla natura dell’interesse (pubblico o
privato). Sebbene la norma affermi il principio con riferimento alla fase
“processuale”, anche nella fase delle indagini è prospettabile il perseguimento di
una parità delle parti.
e. Il giudice imparziale. Il processo deve svolgersi dinanzi a un giudice terzo
(concerne lo status ossia il piano ordinamentale) e imparziale (concerne la funzione
esercitata nel processo ed impone che non vi siano legami tra il giudice e le parti). La

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disposizione, dunque, sembra alludere al principio della separazione delle funzioni


processuali tra giudice, accusa e difesa.
L’imparzialità può essere: oggettiva, ovvero occorre che il giudice (persona fisica)
non abbia legami né con le parti (attuali o potenziali, ad es la parte civile) né con
l’oggetto del procedimento (ad es, non deve avere un interesse all’esito dello
stesso). Mentre l’aspetto soggettivo dell’imparzialità (e cioè la situazione di
impregiudicatezza) è stato definito dalla Corte costituzionale come “assenza di un
pregiudizio rispetto all’oggetto del procedimento’’ (la cd res iudicanda e, cioè, la
responsabilità dell’imputato). Il fondamento teorico è stato individuato nella “forza
della prevenzione” che, ad avviso del Giudice delle leggi, «consiste nella naturale
tendenza di ogni persona a mantenere fermo un giudizio già espresso». Il principio
di terzietà ed imparzialità del giudice è stato affiancato ai canoni del contraddittorio
e della parità tra le parti.
La ragionevole durata ed il principio di preclusione. L’ultimo principio sancita al
comma 2 è quello della «ragionevole durata» del processo, la cui attuazione è
rimessa al legislatore. Tuttavia, come più volte è stato chiarito dalla stessa Corte
costituzionale, la predetta istanza può e deve essere perseguita compatibilmente
con la tutela di altri valori fondamentali, di rango prevalente rispetto ad essa.
Soltanto quando interessi essenziali per l’attuazione del giusto processo (come il
diritto di difesa e l’accertamento del fatto) sono stati adeguatamente protetti viene
in causa il profilo dei tempi processuali. All’operatività della ragionevole durata
suole talora ricondursi il c.d. principio di preclusione, che è considerato un criterio
ermeneutico di diffusa applicazione nel rito penale. Infatti, la regola costituzionale
della ragionevole durata non costituisce un imperativo categorico ma ha, al
massimo, la funzione di indirizzare verso la soluzione preferibile tra più alternative.
Ecco che il principio di ragionevole durata ed il connesso canone della preclusione si
configura come un valore suscettibile di bilanciamento con i diritti fondamentali.
9. I principi “speciali” relativi al processo penale.
I commi successivi enunciano principi che si riferiscono esclusivamente al processo
penale.
a. I diritti dell’accusato. Il comma 3 è dichiaratamente modellato sull’art. 6, comma
3, lett. d della Convenzione europea e contiene il catalogo dei diritti spettanti «nel
processo penale» alla «persona accusata di un reato». Da un lato, la parola
“accusato” non ha un preciso significato tecnico e sembra potersi riferire sia alla
persona sottoposta alle indagini, sia all’imputato. Da un altro lato, la parola
“processo”, se intesa in senso stretto, pare non ricomprendere la fase delle indagini
preliminari. Pertanto, si deve attribuire di volta in volta ai due termini l’accezione
che li rende coerenti con il tipo di diritto che viene riconosciuto. I diritti dell’accusato
sono: conoscenza dell’accusa, diritto di difesa, diritto a confrontarsi, diritto alla
prova, diritto all’interprete.
Conoscenza dell’accusa. La persona sottoposta alle indagini deve essere «informata
riservatamente della natura e dei motivi» dell’accusa «nel più breve tempo
possibile». Il bilanciamento tra il diritto di difesa dell’accusato e l’esigenza di
segretezza delle indagini è attuato dall’espressione nei più breve tempo possibile”,

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che ha una accezione normativa. Non significa “immediatamente”, ma piuttosto


“compatibilmente con l’esigenza di genuinità e di efficacia delle indagini”. L’avverbio
“riservatamente” è finalizzato a prevenire inammissibili divulgazioni della notizia che
possono aprire processi paralleli in televisione o sui giornali.
Diritto di difesa. L’art. 111, comma 3 prosegue riconoscendo altresì all’accusato il
diritto di disporre “del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua
difesa”. Si è sostenuto che la disposizione sembra dare impulso alle indagini
difensive ed alla previsione di termini a difesa dell’imputato. Un approccio più
restrittivo ha affermato che il termine “condizioni” allude alla necessità che gli atti
restino in cancelleria, visibili e copiabili. Inoltre, per svolgere una difesa efficace, al
difensore devono essere garantiti il tempo e le facilitazioni necessarie per assistere
efficacemente il proprio cliente.
Diritto a confrontarsi. L’imputato ha il diritto, «davanti al giudice, di interrogare o di
far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». Siamo dinanzi
all’espresso riconoscimento costituzionale del diritto a confrontarsi con l’accusatore.
Il disposto è modellato sulla Convenzione europea, salvo due aspetti. Anzitutto si
prevede che il diritto a confrontarsi debba trovare attuazione «davanti al giudice»: la
precisazione costituisce una importante garanzia per l’imputato e si ravvisa il
fondamento costituzionale del principio di immediatezza. In secondo luogo,
diversamente da quanto fa la Convenzione, la norma parla di «persone» che
rendono accuse a carico e non di testimoni, al fine di ricomprendere anche quel
dichiarante che ha la qualità di imputato connesso o collegato. Tuttavia la dottrina
maggioritaria sostiene che la prescrizione non riconosce all’imputato il diritto di
interrogare direttamente l’accusatore. Infine, la norma utilizza la locuzione «far
interrogare», senza precisare chi sia il soggetto che, in tal caso, rivolge le domande.
Cosi formulata, la disposizione è idonea a ricomprendere anche le ipotesi in cui
l’esame sia condotto dal giudice, a mezzo del quale le parti possono porre domande
al dichiarante.
Diritto alla prova. All’imputato è riconosciuto altresì il diritto di «ottenere la
convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni
dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». La prima
parte della disposizione riconosce nitidamente il diritto alla prova. Per quanto
concerne l’acquisizione di “ogni altro mezzo di prova” a discarico, un’interpretazione
ispirata al principio di ragionevolezza e di parità delle parti deve indurre a ritenere
che anche le prove richieste dall’imputato debbano superare il vaglio giudiziale di
ammissibilità.
Diritto all’interprete. L’imputato ha, infine, il diritto di farsi assistere da un
interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Tuttavia,
la più garantista convenzione reca anche l’espressione “gratuitamente”. Il termine
“processo” deve essere inteso in una accezione non tecnica e, dunque, la garanzia
deve essere estesa anche al “procedimento”, non solo al processo. Merita ricordare
che dalla direttiva 2010/64/UE sono state apportate modifiche agli artt 104 e 143
cpp per garantire all’imputato il diritto all’assistenza gratuita di un interprete ed alla
traduzione scritta di determinati atti.

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b. Il principio del contraddittorio in senso oggettivo e soggettivo. Nei commi 3 e 4


dell’art. 111 Cost, è affermato il principio del contraddittorio in senso forte, e cioè in
relazione alla formazione della prova. Si tratta di un canone che, per un verso,
richiama il diritto delle parti di contribuire a forgiare gli elementi che saranno
utilizzati dal giudice per la decisione, per un altro verso, si collega direttamente ai
modi del conoscere giudiziale, consacrando il principio dialettico come il miglior
strumento attraverso il quale pervenire all’accertamento dei fatti. La norma
costituzionale, ne coglie a volte l’aspetto oggettivo, altre volte l’aspetto soggettivo.
Il contraddittorio “oggettivo”. Il contraddittorio in senso oggettivo è affermato
all’inizio del comma 4, ove si riferisce tale principio al momento della «formazione
della prova». Si è dinanzi ad un’espressione che consacra il contraddittorio quale
metodo di conoscenza. La generalità dell’enunciato riconosce al principio del
contraddittorio un vero e proprio statuto di “metodo conoscitivo universale”, in
modo che esso, ove possibile, presiede all’assunzione di qualsiasi prova.
Il contraddittorio “soggettivo”. Il contraddittorio in senso soggettivo si delinea nel
diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore dinanzi al giudice e compare
nuovamente nel disposto dell’art. 111, comma 4, che chiude il cerchio con una
regola di esclusione: «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla
base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore». Tale
clausola, combinata con il comma 3, chiarisce come ad una determinata situazione
(sottrazione al contraddittorio da parte dell’accusatore) corrisponda una
conseguenza ben precisa (inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni rese in
segreto). In tal modo, l’art. 111, comma 4, stabilisce che la mancata garanzia del
diritto a confrontarsi trova la sua sanzione nell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese
da chi ha eluso il contraddittorio.
Le eccezioni al contraddittorio. Il comma 5 dell’art 111 prevede tre eccezioni al
principio del contraddittorio nella formazione della prova: gli elementi formatisi in
modo unilaterale possono essere utilizzati «per consenso dell’imputato o per
accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».
La previsione delle eccezioni rivela senz’altro una visione moderna del principio. Il
contraddittorio non è considerato come un fine in sé, ma come un metodo che, ove
si riveli inattuabile, non preclude l’impiego di strumenti equipollenti per perseguire
comunque il risultato accertativo

L’attuazione dei nuovi principi costituzionali.

La legge n.63 del 2001. L’entrata in vigore dei principi del “giusto processo” ha
imposto al legislatore ordinario di predisporre in tempi brevi una modifica del
sistema probatorio. Con la legge 1° marzo 2001, n. 63, il Parlamento ha cercato di
dare attuazione all’art. 111 Cost, operando essenzialmente su due fronti. Per un
verso, è intervenuto sulla disciplina delle qualifiche dei dichiaranti e ha previsto una
riduzione dell’area del diritto al silenzio. Per un altro verso, ha modificato la
normativa in materia di dichiarazioni raccolte unilateralmente nel corso delle

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indagini ed ha affermato che esse sono di regola inutilizzabili in dibattimento: la


riforma non pare in piena sintonia con l’art. 111 Cost. Vi è ancora una sorta di “zona
franca” popolata di dichiaranti che possono continuare a tacere ed a mentire
davanti al giudice anche sul fatto altrui, vanificando il diritto dell’imputato a
confrontarsi con il proprio accusatore. All’opposto, il diritto al silenzio delle persone
che rivestono la qualifica di imputato connesso non è oggetto di una piena tutela
giacché il legislatore ha consentito che esso, in alcuni casi, sia oggetto di una
rinuncia non sempre immune da pressioni e non pienamente consapevole. Infine,
sul versante relativo all’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni, la legge n. 63
ha accolto una soluzione radicale, che, in alcune ipotesi, può compromettere il fine
del processo penale, consistente nell’accertamento dei fatti. Tutto ciò induce ad
affermare che la riforma del sistema probatorio, apportata con la legge n. 63 del
2001, appare soltanto una tappa intermedia nel percorso che conduce verso una
piena attuazione del “giusto processo”.

10. Principi del giusto processo e Convenzione europea dei diritti umani.
Le prime sentenze gemelle. Il concetto di giusto processo individua un modello
processuale dotato di connotati peculiari scolpiti nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948, nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nel Patto internazionale sui
diritti civili e politici del 1966. Tale complesso di garanzie oltre a trovare riscontro
nelle norme costituzionali già esistenti e nei nuovi commi dell’art. 111 Cost., è
operativo nel nostro ordinamento in virtù dell’art. 117, comma 1 Cost., così come
interpretato dalle note sentenze “gemelle” della Corte costituzionale. Con tali
pronunce il Giudice delle leggi ha affermato che i Trattati internazionali ai quali
l’Italia ha aderito devono considerarsi quali norme interposte che, attraverso l’art.
117, comma 1 Cost., fungono da parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi,
con un rango inferiore alla Costituzione e superiore al quello della legge ordinaria.
Una posizione particolare è assunta dalla Convenzione europea dei diritti umani, che
prevede l’istituzione di un organo giurisdizionale, la Corte europea, al quale è
affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. La naturale
conseguenza dell’art. 32 comma 1 CEDU è che tra gli obblighi internazionali assunti
dall’Italia con la ratifica della Convenzione «vi è quello di adeguare la propria
legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte
specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione».
Le seconde sentenze gemelle. La compenetrazione tra le garanzie riconosciute dalla
Carta fondamentale e quelle sancite dalla Convenzione europea è stata
ulteriormente precisata dalla Corte costituzionale con le cd. “seconde sentenze
gemelle “del 2009. La consulta ha ribadito:
-l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla
Convenzione europea, così come interpretata dalla relativa Corte;
-l’obbligo che grava sui giudici comuni di dare alle norme interne un’interpretazione
conforme ai precetti convenzionali ed il dovere che, infine, incombe sulla Corte

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costituzionale di espungere dall’ordinamento quelle norme che assicurino una


tutela insufficiente rispetto a tali parametri.
Laddove la disciplina della CEDU appaia incompatibile con le norme costituzionali, i
giudici sono chiamati a sollevare questione incidentale di legittimità. E alla Consulta
spetta l’ultima parola.
Il principio di massima espansione delle garanzie. In secondo luogo, il Giudice delle
leggi ha affermato un “principio di massima espansione’’ delle garanzie. In
particolare, «il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti
fondamentali», effettuato attraverso il ricorso all’art 117 comma 1 Cost., deve
mirare «alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle
potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi
diritti». Naturalmente, deve trattarsi di un ampliamento che tenga conto del
necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti. Il problema
è che l’applicazione di tale canone consegna alla giurisprudenza le chiavi di
un’ampia discrezionalità. Sta di fatto che, attualmente, l’esegesi
“convenzionalmente orientata” rappresenta un passaggio indispensabile nell’attività
interpretativa, evitando ex ante eventuali condanne del nostro ordinamento da
parte dei giudici di Strasburgo.

Il sistema multilivello delle fonti. Oggi, si è dinanzi ad un sistema multilivello delle


fonti, nel cui ambito i giudici sono chiamati ad un difficilissimo ruolo di vera e
propria “creazione” della norma da applicare valutando le posizioni assunte dalla
Corte di Strasburgo, dalla Consulta, dal diritto vivente eventualmente già formatosi
in merito ai principi ed agli istituti coinvolti.

11. Dal sistema accusatorio totalmente dispositivo a quello parzialmente


dispositivo.
L’originalità del sistema italiano. Il codice italiano non ha abbandonato il giudice
alla mera iniziativa di parte; e cioè, non ha accolto il principio dispositivo “forte”,
secondo cui sono ammessi soltanto i mezzi di prova richiesti dalle parti.
Il sistema totalmente dispositivo. Nel sistema accusatorio puro, totalmente
dispositivo, l’accertamento del fatto storico è demandato interamente alle parti e
alla loro iniziativa processuale e probatoria; il giudice può soltanto sanzionare il
comportamento della parte e la sua iniziativa.
Il sistema parzialmente dispositivo. Viceversa, il sistema italiano è un sistema
parzialmente dispositivo. L’accertamento del fatto storico è demandato alle parti
sotto il controllo del giudice, il quale non si limita a sanzionare il comportamento
della parte ed a sindacare la sua iniziativa, bensì può supplire all’inerzia o all’errore
degli altri soggetti del processo.
Differenze rispetto al sistema accusatorio puro.
Nel sistema accusatorio puro: il contraddittorio è inteso come diritto individuale
della parte di ricercare e acquisire elementi di prova. Il contraddittorio è totalmente
disponibile. La parte è l’unica titolare del potere di chiedere l’ammissione di

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elementi e mezzi di prova; è l’unica titolare del potere di rendere utilizzabile un


elemento di prova raccolto fuori del contraddittorio.

Nel sistema attualmente vigente: contraddittorio è inteso come diritto individuale


ma anche come metodo di accertamento dei fatti. Il contraddittorio non è
totalmente disponibile dalla parte processuale. Essa non è l’unica titolare del potere
di chiedere l’ammissione di elementi e mezzi di prova; non può eliminare
arbitrariamente la dialettica. Se le parti rinunciano al contraddittorio, il giudice può
disporre che esso venga comunque attuato. Inoltre l’azione penale è obbligatoria:
quando la notizia di reato è fondata, il pubblico ministero ha l’obbligo di svolgere
indagini.

CAPITOLO II
IL METODO PROBATORIO
1. Il sillogismo giudiziario.
La logica del giudice. Il giudice, in primo luogo, accerta se l’imputato ha commesso il
fatto che gli è stato addebitato nell’imputazione; in secondo luogo interpreta la
norma incriminatrice al fine di ricavarne quale è il fatto tipico punibile; infine, valuta
se il fatto storico, che ha accertato, è “conforme” al fatto tipico previsto dalla legge.
La decisione è stata definita un “sillogismo’’: il fatto storico, ricostruito attraverso le
prove, è la premessa minore; la norma penale incriminatrice è la premessa
maggiore; la conclusione consiste nel valutare se il fatto storico rientra nella norma
incriminatrice. Questa è la “logica” che applica il giudice: essa si basa sul principio
secondo cui i fatti (accadimenti naturalistici) possono essere valutati in base a
norme (giudizi di valore).
La sentenza. La decisione pronunciata dal giudice si presenta come una
“sentenza”: essa è composta da una motivazione e da un dispositivo.
Nella motivazione: il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso
del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall’imputato (motivi “in
fatto”); quindi interpreta la legge e individua il “fatto tipico” previsto dalla norma
penale incriminatrice (motivi “in diritto”); infine valuta se il fatto storico rientra nel
fatto tipico (giudizio di conformità).
Nel dispositivo: il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto
storico commesso dall’imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma
incriminatrice, il giudice condanna; se il fatto storico non è conforme al fatto tipico,
il giudice assolve l’imputato con una delle formule previste dal codice (art. 530: il
fatto non sussiste, l’imputato non ha commesso il fatto, il fatto non costituisce
reato). Il dispositivo è la parte della sentenza in cui il giudice emette un “ordine”,
che può essere di condanna o assoluzione.

I tre momenti fondamentali della decisione del giudice:


a) L’accertamento del fatto storico. All’inizio del processo il “fatto storico
commesso dall’imputato” non è certo; l’accusa ne afferma l’esistenza; la difesa in

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tutto o in parte la nega. Il giudice ricostruisce il fatto storico usando come


strumento la ragione, spiegando i motivi sui quali fonda la sua convinzione. Perchè
l’accertamento sia “razionale”, deve avere le seguenti caratteristiche:
1) deve essere basato su prove; (“Provare” vuol dire, in sostanza, indurre nel
giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo)
2) deve essere oggettivo; questa seconda caratteristica è conseguenza della prima,
l’accertamento, perché sia “oggettivo”, non deve fondarsi sulla conoscenza privata
del giudice, bensì su elementi esterni, e cioè su prove. Il massimo grado di
oggettività si ha quando il giudice si trova in una situazione di piena terzietà, anche
di tipo psichico, rispetto alla prova.
3) deve essere fondato sui principi della logica, dell’esperienza e della scienza. Cioè
basato sui principi razionali che regolano la conoscenza. L’assunzione delle prove
deve permettere al giudice di valutare la credibilità della fonte e l’attendibilità delle
dichiarazioni. Il risultato di una prova deve poi essere messo a confronto con i
risultati di altre prove: se vi è una contraddizione, questa deve essere risolta.

L’accertamento può dar luogo a due soluzioni alternative: può consistere in un


giudizio sull’esistenza di un fatto storico così come è stato descritto
nell’imputazione; oppure, in una valutazione che esclude che il fatto storico si sia
verificato nel modo ipotizzato dall’accusa. In ogni caso si tratta di un giudizio su di
un “fatto” e non sul diritto.
b) L’individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un
accertamento di tipo “giuridico”, e non di fatto, per due motivi: in primo luogo
perché ha per oggetto le disposizioni di legge; in secondo luogo perché usa il
metodo dell’interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per
ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice.
c) II giudizio di conformità. Il giudice valuta se il fatto storico, ricostruito
mediante prove, è conforme al fatto tipico previsto e sanzionato dalla norma penale
incriminatrice, quindi proscioglie o condanna. Il dispositivo esplicita la volontà
dell’organo chiamato a decidere.

2. Prova e indizio: alle origini del ragionamento inferenziale


a. I significati del termine “prova”. Il termine “prova” può avere almeno quattro
diversi significati: si può riferire alla fonte di prova, al mezzo di prova, all’elemento di
prova o al risultato probatorio.
Fonte di prova: sono fonti di prova le persone, le cose ed i luoghi che forniscono un
elemento di prova, ossia le fonti dalle quali possono essere tratte le informazioni
utili per ricostruire un fatto del passato.
Mezzo di prova: è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento di
prova, e cioè un’informazione che serve per la decisione, es una testimonianza.
Elemento di prova: è l’informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla
fonte di prova, quando ancora non è stata valutata dal giudice.
Risultato probatorio: È l’elemento di prova valutato in base ai criteri della credibilità
e della attendibilità.

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b. il ragionamento inferenziale. Un fatto si può ritenere accertato quando


l’ipotesi formulata (es. l’imputazione) corrisponde alla ricostruzione del fatto
effettuata mediante prove. Il fatto storico è avvenuto nel passato, non è ripetibile,
può essere conosciuto solo attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo del reale
o nella memoria degli uomini. Nel suo insieme la prova può essere definita come un
ragionamento che da un fatto noto (es. dichiarazione del testimone) ricava
l’esistenza di un fatto che è avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento
occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica il ragionamento
probatorio viene definito “inferenziale”. Nel processo penale il fatto da provare
(thema probandum) è precisato nell’art. 187, co1. È oggetto di prova, in primo
luogo, il fatto descritto nell’imputazione, e cioè il fatto storico addebitato
all’imputato. Sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la
sanzione penale e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. In
caso di costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla
responsabilità civile derivante da reato (es., quantificazione del danno).
Si fa una distinzione tra prova rappresentativa ed indizio.
c. La prova rappresentativa. Con il termine “prova rappresentativa” si fa
riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione,
l’esistenza del fatto da provare. Ad esempio, Tizio riferisce di aver visto Caio sparare.
Il fatto noto è la dichiarazione di Tizio, che narra quanto ha visto. Il fatto storico è
ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perché è rappresentato dalle parole
pronunciate dal testimone; naturalmente, il giudice deve valutare l’affidabilità della
fonte e l’attendibilità della rappresentazione prima di decidere se e quale “risultato
probatorio” se ne possa ricavare. Nel sistema accusatorio ciò è reso possibile, di
regola, attraverso lo strumento dell’esame incrociato (domande, risposte e
contestazioni). Da un lato, si tratta di accertare quanto il dichiarante è sincero;
quanto è stato attento allo svolgimento del fatto; quanto è in grado di comprendere
il significato degli elementi che riferisce; se ha precedenti penali. Tutto ciò è
ricompreso nel giudizio di credibilità della fonte. Da un altro lato, si tratta di
valutare quanto la rappresentazione effettuata dalla fonte è idonea a descrivere il
fatto avvenuto. Ad esempio, il dichiarante aveva gli occhiali? Era in grado di vedere
determinati dettagli del fatto? Tutto ciò si esprime con un giudizio di attendibilità
della rappresentazione. Frutto delle due operazioni è il “risultato probatorio”. Il
giudice, accertato il grado di credibilità della fonte ed il grado di attendibilità della
rappresentazione, valuta in che misura la rappresentazione fornita è accettabile
razionalmente; di ciò deve dare atto nella motivazione ex art. 192 comma 1,
precisando i risultati acquisiti e i criteri adottati.
d. La prova indiziaria. Con il termine “indizio” (definito anche prova critica) si fa
riferimento a quel ragionamento che, viceversa, da un fatto provato (cd circostanza
indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare (ad es. il fatto
addebitato all’imputato). Il collegamento tra la circostanza indiziante ed il fatto da
provare è costituito da un’inferenza basata su di una massima di esperienza o su di
una legge scientifica. L’oggetto da provare può essere sia il fatto storico che è
addebitato all’imputato (e che è denominato fatto principale), sia un’altra

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circostanza indiziante, che viene denominata fatto secondario e dalla quale, con una
ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale.
Ad es.: un testimone dice di aver visto un uomo uscire di corsa dalla porta di una
abitazione ad una determinata ora. La polizia trova nell’abitazione una donna, tale
Sempronia, che risulta morta mezz’ora prima del fatto descritto dal testimone.
Sentito il testimone, questi identifica in Caio la persona che aveva visto uscire
dall’abitazione. Caio, interrogato dalla polizia, si avvale della facoltà di non
rispondere, pur essendo amico della vittima. Accertati questi fatti, si prova a
formulare regole di esperienza ricavandole da casi simili al fatto provato (circostanza
indiziante). Alle circostanze emerse si possono applicare due massime di esperienza
opposte. In base ad una prima massima, colui che esce dall’abitazione dell’amica,
senza recarsi subito a chiedere soccorsi o denunciare il fatto alla pubblica autorità, è
autore dell’omicidio. In base ad una seconda massima, colui che esce dall’abitazione
dell’amica, senza … (come prima)… è cosi spaventato dal delitto, che ha scoperto, da
non riuscire ad agire razionalmente. La circostanza indiziante non permette di
ritenere in modo univoco la responsabilità di Caio. Può accadere che
nell’appartamento la polizia trovi un’impronta digitale sul coltello insanguinato e la
confronti con quella presa da Caio. In base ad una legge scientifica, se in due
impronte si riscontrano diciassette punti simili e sono assenti difformità, esse
appartengono alla medesima persona. Confrontate le impronte, un consulente
tecnico riscontra diciotto punti, simili; pertanto si ricava la prova di un’ulteriore
circostanza indiziante: Caio ha impugnato l’arma del delitto. A sua volta, a questo
fatto è applicabile una regola di esperienza che ci consente di affermare che, molto
probabilmente, Caio ha ucciso Sempronia con quel coltello. Viene poi trovata, sul
vestito che indossava Caio in quella occasione, una macchia di sangue di Sempronia.
Caio afferma di essere da tempo legato sentimentalmente a Sempronia, di essere
entrato in casa di lei con una chiave in suo possesso, di averla trovata distesa per
terra, di averla toccata, di aver compreso che era morta, di aver maneggiato il
coltello e di essere poi uscito sconvolto. A questo punto, vi sono indizi gravi sulla
responsabilità di Caio soltanto se si riesce a dimostrare che la versione resa non è
attendibile. Potrebbe esservi il testimone Mario che afferma che Caio aveva litigato
il giorno prima con Sempronia per motivi di gelosia. Ma, anche al caso in esame si
possono applicare due massime di esperienza diverse. Si può ritenere che la gelosia
è tale da costituire un valido movente per l’uccisione, oppure si può ritenere che la
gelosia non è un sentimento così forte da indurre una persona a compiere un atto
sconsiderato. Il giudice dovrà scegliere, in base alle risultanze del caso concreto,
quale delle due massime di esperienza deve essere applicata. Ad es. si deve porre il
problema se Caio era una persona violenta. Il fatto storico può essere accertato
anche sulla base di circostanze indizianti ulteriori che, pur non essendo legate al
fatto stesso da una relazione causa-effetto, confermano la possibilità di attribuirlo
all’imputato. Ad es. può risultare che l’omicida aveva capelli rossi, o che possedeva
scarpe sportive di una determinata marca. Se Caio presenta requisiti e dettagli, è
evidente che le circostanze indizianti a suo carico si rafforzano ulteriormente. Esse

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devono essere tali da permettere, collegandosi fra di loro, di escludere una


differente ricostruzione del fatto.
e. La massima di esperienza. La massima di esperienza è una regola di
comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi (id
quod plerumque accidit); essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto
noto (circostanza indiziante). L’esperienza può permettere di formulare un giudizio
di relazione tra fatti. Si ragiona in base al principio: “in casi simili, vi è un identico
comportamento”. Questo ragionamento permette di accertare l’esistenza di un
fatto storico ovviamente non con certezza, ma con una probabilità più o meno
ampia. La massima di esperienza è una “regola”, e cioè non appartiene al mondo dei
fatti, tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia
disponibile una valida prova rappresentativa.
Ad ogni modo la prova rappresentativa e l’indizio differiscono non per l’oggetto da
provare, bensì per la struttura del procedimento logico. Occorre che il giurista abbia
ben chiari gli aspetti di opinabilità del ragionamento indiziario. Il primo aspetto sta
nello stabilire, tra più fatti storici umani non ripetibili, quali sono gli elementi “simili”
e se tali elementi prevalgono, o meno, sugli elementi “dissimili”. Il secondo aspetto
di opinabilità sta nel fatto che non è detto che l’agire di un singolo uomo rispecchi
sempre le regole formulate.
Il metodo di elaborazione della regola di esperienza. Il giudice applica un
ragionamento di tipo induttivo (dal particolare al generale) quando esamina casi
simili alla circostanza indiziante e formula una regola di esperienza; e cioè, da casi
particolari ricava l’esistenza di una regola generale.
Successivamente egli svolge un ragionamento deduttivo (dal generale al
particolare), e cioè applica alla circostanza indiziante la regola generale che ha
ricavato in precedenza. Dunque il punto veramente cruciale del ragionamento
probatorio è la scelta della massima di esperienza. È importante precisare che il
giudice deve formulare le regole in base alla “migliore esperienza” e non in base a
scelte personali arbitrarie o all’opinione dell’uomo medio. La bontà del
ragionamento del giudice emerge dalla motivazione della sentenza (ex art 192) nella
quale si deve dare conto dei risultati acquisiti e dei «criteri» adottati.
Caratteristiche delle massime di esperienza. (a differenza delle leggi scientifiche) Le
regole di esperienza sembrano essere carenti dei caratteri della legge scientifica,
ovvero, non sono sperimentabili in quanto il reato è un fatto umano che per sua
natura non è ripetibile; né di regola è misurabile quantitativamente. Non sono
controllabili perché non ci sono tecnici del diritto in grado di seguire il nascere di
una regola di esperienza ed il suo livello di generalità. Non sono generali perché le
regole del comportamento umano ammettono eccezioni. Tuttavia occorre che la
regola di esperienza sia costruita con un metodo corretto, che si avvicini il più
possibile a quello scientifico: è necessario stare attenti a non scambiare per massima
di esperienza quello che a volte non è altro se non un pregiudizio comune.
f. La legge scientifica. In materie che richiedono specifiche competenze
tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice deve affidarsi a persone che hanno
conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina (art 220). Costoro

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potranno valutare quale legge della natura è applicabile ad un determinato fatto, al


fine di individuarne le cause. Da un lato, la legge scientifica dà maggiore certezza,
poiché è possibile conoscere esattamente in quanti ed in quali casi risulta
attendibile. Da un altro lato, restano margini di opinabilità, poiché si tratta di: a)
scegliere la legge scientifica che deve essere applicata al caso di specie; b) valutare
in quale modo deve essere applicata; c) individuare i fatti ai quali applicarla. Si
tratta, cioè, di interpretare correttamente un fenomeno e di considerare gli altri casi
e condizioni in cui sì è verificato, in modo da valutare quale è la probabilità che un
determinato fatto lo abbia causato.
Caratteristiche delle leggi scientifiche. Premesso che per leggi scientifiche si
intendono quelle leggi che esprimono una relazione certa o statisticamente
significativa tra due fatti della natura, e hanno le caratteristiche della generalità,
della sperimentabilità e della controllabilità. Sono sperimentabili perché il fenomeno
scientifico deve essere riconducibile ad esperimenti misurabili quantitativamente: gli
esperimenti sono ripetibili. In linea di tendenza, le leggi scientifiche sono generali in
quanto non ammettono eccezioni o, comunque, il margine di errore è esattamente
conosciuto. Se si verificano eccezioni alla legge scientifica, questa viene modificata o
abbandonata. Infine sono controllabili perché la loro formulazione è sottoposta alla
comunità degli esperti.
g. La regola giuridica di valutazione degli indizi. L’indizio è idoneo ad accertare
l’esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che
escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il principio è formulato nell’art.
192, comma 2: «l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che
questi siano gravi, precisi e concordanti». Si ricava, in primo luogo, che un solo
indizio non è mai sufficiente. La gravità degli indizi attiene al grado di
convincimento: è “grave” l’indizio che è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha
una elevata persuasività.
Gli indizi sono precisi quando la “circostanza indiziante” è stata ampiamente
provata; ad es. è indizio preciso la coincidenza tra profili genetici risultante
dall’esame del DNA.
Infine, gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima
conclusione. Non debbono esservi elementi contrastanti; se questi residuano,
occorre poter escludere ogni altra ricostruzione prospettabile. Occorre escludere
tutte le alternative, spiegando nella motivazione della sentenza perché appaiono
improbabili, in modo da ritenere il fatto provato “oltre ogni ragionevole dubbio” (art
533).
Se viene accertato il probabile movente della condotta, questo costituisce il
“cemento” che consolida il quadro indiziario. NB: gli indizi devono essere gravi,
precisi e concordanti soltanto quando tendono a dimostrare l’esistenza di un fatto.
L’alibi. Se, viceversa, l’oggetto della prova è un fatto incompatibile con la
ricostruzione del fatto storico, operata nell’imputazione, allora è sufficiente anche
un solo indizio. Ci si riferisce all’alibi, e cioè a quel ragionamento attraverso il quale
si evince che l’imputato non poteva essere a quell’ora sul luogo del delitto perché
nel medesimo momento si trovava altrove. La massima di esperienza che si applica

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consiste nella regola in base alla quale la stessa persona non può trovarsi
contemporaneamente in due luoghi differenti. In tal caso, può avvenire che un solo
indizio sia idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come
lo ha ricostruito il pubblico ministero. Naturalmente l’elemento di prova sul quale si
basa l’alibi, come ogni altro elemento di prova, deve essere sottoposto al vaglio di
attendibilità da parte del giudice. L’alibi consiste in una prova critica “negativa” nel
senso che mira a dimostrare l’inesistenza dei fatti affermati dall’accusa.
h. Le leggi scientifiche probabilistiche. Fino a questo momento abbiamo
accennato alle leggi scientifiche cd universali, e cioè a quelle leggi che hanno un
elevato grado di predizione; si tratta, ad es, delle leggi della fisica o della chimica.
Ma dobbiamo dare atto che nel processo penale sono utilizzate anche le leggi
probabilistiche, che cioè hanno un grado di predizione non elevato. Si tratta, ad es,
delle leggi della scienza medica. Vi è una disciplina scientifica che merita una
apposita menzione. La dattiloscopia si basa sull’osservazione empirica secondo la
quale non si riscontrano due individui che abbiano le medesime impronte digitali.
Quando si devono mettere a confronto impronte che denotano un numero minore
di 17 punti simili, la probabilità di esattezza nella identificazione decresce, ma può
restare comunque alta quando una delle minuzie è raramente riscontrabile.
Probabilità statistica e probabilità logica. Non vi è nessuna autorità scientifica che
può determinare in astratto quale è il livello sufficiente di probabilità che serve per
risolvere un caso concreto. La probabilità statistica non deve confondersi con la
probabilità logica. Si tratta del giudizio circa l’idoneità di una o più leggi scientifiche
a spiegare il singolo caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice. La
probabilità logica, denominata anche “certezza processuale al di là del ragionevole
dubbio”, è apprezzata dal giudice sulla base degli elementi di prova raccolti in un
determinato processo. La legge scientifica da sola non basta. La probabilità logica è
un concetto che viene in rilievo non soltanto quando si tratta di leggi scientifiche.
Essa esprime uno standard probatorio costante nel processo penale, che discende
dalla presunzione di innocenza e che consiste nella certezza processuale ai di là del
ragionevole dubbio. Pertanto, anche qualora la prova si basi su massime di
esperienza, per condannare occorre una forte probabilità logica.
Il ragionamento del giudice. Quindi il procedimento logico seguito dal giudice è: al
fatto noto è applicata una massima di esperienza (o una legge scientifica). Il
procedimento è di tipo induttivo. Se sono ricavate due regole aventi differenti
probabilità di validità, il giudice deve scegliere quella che si adatta meglio al caso
concreto. Individuata la regola di esperienza (o la legge scientifica), il giudice la
applica al fatto noto: si tratta di un ragionamento di tipo deduttivo. IMPORTANTE è
che: a) il fatto da provare costituisce l’antecedente causale del fatto noto; b) siamo
in presenza di un ragionamento probabilistico e, pertanto, il nesso causale tra i due
fatti è soltanto probabile. Quello delineato non è un giudizio di certezza assoluta,
bensì di probabilità logica, che esprime una certezza relativa alle prove raccolte.

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i. Le critiche al sillogismo giudiziario e all’inferenza probatoria. Quando gli


illuministi hanno proposto di applicare al diritto lo strumento del “sillogismo
giudiziario”, ben illustrato da Cesare Beccaria, essi pretendevano che il giudice fosse
soltanto la “bocca della legge”; necessariamente neutrale nel decidere. Gli studi
successivi hanno dimostrato che le premesse poste dagli illuministi non erano
completamente accettabili. In primo luogo, i testi di legge sempre più spesso
utilizzano termini “elastici”, che lasciano margini di indeterminatezza e che devono
essere interpretati. Nel fare ciò il giudice è guidato da scelte di valore che variano
nel tempo. In secondo luogo, nell’accertare un fatto storico, e cioè nell’applicare il
ragionamento inferenziale, non si usa soltanto la deduzione, ma anche l’induzione
(mediante le massime di esperienza o le leggi scientifiche). In terzo luogo,
l’elemento di prova può essere raccolto nel procedimento penale in modo più o
meno controllato. Esso può essere assunto dal giudice nel pieno del contraddittorio
tra le parti, e cioè con l’esame incrociato; oppure può essere raccolto in modo
unilaterale da una parte, con forti pericoli di manipolazione della fonte.
L’orientamento irrazionalistico si basa sulle queste tre constatazioni, secondo le
quali l’interpretazione della legge non è univoca, l’accertamento del fatto storico è
opinabile e l’attendibilità del risultato probatorio dipende dal grado di tutela del
contraddittorio. Da ciò si fa scaturire la conclusione che la verità oggettiva non è mai
raggiungibile nel processo e che un risultato vale l’altro. Di conseguenza, il processo
serve soltanto a “comporre una lite” e non ad accertare la verità. A questa visione
pessimistica si sono rivolte varie obiezioni. La Giustizia deve pur essere amministrata
e vi è la necessità di un giudice imparziale. Del resto, specchio fedele del
ragionamento giudiziale è la motivazione, che risulta aggredibile e controllabile con
lo strumento dell’impugnazione. In conclusione, anche dando atto dei limiti che
sono connaturati al sillogismo giudiziario ed al ragionamento inferenziale e pur
avendo presente che con il metodo induttivo non si potrà raggiungere la certezza,
ma soltanto una probabilità, lo strumento proposto da Cesare Beccaria resta ancora
valido.
3. Il procedimento probatorio ed il diritto alla prova.
a. Il principio di legalità processuale in materia probatoria. Il procedimento
probatorio è caratterizzato dai momenti della ricerca, dell’ammissione,
dell’assunzione e della valutazione della prova. In un sistema di tipo accusatorio
spetta alle parti il potere di ricercare le fonti e di chiedere al giudice l’ammissione
del relativo mezzo di prova. Alle parti spetta unicamente il potere di ricerca e di
domanda. Al giudice spetta il potere di decidere l’ammissione e di emettere una
valutazione sulle prove. I poteri esercitabili dalle parti e dal giudice sono regolati
dalla legge, al fine di evitare abusi. In tal senso si può dire che esiste un vero e
proprio principio di “legalità processuale in materia probatoria”. II “diritto alla
prova” è una espressione di sintesi che comprende il potere, spettante a ciascuna
delle parti, di:
a) ricercare le fonti di prova;
b) chiedere l’ammissione del relativo mezzo;
c) partecipare alla sua assunzione;

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d) ottenere una valutazione del risultato al momento delle conclusioni;


e) controllare se la valutazione operata dal giudice è logica e si basa sulle prove
raccolte nel processo.
b. La ricerca della prova. La ricerca delle fonti di prova spetta esclusivamente
alle parti; in primo luogo al pubblico ministero, sul quale incombe l’onere della
prova, cioè l’onere di convincere il giudice della reità dell’imputato.
Successivamente, al fine di confutare le tesi dell’accusa, spetta all’imputato l’onere
di ricercare sia quelle prove che possano convincere il giudice della non credibilità
della fonte o della inattendibilità degli elementi di “prova” a carico, sia quelle
tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente. Per poter funzionare, il
nostro sistema (prevalentemente accusatorio) deve permettere alle parti di
ricercare le prove, poiché nessuno, meglio della parte, è in grado di comprendere
quali siano gli elementi idonei a convincere il giudice.
c. L’ammissione della prova. L’ammissione del mezzo di prova deve essere
chiesta al giudice dalle parti che hanno l’onere di introdurre il singolo mezzo di
prova e lo adempiono chiedendo, ad es. l’esame di un testimone o l’acquisizione di
un documento. Il giudice ammette la prova in base a quattro criteri ex art. 190,
comma1: (criteri della prova)
-la prova deve essere pertinente, ovvero deve riguardare l’esistenza del fatto storico
enunciato nell’imputazione o
di uno dei fatti indicati nell’art. 187 (ad es la credibilità di un testimone).
-La prova non deve essere vietata dalla legge (es il divieto di perizia criminologica ex
art 220,co2).
-Inoltre, la prova non deve essere superflua, sovrabbondante.
-Infine, la prova deve essere rilevante, e cioè utile per l’accertamento. Non occorre
che la “rilevanza” o la “non superfluità” siano certe, è infatti sufficiente il dubbio,
ossia la non manifesta irrilevanza o superfluità e nel dubbio la richiesta deve essere
accolta. Dunque, il diritto alla prova implica un limite al potere discrezionale
esercitabile dal giudice nel respingere la richiesta di ammissione di un mezzo di
prova.
Il provvedimento di ammissione. Inoltre il giudice è vincolato anche in un aspetto di
carattere “procedimentale”: deve provvedere sulla richiesta di ammissione «senza
ritardo con ordinanza» (art. 190, comma 1), significa che egli deve motivare
l’eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter
riservarsi di decidere successivamente sull’ammissione.
Il diritto alla prova contraria. Il codice prevede espressamente il “diritto alla prova
contraria”. Ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall’accusa, l’imputato
ha diritto all’ammissione delle «prove indicate a discarico sui fatti costituenti
oggetto delle prove a carico» (art. 495, comma 2). Il medesimo diritto spetta al
pubblico ministero. La dimostrazione contraria può essere data anche con un mezzo
di prova differente. La prova “contraria” ha per oggetto gli stessi fatti che
costituiscono oggetto della “prova principale”. Il diritto alla prova contraria è
riconosciuto anche nella Costituzione. L’art. 111, comma 3 Cost, infatti, con
riferimento al solo imputato, proclama il diritto di «ottenere la convocazione e

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l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e


l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». Ad ogni modo, anche
queste devono però superare il vaglio giudiziale di ammissibilità.
d. Limiti al diritto della prova (art. 190-bis). Il diritto ad ottenere l’ammissione
della prova di tipo dichiarativo è stato limitato qualora vi siano imputazioni per
delitti di criminalità organizzata, alcuni reati in materia di violenza sessuale e di
pedofilia. Se la persona, che una parte vuole sentire in dibattimento, ha, infatti, già
reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio (o le sue dichiarazioni provenienti
da altro procedimento sono state acquisite in base all’art. 238), l’esame è ammesso
soltanto in due casi:
1) se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti
dichiarazioni;
2) se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche
esigenze.
e. L’ammissione di prove d’ufficio. Il giudice, di regola, ha soltanto il potere di
decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti. Egli di
regola non può introdurre un mezzo di prova d’ufficio. Ai sensi dell’art 190, comma
2 è la legge a stabilire i casi eccezionali in cui le prove sono ammesse d’ufficio. Il
giudice ha un potere di supplenza dell’inerzia delle parti, tale potere è giustificato
dal fatto che l’esito dell’accertamento in un processo penale incide sulla libertà
personale che è un bene indisponibile della persona umana e che è dichiarato
inviolabile dalla Costituzione (art. 13). Pertanto, il potere esercitabile dal giudice
d’ufficio serve ad evitare che, attraverso un accertamento abbandonato alle parti,
sia reso disponibile un diritto inviolabile.
f. L’assunzione della prova. L’assunzione della prova avviene, se si tratta di
dichiarazioni rese in dibattimento, con il metodo dell’esame incrociato. Il codice
prevede quali fra le domande da porre al dichiarante sono inammissibili; spetta al
giudice il potere di vietarle (art. 499).
L’esame incrociato. L’esame incrociato è comunemente ritenuto il miglior
strumento che permette di valutare se il dichiarante risponde secondo verità.
Consente, infatti, di smascherare la persona che dice il falso in modo intenzionale o
inconsciamente. In particolare, nel controesame la parte può porre domande-
suggerimento per saggiare l’attendibilità della dichiarazione. Si ritiene credibile quel
dichiarante che sa resistere alle “provocazioni” che gli sono poste attraverso le
domande e le contestazioni. La persona esaminata è sottoposta ad una sorta di
“tortura” civile. Se al giudice fosse affidato il compito istituzionale di porre le
domande egli, anche senza volere, finirebbe per scegliere un’ipotesi ricostruttiva dei
fatti; si metterebbe allora in moto un meccanismo psichico in base al quale
l’interrogante cercherebbe soltanto conferme alla tesi che ha accettato. Per questi
motivi il codice attribuisce al presidente il potere di porre domande soltanto dopo
che le parti hanno concluso l’esame incrociato (art. 506, comma 2); successivamente
alle domande poste dal giudice, le parti possono riprendere l’esame.

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Un generale divieto probatorio, che concerne le modalità di assunzione della prova


dichiarativa, è previsto dall’art. 188: «non possono essere utilizzati, neppure con il
consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà
di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti».
Analogo divieto dell’art. 64, comma 2 per l’interrogatorio dell’indagato.
La “acquisizione” della prova. Inoltre, il termine acquisizione, riferito alla prova, è
utilizzato dal codice in almeno due significati: -in senso stretto, il termine
acquisizione indica l’ammissione della prova “precostituita” e cioè formata fuori del
procedimento o prima del dibattimento;
-in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione e l’assunzione
della prova “non precostituita” quale è la dichiarazione.
g. La valutazione della prova. Le parti hanno il diritto di offrire al giudice la
propria valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di “argomentare”
sulla base dei risultati che siano stati acquisiti. In dibattimento ciò avviene al
momento della discussione finale (art. 523):
le parti, quindi, illustrano le proprie conclusioni in un ordine che rispetta le cadenze
dell’onere della prova, quindi, al pubblico ministero seguono i difensori
dell’eventuale parte civile e dell’imputato. Al diritto delle parti corrisponde il dovere
del giudice di dare una valutazione logica dell’elemento di prova raccolto in base
all’art. 192, comma 1: egli valuta la prova dando conto delle regole di esperienza e
leggi scientifiche che ha utilizzato; inoltre il giudice deve indicare le prove poste a
base della decisione e le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie
(art. 546 comma 1).
L’obbligo di motivazione si ritrova anche nell’art. 111 co.6 Cost.
Il libero convincimento. Il giudice è “libero” di convincersi e, al tempo stesso, è
“obbligato” a motivare razionalmente in relazione alla attendibilità degli elementi di
prova ed alla credibilità delle fonti, nonché in merito alla idoneità di una massima di
esperienza o di una legge scientifica a sostenere l’inferenza sulla quale si basano le
ricostruzioni dell’accusa o della difesa. Nel nostro ordinamento, infatti, il principio
del “libero convincimento” non consiste in un potere decisorio senza limiti. Tale
principio deve passare attraverso le norme giuridiche che disciplinano la valutazione
delle prove (art. 192) e la motivazione della sentenza (art. 546, comma 1, lett. e). Il
convincimento del giudice deve essere conforme ai canoni della logica ed aderente
alle risultanze processuali. Le parti possono impugnare la motivazione carente di
questi requisiti.

Nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste
l’istituto della prova legale. Nel processo civile si ha prova legale in tutte quelle
ipotesi nelle quali la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella
valutazione di un determinato elemento di prova (ad es. la confessione: ovvero la
confessione resa in giudizio «forma piena prova contro colui che l’ha fatta, purché
converta su fatti relativi a diritti non disponibili». Viceversa, nel processo penale la

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confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non
attendibile).

4. L’onere della prova.


a. La presunzione di innocenza. L’art 27, comma 2 Cost, afferma che «l’imputato
non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». L’Assemblea costituente
con tale formula ha voluto soddisfare insieme due esigenze: da un lato, quella di
prevedere la custodia cautelare prima della sentenza irrevocabile; dall’altro,
l’esigenza di affermare la presunzione di innocenza. Tuttavia la dottrina usa
l’espressione: «presunzione di non colpevolezza», che ha una palese connotazione
negativa. II problema dell’interpretazione deriva dal fatto che in un’unica formula si
sono volute combinare una regola di trattamento ed una regola probatoria:
-la regola di trattamento vuole che l’imputato non sia assimilato al colpevole sino al
momento della condanna definitiva; e cioè impone il divieto di anticipare la pena,
mentre consente l’applicazione di misure cautelari.
-la regola probatoria impone che l’imputato sia presunto innocente.
Pertanto, l’onere della prova ricade sulla parte che sostiene la reità dell’imputato.

La regola probatoria è meglio precisata nell’art. 6, comma 2 della Convenzione


europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «ogni persona accusata di un reato è
presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente
accertata». Dato che la Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007
ha sancito che il giudice italiano deve interpretare la norma nazionale in aderenza al
dettato della Convenzione europea, la disposizione costituzionale di cui all’art. 27
cessa di essere ambigua ed afferma il principio della presunzione d’innocenza
dell’imputato. La presunzione d’innocenza è una presunzione legale relativa, e cioè
valida finché non sia stato dimostrato il contrario, pertanto l’onere della prova
ricade sul pm che formula un addebito prima provvisorio (art 65) e poi definitivo
(art. 405). L’onere della prova può essere inteso in due significati distinti: l’onere
della prova in senso sostanziale impone alla parte di convincere il giudice
dell’esistenza del fatto affermato; l’onere in senso formale impone alla parte di
chiedere al giudice l’ammissione della prova utile per adempiere all’onere
sostanziale.
b. L’onere sostanziale della prova. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve
provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Ciò costituisce un “onere” in
senso sostanziale per la parte, perché l’inosservanza dello stesso comporta la
situazione svantaggiosa del rigetto della domanda da parte del giudice. L’aver
soddisfatto l’onere comporta l’accoglimento della domanda. L’onere della prova
costituisce una regola probatoria, nel senso che individua la parte sulla quale
ricadono le conseguenze del non aver convinto il giudice dell’esistenza del fatto
affermato. Dopo che il pm ha assolto al suo onere, tocca all’imputato l’onere della
prova contraria. L’imputato può anche provare direttamente che egli non ha tenuto
la condotta asserita dall’accusa o che un evento non è avvenuto. Si tratta della cd
prova negativa, che tende a dimostrare la fondatezza dell’affermazione che nega

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l’esistenza di un fatto. La prova negativa è la più difficile da fornire; è più semplice


dimostrare l’esistenza di un fatto, verificatosi nel mondo delle cose, che non
l’inesistenza di un fatto, un es. può essere l’alibi.
c. L’onere formale della prova. Per poter convincere il giudice della esistenza
del fatto affermato, l’elemento di prova deve essere introdotto nel processo; e ciò si
fa attraverso un mezzo di prova. Le parti hanno l’onere di ricercare le fonti e di
introdurre nel processo i mezzi di prova. Si tratta di un onere c.d. “formale”. L’onere
formale di introdurre la prova è previsto nell’art. 190, comma 1, secondo cui «le
prove sono ammesse a richiesta di parte». L’onere di introdurre la prova attribuisce
alle parti il compito:
a) di ricercare le fonti di prova;
b) di valutare la necessità del mezzo di prova al fine di ottenere il risultato
vantaggioso;
c) di chiedere al giudice l’ammissione del mezzo di prova.
La necessità che la prova sia introdotta a richiesta di parte è espressa con la
locuzione “principio dispositivo in materia probatoria”, fatte salve le eccezioni
dell’art 190, ossia delle prove ammesse d’ufficio.

L’aver soddisfatto l’onere di introdurre la prova (in senso formale) non comporta
automaticamente l’aver soddisfatto l’onere della prova in senso sostanziale. Una
parte soddisfa l’onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il
giudice dell’esistenza del fatto storico da essa affermato. A sua volta, la mancata
osservanza dell’onere di introdurre un determinato mezzo di prova (onere formale)
non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda, perché un’altra parte del
processo potrebbe chiedere l’ammissione di quel determinato mezzo di prova.
Acquisito l’elemento di prova, il giudice deve valutare se esso è idoneo a dimostrare
l’esistenza di un fatto oggetto di prova; e ciò a prescindere dalla circostanza che sia
stato introdotto o meno dalla parte che aveva l’onere sostanziale della prova di quel
determinato fatto. Si tratta del c.d. principio di acquisizione della prova.
I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio. I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio
costituiscono un’eccezione al potere dispositivo delle parti sulla prova; in altri
termini, toccano l’onere della prova in senso formale, inteso come onere di
introdurre il mezzo di prova nel processo, ma non incidono sull’onere sostanziale.
Ad ogni modo l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir
meno l’onere del pm di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo
per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti (2006 sentenza Greco).

Attengono al tema dell’onere della prova i concetti, di fatto notorio e di fatto


pacifico. II fatto notorio è un fatto di pubblica conoscenza in un determinato ambito
territoriale, ad es. un terremoto, uno sciopero ecc. L’esistenza di un simile fatto è
conosciuta dal giudice senza la necessità che le parti chiedano l’ammissione di un
determinato mezzo di prova: notoria non egent probatione. Occorre naturalmente
che il fatto sia indubitabile ed incontestabile. Il fatto pacifico è un fatto di

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conoscenza non pubblica; esso è affermato da una parte ed è ammesso


esplicitamente o implicitamente dalla controparte, ad es. la difesa non contesta che
un testimone abbia detto una determinata frase. Il fatto pacifico non ha bisogno di
essere provato: il giudice può direttamente utilizzarlo come “elemento di prova” per
la sua decisione.

5. Al di là del ragionevole dubbio.


a. il quantum della prova. La quantità di prova necessaria a convincere il giudice (c.d.
standard probatorio) è diversa nel processo civile ed in quello penale
Processo civile. Il quantum è uguale per attore e convenuto. Lo standard probatorio
viene di solito indicato con la regola del “più probabile che no” e tale principio vale
tanto per l’attore quanto per il convenuto. Ciò trova la sua giustificazione nella
sostanziale equivalenza dei diritti sui quali si controverte nel processo civile.
Processo penale. Colui che accusa ha l’onere di provare la reità dell’imputato in modo
da eliminare ogni ragionevole dubbio. Tale standard probatorio è rimasto a lungo
privo di espressa previsione nel codice di procedura penale. Fino al 2006 l’art. 530
comma 2 si limitava a stabilire che il giudice doveva pronunciare sentenza di
assoluzione quando era «insufficiente» o «contraddittoria» la prova che il fatto
sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è
stato commesso da persona imputabile. Tuttavia, nessuna norma espressa prevedeva
il parametro in base al quale valutare l’insufficienza o la contraddittorietà della prova
d’accusa.
Ma con la legge n. 46 del 2006 il Parlamento ha modificato l’art. 533, comma 1
stabilendo che il giudice pronuncia sentenza di condanna quando l’imputato «risulta
colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». L’applicazione
dello standard probatorio del ragionevole dubbio non è più rimessa alla prudentia del
giudice, bensì costituisce un imperativo legale. Il nostro Paese è uno dei pochi
ordinamenti al mondo a possedere una tale enunciazione a livello di diritto positivo.
La differenza rispetto agli Stati Uniti. La locuzione “ragionevole dubbio” richiama il
sistema nordamericano che dagli anni Settanta dello scorso secolo è la culla del
principio: beyond any reasonable doubt, (bard). Tuttavia, occorre tenere presente la
peculiarità che connota il modello statunitense, ove di regola giudice del fatto è la
giuria, che decide con verdetto immotivato. La dottrina italiana sostiene che tale
peculiarità si ripercuote sui contenuti dello standard probatorio, cioè il dubbio non
deve dunque attraversare la griglia logica della spiegazione che passa dall’esame
delle prove e dalla esternazione dei passaggi di tale valutazione. In Italia, la riforma
legislativa si deve alle Sezioni unite penali della Cassazione, con la sentenza Franzese
del 2002, che con un potente richiamo al principio del ragionevole dubbio ha
sensibilizzato sempre più gli operatori rispetto alla tutela della presunzione di
innocenza.
b. La probabilità logica. La ricordata sentenza delle Sezioni unite ha richiamato il
concetto di probabilità logica quale canone fondamentale della epistemologia
giudiziaria. Ad avviso del Supremo Collegio per poter affermare la reità
dell’imputato occorre che le risultanze probatorie determinino una certezza

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processuale oltre ogni ragionevole dubbio in merito alla fondatezza della


ricostruzione dell’accusa. Il giudizio probabilistico si forma nel contesto
processuale muovendo dalle prove attraverso un ragionamento di tipo
inferenziale-induttivo.
Ragionevole dubbio e motivazione. Oggetto di discussione è il significato di
ragionevole dubbio. Invero, l’aggettivo ragionevole, significa “fornito di ragioni”,
“comprensibile da una persona razionale” e fa riferimento all’esistenza di
parametri di misurazione. Tale termine conferisce oggettività al dubbio che,
dunque, appare ragionevole e può essere esternato attraverso una motivazione
corretta nella forma e nella sostanza. Non deve trattarsi di un dubbio meramente
psicologico, possibile o congetturale, percepito soggettivamente dal giudice. Deve
essere un dubbio motivabile. È illogica quella sentenza di condanna che non elimini
il dubbio ragionevole e, viceversa, è illogica quella sentenza di assoluzione che si
basa su di una controipotesi non ragionevole sostenuta dalla difesa.

Il canone del ragionevole dubbio, non è mai intuizionismo del giudice. Il giudice
valuta liberamente le prove ma se esse lasciano residuare un dubbio in grado di
convincere una persona razionale egli è obbligato a prosciogliere. Tra intimo
convincimento e ragionevole dubbio la barriera è data da quello che la dottrina
definisce «modello normativo della motivazione in fatto» che rende uniforme il
criterio valutativo dei giudici, in conformità al principio di legalità, di uguaglianza e
di ragionevolezza.

Accezione dinamica e qualitativa. Ove sia colto in una accezione dinamica e


qualitativa il canone del ragionevole dubbio si manifesta non tanto come una soglia
probatoria, bensì come un “modo di ragionare” rigoroso e basato su di un metodo
che può definirsi “scientifico”. Alla innegabile vaghezza di concetti come
“ragionevole dubbio” e “probabilità logica” fa da contraltare la robustezza delle
argomentazioni in fatto che devono attribuire alla motivazione una tenuta logica
ineccepibile.
Ragionevole dubbio e prova indiziaria. Il valore del principio si apprezza
particolarmente con riferimento alla valutazione della prova indiziaria. Nell’esame di
ogni indizio occorre provvedere alla verifica e, soprattutto, al tentativo di smentita
sia della circostanza indiziante, sia delle leggi scientifiche che delle massime di
esperienza ad essa applicabili. I concetti di precisione, gravità e concordanza degli
indizi devono essere riempiti di tangibile contenuto applicativo.
Ragionevole dubbio e prova rappresentativa. Anche nella valutazione
dell’attendibilità delle prove rappresentative il ragionevole dubbio impone di
seguire un argomentare serrato costruito con “metodo scientifico” attraverso la
verifica, la falsificazione e la formulazione di controipotesi. Ne risulta confermata
l’assenza di una differenza qualitativa tra prove scientifiche e prove dichiarative.
e. La valutazione della prova indiziaria: precisione, gravità e concordanza tra
verifica e falsificazione. (valutazione degli indizi) Modalità concrete con le quali il
canone del ragionevole dubbio si manifesta nella valutazione della prova indiziaria:

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Precisione. La precisione deve essere valutata in relazione ad ogni circostanza


indiziante alla stregua di un “prerequisito” necessario perché si possa procedere
oltre. La circostanza non precisa (perché non fondata su criteri scientifici o empirici
univoci o perché riconducibile ad una fonte non credibile) è inconsistente in sé e,
dunque, rende inutile proseguire il percorso logico valutando il profilo della gravità.
Gravità. Ove la circostanza indiziante risulti precisa, il secondo passaggio consiste
nell’apprezzamento della gravità in relazione al singolo indizio. Si tratta di
individuare la massima di esperienza o la legge scientifica ad esso applicabile al fine
di sottoporre ad attento controllo quel profilo che viene indicato anche con
“univocità”.
II tentativo di smentita. Una volta formulata la regola scientifica o empirica
applicabile al caso concreto occorre controllare se esistono tutti gli effetti della
“causa” ipotizzata. Nelle ipotesi in cui detta verifica dia esito negativo, si incrina
immediatamente l’idoneità esplicativa della regola prescelta rispetto al caso
concreto. In situazioni del genere, diviene assolutamente indispensabile arrivare a
spiegare il motivo per il quale fanno difetto alcuni degli effetti. Nell’impossibilità di
addivenire ad una siffatta dimostrazione, infatti, l’indizio risulta privo del requisito
della gravità. Occorre poi tentare di prospettare la causa alternativa alla quale
corrispondono tutti gli effetti concretamente presenti formulando, dunque, una
differente massima di esperienza o legge scientifica. La gravità può dirsi soddisfatta
soltanto qualora la massima di esperienza o legge scientifica appaia l’unica
applicabile alla circostanza indiziante, con esclusione di ogni altra differente ipotesi.

Occorre poi tenere presente come non sia necessario che l’eventuale spiegazione
alternativa formulata risulti caratterizzata da una probabilità logica al di là del
ragionevole dubbio. Proprio in virtù del canone in dubio pro reo, è sufficiente che
essa appaia “non irragionevolmente ipotizzabile”.
Concordanza. L’ultimo passaggio nella ragionevole valutazione degli indizi concerne
quel profilo che viene denominato “concordanza” e che allude all’assenza di
contraddizioni logiche tra i medesimi. L’analisi di tale profilo è soltanto un passaggio
da effettuare in ultima battuta, giacché presuppone necessariamente
un’antecedente valutazione in termini di precisione e gravità da svolgersi
singolarmente per ogni indizio in sé. Non conta che l’ipotesi ricostruttiva sia
probabile, occorre che si tratti dell’unica ipotesi formulabile.
f. Il superamento della teoria della “convergenza del molteplice”. Il dibattito
più acceso sulla prova indiziaria riguarda, l’oggetto su cui deve vertere la valutazione
di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 192 co2. Due sono le
interpretazioni prospettate: una tradizionale ed una legata allo standard del
ragionevole dubbio.
g. L’orientamento tradizionalista. In base ad un primo orientamento dottrinale
e giurisprudenziale, cd tradizionalista, la prova indiziaria deve emergere da una
valutazione globale ed unitaria degli indizi: essi devono certamente essere gravi,
precisi e concordanti, ma comunque sempre nel loro insieme, e non considerati
isolatamente. È questa la tesi della cd “convergenza del molteplice”: ciò che conta è

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solo il risultato finale della operazione di co-valutazione degli indizi. Ecco allora che
un indizio non grave o non preciso diventa sufficiente in quanto è integrato da altri
non gravi o non precisi, ma convergenti nell’indicare la responsabilità dell’imputato.
L’orientamento garantista. In base ad un secondo orientamento, cd garantista, è
necessario che ciascun indizio abbia le tre caratteristiche.
La tesi tradizionalista è fondata su 4 argomentazioni.
1) Primo argomento tradizionalista. Una prima argomentazione ha per oggetto
l’interpretazione dell’art. 192, co2, secondo cui «i requisiti della gravità e precisione
vanno riferiti alla generalità dei fatti indiziari disponibili». Tuttavia in questo modo si
rischia di rendere inutile la riforma del codice; infatti, già nel 1978 si è voluto dare a
quello che poi è diventato l’art. 192 una formulazione dalla quale risultasse un
significato “incisivo”, a mo’ di divieto. Pertanto, l’interpretazione della voluntas legis
impone che il singolo indizio abbia le caratteristiche della gravità, precisione e
concordanza.
2) Secondo argomento tradizionalista. In base ad una seconda argomentazione,
la convergenza del molteplice permetterebbe di superare la deficienza dei singoli
indizi perché, si sostiene, «è in grado di aumentare la probabilità dell’ipotesi
accusatoria». Il difetto del ragionamento sta nell’utilizzare quella regola di giudizio
che ritiene provata l’ipotesi “più probabile che no”, che è accettabile nel processo
civile, ma che è stata abbandonata nel processo penale.
3) Terzo argomento tradizionalista. Una terza argomentazione cerca di risolvere
il medesimo problema in modo più sofisticato, perché si limita a considerare che «la
probabilità dell’ipotesi accusatoria aumenta con l’aumentare del numero degli indizi
convergenti in quella direzione». Il ragionamento si riferisce a quella corrente
giurisprudenziale che riteneva accettabile la regola che esprime la probabilità
statistica. Ma si può obiettare che a partire dalla sentenza delle Sezioni unite
Franzese del 2002 ormai è comunemente accettato che nel processo penale il
criterio della probabilità statistica è stato sostituito dalla regola dell’alta probabilità
razionale, dalla sentenza Franzese, che è integrata quando in base alle prove
raccolte si può escludere al di là del ragionevole dubbio ogni spiegazione alternativa
del fatto.
4) Quarto argomento tradizionalista. Quest’ultimo attribuisce alla convergenza del
molteplice la virtù secondo cui «la concordanza può rimediare alla eventuale
equivocità degli indizi singolarmente considerati, contribuendo a rendere fondata la
dimostrazione del thema probandum». La coincidenza sarebbe sufficiente ad
indicare il responsabile del reato.
A fondo di tale ragionamento sta una vera e propria presunzione di reità a carico
dell’imputato. In mancanza di fatti certi che indicano la sua responsabilità, soccorre
il vecchio criterio inquisitorio in base al quale si chiede all’imputato di discolparsi e
ovviamente un tale criterio non può più trovare accoglimento nel nostro sistema.
h. Gli effetti sulle regole di giudizio. Il ragionevole dubbio impone al giudice di
prosciogliere qualora l’imputazione non risulti provata. Si tratta di una regola di
giudizio in senso stretto. Viceversa, si può condannare quando si è raggiunta una
certezza processuale al di là del ragionevole dubbio. Il peso sta tutto nella parola

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“ragionevole”. La ragionevolezza fa riferimento ad un percorso di esternazione


(nella redazione della motivazione, comprensione (nella lettura della motivazione),
condivisione.
Il giudizio d’appello. La codificazione del “ragionevole dubbio” si era accompagnata
all’eliminazione dell’appello contro le sentenze di proscioglimento.
Successivamente, la Corte costituzionale ha ricondotto il sistema quasi interamente
all’originaria disciplina. Malgrado ciò, la regola di giudizio in esame sta sortendo
ripercussioni sullo standard probatorio in secondo grado. Difatti, la cassazione ha
intrapreso un indirizzo molto attento alla motivazione della sentenza d’appello che
riforma una pronuncia assolutoria.
i. Proiezioni sistematiche sulle regole probatorie. Il canone “finale” del
ragionevole dubbio si proietta all’indietro su tutti gli snodi del processo penale in cui
occorre effettuare una valutazione sulla responsabilità e riempie di contenuto i
relativi standard probatori (si pensi alle valutazioni effettuate per decidere sul rinvio
a giudizio o per emettere una misura cautelare).
Il contraddittorio. Sotto il profilo del quomodo, il ragionevole dubbio impone che il
processo penale sia informato al principio del contraddittorio. È il metodo dialettico
che consente la continua prospettazione di ricostruzioni alternative tra le quali il
giudice deve scegliere. L’imputazione è fondata quando le prove che la sorreggono
hanno resistito all’urto del contraddittorio. Pertanto, l’accusa ha adempiuto
all’onere quando ogni differente spiegazione del fatto addebitato appare non
ragionevole e viceversa.
I ruoli delle parti. La difesa dovrà avere la possibilità di prepararsi al contraddittorio
e così dovrà essere reso effettivo il diritto di svolgere investigazioni difensive. Ciò
non toglie che il pubblico ministero, nel momento in cui indaga al fine di formulare
la migliore ipotesi ricostruttiva, debba prendere in considerazione anche gli
elementi favorevoli all’indagato.
l. Ragionevole dubbio e poteri di iniziativa del giudice. C’è poi un altro aspetto
relativo alla formazione della prova. Occorre chiedersi cosa accade se le prove
prodotte dalle parti delineano un panorama lacunoso. A prima vista la risposta
appare banale: il giudice dovrebbe assolvere proprio in applicazione dell’art. 533.
Ma tale norma, come affermato dalle sezioni unite, serve a consentire al giudice,
che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale
probatorio di cui dispone, di ammettere le prove che gli permettono un giudizio più
meditato e più aderente alla realtà dei fatti.
Il processo cognitivo. Il modello di processo penale che si ricava dalla Costituzione
non è un meccanismo finalizzato a risolvere controversie. Bensì è uno strumento
volto all’accertamento dei fatti; è un processo di tipo cognitivo. Quando il potere
dispositivo riconosciuto alle parti si discosta dallo scopo accertativo, entra in gioco la
funzione suppletiva del giudice per evitare che il rito penale si discosti dal suo scopo.
Limiti ai poteri officiosi. A parere della Corte di cassazione, l’esercizio del potere
integrativo del giudice incontra un limite ben preciso: egli non può perseguire una
propria ricostruzione alternativa del fatto. Il giudice deve restare aderente alle
risultanze probatorie e colmare eventuali lacune, sempre in relazione alle ipotesi

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ricostruttive risultanti dalle allegazioni delle parti. In ogni caso, l’esercizio dei poteri
officiosi «non fa venir meno l’onere del pubblico ministero di provare il fondamento
dell’accusa». Anche se è stato il giudice ad introdurre il novum nel processo, l’onere
della prova e il canone della probabilità logica restano immutati: l’accusa deve
convincere il giudice della reità al di là del ragionevole dubbio.
m. La scelta dell’art 533. Il legislatore ha inserito la norma sul ragionevole
dubbio nell’art. 533, comma 1 che regola la sentenza di condanna, ma in realtà, è
l’art. 530, comma 2 sulla sentenza di proscioglimento che, tradizionalmente,
costituisce il referente decisorio del giudice nel momento in cui ritiene di non essere
convinto delle prove d’accusa. Quest’ultima norma stabilisce che il giudice
proscioglie anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova della
reità dell’imputato. Allo stesso modo il co3 prevede che il giudice debba
prosciogliere se vi è la prova di una causa di giustificazione o di una causa personale
di non punibilità o «se vi è il dubbio sull’esistenza di esse». La dottrina ha rilevato
che l’art. 530, comma 2 non stabilisce il principio del ragionevole dubbio. In
particolare, il termine “insufficiente’’ è un concetto che deve essere riempito di
contenuto attraverso un parametro esterno costituito, appunto, dalla “sufficienza”.
Parimenti, il fatto che le prove d’accusa siano contraddittorie tra di loro non
specifica il grado di contraddittorietà che è idoneo a giustificare il proscioglimento.
Presunzione di innocenza e onere della prova. Tale principio comporta che debba
essere il pubblico ministero a provare la reità dell’imputato. Soltanto dopo che il pm
ha assolto al proprio onere spetterà alla difesa convincere il giudice dell’innocenza.
Attenendosi a tali considerazioni è del tutto coerente che lo standard probatorio sia
disciplinato nella norma sulla sentenza di condanna, ossia l’art. 533. Spetta al
pubblico ministero portare elementi tali da eliminare nel giudice ogni ragionevole
dubbio sull’innocenza, che è presunta finché non si dimostri il contrario.
n. L’onere della prova delle cause di non punibilità. La particolarità del processo
penale sta nel fatto che il dubbio va a favore dell’imputato anche quando questi ha
l’onere della prova, e cioè quando egli deve convincere il giudice dell’esistenza di un
fatto favorevole. Ai sensi dell’art. 530, comma 3, «se vi è la prova che il fatto è stato
commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di
non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia
sentenza di assoluzione». Il legislatore non ha inserito nella norma in oggetto
l’aggettivo “ragionevole”. Tuttavia, l’art. 530, comma 3 deve interpretarsi
congiuntamente all’art. 533 comma 1 come modificato dalla legge n. 46 del 2006.
Pertanto, l’imputato avrà soddisfatto l’onere della prova e sarà prosciolto se avrà
fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sull’esistenza della scriminante. Ciò
è razionalmente giustificabile perché è soltanto l’imputato che può ricevere dalla
decisione un pregiudizio nel suo diritto di libertà personale.

La prova dei fatti favorevoli. Occorre tenere conto che l’imputato, se pure ha
l’onere di provare i fatti a sé favorevoli, tuttavia non ha quei poteri coercitivi di
ricerca delle fonti di prova che spettano soltanto al pm e alla pg. Pertanto, per far
sorgere il ragionevole dubbio, egli potrebbe limitarsi ad asserire l’esistenza di un

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fatto (es una causa di giustificazione o un alibi) e spetterà poi all’autorità inquirente
condurre le indagini per evitare che nel giudice si formi un convincimento
favorevole all’imputato. Tuttavia quest’ultimo ha l’onere di indicare con sufficiente
precisione i fatti e di introdurre almeno un principio di prova (ad es deve indicare
con esattezza il luogo nel quale afferma di essersi trovato).

6. L’inutilizzabilità
a. Nozione. Nel processo penale non tutte le prove possono essere utilizzate. Esiste
una serie di regole di esclusione volte a tutelare molteplici interessi. Il termine
“inutilizzabilità” descrive due aspetti del medesimo fenomeno, da un lato, indica
l’esistenza di una delle ricordate regole di esclusione; da un altro lato, illustra il
regime giuridico al quale è assoggettato l’atto acquisito in violazione di tali regole:
esso non può essere posto a fondamento di una decisione.
Si può cogliere una differenza fondamentale tra inutilizzabilità patologica e
fisiologica.
Inutilizzabilità patologica. Con l’espressione “inutilizzabilità patologica” si è
consueti indicare quel vizio che colpisce le prove acquisite in violazione dei divieti
stabiliti dalla legge. I divieti probatori scolpiscono il volto stesso della prova. Vi sono,
infatti, limiti posti a tutela dell’attendibilità della prova e limiti posti a presidio dei
diritti fondamentali dell’individuo, che prescindono dall’attendibilità dell’elemento e
costituiscono gli sbarramenti “etici” che l’ordinamento pone a sé stesso
nell’accertare i fatti di reato.
Inutilizzabilità fisiologica. Essa concerne quegli atti di indagine che, pur formatisi
validamente in ossequio alle norme che li disciplinano, tuttavia non possono essere
utilizzati per la decisione dibattimentale perché assunti senza contraddittorio. Gli atti
raccolti in modo unilaterale nel corso delle indagini preliminari sono, di regola,
inutilizzabili nel dibattimento. Infatti, il codice pone la regola (salvo eccezioni) in
base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione soltanto le prove
legittimamente acquisite nel dibattimento. In base a tale disposizione, un’eventuale
inosservanza dei divieti di lettura degli atti compiuti nelle fasi anteriori (art. 514)
comporta l’inutilizzabilità degli stessi ai fini della decisione.
In questi casi l’inutilizzabilità diventa una sorta di “griglia selettiva” degli elementi di
prova che possono essere posti a base della decisione dibattimentale. Con tale
strumento si munisce di una sanzione processuale il principio del contraddittorio.
Quindi le prove raccolte durante le indagini preliminari che non sono state
legittimamente acquisite in dibattimento non sono utilizzabili nella decisione in
quanto non hanno subito il vaglio del contraddittorio. L’inutilizzabilità fisiologica,
oltre ad un aspetto oggettivo, ha pure un profilo di tipo soggettivo, che concerne le
prove formate in contraddittorio, ma senza la partecipazione di chi potrà essere
attinto dal relativo risultato.
b. Inutilizzabilità generale e speciale. Con riguardo ad entrambe le
inutilizzabilità è possibile distinguere tra speciale e generale.
Inutilizzabilità generale. Per l’inutilizzabilità fisiologica, nel codice vi è una
previsione generale nell’art. 526, comma 1 in base al quale «il giudice non può

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utilizzare per la decisione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel


dibattimento». Quanto alle ipotesi di inutilizzabilità fisiologica speciale, si tratta
prevalentemente di quei casi nei quali un atto si è formato in contraddittorio ma
non è stato attuato quel diritto di parteciparvi che spetta ad un interessato (es. art.
500, comma 3).
Anche per l’inutilizzabilità patologica, vi è una norma generale nell’art 191 co1 che
stabilisce che le prove «acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» non
possono essere utilizzate. Accanto a tale previsione esistono varie norme speciali
con riferimento a violazioni ben precise nella formazione di singole prove (es. art.
271, co1, intercettazioni).
Inutilizzabilità speciale. Quasi ogni novella legislativa in materia di prova ha
introdotto previsioni espresse, spesso con la funzione simbolica di rafforzare la
tutela di determinati interessi. La via dell’intervento normativo diretto è stata
prescelta anche in forza della presa di coscienza delle incertezze legate
all’inutilizzabilità generale ex art. 191.
c. Inutilizzabilità assoluta e relativa. L’inutilizzabilità assoluta rende l’atto
inservibile in relazione a qualunque tipo di decisione, nei confronti di qualsivoglia
soggetto.
L’inutilizzabilità relativa si distingue ancora in oggettivamente e soggettivamente
relativa. È oggettivamente relativa quella che rende l’atto inservibile soltanto in
relazione ad una determinata categoria di provvedimenti (es art 360). È
soggettivamente relativa l’inutilizzabilità che rende l’atto inservibile nei confronti di
determinate persone.
L’inutilizzabilità fisiologica generale è oggettivamente relativa: gli atti di indagine
possono essere utilizzati per tutte le decisioni che connotano la rispettiva fase ma
non valgono come prova per il dibattimento. Viceversa, l’inutilizzabilità fisiologica
speciale è oggettivamente o soggettivamente relativa a seconda delle indicazioni
che si traggono dalla singola norma. Per contro, l’inutilizzabilità patologica generale
ha carattere assoluto, perché i divieti probatori riguardano un esperimento
conoscitivo il cui ingresso processuale è vietato in radice. L’inutilizzabilità patologica
speciale è assoluta, salvo che la singola norma di riferimento stabilisca limiti
oggettivi o soggettivi.
d. i divieti probatori. L’inutilizzabilità patologica è stata introdotta nel 1988 con
lo scopo di effettuare una scelta netta in relazione all’estromissione dal
procedimento delle prove viziate. I conditores miravano alla creazione di un collo di
bottiglia atto a separare ciò che è prova da ciò che non può esserlo. L’inutilizzabilità
è stata normata con l’intento di rispettare il principio di tassatività il cui presupposto
essenziale è quello di determinatezza. Dal 1988 ad oggi si sono registrati almeno
otto interventi legislativi che oltre a prevedere nuove ipotesi di inutilizzabilità
espressa hanno toccato alcuni snodi centrali di tale sanzione alimentando i dubbi.
Uno dei punti più spinosi della teoria generale delle prove penali consiste proprio
nell’individuazione dei “divieti probatori”, con le infinite querelles che ne sono
scaturite.

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An e quomodo. Anzitutto, si ritiene che esista un vero e proprio divieto probatorio


solo allorché una norma precluda in radice l’ingresso di una determinata prova
(divieto relativo all’an). Viceversa, la violazione di una semplice modalità di
assunzione di una prova (divieto relativo al quomodo) non comporta inutilizzabilità;
essa può determinare nullità, se ricorre una delle ipotesi di nullità generale previste
dall’art. 178. In linea di principio è ben possibile che esistano divieti probatori che si
riferiscono alle modalità acquisitive, ad es. quelle norme che vietano di usare
metodi idonei ad alterare la libertà di autodeterminazione. Disposizioni siffatte
sanciscono dei veri e propri divieti probatori relativi al “metodo” della prova.
Fondamentale resta tuttavia attenersi ad una interpretazione restrittiva, che ravvisi
l’inutilizzabilità soltanto allorché vengano in gioco violazioni connesse con la forma
essentialis dell’atto.
La carenza di potere istruttorio. Esiste un divieto probatorio laddove la legge vieta
nell’an l’ingresso di una prova nel procedimento e dunque, l’autorità inquirente o
giudicante non ha il potere di acquisirla. Il problema è che la teoria appare, tuttavia,
insufficiente sotto un profilo esplicativo: è utile per riformulare la questione
evidenziando il problema, tuttavia, non è idonea a fornire la soluzione. La chiave di
volta si sposta sul concetto di “potere istruttorio”.
Le valutazioni discrezionali nella ricognizione del divieto. Per stabilire se tale potere
esiste o meno, debbono essere effettuate tre valutazioni caratterizzate da una forte
componente di discrezionalità nella “ricognizione” del divieto: in primo luogo è
necessario individuare l’interesse protetto dalla norma violata; in secondo luogo,
occorre stabilire il rango di tale interesse; infine, deve essere ponderato il grado
della lesione che detta istanza ha subito. Questo è il significato sostanziale
dell’espressione “divieto stabilito dalla legge”.
Casistica. La giurisprudenza è ricca di situazioni nelle quali si registra una marcata
tendenza verso la conservazione degli elementi di prova classificando la violazione
all’interno della mera irritualità, o derubricandola alla stregua di una nullità
sanabile.
Ora, esistono due tipi di violazioni che possono determinare l’inutilizzabilità: quelle
che concernono i diritti fondamentali coinvolti nell’acquisizione e non
compromettono il valore probatorio del dato raccolto e quelle che si ripercuotono
sull’attendibilità della prova.
Violazione dei diritti fondamentali. In questo primo caso si pensi alle acquisizioni
lesive di diritti fondamentali come l’inviolabilità del domicilio, la segretezza delle
comunicazioni ecc. Nello stabilire se esiste o meno un divieto probatorio, appaiono
ben comprensibili le “tentazioni” conservative animate dal desiderio di non
estromettere elementi che potrebbero essere determinanti per l’accertamento.
Violazioni che si ripercuotono sull’attendibilità. Quando si tratta di violazioni che
possono ripercuotersi sull’attendibilità dell’elemento, sembra di cogliere nella
giurisprudenza una tendenza a spostare al momento della valutazione la tutela
dell’interesse leso. Le cautele adottate dal giudice in quest’ultima sede dovrebbero
sopperire alle carenze verificatesi durante l’assunzione. Un simile ragionamento,
tuttavia, oltre a sovrapporre indebitamente due differenti fasi del procedimento

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probatorio (assunzione e valutazione), pare costituire il frutto di un’inversione


metodologica, giacché il giudice è chiamato a valutare proprio ciò che la legge
avrebbe voluto sottrarre a siffatto sindacato.
Tendenze conservative e inutilizzabilità speciali. Ma le tendenze conservative della
giurisprudenza non emergono soltanto in materia di individuazione dei divieti
probatori nel raccordo con l’inutilizzabilità generale, infatti, simili movimenti si sono
manifestati anche in relazione all’inutilizzabilità speciale, con problemi ancora
maggiori in punto di rispetto del principio di tassatività.
Nella materia in oggetto, l’Italia costituisce un unicum nel panorama internazionale.
Infatti, in molti altri ordinamenti, nei quali esistono istituti analoghi
all’inutilizzabilità, è possibile superare tale vizio. In Germania, Spagna, Inghilterra e
Stati Uniti vi sono ipotesi nelle quali le prove acquisite in violazione dei divieti
possono essere ugualmente utilizzate in ragione del cd principio del bilanciamento.
Al giudice è consentita una valutazione comparativa tra il rango del diritto leso, la
gravità della lesione, l’utilità probatoria del dato, il comportamento del titolare del
diritto e la funzione della norma trasgredita. Ciò significa, quantomeno, che tale
esigenza è avvertita ovunque.
e. La prova incostituzionale. Con l’espressione “prova incostituzionale” dottrina e
giurisprudenza sono solite indicare quegli elementi di prova che vengono acquisiti
con modalità non disciplinate dal codice di rito e lesive dei diritti fondamentali
dell’individuo costituzionalmente tutelati. In tali casi l’unica norma del codice che
appare fruibile è l’art. 189 sulla prova atipica. Tale disposizione peraltro, proprio
perché volta a regolare una acquisizione non prevedibile ex ante, non prevede una
disciplina dettagliata circa i casi e i modi con i quali l’atto lesivo si può attuare e
rinvia al contraddittorio tra giudice e parti la determinazione delle relative modalità.
In proposito si sono formati orientamenti differenti:
-da un lato, c’è chi ritiene che l’art. 189 non impedisca l’ingresso delle prove atipiche
lesive dei diritti fondamentali. L’assenza di una norma di legge ordinaria, che vieti
acquisizioni del genere, impedisce di sanzionare la prova atipica incostituzionale;
conseguentemente è stata ritenuta l’utilizzabilità processuale dell’elemento
acquisito. All’interno di tale posizione spicca, tuttavia, l’orientamento che ritiene
l’incostituzionalità dell’art. 189 nella parte in cui consente l’ingresso di prove
atipiche lesive dei diritti fondamentali senza regolare i casi e i modi di tali limitazioni.
-Un differente indirizzo prospetta un’interpretazione estensiva dell’espressione
“divieti stabiliti dalla legge” prevista dall’art. 191, co1. In base a questa tesi, nel
concetto di “legge” inteso estensivamente rientra anche la Carta fondamentale e la
Costituzione fissa altrettanti divieti probatori. Gli atti acquisitivi non espressamente
previsti dalla legge, che rechino vulnus ai diritti fondamentali, sono vietati. La
violazione dei “divieti probatori costituzionali” rinviene la sua sanzione e la sua
disciplina nell’art. 191.
L’interpretazione adeguatrice dell’art 189. Pare lecito intraprendere un terzo
percorso ermeneutico che si fonda su di una interpretazione adeguatrice dell’art.
189. Poiché la norma nell’ammettere le prove atipiche non determina i casi e i modi
con i quali prove di tal genere possano ledere i diritti fondamentali, una lettura

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conforme a Costituzione impone di ritenere che proprio in ragione di tale silenzio,


l’art 189 precluda l’ingresso processuale di simili esperimenti conoscitivi. La Carta
Fondamentale consente la limitazione in presenza di una regolamentazione
legislativa dettagliata: in assenza di una disciplina ad hoc ogni atto limitativo è
vietato. L’elemento probatorio verrebbe dunque acquisito in violazione di un divieto
implicito e dunque incorrerebbe nella inutilizzabilità ai sensi dell’art 191.
Tuttavia anche ove si ritenga di accogliere una simile soluzione, il problema
dell’individuazione del novero delle prove incostituzionali, non è risolto. La
Costituzione, infatti, per sua stessa natura, contiene norme generali e di principio e
ogni diritto fondamentale ha una sfera di interessi che nel tempo si è ispessita,
complicata e articolata. Dunque, oggi la difficoltà non consiste nello stabilire se una
prova incostituzionale è utilizzabile, bensì nel valutare se una prova è
incostituzionale. Occorre stabilire la natura e il rango dell’interesse violato, oltre al
grado di lesione che la tipologia di acquisizione comporta in astratto (analogamente
a quanto avviene per i divieti probatori). Le soluzioni prospettate variano da caso a
caso.
e. il principio di non sostituibilità. Esiste un ulteriore profilo in relazione al quale
il diritto vivente si è fatto negli ultimi anni creatore di limiti in modo costruttivo e
condivisibile.
Nozione. Ci si chiede spesso se il versatile meccanismo della prova atipica, possa
valere a superare un divieto, o una inutilizzabilità speciale stabilita in relazione ad
un differente strumento probatorio. Come è stato confermato dalle Sezioni unite
della Cassazione nel 2003, quando il codice stabilisce un divieto probatorio oppure
una inutilizzabilità espressa è vietato il ricorso ad altri strumenti processuali, tipici o
atipici, finalizzati ad aggirare un simile sbarramento. Esiste un principio di non
sostituibilità che rafforza il canone di legalità delle prove, oggi compenetrato con gli
enunciati dell’art 111 Cost, co1.
In alcune ipotesi, il codice sancisce ex professo la non sostituibilità. Un primo
esempio si rinviene in materia di inutilizzabilità fisiologica ed è costituito dal divieto
di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, finalizzato ad evitare aggiramenti
dell’inutilizzabilità dibattimentale delle precedenti dichiarazioni. Vi è, poi, l’art. 240,
comma 2, a mente del quale il contenuto dei documenti illegali non può essere
utilizzato ecc.
Anche al di là delle ipotesi espressamente previste, il principio di non sostituibilità
sembra assurgere a cardine del sistema in applicazione del fondamentale canone di
legalità della prova dal quale si evince un generale divieto di aggiramenti. Con
l’applicazione del principio di non sostituibilità la giurisprudenza si fa creatrice di
divieti ricavati attraverso la dinamica interazione delle norme. Una simile attività ci
pone nuovamente dinanzi ad un potere altamente discrezionale animato, stavolta,
dal “nobile” intento di tutelare il principio di legalità della prova.
I riconoscimenti informali. Resta, tuttavia, una tematica in relazione alla quale la
giurisprudenza appare ancora sorda: è il caso dei riconoscimenti informali effettuati
nel corso delle indagini preliminari o nel dibattimento che finiscono per aggirare la

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disciplina della ricognizione con drammatiche ripercussioni sull’attendibilità degli


elementi raccolti.
g. la prova illecita. Altro problema classico in materia di ricognizione dei divieti
probatori concerne la cd prova illecita e cioè la prova acquisita in violazione di
norme penali.
Divieti di “acquisizione”. In base all’art 191 sono inutilizzabili le prove acquisite in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge. Merita sottolineare che il termine
“acquisizione” deve intendersi impiegato in senso tecnico e sta ad indicare
l’ingresso di una prova nel procedimento penale. Ne deriva che l’unica legge idonea
a vietare “l’acquisizione” di uno strumento probatorio è quella processuale. In
assenza di un divieto di acquisizione espresso, resta irrilevante la commissione di un
illecito penale nel materiale ottenimento della prova.
La modifica dell’art. 240. la materia della prova illecita è stata investita da una
modifica legislativa che ha creato numerosi problemi. Si tratta della legge n. 281 del
2006 sui cd documenti illegali, formati in violazione delle norme penali a tutela della
riservatezza. I nuovi commi inseriti nell’art. 240 ne prescrivono l’inutilizzabilità
rafforzata dalla distruzione a protezione della privacy delle persone coinvolte da
attività di spionaggio evitando diffusioni sui mass media. L’intervento normativo
non si connota né per la chiarezza, né per il metodo, né per la disciplina poiché è
stato introdotto in modo emergenziale, con un decreto-legge approvato nel giro di
poche ore della vicenda.
Il regime giuridico dell’inutilizzabilità: la responsabilizzazione delle parti.
L’inutilizzabilità colpisce non l’atto in se stesso, bensì il suo valore probatorio. Il vizio
è rilevabile dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, d’ufficio o su
iniziativa di parte. La prova può essere dichiarata inutilizzabile anche per la prima
volta nel giudizio in cassazione e, secondo alcuni, nel giudizio di revisione. In base
all’art. 191, comma 2, l’inutilizzabilità non può essere sanata (a differenza della
nullità). Inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione
di un divieto probatorio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell’atto: di
regola il divieto impedisce che una determinata prova entri nel processo.
Utilizzabilità a favore dell’imputato. A parere di molti le prove viziate possono
comunque essere utilizzare a favore dell’imputato. Si afferma che si è di fronte ad
una «felice disubbidienza del giudice». Ma la regola del favor rei ha un senso solo
con riguardo a prove che non siano state assunte in violazione di divieti posti a
tutela dell’attendibilità dell’elemento.
Limiti di deducibilità. Circa il profilo relativo alla rilevabilità del vizio, da un lato vi è
l’art 191, co2, dal quale si evince nitidamente un principio di “perennità” del vizio,
affiancata dall’espresso disposto dell’art. 606 lett c, che trasforma l’inutilizzabilità in
un autonomo motivo di ricorso in cassazione; da un altro lato il diritto vivente che
tende a responsabilizzare le parti, per far valere la violazione nel momento in cui si
verifica.
Impugnazioni. La Suprema Corre richiede che il ricorrente indichi specificamente il
vizio dedotto e gli atti dai quali è dato ricavare l’esistenza dello stesso, con
dimostrazione di eventuali elementi di fatto che, qualora non appartengano al

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fascicolo processuale, il ricorrente ha l’onere di produrre. Ancora, la Cassazione


precisa che l’inutilizzabilità non può essere fatta nell’ambito dei motivi nuovi, ossia
deve essere proposta con l’atto di ricorso principale. Non possono essere dedotte
per la prima volta nel giudizio di legittimità questioni di inutilizzabilità la cui
valutazione richieda accertamenti di merito; questi ultimi, se necessari, devono
essere sollecitaci nel giudizio di appello. Poi, prima di annullare con rinvio la
sentenza basata su una prova dichiarata inutilizzabile, la Cassazione procede alla cd
prova di resistenza valutando se la motivazione “resta in piedi”, nonostante
l’eliminazione dell’elemento viziato.
La rilevabilità nel giudizio di merito. Vi sono stati casi nei quali i giudici di legittimità
hanno configurato delle vere e proprie inutilizzabilità “anomale”, sottoposte ad
inediti limiti di deducibilità. In casi del genere, la giurisprudenza, anziché far leva
sulla fase della ricognizione dei divieti probatori, ha lavorato sulla rilevabilità e sugli
effetti della violazione, cercando di prevedere in capo alle parti un onere di
attivazione. Si tratta senz’altro di un orientamento sensibile all’esigenza di reprimere
abusi del processo ridimensionando le conseguenze dell’inutilizzabilità al fine di
evitare che le parti private coltivino eccezioni utili per lucrare la prescrizione. Simili
indirizzi, tuttavia, paiono operare non soltanto praeter bensì contra legem.
Inutilizzabilità “relative” e giudizio abbreviato. Agli albori del nuovo Millennio, la
sentenza Tammaro Sezioni unite, emessa in materia di giudizio abbreviato, ha
consacrato la distinzione tra inutilizzabilità patologica e fisiologica al fine di stabilire
il rispettivo regime nell’ambito del giudizio abbreviato. Poiché l’inutilizzabilità
fisiologica, che deriva da un difetto di contraddittorio, è sempre relativa al
dibattimento ed è “sanabile” con il consenso delle parti, tutto ciò che ricade
all’interno di tale categoria costituisce materiale fruibile nel rito semplificato.
Tuttavia, nella stessa pronuncia il supremo Collegio ha constatato che, applicando la
summa divisio in oggetto, residuano alcune ipotesi di inutilizzabilità speciale che non
si prestano agevolmente ad una classificazione. Ci si riferisce alla distinzione tra
inutilizzabilità patologica ed inutilizzabilità “relativa”, che tende ad estendere
quest’ultimo concetto al fine di ampliare il novero degli elementi disponibili sia
nell’ambito del giudizio abbreviato, sia ai fini dell’applicazione delle misure
cautelari. Un simile orientamento prospetta la soluzione di ritenere l’inutilizzabilità
inoperante nella fase delle indagini preliminari.
Il principio di ubiquità dell’inutilizzabilità. Visto il quadro privo di certezze sono
intervenute due sentenze delle Sezioni unite in netta controtendenza rispetto
all’andamento deformalizzante e conservativo. La Cassazione, infatti, ha affermato
un “principio di ubiquità” dell’inutilizzabilità. A parere della Suprema Corte,
l’inutilizzabilità patologica opera anche al di fuori del processo penale in qualunque
tipo di giudizio. Si tratterebbe, dunque, di una sorta di “antigiuridicità” della prova
che si estende a tutto l’ordinamento. A parere del Collegio «la prova vietata è
inutilizzabile senza aggettivi, limiti o deroghe di sorta, che ne consentano un
qualsivoglia recupero”, sia pure in ambiti ed a fini diversi da quelli del processo
penale».

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i. I frutti dell’albero avvelenato. Un altro punto drammatico è l’inutilizzabilità


derivata. Ci si chiede se l’illegittimità di una prova possa estendersi ad un’altra prova
il cui reperimento sia stato determinato dalla prima. Il caso tipico è quello della
perquisizione illegittima seguita da sequestro, ma si può pensare anche ad una
intercettazione inutilizzabile dalla quale si è tratta un’informazione determinante
per un successivo atto investigativo.
I problemi sono dovuti al silenzio del legislatore: l’assenza di una disciplina analoga
all’art. 185 sulla propagazione della nullità ha dato luogo a contrasti. Da un lato, la
necessità di tutelare i diritti fondamentali; dall’altro lato, l’esigenza di conservare
prove determinanti. Di fronte a materiale la cui utilità probatoria appare indiscussa,
qualunque sistema è restio a configurare una regola di esclusione fondata su una
presunta trasmissione del vizio da una prova all’altra attraverso un vincolo per di più
normativamente inespresso. Proprio tale dilemma si coglie nella famosa sentenza
Sala pronunciata dalle Sezioni unite nel 1996. Nel cimentarsi con una perquisizione
illegittima che aveva portato al sequestro di un quantitativo di eroina, le Sezioni
unite hanno affermato che il rispetto dei diritti fondamentali comporta che le prove
acquisite in violazione degli stessi sono radicalmente inutilizzabili; tuttavia, poiché il
sequestro del corpo del reato è un atto dovuto, esso deve essere comunque
effettuato.
Prove “gratuite”. Di regola, nel nostro sistema quasi tutte le prove sono “gratuite”:
chi svolge un atto di indagine (es. interrogatorio) o chiede l’ammissione di una prova
(es una testimonianza) non deve giustificarne il motivo. Pertanto, nella maggior
parte dei casi l’impiego dell’informazione contenuta in una prova inutilizzabile al
fine di ottenere un’altra prova resta non formalizzato. Detto principio di “gratuità’’
osterebbe alla diagnosi di un’eventuale inutilizzabilità derivata.
Inutilizzabilità derivata in materia di segreto di Stato. In Italia, peraltro, il
legislatore ha nuovamente “mescolato le carte” con la novella normativa in materia
di segreto di Stato. La legge 124/2007, infatti, ha previsto espressamente
l’inutilizzabilità derivata agli artt. 202 e 270-bis. Entrambe le norme stabiliscono che
le notizie coperte da segreto di Stato non possono essere utilizzate né direttamente,
né indirettamente, fatte salve le prove acquisite sulla base di elementi autonomi e
indipendenti.
l. Regole di esclusione e criteri di valutazione. L’inutilizzabilità assume tratti assai
simili ad una “prova legale in negativo” in base alla quale il giudice non può basarsi
su determinati elementi per emettere la decisione. Tuttavia, vi sono ipotesi nelle
quali la norma sembra “imbrigliare” il giudice nel momento in cui valuta la prova. Su
tale base, vi è chi distingue tra le vere e proprie ipotesi di inutilizzabilità, che
costituiscono «regole di esclusione probatoria», e i casi nei quali il legislatore si
limita a porre un «criterio di valutazione legale» dell’elemento di prova. Le regole di
esclusione operano sempre in un momento antecedente rispetto a quello in cui
interviene la valutazione, viceversa, i criteri legali di valutazione implicano prove
validamente costituite e riguardano il convincimento giudiziale, in vario modo
guidato dalla legge.

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Conseguenze pratiche. Secondo tale tesi, dunque, la violazione di una regola di


esclusione è sanzionata dalla inutilizzabilità e comporta la possibilità di ricorrere per
cassazione ai sensi dell’art. 606 lett. c eventualmente anche per saltum. Viceversa, la
violazione di un criterio di valutazione non determina inutilizzabilità e si può far
valere con il ricorso per vizio della motivazione ex art. 606 lett.

e. le ipotesi applicative. Il terreno di scontro è costituito dall’art. 192 commi 3 e 4 in


base al quale le dichiarazioni degli imputati connessi «sono valutate unitamente»
agli elementi che ne confermano l’attendibilità. Secondo una parte della dottrina,
dalla disposizione si ricava che, in assenza di riscontri, le predette dichiarazioni sono
inutilizzabili. Secondo altri si tratta di un equivoco giacché tale norma si limita a
dettare ex post un criterio di valutazione e non impedisce ex ante che il dato acceda
alla conoscenza del giudice. Il criterio, quindi, influisce sul valore della prova fino ad
annullarlo in assenza di determinati requisiti, ma non si tratta di una inutilizzabilità.
Sulla base di tale distinzione, tutte quelle norme, in virtù delle quali una prova può
essere utilizzata a determinati fini e non ad altri, esulano dai casi di inutilizzabilità
relativa perché non impediscono al giudice la valutazione dell’elemento, bensì gli
precludono un determinato esito della valutazione (es. art 63: le dichiarazioni
indizianti non possono essere valutate contro la persona che le ha rese, ma possono
essere utilizzate a suo favore). Pertanto non incidono sull’an, bensì sul quomodo del
convincimento del giudice. Sul fronte contrapposto, si replica che le norme in
discorso non impongono al giudice di ritenere attendibile o meno un dato (vera e
propria prova legale) bensì gli impediscono di basare su di esso la propria decisione,
qualora manchi un riscontro ovvero si tratti di una decisione contra reum. Pertanto,
saremmo sempre nell’area della prova legale in negativo (della inutilizzabilità) la cui
peculiarità sarebbe in questa ipotesi quella di operare non nell’area dell’ammissione
della prova, ma in quella della valutazione.

7. L’ambito di applicabilità delle norme sulla prova.


a. Applicabilità nel procedimento principale. Il libro III sulle prove è collocato
nella prima parte del codice che è definita “statica” perché vi sono disciplinati gli
aspetti comuni all’intero procedimento penale; nella seconda parte, detta
“dinamica”, è regolato lo svolgimento del medesimo. Non vige alcun dubbio in
merito all’estensibilità delle norme sulla prova alla fase del giudizio o all’incidente
probatorio; i problemi si pongono in relazione alla fase delle indagini preliminari e
dell’ud preliminare.
Il limite dell’incompatibilità espressa o implicita. la collazione nel libro terzo già di
per sé costituisce un indice positivo della sua estensibilità a tutto il procedimento
penale: i primi quattro libri del codice, infatti, costituiscono una sorta di “parte
generale” del procedimento penale. In base ad un argomento sistematico, pertanto,
si ritiene che le norme generali sulle prove siano applicabili in tutto il procedimento
penale a meno che non siano incompatibili (espressamente o implicitamente) con la
regolamentazione del singolo atto da compiere in una determinata fase. L’attuale
incertezza è il frutto delle scelte fatte dalla versione originaria del codice del 1988

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che aveva accolto l’idea, tipicamente accusatoria, di una indagine preliminare


considerata come una mera inchiesta di parte, i cui risultati erano inutilizzabili nel
dibattimento. Per un verso, quindi, gli atti di indagine avevano una
regolamentazione molto più scarna rispetto agli omologhi mezzi di prova; per un
altro verso, tale diversa disciplina trovava corrispondenza anche in una differente
nomenclatura degli atti di indagine rispetto alle prove (si pensi ad es. a ricognizione
e individuazione)
Le finalità degli atti di indagine. Ad oggi anzitutto, le indagini servono per adottare
provvedimenti come l’archiviazione o il rinvio a giudizio; inoltre, costituiscono la
base per l’emanazione di provvedimenti gravemente limitativi delle libertà
fondamentali come le misure cautelari o le intercettazioni. In secondo luogo,
qualora si instauri un rito speciale come il patteggiamento o il giudizio abbreviato,
gli atti di indagine costituiscono la base per la decisione finale. Infine, la disciplina
attuale sulla utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni in dibattimento fa sì che gli
atti di indagine siano dotati fin dall’inizio di potenziale valenza probatoria. In tutti
questi contesti, gli atti di indagine costituiscono la base per la decisione che deve
essere assunta e dunque, vengono utilizzati “come se” fossero prove. Pertanto,
proprio la presa d’atto di tali funzioni, che attribuiscono alle indagini preliminari una
valenza ben più rilevante di una mera inchiesta di parte, ha fatto sì che l’intero
sistema tenda al riconoscimento di una forza espansiva alle disposizioni generali
sulle prove attraverso rinvii espressi o introdotti dalla giurisprudenza.
Gli interventi normativi sul codice del 1988. Dopo l’entrare in vigore del codice si è
manifestata una corrente giurisprudenziale e dottrinale secondo la quale si sarebbe
dovuto considerare “prova” soltanto quella raccolta in contraddittorio: da ciò
sarebbe derivata la conseguenza che il libro terzo sarebbe stato applicabile soltanto
in dibattimento; la fase delle indagini sarebbe rimasta sguarnita di tutte quelle
garanzie che assicurano l’attendibilità della prova. Per questo motivo il legislatore
ha dovuto fare chiarezza a in ordine alla sicura applicabilità di determinate norme
sulla prova a singoli atti di indagine. Tuttavia il legislatore non ha chiarito il rapporto
tra le norme generali sulle prove (libro terzo) e la disciplina delle indagini
preliminari. Qualcuno ha affermato, anzi, che il richiamo puntuale a singole norme è
una conferma della inapplicabilità delle norme generali sulle prove nella fase delle
indagini. L’opinione del Tonini però è differente: il fatto che il legislatore abbia
effettuato singoli richiami in più riprese (1990, 1992, 1995, 1997, 1999 ecc) è un
argomento che dimostra che “quanto meno” si devono ritenere applicabili quelle
norme sulle prove che sono richiamate di volta in volta in relazione ad un singolo
atto di indagine. Ciò non può comunque invalidare la regola generale che è
ricavabile dalla sistematica del codice.
b. Applicabilità nei procedimenti incidentali e complementari. Anzitutto è
opportuno sottolineare che i procedimenti incidentali e complementari
attecchiscano su di un terreno dottrinale, sensibile alle classificazioni di teoria
generale formatisi sotto il precedente codice. La lettura di allora separava con una
summa divisio tali categorie.

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Nei procedimenti incidentali si ravvisava una diramazione collaterale rispetto al


procedimento principale, funzionalmente collegata alle rationes ed agli scopi di
quest’ultimo; il classico esempio era l’incidente cautelare.
I procedimenti complementari, invece, erano considerati procedimenti autonomi
ed esterni rispetto al procedimento penale (che poteva essere ormai chiuso) il cui
oggetto aveva l’effetto di integrare quello del rito principale; il classico esempio era
la riparazione per l’ingiusta detenzione.
Nel sistema attuale si registra un rilevante ampliamento delle procedure ascrivibili
all’interno delle predette categorie. Siffatte situazioni processuali si connotano per
essere numerose e variegate e rendono assai difficile affrontare la tematica in
termini generali.
L’assenza di norme probatorie ad hoc. Nella maggior parte dei casi il codice non
traccia norme specifiche in tema di prova, né fa riferimento alla lex probatoria del
terzo libro. Pertanto, è possibile affermare che in relazione ai procedimenti
incidentali e complementari appare piuttosto debole la tutela del principio di
legalità della prova.
Oggetto dell’accertamento e regole probatorie. Nello sforzo di tracciare alcune
direttrici generali, è possibile affermare che dal sistema pare potersi ricavare un
principio di adeguatezza in base al quale le articolazioni della disciplina probatoria
dipendono dall’oggetto dell’accertamento.
Incidente cautelare. Considerazione a parte merita il problema del procedimento
volto all’applicazione delle misure cautelari personali. Pur trattandosi di un
procedimento incidentale esso ha la particolarità di avere un oggetto molto vicino a
quello del rito principale. È vero che quest’ultimo mira all’accertamento della
responsabilità al fine di irrogare la congrua pena, mentre il procedimento cautelare
mira alla verifica delle condizioni di applicabilità di una cautela personale. Tuttavia, è
evidente come simili oggetti abbiano almeno un profilo di sovrapposizione nella
misura in cui il procedimento de libertate deve accertare l’esistenza di gravi indizi di
reità. Pare lecito affermare che quanto più l’oggetto del procedimento incidentale (o
complementare) è vicino a quello del procedimento principale, tanto più forte è
l’esigenza di omologare la relativa disciplina in tema di prove e di regole di giudizio.
Principi costituzionali e procedimenti incidentali e complementari. Occorre
sottolineare come dallo stesso sfondo costituzionale si ricavino principi che operano
esclusivamente nel procedimento principale e garanzie di portata più ampia che
riguardano ogni risvolto giurisdizionale. In particolare, i canoni tracciati dall’art. 111,
commi 3, 4 e 5 paiono afferenti al procedimento principale giacché i riferimenti al
«processo penale», alla «persona accusata di un reato» e alla «formazione della
prova» sembrano alludere all’accertamento sulla responsabilità. Viceversa, le
garanzie tratteggiate dai primi due commi sembrano segnare un «minimo etico» che
può riferirsi anche ad accertamenti accessori. Analogamente deve affermarsi per la
presunzione di innocenza e per la correlata garanzia dell’al di là del ragionevole
dubbio che risultano modellati sull’accertamento della colpevolezza e, dunque,
possono avere una qualche “proiezione” in contesti procedimentali “minori”
soltanto allorché l’oggetto di questi ultimi si avvicini a quello del procedimento

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principale. Su questo sfondo devono collocarsi i procedimenti incidentali e


complementari dove a volte appare forte il potere officioso del giudice; dove, talora,
attecchiscono presunzioni; dove, talaltra, si assiste ad un richiamo sporadico di
alcuni strumenti probatori. In assenza di una espressa norma contraria, si deve
ritenere che gli accertamenti possano essere sommari e non sia necessario il ricorso
al principio del contraddittorio nella formazione della prova; che il giudice possa
attenersi allo standard probatorio, di stampo civilistico, del più probabile che no e
non trovi attuazione il criterio dell’al di là del ragionevole dubbio, che possa in alcuni
casi farsi spazio ad inversioni dell’onus probandi, posto a carico dell’imputato; che le
norme generali sulle prove trovino applicazione soltanto nella misura in cui fanno
riferimento al nucleo inderogabile delle garanzie stabilite dall’art. 111, co2 ovvero
ad altre istanze fondamentali. Ad ogni modo ogni singolo procedimento dovrà
essere autonomamente calibrato in base al proprio specifico oggetto, secondo il
principio di adeguatezza.
c. La base probatoria del giudizio cautelare. Il materiale probatorio in base al
quale il giudice valuta l’esistenza dei gravi indizi e delle esigenze cautelari è
presentato dal pubblico ministero con una richiesta di applicazione, accompagnata
dagli «elementi» sui quali la medesima «si fonda». Si tratta degli atti raccolti in
modo unilaterale dalla pubblica accusa, dalla polizia giudiziaria, ed eventualmente,
dal difensore dell’indagato e da quello dell’offeso. Tali atti sono utilizzabili come
prove durante le indagini. Si tratta di accertare se ai medesimi sono applicabili le
norme sulle prove che si trovano nel libro terzo del codice.
L’art 273, co 1-bis. Fondamentale importanza riveste la legge n. 63 del 2001 che ha
introdotto nel comma 1 -bis dell’art. 273 un richiamo espresso ad alcune
disposizioni del libro terzo rendendole applicabili al giudizio sui “gravi indizi”. Si
tratta: a) dell’art. 192 commi 3 e 4, che impone i riscontri per le dichiarazioni di
imputati connessi o collegati; b) dell’art. 195, comma 7 che richiede l’indicazione
della fonte delle dichiarazioni per “sentito dire”; c) dell’art 203, che vieta
l’utilizzazione delle dichiarazioni che la polizia giudiziaria ha ricevuto dai suoi
informatori a meno che essi non siano sentiti; d) dell’art. 271, co1, che vieta
l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni eseguite illegittimamente.
Interpretazione sistematica e a contrario. Il legislatore non ha operato un rinvio
generico a tutte le disposizioni relative alle prove, bensì ne ha richiamate soltanto
alcune. Pertanto una scelta del genere non appare soddisfacente. Il rinvio espresso
ad alcune soltanto delle norme in materia di prove potrebbe indurre a ritenere, a
contrario, che quelle non richiamate siano inapplicabili. Viceversa, si deve fare per
tutte le disposizioni del libro terzo, di volta in volta, una valutazione di compatibilità
in relazione al singolo atto di indagine (fermo restando le norme considerate
sicuramente applicabili ex art 273, co1 -bis). Ove l’interprete tendi di comparare
l’accertamento dibattimentale con le verifiche effettuate nel procedimento
cautelare, emerge una divaricazione delle regole di assunzione e utilizzabilità delle
prove. Tale diversità si riverbera anche sulle regole di giudizio. La prognosi di reità
effettuata allo stato degli atti nel corso delle indagini poggia su di una base
probatoria che può renderla nettamente distinta rispetto all’affermazione della

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colpevolezza al di là del ragionevole dubbio, effettuata valutando gli esiti


dell’istruzione dibattimentale.
Le sezioni unite Spennato. Merita ricordare l’importante decisione con la quale le
sezioni unite hanno rimarcato il diverso grado di conferma dell’ipotesi accusatoria
nei due procedimenti (giudizio preordinato alla pronuncia di condanna e la
delibazione funzionale all’esercizio del potere cautelare). In quello posto a base
della decisione definitiva la conclusione è sorretta da un quadro probatorio
completo e non suscettibile di ulteriori aggiornamenti o variazioni.
Nell’accertamento incidentale de libertate, invece, la conclusione della relativa
delibazione è assunta sulla base di dati conoscitivi ancora suscettibili di accrescersi
ed evolversi.
Regole probatorie e di giudizio nei procedimenti incidentali. Vi è dunque la
necessità che le regole probatorie e di giudizio nei procedimenti incidentali siano
tanto più vicine a quelle del procedimento principale quanto più simile è l’oggetto
degli stessi. Un’eccessiva divaricazione tra le regole sulle prove in sede cautelare e in
sede principale, per quanto fondata sull’intenzione di evitare che l’applicazione
delle misure cautelari getti un’ombra di pregiudizio sulla presunzione di innocenza,
rischierebbe di sortire un effetto paradossale: l’ordinamento tollererebbe il rischio
di una costante discrasia tra l’accertamento incidentale cautelare e gli esiti del
dibattimento. Una simile eventualità deve essere inevitabilmente accettata come
possibile, ma il sistema deve trovare un punto di equilibrio tale per cui già in astratto
una contraddizione del genere si configuri come un’eccezione e non come la regola.
Il dilemma delle misure cautelari. Le misure cautelari costituiscono una
contraddizione irrisolta dei sistemi accusatori: da un lato, il fatto che esse
materialmente coincidano con la pena (limitazione della libertà personale)
imporrebbe un accertamento tendenzialmente coincidente con la sentenza di
condanna; un altro lato, lo stesso scopo della misura richiede una valutazione
rapida, sommaria e immediata, quindi, allo stato degli atti. La misura cautelare è
fondata su prove che, di regola, non sono utilizzabili in dibattimento a causa degli
sbarramenti posti dagli artt. 526 e 514. Non solo: nell’applicare all’indagato una
misura cautelare, anche gravissima, non si rispetta né il contraddittorio nella
formazione della prova, né il contraddittorio come auditur et altera pars (art. 111,
comma 2 Cost.) secondo cui la parte deve essere posta in grado di conoscere i
presupposti di fatto utilizzabili dal giudice e di esporre le proprie ragioni prima che
sia emesso un provvedimento che produrrà effetti nei suoi confronti. Una qualche
forma di contraddittorio è garantita soltanto dopo l’esecuzione della misura
coercitiva quando il difensore è posto in grado di conoscere gli atti in base ai quali è
stato emesso il provvedimento.
Il diritto a confrontarsi con l’accusatore. Vi è, tuttavia, un ulteriore aspetto che non
è accora tutelato e che invece dovrebbe essere attuato almeno dopo che la misura
coercitiva è stata eseguita. Le norme del codice attualmente vigenti riconoscono
all’indagato il diritto a confrontarsi con l’accusatore soltanto rispetto all’imputato
connesso o collegato e infatti è sufficiente la richiesta di incidente probatorio.
Analogo diritto a confrontarsi non è garantito rispetto al possibile testimone che ha

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reso dichiarazioni a carico; questi di regola può essere esaminato in incidente


probatorio soltanto se è in fin di vita o è stato minacciato. In tale ipotesi l’art. 111
Cost, è ancora in attesa di una piena attuazione, resa peraltro indispensabile in base
alla considerazione che l’indagato è presunto innocente anche ai fini della
applicazione delle misure cautelari.
La preclusione delle questioni di diritto nel procedimento principale. Merita dar
conto di una proposta dottrinale volta a rafforzare i possibili effetti preclusivi del
procedimento incidentale cautelare su quello principale. L’idea si basa sulla
distinzione delle questioni che possono essere risolte nel procedimento incidentale:
mentre le questioni di fatto
(quaestiones facti) resterebbero rilevabili in entrambi i procedimenti ed in piena
autonomia, stante la inevitabile asincronia delle due vicende, le quaestiones iuris
decise nel procedimento incidentale potrebbero, a determinati presupposti,
precludere una eventuale riproposizione nella vicenda di merito. Si rileva come, ad
oggi, tutte le questioni processuali (es l’utilizzabilità delle intercettazioni) e
sostanziali (qualificazione del fatto) possano essere sollevate nel procedimento
incidentale ed in quello principale con relative impugnazioni fino in cassazione e con
possibilità di una pluralità di pronunce contrastanti anche di legittimità. Inoltre, si
tratta di un meccanismo che finisce per generare errori e per disincentivare la scelta
di riti alternativi. Per contro, si prospetta la possibile operatività di un effetto
preclusivo dell’incidentale in presenza di una decisione definitiva della Cassazione e
ferma la clausola rebus sic stantibus. Ove l’evoluzione del procedimento principale
porti all’acquisizione di nuovi elementi idonei a ripercuotersi sulla valutazione della
quaestio iuris determinando una differente valutazione, la preclusione sarebbe
destinata a venir meno e la questione potrebbe essere riproposta nella sede
“propria”. Si rileva come un meccanismo del genere avrebbe l’effetto di ridurre
drasticamente o il procedimento principale o il procedimento cautelare. Ove la
questione fosse fatta valere in quest’ultima sede, infatti, l’effetto preclusivo sortito
sul procedimento principale potrebbe spingere quest’ultimo a chiudersi con
l’archiviazione, oppure, nell’ipotesi speculare, potrebbe indurre la difesa alla scelta
di un rito alternativo in assenza di ulteriori carte da giocare. Tale tesi, inoltre, ha
trovato un ampio recepimento in un recente orientamento giurisprudenziale. La
Suprema Corte ha affermato in più occasioni l’idoneità delle pronunce della
Cassazione, adottate nel procedimento incidentale su quaestiones iuris, a precludere
la riproposizione di questioni identiche in assenza di nova nella vicenda principale. Il
diritto vivente ha iniziato a muoversi sull’onda dei principi di ragionevole durata e di
efficienza processuale. Si è dinanzi ad una giurisprudenza creatrice sviluppatasi in
assenza di qualsivoglia indicazione normativa su di una materia che costituisce
terreno minato anche per gli interventi del legislatore. I rischi per la tenuta del
principio di legalità appaiono, pertanto, assai elevati anche in ragione delle possibili
compressioni del diritto di difesa. Infatti, la stessa affermazione che (sia pure nel
silenzio della legge) la questione già proposta in sede incidentale non può essere
ripresentata nell’ambito della vicenda principale in assenza di nova appare ex se

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idonea a limitare il diritto di difesa, senza contare che finisce per trasferire altrove la
sede naturale del giudizio.

8. Questioni pregiudiziali e limiti probatori.


Il giudice, quando accerta se vi è corrispondenza tra un fatto storico e una norma di
legge, a volte deve risolvere questioni civili o amministrative che rappresentano
l’antecedente logico-giuridico della decisione penale. La questione costituisce un
antecedente (‘’pregiudiziale”) quando dalla sua soluzione dipende o meno
l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere
applicata (ad es. per i reati di appropriazione indebita si pone il problema della
titolarità del diritto di proprietà della cosa). Il codice di regola attribuisce al giudice
penale il potere di risolvere «ogni questione da cui dipende la decisione» sia
sull’esistenza del reato, sia sull’applicazione di una norma processuale. Occorre però
tracciare una distinzione fondamentale.
a) Quando la questione pregiudiziale ha per oggetto una controversia sullo
«stato di famiglia e di cittadinanza», il giudice penale è vincolato ai limiti di prova
stabiliti dalle leggi civili (ad es. la prova della filiazione legittima è data con i limiti
posti dagli artt. 236 e 243 del codice civile). Inoltre, il giudice penale non può
superare quel particolare segreto che riguarda «lo stato di figlio legittimo per
adozione» e che è sancito dall’art. 73. La sentenza irrevocabile del giudice civile su
una questione pregiudiziale in materia di stato di famiglia e di cittadinanza vincola il
giudice penale.
b) Quando la questione pregiudiziale ha un qualsiasi altro oggetto, il giudice
penale non è vincolato ai limiti di prova posti dalla relativa materia e applica
soltanto le regole probatorie del processo penale.
Ciò è giustificato dal fatto che il processo penale tende ad ottenere risultati il più
possibile aderenti alla verità e non è vincolato ad esigenze di certezza dei rapporti
giuridici sottostanti.

9. Oralità, immediatezza e contraddittorio.


a. Il principio di oralità. Al termine “oralità” si può attribuire il significato di
“comunicazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere
udite”. Contrapposta all’oralità è la scrittura, intesa quale forma di comunicazione
del pensiero mediante segni visibili, alfabetici o ideografici. Lo scritto può essere
letto e, in tal modo, può essere espresso oralmente; come pure, una registrazione
magnetofonica può essere riprodotta, ma si tratta di una oralità fittizia. Colui che
ascolta può udire un monologo o un dialogo, ma non può “prendervi parte” e
soprattutto non può porre domande. Pertanto si ha “oralità” in senso pieno
soltanto quando coloro che ascoltano possono porre domande ed ottenere
risposte a viva voce dal dichiarante.
b. Il principio di immediatezza. Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un
rapporto privo di intermediazioni tra l’assunzione della prova e la decisione e può
essere scisso in due corollari. In primo luogo, deve esservi identità fisica tra il
giudice che decide ed il giudice di fronte al quale si svolge il dibattimento. In

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secondo luogo, la decisione deve essere basata sulle prove che sono state
acquisite in tale fase. Tutto ciò al fine di permettere una valutazione “di prima
mano” sull’attendibilità delle dichiarazioni.
Il principio di “identità” fra il giudice che decide e quello che ha assistito al
dibattimento è posto dall’art. 525, co2, in base al quale «alla deliberazione (della
sentenza) concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno
partecipato al dibattimento».
Il principio di immediatezza è invece espresso dall’art 526: «il giudice non può
utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite
nel dibattimento». Il codice non dispone che soltanto le prove assunte oralmente in
dibattimento siano utilizzabili, ma, viceversa, ammette che lo siano tutte le prove
legittimamente acquisite in tale fase. Facendo ciò, la norma rinvia alle singole
disposizioni che stabiliscono quando l’acquisizione è legittima (ad es la lettura dei
verbali degli atti irripetibili).
c. Il principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio comporta la
partecipazione delle parti alla formazione della prova. Nella prova dichiarativa ciò
avviene quando le parti pongono le domande e formulano le contestazioni. Così,
gli elementi di prova si formano in modo dialettico: si ha il contraddittorio «per la
prova». Sotto questo profilo, l’oralità è funzionale al contraddittorio perché
permette il massimo della dialettica processuale. Il nuovo co4 dell’art 111 Cost
enuncia che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella
formazione della prova». Si tratta dell’espresso riconoscimento costituzionale del
metodo dialettico inteso come la migliore forma di conoscenza e dunque, di
regola, il giudice in dibattimento deve decidere soltanto in base alle prove
raccolte nel contraddittorio.
Vi possono essere situazioni nelle quali è attuato il contraddittorio, ma non
l’immediatezza. Ciò avviene quando, durante le indagini preliminari, si svolge
l’incidente probatorio che costituisce un’anticipazione dell’udienza dibattimentale
senza la presenza del pubblico (artt 392 e ss). Il contraddittorio è assicurato in
quanto l’escussione di una persona avviene mediante l’esame incrociato ad opera
del pubblico ministero e del difensore dell’indagato; tuttavia, se le dichiarazioni
verbalizzate sono lette nel successivo dibattimento il principio di immediatezza non
è rispettato. Infatti i principi dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio non
hanno valore in se stessi, bensì servono ad accertare la verità nel modo migliore.
Essi hanno un valore strumentale, in quanto assicurano la correttezza del risultato,
ma non sempre nella realtà è possibile attuarli in modo assoluto. Si pone allora la
necessità di prevedere alcune eccezioni e cioè delle deroghe ragionevoli, ad es. se il
testimone di un reato è stato minacciato prima del dibattimento, diventa
determinante conoscere quale versione dei fatti aveva esposto nel corso delle
indagini o anche nel caso in cui sia morto. Il nuovo co5 dell’art 111 Cost ha tipizzato
le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del
contraddittorio.

10. L’esame incrociato.

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a. Le fasi dell’esame incrociato. Questo istituto può essere definito come


quell’insieme di regole con le quali le parti pongono direttamente le domande alla
persona esaminata. Le regole sono state elaborate da una prassi secolare che si è
formata negli ordinamenti angloamericani. Rispetto a tale modello, il codice italiano
si caratterizza per il fatto di riprodurre soltanto alcune di quelle regole e per la scelta
di attribuire al giudice un controllo penetrante sullo svolgimento dell’esame. In
particolare, il presidente dell’organo giudicante ha la funzione di «assicurare la
pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la
correttezza delle contestazioni (…)» (art. 499, co6).
L’esame incrociato si articola nelle tre fasi dell’esame diretto, del controesame e del
riesame (art. 498): i soggetti che pongono le domande sono il pubblico ministero ed
il difensore delle parti private. L’esame diretto è condotto dalla parte che ha chiesto
di interrogare il testimone (o altro dichiarante). Il controesame è eventuale, nel
senso che le parti, che non hanno chiesto l’ammissione di quel teste, possono, a loro
volta, porre domande. Il riesame è doppiamente eventuale perché si svolge soltanto
se vi è stato il controesame e la parte che ha condotto l’esame diretto può
«proporre nuove domande».
L’esame diretto tende ad ottenere la manifestazione dei fatti conosciuti dal
testimone e dovrebbero essere utili a dimostrare la tesi di colui che lo ha chiamato a
deporre. Si presume che l’interrogante conosca previamente le informazioni che il
testimone dovrà fornire; il suo scopo è quello di dimostrare che il teste è attendibile
e credibile. Per tale motivo sono vietate le “domande-suggerimento” (art 499, co3).
Il controesame è condotto dalla parte che ha un interesse contrario. È eventuale nel
senso che la controparte ha la “facoltà” di porre domande. Il controesame può
avvenire sui fatti o sulla credibilità del testimone o entrambi. Nel controesame sono,
quindi, ammesse le domande-suggerimento perché il loro scopo è sia quello di
saggiare come reagisce il testimone, sia quello di far cadere quest’ultimo in
contraddizione.
Il riesame è doppiamente eventuale perché avviene solo se si è svolto il
controesame e solo se la parte, che ha chiamato a deporre il testimone, intende
procedervi. La funzione è quella di consentire il “recupero” della sequenza dei fatti
oppure di esporre la ragione delle contraddizioni nelle quali il testimone è caduto.
b. il potere di rivolgere domande. l’esame incrociato non consiste nella semplice
attribuzione alle parti del diritto di porre domande ai testimoni. Viceversa, si tratta
di un congegno articolato e complesso che ha regole precise e lo scopo di sottoporre
il dichiarante alla immediata verifica delle parti. Non può essere sottoposto ad
interruzioni e nel corso del suo svolgimento le parti hanno unicamente la possibilità
di formulare opposizioni sulle quali il presidente decide immediatamente senza
formalità (art. 504). Soltanto al termine della sequenza esame diretto –
controesame - riesame il presidente può porre d’ufficio domande.
La tutela della dialettica. La verità si conosce tanto meglio, quanto più spazio è
lasciato alla dialettica tra le parti in conflitto. Ma perché l’esame incrociato resti un
metodo di ricerca del vero e non diventi uno strumento per intimidire, allarmare ed

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ingannare il testimone (o altro dichiarante), il codice pone varie regole e prevede il


controllo operato dal giudice.
c. Le regole che presiedono all’esame incrociato. Il codice pone regole che
riguardano sia il modo di rivolgere le domande, sia il modo di rispondere alle stesse
da parte del testimone (o altro dichiarante). Le regole valgono in generale per tutti e
tre i momenti.
Le regole per le domande sono:
1) Sono ammesse domande su fatti «specifici», tuttavia, non è vietato che una parte
chieda al dichiarante di narrare ciò che ha percepito. Si, quindi, vuole evitare che il
testimone venga a riferire una “lezione imparata a memoria”. Inoltre, la domanda
deve avere ad oggetto un fatto “determinato” e non un apprezzamento del
dichiarante. Il deponente può fare apprezzamenti soltanto quando è «impossibile
scinderli dalla deposizione sui fatti».
2) Sono vietate le domande “nocive”, che aggrediscono l’autodeterminazione del
teste o che sono idonee a minare la sincerità delle risposte, e cioè non sono
ammesse le domande intimidatorie o, viceversa, suadenti (ad es.: “stia attento!”).
Unico richiamo ammesso è quello formale ad opera del presidente del collegio
giudicante ai sensi dell’art. 207.
3) Sono vietate le domande che violano il rispetto della persona umana e cioè che
ledono l’onore o la reputazione del deponente. Tuttavia nel controesame quando
occorre saggiare la credibilità del dichiarante, il diritto alla prova prevale sul rispetto
della persona: il codice non prevede “materie non indagabili”. Semmai, su richiesta
dell’interessato, il presidente dispone che il dibattimento si svolga a porte chiuse
quando l’assunzione della prova può causare un pregiudizio alla «riservatezza dei
testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto
dell’imputazione» o comunque «quando la pubblicità può nuocere al buon
costume».
Le regole per le risposte. Si possono citare tutti i casi nei quali il testimone può
astenersi dal rendere dichiarazioni. Pertanto il testimone ha facoltà di non deporre:
a) su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale (art. 198,
comma 2); b) su fatti coperti da segreto professionale (art 200); c) su fatti coperti da
segreto d’ufficio o di Stato (artt. 201 e 202). Ancora, il testimone assistito può non
deporre sui fatti di cui all’art. 197-bis, comma 4(per i quali è stata pronunciata in
giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva
negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione, non
può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in
ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti). Infine, il
testimone ha facoltà di astenersi dal deporre quando è prossimo congiunto
dell’imputato.

11. I poteri di iniziativa probatoria esercitabili dal giudice.


a. Considerazioni sistematiche. Uno dei punti più controversi del codice del 1988 è
l’ampiezza dei poteri di iniziativa probatoria esercitabili dal giudice nel dibattimento;
ci si chiede in che misura egli possa, senza richiesta di parte, ammettere prove,

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indicare temi di prova o rivolgere domande al dichiarante. Sono materie nelle quali
dal 1988 ad oggi sono intervenute più volte la Corte costituzionale, le Sezioni unite
della Cassazione e perfino il legislatore. Occorre avere ben chiari i due modelli
opposti che il Parlamento italiano con la legge-delega dei 1987 ha voluto evitare
effettuando, viceversa, una scelta volta ad accogliere un equilibrio intermedio.
Sistema inquisitorio. Si riteneva che tanto più si poteva accertare la verità quanto
maggiori erano i poteri conferiti al giudice. Infatti, in base al codice del 1930 il
giudice aveva l’obbligo «di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti che
appaiono necessari per l’accertamento della verità»; e cioè, poteva ricercare,
ammettere ed assumere la prova con la pienezza dei poteri coercitivi e senza
separazione delle funzioni processuali.
Sistema accusatorio. Nel modello accusatorio di matrice anglo-americana, il potere
di iniziativa probatoria spettava soltanto all’accusa ed alla difesa ed il giudice non
aveva alcun potere di ammissione della prova d’ufficio. In quel sistema da tempo è
accolta la c.d. teoria sportiva del processo, in base alla quale ciò che conta è
assicurare la regola, e cioè la formazione della prova in contraddittorio, e poi “vinca
il migliore”. In quel modello il giudice deve essere un notaio, un arbitro, che ha il
solo compito di “risolvere una lite”. Il processo penale è espressione della
concezione utilitaristica che domina il diritto angloamericano. In base a tale teoria
filosofica, non esiste il “giusto” in sé; tutto ha un fondamento pattizio, in base ad un
“contratto” ed anche i diritti fondamentali dell’uomo sono rinunciabili mediante
consenso dell’interessato. Tutelati i diritti soggettivi, che in quanto tali sono
rinunciabili, non hanno spazio le esigenze oggettive di accertamento del fatto di
reato. Si può avere, dunque, un “processo senza verità”, cosa che gli stessi studiosi
anglo-americani oggi criticano. Mirjan Damaska, giurista e studioso americano, ha
intitolato il suo ultimo libro «il diritto delle prove alla deriva», perché non c’è un
giudice che regge il “timone” dell’imbarcazione”: il diritto alla prova è totalmente
rinunciabile e disponibile. Se la parte rinuncia ad esercitare il suo diritto, il giudice
non ha alcun potere di iniziativa probatoria.
Il sistema accusatorio temperato. La legge delega del 1987 ha accolto un sistema
accusatorio temperato, nel quale il processo penale ha anche una funzione cognitiva
e cioè il miglior accertamento dei fatti è considerato un “valore”. L’accertamento dei
fatti non può essere lasciato nella piena disponibilità di parte, perché altrimenti
anche il diritto di libertà diverrebbe disponibile. In tale modello, il contraddittorio
nella formazione della prova è, oltre che un diritto individuale, un metodo oggettivo
di conoscenza per giungere al miglior accertamento della verità e, quindi, ad una
sentenza giusta. D’altra parte, anche le garanzie di indipendenza della magistratura
sono serventi rispetto alla funzione cognitiva del processo: l’indipendenza è la
condizione-base perchè la decisione del giudice sia il più possibile oggettiva, ossia
conforme a quanto risulta dalle prove.
Premesso che la regola del sistema accusatorio è l’iniziativa probatoria di parte (art.
190, comma 1), ne consegue che l’iniziativa probatoria del giudice penale deve
essere rispettosa del principio della separazione delle funzioni: l’iniziativa probatoria
svolta dal giudice d’ufficio è configurata come residuale (nei casi stabiliti dalla legge

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al co2) e si tratta uno strumento che serve per raggiungere lo scopo del processo, e
cioè la verità.
Il bilanciamento tra poteri delle parti e poteri del giudice. In un modello
accusatorio temperato, la separazione delle funzioni impone un bilanciamento che
limiti il potere di iniziativa d’ufficio del giudice. In primo luogo, l’iniziativa deve
essere svolta dal giudice, di regola, dopo che le prove sono state acquisite in
contraddittorio, e non prima che si svolgano i “casi” dell’accusa e della difesa. In
secondo luogo, lo scopo deve essere limitato ad assumere quelle prove che
risultano assolutamente necessarie per l’accertamento del fatto di reato, e cioè
prove decisive sia nel senso della reità, sia nel senso dell’innocenza. Il sistema
accusatorio, sia pure temperato, incontra un limite: mai il giudice può formulare
un’ipotesi autonoma rispetto a quella individuata dal pm nell’imputazione. Dunque,
l’iniziativa probatoria del giudice deve rispettare due regole: il carattere “successivo”
e “non esaustivo” (nel senso che, una volta che siano stati esercitati dal giudice, le
parti possono riprendere l’iniziativa probatoria) dei poteri stessi.
I singoli poteri officiosi del giudice. (poteri di iniziativa del giudice) In primo luogo,
il giudice (e cioè l’intero organo giudicante) anche d’ufficio può disporre che sia data
lettura integrale o parziale degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento.
Tuttavia la lettura delle dichiarazioni può essere disposta soltanto dopo l’esame
della persona che le ha rese, a meno che l’esame non si svolga. In secondo luogo, il
presidente dell’organo giudicante «anche su richiesta di altro componente del
collegio» può indicare alle parti «temi di prova nuovi o più ampi, utili per la
completezza dell’esame» (art. 506, co1). Si tratta di un potere di “suggerimento”
dopo che si sono svolti i “casi” dell’accusa e della difesa. Il presidente può soltanto
sollecitare le parti ad ampliare un tema di prova, ma ovviamente restando
all’interno dell’imputazione formulata dal pm. A seguito della sollecitazione,
l’iniziativa probatoria spetta alle parti, che possono accogliere o meno il
“suggerimento”. Il presidente del collegio giudicante può rivolgere domande al
testimone (o altro dichiarante) “già esaminato”, e cioè soltanto al termine
dell’esame incrociato. Il comma 2 dell’art. 506 è stato modificato in tal senso con la
legge n. 479 del 1999, che ha aggiunto la frase «solo dopo l’esame e il
controesame». Questo ha lo scopo di evitare che il giudice possa “bruciare”, con
interventi maldestri, i possibili obiettivi probatori delle parti. Tra l’altro, egli non
conosce gli atti del fascicolo del pm e può compromettere l’accertamento della
verità se formula domande inappropriate.
b. L’iniziativa probatoria del giudice al termine dell’istruzione dibattimentale. In
base all’art. 507, «terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta
assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi
di prova». “Terminata l’acquisizione delle prove” significa dopo che si sono conclusi i
“casi” dell’accusa e della difesa. Il requisito della “assoluta necessità” può dirsi
integrato quando la prova appaia «decisiva». L’ammissione d’ufficio di nuovi mezzi
di prova in base all’art 507 può conseguire sia ad una iniziativa autonoma del
giudice, sia ad una richiesta di parte affinché il giudice provveda in tal senso.

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La sentenza costituzionale n. 73 del 2010. In tale sentenza la Corte costituzionale ha


affermato che al termine del dibattimento, se risulta assolutamente necessario
ammettere altre prove, il giudice non ha il potere discrezionale di scegliere se
ammettere la prova o decidere sulla base dei risultati dell’istruzione probatoria
condotta fino a quel momento. In questi casi, specialmente se la prova è richiesta
dalle parti, egli ha il dovere di ammetterla ex art 507. La Consulta ha messo a
confronto quest’ultima disposizione con l’art. 190, in base al quale il giudice ha il
potere-dovere di ammettere la prova richiesta tempestivamente dalle parti se
soddisfa i parametri della non manifesta superfluità o irrilevanza. Allo stesso modo,
secondo la Corte, il giudice ha il potere-dovere di ammettere al termine
dell’istruzione probatoria quella prova che soddisfi il differente parametro previsto
dall’art. 507, e cioè quello della assoluta necessità. In sostanza, dopo la chiusura
dell’istruzione probatoria le parti hanno ancora il diritto a quella prova che risulti
«assolutamente necessaria».
Le modalità di assunzione. Il giudice dispone l’assunzione nuove prove, che siano
state richieste dalle parti, seguendo l’ordine dei casi.
L’art 507, comma 1-bis. La legge n. 479 del 1999 ha introdotto nell’art. 507 un
nuovo comma 1 -bis, che consente al giudice di disporre «l’assunzione dei mezzi di
prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento» su accordo delle parti.
Anche in questa ipotesi deve ricorrere il presupposto della assoluta necessità. La
ratio è chiara: è vero che le parti possono rinunciare al loro diritto alla prova, ma ciò
non può comportare una deroga al principio del contraddittorio come metodo di
accertamento dei fatti: all’uopo l’ordinamento conferisce eccezionali poteri officiosi
al giudice.
c. L’inerzia del pm ed i poteri di iniziativa del giudice. Sin dal 1988 si è messa in
dubbio la compatibilità tra i poteri che il giudice può esercitare d’ufficio e il sistema
accusatorio. Nell’ipotesi in cui il giudice si trovi a supplire ad inerzie della pubblica
accusa c’è stata una prima pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione nel 1992,
confermata l’anno successivo da una sentenza della Corte costituzionale. Dopo un
decennio, nel 2006, le Sezioni unite sono tornate sulla questione. Nel caso del 92, il
pm non aveva depositato tempestivamente la lista dei testimoni che intendeva
sentire in dibattimento, di conseguenza era da considerarsi inammissibile la relativa
domanda di ammettere le deposizioni testimoniali, formulata nelle richieste
introduttive. Si era posto il quesito se fosse tuttavia lecito che il giudice ammettesse
d’ufficio i mezzi di prova ai sensi dell’art. 507. Bisognava valutare se tale
disposizione doveva essere interpretata in senso restrittivo o estensivo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 507. Le Sezioni unite della Corte di cassazione e
la Corte costituzionale hanno accolto l’interpretazione estensiva dell’art. 507, in
quanto essa si presentava più rispettosa della direttiva n. 73 della legge-delega, che
prevedeva il «potere del giudice di disporre l’assunzione di mezzi di prova» senza
porre ulteriori limiti. Poi, hanno anche chiarito vari punti. Anzitutto, hanno rilevato
che ciò che diventa «inammissibile» ai sensi dell’art 468 non è la «prova», bensì la
«richiesta» come atto di parte del pm. Viceversa, nessuna inammissibilità è prevista
per il potere esercitabile d’ufficio dal giudice. In secondo luogo, le Sezioni unite

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hanno affermato che l’inciso «terminata l’acquisizione delle prove» (art 507) indica il
«punto» dell’istruzione dibattimentale in cui può avvenire l’ammissione di nuove
prove; non costituisce il presupposto per l’esercizio del potere del giudice.
Il diritto alla prova contraria. Infine, la sentenza ha sottolineato che, ove il giudice
ammetta d’ufficio una prova, resta salvo il diritto delle parti all’ammissione della
prova contraria.
Le Sezioni unite Greco. Tale orientamento è stato ribadito dalle Sezioni unite Greco
nella pronuncia del 2006. Anche in quel caso si trattava di una ipotesi in cui il giudice
era chiamato a supplire all’inerzia della pubblica accusa nella presentazione delle
liste testimoniali. Per un verso, la Corte ha affermato che lo scopo dell’art. 507 è
quello di consentire al giudice, che non si ritenga in grado di decidere per la
lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, di ammettere le
prove che gli consentono un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti.
Da un altro lato, le Sezioni unite hanno precisato che l’obiezione spesso prospettata,
in base alla quale l’acquisizione d’ufficio delle prove farebbe venire meno la terzietà
del giudice, costituisce un equivoco. La Cassazione si chiede, infatti, perché mai non
dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso. Un tale potere non è un
residuo del principio inquisitorio, bensì «vale a fondare un processo veramente
“giusto”». Ancora, ad avviso della Corte, il potere integrativo del giudice non nuoce
alla difesa e non mina il principio di parità tra le parti per due motivi: anzitutto,
perché tale potere è conferito sia con riferimento alle lacune dell’accusa, sia con
riguardo alle inerzie della difesa. In secondo luogo, perché si inserisce in un sistema
caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, che impone una costante
verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero.
Ancora sulla sentenza costituzionale n. 73 del 2010. È intervenuta, infine, la Corte
costituzionale con la sentenza n. 73 del 2010. Con tale pronuncia, il Giudice delle
leggi ha lasciato intendere che un vero rischio per l’imparzialità del giudice potrebbe
verificarsi solo nel caso di inerzia totale delle parti: il giudice diverrebbe accusatore
o difensore.
d. il principio dispositivo attenuato. È possibile ritenere che il codice accoglie in
materia probatoria un principio dispositivo “attenuato’’ che consente la libera
esplicazione del diritto alla prova spettante alle parti, ma non preclude i poteri di
iniziativa probatoria d’ufficio; se mai, limita il potere discrezionale del giudice nel
respingere le richieste di ammissione di prove, formulate dalle parti e
assolutamente necessarie.
L’indisponibilità della libertà personale. La necessità di accogliere un principio
dispositivo attenuato si ricava dall’oggetto stesso sul quale il processo va ad
incidere, e cioè la libertà personale. Poiché si tratta di un diritto fondamentale
inviolabile e indisponibile (art. 13 Cost.) non è possibile che l’esito accertativo del
processo sia interamente rimesso al potere dispositivo delle parti. Pertanto, ne
deriva che, in presenza di un panorama probatorio lacunoso e integrabile, il giudice
non può applicare direttamente la regola del ragionevole dubbio, ma deve
intervenire esercitando, se possibile, i propri poteri officiosi.

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Le conclusioni sono che: i poteri esercitabili dal giudice d’ufficio toccano soltanto
l’onere della prova in senso formale, ma non incidono sull’onere sostanziale (di
convincere il giudice). Restano valide le regole probatorie, e cioè spetta pur sempre
a chi accusa l’onere di provare i fatti al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Queste
affermazioni risultano confermate dalla sentenza delle Sezioni unite Greco del 2006
e come si desume dalla questa sentenza i poteri esercitabili d’ufficio dal giudice non
rappresentano una deroga ai “divieti probatori”, che devono essere osservati anche
da tale soggetto (ad es, non potranno essere usati metodi o tecniche idonei ad
influire sulla libertà di autodeterminazione del dichiarante).

12. La rinuncia alla prova ed il “principio di acquisizione”.


Al tema del principio dispositivo si connette la problematica della rinuncia
all’assunzione di una prova. Può infatti accadere che una parte, ottenuta
l’ammissione di un mezzo di prova, rinunci alla sua assunzione, ad esempio, non
chiamando a testimoniare una persona.
Bisogna allora comprendere i poteri del giudice e delle parti in tali ipotesi.
I limiti. La rinuncia alla prova è espressamente disciplinata dal nuovo comma 4-bis
introdotto nell’art. 495 dalla legge n. 397 del 2000, in base al quale «nel corso
dell’istruzione dibattimentale ciascuna delle parti può rinunciare, con il consenso
dell’altra parte, all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta». In altri termini
la rinuncia è efficace soltanto se l’altra parte consente, per tutelare anche il diritto
alla prova di quest’ultima, e il giudice non ha poteri di fronte della volontà delle
parti. Tuttavia, vi è sempre l’art. 507 attraverso il quale il giudice può disporre
d’ufficio l’assunzione di quella prova alla quale le parti hanno rinunciato. Nel
concetto di “altra parte” rientrano tutte le parti diverse rispetto al rinunciante.
Ciascuna parte può rinunciare alla prova per qualunque motivo, con espressa
dichiarazione resa al giudice e ciò è manifestazione normativa del diritto alla prova.
Il principio di acquisizione della prova. Al tempo stesso, tale disciplina costituisce il
riconoscimento normativo di un inedito “principio di acquisizione della prova”: il
provvedimento di ammissione della prova, richiesta da una parte, fa sorgere in capo
alle altre parti, costituite in giudizio, il diritto all’acquisizione di quel mezzo di prova.
Una volta introdotta nel processo, la prova sfugge alla piena disponibilità di chi ha
esercitato un’iniziativa in tal senso. Si crea, infatti, nelle altre parti una sorta di
“legittima aspettativa” di acquisizione. Ciò significa che la prova non è di “proprietà”
della parte che l’ha introdotta nel processo. La rinuncia opera, nell’accordo delle
parti, senza necessità di un provvedimento formale di revoca da parte del giudice. Il
tenore letterale dell’art 495, co 4bis, lascia residuare un dubbio sulla configurabilità
di una rinuncia tacita. Secondo il tonini tale tipo di rinuncia non è ammissibile
perché in materia probatoria non sussiste la libertà della forma e ciò anche per il
consenso che deve essere espresso. L’esame della prova rinunciata avrà cadenze
peculiari: in tal caso, infatti, potrà farsi immediatamente luogo al controesame, che
non sarà preceduto dall’esame diretto.
La sorte della prova contraria. Resta da chiedersi cosa succeda alla prova
“contraria” quando la prova “principale” sia stata oggetto di rinuncia. In base al

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principio di acquisizione, l’oggetto di prova è già stato inserito nel processo; esso
deve ritenersi messo a disposizione della Giustizia. Da ciò si ricava che la rinuncia
alla prova “principale” non ha efficacia su quella “contraria”. Colui che ha ottenuto
l’ammissione di quest’ultima ha il diritto di vederla assunta, nonché di ottenere
l’assunzione della prova “principale”.

13. La motivazione della sentenza.


I requisiti formali. Il codice indica in modo dettagliato i requisiti formali della
sentenza. Ai sensi dell’art 546 la sentenza ha il seguente contenuto:
a) l’intestazione «in nome del popolo italiano» e l’indicazione dell’autorità che l’ha
pronunciata.
b) Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad
identificarlo (ad es il soprannome) nonché le generalità delle altre parti private.
c) L’imputazione (comprensiva dell’enunciazione del fatto storico addebitato e delle
norme di legge che lo prevedono come reato).
d) Le conclusioni delle parti (ad es, la pena richiesta dal pm e le richieste del
difensore).
e) La concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata,
con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione
delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie.
f) Il dispositivo con l’indicazione degli articoli di legge applicati.
g) La data e la sottoscrizione del giudice, cioè del presidente e dell’estensore della
sentenza. La sentenza è nulla se manca la sottoscrizione del giudice o la
motivazione, o anche se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il
dispositivo (art. 546, co3).
Il contenuto sostanziale. Dal punto di vista del contenuto sostanziale la prassi
giudiziaria distingue al suo interno i “capi” ed i “punti”. Il “capo” della sentenza è
identificabile con la singola imputazione; il “punto” è costituito da una tematica di
fatto o di diritto che deve essere trattata e risolta per giungere alla decisione in
merito ad una o più imputazioni. Nel caso in cui vi siano errori od omissioni «che
non determinano nullità, e la cui eliminazione non comporta una modificazione
essenziale dell’atto», si deve attivare il procedimento per la correzione degli errori
materiali (art. 547). Il procedimento che porta alla correzione degli errori materiali è
disposto (d’ufficio o su richiesta di parte) dal giudice che ha emesso il
provvedimento (art. 130). II giudice provvede in camera di consiglio previo avviso
alle parti che possono intervenire (art. 127). Se la sentenza è stata impugnata, la
correzione è disposta dal giudice competente a conoscere l’impugnazione.
La valutazione. La valutazione degli elementi di prova costituisce il coronamento per
le parti di quell’onere sostanziale che si esplica nel loro potere di argomentare; la
medesima attività rappresenta per il giudice un vero e proprio dovere.
La valutazione delle prove costituisce un’attività legale e razionale. Legale, Perché si
esercita su prove legittimamente acquisite (art. 526). Razionale, perchè implica
l’obbligo di motivare, di giustificare la decisione secondo criteri di ragionevolezza nel
rispetto di tre ordini di regole: della logica, della scienza, dell’esperienza corrente

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che devono essere messi in correlazione con lo standard probatorio dell’oltre ogni
ragionevole dubbio.
Il “risultato probatorio”. L’art 192, co1, con l’espressione “risultato probatorio”
indica chiaramente l’esito di un percorso argomentativo. Infatti, non vi sono dati di
fatto che siano accettabili di per sé, ovvero “prove” il cui valore sia determinato a
priori; al contrario, in ogni caso è necessaria quell’attività raziocinante del giudice
che serve ad accertare l’attendibilità della dichiarazione e la credibilità della fonte.
L’art 192 richiede l’esposizione dei criteri (es delle massime di esperienza) utilizzati
nella valutazione degli elementi di prova; l’art 546, co1, lett e, attraverso il vaglio
delle opposte ragioni, recepisce e traduce l’esigenza del confronto tra le diverse
ipotesi ricostruttive del fatto, che sono state elaborate dalle parti. In altri termini i
due articoli sono complementari in quanto l’uno indica i mattoni con i quali costruire
l’edificio dell’altro. Naturalmente, il ragionamento del giudice non avrà il carattere
dell’inconfutabilità logica, bensì quello della accettabilità razionale.
La confutazione delle prove contrarie. L’art 546, co1, lett e, richiede che, nel
giustificare le proprie scelte in ordine alle prove che stanno alla base del suo
convincimento, il giudice dia conto anche dell’eventuale esistenza di prove che con
tale convincimento contrastano e delle ragioni per cui egli le ha ritenute non
convincenti; deve cioè, indicare le ragioni che lo hanno portato ad escludere le
ipotesi antagoniste.
Il carattere dialogico della motivazione. La struttura della motivazione assume un
carattere dialogico (altri dicono “binario”), nel senso che essa deve dar conto del
conflitto sulle prove e sulle ipotesi. Una motivazione che prendesse in
considerazione solo le prove a favore, sarebbe un ragionamento coerente, ma
perderebbe la struttura dialogica che è legalmente imposta.
Esiste un nesso inscindibile tra giurisdizione e motivazione, come emerge dalla Cost
all’art 111, co6: «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». La
motivazione è, dunque, una “componente strutturale necessaria” dei provvedimenti
del giudice. Il requisito della completezza della motivazione deve riguardare sia la
decisione in fatto, sia quella in diritto. Quest’ultima non suscita particolari problemi;
talvolta, le sentenze sono motivate in diritto in modo sin troppo esteso. Spesso,
invece, le sentenze non sono adeguatamente motivate in fatto, come se si volesse
sottolineare che tale aspetto ha minore importanza. Invece, una corretta
giustificazione della ricostruzione del fatto costituisce la premessa per un’esatta
applicazione della norma. L’esposizione delle prove, tuttavia, non basta ad esaurire
il dovere di motivare in fatto. Motivare significa, infatti, «rendere esplicito anche il
canone di argomentazione utilizzato per arrivare all’affermazione della sussistenza
(o della insussistenza) del fatto imputato».

14. Il giudice, lo storico, lo scienziato. I metodi di accertamento del fatto.


Gli studiosi si dividono tra quanti ritengono che il giudice nel decidere assomigli di
più allo storico e quanti vedono una maggiore somiglianza con lo scienziato. Invero,
il giudice svolge un ragionamento differente da entrambi; la peculiarità sta nelle
norme processuali che regolano i passaggi logici e temporali della sua decisione. Se

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mai, quello dello storico e dello scienziato sono due metodi di accertamento a
disposizione del giudice e che differiscono tra loro.
Lo storico. Il compito dello storico è quello di ricostruire come si è svolto un fatto
che è avvenuto nel passato e che ha cessato di esistere. Si tratta di un fatto non
ripetibile (lost fact) che può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha
lasciato nel mondo del reale o nella memoria degli uomini. Gli strumenti, dei quali
egli si serve, consistono nelle prove rappresentative e indiziarie. Ove non sia
presente una prova rappresentativa (es un testimone oculare, un documento ecc) lo
storico utilizza le tracce che ancor oggi sono presenti. Si tratta della prova critica (o
indiziaria): ad un fatto provato viene applicata una regola di esperienza che
permette di accertare ciò che è probabile sia avvenuto in passato.

Lo scienziato. Il compito dello scienziato è quello di esaminare un fatto che è


ripetibile ossia riproducibile. La finalità è quella di ricavare le leggi della natura che
ne regolano lo svolgimento. Lo scienziato utilizza una conoscenza empirica:
individua determinate categorie di fatti, studia i rapporti che intercorrono tra di essi
e ricava leggi che sono valide fino a quando non si dimostrano errate. La legge
scientifica esprime una relazione statisticamente significativa tra fatti della natura. Si
ritiene che, poste le stesse condizioni, il fenomeno nel ripetersi segua la medesima
legge. Questo è un primo livello di conoscenza, di tipo empirico. Successivamente, lo
scienziato formula un’ipotesi in base alla quale individua una causa ed un effetto ed
i rapporti che devono intercorrere tra i due. Ripetendo l’esperimento, lo scienziato
controlla se le misurazioni quantitative del fenomeno corrispondono alla ipotesi
formulata.

a. Il giudice e lo storico. L’attività del giudice è molto vicina a quella dello storico
perché il fatto di reato è non ripetibile ed appartiene al passato; il giudice lo conosce
mediante le prove sottoposte. Ma le differenze sono molteplici. Innanzitutto
l’attività dello storico è libera, mentre quella del giudice è vincolata da regole legali.
Il fatto da accertare. Lo storico accerta quei fatti, singoli o collettivi, che a lui
sembrano utili per ricostruire un macroevento; nel fare ciò, utilizza i criteri più vari:
rilevanza culturale, sociale, economica, politica, religiosa ecc. Viceversa, il giudice
accerta un fatto singolo al fine di valutare la responsabilità penale una persona in
relazione ad un’imputazione formulata da un organo di accusa; per il giudice, l’unico
criterio di valutazione è quello previsto dalla legge penale e l’unica responsabilità è
quella individuale.
Il metodo di ricerca. Per lo storico il metodo di ricerca delle prove è libero: egli può
utilizzare anche intercettazioni effettuate illecitamente, informazioni confidenziali o
documenti contenenti dichiarazioni anonime. Per il giudice il metodo di ricerca,
ammissione, assunzione, e valutazione delle prove è fissato dalla legge.
Il tempo del processo. Lo storico non ha limiti di tempo: può sospendere il proprio
giudizio su determinati fatti in attesa che si aprano archivi al momento chiusi. Al
contrario, il giudice non può sospendere il giudizio; il processo penale si deve

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svolgere entro tempi prestabiliti fino alla sentenza irrevocabile e al conseguente


formarsi del giudicato.

b. il giudice e lo scienziato. Già in partenza, è differente l’oggetto della


conoscenza perché lo scienziato esamina un fatto della natura che è riproducibile, il
giudice esamina un fatto umano che è avvenuto nel passato e non è ripetibile.
Inoltre, il fenomeno fisico o chimico obbedisce a leggi della natura che sono
uniformi, poste le medesime condizioni. Viceversa, il singolo comportamento
umano è libero e non è determinato da leggi.

c. i rapporti tra il metodo storico e quello scientifico. Specialmente nel processo


penale dell’era tecnologica, accade di frequente che il giudice entri in contatto con il
metodo scientifico nell’ammissione o nella valutazione di una prova. Nella
ricostruzione della legge scientifica e nella sua applicazione nel caso concreto, il
giudice può aver bisogno della attività dello scienziato in veste di perito o di
consulente di parte. Ma può anche accadere che lo scienziato entri in contatto con il
metodo storico. Ciò avviene quando il fenomeno, che deve esaminare, è avvenuto
nel passato (ad es uno scienziato che apprende dagli scritti di Plinio il giovane come
si è svolta l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.: esaminando le dinamiche eruttive
recenti, formula un’ipotesi e la applica a fatti avvenuti in passato). In definitiva, i
metodi di accertamento dei fatti sono fondamentalmente due: quello dello storico e
quello dello scienziato. Il giudice li accoglie nei limiti imposti dal diritto.

d. la scienza e il diritto penale. La legge scientifica e quella penale appartengono


a due mondi completamente differenti. Nel mondo dell’”essere” lo scienziato può
ricavare, attraverso l’osservazione della realtà, le regole dell’accadere dei fatti: le
leggi scientifiche. Viceversa, la legge penale fa parte del “dover essere”, e cioè dei
comandi normativi. Nel mondo del dover essere la regola descrive quel tipo di fatto
che essa considera illecito e indica la sanzione che il giudice “deve” applicare.
Leggi scientifiche e leggi penali. L’aspetto comune sta nella circostanza che le leggi
scientifiche e quelle penali sono entrambe “regole” che si applicano a casi
particolari, ma hanno natura e finalità differenti. Le leggi scientifiche sono regole
che si ricavano dall’accadere dei fatti; lo scienziato si limita a conoscerle come
esistenti in natura. Le leggi penali sono regole di produzione dei fatti perché
tendono a imprimere agli accadimenti una direzione che essi da soli non
prenderebbero senza che fosse imposta una sanzione giuridica (ad es ad un omicidio
volontario segue, come conseguenza delle leggi di natura, la decomposizione del
cadavere; come conseguenza della legge penale la reclusione non inferiore ad anni
21).

i rapporti tra giudice e scienziato. Quest’ultimo può riferire al giudice soltanto quale
è la probabilità statistica astratta di collegamento tra un tipo di fatto (la causa) ed un
altro tipo di fatto (l’effetto). Spetta al giudice valutare la probabilità logica di un
singolo accadimento; e cioè, se nel caso concreto quella determinata causa ha

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operato senza che altre concause siano intervenute e se la persona, che ha posto in
essere quel determinato fatto, è rimproverabile penalmente. Non è sufficiente
provare la causalità generale (statistica); occorre anche provare la causalità
individuale. In definitiva, il giudice non può delegare allo scienziato il tema
dell’accertamento del fatto e della responsabilità penale.

15. L’evoluzione del concetto di scienza. (valutazione della prova scientifca)


a. Dal positivismo al post-positivismo. Possiamo affermare che fino alla metà
del secolo scorso è stata accolta una concezione positivistica della scienza; da quella
data si è cominciato ad affermare un approccio che è stato denominato post-
positivistico.

Positivismo scientifico. In base alla filosofia positivistica la scienza era considerata


illimitata, completa, infallibile. Era illimitata perché si riteneva che ogni singola
legge scientifica avesse un valore generale e assoluto. La scienza era completa nel
senso che la singola legge era idonea a spiegare interamente l’andamento di un
fenomeno. La scienza era infallibile perché era unica e non poteva sbagliare; se mai,
potevano sbagliare gli scienziati.

Post-positivismo scientifico. Dagli studi degli anni ‘40 si è iniziato a mettere in crisi
questa concezione. Si è constatato che la scienza è limitata: di un fenomeno è
possibile cogliere un numero limitato di aspetti e rappresentarli con una legge
scientifica. La scienza è incompleta: non appena altri aspetti del medesimo
fenomeno sono conosciuti, la legge scientifica deve, se possibile, essere aggiornata
e modificata, se non è possibile, deve essere abbandonata. La scienza è fallibile:
ogni legge scientifica ha un tasso di errore che deve essere ricercato; la conoscenza
del tasso di errore è l’unico indice che una teoria è stata seriamente testata. Questa
nuova concezione si basa su un principio diverso da quello di verificazione; infatti, in
base a questa seconda filosofia, perché una legge sia ritenuta “certa”, non basta che
essa sia confermata dall’esperienza mediante il ripetersi costante delle sue
verifiche, ma occorre che sia sottoposta a tentativi di falsificazione.

b. la definizione di scienza. La scienza: è quel tipo di conoscenza che ha per


oggetto i fatti della natura; è ordinata secondo un insieme di regole generali che
sono denominate leggi scientifiche e che sono collegate tra loro in modo
sistematico; accoglie un metodo controllabile dagli studiosi nella formulazione delle
regole, nella verifica e nella falsificabilità delle stesse. Attualmente si è consapevoli
che da un numero finito di casi particolari (o di esperimenti) non si possono ricavare
regole indubitabili che abbiano un valore assoluto. La conoscenza è scientifica in
quanto rende possibile sottoporre a falsificazione la singola regola. Esiste una
asimmetria tra verificabilità e falsificabilità: nonostante vi siano continue conferme,
una teoria non sarà mai certa, mentre una sola smentita basta a falsificarla.
c. il falsificazionismo. Esempio di falsificazione delle regole: data un’ipotesi su
come si è svolto il fenomeno in un caso particolare, si deducono, dalle regole ad

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esso applicabili, quali sono le conseguenze che devono essersi verificate. Quindi si
procede alla osservazione empirica per verificare in concreto se tali conseguenze si
sono verificate. In caso positivo, la regola è validamente applicabile. In caso
negativo (e cioè se anche solo una conseguenza non si è verificata) si deduce che la
regola potrebbe non essere valida.
La provvisorietà della scienza. Il carattere di provvisorietà della scienza non deve,
però, scoraggiare né portare a pensare che questa sia inutile o inaffidabile. Infatti la
scienza progredisce attraverso l’avvicendarsi di teorie una migliore dell’altra. Inoltre,
tra una scoperta scientifica e quella successiva esistono i cd periodi di scienza
normale, nei quali la comunità scientifica accoglie una determinata teoria e vi si
riconosce. Al tempo stesso non possiamo sostenere che la verità non esiste. Il
giudice in un dato momento storico ha il dovere di decidere anche se la decisione
può fondarsi su elementi che in futuro potrebbero essere falsificati.

16. La formulazione di un’ipotesi.


a. Leggi scientifiche e tentativo di falsificazione. Verificatosi un fatto di reato,
l’investigatore ha la necessità di formulare un’ipotesi ricostruttiva. Assumendo che
quel fatto consiste di una pluralità di accadimenti, si tenta di identificare le possibili
cause di ciascun accadimento, delimitando le ipotesi proponibili. In questa fase, le
leggi scientifiche vengono utilizzate “a ritroso” (dall’evento B all’evento A). Vi è,
però, una difficoltà (come per le massime di esperienza): le leggi scientifiche
consentono di affermare che, dato l’evento A, seguirà come conseguenza l’evento
B; raramente consentono di affermare che, in presenza di un evento B, l’unica causa
di esso è l’evento A.
il procedimento “a ritroso”. Dovendo l’investigatore utilizzare la legge scientifica “a
ritroso”, utilizza inizialmente il suo bagaglio di conoscenze scientifiche per
formulare tutte le ipotesi sulle possibili cause. Tra queste ipotesi sceglie quella che
appare la più probabile in riferimento al caso concreto. Formulata un’ipotesi che
ricostruisce lo svolgimento dei fatti, l’investigatore va a verificare se questa trova
effettivamente conferma nella realtà. Se la causa di B era l’evento A, allora
sappiamo che in base a regole scientifiche o di esperienza dovrebbe essersi
verificato anche l’evento C, che una legge collega alla causa A. Quindi, si va a
cercare se l’evento C si è verificato in concreto; si tratta di un fatto che
nell’immediatezza non era stato considerato significativo in quanto ha assunto
rilevanza soltanto nell’ipotesi selezionata.
Esempio. Da osservazioni empiriche deduciamo la legge scientifica secondo cui,
quando piove (causa A), la strada è bagnata (evento B). Se partiamo dal fatto che
oggi la strada non è bagnata, stiamo utilizzando la regola in senso inverso: quando
la strada è asciutta non è piovuto. Ma quando la strada appare bagnata, non è detto
che sia piovuto; può accadere che la strada sia bagnata per altre cause. Al fine di
escludere queste ultime, occorre tenere presente che quando piove si bagna non
solo la strada, ma anche le auto in sosta (evento C): pertanto se è bagnata la strada
ma non le auto in sosta, la legge scientifica “pioggia” risulta falsificata.

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Le massime di esperienza. Nella formulazione delle ipotesi ricostruttive non si


utilizzano soltanto leggi scientifiche, ma anche massime di esperienza, che
esprimono regole generali tratte dall’osservazione del comportamento umano. «Se
la scienza dice che quella impronta appartiene a Tizio, questo ci autorizza a ritenere
che Tizio ha toccato quell’oggetto, non che Tizio abbia commesso il furto in
quell’appartamento, nel quale può avere avuto accesso per legittime ragioni».
Occorre essere consapevoli che la scienza non offre il passaggio finale per la
ricostruzione del fatto storico: tale ricostruzione è il frutto di una decisione mentale
complessa, nella quale operano i criteri della logica e dell’esperienza. È necessario
evitare che la scienza si tramuti in una scorciatoia: la legge della natura è un utile
strumento logico all’interno di un ragionamento inferenziale che, di regola, ha
implicazioni più articolate. Non si può chiedere alla scienza più di quello che può
dare.
b. massime di esperienza e tentativo di falsificazione. È pacifico che, perché
possa parlarsi di “scientificità”, la legge applicata nel caso concreto debba essere
sottoponibile al cd tentativo di falsificazione. Il medesimo criterio deve operare
quando nel processo penale sono utilizzate le massime di esperienza. Anzi, la
possibilità di smentita e resa ancora più impellente dalle caratteristiche di queste
ultime, che non sono “sperimentabili” e non sono “generali”, perché le regole del
comportamento umano ammettono eccezioni.
Il concetto di “esperienza”. Vi è tuttavia l’opinione di alcuni studiosi i quali ritengono
che le regole di esperienza siano proprie di una “persona di cultura media”, mentre
altri fanno riferimento alle conoscenze dell’uomo “comune”. Sono posizioni che si
rifanno ad una dottrina civilistica datata, ma che purtroppo sono diffuse anche tra
alcuni processualpenalisti contemporanei. Una soluzione del genere, tuttavia, è
accettabile solo quando occorre effettuare una valutazione sulla “rimproverabilità”
della colpa in base al criterio dell’agente modello. Non può essere trasferita nel
momento in cui si deve accertare la fondatezza dell’ipotesi ricostruttiva, formulata
dal pubblico ministero nell’imputazione. Al di là del ragionevole dubbio. Nel
processo penale dal 2006 si deve effettuare un accertamento della responsabilità al
di là di ogni ragionevole dubbio. In un noto scritto a proposito del rapporto di
causalità Ferrando Mantovani, professore di diritto penale e criminologia, richiede la
miglior scienza e la migliore esperienza. Il riferimento non assume come parametro
l’uomo medio. Dalla regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio consegue che
anche per le massime di esperienza occorre adottare il metodo scientifico; e cioè, è
necessario far seguire, all’induzione ed alla conferma, il tentativo di smentita. Da un
lato, il metodo induttivo deve ricavare da fatti simili alla circostanza indiziante la
“migliore” regola di esperienza. Da un altro lato, occorre valutare se la regola è
applicabile al caso concreto, alla luce di tutte le particolarità. Si tratta di una
valutazione che prescinde dalla probabilità che in astratto connota la massima di
esperienza. Inoltre, come per la legge scientifica, è necessario operare il tentativo di
smentita, andando a ricercare, in concreto, se vi sono tutte quelle conseguenze che
dovrebbero riscontrarsi se la massima di esperienza ipotizzata avesse davvero
operato nel caso di specie. Se non si trova quella conseguenza che dovrebbe esserci,

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allora si può mettere in dubbio che la regola di esperienza sia applicabile al caso
concreto.
Il caso Garlasco e la teoria dell’evitamento. Un’applicazione del metodo scientifico
alle massime di esperienza è stata effettuata nel caso Garlasco. In quella sede ci si è
interrogati a lungo sulla verosimiglianza della versione, data dall’imputato, che
affermava di aver raggiunto, dalla porta di ingresso, un determinato punto della
casa, ma non si era sporcato le suole delle scarpe, mentre, viceversa, il percorso tra
l’ingresso di casa e il punto in questione era disseminato di macchie di sangue
fresco. Il ragionamento del pubblico ministero si basava sulla seguente massima di
esperienza: “l’uomo cammina seguendo il percorso più breve da un punto ad un
altro”. Se così fosse stato, non sarebbe apparsa verosimile la versione dell’imputato,
che affermava di aver effettuato il percorso senza sporcarsi le suole delle scarpe:
questa era una delle prove a carico. Il giudice di Vigevano ha disposto una perizia
sulla posizione delle macchie di sangue e sulla probabilità di evitare le stesse nel
percorrere tale cammino. Il giudice ha conferito l’incarico ad un esperto
dell’Università di Torino, un ingegnere, che ha effettuato un esperimento utilizzando
un finto pavimento, macchiato di sangue, e ha chiesto ad alcuni sperimentatori di
correre da un punto all’altro della stanza così ricostruita in laboratorio. Tutti hanno
evitato di calpestare le macchie di sangue in base alla cd strategia di evitamento
delle macchie di sangue, connessa a processi mentali automatici, non pienamente
consapevoli, comportanti lo spostamento delle traiettorie del cammino e la
riduzione della lunghezza dei passi. L’esperimento è stato apprezzato dagli studiosi
di psicologia, perché ha accertato qual è il comportamento umano “spontaneo”,
cioè senza caratteristiche di intenzionalità. In tal modo è stato fatto un tentativo di
falsificazione della massima di esperienza e si è applicato il medesimo metodo con
cui si deve operare per la prova scientifica. Si è così dimostrato che l’essere umano
tende a camminare evitando di calpestare le macchie di sangue fresco. Se il giudice
avesse condiviso l’ipotesi d’accusa e avesse utilizzato nel suo ragionamento
decisionale la massima di esperienza del pm avrebbe operato una considerazione
non rispondente a come in effetti l’essere umano si comporta nella situazione
specifica osservata. La morale è che il compito delle parti o eventualmente del
giudice d’ufficio è di sottoporre la singola massima al tentativo di smentita, alla
stregua di quanto accade quotidianamente per le leggi scientifiche.

17. L’incontro tra teoria generale del reato e conoscenza giudiziale: l’accertamento
del rapporto di causalità.
a. L’insufficienza esplicativa delta teoria della condicio sine qua non. In materia di
accertamento del nesso di causalità, al fine di integrare la disciplina tratteggiata
dall’art. 40 cp (“nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione”) la dottrina penalistica ha elaborato
nel tempo articolate teorie. La giurisprudenza quasi unanime ha recepito la più
antica e semplice tra tutte le impostazioni: la teoria della condicio sine qua non.
Una condotta è causa di un evento se, eliminando mentalmente la condotta, viene

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meno anche l’evento (cd giudizio controfattuale: che va contro il reale svolgimento
dei fatti). Per affermare l’esistenza del nesso causale occorre chiedersi se in
assenza della condotta l’evento si sarebbe ugualmente verificato. I problemi sono
dovuti al fatto che la condicio sine qua non è soltanto un procedimento logico e,
per funzionare, richiede che si conosca la legge scientifica in base alla quale una
determinata condotta provoca un determinato evento.
Recentemente si sono sviluppati settori nei quali è assai arduo accertare il nesso di
causalità, ad es nell’ambito della sicurezza sul lavoro, rischio ambientale, attività
medico-chirurgica ecc. La sempre maggior complessità dei casi ha reso più difficile
l’individuazione delle leggi scientifiche di “copertura”.
L’intuizionismo giudiziale e la causalità in re ipsa. È stata forte la tentazione
dell’intuizionismo giudiziale. Addirittura fino agli anni Novanta, molti giudici hanno
applicato il procedimento di eliminazione mentale senza ricorrere alle leggi
scientifiche, ma colmando in via d’intuizione la lacuna conoscitiva relativa al
rapporto tra condotta ed evento e ravvisando una sorta di causalità in re ipsa, in
base alla quale la sola esistenza dell’evento è sufficiente a dimostrare l’esistenza
causale della condotta ipotizzata.
La sussunzione sotto leggi scientifiche dì copertura. Successivamente, si è percepito
che il principio di legalità e il canone in dubio pro reo erano del tutto incompatibili
con un simile modo di procedere e di ragionare. Così si è iniziato ad applicare il cd
“procedimento di sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura”, detto anche
modello nomologico-deduttivo. Dalla validità astratta della legge scientifica, si
ricavava l’esistenza in concreto del rapporto di causalità. Tuttavia, si è finito per
commettere l’errore opposto. Gradualmente la scienza, da referente
tranquillizzante, si è trasformata in una sorta di prova legale che sottraeva al giudice
ogni margine di valutazione, vincolandolo ai risultati della perizia. Si prospettavano
fattispecie “a perizia vincolante”, in relazione alle quali l’organo decidente non
poteva discostarsi dal parere degli esperti. Questa seconda tendenza copre un arco
di tempo che va dagli anni ‘90 al nuovo Millennio.
In quel periodo, la giurisprudenza ha accolto la teoria della condicio sine qua non
con l’integrazione di leggi scientifiche di copertura. Tuttavia si è registrato il formarsi
di due orientamenti contrapposti in relazione alla percentuale di validità statistica
della legge necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale.
Un primo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità dovesse essere
ritenuto esistente se vi erano serie ed apprezzabili probabilità che l’evento fosse
conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento aveva affermato che il nesso
causale esisteva soltanto se la legge scientifica, che esprimeva il rapporto tra
condotta (attiva od omissiva) ed evento, aveva un coefficiente percentuale vicino
alla certezza.

b. La “rivoluzione copernicana” della sentenza Franzese. Su questa spaccatura


sono state chiamate a pronunciarsi le Sezioni unite della Cassazione, che hanno
mutato radicalmente la prospettiva. Il supremo Collegio, con la sentenza Franzese
del 2002, ha operato una sorta di rivoluzione copernicana. La Corte è partita proprio

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dal rilievo che nel processo penale è possibile condannare soltanto se l’esistenza del
fatto e la responsabilità dell’autore risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio.
Ciò significa che in relazione all’esistenza del rapporto di causalità nel processo
penale è sempre necessario un giudizio di certezza.
Il modello causale bifasico. Il Collegio ha prospettato un modello bifasico di
accertamento del nesso causale. Una prima fase nella quale, ex ante, si ricerca in
astratto la legge scientifica applicabile al caso. Una seconda fase nella quale, ex
post, si verifica se l’evento verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di
quella legge. Nel quadro di quest’ultimo step, fondamentale importanza riveste la
cd prova per esclusione di qualunque fattore causale diverso e alternativo rispetto a
quello ipotizzato.
La probabilità logica. Il passaggio successivo è stato il chiarimento “epistemologico”
su quale tipo di giudizio probabilistico possa e debba venire in gioco al fine di
eliminare ogni ragionevole dubbio. Il giudice non deve soffermarsi sulla percentuale
di validità statistica della legge, considerata in astratto. Egli deve ritenere provato
oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto sottoposto alla sua
attenzione esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Si tratta di un
punto cruciale che segna il passaggio dalla probabilità statistica alla cd probabilità
logica. Il procedimento logico da applicare non è di tipo deduttivo ma inferenziale-
induttivo. Una simile soluzione postula l’applicazione della legge scientifica tenuto
conto di tutte le prove: sono le prove che consentono di individuare, o “sotto
determinano”, la legge causale applicabile. Al fine di raggiungere siffatto standard
conoscitivo lo strumento fondamentale è il contraddittorio tecnico effettuato
attraverso gli esperti (perito e consulenti di parte) attraverso il quale si riproduce
all’interno del processo quella dialettica che alimenta l’evoluzione scientifica
attraverso la spiegazione e la falsificazione. Data la limitatezza della conoscenza
umana nel misurare la validità astratta di una legge gli scienziati devono dare per
esistenti alcune condizioni ignorate o meramente supposte (cd assunzioni tacite,
indicate con la clausola coeteris paribus, letteralmente “a parità di tutte le altre
circostanze”). Si può affermare che una legge funziona in una data percentuale di
casi, ipotizzando che in quei casi non vi siano altri fattori condizionanti o non
operino altre leggi sconosciute. Ebbene, nella valutazione della probabilità logica la
clausola coeteris paribus (a parità di tutte le altre circostanze) deve essere riempita
dai contenuti delle risultanze processuali ed impone di
tenere conto di tutte le peculiarità del caso concreto, ivi compresi gli altri fattori
condizionanti. Nel giudizio sul nesso causale occorre escludere l’esistenza di fattori
condizionanti alternativi. Si tratta di un’operazione complessa poichè, normalmente,
nell’era della modernità è raro che ci si trovi ad accertare eventi dovuti ad un’unica
causa. Si parla di causalità multifattoriale (web causation).

c. La causalità omissiva. La questione si complica ulteriormente


nell’accertamento della causalità omissiva, nella quale comunque la fase ex post si
confronta con una causa ipotetica e non con una causa reale. Si afferma che la
causalità attiva ha carattere esplicativo, in quanto ricostruisce la causa reale

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dell’evento. Pertanto, l’accertamento della stessa ha inevitabilmente un aggancio


con la vicenda concreta. Per contro, la causalità omissiva ha carattere predittivo.
Difatti con metodo predittivo si valuta l’efficacia impeditiva della condotta omessa.
Vi è chi appare molto scettico rispetto alla possibilità di accertare processualmente
la causalità omissiva, giacché nel momento predittivo non si può giudicare la
probabilità logica, ma si può lavorare solo sul piano statistico dell’efficacia
impeditiva di condotte simili. Pertanto, nella causalità omissiva non sarebbe
possibile pervenire ad una probabilità differente da quella statistica, propria della
legge scientifica che, dunque, resterebbe l’unico criterio disponibile. Ma occorre
essere cauti. Infatti, è possibile affermare che, anche nella causalità omissiva, i
fattori individuali e particolaristici che vengono alla luce nel processo non servono
solo a ritagliare e determinare la legge di copertura (fase ex ante), ma valgono
anche a verificare in concreto l’alta credibilità razionale dell’idoneità impeditiva
dell’azione doverosa omessa, collocata nel contesto cui si riferisce.

d. Leggi scientifiche probabilistiche e massime di esperienza nella prova della


causalità. L’inedito risvolto applicativo della sentenza Franzese è dato dal fatto che
il giudice può ritenere inesistente il nesso causale pure qualora la legge scientifica
applicabile esprima una probabilità vicina alla certezza. Anche di fronte a leggi del
genere la probabilità logica deve considerarsi non integrata qualora vi sia un
ragionevole dubbio che nel caso concreto, date tutte le sue peculiarità, la legge non
abbia operato e, viceversa, siano intervenuti fattori causali alternativi. Per contro, il
giudice può ritenere che esista il rapporto di causalità anche qualora venga in gioco
una legge scientifica caratterizzata da una bassa probabilità, purché appaia provato
oltre ogni ragionevole dubbio.
Massime di esperienza e causalità. Una siffatta impostazione induce a ritenere che
l’accertamento processuale non escluda il ricorso a massime di esperienza. Dunque,
è ben possibile ricorrere all’ausilio di tali regole qualora esse permettano di
collegare una condotta con un evento. L’importante è che si riesca ad eliminare ogni
ragionevole dubbio. Se è possibile raggiungere tale livello di prova, si può affermare
che non esiste più una differenza qualitativa tra leggi scientifiche e massime di
esperienza. In senso contrario, è stato affermato che il ricorso alle leggi con
probabilità statistica medio-bassa ed alle massime di esperienza altro non è se non
una maschera dietro cui nascondere il ritorno all’intuizionismo del giudice. Tuttavia,
ciò che oggi garantisce contro il rischio è lo scudo della motivazione razionale della
decisione. Possiamo affermare che il giudice, nell’ambito del rapporto di causalità,
da “creatore” di leggi scientifiche è divenuto prima “fruitore passivo” di leggi fornite
dal perito (anni 1990-2002) e successivamente “valutatore” della miglior
ricostruzione scientifica che emerge dalle risultanze processuali passate al vaglio del
contraddittorio tecnico (dal 2002 in poi).
e. Prospettive di dibattito. Le cause incerte. L’indicazione della sentenza
Franzese è chiara e probabilmente più semplice di quanto possa apparire a prima
vista: occorre calare nel processo l’accertamento del nesso causale senza lasciarsi
ingannare dalla peculiarità di tale elemento del reato che spesso richiede di essere

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provato attraverso l’applicazione di leggi scientifiche. Altro è la validità statistica


astratta della legge, altro è la prova dell’esistenza in concreto del nesso causale oltre
ogni ragionevole dubbio. Ciò che conta è abbandonare il modello nomologico-
deduttivo e accogliere quello inferenziale-induttivo, in base al quale sono le
risultanze probatorie emerse nel processo a consentire l’individuazione della legge
scientifica o della massima di esperienza idonea a spiegare il nesso causale.
L’indeterminatezza del novero delle cause. Nonostante la chiarezza di principio
residuano, ancora oggi, alcuni punti dibattuti. Ci si chiede, infatti, come possa
funzionare nel processo penale la prova per esclusione qualora si sia in presenza di
eventi in relazione ai quali il sapere attuale non è grado di determinare il novero
delle cause prospettabili (si pensi al cd rischio da ignoto tecnologico). In tali ipotesi
risulta impossibile eliminare quel dubbio che impedisce di ridurre alla sola condotta
(attiva o omissiva) addebitata all’imputato la causazione dell’evento.
L’alternativa della responsabilità civile. Molto spesso la volontà di tutelare
categorie di vittime “deboli” (lavoratori, consumatori, pazienti) può indurre nella
tentazione di allargare i limiti della tipicità nell’accertamento della responsabilità
penale. Tuttavia occorre tenere presente che l’impossibilità di raggiungere gli
standard epistemologici del processo penale non deve intendersi come una rinuncia
dell’ordinamento ad ogni reazione repressiva di determinate condotte. Vi è infatti la
via della responsabilità civile in relazione alla quale è sufficiente raggiungere il più
lieve quantum del più probabile che non.

f. Contrasti giurisprudenziali sulla responsabilità da amianto. Estrema attualità


riveste la spinosa questione del mesotelioma pleurico da esposizione “ambientale”
ad amianto. La problematica concerne la possibilità di condannare imprenditori
imputati per omessa adozione illo tempore delle adeguate cautele in materia di
sicurezza sul lavoro. Fermo restando che la patologia in esame si manifesta dopo un
lungo periodo di latenza, è controverso se il protrarsi di tale periodo dipenda dalla
durata della esposizione alla fonte nociva (ci si chiede, cioè, se la riduzione della
latenza sia o meno dose-dipendente).
La sentenza Cozzini. Merita ricordare una recente sentenza della Cassazione con la
quale i giudici di legittimità hanno sottolineato la necessità di accertare
scrupolosamente siffatto profilo, tracciando criteri che devono guidare i giudici di
merito nella scelta tra tesi scientifiche in irrisolto conflitto. Anzitutto, la Suprema
Corte ha ricostruito la condotta del datore di lavoro non come una omessa
predisposizione delle misure cautelari doverose, bensì come un’esposizione dei
dipendenti ad un determinato fattore di rischio. Corollario di siffatta affermazione è
che, nella ricostruzione di ciò che è effettivamente successo, la causalità si accerta
con il giudizio controfattuale con eliminazione mentale, tipico della causalità attiva.
Ci si chiede, dunque, se l’evento considerato si sarebbe ugualmente verificato in
assenza della esposizione al fattore di rischio addebitata all’imputato. Nel caso di
specie, avendo ravvisato una causalità commissiva, occorre effettuare un
ragionamento causale di tipo esplicativo e stabilire se l’esposizione ha cagionato o
aggravato la patologia, dando la prova per esclusione di diverse cause.

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La fase ex ante. Per la Cassazione, nel giudizio ex ante si possono utilizzare anche
leggi statistiche, purché si attui il procedimento bifasico delineato dalla sentenza
Franzese e quindi si proceda anche al giudizio ex post. Quanto alla scelta, ex ante,
delle leggi scientifiche la Cassazione ha affermato che quando il sapere scientifico
non è consolidato o non è comunemente accettato perché vi sono tesi in irrisolto
conflitto, spetta al giudice prescegliere quella da preferire. Per valutare
l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono; le basi
fattuali sulle quali essi sono condotti; l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della
ricerca; il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi; la discussione critica che
ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in
discussione l’ipotesi, sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono
formate; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di
consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, occorre valutare se
esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete,
significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione
probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Gli esperti dovranno essere
chiamati non solo ad esprimere il loro personale seppur qualificato giudizio, ma
anche a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi che consentano al
giudice di comprendere se possa pervenirsi ad una “metateoria” in grado di fondare
affidabilmente la ricostruzione. Di tale complessa indagine il giudice è infine
chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche e
fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile».
La fase ex post. Quanto alla fase ex post, i giudici di merito devono indicare
espressamente le specifiche circostanze in grado di confermare o di falsificare
l’ipotesi espressa dalla legge generale ed astratta. In particolare, nel caso
dell’amianto, occorre indicare gli elementi concreti in base ai quali è possibile
affermare che l’effetto dose-risposta si è effettivamente verificato nel caso di specie,
in relazione alla singola vittima. Se ci si ferma alla fase ex ante si arriva ad affermare
un mero aumento del rischio di ammalarsi e cioè alla probabilità statistico-astratta,
senza arrivare a stabilire la probabilità logica in concreto.
La sentenza Fincantieri. Un differente approccio è stato accolto da una pronuncia
successiva. Ad avviso della Cassazione, una volta provato che i lavoratori erano « a
contatto costante con le micidiali polveri di amianto […] in assenza di qualsivoglia,
pur rudimentale, protezione individuale o sistema di abbattimento delle polveri»,
esiste « il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del datore di lavoro di
idonee misure di protezione ed il decesso del lavoratore in conseguenza della
protratta esposizione alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile
determinare l’esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi
prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche
solo sul tempo di latenza». Infine, il giudizio ex post sulla probabilità logica che nel
caso concreto la legge scientifica della dose-dipendenza funzioni « può serenamente
trarsi dalla vicenda clinica delle vittime, illustrata nella sentenza di merito,
emergendo che, in linea di massima il rischio decresce (anche nel solo senso che
l’insorgenza della malattia si allontana nel tempo) col trascorrere del tempo

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dall’ultima esposizione, dunque, si conclude che ogni assunzione successiva


aumenta il rischio».
Critiche alla sentenza Fincantieri. La sentenza, pare aver semplificato
l’accertamento nel rapporto di causalità. Difatti, non basta affermare in via generale
che una sostanza è cancerogena. Occorre dimostrare che quella sostanza, agendo su
un soggetto determinato e in un contesto spazio temporale determinato è stato
causa di un tumore. In base all’insegnamento della sentenza Franzese, nel singolo
caso occorre escludere tutti i possibili decorsi causali alternativi rispetto
all’esposizione all’amianto, invece, le vittime sono spesso soggetti fumatori e non ci
sono leggi scientifiche che possano fissare la soglia di esposizione al fattore nocivo al
di sotto della quale il rischio scompare e, dunque, è impossibile sapere se un
determinato periodo di esposizione al rischio ha o non ha rilievo causale.
18. La tutela della libertà morale. Prove dichiarative e prove “reali”.
a. La libertà morale della persona nell’assunzione della prova dichiarativa. Il
codice vieta di utilizzare, anche in presenza del consenso della persona interessata,
metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare
la capacità di ricordare o di valutare i fatti (artt. 188 e 64, co2). Si tratta di un divieto
probatorio che concerne l’assunzione della prova dichiarativa. Quello che conta in
un sistema garantista non è ottenere comunque una dichiarazione, bensì poter
controllare la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della narrazione, cosa che
non potrebbe avvenire ad es. con la tortura.
Divieto probatorio. Il divieto probatorio in esame opera oggettivamente: un
eventuale consenso dell’interessato non rende ammissibili tali metodi o tecniche.
L’ordinamento pone un limite assoluto all’Autorità nel momento in cui acquisisce
una prova: il processo volitivo attraverso il quale l’individuo si risolve a dichiarare
deve restare libero in ragione del fatto che il foro interno è tanto inviolabile da
essere oggetto di una tutela indisponibile anche per l’interessato. Il divieto stabilito
dall’art. 188 ha ad oggetto le modalità di acquisizione della prova (es. la
narcoanalisi). Pertanto, dovrebbe rientrare tra le regole attinenti al quomodo e
come tali destinate a rientrare nell’ambito della nullità. Tuttavia, si è dinanzi ad un
vizio del procedimento acquisitivo che risulta tanto grave da inficiare il risultato
dell’esperimento probatorio e da ledere irreparabilmente un diritto inviolabile. Può
dunque affermarsi che la disposizione in esame sancisce un vero e proprio divieto
probatorio relativo al “metodo” della prova, la cui violazione determina l’invalidità
dell’atto acquisitivo.
b. la persona come fonte di prova dichiarativa. Il divieto probatorio opera
quando la persona coinvolta nell’acquisizione viene in rilievo come “fonte di prova
dichiarativa” e cioè quando l’ordinamento ha interesse ad ottenere informazioni che
l’individuo può fornire parlando. In tal caso, ciò che si cerca appartiene al foro
interno e non può essere conosciuto senza la collaborazione dell’individuo.
Imputato e quivis de populo. Quanto alla disciplina acquisitiva, si delinea una netta
differenza tra l’imputato e tutte le altre persone (quivis de populo). Con riferimento
all’imputato, vengono in gioco le norme costituzionali sul diritto di difesa e sulla
presunzione di innocenza dalle quali si ricava il fondamentale diritto al silenzio (artt

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24 e 27 Cost). Tali norme delineano in capo a tale soggetto una situazione soggettiva
che consiste in un pieno diritto di non collaborare.
In relazione a tutti gli altri individui, i quali potrebbero rivestire la qualifica di
testimoni, da sempre si ritiene che le norme costituzionali, che tutelano l’interesse
alla repressione dei reati, giustifichino una generale servitus iustitiae che rende
punibile il rifiuto di rispondere o la falsità. In ogni caso la tutela della libertà morale
riveste un ruolo fondamentale.

c. La persona come fonte di prova reale. Se una persona riveste interesse


probatorio non per ciò che dice, ma per ciò che è, vengono in questione gli atti di
indagine e i mezzi di prova, o di ricerca della prova, che mirano ad ottenere elementi
diversi dalle dichiarazioni. In tal caso, ciò che si cerca esiste già, a prescindere
dall’attività di indagine: rilevano, ad es., attività come le identificazioni, le
ricognizioni, le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri, le consulenze tecniche e le
perizie.
La storia del processo penale si è occupata per secoli delle garanzie dell’habeas
corpus (letteralmente “che tu abbia un corpo”, locuzione utilizzata nel diritto
anglosassone per indicare il principio che tutela l’inviolabilità personale e il
conseguente diritto dell’arrestato di conoscere la causa del suo arresto) in tema di
custodia cautelare.
Soltanto nell’ultimo ventennio si è posto il problema dei limiti entro i quali
l’ordinamento può intervenire sulla fisicità della persona ai fine di raccogliere prove.
Le prime pronunce Costituzionali risalgono all’inizio degli anni Sessanta.
I beni giuridici di riferimento. I beni giuridici di riferimento devono individuarsi nella
dignità dell’essere umano, nella libertà personale e nella salute (artt. 2, 13, 32 Cost).
Sotto questo profilo, lo status dell’imputato nei confronti dell’autorità non differisce
da quello del quivis de populo. La libertà personale è configurata come inviolabile
ma può essere compressa con un atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e
modi indicati dalla legge e nell’ambito dei fini legittimi del processo penale. La
salute, viceversa, appare un diritto processualmente non comprimibile: l’unica
ipotesi di coazione contemplata dalla Costituzione riguarda i trattamenti sanitari
obbligatori da effettuarsi nell’interesse della collettività, che restano di regola
estranei alle dinamiche del rito penale. La dignità, infine, costituisce il cardine di
ogni ordinamento democratico ad impronta personalistica; è fondamentale ed
incomprimibile.

Il modello di tutela. Emerge, dunque, il clichè in base al quale è tutto vietato salvo
ciò che è espressamente consentito.

d. Le captazioni occulte. Viene da chiedersi se le attività che consistono nella


captazione occulta di dichiarazioni della persona (il caso classico delle intercettazioni
o delle videoriprese) debbano inquadrarsi nell’ambito delle ipotesi in cui l’individuo
rileva come fonte di prova dichiarativa o se venga in questione come fonte di prova
reale. Dalla scelta dipendono conseguenze importanti giacché i modelli di tutela

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applicabili sono assai divaricati tra di loro. Invero, con la sentenza n. 34 del 1973 la
Corte costituzionale ha affermato che nel corso di tale attività non si pone la
necessità di tutelare il diritto al silenzio perché si è al di fuori di un rapporto diretto
o indiretto tra individuo e autorità. In base ad un simile approccio, quando viene
effettuata una captazione occulta, per un verso, la persona “spiata” non rilascia
dichiarazioni all’inquirente, bensì ad altri individui estranei alle indagini; per un altro
verso, sembrerebbe non intaccata la libertà di autodeterminazione perché non vi
sono influenze esterne sul processo volitivo di dichiarare.
Tertium genus. Per questi motivi in materia di captazioni occulte non vengono
tutelati il diritto di difesa, la presunzione di innocenza, né la libertà morale e
l’imputato è trattato alla stregua di ogni altro individuo. L’armamentario
sanzionatorio posto a tutela del foro interno opera esclusivamente quando
l’interlocutore, dichiarato o mascherato, è l’autorità. In relazione alle captazioni
l’ordinamento garantisce altri diritti costituzionali quali la segretezza delle
comunicazioni e l’inviolabilità del domicilio.

e. il problema delle neuroscienze nel processo penale. L’evoluzione della ricerca


scientifica ha posto nel processo penale il complesso problema dell’utilizzo delle cd
neuroscienze che, misurando la struttura e la funzionalità del cervello,
consentirebbero di individuare i correlati neuronali del comportamento umano.
Definizione. Le neuroscienze costituiscono un complesso difficilmente riconducibile
ad unità, giacché hanno ad oggetto lo studio del cervello e del sistema nervoso degli
organismi viventi a livello molecolare, biochimico e genetico. Lo scopo delle
predette discipline è quello di analizzare la base biologica delle espressioni mentali e
comportamentali dell’animale e dell’uomo a partire dallo studio delle singole cellule
nervose, i neuroni. All’interno delle neuroscienze si distinguono determinati livelli di
analisi e di ricerca. Il livello più elementare di studio del cervello è costituito dalla
neuroscienza molecolare. Ad uno stadio successivo è collocata la neuroscienza
cellulare, che studia il funzionamento e la natura dei neuroni. Ad un grado più
elevato di analisi si trova la neuroscienza cognitiva, che studia i meccanismi
neuronali delle principali attività della mente umana con particolare riferimento alla
percezione, alla memoria, all’emozione, al linguaggio e all’apprendimento. Di
notevole interesse, infine, è la neuroscienza comportamentale, che ha ad oggetto lo
studio del funzionamento dei sistemi neuronali che stanno alla base del
comportamento umano e, più in particolare, l’analisi genetica della struttura del
cervello in relazione al comportamento medesimo. Proprio le ultime appaiono
interessanti in ambito forense.

La linea di discrimine. Particolari perplessità sorgono sull’impiego processuale della


neuroscienza cognitiva e comportamentale. Si può, infatti, effettuare una summa
divisio tra l’utilizzo della stessa quale strumento di “validazione” dell’attendibilità di
una qualunque prova dichiarativa e l’applicazione di siffatti accertamenti nell’ambito
della perizia psichiatrica finalizzata a stabilire la capacità di intendere e di volere
dell’imputato. Anche a voler dare per acclarato il profilo oggettivo, concernente la

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qualità, la tecnica e la certezza dei risultati, si pongono questioni di natura


soggettiva con riferimento alla libertà di autodeterminazione della persona.
Ogniqualvolta, infatti, si analizzino le dinamiche cognitive del cervello umano, si
accede ad una sfera sottratta al controllo dell’interessato, in relazione alla quale
l’individuo non è libero di autodeterminarsi, giacché oggetto di studio sono proprio
le origini del comportamento di quella persona, ciò che sta prima e al di là del
controllo volontario del proprio agire, come se tra corpo e mente non esistesse una
soluzione di continuità. Accogliendo un simile approccio la distinzione tra la persona
come fonte di prova dichiarativa e come fonte di prova reale finirebbe per
scolorarsi, giacché, si potrebbe affermare che, dietro alla genesi di ogni
comportamento e di ogni dichiarazione, esiste un fenomeno fisico al quale si può
accedere alla stregua di una res.

Neuroscienze e prova dichiarativa. Per questo motivo, l’impiego delle neuroscienze


nell’ambito dell’acquisizione della prova dichiarativa, sembra da respingersi giacché
viene in gioco la necessità di rispettare la libertà di autodeterminazione (si faccia
l’es. del cd IAT, implicit association test, che misura i tempi di reazione di un
soggetto di fronte ad una affermazione e mette in evidenza se ci sono meccanismi di
difesa di fronte ad essa. Tale controllo dell’inconscio, nel momento in cui viene reso
un esame o una testimonianza, è da considerarsi radicalmente inibito, anche
laddove la richiesta provenga dalla difesa).

Neuroscienze e prova reale. Le riflessioni diventano più problematiche per l’utilizzo


delle neuroscienze nell’ambito della perizia psichiatrica. La peculiarità di siffatto
mezzo di prova consiste nel fatto che esso ha ad oggetto l’individuo come fonte di
prova reale, giacché, al fine di stabilire l’esistenza di una malattia mentale o di un
disturbo della personalità, l’esame neurologico si atteggia con modalità che
richiamano gli accertamenti sulla fisicità dell’individuo (es prelievo di campioni per
estrarre il DNA, ricognizione di persona o di voce ecc). Tuttavia, allorché la perizia
psichiatrica passi attraverso una interazione con la persona (es esami che richiedono
la collaborazione dell’individuo) si pone, anche qui, il problema del rispetto della
libertà di autodeterminazione. Si delinea, dunque, una sorta di limbo nel quale la
separazione tra profilo “dichiarativo” e profilo “reale” non è individuabile con
chiarezza. V’è da considerare, peraltro, che, quando gli esami neuroscientifici
vengano collocati nell’alveo in cui l’individuo (con la sua componente cerebrale)
interessa alla stregua di una mera res, si prospetta un cupo scenario in cui siffatte
metodiche possono addirittura essere ricondotte nell’ambito degli accertamenti
medici eseguibili coattivamente nel corso della perizia o della consulenza tecnica ex
artt. 224-bis e 359-bis. Ma una soluzione del genere è da limitare al massimo in un
ordinamento che intende tutelare la dignità umana. Per questo motivo, occorre
ritenere che gli esami riconducibili alle neuroscienze cognitive e comportamentali,
utilizzabili nell’ambito della perizia psichiatrica, debbano quanto meno essere
effettuati con il consenso della persona che vi è sottoposta. Sempre che non si
ritenga di escludere la validità di un siffatto consenso applicando il divieto stabilito

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dall’art. 188. Si tratta di una frontiera inesplorata per il processo penale, in relazione
alla quale occorre prestare attenzione.

19. La prova atipica.


a. Le scelte del codice del 1988. Il codice del 1988 si è discostato dal principio di
tassatività delle prove, in base al quale possono essere ammesse soltanto le prove
“tipiche”, e cioè quelle disciplinate dal legislatore. L’art 189, infatti, consente
l’ingresso nel processo di prove “atipiche”, purché ciò avvenga nel rispetto di
determinate condizioni, ovvero 3 limiti: l’art 189 pone tre limiti per l’ammissione
delle prove atipiche, due di natura sostanziale ed uno di tipo processuale.
Limiti sostanziali.
1. la prova deve essere idonea all’accertamento del fatto: ciò vuol dire che deve
essere capace di fornire elementi attendibili e di permettere una valutazione
sulla credibilità della fonte di prova. Tale valutazione per le prove tipiche è già
stata effettuata dal legislatore nel codificarle, pertanto l’idoneità si presume ex
lege. Viceversa, in relazione alle prove atipiche l’idoneità deve essere valutata di
volta in volta dal giudice, al momento dell’ammissione.
2. L’altro limite sostanziale è costituito dal rispetto della libertà morale della
persona sottoposta all’acquisizione probatoria. Si tratta di un’applicazione del
principio generale, pena l’inutilizzabilità.
3. Limite processuale. Il limite processuale è costituito dalla necessità di sentire le
parti in merito alle modalità di acquisizione (tutela del contraddittorio). La
norma è stata sottoposta a critiche, in quanto non chiarisce quale debba essere il
ruolo delle parti e del giudice nella determinazione delle modalità. Peraltro, in
applicazione dei principi generali, si ritiene che possa essere ammessa su
richiesta di parte oppure introdotta d’ufficio.
Si ritiene che, nell’assumere le prove atipiche, il giudice sia tenuto ad applicare i
criteri legali stabiliti per gli analoghi mezzi di prova tipici, ovvero a ricorrere a
massime di esperienza o leggi scientifiche. II mancato interpello delle parti
determina una nullità generale intermedia. Si discute se siano configurabili mezzi di
ricerca della prova atipici. L’orientamento minoritario, che nega tale categoria, fa
leva sul fatto che i mezzi di ricerca della prova sono posti in essere prevalentemente
nel corso delle indagini preliminari, senza previo contraddittorio con la difesa (es.
perquisizione o intercettazione). Pertanto, si afferma, sarebbe impossibile dare
attuazione all’art 189 nella parte in cui impone al giudice di sentire le parti sulle
modalità di assunzione della prova prima di decidere con ordinanza sulla richiesta di
ammissione. Tuttavia, la dottrina maggioritaria e le Sezioni unite della Cassazione
hanno affermato che è possibile configurare mezzi di ricerca della prova atipici (ad
es videoriprese di immagini in luoghi diversi dal domicilio). A tal fine, occorre
procedere ad una interpretazione adeguatrice dell’art. 189: anziché configurare un
contraddittorio anticipato sulla ammissione nel corso delle indagini, si potrà
svolgere un contraddittorio successivo sulla utilizzabilità degli elementi acquisiti.
Atti di indagine atipici. Ci si è chiesti se le regole per l’ammissione delle prove
atipiche siano applicabili agli atti delle indagini preliminari. A tal proposito, i limiti

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posti dall’art. 189 devono ritenersi operativi. Le difficoltà sono dovute soprattutto
all’impossibilità di un previo contraddittorio.
Il principio di legalità della prova. Il sistema appare, dunque, informato al principio
di legalità della prova, in base al quale quest’ultima costituisce uno strumento di
conoscenza regolato dalla legge. In effetti, il codice predispone nel dettaglio il
catalogo dei mezzi di prova, nonché dei mezzi di ricerca della prova. Accanto agli
strumenti probatori espressamente regolati, però esiste la “valvola di sicurezza”
della prova atipica che rispetta i parametri dell’art 189 e viene, quindi, introdotta
mediante un procedimento di tipo formale.

b. Il concetto di prova atipica. Ancora sul principio di non sostituibilità. In


verità, la nozione di “prova atipica” non è pacifica. Secondo una prima accezione,
più radicale, è atipica quella prova che mira ad ottenere un risultato diverso da
quelli perseguiti tramite i mezzi di prova tipizzati dal codice. L’atipicità
caratterizzerebbe, dunque, il risultato e non le modalità di assunzione. In questo
senso sarebbe più opportuno parlare di prova “innominata”, e cioè non
corrispondente a nessuno dei mezzi tipici individuati dal codice. Oggi raramente ci
si trova dinanzi ad una prova atipica in tal senso, perché i mezzi di prova tipici
sembrano idonei a raggiungere tutte le varietà di risultati probatori.
Nel sistema attuale l’atipicità consiste nell’utilizzare componenti non tipiche
all’interno di un mezzo tipico (ad es ricognizione di una persona o cosa mediante un
cane addestrato).

Non sostituibilità. Proprio perché la prova atipica non mira a destrutturare i modelli
tipici previsti dal codice, ma svolge piuttosto una funzione integrativa, la dottrina è
unanime nel richiamare l’attenzione sulla necessità che essa non si risolva in uno
strumento per aggirare i requisiti delle prove tipiche. Pertanto, occorre ritenere
ricavabile dal codice un principio di non sostituibilità in senso forte che vieta
l’aggiramento di forme probatorie poste a garanzia dei diritti dell’imputato o
dell’attendibilità dell’accertamento; pena l’inutilizzabilità.

La ricognizione informale. Assai discussa è la figura della cd ricognizione informale


dell’imputato effettuata dal testimone nel corso dell’esame dibattimentale. La
giurisprudenza ammette pacificamente tale strumento. Tuttavia, la dottrina
sottolinea che, mentre la testimonianza si svolge mediante l’esame incrociato,
finalizzato a “torchiare” il dichiarante per ottenere risposte veritiere, la ricognizione
deve aver luogo in un contesto idoneo a neutralizzare la tensione emotiva del
ricognitore. Inoltre, a ben vedere, è sicuramente più attendibile un riconoscimento
effettuato tra varie persone somiglianti e vestite allo stesso modo, rispetto ad uno
espletato nei confronti di un solo individuo già messo in evidenza per il fatto che
siede al banco degli imputati. Per questi motivi, si giunge a considerare inutilizzabile
la ricognizione informale.

c. Le prove atipiche lesive dei diritti fondamentali.

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Per ammettere la prova atipica bisogna prospettare un’interpretazione


costituzionalmente conforme dell’art. 189. Pertanto, quando un’acquisizione
probatoria incide su istanze tutelate dalla Carta fondamentale, essa deve essere
disciplinata dal legislatore nei casi e modi; in assenza di una simile
regolamentazione, la prova deve intendersi vietata. L’inutilizzabilità delle prove
incostituzionali, allora, si desume non dalla Costituzione bensì dal silenzio della
legge. A ben vedere, quando il codice non prevede una disciplina espressa, e
proprio perché non la prevede, le acquisizioni che ledono diritti fondamentali
devono intendersi vietate.
I limiti dell’art 189. Dato che l’art 189 non contiene indicazioni in merito ai casi e
modi, non può essere impiegato per introdurre nel processo una prova lesiva di tali
istanze. In breve, la disposizione serve per introdurre quelle sole prove atipiche che
non collidono con norme costituzionali e che dunque non richiedono una disciplina
legislativa espressa.
La classificazione delle prove atipiche. Il problema più serio consiste nello stabilire
se un’acquisizione atipica pregiudica un diritto fondamentale e quale sia il grado di
lesione raggiunto. Proprio da tale operazione di “sussunzione” della tipologia di
acquisizione all’interno delle norme costituzionali dipende la disciplina processuale
del dato informativo raccolto. Proprio questo è il percorso interpretativo che è
stato intrapreso dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione in materia di prove
atipiche “limitrofe” alle intercettazioni. Sono note, ad esempio, le vicissitudini che
attività come l’acquisizione di tabulati telefonici e le videoriprese hanno dovuto
affrontare al fine di rinvenire un inquadramento teorico soddisfacente. Le due Corti
hanno dovuto lavorare al fine di individuare il bene giuridico coinvolto da ciascuna
attività ed il grado di compressione al quale tale interesse risultava sottoposto. Da
tale operazione, che ormai ha passaggi obbligati nella giurisprudenza, si è fatto
discendere il modello di disciplina idonea a soddisfare eventuali vincoli
costituzionali alla stregua di una vera e propria tecnica di soluzione dei conflitti.
1) Prove lesive del nucleo centrale dei diritti fondamentali. In presenza di una
significativa compromissione del nucleo centrale dell’istanza costituzionale, la prova
atipica è considerata inutilizzabile. Si applica, infatti, il modello di tutela in base al
quale la compressione dei diritti fondamentali è consentita soltanto in presenza di
una legge ordinaria che disciplina dettagliatamente casi, modi e fini
dell’acquisizione. In mancanza di una simile disciplina, dal silenzio del codice si
ricava un divieto di acquisizione, violato il quale scatta l’inutilizzabilità del dato
raccolto.
2) Prove che toccano diritti fondamentali senza intaccarne l’essenza o che
aggrediscono diritti “emergenti”. Il recente orientamento è volto a delineare una
disciplina intermedia che opera laddove, pur venendo in gioco un diritto
fondamentale, il grado della lesione non appaia tanto rilevante da intaccarne
l’essenza. In tal caso, ad avviso della Cassazione non occorre una legge ordinaria che
disciplini i casi e modi dell’acquisizione, in quanto è sufficiente un provvedimento
congruamente motivato dell’autorità giudiziaria (giudice, ma anche pm). Lo stesso
clichè è stato considerato operativo anche con riguardo a strumenti che

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aggrediscono diritti “emergenti”, che rinvengono la propria tutela nell’art 2 Cost.,


considerato una norma aperta e idonea a riempirsi di contenuto.
3) Prove che non ledono diritti fondamentali. Infine, ove non sia inciso in alcun
modo un interesse costituzionalmente rilevante, la prova atipica si considera
utilizzabile secondo le regole generali. Pertanto, si ritengono legittimi anche atti
acquisitivi compiuti su semplice iniziativa della polizia giudiziaria si sensi dell’art.
348. Si tratta di un’attività valutativa ad altissimo tasso di discrezionalità, in quanto
svolta in assenza di qualsiasi riferimento di diritto positivo e occorre, dunque, la
massima attenzione.
CAPITOLO III
I MEZZI DI PROVA
1. Nozione.
Il concetto. Con l’espressione “mezzo di prova” si vuole indicare quello strumento
processuale che permette di acquisire un elemento di prova. I mezzi di prova si
caratterizzano per l’attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie
direttamente utilizzabili in sede di decisione: l’elemento probatorio si forma in
seguito all’esperimento del mezzo di prova; ad esempio, il testimone racconta fatti
che ha percepito. Inoltre i mezzi di prova possono essere assunti soltanto davanti al
giudice nel contraddittorio tra le parti. Di regola, essi si formano nel dibattimento;
eccezionalmente e con molti limiti, possono essere assunti anche durante la fase
delle indagini preliminari mediante l’incidente probatorio, che consente di
anticipare il contraddittorio nella formazione della prova (art. 392).
I mezzi tipici. Il codice prevede sette mezzi di prova tipici, e cioè regolamentati dalla
legge nelle modalità di assunzione (artt 194-243). Sono: testimonianza, esame delle
parti, confronto, ricognizione, esperimento giudiziale, perizia (affiancata dalla
consulenza tecnica di parte) e documento. Sono considerati idonei a permettere
l’accertamento dei fatti.

La prova atipica. Il codice, a determinate condizioni, consente che possano essere


assunte prove atipiche, e cioè mezzi di prova aventi una componente non
regolamentata dalla legge (art. 189).

2. La testimonianza
a. Considerazioni preliminari. Il codice distingue in modo netto tra due mezzi di
prova: “la testimonianza” (artt 194 ss.) e “l’esame delle parti” (artt 208 ss.). La
distinzione riguarda aspetti sia di diritto processuale, sia di diritto penale sostanziale.
Il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi al giudice e di dire la
verità (artt. 198 cpp e 372 cp). Viceversa l’imputato, quando si offre all’esame
incrociato ai sensi dell’art. 208, non ha l’obbligo di presentarsi (art. 208), né
l’obbligo di rispondere alle domande (art 209, co2), né l’obbligo di dire la verità. La
distinzione trova una conferma nella normativa sulla incompatibilità a testimoniare.
In base all’art 197 la qualità di imputato è di regola incompatibile con la qualità di
testimone, salvo eccezioni.

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Il testimone e le parti sono esaminati sui fatti che costituiscono oggetto di prova, e
cioè sulla responsabilità dell’imputato e sui fatti che servono a valutare la credibilità
delle fonti e l’attendibilità degli elementi di prova. La deposizione avviene nella
forma dell’esame incrociato (art. 209 co1).
Definizione di testimone. La qualità di testimone può essere assunta dalla persona
che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che, al tempo stesso, non riveste
una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l’incompatibilità a testimoniare (es
la qualifica di imputato, o di imputato di un procedimento connesso o collegato, o di
responsabile civile, o di soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria, art
197). La persona così delineata diventa “testimone” soltanto se e quando su
richiesta di parte (o d’ufficio) è chiamata a deporre davanti ad un “giudice” nel
procedimento penale.
Gli obblighi del testimone. Il testimone ha i seguenti obblighi:
-in primo luogo ha l’obbligo di presentarsi al giudice (art. 198); se non si presenta
senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento
coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di una
somma di denaro (da euro 51 a euro 516) nonché alle spese alle quali la mancata
comparizione ha dato causa.
-In secondo luogo ha l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le
esigenze processuali (art. 198).
-Infine, il testimone ha l’obbligo di «rispondere secondo verità alle domande che gli
sono rivolte». Se tace ciò che sa, afferma il falso o nega il vero, commette il delitto di
falsa testimonianza (art. 372 c.p.).

b. Casi di non punibilità Però vi sono situazioni nelle quali il testimone è


costretto a tacere o a rendere false dichiarazioni al fine di proteggere sé stesso o un
prossimo congiunto. Dunque, il codice penale stabilisce una apposita disciplina per
limitare il delitto di falsa testimonianza.
-La scusante. In particolare, l’art. 384, co1 cp, stabilisce che non è punibile chi ha
commesso falsa testimonianza (o altri delitti contro l’amministrazione della giustizia)
perché vi è stato costretto dalla necessità di proteggere se stesso o un prossimo
congiunto da un grave pregiudizio nella libertà o nell’onore. La norma prevede,
quindi, una scusante, in base alla quale il delitto di falsa testimonianza, pur integrato
nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, è considerato non punibile. L’ordinamento
rinuncia ad applicare la sanzione penale giacché tiene in considerazione il delicato
conflitto interiore che il testimone ha dovuto affrontare nel momento in cui ha
scelto di tacere o di mentire.
-Il testimone apparente. L’art 384, co2 cp, disciplina la differente ipotesi nella quale
il delitto di falsa testimonianza sia commesso da chi per legge non avrebbe dovuto
essere sentito come testimone, ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a
deporre o comunque a rispondere, o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà
di astenersi dal rendere testimonianza. In ipotesi del genere siamo di fronte a errori
nell’attribuzione della qualifica di testimone o nell’applicazione della disciplina degli
obblighi testimoniali e, dunque, si è dinanzi ad una sorta di testimone apparente.

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L’art. 384, co2 cp individua ipotesi nelle quali la fattispecie della falsa testimonianza
non è integrata a causa dell’assenza della corretta attribuzione della qualifica
soggettiva di testimone che costruisce il presupposto per l’integrazione del reato: il
fatto commesso non è tipico e cioè non corrisponde alla fattispecie incriminatrice.

c. La deposizione: oggetto e forma. La deposizione è resa in dibattimento con le


forme dell’esame incrociato; le regole si trovano negli artt 498 e 499.
Il testimone è esaminato sui «fatti che costituiscono oggetto di prova», art 194 co1.
Le domande devono essere pertinenti, e cioè devono riguardare sia i fatti che si
riferiscono all’imputazione, sia i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme
processuali (ad es l’accertamento dell’attendibilità di una dichiarazione). L’art. 194
pone un secondo limite alle domande: esse devono avere ad oggetto «fatti
determinati» (co3). Di conseguenza, il testimone di regola non può esprimere
valutazioni, né apprezzamenti personali, «salvo che sia impossibile scinderli dalla
deposizione sui fatti». Infine, non può deporre su «voci correnti nel pubblico».
L’esame inoltre può avere ad oggetto le circostanze che servono ad accertare la
credibilità sia delle parti, sia dei testimoni (art. 194, co2).
Le informazioni relative all’imputato ed alla persona offesa. Altri limiti concernono
le informazioni relative all’imputato ed alla persona offesa. Le deposizioni sulla
moralità dell’imputato sono ammesse ai soli fini di qualificare la personalità dello
stesso in relazione al reato ed alla pericolosità e sempre che si tratti di fatti specifici
(art 194, co1).
Le domande che riguardano la persona offesa dal reato incontrano due limiti, ai
quali sono poste precise eccezioni. Tutelando così due esigenze contrapposte: 1)
tutelare la dignità della persona offesa dal reato; 2) consentire l’esercizio del diritto
alla prova spettante a tutte le parti del processo penale soprattutto all’imputato. Il
primo limite è posto dal codice nell’art 194, co2: la deposizione su fatti che servono
a definire «la personalità della persona offesa» è ammessa soltanto quando «il fatto
dell’imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella
persona». Il problema sta nel fatto che i processi che concernono i delitti di violenza
sessuale hanno tale oggetto e pertanto consentirebbero domande sulla personalità
(ad es sulle tendenze sessuali, ecc.). Tuttavia, proprio in tali processi si sente in
modo ancora più imperioso la necessità di tutelare le due esigenze contrapposte: da
un lato, evitare che il difensore dell’imputato “getti fango” sulla persona offesa,
abusando dei suoi poteri; da un altro lato, assicurare l’esercizio del diritto alla prova
ed alla prova contraria spettante all’imputato il quale è presunto innocente.

-Di tali esigenze si sono fatte carico le leggi n. 66 del 1996, n. 269 del 1998 e n. 228
dei 2003, che hanno introdotto un secondo limite che riguarda i procedimenti per i
delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e si tratta di persone indicati
nell’art. 472, comma 3-bis. Le domande aventi ad oggetto la «vita privata» o la
«sessualità» della persona offesa dal reato sono di regola vietate; sono consentite se
sono «necessarie alla ricostruzione del fatto».

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d. La testimonianza indiretta. Dei fatti da provare il testimone può avere una


conoscenza diretta o indiretta.
Ha una conoscenza diretta: quando ha percepito personalmente il fatto da provare
con uno dei cinque sensi.
Ha una conoscenza indiretta: (detta anche de relato o de auditu) quando ha appreso
il fatto non personalmente, ma da una rappresentazione che altri ha riferito a voce,
per scritto o con altro mezzo (es immagini o gesti).
Gli anglosassoni dicono che ha conosciuto il fatto “per sentito dire” (hearsay). La
persona da cui si è “sentito dire” è comunemente indicata dagli studiosi italiani con
l’espressione “teste di riferimento”: egli può avere percepito personalmente il fatto
(ed allora è denominato “teste diretto”); oppure può averlo, a sua volta, “sentito
dire” da un’altra persona (ed allora è anch’egli un “teste indiretto”). Il codice non
esclude espressamente questa seconda possibilità, anche se è ovvio che in concreto
sarà ancora più difficile trarre un sicuro valore probatorio da un sentito dire “di
seconda mano”.
Il problema della testimonianza indiretta. Il problema della testimonianza indiretta
sta nel fatto che nel processo penale attraverso l’esame incrociato è possibile
accertare la credibilità e l’attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza
personale del fatto da provare e a tal fine, il codice permette che siano fatte le
contestazioni (art. 500) e le domande-suggerimento nel controesame (art, 499,
comma 3), ma quando il fatto è conosciuto dal testimone “per sentito dire” occorre
che sia possibile accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto, sia del
testimone diretto. Ecco perché il codice pone alcune condizioni all’utilizzabilità della
deposizione indiretta che permettono di effettuare il controllo sulla credibilità della
persona da cui si è “sentito dire” e sull’attendibilità di quanto riferito.
Condizioni della testimonianza indiretta:
La prima condizione. La prima condizione, posta dall’art 195, co7, richiede che il
testimone indiretto indichi la persona o la fonte (es documento) «da cui ha appreso
la notizia dei fatti oggetto dell’esame». La legge impone, a pena di inutilizzabilità, di
individuare fisicamente la persona o la fonte del “sentito dire”; si tratta di una
condizione della quale non si può fare a meno. Una conferma si trova in un’altra
norma del codice che vieta al testimone di deporre su «voci correnti nel pubblico»
(art 194, co3). Il concetto di “individuazione” è distinto da quello di
“identificazione”. Ai fini dell’individuazione è sufficiente, ad esempio, aver indicato
la persona che abitualmente frequenta un determinato luogo ancorché non se ne
conoscano le generalità.
La seconda condizione. La seconda condizione opera soltanto quando una delle
parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza
diretta del fatto; in tal caso il giudice è obbligato a disporne la citazione (art 195,
co1). Se il giudice non dispone la citazione, la testimonianza indiretta non è
utilizzabile. Se, viceversa, nessuna delle parti ha chiesto la citazione, la
testimonianza indiretta è comunque utilizzabile, anche senza che si faccia luogo
all’esame del teste diretto.

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Ma vi è un’eccezione alla seconda condizione: ovvero, la testimonianza indiretta è


utilizzabile quando l’esame del testimone diretto «risulti impossibile per morte,
infermità o irreperibilità» (art 195, co3). L’irreperibilità presuppone che sia stato
impossibile notificare la citazione a comparire ai sensi dell’art. 167 al testimone già
identificato (dai privati o dalla polizia). Ove costui fosse stato citato, ma non fosse
comparso in aula, deve disporsi l’accompagnamento coattivo. Negli altri casi di
impossibilità di rendere l’esame (art 195, co3), se anche la testimonianza indiretta è
utilizzabile, essa tuttavia dovrà essere valutata con particolare cura (es mediante
riscontri con altri elementi di prova).
Inoltre, il codice permette al giudice, ma non è un obbligo, di disporre d’ufficio la
citazione del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna delle parti
(art 195, co2).
La valutazione. In concreto, il giudice deve valutare la credibilità e l’attendibilità di
ciascuna delle due dichiarazioni in base agli esiti dell’esame incrociato, perché non
sarebbe ragionevole una eventuale massima che tendesse a ritenere comunque più
attendibile la narrazione del testimone diretto.
Il segreto. È vietato assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da
segreto professionale o d’ufficio, salvo che queste abbiano divulgato tali fatti (art.
195, co6).

e. Il divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni dell’imputato. Il


codice pone un divieto di testimonianza sulle dichiarazioni «comunque rese»
dall’imputato (o dall’indagato) in un atto del procedimento (art. 62).
il divieto “tradizionale”. La finalità è che la prova delle dichiarazioni rese
dall’imputato (indagato) deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere
redatto ed utilizzato «con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del
procedimento». Importante è che, in sede di interrogatorio (art. 64, co1) e di
sommarie informazioni (art. 350, co1), all’indagato deve essere dato avviso della
facoltà di non rispondere allo scopo di tutelare la sua libertà nei confronti
dell’autorità inquirente: egli deve essere libero di scegliere se e quando rendere
dichiarazioni. Queste (dichiarazioni) assumono rilievo soltanto per mezzo di un
regolare verbale, dal quale deve risultare che è stato dato l’avviso. Il divieto di
testimonianza indiretta appare dunque finalizzato ad evitare che siano introdotti nel
processo elementi che non risultano dalla documentazione formale dell’atto.
Pertanto, tale disciplina è riconducibile alla tutela del diritto al silenzio che, a sua
volta, costituisce manifestazione del diritto di difesa e della presunzione di
innocenza.
L’oggetto. In primo luogo il divieto si riferisce a chiunque riceva le dichiarazioni, sia
egli un testimone qualsiasi o la polizia giudiziaria. In secondo luogo, il divieto ha per
oggetto “dichiarazioni” in senso stretto, e cioè espressioni di contenuto narrativo.
Risultano quindi riferibili per sentito dire quelle dichiarazioni che costituiscono
espressioni di volontà (ad es il consenso ad un accertamento diagnostico) o meri
comportamenti (ad es durante la perquisizione).

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In terzo luogo, le dichiarazioni, rispetto alle quali opera il divieto, sono quelle rese
«nel corso del procedimento» (art. 62); l’espressione deve essere intesa nel senso di
“in occasione” di un atto tipico e non “durante la pendenza” del procedimento (ad
es un testimone, che ha assistito ad un colloquio tra un indagato e altra persona o
che ha ricevuto una dichiarazione fuori da un atto del procedimento, può riferire
quanto ha sentito dire). Infine, il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che
abbiano una valenza di “prove”, e non quelle che siano rilevanti come “fatti storici di
reato” che devono necessariamente essere accertati mediante un processo penale.
Il divieto sulle dichiarazioni rese nel corso di programmi terapeutici. Il d.lgs 2014, n.
39 di attuazione della Direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo
sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, che sostituisce la
decisione quadro 2004/68/GAI, ha introdotto nell’art. 62 un nuovo co2. La
disposizione stabilisce che il divieto di testimonianza indiretta «si estende alle
dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall’imputato nel corso di programmi
terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di
minori». La ratio della disposi