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“Il segnale dell’elefante.

Storia della mancata insurrezione del Partito d’Azione nella Roma città
aperta”, Marlin Editore, Salerno 2017.
Prefazione dell’autore

“Il segnale dell’Elefante” vuole ricostruire la storia della partecipazione politi-ca e militare del
Partito d’Azione alla resistenza romana. Se ne ritrovano nel contesto urbano le radici socio-
culturali e politiche e, dall’altro lato, si imposta la questione sulla successiva memoria, sempre che
di memoria si possa parlare per una realtà, come quella del partito romano, su cui è persistita una
tale scarsità di contributi bibliografici da assomigliare più al silenzio che a un filo di voce, per
quanto sottile.
Un quadro, questo, in contrasto netto con la rigogliosa pubblicistica (anche memorialistica) sulla
resistenza romana, che dalla liberazione della città è andata protraendosi ininterrotta sino ai tempi
più recenti, affrontando tanto le grandi narrazioni complessive (come quelle di Enzo Piscitelli,
Renato Perrone Capano e Roberto Battaglia negli anni Sessanta), quanto temi e problemi specifici
(Robert Katz sulle titubanze del Vaticano verso gli occupanti nazisti in Morte a Roma, del 1967,
divenuto best seller), anche di conflittuale e irrisolta metabolizzazione nell’opinione pubblica,
come nel caso delle Fosse Ardeatine, su cui Alessandro Portelli ha realizzato la monumentale
“controstoria” – per dirla alla Nuto Revelli – L’ordine è già stato eseguito, del 1999.
In questa pluralità di voci si sono affermate nel tempo le storie della resistenza romana dei
comunisti, dei socialisti e anche di una banda autonoma come “Bandiera Rossa”: con l’effetto
indiretto di aumentare la fragorosità del silenzio sul Partito d’Azione. Anche i suoi protagonisti, nel
pubblicare, hanno adottato posture estroverse: Leo Valiani, in Tutte le strade conducono a Roma,
lascia il letto-re più alla suggestione proverbiale del titolo che non a un resoconto di interezza
compiuta sui fatti del partito nella capitale. Emilio Lussu, in Sul Partito d’A-zione e gli altri,
alternando l’atteggiamento memorialistico a valutazioni di or-dine generale sul partito, si riferisce
a episodi legati alla città dandosi per buona, alle spalle, una storia già scritta. Da nessuno.
Nel 1997 l’opera di Giovanni de Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947 ha fornito il primo
profilo complessivo su scala nazionale dell’intenso e brevissimo decorso di vita di tale soggetto
politico, rendendo ragione del carattere unitario di quella che è stata un’entità localmente
diversificata (per composizione sociale e culturale) da regione a regione, e anzi da provincia a
provincia. Dopo dieci anni, nel 2007, a carattere analogamente nazionale e generale è Giustizia e
Libertà - storia di una cospirazione antifascista 1929-1937, di Mario Giovana, che ricostruisce la
«galassia» della rete giellista a partire dai fermenti politici che ad-densandosi tra il ’23 e il ’28 ne
hanno creato la materia costituente. In entrambe le opere, imprescindibili per la definizione della
parabola giellista e azionista in Italia, alcune aree del paese restano più scoperte dalle maglie della
trattazio-ne (come il sud Italia, per il quale è uscito nel 2000 Il Partito d’Azione nel Regno del Sud
di Antonio Alosco). In queste pubblicazioni tematiche, Roma è e resta un buco.
Porsi il problema del perché nessun lavoro storiografico organico abbia finora riguardato la Roma
antifascista azionista mette direttamente già dentro alle questioni di merito delle origini del partito
e dell’inizio della sua lotta di liberazione. Era un silenzio denso, non vuoto. Lo sapeva Enzo
Piscitelli, la cui opera è la più centrata sui soggetti politici impegnati nell’azione resistenziale a
Roma: lamentava, nell’introduzione, l’«insufficienza» della documentazione disponibile, «gli
ostacoli di varia natura posti dai privati nel mettere a disposizione i loro archivi». Adombrando
come vi fossero anche ragioni soggettive a far propendere per il silenzio su tanti aspetti della
Resistenza romana.
La scelta di mettere mano a una storia dell’attività politica e militare romana solo del Partito
d’Azione dal ’42 al ’44 nasce dunque dalla necessità di colmare un vuoto che aveva assunto la
forma del tempo trascorso, verticale. E attorno alla quale si erano già stratificate le storie degli altri
soggetti resistenziali della città. Ciò non significa, neanche per tacita inferenza, che il partito abbia
agito separato dal contesto o senza collaborare, a tutti i livelli gerarchici e funzionali, con la
galassia partigiana romana. Anzi. Sono emerse commistioni sorprendenti, che la narrazione prova
a restituire. Sulle ragioni di quello che abbiamo chiamato “silenzio” c’è certamente da riflettere.
La più evidente è risieduta nella indisponibilità delle fonti documentarie. An-che La Resistenza in
Roma di Renato Perrone Capano, del 1963, e Storia della Resistenza romana di Enzo Piscitelli, del
1964, muovono da materiali documentari costituiti da quanto poteva essere fonte disponibile al di
fuori della documentazione allora segretata o indisponibile (in primis, quella degli archivi sta-tali
relativa all’antifascismo, ma soprattutto quella che i partiti politici nati dal-le ceneri del vecchio
regime, per ottenere i “riconoscimenti” di partigiano o di patriota per i propri militanti nella lotta
di liberazione, producevano alle appo-site Commissioni).
L’innesco di questa ricerca, le cui ragioni profonde sono di natura politico-culturale e di
metodologia, è risieduto quindi in un’emersione documentaria qua-si simultanea, nel primo
decennio del Duemila: dal Circolo Giustizia e Libertà di Roma, ex Federazione romana del Partito
d’Azione, si rendevano
Sulle ragioni di quello che abbiamo chiamato “silenzio” c’è certamente da riflettere.
La più evidente è risieduta nella indisponibilità delle fonti documentarie. An-che La Resistenza in
Roma di Renato Perrone Capano, del 1963, e Storia della Resistenza romana di Enzo Piscitelli, del
1964, muovono da materiali documentari costituiti da quanto poteva essere fonte disponibile al di
fuori della documentazione allora segretata o indisponibile (in primis, quella degli archivi sta-tali
relativa all’antifascismo, ma soprattutto quella che i partiti politici nati dal-le ceneri del vecchio
regime, per ottenere i “riconoscimenti” di partigiano o di patriota per i propri militanti nella lotta
di liberazione, producevano alle appo-site Commissioni).
L’innesco di questa ricerca, le cui ragioni profonde sono di natura politico-culturale e di
metodologia, è risieduto quindi in un’emersione documentaria qua-si simultanea, nel primo
decennio del Duemila: dal Circolo Giustizia e Libertà di Roma, ex Federazione romana del Partito
d’Azione, si rendevano disponibili i fascicoli dell’Ufficio Stralcio per le pratiche dei
“riconoscimenti”. In parallelo, altrettanto accadeva coi documenti dell’Archivio dell’Ufficio
Qualifiche e Riconoscimenti Partigiani del Ministero della Difesa, iniziatosi a versare all’Archivio
Centrale dello Stato nel 2009 nel fondo denominato “Ricompart.”. Si è potuto, in sostanza,
confrontare la documentazione in uscita dal partito con quella in entrata presso le Commissioni, e
da quelle lavorata. La fase saliente dello studio documentale si è svolta nella cornice accademica
del dottorato di ricerca di XXI ciclo (2006-2009) presso l’Università di Cassino, col tutoraggio del
professor Mar-co De Nicolò.
Ogni Commissione di riconoscimento era composta da membri di ciascun partito ciellenista, delle
associazioni partigiane e da due membri militari; l’istruttoria avveniva su basi documentali militari,
di partito o testimoniali, e attraverso riscontri con dati già acquisiti come certi. Al termine del
percorso di riconoscimento la Commissione redigeva un “modulo P”, vero e proprio foglio
matricolare del partigiano o del patriota, con indicazione anche della sua appartenenza politica.
In nessun caso il confronto incrociato ha smentito la bontà delle fonti documentarie del partito.
Anzi, i carteggi preparatori delle domande di riconosci-mento e delle “relazioni” (della Federazione
romana), di zona e di gruppo (es.: Gruppo Radio, Ufficio Falsi) restituiscono spesso molti dati in
più, o molto più interessanti per la ricerca, rispetto a quanti non ne contengano gli analoghi pro-
dotti documentali “finiti”, ufficiali e ufficializzati di “Ricompart.”. Il tumulto gestazionale della
raccolta e dell’organizzazione dei dati, il disordine dinamico del loro affluire sono di per sé una
fotografia molto fedele della «natura delle cose, molteplici» (rubando le parole a Bauer) della
resistenza romana. Molto più di quanto non siano i ruolini delle due divisioni (con brigate,
reggimenti, battaglioni, distaccamenti, ciascuno di egual numero di componenti) che a timbro e
firma di Vincenzo Baldazzi consacrano più di cinquemila nomi di combattenti alla formazione del
Partito d’Azione romano. Le formazioni in campo durante l’occupazione non ebbero mai la
perfetta strutturazione da parata – allineata e coperta, a uso e consumo dell’istituzione militare –
cui i due fascicoli danno il crisma. Né ebbero quei numeri. È più verosimile che fossero
milleduecento gli armati pronti a insorgere ai primi di giugno ’44, come suggeriscono le liste
approntate dal-la Federazione.
Il riscontro biunivoco tra fondo della Federazione e quello “Ricompart”, base della verifica fattuale,
è stato di volta in volta interrelato con la massa di pubblicazioni particolari e anche minime
(puntiformi, nel tempo e nello spazio bibliografici) riguardanti i fatti e i loro protagonisti. Da questa
ritessitura (inclusiva di qualche intervista e delle preziose indicazioni dirette avute dai soci più
anziani del Circolo già dal 1996) è stato possibile addensare una storia corale generale e quanto
più possibile complessiva dei fatti e delle relazioni umane e politiche che hanno costituito il partito
romano.
Entrando finalmente nel vivo della questione del perché del lungo silenzio sul Partito d’Azione
romano, preme anzitutto asserire come la conclusione del-la vicenda resistenziale romana si situi
in un momento – il giugno ’44 – in cui la risalita del fronte angloamericano lungo la penisola e
l’intensificarsi della lotta partigiana nel nord e nel centro nord (iniziava appena la campagna estiva
di rastrellamenti sistematici nelle zone partigiane), non lasciano affatto percepire come
conclusione di un ciclo la liberazione di Roma, bensì come mera prima affermazione in una partita
di cui il grosso, sotto il profilo militare e (quindi) soprattutto politico, è ancora tutto da giocarsi al
Nord.
Nella Roma appena liberata, per il parito maiora premunt: e l’esigenza non già di fissare la
memoria dell’attività svolta, ma persino di distinguersi e organizzarsi in quanto federazione
romana del Partito d’Azione passa in secondo pia-no rispetto alla lotta ancora in corso. Numerosi
partigiani vogliono continuare a contribuirvi (e lo faranno) oltrepassando le linee: o per unirsi ai
compagni in zona di occupazione, o arruolandosi nel Corpo Volontari della Libertà, o seguendo
l’esempio di Riccardo Bauer (caso sintomatico per tutti: Giorgio Marincola). Bauer, elogiato dalle
autorità militari britanniche per la qualità dell’Ufficio Falsi di cui era riuscito a dotare il partito a
Roma, accetta di seguire la risalita degli alleati verso il nord mettendo a loro disposizione quello
straordinario gruppo di lavo-ro, a fondamentale supporto dell’intelligence dello Special Operation
Executive. Ciò, non senza intavolare coi britannici un rapporto dialettico, e nient’affatto sub-
alterno (rifiutare inquadramento e uniforme britannici voleva rimarcare la lotta come lotta italiana
e rivoluzionaria). C’è un’inedita ragione del silenzio sull’attività partigiana del PdA romano. Silenzio
durato decenni, se non si considerano sporadiche pubblicazioni memorialistiche di tenore
personale o familiare. Questa ragione risiede nella mancata insurrezione, che è la questione delle
questioni e che affondava le sue radi-ci nel combinato delle culture confluite nel partito, cioè nei
rapporti di forza che tra queste si erano stabiliti. In questo panorama si trovano le responsabilità di
quanto accadde, e di quanto non accadde. Il silenzio dei protagonisti nei decenni immediatamente
seguenti era motivato da imbarazzi o ragioni di inopportunità per motivi, grandi o piccoli che
fossero, sempre contingenti. Dalla parte dei militanti, invece, la mancata insurrezione e il
successivo inesplicabile silenzio han-no significato un vulnus di enorme entità, del quale non sono
stati in grado di rielaborare le esatte ragioni scivolando così nella reticenza, nella delusione, nel-la
rimozione. Essi hanno finito per attribuire a se stessi i motivi della mancata insurrezione, sotto il
denominator comune di un senso di colpa ingiustificato per-ché ingiustificabile: mancavano,
difatti, le informazioni disponibili per una ricostruzione storica dei contorni particolari della
questione, per capire insomma che cosa era successo.
Ultimo e non ultimo, all’indomani della liberazione, Roma diventa immediatamente, da centro
delle questioni, una retrovia politica. i maggiori leader del Partito d’Azione prendono subito le
strade più diverse, più congeniali ai loro pro-fili politici caratteristici e caratteriali. Lussu salpa per
la Sardegna per dedicarsi alla questione contadina e popolare, certo che dall’isola divamperà
l’insurrezione decisiva alle sorti del paese – o forse già sfiduciato sul futuro del partito? Baldazzi si
dedica all’organizzazione dei lavoratori in cooperative e riprende la tessitura nei quartieri del
repubblicanesimo militante fino a una sfiancante campagna pro-repubblica in vista del
referendum istituzionale.
I tempi correnti tra la tarda primavera del ’44 e il referendum costituzionale del 2 giugno ’46 non
concederanno, analogamente, spazio alcuno alla fissa-zione e alla rielaborazione del lavoro svolto
nei mesi dell’occupazione di Roma. Cadono, tra i due termini temporali, almeno tre momenti
ulteriori di spaccatura del partito: il Congresso di Cosenza dell’agosto ’44, che segna un
esacerbamento dell’estremizzazione personalistica Lussu-La Malfa; l’esperienza del governo Parri
e soprattutto il suo naufragio, con l’impatto polarizzante sulle dialettiche interne al partito; e il
Congresso del febbraio ’46, in cui la spaccatura in due soggetti politici diversi è ufficialmente
sancita, col corollario premonitorio di una breve esistenza residua per l’azionismo politico.
Il primo, vero spiraglio che finalmente si apre all’opportunità di scrivere una cronistoria dell’attività
politico-militare a Roma sarà dato proprio dall’esigenza di procedere ai riconoscimenti delle
qualifiche di “patriota” o di “partigiano”. I partigiani giellisti romani iniziano a dedicarvisi dapprima
su iniziativa individuale, tramite l’ufficio militare del Partito diretto da Riccardo Bauer (dall’esta-te-
autunno del ’44 sino allo scioglimento del Partito d’Azione); poi, ad opera di un ufficio stralcio
diretto a Roma da Cencio Baldazzi in seno all’Associazione Partigiani “Circolo Giustizia e Libertà”,
secondo intendimenti generali necessitati dalla natura stessa della burocrazia che la trafila
amministrativa imponeva.
L’esigenza di produrre “relazioni”, “di zona” o di “gruppo” di attività, per i riconoscimenti ufficiali
nasce quindi con una finalità burocratica e a di qualche mese di distanza dall’epoca dei fatti. E la
distanza è maggiore, o minore, non tan-to in virtù del tempo trascorso tra data di redazione e data
dei fatti, ma soprattutto per l’effetto dell’interposizione di tanti altri accadimenti politici
intervenuti nel frattempo a “distanziare”, o modificare in termini di valore soggettivo, ancora a
relegare a posti di secondaria importanza, la ricostruzione d’insieme della lotta compiuta in Roma.
La scrittura dell’attività resistenziale di GL a Roma dunque nasce (e muore) burocratica, e a
entusiasmo finito. Resta confinata alla memoria dello stretto giro del Circolo stesso, senza trovare
sbocco in alcun progetto di trattazione storio-grafica: e ciò, per circa un sessantennio. Le ragioni di
questa paralisi non sono che la proiezione di quella disillusione e di quella sfiducia post
resistenziali che, a Roma, sono state dipinte da Carlo Levi ne L’orologio e avevano l’aggravante
ulteriore dei retroscena della mancata insurrezione.
Sorprese sono provenute dall’archivio Bauer, dove giaceva il suo canovaccio del piano
insurrezionale per Roma e la sua corrispondenza con “Romanus”, identificabile – con sicurezza
indiziaria – in Ugo La Malfa. Pressoché assente invece la documentazione relativa ai mesi
novembre ’43 - giugno ’44 nell’archivio La Malfa. Su un ambiente attiguo a quello partitico ma
comunque legato allo statista – la Rappresentanza romana della Banca Commerciale – uno
sguardo privilegiato, ma deformato dalla lente espressionistica e aristocratica dell’autore, lo getta
Sopravvivere alle rovine. Diario privato di un banchiere. Roma 1943-1945 di Massimiliano Majnoni
D’Intignano (Aragno, 2013), responsabile dell’ufficio Comit. Irriverente, e a modo suo rivelatore di
dinamiche profonde che muoveva-no anche i dirigenti del Partito d’Azione. Significative le carte di
Emilio Lussu, conservate all’ISSRAC, nonché quelle del Fondo Vincenzo Baldazzi, appartenenti ad
archivio privato.
Un cenno va fatto alla documentazione della Bundesarchiv - Militärabteilung di Friburgo e Berlino.
Gli ordini del giorno e gli altri documenti strategici tedeschi consentono di cogliere quale fosse
stato l’effetto psicologico e morale dell’azione partigiana sugli occupanti: sorprendentemente,
molto maggiore di quanto essi non dessero a vedere. Ma emerge soprattutto il piano di folle
controllo to-tale delle risorse umane e materiali che sul territorio romano gli occupanti stessero
intraprendendo, piano che proprio il Partito d’Azione sabota con intelligenza pianificatrice e
creatività italiana. In generale, questo lavoro ha scelto di non tuffarsi direttamente nella vastissima
bibliografia critica e storico-politica sull’azionismo, che specie negli ultimi quindici anni si è
concentrata sul pensiero espresso dal PdA. Il rischio sarebbe stato quello di svolgere un lavoro di
storia del pensiero, quando ancora a questo livello di studio necessitava un lavoro chiarificatore di
fatti, storie, rap-porti costruiti o interrotti. Naturalmente, nella trattazione sono già presenti
anticipi e cenni di inquadramento e valutazione su alcune specificità del pensiero politico che,
dalla ricostruzione dell’azionismo romano, si sono potute desumere. Abbiamo provato ad
attenerci metodologicamente all’impostazione di Claudio Novelli ne Il Partito d’Azione e gli italiani:
«dall’azionismo agli azionisti», in-centrando l’attenzione sui filoni politici, sulle persone e sui
gruppi, e non invece considerando un insieme omogeneo la realtà del partito, per altro tutta in
fieri nel periodo considerato. Più che mai, questo atteggiamento ci ha permesso di saggiare le
differenze più che le somiglianze, gli attriti più che gli accordi, insomma i rapporti di forza vigenti
nella galassia azionista della città. In particolare, lo sguardo retrospettivo sulle radici più profonde
delle componenti urbane dell’azionismo scavo che giustifica l’intera prima parte del libro ha
permesso di verificare quanto fosse forte in città la componente della “sinistra” del partito.
Il quadro complessivo della nostra ricostruzione vede senz’altro le formazioni del partito d’Azione
nella città aperta come un’entità che assieme ai GAP comunisti costituisce la forza d’urto per
eccellenza sulla scena operativa: cosa che gli occupanti hanno ben chiara. Quanto a incidenza
partigiana, la posizione e il ruolo delle formazioni Giustizia e Libertà in Roma rispondono alle
caratteristiche di peso e rilievo che esse hanno in ogni parte dell’Italia occupata, consentendo di
sgomberare definitivamente il campo da ogni lettura riduttiva dell’entità giellista in campo nella
città aperta.
Vi è un ulteriore pregiudizio di sottostima verso cui il nostro lavoro inizia a prendere posizione:
quello per cui l’azionismo romano sia privo di un proprio pensiero originale e caratterizzante.
Indirettamente, ma già da subito la nostra ricostruzione si sforza di muoversi in un’ottica diversa:
anzitutto perché non è solo con le pubblicazioni e il corredo di strumenti editoriali, pubblicistici e
accademici che si esprime una cultura, specie una cultura politica. Una condotta fattuale, nella
dimensione particolare e irripetibile che ogni fatto assume in un contesto, costituisce già di per sé
espressione e formulazione originale di una cultura politica. L’originalità dell’azionismo romano,
nel binomio “pensiero e azione”, accentua marcatamente il secondo membro: ma azione,
compiuta o incompiuta (la questione della mancata insurrezione), è frutto sempre di una visione
delle cose. Sia chiaro: sostenere l’assenza di una pubblicistica azionista a Roma sarebbe un
abbaglio: “L’Italia Libera” nell’edizione romana, la collana dei “Quaderni dell’Italia Libera” curati da
Comandini dall’autunno ’43 e le riviste d’area che si accendono dopo la liberazione
(“Liberalsocialismo” diretta da Calogero, “Mercurio” diretta da Alba De Cespedes con
caporedattore Gino De Santis), assieme ad alcune testimonianze letterarie edite a caldo o molto
dopo la lotta partigiana, offrirebbero tutto il materiale per disegnare una storia del pensiero
dell’azionismo romano. Rispetto a una futura opera del genere (sul come abbiano potuto con-
vivere e fruttare insieme storie e idee anche tanto diverse in un unico partito, o “ircocervo” per
dirla con Benedetto Croce) il presente lavoro ha provato a servire quale premessa e fondamento.

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