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Giuseppe Bottai.

Appunti controluce di una filigrana esoterica


Di Francesco Maria Fabrocile

Figlio dell’ultimo decennio del XIX secolo (1895), e quindi destinato a finire nel mulino
della Grande Guerra, la più distruttiva che l’umanità avesse mai conosciuto, il giovane Bottai è
l’ateo credente nella religione dell’umanità: ne eredita il sentimento dal padre. Come per gran parte
degli atei dell’ultimo periodo storico delle certezze positivistiche e scientistiche, i sensi
dell’irrazionale, cacciati dalla porta del razionalismo spietato del Progresso, rientravano dalla
finestra delle passioni, pulsioni e compulsioni.
Maturando di liceo, si accende come una miccia a maggio del ‘15 all’entrata in guerra
dell’Italia. Non aspetta gli esami, parte con la prima opportunità di arruolamento volontario: soldato
semplice. Da subito brama il fronte: e chiede, ancora volontario, l’aggregazione al corpo degli
Alpini. Volontario ancora, chiede di partecipare al corso per ufficiali di complemento. Volontario,
nei giorni di Caporetto, chiede e ottiene il passaggio nei corpi d’assalto, gli Arditi, quei soldati
‘privilegiati’ che non marcivano nelle trincee, non si affardellavano di zaini e corvées e neanche del
fucile ’91, tanto che andavano leggeri a espugnare trincee nemiche con soli pugnali e bombe a
mano. Privilegiati e votati alla morte.
L’esser stato Ardito è una cresima del fuoco. Chi ha dato (e rischiato) la morte come gli
Arditi non torna, in tempo di pace, lo stesso uomo di prima perché molte soglie sono state spostate
più in là. Il primo dopoguerra italiano è dominato dall’immaginario dell’arditismo, specie nelle
forme di militanza politica più accesa. Le consapevolezze esistenziali maturate dall’ardito fanno di
lui il soldato politico per eccellenza: il padrone del proprio destino («a noi!») - e, soprattutto, di
quello degli altri.
L’intero immaginario dell’arditismo (il pugnale, il teschio, il colore nero, la mistica della
bella morte, gli slogan), rivendicato ed esibito come proprio dal fascismo movimento, e poi dal
fascismo di appartato e di governo, era un immaginario conteso. Rivendicato anche dai primi
antifascisti combattenti del “biennio rosso”: gli Arditi del Popolo, organizzazione apartitica e
politicamente aperta a ogni forza antifascista, che dall’estate del ’21 a tutto il ’22 tenne testa alle
squadre fasciste con la guerriglia urbana (e con alcuni episodi di guerra vera e propria). Ma ancora
tra il ‘19 e il ’20, l’arditismo è un crogiolo unico e indiviso (rosso e nero), confusamente
rivoluzionario, in cui si ritrovano fianco a fianco ex arditi di diverso orientamento ideale, ancora
inespresso.
Nel marzo ’19 Bottai, con l’inquieto e incompromettibile Mario Carli, fonda il Fascio di
Combattimento di Roma. Era il dicembre successivo quando, all’atto della fondazione
dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia, Giuseppe Bottai divenne presidente della sezione
romana, in competizione con Argo Secondari, entrambi essendo esponenti della corrente
repubblicana1, maggioritaria nella capitale. Mario Carli pubblicò Noi Arditi, libro di culto e
identitario per la categoria, senza distinzioni. Secondari, di lì a un anno e mezzo fondatore degli
Arditi del Popolo, in conflittuale scissione dall’A.N.A.I., era un ufficiale atipico: anarco-
repubblicano, internazionalista, rivoluzionario (antifascista) e soprattutto dedito a un esoterismo
praticato attivamente sin dalle trincee oltre che nella Fiume di D’Annunzio: «vedrai quale forza si
sprigiona – rispondeva a un collega che dava voce alle perplessità della truppa – quando vai
all’assalto dopo aver evocato gli spiriti!»2. Era al commilitone Secondari che Bottai contese la
presidenza della federazione romana dell’A.N.A.I. quando ancora fascisti e sovversivi non si erano
distinti, né separati. Con Secondari doveva certo essersi ben conosciuto: come con Mario Carli.
Il freddo gennaio del ’20 vede Bottai presentare le sue dimissioni dalla rivista Roma
futurista co-diretta da Marinetti e dal già amico Mario Carli, nel significativo contesto della galleria
fotografica di Anton Giulio Bragaglia: in dissenso – sostenne Bottai - per aver la rivista aderito al
blocco nazional-fascista e antisovversivo. Si sarebbe dedicato a un periodico, stavolta tutto suo, Le
1
Ferdinando Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 83 e segg.
2
Pino Cacucci, Ribelli!, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 118 e segg.
fiamme, nato e ben finanziato (ma non ben chiaramente) già dal maggio ‘19, presto in distribuzione
nelle caserme: e, questo sì, antisovversivo. Quando Le Fiamme soppiantò per decisione degli stati
maggiori L’Ardito di Mario Carli in quanto quest’ultimo ‘sovversivo’, Carli scrisse sul proprio
giornale il celebre «Arditi, non gendarmi»3 ribadendo la filosofia degli arditi proprio in opposizione
a Bottai.
A proposito di Bragaglia, andava di moda, in quegli anni confusi, farsi fare da lui la
‘fotografia dell’aura’: quasi che la camera oscura potesse cogliere le oscurità della consistenza
dell’anima del soggetto. Ne riuscivano ritratti assai suggestivi, a volte impressionanti. Bragaglia era
uno sperimentatore attivo di spiritismo, dopo aver pochi anni prima pubblicato le sue teorie sulla
rivista “Humanitas” (ad esempio «I fantasmi dei vivi e dei morti»4, «la fotografia dell’invisibile»5).
Il suo studio era diventato il laboratorio di tutto futurismo esoterico d’Italia. O di tutto
l’esoterismo che si pretendeva futuristico, date le personalità di altro profilo, soprattutto politiche,
che vi trovavano terreno d’incontro. Forse aveva semplicemente visto lungo il poeta romanesco
Trilussa, che sul Lacerba già nel 1913 aveva vergato così:

È Bragaglia quella cosa


che ti fota il dinamismo
quando poi sbaglia la posa
te lo chiama futurismo.

Difficile non pensare che per lo studio Bragaglia non incrociasse anche il tenente Secondari,
attivo spiritista, probabilmente accompagnato dalla signora Eva Kühn di cui nel 1919 era divenuto
frequentatore per comunanza di interessi non politici. Lei era la moglie di Giovanni Amendola, di lì
a poco eletto deputato demosociale. Anche per gli sposi fu galeotto l’interesse esoterico, visto che si
conobbero frequentando la Società Teosofica, fondata da M.me Blavatsky.
Il sentimento e il pensiero di Giuseppe Bottai nell’incrociare questo mondo di militanti e
miliziani, di politici ed esoteristi, non è espresso o apertamente articolato: fatto sta che lo attraversò,
in nome della potenza dei simboli della sua guerra da ardito, e che di questi fece centro della sua
primissima carriera giornalistica e politica. Ordine e rivoluzione, umanità e morte, costruzione e
distruzione sono antinomie che imperniano tutta la sua formazione, ma la coincidentia oppositorum
è cifra anche della sua attività istituzionale e ministeriale. Per l’alchimista, Due è Uno.
Tra il ’22 e il ’26 si spegnevano i fuochi dell’opposizione al fascismo e si raffreddava il
crogiuolo alchemico dell’identità della nazione, solidificatasi attorno alla guerra risorgimentale e
sulla vittoria mutilata. Iniziava la lunga parentesi borghese e istituzionale di Bottai, fondativa delle
“Carte”: del Lavoro (e ancora: il fascino del Collettivismo sovietico dentro il suo opposto), della
Scuola. Del Manifesto della Razza. Di Primato.
Le temperature dello spirito, al volgere del ventennio, tornavano a elevarsi a soglia critica: la
guerra, la Seconda Guerra Mondiale, imponeva una nuova distruzione e ricostruzione. Le certezze
consolidate sarebbero tornate a liquefarsi magmatiche nel forno alchemico che tutto riforgia. Così
fu: e alla caduta del regime nel ’43 Bottai cinquantenne scelse, ripetendo e ritualizzando la propria
simbologia come nelle radiose giornate del maggio 1915. Scelse la guerra palingenetica da umile
soldato semplice – ma stavolta nella Legione Straniera. Combatté nel ’44 contro gli ex alleati
tedeschi su fronte straniero, da caporale e poi da caporalmaggiore promosso sul campo, ex alleati di
cui aveva frequentato i salotti e le stanze alte dei ministeri. Rispolverò dunque il mito del ‘pugnal
fra i denti’ e de ‘la bomba a mano’ come grado zero della propria identità, come radice prima del
proprio essere. E da neo ardito si rideclassò a ‘gendarme’ contro gli indipendentisti algerini, fino al
‘47. Un eterno ritorno dell’uguale.

3
“L'Ardito” a. I n.2, 18 maggio 1919, riportato in Il nostro bolscevismo, pag. 92.
4
a. IV, n. 16, 19 aprile 1914.
5
a. III, n. 5, 21 dicembre 1913.
Se lo schermo politico era il piano su cui proiettare in forma progettuale e costruttiva i
contorni dei propri idoli interni, la guerra invece era l’Origine, il Buio primo della Genesi.
Chissà se negli anni di costruzione e progetto nei ministeri invece, specie in quello
dell’Educazione Nazionale, l’attitudine comunicativa di Bottai non abbia finito per suggestionare
alcuni animi più ricettivi e più in ombra, come l’autrice della Natura morta con lume, libri e codice
sul leggìo. In fondo, essa è piena di simbologia e non solo per la presenza raccolta, decentrata e
fuoriuscente del lume (come se la luce dell’eterna lampada di Pallante fosse ‘ancora di là da venire’,
ma nel raccoglimento di un interno), bensì perché esplicita è la rappresentazione sul codice aperto
in leggìo della miniatura di Simone Martini che decora il Virgilio Ambrosiano di Petrarca: «Servius
altiloqui retegens arcana Maroni», Servio che scosta la tenda dai segreti al magniloquente [Publio
Virgilio] Marone. Il cognomen latino «Maro» (era attivo, allora, il Circolo Vergiliano fondato da
Kremmerz, dedito alla cabala delle parole) si anagramma in “Amor” o “Roma”, e forma con essi
una triade di significato compiuto: l’Italia è nella sua tradizione, poetica e passionale. Ma sul
Codice seguita la dedica: «ut pateant ducibus, pastoribus atque colonis», cioè: affinché tali arcani si
aprano ai condottieri, ai pastori e ai coloni.
La pittrice avrebbe così rappresentato la migliore pars construens del carismatico ministro
Bottai. Se fuori dalla stanza è l’odore della guerra (la Distruzione), la rincorsa capitalistica allo
sviluppo, cioè il primato materiale della Germania hitleriana, dentro invece è l’attesa messianica, la
gestazione materna (la Costruzione), la profezia di un avvento nuovo e collettivo, di primato morale
e di elevazione popolare nella pace delle arti.

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