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MARIA CARACI VELA

LA FILOLOGIA MUSICALE
Antologia di contributi filologici

Si tratta di una serie di saggi di interesse filologico molto diversi tra loro che costituiscono una
campionatura di esperienze di lavoro funzionali allo stimolo della critica e di nuove indicazioni
metodologiche. Il saggio di Jahn, ad esempio, prospettava già nel 1867 la filologia d’autore, la
funzione della critica interna per la valutazione dell’autenticità, l’autonomia dell’opera rispetto
alla biografia del compositore, l’utilità delle testimonianze epistolari e il rifiuto di idee preconcette. I
contributi di Feder, Unverricht e Dahlhaus restano tutt’ora i frutti dei più autorevoli studiosi della
seconda metà del Novecento.

CARL DAHLHAUS
I PRINCIPI DELLE EDIZIONI MUSICALI NEL QUADRO DELLA STORIA DELLE
IDEE

Le tecniche di edizione si basano su principi editoriali che a loro volta dipendono da norme,
orientamenti e strutture di ordine estetico, sociale, pedagogico, politico ed economico:
difficilmente ci si può attendere che un inestricabile intreccio di situazioni proceda in linea
continua e retta. I principi editoriali prefigurano non tanto le tecniche quanto i problemi che con
esse devono essere superati, cercando di capire quali devono essere risolti e quali possono essere
trascurati.
Tali principi diventano realmente comprensibili solo se inseriti nel quadro della storia delle
idee e della storia della cultura, poiché l’editoria non rappresenta una storia isolata e chiusa in sé.
Si tenta in questo scritto di abbozzare alcune idee che stanno dietro ai principi delle edizioni
musicali degli ultimi cento anni, considerando l’entrata in crisi di fondamentali categorie e di
concetti base come opera chiusa, opera omnia o redazione autentica.

Un problema linguistico irrisolvibile è quasi sempre sintomo ed espressione di una


complessa problematica che sussiste nella cosa stessa: il concetto di monumento, infatti, sembra
legato all’idea di nazione tanto da condividerne il destino. Storicamente, esso ha sempre assolto
alla funzione di rappresentanza nazionale. Dopo la monografia di Forkel del 1802, questa è stata
ad esempio la sorte dell’edizione di opere bachiane nella convinzione di tutti coloro che non solo
erano eruditi di musica ma anche patrioti. Persino l’opera di Händel fu intesa da Chrysander come
difesa di un Händel “tedesco”.
Notiamo quindi come l’intreccio tra origine e validità non dipenda affatto da una semplice
contingenza storica che si potrebbe rettificare: dalle norme e dalle istituzioni musicali o politiche
di uno stato democratico non si può ricavare una ragione extra-scientifica su cui possa poggiare
una delimitazione in senso nazionale delle edizioni musicali, perchè la cura dei beni civici
concerne i compositori viventi e non quelli morti, che sono invece oggetto delle edizioni
monumentali. Tuttavia, una spiegazione esclusivamente erudita, scientifica, non è sufficiente a
motivare il fatto che un’edizione stia in attrito con la pratica musicale, che conservi cioè
caratteristiche di una notazione antica sottraendosi all’uso corrente. Sotto l’egida di un
patriottismo che educa al rispetto dei monumenti nazionali si può ricercare indisturbati il piacere
esoterico di edizioni riproducenti forme testuali il più possibili intatte nelle quali il pubblico in
toto non riconosca un oggetto d’uso bensì le celebri come monumentum. Ecco quindi che appena
il concetto di monumento nazionale perde il suo effetto legittimante, viene meno l’appiglio extra-

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scientifico, riconvertito dagli storici della musica in compromessi con la pratica musicale: in uno
stato in cui l’idea di rappresentanza nazionale non ha presa se non si riesce a rendere plausibile
una tangibile l’utilità della cosa, le edizioni storico-musicali devono legittimassi come edizioni
pratico-scientifiche, fondate cioè sul sapere scientifico ma che mirano alla prassi.

Il principio di un’edizione pratico-scientifica (di un fondamento della pratica attraverso la


scienza e una legittimazione della scienza attraverso la prassi) costituisce il programma di quasi
tutte le edizioni critiche che furono inaugurate dopo la seconda guerra mondiale (Neue Bach-
Ausgabe, Neue Mozart-Ausgabe, Neue Shubert-Ausgabe). A questo “riferimento alla prassi” si
associò, a partire dagli anni Cinquanta, una differenziazione e radicalizzazione dei metodi
filologici, nella convinzione che un maggiore rigore scientifico dell’editoria debba condurre a una
maggiore vicinanza alla realtà e a una crescente utilità in campo pratico. Ecco un paio di esempi. Il
sistema ritmico della musica mensurale si caratterizza per il fatto che i segni di mensura per la
definizione binaria o ternaria delle note fungono anche da indicazioni di tempo. Per cui: un
curatore che esprime in scrittura moderna semplicemente i valori di durata relativi riduce il senso
dei testi. La dialettica in cui la pratica del basso continuo trascina l’editoria appariva fino a qualche
anno fa senza via d’uscita: la realizzazione del basso continuo viene percepita dai dilettanti come
misura necessaria e dai filologi come giustificata presentazione dell’intenzione sonora in luogo di
quella scritturale, ma per gli esperti è motivo d’irritazione in quanto contraddice una pratica che
prevede l’apertura verso molteplici realizzazioni. Ecco quindi che, ad una pratica esecutiva che da
essenzialmente amatoriale si è trasformata in essenzialmente professionale corrisponde una
filologia che, anziché dissimulare la distanza storica, la rende consapevole consentendo al senso
estetico di superarla. Prendendo ala lettera il principio dell’edizione pratico-esecutiva, la
questione è risolvibile solamente mediante un raddoppiamento del commento scientifico, ovvero
una combinazione di chiarimenti filologici e tecnico-esecutivi (l’ultimo dei quali appare addirittura
un dovere filologico).

Per evitare di essere guardata con invidia, la scienza è costretta a presentarsi come funziona
della prassi e, per converso, non si può quasi più immaginare una prassi che non si appoggi alla
scienza. Si guarda tuttavia ormai con sospetto alle “edizioni didattiche” che mirano direttamente
alla prassi senza passare per le vie traverse della filologia.
Il concetto di Urtext ha avuto conseguenze proprio per il fatto di essere rimasto nel vago, e
questo l’ha fatto diventare uno slogan. È difficile tracciare una linea di demarcazione tra
un’edizione Urtext e un’edizione storico-critica. Potremmo definire quest’ultima dal fatto che essa
obbedisce alle regole del metodo filologico; il risultato è un testo “il più possibile” autentico.
Un’edizione Urtext è invece un testo “sufficientemente” autentico, vincolato nella sua redazione
ad una situazione delle fonti in qualche modo favorevole. Rimanendo nell’ambito delle norme
sull’integrità filologica o dell’adeguatezza storica, quindi, si può obiettare poco o nulla contro
integrazioni interpretative in un’edizione storico-critica perchè è l’edizione Urtext che si definisce
per il fatto di rinunciare per principio a integrazioni, limitandosi a ciò che è scritto nell’originale -
nonostante un rapido sguardo mostri come il rigorismo non sia mai stato davvero messo in pratica.
Per capire il principio opposto all’Urtex dell’edizione didattica si deve ricostruire il problema
rispetto il quale esso si presentò come soluzione: i sistemi di notazione musicale sono quasi
sempre incompleti; contengono quelli che Roman Ingarden chiamava “punti di
indeterminazione”. L’integrazione del testo originario può essere compito del curatore, della
tradizione o dell’interprete. Un secondo problema a cui le edizioni didattiche intendono offrire
una soluzione è poi quello per cui le opere musicali non sono indifferenti ai mutamenti del
contesto storico che le circonda. La scelta ricade perciò tra tentare di ottenere con mezzi diversi
un risultato analogo a quello del passato oppure limitarsi tramite un Urtext intatto ad ottenere

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irrimediabilmente un risultato diverso. Certo, rimane probabilmente illusoria e falsamente utopica


l’idea che si possa controbilanciare e riequilibrare la modificazione del rapporto tra opera e
ambiente attraverso un mutamento della prima, riavvicinandola a ciò che la storia ha allontanato: in
questo caso allora l’obiezione per cui la perdita non sia più recuperabile è forse l’argomento più
consistente a favore del ricorso all’Urtext.

Il concetto di opera autentica è la categoria fondamentale su cui deve orientasi la filologia.


Cosa avviene però se tra i caratteri storici di un brano vi è quello di apparire in forma diversa ad
ogni esecuzione oppure se l’opera viene intesa dall’autore come un camaleonte? Nelle opere di
Rossini, nelle melodie dei trovatori del Duecento o nei pezzi d’organo del Seicento tutte le
redazioni hanno di principio pari diritti e l’opera non risulta essere altro che l’insieme delle
possibilità della sua realizzazione. Optare quindi per una redazione che sembra più riuscita delle
altre è una scelta di carattere estetico, non storico-filologico. Lo storiografo preferirebbe
documentare la storia dell’opera anziché optare per una redazione di carattere estetico, il
problema è che i criteri storico-filologici talvolta non incontrano l’interesse pubblico di cui hanno
bisogno per potersi imporre integralmente nel mondo editoriale. Ecco come la prassi editoriale,
connessa connessa ad un’idea estetica proveniente dell’Ottocento, finisce col rifarsi al concetto
che André Malraux chiamava “museo immaginario”: nella collezione d’arte di un museo, le opere
vengono sottratte alla loro esistenza originaria in favore di una ricezione puramente estetica che
costituisce il concetto enfatico di opera. L’aura di autenticità è perciò quella del pezzo da museo.
Per il nostro modo d’intendere la musica, perciò, l a redazione autentica coincide con la forma
assunta dalle opere a partire dal Settecento - nel loro essere repertorio concertistico o operistico -
non con musiche precedenti.
Di certo, comunque, la mancanza di validità universale dei principi della nostra tradizione
non appare buon motivo per abbandonarli.

Le imprese editoriali più appariscenti degli ultimi decenni sono gli opera omnia realizzati da
istituti grazie a sovvenzioni pubbliche o parzialmente private. Lo spirito dietro a tale complesso
appare come una variante del pathos nazionale che ispirò i Denkmäler der Tonkust all’inizio del
Novecento. L’idea di un’era della musica tedesca (inaugurata da Bach) appare precaria appena si
abbandonano i sentimenti nazionali: dubbia è la concezione che l’epoca a cavallo tra Settecento e
Ottocento sia stata primariamente quella della sinfonia e del quartetto d’archi, così come quella
che vede il dramma musicale di Wagner come eredità della tecnica sinfonica beethoveniana.
Dietro la serie degli opera omnia sta un pensiero che si sottrae a una critica della tradizione
solo grazie all’apparenza di un’ovvietà propria delle idee istituzionalizzate: la concezione per cui
se non si possiede una cosa nella sua totalità non la si possiede affatto o per cui una selezione si
impone come soggettiva e perciò non scientifica. Ma l’affermazione che la somma delle opere di
un compositore equivalga agli opera omnia non è affatto tautologica. A differenza delle opere
tràdite, essa mira ad un’idea, quella per cui l’insieme delle creazioni di un compositore sia
inscindibile e costituisca il contesto primario sul quale è possibile comprendere la singola
creazione (significa ad esempio che le messe di Haydn vanno considerate innanzitutto in relazione
alle sue sinfonie e solo in secondo luogo in relazione alle messe dei suoi contemporanei). La
fondamentale regola dell’ermeneutica secondo cui bisogna creare vie d’accesso al dettaglio nel
contesto dell’opera fu trasferita da Dilthey al rapporto delle opere tra di loro perchè considerate
espressioni di momenti vitali solo nel contesto dell’intera biografia: gli opera omnia appaiono
quindi come l’opera di un’intera vita da cui non si sottrae nulla, legittimando pertanto il principio
editoriale della completezza. In seno a ciò, il momento biografico è abbastanza forte da integrare
anche le opere secondarie, pure quelle più modeste.

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