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Definizione Il diritto penale è quel settore dell’ordinamento giuridico statuale che disciplina i fatti
costituenti reato e le relative conseguenze giuridiche. La denominazione "diritto penale",
incentrata sulla pena come sanzione inflitta dallo Stato al fatto illecito, si è affermata agli inizi del
XIX° secolo. Prima veniva usata l’espressione "diritto criminale" che metteva in risalto la seconda
componente di questa disciplina, ossia il crimine. La definizione proposta è di tipo NOMINALE, in
quanto basata sull’elemento formale che caratterizza il diritto penale: la sanzione penale. La
definizione SOSTANZIALE, invece, può essere dedotta dai compiti e dalla funzione del diritto
penale. Definizione sostanziale: i compiti del diritto penale I compiti del diritto penale sono:
- Difesa della società da un lato, emerge l’idea della repressione di condotte antisociali, cioè lesive
dei beni fondamentali tutelati nella società; ma prima ancora la prevenzione / deterrenza, che
presuppone l’indicazione di limiti all’agire umano. In questa prospettiva, il diritto penale ha il ruolo
di fattore di controllo sociale. Tuttavia, è bene ricordare che esso dovrebbe essere l'ultimo fattore
di controllo sociale cui fare ricorso, data l'afflittività della pena che lo caratterizza (principio di
sussidiarietà/extrema ratio).
- Soddisfare l’esigenza di tutela della persona umana nella società la funzione del diritto penale è
quella di assicurare e conservare l’ordine e la pace sociale, nel garantire le condizioni essenziali di
una civile convivenza. In questa prospettiva, il diritto penale ha il ruolo di fattore di socializzazione.
Nel nostro ordinamento costituzionale, troviamo conferma di ciò nell’art. 27.3 Cost., che assegna
alla pena la funzione di "tendere alla rieducazione del reo".
- Garanzia individuale per il reo rappresenta una barriera invalicabile della politica criminale, una
sorta di magna charta dei diritti del cittadino.
Il diritto penale si caratterizza per l’asprezza delle sue sanzioni; la natura della pena è afflittiva: un
male terribile che colpisce con durezza il condannato. La sanzione penale costituisce un’autentica
sofferenza inflittagli come conseguenza della privazione / diminuzione di beni di sua pertinenza (in
primis, libertà personale e patrimonio). I penalisti non si occupano soltanto di quali
comportamenti vadano repressi con la pena: dall’Illuminismo in poi, il problema principale è come
limitare l’intervento penale. In tale prospettiva assumono rilievo i principi che delimitano e
condizionano l’attività punitiva dello Stato: in questo senso, il reato non viene visto come atto
immorale, ma come fatto socialmente lesivo: vale il principio “in dubio pro libertate”, secondo cui
ciascuno è libero di comportarsi come crede, unico limite è la lesività sociale dei comportamenti (il
cosiddetto “neminem laedere”): un limite che giustifica il controllo sociale anche attraverso
l’intervento penale. Il diritto penale tutela la società accordando protezione a beni giuridici
individuali e universali che rappresentano entità reali esterne alle norme e preesistenti
all'intervento del legislatore. C’è un movimento che propone l’ abolizionismo: esso parte dalla
denuncia della disumanità del carcere e propone l’abbandono della pena detentiva carceraria;
tuttavia non bisogna dimenticare che solo una società caratterizzata da un assoluto livello di
maturità e autocontrollo potrebbe non avvalersi delle sanzioni punitive. Pertanto, non si può fare
a meno delle sanzioni penali, ma bisogna rispettare una serie di limiti al loro utilizzo.
- Secondo le TEORIE ASSOLUTE, la pena sarebbe fine a se stessa (appunto absoluta, ossia slegata
da qualsiasi fine utilitaristico). Essa dipenderebbe semplicemente da un’esigenza di giustizia. Essa
inoltre sarebbe rivolta al passato: "punitur quia peccatum est" --> " si punisce perché si è peccato".
Il suo presupposto è la colpevolezza: si incrimina il colpevole per il crimine commesso. La
concezione assoluta della pena conosce diverse versioni:
- Secondo la teoria della retribuzione, la pena è il corrispettivo per il diritto violato o per il danno
arrecato alla società (legge del taglione).
- Secondo la teoria della espiazione, la pena serve perché permette all’autore del reato di riparare
alla sua colpa.
Per Kant la pena deve essere inflitta al delinquente, perché egli ha delinquito. Guai a chi volesse
assolvere il malfattore dalla pena, perché la vita dell’uomo non avrebbe più alcun valore. Quando
una società civile decidesse di sciogliersi, anche l’ultimo assassino rimasto in prigione andrebbe
giustiziato. Per Hegel la pena non potrebbe fondarsi sulla mera minaccia: sarebbe come sollevare il
bastone contro un cane e l’uomo verrebbe trattato “non secondo il suo onore e la sua libertà, ma
come un cane”. Il delinquente, quindi, deve essere visto come essere razionale e la pena in
qualche modo “lo onora”. Questa teoria ha un'indubbia valenza garantistica: l’unica pena
concepibile è la pena giusta e giusta è solo la pena che corrisponde alla gravità del fatto commesso
e all’intensità della colpevolezza dell’autore. Sono posti limiti invalicabili al potere punitivo dello
Stato, i quali possono riassumersi nei due principi-cardine di proporzionalità e colpevolezza. Tra
pena e colpevolezza vi è un rapporto di bilateralità: la pena presuppone una colpevolezza da
retribuire e la colpevolezza è ciò che fonda la pena e ne chiede l’inflizione al colpevole. Di
conseguenza, la colpevolezza da un lato legittima la pena e dall’altro la rende inevitabile --> "nulla
poena sine culpa" ma anche "nulla culpa sine poena". La concezione retributiva entrò in crisi per
due motivi: 1) la colpevolezza non era in grado di offrire un’adeguata legittimazione della pena, in
quanto fondata sul postulato indimostrabile della libertà del volere; 2) la pena, in quanto
conseguenza necessaria della pena, doveva trovare sempre e comunque applicazione anche se
ritenuta inutile o inopportuna al soddisfacimento di obiettivi socialmente utili. Tuttavia, da qualche
decennio sono sorte alcune correnti di pensiero c.d. neoretribuzionistiche, le quali sostengono che
l'inflizione della pena serva a canalizzare e soddisfare i bisogni emotivi di punizione diffusi nella
collettività. Queste teorie attribuiscono alla pena una specifica funzionalità sul piano della
prevenzione generale positiva, inficiando l'approccio assoluto di cui sopra. - Diversamente,
secondo le cosiddette TEORIE RELATIVE la pena non è fine a se stessa, ma è finalizzata a
qualcos’altro: essa è volta ad evitare, in futuro, la commissione di fatti penalmente illeciti. All’idea
di pena giusta subentra quella di pena utile. Inoltre la pena è rivolta al futuro: "punitur ne
peccetur" --> "si punisce affinché non si pecchi più". Il suo presupposto è la pericolosità: il reo è
pericoloso per la società, quindi deve essere punito per evitare che altri si comportino come lui.
Anche la concezione relativa della pena conosce diverse versioni: - Secondo la teoria della
prevenzione generale, la pena è destinata alla generalità dei consociati per distoglierli dalla
commissione di reati. Essa può essere qualificata come: Negativa: la pena svolge un’azione di
coazione psicologica attraverso la intimidazione/deterrenza nei confronti dei consociati,
dissuadendoli dal trasgredire i precetti penali. Questa teoria pecca principalmente per due ragioni:
in primis, prospetta un modello di potenziale reo in grado di valutare sempre e comunque i pro e i
contro delle proprie azioni (e ciò collide con tutti quei delitti perpetrati in preda ad un particolare
stato d'animo); inoltre, c'è il rischio che il condannato venga strumentalizzato per fini generali di
politica criminale (basterebbe applicare pene di inaudita severità e sproporzionate per contenere
la potenziale attitudine a delinquere della collettività), andando contro gli articoli 2 e 27.1 Cost. Tra
l'altro, pene troppo severe sono spesso destinate a non essere applicate, intaccando la prontezza
e la certezza del diritto. Positiva: la pena svolge un’azione pedagogica attraverso la riaffermazione
della norma/fiducia dei consociati. Essa ha una funzione di orientamento culturale, dato che la
disapprovazione normativa di determinate condotte illecite servirebbe a riaffermare i valori
dell’ordinamento violati e stabilizzare la coscienza morale e giuridica della collettività. Affinché la
pena operi come fattore di orientamento culturale, è necessario che venga effettivamente
applicata e che i valori tutelati dall'ordinamento siano già diffusi e pienamente accettati nel
contesto sociale di riferimento. Anche in questo caso, tuttavia, c'è il rischio che ci sia un'eccessiva
strumentalizzazione del condannato, visto semplicemente come mezzo per il perseguimento di
uno scopo socialmente utile. - Secondo la teoria della prevenzione speciale, la pena è destinata al
singolo autore del reato perché non torni a delinquere (“perché impari” a non commettere più
reati, al contrario della teoria retributiva, dove la pena si applica al reo “così impara” per aver già
commesso un reato). Secondo Franz von Liszt, considerato il fondatore della politica criminale
moderna, la pena avrebbe una duplice natura: coercizione indiretta, mediata, psicologica
(ottenibile mediante la risocializzazione o l'intimidazione) e coazione diretta, immediata,
meccanica (ottenibile mediante la neutralizzazione). Secondo Cesare Lombroso, le cause del
crimine sono da ricercare nella particolare conformazione fisico-biologica di certi individui che
sarebbero predestinati al delitto. Secondo Enrico Ferri, la causa primaria dell’insorgenza del
crimine va ricercata nei fattori socio-ambientali: pertanto, la sanzione penale dovrebbe fondarsi
sulla pericolosità sociale del soggetto e avrebbe la funzione di impedire che torni a commettere
fatti penalmente illeciti, segregandolo dalla società oppure promuovendone il riadattamento
sociale.
Alle pene principali come alle pene accessorie sono riferiti i principi dettati dalla Costituzione: il
principio di legalità della previsione della pena (art. 25.2 Cost.), il principio di personalità della
responsabilità penale (art. 27.1 Cost.), il principio secondo cui le pene devono “tendere alla
rieducazione del condannato” (art. 27. 3 Cost.). Per quanto riguarda invece le misure di sicurezza ,
il codice penale le definisce “misure amministrative”; tuttavia, la dottrina definisce le misure di
sicurezza come sanzioni “criminali”, finalizzate a prevenire la futura commissione di ulteriori reati.
Le misure di sicurezza (art. 199 ss.) sono sanzioni personali e patrimoniali (es. confisca); le misure
personali si dividono in detentive (es. casa di cura, riformatorio) e non detentive (es. libertà
vigilata) Diritto penale e Costituzione Una delle caratterizzazioni fondamentali del diritto penale
italiano è il suo orientamento alla Carta Fondamentale della Repubblica: ossia, la Costituzione
rappresenta il filtro attraverso cui rileggere (ed eventualmente correggere) l’intero sistema penale.
Infatti il codice penale del 1930 manifesta la sua matrice autoritaria, prodotto dell’epoca in cui è
stato concepito, e di conseguenza è la Costituzione repubblicana a permettere una riscrittura
corretta di molti istituti del diritto penale. L' aspetto essenziale di un diritto penale
costituzionalmente orientato, si caratterizza già per il modo di concepire la funzione della pena. In
effetti, la Carta Fondamentale della Repubblica all’art. 27.3 sancisce: - Il principio del teleologismo
rieducativo della pena o risocializzazione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione
del condannato (e di conseguenza assume rilievo la risocializzazione). - Il principio di umanità delle
pene e il divieto della pena di morte, contrassegnando il modello penale costituzionalmente
legittimo. Il secondo aspetto essenziale di un diritto penale costituzionalmente orientato sta
nell’esigenza di un’interpretazione delle norme penali conforme alla Costituzione: cioè, la
Costituzione si pone come criterio di interpretazione delle disposizioni di leggi vigenti. Per cui (se
possibile) ogni norma dovrà essere interpretata in conformità alla Carta Fondamentale della
Repubblica. Nell’ordinamento italiano, dal 1956, è stata istituita la Corte Costituzionale, che può
essere chiamata a giudicare della illegittimità delle leggi per contrasto con la Carta Fondamentale
della Repubblica. La Corte Costituzionale ha il potere di annullare la legge, dichiarandola
costituzionalmente illegittima, ma non può modificarla (compito affidato al Parlamento). La Corte
Costituzionale è per certi versi organo sovraordinato al Parlamento, dato che può caducare gli atti
legislativi, ma non è organo sovrano; tuttavia la Consulta può indicare l’interpretazione corretta
conforme alla Costituzione. Con le c.d. sentenze interpretative, la Consulta introduce di fatto
nell’ordinamento un’interpretazione vincolante, che dovrà essere seguita in futuro da tutti i
giudici. Vi è una forte istanza di razionalizzazione del sistema penale, sottesa all'idea di
subordinazione del diritto penale a principi di garanzia personale. La pena non può essere
svenduta al sentimento di vendetta collettivo o individuale, la sua esecuzione non può essere
rimessa all’arbitrio giudiziario. Pertanto, un diritto reale costituzionalmente orientato è un diritto
penale razionalizzato. Il diritto penale implica la restrizione della sfera di libertà dei cittadini,
poiché vieta la realizzazione di determinate condotte. Queste caratteristiche del diritto penale
mettono in primo piano l’esigenza di tutelare il cittadino da possibili arbitri del potere esecutivo e
del potere giudiziario. Fin dall’illuminismo si è ricercato un punto di equilibrio tra la istanza di
difesa sociale e la garanzia della libertà individuale. Svolge una funzione di garanzia il principio di
legalità, che affonda le sue radici nel principio della separazione dei poteri. Il principio di legalità
indica la necessità che la produzione e l’applicazione delle norme penali siano assoggettate alla
legge. Esso ha posto un limite alla potestà punitiva dello Stato, riservando al potere legislativo il
compito di individuare i reati e le pene, secondo il brocardo latino nullum crimen, nulla poena sine
lege. Parte generale e parte speciale del diritto penale Il codice penale si divide in due parti: parte
generale e parte speciale. Il Libro I è dedicato al reato in generale, mentre i Libri II e III
raggruppano il catalogo dei delitti e quello delle contravvenzioni che descrivono i singoli
comportamenti illeciti. La parte generale comprende tutte le regole che possono riferirsi
all’applicazione di qualsiasi fattispecie incriminatrice. La previsione di una parte generale assume
oggi un triplice significato: - Un significato di riconoscimento sanzionatorio: la parte generale
esplicita i caratteri della pena criminale pubblica che la distinguono da ogni altra sanzione
normativamente regolata. - Un significato di unificazione del sistema penale: i principi generali del
codice penale valgono quali strumenti di raccordo e omogeneizzazione del sistema penale nel suo
complesso. - Un significato garantistico e limitatore, in quanto vale a vincolare il potere giudiziario
a principi, criteri e regole uniformi, dettati per legge. La parte speciale prevede invece i singoli fatti
criminosi e le relative conseguenze giuridiche. Diritto penale e scienza penale.
Diritto penale e scienza penale sono due materie completamente diverse: il primo è un ramo
dell'ordinamento giuridico positivo, la seconda rappresenta la disciplina scientifica di cui il diritto
penale è oggetto. La scienza penale si suddivide nei versanti: - dogmatica penale: si occupa
dell’analisi delle norme dell’ordinamento giuridico penale e degli istituti che da esse si ricavano; a
questo settore della scienza penale è affidato il compito di razionalizzazione logica
dell'ordinamento giuridico, attraverso un'opera analitica, ermeneutica e sistematica - politica
criminale: è la scienza orientata allo studio delle opzioni compiute dal legislatore in materia
penale, delle ragioni ad esse sottese e delle prospettive de iure condendo.
Premessa: Ciò che caratterizza la pena è la connotazione di afflittività. Essa rientra nelle
conseguenze sanzionatorie punitive, perché la sanzione in genere è sempre conseguenza di un
fatto illecito (è per questo che pagare un' imposta non è sanzione, mentre lo sono la multa,
l’ammenda e la sanzione amministrativa pecuniaria). Da ciò si evince che illecito e sanzione sono
concetti specularmente affini, che si pongono in un rapporto logico d’implicazione reciproca e
necessaria: non ci può essere illecito senza sanzione, né sanzione che non sia conseguente a un
illecito. Alle sanzioni punitive fanno da pendant: - Sanzioni ripristinatorie dirette a ricostituire una
certa situazione giuridica come era prima della violazione, annullandone gli effetti (es. nullità del
contratto che contrasti con norme imperative). - Sanzioni riparatorie dirette alla reintegrazione
della perdita patrimoniale determinata dall’illecito (es. risarcimento del danno). - Misure di
sicurezza sanzioni a carattere non punitivo (ma preventivo). Da un punto di vista logico, la pena è
un male necessario, inscindibile di ogni comunità. Essa non produce i suoi effetti solo ex post, nel
momento in cui viene applicata, bensì anche all'atto della posizione delle norme, ossia quando
viene astrattamente minacciata come conseguenza della violazione delle stesse (vedi teoria della
prevenzione generale, nell' accezione negativa/deterrenza e positiva/orientamento culturale dei
consociati). I caratteri essenziali della pena: afflittività e significatività simbolico-espressiva La pena
non può non essere afflittiva: essa consiste nell’inflizione di un male, di una sofferenza, e quindi
sarebbe un controsenso attribuire un vantaggio a chi commette un illecito. L'afflittività della pena
è contrapposta alla premialità, volta ad incentivare comportamenti conformi alle regole poste
dalle norme giuridiche e, come tali, contrapposte alle pene che invece operano in chiave
disincentivante, in quanto tendono a scoraggiare i loro destinatari dal commettere in futuro illeciti.
Il male che si infligge consiste nella privazione o nella diminuzione di beni individuali del reo. Ecco
perché si dice che la pena rappresenta un’arma a doppio taglio: è la tutela dei beni giuridici
attraverso la lesione di altri beni (von Liszt). Nel nostro ordinamento, la pena è l’unica sanzione
punitiva in grado di incidere sul bene primario della libertà personale. Per il principio di personalità
della responsabilità penale, autore della violazione e soggetto passivo della sanzione devono
coincidere. Una pena ingiusta perché inflitta ad un soggetto diverso dal reo sarebbe inutile, poiché
i consociati non avrebbero più motivo di osservare i precetti penali e non si potrebbe tendere ad
alcuna rieducazione. Alla pena va riconosciuta anche una valenza in chiave simbolico-espressiva: in
essa si esprime un giudizio di disapprovazione sociale del fatto e del suo autore. Il dibattito sui fini
della pena Riguardo i fini della pena vi sono diversi orientamenti, si possono indicare 3 idee-guida:
L'articolo 27, in ambito penale, pone due principi fondamentali: quello di umanità e quello del
teleologismo rieducativo. Il principio di umanità viene riaffermato nell’art. 1.1 ex l. n. 354/1975 (“il
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della
dignità della persona) e in numerosi documenti internazionali. Esso pone un limite esterno
invalicabile all’afflittività della sanzione penale e non dà la possibilità al legislatore di fare ricorso a
pene che contrastino con il “senso di umanità” (es. pene corporali e tutti quei trattamenti che
producono sofferenze fisiche, che ormai appartengono al passato del diritto penale). Lo stesso
fatto di essere costretti a convivere con altri detenuti in una situazione di sovraffollamento
carcerario contrasta con questo principio, dal quale consegue la messa al bando della pena di
morte che è ribadita nel comma successivo dell’art. 27 Cost. (“non è ammessa la pena di morte, se
non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”). In termini più ampi, la Corte costituzionale
ritiene contrarie al senso di umanità tutte quelle pene che si traducano in una violenza mortale
della persona e non tendano ad alcuna finalità rieducativa. Il divieto di trattamenti punitivi
degradanti discende invece dal rispetto della dignità quale diritto inviolabile della persona umana
(artt. 2 e 3 Cost.). Il finalismo rieducativo quale connotato essenziale della pena
costituzionalmente orientata L’art. 27. 3 Cost. individua nella rieducazione del condannato la
finalità della pena. Ma cosa significa “rieducazione del condannato”? È un concetto diverso
dall’emenda, intesa come redenzione morale del condannato ottenuta attraverso l’espiazione
della pena, in quanto lo Stato non può e non deve interessarsi delle coscienze e degli
atteggiamenti interiori dei propri cittadini. La rieducazione va intesa piuttosto come
risocializzazione, come attività di reintegrazione e di recupero sociale del reo, per allontanarlo
dalla precedente esperienza antisociale affinché riacquisti i valori basilari della convivenza civile.
Deve essere una chance di reinserimento sociale del reo, in nome di quei valori solidaristici perché
non torni più a delinquere. La rieducazione va concepita come qualcosa che si propone e non si
impone al condannato (ecco il vero significato del verbo "tendere"), in quanto egli resta libero di
decidere se accettare o meno la proposta rieducativa.
1) Nella fase della posizione delle norme, la pena (essendo rivolta ad incertam personam) dovrà
rivolgersi direttamente a TUTTI i destinatari dei precetti, per distoglierli indistintamente dal
commettere reati. Il legislatore dovrà determinare e disciplinare i contenuti della pena in modo da
svolgere la funzione rieducativa.
2) Nella fase dell’ applicazione della pena (identificazione della species e del quantum della pena in
relazione ad una determinata persona fisica) sarà l’art. 27.3 Cost. ad orientare la decisione del
giudice, che dovrà scegliere la sanzione più adatta per rieducare un determinato condannato. In
questa sua scelta, egli incontra un limite nel principio di proporzione e in quello di colpevolezza: la
pena dovrà essere proporzionata alla gravità del fatto e alla colpevolezza del suo autore.
3) Nella fase dell’ esecuzione, l’idea rieducativa dovrebbe trovare la sua piena attuazione. In
questa fase si pone il problema di come gestire il rapporto con il condannato, si personalizza il
trattamento nei suoi confronti e si cerca di far sì che questi non torni più a delinquere. Il profilarsi
del paradigma conciliativo e la scommessa della mediazione Esiste un modello alternativo di
giustizia detto conciliativo, che sta prendendo piede nella nostra cultura penalistica. La risposta al
reato si traduce in un ristabilimento della comunicazione interrotta tra vittima e autore del reato,
attraverso il dialogo. In questa giustizia dialogico - conciliativa, lo strumento più diffuso è dato
dalla cosiddetta mediazione, ossia un'attività dove un soggetto terzo e neutrale aiuta i soggetti a
capire l’origine del conflitto che li oppone, a confrontare i propri punti di vista, e a trovare
soluzioni. Essa favorisce il momento dell’incontro (del confronto) tra la vittima e l’autore del reato,
dando la possibilità di ristabilire la comunicazione interrotta, oppure di crearne una nuova.
I principi sono importanti perché ad essi si deve conformare il diritto penale. Essi permettono di
criticare e riformare le norme del codice penale, ed in più offrono una grande prospettiva dal
punto di vista ermeneutico. I principi giuridici si distinguono in due tipologie principali:
PRINCIPI:
1) Non hanno fattispecie. Si applicano al caso concreto solo attraverso la mediazione delle regole.
2) Sono normalmente ottimizzabili attraverso le regole, cioè passibili di una gamma indefinita di
realizzazioni da un minimo a un massimo. 3) Sono bilanciabili tra di loro quando entrano in
conflitto.
Può accadere che un determinato principio venga concepito dapprima come argomentativo, e in
seguito come assiomatico (es: il principio di colpevolezza, con la sent. n. 364/1988, da principio
argomentativo è diventato principio dimostrativo).