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COMUNITÀ IMMAGINATE

PREFAZIONE - MARCO D’ERAMO “ CHISSÀ SE CAPIRANNO”

Perché le persone sono pronte a immolarsi per la propria nazione? Cosa c’è in essa da renderla degna del sacrificio
della propria vita?
A noi contemporanei la nazione ci sembra un orizzonte naturale della società e della politica. L’indipendenza
nazionale ci pare un bene caro da salvaguardare, difatti nella nostra modernità ci sembra ovvio che ognuno abbia
una nazionalità. Questa ovvietà è ingannatrice. Per secoli la vita umana si è collocata in strutture del tutto diverse
dalle nazioni (imperi, entità regionali) … e allora quando si è imposto il concetto di nazione? Non a caso l’idea di
nazione nasce in contemporanea con il nascere dello storicismo e con l’affermarsi della teoria dei soggetti1.
Per un patriota, già la domanda sul “quando” gli suona blasfema. Per lui la nazione è qualcosa di originario, un
retaggio primordiale, che forse era stato dimenticato e che solo di recente è riaffiorato come un’identità ritrovata.
Siamo di fronte una duplicità: la nazione è stata pensata, creata di recente, ma essa pensa se stessa come
antichissima. I nazionalismi sono nati tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma in quell’epoca si parla di risveglio dei
nazionalismi, come se fossero stati destati da un lungo sonno e, così facendo, ci sembra che le nazioni siano sempre
esistite – ma è proprio così che cadiamo nella trappola che proprio la nazione ci tende. Ernest Gellner2 afferma che:
“il nazionalismo inventa nazioni là dove esse non esistono”.
Non ci rendiamo conto che un modo tipico con cui la modernità si crea un futuro è attraverso la costruzione di un
passato, di una tradizione. Si crea così una comunità inedita immaginando di appartenere a una remota e
dimenticata. È proprio verso il 1980 che si è cominciato a indagare questo meccanismo e le ricerche che hanno
indirizzato la nave sono il libro “Comunità immaginate” di Benedict Anderson. L’autore vuole spiazzare, scuotere la
sicurezza con cui alcuni concetti si presentano a noi e interrogarsi. Anderson esamina la nazione come a un
“artefatto culturale”, cioè a un prodotto, invece che a un dato. Chiedersi da chi, quando e come la nazione sia stata
immaginata rende visibili fenomeni che prima non percepivamo.
Secondo il pensiero di “sinistra” ci sono nazionalismi buoni e quelli cattivi. Tra il 1848 e il 1850 Marx era favorevole
al movimento nazionale dei polacchi e ungheresi e contrario a quello dei cechi e jugoslavi. Perché? Perché questi
ultimi due erano “popoli reazionari” avamposti dell’assolutismo, mentre i primi due erano “popoli rivoluzionari”
che si battevano contro l’assolutismo. Allo stesso modo, al cattivo nazionalismo dei fascisti viene contrapposto
quello buono dei popoli del terzo mondo nella loro lotta per l’indipendenza. E ancora oggi esiste una doppia verità
sul nazionalismo. Quando si tratta di opporsi alla libera circolazione di merci e capitale (c.d. globalizzazione) allora il
nazionalismo è buono. Quando invece ci si oppone alla libera circolazione degli individui, cioè si è ostili
all’immigrazione, allora il nazionalismo è cattivo.
Ma si resta sempre intrappolati nel tranello che la nazione ci tende cioè la pensiamo come essa ci chiede. Ecco
perché l’opera di Anderson è stimolante, a partire dal titolo: comunità… una parola che, applicata all’idea di
nazione, spiazza. In inglese essa è community: l’insieme degli abitanti di una piccola cittadina che costituiscono una
community che non ha bisogno di essere immaginata perché i suoi membri si conoscono tutti. La nazione, invece, è
una comunità politica immaginata, “in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai gli altri,
eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità”. E ancora, per Anderson: “le comunità non
vanno distinte in base alla loro falsità/genuinità (dato che per Gellner il nazionalismo inventa – quasi come se fosse
qualcosa di fasullo) ma dallo stile in cui sono immaginate”. È così l’autore classica un nazionalismo di diversi tipi:
- Nazionalismo creolo
- Nazionalismo linguistico

1
Il mondo è prodotto dall’azione di un soggetto, non generato come effetto di causa
2
Ernest Gellner (Parigi, 9 dicembre 1925 – Praga, 5 novembre 1995) è stato un filosofo, antropologo e sociologo inglese.
1
- Ufficial-nazionalismo
Ma c’è anche un’ultima ondata di nazionalismi, quella del nostro secolo, che assembla tutti e tre tipi, soprattutto
nelle indipendenze africane e asiatiche.
Anderson considera anche i fattori che plasmano l’immaginazione moderna in comunità nazionali, come il ruolo del
capitalismo a stampa, la mutata percezione del tempo, il pellegrinaggio laico o il ruolo delle carte geografiche,
musei.
L’autore della prefazione è affascinato da come Anderson riesce a dimostrare che il vortice del mercato mondiale
produca nazionalismi e integralismi etnici, risucchiando milioni di umani in quel tornado che è il capitalismo, il
quale riplasma anche il concetto di nazionale. Essendo i destini umani alla sua mercé, essi si aggrappano a sensi di
vita per la quale sono pronti anche a morire, ma che invece, sarebbero davvero irrisori. L’autore infatti nota
l’emblema del nazionalismo moderno: il monumento al Milite Ignoto, nella cui tomba, il corpo assente, è la
nazione – un costrutto che rende i morti, i nostri morti. Quella di Anderson, quindi, è un’inversione di prospettiva
che mostra come i conflitti etnici siano un portato della modernità.

1. INTRODUZIONE

Senza che ce ne rendiamo conto, torreggia su di noi una trasformazione nella storia del marxismo3 e dei movimenti
marxisti. I segni più evidenti sono le guerre tra Vitenam, Cambogia e Cina4. Queste guerre sono importanti in
quanto sono le prime tra regimi la cui indipendenza è innegabile che non hanno fatto più di uno svogliato tentativo
di giustificarla attraverso la prospettiva teoretica marxista. Dalla seconda guerra mondiale in poi, ogni rivoluzione
riuscita si è definita in termini nazionali e, così facendo, si è ancorata in uno spazio territoriale e sociale ereditato
dal passato pre-rivoluzionario.
Eric Hobsbawm5 afferma (e ha ragione) quando osserva che “movimento e stati marxisti tendono, col tempo, a
diventare nazionali non solo nella forma ma anche nella sostanza, e quindi nazionalisti”. Molte vecchie nazioni,
credute ben consolidate, si trovano minacciate da “sub-nazionalismi” all’interno dei propri confini, che,
logicamente, aspirano a perdere la connotazione di “sub”. La fine dell’era dei nazionalismi, lungamente
profetizzata, non è in vista… anzi, la “nazion-ità” è il valore più legittimato nella vita politica del nostro tempo.
Se i fatti sono chiari, così non sono le loro definizioni. Nazione, Nazionalità, Nazionalismo, si sono dimostrate
difficile da definire e ancor più da analizzare. Il punto di partenza è che, tali concetti, sono manufatti culturali di un
tipo particolare. Per poterli meglio interpretare è necessario considerare come essi siano nati storicamente, in che
modo il loro significato cambia nel tempo e perché oggi scatenino una legittimità così emotiva. La creazione di tali
manufatti alla fine del ‘700 è stata la spontanea distillazione di un complesso “incrocio” di forze storiche
discontinue; ma che, una volta create, divennero “modulari”, in grado di venir trapiantate, con vari gradi di
consapevolezza, nel sistema nevralgico delle politiche e ideologie.
CONCETTI E DEFINIZIONI
Conviene, a questo punto, definire il concetto di “nazione”.
I teorici del nazionalismo si sono spesso trovati di fronte a tre paradossi:
1. L’oggettiva modernità delle nazioni agli occhi degli storici contro la loro soggettiva antichità agli occhi dei
nazionalisti.

3
Movimento sociale e politico fondato sulla visione materialista e dialettica della storia, secondo cui il fattore economico
promuove la lotta di classe e la dittatura del proletariato quale momento di passaggio ad una futura società ugualitaria.
4
O terza guerra d'Indocina, fu un lungo conflitto che interessò dall'aprile del 1977 all'ottobre del 1991 il territorio della
Cambogia e le zone limitrofe a questa di Vietnam e Thailandia; il conflitto ebbe origine dalle dispute territoriali esistenti tra
Cambogia e Vietnam.
5
Tra gli storici europei più noti, autore di “Nazioni e nazionalismi”.
2
2. L’universalità della nazionalità come concetto socio-culturale (nel mondo moderno ognuno può, dovrebbe
avere, avrà una nazione) contro la particolarità delle sue manifestazioni.
3. La forza politica dei nazionalismi contro la loro povertà e incoerenza filosofica (Il nazionalismo non ha mai
prodotto i propri grandi pensatori).
Parte della difficoltà è che si tende a rappresentare l’esistenza di un Nazionalismo, con la N, e quindi a
classificarlo come un’ideologia. Anderson, in quanto antropologo, propone dunque tale definizione di nazione:
“si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente limitata e sovrana. È
immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro
compatrioti, né li incontreranno, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità”.
Anche Gellner afferma una tesi simile: “Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza:
piuttosto inventa le nazioni dove esse non esistono” in cui cerca di dimostrare che il nazionalismo si nasconde
sotto pretese infondate, da assimilare all’invenzione piuttosto che all’immaginazione e creazione. Così
sottintende l’esistenza di comunità “vere” che si contrappongono alle nazioni; ma le comunità devono essere
distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui sono immaginate:
- La nazione è immaginata come “limitata” in quanto persino la più grande ha comunque confini, finiti,
oltre i quali si estendono altre nazioni. Nessuna s’immagina confinante con l’umanità.
- La nazione è immaginata come “sovrana” in quanto il concetto è nato quando illuminismo e rivoluzione
stavano distruggendo la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino. Le nazioni
sognano di essere libera e dipendere soltanto da Dio. La garanzia di tale libertà è lo stato nazionale.
- La nazione è immaginata come “comunità” in quanto viene sempre concepita in termini di profondo,
orizzontale, cameratismo. In fin dei conti, è stata questa fraternità ad aver consentito a tanti milioni di
persone, non tanto di uccidere, quanto di morire, in nome di immaginazioni così limitate.
Queste morti ci portano di fronte al problema centrale legato al nazionalismo: come possono gli ideali della storia
recente (poco più di due secoli) generare un tale colossale sacrificio? La risposta è nelle sue radici culturali.

2. RADICI CULTURALI

Nessun simbolo della moderna cultura del nazionalismo attira più dei cenotafi e delle tombe al Milite Ignoto. Non
ha precedenti la riverenza cerimoniale che viene data loro proprio perché sono vuote oppure perché nessuno sa chi
vi giaccia dentro. Queste tombe, però, sono saturate di immaginazioni nazionali.
L’immaginario nazionalista suggerisce una affinità con l’immaginario religioso ed è dunque utile cominciare l’analisi
delle sue radici culturali con la morte e la fatalità.
Il grande merito delle religioni tradizionali del mondo è stata la loro attenzione all’uomo come essere, alla
contingenza della vita. Il modo in cui sono riuscite a sopravvivere testimonia la forza della loro risposta allo
schiacciante fardello dell’umano soffrire – malattie, mutilazioni, dolore, vecchiaia. Le religioni cercano di spiegare.
La grande debolezza delle correnti di pensiero progressiste è che, davanti tali argomenti, tacciono. Allo stesso
tempo, il pensiero religioso risponde anche a oscuri presagi d’immortalità, trasformando la fatalità in continuità
(karma, peccato originale…).
Nell’Europa occidentale, il ’700 segna l’alba del nazionalismo, ma anche il tramonto del pensiero religioso – senza la
scomparsa, però, della sofferenza che in parte la fede leniva. L’idea di nazione poteva operare una trasformazione
laica di fatalità in continuità, dove il caso diventa destino. Le nazioni-stato sono considerate “nuove”, ma le nazioni
a cui danno espressione politica derivano sempre da un passato antichissimo e scivolano verso un futuro senza
limiti. È la magia del nazionalismo.
Il nazionalismo va interpretato commisurandolo ai grandi sistemi culturali che l’hanno preceduto e dai quali, o
contro i quali, esso è nato (e non a ideologie politiche sostenute in modo autocosciente). I due sistemi culturali

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rilevanti sono la Comunità Religiosa e il Regno Dinastico, che durante i loro anni di gloria erano dati per scontato –
esattamente come la nazionalità oggi.
LA COMUNITÀ RELIGIOSA
Le grandi culture sacre fondevano concezioni di comunità immense. La cristianità, la comunità islamica e il Regno di
Mezzo (Cina), furono pensabili in gran parte tramite il medium di un linguaggio sacro e di una sacra scrittura. Tutte
le grandi comunità antiche si concepivano al centro del cosmo, tramite lo strumento di un linguaggio sacro legato
ad un ordine sovraterreno di potere. Queste antiche comunità connesse da lingue sacre avevano una differenza
dalle comunità immaginate delle nazioni moderne: la fede delle comunità nella sacralità delle loro lingue.
Se le lingue sacre furono il medium tramite cui furono immaginate le grandi comunità globali del passato, la realtà
dipendeva da un concetto estraneo al contemporaneo pensiero occidentale: la non arbitrarietà del segno. Gli
ideogrammi cinesi, latini o arabi erano emanazione della realtà, non sue rappresentazioni a caso. Infatti il Corano,
fino a poco tempo fa, era intraducibile, perché la verità di Allah era accessibile solo tramite i segni “veri” dell’arabo
antico. La realtà ontologica6 è percettibile solo tramite un singolo sistema privilegiato di rappresentazione: il
linguaggio-verità della Chiesa Latina, l’arabo coranico o il cinese mandarino. E, in quanto lingue-verità, sono
pervase da un impulso estraneo al nazionalismo, l’impulso alla conversione. Anche se le lingue sacre hanno reso
immaginabili queste comunità, lo scopo reale e la plausibilità di tali comunità non possono essere spiegate soltanto
dalle sacre scritture: una spiegazione più completa richiede un’osservazione dei rapporti tra i letterati e la loro
società. I letterati erano gli esperti, erano un livello strategico in una gerarchia cosmologica il cui apice era il divino
(l’incredibile potere del papato al suo culmine è comprensibile nei termini di un clero scrivente in latino e di una
concezione del monto condivisa virtualmente da tutti, per cui mediando tra volgare e latino si mediava tra terra e
cielo).
Malgrado ciò la loro non autocosciente coerenza declinò brutalmente dopo la fine del medioevo:
1. L’effetto delle esplorazioni del mondo non-europeo che “allargarono gli orizzonti geografici e culturali e
quindi anche il concetto di possibili forme di vita umana”. Cambiano gli atteggiamenti e i linguaggi. Sorge il
principio della territorializzazione che precede i moti nazionalisti (es. la “nostra” nazione).
2. Graduale perdita di valore del linguaggio sacro. Nel medioevo il latino era l’unica lingua a essere insegnata
(perché nessun’altra era considerata degna). Già nel ‘500, però, tutto ciò stava cambiando. Le stampe
erano in maggioranza in lingua volgare e poco dopo, il latino smise di essere il linguaggio dell’alta
intellighenzia pan-europea. Il decadere del latino esemplificò un processo più ampio in cui le comunità
sacre, integrate da vecchi linguaggi sacri, furono gradualmente frammentate, pluralizzate e territorializzate.
IL REGNO DINASTICO
Oggi è difficile concepire il regno dinastico come all’unico sistema politico immaginabile, dato che una seria
monarchia si oppone a tutte le moderne visioni di vita politica. Un governo monarchico organizza tutto intorno a un
centro superiore e, la sua legittimità, deriva dalla divinità e non dai popoli (che sono sudditi, non cittadini). Nella
concezione moderna la sovranità di uno stato è operativa in modo rigido, uniforme, su tutto il territorio legalmente
demarcato. Ma nella concezione più antica, i confini erano porosi e indistinti, difficili da definire. Da ciò deriva la
facilità con cui imperi e regni pre-moderni poterono sostenere (anche grazie a guerre e alla politica sessuale –
matrimoniale, come nel caso degli Asburgo) il proprio dominio su popolazioni eterogenee per lunghissimo tempo.
In regimi dove la poligamia era punita dalla religione, i lignaggi reali ottenevano prestigio da “incroci”.
Durante il ‘600, comunque, la legittimità automatica delle monarchie sacrali cominciò a declinare in Europa
occidentale, anche se vi erano ancora sacralità nelle figure monarchiche. Dopo il 1789 il principio di legittimità
dovette essere fortemente difeso e, nel farlo, la “monarchia” divenne un modello semi-standardizzato. Nel 1914

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Studio dell’essere, branca fondamentale della Filosofia
4
gli stati dinastici erano i membri più numerosi del sistema politico mondiale, anche se molte di essere cercavano di
darsi un’impronta “nazionale”, man mano che il vecchio principio di legittimità scivolava via.
PERCEZIONI DEL TEMPO
È sbagliato pensare che le comunità immaginate di nazioni abbiano rimpiazzato le comunità religiose e i regni
dinastici. Avveniva un mutamento nel modo di percepire il mondo che rese possibile “pensare” la nazione.
Soffermiamoci sulle rappresentazioni visuali delle comunità sacre, come: vetrate delle chiese o affreschi; un mondo
in cui la rappresentazione della realtà immaginata era quasi unicamente visiva o vocale. Il cristianesimo ha assunto
la sua forma universale tramite specificità e particolarità: mentre il clero trans-europeo e capace di leggere il latino
era un elemento fondamentale nell’immaginario cristiano, altrettanto importante era la trasmissione delle loro
concezioni alle masse analfabete tramite creazioni visive o vocali sempre particolari e personali. Questa
contrapposizione tra cosmico-universale e terreno-particolare dimostrava che, per quanto vasta sia la cristianità,
essa si manifestava “diversamente” a particolari comunità. Il pensiero cristiano medioevale non percepiva la storia
come una catena di cause ed effetti, né poneva una separazione tra presente e passato. “[…] viene stabilita una
connessione tra avvenimento che non sono legati né cronologicamente né casualmente, una connessione che la
ragione non può stabilire. Si tratta di stabilirla collegando verticalmente i fatti con la potenza divina, che crea un
piano nella storia e ne dà comprensione.” Da come scrive Auerbach, una tale idea di simultaneità ci è
completamente estranea. Il tempo è visto come ciò che Benjamin chiama “tempo messianico” una simultaneità di
passato e futuro in un presente istantaneo, in cui il termine “nel frattempo” non può significare molto.
La nostra concezione della simultaneità si è sviluppata in un lungo periodo di tempo e la sua apparizione è
connessa con lo sviluppo delle scienze laiche. A sostituire il concetto medioevale di “simultaneità nel corso del
tempo” è stata un’idea di “tempo vuoto e omogeneo” in cui la simultaneità è obliqua, scandita non da
prefigurazione e adempimento ma da sincronia, misurata da orologi e calendari.
Perché tale passaggio sia così importante per la nascita delle comunità immaginarie delle nazioni, diventa più
chiaro se consideriamo lo sviluppo, nel ‘700, del romanzo e del giornale, i quali saranno gli strumenti tecnici per
“rappresentare” quel tipo di comunità immaginata che è la nazione.
Consideriamo il romanzo: la sua struttura è uno strumento per la rappresentazione della simultaneità in un “tempo
vuoto e omogeneo”. Pensiamo alla trama di un romanzo in cui vi sono più individui; seppur legati fra loro,
probabilmente, alcuni non si conosceranno mai, “si incrociano per strada, senza mai conoscersi”. Cos’è che li lega?
Primo, il fatto che facciano parte di una “società”. Secondo, il fatto che sono presenti nella mente del lettore
onnisciente. Che tutte le loro azioni siano compiute nello stesso tempo metrico, ma da attori ignari l’uno dell’altro,
mostra la novità di questo mondo immaginario evocato dall’autore nella mente del lettore.
L’idea di un organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo, ha una analogia
con l’idea di nazione, concepita anch’essa come una solida comunità che attraversa la storia.
Un esempio ci è dato, nel 1887, dal romanzo “Noli Me Tangere” di José Rizal (padre del Nazionalismo filippino, la
sua morte è festa nazionale nelle Filippine). Nell’inizio del romanzo, l’immagine di un ricevimento discusso da
centinaia di persone anonime, che non si conoscono, di varie zone di Manila, in un mese di un dato anno, evoca la
comunità immaginata. Il tempo interiore del romanzo, si fonde con quello esteriore del lettore (filippino)
coinvolgendolo, offrendo l’immagine di una comunità immaginata che si muove in avanti lungo un tempo ordinato.
Consideriamo il giornale. Se pensiamo al giornale come a un prodotto culturale, saremo colpiti dal suo profondo
carattere immaginario. Se dovessimo osservare la prima pagina di un qualsiasi giornale, troveremmo articoli su
molti argomenti, diversi tra loro. Cosa li unisce? Non un capriccio. La maggior parte degli eventi avviene
indipendentemente, senza che gli attori sappiano l’uno o dell’altro. L’arbitrarietà della loro inclusione e
giustapposizione mostra che il legame tra loro è immaginato. Questo legame immaginato deriva da due fonti:
- Coincidenza cronologica, cioè leggere un giornale è come leggere un romanzo il cui autore ha
abbandonato ogni speranza di mantenere una trama coerente.
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- Relazione che lega il giornale al mercato, infatti il libro fu la prima merce a moderna produzione di
massa. Il giornale è solo una forma “estrema” di libro, venduto su scala colossale e di effimera
popolarità – best-seller per un giorno? Proprio l’obsolescenza7 del giornale il giorno dopo la sua
pubblicazione cerca una cerimonia di massa: il consumo del giornale-racconto. Ognuno la pratica in
silenzio e privatezza, pur sapendo che essa viene replicata da milioni d altri, della cui esistenza è certo,
ma dell’identità non ne ha la minima idea. Quale raffigurazione più vivida della comunità immaginaria?
Inoltre il lettore che vede consumare da altri il suo stesso quotidiano, viene rassicurato che il mondo
immaginato è visibilmente radicato nella vita di tutti i giorni. Come in Noli Me Tangere, la narrazione
filtra silenziosa nella realtà creando la fede comunitaria nell’anonimato, caratteristica delle nazioni.
Ricapitolando, la possibilità di immaginare la nazione si presentò solo quando, e dove, tre fondamentali concetti
culturali persero la loro presa sule menti degli uomini:
1. L’idea che un particolare linguaggio sacro offrisse un accesso privilegiato alla verità, proprio perché parte
inseparabile della verità stessa. Grazie a quest’idea che nacquero le grandi fratellanze cristiane e le altre.
2. La credenza che la società fosse organizzata naturalmente intorno a “centri superiori”, cioè monarchi,
persone diverse dagli altri esseri umani e che governavano per volontà divina. Le lealtà verso di essi erano
gerarchiche.
3. La concezione del tempo in cui cosmologia e storia erano indistinguibili. Combinate, queste idee
cambiarono le vite degli uomini, offrendo certi significati alle comuni fatalità dell’esistenza (morte,
malattie) ed offrendo, per varie vie, la salvezza da esse.
Il declino di queste certezze, a causa dei cambiamenti economici, sociali e scientifici, divise cosmologia e storia. Si
cercò di creare un nuovo, significativo legame che tenesse insieme fraternità, potere e tempo. Fu il capitalismo a
stampa che permise, a un numero crescente di persone, di pensare a sé e di porsi in relazione agli altri, in modi
profondamente nuovi.

3. LE ORIGINI DELLA COSCIENZA NAZIONALE

Lo sviluppo della stampa come merce è l’elemento chiave nella generazione di idee completamente nuove. Ma
perché diviene così popolare proprio la nazione? I fattori coinvolti sono complessi e vari ma, il più importante, è
l’affermarmi del capitalismo. In quanto una delle prime forme d’impresa capitalistica, l’editoria visse l’incessante
ricerca di nuovi mercati. I primi tipografi aprirono succursali in tutta Europa “creando una vera internazionale di
case editrici che ignorava le frontiere nazionali”. Dato che gli anni tra il 1500 e il 1550 furono prosperi, l’editoria
seppe sfruttare il momento favorevole e divenne “una grande industria sotto il controllo di ricchi capitalisti”.
Naturalmente “ai venditori interessava soprattutto guadagnare, e quindi cercarono quelle opere che interessassero
il maggior numero possibile di contemporanei”.
Il mercato inziale furono i lettori di latino. Il fatto determinate fu che, al di là della sacralità della lingua, il latino era
usato da uomini in grado di capire due lingue. Tuttavia, nel ‘500, la percentuale dei bilingui sulla popolazione totale
dell’Europa era scarna. Ora e sempre, la maggioranza dell’umanità è e sarà monolingue. La logica del capitalismo
significò che, saturato il mercato delle élite in latino, si affrontarono i mercati potenzialmente enormi rappresentati
dalle masse monolingue. Nello stesso tempo, una carenza di denaro spinse gli editori a considerare la distribuzione
di libri economici in volgare.
La spinta del capitalismo verso il volgare ricevette impulso da tre fattori estranei:
1. Un mutamento nel carattere del latino stesso. Riportando alla luce la letteratura pre-cristiana, anche
attraverso la stampa, il latino che si aspirava a scrivere divenne sempre più ciceroniano e sempre più
lontano da quello ecclesiastico o da quello parlato. Divenne esoterico e quindi differente dal latino della
chiesa del medioevo.

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Diminuzione progressiva delle possibilità di sussistenza, efficienza, validità, gradimento all'interno di un ambiente.
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2. L’impatto della Riforma. Prima dell’era dell’editoria, la Chiesa romana fu in grado di vincere facilmente le
guerre contro l’eresia, in quanto dotata di migliori linee di comunicazioni rispetto gli eventuali eretici. Ma
quando nel 1517 Lutero affisse le sue Tesi sulle porte della cappella di Wittenberg, esse vennero stampate
con la traduzione in tedesco (e quindi diffuse) con la conseguente accelerazione alla stampa di libri. “Si ha
per la prima volta una vera massa di lettori, e una letteratura popolare alla portata di ognuno” dove Lutero
diventa il primo autore di best-seller conosciuto. Altri seguirono la strada percorsa da Lutero dando inizio
alla colossale guerra di propaganda religiosa. In questa “battaglia per le menti degli uomini” il
protestantesimo fu quasi sempre all’attacco, proprio perché sapeva sfruttare il crescente mercato
editoriale in volgare creato dal capitalismo, mentre la Controriforma difendeva la sua roccaforte latina.
L’alleanza tra protestantesimo e capitalismo-a-stampa creò in breve un nuovo e vasto pubblico e li mobilitò
per fini politico-religiosi. Non fu solo la Chiesa ad esserne scossa, ma tale moto produsse i primi importanti
stati non-dinastici europei (es. la repubblica tedesca).
3. Utilizzo del volgare come strumenti di accentramento amministrativo. Ricordiamo infatti che l’universalità
del Latino non corrispose mai a un sistema politico universale. La nascita dei volgari amministrativi anticipò
sia lo sviluppo della stampa, sia gli sconvolgimenti religiosi del ‘500. E niente suggerisce che alla base della
“volgarizzazione” vi sia stato un impulso ideologico.
La scelta della lingua appare come uno sviluppo graduale, deciso, pragmatico e caotico. Le vecchie lingue
amministrative erano solo tali: lingue usate da e per la burocrazia, per la propria convenienza. Nessuno pensava
d’imporre la lingua alle varie popolazioni soggette alle dinastie. L’elevazione del volgare a “lingua del potere” dette
il suo contributo al declino della comunità immaginata della Cristianità.
Probabilmente, il farsi sempre più esoterico del latino, la Riforma e lo sviluppo del volgare amministrativo siano
importanti in un senso negativo: nel loro contribuire alla destituzione del latino. Quello che, in un senso positivo,
rese le nuove comunità immaginabili fu una quasi causale, ma esplosiva, interazione tra capitalismo, stampa e la
fatalità della diversificazione linguistica umana. L’elemento della fatalità è essenziale. Particolari lingue possono
venir meno o cancellate, ma non c’è stata, né c’è, alcuna possibilità di una generale unificazione linguistica
dell’umanità – tale consapevolezza fu storicamente solo di marginale importanza prima che il capitalismo e la
stampa creassero un pubblico monolingue.
Essenziale è l’interazione tra fatalità, tecnologia e capitalismo.
Nell’Europa della stampa, era immensa la diversità delle lingue parlate, ampia a tal punto che l’editoria, anche se
avesse cercato di sfruttare ogni potenziale mercato delle innumerevoli lingue volgari parlate, sarebbe comunque
rimasta una forma di capitalismo di dimensioni insignificanti. Queste varie lingue, però, potevano venire
“assemblate” in lingue scritte di numero decisamente inferiore. Ad “assemblare” questi volgari servì il capitalismo
che, all’interno dei limiti imposti da grammatiche e sintassi, creò lingue scritte riprodotte meccanicamente e tali
da poter essere diffuse attraverso il mercato8. Queste lingue scritte posero le basi per le coscienze nazionali in tre
diversi modi:
1. Crearono un terreno comune di scambio e comunicazione al disotto del latino e al disopra dei dialetti
volgari (chi parlava diverse varietà di una singola lingua, come l’inglese, e trovava difficile capirsi in una
conversazione, erano in grado di farlo via stampa). Nel processo, divennero consapevoli di tutte le altre
migliaia, o milioni, di persone appartenenti al loro campo linguistico e, allo stesso tempo, del fatto che solo
quelle migliaia, o milioni, di persone gli appartenevano. Quei lettori, legati tra loro dalla stampa, formarono
l’embrione della comunità immaginata nazionale.

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Lucien Febvre (fondatore scuola delle Annales) e Henri Martin non dimenticano che dietro la stampa si muovono i tipografi e
le case editrici. È bene ricordare che, se anche la stampa fu inventata in Cina probabilmente 500 anni prima che apparisse in
Europa, non ebbe impatto rivoluzionario proprio perché lì non c’era il capitalismo.
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2. L’editoria diede una nuova stabilità alla lingua, aiutando a costruire quell’immagine di antichità così
importante per l’idea soggettiva di nazione. Come Febvre e Martin ricordano, il libro stampato manteneva
una forma permanente, in grado di venir riprodotta all’infinito, nello spazio e nel tempo.
3. L’editoria creò linguaggi di potere di tipo diverso dagli antichi volgari amministrativi, con diversi livelli di
prestigio.
Al loro inizio, sia lo stabilizzarsi delle lingue stampate, sia il loro disporsi a livelli diversi di prestigio, furono processi
in gran parte inconsapevoli, risultanti dall’interazione tra capitalismo, tecnologia e diversità linguistica. E, come in
molti altri casi, una volta presenti, poterono diventare modelli da imitare o espedienti da poter sfruttare.
Possiamo affermare, quindi, che la convergenza del capitalismo e delle tecnologie di stampa e della varietà delle
lingue umane creò la possibilità di una nuova forma di comunità immaginata, che pose le basi delle nazioni
moderne. È ovvio che mentre tutte le moderne nazioni hanno “lingue scritte nazionali” molte hanno lingue comune
e in altre solo una minima parte della popolazione “usa” la lingua nazionale nel parlare o scrivere. Cioè, la
formazione degli stati-nazione contemporanei non è in funzione del raggio d’azione di una particolare lingua. Per
comprendere la connessione tra lingue, coscienze nazionali e stati-nazione dobbiamo considerare la nascita di
quelle nuove entità politiche sorte tra il 1776 e il 1838, autodefinitesi come nazioni.

4. PIONIERI CREOLI 9

I nuovi stati americani nati tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 sono di straordinario interesse. Sia che pensiamo al
Brasile o agli Stati uniti, la lingua non era un elemento che li differenziava dalle loro rispettive capitali imperiali.
Tutti erano stati creoli, cioè formati e guidati da persone che condividevano la lingua e l’origine con coloro contro
cui avevano combattuto. Anzi, la lingua non è mai stata in discussione in queste prime lotte di liberazione
nazionale. Inoltre, queste lotte, non si fondavano sul convincimento dei ceti inferiori. Almeno nel Sud e nel Centro
America, alla fine del ‘700, i “certi medi” erano ancora insignificanti. La guida fu infatti assunta da ricchi proprietari
terrieri, alleati a un numero di poco inferiore di mercanti e di vari professionisti (avvocati, militari).
Il motivo chiave che spinse all’indipendenza da Madrid, in importanti casi come il Venezuela, il Messico e il Perù, fu
la paura di una mobilitazione politica di ceti inferiori: vale a dire sollevazioni di indios o di schiavi negri. Quando nel
1789, Madrid emise una nuova legge, più umana sulla schiavitù, specificando diritti e doveri di schiavi e padroni “i
creoli rifiutarono l’intervento statale, poiché gli schiavi erano inclini al vizio e all’indipendenza (!) ed erano essenziali
per l’economia. In Venezuela i coltivatori si opposero e fecero sospendere la legge nel 1794”. È istruttivo che una
delle ragioni per cui Madrid riuscì a tornare a governare il Venezuela dal 1814 al 1816 fu che ottenne prima
l’appoggio degli schiavi, poi degli indios, nella lotta contro gli insorti creoli.
Dunque, perché furono proprio comunità creole a sviluppare così presto una concezione della loro “nazionalità”
ben prima dell’Europa? Perché queste provincie coloniali, popolate da vaste e oppresse popolazioni che non
parlavano lo spagnolo, produssero creoli che ridefinirono questi popoli come “compatrioti”? Creoli che
considerarono un nemico la Spagna, sebbene le fossero legati? Perché l’Impero ispano-americano che aveva
trascorso tre secoli tranquillamente, venne improvvisamente frammentato in diciotto stati separati? I motivi
furono due:
1. Il controllo soffocante di Madrid. La politica portata avanti da Carlo III irritò e preoccupò le classi alte
creole. Madrid impose nuove tasse, rese la riscossione più efficiente, sostenne i monopoli commerciali
della madrepatria, limitò gli scambi nelle colonie a proprio vantaggio e favorì l’immigrazione di
peninsulares10.
2. Il flusso di idee liberalizzanti dell’Illuminismo della seconda metà del ‘700 che giunsero grazie al
miglioramento delle comunicazioni transatlantiche e anche grazie al fatto che le varie Americhe

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Creolo: discendente di europei puri ma nato nelle Americhe (e, più tardi, ovunque al di fuori dell’Europa)
10
Peninsular era uno spagnolo nato in madrepatria, e si contrapponeva alle persone di discendenza pura spagnola ma nati nel
Nuovo Mondo (noti come creoles).
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condividevano con lingua e cultura con le rispettive madrepatrie. Il successo della rivolta delle 13 colonie
dopo il 1770 e la spinta emotiva della rivoluzione francese del 1789, esercitarono grande influenza.
Comunque l’aggressività di Madrid e lo spirito del liberalismo, anche se importanti, non bastano a spiegare perché
entità come Venezuela, Messico o Cile si rivelarono da un punto di vista emotivo accettabili e politicamente
autosufficienti. L’abbozzo di una risposta sta nel fatto che “tutte le nuove repubbliche sudamericane erano state
delle unità amministrative tra il ‘500 e il ‘600”. Il plasmarsi di queste unità amministrative fu, per certi versi,
arbitrario e causale, combaciando anche con varie conquiste militari. Ma, col tempo, svilupparono realtà più solide
sotto l’influenza di fattori geografici, politici ed economici – come la vastità dell’impero spagnolo in America,
l’enorme varietà di territori e climi e, soprattutto, l’immensa difficoltà nelle comunicazioni nell’era pre-industriale
che resero tali unità autocentrate. In più, la politica commerciale di Madrid le trasformò in zone economiche
separate. I prodotti americani in viaggio da una parte all’altra d’America dovevano comunque passare attraverso i
porti spagnoli, e la marina mercantile spagnola aveva il monopolio del commercio con le colonie (sebbene
sopravvivesse un forte contrabbando). Eppure, di per sé, aree di mercato natural-geografiche o politico-
amministrative, non crearono attaccamento. Chi vorrebbe volontariamente morire per il Comecon o la CEE?
Per capire come unità amministrative abbiano potuto venir concepite come “patrie”, si deve guardare a come le
organizzazioni amministrative producano “senso”. L’antropologo Victor Turner scrisse molto a proposito del
“viaggio” come esperienza creatrice di significati. Ognuno di questi viaggi esige un’interpretazione (come il viaggio
dalla nascita alla morte che ha fatto sorgere la religione). Il pellegrinaggio religioso rendeva sacre determinate aree
geografiche attraverso il flusso costante di pellegrini che si muoveva verso quelle città da località remote.
L’accostamento fisico di malesi, persiani, indiani alla Mecca sarebbe incomprensibile senza un’idea del loro essere
comunità in qualche forma. In un’era che non conosce ancora la stampa, la realtà delle comunità immaginate
religiose dipendeva fortemente da innumerevoli e continui viaggi.
Anche si pellegrinaggi religiosi sono i più grandiosi e toccanti, importanti furono i nuovi modelli di viaggio creati
dall’esca delle monarchie assolute e dagli stati imperialisti europei. L’ambizione dell’assolutismo era di creare un
apparato unificato di potere, fedele al sovrano. Unificazione significava interscambiabilità interna di uomini e
documenti, in cui i primi fossero privi di un proprio potere indipendente e servivano come emanazione del volere
sovrano. I funzionari assolutisti compivano viaggi diversi da quelli dei nobili feudali. Mentre questi ultimi si
susseguivano per parentela, per il nuovo funzionario le cose sono più complesse. Il talento, e non la morte, traccia
la sua rotta. Egli, intraprendendo una vera e propria scalata sociale, incontrerà altri colleghi funzionari, provenienti
da luoghi e famiglie sconosciuti e che non desidera vedere. Ma nel conoscerli come compagni di viaggio emerge la
consapevolezza di essere legati in qualche modo, ancor più quando condividono la stessa lingua statale.
L’interscambiabilità dei documenti, che favorisce anche quella degli uomini, fu favorita dallo sviluppo di una lingua
statale standard.
Tuttavia, la razionalità strumentale dell’apparato assolutista, soprattutto la sua tendenza a promuovere per il
talento che per il ceto di nascita, funzionò saltuariamente. Il modello è chiaro nel caso delle Americhe dove era
inaudito che un creolo fosse promosso a un alto incarico di funzionario in Spagna. Per di più i pellegrinaggi di
funzionari creoli erano ostacolati, e in questo modo, l’apice della sua scalata sociale, il più alto centro
amministrativo a cui poteva venir assegnato, era la capitale del distretto amministrativo imperiale in cui si trovava.
Nel pellegrinaggio, però, incontrava compagni di viaggio che capivano di essere accomunati non solo dalla durata di
quel particolare pellegrinaggio, ma anche dalla fatalità di essere nati da quella parte dell’Atlantico. Essere nato in
America condannava il creolo alla subordinazione, anche se lingua, religione, ascendenza o educazione era identica
a quelli nati in Spagna – un’irrazionale esclusione. Dietro essa, però, c’era comunque una logica: nato in America,
non poteva essere un vero spagnolo; ergo, nato in Spagna, non poteva essere un vero americano.
Ma perché quest’esclusione sembrò razionale in madrepatria? Dal punto di vista del sovrano, i creoli americani
sempre più numerosi e più radicati nei territori delle Americhe, costituirono un problema politico senza precedenti.
Per la prima volta ci si trovava di fronte un vasto numero di europei lontani dall’Europa. E mentre gli indigeni si
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potevano sottomettere con armi e malattie, e controllarli con i misteri del cristianesimo, non si poteva fare lo
stesso con i creoli che con armi, malattie, cristianesimo e cultura europea avevano virtualmente lo stesso rapporto
dei loro consanguinei continentali. In altre parole, possedevano i mezzi politici, culturali e militari per far valere
con successo i propri diritti, costituendo sia una comunità coloniale che un’alta borghesia. Dovevano essere
sfruttati e sottomessi economicamente, ma erano essenziali per la stabilità dell’Impero. La posizione dei notabili
creoli era simile a quella dei baroni feudali, cruciali per il potere del sovrano ma, al tempo stesso, una minaccia per
esso. I peninsulares inviati come viceré o vescovi, molto importanti nelle loro case andaluse, a 8000 km di distanza,
messo di fronte ai creoli, era davvero un homo novus11, completamente dipendente dal suo signore d’oltreoceano.
Il difficile equilibrio tra ufficiali spagnoli e notabili creoli era un’espressione della vecchia politica divide et impera in
nuovo contesto.
La crescita delle comunità creole portò all’apparizione i euroasiatici, eurafricani e euroamericani, non solo come
occasionali ma come gruppi sociali consistenti. Il loro emergere portò al preambolo di uno stile di pensiero che
anticipa il moderno razzismo. Indirettamente, lo stesso Illuminismo influenzò la cristallizzazione della distinzione
tra europei e creoli. I conflitti tra i due, anticiparono l’apparire di una coscienza nazionale americana alla fine del
‘700. I pellegrinaggi forzati dei viceré non ebbero conseguenze decisive fino a quando i loro domini territoriali non
poterono venir immaginati come nazioni, cioè fino all’arrivo del capitalismo a stampa.
Nel Nord America, nel corso del ‘700, si ebbe una vera e propria rivoluzione nel campo della stampa. Febvre e
Martin ci ricordano che "nel’700 la stampa non si sviluppò realmente fino a che gli editori non scoprirono una
nuova fonte di reddito: il giornale”. I nuovi editori erano gli unici redattori e quindi, il giornalista-editore fu una
figura essenzialmente nordamericana. Nell’America Latina processi simili, anche se più lenti, portarono nella
seconda metà del’700 alla nascita delle prime tipografie locali.
Quali erano le caratteristiche dei primi giornali americani? Cominciarono come appendici del mercato e
contenevano notizie commerciali, appuntamenti politici delle colonie, matrimoni dei benestanti; ma quel che univa
tali notizie sulla stessa pagina era la struttura stessa dell’amministrazione coloniale e del sistema commerciale. In
modo superficiale e apolitico, il giornale di Caracas creò una comunità immaginata formata da una specifica platea
di lettori che condividevano quelle notizie. Poco dopo iniziarono a contenere anche notizie politiche. Uno degli
aspetti più fertili era il provincialismo. Un creolo delle colonie avrebbe letto un giornale di Madrid anche se non
parlava del “suo” mondo, mentre, un funzionario europeo, pur vivendo nella stessa strada, avrebbe preferito non
leggere il giornale prodotto a Caracas. Un altro aspetto fu la pluralità. I giornali ispano-americani che si
svilupparono in quegli anni furono scritti con la piena consapevolezza dell’esistenza di provinciali in mondi paralleli
al proprio. In realtà le genti dell’America latina iniziarono a pensare a sé come “americani”, coloro che
condividevano la fatalità di non essere nati in Spagna.
Tuttavia l’immensa vastità dell’Impero ispano-americano e l’isolamento delle sue parti resero difficile elaborare
un’idea di costante e solida simultaneità degli eventi – elemento importante per questa comunità immaginata. In
questo senso, il “fallimento” dell’esperienza ispano-americana di generare un nazionalismo comune al Centro-Sud
America, riflette l’arretratezza “locale” del capitalismo e della tecnologia spagnoli rispetto alla vastità dell’impero. I
creoli protestanti e di lingua inglese del Nord riuscirono a comprendere meglio l’idea di “America” e ad appropriarsi
del titolo di “americani”. Vivevano su un territorio più piccolo di quello delle aree ispano-americane e la loro
popolazione era legata da stampa e commercio.
In conclusione, bisogna comprendere perché queste resistenze anti-europee nell’emisfero occidentale vennero
concepite come “nazionali”. Ma né gli interessi economici, né il liberalismo, né l’illuminismo avrebbero potuto
creare di per sé il modello, o l’aspetto, di comunità immaginate da difendere, sebbene siano stati importanti per

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Homo novus era qualcuno che, incominciando da si faceva strada con l'aiuto di un mentore per arrivare alle cariche dello
Stato e quindi assumere potere. Egli era praticamente un uomo che si era formato da solo nel proprio campo, dato che prima
di lui nessuno dei suoi antenati aveva intrapreso il suo stesso cammino.
10
creare un senso critico nei confronti dell’imperialismo dell’Ancien Regime. A svolgere un ruolo storico decisivo
furono i funzionari creoli pellegrini e gli editori provinciali, che diedero vita alla periferia del campo visivo.

5. VECCHIE LINGUE, N UOVI MODELLI

Soltanto dopo l’era dei vittoriosi movimenti di liberazione nazionale nelle Americhe coincise con l’inizio del
nazionalismo in Europa. Due caratteristiche li distinguono da quelli che li hanno preceduti:
1. Le “lingue nazionali” furono di fondamentale importanza ideologica e politica, mentre spagnolo e inglese
non costituirono mai un problema nelle Americhe.
2. Tutti furono in grado di elaborare modelli visibili, modelli “nazionali”.
La “nazione” divenne qualcosa a cui aspirare fin dall’inizio, un’invenzione impossibile da brevettare. Fu in balia di
pirati di ogni tipo, persino i più inaspettati.
La crescita della “storia comparativa” portò, col tempo, alla concezione di “modernità” contrapposta “all’antichità”.
Nel corso del ‘500 la scoperta di grandi civiltà di cui finora si era solo sussurrato (Cina, Giappone…) suggerì un
pluralismo umano. Molte di tali civiltà si erano sviluppate indipendentemente dalla storia d’Europa, cristianità o
dall’uomo: divenne possibile pensare all’Europa come a una civiltà tra tante, non necessariamente come all’Eletta o
alla migliore.
Scoperte e conquiste causano una rivoluzione anche nell’ambito delle idee europee circa il linguaggio. Alcuni
marinai, missionari, soldati avevano assemblato, per motivi pratici, delle liste di lingue non-europee per raccoglierle
in semplici lessici.
Ma fu solo nel tardo ‘700 che si sviluppò uno studio scientifico comparato delle lingue. Ancora una volta ci si trovò
di fronte a genealogie che potevano venir spiegate solo attraverso un tempo vuoto e omogeneo. “Le lingue
divennero sempre meno un mezzo di continuità tra una forza esterna e gli uomini che le parlano, e sempre più un
campo creato e completato dai fruitori del linguaggio”. Da ciò derivò la filologia, con i suoi studi sulla grammatica
comparata, la classificazione delle lingue in famiglie e la ricostruzione tramite ragionamenti scientifici di “proto-
linguaggi” dimenticati. Hobsbawm osserva come si trattava della “prima scienza basata interamente
sull’evoluzione”. Da allora le antiche lingue sacre furono costrette a porsi sullo stesso piano ontologico con una
folla di rivali volgari con la conseguenza che furono tutte degne di studio… ma da chi? Logicamente dai loro nuovi
proprietari, i nativi e i lettori, poiché nessuna di esse apparteneva più a Dio.
L’800 fu, in Europa, l’età dell’oro per i lessicografi, filologi e letterati della lingua volgare. Le loro attività furono
fondamentali per la formazione del nazionalismo europeo, in totale contrasto con la situazione nelle Americhe.
L’affermazione di Hobsbawm che “i progressi di scuole e università riflettevano quelli del nazionalismo”. Intorno la
metà dell’700 le fatiche di vari studiosi resero disponibile in cartaceo l’intero corpus esistente dei classici greci
riportando in vita la luminosa e pagana civiltà ellenica. È evidente che tutti questi lessicografi, filologi ecc… non
sviluppavano le loro attività rivoluzionarie a vuoto ma producevano per il mercato editoriale, ed erano legati, al
loro pubblico di consumatori. Ma chi erano questi consumatori? Erano le famiglie delle classi lettrici, cioè gente di
un certo potere. Esse erano costituite da vecchie classi dominanti di nobili, proprietari terrieri, ecclesiastici e anche
da ceti medi ascendenti di funzionari inferiori plebei, professionisti e borghesie commerciali/industriali. Nel corso
dell’800, inoltre, si espanse altresì l’attività burocratica. Tale espansione significò anche “specializzazione
burocratica” e aprì le porte della carriera statale a molte più persone, di estrazione sociale assai diversa dal
passato. La crescita di una classe media burocratica fu un fenomeno uniforme mentre, la crescita di una borghesia
commerciale e industriale fu molto irregolare e va compresa nella sua relazione con la stampa in lingua volgare. Le
classi dominanti pre-borghesi non basavano la loro coesione sulla lingua. La solidarietà era il prodotto di legami di
sangue, clientele e fedeltà personali. Le loro dimensioni piccole, le solide basi politiche e la personalizzazione delle
relazioni fecero sì che la loro coesione come classe fosse tanto concreta quanto immaginata. Una nobiltà
analfabeta poteva comunque essere una nobiltà… ma la borghesia? Impossibile dato che venivano a conoscenza
degli “altri” attraverso la parola stampata. Così, in termini di storia mondiale, la borghesia fu la prima classe a
11
raggiungere un senso di solidarietà su basi essenzialmente immaginate. Alla formazione di queste comunità
immaginata partecipavano, in misura variabile, anche le masse urbane e rurali. Molto dipendeva dal rapporto di
queste masse con i missionari del nazionalismo.
L’800 fu segnato da una grande crescita generale che creò nuovi impulsi per l’unificazione volgare in ogni regno
dinastico. Nel frattempo, le lingue di stato volgari conseguirono un potere sempre più grande e uno status sempre
più alto in un processo che, almeno all’inizio, non era stato pianificato. In più l’alfabetizzazione cresceva, e divenne
più facile ottenere il supporto popolare, con le masse che scoprivano una nuova gloria nell’elevazione a status di
“stampato” delle lingue che avevano sempre umilmente parlato. La borghesia nazionalista, dunque, dovette
invitare le masse nella storia e il biglietto d’invito andava scritto in un linguaggio che capissero.
Hobsbawm osserva che “la rivoluzione francese non fu iniziata, né guidata, da un partito o da un movimento nel
senso moderno, né da uomini che cercarono di portare avanti un programma. Non promosse “leader” almeno fino
alla figura post-rivoluzionaria di Napoleone”. Una volta avvenuta, però, entrò nella memoria della stampa. La
concentrazione di eventi divenne una “cosa” con un proprio nome: la Rivoluzione Francese. Milioni di parole
plasmarono l’esperienza sulla pagina stampata in un “concetto” e col tempo in “modello” e del suo essere
“qualcosa” nessuno mai più dubitò. In modo simile, i movimenti indipendentisti nelle Americhe, una volta
immortalati dalla stampa, divennero “concetti”, “modelli”, e infine “programmi”. Dai movimenti americani ebbero
origine queste realtà immaginate: nazioni-stato, istituzioni repubblicane, cittadinanze comuni, sovranità del
popolo, bandiere, inni nazionali… e la liquidazione dei loro opposti: imperi dinastici, istituzioni monarchiche,
assolutismo, sottomissione, nobilita ereditaria, servitù della gleba, ghetti. C’è di più, la validità e il carattere
generale del programma erano confermate in modo indubitabile dalla pluralità degli stati indipendenti. In effetti,
già nel secondo decennio dell’800 un primo “modello” di stato nazionale indipendente era disponibile per essere
piratato. Ma proprio perché era un “modello” imponeva degli standard da cui eccessive eccezioni erano
inaccettabili. Quindi significava creare uno stato in cui la sovranità era di proprietà esclusiva della collettività degli
individui in grado di parlare e leggere la lingua dello stato in questione; e, a tempo debito, la liquidazione della
servitù della gleba, l’incoraggiare l’istruzione popolare, l’espansione del suffragio e così via. Quindi il carattere
“populista” del primo nazionalismo europeo fu molto più profondo che nelle Americhe: la servitù della gleba
doveva cessare, una schiavitù legale era inimmaginabile, e non ultimo perché il modello concettuale era ormai
inestirpabile.

6. UFFICIAL-NAZIONALISMO E IMPERIALISMO

Nel corso dell’800, la rivoluzione filologica-lessicografica e la nascita dei movimenti nazionalisti crearono crescenti
problemi culturali e politici per molte dinastie. Infatti, la legittimità di molte di esse non aveva niente a che fare con
la nazionalità: i Romanov regnavano su tatari, lettoni, tedeschi, russi. Gli Asburgo su magiari, croati, italiani, austro-
tedeschi. Sul continente, inoltre, membri delle stesse famiglie dinastiche regnavano in stati differenti, e talvolta
rivali. Quale nazionalità dovrebbe essere assegnata ai Borboni, regnanti in Francia e Spagna, o ai Wittelsbachs
monarchi in Grecia e Baviera? Questi regimi, inoltre, per motivi essenzialmente amministrativi, stabilirono certe
lingue volgari come lingue di stato, essendo la scelta della lingua una questione d’inconscia eredità o convenienza.
Però, la rivoluzione lessicografica in Europa fece nascere la convinzione che le lingue fossero proprietà personale di
specifici gruppi e che, questi gruppi, immaginati come comunità, avessero diritto a un posto autonomo in una
fratellanza di eguali.
Un esempio è il caso dell’Austria-Ungheria. Quando il despota illuminato Giuseppe II decise, alla fine del ‘700, di
passare come lingua di stato dal latino al tedesco poiché pensò che non fosse più possibile agire nell’interesse delle
masse. La necessità di una lingua che unisse tutte le parti del suo impero gli sembrò un’esigenza tassativa e a tal
proposito scelse il tedesco, lingua che aveva una cultura e letteratura vasta nei suoi domini e una considerevole
minoranza in tutte le province. Tuttavia gli Asburgo, non furono una forza coerentemente germanizzante,
addirittura alcuni di essi non parlavano nemmeno il tedesco. Non erano spinti da un atteggiamento nazionalista,

12
ma i loro provvedimenti erano dettati dal desiderio di unificare i loro imperi. Dopo la metà dell’800, però, il tedesco
assunse un doppio valore: “universale-imperiale” e “particolare-nazionale”. Più la famiglia regnante sosteneva il
tedesco, più sembrava che si schierasse con i sudditi di lingua tedesca, e più si attirava le antipatie degli altri
sudditi. Per evitare il pericolo, furono fatte delle concessioni ad altre lingue ma, di conseguenza, si fece un passo
indietro con l’unificazione e i sudditi tedeschi si sentirono… offesi. Gli Asburgo rischiavano di essere odiati sia in
quanto campioni dei tedeschi, sia come loro traditori.
Ma visto che verso la metà del secolo tutti i regni dinastici usarono una qualche lingua volgare come lingua di stato,
e dato che l’idea nazionale stava conquistando un crescente prestigio in Europa, le monarchie euro-mediterranee
cercarono di conquistarsi una seducente identità nazionale. Improvvisamente i Romanov scoprirono di essere
grandi russi, gli Hannover inglesi e così via. Queste nuove identificazioni confermarono legittimità monarchiche che
sempre meno potevano fondarsi su sacralità o semplice antichità. La “naturalizzazione” delle dinastie europee
portò, infine, al “ufficial-nazionalismo” di cui la russificazione zarista è solo l’esempio più conosciuto. Questi posso
essere visti come mezzi per combinare la naturalizzazione e il mantenimento del potere dinastico, in particolare
sugli enormi domini poliglotti conquistati nel Medioevo.
L’ufficial-nazionalismo si sviluppò dopo, e in reazione, a i movimenti nazionali popolari che proliferarono in Europa
sin dal 1821. Questi nazionalismi diventarono essi stessi modulari, tant’è che bastava ben poco affinché l’impero
diventasse attraente nel travestimento nazionale.
La “russificazione” delle eterogenee popolazioni sottomesse al potere dello zar rappresentò una consapevole
fusione di due opposti sistemi politici, l’unico antico e l’altro moderno. Nel ‘700 la lingua della corte di San
Pietroburgo era il francese, e quella di gran parte della nobiltà provinciale il tedesco. In seguito all’invasione di
Napoleone, si propose, nel 1832 che il regno dovesse basarsi sue tre principi: Autocrazia, Ortodossia e Nazionalità.
Quest’ultimo rappresentò un elemento di novità, prematuro in un’epoca in cui la “nazione” era costituita da servi
della gleba e più della metà parlava una lingua diversa dal russo. Fu solo sotto il regno di Alessandro III (1881-94)
che la russificazione divenne la politica ufficiale dinastica: il russo fu imposto in tutte le scuole statali, nel 1893
l’università di Dorpat, una delle più rinomate, fu chiusa perché al suo intero si parlava il tedesco. Lo storico Seton-
Watson12 azzardò dicendo che “la Rivoluzione del 1905 fu tanto una rivoluzione di non-russi contro la
russificazione, quanto la rivoluzione di operai, contadini contro l’autocrazia. Le due rivolte erano collegate dato che
la rivoluzione sociale fu più aspra nelle regioni non-russe”. Ma sarebbe un grande errore suppore che la
russificazione non riuscisse a schierare il nazionalismo “gran russo”: nella vasta burocrazia e nel mercato in
espansione, si aprivano enormi opportunità per gli imprenditori russi.
Un ulteriore esempio è dato da Victoria, regina d’Inghilterra e più tardi imperatrice d’India. Anche il suo regno
senza un’ondata di “ufficial-nazionalismo”. È vero che nel ‘600, dopo la disastrosa conclusione della guerra dei
Cento Anni, Londra aveva ripreso ad assorbire territori oltremare, in uno spirito pre-nazionale. Infatti, l’India
diventerà Britannica solo venti anni dopo l’ascesa al tono di Vittoria, poiché prima di allora sarà governata da una
ditta commerciale. Il Parlamento britannico si occupò dell’istruzione dei nativi che avrebbe creato “una classe di
persone, indiane nel sangue e nel colore, ma inglesi nel gusto, nelle opinioni, nella morale e nell’intelletto”. È
importante come si pensava a una politica a lungo termine, formulata per trasformare “idolatri” non tanto in
cristiani, quanto in persone culturalmente inglesi a dispetto del colore e del sangue. S’intende una sorta di fusione
“mentale” he mostra come l’imperialismo fece molti progressi.
Come la russificazione, l’anglicizzazione offrì ottime occasioni ai ceti medi che ben presto si sparsero su tutto quel
vasto impero su cui non tramontava mai il sole. C’è però una differenza tra gli imperi retti da San Pietroburgo e
Londra: il primo restavano un dominio continentale “continuo”, limitato alle zone temperate e artiche dell’Eurasia;
il secondo, invece, era composto da un grappolo di possedimenti per lo più tropicali, sparsi su tutti i continenti.
Solo una minima parte dei popoli soggiogati avevano avuto rapporti con la madrepatria. Tuttavia, il funzionario

12
Robert Seton-Watson (1879-1951) è stato uno storico britannico, presidente della Royal Historical Society dal 1946 al 1949.
13
indiano, viva nello stesso modo di un funzionario inglese, nel comportamento era un inglese quanto qualsiasi
inglese nato in Inghilterra. Ma tornato nella sua terra natale, era tagliato fuori dalla società dei suoi padri, e da essa
si estraniava: nella stessa terra natale era straniero quanto i residenti europei. Ancor più grave era che questi
stranieri nella loro terra d’origine erano condannati (come i creoli americani) a una irrazionale subordinazione ai
maturrangos13 inglesi. Per quanto fosse anglicizzato, un Pal, era escluso dai più alti ranghi del Rag (il regime inglese
in India) e gli veniva impedito di muoversi all’esterno. Era “del tutto estraneo ai suoi” ma condannato a vita a
servire tra loro.
In conclusione, si noti come dalla metà dell’800 circa si svilupparono in Europa gli ufficial-nazionalismi. Questi
furono storicamente “impossibili” finché non apparve un nazionalismo linguistico popolare, in quanto furono una
risposta dei gruppi di potere (soprattutto ma non esclusivamente dinastici e aristocratici) che rischiavano di essere
esclusi dalle comunità immaginate popolari. Questi ufficial-nazionalismi erano politiche conservatrici, modellate sul
nazionalismo popolare che le aveva precedute. Inoltre, penetrate in culture e storie non europee, queste politiche
furono imitate dalle classi dirigenti indagine che erano sfuggite al controllo diretto delle potenze occidentali.
Ma, in tutti i casi, l’ufficial-nazionalismo servì a nascondere le discrepanze tra nazione e regno dinastico. Da qui, la
loro contraddizione: gli slovacchi dovevano essere magiarizzati, gli indiani anglicizzati e i coreani nipponizzati, ma
non sarebbe mai stato permesso loro di partecipare alle classi che avrebbero amministrato magiari, inglesi o
giapponesi. La ragione non era semplice razzismo, ma anche il fatto che in questi impari, stavano nascendo nazioni.
E queste nazioni erano anch’esse resistenti a un dominio straniero.

7. L’ULTIMA ONDATA

La prima guerra mondiale segnò la fine delle grandi dinastie e la comparsa della Società delle Nazioni che
comprendeva anche paesi non europei. Da allora in poi, il paradigma di legittimità internazionale sarà lo stato-
nazione. Dopo la II guerra mondiale, la diffusione dello stato nazione raggiunse il suo apice. I nuovi stati nati dopo
la II G.M. hanno un carattere particolare, che va situato nella successione dei modelli trattati: infatti molte di
queste nazioni (soprattutto non-europee) adottarono lingue di stato europee rifacendosi al modello “americano”,
presero dal nazionalismo linguistico europeo il suo populismo e dall’ufficial-nazionalismo la sua politica
russificante. Ebbero questi tratti perché le complesse vicende americane ed europee, venivano ora immaginate in
diversi luoghi. Ecco perché nelle politiche di “costruzione nazionale” di nuovi stati si vedono sia un entusiasmo
nazionalista genuino e popolare, sia un sistematico instillare un’ideologia nazionalista attraverso i mass media, il
sistema scolastico, i regolamenti amministrativi e così via.
Nel considerare le origini del “nazionalismo coloniale” più recente, colpisce una somiglianza con quelli più antichi:
l’espansione territoriale resta la stessa della precedente unità amministrativa imperiale – fattore legato alla
geografia dei pellegrinaggi coloniali. Nel ‘700 i pellegrinaggi creoli erano delimitati da varie problematiche, ma
riuscirono a creare comunque un senso di comunità.
Dopo la prima metà dell’800 però, e soprattutto nell’900, questi viaggi vennero compiuti da immensi gruppi
variegati per tre ragioni:
1. L’enorme aumento di mobilità fisica reso possibile dai successi del capitalismo industriale (ferrovie, navi,
trasporti a motore, aviazione)
2. La “russificazione” imperiale aveva un aspetto pratico oltre che ideologico; le stesse dimensioni degli
imperi facevano sì che le burocrazie non potessero essere composte solo da funzionari della madrepatria o
creoli. Lo stato coloniale aveva bisogno di eserciti di funzionari che, per essere utili, dovevano essere
bilingui, in grado di fare da tramite tra la nazione europea e i suoi sudditi coloniali.
3. Diffondersi di un’istruzione di tipo moderno, promossa non solo dagli stati ma anche da organizzazioni
private, religiose, laiche.

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Dallo spagnolo: cavaliere inesperto.
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Questo tipo di istruzione fa conoscere ai coloni le storie nazionali dei colonizzatori creando una generazione di
nazionalisti e producendo senso di appartenenza. Un esempio è il caso Olandese.
Nel 1913 il regime coloniale olandese a Batavia (capitale delle Indie orientali olandesi, la cui area corrisponde
grossomodo all’odierna Giacarta, capitale dell’Indonesia) promosse grandi festeggiamenti per celebrare il
centenario della liberazione nazionale dell’Olanda dall’imperialismo francese – ordini furono emanati per
assicurare la partecipazione fisica e il contributo economico anche dalla popolazione indigena sottomessa. Per
protesta, uno dei primi nazionalisti indonesiani, Suwardi Surjaningrat14 scrisse il suo famoso articolo intitolato “Se
per una volta fossi olandese”: “[…] Se io fossi olandese non organizzerei una celebrazione per l’indipendenza in un
paese a cui è stata rubata l’indipendenza dei suoi abitanti”. Con queste parole Suwardi rovesciò la storia deli
olandesi contro gli olandesi stessi, lacerando il filo di connessione tra nazionalismo e imperialismo olandese. Infatti,
nell’articolo Suwardi si immagina olandese, e la sua temporanea trasformazione colpiva tutti gli aspetti razzisti
dell’ideologia coloniale olandese.
La sua denuncia, è un chiaro esempio del fenomeno che coinvolse tutto il mondo nel ‘900: il paradosso dell’ufficial-
nazionalismo imperiale cioè conoscere le “storie nazionali” dei propri colonizzatori tramite festività e il sistema
scolastico. L’ironia è che queste storie emanavano una coscienza storiografica che si andava definendo come
nazione e crearono una generazione di giovani nazionalisti pronti ad usare la conoscenza contro chi gliel’aveva
impartita. Infatti, sia in Europa, che nelle colonie, “giovane e gioventù” significavano dinamismo, progresso,
idealismo. Tuttavia in Europa tale termine non aveva dei contorni sociologici ben definiti: non vi era una
connessione tra lingua, età e status. Nelle colonie andava diversamente: gioventù significava innanzitutto la prima
generazione ad aver acquisito una educazione europea, differenziandosi linguisticamente culturalmente dalla gran
massa dei coetanei colonizzati. Gioventù, dunque, è la gioventù scolarizzata e tutto ciò ci ricorda ancora
l’importanza del ruolo svolto dal sistema scolastico per promuovere il nazionalismo coloniale (un ruolo importante,
però, era svolto anche dalla loro controparte militare, istruita e specializzata, decisiva nello sviluppare il
nazionalismo). Una stampa/immagine di questo processo è offerta proprio dall’Indonesia per le sue enormi
dimensioni e popolazione, per la frammentazione geografica (3000 isole), la varietà religiosa e la diversità
etnolinguistica. I suoi confini restarono quelli che gli olandesi tracciarono anche dopo la decolonizzazione del 1910.
Niente ha contribuito a questo stato di cose più delle scuole che il regime di Batavia aprì. In contrasto con le scuole
indigene, locali e personali, le scuole governative costituivano una gerarchia colossale, razionalizzata e
centralizzata, strutturalmente simile alla burocrazia statale stessa (libri di testo unici, diplomi standard formarono
un universo di vita coerente e autonomo). Non meno importante fu la gerarchia geografica: elementari nei villaggi,
medie e secondarie nelle città di provincia, università nella capitale. Così il sistema scolastico coloniale del ‘900 fa
nascere pellegrinaggi paralleli agli antichi viaggi dei funzionari, poiché i pellegrini iniziavano la loro ascesa sociale
incontrando compagni di altri villaggi, poi compagni di diversi gruppi etnolinguistici e infine, da ogni parte del
regno, nell’università della capitale. Era proprio la capitale la chiave di volta che spiegava il loro viaggio, perché
“noi” siamo “qui, insieme”; la loro esperienza comune e la competitività cameratesca nelle classi, davano alle
mappe coloniali che studiavano una specifica realtà territoriale immaginata, ogni giorno confermata dagli accenti e
dalle fisionomie dei compagni di classe.
Ma cos’erano tutti loro? Gli olandesi erano chiari, essi erano inlanders, una definizione che portava un forte ed
involontario carico semantico. Come in ogni altra colonia, il significano era che fossero “inferiori” e “appartenevano
a quei luoghi” e così gli olandesi sottolineavano la loro superiorità e la loro non appartenenza a quei luoghi. Nella
loro comune inferiorità, gli inlanders erano tutti equamente disprezzabili, a prescindere da classe sociale o gruppo
etnolinguistico. Ma gli inlanders erano limitati all’interno dei confini, all’esterno della colonia erano “nativi”
“indigènes o indios” in cui era inclusa anche la categoria dei “nativi stranieri”. Questi “stranieri orientali”
soprattutto cinesi, arabi e giapponesi, anche se vivevano nella colonia, godevano di una condizione giuridico-
politica superiore a quella dei “nativi del luogo” – la debole Olanda, infatti, temeva la forza economica e militare

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Era un giovane di 24 anni, aristocratico atipico, istruito e progressista il quale formò il primo partito politico della colonia.
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degli oligarchi Meiji, da nominare, nel 1899, i giapponesi “europei onorari”. Da tutto ciò, gli inlanders da cui erano
esclusi bianchi, olandesi, indios, giapponesi, cinesi, arabi, divennero una categoria specifica: finché, come larva
uscita dal bozzolo, essa si trasformò nella farfalla chiamata “Indonesia”. A partire dal 1930, infine, era presente
una vera “lingua indonesiana” conseguenza della tardività degli olandesi a governare le Indie. Ciò aveva permesso,
lentamente ed involontariamente, ad una lingua di stato di evolversi sulle basi di un’antica “lingua franca” che, alla
fine dell’800, aveva acquistato un posto ufficiale. Quando, dopo la metà del secolo, il capitalismo a stampa acquisì
solide dimensioni, la lingua entrò nell’economia e nei media e venne adottata dagli inlanders verso la fine del
secolo. Nel 1928, essa era pronta per essere adottata dalla Gioventù indonesiana come lingua nazionale (e
nazionalista).
Il caso Indonesiano non deve farci credere che, se l’Olanda fosse stata una potenza più grande o se fosse
sopraggiunta in Indonesia secoli dopo, allora la lingua nazionale non avrebbe potuto essere l’olandese. O che il
nazionalismo del Ghana sia meno reale dell’indonesiano solo perché la lingua nazionale è l’inglese… L’aspetto più
importante delle lingue è la loro capacità di generare comunità immaginate, costruendo rapporti particolari di
solidarietà. La lingua non è uno strumento di esclusione, poiché chiunque può imparare qualsiasi lingua. Al
contrario, è uno strumento inclusivo, limitato soltanto dalla fatalità di Babele: nessuno può vivere abbastanza a
lungo da impararle tutte. La lingua stampata è ciò che crea il nazionalismo, non una particolare lingua di per sé.
L’idea stessa di nazione, infatti, è fermamente radicata in tutte le lingue scritte ed è virtualmente inseparabile dalla
coscienza politica.
Ma allora perché nelle ex Indie olandesi sorge l’Indonesia, ossia un solo stato indipendente, mentre l’ex Africa
francese e l’ex Indocina francese si sono frammentate in una serie di stati distinti (e anche in conflitto, come
Vietnam e Cambogia)?
L’Ècole Normale William Ponty di Dakar (attuale capitale del Senegal) pur essendo una scuola secondaria,
rappresentava l’apice della piramide scolastica nelle colonie dell’Africa Occidentale. In questo istituto
s’incontravano studenti provenienti da Guinea, Costa d’Avorio, Senegal… non ci deve stupire se i pellegrinaggi,
terminati a Dakar, vennero inizialmente letti in termini franco-africani, da cui è simbolo indimenticabile il termine
négritude. L’importanza della William Ponty, però, era solo transitoria… quando vennero costruite altre scuole
secondarie, i ragazzi non dovettero più fare pellegrinaggi così lunghi. La centralità educativa della William Ponty
non corrispondeva con la centralità amministrativa di Dakar. Quindi, finita la scuola, gli studenti tornavano a casa.
In modo simibile, il concetto curioso ed ibrido di “Indocina” ebbe un reale significato immaginato. Più in generale,
la politica scolastica adottata dai dominatori coloniali dell’Indocina aveva due scopi, che contribuirono alla crescita
di una coscienza “indocinese”:
1. Spezzare i legami politico-culturali esistenti tra le popolazioni colonizzate e il mondo extra-indocinese.
Cambogia e Laos colonizzati, il bersaglio era spezzare i legami culturali con il Siam (Thailandia), tant’è che i
francesi cercarono di sottrargli i khemer (monaci). Nell’Indocina orientale (attuale Vietnam nord e sud)
bersaglio era la Cina e la civiltà cinese che ne influenzava scrittura, cultura e amministrazione.
2. Costruire un’élite politicamente affidabile (gruppo di indocinesi francofoni) riconoscente e istruite, che
colmasse i gradini inferiori della burocrazia della colonia e delle più grandi ditte commerciali.
La caratteristica di questo sistema fu che diede vita a un’unica piramide i cui gradini più alti erano tutti rivolti,
almeno fino agli anni ’30, verso l’est dell’Indocina. Gli scalatori di questa piramide provenivano da tutti i gruppi
linguistici del possedimento francese. L’idea di “indocinesità” anche se abbastanza reale fu immaginata soltanto da
un’esigua comunità e solo per un breve periodo. Perché?
1. Innanzitutto vi fu un cambiamento nell’istruzione coloniale, in particolare nell’Indocina orientale dal 1917
in poi – dato che i coloni tentavano di iscrivere i figli nelle scuole francesci migliori per garantire loro un
futuro nell’amministrazione locale, la competizione che ne scaturì fu importante e portò a una reazione
forte da parte dei coloni che vedevano le scuole come un’area riservata per lo più ai francesi. La soluzione
fu di creare un sistema educativo franco-vietnamita, dove la prima lingua era il quoc ngu e la seconda il
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francese. Questo cambiamento portò due risultati: la pubblicazione di migliaia di sillabari quoc ngu accelerò
la diffusione di questo genere di scrittura di origine europea portandolo ad essere il mezzo di espressione
popolare della solidarietà culturale vietnamita. Dall’altro questa politica servì poi a isolare i residenti
dell’Indocina orientale che non avevano il vietnamita come lingua madre.
2. In secondo luogo, il Collège di Phnom Penh (capitale della Cambogia) fu promosso a grado di lycée e
dunque la percentuale dei naitivi khmer aumentò rapidamente.
3. In terzo luogo in Indocina mancò un connubio tra pellegrinaggi scolastici ed amministrativi. I francesci non
si fecero scrupoli a far notare che, nell’Indocina occidentale si fece massiccio uso di funzionari vietnamiti
(provenienti dall’Indocina orientale).
I giovani khmer ambiziosi capirono che avevano poche prospettive di carriera fuori dalla Cambogia, rispetto ai
Vietnamiti che operavano liberamente per tutta l’Indocina. I khmer, infatti, terminati i loro studi accanto ai
vietnamiti, dovevano tornare a casa, nelle “sedi” che il colonialismo aveva delimitato per loro. Queste
contraddizioni portarono ai primi movimenti nazionali cambogiani. Infatti molti dei leader politici khmer che
studiarono nel Vietnam scelsero di tornare in Cambogia. Tutto ciò cambiò dopo la 2 G.M. non certo prima, quando
l’immaginario dell’Indocina aveva ancora una sua effimeraa realtà. Nel 1947, le persone di lunga khmer, perlomeno
quelle provenienti dalla Cambogia, non frequentavano più le scuole del Vietnam; stava nascendo una nuova
generazione per cui l’Indocina era storia e il Vietnam una vera e propria nazione straniera.
La svizzera, invece, è un caso complesso di “ultima ondata”, sviluppatosi, secondo Hughes nel 1891. In altre parole,
il nazionalismo svizzero si sviluppò in un periodo della storia mondiale in cui la nazione stava diventando la norma
internazionale, e in cui era possibile modellare la nazionalità in modi ben più complessi che in precedenza.
L’apparire del nazionalismo svizzero all’alba della rivoluzione delle comunicazioni del ‘900 rese possibile e pratico
“rappresentare” la comunità immaginata in modi che non richiedevano uniformità linguistica.
In conclusione, “l’ultima ondata dei nazionalismi” che maggiormente si abbatté nei territori di Asia e Africa, fu una
risposta ai nuovi modelli di imperialismo globale resi possibili dal capitalismo industriale. Il capitalismo però,
contribuì – grazie alla sua diffusione della stampa – a creare in tutte Europa nazionalismi popolari e basati sulla
lingua i quali minarono gli antichi principi dinastici e spinsero le dinastie a naturalizzarsi. L’ufficial-nazionalismo,
fusione tra i nuovi principi nazionali e gli antichi principi dinastici, portò a quella che potremmo chiamare per
convenienza “russificazione” nelle colonie extra-europee: gli imperi del tardo ‘800 erano troppo vasti per essere
governati da un piccolo gruppo di cittadini in madrepatria; in più, in linea col capitalismo, lo stato stava
moltiplicando le sue funzioni, sia in madrepatria che nelle colonie. Queste forze, combinate, generarono un sistema
scolastico “russificane” per produrre coloro che avrebbero presieduto nelle burocrazie statali ed imprenditoriali
inferiori. Questi sistemi scolastici, standardizzati e centralizzati, crearono nuovi pellegrinaggi che avevano come
traguardo le varie capitali coloniali, in quanto la madrepatria non avrebbe mai permesso loro ulteriori avanzamenti
di grado. Spesso, ma non sempre, ai pellegrinaggi educativi si affiancavano quelli amministrativi. La loro
interconnessione offriva la base territoriale per nuove “comunità immaginate” in cui i nativi potevano avere una
visione di sé come “membri di una nazione”. L’espansione dello stato coloniale (che invitava i nativi nelle scuole e
uffici) e del capitalismo coloniale (che escludeva i nativi dai consigli d’amministrazione) portò i primi portavoce del
nazionalismo coloniale a essere più che mai isolati, bilingui, intellettuali e privi di legami con la forte borghesia
locale.
Come classe intellettuale bilingue e, soprattutto, del primo ‘900, esse ebbero accesso, sia dentro che fuori dalle
aule, a modelli di nazione, nazionalità e nazionalismo frutto delle caotiche esperienze di più di un secolo di storia
europea e americana. Questi modelli furono plasmati, e in varie combinazioni, le lezioni dei nazionalismi creolo
linguistico e ufficiale furono copiate, adattate e migliorate. Mentre il capitalismo trasformava i mezzi di
comunicazione, le classi intellettuali trovarono modi per aggirare la stampa nel propagandare la comunità
immaginata, non solo verso le masse analfabete, ma anche verso masse che leggevano differenti lingue.

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8. PATRIOTTISMO E RA ZZISMO

Successivamente alla definizione dei processi tramite cui le nazioni vengono immaginate, adattate e trasformate,
bisogna concentrarsi sui cambiamenti sociali e sulle diverse forme di coscienza. È difficile capire come essi possano
spiegare, da soli, l’attaccamento che le persone provano per i frutti della propria immaginazione (o perché siano
addirittura pronti a morire).
È bene ricordare che le nazioni suscitano amore, anche pronto al sacrificio. I prodotti culturali del nazionalismo
(poesia, letteratura, musica) illustrano questo amore – mentre è difficile trovare opere che esprimano paura e odio.
Persino nei popoli colonizzati l’odio nei confronti dei loro dominatori è un elemento marginale nell’espressione del
sentimento nazionale. Possiamo scoprire qualcosa sulla natura di quest’amore “politico” nel modo in cui le lingue
stesse descrivono il proprio oggetto: dai vocaboli di parentela, quelli riferiti alla terra natale, che denotano
qualcosa a cui si è “naturalmente” legati (es. “Ultimo Adiòs” di Rizal mentre aspettava di essere giustiziato dalle
mani dell’imperialismo spagnolo). Ma in tutto ciò che è “naturale” c’è sempre qualcosa che trascende la nostra
facoltà di scegliere: così la nazionalità è sempre legata al colore della pelle, al sesso, alle parentele, tutte cose che
non dipendono da noi. Quindi, proprio perché non possono essere scelti, questi legami naturali suscitano attornoa
sé un alone di disinteresse.
Se negli anni molto è stato scritto sulla famiglia come articolata struttura di potere, ciò che è popolare per gli
uomini è la concezione di famiglia come regno dell’amore disinteressato e della solidarietà. Allo stesso modo, se
per sociologi, politici, diplomatici l’idea di “interesse nazionale” è perfettamente chiara, così non lo è per la maggior
parte della gente comune che vede, come aspetto fondamentale della nazione, la non sussistenza di interessi.
Proprio per questa ragione, può pretendere sacrifici.
Le grandi guerre di questo secolo (1983) sono straordinarie per l’ingente numero di individui pronti a sacrificare le
proprie vite. Quest’idea di “ultimo sacrificio” deriva dall’idea di “purezza” attraverso il concetto di “destino”.
Morire per la propria patria assume un valore decisamente maggiore che morire per il Partito laburista, per una
associazione medica, poiché ci si può iscrivere/abbandonare in qualsiasi momento. Morire per la rivoluzione,
inoltre, acquista maggior valore se è visto come atto puro (se la gente avesse immaginato i proletari come individui
interessati solo ai frigoriferi, quanti, compresi i proletari, avrebbero desiderato di morire per esso?).
La lingua, ancora una volta, è utile: una delle prime cose evidenti è la loro primordialità, anche di quelle moderne.
Nessuno può stabilirne una data di nascita, collocandosi tutte in un passato senza orizzonti. Esse sembrano avere le
loro radici nelle società contemporanee, tuttavia, niente ci lega affettivamente alla morte più della lingua stessa (se
un italiano ascolta “Terra alla terra, ceneri alle ceneri, polvere alla polvere” prova una sensazione di simultaneità
attraverso un tempo vuoto e omogeneo e il peso delle parole deriva da una specie di “italianità” ancestrale). Esiste,
poi, un particolare genere di comunità contemporanea che può essere suggerita solo dalla lingua, soprattutto nella
forma di poesie e canzoni (gli inni nazionali, per esempio, in cui si prova simultaneità: nello stesso momento
individui estranei tra loro si uniscono in un canto echeggiato dalla comunità immaginata). Ma a questi cori ci si può
associare anche nel tempo: il figlio di un immigrante italiano a New York, troverà antenati tra i Padri Pellegrini. La
nazionalità ha intorno a sé un’aura di fatalità immersa nella storia. Esemplare è l’editto in cui José de San Martìn
battezzava gli indios come “peruviani” poiché mostra che il concetto di nazione è basato sulla lingua, non sul
sangue, e che chiunque può essere “invitato” nella comunità immaginata. Di conseguenza, anche le nazioni dalle
vedute più strette, accettano oggi il principio di “naturalizzazione”.
Vista sia come fatalità storica che come comunità immaginata attraverso la lingua, la nazione si presenta
contemporaneamente aperta o chiusa. Questo paradosso è definito dal fatto che le lingue, sono sempre aperte a
ricevere nuovi individui che vogliano impararle. Però, anche se ogni lingua è assimilabile, per padroneggiarla
bisogna impegnare un luogo periodo della propria vita. A limitare l’accesso alle lingue è la nostra mortalità. Ed è
questa la causa di una certa privacy per ogni lingua: pensiamo agli imperialisti francesi e americano che hanno
sfruttato e ucciso i vietnamiti. Ma al di là di tutto ciò che hanno portato via, la lingua vietnamita è rimasta; da qui,

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la rabbia degli imperialisti per l’impenetrabilità vietnamita che genera il gergo velenoso tipico dei colonialismi
morenti: “muso giallo”15 e così via. Questo tipo di affermazioni sono tipicamente razziste, ma il razzismo non deriva
dal nazionalismo poiché un’espressione come “occhi a mandorla” non esprime una semplice ostilità politica ma,
riducendo l’avversario alla sua fisionomia biologica, mira a sradicare il sentimento nazionale e quindi, cancella e
sostituisce la parola “vietnamita”.
Il punto è che il nazionalismo pensa in termini di destini storici, mentre il razzismo teme le contaminazioni tra una
razza e l’altra attraverso una sequenza senza fine di copulazioni ripugnanti. I negri saranno sempre e solo negri,
gli ebrei sempre e solo ebrei a prescindere dal loro passaporto o dalla lingua che parlano o scrivono. Il razzismo ha
origine da ideologie di classe, soprattutto nei proclami di divinità da parte dei governanti, per il loro sangue “blu”,
“bianco” o per la loro “genealogia”. Infatti, razzismo e antisemitismo non si manifestano tra i diversi confini
nazionali, ma all’interno di essi, diventando giustificazioni per le guerre di repressione interna e il dominio
autoritario.
È fuori dall’Europa, nell’800, che il razzismo si sviluppò maggiormente e fu sempre associato al dominio europeo,
per due motivi:
1. Fu la nascita dell’ufficial-nazionalismo (risposta delle monarchie minacciate al nazionalismo popolare di
lingua volgare) e dei processi di “russificazione” coloniale. Il razzismo coloniale fu fondamentale per quei
concetti di “impero” che cercava di saldare la legittimità dinastica e la comunità nazionale. Ci riuscirono
generalizzando un principio di superiorità innata ed ereditata basata sulla vastità dei loro imperi oltremare.
Il punto è che, pur se esistevano alcuni lord inglesi superiori agli altri inglesi, questi ultimi erano comunque
superiori ai nativi soggiogati.
2. L’impero coloniale, con il suo apparato burocratico e la sua politica “russificante” permetteva a tanti medi e
piccoli borghesi in trasferta di giocare ai “nobili”, ovunque nell’impero tranne che in patria.
Un altro importante indizio della derivazione aristocratica del razzismo coloniale è la tipica “solidarietà tra bianchi”
che legava dominatori coloniali di diverse nazionali, a prescindere dai loro conflitti e rivalità interne.

10. CENSIMENTO, MAPP A, MUSEO

La convinzione dell’autore, inizialmente, era che l’ufficial-nazionalismo delle colonizzate Asia e Africa fosse stato
modellato su quelli degli stati dinastici dell’Europe dell’800. Ma, ulteriori riflessioni, gli hanno fatto notare che la
sua discendenza va rintracciata nell’idea dello stato coloniale. A prima vista, questa conclusione può sorprendere,
visto che gli stati coloniali erano anti-nazionalisti, ma, se ci si concentra sul contesto in cui le ideologie e le politiche
coloniali vennero usate, tale discendenza diventa lampate.
Tre istituzioni contribuirono a rendere questo concetto più evidente: il censimento, la carta geografica e il museo.
Esse plasmarono profondamente il modo in cui lo stato coloniale vedeva i suoi domini.
IL CENSIMENTO
Il sociologo Charles Hirschman ha iniziato a studiare la mentalità dei coloniali britannici addetti ai censimenti nella
penisola malese. La descrizione data dal sociologo delle diverse “categorie di identità” che si sono susseguite nei
numerosi censimenti del tardo ‘800 fino ai giorni nostri, mostra una serie di cambiamenti rapidi in cui le categorie
sono costantemente soggette a cambiamenti. Da questi censimenti Hirschman trae due conclusioni:
1. Con il protrarsi del periodo coloniale, le categorie censitarie acquisirono un carattere sempre più
visibilmente ed esclusivamente razziale.
2. Dopo l’indipendenza le ampie categorie razziali furono mantenute e perfino concentrate ma ridefinite e
riclassificate.

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Il ragionamento è questo: 1. Io sarò morto prima di averli capiti 2. Il mio potere è tale che loro hanno dovuto imparare la mia
lingua 3. Questo significa però che la mia privacy è stata violata e chiamarli “musi gialli” è una piccola vendetta.
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Ma bisogna andare oltre l’aspetto analitico. In un censimento malese fatto nel 1911, vennero accomunati sotto
l’appellativo di “malesi” più voci, tutte contemplate all’interno dei propri confini coloniali. Queste “identità”
immaginate dalla mentre classificatoria dello stato coloniale, erano in attesa di una reificazione16 da parte
dell’amministrazione imperiale. La grande finzione dei censimenti è che tutti vi siano presento e che ognuno abbia
uno e un solo posto estremamente chiaro.
La vera innovazione dei censimenti intorno al 1870 fu la sistematica quantificazione delle classificazioni etnico-
razziali. I dominatori precoloniali avevano tentato di contare le popolazioni sotto il loro controllo avvalendosi
soltanto di registri fiscali e imposte. I loro scopi erano specifici, cioè sapere con esattezza a chi imporre le tasse a la
leva obbligatoria. Ma dal 1850 in poi si utilizzano metodi amministrativi più sofisticati per contare le popolazioni,
compresi donne e bambini, che gli antichi dominatori avevano sempre ignorato. Attraverso questo sistema, lo stato
coloniale guidato dalle sue mappe immaginarie, creava nuovi apparati burocratici (scuole, servizi sanitari, polizia)
che portarono a “percorsi abitudinari” da parte delle popolazioni suddite che diedero una vita reale alle fantasie
dello stato. Tuttavia, lo stato non navigò sempre in acque tranquille a causa della realtà religiosa. Nelle diverse
colonie, i governanti furono costretti a fare concessioni all’Islam e al buddismo. Continuarono a fiorire templi,
scuole e tribunali religiosi il cui accesso era determinato su scelta individuale, non dal censimento. Lo stato nulla
poté contro queste istituzioni religiose se non tentare di controllarle. Fu proprio la loro condizione di “anomalia
topografica” che furono concepiti come fortezze da cui i movimenti anticoloniali poterono condurre la loro guerra.
LA MAPPA
Col passare del tempo città associate a culti, iniziavano a diventare punti su fogli di carta che si accomunavano
assieme ad altri; la relazione tra questi punti, sacri e profani, era determinata dalla distanza in linea d’aria calcolata
matematicamente. La mappa, introdotta dai colonizzatori europei, stava cominciando, tramite la stampa, a
plasmare l’immaginario dell’Asia sud-orientale.
Come i censimenti, le mappe all’europea operavano in base a una classificazione totalizzante e spinsero
consumatori e realizzatori verso politiche dalle conseguenze rivoluzionarie. Da quando nel 1761 John Harrison
aveva inventato il cronometro, che rese possibile il calcolo della longitudine, l’intera superficie del pianeta era
sottoposta a una griglia geometrica che divideva luoghi ignoti in aree misurate e conosciute. Il compito di
“riempire” queste aree era degli esploratori, topografi e forze militari.
Da questi cambiamenti emersero due aspetti fondamentali della carta geografica:
1. Perfettamente consci del loro essere intrusi nei tropici, ma provenienti da una società in cui l’ereditarietà
degli spazi geografici era accettata da tempo, gli europei tentarono di legittimare il diffondersi del proprio
potere con metodi non esattamente legali – tra queste la pretesa di “ereditare” presunte sovranità dai
regnanti nativi, dandosi da fare per ridefinire la storia dei loro nuovi possedimenti. Risultato fu l’apparire,
nel tardo ‘800, di “mappe storiche” disegnate per dimostrare l’antichità di specifiche unità territoriali.
Attraverso la costruzione di queste sequenze si creò una storia di narrazione politico-biografica del regno
che verrà adottata in seguito anche dagli stati-nazione del ‘900.
2. Il secondo aspetto fu la mappa come logo le cui origini furono innocenti. La prassi degli stati imperiali era
quella di colore le colonie sulla mappa con colori specifici per i diversi imperi. Colorata, ogni colonia
sembrava un pezzo di un gigantesco puzzle. Quando questo effetto puzzle divenne normale, ogni singolo
pezzo poté essere isolato dal suo contesto geografico. Sotto questa forma la mappa entrò in una serie
riproducibile all’infinito su manifesti, libri e giornali divenendo così facilmente riconoscibile e sotto gli occhi
di tutti. In questo modo si radicò nell’immaginario popolare, divenendo un potete simbolo per il nascente
nazionalismo anti-coloniale.

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Processo mentale per cui si converte in un oggetto concreto e materiale il contenuto di un'esperienza astratta.
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IL MUSEO
Musei e la stessa immaginazione museale, sono profondamente politici. L’odierna (siamo sempre nel 1984)
proliferazioni di musei in tutto il sud-est Asiatico suggerisce che è in atto un processo di trasmissione di eredità
politica. È, in questo caso, importante considerare l’archeologia ottocentesca che rese possibili questi musei. Agli
inizi dell’800 i dominatori coloniali mostrarono scarsissimo interesse per i monumenti antichi delle popolazioni
sottomesse. Ma in seguito, e a ritmo sempre più rapido, le magnificenze dei loro manufatti furono dissotterrate,
liberate misurate, fotografate e messe in mostra. I servizi archeologici coloniali divennero istituzioni di grande
potere e prestigio, dove prestavano servizio colti funzionari di eccezionale valore. Il prestigio dello stato coloniale
(diventato tale dal momento in cui tramontarono le Compagnie delle Indie orientali) era quindi intimamente legato
a quello della madrepatria. Ma, in realtà, lo stato aveva tre – tutt’altro che scientifiche – ragioni per investire così
tanto nell’archeologia coloniale:
1. Il periodo dei primi interessi archeologici coincise con il primo scontro politico sulla pubblica istruzione. I
progressisti, tanto nativi che coloniali, spingevano affinché si investisse in un moderno sistema di
istruzione. Contro di loro si schierarono i conservatori, i quali preferivano che i nativi restassero “nativi”. In
questa luce, le ricerche archeologiche possono essere viste come una sorta di programma educativo
conservatore che serviva da pretesto per reggere le pressioni dei progressisti.
2. Il programma ideologico dei restauri poneva i costruttori dei monumenti (antenati) e i nativi sempre in
gerarchia. In alcuni casi, come nelle Indie olandesi e fino gli anni ’30, fu mantenuta la convinzione che i
costruttori non fossero della stessa “razza” dei nativi (“loro” quelli venuti prima, erano davvero immigranti
indiani). In altri casi, come in Birmania, a essere immaginata era una decadenza secolare, per cui i nativi
contemporanei non erano in grado di ripetere le realizzazioni dei loro antenati. Visti in questa luce, i
monumenti costruiti, contrapporti alla povertà rurale circostante, dicevano ai nativi: la nostra presenza
mostra che voi sete sempre stati, o diventati, incapaci di grandezza o autogoverno.
3. Trattando la “mappa storica” avevamo visto come i regimi coloniali avessero cominciato a fondarsi
sull’antichità e sulla conquista, in origine per pura legittimazione. Con il passare del tempo, però, si fece più
brutale il discorso basato sul diritto alla conquista e sempre più ci si sforzò di creare legittimità alternative.
Sempre più europei stavano nascendo nel sud-est Asiatico e, sempre più, cercavano di farne la propria
patria. L’archeologia monumentale, sempre più legata al turismo, permetteva allo stato di apparire come
un guardiano di una tradizione generalizzata, ma anche locale (cultura e tradizione). Gli antichi luoghi sacri
andavano incorporati nelle mappe della colonia, diventando così dei musei, messi al sicuro come insegne di
uno stato coloniale laico.
Una caratteristica importante, però, di questo stato profano, era l’infinita riproducibilità degli strumenti, resa
possibile dalla stampa e della fotografia. Questo tipo di archeologia, fu così profondamente “politico” che tutti ne
erano inconsapevoli. Tutto era ormai normale e giornaliero.
Legati tra loro, quindi, il censimento, la mappa e il museo chiariscono il modo in cui il tardo stato coloniale pensava
ai propri possedimenti. La base di questo pensiero era di dare ad ogni cosa un’identità precisa al fine di
controllarlo. Questa griglia classificatoria totalizzante era delimitata, determinata e quindi, numerabile. Infatti
importantissima era la serializzazione: l’assunto che il mondo sia fatto di forme replicabili. Ecco perché lo stato
coloniale ha immaginato una serie di cinesi, prima di ogni cinese; ina serie di nazionalisti prima di ogni nazionalista.
Mappa e censimento plasmarono le grammatiche che avrebbero reso possibile la “Birmania” e “birmano”,
“Indonesia” e “indonesiano”. Ma il concretizzarsi di queste possibilità deve molto alla particolare immagine che lo
stato coloniale ebbe della storia e del potere. Nel sud-est Asiatico, l’archeologia era impensabile prima del
colonialismo e creò la categoria “monumenti antichi” suddivisi nelle classi geografico-demografiche “Indie
olandesi” e “Birmania inglese”. Concepita all’interno di queste classi “laiche” ogni rovina poteva essere sorvegliata
e riprodotta. Riunite sottoforma di carte o fotografie, lo stesso stato cominciò a vedere la serie, lungo la storia,
come un album dei suoi antenati. Tali serie replicabili creavano una storia di profondità storica che fu facilmente
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ereditata dal successore postcoloniale dello stato. Il risultato logico fu il “logo” (es. Filippine) che, con il suo vuoto,
mancanza di contesto, facilità con cui venne ricordato e la sua infinità riproducibilità, condusse censimento, mappa,
musei in un unico incancellabile abbraccio.

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