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5 PERIFERIE

Pepe Barbieri

Quale progetto per abitanti senza centro e centralità?


Quali strategie per trasformare gli spazi frammentati e mal vissuti da una società divisa e molecolare nei
luoghi di un possibile abitare metropolitano?
In qualunque parte del territorio si voglia intervenire ci si deve confrontare con le contraddizioni del
presente, rese più percepibili se messe in rapporto con le diverse alternative possibili. Questo è il compito
primario di un progetto urbano. Mostrare che si può fare in un altro modo. Non è quindi quella previsione
autoriale che dall’alto intende linearmente planare e conformare l’esistente. nella dimensione urbana
indichi prefiguraziIn questo modo l’esercizio del progetto assume il compito fondamentale di uno
strumento indispensabile per la democrazia urbana. La conoscenza che il progetto genera in cui non si
proietta semplicemente la propria visione autorealizzante sull’esistente ìSono nel confronto con la
concezione dè indispensabile non si può Intervenire nelle periferie
Come realizzare, negli intrecciati percorsi di conflitto e contraddizioni con cui si trasforma la città, le
condizioni per poter desiderare e scegliere in un trasparente campo di relazione tra usi, diritti, poteri e
interesse pubblico?

Armando Architettura e conflitto FORMA DEL PROGETTO


Credo che si possa invece andare verso un diverso modo di concepire l’incidenza della forma: non della forma finita
dell’architettura intesa come “fatto ormai accaduto”, bensi della forma ancora “da fare”, ovvero del progetto e della sua
azione a venire. Si tratterebbe pertanto di guardare i modi (e le forme dell’azione) attraverso cui un progetto associa le
istanze e riesce a generare le condizioni e gli obblighi necessari a raggiungere un effetto concreto. E un aspetto
disciplinare del progetto, perche la creazione di obblighi presuppone un potere garantito da un assetto istituzionale, da
tribunali, da forze dell’ordine, da capitali, ecc. Sono questi assetti che fanno da garanti ai nostri progetti e li rendono
effettuali, ovvero capaci di trasformare materialmente il mondo. La forma di questa azione, che mantiene degli aspetti
di violenza ed e di natura strategica, se non addirittura bellica, puo essere analizzata, criticata e anche fatta oggetto di un
lavoro di indagine e di ricerca. Vorrei che fosse questa la forma di cui ci occupiamo in quanto progettisti, perche e
forma del progetto e non dell’architettura tout court. Ritengo peraltro che su quest’ultima i progettisti non siano gli
unici ad avere qualcosa di rilevante da dire.

Tempo e durata AMIRANTE

E interessante in questo senso il fatto che Ilardi si domandi sel’oggetto architettonico puo divenire una specie di
variabile o contingenza formale che, aderendo al luogo, si potrebbe contrapporre
alle richieste del mercato e al processo economico complessivo. E evidente che dare corpo alla sua affermazione
significherebbe dare per scontato che l’aderenza al “luogo” sia in se una garanzia di
contrapposizione alle richieste del mercato e al processo economico complessivo. E viene naturale rispondere che tutto
dipende da cosa si intende per luogo. Ma forse e proprio la parola contingenza che
puo rendere la sua ipotesi convincente, perche questa parola apre ad almeno due dei concetti a cui ho fatto riferimento
precedentemente, lo spazio, nella versione del comune come appropriabile
localmente; e il tempo, nella dimensione dell’.istante durevole, sospeso tra passato e futuro..
Il contingente, nella sua versione piu propositiva, fa pensare alla urgenza di una risposta utile a una domanda localizzata
e defi-nita, perfino impellente, in qualche modo condivisa e intercettabile
da ciascuno. Fa pensare anche a una domanda che non nasce dentro una pianificazione bloccata e non e disponibile a
essere modellizzata sulla base di tipologie a priori. Fa pensare alla necessita di
ripensare la durata come una dimensione fortemente ipotetica, che non e possibile determinare in astratto. E infine fa
pensare a una forma di appropriatezza che deve contemperare l’aderenza a una realta
esistente e la prefigurazione di una trasformazione necessaria: una trasformazione che puo ancora essere la
modificazione, di cui la cultura italiana ha tanto parlato negli ultimi vent’anni del secolo
scorso, ma che non ha paura di confrontarsi invece con l’idea di un necessario cambiamento.

Ilardi
e’ sul progetto che occorre intervenire affinchè torni a fare teoria per dislocare la sua rappresentazione su un
universo diverso rispetto alla domanda ripetitiva del mercato. Una “diversione rappresentativa”
fondata su un sistema di idee forti che renda il progetto non piu subordinato ai fenomeni economici e che produca
contesti materialmente determinati. E proprio la sua difficolta di imporsi al disordine dell’espansione urbana a rimettere
in gioco il progetto come teoria politica e non solo estetica. Una teoria politica che si rivolge, prima che alla societa, al
potere e che lo interroga e lo critica.

Barbieri
Tafuri, osservando un altro momento della storia, fornisce indirettamenteuna indicazione su quella che, poi oggi, e stata
individuata come una tecnica di modificazione dell’esistente attraverso la
cosiddetta “agopuntura urbana”. Spiega, infatti, come mai il Brunelleschi non senta il bisogno di codificare utopie
urbanistiche, perche lui compie la sua rivoluzione urbanistica proprio partendo dagli
oggetti architettonici. Questi, autonomi e assoluti, erano destinati a intervenire nelle strutture della citta medievale,
sconvolgendole e alterandone i significati. La nuova spazialita tridimensionale (il
nuovo ordine razionale) si confronta e compete con i tessuti urbani preesistenti. E non c’e bisogno di estendere alla
intera citta il coordinamento unitario dello spazio perche gia quegli oggetti sono in
grado di riverberare sulla citta i valori inediti conquistati per mezzodella potenza, che essi rivelano, del nuovo spazio
prospettico.
Oggi, specialmente nei territori della citta europea, non si ritiene piu ne possibile ne accettabile intervenire attraverso
quel controllo totalizzante che, nella prima modernita, implicava perfino la tabula rasa e un integrale ricominciamento.
Si deve operare sulla citta esistente e le questioni ambientali obbligano a non
consumare prezioso suolo e ad agire per addizioni e montaggi successivi, in grado di interpretare e irrigare di nuovi
significati i diversi contesti. La forma deve percio programmaticamente misurarsi con la sua variabilita e modificazione
nel tempo. Gia nella fase conclusiva delle esperienze dei CIAM i componenti del
Team 10, attraverso sperimentazioni su una diversa idea di forma e di processo, avevano condotto una radicale critica
alla prima fase, considerata totalizzante e astratta, del progetto moderno.
La forma, nelle loro esperienze, infatti, perde la sua supposta fissa stabilita. Si progettano oggetti e parti di citta come
dispositivi aperti che possano mutare in rapporto al movimento incessante con cui i contesti si potevano trasformare,
con l’obiettivo di trovare una relazione piu stretta tra il divenire dei paesaggi fisici e
trasformazioni sociali, tra lingua dell’architettura e l’interpretazione dei diversi caratteri identitari dei contesti. Penso ai
playground di Aldo Van Eyck nella qualificazione degli interstizi urbani di Amsterdam, al suo famoso asilo ampliabile
o ai piu estesi e complessi tessuti tridimensionali porosi e modificabili (i mat-building) proposti dagli Smithson,
Candilis, Josic e Woods e destinati ad insinuarsi dinamicamente nei corpi delle citta.
E Giancarlo De Carlo, uno dei protagonisti del Team 10, che parla di “forme tentative”, in un doppio senso. Sia perche
si definiscono nel tempo, attraverso una serie di aggiustamenti e deviazioni, nello scontro e incontro con la realta, sia
perche devono “mettere in tentazione” il contesto. Un contesto di soggetti che
sono sollecitati a prendere posizione perche, proprio attraverso la proposta “tentativa” di una forma, sono messi in grado
di conosceree valutare i possibili esiti di un progetto assumendo una parte di responsabilita nelle diverse scelte.

Armando
Ribaltare questo assunto, a mio giudizio, significa fare critica del presente, criticare la forma idealizzata dell’azione di
progetto (potremmo darne una rappresentazione balistica: un arco teso, una retta…). Quale puo essere l’alternativa?
Quella di lasciarsi deviare dalle circostanze, come il “giardiniere”, riassorbendo gli accidenti nelle deviazioni del
progetto. Se la linea di sviluppo di un progetto fosse riconosciuta esplicitamente come una ricorsiva catena di
interruzioni e ripartenze, potremmo disegnare una forma del progetto che non e lineare, ma dispone dinnanzi a se le
molte traiettorie possibili e divergenti. Se questo e il “presente” del progetto, abbiamo bisogno di criticarne le riduzioni
linearizzanti e teleologiche.
Per fare cio dobbiamo spostare la nostra attenzione dalla forma del manufatto alla forma degli scambi.
Dove sta la politica in tutto questo? Le mappe della politica sono le mappe di questa azione strategica di progetto: se
siamo in grado di costringere un insieme di entita (che non e semplicemente una societa di uomini, ma un sistema socio-
tecnico, composto di agenti di molte diverse nature) a procedere lungo una traiettoria di azione comune firmando dei
contratti, aprendo un cantiere, organizzando un lavoro di modificazione dello spazio, allora significa che disponiamo di
un potere, e questo potere effettivo ha una consistenza politica. Si puo discutere sulla distinzione tra “politica” e
“amministrazione”, ma, a mio avviso, sono due piani intrecciati e inseparabili. La forma di un effetto finale che cambia
molte volte (ovvero un progetto con tutte le sue varianti e i suoi aggiustamenti), aggrega istanze sempre piu estese
proprio facendosi deviare, fino a farsi un vettore irreversibile dell’azione comune. A mio avviso questo effetto di potere,
diciamo pure la “politica”, non e l’oggetto di una contesa tra due dimensioni separate del progetto
– quella amministrativa, del managament esecutivo da un lato, e quella decisionale-autoriale dall’altro. In quanto effetto
emergente, la “politica” insorge dalla composizione di molti atti, che sono ogni
volta espressione di decisioni sovrane aggrovigliate a condizioni tecnico-amministrative.

BARBIERI.
Potremmo concludere che ogni architettura si immette in un sistema di relazioni complesse
e, come dice Armando, non si puo credere che un progetto sia il frutto di un processo essenzialmente creativo e
individuale, che culmina linearmente in un’opera, come avviene nelle arti. I valori di un progetto, cosi, secondo un
“principio di responsabilita”, come suggerito da Weber o da Jonas, non si misurano, percio, nel rispetto dei fondamenti
dell’architettura (codici e verita autonomamente definiti)ma nelle conseguenze che si generano attraverso le interferenze
ed anche il conflitto con i diversi attori e agenti del processo.
E quanto appare implicito nella nota affermazione di Mies van der Rohe: .la forma non e il fine del nostro lavoro, bensi
il risultato.. Quindi la forma e la conseguenza, il “risultato”, di un percorso che essa stessa, pero, apre proponendo una
visione (costantemente modificabile) che costituisce l’enzima, il codice generativo essenziale, del confronto con gli altri
attori del processo.

Amirante L’architettura non è nel paesaggio ma costruisce paesaggi.


BARBIERI. Dunque chi decide sul futuro della citta? Su cosa si puo decidere? Come si prendono le
decisioni? Se anche ci fosse – e non c’e – una politica, quale sistema di potere, autonomo e unitario, in grado di imporre
una linea di trasformazione al futuro di un Paese, e determinante la considerazione
che nessun soggetto politico, ne nella dimensione nazionale ne in quella locale, ha la consapevolezza delle potenzialita
offerte da azioni di infrastrutturazione dei territori urbani (intese nel senso
piu ampio di attivazione dei contesti e di costruzione di luoghi) che potrebbero generare una nuova modalita, ricca di
senso, anche se plurale e discontinua, dell’abitare la citta contemporanea.
Oggi l’obiettivo di restituire allo spazio la densita di snodo problematico tra forma, usi, diritti e poteri si deve
confrontare, inoltre, con la “pluralizzazione” del pubblico che moltiplica i tempi e i luoghi del confronto o del conflitto.
La politica, peraltro, trascura il ruolo delle strutture spaziali nel generare disuguaglianze, e
le citta, da luogo dell’integrazione e dello scambio, si sono trasformate, come scrive Erbani, .in una potente macchina di
sospensione dei diritti dei singoli e dei loro insiemi, entro cui agiscono le ideologie
del mercato e le retoriche della sicurezza..
Le trasformazioni avvengono ancora utilizzando un quadro normativo e strumenti legislativi riferiti alla citta compatta,
che si considerava regolabile metricamente e descrivibile come una forma compiuta, nel rapporto tra una ripetitiva tipo-
morfologia del costruito e i vuoti ordinati delle varie reti di vie e piazze. Mentre e,
invece, completamente cambiato l’oggetto del processo decisionale, perche sono cambiati i “materiali” che il progetto
deve interpretare e mettere in relazione perche si formino luoghi per l’abitare. Ma, soprattutto, sono cambiati i possibili
fruitori e possibili co-decisori: gli stessi abitanti. Si vive e ci si muove in un plurale territorio
policentrico, composto da piu dimensioni eterogenee, per cui non si appartiene piu ad una sola citta, ma si vive ad
intermittenza in una sorta di poligamia urbana. E una condizione che rappresenta nello stesso tempo un problema ed una
opportunita. Ad esempio nel modo diverso con cui si puo interpretare la questione delle
periferie, poiche queste non si possono piu considerare solo in rapporto, come ultima propaggine esterna, con la citta
consolidata.
Qualcuno, infatti le ha ridenominate “inferie”. Realta con identita complesse che, ormai interne alla tessitura incoerente
dei diversi territori urbani, possono essere ripensate con un altro ruolo, quali
possibili centralita in un innovato sistema di flussi. La consapevolezza dei problemi e dei temi da affrontare in questo
quadro mutato manca al supposto e inesistente decisore unico (sia la politica, sia l’architetto, come ipotizza Ilardi) ed e
assente, in generale, in tutta la compagine degli attori del processo: coloro, quindi, che, in modo spesso scoordinato e
frammentario, o anche conflittuale, decidono la trasformazione. Anche la maggior parte del mondo professionale
(immerso in una lotta per la sopravvivenza) esegue prestazioni su temi collocati a valle di scelte che restringono la
domanda a limitati aspetti funzionali, economici e
metrici. Cosi le occasioni di progetto non vengono usate per esplorare, con una visione piu aperta, le opportunita di
trasformazione e consentire cosi di riformulare, proprio attraverso la conoscenza
generata dal progetto, una diversa domanda. Cosa che invece viene sperimentata nei centri di ricerca universitari dove,
in genere senza esito, si rivelano alle amministrazioni, per mezzo della potenza
conoscitiva del progetto, le potenzialita di un diverso futuro del territorio. E una conoscenza che, come sappiamo, i
poteri trascurano e che non raggiunge i portatori di diritti. Questi ultimi, infatti, disseminati
in un pulviscolo individualista – anche se stanno lievitando forme diverse di comunita– hanno difficolta a formulare e
individuare i termini con i quali impegnarsi consapevolmente in una lotta o in una negoziazione per il riconoscimento
delle loro attese.

Amirante
E qui voglio tornare alla espressione usata da Ilardi, alle possibilita di fare critica del presente dando al progetto lo
statuto di una contingenza formale. Mi sono gia soffermata sulla interessante produttivita
del temine “contingenza”. Qui si puo tornare invece sull’aggettivo, “formale”. L’aggettivo da a questa idea di
contingenza uno spessore materiale ed estetico che chiama in causa l’architettura nella sua versione piu propria,
sottraendola alla deriva dell’immateriale e dell’estemporaneo. Su questo tema ho avuto, in qualche recente
conversazione familiare (la condizione personale, nel mio caso legata con piu fili alla ricerca architettonica, entra
legittimamente come una delle articolazioni piu tradizionali e al tempo stesso singolari
dell’idea di “luogo comune” a cui prima facevo cenno), alcuni spunti illuminanti che mi hanno messa di fronte al tema
della dimensione “infrastrutturale” dell’architettura (infrastruttura come “base di sostegno”
che consente ad altre cose di accadere e di prendere forma nel tempo). Una dimensione che potrebbe salvare l’identita
materiale dell’architettura, rendendola compatibile con la condizione operativa
che Ilardi chiama contingenza.
Questa possibilita e legata a una rinuncia ai suoi tradizionali caratteri di compiutezza in favore di forme diverse di
“apertura”: che, tanto per fare un esempio, privilegino le potenzialita di uso rispetto alle pre-definizioni funzionali;
siano predisposte a logiche di controllata incompiutezza, e quindi disponibili a forme di modificazione e di
completamento; e mettano quindi formalmente in discussione l’idea di concinnitas (fondata su una ricerca di eleganza,
fatta di compiutezza e di armonia, in cui le parti sono disposte in
modo che non si possa togliere ne aggiungere alcunche).

Armando Qual e l’alternativa a questa proiezione redentiva, in cui i valori sono posti all’inizio del progetto? Per me
chiaramente e un campo in cui i valori emergono alla fine, non all’inizio: anzi emerge un “effetto”, che e la
composizione di fatti e valori. Per dirla da architetto: progettando metto insieme delle questioni e definisco un assetto
per vederlo modificato molte volte, ogni volta includendo piu entita (regole, attori, utenti, soldi, animali, piante,
sostanze tossiche…) fino a quando la ricomposizione di questo collettivo definisce un quadro che puo procedere -
perche e eseguibile, e conforme, rappresenta le parti, e stato approvato, ecc.

BARBIERI. La divaricazione crescente tra poteri, saperi e diritti appariva gia a meta degli anni Cinquanta
del secolo scorso un fondamentale problema di cui la politica, quella parte piu attenta alle ragioni sociali delle
trasformazioni urbane, si doveva occupare. La Fondazione Gramsci, in quegli anni, aveva organizzato su questi temi un
incontro di urbanisti e architetti. La questione era come incontrare quel referente collettivo che, nella prima modernita,
era stato considerato una malleabile entita, in un certo senso, astratta.
Erano emerse le due posizioni contrapposte degli “architetti pratici” e degli “architetti esteti”. Gli architetti pratici
immaginando di operare sugli aspetti strutturali del processo – modernizzazione dell’industria edilizia, cambiamento
delle norme, snellimento dei processi - gli architetti esteti affermando la necessita di ricercare
una lingua che, attraverso la riformulazione di valori raccolti nelle tradizioni nazionali potesse rimettere in moto e
collegare a senti- menti comuni una eredita di un Moderno irrigidito in stilemi iterati e non piu “movimento” e
rifondare, anche per lo spazio dell’abitare, una base di significati e di valori condivisi. Oggi quel referente collettivo, se
mai e veramente esistito, si e frantumato in una societa molecolare, composta da individui metropolitani. Non cittadini,
ma, come afferma Ilardi, consumatori i cui bisogni e desideri sono alimentati da un immaginario globale prodotto
altrove.
Tuttavia – a fronte della percezione diffusa di una societa totalmente atomizzata - si deve, invece, cogliere l’opportunita
rappresentata dall’affiorare di forme diverse di comunita (possibili corpi intermedi
e nuovi soggetti, anche in conflitto tra loro) che potrebbero costituire agenti di coagulo di interessi diversi e assumere,
quindi, un ruolo piu incisivo nei percorsi delle decisioni. Di recente un famoso
economista della scuola di Chicago, tempio dell’approccio neoliberista, ha editato un testo dal titolo Il terzo pilastro,
sostenendo che bisogna rivalutare il ruolo delle strutture di comunita locali rispetto alla tradizionale esclusiva bipolarita
di stato e mercato. Sono possibili attori, trascurati ma importanti, nel processo delle trasformazioni. Anche per
l’attitudine a prendersi cura di contesti assunti come un bene comune, come auspicato a suo tempo dalla Ostrom e
ripreso, anche di recente, da sociologi-urbanisti come Sennett.
C’e, quindi, la possibilita di “unirsi dividendosi” come sostiene Parag Khanna, praticando una alternativa a processi
decisionali diretti esclusivamente dall’alto. Si possono formare gruppi variabili per composizione, estensione e temi sui
quali mobilitarsi per esprimere cosi in forme assembleari le proprie opzioni. Sono percorsi resi piu praticabili dalle
nuove tecnologie della comunicazione e da realizzare per mezzo del confronto continuo con i saperi esperti, chiamati a
svolgere il compito di rivelare le diverse opportunita e conseguenze delle scelte, assumendo una indispensabile
posizione “terza” tra abitanti e istituzioni (Olmo 2009). Non concordo quindi, con tutte le cautele rispetto ai dolciastri
procedimenti paternalistici delle tradizionali forme di partecipazione, con la negazione recisa che fa Ilardi, in qualche
modo condivisa
da Cao, sulla praticabilita di una “riappropriazione da parte della gente dei problemi dell’insediamento umano”.
Specialmente nelle condizioni mutate con cui si abita lo spazio- tempo contemporaneo,
il compito del progetto non e piu quello soltanto di realizzare un oggetto, direttamente e linearmente, ma, come dicevo,
di accompagnare un percorso in cui si sviluppa il confronto, (anche il conflitto)
e si prendono le decisioni, proprio per mezzo dell’inedito immaginarioche, dall’inizio, l’architetto offre alle
“deviazioni”, come le chiama Armando, che diversi attori o agenti potranno provocare.
Cosi la “previsione iniziale” non serve a realizzare direttamente lo stato finale, ma ad inaugurare un processo (che potra
prevedere componenti programmaticamente indeterminate, nel rapporto tra varianti e invarianti o tra rigidita e
discrezionalita), dove si mettono a fuoco una serie di presupposti e condizioni – materiali, morfologici e funzionali, ma
anche simbolici - che potrebbero favorire l’evoluzione dello spazio in luogo. Penso a quello che sta accadendo intorno
alla High-Line di New York che, come si sa, e stata voluta
da un comitato locale: Friends of the High Line. Il piano lineare, autoritario, che pensa di dirigere verticalmente
le trasformazioni, se mai e esistito, non c’e piu. Oramai il processo della trasformazione urbana e negoziale. Pero
l’attuale processonegoziale e pessimo, perche si costruisce nel rapporto tra potenti strutture finanziarie e imprenditoriali
che si mettono accanto alle amministrazioni, spesso deboli e impreparate, se non colluse, e le “convincono” - e un
eufemismo - a fare, ad esempio, lo Stadio della Roma. E quindi indispensabile rafforzare il ruolo e la competenza di
altri attori. E possibile entrare in rapporto con comunita locali
- comitati di quartiere, associazioni varie - che partono da alcuni interessi e bisogni concreti. Gruppi che si mobilitano a
partire, in genere, da problemi di funzionamento e di uso e che possono essere indotti ad aprirsi ad una visione piu larga
e complessa, anche con l’aiuto di “architetti traduttori”. Oggi si e sempre piu sensibili ai rischi legati ai problemi
ambientali, alla necessita di un equilibrato metabolismo urbano per i cicli dell’energia, dei rifiuti, dell’acqua. Basti
pensare al recente successo elettorale delle liste verdi in diversi
paesi. E la percezione di un futuro a rischio che puo rompere l’accettazione inerte dell’esistente e indurre gli abitanti a
mobilitarsi per intervenire nei contesti locali in modo di rispondere ad esigenze di protezione e prevenzione. E qui che e
necessaria l’utilizzazione di una forma che non determina piu soltanto l’aspetto di
un oggetto, ma produce la intelaiatura di un sistema di relazioni tra diverse componenti e materiali urbani: gli edifici,
ma anche i vuoti, i diversi suoli, anche nella loro tridimensionalita, il sottosuolo, le forme della natura, ormai interne al
continuum urbano.
In questa architettura delle relazioni conta piu il gioco dei rapporti, la qualita che si genera nella tessitura degli spazi
piuttosto che il protagonismo figurativo del singolo elemento: e una inversione del tradizionale legame tra figura e
sfondo, in cui non si deve, pero, cadere in una riduttiva concezione di “paesaggio”, se intesonella modalita, oggi
comune, ma ingannevole, di approcci, estetizzanti e falsamente pacificatori, al disegno dei territori urbani.
AMIRANTE. Dico una banalita, ma credo che parte del problema possa essere ricondotto al tramonto di
quella che veniva definita “cultura materiale”. Come si determinava la cultura materiale? Era essenzialmente legata alla
presenza di una “comunita abitante”, che condivideva le logiche di costruzione di un “luogo comune”. Una comunita
che era fondata su una logica di contiguita spaziale e su una scelta di continuita culturale. L’architettura era al tempo
stesso un fondamento e una prospettiva di questa comunita. E dentro questa prospettiva si giocava anche il rapporto
circolare tra l’“architettura degli architetti” e le “architetture
senza architetti”. Opere molto significative e frutto di una cultura specializzata, che mescolavano valori estetici,
funzionali, costruttivi condivisi a forme di innovazione talvolta provenienti da…
…Ma c’e dell’altro: nella post-modernita la questione e ancora diversa, perche e fondata su una totale perdita delle
coordinate tradizionali dello spazio e del tempo che erano invece ancora presenti nell’eta industriale. La rete, come
sappiamo, fa saltare il valore della contiguita o della prossimita materiale; fa saltare l’idea di centralita e quella di
perifericita; propone nuove infinite connessioni a distanza e facilita la costruzione di comunita a geometria variabile che
possono agire riconoscendosi legate da obiettivi specifici, an-…….
……..Nel secondo caso ci troviamo di fronte a un luogo del tutto insignificante, se non per coloro che ci abitano: ma
questo “se non” puo essere assai rilevante per l’architettura. Soprattutto se, e qui
torno sul libro di Jullien, questo “angolo di paese” e diventato “paesaggio” perche quelli che ne riconoscono
l’importanza hanno stabilito con quel luogo un “legame”: in questo caso .quell’angolo di paese diventa mondo e mi
collego a lui come a cio che fa mondo……
-------------po’ di irresponsabilita e un po’ di autoflagellazione, per non parlare della qualita degli esiti: un’ipotesi
difensiva ma comprensibilmente praticata, viste le condizioni al contorno. Se questi estremi non
ci convincono, ancora una volta possiamo provare a identificare il “campo” che sta tra questi “opposti” e vedere che
cosa puo rappresentare,in questa dimensione del “tra”, la figura dell’architetto. E allora, piuttosto che proporsi/esporsi
come il soggetto risolutore, inquanto creatore individuale di un progetto forte, che linearmente e velocemente determina
una trasformazione, l’architetto puo farsi costruttore
di paesaggi almeno in due altri modi: da un lato facendo un passo indietro e diventando “inventore” della domanda di
architettura capace di interpretare i problemi dell’insediamento umano e di ipotizzarne delle traduzioni disciplinari;
dall’altra facendo un passo di lato e comportandosi come “facilitatore” di un processo complesso, che ammette
deviazioni e tempi morti.
In ambedue i casi l’incertezza che guida le proposte toglie violenza all’architettura e consente di trasformare la cosa che
fai in una maglia di qualcosa d’altro, di una rete piu ampia a cui altri si possono appoggiare e a cui molti possono
aggiungere altre maglie.
E una rete che non serve per prendere i pesci, ma si puo estendere e puo consentire ad altri non solo di arrivare dove sei
tu ma anche di allontanarsi, pero restando connessi. Il progetto, pensato come
“ipotesi” da verificare e non come certezza da dispensare, puo restare lo strumento principe di questa duplice azione e
l’architetto puo continuare cosi a sviluppare la sua vocazione trasformativa, fatta di pensiero immaginativo e azione
materiale.
BARBIERI. Credo che queste considerazioni di Amirante sul progetto “come ipotesi da verificare”
siano valide soprattutto per lo spazio pubblico. E la possibilita di realizzare una citta piu (e “diversamente”) pubblica un
obiettivo valoriale fondamentale da comunicare e condividere. Nella citta contemporanea
lo spazio pubblico, codificato ed elargito dall’alto agli abitanti, e spesso abbandonato, mentre le comunita e gli individui
si appropriano di altri spazi, di natura fondamentalmente difforme, in modo frammentario ed intermittente. Come
avviene nei sempre piu numerosi casi di patrimoni dismessi e occupati per farne incubatori di creativita, con mixité
d’uso programmaticamente aperte e promiscue, come a Roma il MAAM (Museo delle Arti e dell’Altrove) o le industrie
fuori uso di Pietralata. Sono prove esemplari che rivelano la possibilita di perseguire lo scopo di utilizzare ogni
occasione per aggiungere agli istituzionali spazi pubblici (oggi frequentemente sottoutilizzati)quelli che, in una
concezione piu aperta della citta, Leatherbarrow
ha definito “spazi del terzo tipo”, sia perche rappresentano una ibridazione tra privato e pubblico, sia perche si formano
mescolando diverse componenti dello spazio: interni ed esterni, natura ed artificio, edificio e citta. La possibilita e,
vorrei dire, la liberta di produrre di questi spazi deve rappresentare una idea guida per la modificazione della citta.
Spingendo ad aprire i recinti e rendere piu accessibili i territori urbani oggi segregati e giustapposti.
Queste esperienze rappresentano mezzi potenti per comunicare un diverso sistema valoriale in conflitto con i codici
usualmente piu condivisi, veicolati anche dalla pubblicistica. Si tratta di mettere in discussione il valore acriticamente
riconosciuto al “meraviglioso urbano” di oggetti eccezionali (i monumenti del passato o anche contemporanei)
compresa la bellezza, che si considera scontata, della natura o dei paesaggi (supposti) incontaminati, che vengono,
comunque, anche se non vissuti, considerati con devozione. Mentre
manca (sia da parte di chi la produce, sia da parte di chi la vive) l’attenzione ai valori che dovrebbero contrassegnare la
possibile qualita diffusa dell’ordinario. Penso a quello che sosteneva Oud a proposito
della necessita di agire nella citta attraverso una regia architettonica per produrre qualita nello spazio di una strada,
adottando sequenze seriali in cui non contasse la figurativita dei singoli elementi, ma il loro modo di disporsi e
connettersi reciprocamente interpretando il luogo. Aggiungeva – dico a memoria – .chi ha voglia di “divertirsi” con una
forma eccezionale vada ad esibirsi in campagna!.. Serve allora diffondere una cultura architettonica che consenta di
comprendere i valori di una eclissi del linguaggio o di una sua sostanziale mutazione nell’applicazione ad una trama di
relazioni. Occorre riconoscere il significato culturale e politico della scelta di una sorta di passo indietro, di silenziosita
della figurativita degli oggetti, per dar valore al loro modo di disporsi e di posizionarsi rispetto alla indispensabile
riscoperta dei suoli e delle geografie,
anche nella chiave ambientale ed energetica. Nell’idea, quindi, che vi siano oggetti che si dispongono nella fluidita
dello spazio naturale, rendendo percepibile la qualita dei luoghi, attraverso la compostezza
e l’asciuttezza delle loro forme. Esiste tutta una linea di lavoro molto lunga in cui il tema del rapporto natura-
costruzione si gioca su strategie che mirano al carattere essenziale e, in un certo senso, prosciugato del disegno degli
oggetti. Sono esperienze che, tuttavia, non hanno interrotto e messo in crisi la riproduzione della citta senza
l’architettura. Ne il “sistema architettura” – mondo professionale, comunita scientifica,
pubblicistica – nel rifugio di una colpevole autoreferenzialita, ha elaborato e trasmesso alla variegata compagine di
attori e fruitori, gli effetti, nella concezione del progetto, di quei cambiamenti di paradigmi che avevano da tempo
investito il pensiero scientifico e filosofico, con importanti riflessi nel mondo dell’arte e che avevano evidenziato la
crisi del determinismo e il conseguente tramonto della metafora macchinista che aveva ispirato le tradizionali
strumentazioni della disciplina architettonica. E una rivoluzione che obbliga
il progetto a misurarsi con la realta di un universo, macro e micro, instabile, mobile e frammentario; un sistema
relazionale di flussi ed energie non piu prevedibile nelle sue trasformazioni e che chiede di considerare piu che le
quantita le qualita, piu che gli oggetti le loro relazioni ed, infine, piu che i soli diritti individuali la loro capacita di
produrre utilita pubblica e svolgere quella funzione sociale indicata, ad esempio in Italia, dalla Costituzione.
AMIRANTE. La parola “processo” che anima questa discussione contiene una ambiguita. Una cosa e il
processo pensato come la determinazione in termini spazio-temporali di cio che succede, una volta che hai fissato qual e
il principio e qual e la fine; un’altra cosa invece e il processo alla cui origine c’e un’ipotesi incerta e in fondo c’e un
orizzonte di attesa sufficientemente definito da consentirti di intravedere una strada, ma non completamente fissato; non
sapere gia come deve andare a finire significa pensare al processo come rotta, come una rotta che si tiene in un mare. E
nel mare ci sono le secche, gli scogli, le altre navi
che ti arrivano addosso di lato, le balene che ti rovesciano la barca. Su questo punto voglio riprendere alcune cose che
ho gia accennato a proposito del ruolo diverso dell’architetto, non piu (o almeno non piu soltanto) coordinator by
vocation di un processo finito che dalla ideazione porta alla realizzazione, ma sempre piu spesso nocchiero di
un’imbarcazione (talvolta poco piu di una zattera) che punta verso una destinazione relativamente indeterminata. Non
sono molto legittimata a parlare in veste di progettista impegnata nel reale. Sono soprattutto una persona che insegna,
impegnata a contrastare la massima popolare “chi sa fa, chi non
sa insegna”, anche attraverso una serie di ricerche progettuali, sviluppate con varie forme di forte contaminazione con la
realta. Ma pur sempre al riparo di mura e di ruoli istituzionali che, lo so bene,
rappresentano spesso degli argini che impediscono alla zattera di affondare ma tolgono visibilita al nocchiero. Alcune
cose pero credo di averle capite: si tratta
BARBIERI
Vorrei partire da due definizioni nate in questa discussione e che permettono di ragionare sul
significato di una utilizzazione strategica della forma architettonica, ma anche, soprattutto, del
“materiale tempo”, nel processo delle trasformazioni: Amirante parla di “forma della forma” e
Armando di una “forma dell’azione”.
La prima proposizione mi sembra suggerire che deve esistere una indicazione di carattere generale,
ma anche precisa, di un primo livello della forma che ammette nel tempo più e diverse declinazioni.
E’ quanto può indicare il cosiddetto “tema urbano”, quale strumento/navigatore con il quale si
confronta l’esercizio della forma nel percorso delle decisioni. Attraverso la condivisione di tali temi
– dove sono suggeriti i criteri morfologici e funzionali di relazione tra le diverse componenti – si
stabilisce un patto tra cittadini e autori in un percorso circolare in cui i temi, desunti dai contesti, ad
essi ritornano, elaborati nel progetto, per trovare conferme e modificazioni. In questo modo il
progetto urbano diviene un progetto civile, non perché offerto alla civitas, ma perché costruito
anche da questa (nelle sue attuali configurazioni molecolari, anche conflittuali) attraverso un
esercizio di democrazia urbana, dove si rende trasparente la modalità con cui si fanno scelte che
riguardano costantemente la cosa comune. Perché solo così lo spazio della città diviene “più
pubblico”, non perché semplicemente offerto, ma perché rappresenta la risposta ad un problema da
condividere su cui ci si sia interrogati e la cui soluzione sia stata desiderata.

Se la definizione di Amirante, in sintesi, indica il cosa, destinato a modificarsi e definirsi lungo il


tempo del processo, quella di Armando intende suggerire il come: quindi, oltre ai temi, la necessità
che, nel percorso che porta ad una realizzazione, si definiscano le regole del gioco, si possano
identificare gli strumenti e nominare gli attori da fare partecipi. Pensiamo al ruolo decisivo delle
norme. Nei modi tradizionali il progetto non può che limitarsi ad interpretare la norma nei limiti che
essa stessa ha definito, secondo un iter lineare, mentre il percorso dialogico prevede modalità
circolari. Per definire norme processuali - quelle che, coinvolgendo i diversi soggetti, indicano le
regole del gioco per l’avanzare delle scelte - occorre che alcune modalità di elaborazione
progettuale precedano la definizione delle norme per esplorarne i contorni, le potenzialità, per
suscitare la domanda degli esiti possibili. Il percorso diviene, quindi: da forma a norma e, di nuovo,
a forma/forme. L’esplorazione di forme possibili serve, in questo modo, ad elaborare norme che
possano generare forme “desiderabili” aprendo ad una più stretta relazione tra la città delle “cose” e
il “sentire” dei soggetti che la abitano.
Entrambe le espressioni permettono di articolare la questione della forma in modo di superare la
concezione ingenua che ci sia una contrapposizione escludente tra opera compiuta e processo. Nel
processo, proprio per mezzo di una “forma della forma” o di una “forma dell’azione”, si producono
nel tempo opere. Anche opere compiute o programmaticamente incompiute, ma comunque
destinate ad entrare nel movimento continuo in cui i contesti si trasformano. Anzi, come stiamo
sostenendo, una forma, perfino con i provvisori caratteri della compiutezza, immessa nel processo
fin dall’inizio assume il compito non di concludere, ma di inaugurare un percorso in cui quella
forma – per la sua esattezza adattiva – si misura e incontra deviazioni con gli altri agenti del
processo. Mi sembra utile a questo proposito citare il campo di esplorazione della rivista Ardeth in
questi anni. Si occupa dei progetti come oggetti tecnici e sociali invece che, come avviene più
frequentemente nella pubblicistica di settore, degli autori e delle costruzioni. Per mezzo di quella
che si potrebbe chiamare una minorazione alla Carmelo Bene, sottrae la forma – il personaggio
chiave nella messa in scena – per far risaltare il ruolo delle altre parti nel processo. Così si porta allo
scoperto quanto quell’insieme anche incoerente di agenti (norme, soggetti, pratiche negoziali,
immaginari) sia, in un certo senso, coautore di un progetto, potremmo dire, inconsapevolmente
plurale. Un prodotto anche contraddittorio della società. Le parole chiave fin qui adottate – Bottega,
Money, Diritti – rappresentano quegli agenti che interagiscono in modo fondamentale con il
processo del progetto e il cui ruolo nel gioco del determinarsi di spazio o forma, in ogni numero,
viene esaminato da diverse angolazioni spesso strategicamente collocate su estremi opposti.
BARBIERI
Sempre più dobbiamo riconoscere che gli esiti di un progetto urbano, il carattere che assumerà un
luogo, è la risultante, non programmata linearmente, di una pluralità di azioni, interazioni ed effetti
collaterali in cui può emergere il valore delle differenze. Differenze che normalmente sono
trascurate nelle visioni dall’alto e omogeneizzanti del progetto autoriale. E’, invece, con
l’utilizzazione di pieghe e differenze (spaziali e sociali) che si può rispondere alla esigenza di
adattività della città contemporanea che richiede di essere progettata in quanto insieme plurale di
flussi e di cicli. E’ una esigenza che comporta la necessità di adottare una programmata
“incompletezza” come dato costitutivo della condizione urbana contemporanea. Sono opere
incomplete non in quanto residui abbandonati dal passato, ma perché vengono immesse nel tempo
come frammenti di futuro. Il procedimento è incrementale e dialogico, non istantaneo e autoritativo.
L’ammettere il ruolo del caso e la necessità di mantenere campi di voluta indeterminazione nel
progetto non elimina, ma conferma il compito per l’architetto di indicare ai diversi attori,
mettendole in discussione, le linee strategiche che potrebbero essere adottate per intervenire,
attraverso una interpretazione condivisa, nella modificazione della città. Penso alle opportunità che
potrebbero nascere se il potente sistema delle imprese di costruzione assumesse davvero quella
interpretazione dei contesti italiani – con le conseguenti strategie – presentata dal presidente
dell’ANCE Bia in un convegno Inarch dell’anno passato. Il presidente, nel dichiarare l’impegno
delle imprese italiane per la qualificazione e la riorganizzazione del territorio, proponendosi di
operare nel quadro di un generale intervento sull’esistente, senza consumo di suolo, ha posto la
questione: «la resistenza opposta dall’Italia alla concentrazione ‘megalopolitana’ è da considerarsi
un grave ritardo da colmare o un potenziale modello alternativo di organizzazione del territorio?»
E’ questo un modello che comporta una diversa concezione dei territori urbani, della loro
articolazione, della loro stessa forma nel rapporto con i grandi segni della geografia e della
morfologia dei luoghi, non solo negli spazi naturali e nelle campagne, ma anche nella trama dei
suoli trascurati su cui sono sorti gli insediamenti consolidati. Suoli cui attribuire il ruolo di prima e
fondamentale infrastruttura per un equilibrato metabolismo urbano.
Si tratta di combinare la trasformazione urbana con soluzioni architettoniche e non puramente
tecnologiche ai molteplici temi ambientali. Si può così rimettere in movimento una città,
immobilizzata dalla patrimonializzazione diffusa, donando ai contesti un nuovo spessore. Come per
il rischio di inondazione in alcune città, si adotta piuttosto che la semplice soluzione tecnologica
(paratie, nuovi argini) una visione più ampia dove entra in gioco la forma urbana in un nuovo
disegno dei suoli, che possono essere programmaticamente in parte invasi dalle acque realizzando,
nello stesso tempo, un nuovo complesso e diversificato spazio pubblico. É il caso del progetto
Dryline a New York o del lungofiume di Anversa.
Oppure finanziare trasformazioni radicali di parti urbane obsolete e problematiche utilizzando i
significativi risparmi annuali prodotti dagli interventi per ridurre il consumo di energia e
trasformare tali contesti anche in possibili distretti integrati di produzione, calcolato il numero di
anni necessario per l’ammortamento delle spese e per realizzare il ritorno economico degli
investimenti. Operando, cioè, mediante un ampliamento dell’attuale normativa sulle STU, le
Società di Trasformazione Urbana. Si connette in tal modo, il tema, sempre più condiviso e urgente,
di un adeguamento del patrimonio rispetto alle questioni energetiche e ambientali, con la possibilità
di realizzare, nella sua modificazione, una città più pubblica, più porosa e aperta, più accessibile.
Più bella. Si pensi, ad esempio, ai recenti progetti per Barcellona dove un innovativo uso dei vuoti –
le strade esistenti – viene proposto per la parte a scacchiera, dove, con la creazione di super-isolati,
può essere de-pavimentato il reticolo interno. Così una rete di vie verdi può incunearsi e ibridarsi
con l’interno delle corti offrendole alla città e migliorando bilancio energetico e il microclima.
Era completamente vuoto il padiglione della Gran Bretagna a Venezia. Rispondeva così, in modo
esemplare, al tema proposto dalla Biennale di architettura del 2018: freespace. Spazio libero. In questo
caso uno spazio liberato. Programmaticamente in attesa dei corpi, delle voci, del respiro e del movimento
della vita. Le impalcature destinate a scomparire che lo circondavano, ne rappresentavano il compito
effimero. Un’opera reversibile destinata a modificarsi fino ad annullarsi. Servivano quelle impalcature a
sorreggere la sovrastante piazza pensile, dove quella zattera- isola permetteva allo sguardo dei visitatori, lì
saliti, di collegarsi a Venezia, alla laguna, al mondo.
Ci indica qualcosa questa installazione su quali possano essere il ruolo e gli strumenti di un progetto che
voglia concorrere a realizzare territori-città aperti?
Queste le azioni principali lì messe in campo: una sottrazione (la creazione di un vuoto, di uno spazio in
attesa, indeterminato); un ispessimento dell’esistente con la creazione, in un altro livello, di un nuovo suolo
offerto al pubblico (la terrazza); una infrastruttura per l’accesso (la grande scala), nel carattere anti-
monumentale e precario che sta caratterizzando la ricerca contemporanea dell’arte. «Ma gli anti-
monumenti sono soprattutto altro. Sono dispositivi che invitano a riflettere su una diversa idea di tempo
(…) Non vogliono fare resistenza al flusso della vita, ma vogliono collaborare con esso» (Trione 2019, p.40).
Nella nuova condizione metropolitana la sottrazione, come l’ispessimento, si oppongono alla pervasiva
patrimonializzazione dell’esistente, immobilizzato in una indefinita durata, reintroducendo il tempo nella
costruzione della città. Comportano la formulazione di un giudizio che scuote il tranquillo e automatico
fluire e accumularsi dell’emporio della contemporaneità, aprendo uno spazio e un tempo di confronto e
conflitto. Mentre il ruolo di una infrastruttura, va inteso nel senso più ampio di attivazione dei contesti e di
costruzione di luoghi. In questo senso il progetto di una infrastruttura per la mobilità sarà sempre progetto
di territorio e non soluzione settoriale del governo dei flussi. Una strada, così, non assicura soltanto
l’accessibilità. E’ ben più che un esteso manufatto: è attraverso di essa che si costruisce una diversa forma
mentale della città.
Occorre allora considerare il progetto non, come ora, una mera e circoscritta prestazione di servizio,
orientato esclusivamente alla realizzazione di un prodotto. Il progetto è, invece, prima di tutto, un mezzo
per esplorare il mondo; un procedimento conoscitivo di un aperto campo problematico di investigazione di
cui esso stesso, in quanto sintesi di critica dell’esistente e visione di alternative di futuro, costituisce il
primario strumento a servizio della collettività per decidere sulle trasformazioni dell’abitare.
Ma questo comporta la necessità di operare per la costruzione di sistemi relazionali che comprendano non
solo i tradizionali oggetti architettonici, ma un insieme variegato di altri componenti e, soprattutto, il suolo
stesso, nella sua forma, nel suo spessore e nella sua tridimensionalità, nelle vene nascoste dei flussi, come
la fondamentale infrastruttura che, per la sua stessa capacità di mutare e mescolarsi, garantisce il
metabolismo della città: non al fine di pervenire ad un consolatorio nuovo paesaggio, ma per consentire
una efficace dinamica del rapporto tra spazi e modificazione dei paesaggi sociali che possa esplicitarsi come
esercizio di democrazia urbana. Una idea di nuovo spazio pubblico non semplicemente elargito, ma di cui
appropriarsi nel tempo pubblico delle decisioni
Per questo bisogna utilizzare progetti tentativi. Tentative in inglese significa provvisorio, incerto, dubbioso.
Di progetto tentativo parlava De Carlo nel 1995 non solo perché la realizzazione di una architettura si
ottiene in un percorso, attraverso più prove e verifiche, in cui la qualità dei risultati dipende dalle modalità
aperte e da condividere in cui si prendono le decisioni, ma anche perché il progetto deve mettere in
tentazione la situazione con la quale si confronta. Una tentazione indispensabile per attivare i contesti e
spingerli, attraverso la proposta di forme alternative alla produzione banale ed automatica della città, ad
una interrogazione che costringa i diversi soggetti a prendere posizione e ad effettuare consapevolmente
una scelta. La qualità del processo corrisponde, quindi, alla possibilità di mettere in gioco e rendere
possibile il confronto tra diverse ipotesi ed alternative. In questa direzione, allora, può divenire realmente
complesso lo spazio contemporaneo, perché si rompe il processo lineare delle decisioni – segmentato in
modo separato – e si apre un contradditorio ed anche una contrapposizione tra diverse razionalità che, nel
dialogo e nella mescolanza, potranno formare la città.

III. I temi e la forma

Gli Hackeschen Höfe a Berlino. Sono otto cortili del 1904, ristrutturati dopo la caduta del muro, cui si accede
da più punti, con negozi, cinema, caffetterie: luoghi intrecciati con le residenze e pieni di vita nelle sere
berlinesi. A Barcellona un innovativo uso dei vuoti – le strade esistenti – viene proposto per la parte a
scacchiera, dove, con la creazione di super-isolati, può essere de-pavimentato il reticolo interno. Così una
rete di vie verdi può incunearsi e ibridarsi con l’interno delle corti offrendole alla città e migliorando
bilancio energetico e il microclima.
Sono esperienze che danno risposta ad un tema comune: aprire i recinti. Recinti che devono tramutarsi in
soglie attraversabili. Soglie che non negano la dialettica necessaria tra trasparenza e opacità, così che non
vengano meno le differenze, ma in grado di moltiplicare i flussi e le occasioni dell’incontro. Perché la
torbida confusione metropolitana – non quella del sovrumano caos pietrificato, ma quella, più subdola,
dove tutto finisce per assomigliarsi in serie indistinguibili – deve essere tramutata in una chiarezza
labirintica, l’ossimoro di Van Eyck: un arabesco percorribile.
Nel progetto per la Neue Staatgalerie di Stoccarda di Stirling e Wilford, la trasformazione della rotonda in
una piazza scoperta fa sì, «che l’edificio manifesti la sua vocazione di crocevia urbano» (Martì Aris 1996,
pp.165,166). Una concezione più porosa della forma urbana che troviamo anche nella miriade di patrimoni
abbandonati e occupati per farne incubatori di creatività, con mixité d’uso programmaticamente aperte e
promiscue, come a Roma il Maam o le industrie dismesse di Pietralata. Qui il tema comune è, quindi,
generare una città più pubblica. Perseguire, cioè, l’obiettivo di utilizzare ogni occasione per aggiungere agli
istituzionali spazi pubblici (oggi frequentemente sottoutilizzati) quelli che, in una concezione più aperta
della città, Leatherbarrow ha definito “spazi del terzo tipo”, «perché nascono all’intersezione tra spazi
privati e spazi pubblici. Degli ibridi dove si confondono altre distinzioni consuete: sono edificio, ma anche
città; sono interni, ma pure esterni» (Bilò 2014, p.11).
La High Line a Manhattan costruisce un nuovo suolo e offre un inedito sguardo con cui si rimisura la
metropoli; a Londra i Barber Architects in base ad indicazioni anti-zoning suggerite dalla Urban Task force
diretta da Rogers, densificano con aggiunte il Donnybrook Quarter cambiandone forma ed uso; a Roma si è
pensato di intervenire in TBM con la immissione nell’immenso spazio aperto sottoutilizzato di outils –
condensatori multiuso di forma – che alterano la monumentalità assertiva del complesso anche con
l’apertura dei piani terreni per realizzare una continuità dei flussi. Si affronta così il tema generale di
ispessire la città. Con demolizioni e aggiunte. Per rimettere in movimento una città ferma nelle sue
contraddizioni e nei suoi errori. Perché la città contemporanea è una città che non possiede più lo spessore,
spaziale e valoriale, che il tempo induceva in quanto materiale che costruisce la città. Manca, cioè, quella
qualità che si genera se la sua modificazione continua si attua nel confronto e anche nel conflitto in un
trasparente rapporto tra vita e insediamenti,

Sono tre temi generali, tra loro interconnessi, che rappresentano un riferimento indispensabile – l’obiettivo
guida – di ogni intervento che intenda costruire una città aperta. Come si vede possono essere declinati con
forme molto diverse che, però, tutte realizzano il mandato implicito di espandere l’occasione del progetto
fino a divenire una risposta ad una più ampia questione urbana e sociale secondo una innovativa
concezione degli spazi della città.
Questo appare, dunque, il primo indispensabile valore aggiunto che la forma deve garantire: la riduzione
del protagonismo del singolo oggetto a favore della sua capacità di modificare ed attivare i contesti. Un
obiettivo che comporta una tendenziale inversione del rapporto tra oggetto e sfondo. Per cui assumono un
valore primario i vuoti e i suoli, la loro possibile moltiplicazione, il metabolismo virtuoso che possono
assicurare ai cicli di vita della città contemporanea.
Ma un esercizio strategico della forma deve assumere un altro fondamentale compito nel contribuire a
costruire in anticipo, per suo mezzo, la indispensabile percezione delle alternative tra i diversi itinerari di
scelta. Per questo è necessario che la forma compaia, non, come ora avviene, alla conclusione delle
procedure di varo degli interventi sulla città. Ma piuttosto all’inizio. Perché così si possa realizzare quanto
scrive a proposito di partecipazione alle scelte urbane Sennet: cooperation not condivision. Non soltanto
avere la possibilità di condividere le varie risposte alternative ad una domanda prefissata, ma, più
radicalmente, operare insieme in un percorso in cui si possa anche riformulare una domanda, consapevoli,
fin dal principio, che ogni scelta avrà per conseguenza una diversa forma dell’abitare.
In questi processi dialogici le forme devono essere, perciò, insieme, esatte e adattive. Devono utilizzare una
strategia duale che coniughi precisione e indeterminatezza per proiettare nella mescolanza del tempo una
visione di futuro che si deve poter avverare in modi diversi. Si deve attribuire, quindi, al progetto il compito
di esplorare campi di possibilità piuttosto che, linearmente, realizzare una previsione. In questo modo, in
un processo dialogico circolare, “indeterminato” assume il significato di possibile, non guidato dall'alto,
autorganizzato, spontaneo» (Corbellini 2002, p.75).
E’ una idea di forma che non prescrive un esito, ma inaugura un processo. Le architetture e gli spazi
prefigurati sono da intendere, quindi, come dispositivi, aperti non solo alla variabilità dell’uso, ma anche
alla disponibilità ad un mutamento della loro fisica consistenza: fino ad ammettere aggiunte, distruzioni e le
possibili ricostruzioni.
«Per il suo contenuto, per le questioni poste dalla diversità, per la necessità di conservarla – o di favorirne
la dinamica – il Terzo paesaggio acquista una dimensione politica». Quest’affermazione di Clément (2005,
p.25) su una idea di paesaggio il cui carattere indeciso individua una peculiare modalità con cui si genera
una positiva interferenza nell’ordine apparente con cui un immaginario globale sembra costruire un mondo,
apparentemente, levigato e senza pieghe.
E’, invece, con l’utilizzazione di pieghe e differenze – spaziali e sociali – che si può rispondere alla esigenza
di adattività della città contemporanea che richiede di essere progettata in quanto insieme plurale di flussi
e di cicli. Una esigenza che comporta la necessità di adottare una programmata incompletezza come dato
costitutivo della condizione urbana contemporanea. Sono opere incomplete non in quanto residui
abbandonati dal passato, ma perché vengono immesse nel tempo come frammenti di futuro. Permettono
di innescare nuove organizzazioni dei contesti in una visione strategica di trame di invarianti e varianti da
concretizzare in una successione di diverse azioni da scegliere e completare nel tempo. Il procedimento è
incrementale e dialogico, non istantaneo e autoritativo.
Sono visioni coerenti con gli ambigui connotati dello spazio-tempo della contemporaneità che implicano il
passare da un orizzonte di conciliazione e compiutezza, proprio del pensiero moderno, ad una
interpretazione relazionale, sistemica e strutturalmente instabile in cui si muovono incessantemente opere
e contesti.
E’ questa una concezione «dinamica, inclusiva, aperta, ma si differenzia da quella organicista od olistica
poiché alla convinzione che il tutto sia più della somma delle parti, aggiunge la persuasione che la
concorrenza di più fattori nella determinazione di un fenomeno o nella elaborazione di una concezione non
implichi la conciliazione e la sintesi. L’irriducibilità dunque dei fattori a unità è garanzia dello sviluppo,
l’incertezza garanzia della ricerca, l’instabilità garanzia della possibilità. L’autentica comprensione delle cose
consiste nel tenere insieme e non nella riduzione all’unità» (Secchi 2010, p.37).
Potremmo, allora, accettando questa sfida, utilizzare strategicamente la forma, per ribaltare la condizione
descritta da Anders (1995 p.241) «Siamo utopisti invertiti, mentre gli utopisti non possono produrre ciò che
immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo»
- 4 Forma
Il quadro che emerge dalle innovazioni nel campo energetico, dalla modificazione dei cicli
dell’economia, dalla necessaria universalizzazione del diritto alla città e alla terra, avvalora una
concezione del progetto dello spazio come strumento di conoscenza invece che quale semplice
struttura performativa. Richiede, piuttosto che l’affermazione assertiva della forma – come nel
progetto autoriale, lineare e scalare – una sua utilizzazione strategica in un innovativo processo
dialogico e circolare, per individuare e condividere i principali temi o le figure che devono
alimentare nuovi immaginari in cui il coacervo molecolare dei materiali urbani viene trasformato in
possibili insiemi di relazioni, evocando diverse categorie di spazi comuni dentro un progetto di
futuro. Forme che hanno il compito di mostrare le alternative alla riproduzione automatica della
città, indicando, in un percorso argomentativo necessariamente plurale, le configurazioni che, con
gradi programmati di indeterminatezza o incompletezza, potranno precisarsi nel mutare del tempo.
In una chiave prettamente ecologica vuol dire sostituire il gettarsi avanti del progetto con un più
ampio e responsabile percorso che, attraverso “l’ascolto” dell’esistente, raccoglie la realtà nelle sue
plurime dimensioni materiali ed immateriali per comprenderla e poterla ricollocare.
Il progetto assume così il compito di assicurare non solo il funzionamento, ma anche il senso di un
rinnovato rapporto con la terra. È un rapporto da ricostruire in due concomitanti direzioni: da un
lato, la terra come Ctòn, come fondamentale e complessa infrastruttura, progettata nella sua
tridimensionalità e nel suo spessore, destinata ad assicurare la qualità dell’abitare, offrendo
strumenti per far fronte ai diversi rischi globali: dai mutamenti climatici alle varie emergenze
naturali o socioeconomiche. Dall’altro la stessa terra (quale Gea: la faccia della terra, il “mantello
della terra” con le sue infinite pieghe) quale forma, e come matrice di forma. Così l’attivazione
energetica dei territori urbani diviene l’occasione per passare da un sistema di misure – il solo
controllo metrico dello spazio – ad un mobile sistema di valori da condividere nei nuovi paesaggi
multiformi dell’abitare.

Lo spazio pubblico contemporaneo ğ composto dalla pluralità del mondo sociale, una molttudine di identtà
che atendono una legitmazione e un “posto sociale”. Come scrive C. Bianchet “sono le identtà, oggi, non piƶ
le convinzioni, ad occupare lo spazio pubblico”8 e, se le convinzioni intese come espressioni politche sono
fruto di un’argomentazione dialetca, di una contratazione che passa anche atraverso il contrasto e la
rivendicazione, la volontà di costruire a tut i cost uno spazio “paciĮcato” conduce a una sempliĮcazione dei
contrast e a una pedita del senso sociale dello spazio pubblico, una visione a cui il progeto dovrebbe
sotrarsi…La condizione di “presente esteso” e di simultaneità ha determinato un nuovo paradigma della
coppia pubblicoprivato. I tempi della sfera pubblica e di Ƌuella privata, cosŞ come i contorni dei luoghi dove
si svolge la vita pubblica e Ƌuelli in cui si dispiega la vita privata, sono mobili e di volta ϴ L’ALTRA CITTÀ //
capitolo 1 // MISSING PUBLIC SPACE in volta ibridat. L’indissolubile legame tra lo spazio Įsico e lo spazio
sociale, proprio della società preͲindustriale in cui, lo spazio dell’esperienza colletva era temporalmente
deĮnito, ha lasciato il posto alla frammentazione che ci induce a rideĮnire costantemente le nostre relazioni
tra spazio e tempo. Yuesta condizione puž essere leta soto un duplice aspeto. Da una parte come la
possibilità dirinegoziare tempi e spazi in una logica inclusiva e condivisa resa possibile anche grazie
all’utlizzo delle ICT, dall’altra come il perdurare di una condizione di presente contnuo e mobile che
governa e indirizza ogni esperienza colletva privandola dei suoi carateri identtari…..Per Bauman, nella
società liƋuida non esiste spazio pubblico perchĠ si ğ persa la relazione lineare tra spazio e tempo e, in
Ƌuesta contnua accelerazione e frammentazione, l’individuo ğ in grado di ritrovare il senso di una comunità
solo atraverso l’espressione di “paure pubbliche” fruto di una società del controllo fondata sull’incertezza.
I….“l’isttuzione rappresentatva e potente” di cui parla Bauman non potrà essereomogenea e fondata sul
consenso,ma un’isttuzione plurale e incompiuta, caraterizzata dalle diīerenze piutosto che dalle uniformità.
Vedremo come Ƌuest’isttuzione nuova possa trovare terreno di sperimentazione nello spazio pubblico. Lo
spazio pubblico ğ allora anche il luogo delle rappresentanze, delle memorie e identtà colletve, intendendo
per memoria un fenomeno dinamico che, come espresso da M. Halbwachs nella sua deoria della memoria
colleƫva14, ğ un processo che si atva nel presente in funzione dei bisogni e degli interessi
dell’oggi……..Yuello che invece ci interessa indagare ğ se la complessità sociale e la molteplicità dei gruppi
che contraddistngue la condizione contemporanea, possa generare memorie colleƫve estranee alla cultura
dominante. Yuesta opportunità, piƶ volte espressa da Halbwachs, nasconde le molte insidie esplicitate
precedentemente, che prendono corpo proprio sul terreno fragile dello spazio pubblico…….gli sƋuilibri e le
spinte degli interessi economici e speculatvi e che hanno visto l’arretrare del pubblico di fronte
all’impossibilità di gestre e dare nuovo impulso ai luoghi del vivere colletvo. Lo spazio pubblico, inteso
tradizionalmente, le piazze, le strade, i parchi, gli ediĮci, sono fragili, spesso abbandonat18, ridot a fetccio di
un’idea di cosa pubblica meramente burocratca e legislatva…….ha visto la nascita di nuove strategie
progetuali ate a ripensare lo spazio pubblico come luogo relazionale, luogo dell’esperienza sociale
all’interno della scena urbana. Nuove strategie che hanno generato una pluralità di proget anche di respiro
europeo, conceto di bene comune che, partendo da Tommaso D’AƋuino, atraversa tuto il 9͚ ϬϬ con le teorie
di Garret Hardin (19ϲϴ) ed Elinor Ostrom19 (199Ϭ), Pubblico appartiene al popolo invece : ğ per noi
interessante rilevare come il conceto di bene comune travalichi la dicotomia pubblico ͬ privato per delineare
un bene colletvo e necessario a tutt.i

La società hrban ^pace Management23, ad esempio, nata a Londra nel 197Ϭ, si occupa dello sviluppo di
proget per la valorizzazione di ediĮci e spazi dismessi favorendo l’incontro tra domanda e oīerta per la
fruizione colletva e per la riatvazione creatva di part di cità 13 L’ALTRA CITTÀ // capitolo 1 // MISSING
PUBLIC SPACE di proprietà sia pubblica che privata…Il progeto “Roof East”24, partto nel 2Ϭ1ϯ, ha visto il
riutlizzo di un parcheggio privato sul teto di un ediĮcio di
otopianiaccantoallaStraƞordStaton.Iltetoğstatotrasformato in un parco, un rifugio urbano che ospita un
cinema all’aperto, un baremolteatvitàproposteda associazioniecitadini.Atraverso una campagna di
croǁfunding25 sulla piataforma americana……..Gli spazi comuni sono i luoghi in cui si rappresenta un nuovo
modello di cità, proatva, temporanea, reversibile, eterogenea in cui l’impegno sociale e la vocazione
commerciale, i luoghi del domestco e del pubblico, il tempo libero e Ƌuello del lavoro si mescolano. In
Ƌuesto scenario lo spazio del progeto architetonico ğ spesso ridoto ai minimi termini perchĠ i tempi sono
compressi e variabili e le modalità mutevoli e diversiĮcate. Un’architetura a grado “Ƌuasi zero” come
“Container City”26: piƶ che un progeto ğ un processo progetuale a marchio registrato di USM partto nel
2ϬϬϬ che, atraverso il riutlizzo e la trasformazione di container industriali, ha realizzato scuole, abitazioni,
atelier, uĸci, spazi di vendita

Il dato evidente ğ che, i processi di progetazione dello spazio pubblico non potranno esclusivamente
essere aĸdat alle rigide gerarchie delle isttuzioni statali. La rappresentazione della complessità sociale
necessita di una gestone dinamica basata su rapport di cooperazione e reciprocità tra diversi sogget. Il
dibatto aperto su Ƌuali intervent di iniziatva privata siano legitmat ad intervenire sullo spazio pubblico,
con il pericolo di trasformare lo spazio pubblico in spazio ad accessibilità pubblica, puž essere superato
pensando a forme di cooperazione in cui i citadini si costtuiscono in forme associatve paritarie
collaborandoconl’amministrazionepubblicaegliinvesttoriprivat
Ne sono un caso i “BID” (business improvement district) modelli di gestone mist, nat in Nord America, ma
diīusi oramai in tuto il mondo, in cui i proprietari di immobili e atvità commerciali adiacent uno spazio
pubblico si occupano, a proprie spese, di gestrne la riƋualiĮcazione, la manutenzione, il controllo, il
marketng locale e l’aĸdamento delle atvità commerciali…..Come evidenzia Giovanni Semi nell’artcolo ^e il
privato gesƟsce una piazza, la gestone privatstca degli spazi pubblici sotende il pericolo di creare
“microͲterritori in competzione tra loro”29 e di lasciare indietro Ƌuelle aree meno atratve, a Įni
economici, delle cità…

Come scrive il Įlosofo spagnolo Daniel Innerarity nel capitolo conclusivo del suo /l nuovo spazio pubblico
“tuta la cooperazione possibile in mezzo alla minima gerarchia necessaria”30

Il campo illimitato delle possibili interazioni del web produce, di fato, comunità e gruppi che si riconoscono
in un determinato spazio sociale. E se, agli albori dell’epopea informatca si pensava che l’uomo avrebbe
abbandonato il corpo e lo spazio Įsico per abitare spazi percorsi da Ňussi di informazioni, ciž che possiamo
constatare oggi ğ che la spinta atuale ğ Ƌuella di trovare una traduzione nello spazio Įsico delle polisemie
present nello spazio informatco. In sostanza si chiede ai luoghi e agli spazi 1ϴ L’ALTRA CITTÀ // capitolo 1 //
MISSING PUBLIC SPACE delle nostre cità di accogliere le socialità espresse da Ƌuello che Castells chiama lo
spazio dei Ňussi, ovvero “l’organizzazione materiale delle pratche sociali di condivisione del tempo che
operanomediante Ňussi”34. Castellsindividua tre strat combinat che insieme struturano lo spazio dei Ňussi:
l’infrastrutura tecnologica che costtuisce la rete di scambio delle informazioni che ha una sua forma
spaziale, i nodi e snodi ovvero luoghi speciĮci collegat e scambio della rete organizzat con una gerarchia
mobile e dipendente dalle atvità che passano dalla rete e il terzo strato rappresentato da Ƌuella che il
sociologo catalano chiama “elitĠ manageriale dominante”, ma che Ƌui tradurremo con staŬeholder35
ovvero “portatori di interessi” sogget esterni che inŇuenzano e determinano la riuscita di un progeto.

Per resttuire forza allo spazio pubblico sarà necessario recuperare Ƌuello che, nel mondo anglosassone,
viene chiamato loose space, ovvero lo spazio slegato, libero, sciolto da pratche stretamente
regolamentate……Uno spazio pubblico freƋuentato e vissuto ğ alla base delle idee espresse negli Urban
Villagers e dai sostenitori della Ϯϰ ,our CitLJ che “fondano la propria azione nella messa in ato di strategie di
freƋuentazione dello spazio pubblico, capace di infondere sicurezza e di produrre nel medio periodo anche
la diminuzione dei reat spaziali per eīeto della sorveglianza naturale e dei circoli virtuosi di integrazione e
mediazione dei conŇit che si possono generare”42…Per calare il discorso sul terreno della pratca
progetuale ğ necessario restringere il campo indagando Ƌuelle part della cità che presentano un humus
adato ad accogliere strategie innovatve e processi sperimentali di costruzione dello spazio pubblico...

Il centrostoricodelle cità europeeha subitoundepauperamento del senso dello spazio pubblico,


necrotzzato dai Ňussi turistci e da dinamiche escludent. Lo spazio pubblico dei centri storici, anche
guardando a esempi riuscit, rispecchia un immaginario consolidato e rassicurante che tende a smorzare o
nascondere i conŇit e a espellere Ƌualsiasi uso non codiĮcato. Con la dilatazione e frammentazione dei
conĮni spaziali e temporali ğ entrato in crisi l’assunto secondo il Ƌuale “il centro costtuisca, anche oggi, il
luogo piƶ rappresentatvo della cità”45…….ione di Innerarity “La periferia risulta sempre piƶ atraente”46.

Riprendendo la doppia letura di Bellicini sulla periferia italiana, “la periferia ğ il luogo senza forma in cui il
disegno e il piano sono già, nei tempi, sconĮt”, ma allo stesso tempo ğ il luogo in cui “trovarsi in presenza di
un insieme composto da numerosissimi dialoghi impossibili tra linguaggi diversi ai Ƌuali ğ impossibile
rinunciare”47

Per Ƌueste ragioni molt dei proget di spazio pubblico presi ad esempio nella dissertazione sono localizzat
nei contest periferici delle cità europee, laddove ğ ancora possibile dare voce a Ƌuella pluralità di
linguaggi che conĮgurano la cità contemporanea. Spesso si trata di contest complessi con un tessuto
sociale in evoluzione che sirimodella in funzione dei Ňussi migratori: Ƌuarteri pianiĮcat e realizzat in freta
per far fronte all’emergenza abitatva o sort piƶ o meno spontaneamente man mano che il fenomeno
della gentriĮcaƟon allontanava dai centri delle cità le classi meno abbient ͖ aree frammentate dove
l’azione progetuale non puž esplicarsi se non con una strategia diīusa, sia spazialmente che
temporalmente, struturando un’ossatura pubblica supportata da un sistema di relazioni capaci di
consolidare il senso di comunità e mantenere vivo il caratere di “mobilitazione”48 che ne caraterizza il
tessuto sociale.

Yuesta posizione trova, negli scrit del Įlosofo francese etienne Balibar, una posizione tuta versata sulla
antnomia tra citadinanza e democrazia, che, piutosto che essere due facce della stessa medaglia, sono due
principi contrappost che solo atraverso il costante esercizio dialetco costruiscono lo spazio comune

La “Carta di Lipsia”, Įrmata dai Ministri responsabili dello sviluppo urbano degli Stat membri, rappresenta
un passaggio importante nelle politche di sviluppo urbano integrato per molt motvi. In primo luogo perchĠ
l’invito, espresso piƶ volte nel documento, ğ Ƌuello di “coinvolgere i citadini e gli altri partner che possono
contribuire sostanzialmente a determinare la futura Ƌualità economica, sociale, culturale ed ambientale di
ogni area.”12, individuando nel coinvolgimento della citadinanza, che nella Conferenza di Aalborg era
meramente consultva, un apporto sostanziale ed atvo alla creazione di una Ƌualità urbana sostenibile.

(I progetti URBAN)

3.1 Top-down e botom-up Yuanto Įn Ƌui analizzato ci porta ad evidenziare come vi sia, anche da parte degli
organi isttuzionali, una sempre maggiore consapevolezza che lo spazio pubblico non sia piƶ il luogo di
rappresentazione di un mandato politco, nĠ la testmonianza dell’infallibilità di un sistema economico e
culturale, ma rappresent piutosto il luogo dove sperimentare nuovi modelli sociali e gestonali. Il luogo dove
metere in crisi1 strument e prassi consolidate, dove avviare una riŇessione sulla fallibilità di azioni “calate
dall’alto”. Yuesta attudine si riŇete anche nella progetazione degli spazi pubblici che hanno “pagato” la
debolezza di proget aĸdat, molto spesso, alla sola capacità del progetsta di mediare, atraverso il disegno, le
conŇitualità e le complessità di natura sociale, culturale, economica e politca. Sembra sia avvenuto un
rovesciamento di ruoli ͖ se infat Įno a vent’anni fa lo spazio pubblico rappresentava la manifestazione di un
indirizzo politco, oggi ğ lo spazio pubblico il luogo dove prendono vita le istanze che inŇuenzeranno gli
indirizzi politci. Un rovesciamento che potremmo deĮnire, utlizzando il lessico informatco, da top down a
botom up2 .

Tra gli esempi di progetazione botom up troviamo il lavoro dello studio spagnolo cosistema hrbano che
nel progeto per la “Piazza Stortorget” a Hamar in Norvegia, ha coinvolto l’intera citadinanza struturando,
anche grazie all’uso delle ICT, un network tra i diversi interlocutori…... Temi Ƌuali la disuguaglianza, la
sostenibilità, l’insicurezza, la segregazione, i dirit umani,scelt da Aleũandro Aravena, curatore della Biennale
veneziana, entrano costantemente nell’azione progetuale, e presa la consapevolezza della fallibilità degli
strument del passato, ğ necessario ripensare i modelli di intervento atraverso azioni multdisciplinari,
partecipate e condivise

Numerose sono le modalità, molte delle Ƌuali nate in ambito anglosassone, con cui struturare il percorso
partecipatvo. AcƟon Wlanning, AppreciaƟve /nƋuirLJ, Kpen ^pace dechnologLJ, Wlanning for Zeal, ^earch
Conference28, sono solo alcune delle tecniche di “avvicinamento” e gestone del processo partecipatvo che,
anche in Italia, si stanno diīondendo, e molt sono i gruppi che lavorano da anni professionalmente in Ƌuesto
campo collaborando con le isttuzioni e le amministrazioni locali.

Un caso emblematco ğ il “Parco Superkilen” a Copenaghen, uno dei pochi parchi urbani ad avere una
pagina &acebooŬ dedicata e gestta dai volontari che organizzano atvità e promuovono il progeto, tanto che
la visita a Superkilen ğ diventata una delle atrazioni turistche per la cità. …Molt studi professionali italiani
che operano in Ƌuesto setore si stanno struturando con maggiore incisività come i torinesi di Avventura
hrbana, i cagliaritani di Woliste, la fondazione milanese 'erardo de Luzenberger ʹ 'enius loci o i piƶ giovani
romani di ^otovuoƟ e /nterazioni hrbane, solo per citarne alcuni. Anche le università stanno introducendo
corsi per la formazione di secondo livello sui processi partecipatvi, come lo IUAV di Venezia con il corso di
perfezionamento “Azione locale partecipata e sviluppo urbano sostenibile”, il corso interfacoltà della
Sapienza “Analisi sociale e progetazione territoriale”, o lo spin Ͳoī MC, dell’Università di Firenze. Il
panorama italiano si sta, lentamente, struturando, ma la piena consapevolezza che il campo della
partecipazione sia un’occasione, sia in termini professionali che per migliorare l’azione progetuale, stenta a
prendere forma…..Un esempio utle ğ il caso del gruppo newyorkese Wroũect for Wublic ^paces (PPS)31 che
dal 1975 lavora nella progetazione deglispazi pubblici con la pratca del WlacemaŬing, leteralmente
“creazione del luogo”, un processo che si basa sull’interazione tra progetst e citadini per la realizzazione di
luoghi pubblici in cità di tuto il mondo……E’sintomatco che nei proget di WW^ cisia pochissimo “disegno” o
meglio che, la formalizzazione del progeto, sia spesso ridota a pochi element convenzionali ͖ panchine
colorate, gazebo, parterre a verde o minerali in semplici seƋuenze geometriche e, volendo avanzare una
critca all’approccio WlacemaŬing, potremmo dire che Ƌuella “visionarietà” prospetata nei suoi punt
programmatci viene in gran parte disatesa. O meglio, ciž che viene eluso ğ il valore simbolico dello spazio
pubblico, Ƌuella componente di “innovazione estraniante” che rende un luogo riconoscibile ed aīetvo anche
aldilà dell’uso, Ƌuella peculiarità intrinseca che fa sŞ che rimanga impresso nella memoria delle persone e
della cità. Negli spazi pubblici di WW^ si va per fare Ƌualcosa, sono luoghi vissut e non, anche, immaginat.

Tra le molte esperienze di communitLJ, “Civictise” ğ tra le piƶ interessant proprio per la capacità di utlizzare
gli strument oīert dal web per promuovere azioni locali, “Civictise pensa digitale e agisce spazialmente”, e
per sperimentare un modello di governance non gerarchico, ma distribuito e riconĮgurabile a seconda dei
proget……

Temporaneo non ğ eĸmero, non ğ precario, non ğ aleatorio, ma ğ inteso come strumento per ricostruire,
atraverso azioni ϴϲ L’ALTRA CITTÀ // capitolo 4 // TATTICHE URBANE E AZIONI BOTTOM UP reversibili,
botom up e a budget ridoto, un’urbanità dispersa nelle maglie della frammentazione semantca della cità
contemporanea.

Soto Ƌueste sollecitazioni le isttuzioni stanno, lentamente, introducendo la temporaneità nelle politche
pubbliche della cità favorendo la nascita di proget temporanei ed informali all’interno di processi di
rigenerazione urbana di piƶ lunga durata. Ne sono un esempio, il progeto “Einfach Ͳ Mehrfach”,
leteralmente “semplice e multplo”, promosso dall’amministrazione comunale di Vienna, che facilita l’uso
ibrido e temporaneo di aree incolte o ediĮci dismessi ͬ sotoutlizzat sia di proprietà pubblica che privata,
oppure la piataforma Broedplaatsen isttuita dal comune di Amsterdam su sollecitazione di un comitato di
citadini, che da oltre 15 anni, fa incontrare la domanda e l’oīerta, oīrendo garanzie pubbliche perl’accesso al
credito agevolato e fornendo supporto e consulenza per tuto l’iter progetuale ed amministratvo.

Lo spazio pubblico diventa allora il luogo dove le comunità, Ňutuant e spesso conŇiggent, ritrovano uno
scenario di confronto e di mediazione per costruire uno scenario condiviso e da condividere. Come scrive
:an Liesegang del gruppo dei Raumlaborbelin “Lo spazio pubblico ğ diventato una piataforma di
partecipazione sociale per sperimentare nuove idee di comunità. Usi temporanei, informali e intermedi,
iniziatve di appropriazione e proget sperimentali di progetazione open source sono sort dalla necessità di
nuovi spazi urbani, spingendo a livello globale lo sviluppo di un nuovo panorama sperimentale di possibilità
urbane”7

“Park (ing) Day” ğ un progeto open source ideato da Rebar group che, ogni anno, per un giorno,
trasforma i parcheggi a pagamento in spazi pubblici. Pagando la tariīa oraria, gruppi spontanei di
persone, sparse in tuto il mondo, colonizzano ed allestscono per poche ore lo spazio del parcheggio,
resttuendolo ai citadini e svelando l’incongruenza dell’utlizzo degli spazi delle nostre cità.
L’obietvoğƋuellodisensibilizzarei citadinieleamministrazioni sull’uso dello spazio pubblico e mostrare
come, atraverso semplici azioni, la cità possa divenire un luogo accogliente, vivace e creatvo. L’adesione
al progeto avviene atraverso una piataforma onͲline dove i partecipant possono iscriversi e inserire
ilproprioprogeto,scaricare imaterialidi comunicazione e il manuale di progetazione, scambiarsi
esperienze e conoscenze, creare gruppi informali per la realizzazione del Park(ing) e per sviluppare proget
futuri.

“L’architetura non ğ intesa come un oggeto, ma piutosto come una storia, uno strato della storia del
luogo.”43, e Ƌuesta stratĮcazione narratva inizia ancora prima del progeto.

Raumlaborberlin ğ una rete, un colletvo di oto architet con sede a Berlino che opera tra architetura,
urbanistca, arte e intervento urbano. Il loro lavoro ğ rivolto alla riatvazione degli spazi abbandonat o in
transizione con un’attudine alla riƋualiĮcazione urbana intesa come processo. In tut i loro proget
collaborano con le ret e gli atori locali atraverso pratche sul campo, autocostruzioni ed analisi degli usi dello
spazio e delle pratche spontanee.

Cinque condizioni “periferiche”

1- Aree interne e metropoli piccole


Due apparenti e collegati ossimori. Aree interne ma, nello stesso tempo, esterne alle grandi
centralità dei territori. Metropoli perché il loro spazio è vissuto in modo metropolitano, ma della
metropoli non possiedono né le attrezzature né la consapevolezza di tale condizione.

2- Periurbano: la città informale

3- Periurbano: la città progettata

4- La città compatta della speculazione

5- La città storica

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