Sei sulla pagina 1di 7

STILE DI VITA PITAGORICO

Salvatore Mongiardo

STILE DI VITA PITAGORICO


Lectio magistralis per l’Accademia Medica Pitagorica
Crotone, Lido degli Scogli, 7 dicembre 2013

Signori Medici, Amiche e Amici,

Saluto voi tutti, in particolare il Presidente dr Enrico Ciliberto e i Consiglieri dell’Ordine dei Medici Chirurghi
e degli Odontoiatri della Provincia di Crotone che mi hanno voluto come esperto della neonata Accademia
Medica Pitagorica. Un saluto particolarissimo al dr Mimmo Monizzi, che tanto sta facendo per riaccendere la
fiamma del pitagorismo nella terra dove esso è nato.
Quest’Accademia nasce sotto buoni auspici. Difatti, dopo la cacciata di Pitagora e dei Pitagorici da Crotone,
avvenuta intorno al 500 avanti Cristo, la Scuola Pitagorica rimase chiusa per quasi cinquanta anni e alla fine
fu riaperta per il deciso intervento di Pericle da Atene. A guidarne la riapertura, furono i medici pitagorici
sopravvissuti, i vostri predecessori, Signori Medici di Crotone.
Io proverò a tratteggiare il modo di vivere dei Pitagorici non solo nelle sue forme esteriori, ma anche nelle
motivazioni intime del loro comportamento, cercando di attualizzare ai nostri giorni il modello o  stile
pitagorico. In questo esercizio mi atterrò alle fonti storiche classiche, da me però liberamente
reinterpretate.
Immaginiamo di trovarci su questo stesso lido venticinque secoli fa, quando Pitagora si alzava molto prima
dell’alba per scrutare la volta stellata del cielo come gli avevano insegnato a fare i Magi a Babilonia. Il filosofo
sentiva venire dalle costellazioni una musica celestiale che egli percepiva con gli occhi, come un grande
musicista che sente la musica solamente guardando lo spartito. Intanto gli allievi raggiungevano Pitagora per
attendere il sorgere del sole sul mare. Al suo apparire lo riverivano quale simbolo del dio Apollo e poi si
immergevano nell’acqua. Dopo l’immersione in mare, iniziavano le danze al suono della cetra e cantando dei
peana, alcuni composti da Pitagora stesso. 
Seguiva l’insegnamento che Pitagora impartiva sotto la tenda bianca, dentro la quale erano ammessi solo i
matematici, gli studiosi, che potevano rivolgere domande al Maestro, mentre gli acusmatici, gli uditori,
rimanevano all’esterno e potevano solo ascoltare. Andavano poi a passeggiare nei giardini solitari evitando le
folle e il parlare a vuoto. Un acusma, una delle loro massime, diceva: Non abitare sotto lo stesso tetto con le
rondini, evitare cioè le chiacchiere. Chi di loro passava per Crotone, girava al largo da cacciatori e macellai
che ritenevano dei malfattori perché, uccidendo gli animali, innescavano il fuoco della violenza.
Se passavano davanti a un tempio, non entravano a visitarlo casualmente, ma entravano a onorare gli dei
solo se avevano deciso di farlo in partenza. Evitavano incontri fortuiti per tornare alla scuola e dedicarsi agli
esercizi ginnici gareggiando tra di loro solo per gioco, senza che uno potesse vincere e l’altro perdere. La loro
dieta era rigorosamente vegetariana con esclusione di carne e pesce: gli animali erano fratelli minori che
l’uomo doveva proteggere e difendere al punto che escludevano dal loro vestiario anche la lana perché era il
vestito dell’animale al quale non si poteva togliere. Il loro vestire era il lino, che ad ogni lavaggio diventava
più bianco, simbolo della purezza e della luce. A fine giornata cenavano assieme e dopo la cena celebravano
il sissizio, un uso che Pitagora aveva trovato in Italia dove era stato introdotto da re Italo come base di
giustizia sociale distributiva: Dello stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti. Andavano
poi a dormire e prima di chiudere gli occhi dovevano esaminare lungamente tutti gli atti della giornata e
chiedersi: In che cosa ho sbagliato? Dopo questo minuzioso esame prendevano sonno e, se avevano dei
sogni, al mattino li raccontavano come episodi di vita reale: così insegnava il Maestro che aveva appreso l’arte
dell’interpretazione dei sogni presso gli Ebrei. Diceva un acusma: Scompigliare le coperte quando ci si alza
dal letto, un invito a dimenticare sogni erotici e sesso. Difatti, il sesso per Pitagora era un osservato
speciale in quanto ritenuto gran divoratore di energie le quali dovevano essere indirizzate ad altri scopi. Il
sesso era un concorrente pericoloso, addirittura assassino: Non ascoltare il canto omicida delle sirene! Del
sesso era meglio non sapere nulla fino ai venti anni e poi limitarlo dentro la vita matrimoniale. Molta
importanza davano i Pitagorici alla forza di volontà che veniva messa alla prova ogni giorno su tre
fronti: Domina il ventre, la lussuria e il sonno. Una prova originale di forza di volontà consisteva nel
preparare un banchetto e, quando tutto era pronto, andare via senza mangiar nulla.
Solo di sfuggita ricordo che anche i numeri, dei quali Pitagora fu il grande razionalizzatore, avevano per loro
un significato, un rimando, un senso appunto: così il numero otto era simbolo della giustizia perchè diviso a
metà dava quattro, che diviso a metà dava due, che diviso a metà dava uno: l’otto generava cioè sempre due
parti uguali intere. Al contrario, il diciassette era mal visto e chiamato ostacolo, perché si frapponeva tra il
sedici e il diciotto, che potevano invece formarsi facilmente per somma o moltiplicazione. E’ questa l’origine
della diffidenza verso il 17, diffusa ancora oggi nel Sud Italia.
I Pitagorici non facevano nulla a caso. A ogni azione davano un senso, cercavano cioè incessantemente di
destare e dilatare la coscienza per vincere le ombre dell’esistenza. Aspiravano cioè a una visione ordinata
della realtà e ritenevano vita vera solo quella intrisa di significato, rifiutando di conseguenza una visione
disgregata, individualistica, egoistica, particolare e frantumata. 
Insomma, nel Pitagorismo c’era una forte tendenza ad analizzare ed eseguire ogni atto come vestire,
mangiare, studiare, cercando sempre un perché, una ragione, una logica, mai seguendo un istinto o un
impulso. Questa forte sovrastruttura costrittiva fu riconosciuta ma rifiutata da un grande coetaneo e quasi
conterraneo, il filosofo Eraclito di Efeso, che non amò Pitagora anche se ne capì lo sforzo e la grandezza, e
perciò lo definì uomo di molto ingegno e di molto inganno. L’immenso Eraclito ricercò invece la ragione di
tutte le cose, il logos, vivendo solo e imprecando contro il mondo intero.
Il modello di Pitagora fu imitato molte volte nella storia e generò forme di vita comunitaria: così quelle degli
Esseni e dei Terapeuti tra gli Ebrei; quella dei Sufi nel mondo islamico, ancora esistenti anche se tollerati o
perseguitati: sono quelli che danzano ruotando con la veste bianca al sorgere del sole; quella del
monachesimo orientale dei Padri del deserto e quello occidentale di Cassiodoro, San Benedetto, San
Bernardo e San Bruno nel mondo cristiano; inoltre, un numero grandissimo di associazioni culturali e
filosofiche che si ispirano a Pitagora in ogni parte del mondo.
E’ giusto quindi chiederci perché il modello pitagorico viene rivisitato, rivissuto, reinterpretato nelle varie
fasi storiche fino ad arrivare a noi. La risposta non può venire solo dalla veste di lino bianco che indossavano
né dalla numerologia nella quale eccellevano né dai rigidi precetti sulla sessualità. La risposta va cercata
piuttosto nei principi ispiratori dello stile di vita pitagorico, il quale in sintesi proponeva l’esaudimento dei
bisogni irrinunciabili di ogni uomo. Questi principi pitagorici, per i quali Pitagora fu ritenuto il fondatore
della Magna Grecia, sono da me sintetizzati in numero di sette.

1. Uguaglianza e libertà

Tutti gli uomini e tutte le donne sono liberi e hanno pari dignità. In quell’epoca, accogliere le donne come
allieve e dare la libertà agli schiavi, come anche liberare dai tiranni molte città italiche, fu la grande
innovazione del pitagorismo.
2. Comunità di vita e di beni

I Pitagorici vivevano in comune consegnando i loro averi agli economi che provvedevano a tutti i bisogni
materiali. Era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo di cose. La comunità si stringeva attorno a
chi era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava
anche la paura o l’ansia di non farcela economicamente con i propri mezzi. Vita in comune non voleva dire
vivere in maniera sciatta o approssimativa: i Pitagorici vivevano sì sobriamente, ma in maniera efficiente,
elegante, raffinata.
3. Giustizia

Comunemente si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è una affermazione che va
spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la
rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia. Tale termine andrebbe più correttamente tradotto
con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto comportamento. L’altro, invece, è dìkaia (aggettivo
neutro plurale), ch’è anch’esso tradotto con giustizia, ma che indica diritti e doveri, insomma quanto oggi si
tende a chiamare legalità. Con l’uso differente dei due termini, il pitagorismo mette in chiaro che senza
giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non rispetta la giustizia sociale nella
distribuzione dei beni, il debole rimane oppresso proprio dalla legalità.
4. Vegetarismo

Pitagora fu il campione del vegetarismo non solo per la pratica sistematica del rifiuto di carne e pesci, ma
soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un
uomo. Oggi la proibizione di mangiar carne è in vigore in alcuni ordini religiosi come quelli dei certosini e dei
monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico ordine religioso che esclude ancora oggi carne
e pesce, è quello dei paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, per tradizione forse discendente
dal pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia
sono ormai sei milioni in continua crescita. Il pitagorico Empedocle scriveva che il mangiar animali non solo
portava l’uomo alla violenza, ma provocava anche disordine nella sfera sessuale.
5. Non competitività

E’ indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la competizione e la vittoria
come… male! Per loro gareggiare si poteva, ma solo come puro divertimento, senza vincitore né vinto: era
loro proibito anche solo assistere ai giochi olimpici. Difatti, essi affermavano che la vittoria sporca il
vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, avere successo, cercare la
propria affermazione, accumulare danaro e coltivare le proprie ambizioni erano cose indegne di una persona
perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia. Era esclusa anche la competizione tra più partiti
politici che paralizzavano la polis: unico doveva essere il regime e l’opposizione ad esso era
considerata secessione da combattere col ferro e col fuoco.
6. Amicizia

Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale.
La filìa, che significa amicizia, amore, benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e
moglie, fratelli, congiunti e animali:
Amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la
moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a
un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso,
pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita Pitagorica, 229)
… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto [i
Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni divini… Sovente si rivolgevano l’un l’altro
l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia
che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la
divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240)… Diventare amici dei
propri nemici: (Giamblico 40).
7. Religiosità

Fortissimo era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però onoravano gli dei del
proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione, concetto a lui ignoto, e le onoranze giornaliere
agli dei erano fatte senza sacerdoti. Se vogliamo in breve capire l’intima essenza dello stile di vita
pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86, 137):
Tutti i loro [pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al
divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso
della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della divinità.
Seguendo questi principi per cambiare il mondo, Pitagora rischiò la vita, fu cacciato da Crotone, respinto
anche da Kaulon che lui aveva beneficato ammansendo l’orsa bianca assassina, e morì esule a Metaponto.
L’avventura continua con Platone
Dopo la condanna a morte di Socrate avvenuta nel 399 avanti Cristo, Platone venne alla rinata Scuola
Pitagorica di Crotone e vi rimase sette anni, conoscendo e frequentando tra gli altri i grandi Pitagorici Archita
e Filolao. Al termine dei suoi studi, Platone arrivò alla conclusione che, per quanto alte ed ispirate fossero le
dottrine di Pitagora e di Socrate, era impossibile cambiare il mondo perché dominato dal potere politico.
Allora, nella speranza di cambiare la politica, che lui definiva come corruzione, Platone accettò l’invito del
tiranno di Siracusa Dionisio, e si recò in quella città come suo consigliere per impostare un governo ideale.
Ne risultò un grave dissidio con Dionisio il Vecchio e poi col Giovane, e Platone rischiò due volte la vita al
punto che Taranto prima e Atene poi dovettero mandare due navi per salvarlo facendolo fuggire in modo
rocambolesco. Queste avventure sono narrate da Platone stesso nella sua famosa Settima Lettera scritta in
tarda età. Platone concluse che, per cambiare il mondo, era necessario che:

O i re diventassero filosofi o i filosofi diventassero re.

Auspicava cioè un governo retto da persone libere da bramosie; il che era possibile solo se la filosofia riusciva
a vincere le tre brame che dominavano l’animo del re o tiranno, brame che Platone elencava in
quest’ordine: sesso, soldi, potere.
L’insegnamento del più grande pitagorico: Cristo

Anche se non venne di persona alla Scuola Pitagorica di Crotone, tuttavia ne assorbì gli insegnamenti e i
principi attraverso la Comunità degli Esseni, una minoranza ebraica, della quale Cristo in qualche misura
faceva parte. Gli Esseni si opponevano al sacrificio di sangue del Tempio di Gerusalemme, celebravano
il sissizio ogni sera con pane e vino, erano rigorosamente vegetariani, proibivano la proprietà privata e il
danaro. E’ quanto scrivo nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, che documenta come le radici culturali
dell’insegnamento di Cristo affondano nell’antica Italia e nel pitagorismo. Il libro rende giustizia al modello
cristiano, che non è il frutto di un profeta ebraico visionario, ma è basato sul rigore dei numeri e della
filosofia pitagorica. Il modello che possiamo chiamare cristiano-pitagorico, basato sui sette principi già visti,
regge matematicamente perché abbatte la dispersione delle energie creata dalla competitività, dalla violenza,
dall’accumulo di danaro e dal sesso.
Musica delle stelle e Regno dei cieli
Pitagora ammirava le stelle e coniò la parola kosmos, che significa ordine, per indicare il firmamento. Egli
s’ispirò all’ordine mirabile della volta celeste e cercò di portarlo sulla terra tra i viventi. Anche Cristo parlò del
Regno dei cieli o Regno di Dio, e disse chiaramente: il Regno di Dio è dentro di voi (Luca 17, 21),
intendendo che la pace e l’ordine dovevano prima entrare nella coscienza individuale per poter poi diventare
universali. Comunque, la sintesi dell’insegnamento di Cristo è sempre l’amicizia e l’amore reciproco:

Amerai il prossimo tuo come te stesso (Matteo 22, 39)… Amate i vostri nemici (Matteo 26, 50). Voi siete
miei amici…; vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a
voi (Giovanni 15, 14).

Pitagora si mette al seguito della divinità per evolversi nel divino, mentre Cristo prende umana carne per
innalzare l’uomo verso il divino: due percorsi analoghi che hanno come ultimo scopo quello di fondere
insieme l’umana coscienza con la divina.

Una notte d’estate guardando le stelle…

La sera del 18 agosto 2013 abbiamo celebrato il Sissizio col Bue di Pane Pitagorico nella pineta di
Sant’Andrea Ionio. Un appuntamento che si ripete dal 1995 per festeggiare in amicizia e con cibi vegetariani
l’arrivo della Civiltà Sissiziale e la fine della violenza. A quella serata partecipava anche Filippo Frontera,
Professore Ordinario di Fisica Generale presso la Facoltà d’Ingegneria dell'Università di Ferrara,
responsabile del gruppo italiano di Astrofisica delle Alte Energie e dell’esperimento col satellite BeppoSAX
per lo studio dei lampi di Raggi Gamma nell’universo.

Si era fatta notte e le stelle brillavano nel cielo; così chiesi al Professore di dirci qualcosa sull’armonia delle
stelle di cui Pitagora parlava. Il Professore spiegò che l’ordine dell’universo dipendeva unicamente da una
sola legge, la forza di gravità, che attrae e ordina ogni corpo esistente.
Cominciai a pensare: se ci fosse una legge, una forza capace di portare ordine nell’umanità? E quale potrebbe
essere? Poi un giorno capii che quella forza era la stessa che Pitagora, Cristo, i grandi profeti e fondatori di
religioni hanno sempre predicato: la forza dell’amicizia che attira ogni vivente verso l’altro.

 Un modello per il nuovo ordine mondiale


Da questo mare di Crotone, dove tanta storia è passata, io vedo chiaramente uno tsunami di
amicizia invadere il mondo. Il modello pitagorico, portato alla massima espressione da Cristo, sarà il modello
del futuro, perché quello attuale è matematicamente fallito. Tutti lo sappiamo, anche se tutti abbiamo paura
di ammetterlo. Io propongo perciò il modello pitagorico-cristiano per un nuovo ordine mondiale che
chiamerò:

FILOCRAZIA, il governo dell’amicizia.

Il modello filocratico, basato sui princìpi da me elencati, supererà tutte le forme di politica attuali e libererà
anche le religioni dalle incrostazioni culturali dovute a differenti tempi e luoghi: se la partenza fu diversa,
uguale sarà il traguardo per tutta l’umanità.

Per me è stato un autentico privilegio intravedere questo orizzonte di luce serena e annunciarlo da Crotone.
La vera protagonista è però la Calabria che fu Magna Grecia, ma dovette poi affrontare la decadenza sotto il
dominio romano e più tardi fu schiacciata per mille anni dal feudalesimo normanno fino ai nostri giorni. La
Calabria è la prova del nove della correttezza di quanto affermava Platone:
Togli a un popolo libertà e uguaglianza e prevarranno criminalità e degrado.

Il monito che la Calabria dà ai popoli è:

Se vi allontanate dai principi pitagorico-cristiani, finirete come me, se non peggio.

Ma noi non disperiamo perché, attingendo alle enormi energie di mente e di cuore che la storia ci ha affidato,
proponiamo da Crotone il modello filocratico per una Calabria Redenta e una Umanità Redenta.

Mi associo perciò alla profezia del grande monaco del Monte Athos, Padre Paisios, che esortava il monaco
Padre Kosmàs a venire in Calabria, dove egli poi riedificò il monastero di San Giovanni Teresti a Bivongi:

Dalla Calabria/ verrà la luce. Apo’ tin Kalabrìa/ to fos.

Potrebbero piacerti anche