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La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale

Book · January 2008

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Sandro Mezzadra
University of Bologna
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Sandro Mezzadra Sandro Mezzadra

Sandro Mezzadra
La condizione postcoloniale

Negli ultimi anni gli “studi postcoloniali” hanno arricchito la nostra com-
prensione della storia della modernità e del presente globale, portando La condizione postcoloniale
alla luce il ruolo costitutivo che ha giocato nella definizione di entram-
bi il progetto coloniale dell’Europa e dell’Occidente. Introdotti anche nel Storia e politica nel presente globale
nostro paese attraverso un congruo numero di traduzioni di testi, auto-
ri come Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee, Achille Mbembe, Ga-
yatri Chakravorty Spivak e Robert J.C. Young sono divenuti riferimenti

La condizione postcoloniale
obbligati nei dibattiti storiografici e teorico-politici, oltre che antropo-
logici e sociologici.
Questo volume presenta il lavoro di uno degli studiosi che hanno mag-
giormente contribuito alla ricezione italiana dei temi e degli autori “post-
coloniali”. In una serie di saggi, l’autore indaga i caratteri salienti della
“condizione postcoloniale”, si interroga sul ruolo che l’esperienza colo-
niale ha avuto nella definizione della storia e dei concetti politici fonda-
mentali della modernità, rintraccia l’eredità del colonialismo nelle politi- ombre corte / culture
che europee di controllo delle migrazioni e si interroga sull’apporto che
dagli studi postcoloniali può venire per una teoria critica della politica al-
l’altezza delle sfide del mondo globale contemporaneo.
Quel che ne risulta è un quadro di estrema attualità sia di un settore di
studi in espansione, come quello appunto postcoloniale, sia di alcuni trat-
ti salienti del nostro presente.

SANDRO MEZZADRA insegna “Studi coloniali e postcoloniali” e “Le frontiere della citta-
dinanza” nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Attualmente è “vi-
siting fellow” presso il Centre for Cultural Research della University of Western Sydney.
Tra i suoi lavori: La costituzione del sociale. Il pensiero giuridico e politico di Hugo Preuss,
Il Mulino, 1999 e, come curatore, I confini della libertà. Per una analisi politica delle mi-
grazioni contemporanee, DeriveApprodi, 2004. Per i nostri tipi ha pubblicato Diritto di
fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione (nuova edizione accresciuta, 2006).
ombre corte

Euro 16,00
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Culture / 36
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Sandro Mezzadra

La condizione postcoloniale
Storia e politica nel presente globale

ombre corte
2 indice 18-01-2008 0:11 Pagina 4

Prima edizione: febbraio 2008


© ombre corte
via Alessandro Poerio 9 - 37124 Verona
Tel./fax: 045 8301735; e-mail: info@ombrecorte.it
www.ombrecorte.it
Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte

ISBN: 978-88-95366-09-8
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Indice

7 Introduzione
20 Nota ai testi

23 CAPITOLO PRIMO. La condizione postcoloniale


1. Uno stile globale?; 2. Decentrare il globale; 3. Sulla transizione; 4. Diffe-
renze postcoloniali; 5. Afferrare il presente

39 CAPITOLO SECONDO. Immagine della cittadinanza nella crisi del-


l'antropologia politica moderna
1. Gli studi postcoloniali e la problematica della legittimazione; 2. L’antropo-
logia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza; 3. Progetto
coloniale e pensiero politico moderno; 4. One World. Globalizzazione e post-
colonialismo

56 CAPITOLO TERZO. Tempo storico e semantica politica nella critica


postcoloniale
1. Tra world history e Weltgeschichte; 2. Il tempo della piantagione e il silen-
zio dell’archivio; 3. Oltre lo “storicismo”; 4. Contro-geografie della moderni-
tà; 5. Figure della soggettività; 6. Contrappunti

73 CAPITOLO QUARTO. Il cittadino e il suddito. Una costituzione post-


coloniale per l’Unione Europea?
1. Una lezione di alterità?; 2. Diritto e terrore; 3. Un nuovo mostro?; 4. Con-
fini; 5. Europa a venire

89 CAPITOLO QUINTO. Il nuovo regime migratorio europeo e la meta-


morfosi contemporanea del razzismo
1. Un nuovo nazionalismo?; 2. Razzismi; 3. Nella crisi del mercato del lavoro;
4. Cittadini europei, nuovo razzismo e nuovo antirazzismo
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106 CAPITOLO SESTO. Vivere in transizione. Verso una teoria eterolin-


guale della moltitudine
1. Capitale come traduzione; 2. Il capitale e l’Occidente; 3. Tempo e spazio del
capitalismo globale; 4. Lavoro vivo in transizione; 5. Verso una teoria etero-
linguale della moltitudine

127 APPENDICE
Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del pri-
mo libro del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria”
1. L’accumulazione originaria, oggi; 2. Questioni di metodo; 3. Per la critica
dell’economia classica (e “volgare”); 4. Una merce diversa dalle altre; 5. Nella
transizione; 6. Alla ricerca del comune. Del comunismo

155 Bibliografia
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 7

Introduzione

Le carte venivano tirate fuori quasi ogni notte, e quasi ogni


notte alcuni tratti di matita venivano cancellati e sostituiti
con altri. Perché con le carte di tutti e quattro gli oceani da-
vanti a sé, Ahab tracciava un dedalo di correnti e di vorti-
ci, con l’intento di portare a compimento il pensiero mo-
nomaniaco della sua anima
H. MELVILLE, Moby Dick (1851), XLIV

1. In questione, nelle pagine che seguono, è il capitalismo con-


temporaneo. Non è scontato, in un libro intitolato La condizione post-
coloniale. Altri temi – dal multiculturalismo all’islamofobia, dagli
scontri attorno al velo in Francia o a Kabul ai diritti degli indigeni in
Australia o in America latina – sono di solito al centro delle analisi
che si richiamano alla critica postcoloniale. Non si tratta certo di pro-
blemi ignorati nei capitoli che compongono questo libro, scritti per
diverse occasioni nel corso degli ultimi anni. Ma il baricentro attor-
no a cui essi trovano una loro coerenza, almeno nelle intenzioni del-
l’autore, è appunto un tentativo di complicare e arricchire l’analisi
critica del capitalismo globale contemporaneo, dei rapporti sociali di
produzione su cui si fonda e della loro persistente determinazione an-
tagonistica.
Ho incominciato a occuparmi degli studi postcoloniali incalzato
dai problemi nuovi posti in Italia dalla crescente presenza e dalle lot-
te dei migranti negli anni Novanta. Non erano solo i confini del pae-
se a essere forzati e spiazzati da quella presenza e da quelle lotte, che
qualcuno si ostina a ritenere marginali, buone al più per rimescolare
un “micidiale cocktail di pauperismo lamentoso e di pietismo cri-
stiano” (Bologna 2007). Era la nostra immaginazione teorica e poli-
tica, era il canone del pensiero critico al cui interno si era svolta la
mia formazione a essere sfidato dall’irruzione di un mondo che ci era
in parte sconosciuto. Un insieme di percorsi collettivi, decisamente
poco inclini al lamento e all’esercizio pur nobile virtù della pietas, si
è dipanato a partire da questa consapevolezza. Confrontandoci con
i dibattiti sulla “globalizzazione”, tentando di riconoscere un noc-
ciolo di verità nelle retoriche spesso stucchevoli attraverso cui si pre-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 8

8 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

sentavano, abbiamo proposto prime approssimazioni sul profilo di


quel mondo che sembrava essersi fatto definitivamente uno, a di-
spetto delle plateali disuguaglianze e delle linee conflittuali che lo at-
traversavano (Mezzadra, Petrillo, a cura di, 2000). Tra Seattle e Ge-
nova abbiamo colto e vissuto l’insorgere di un movimento che si col-
locava pienamente nella dimensione globale e ne interpretava in ter-
mini antagonistici i processi di costituzione materiale (Mezzadra, Rai-
mondi 2001; “DeriveApprodi”, n.s., 1, 2, 3, 2002-2003). Negli anni
successivi abbiamo tentato di attraversare, teoricamente e politica-
mente, lo spazio europeo per declinarlo nei termini di uno spazio
globale, ancora una volta seguendo in modo privilegiato i movimen-
ti e le lotte dei migranti (“DeriveApprodi”, n.s., 1, 2002; Mezzadra,
Rigo 2003; Frassanito Network 2004 e 2006).
Il mio confronto con gli studi postcoloniali è, come dicevo, parte
integrante di questi percorsi di ricerca e di queste pratiche politiche.
È al tempo stesso un capitolo di quel tentativo di provincializzare
l’“effetto italiano” di cui ha scritto, in un saggio importante, Brett
Neilson (2005). La pubblicazione del libro di Michael Hardt e Toni
Negri, Impero (2000), ha in effetti determinato un processo di vera e
propria globalizzazione dell’operaismo italiano, la specifica “tradi-
zione” di pensiero critico al cui interno si è svolta la mia formazione
e continua a collocarsi il mio lavoro. Per dirla con Edward Said, quel-
la tradizione ha cominciato a “viaggiare”, travolgendo i confini geo-
grafici e politici che ne avevano perimetrato e limitato la pur signifi-
cativa circolazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento (e as-
sumendo spesso tratti di “compattezza” irrispettosi della molteplici-
tà di alternative teoriche che al suo interno si sono di volta in volta
determinate). Gli studi culturali e postcoloniali, non solo nell’acca-
demia anglosassone ma anche in Asia, in America latina e in Africa,
sono stati in particolare investiti dall’“effetto italiano”, che con il pas-
sare degli anni ha finito per estendersi alla ricezione di diverse cor-
renti teoriche, dagli scritti di Giorgio Agamben al pensiero della dif-
ferenza sessuale.
È noto che Said scrisse due volte il suo saggio dedicato alla travel-
ing theory (Said 1982 e 1994), dando così piena espressione all’am-
bivalenza del processo descritto: viaggiando, la teoria critica può cer-
to “addomesticarsi”, perdere la propria originaria carica di provoca-
zione, ma può anche felicemente “ibridarsi” in altre costellazioni sto-
riche, geografiche e culturali, dando luogo a concatenazioni e a esiti
tanto imprevisti quanto interessanti. Il processo di globalizzazione
dell’eredità teorica dell’operaismo italiano seguito alla pubblicazio-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 9

INTRODUZIONE 9

ne di Impero ha verificato pienamente la correttezza di questa tesi di


Said. Cogliere ed esaltare le opportunità e le potenzialità dell’ibrida-
zione, individuando in esse un antidoto contro ogni neutralizzazio-
ne della radicalità teorica e politica dell’operaismo è stato l’obiettivo
che mi sono posto negli ultimi anni: in particolare attraverso quel
confronto con gli studi postcoloniali che ha assunto una posizione
via via più importante nella mia attività di ricerca, traducendosi tra
l’altro nell’insegnamento di un corso universitario intitolato “Studi
coloniali e postcoloniali”, nell’edizione italiana di testi rilevanti nel-
l’ambito degli studi postcoloniali (Guha 1982, Spivak 1984 e Chat-
terjee 2003) e in un lavoro di scavo storico sulle diverse tradizioni del
pensiero politico anticoloniale, concentratosi in particolare su W.E.B.
Du Bois (Mezzadra 2004b e 2006b) e C.L.R. James (Mezzadra, a cu-
ra di, 2007).

2. Gli studi postcoloniali sono ormai ampiamente noti anche in


Italia. Il lavoro pionieristico condotto per anni in sostanziale solitu-
dine da studiosi come Iain Chambers e Lidia Curti all’Università
orientale di Napoli (cfr. in particolare Chambers, Curti, a cura di,
1997) ha in qualche modo dissodato il terreno, che appare oggi ferti-
le per una ricezione più meditata dei temi e delle acquisizioni di que-
sta eterogenea corrente di studi. Grazie soprattutto all’impegno del-
la casa editrice Meltemi, i lavori di Homi Bhabha, Dipesh Chakra-
barty, Robert Young, Achille Mbembe, Gayatri Spivak (per limitarci
ai nomi più noti) sono oggi disponibili in traduzione italiana e stanno
diventando riferimenti obbligati nel dibattito che attraversa una plu-
ralità di discipline, dalla filosofia politica alla sociologia, dall’antro-
pologia agli studi di letteratura comparata. Studi storici (cfr. ad es.
Stefani 2007) e letterari (cfr. ad es. Schiavulli, a cura di, 2007 e Ben-
venuti 2008) cominciano a sondare la produttività dell’approccio
postcoloniale in riferimento alle specifiche vicende italiane, mentre
l’appropriazione della lingua italiana da parte di una nuova genera-
zione di scrittori e scrittrici migranti (cfr. Gambari 2005) consente
anche da noi di misurare gli effetti di spiazzamento del canone lin-
guistico e letterario che si determinano quando, per citare il titolo di
un libro importante nella storia della critica postcoloniale, the Empi-
re writes back (Aschcroft, Griffiths, Tiffin 1989).
Non è qui necessario ricostruire la genealogia degli studi postco-
loniali, l’intreccio di discipline e di pratiche teoriche nate all’interno
dei movimenti anticoloniali, antirazzisti e femministi che ne ha de-
terminato il costituirsi in un campo accademico relativamente co-
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10 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

erente nel mondo anglosassone a partire dalla metà degli anni Ot-
tanta. Miguel Mellino (2005, in specie capp. I e II) lo ha fatto in mo-
do egregio ed esaustivo, mostrando come, a partire dalla pubblica-
zione di Orientalismo di Edward Said (1978), un insieme di testi ab-
bia da una parte registrato la radicale innovazione teorica determi-
nata dalla centralità che assumeva in quel libro l’analisi critica del di-
scorso coloniale; e come, dall’altra parte, la critica postcoloniale ab-
bia messo in discussione i caratteri monolitici che il discorso colo-
niale tendeva ad assumere nel lavoro di Said, concentrandosi sui pro-
cessi di ibridazione, negoziazione e resistenza che l’intervento dei
soggetti colonizzati ha iscritto fin dalle origini della modernità nella
trama di quel discorso.
Quel che è importante sottolineare in questa sede è piuttosto il ri-
schio implicito nella tardiva ricezione italiana degli studi postcolo-
niali. Non è d’altronde un fenomeno soltanto italiano: in Francia è
stata necessaria la rivolta delle banlieues nell’autunno del 2005 per
aprire le porte dell’accademia agli studi postcoloniali e per introdur-
li nel mercato editoriale (cfr. Mbembe 2005; Ivekovic 2006 e 2007;
Smouts, a cura di, 2007). L’Europa continentale nel suo complesso
sembra essere stata a lungo riluttante ad accogliere il contributo di
questi studi, ed è questa una delle ragioni per cui, come appare chia-
ro da alcuni capitoli di questo libro (il quarto e il quinto in partico-
lare), ho collocato proprio nella dimensione europea il mio confron-
to con essi. Il punto è, tuttavia, che la ricezione tardiva pare spesso
accompagnarsi all’idea che il postcolonialismo sia una sorta di para-
digma unitario, da accogliere o respingere in toto, tra l’altro proprio
mentre nel mondo anglosassone il campo degli studi postcoloniali sta
letteralmente implodendo, frantumandosi in una serie di ricerche
specialistiche, dopo che la sua agenda ha contribuito a riorientare
complessivamente il dibattito all’interno delle scienze umane e sociali
(Loomba et alii, a cura di, 2005). La distinzione tra condizione post-
coloniale e postcolonialismo, presentata nel primo capitolo, tenta pre-
cisamente di cogliere le opportunità implicite in questa situazione,
ponendo le basi per un uso più libero delle categorie e delle acquisi-
zioni della critica postcoloniale nella definizione di un nuovo para-
digma del pensiero critico.

3. Gli studi postcoloniali offrono un contributo indubbiamente


molto importante al rinnovamento del nostro modo di guardare alla
modernità nel suo complesso: il secondo e il terzo capitolo del libro
sviluppano quel contributo dal punto di vista della storia del pensie-
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INTRODUZIONE 11

ro politico e della storiografia. La storia globale della modernità fin


dalle sue origini (che dai libri delle elementari abbiamo del resto im-
parato a situare nel 1492, con la scoperta e l’avvio della conquista eu-
ropea del “nuovo mondo”) deve ormai essere letta a partire da una
pluralità di luoghi e di esperienze, all’incrocio tra una molteplicità di
sguardi che destabilizza e decentra ogni narrativa “eurocentrica”
(Ghosh, Gillen 2007). A differenza di altre correnti che sono con-
fluite in quella che oggi si definisce world history, gli studi postcolo-
niali ci insegnano poi a essere diffidenti verso ogni lettura troppo ri-
gida del rapporto tra centro e periferia, che consegnerebbe la storia
dell’espansione coloniale a episodio appunto “periferico”, occultan-
done la funzione costitutiva nell’esperienza globale della modernità
(Capuzzo 2006). Ma è pur vero che, nel loro insieme, gli studi post-
coloniali hanno teso ad accentuare i tratti meramente “culturali” del-
la pluralità di “incontri” di cui è intessuta la storia della modernità.
Lo stesso paradigma delle “modernità alternative” (Gaonkar, a cura
di, 2001), che ben descrive gli esiti di una parte consistente della cri-
tica postcoloniale, presenta certo notevoli motivi di interesse; ma nel
suo complesso finisce per esaurirsi nell’indicazione delle molteplici
modalità di “significazione culturale” che è possibile attribuire all’e-
sperienza della modernità, riproducendo su scala globale la geogra-
fia immaginata dai teorici del multiculturalismo liberale e rischiando
di occultare gli scontri, i rapporti di dominio e di sfruttamento di cui
la “significazione culturale” è pur sempre espressione (cfr. Sakai, So-
lomon 2006).
Accogliere il decentramento dello sguardo storico reso possibile
dagli studi postcoloniali mantenendo una distanza critica rispetto ad
alcuni dei loro esiti è quel che tento di fare in questo libro. In questo
senso, dicevo all’inizio, in questione è il capitalismo contemporaneo.
Non perché mia intenzione sia opporre il piano materiale (per non
dire “strutturale”) dell’analisi alle derive culturalistiche e testualisti-
che che molti critici hanno rimproverato agli studi postcoloniali (cfr.
ad es. Ahmad 1995, Lazarus 1999 e Perry 2004). Mi interessa piutto-
sto riportare alla luce il rilievo materiale che la dimensione epistemi-
ca delle culture, dei discorsi, dei testi ha assunto all’interno della co-
stituzione di un modo di produzione, il capitalismo moderno ap-
punto, che rimane comunque organizzato attorno all’imperativo del-
l’accumulazione e alla logica dello sfruttamento. E una delle tesi che
fanno da sfondo alle analisi presentate nei capitoli successivi è che il
capitalismo contemporaneo sia strutturalmente definito dal confon-
dersi dei confini “infrasistemici” che avevano consentito di articola-
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12 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

re nell’unità di un modo di produzione dimensioni materiali e sim-


boliche, politiche, giuridiche ed economiche, sociali e culturali.
Il punto di vista privilegiato da cui cerco di guardare al capitali-
smo contemporaneo, come appare soprattutto nell’ultimo capitolo
del libro, è quello della produzione di soggettività (intesa nel duplice
senso di assoggettamento e soggettivazione) che si determina lungo
l’intero arco dei circuiti globali dell’accumulazione. Memore in par-
ticolare delle lezioni che vengono dal femminismo postcoloniale (De
Petris 2005), cerco del resto di problematizzare continuamente la ca-
tegoria di soggettività, di resistere a ogni tentazione di offrirne un’im-
magine unitaria e omogenea, di porre in evidenza le fratture che la
costituiscono pur senza rinunciare a indicare nel terreno della sog-
gettivazione il terreno cruciale su cui deve esercitarsi oggi un pensie-
ro critico della politica: è il modo in cui personalmente intendo il
concetto di moltitudine, su cui mi soffermo in particolare nel sesto
capitolo.

4. Sono così ritornato, attraverso il riferimento al concetto di mol-


titudine, agli sviluppi dell’operaismo italiano. Il confronto con gli stu-
di postcoloniali è stato per me di fondamentale importanza, in questi
anni, per saggiare e ridefinire una serie di categorie (composizione
tecnica e politica di classe, tendenza, sussunzione formale e reale del
lavoro sotto il capitale, per nominarne alcune) che hanno avuto
un’importanza cruciale nel metodo e nel paradigma teorico dell’ope-
raismo. La critica di ogni immagine lineare e della teoria degli “stadi”
dello sviluppo capitalistico, elaborata da autori come Dispesh Cha-
krabarty (2000), mi ha condotto a individuarne le tracce anche all’in-
terno dei concetti fondamentali dell’operaismo, nella continua ricerca
del “punto più alto” dello sviluppo e di un soggetto “centrale” attor-
no a cui definire l’analisi della composizione di classe e il progetto del-
la sua ricomposizione politica. Al tempo stesso, tuttavia, ho cercato
di far vivere anche nella mia analisi delle lotte anticoloniali un’indica-
zione di metodo che già Michael Hardt e Toni Negri avevano proiet-
tato su scala globale in Impero: il punto di vista, cioè, secondo cui per
comprendere lo sviluppo bisogna guardare prima di tutto alle lotte.
Sotto questo profilo, d’altro canto, gli studi postcoloniali mi han-
no offerto un insieme di chiavi d’accesso al mondo non occidentale
completamente diverse da quelle del vecchio “terzomondismo”. Un
insieme di categorie maturate all’interno della critica postcoloniale
(da quella di ibridazione a quella di spiazzamento e decentramento)
costituiscono piuttosto utensili teorici di grande efficacia per descri-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 13

INTRODUZIONE 13

vere l’insieme dei processi che hanno condotto alla fine del Terzo
mondo e alla crisi contemporanea della divisione internazionale del
lavoro. Uno dei centri attorno a cui si è organizzato il mio confronto
con gli studi postcoloniali è stato precisamente il tentativo di descri-
vere il vero e proprio terremoto che i processi di globalizzazione de-
terminano nelle mappe e nella geografia politica, economica, cultu-
rale che abbiamo ereditato dalla modernità. E un’importanza cre-
scente, sia sotto il profilo analitico sia sotto il profilo medotologico,
è andata assumendo nel mio lavoro degli ultimi anni il concetto di
confine, di cui indago le metamorfosi nel contesto europeo nei capi-
toli quarto e quinto del libro.
È il caso di ripetere che parlare di fine del Terzo mondo e di crisi
della divisione internazionale del lavoro non significa affermare che
lo spazio globale sia uno spazio “liscio”, che abbiano cessato di esse-
re operativi criteri di organizzazione gerarchica articolati su scala ter-
ritoriale. Al contrario, la centralità attribuita all’analisi dei processi
globali di moltiplicazione dei confini riporta continuamente l’atten-
zione sulle “striature” dello spazio globale, individuando in esse dis-
positivi essenziali alla ridefinizione dei rapporti di sfruttamento e
dominio (nonché siti privilegiati per l’analisi dei persistenti attriti tra
il comando capitalistico e le logiche della sovranità). Il punto fonda-
mentale che si vuole tuttavia sottolineare è che queste “striature”
hanno cessato di organizzare in modo coerente la geografia politica
ed economica planetaria distinguendo tra loro spazi internamente
omogenei e chiaramente differenziati. È in questo contesto che, co-
me scrivono nella prefazione a un libro recente Jean Comaroff e John
L. Comaroff,
le postcolonie sono divenute luoghi cruciali per la produzione di teoria so-
ciale: di teoria sociale sui generis, non semplicemente di una teoria antro-
pologica riferita alle vite e ai tempi di quei mondi un tempo conosciuti co-
me secondo e terzo mondo. [...] La ragione per cui esse sono luoghi indi-
spensabili di produzione teorica sta nel fatto che molti dei grandi tsunami
del XXI secolo sembrano destinati a scatenarsi prima sulle loro coste – o, se
non prima, comunque nella loro forma più percepibile ed estesa – per poi
riverberarsi nelle cosmopoli dell’emisfero settentrionale (Comaroff, Co-
maroff, a cura di, 2006, p. IX).

In questione non è soltanto il fatto che studiando gli slum di Cal-


cutta si possa imparare qualcosa di essenziale per comprendere quel
che accade nelle banlies di Parigi, ma anche che i piqueteros argenti-
ni possono avere molto da insegnare ai collettivi di “precari” che agi-
scono nelle metropoli europee. Non nel senso, sia chiaro, che i primi
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 14

14 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

abbiano delle “soluzioni” da offrire ai “problemi” dei secondi: ma


piuttosto perché offrono un punto di vista a partire dal quale quei
problemi acquisiscono nuove e impreviste dimensioni. Più in gene-
rale, lo sguardo postcoloniale sulla fine del Terzo mondo e sulla crisi
della divisione internazionale del lavoro, senza smarrire il senso del-
le radicali differenze tra luoghi, regioni e continenti, permette di co-
gliere l’eterogeneo intreccio di regimi produttivi, di temporalità e di
esperienze soggettive del lavoro che costituisce il capitalismo cinese
contemporaneo (Rocca 2002 e 2006) e che sfugge ad esempio a una
categoria come quella di “fordismo periferico”.
Nel momento stesso in cui obbliga a “provincializzare” e a cali-
brare su scale temporali eterogenee un metodo come quello operaista
della tendenza, la prospettiva postcoloniale consente anche di indi-
viduare una serie di categorie analitiche che, opportunamente tarate
sulla specificità delle diverse situazioni, possono rivendicare un’uti-
lità generale nella critica del capitalismo contemporaneo. È il caso ad
esempio di quella di “inclusione differenziale”, che proprio attorno
all’analisi delle trasformazioni che investono oggi i confini ha trovato
negli ultimi anni una definizione rigorosa, ripresa in riferimento alla
condizione dei migranti in Europa nei capitoli quarto e quinto del li-
bro. L’inclusione differenziale, che ha del resto una lunga storia nel-
la modernità coloniale, ben si presta a definire alcuni dei tratti salienti
della globalizzazione capitalistica contemporanea, che opera attra-
verso una logica di connessione così come attraverso una logica di
sconnessione, che unifica e frammenta al tempo stesso (Ferguson
2006), che imprime il proprio segno sulla vita di donne e uomini in
ogni angolo del pianeta anche quando produce catastrofici processi
di “esclusione”. La guerra stessa, nelle nuove forme che ha assunto
negli ultimi anni in Africa come in Iraq, è pienamente interna a que-
sti processi, determina indubbiamente il ritorno sulla scena di logi-
che, forme di combattimento, dispositivi e retoriche coloniali, ma
non trova in coerenti progetti di dominio neocoloniale il proprio cri-
terio di razionalità (Mbembe 2003, pp. 30-35).

5. Nel primo e soprattutto nel sesto capitolo avanzo l’ipotesi che


una rinnovata attenzione alla categoria di transizione consenta di co-
gliere alcuni dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Nel-
l’appendice, in cui alcuni dei temi affrontati nel libro sono rivisitati
dal punto di vista di un confronto diretto con Marx, propongo una
lettura dell’analisi marxiana della “cosiddetta accumulazione origina-
ria” come contributo alla precisazione di alcuni aspetti di questa ipo-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 15

INTRODUZIONE 15

tesi. In un libro importante, da poco uscito, l’economista indiano Kal-


yan Sanyal propone a sua volta un’analisi del “capitalismo postcolo-
niale” alla luce della categoria di accumulazione originaria, insisten-
do tuttavia al tempo stesso sulla necessità di liberare il dibattito sullo
“sviluppo” dall’ipoteca della transizione (Sanyal 2007, p. 40). Sanyal si
riferisce in realtà alla “grande narrazione” della transizione, al suo
orientamento teleologico verso la realizzazione delle condizioni di un
pieno sviluppo capitalistico all’interno del sottosviluppo e della di-
pendenza, e in particolare al modo in cui i teorici dello sviluppo, a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno impostato il
problema del rapporto tra settore “moderno” e settore “tradizionale”
dell’economia. È questa l’“ipoteca” da cui ritiene debba essere libe-
rato il dibattito sullo sviluppo, e mi pare una provocazione che vale la
pena accogliere positivamente. Più interessante risulta in questo sen-
so considerare brevemente il modo in cui nel suo libro viene utilizza-
to il riferimento all’analisi marxiana dell’accumulazione originaria.
Nella prospettiva di Sanyal, l’accumulazione originaria costituisce
un tratto essenziale e una caratteristica strutturale dello sviluppo ca-
pitalistico nel mondo postcoloniale: “visto in questi termini, il capi-
tale postcoloniale non diviene mai nel senso hegeliano. [...] Come il
proverbiale Sisifo, il capitale è impegnato in un lavoro che non è mai
compiuto: il suo sorgere non è mai completo, la sua universalità non
è mai pienamente stabilita, il suo essere è sempre rinviato al futuro”
(ivi, p. 61). Lo sviluppo capitalistico postcoloniale procede attraver-
so una logica analoga a quella delle recinzioni descritte da Marx a
proposito dell’Inghilterra proto-moderna, e produce continuamen-
te, come risultato del suo stesso incedere, una “terra desolata di spos-
sessati” che eccede strutturalmente il fabbisogno di forza lavoro del
settore capitalistico dell’economia e ne resta dunque all’esterno,
esclusa dalla possibilità stessa di entrare nei circuiti dello sfrutta-
mento su base di classe (cfr. ivi, p. 58).
Il punto maggiormente originale dell’analisi di Sanyal consiste tut-
tavia nella tesi secondo cui il capitale postcoloniale, per affermare la
propria legittimità, è costretto in qualche modo a farsi carico dell’e-
sistenza di questa “terra desolata”. È costretto cioè ad accettare quel-
lo che l’economista indiano definisce il “rovescio dell’accumulazio-
ne originaria” (ivi, p. 59), acconsentendo a finanziare un flusso di ri-
sorse verso l’“esterno del capitale”: canalizzato attraverso l’azione
dello Stato, di organizzazioni internazionali e non governative, que-
sto flusso di risorse crea le condizioni per la nascita e la riproduzione
di una “economia del bisogno” che rimane esterna allo spazio eco-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 16

16 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

nomico del capitale ma che gioca un ruolo essenziale nel processo


complessivo di legittimazione del capitalismo. È su queste basi che
andrebbero secondo Sanyal comprese la “politica dei governati” e la
nascita della “società politica” descritte da Partha Chatterjee in un li-
bro su cui si tornerà nei capitoli successivi (Chatterjee 2004).
Il lavoro di Sanyal tenta di ripensare una politica radicale attra-
verso la coniugazione della “politica di classe” che ha il suo luogo al-
l’interno del capitale e la “politica della povertà” che si sviluppa al
suo esterno (cfr. Sanyal 2007, pp. 260-262). Costituisce in questo sen-
so un contributo prezioso, su cui sarà necessario tornare con mag-
giore ampiezza in futuro. La disarticolazione del nesso tra lavoro sa-
lariato e cittadinanza come asse attorno a cui pensare lo sviluppo
apre prospettive di grande interesse, che meriterebbero di essere son-
date ad esempio in un contesto come quello latino-americano, dove
l’“ipoteca della transizione”, nelle forme assunte dal desarrollismo, è
ancora molto forte e condiziona pesantemente l’azione dei nuovi go-
verni “progressisti”. Sotto il profilo teorico, tuttavia, Sanyal mi sem-
bra da una parte enfatizzare in modo eccessivo la specificità del “ca-
pitalismo postcoloniale”, identificandolo con il capitalismo delle aree
che un tempo componevano il “Terzo mondo”, mentre dall’altra po-
stula una distinzione troppo rigida tra i due ambiti che chiama “ca-
pitale” e “non capitale”.
Analogamente a quanto osservato da Ranabir Samaddar (2007, II,
pp. 107-137) a proposito della distinzione tra “società civile” e “so-
cietà politica” elaborata da P. Chatterjee, non si tratta soltanto di por-
tare l’attenzione sui transiti che si determinano tra i due ambiti – al
di là del trasferimento di risorse dal “capitale” al “non capitale”; il
punto consiste piuttosto nella necessità di individuare nei processi di
legittimazione del dominio (o dell’egemonia, come Sanyal preferisce)
del capitale sulla società un momento chiave dello stesso concetto di
capitale, che non può semplicemente esserne separato e ascritto al
più generale concetto di “capitalismo”. Gli antagonismi e le lotte che
si determinano all’interno di quei processi sono antagonismi e lotte
interni al rapporto di capitale; e in particolare registrano la genera-
lizzazione della condizione soggettiva associata ai processi di produ-
zione della forza lavoro come merce, indipendentemente dalle diffe-
renze enormi determinate dal fatto che quella forza lavoro sia diret-
tamente sfruttata dal capitale o sia confinata nell’“economia del bi-
sogno”, dove la sua stessa riproduzione è affidata a fragili e aleatori
equilibri politici nonché alla straordinaria creatività e inventiva degli
“spossessati”.
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 17

INTRODUZIONE 17

6. L’uso che propongo di fare della categoria di transizione per


definire alcuni tratti caratteristici del capitalismo contemporaneo si
pone oltre ogni narrazione teleologica, e al contempo non si riferisce
alla realtà di singole aree del mondo. È parte di un tentativo di co-
gliere i problemi di articolazione e traduzione inerenti al concetto
stesso di “capitale globale”. L’enfasi posta su articolazione e tradu-
zione, in particolare attraverso il confronto con il lavoro dell’intellet-
tuale giapponese Naoki Sakai, costituisce nelle mie intenzioni un an-
tidoto contro ogni tentazione di proporre un’immagine monolitica
del concetto di capitale globale, puntando al contrario a evidenziare
la radicale eterogeneità dei processi di produzione e valorizzazione,
delle forme di circolazione, degli attori, delle contraddizioni che con-
fluiscono nel concetto. Al tempo stesso, tuttavia, cerco di portare l’at-
tenzione sul formidabile problema della mediazione di questa etero-
geneità nell’unità del capitale globale, ovvero della continua ripro-
duzione del comando capitalistico sul mondo in cui viviamo. Politica
e diritto oggi si ridefiniscono a fronte della radicalità di questo pro-
blema, articolandosi a loro volta su una molteplicità di livelli e dan-
do luogo a nuove costellazioni di autorità, diritto e territorio. Gli Sta-
ti nazionali, pur continuando a esercitare funzioni cruciali, vengono
radicalmente trasformati attraverso il loro inserimento in queste co-
stellazioni che strutturalmente li trascendono (Sassen 2006).
Il concetto di transizione, applicato a questa situazione, sottolinea
non soltanto l’instabilità e l’aleatorietà dell’unità del capitale globa-
le, ma anche la radicalità degli antagonismi che costituiscono il rap-
porto di capitale nel momento in cui le condizioni stesse della sua
possibilità devono essere continuamente riaffermate. Leggere la
transizione attraverso le pagine dedicate da Marx alla “cosiddetta ac-
cumulazione originaria” consente così da una parte di evidenziare i
processi di violenta appropriazione che, in una linea di continuità con
le “recinzioni” nell’Inghilterra delle origini della modernità, non ri-
guardano oggi solo la terra, ma investono – per limitarci a un paio di
esempi – il terreno della produzione di conoscenza nelle reti di co-
operazione e produzione sociale (Benkler 2006) e il terreno stesso
della vita nei circuiti del “biocapitale”, ovvero del capitale investito
nello sviluppo delle biotecnologie e dei farmaci “postgenomici” (Ra-
jan 2006; Devenney 2007). E dall’altra parte indica nella produzione
di soggettività, in una linea di continuità con l’analisi marxiana della
produzione della forza lavoro come merce in quanto condizione di
possibilità del “mercato del lavoro”, la dimensione cruciale su cui si
distendono oggi gli antagonismi.
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 18

18 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

È un’immagine in qualche modo paradossale quella che così


emerge: proprio nel momento in cui il capitalismo sembra avere tra-
volto ogni limite territoriale alla sua espansione, lo spazio del “fuori”
si allarga sulla dimensione che potremmo definire temporale; l’“al-
trove” cede il passo all’“altroquando”. Il carattere strategico che tor-
na ad acquisire l’appropriazione, il processo che precede l’istituzione
giuridica della proprietà privata, e l’intensità dei conflitti che si de-
terminano sul terreno della produzione di soggettività, dove in que-
stione è l’imposizione del tempo di lavoro come misura astratta del
valore a fronte dell’eterogeneità costitutiva delle temporalità che
esprimono la ricchezza del lavoro vivo contemporaneo, offrono pri-
me approssimazioni sulla densità materiale di questo “fuori”. Una po-
litica della moltitudine non può che essere immaginata a partire dal-
la necessità di tradurre nella costruzione di un nuovo comune la mol-
teplicità dei linguaggi parlati dalle lotte che quotidianamente insor-
gono sui fragili confini che separano il capitale dal suo paradossale
“fuori”. È questo il punto su cui, provvisoriamente, si conclude il
mio confronto con la critica postcoloniale.

***

Come ho ricordato all’inizio di questa introduzione, i materiali


raccolti in questo libro sono nati all’interno di percorsi di ricerca col-
lettivi. Tre ambiti di discussione sono stati in particolare fondamen-
tali per la definizione e lo sviluppo del mio interesse per gli studi
postcoloniali. Vorrei qui ricordarli, ringraziando tutte e tutti coloro
che vi hanno partecipato e continuano a parteciparvi: il collettivo re-
dazionale della nuova serie di “DeriveApprodi” (2001-03), la rete di
Uninomade e la redazione della rivista “Studi culturali”.
Un debito particolare l’ho contratto con Federico Rahola, coau-
tore del primo capitolo del libro. È stato Federico a introdurmi ai te-
mi e agli autori della critica postcoloniale, entro un rapporto di ami-
cizia e di scambio intellettuale che continua a essere uno dei più im-
portanti per me. Maurizio Ricciardi e Gigi Roggero hanno riletto i
capitoli del libro nella versione che qui presento, offrendomi indica-
zioni e suggerimenti decisivi per migliorarli e discutendo con la pas-
sione di sempre i problemi che restano aperti. Altrettanto ha fatto
Gianfranco Morosato, il cui ruolo è andato ben al di là di quello del-
l’editore.
Mi è difficile ricordare i nomi di tutti coloro che hanno discusso
con me precedenti versioni di questi testi. Particolarmente impor-
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 19

INTRODUZIONE 19

tanti, in questi anni, sono state per me le continue conversazioni sui


temi trattati nel volume con Rutvica Andrija&ević, Étienne Balibar,
Raffaella Baritono, Marco Bascetta, Giuliana Benvenuti, Pietro Bian-
chi, Manuela Bojad=ijev, Maura Brighenti, Fulvio Cammarano, Pao-
lo Capuzzo, Dipesh Chakrabarty, Federico Chicchi, Sandro Chigno-
la, il Colectivo situaciones di Buenos Aires, Anna Curcio, Stefania De
Petris, Emanuela Fornari, Andrea Fumagalli, Carlo Galli, Raffaella
Gherardi, Gaia Giuliani, Giorgio Grappi, Michael Hardt, Augusto
Illuminati, Laura Lanzillo, Domenico Letterio, Christian Marazzi,
Costanza Margiotta, Miguel Mellino, Cristina Morini, Toni Negri,
Brett Neilson, Maia Pedullà, Agostino Petrillo, Mario Piccinini, En-
rica Rigo, Ranabir Samaddar, Marco Santoro, Roberta Sassatelli, Pie-
rangelo Schiera, Federica Sossi, Vassilis Tsianos, Mauro Turrini, Ila-
ria Vanni, Benedetto Vecchi, Paolo Virno, Adelino Zanini. A tutti lo-
ro, e ai molti che non ho qui nominato, va il mio ringraziamento.
A Maia, infine, questo libro è dedicato.
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 20

Nota ai testi

I capitoli che compongono questo libro sono stati scritti nel corso
degli ultimi cinque anni, indipendentemente l’uno dall’altro. Li ri-
propongo qui con qualche variazione, qualche aggiornamento bi-
bliografico e l’inserimento di una serie di rimandi interni. Il libro ri-
mane una raccolta di saggi, ma l’auspicio dell’autore è che nel com-
plesso emerga una riflessione sistematica e coerente su alcuni dei te-
mi fondamentali della critica postcoloniale. Indico di seguito le sedi
in cui i singoli capitoli sono stati originariamente pubblicati, coglien-
do l’occasione per ringraziare direttori di riviste e curatori di volumi
collettanei per avermi consentito di raccoglierli in volume.

Il primo capitolo, scritto insieme a Federico Rahola, è stato pub-


blicato in una prima versione come editoriale della sezione mono-
grafica dedicata al postcolonialismo in “DeriveApprodi”, 23, 2003
(nuova serie, numero 2). Rielaborato e ampliato, è uscito in inglese
nella versione che qui si propone, in “Postcolonial Text”, II (2006),
1. Una traduzione tedesca è apparsa in in “iz3w”, 278-279, 2004.
Il secondo capitolo è stato pubblicato in Raffaella Gherardi, Poli-
tica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Carocci,
Roma 2002.
Il terzo capitolo è uscito in “Storica”, XI (2005), 31, e, in tradu-
zione francese, in “Multitudes”, 26, Automne 2006.
Il quarto capitolo nasce da una relazione che ho tenuto al conve-
gno internazionale “Conflicts, Law, and Constitutionalism”, svoltosi
a Parigi, presso la Maison des Sciences de l’Homme, dal 16 al 18 feb-
braio 2005. Vorrei ringraziare tutti i partecipanti al seminario, e in
particolare Paula Banerjee, Rada Ivekovic e Ranabir Samaddar, per
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 21

NOTA AI TESTI 21

il loro contributo alla discussione. La versione originale inglese è


uscita in “Situations”, I (2005-06), 2, e, con qualche variazione, nel
volume curato da Ranabir Samaddar e Gilles Tarabout, Conflict, Po-
wer, and the Landscape of Constitutionalism, Routledge, London-
New Dehli 2008. Una traduzione italiana è stata pubblicata in Olivia
Guaraldo, Leonida Tedoldi (a cura di), Lo stato dello Stato. Rifles-
sioni sul potere politico nell’era globale, ombre corte, Verona 2005.
Il quinto capitolo nasce da una relazione presentata al convegno
internazionale “New Racisms: New Anti-Racisms”, svoltosi presso la
University of Sydney il 3 e 4 novembre 2006. Ringrazio Ghassan Ha-
ge per avermi invitato a partecipare e per le sue osservazioni sulla mia
relazione. Il testo è stato pubblicato in “Studi sulla questione crimi-
nale”, II (2007), 1.
Il sesto capitolo è stato scritto originariamente in inglese per un
volume dedicato a Naoki Sakai, in uscita nel 2008 per la casa editri-
ce Routledge, ed è stato anticipato dalla rivista “Transversal” (nume-
ro 11-07), http://translate.eipcp.net/transversal/1107. La traduzione
italiana che qui si presenta è inedita.
L’appendice, anch’essa inedita, è il testo di una relazione che ho
tenuto a Roma, il 16 febbraio 2007, all’atelier occupato Esc, nell’am-
bito del ciclo di seminari “Lessico marxiano. Dodici concetti per ri-
pensare il presente”.
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 22
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 23

CAPITOLO PRIMO
La condizione postcoloniale

[...] è la storia segreta


la storia parallela
là dove il nostro inverno
diventa primavera.
G. MANFREDI, Zombie di tutto il mondo unitevi (1977)

1. Uno stile globale?

Il nostro tempo pare essere incapace di dare di sé una definizio-


ne positiva. È un tempo del “post”, postmoderno, poststorico, post-
fordista e, recita ora un ritornello divenuto perfino stucchevole oltre
Atlantico, postcoloniale. Una transizione mai conclusa pare porsi co-
me l’unico modello possibile per comprendere i caratteri salienti del
presente. A un primo sguardo, il discorso postcoloniale sembra sol-
tanto limitarsi a riflettere questa situazione. Se si guarda alla sua va-
riante maggiormente diffusa nel dibattito teorico e nel discorso pub-
blico “globale”, mettendo per un attimo tra parentesi la discussione
che ha coinvolto molte voci attorno alla domanda su “quale sia il si-
gnificato di ‘post’ in postcoloniale”, non v’è molto a cui appassio-
narsi: ai codici binari che, descritti magistralmente da Fanon, orga-
nizzavano lo spazio, il tempo e l’esperienza delle colonie, sembre-
rebbe succeduta un’epoca in cui tutto s’incrocia, si “ibrida”. Pare qui
che si determini un movimento inverso rispetto a quello di cui parla-
va Max Weber nelle ultime, memorabili pagine dell’Etica protestan-
te: la “gabbia d’acciaio” del dispotismo coloniale, ripetono in molti,
ha finito per tramutarsi in un “mantello sottile, che ognuno potreb-
be buttar via” 1. Un insieme di dislocazioni avrebbe fatto del mondo
un piano di assoluta immanenza, percorso da soggetti nomadi impe-
gnati a comporre sul filo dell’ironia identità cangianti, attingendo

1 La citazione di Richard Baxter è in Weber 1904-1905, p. 305. Il recente libro di Rey


Chow, The Protestant Ethnic and the Spirit of Capitalism (2002) offre un punto di
vista originale da cui rileggere il classico lavoro di Weber nel contesto postcolonia-
le, in specie per quel che concerne l’ubiquità delle retoriche “etniche” nel presente.
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 24

24 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

frammenti ora ai magazzini dei vecchi empori coloniali dismessi, ora


alla memoria delle lotte anticoloniali. Il meticciato si avvia così a di-
venire uno stile globale, promosso dalle grandi corporation così come
dalle culture giovanili, buono tanto per i sarti quanto per gli archi-
tetti e per i menu dei ristoranti.
Ancora un “pensiero molle”, dunque? Un’ennesima variante del-
l’apologia del presente è quella che ci viene consegnata da quegli stu-
di postcoloniali che, dopo aver conosciuto una diffusione impressio-
nante nel mondo anglosassone nel corso degli anni Novanta, stanno
cominciando a filtrare anche in Italia? È il sospetto avanzato dalle tre
principali critiche, forti e circostanziate, che alla categoria di postco-
lonialismo sono state mosse negli ultimi anni (per una sintesi cfr. Chri-
sman, Perry, a cura di, 2000). In primo luogo, ha sostenuto in parti-
colare Arif Dirlik (1997 e 2000), gli studi postcoloniali promuovono
una vera e propria dissoluzione della storia, con le sue stratificazioni
e le sue opacità, in una sorta di eterno presente postmoderno, bana-
lizzando le cesure rivoluzionarie del passato e decretando l’impossi-
bilità della rivoluzione nel futuro. In secondo luogo, e in modo più
raffinato, Michael Hardt e Toni Negri (2000) hanno insistito sul fatto
che ciò che molti teorici postcoloniali esaltano come esperienza di li-
berazione, l’ibridismo e il meticciato appunto, indica in realtà il ter-
reno su cui operano i dispositivi contemporanei di dominio e di sfrut-
tamento. In terzo luogo Slavoj -i=ek, confortato più di recente da
un’ampia analisi di Peter Hallward (2001), ha individuato in molti
suoi interventi nel postcolonialismo, considerato una mera proiezione
globale del multiculturalismo, l’operare di una logica che potremmo
definire dell’indifferenza: il diritto a narrarsi in prima persona ver-
rebbe concesso all’“altro”, negli studi postcoloniali, dopo averlo de-
privato della sua identità, di quella ferita costitutiva che non può es-
sere suturata dal riconoscimento ma piuttosto dalla riconquista “le-
niniana” di una dimensione partigiana della verità (cfr. -i=ek 2002).
Certo, i singoli studi postcoloniali vanno valutati nel merito, e non
si mancherà di trovare più di un autore o di una corrente teorica che
confermi, oltre che la validità di queste critiche, lo stesso profilo sti-
lizzato che dello “stile” postcoloniale abbiamo tracciato in apertura.
Ma le cose cambiano, crediamo, se si prende sul serio la condizione
postcoloniale, distinguendola, almeno in prima battuta, dal postcolo-
nialismo, e guardando a quest’ultimo come a un foucaultiano archi-
vio, in cui continuamente si depositano immagini, concetti, parole
che consentono di ricostruire criticamente un profilo del nostro pre-
sente. È allora possibile recuperare, almeno in parte, la sostanza del-
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 25

LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 25

le critiche richiamate e ciò nondimeno insistere sull’opportunità di


inserire nel vocabolario del pensiero critico il termine postcoloniale
in una posizione di tutto rilievo.
Decisivo, da questo punto di vista, diviene proprio “il significato
del ‘post’ in postcoloniale”. È bene enunciare subito, in modo secco,
la nostra tesi: il tempo postcoloniale è quello in cui, contemporanea-
mente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio
per le modalità con cui il suo “superamento” si è realizzato, si installa
al centro dell’esperienza sociale contemporanea, con il portato di do-
minazione, ma anche di insubordinazione, che la contraddistingue. Il
confinamento, la vera cifra “epistemica” del progetto di sfruttamento
coloniale dell’Occidente 2, e la resistenza contro di esso cessano di or-
ganizzare una cartografia capace di distinguere in modo univoco la
metropoli dalle colonie, frantumandosi e ricomponendosi di continuo
su scala globale. Quello che questa categoria di postcoloniale suggeri-
sce è che l’unità del mondo, l’obiettivo di tanti progetti cosmopoliti-
ci, si è infine realizzata in forme ambivalenti, che ne fanno da una par-
te l’orizzonte materiale al cui interno tende a iscriversi la stessa identità
individuale 3, ma dall’altra non danno alcuna garanzia sul fatto che es-
sa non sia la scena in cui si consuma definitivamente la portata eman-
cipativa di un discorso politico declinato nel linguaggio dell’universa-
le, fagocitato dalla spettrale oggettività della merce e del denaro.

2. Decentrare il globale

Cominciamo dunque proprio da quel rapporto con la storia che,


secondo molti critici, costituisce uno dei punti dolenti del postcolo-
nialismo 4. Dal nostro punto di vista, all’interno del grande laborato-
rio degli studi postcoloniali, la storiografia ha in realtà giocato un
ruolo essenziale (si pensi al lavoro collettivo portato avanti dai cosid-
detti subaltern studies per quel che concerne l’India), e ha in partico-
lare posto in evidenza il nesso indissolubile che stringe anticoloniali-

2 Sia Said (1991) sia Thomas (1994) sottolineano questo punto.


3 Étienne Balibar ha sostenuto che oggi stiamo facendo esperienza dell’emergere di
un nuovo concetto di mondo, in cui per la prima volta nella storia l’”umanità”, piut-
tosto che un ideale astratto, costituisce la “condizione di esistenza degli individui
stessi” (Balibar 1997, p. 430).
4 Non è soltanto Arif Dirlik ad aver mosso questa critica. Per una discussione di que-
sto punto, si vedano i lavori McClintock (1992) e Shohat (1992). In modo più radi-
cale, sviluppando le tesi di Ahmad, San Juan Jr. (1998) vede nella sospensione del
tempo a cui punta la critica postcoloniale una vera e propria negazione della storia.
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 26

26 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

smo e postcolonialismo. Robert Young ha di recente dedicato a que-


sto nesso un libro molto importante (Young 2001), che ci permette
in primo luogo di rileggere alcuni classici del pensiero anticoloniale
al di fuori delle retoriche consunte del terzomondismo, ravvisando
piuttosto in essi le tracce embrionali di una consapevolezza di quan-
to la dialettica tra colonialismo e anticolonialismo abbia debordato,
nel corso del Novecento, dai confini tradizionali in cui si era andata
svolgendo nei quattro secoli precedenti. Un libro come The Black At-
lantic, di Paul Gilroy (1993), costituisce un altro brillante esempio di
questo decentramento dello sguardo storico, insistendo sulla dimen-
sione diasporica e già globale della “doppia coscienza” nera, svilup-
patasi nei laboratori coloniali della modernità.
Non è forse una chiara indicazione in questo senso la sicurezza
con cui, nel 1955, Aimé Césaire invitava a cogliere nel fascismo una
forma di colonialismo abbattutasi sull’Europa nel momento in cui
sembravano esauriti i territori oltremare da conquistare? Ma, come
ha recentemente sottolineato Robin Kelley (2002, p. 175), Césaire si
spinse oltre, sostenendo che il vero tabù infranto dal nazifascismo
consistette nel fatto di applicare direttamente a soggetti bianchi ed
europei ciò che era concepibile solamente nel mondo coloniale 5. È
una valenza sinistra di postcolonialismo quella che si presenta ai no-
stri occhi seguendo questo filo di ragionamento, che del resto era sta-
to anticipato subito dopo la fine della guerra dal grande intellettuale
e attivista afroamericano W.E.B Du Bois 6: nel momento in cui di-
spositivi di dominio originariamente forgiati nel contesto dell’espe-
rienza coloniale si infiltrano nello spazio metropolitano, siamo già in
un tempo in qualche modo postcoloniale.
È certo vero che questo transito – questo movimento di ibridazio-
ne per nulla emancipativo, si potrebbe dire – è in realtà connaturato

5 Vale la pena citare per esteso il passo di Césaire: “Oui, il vaudrait la peine d’étudier,
cliniquement, dans le détail, les démarches d’Hitler et de l’hitlerisme et de révéler
au très distingué, très humaniste, très chrétien bourgeois du XXe siècle qu’il porte
en lui un Hitler qui s’ignore qu’Hitler l’habite, qu’Hitler est son démon, que s’il le
vitupère, c’est par manque de logique, et qu’au fond, ce qu’il pardonne pas à Hitler,
[...] c’est ne pas l’humiliation de l’homme en soi, c’est le crime contre l’homme
blanc, c’est l’humiliation de l’homme blanc, et d’avoir appliqué à l’Europe des pro-
cédés colonialistes dont ne revelaient jusqu’ici que les Arabes d’Algerie, les coolies
de l’Inde, et les nègres d’Afrique” (Césaire 1955, p. 12).
6 “Si può dire che non vi sia nessuna atrocità nazista – campi di concentramento, mu-
tilazioni ed eccidi di massa, profanazione di donne e orrendi oltraggi all’infanzia –
che la civiltà cristiana dell’Europa non abbia praticato contro i popoli di colore in
ogni parte del mondo nel nome di una Razza superiore nata per dominare il mon-
do” (Du Bois 1946, p. 23).
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 27

LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 27

al colonialismo moderno: in un bel saggio del 1979, Carlo Ginzburg


lo aveva efficacemente mostrato a proposito delle origini bengalesi
delle impronte digitali 7. Ma in questo caso il confine tra metropoli e
colonie veniva oltrepassato per meglio gestire un fondamentale con-
fine interno, quello tra “classi laboriose” e “classi pericolose” magi-
stralmente indagato nel caso di Parigi nella seconda metà dell’Otto-
cento da Louis Chevalier (1958). Un po’ come la mitragliatrice, che,
dopo aver dato una micidiale prova delle sue potenzialità distruttrici
nel corso della guerra civile americana, venne bandita dalle guerre che
si svolsero in “Occidente” per giocare tuttavia un ruolo decisivo nel-
lo scramble for Africa: il che non le impedì di essere impiegata senza
risparmio negli Stati uniti, oltre che nelle ultime campagne contro gli
“indiani”, per reprimere gli scioperi operai di fine Ottocento. Quan-
do quella stessa arma fu infine utilizzata nei campi di battaglia della
Grande guerra, un decisivo salto di qualità era intervenuto: la “guer-
ra totale” a lungo praticata dagli europei nelle imprese coloniali co-
minciava a dilagare nello stesso continente europeo (cfr. Diner, 1999,
cap. 1). Di lì a poco, un altro dispositivo di dominio tipicamente co-
loniale, il campo di concentramento, avrebbe impresso il sigillo della
catastrofe a questo movimento di displacement (Rahola 2003a).
Le parole di Césaire ci hanno dunque permesso di precisare un
aspetto decisivo del tempo storico postcoloniale: quello per cui esso
è caratterizzato dal tracimare di logiche di dominio tipicamente co-
loniali al di fuori degli spazi in cui hanno avuto origine, fino a inve-
stire la “metropoli”. Si tratta di un movimento tutt’altro che esauri-
to, che continua a produrre i suoi effetti più o meno “catastrofici”
nelle modalità di governo e di messa a valore della forza lavoro mi-
grante così come nella riorganizzazione delle funzioni di controllo
delle cittadinanze autoctone in “Occidente”. Ma questo è soltanto un
contributo, e forse neppure il più importante, che il postcoloniali-
smo, una volta sottolineato il nesso che lo stringe all’anticolonialismo,
può apportare alla definizione di una genealogia del nostro presente:
l’altro consiste precisamente nel porre in evidenza il carattere di ce-
sura irreversibile che le lotte anticoloniali, con la loro dimensione im-
mediatamente globale, rivestono nella storia contemporanea. Sono
quelle lotte, nonostante lo scacco clamoroso subito praticamente da
tutti i regimi politici a cui hanno dato vita, a qualificare come piena-
7 Ha scritto recentemente a questo proposito Christian Parenti: “le impronte digita-
li letteralmente migrarono dalla periferia coloniale al centro del sistema mondiale.
Negli Stati uniti le prime popolazioni a cui si presero in massa le impronte digitali
furono detenuti, piccoli criminali, soldati e nativi americani” (Parenti 2003, p. 49).
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28 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

mente postcoloniale il tempo in cui viviamo, nella misura in cui han-


no disarticolato una volta per tutte l’idea che il tempo e lo spazio del-
le colonie fossero qualitativamente altri da quelli della metropoli.
La scoperta dell’uguaglianza, di cui Fanon parlava nel 1961 in una
pagina memorabile dei Dannati della terra (cfr. infra, cap. II) come
del motore dell’insurrezione anticoloniale, è una splendida metafora
per indicare il lato soggettivo di un insieme di processi che hanno
materialmente immaginato e costruito, scardinando il “mondo a
scomparti” della situazione coloniale, l’unità del mondo prima che la
“globalizzazione neoliberista” distendesse su di essa la propria ege-
monia. Si può parlare di una condizione postcoloniale, dal nostro
punto di vista, soltanto se si scommette sulla persistenza, sul lavorio
carsico di questa scoperta nella filigrana della globalizzazione con-
temporanea. Abbiamo altrove argomentato la tesi secondo cui i mo-
vimenti migratori recano oggi i segni, ambivalenti, di questa scoper-
ta (Mezzadra 2006, in specie parte I, cap. 4). E siamo convinti che es-
sa stia continuando a nutrire movimenti sociali di tipo nuovo in quel-
lo che un tempo veniva definito “terzo mondo”, capaci di porsi con-
sapevolmente oltre l’orizzonte della sconfitta storica subita dai movi-
menti che proprio dalle lotte anticoloniali erano nati.
Il tipo di studi postcoloniali che ci interessa, coerentemente con
questa impostazione, è quello che permette di riprendere in mano
Fanon e Lumumba, C.L.R. James e la tradizione del black marxism,
nel tempo della globalizzazione. Non certo per trovare in essi com-
piuti modelli di azione e teoria politica: ma piuttosto per individuare
nel fallimento dei progetti a cui hanno legato il loro nome il senso di
una storia nascosta, cancellata dalla “storia dei vincitori”. Nel suo in-
terminabile confronto con Walter Benjamin, Theodor Adorno ebbe
una volta a notare che la conoscenza della storia deve andare oltre “la
logica infausta della successione di vittoria e disfatta”, e deve piutto-
sto rivolgersi a “ciò che non è entrato in questa dinamica, a ciò che è
rimasto per via”. È proprio questo, i “punti ciechi che sono sfuggiti
alla dialettica” (Adorno 1951, p. 178), ciò che compone l’eredità
postcoloniale che dobbiamo riscattare nei progetti anticoloniali.

3. Sulla transizione

Eppure la domanda persiste: perché il tempo delle colonie conti-


nua a ossessionarci? Perché il suo superamento allude contempora-
neamente a un fait accomplie e a una transizione nei fatti impossibi-
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le? Gli elementi di continuità tra il presente e il colonialismo appaio-


no indiscutibili. “Sanguinosa battaglia in Affghanistan”: la bizzarra
ortografia suggerisce che non si tratta di un titolo tratto dai giornali
di oggi; è una citazione dalla prima pagina di Moby Dick, di Herman
Melville... L’immediatezza di questa continuità rischia tuttavia di ri-
sultare fuorviante. È ovvia, ad esempio, la perentorietà con cui il co-
lonialismo ha materialmente disegnato la geografia moderna e i suoi
confini: una geografia che si inaugura nel XVI secolo, proiettando il
profilo dell’Europa prima e dell’Occidente poi sul mondo, e che tro-
va forse la sua espressione più compiuta (hegelianamente, realizza il
suo concetto) nei confini africani tirati con “la riga e la squadra” nel
1885 a Berlino.
L’azione prolungata di quei confini risulta imprescindibile per
comprendere le radici di molte tensioni e fallimenti che pesano sul
presente. Da una parte essa contribuisce a spiegare lo stesso scacco
subito dai movimenti anticoloniali, nella misura in cui la loro imma-
ginazione politica ha finito per svolgersi all’interno dell’ordine del
discorso coloniale, derivandone tra l’altro, per riprendere un tema su
cui ha scritto pagine molto importanti Partha Chatterjee (1986), la
forma nazionale e interiorizzandone le frontiere. Dall’altra parte, se
si guarda ai più significativi e drammatici conflitti degli ultimi anni,
da quello israelo-palestinese alle guerre “locali”, tutte definite in ter-
mini rigorosamente “etnici” (il Ruanda e Timor est, lo Sri Lanka e la
Sierra Leone), la matrice generativa coloniale appare evidente, in un
certo senso inconfutabile.
E tuttavia non può sfuggire la circostanza per cui questa lettura dei
conflitti attuali finisce per mostrarsi speculare a quella che, appunto
insistendo sulla loro natura “etnica”, ristabilisce i diritti della vecchia
formula hic sunt leones, che nelle carte geografiche della prima età
moderna contrassegnava i territori della barbarie. Ancora una volta,
in altri termini, attribuendo in modo esclusivo al colonialismo belga
o francese, o all’imperialismo britannico, la responsabilità dei massa-
cri e dei genocidi del presente, si installa al centro della scena, come
unico protagonista, la soggettività imperiale, destituendo di ogni pos-
sibilità di azione i “subalterni”. Assai più produttiva politicamente, ci
pare un’immagine dei conflitti contemporanei che, pur ponendo nel
giusto rilievo il persistere in assoluto di trame “verticali” di domina-
zione e di sfruttamento, sottolinei il ruolo ambivalente che in essi svol-
ge il fallimento di un insieme di progetti reali, storicamente messi in
gioco, di liberazione da quella dominazione e da quello sfruttamento.
La sensazione è infatti che la riproposizione di una logica di con-
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tinuità assoluta finisca per avallare e perpetuare all’infinito un mec-


canismo “redentivo”, autoassolutorio (nel caso dei soggetti “subal-
terni”) o liquidatorio (nel caso del soggetto “occidentale”). Liquida-
torio, nella misura in cui si sbarazza delle lotte anticoloniali come
semplice inconveniente (di segno ovviamente positivo, ma nei fatti
inconsistente) nella trama lineare di una storia di dominio e di sfrut-
tamento ininterrotti, privando così il soggetto colonizzato che insor-
ge, il subalterno che si ribella, di ogni possibile forma di agency, di
intervento diretto sulla storia. Autoassolutorio, nella misura in cui eli-
mina dalla storia stessa ogni “responsabilità diretta” che non sia iden-
tificabile nell’Occidente colonialista, e cioè ogni atto rivoluzionario
che non appartenga all’Occidente, e così facendo trasferisce oltre al-
le responsabilità soprattutto l’azione dal soggetto colonizzato all’e-
terno Soggetto (neo)colonialista.
In questa prospettiva, dunque, il presente risulta come inesora-
bilmente risucchiato nel vortice del passato coloniale: come sua ri-
proposizione tout court (neocolonialismo) o come sua variante pola-
rizzata geograficamente lungo i confini che dividono il primo, il se-
condo, il terzo e il quarto mondo. La potenzialità del “post” cede ne-
cessariamente il passo alla logica ferrea dell’“ancora”, iterandosi nel
“neocolonialismo”, come affermava Kwame Nkrumah già all’indo-
mani dell’indipendenza del Ghana 8, o sciogliendosi come neve al so-
le di fronte al persistere del “sottosviluppo” e della “dipendenza” che
lega ogni sud del mondo al suo rispettivo nord.
Per essere assolutamente chiari, categorie quali neocolonialismo,
sottosviluppo e dipendenza, indipendentemente dall’utilità descritti-
va che possono di volta in volta rivestire in riferimento a casi specifi-
ci, finiscono paradossalmente per rivelarsi funzionali a retoriche po-
litiche quali quelle adottate dall’African National Congress dopo la fi-
ne dell’apartheid: cancellano gli effetti sociali devastanti delle politi-
che “neoliberiste”, promosse dai governi sudafricani degli ultimi an-
ni in nome dell’ineluttabilità e della positività dello “sviluppo”, e ben
si prestano a stigmatizzare come “reazionarie” le straordinarie lotte
8 Discutendo il libro di Nkrumah, Neocolonialism. The Last Stage of Imperialism (la
cui prima edizione risale al 1965), Robert Young ha giustamente scritto: “la sua en-
fasi sulla continuità del dominio neocoloniale presenta lo svantaggio di suggerire l’i-
dea di un’impotenza e di una passività che finisce per sottovalutare quel che è stato
conquistato a partire dall’indipendenza, nonché gli stessi movimenti di lotta per l’in-
dipendenza, riproducendo – sia pure in modo simpatetico – stereotipi di dispera-
zione e rafforzando l’assunto dell’egemonia occidentale con il Terzo mondo ritrat-
to come sua vittima eterna e omogenea. Come concetto, il neocolonialismo è para-
lizzante tanto quanto lo sono le condizioni che descrive” (Young 2001, pp. 48 s.).
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contro quelle politiche narrate ad esempio da Ashwin Desai in We


Are the Poors (2002), che in qualche modo possono essere conside-
rate esempi paradigmatici di quella che P. Chatterjee (2004) chiama
“politica dei governati”, di cui mostrano anzi intera l’irriducibilità ai
processi di governamentalità.
Più in generale, alle obiezioni peraltro circostanziate sull’impossi-
bilità di un “post”colonialismo, si può ribattere che procedendo in
questo modo si finisce per smarrire in toto l’eredità e la continuità del-
l’anticolonialismo, e quindi anche il senso profondo del suo fallimen-
to, la sua “lacuna”: quello che potremmo chiamare, nei termini intro-
dotti da E. Santner nella sua lettura delle Tesi sul concetto di storia di
Walter Benjamin, il suo carattere di “sintomo che insiste” sul presen-
te 9. Si “ricuce” (sutura) la potente, radicale e sovversiva discontinuità
che le lotte anticoloniali hanno introdotto, infrangendo quel tempo li-
neare “omogeneo e vuoto” che Benjamin individuava come dimen-
sione costitutiva del discorso storico occidentale (e coloniale).
Per questo, parlare di una condizione postcoloniale vuol dire in-
dicare il tempo che viene problematicamente “dopo” le colonie, la
geografia irrisolta che succede a Berlino 1885, portando alla luce
l’impossibilità di quelle linee tracciate sulla carta, il sopravvento del
territorio su quella mappa, senza negare una sola goccia del sangue
che si è versato e che si continua a versare a causa di quella mappa.
Contemporaneamente, lo ripetiamo, invita a pensare la complessità
di un mondo che, grazie anche e soprattutto alle lotte anticoloniali,
si è fatto davvero uno, e la cui unità continua a essere attraversata
dallo spazio sovversivo delle differenze così come da profondissime
disuguaglianze, da plateali squilibri, da un incessante sfruttamento.

4. Differenze postcoloniali

Proprio l’insistenza sul senso rinnovato che assume oggi la parola


differenza costituisce d’altro canto uno dei leitmotiv del postcolonia-
lismo: la dimensione direttamente politica delle “differenze”, che è

9 “I sintomi registrano non solo tutti i falliti tentativi rivoluzionari del passato, ma,
più modestamente, ogni mancata risposta a una chiamata all’azione o anche solo al-
l’empatia per coloro la cui sofferenza appartiene alla forma di vita di cui si è parte.
Occupano il posto di qualcosa che è là, che insiste sulle nostre vite pur non avendo
mai raggiunto una piena consistenza ontologica. I sintomi, quindi, sono in un certo
senso archivi virtuali di lacune, o meglio, difese contro le lacune che persistono nel-
l’esperienza storica” (E. Santner, Miracles Happen, citato in -i=ek 2002, p. 76).
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possibile portare alla luce seguendo le traiettorie della critica postco-


loniale, conduce a riconsiderare molte delle questioni che sono state
discusse negli ultimi anni sotto il titolo di “politica dell’identità”. Per
farla breve, è ovvio che le traiettorie della differenza (materiale, po-
litica, culturale) abbiano subito con il colonialismo una deviazione ir-
recuperabile, siano state cioè costrette a recitare se stesse su uno spar-
tito reso violentemente comune. Rovesciando i termini, si può affer-
mare che è semplicemente impossibile pensare la modernità, il suo
discorso sulla differenza e tutti gli strumenti concettuali di cui essa si
è dotata per definirne, inquadrarne e “misurarne” la portata, senza
riferirsi alla violenza costitutiva, originaria, delle colonie.
È esattamente questo, niente di più e niente di meno, il senso di
ciò che l’antropologo francese Georges Balandier (1969) – echeggia-
to, dall’altra parte della Manica, da Leach, Gluckman e da tutti gli
antropologi sociali della Scuola di Manchester – definiva alla fine de-
gli anni Sessanta come situazione coloniale 10: la datità assoluta del co-
lonialismo come contesto tout court dello stesso ordine discorsivo et-
no-antropologico. Ed è sempre a tale origine assoluta che ricondu-
cono tutti i tentativi di tracciare una genealogia delle categorie con
cui il discorso sulla differenza si è fissato nella scienza: razza, etnia,
cultura... Proprio su questo esercizio genealogico, che ricalca il lavo-
ro di Foucault sull’episteme moderno e al tempo stesso ne colma una
lacuna meno innocente di quanto possa apparire 11, il contributo de-
gli “studi postcoloniali” appare semplicemente decisivo.
Se già Fanon e Malcom X, e prima di loro Du Bois, affermavano
l’impossibilità di pensare la “razza” senza lo sfondo storico concreto
dell’esperienza di dominazione coloniale (indagando poi gli effetti
devastanti, di vera e propria schizofrenia, indotti dal semplice fatto
di essere rappresentati come un “problema”, costretti a guardarsi at-
traverso gli “occhi” di qualcun altro: how do you feel to be a pro-
blem?), Edward Said (1978) e Valentin Mudimbe (1988) di quel dis-
corso hanno portato alla luce i regimi di verità cristallizzati in con-

10 In una prefazione scritta di recente per un volume francese sugli studi postcolonia-
li, Balandier – nonostante molte cautele e rilievi critici – mostra di cogliere perfet-
tamente il contributo apportato da questi studi alla comprensione del presente: “il
postcoloniale”, scrive, “designa una situazione che è di fatto quella di tutti i con-
temporanei. Siamo tutti, in forme differenti, in situazione postcoloniale” (Balandier
2007, p. 24).
11 Si può ben dire che in Foucault sia all’opera una sorta di rimozione dell’esperienza
coloniale, il lato oscuro del processo di costruzione del soggetto moderno da lui co-
sì brillantemente ricostruito. Si vedano in questo senso Chatterjee 1983, Said 1986,
Spivak 1988, Stoler 1995.
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LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 33

cetti come “Oriente” e “Africa”. Laddove i lavori di Jean-Loup Am-


selle e Elikia M’Bokolo (1985) sulla categoria (a dir poco centrale nel
discorso antropologico) di “etnia” rintracciavano nell’esperienza co-
loniale origini politiche e “di governo” oggi mascherate dalla natura-
lità del suo continuo ricorrere per spiegare caratteri, ragioni e “ne-
cessità” di molte tensioni postcoloniali, Arjun Appadurai (1996) ha
portato alla luce il nesso diretto tra procedure di classificazione e di-
spositivi di sfruttamento, riconducendolo alle strategie enumerative
del partage coloniale, da cui neppure il calendario, e quindi l’orga-
nizzazione sociale del tempo, può considerarsi immune.
Ma gli studi postcoloniali non si limitano a ribadire l’evidente im-
plicazione di “differenze” e colonialismo. Anche se molti critici post-
coloniali si sono dedicati a rileggere le transazioni culturali costituti-
ve dello stesso colonialismo e a decostruire la narrazione mainstream
della transizione postcoloniale, il loro oggetto di analisi li sposta ine-
sorabilmente sul “dopo”, sullo sconfinamento “globale” di quella ma-
trice coloniale. Per questo, con gli occhi puntati sul presente, lo sfor-
zo teorico maggiore si consuma nel tentativo più complesso di co-
gliere l’immediato carattere politico che le differenze assumono nello
scenario globale contemporaneo: molte analisi sono state così dedi-
cate a decifrare le specifiche “strategie” – spesso non intenzionali –
sottese alle manifestazioni di differenza, approfondendo le aporie e
le pieghe che agivano tra le righe dei discorsi ufficiali coloniali in ba-
se a una logica di sutura e di supplemento – per riprendere alcune ca-
tegorie derridiane su cui ha lavorato in particolare Gayatri Spivak.
L’idea, cioè, è quella di forme e pratiche identitarie che continua-
no a definirsi processualmente, attraverso una serie di slittamenti
progressivi che seguono la logica descritta dalla figura retorica della
catacresi (letteralmente, una metafora di uso talmente comune da non
essere più avvertita come tale, che interviene a colmare una lacuna
della lingua non esaurendo il processo di significazione ma esten-
dendolo e spiazzandolo: ad esempio le “gambe” del tavolo) e si insi-
nuano negli interstizi della polarizzazione coloniale senza approdare
a una possibile sintesi, contrapponendosi a ogni immagine semplice e
innocente sia di essenzialismo sia di sincretismo.
Non è un caso che la consapevolezza della dimensione essenzial-
mente politica e processuale della differenza, nelle sue declinazioni
tanto materiali quanto di costruzione discorsiva, incontri gli sviluppi
probabilmente più significativi nella riflessione sul pensiero di gene-
re e nella critica all’universalità astratta di alcuni canoni del femmi-
nismo occidentali: qui, la capacità di “decentrare globalmente” ogni
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logica binaria e ogni discorso potenzialmente assoluto o assolutiz-


zante, conferisce al pensiero femminista postcoloniale una piega po-
litica trasversale che problematizza e arricchisce il discorso sulla dif-
ferenza sia del femminismo che del postcolonialismo. In particolare,
contro il mito della “donna del terzo mondo”, paradigma “statico”
di oppressione che ha occupato un ruolo decisivo sia nel nazionali-
smo anticoloniale sia in molto femminismo occidentale, i lavori di
Chandra Talpade Mohanty (2003), di Ania Loomba (1998) e di altre
femministe postcoloniali invitano a interpretare le differenze “raz-
ziali”, culturali e di genere come fattori che non si limitano ad af-
fiancarsi o a sommarsi uno sull’altro, ma interagiscono producendo
forme nuove e incomparabili di segregazione e di assoggettamento,
così come nuove pratiche di differenza e di resistenza al patriarcato,
al razzismo e allo sfruttamento. Da questa interazione l’esperienza di
genere assume una dimensione e una “voce” irriproducibili, e in
quanto tali sistematicamente cancellate o rappresentate come ineso-
rabilmente assenti (questa, in fondo, la risposta implicita alla do-
manda cui Spivak dedicava il proprio intervento critico del 1988 con-
tro una certa ingenuità degli studi subalterni – “Can the Subaltern
Speak?”). Una tale rimozione appare costante e caratterizza i dibattiti
sul sati (il sacrificio rituale delle vedove indiane), sullo chador (cfr. Ri-
vera 2005), sull’infibulazione (cfr. Pasquinelli 2007): pratiche di po-
tere “tradizionali” che hanno aperto “dialoghi interculturali” inter-
minabili – e non necessariamente circoscritti all’interno degli spazi
“metropolitani” – in cui però, lo sottolinea in modo incisivo Lata
Mani (1998), le donne sono state per lo più semplice “luogo” quando
non pretesto: mai, in ogni caso, soggetto, se non per la loro capacità
di sottrarsi all’ordine del discorso dominante e di sovertirlo.
È quindi a partire da questi presupposti dinamici, marchiati alla
radice dalla dominazione coloniale e dai suoi effetti a catena (da ciò
che Gregory Bateson [1972, pp. 101 ss.] definiva come schismogene-
si, come differenza prodotta dalla differenza), che l’idea di differen-
za suggerita dalla critica postcoloniale si impone come prospettiva
teorica estremamente ricca, segnando un superamento a nostro avvi-
so sostanziale del discorso relativista moderno e delle sue declinazio-
ni politiche più recenti, su tutte di quella multiculturalista. È eviden-
te infatti come essa indichi la possibilità di evitare la deriva dell’o-
mologazione, non soltanto e non tanto in termini “normativi”, ma an-
che sotto il profilo analitico: contro ogni lamentosa retorica sull’”oc-
cidentalizzazione” e sulla “cocacolonizzazione” del mondo, la critica
postcoloniale afferma il presente globale come incessante incubato-
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LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 35

re di differenze. Contemporaneamente, proprio per via dell’insisten-


za costante sulla irriducibile matrice coloniale di tali differenze, essa
nega recisamente ogni possibile “autenticità” culturale, contestando
ogni messa in scena di origini in base a una logica che Edward Said
e James Clifford definiscono di “simmetria della redenzione”.
Di fronte all’essenzialismo dilagante nella discussione, almeno ita-
liana, sul multiculturalismo, l’insistenza postcoloniale su categorie
come meticciato, sincretismo e ibridità costituisce dunque una salu-
tare boccata d’aria fresca. E tuttavia il campo semantico costituito da
tali concetti si rivela, come si è anticipato, tanto suggestivo quanto
potenzialmente rischioso. Qui le critiche di Hardt e Negri da una
parte, di -i=ek dall’altra, colgono effettivamente nel segno. L’ibridità,
la tendenza a rappresentare con toni spesso apologetici una differen-
za fluttuante, libera da vincoli oppressivi e dall’ipoteca di un’appar-
tenenza univoca, non è forse l’implicito, il non detto della nuova sog-
gettività tardocapitalistica? E, d’altra parte, l’enfasi sulla differenza,
sul diritto a narrarsi in prima persona, non si traduce forse nella ri-
vendicazione di un “diritto alla differenza” che in realtà nessuno vuo-
le negare e a cui anzi si è continuamente ricondotti a forza?
Il rischio allora è essenzialmente quello di una rimozione che
proietta un immaginifico livello discorsivo, di memoria, su tensioni e
lotte reali, e così facendo riproduce una duplice distanza: temporale,
nella misura in cui afferma il trionfo della contingenza, e spaziale nel-
la misura in cui separa differenze ipostatizzate. L’apologia postcolo-
niale della differenza, insomma, “tiene a distanza”, coprendo il REA-
LE ordine del presente costruito dal dominio dell’astrazione reale ca-
pitalistica: è questa, in buona sostanza, la critica di -i=ek. Ed è un’ac-
cusa diretta, anche e soprattutto se si pensa all’insistenza sulle storie
locali, sulla “verità” delle “trame decentrate” a cui molti studi post-
coloniali alludono e riconducono. Il problema però, aspetto che -i-
=ek sembra ignorare (tanto è vero che la critica del postcolonialismo
di Peter Hallward, svolta attraverso un’ampia ripresa delle sue argo-
mentazioni, finisce per riproporre lo Stato-nazione come unico oriz-
zonte al cui interno è possibile inscrivere pratiche di emancipazione),
è che, sia in generale nelle lotte anticoloniali sia in particolare nella
critica postcoloniale, la posta in palio non può più essere locale, ed è
per forza, non importa se per necessità o per scelta, “da subito globale”,
necessariamente e contraddittoriamente “universale”. E non si tratta di
un’universalità a priori (astratta), ma dell’universalità concreta che la
violenza coloniale come discorso comune di dominio e di sfrutta-
mento ha imposto.
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36 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

Dietro l’insistenza sulle storie locali, allora, si profila il tema più


generale della differenza storica, della pluralità di tempi su cui l’a-
strazione reale del capitale ha imposto il proprio dominio, disponen-
doli dapprima, con il colonialismo, in una successione “stadiale”, e
poi, nel presente postcoloniale, sincronizzandoli violentemente. È
proprio ragionando sulla qualità del tempo storico nel nostro pre-
sente, infatti, che un’ulteriore e decisiva valenza del concetto di post-
colonialismo viene alla luce.

5. Afferrare il presente

Si può forse avanzare, da questo punto di vista, un’ipotesi non pe-


regrina sulle ragioni sostanziali per cui il nostro presente pare incline
a definirsi attraverso un uso inflazionato del “post”. Si tratta di ri-
prendere e sviluppare la tesi formulata da Paolo Virno (1999) a pro-
posito della situazione “post-storica” come quella in cui “viene in vi-
sta la stessa condizione di possibilità della Storia”: ovvero come si-
tuazione in cui la tensione tra potenza e atto che fonda la possibilità
del decorso cronologico e dell’ordine temporale, del divenire, cessa di
agire dietro ai fenomeni e ne costituisce piuttosto l’ordito evidente.
Proviamo a tradurre la riflessione di Virno ricorrendo alle catego-
rie proposte da Reinhart Koselleck (1979 e 2000). Sono noti i termi-
ni generali della sua analisi della modernità: quest’ultima è definita da
un’esperienza di accelerazione del tempo di cui si rende filosofica-
mente ragione attraverso un gesto originario di riduzione del plurale
delle storie tradizionali al “singolare collettivo” della Storia; il vettore
temporale che ne risulta assume conseguentemente caratteri di uni-
direzionalità e linearità, su cui si innesta la tensione tra “orizzonte d’a-
spettativa” e “spazio d’esperienza”. Tensione che, sotto il profilo for-
male, tiene il medesimo luogo che nel discorso di Virno è occupato
da quella tra potenza e atto. Siamo qui all’origine, secondo Koselleck,
di un movimento di temporalizzazione delle categorie della politica
che trova nel concetto di progresso la propria cifra d’insieme.
È precisamente su questo punto che interviene la critica postco-
loniale. Da una parte con un gesto, se si vuole tradizionale nella for-
ma, rivolto al passato: o meglio a un passato, quello della schiavitù e
della violenza muta, non dialettica, del dominio coloniale, che, nella
misura in cui si nega a ogni compensazione nell’ordine delle aspetta-
tive, resiste ostinatamente a essere consegnato al passato, popolando
di spettri il presente. Ma dall’altra parte investendo direttamente que-
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sto stesso presente, con una critica dello “storicismo”, quale ad esem-
pio quella proposta da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare l’Eu-
ropa (2000), che si appunta proprio sulla possibilità di ordinare cro-
nologicamente gli strati di cui si compone il tempo globale. Detta in
altri termini: è la stessa modalità con cui oggi il capitale costruisce (è
costretto a costruire) la sua Storia, la temporalità “omogenea e vuota”
di cui parlava Benjamin, a far sì che vengano continuamente in su-
perficie le storie plurali che esso ha incontrato, incorporato e travol-
to nel processo del suo farsi mondo.
Il tempo del “post”, in questa chiave, è un tempo in cui non sono
certamente venuti meno dominio e sfruttamento, ma in cui piuttosto
appare sospesa la possibilità di individuare luoghi privilegiati per agi-
re la trasformazione (è questo il senso ultimo, ci pare, dell’insistenza
postcoloniale sul decentramento): un tempo in cui, d’altra parte, ogni
giudizio sull’“arretratezza” o sull’“avanzamento” di una determina-
ta situazione si provincializza, nel senso che può trovare soltanto nel
presente – e non in un modello di “sviluppo” assunto come norma-
tivo – il proprio criterio operativo.
Agisce qui un lungo lavorio teorico, a cui hanno dato il proprio
apporto tradizioni eterogenee di pensiero, che si è appuntato al di
fuori dell’“Occidente” sulla categoria di transizione (cfr. infra, cap.
VI e appendice): lo scacco subito non solo dai modelli analitici che
hanno interpretato il colonialismo attraverso un’immagine lineare
della transizione al capitalismo, ma anche e soprattutto dei progetti
politici che, partendo da categorie come “sviluppo ineguale” e “di-
pendenza”, hanno fatto perno sulle pretese virtù progressive dello
“sviluppo”, della “cittadinanza” e del “lavoro salariato”, conduce a
individuare nella contemporanea presenza di una pluralità di tempi
storici, e dunque di forme di dominio e di pratiche di liberazione,
una caratteristica strutturale del capitalismo fuori dall’Occidente, che
oggi si afferma su scala globale penetrando nello stesso spazio che un
tempo si definiva “metropolitano”.
La “provincializzazione dell’Europa” di cui parla Chakrabarty
agisce dunque in un duplice senso: da una parte mostra quanto par-
ticolare e non generalizzabile sia stata l’esperienza del capitalismo eu-
ropeo (o “occidentale”), quanto rilevante sia stata, per riprendere i
termini usati da Yann Moulier Boutang (1998), la presenza di “for-
me difformi” di dominazione del lavoro nella costituzione del capi-
talismo storico come sistema mondo; dall’altra fa definitivamente del-
l’Europa (dell’“Occidente”) una provincia nel momento stesso in cui
pare realizzarsi l’“occidentalizzazione del mondo”, nella misura in cui
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38 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

i suoi confini si fanno “porosi” e attraverso di essi i codici “coloniali”


filtrano all’interno di quello che continua a pensarsi come “centro”.
È questa, ci sembra, l’immagine del presente che si può estrapo-
lare dalla critica postcoloniale: un tempo in cui l’insieme dei passati
che il moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada riemerge
disordinatamente in una sorta di “esposizione universale”, in cui
“sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capi-
tale”, lungi dal poter definire una tendenza lineare, si “ibridano” e
coesistono fianco a fianco. Una volta che il confine coloniale ha ces-
sato di organizzare in modo coerente la geografia globale, esso si dif-
fonde virtualmente ovunque, riproducendosi sulla superficie appa-
rentemente “liscia” del presente globale: accompagna la nuova logi-
ca delocalizzata della produzione, segna in modo brutale intere so-
cietà che furono un tempo capaci di liberarsi del giogo coloniale e so-
no oggi costrette a confrontarsi con i fallimenti delle lotte anticolo-
niali, introduce nuove radicali differenze di status e nuove forme di
apartheid nell’Occidente postcoloniale, si fortifica fisicamente, con-
dannando potenzialmente a morte chiunque tenti di attraversarlo,
passando tra le recinzioni tra Tijuana e San Diego o facendo naufra-
gio nel Mediterraneo.
È esattamente una simile logica di differenza che è imposta e tra-
dotta dal capitale occidentale. Una logica capace di parlare il lin-
guaggio del sincretismo (come sia -i=ek sia Hardt e Negri hanno sot-
tolineato), ben disposta a concedere una determinata forma di sin-
cronicità (quella del mercato) alle diverse forme di vita che si diffon-
dono nel pianeta. Ecco perché l’uguaglianza continua a essere la pa-
rola più provocatoria e scandalosa nel lessico tardo-capitalistico. Una
volta ammesso che nuovi confini e nuovi dispositivi di dominio e
sfruttamento sono all’opera per implementare differenze, dobbiamo
riconoscere che essi sono anche quotidianamente sfidati (e non di ra-
do messi fuori uso) dalle pratiche di donne e uomini che lottano con-
tro di essi, o che semplicemente costruiscono le proprie vite sot-
traendosi al campo in cui si dispiega la loro azione. Oggi, la possibi-
lità della liberazione ha cessato definitivamente di essere affidata al
segreto operare di leggi storiche necessarie, per essere consegnata in-
teramente alla prassi delle donne e degli uomini che abitano nella lo-
ro irriducibile molteplicità il pianeta. A presentarsi come ibrido e
meticcio, allora, è anche quel linguaggio dell’universale (dell’ugua-
glianza) che si tratta quotidianamente di reinventare come spartito
comune attorno a cui soltanto può essere articolata, oltre ogni reto-
rica, una politica della moltitudine.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 39

CAPITOLO SECONDO
Immagini della cittadinanza nella crisi
dell’antropologia politica moderna

Io, che sono avvelenato del sangue di entrambi,


Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?
Io che ho maledetto
L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come sceglierò
Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all’Africa e vivere?
D. WALCOTT, Un lontano grido dall’Africa (1957)

“Il guaio con gli inglesi è che la loro storia si è svolta oltreoceano,
e loro non sanno che cosa significa”. Queste parole, tratte da un fa-
moso romanzo di Salman Rushdie (1988, p. 367) e spesso citate ne-
gli studi postcoloniali anglosassoni (cfr. ad es. Bhabha 1994, p. 231),
circoscrivono in modo molto preciso, una volta che il riferimento al-
l’Inghilterra sia allargato a comprendere in sé la vicenda storica
dell’“Occidente” nel suo complesso, il tema a cui questo capitolo è
dedicato. Riprendendo alcune sollecitazioni che vengono dal filone
di studi indicato, ci si propone infatti di esporre le linee fondamen-
tali di una ricerca sulle ripercussioni che il rapporto con l’altro da sé
– storicamente mediato dal progetto e dall’esperienza coloniale – ha
avuto per la definizione dei concetti di “Europa” e “Occidente” in
età moderna 1. E al tempo stesso si intendono indagare le modalità
con cui quel progetto e quell’esperienza hanno contribuito a definire
la genealogia del mondo “globale” contemporaneo, segnandone il
profilo e tuttavia non potendo in alcun modo esaurire quella che può
essere definita la sua costituzione materiale.
È intanto il caso di notare che, sotto il profilo storico, non man-
cano esempi di consapevolezza europea del processo a cui fanno ri-
ferimento le parole di Rushdie. Vediamone uno, particolarmente si-
gnificativo: proprio negli anni dell’apogeo dell’imperialismo – quan-
do quest’ultimo si avviava a divenire in Inghilterra, nei termini im-
piegati nel 1898 da Lord Curzon, viceré e governatore generale del-

1 Particolarmente stimolanti, in questo senso, sono le considerazioni di É. Balibar


(2001a).
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 40

40 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

l’India, “sempre meno la dottrina di un partito, e sempre più la pro-


fessione di fede dell’intera nazione” –, il grande storico britannico
J.R. Seeley polemizzava nelle sue lezioni su The Expansion of England
con l’immagine della storia inglese settecentesca che si era imposta
come canonica nei decenni precedenti. Quest’immagine, a suo giu-
dizio, concedeva uno spazio eccessivo “alle dispute parlamentari e al-
le agitazioni attorno alla libertà, tutte questioni in cui il XVIII secolo
altro non fu che un pallido riflesso del precedente. Quel che i nostri
storici non colgono è che in quel secolo la storia dell’Inghilterra non
si svolge in Inghilterra, ma in America e in Asia”. E poco più avanti
Seeley così proseguiva: “positivo o negativo che sia, è con ogni evi-
denza questo il grande fatto della storia inglese moderna. E sarebbe
un errore madornale ritenere che si tratti di un fatto meramente ma-
teriale, o che non comporti conseguenze morali e intellettuali” 2.

1. Gli studi postcoloniali e la problematica


della legittimazione

Affatto diversi, come è evidente, sono i presupposti delle affer-


mazioni di Rushdie e di Seeley. Ciò che l’uno coglie nella prospetti-
va di quelle genti d’oltreoceano il cui “silenzio, spontaneo o meno”,
rappresentava una delle condizioni fondamentali del progetto colo-
niale europeo (Said 1993, p. 75), l’altro rivendica dal punto di vista
esclusivo della storia d’Inghilterra. E tuttavia, nei brani citati di See-
ley, colpisce la lucidità con cui quella che potremmo definire l’e-
strinsecazione dell’Inghilterra, il nesso che stringe quest’ultima (non-
ché, aggiungiamo noi, l’Europa e l’Occidente nel loro complesso) ad
altri continenti, è indicata come caratteristica costitutiva della sua
stessa identità storica, ben lungi dal limitare i suoi effetti al piano
“meramente materiale” e anzi da indagare nelle sue “conseguenze
morali o intellettuali”.
È un’intenzione analoga in fondo, per quanto espressa con diver-
so lessico e con diversi concetti, quella che si ritrova all’origine degli
“studi postcoloniali” contemporanei. A partire dalla pubblicazione,
nel 1978, di Orientalismo di Edward Said, questi studi hanno dato

2 Seeley 1883, pp. 9 e 13 s. La citazione di Lord Curzon è tratta da Metha 1999, p. 5:


profondamente influenzato dagli sviluppi più recenti degli studi postcoloniali, il li-
bro di Metha, a dispetto di un’impostazione teorica non sempre convincente, rap-
presenta comunque una prima esemplificazione delle sollecitazioni che da quel fi-
lone di studi possono derivare alla storiografia del pensiero politico.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 41

IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 41

infatti espressione a un tentativo di rileggere criticamente il progetto


coloniale dell’Occidente indagandone non soltanto i risvolti storico-
concreti, ma anche gli effetti per così dire epistemici, ovvero sulla
struttura dei saperi e dei concetti attraverso cui l’“universalismo” oc-
cidentale si è confrontato con il tema della “differenza storico-cultu-
rale”. Una categoria fondamentale, di esplicita derivazione foucaul-
tiana, è stata in questo contesto, da Orientalismo in avanti, quella di
discorso coloniale: per quanto l’opera di Said sia stata da molti punti
di vista criticata, l’attenzione all’intreccio di sapere e potere nelle pra-
tiche della “governamentalità coloniale” è rimasta costante negli stu-
di postcoloniali degli anni successivi. E a più riprese questi studi si
sono confrontati con problematiche riconducibili al tema della legit-
timazione: non solo leggendo in controluce, nella filigrana teorica di
concetti come “civiltà” e “progresso”, i segni di quell’“idea” che, co-
me afferma Marlow all’inizio di Cuore di tenebra di Joseph Conrad,
sola può “riscattare” e “giustificare” la “violenza bruta” del colonia-
lismo, quella “conquista della terra la quale significa essenzialmente il
portarla via a quelli che hanno un diverso colore di pelle, o un naso
un po’ più schiacciato del nostro”; ma anche lavorando su concetti
come “autorità etnografica” e “canone”, sottoponendo cioè ad analisi
critica gli effetti potestativi connessi all’operare di sistemi di pensiero
e di paradigmi disciplinari che proprio al contesto coloniale devono
la propria origine 3.
Emblematica, in questo senso, è proprio la disamina, svolta da
Said, delle modalità con cui l’orientalismo occidentale ha costruito e
forgiato l’oggetto “Oriente”, anticipandone e accompagnandone in
qualche modo con l’appropriazione epistemica la conquista colonia-
le. Ma l’effetto complessivo delle tesi di Said, come ha notato uno dei
suoi più acuti critici, James Clifford, “non è tanto quello di scardina-
re la nozione di un Oriente sostanziale, ma piuttosto di rendere pro-
blematico l’‘Occidente’”. Esse finiscono cioè per mostrare, e negli an-
ni successivi i più interessanti studi postcoloniali avrebbero svilup-
pato proprio questa linea di ricerca, come un movimento di ibrida-
zione culturale, al fondo del quale si ritrova il carico di muta violenza
che contraddistingue sotto il profilo storico il progetto coloniale, sia

3 Per prime introduzioni agli studi postcoloniali, si vedano Gandhi 1998, Loomba
1998, Hardt 2000 e Albertazzi, Vecchi (a cura di) 2004, nonché le seguenti antolo-
gie di scritti: Aschcroft, Griffiths, Tiffin (a cura di) 1995, Chambers, Curti (a cura
di) 1997, e Castle (a cura di) 2001. Ma imprescindibile è ora il rimando a Young
2001 (pp. 383 ss. per una discussione di Orientalismo di Said) e 2003, nonché a
Mellino 2005. Sul concetto di “autorità etnografica”, cfr. Clifford 1988, pp. 35 ss.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 42

42 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

costitutivo fin dalle loro origini dei moderni concetti di Europa e di


Occidente. Quelle che Clifford chiama le “costruzioni ideologiche
dell’esotico”, ovvero le immagini della “barbarie” e della “licenziosi-
tà”, ma anche della “libertà”, dei popoli “selvaggi”, costituiscono in
altre parole il necessario specchio in cui si staglia, per contrasto, l’im-
magine del “sé” europeo occidentale e della sua “civiltà”, che pro-
prio da questo confronto deriva un essenziale criterio di legittima-
zione: “visto in questo modo”, scrive ancora Clifford, “l’‘Occidente’
stesso diventa un gioco di proiezioni, doppi, idealizzazioni e ripulse
di un’alterità complessa e mutevole” 4.
Di questa indicazione si sonderanno in primo luogo, nelle pagine
seguenti, alcune implicazioni nella prospettiva disciplinare della storia
delle dottrine politiche 5. E in questo senso si valorizzerà un primo si-
gnificato del suffisso “post” nel termine postcolonialismo: quello cioè
che indica il punto di vista dello storico che, in epoca successiva
all’“età degli imperi”, volge il proprio sguardo alle vicende e ai “dis-
corsi” che ne hanno intessuto la trama. Ma nel corso degli anni No-
vanta gli studi postcoloniali, grazie al contributo di critici letterari, fi-
losofi, antropologi e sociologi, hanno rivolto in modo via via più de-
ciso la propria attenzione al presente, applicandosi in particolare allo
studio dei regimi “transnazionali” di relazioni sociali che hanno pre-
so forma nel contesto dei nuovi movimenti migratori (cfr. Mezzadra
2006, in specie parte I, cap. 4). Emerge qui un secondo significato del
suffisso “post”, che intende denotare alcuni tratti salienti del presen-
te: su di esso si soffermerà l’ultimo paragrafo di questo capitolo.

2. L’antropologia politica implicita nel moderno


discorso della cittadinanza

Per sviluppare la prima linea di ricerca indicata, è necessario espli-


citare preliminarmente quale sia il significato attribuito all’espressio-
ne “antropologia politica moderna”, che compare nel titolo stesso di
questo capitolo. Lungi dal riferirsi a presunte costanti antropologi-

4 Clifford 1988, p. 312. Sul concetto di “ibridazione”, si veda ancora Bhabha 1994.
5 Per un esempio significativo, nella storiografia italiana delle dottrine politiche, di
ricerca sulle problematiche del colonialismo, si vedano i lavori di Barié 1953 e 1972,
nonché Abbattista 1979. Utili tracce per la ricerca sull’argomento si possono inoltre
rinvenire in due recenti volumi collettanei, sollecitati dal crescente interesse per la
tematica del “multiculturalismo”: cfr. Savard, Vigezzi (a cura di) 1999 e Cavazzoli
(a cura di) 2001.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 43

IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 43

che, che determinerebbero la politica in età moderna, essa intende


indicare i modi, complessi e articolati, corrispondenti a un movi-
mento di continua inclusione ed esclusione, con cui l’individuo è sta-
to immaginato e costruito, sia sotto il profilo concettuale sia sotto il
profilo “istituzionale”, come cittadino a partire dal XVII secolo 6. È
bene aggiungere immediatamente che tale antropologia politica,
straordinariamente mutevole e flessibile, non è qui considerata, nel
senso “semplice” del termine, come una mera “ideologia”, ma piut-
tosto come una figura materiale di mediazione della complessità dei
processi storici. Attraverso di essa, in altri termini, viene progressi-
vamente colmato il vuoto aperto nella compagine sociale dal dispie-
garsi della rivoluzione capitalistica, viene perimetrato lo spazio che
consente alla borghesia di costituirsi come soggetto storico, di orga-
nizzare la propria egemonia all’interno della società e di ipotecare i
processi di trasformazione dei criteri di legittimazione dell’ordine po-
litico che l’insorgenza di nuovi soggetti storici di volta in volta deter-
mina 7.
Il vuoto aperto nella compagine sociale dal dispiegarsi della rivo-
luzione capitalistica, si è detto. Non ve n’è una migliore rappresenta-
zione, a mio giudizio, del fulminante capitolo XIII del Leviatano di
Thomas Hobbes, Of the Naturall Condition of Mankind, as concer-
ning their Felicity, and Misery. Qui, in un testo in cui intensissimo è
per altro l’“effetto specchio” nel rapporto tra l’Europa e il “nuovo
mondo” scoperto al di là dell’Atlantico 8, l’individuo si presenta al
tempo stesso come l’indiscusso protagonista soggettivo della scena
politica moderna e come figura di un problema radicale. Ponendosi
come matrice della critica di ogni rapporto di dominazione che pre-
tenda di valere in ragione della propria naturalità, l’uguaglianza tra
gli individui costituisce una sfida alla possibilità stessa dell’ordine po-
litico. L’individuo moderno, considerato attraverso le pagine del Le-
viatano, nasce in altri termini nudo, e la soluzione hobbesiana consi-
ste notoriamente nel salto dallo stato di natura al Commonwealth, le-

6 Il riferimento fondamentale, a questo riguardo, è a Santoro 1999 e a Costa 1999-


2001. Di notevole interesse è anche Castel, Haroche 2001. Per un ulteriore svilup-
po del ragionamento, cfr. Mezzadra 2004.
7 Riprendo e sintetizzo qui molti spunti derivanti dal dibattito svoltosi all’interno del-
la Scuola di Francoforte negli anni Trenta tra F. Borkenau e H. Grossmann, docu-
mentato in Schiera (a cura di) 1978. Sotto il profilo storico tali spunti hanno trova-
to un proficuo sviluppo, in Italia, in particolare nei lavori di A. Negri su Descartes
(1970), e dello stesso Schiera su scienza e politica nell’Ottocento tedesco (1987).
8 Cfr. Landucci 1972, pp. 114 ss. e Galli 2001, in specie p. 41. Ma su Hobbes si ten-
ga presente, in generale, Piccinini 1999.
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44 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

gittimato dal riconoscersi una volta per tutte dell’individuo nell’im-


magine specchiata della sua soggettività politica che il sovrano pro-
duce attraverso la propria azione rappresentativa.
Ricostruire l’antropologia politica implicita nel moderno discor-
so della cittadinanza significa indagare le spesse vesti di cui questo
individuo, nato “nudo”, si è andato successivamente ricoprendo. È
attraverso questi passaggi che vengono introdotte le mediazioni che
consentono, restando all’interno delle logiche del contrattualismo, di
“ammorbidire” gradualmente la secchezza del salto tra stato di natu-
ra e stato civile, nonché, più in generale, di rendere maggiormente di-
namico quello spazio politico che in Hobbes appariva bloccato nel
suo dipanarsi tra i due poli della libertà privata dell’individuo e del
potere assoluto del sovrano. Ma al tempo stesso la costruzione di una
nuova immagine dell’individuo come cittadino corrisponde all’istitu-
zione di precisi confini della cittadinanza.
Decisiva, da questo punto di vista, risulta l’opera di Locke. Qui,
con modalità che avrebbero esercitato durevoli influenze sull’intero
pensiero politico successivo, è la proprietà a porsi come baricentro
della nuova antropologia politica. Ma la proprietà, in Locke, è in pri-
mo luogo proprietà della propria persona (Secondo trattato sul gover-
no, § 27), cifra complessiva di quell’auto-conservazione che per il fi-
losofo inglese costituisce al tempo stesso un diritto e un dovere di
ciascun individuo, ponendosi come matrice che regola lo stesso di-
scorso complessivo sui diritti 9. La proprietà, in quanto property in his
own person, si specifica conseguentemente in capacità di sottoporre a
disciplinamento i propri impulsi, condizione fondamentale di quella
disposizione dell’individuo al lavoro che rappresenta a sua volta il
presupposto dell’appropriazione di beni materiali. Si legga a questo
proposito un brano tratto dal Saggio sull’intelletto umano: “lo spiri-
to ha il potere di tenere in sospeso l’esecuzione di un atto e la soddi-
sfazione di un suo qualunque desiderio. [...] Esso può tenerli in so-
speso tutti, uno dopo l’altro; è libero di considerare gli oggetti, di esa-
minarli da ogni lato e di pensarli in rapporto ad altri” (Locke 1690,
vol. II, p. 231).
È questa specifica capacità di auto-disciplinamento a costituire il
contrassegno antropologico fondamentale dell’individuo che Locke
immagina e costruisce come cittadino. Solo la sua è vera libertà, se-
gnata da precisi confini che la distinguono da quella illusoria del fol-

9 Cfr. a questo proposito Costa 1999-2001, vol. I, pp. 285 ss. Ma si tenga presente an-
che Costa 1974 (su Locke in particolare pp. 111 ss. e 182 ss.).
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 45

le: “se è libertà, vera libertà”, si legge poco più avanti nel Saggio,
“spezzare i vincoli che ci legano a una condotta ragionevole, e man-
care di quel freno dell’esame e del giudizio che ci impedisce di sce-
gliere e di fare il peggio, allora solo i pazzi e gli incoscienti sono libe-
ri” (ivi, p. 234) 10. La figura del folle, a cui corrisponde, negli scritti
sulla tolleranza, quella dell’ateo, diviene, nel rapporto sulla questio-
ne della povertà presentato da Locke nel 1698 al “Board of Trade
and Plantation”, quella del povero indisciplinato, colpevolmente in-
capace, per via della “corruzione dei costumi”, del “vizio” e della
“pigrizia” (idleness), di provvedere al proprio sostentamento attra-
verso il lavoro (Locke 1697, p. 447) 11. Sono gli anni di quello che
Foucault ha definito il “grande internamento”, che appare a questo
punto come il rovescio speculare dei processi attraverso cui il mo-
derno spazio della cittadinanza, nonché l’antropologia politica in es-
so implicita, si è andato costituendo fin sotto il profilo concettuale:
folli e poveri indisciplinati sono i soggetti destinati a essere reclusi in
manicomi e workhouses, a essere messi ai lavori forzati sulle grandi
navi della marineria atlantica dove trovano la propria definizione ar-
chetipica alcuni dei tratti costitutivi della disciplina di fabbrica (cfr.
Linebaugh, Rediker 2000).
Il duplice significato assunto in Locke dalla proprietà (proprietà
di sé e proprietà di beni materiali) agisce in profondità, lo si è già det-
to, come confine della cittadinanza nei decenni successivi: i due prin-
cipali argini che i liberali difenderanno lungo tutto l’arco dell’Otto-
cento di fronte alla progressiva estensione del suffragio, appunto
“proprietà e cultura”, possono essere considerati una rielaborazione
di quel duplice significato. Qui interessa tuttavia porre in evidenza
come un ulteriore confine della cittadinanza, quello di genere, trovi
la propria originaria formulazione all’interno del medesimo paradig-
ma “antropologico”. Questo vale innanzitutto per lo stesso Locke: di
contro alla radicalità e alla coerenza con cui Hobbes aveva negato ca-
ratteri di naturalità al rapporto di subordinazione della donna al-
l’uomo, Locke deduce “che nella natura ci sia un fondamento” per
quel rapporto dal semplice fatto della “soggezione in cui le donne
normalmente si trovano nei confronti del marito” (Primo trattato sul
governo, § 47, c.n.); e considerato che il marito e la moglie hanno “in-
telligenze differenti”, ritiene ancora una volta “naturale” che la “de-
10 Particolarmente rilevante, nella prospettiva qui seguita, appare il discorso sul rap-
porto tra melancolia e disciplina svolto nella terza parte di Schiera 1999.
11 Su questo punto si veda Bohlender 2000, in specie pp. 103 ss. Sulla figura dell’ateo
negli scritti lockeani sulla tolleranza, si veda Lanzillo 2002, pp. 88 s.
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46 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

cisione ultima” nella famiglia, “cioè a dire il governo, [...] sia dalla
parte dell’uomo in quanto più capace e più forte” 12.
È evidente come la donna, e anche sotto questo profilo ci trovia-
mo di fronte a una questione ben lungi dal riguardare il solo Locke,
sia considerata naturalmente predisposta alla soggezione proprio in
quanto non condivide (o condivide in misura minore dell’uomo)
quella capacità di auto-disciplinamento che abbiamo visto rappre-
sentare la qualità fondamentale dell’individuo come cittadino. A di-
stanza di oltre un secolo, in un contesto filosofico totalmente diver-
so, uno schema non molto distante sarebbe stato proposto da Hegel:
incapace di scindersi dall’ethos della famiglia (la sua “destinazione
sostanziale”, come si legge nel § 166 dei Lineamenti di filosofia del di-
ritto) e dunque di attingere quell’universalità per la quale l’uomo di-
venta cittadino, la donna di cui parla Hegel finisce per essere conse-
gnata a un “principio femminile”, che rende eterna – e ancora una
volta naturale – la condizione di passività storicamente prodotta dal-
la dominazione patriarcale 13. Così stando le cose, avrebbe chiosato
ironicamente John Stuart Mill qualche decennio più tardi, gli uomini
potevano continuare a ritenere che la soggezione femminile non si
fondasse, come nel caso degli schiavi, sulla paura, ma sui sentimenti
(cfr. Mill 1869, pp. 89 s.).

3. Progetto coloniale e pensiero politico moderno

Assai più che nella prospettiva suggerita dalle problematiche del-


la “politica di potenza”, il moderno progetto coloniale europeo me-
rita di essere indagato, nella scia delle sollecitazioni che vengono da-
gli studi postcoloniali, proprio come luogo strategico di applicazio-
ne, e di definizione, dell’antropologia politica sinteticamente rico-
struita. Resta inteso, d’altro canto, che parlando di un “progetto co-
loniale europeo” non si intende ridimensionare il rilievo delle diffe-
renze tra le diverse esperienze coloniali, sia di quelle relative ai mo-
delli di amministrazione adottati dalla “metropoli” e alle tipologie di
“insediamento”, sia di quelle determinate dalle concrete esigenze di
far fronte alla resistenza (o alle strategie di adattamento) delle popo-
lazioni sottoposte a dominio coloniale. L’insistenza sui caratteri am-
bivalenti e complessi del colonialismo moderno, sull’impossibilità di
12 Fondamentale sull’insieme di queste problematiche è il libro di C. Pateman sul
“contrato sessuale” (1988).
13 Si leggano (o si rileggano) a questo proposito le pagine di Carla Lonzi (1974).
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 47

definirlo se non come insieme flessibile di pratiche e di discorsi in ri-


ferimento a esperienze situate con precisione nel tempo e nello spa-
zio, contraddistingue anzi alcuni degli studi più rilevanti pubblicati
di recente sull’argomento (cfr. ad es. Thomas 1994, pp. 11 ss. e
Young 2001, pp. 15 ss.). Di un progetto coloniale si potrà dunque par-
lare soltanto a proposito di quei tratti che, su un piano certo molto
astratto, individuano complessivamente le potenze europee (e poi, a
partire dall’occupazione statunitense delle Filippine, “occidentali”)
come le uniche titolate a intraprendere una politica coloniale in
grande stile, legittimando al tempo stesso quest’ultima nella prospet-
tiva di una storia della “civiltà” che, fuoriuscendo dalla propria ori-
ginaria perimetrazione continentale, si avvia a farsi storia del mondo.
È evidente come, da questo punto di vista, la storia del progetto
coloniale europeo debba essere indagata quantomeno a partire dal-
l’età delle “scoperte geografiche”, e come in particolare essa non pos-
sa essere disgiunta dalla storia di quel modo di produzione capitali-
stico che, proprio per la sua proiezione fin dalle origini globale, co-
stituisce il vero elemento distintivo della “civiltà” occidentale 14. Non
mancano d’altronde studi di ampio respiro, ad esempio, sulla nascita
dell’antropologia come ideologia coloniale nei due secoli successivi
alla scoperta del “nuovo mondo” 15. Qui, tuttavia, si intende dare
qualche esempio di come il problema che ci occupa possa essere svi-
luppato in riferimento a un’età successiva, ovvero all’età dell’apogeo
dell’imperialismo europeo. Sotto il profilo delle retoriche coloniali,
quest’età è caratterizzata, come ha mostrato in un libro molto im-
portante Nicholas Thomas, dall’esaurimento della tematica religiosa
della “conversione”, e dalla sua sostituzione con un modello centra-
to sull’“essenzializzazione” delle differenze tra “popoli” e “nazioni”,
di derivazione naturalistica e orientato a culminare nella costruzione
di precise gerarchie razziali (Thomas 1994, pp. 71 ss.). Nella misura
in cui l’Europa si avviava a comprendere nella propria sfera di in-
fluenza la totalità delle terre emerse, il riferimento alla razza costitui-
va l’apice di un discorso che puntava a restringere al vecchio conti-
nente il campo d’applicazione di alcuni standard caratteristici della
modernità, senza per questo escludere la possibilità che all’interno di
questo stesso campo si aprissero conflitti laceranti, e a configurare le
società e i popoli “altri” come meri oggetti di dominio.

14 È un punto su cui ha insistito in modo particolarmente convincente A. Dirlik (1997


e 2000).
15 A partire dal classico lavoro di Gliozzi (1977).
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48 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

Si tratta di un discorso che avrebbe segnato in profondità gli stes-


si sviluppi dell’antropologia novecentesca: in particolare, il presup-
posto dell’“incommensurabilità” tra le diverse “culture”, per quanto
molto spesso formulato con intenzioni “progressiste”, avrebbe itera-
to quel gesto dell’“allontanamento” dal tempo dell’osservatore delle
società “altre” che aveva governato l’”episteme” delle scienze colo-
niali ottocentesche, tra cui l’antropologia aveva del resto svolto un
ruolo di primissimo piano (cfr. Fabian 1983). Ancorché i testi di que-
ste “scienze” non figurino tra i classici del pensiero politico, una pri-
ma direzione di ricerca che gli studi postcoloniali sollecitano a svi-
luppare è proprio quella che si riferisce ai concetti e ai metodi da es-
se impiegati. È il caso di aggiungere, d’altra parte, che tali studi im-
pongono allo storico del pensiero politico una continua problema-
tizzazione del concetto di “fonte” del suo lavoro, nella misura in cui
essi pongono in evidenza la complessità della “governamentalità co-
loniale” (Thomas 1994, pp. 105 ss.), l’intreccio di sapere e potere e
l’incrocio di sguardi di cui quest’ultima è espressione: la produzione
di oscuri uffici periferici delle amministrazioni coloniali e i diari di
viaggio di funzionari ed etnografi possono avere valore di “fonte”,
per la definizione dei concetti fondamentali su cui si articola il pro-
getto coloniale europeo, al pari di un romanzo di Flaubert o della
scultura di Picasso 16. Assai più che una limitazione a priori dei testi
che possono legittimamente essere assunti come “fonti” dallo stori-
co del pensiero politico, converrà allora assumere come criterio di-
sciplinare proprio la centralità dei concetti politici, che si tratterà di
indagare nella loro “costituzione materiale” attingendo a testi anche
radicalmente eterogenei.
Si prenda ad esempio il diritto coloniale. Uno dei più importanti
corsi tenuti all’inizio del Novecento in Italia in questa branca della
giurisprudenza, quello di Santi Romano, mostra bene, nella costru-
zione del sistema rigidamente dualistico dei rapporti giuridici che
hanno come proprio centro rispettivamente i “cittadini” e gli “indi-
geni”, alcuni presupposti comuni al “progetto coloniale europeo” ne-
gli anni considerati. In primo luogo, laddove riconduce il fatto che,
per i sudditi coloniali, le condizioni della “naturalizzazione” sono
“più gravi” di quelle normalmente richieste per gli stranieri alla cir-
costanza che i primi “sono spesso di razza non europea, mentre per

16 Ricco di spunti a questo riguardo, pur all’interno di una polemica con la storiogra-
fia “postmoderna” che coinvolge anche alcuni esiti del postcolonialismo, è il lavoro
di C. Ginzburg (2000).
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 49

gli stranieri della medesima razza la loro incorporazione nello Stato


è più facile” (Romano 1918, p. 126). Ma altrettanto rilevante è l’insi-
stenza di Santi Romano sulla “diversità della civiltà” prevalente nella
metropoli e nelle colonie, che rende inapplicabile a queste ultime la
“speciale figura di governo, detta ‘governo costituzionale’”, e impone
piuttosto di costruire il rapporto tra metropoli e colonia secondo il
principio dello “Stato patrimoniale, che vigeva prima dello Stato co-
stituzionale” e che aveva il suo tratto saliente nel configurare lo Stato,
“almeno secondo un’opinione molto diffusa, come oggetto di domi-
nio della potestà del monarca” (ivi, p. 104) 17.
Seguendo le stesse controversie giuridiche sulle questioni più tec-
niche del diritto internazionale a proposito delle colonie, si è d’altra
parte naturalmente ricondotti ai problemi che si sono in precedenza
discussi a proposito della moderna “antropologia politica”. La Con-
ferenza di Berlino del 1885 determinò ad esempio la riapertura del
dibattito, tra i teorici del diritto internazionale, su quale fosse il tito-
lo che rendeva legittima l’acquisizione di un possedimento coloniale
da parte di una potenza europea 18. Nella sostanza venne riproposta
quella che era stata la tesi canonica del giusnaturalismo, che a partire
da Grozio, in riferimento a un territorio che appariva come res nul-
lius, aveva indicato tale titolo nell’occupazione. Nel determinare in
quali condizioni territori abitati da “tribù selvagge” potessero essere
definiti res nullius, la dottrina prevalente di fine Ottocento riprese
l’argomentazione che oltre un secolo prima, alle origini del moderno
“diritto delle genti”, era stata sviluppata dal giurista svizzero Eme-
rich de Vattel. Secondo la prospettiva adottata da quest’ultimo, i con-
trassegni della “civiltà” erano la coltivazione delle terre e la sedenta-
rietà della popolazione, che costituivano al tempo stesso precisi “ob-
blighi imposti all’uomo dalla natura”. Coloro che si sottraevano a ta-
li obblighi, nella misura in cui mettevano a rischio la sopravvivenza
di un genere umano che si era troppo moltiplicato per poter vivere
in condizioni di nomadismo, meritavano a giudizio di Vattel “di es-
sere sterminati come bestie feroci e nocive” 19. E in ogni caso non po-
17 Sul diritto coloniale italiano, cfr. Sagù 1988. Ma molto stimolante è anche l’analisi
svolta da B. Sòrgoni (1998). Più in generale, su diritto coloniale europeo, si tengano
presenti i saggi raccolti nel vol. 33/34 (2004/2005) dei “Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico moderno” nonché in Mazzacane (a cura di) 2006.
18 Cfr. Mannoni 1999, pp. 103 ss. e Costa 1999-2001, vol. III, pp. 476 ss. (ma tutto il
cap. X del volume, “Lo Stato-potenza e la missione civilizzatrice dell’Europa”, è di
grande interesse per i temi qui trattati).
19 De Vattel 1758, vol. I, p. 78 (I, VII, § 81). Sulla funzione di “mito politico” nella le-
gittimazione della conquista coloniale di un’immagine delle popolazioni “indigene”
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50 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

tevano porsi come proprietari esclusivi del territorio su cui vivevano,


che si presentava dunque aperto alla conquista da parte degli euro-
pei: questi ultimi, richiudendo i “selvaggi” in “limiti più ristretti”,
non solo non contravvenivano infatti ad alcuna legge di natura, ma
ne confermavano piuttosto la più intima essenza (De Vattel 1758, p.
195 [I, XVIII, § 208]).
Si tratta di un argomento di cui non può sfuggire la derivazione
da Locke, che nel quinto capitolo del Secondo trattato aveva insistito
a più riprese sia sul fatto che il lavoro costituisce per l’uomo un ob-
bligo imposto da Dio sia sul fatto che solo l’agricoltura sedentaria e
l’improvement delle condizioni naturali danno luogo a diritti di pro-
prietà. Non è un caso che Locke stesso avesse impiegato questo ar-
gomento per legittimare la conquista del “nuovo mondo” 20. Ma più
rilevante è porre in evidenza come il riferimento all’“esterno” si mo-
stri qui costitutivo dell’origine di un modello di antropologia politica
destinato, come si è detto, a condizionare a lungo il pensiero politi-
co europeo: quel modello nasce in altri termini segnato da un rap-
porto con l’“altro da sé” connotato in termini di dominio, secondo
una modalità concettuale per cui l’“esterno” è già compreso all’in-
terno del modello stesso come suo essenziale momento di definizio-
ne. Vale qui un discorso analogo a quello fatto da G.Ch. Spivak a
proposito della Critica del giudizio di Kant, e dunque di un altro fon-
damentale (nonché assai insidioso) terreno di precisazione della mo-
derna antropologia politica: quello della teoria estetica. Mostrando
la funzione costitutiva di un riferimento agli aborigeni australiani e
agli abitanti della Terra del Fuoco nell’analitica di quel sublime che è
“per l’uomo rozzo (dem rohen Menschen) semplicemente terribile”
(Kant 1790, § 29, p. 116), Spivak ha insistito sul fatto che il soggetto
in quanto tale appare in Kant “geopoliticamente differenziato”, spor-
gendosi tuttavia necessariamente sul bordo di un mondo che non può
in alcun modo limitarsi all’Europa, abitato da donne e uomini che
“non possono essere soggetti di discorso e di giudizio nell’universo
della Critica” e che sono però in esso strutturalmente implicati (Spi-
vak 1999, pp. 50 s.).

che ne riduce sistematicamente “l’importanza demografica e morale”, cfr. Stannard


1992, pp. 37 ss. Stannard ricorda in particolare, in riferimento al “nuovo mondo”,
che i popoli che lo abitavano “non diventarono nomadi fino a quando non furono
spinti dagli eserciti invasori dei colonizzatori europei” (ivi, pp. 45 s.). Un luogo es-
senziale di applicazione coloniale della figura giuridica della terra nullius è stata
l’Australia: cfr. Neilson 2003 e Moreton-Robinson 2005.
20 Cfr. Tully 1993 (in specie pp. 167 s. per l’influenza esercitata da Locke su Vattel).
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 51

Rileggendo dunque nella prospettiva indicata dagli studi postco-


loniali testi classici del pensiero politico e della filosofia europei, ed
è questa la seconda direzione di ricerca che si vuole qui suggerire, il
confine di “razza” – o di “civiltà” – appare altrettanto costitutivo del-
la moderna antropologia politica di quelli segnati dalla proprietà e dal
genere. Ma al tempo stesso, e analogamente a quanto accade con gli
altri due confini indicati, i soggetti costruiti come “esterni” allo spazio
europeo della cittadinanza (della “civiltà”) appaiono fin da principio
del tutto “interni” al lavorio teorico e pratico che produce quello stes-
so spazio. Si è già osservato come il concetto di razza, nel corso del-
l’Ottocento, funzioni precisamente, per i problemi che qui interessa-
no, nella prospettiva di perimetrare l’ambito della “civiltà” e di legit-
timare la sua proiezione al di fuori dei confini dell’Europa. Ma anche
in autori estranei alla storia del razzismo, il progetto coloniale mostra
una cifra segregazionista, ricapitolata nella posizione di un duplice e
intransitabile confine – segnato lungo le due dimensioni dello spazio
e del tempo – tra la metropoli e le colonie. Ed è questo duplice con-
fine a consentire quella dialettica tra interno ed esterno che costitui-
sce il tratto saliente, nonché il limite, del processo di distensione su
scala globale dei circuiti della produzione e della valorizzazione capi-
talistica determinato dal colonialismo nell’“età degli imperi”.
Vediamo un esempio di confine spaziale. In piena coerenza con la
storia dello jus publicum europaeum narrata da Carl Schmitt nel No-
mos della terra, il raffinato Alexis de Tocqueville, di fronte alla rivol-
ta anti-francese dell’emiro Abd el-Kader in Algeria, trovava perfetta-
mente normale nel 1841 l’impiego contro gli arabi di strumenti di
guerra, come bruciare i raccolti, vuotare i silos, “devastare il paese”,
impadronirsi come prigionieri “degli uomini inermi, delle donne, dei
bambini”, inconcepibili in Europa, dove “in generale si fa la guerra
ai governi e non ai popoli” 21. È qui appunto lo spazio coloniale ad
apparire connotato in termini qualitativamente diversi rispetto allo
spazio metropolitano, tanto da rendere necessario il riferimento a
norme giuridiche ed “etiche” diverse da quelle usuali all’interno di
quest’ultimo. Ma ancora più significativo è quello che si è definito il
confine temporale, che si è già in qualche modo incontrato nel corso
di diritto coloniale di Santi Romano e che può essere utilmente esem-
plificato a proposito di John Stuart Mill. Nel capitolo XVIII delle Con-

21 Tocqueville 1839-1852, p. 364 (la citazione è tratta dal Travail sur l’Algérie, scritto
da Tocqueville nel 1841). Su Tocqueville e l’Algeria rimando al bel saggio di Lette-
rio 2005 (e ora soprattutto 2008).
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52 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

siderazioni sul governo rappresentativo del 1861, intitolato “Lo Stato


libero e il governo delle colonie”, egli concedeva di buon grado la ne-
cessità di applicare i principi del governo rappresentativo nei posse-
dimenti coloniali inglesi in America e in Australia, la cui civiltà (pur
costruita sul genocidio delle popolazioni indigene, che egli evitava di
menzionare) è “analoga a quella del paese conquistatore”; ma sotto-
lineava come ciò non potesse valere per altre colonie (prima fra tutte
l’India), “che ancora non sono pervenute a questo livello e che ri-
chiedono di essere governate dal paese dominante o da qualche suo
delegato” (Mill 1861, pp. 235 e 241). È evidente come sia qui all’o-
pera un presupposto “storicistico”, che attraverso la formula not yet
(non ancora) confina i territori non europei in una sorta di “immagi-
naria sala d’attesa della storia”, in un perenne ritardo rispetto a que-
gli standard europei a cui essi non possono che ambire ad adeguarsi
(cfr. Chakrabarty 2000). In un tempo altro da quello della “civiltà”.
Si tratta d’altronde di un problema esplicitamente menzionato dal
grande giurista britannico Henry Maine che, nominato nel 1862 con-
sigliere giuridico per l’India, rimase per sette anni in quel paese 22. In
una prolusione tenuta a Cambridge nel 1875, quasi ricapitolando le
sue esperienze di uomo direttamente coinvolto nello “straordinario
esperimento del governo britannico dell’India, il governo virtual-
mente dispotico un popolo libero su di una sua colonia”, l’autore di
Ancient Law affermava che “i governanti britannici dell’India sono
come uomini costretti a far funzionare i propri orologi su due fusi
orari contemporaneamente” (Maine 1875, pp. 33 e 37). Ciò nondi-
meno, proseguiva Maine, “questa posizione paradossale deve essere
accettata”, per poter governare un progresso che coinvolge l’Inghil-
terra e l’India in un’unica storia pur mantenendo tra di esse un con-
fine invalicabile, temporale non meno che spaziale, amministrato nel
segno del puro dominio.

4. One world. Globalizzazione e postcolonialismo

Si è già detto del rilievo che assumono, quantomeno in alcune


correnti degli studi postcoloniali, la resistenza e le strategie di adat-
tamento dei soggetti colonizzati per la definizione stessa della gover-
namentalità coloniale. Gli storici indiani che hanno contribuito allo

22 Su Maine si veda in generale Piccinini 2003 (nonché, più in generale sulle temati-
che del governo delle colonie nell’Ottocento britannico, 2005).
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 53

sviluppo del progetto dei subaltern studies hanno in particolare sot-


tolineato, ad esempio, come la storia dell’India britannica non si li-
miti ai rapporti tra le autorità coloniali e le elite dominanti all’interno
della società “indigena”, ma sia piuttosto incomprensibile senza te-
nere nel debito conto i movimenti autonomi delle masse “subalter-
ne” dentro e contro il sistema di dominio coloniale (cfr. in particola-
re Guha 1982). Si apre qui un campo di studi estremamente vasto,
relativo alle forme di espressione politica assunte dai movimenti an-
ti-coloniali: e a proposito dell’India molto lavoro è stato già fatto, nel
campo di tensione che si determina tra la tendenza del nazionalismo,
in particolare a partire dagli anni Venti del Novecento, a riarticolare
in forma “derivata” l’essenzialismo e i criteri di autorità propri del
discorso coloniale e il tentativo, messo in atto sia dalle elite sia dai
soggetti “subalterni”, di “ibridare” la modernità importata attraver-
so il dominio coloniale recuperando al suo interno frammenti di cul-
ture “tradizionali” (cfr. in particolare Chatterjee 1986 1993 e Cha-
krabarty 2000).
Il punto su cui vale la pena di richiamare conclusivamente l’at-
tenzione è tuttavia di carattere più generale, e attiene al rapporto
complessivo che stringe il postcolonialismo, inteso come concetto ca-
pace di definire alcuni tratti salienti del presente, con la storia del
pensiero e dei movimenti anti-coloniali. Già lo si è detto nel primo
capitolo: questo rapporto, laddove sia assunto come elemento costi-
tutivo della stessa “politica del discorso” su cui si articolano gli studi
postcoloniali, consente di neutralizzare la validità delle critiche che,
non sempre senza fondamento, sono state rivolte ad alcune correnti
di questi ultimi, accusati di indugiare in una mera apologia estetiz-
zante dei caratteri nomadi e “ibridi” delle identità prevalenti nel no-
stro tempo, del tutto inconsapevole della perdurante asprezza dei
rapporti di dominio e di sfruttamento. Una volta che il colonialismo
sia stato concettualizzato nei termini “epistemici” che si sono indica-
ti, in altri termini, il semplice conseguimento formale dell’indipen-
denza da parte delle colonie non autorizza in alcun modo a conside-
rare esaurite le coazioni da esso esercitate sotto il profilo politico, cul-
turale e finanche “psicologico” (cfr. ad es. Nandy 1983): ma è pro-
prio la rottura determinata dalle lotte anti-coloniali nel corso del XX
secolo a far sì che si possa parlare di “postcolonialismo”, nella misu-
ra in cui esse hanno sfidato vittoriosamente i presupposti impliciti su
cui il progetto coloniale dell’Occidente si fondava – primi fra tutti il
silenzio delle popolazioni colonizzate e la duplice cifra segregazioni-
sta, articolata sulle dimensioni del tempo e dello spazio.
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54 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

Conviene riprendere, a questo proposito, una delle descrizioni più


efficaci della “situazione coloniale” che siano state proposte negli an-
ni successivi alla seconda guerra mondiale, quella di Frantz Fanon.
Quello coloniale, scriveva Fanon, è “un mondo a scomparti, [...] un
mondo scisso in due”, che si fonda su una strutturale “asimmetria” e
su un costitutivo “manicheismo” (Fanon 1961, p. 5) 23. Quale miglio-
re rappresentazione di quella che si è definita “cifra segregazionista”
del moderno progetto coloniale? Il punto è, tuttavia, che Fanon, in
una pagina dal respiro quasi hobbesiano, mostra anche il punto de-
finitivo di crisi di tale progetto. È infatti la scoperta del mero fatto
dell’uguaglianza, si legge nei Dannati della terra, ciò che fa saltare il
sistema coloniale: quando il colonizzato si avvede che “la sua vita, il
suo respiro, i battiti del suo cuore sono gli stessi di quelli del colo-
no”, ciò introduce “una scossa essenziale nel mondo” (ivi, p. 11). La
tesi che qui si intende adombrare è che, complessivamente conside-
rato, il XX secolo sia caratterizzato dalla scoperta di questa ugua-
glianza fondamentale, che ha determinato una soglia irreversibile nel
processo di unificazione del pianeta proprio in quanto ha posto sot-
to l’ipoteca di una radicale crisi di legittimità quel principio del con-
finamento spazio-temporale che costituiva al tempo stesso il codice
fondamentale e il limite interno del progetto coloniale.
È bene chiarire un punto fondamentale, approfondendo un dis-
corso già fatto nel primo capitolo: il tempo che definiamo della glo-
balizzazione espone in piena luce le sue diverse genealogie, tra cui ri-
entra certamente il colonialismo moderno, cosicché il principio di
confinamento, lungi dall’essere messo definitivamente fuori gioco, si
scompone in una pluralità di processi di segregazione, che investono
le stesse metropoli occidentali. Ma ciò che è entrato in crisi, appunto
sotto la spinta delle lotte anti-coloniali, è la possibilità di assumere
come scontato il confinamento, e di organizzare attorno ad esso un
modello univoco di governo dei processi politici e produttivi, non-
ché uno stabile assetto dei confini, siano questi intesi in senso geo-
politico o in senso “identitario”. Per dirla con una battuta: il fonda-
mentalismo del mercato di matrice “occidentale” e il fondamentali-
smo “islamico” esprimono entrambi, per quanto in modi molto di-
versi, una nostalgia per un assetto appunto stabile di confini che ri-
sulta quotidianamente sfidato dai processi di ibridazione e di decen-

23 L’introduzione di L. Ellena alla nuova edizione italiana dei Dannati della terra (Co-
munità, 2000) dà conto della ripresa di interesse per l’opera di Fanon determinata
dallo sviluppo degli studi postcoloniali.
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IMMAGINI DELLA CITTADINANZA 55

tramento su cui si fonda in buona misura la stessa produzione della


ricchezza nel mondo “globale” (cfr. Hardt, Negri 2000). Non è detto
che l’uno o l’altro non possano riportare più o meno effimere vitto-
rie; ma se ciò accadrà, enormi saranno i prezzi da pagare in termini
di violenza e di secca riduzione delle potenzialità inscritte nel nostro
presente.
Considerata sotto l’angolo visuale offerto dal postcolonialismo, la
globalizzazione risulta dunque un formidabile campo di tensione, in
cui gli stessi concetti di Occidente e di modernità sono posti in dis-
cussione dal progressivo emergere di un nuovo concetto di mondo,
che per la prima volta nella storia, come ha scritto Étienne Balibar, fa
dell’“umanità” non un semplice ideale, o un’idea regolativa della ra-
gione, ma “la condizione di esistenza degli individui umani stessi”
(Balibar 1997, p. 238) 24. La sfida che ne deriva per il pensiero politi-
co attiene fondamentalmente, secondo la prospettiva qui seguita, al-
la ridefinizione dello statuto dell’universale. L’“umanità” contempo-
ranea, infatti, assume la propria figura complessiva nella cornice del
definitivo farsi mondo delle “astrazioni reali” – il denaro e la merce
– che costituiscono la filigrana dell’universalismo occidentale. Sono
queste astrazioni reali a sussumere sotto di sé, e a mettere a valore, i
processi di “ibridazione” e di decentramento che si sono richiamati.
È a questa altezza che si ridefiniscono i rapporti di sfruttamento e di
dominio: nuove figure della cittadinanza e della democrazia possono
essere materialmente costruite soltanto a partire dalla critica di tali
rapporti – riscoprendo la natura strutturalmente ambigua della stes-
sa nozione di “universale”, che proprio in quanto “forma vuota” si
presta a essere diversamente qualificata in termini politici, e incardi-
nandone il portato critico nelle istanze di libertà e di uguaglianza che
emergono dal mondo globale 25.

24 Per un’analisi delle ricadute che la condizione postcoloniale ha sui concetti di Oc-
cidcente e di modernità, cfr. Appadurai 1996 e Chakrabarty 2000.
25 Per un ripensamento in questo senso del concetto di “universale”, cfr. ancora Bali-
bar 1997, pp. 231 ss. nonché -i=ek 2000, pp. 171 ss.
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CAPITOLO TERZO
Tempo storico e semantica politica
nella critica postcoloniale

...while memory holds a seat/ In this distracted globe.


[...finché avrà un seggio la memoria/ in questo globo im-
pazzito].
W. SHAKESPEARE, Hamlet, I, 5.

1. Tra world history e Weltgeschichte

L’omogeneità dello spazio, del tempo e del valore, ha scritto di re-


cente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, ha a lungo rappresentato lo
“stile logico” della Weltgeschichte, la grande narrazione che a partire
dal Settecento ha accompagnato e scandito il processo materiale di
unificazione del pianeta (Sloterdjik 2005, p. 28). Considerata da que-
sto punto di vista, la condizione contemporanea è decisamente spae-
sante. Da una parte quella omogeneità pare trionfare, farsi mondo
appunto, nel contesto dei processi di “globalizzazione”. Dall’altra,
proprio per la forma che quei processi hanno assunto, il nostro sguar-
do tende piuttosto a fissarsi, per citare ancora Sloterdijk, sulle “crepe,
le turbolenze, le irregolarità” che recalcitrano a ogni “semplificazio-
ne geometrica” (Sloterdjik 2001, p. 15) 1.
È precisamente nella tensione tra queste due polarità della nostra
esperienza contemporanea che si situa il contributo che gli studi
postcoloniali possono offrire alla stessa storiografia. Nel contesto del
fruttuoso lavoro di ridefinizione delle mappe disciplinari che negli
ultimi anni, a partire dalla consapevolezza della crisi delle storiogra-
fie “nazionali”, si è in particolare prodotto attorno alla categoria di
world history 2, la critica postcoloniale consente di operare una mos-

1 Al lavoro di Sloterdjik si può utilmente accostare la “critica della ragione cartogra-


fica” proposta da F. Farinelli (2003 e 2005), nonché la riflessione su temi cartogra-
fici in Accarino (a cura di) 2007.
2 Cfr. Gozzini 2004. Per un confronto tra world history e studi postcoloniali, cfr. l’in-
troduzione dei curatori (Europa in einer postkolonialen Welt) in Conrad, Randeria,
a cura di, 2002, pp. 9-49.
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 57

sa che potremmo definire “kantiana”, investendo direttamente – e


rinnovando in profondità – le modalità di rappresentazione del tem-
po e dello spazio che articolano la narrazione storica. In questo capi-
tolo mi limito a presentare, in forma di esemplificazione stilizzata, al-
cune considerazioni preliminari al riguardo. Quel che è in gioco, in
fondo, è la nostra stessa comprensione della modernità, mentre la
problematizzazione della dimensione soggettiva dell’esperienza sto-
rica, che costituisce uno dei centri di gravitazione degli studi postco-
loniali, chiama in causa questioni di rilievo a mio giudizio cruciale per
un pensiero critico del presente.
Dalla world history torniamo alla Weltgeschichte, da cui abbiamo
preso le mosse. Ranajit Guha, il fondatore della scuola storiografica
indiana dei “subaltern studies” 3, ha mostrato in un impegnato con-
fronto critico con la filosofia della storia di Hegel come la rappre-
sentazione del processo di mondializzazione dello spirito che costi-
tuisce per il filosofo tedesco il criterio di razionalità della storia stes-
sa si fondasse nella sua opera sull’istituzione di un confine assoluto,
parimenti temporale e spaziale. La linea di separazione tra storia e
preistoria era in altri termini al tempo stesso la linea di separazione
tra lo spazio della civiltà (l’Europa) e lo spazio della barbarie (i con-
tinenti già colonizzati o in procinto di esserlo – cfr. Guha 2002, in
specie p. 43). Questo confine assoluto costituiva tuttavia per Hegel
il motore della Weltgeschichte, ne assicurava la dinamicità nelle for-
me di una lotta titanica della storia contro la preistoria, ovvero del-
l’Europa, attraverso i suoi Stati, contro i “popoli senza storia” (cfr.
Wolf 1982): il confine era cioè costruito come assoluto precisamente
per essere oltrepassato. L’espansione coloniale risulta così inscritta
negli stessi presupposti epistemici della modernità europea.
Non v’è, evidentemente, molto di nuovo fin qui. Ma quello che la
critica postcoloniale mette in discussione è la possibilità di articolare
3 Definito da Amrtya Sen “il più creativo storico indiano del XX secolo”, Guha ha in-
segnato in diverse università in India, Gran Bretagna, Australia e Stati uniti. Già il
suo primo lavoro, un’accurata ricostruzione delle origini intellettuali della riforma
attuata nel 1793 dal Governatore generale del Bengala Lord Cornwallis che, isti-
tuendo il cosiddetto sistema del permanent settlement, si era proposta di creare in
India una classe indigena di proprietari terrieri sul modello degli squires inglesi e di
mettere ordine nel sistema delle imposte, aveva anticipato quel ruolo decisivo del
“sapere coloniale” che sarebbe divenuto successivamente uno dei temi centrali de-
gli studi postcoloniali (cfr. Guha 1963). È stato il curatore dei primi sei degli undi-
ci volumi della collana “Subaltern Studies” usciti tra il 1982 e il 2000 (gli indici di
tutti i volumi si possono consultare alla pagina web http://www.lib.virginia.edu/
area-studies/subaltern/ssmap.htm). Per un’introduzione ai “subaltern studies”, si
veda Chakrabarty 2004.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 58

58 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

attorno a questo vettore spazio-temporale della Weltgeschichte


un’immagine lineare e progressiva del tempo storico. Centrale, da
questo punto di vista, è il concetto di “stadio di sviluppo” (cfr. Guha
2002, p. 26 e soprattutto Chakrabarty 2000), secondo cui, una volta
“catturati” nel movimento della storia universale, gli spazi non euro-
pei sarebbero stati destinati a ripetere il percorso evolutivo afferma-
tosi in Europa. “Prima in Europa e poi nel resto del mondo”, in-
somma, per riprendere la formulazione offerta da Dipesh Chakra-
barty nella sua fondamentale critica dello “storicismo” moderno
(Chakrabarty 2000, p. 22): mettendo in discussione questa formula,
la critica postcoloniale determina uno spiazzamento della storia mo-
derna che appare assai più radicale e interessante di ogni semplice
critica “culturalista” all’“eurocentrismo”. Nel momento stesso in cui
si riconosce nell’assoluto confine temporale e spaziale di cui si è det-
to a proposito di Hegel un presupposto affatto reale del moderno
progetto coloniale europeo, su cui si sono retti concrete imprese di
conquista e concreti sistemi di dominazione, si rintraccia anche, alla
sua stessa origine, un movimento di ibridazione (termine chiave nel
lessico postcoloniale, che si vorrebbe qui sottrarre a ogni uso inge-
nuamente “apologetico”) che ne mostra in fondo l’impossibilità (cfr.
Bhabha 1994).
Se la modernità è il tempo della Weltgeschichte, lo scontro tra
“storia” e “preistoria” – la tensione tra “omogeneità” ed “eteroge-
neità” da cui siamo partiti parlando del presente – ne costituisce fin
dal principio il tema dominante, entro coordinate spaziali che non
possono essere pensate altrimenti che come “globali”. Quel che la
critica postcoloniale mette in discussione è precisamente la possibi-
lità di risolvere questa tensione e questo scontro entro una narrazio-
ne lineare, all’insegna del progressivo distendersi di un insieme di
norme di sviluppo dal centro del “sistema mondo” in formazione
verso le “periferie” (cfr. Capuzzo 2006).
Si badi: questa narrazione lineare, secondo cui la costituzione del
sistema mondo viene appunto svolgendosi unilateralmente dal cen-
tro verso le periferie, è sostanzialmente condivisa sia dalle ricostru-
zioni apologetiche del colonialismo, che ne sottolineano il portato di
“civilizzazione”, sia da molte ricostruzioni critiche, che ne enfatizza-
no al contrario il carico di violenza e sopraffazione. Gli studi postco-
loniali, o almeno alcuni studi postcoloniali, invitano a complicare lo
stesso quadro analitico, considerando le colonie veri e propri labora-
tori della modernità (cfr. Stoler, Cooper 1997), e dunque affinando il
nostro sguardo sul movimento inverso, che “retroagisce” dalle colo-
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 59

nie stesse sul centro del sistema (sull’Europa prima, sull’“Occiden-


te” poi), mostrandone appunto il carattere costitutivamente ibrido.
Si tratta di una lezione che ha precise conseguenze sia in termini
storiografici sia in termini teorici. Valutare nel suo giusto peso quel-
lo che si è definito il movimento di retroazione dalle colonie sulla me-
tropoli significa lavorare sulla base dell’ipotesi che, contro ogni teoria
degli “stadi” di sviluppo, si possano rintracciare vere e proprie “an-
ticipazioni coloniali” nella storia di dispositivi economici, sociali, po-
litici che hanno giocato un ruolo essenziale nella definizione della
modernità. Significa, per limitarci a un solo esempio, prendere sul se-
rio l’origine coloniale del moderno sistema di fabbrica, sviluppando
le fondamentali analisi di Sidney W. Mintz (1985) sulla piantagione
di canna da zucchero nelle Indie occidentali tra Cinque e Seicento, e
al tempo stesso riconsiderare la funzione essenziale che la schiavitù e
le varie forme di lavoro coatto nelle colonie hanno svolto nel proces-
so di costituzione del lavoratore salariato “libero” in Europa 4.

2. Il tempo della piantagione e il silenzio dell’archivio

Restiamo alle Indie occidentali. Robert Young (2001) ha sottoli-


neato il nesso strettissimo tra postcolonialismo e anticolonialismo, in-
sistendo da una parte sull’importanza fondamentale che le lotte anti-
coloniali, indipendentemente dalle vicissitudini dei regimi a cui hanno
dato origine, hanno avuto nella genealogia del nostro presente “glo-
bale”, dall’altra, come si accennava nel primo capitolo, sull’opportu-
nità di tornare a leggere, al di fuori di ogni mitologia “terzomondista”,
alcuni testi classici nati all’interno di quella esperienza storica.
Si è fatto precedentemente cenno alla critica di Dipesh Chakra-
barty allo “storicismo” moderno: si tratta di una critica assai raffina-
ta, costruita attraverso un confronto serrato con motivi marxiani e
heideggeriani, su cui torneremo in seguito. Ma la fondamentale fonte
di ispirazione del lavoro di Chakrabarty, molto presente in generale
negli studi postcoloniali, è la critica corrosiva rivolta da Walter Ben-
jamin sul finire degli anni Trenta del Novecento al concetto di pro-
gresso e al suo necessario correlato, all’idea cioè che “la storia proce-

4 Si veda in questo senso l’importante lavoro di Y. Moulier Boutang (1998). Nella


prospettiva di una rilettura di alcuni testi classici prodotti all’interno dei movimen-
ti anti-coloniali, conviene segnalare il vivace dibattito attorno alle tesi avanzate da
Eric Williams negli anni della seconda guerra mondiale: cfr. Cateau, Carrington (a
cura di) 2000.
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60 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

da percorrendo un tempo omogeneo e vuoto” 5. Lo “stato di eccezio-


ne” stava effettivamente avviandosi a divenire la regola in Europa, e
lo sguardo di Benjamin, ebreo e marxista tedesco in fuga dal nazismo,
non poteva che essere particolarmente sensibile a quella compresen-
za di progresso e catastrofe nella storia che era stata del resto uno dei
temi fondamentali della sua riflessione negli anni precedenti.
Più o meno negli stessi anni, il marxista nero C.L.R. James, tra-
sferitosi da Trinidad in Inghilterra, avviava un formidabile percorso
di militanza politica e di ricerca storica che lo avrebbe condotto a di-
venire una delle voci più autorevoli del movimento panafricanista e
un punto di riferimento fondamentale nel dibattito che attraversò i
movimenti anticoloniali negli anni successivi 6. È interessante leggere
quanto James scriveva nel 1962, tracciando un provvisorio bilancio
dei suoi lavori sulle Indie occidentali: il processo storico si configura
in quest’area, fin dalle origini della modernità, “in un concatena-
mento di periodi non preordinati di lenta deriva, alternati a sprazzi
di rivolta, a balzi in avanti e a catastrofi”.
James riconduceva questo ritmo sincopato della storia, così di-
verso dal lineare progresso immaginato dal mainstream della filoso-
fia moderna, proprio al prevalere in quell’area del mondo del siste-
ma della piantagione di canna da zucchero, che “ha avuto sullo svi-
luppo delle Indie occidentali l’influenza più civilizzatrice e più cor-
ruttrice che si possa immaginare” 7. Più civilizzatrice e al tempo stes-
so più corruttrice, scriveva James: una compiuta modernità coloniale
aveva già nel Settecento reso possibile la contemporaneità di moder-
nità e catastrofe, in cui aveva fatto irruzione sul finire del secolo la
novità storica assoluta di una vittoriosa rivoluzione di schiavi. A quel-
la rivoluzione e al suo principale protagonista, Toussaint Louvertu-
re, James aveva dedicato nel 1938 un fondamentale volume, The
Black Jacobins, divenuto rapidamente un classico all’interno del mo-
vimento panafricanista ma a lungo sostanzialmente ignorato dalla sto-
riografia europea.
Nel 1790, pochi mesi prima dell’inizio dell’insurrezione a Santo
Domingo, un colono francese scriveva alla moglie a Parigi, per rassi-

5 Benjamin 1997, p. 45. Nella ormai sconfinata letteratura sulle Tesi di Benjamin, si
segnala il prezioso volumetto di Löwy 2001.
6 Sull’opera storiografica di James, cfr. Robinson 1983, pp. 241-286. Più in generale,
si vedano i saggi raccolti in Farred (a cura di) 1996, nonché la sezione monografica
a lui dedicata, a cura di chi scrive, in “Studi culturali”, IV (2007), 2.
7 C.L.R. James, Da Toussaint Louverture a Fidel Castro (1962), pubblicato in appen-
dice a James 1938, pp. 321 s.
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 61

curarla a proposito delle condizioni di tranquillità in cui si viveva ai


tropici: “non v’è alcun movimento tra i nostri Negri. [...] Non ci pen-
sano neppure, sono assolutamente tranquilli e obbedienti. Una rivol-
ta tra loro è impossibile”. Sono parole che si potrebbero commenta-
re ironicamente, immaginando lo sbalordimento del colono di lì a po-
co, di fronte al fatto dell’insurrezione degli schiavi. A me pare, tutta-
via, più fruttuoso seguire l’argomentazione di Michel-Rolph Trouil-
lot, uno dei maggiori storici haitiani, da tempo residente negli Stati
uniti, che invita alla cautela: “quando la realtà non coincide con con-
vinzioni profondamente radicate”, scrive Trouillot in un libro molto
importante, Silencing the Past, “gli esseri umani tendono a produrre
schemi interpretativi che riconducono a forza la realtà all’interno di
queste convinzioni. Escogitano formule che consentono loro di re-
primere l’impensabile e di ricondurlo all’interno del discorso accet-
tato” (Trouillot 1995, p. 72).
Trouillot aggiunge che affermazioni come quella citata del colono
francese “non si basavano tanto sull’osservazione empirica, quanto
su una vera e propria ontologia, un’organizzazione implicita del
mondo e dei suoi abitanti” (ivi, p. 73): la convinzione che gli schiavi
africani non fossero neppure in grado di immaginare la libertà, po-
tremmo aggiungere, era una perfetta espressione di quel duplice con-
fine – spaziale e temporale – attorno a cui di lì a poco Hegel avreb-
be articolato la propria filosofia della storia universale. Non prima,
del resto, di avere attinto ai fatti di Haiti per coniare una delle figure
emblematiche della filosofia occidentale: la dialettica tra servo e si-
gnore (cfr. Buck-Morss 2000).
Trouillot non è uno studioso “postcoloniale” in senso stretto, ma
le domande che pone sono perfettamente coerenti con alcuni dei te-
mi più importanti che lo sviluppo della critica postcoloniale ha solle-
vato negli ultimi anni, e in particolare con l’insistenza di quest’ultima
sulla dimensione “epistemica” del moderno progetto coloniale euro-
peo, sulla vera e propria conoscenza coloniale che ne costituisce un
elemento di strategica importanza 8. Quel che era impensabile per i
coloni francesi all’inizio del 1790, afferma Trouillot, è stato efficace-
mente silenziato dagli storici, attraverso molteplici strategie di rimo-
zione o “trivializzazione” della rivoluzione di Haiti: l’analisi di opere
così diverse come il Penguin Dictionary of Modern History e l’Età del-
8 Decisivo, da questo punto di vista, è stato, come già si è detto, il libro di E.W. Said,
Orientalismo (1978). Ma si tengano presenti almeno i saggi raccolti in N.B Dirks (a
cura di) 1992 e, specificamente sulla storiografia dell’“India britannica”, il lavoro
di Guha 1997.
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62 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

le rivoluzioni di E.J. Hobsbawm consente in altri termini allo storico


haitiano di mostrare come la storiografia abbia continuato a interio-
rizzare e a riprodurre il confine coloniale su cui si basava l’“ontolo-
gia” spontanea dei coloni francesi a Santo Domingo. E dunque lo
conduce a offrire un perfetto esempio di quelle persistenze coloniali
ben oltre l’età delle indipendenze nella cui analisi consiste il punto
d’onore della migliore critica postcoloniale (cfr. Shohat 1992, nonché
supra, cap. I).
Il riferimento alla dimensione “epistemica” del moderno colo-
nialismo, l’enfasi posta fin dal principio di questo capitolo sulle ca-
tegorie “formali” di spazio e tempo, perdono qui ogni astrattezza e
investono direttamente la pratica storiografica, dialogando con una
pluralità di approcci che, dall’interno dei dibattiti disciplinari, hanno
quantomeno problematizzato il preteso carattere “oggettivo” delle
“fonti”: a venire in primo piano è l’ordine del discorso e dei silenzi
che, espressione di precisi rapporti di forza e di potere, organizza
l’“archivio” storico. Non si tratta necessariamente di derivarne il ca-
rattere meramente “retorico” della storiografia e di interrompere una
volta per tutte il rapporto di quest’ultima con la “realtà storica” 9. Si
tratta tuttavia, ancora con Trouillot, di essere consapevoli del fatto
che, nelle stesse modalità di produzione di un evento in quanto even-
to storico, sono in gioco strategie di occultamento e di silenziamen-
to: “qualcosa è sempre tralasciato mentre qualcosa viene registrato.
Non c’è una perfetta chiusura dell’evento, comunque i confini di
quell’evento vengano definiti. Dunque, ogni cosa che diviene un fat-
to lo diviene con le sue costitutive assenze, che sono proprie del suo
stesso processo di produzione. In altri termini, i meccanismi stessi
che rendono possibile la registrazione storica assicurano al tempo
stesso che i fatti non vengano creati uguali. Essi riflettono un diver-
so controllo sui mezzi di produzione storica al momento stesso della
prima iscrizione che trasforma un evento in un fatto” (Trouillot
1995, p. 49).
Il contributo che la critica postcoloniale può apportare alla sto-
riografia attraverso la ridefinizione delle sue coordinate spazio tem-
porali si colloca proprio su questo terreno, che è anche il “campo di
battaglia per il potere storico” (ibidem).

9 Per una critica di questo esito, certo non estraneo ad alcuni esponenti degli studi
postcoloniali, cfr. Ginzburg 2000. Considerazioni analoghe si trovano del resto in
Trouillot 1995, pp. XVIII s. e 12 ss.
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 63

3. Oltre lo “storicismo”

Questo campo di battaglia si determina precisamente, per ripren-


dere un tema classico, nel punto in cui le res gesta, la storia intesa nel-
la sua materialità processuale, si incontrano con la historia rerum ge-
starum, con la storiografia. Tra questi due piani esistono contempo-
raneamente una distinzione e una sovrapposizione irriducibili, in ul-
tima istanza perché lo scarto tra quanto è accaduto e quanto viene
raccontato è esso stesso storicamente determinato (ivi, pp. 3 s.): ha
cioè a che fare con quei rapporti di forza e di potere che regolano l’i-
scrizione degli eventi nell’archivio – e dunque la possibilità di rac-
contarli.
Gli studi postcoloniali hanno contribuito in modo assai significa-
tivo, negli ultimi anni, a riaprire produttivamente questo problema
classico della teoria storiografica. Il punto non consiste tanto (o sol-
tanto) nella rivendicazione di nuovi spazi per una serie di “storie mi-
nori”, in un tentativo di democratizzare in chiave “multiculturale” il
canone storiografico, o magari di giocare le “storie” contro la “Sto-
ria”. Non mancano certamente, all’interno degli studi postcoloniali,
posizioni di questo genere (cfr. ancora le critiche di Dirlik 1997 e
2000). Decisamente più interessante, a mio parere, è tuttavia la ri-
flessione di quanti hanno rinvenuto proprio nella tensione tra la Sto-
ria e le “storie” un carattere strutturale della storia moderna, che nel-
la condizione coloniale si staglia con particolare precisione e che non
può comunque essere risolto giocando un termine contro l’altro.
È questa la via seguita da Dipesh Chakrabarty, in particolare nel-
l’impegnato capitolo di Provincializzare l’Europa dedicato a un con-
fronto con la categoria marxiana di “lavoro astratto”, che costituisce
anche un bilancio del suo lavoro di storico della classe operaia in
Bengala (Chakrabarty 1989). Qui il problema del rapporto tra astra-
zione e “differenza storica” viene presentato come un problema ge-
nerale della transizione al capitalismo (ma si potrebbe aggiungere:
della “modernizzazione” in generale), in una prospettiva che tutta-
via, e qui sta il punto decisivo, considera quella transizione mai con-
clusa, destinata per così dire a ripetersi ogni giorno.
Per dirla nei termini più semplici possibili: capitalismo e moder-
nità, nell’economia come nella politica, sono contraddistinti dal pri-
mato dell’astrazione. Gli individui, scriveva Marx, “sono ora domi-
nati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro”
(Marx 1857-1858, vol. I, p. 107). Questo primato tuttavia, nella cui
istituzione consiste il momento genetico di capitalismo e modernità,
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64 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

deve essere sempre riaffermato. La critica dello stesso “storicismo”


marxiano, in particolare per quel che concerne il rapporto tra “sus-
sunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro sotto il capitale
(cfr. Chakrabarty 2000, pp. 74 s.), trova in fondo qui il suo punto di
condensazione concettuale: lungi dal poter essere narrata linearmen-
te, ad esempio nei termini di un passaggio dato una volta per tutte
dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro, la
storia del capitale è continuamente interrotta dal violento riproporsi
del problema della sua origine (cfr. infra, cap. VI e appendice).
La categoria di lavoro astratto (l’“astratta generalità dell’attività
produttrice di ricchezza”, considerata nella sua “indifferenza verso il
lavoro determinato” – Marx 1857-1858, vol. I, pp. 31 s.), da questo
punto di vista, deve essere interpretata come una categoria pratica,
performativa: “organizzare la vita sotto il segno del capitale significa
agire come se si potesse astrarre il lavoro da tutti i tessuti sociali in cui
esso si trova sempre incastonato e che rendono concreta ogni forma
particolare di lavoro – compreso anche il lavoro di astrazione” (Cha-
krabarty 2000, p. 80). Il processo attraverso cui il lavoro astratto vie-
ne prodotto come “norma” del modo di produzione capitalistico, che
è essenzialmente un processo di disciplinamento, non può mai con-
cludersi una volta per tutte, e questo fa sì che la resistenza opposta
all’astrazione dalla concreta molteplicità del “lavoro vivo” si installi
al cuore del concetto e della logica del capitale, come “l’Altro del di-
spotismo” in essi implicito (ivi, p. 87).
Questa rilettura del concetto marxiano di lavoro astratto ha in
realtà implicazioni che vanno oltre le categorie di capitale e lavoro.
Essa offre piuttosto a Chakrabarty un vertice prospettico a partire dal
quale rileggere la struttura del tempo storico nella modernità nel suo
complesso. E questa struttura si presenta costitutivamente scissa:
quella che Chakrabarty stesso chiama “storia 1”, il tempo omogeneo
e vuoto posto dal capitale, è necessariamente, in ognuno dei presen-
ti la cui concatenazione costituisce il passato, interrotta nella sua li-
nearità dal movimento di appropriazione della “storia 2”, delle tem-
poralità plurali che sono proprie non solo del “lavoro vivo” ma an-
che della merce e del denaro (ivi, pp. 93 s.). Le conseguenze che ne
derivano sono a mio giudizio di grande importanza per spiazzare la
stessa alternativa tra relativismo e universalismo: “nessun capitale
globale (o locale) potrà mai rappresentare la logica universale del ca-
pitale, poiché ogni forma storicamente disponibile di capitale è un
compromesso provvisorio costituito da una modificazione della sto-
ria 1 per mano delle storie 2 di qualcuno. In quel caso l’universale
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 65

può esistere solo come casella vuota (place holder), che viene conti-
nuamente usurpata da un particolare storico che tenta di proporsi co-
me universale” (ivi, p. 101).
Si tratta, come si accennava, di una posizione di grande rilievo dal
punto di vista teorico, da cui possono venire spunti di notevole inte-
resse per una riqualificazione del concetto e del lessico dell’universa-
le (si veda in questo senso Fornari 2005). Ma contemporaneamente
l’analisi di Chakrabarty ha precise implicazioni per la pratica storio-
grafica. Invita a fare del movimento di riduzione del plurale delle sto-
rie al singolare della storia, in cui Reinhart Koselleck ha classicamen-
te indicato il tratto peculiare del moderno concetto di storia (cfr. Ko-
selleck 1979, pp. 110-122), un fatto esso stesso storico. Non solo un
concetto come quello di classe operaia, ma anche concetti come cit-
tadinanza e nazione, sono attraversati nel loro stesso statuto logico
dagli scontri, dalle contraddizioni e dagli squilibri che quel movi-
mento produce. La violenza della conquista e della dominazione co-
loniale non fa che intensificare un problema inerente, per citare an-
cora Koselleck, a ognuno dei “singolari collettivi” che formano tanta
parte delle parole della storia, portandone alla luce – e imponendo
come specifico oggetto di ricerca storica – il movimento di costitu-
zione.
Se questo ordine di riflessioni invita a problematizzare, come si è
detto, il lessico dell’universalismo (e dunque i canoni storiografici che
su di esso si sono materialmente costruiti), mi sembra che d’altra par-
te costituisca un sano antidoto alla proliferazione di una mera apolo-
gia delle “differenze”. Mai definitivamente compiuta, la transizione
che ha inaugurato nel segno della conquista la storia moderna come
storia globale, ha tuttavia caratteri di irreversibilità: proprio la vio-
lenza dell’origine ha imposto “un ‘linguaggio comune’ che annulla
per sempre ogni esperienza di differenza che non sia stata mediata
dalle relazioni di potere coloniali e dalla logica globale del capitale”
(Rahola 2003b, p. 163). Non si tratta, da questo punto di vista, di ri-
scoprire ancestrali “tradizioni” da contrapporre – storiograficamen-
te così come politicamente – alla modernità occidentale. Si tratta
piuttosto di lavorare alla costruzione di un quadro più complesso
della stessa modernità, di aprirsi certamente al riconoscimento di una
pluralità di modernità determinata dalle diverse forme assunte in di-
versi contesti storici e geografici dall’incontro/scontro tra storia 1 e
storie 2, per riprendere i termini di Chakrabarty, ma al contempo di
valorizzare la cornice globale e unitaria al cui interno questa stessa
pluralità si è fin da principio fattualmente collocata.
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66 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

4. Contro-geografie della modernità

La critica allo “storicismo” proposta da Chakrabarty non ha dun-


que come suo esito una liquidazione semplice del problema del “pro-
gresso” e della sua specifica temporalità. Il tempo “omogeneo e vuo-
to” di cui parlava Benjamin è piuttosto riconosciuto come uno dei
vettori fondamentali attorno a cui si articola la storia della moderni-
tà, materialmente incardinato nell’azione di precise potenze storiche
(il capitale, gli Stati, gli Imperi). Ma la sua stessa affermazione non è
possibile se non in un movimento di continua “ibridazione” con al-
tre temporalità, strutturalmente eterogenee e “piene”. Un discorso
analogo può essere fatto per le coordinate spaziali della storia mo-
derna: se lo spazio globale costituisce il necessario ambito di svolgi-
mento della “storia 1”, la produzione di questo spazio non può esse-
re pensata in termini lineari, ponendosi piuttosto come una cornice
al cui interno è continuamente rideterminato il senso dei “luoghi”
che sono coinvolti in quel processo di produzione.
Gli studi postcoloniali, da questo punto di vista, ci invitano a pro-
blematizzare i confini che organizzano le stesse mappe mentali degli
storici. Portano alla luce movimenti diasporici e fitte trame di in-
trecci – a un tempo locali e globali – che collegano in modo impre-
visto spazi apparentemente distanti tra loro, disegnando una vera e
propria “contro-geografia” della modernità (cfr. Clifford 1997, in
specie cap. 10, “Diaspore”). Dove la stessa storiografia radicale ve-
de processi chiaramente perimetrati da stabili confini nazionali (la
“formazione della classe operaia inglese”, per riprendere il titolo del-
la classica opera di E.P. Thompson), la critica postcoloniale intrave-
de le tracce di un “placido nazionalismo culturale”, che ha condot-
to ad esempio, nel caso della history from below britannica, a rimuo-
vere la dimensione atlantica in cui quegli stessi processi si sono di-
panati 10.
Proprio il lavoro di Paul Gilroy sull’“Atlantico nero” come “con-
trocultura della modernità” è in questo senso esemplare. Segnato in
modo indelebile dalla catastrofe del middle passage, lo spazio atlanti-
co non è stato tuttavia per i neri soltanto spazio di sofferenza e di
morte. Con tipica mossa postcoloniale, Gilroy ricostruisce piuttosto
le modalità complesse con cui quello spazio è stato percorso a ritro-
so – e letteralmente reinventato – dai neri stessi, come marinai e co-

10 Cfr. Gilroy 1993, p. 51 nonché Mellino 2004. Ma si tenga presente anche Line-
baugh, Rediker 2000.
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TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 67

me viaggiatori. Le culture nate all’interno dell’Atlantico nero portano


lo stigma della violenza e della schiavitù, ma esprimono anche – sia
pure in modo frammentario – un anelito di liberazione irriducibile ai
“codici chiusi di qualsiasi visione assolutista o comunque costrittiva
dell’etnicità” (Gilroy 1993, p. 244).
Nello spazio di circolazione dell’Atlantico, insomma, la moderni-
tà ha precocemente mostrato il suo volto più catastrofico e ha con-
temporaneamente registrato il sorgere di radicali pratiche cosmopo-
lite. Ancora una volta forzando gli archivi, queste ultime cominciano
a essere fatte oggetto di ricerca storiografica, ad esempio in lavori co-
me quello di Peter Linebaugh e Marcus Rediker (2000) sull’“Atlan-
tico rivoluzionario”, modificando le stesse coordinate geografiche al
cui interno viene letta una vicenda come la stessa rivoluzione di Hai-
ti, ricostruita ora nei termini di uno scontro sul significato della mo-
dernità in cui hanno avuto un peso fondamentale le pratiche dell’an-
ti-schiavismo radicale maturate proprio nello spazio atlantico (si veda
il fondamentale lavoro di Fischer 2004).

5. Figure della soggettività

Al centro del rinnovamento delle coordinate spazio-temporali del-


la storia moderna che gli studi postcoloniali determinano sta eviden-
temente una questione ulteriore, ovvero la questione della concet-
tualizzazione e della rappresentazione delle figure soggettive che han-
no fatto esperienza della modernità in posizione subordinata e anta-
gonista. Si è ricordata la critica di Gilroy nei confronti della ricostru-
zione della storia della classe operaia inglese proposta da E.P.
Thompson. Ma lo stesso lavoro di Chakrabarty sul tempo storico af-
fonda le proprie radici nella polemica – “fondativa” per l’intera espe-
rienza dei subaltern studies – di Ranajit Guha contro la caratterizza-
zione del banditismo e delle rivolte rurali come “fenomeni pre-poli-
tici” proposta da E.J. Hobsbawm sul finire degli anni Cinquanta (cfr.
Guha 1983a, in specie pp. 5-13): era una concezione lineare della
transizione al capitalismo quella che consentiva allo storico marxista
inglese di ascrivere il monopolio della politica alle figure del cittadi-
no e del proletario rivoluzionario, condannando all’irrilevanza rivol-
te e figure sociali, “non ancora” pervenute a quel grado di maturità
storica. Il contesto coloniale costituiva evidentemente un severo ban-
co di prova per questa concettualizzazione della politica e dei suoi
soggetti, e gli storici dei subaltern studies ne derivarono alcune con-
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68 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

seguenze di grande rilievo. La “contemporaneità del non contempo-


raneo” (gli elementi “arcaici” messi in gioco dalle rivolte contadine
nello sfidare il dominio esercitato dal più “moderno” impero che la
storia avesse conosciuto) diventava un problema teorico fondamen-
tale. E lavorare attorno a questo problema consentiva di articolare
una critica corrosiva delle stesse modalità con cui tempo storico e po-
litica si erano saldate attorno a una specifica idea di progresso nel
“marxismo occidentale”.
La rivendicazione da parte di Guha della radicale politicità delle
insurrezioni contadine nell’India coloniale poneva l’accento da una
parte sul fatto che quelle insurrezioni costituivano risposte puntuali
agli specifici rapporti di potere su cui si fondava il Raj britannico,
dall’altra sul fatto che la stessa trasformazione delle strategie e delle
tecniche di governo adottate dalle forze dominanti (l’amministrazio-
ne coloniale, ma anche i proprietari terrieri e le altre componenti del-
le “elite” indigene) non poteva essere intesa se non considerandola
anche come specifica reazione alla persistenza di un movimento in-
surrezionale nelle campagne. La scoperta di un autonomo campo
della politica “subalterna” nell’India coloniale ha dato un contribu-
to fondamentale al rinnovamento della storiografia in materia, modi-
ficando profondamente, per fare un solo esempio, il modo di consi-
derare il “nazionalismo” indiano 11.
Quel che mi interessa qui discutere brevemente è tuttavia il signi-
ficato stesso dei termini “subalterni” e “subalternità”, di diretta
ascendenza gramsciana 12. Conviene sottolineare che, fin dal primo
volume della collana subaltern studies, i termini in questione hanno
svolto una funzione essenzialmente polemica, denotando l’insieme
dei soggetti la cui azione è stata a lungo disconosciuta da una storio-
grafia che, nelle sue varianti coloniali, nazionaliste e marxiste, ha
mantenuto secondo Guha una caratterizzazione marcatamente eliti-
sta (cfr. in specie Guha 1982). Utilizzati in riferimento al contadino
protagonista delle rivolte anti-coloniali nelle campagne indiane del-
l’Ottocento, i termini in questione vedono confermata la loro radice
negativa, privativa per così dire: “la sua identità”, scrive Guha del
contadino indiano, “consisteva nella somma della sua subalternità. In
altri termini egli imparava a riconoscersi non per via delle proprietà e
degli attributi della sua propria esistenza sociale, ma per via di una
11 Si veda ad esempio – oltre ai fondamentali e già richiamati lavori di P. Chatterjee
(1986 e 1993) – il libro di S. Amin (1995).
12 Per una discussione del significato di questi concetti in Gramsci, in aperta polemi-
ca con l’uso fattone dai protagonisti dei subalter studies, cfr. Green 2002.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 69

TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 69

diminuzione, se non di una negazione, di quelli dei suoi superiori”


(Guha 1983a, p. 18).
La ricostruzione dei movimenti di soggettivazione, di conquista
di soggettività, messi in atto da figure sociali definite in questi termi-
ni assolutamente negativi, non poteva che porre un gran numero di
problemi sotto il profilo metodologico e teorico. D’altro canto, fa-
cendo della fine della subalternità il motivo dominante delle lotte an-
ticoloniali, Guha ci offre un punto di vista particolarmente efficace
per focalizzare uno dei caratteri politicamente salienti della condizio-
ne postcoloniale: il “fallimento storico della nazione nel creare se
stessa”, che i subaltern studies si proponevano originariamente di stu-
diare nel subcontinente indiano (Guha 1982, p. 39), trova nella ri-
produzione di condizioni di subalternità – di negazione radicale di
parola e agency politica – ben oltre la fine formale del colonialismo il
proprio terreno privilegiato di verifica.
È un problema ben lungi dal riguardare soltanto i territori che so-
no stati storicamente sottoposti a dominio coloniale. A me pare anzi
che il problema della subalternità si stia riaprendo anche all’interno
di quelle che furono le “metropoli”, come mostrano ad esempio i di-
battiti degli ultimi anni sull’underclass o sulla “biopolitica” (tema di
cui sarebbe interessante ricostruire la genealogia coloniale, sorpren-
dentemente rimossa – come si è notato nel primo capitolo – dallo
stesso Foucault). È in fondo un altro dei molteplici modi attraverso
cui, per riprendere il titolo di un testo che ha avuto un grande im-
patto sullo sviluppo degli studi postcoloniali, the empire strikes back
(Center for Contemporary Cultural Studies 1982). Quelle che sono
state a lungo le norme attorno a cui è stata pensata e praticata la stes-
sa politica emancipativa – per semplificare: la cittadinanza e la classe
operaia – sono investite da potenti movimenti di decentramento e di
ibridazione che paiono metterne in scacco la portata progressiva.
Una genealogia del presente che, come quella a cui alludono gli stu-
di postcoloniali, mostri l’intensità delle battaglie che si sono combat-
tute attorno alla condizione di subalternità, può allora rivelarsi un’im-
presa di valore tutt’altro che meramente antiquario.

6. Contrappunti

“Ciò che è mio”, scriveva nel 1939 il grande poeta martinicano


Aimé Césaire nel Cahier d’un retour au pays natal, “è un uomo solo
imprigionato di bianco/è un uomo solo che sfida le urla bianche del-
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 70

70 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

la morte bianca/(TOUSSAINT, TOUSSAINT LOUVERTURE)” (Césaire 1939,


p. 61).
A distanza di un solo anno dalla pubblicazione del libro di C.L.R.
James sulla rivoluzione haitiana, il nome di Toussaint Louverture ir-
rompeva (letteralmente) in un altro testo destinato a esercitare una
grande influenza nei movimenti panafricanisti e anticoloniali degli
anni successivi. Vale la pena soffermarsi brevemente a considerare gli
aspetti formali del brano citato. La parentesi e le lettere maiuscole in-
dicano chiaramente come soltanto un brusco cambiamento di ordi-
ne discorsivo possa interrompere la linearità di una narrazione che fa
di Toussaint “un uomo solo imprigionato di bianco”. Il riferimento
di Césaire è alla cella del Castello di Joux, nelle montagne del Giura
francese, in cui il “console nero”, imprigionato per ordine di Napo-
leone, trovò la morte nell’aprile del 1803, pochi mesi prima della ca-
pitolazione dei francesi di fronte al generale Dessalines e della pro-
clamazione dell’indipendenza di Haiti 13. Ma la prigione bianca è an-
che, più in generale, la prigione di una storia in cui la voce dell’in-
sorto anti-coloniale, pur potente (letteralmente maiuscola), è anche
sempre elisa, posta tra parentesi appunto.
I versi di Césaire diventano così una straordinaria anticipazione
poetica di quel metodo “contrappuntistico” con cui nel 1993 Edward
Said invitava a rileggere il canone letterario e storiografico dominan-
te (l’“archivio della cultura”), per portare alla luce “narrazioni alter-
native o nuove”. Si trattava per Said di accostarsi alle fonti “occiden-
tali” “con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che
viene narrata sia di quelle altre storie contro cui (e con cui) il discor-
so dominante agisce” (Said 1993, p. 76). Valorizzare questa indica-
zione metodologica significa da una parte assumere come punto di
partenza la convinzione che gli archivi e le fonti coloniali, nonostan-
te la logica imperiale che ne governa la costituzione, rechino comun-
que inscritta la parola dei “subalterni”; dall’altra parte significa ri-
nunciare alla possibilità di ascoltare direttamente quella parola, di re-
stituire limpida la “voce” dei subalterni stessi. Quando quest’ultima
non è infatti “silenziata”, essa è comunque disconosciuta, rintraccia-
bile attraverso i sintomi che la logica del disconoscimento residua nel-
l’ordine del discorso dominante (si veda ancora Fischer 2004).
In un saggio ormai celebre del 1984, Gayatry Chakravorti Spivak
rimproverò a Guha, e in generale ai primi studi prodotti dal colletti-

13 Su Toussaint Louverture si veda la ricca e accurata introduzione di Sandro Chignola


alla raccolta di scritti politici di Toussaint da lui curata nel 1997 (pp. IX-LIII).
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 71

TEMPO STORICO E SEMANTICA POLITICA NELLA CRITICA POSTCOLONIALE 71

vo dei subaltern studies, precisamente un’ingenua fiducia nella pos-


sibilità di recuperare la “voce” dei “subalterni” dall’interno degli ar-
chivi coloniali, facendo giocare le provocazioni della decostruzione
contro quello che le appariva un residuo di “umanesimo” (cfr. Spi-
vak 1984). Sviluppando ulteriormente questa critica attraverso un’a-
nalisi del sati (il sacrificio rituale delle vedove, dichiarato illegale dal
governatore generale Lord Bentinck nel 1829, con il plauso di intel-
lettuali indiani “illuminati” come Ram Mohan Roy), Spivak giunse
anzi – almeno in un primo momento – a dare una risposta negativa
alla domanda se il subalterno – o meglio la subalterna – possa parla-
re (cfr. Spivak 1988). La violenza epistemica su cui si fonda la domi-
nazione coloniale, contaminandosi – nel momento stesso in cui le sot-
topone a critica – con le “tradizioni” locali, finisce per cancellare ef-
ficacemente “lo spazio della libera volontà, della agency del soggetto
sessuato come femminile” (Spivak 1999, p. 248).
Il tentativo di Guha, condotto attraverso strumenti metodologici
derivati dalla linguistica strutturalistica (e in particolare dai primi la-
vori di Roland Barthes), era stato in realtà precisamente di leggere in
modo “contrappuntistico” quella che lui definiva la “prosa della con-
troinsurrezione” (ovvero gli archivi e le fonti coloniali) per rintrac-
ciarvi gli indizi di una presenza altra e perturbante rispetto a quella
inevitabilmente “imperiale” dell’io narrante (si veda in particolare
Guha 1983b). Il suo lavoro resta a mio giudizio un contributo fon-
damentale, di cui andrebbe anzi rivendicata la classicità, sia sotto il
profilo metodologico sia sotto il profilo della pratica storiografica. Le
considerazioni critiche di Spivak, tuttavia, ci aiutano a individuarne
un limite effettivo: proprio mentre Guha poneva in discussione le
modalità canoniche di rappresentazione storiografica delle soggetti-
vità “subalterne”, finiva per recuperare dalla stessa storia dei movi-
menti anticoloniali indiani un presupposto “romantico-populistico”
che lo conduceva a sovrapporre un soggetto (e una coscienza) sempre
già formati al campo di battaglia sulle forme stesse della soggettività
che la sua stessa analisi portava alla luce.
Dipesh Chakrabarty, che ha individuato recentemente in questa
radice romantica e populistica uno degli “errori” fondamentali dei
subaltern studies, ha altresì sostenuto che esso contiene la possibilità
di un “nuovo inizio” per chi voglia dedicarsi a “scrivere una storia del
soggetto di massa della politica oggi” (Chakrabarty 2004, pp. 243 s.).
A meno di non voler concedere al discorso coloniale, come ha scritto
Lata Mani (1992, p. 403), “ciò che in realtà non ha mai ottenuto, ov-
vero la cancellazione delle donne”, questo “nuovo inizio” non può
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72 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

tuttavia collocarsi nello spazio che sembrerebbe aperto da una lettu-


ra unilaterale dei saggi di Spivak precedentemente richiamati. Lo
stesso dibattito femminista postcoloniale, al cui interno il contributo
di Spivak ha svolto un ruolo fondamentale, ha avuto del resto negli
ultimi anni come proprio tema fondamentale, ricco di implicazioni
tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista storiografi-
co, proprio la critica di una rappresentazione stereotipata delle don-
ne subalterne del “terzo mondo” come mere vittime di di-spositivi di
assoggettamento e riduzione al silenzio: la scoperta della “complici-
tà” dello stesso femminismo emancipazionista occidentale nel defini-
re questa rappresentazione – ancora una volta letta come indice di un
ritardo storico rispetto all’Occidente – ha costituito la condizione a
partire dalla quale altre esperienze, altre voci e altre parole hanno
guadagnato spazio nel dibattito femminista internazionale.
È l’implicazione della soggettività dei subalterni in un campo di
tensione in cui gli stessi dispositivi di assoggettamento e riduzione al
silenzio sono sempre costretti a fare i conti con una molteplicità di
pratiche che possiamo provvisoriamente definire di soggettivazione
(pratiche di rivolta certo, ma anche di sottrazione, di fuga, di “mi-
metismo”, di negoziazione) il problema fondamentale che gli studi
postcoloniali consegnano sia alla teoria politica sia alla storiografia.
Il punto di vista che ne risulta non è necessariamente in contraddi-
zione con l’accento posto da altre correnti di studi sui caratteri “si-
stemici” che la storia moderna assume fin dagli inizi in quanto storia
globale: ci consente piuttosto, per riprendere una suggestione benja-
miniana, di spazzolare quella stessa storia “contropelo” (Benjamin
1997, p. 31), di sovvertirne il canone, o meglio ancora di indagare i
laboratori al cui interno quel canone è stato (e continua a essere) ma-
terialmente prodotto.
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CAPITOLO QUARTO
Il cittadino e il suddito
Una costituzione postcoloniale per l’Unione Europea?

Ma ripartire per dove? Per l’Algeria? Perché l’Algeria?


A. DJOUDER, Désintégration (2006)

1. Una lezione di alterità?

In molti suoi interventi recenti, Étienne Balibar ha sottolineato il


rilievo strategico di un confronto con la storia dell’espansione colo-
niale (o meglio, con quello che il compianto Edward Said ha definito
il progetto coloniale) per ogni riflessione critica sulla questione della
cittadinanza e della costituzione europea. Il confronto di cui parla
Balibar non ha come suo luogo esclusivo di svolgimento le aule uni-
versitarie: è in primo luogo “la presenza sempre più massiccia, e sem-
pre più legittima malgrado le discriminazioni che subiscono, di po-
polazioni di origine coloniale all’interno delle vecchie metropoli” a
farne uno dei temi di fondo della stessa vita quotidiana in Europa. È
dunque un confronto incalzato da “nuove tensioni e nuove violen-
ze”, e che tuttavia iscrive potenzialmente nella filigrana della cittadi-
nanza europea quella che Balibar stesso definisce una lezione di alte-
rità: ovvero il riconoscimento da parte dell’Europa “dell’alterità co-
me componente indispensabile della sua stessa identità, della sua vir-
tualità, in pratica della sua ‘potenza’” (Balibar 2003, pp. 38 s.).
Al centro di questo capitolo è precisamente questa ambivalenza
dell’eredità coloniale. Il punto di vista scelto per riflettere su alcune
delle sfide politiche fondamentali che caratterizzano il presente eu-
ropeo è quello offerto dal concetto di cittadinanza, inteso come spa-
zio contraddittorio e conflittuale al cui interno le figure soggettive
dell’appartenenza e dell’esperienza politica si incrociano con le di-
mensioni “oggettive” a cui fanno riferimento concetti – tutti eviden-
temente essenziali per la definizione dello Stato moderno – quali so-
vranità e costituzione (cfr. Mezzadra 2004). Il percorso seguito sarà
7 cap 4* 18-01-2008 0:22 Pagina 74

74 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

in prima battuta, sia pure necessariamente solo per accenni, storico:


riprendendo e sviluppando alcuni aspetti dell’analisi svolta nel se-
condo capitolo, si cercherà di mostrare come il discorso europeo del-
la cittadinanza intrattenga fin dalle sue origini un rapporto strettissi-
mo con il “progetto coloniale”. Successivamente ci si concentrerà su
quel processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea che rap-
presenta oggi uno dei laboratori fondamentali al cui interno la crisi e
la trasformazione dello Stato devono essere indagate. Il tentativo sa-
rà quello di far emergere alcuni caratteri fondamentali della situazio-
ne costituzionale europea contemporanea, sottolineando al tempo
stesso la rilevanza della peculiare condizione dei migranti per com-
prendere lo sviluppo complessivo della nuova cittadinanza europea
in formazione.
È bene del resto anticipare una delle tesi fondamentali di questo
capitolo: le caratteristiche della situazione costituzionale europea qui
evidenziate sono destinate a condizionare strutturalmente gli svilup-
pi politici in Europa, indipendentemente dalle vicissitudini del “Trat-
tato costituzionale”, respinto nella primavera del 2005 nei referendum
che si sono tenuti in Francia e in Olanda e ampiamente modificato –
fino a perdere il già controverso carattere “costituzionale” (Ziller
2007, cap. II) – dal Trattato di Lisbona del 2007. Questo non signifi-
ca, naturalmente, che tali referendum non siano a loro volta destina-
ti ad avere conseguenze profonde, per quanto ambivalenti e del tutto
aperte, dal punto di vista politico e costituzionale: sia una reazione na-
zionalistica al progredire dell’integrazione, sia quello che Slavoj -i=ek
ha chiamato il ritorno della “politica vera e propria” (ovvero una ra-
dicale reinvenzione del progetto e dello spazio politico europeo) so-
no possibili nell’immediato futuro. Ma gli elementi costituzionali su
cui si porta l’attenzione in questo capitolo sono parte integrante di ciò
che, seguendo una sezione assai influente della dottrina giuridica eu-
ropea del Novecento (cfr. Mezzadra, Ricciardi 1997), si può definire
la costituzione materiale che ha preso forma nella cornice del proces-
so di integrazione europea. Ogni opzione politica, nei prossimi anni,
sarà costretta a fare i conti con questi elementi. Ed è mia convinzio-
ne che anche il dibattito sullo stato – e sul futuro – dello Stato debba
trovare nel confronto con i processi di costituzionalizzazione in atto
in Europa uno dei suoi luoghi privilegiati di esercizio.
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 75

2. Diritto e terrore

Torniamo dunque alle questioni poste da Balibar, da cui siamo


partiti. È evidente come esse pongano immediatamente una serie di
domande ulteriori. Prima di tutto: che cosa c’è di nuovo nella “lezio-
ne di alterità” di cui parla il filosofo francese? Negli studi postcolo-
niali, l’“alterità” è comunemente riconosciuta come un elemento es-
senziale dell’“identità” europea sin dalle origini della modernità. Nel-
la stessa esperienza coloniale, ci hanno insegnato autori come Homi
Bhabha e Gayatri Spivak, vive contraddittoriamente un movimento
di contaminazione, di transiti e di “traduzione” (di métissage) che in
qualche modo anticipa il presente “postcoloniale”. Ed è importante
sottolineare che, dal punto di vista degli studi postcoloniali, il rap-
porto tra l’Europa e i suoi “altri” non è riducibile a una semplice op-
posizione (che potrebbe essere descritta in termini di “esclusione”).
Quella relazione deve semmai essere ricostruita, per riprendere il ter-
mine lacaniano utilizzato da Gayatri Spivak (ad es. 1999), ricondu-
cendola a un movimento di forclusione. Cerchiamo di semplificare il
lessico spesso un po’ esoterico di molti critici postcoloniali, distillan-
done gli elementi teoricamente fondamentali: dal momento che l’im-
magine dell’Europa e della sua “civiltà”, fin dal XVI secolo, prende
forma entro un movimento di costante comparazione con le immagi-
ni della “barbarie” (ma anche della “libertà”) delle genti “selvagge”
che abitano gli spazi aperti alla conquista europea, quelle genti non
sono confinate a marcare il limite esterno dell’Europa. Esse sono
piuttosto da principio implicate nel lavorio teorico e pratico che pro-
duce l’unità dello spazio europeo nonché i concetti attraverso cui
quell’unità trova articolazione.
Il concetto e il discorso della cittadinanza, nel nesso strettissimo
che li stringe alla vicenda storica dello Stato moderno e al suo con-
cetto, non fanno eccezione a questa regola. Negli scorsi anni abbia-
mo imparato ad esempio da Immanuel Wallerstein che non è possi-
bile comprendere la storia del modo di produzione capitalistico sen-
za considerarlo fin dalle origini un sistema-mondo. Sviluppando al-
cune indicazioni di Carl Schmitt, abbiamo compreso che lo sviluppo
dello jus publicum europaeum (ovvero, al tempo stesso, del moderno
sistema europeo degli Stati) non può essere a pieno ricostruito senza
assumere la dimensione globale che fu inerente a esso dal punto di
vista concettuale e istituzionale fin dalla scoperta e dalla conquista
del “nuovo mondo”. È mia convinzione che un simile approccio pos-
sa e debba essere applicato anche allo studio del concetto e delle isti-
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76 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

tuzioni della moderna cittadinanza europea, sottolineandone appun-


to la dimensione costitutivamente globale fin dal principio della loro
storia.
A partire da John Locke, nel tardo diciassettesimo secolo, un in-
sieme di confini ha definito non soltanto l’esperienza giuridica e po-
litica del cittadino, ma anche quella che nel secondo capitolo ho pro-
posto di definire l’antropologia politica implicita nel moderno di-
scorso della cittadinanza, ovvero le modalità con cui l’individuo è sta-
to immaginato e costruito come cittadino. Conosciamo l’importanza
del rapporto tra cittadinanza e proprietà introdotto da Locke, a par-
tire da un concetto “antropologico” di proprietà, radicato cioè in una
determinata concezione della “natura umana”. Esso indica in primo
luogo, come si è visto, la proprietà della propria persona, la capacità
di un individuo di controllare razionalmente le proprie passioni e di
disciplinarsi in vista di quel lavoro che costituisce a sua volta il fon-
damento di ogni proprietà “materiale”. Solo questo individuo “pro-
prietario di sé” è in grado di divenire un cittadino, e immediatamen-
te questa figura dell’individuo istituisce i suoi propri confini, produ-
ce cioè una serie di figure destinate a essere “altre” da quella del cit-
tadino: la donna (che per Locke, contrariamente a quanto avviene in
Hobbes, è naturalmente destinata a subordinarsi all’autorità maschi-
le all’interno della famiglia), l’ateo, il folle, il povero “pigro” e “vi-
zioso”, e l’indigeno americano (cfr. supra, cap. II).
È opportuno insistere sulla violenza “epistemica” (Spivak 1988,
pp. 281 s.) e materiale implicita in questa originaria demarcazione dei
confini della cittadinanza europea, che appare in modo particolar-
mente evidente in riferimento al progetto coloniale. Se ne è dato
qualche esempio in precedenza, discutendo ad esempio il modo in
cui Emerich de Vattel riprese argomenti lockeani, a metà del XVIII se-
colo, per legittimare l’espansione coloniale europea – fino a contem-
plare la necessità dello “sterminio” dei nativi se si opponevano al su-
periore diritto europeo di conquista (Vattel 1758, I, VII, § 81, p. 78).
Si tratta, evidentemente, di una caratteristica cruciale del coloniali-
smo europeo, del punto in cui la violenza epistemica in esso implici-
ta si rovescia in origine di una assoluta violenza materiale. Ranabir
Samaddar (2007, I, cap. 2), tra gli altri, ha mostrato che terrore e vio-
lenza non si limitarono ad accompagnare il momento della conqui-
sta, ma improntarono piuttosto di sé l’intera storia costituzionale del
colonialismo moderno, definendola come la storia di uno stato d’ec-
cezione permanente.
Al tempo stesso, tuttavia, terrore e violenza sono soltanto un lato
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 77

della storia e del progetto coloniali europei. Come ha sottolineato Ra-


najit Guha, lavorando sullo stesso caso indiano descritto da Samad-
dar, la prospettiva del “conquistatore” lasciò spazio molto presto,
nella conoscenza così come nella “governamentalità” coloniale
nell’“India britannica”, alla prospettiva del “legislatore” (Guha 1997,
p. 77). È questo cambiamento di prospettiva ciò che crea lo spazio al
cui interno la distinzione tra il cittadino metropolitano e il suddito
coloniale, che ho utilizzato per il titolo di questo capitolo, può ope-
rare. Una volta di più, non siamo qui di fronte a una semplice rela-
zione di esclusione. Se il suddito coloniale è l’“altro” del cittadino
metropolitano, il loro rapporto, per dirla brevemente, non può esse-
re concettualizzato nello stesso modo in cui possiamo ad esempio
comprendere il rapporto tra i “barbari” e i cittadini dell’antica polis
greca. La netta demarcazione tra cittadini e sudditi nello spazio im-
periale, come ha recentemente sottolineato per il caso francese E.
Saada, non ci parla solo delle contraddizioni del colonialismo, ma ri-
vela piuttosto un insieme di tensioni che ineriscono alla stessa defi-
nizione della cittadinanza metropolitana, e dunque a caratteri essen-
ziali della vicenda dello Stato moderno in Europa (Saada 2004, p.
194). E d’altro canto il carattere “pedagogico” del colonialismo eu-
ropeo moderno (cfr. ad es. Metha 1999, e ora soprattutto Seth 2007),
che emerge nel modo più chiaro ad esempio dagli scritti di Macau-
lay, finisce per implicare la stessa definizione ed esperienza del “sud-
dito” coloniale nello spazio e nella logica del discorso della cittadi-
nanza. È questa implicazione che vive al cuore del progetto coloniale
europeo, e che contribuisce a spiegare la dimensione peculiarmente
contraddittoria del diritto coloniale, del costituzionalismo coloniale
e della “governamentalità” coloniale (cfr. ad es. Plamenatz 1960,
Thomas 1994 e Mezzadra, Rigo 2006): di dimensioni costitutive del-
la storia dello Stato moderno, come ha mostrato in modo particolar-
mente efficace Partha Chatterjee (1993, p. 18), che tuttavia solo ra-
ramente vengono indagate nei dibattiti “teorici” su di esso.
Restiamo al caso dell’“India britannica”. Certo, in prima battuta
quel che emerge guardando alla storia dell’Ottocento in India è l’u-
biquità del terrore nella sua dimensione “fisica”: guerre, conquiste,
esecuzioni, massacri, devastazioni, siccità, epidemie, rivolte e ammu-
tinamenti. E non è certo inutile enfatizzare questo aspetto, indivi-
duando in esso l’altra faccia di quella che in Europa si è soliti defini-
re la “pace dei cent’anni”. Ma non è questo il punto decisivo: piutto-
sto, si tratta di comprendere il nesso tra l’eccezione permanente e il
diritto, ovvero di sottolineare come l’ubiquità del terrore si legasse a
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78 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

doppio filo, nell’esercizio della governamentalità coloniale, a quella


che lo stesso Ranabir Samaddar definisce una specifica volontà di le-
giferare: appunto all’esigenza stringente di combinare il terrore con
il diritto e con la legge, che mise capo alla definizione di un vero e
proprio “costituzionalismo coloniale”, il cui primo outlaw, come una
sorta di nemesi del terrore, si costituisce nella figura del terrorista, al-
la cui definizione l’amministrazione e la legislazione coloniale inglese
dedicarono non a caso una attenzione quasi ossessiva (cfr. Samaddar
2007, I, capp. 1 e 2).
Fin da principio in ogni caso, anche per la grande influenza che
ebbero in India autori come Jeremy Bentham e James Mill (cfr. Sto-
kes 1982, Guha 1997, Metha 1999; ma ora in particolare Giuliani
2007 e 2008), diritto e legge pretesero di esercitare una specifica fun-
zione di educazione e di riforma, obliterando l’eccezione nella produ-
zione di una specifica normalità coloniale. È un punto esemplificato
nel modo più preciso dalla pubblicazione della History of British India
(1817) di James Mill, che consente di cogliere precisamente il passag-
gio dall’approccio “mercantilistico” alla storia dell’India, prevalente
nei decenni precedenti in Inghilterra e incentrato sulla conquista, a
quello propriamente coloniale, appunto incentrato sulla legislazione.
Nella prospettiva inaugurata da Mill, che resterà a lungo dominante
anche e soprattutto nel campo della storiografia giuridica, si tratta di
criticare la storia indiana precedente la conquista inglese proprio per
creare il vuoto in cui possano operare le leggi e i codici. Ed è assai si-
gnificativo che Mill, secondo una logica che pare anticipare le teorie
della “modernizzazione” in voga negli anni Sessanta del Novecento
(con l’insistenza che le caratterizzava, e che condusse a legittimare i
peggiori regimi dittatoriali nel “terzo mondo”, sui “prerequisiti per il
decollo”, ovvero sulla necessaria rottura della staticità della “società
tradizionale” per avviare lo sviluppo) valuti positivamente l’invasione
islamica, individuando in essa una salutare rottura della “stasi” hindú
e appunto una precondizione della “mobilitazione” determinata dai
britannici (cfr. in particolare Guha 1997, pp. 73-79).
Come la teoria di Walt W. Rostow (1960) indicava quale ultimo
stadio della modernizzazione l’accesso dei paesi “sotto-sviluppati” ai
consumi di massa, il liberalismo inglese dell’Ottocento non mancava
del resto di immaginare un percorso di sviluppo politico e costitu-
zionale che avrebbe potuto condurre gli indiani alla maturità e infi-
ne all’indipendenza. “È possibile”, affermò ad esempio Macaulay in
un famoso discorso tenuto il 10 luglio del 1833 di fronte ai Comuni,
“che lo spirito pubblico indiano (the public mind of India) possa cre-
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 79

scere sotto il nostro sistema fino a fuoriuscire da esso; che con il no-
stro buon governo educhiamo i nostri sudditi facendo loro acquisire
la capacità di meglio governarsi; che essendo stati istruiti nella cultu-
ra europea possano rivendicare in una qualche età futura istituzioni
europee. Non so se un tal giorno mai verrà. Ma non farò mai alcun-
ché per scongiurarlo o per ritardarlo: se verrà, sarà il giorno di cui es-
sere più orgogliosi nell’intera storia inglese” (Macaulay 1898, vol. XI,
pp. 585 s.).
Permanentemente abitata dai “fantasmi” del terrore e di una so-
vranità esercitata per via sostanzialmente amministrativa, la governa-
mentalità coloniale – al pari del discorso coloniale, in tutte le sue va-
rianti, non ultima evidentemente quella giuridica (sul cui ruolo co-
stitutivo per il “discorso coloniale”, cfr. Dirks 1992) – si mostra dun-
que altresì, alla luce dell’esempio indiano, strutturalmente squilibra-
ta dall’operare in essa di imperativi contraddittori: stabilire confini
intransitabili per delimitare gli spazi in cui si muovono, nella colonia,
i cittadini e i sudditi, gerarchizzare il corpo collettivo apparentemen-
te amorfo composto da questi ultimi, delineare strategie di “incor-
porazione” degli stessi sudditi coloniali (cfr. Thomas 1994, p. 142).
Altri esempi, in particolare tratti dall’esperienza africana, andreb-
bero discussi per arricchire e complicare la genealogia della distin-
zione coloniale tra citizen e subject (cfr. Mamdani 1996 e Mbembe
2001, cap. 1). In ogni caso, se da una parte la distinzione – e la con-
temporanea esistenza – del cittadino metropolitano e del suddito co-
loniale corrispondevano ad altre distinzioni che rendevano possibile
una gerarchizzazione dello spazio della cittadinanza all’interno della
stessa metropoli (in particolare, alla distinzione tra cittadini “attivi”
e “passivi”), esse ponevano dall’altra peculiari problemi al pensiero
politico e giuridico europeo. Sotto il profilo della dottrina, si trattava
cioè di render conto in modo coerente della contemporanea esisten-
za del “governo rappresentativo” nella metropoli e del “dispotismo”
nelle colonie. Si è visto in precedenza (supra, cap. 2), attraverso alcu-
ni esempi tratti dai lavori di John Stuart Mill e di Santi Romano, che
tali problemi sono stati in buona parte risolti attraverso lo sviluppo
di una logica del “non ancora” (cfr. Chakrabarty 2000): i popoli di
origine non europea sottoposti a dominio coloniale erano cioè con-
siderati – ad esempio da Mill – “non ancora” maturi per il governo
rappresentativo. E si è anche visto come questa logica corrispondes-
se all’istituzione di uno specifico confine temporale, definito nei ter-
mini di una fondamentale distinzione nella qualità del tempo storico
in cui le colonie vivevano.
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80 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

Torniamo per un attimo alla lecture tenuta nel 1875 da Henry


Sumner Maine, su cui pure ci siamo soffermati nel secondo capitolo,
alla sua insistenza sul fatto che “i governanti britannici dell’India so-
no come uomini costretti a far funzionare i propri orologi su due fu-
si orari contemporaneamente”. A me pare che questa sia una buona
definizione, seppure su un livello di elevata astrazione, della peculia-
rità e delle contraddizioni del moderno progetto coloniale europeo e
dell’esperienza a cui esso ha dato luogo, una definizione cioè che ben
si presta a essere applicata al di là del caso britannico e indiano. L’i-
stituzione di un confine assoluto (una sorta di “metaconfine”), tem-
porale e spaziale, ovvero il presupposto logico della distinzione fra
suddito coloniale e cittadino metropolitano, era al tempo stesso con-
cettualmente e storicamente implicita nell’istituzione dei confini tra
gli Stati-nazione europei, e dunque nella produzione degli spazi al cui
interno la moderna storia della cittadinanza si è iscritta ed è venuta
svolgendosi. Concetti come quelli di “ibridazione” e “mimetismo”,
proposti ad esempio da Homi Bhabha, fanno riferimento alle con-
traddizioni implicite in questa esperienza nella misura in cui – nel
momento stesso in cui il confine spazio-temporale veniva affermato
come assoluto e intransitabile – gli spazi e i tempi da esso divisi do-
vevano essere articolati in una medesima storia progressiva.
Ma se le cose stanno così, sempre muovendoci su un piano di ele-
vata astrazione, possiamo vedere nella sfida posta dalle lotte e dai
movimenti anticoloniali all’esistenza stessa di quel “metaconfine”,
una delle più importanti radici del nostro presente – e delle stesse
trasformazioni che hanno investito negli ultimi decenni la forma Sta-
to. Indipendentemente dalle molteplici delusioni e sconfitte che han-
no contraddistinto la storia della decolonizzazione, questa sfida è ri-
sultata in ultima istanza vittoriosa, ed è per questo che soltanto sot-
tolineando il nesso con l’anti-colonialismo ha senso definire la nostra
condizione attuale una condizione postcoloniale (Young 2001). Al
tempo stesso, tuttavia, e precisamente per le modalità con cui la fine
formale del colonialismo si è prodotta, il termine “postcoloniale” de-
nota una situazione in cui certamente il “metaconfine” tra metropo-
li e colonie ha cessato di organizzare una stabile cartografia del pia-
neta, ma in cui è data la possibilità che esso si riproduca, in modo
frammentato, all’interno del territorio stesso di quelle che furono le
metropoli (cfr. supra, cap. I). È sullo sfondo di questa definizione di
postcolonialismo che vorrei ora passare ad analizzare alcuni aspetti
della “costituzione europea”.
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 81

3. Un nuovo mostro?

È in primo luogo necessario illuminare alcune caratteristiche ge-


neralissime della costituzione europea, nella prospettiva di compren-
dere qual è la relazione che essa intrattiene con i concetti e con la
prassi del costituzionalismo moderno. Vi sono evidentemente im-
portanti elementi di continuità, ma la mia ipotesi è che questi ele-
menti siano collocati all’interno di una cornice generale per molti
aspetti nuova nella sua essenza, tanto da dare espressione a una rela-
tiva cesura con l’esperienza dello Stato moderno. Se cerchiamo di
analizzare la costituzione europea nei termini dei concetti fonda-
mentali che sono stati forgiati all’interno di questa esperienza stori-
ca, in altri termini, rischiamo di ricavarne la medesima impressione
che Samuel Pufedorf, nel tardo diciassettesimo secolo, ebbe di fron-
te al Sacro Romano Impero di Nazione Germanica: la costituzione
europea potrebbe cioè assumere ai nostri occhi la forma di una crea-
tura mostruosa. Con la differenza tutt’altro che irrilevante che Pu-
fendorf aveva un obiettivo ben preciso: stabilire come unica norma
di organizzazione politica, dopo la pace di Vestfalia, lo Stato territo-
riale sovrano, e condannare definitivamente al tramonto le forme po-
litiche del passato che, come l’Impero, risultavano difformi da quel-
la norma. Mentre la costituzione europea, lungi dal rappresentare
una reliquia del passato, è a tutti gli effetti parte della nuova costel-
lazione politica che viene contraddittoriamente formandosi nel con-
testo dei processi di globalizzazione.
La prima anomalia della costituzione europea, dal punto di vista
della comprensione tradizionale del costituzionalismo, risiede nel fat-
to che qui abbiamo a che fare non tanto con una costituzione intesa
come documento formale che fissa la cornice dello sviluppo politico e
giuridico all’interno degli stabili confini di una determinata unità po-
litica, ma piuttosto con un processo costituzionale. A me pare che
questa non sia una situazione provvisoria, destinata a essere stabiliz-
zata con l’approvazione finale di un documento “costituzionale” (am-
messo e non concesso che a tale approvazione si giunga), ma rappre-
senti piuttosto una caratteristica strutturale della costituzione europea.
Per dirla in sintesi: la costituzione europea è per definizione una costi-
tuzione in divenire per una forma politica essa stessa in divenire. L’u-
nico termine di comparazione possibile nella storia moderna è da
questo punto di vista l’esperienza della costituzione americana (ovve-
ro, sia detto di passaggio, con una costituzione profondamente in-
fluenzata dall’esperienza coloniale): e non è un caso che essa venga
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82 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

spesso richiamata nei dibattiti sulla costituzione europea (cfr. ad es.


Moulier Boutang 2003). Ma nel caso europeo, la flessibilità non ri-
guarda soltanto i confini dell’unità politica, rappresentando piuttosto
un carattere fondante della stessa costituzione in senso “formale”.
Parlare della costituzione europea come di un processo costitu-
zionale significa registrare una radicale ridefinizione del rapporto tra
alcuni dei concetti fondamentali sviluppati all’interno della tradizio-
ne del costituzionalismo moderno. Prendiamo ad esempio i concetti
di potere costituito e di potere costituente (su cui cfr. Negri 1992).
Nel pensiero giuridico europeo moderno, il rapporto tra questi due
concetti è sempre stato costruito come rapporto temporale: prima
c’era l’espressione del potere costituente, destinato poi a essere ri-
dotto al silenzio all’interno della cornice costituzionale istituita attra-
verso la sua azione. Ora, come è stato ampiamente sottolineato, que-
sto modello non funziona se applicato al caso europeo, che appare
piuttosto caratterizzato da una logica “incrementale ed evolutiva”
(Fioravanti 2002, p. 292). Per dirla in breve: nel processo costituzio-
nale europeo il potere di innovazione implicito nel concetto di pote-
re costituente sembra essere esso stesso frammentato e “disperso” su
una pluralità di livelli, in permanente tensione con l’assetto dei pote-
ri costituiti. Questo significa, da una parte, che la costituzione euro-
pea è effettivamente aperta alla sua continua trasformazione, con-
sentendo potenzialmente di immaginare in modo nuovo lo stesso
rapporto tra movimenti sociali e istituzioni. Ma d’altra parte, il ca-
rattere “aperto” del processo costituzionale determina una situazione
in cui la stessa azione dei poteri guadagna nuovi margini di libertà e
arbitrarietà, in cui la transizione dal paradigma del governo al para-
digma della governance (cfr. Borrelli, a cura di, 2004) apre lo spazio
per nuove forme e nuove tecniche di governamentalità, non necessa-
riamente più “miti” di quelle che abbiamo fin qui conosciuto.
È un insieme di questioni che possiamo analizzare anche assu-
mendo un’altra prospettiva analitica, quella suggerita dai concetti di
“costituzione formale” e “costituzione materiale”, elaborati come già
si è ricordato da un’importante sezione della dottrina costituzionali-
stica europea nel ventesimo secolo. Il rapporto tra questi due con-
cetti sembra ancora una volta porsi, nel contesto del processo costi-
tuzionale europeo, nei termini di una tensione non destinata a iscri-
versi in una cornice fissa. E ancora una volta ci troviamo qui di fron-
te all’ambivalenza del carattere “aperto” del processo costituzionale
europeo: il concetto di costituzione materiale porta da una parte in-
fatti in primo piano la rilevanza costituzionale del conflitto sociale e
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 83

politico; ma dall’altra illumina l’importanza strategica di un insieme


di processi e di attori (amministrativi, dal punto di vista della dottri-
na giuridica classica) relativamente liberi di operare indipendente-
mente dalla regolazione “formale” della Costituzione.
L’impressione è che, tra gli interpreti e i commentatori del pro-
cesso costituzionale europeo, questo punto sia stato colto in partico-
lare da quanti hanno sottolineato l’importanza della costituzione eu-
ropea che esiste già, ovvero – secondo una prospettiva a cui si è fatto
riferimento all’inizio di questo capitolo – indipendentemente dalla
ratifica attraverso un atto formale. Nelle analisi di autori come Die-
ter Grimm, Joseph H.H. Weiler, Ingolf Pernice e Franz Meyer, a es-
sere sottolineata è precisamente la sovrapposizione di cerchie e livel-
li costituzionali di diversa portata che concretamente informa di sé
lo spazio costituzionale europeo, registrando e spingendo innanzi la
disarticolazione (ovvero, la crisi e la trasformazione) della nozione
classica di ordine costituzionale (cfr. ad es. Meyer, Pernice 2003).
Ma come possiamo definire in termini più precisi il tipo di “spa-
zio politico” che emerge nella cornice del processo costituzionale eu-
ropeo? Tra la letteratura recente sull’argomento, particolarmente sti-
molante appare il lavoro di Ulrich Beck ed Edgar Grande, Das ko-
smopolitische Europa (2004), per quanto non necessariamente condi-
vida lo specifico entusiasmo europeistico che contraddistingue la lo-
ro prospettiva. In un capitolo chiave del loro libro, Beck e Grande
tentano di applicare alla struttura politica dell’Unione europea il con-
cetto di impero cosmopolitico. Muovendo dalla constatazione che l’U-
nione europea non è né un “superstato”, né uno “Stato federale”, né
una “Confederazione di Stati” (ivi, p. 83), essi propongono di utiliz-
zare per definirne le peculiarità il concetto di “impero”, e pongono
subito l’accento su ciò che a loro giudizio costituisce la principale dif-
ferenza tra quest’ultimo e lo Stato: “lo Stato tenta di risolvere i pro-
blemi che attengono alla sicurezza e al benessere stabilendo confini
fissi, mentre l’Impero li affronta precisamente attraverso la variabili-
tà e la mobilità dei suoi confini, attraverso l’espansione verso l’ester-
no” (ivi, p. 91).
Da una parte, l’enfasi posta sull’“espansione” (certo, attraverso il
“consenso” nell’analisi di Beck e Grande) come carattere costitutivo
dell’Unione europea fa emergere la rilevanza strategica del processo
di allargamento verso est, nel senso che esso diviene lo specchio in
cui è possibile vedere lo spazio europeo riflesso in alcune delle sue
più rilevanti determinazioni (cfr. in questo senso Rigo 2005). Dall’al-
tra parte, è importante sottolineare che alla variabilità dei confini del-
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84 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

l’Unione europea corrisponde l’interna eterogeneità del suo spazio.


Il persistere degli Stati-nazione stessi all’interno dell’Unione europea,
che non sono destinati a essere superati con il procedere del proces-
so costituzionale, ma piuttosto ad ampliare alcuni dei loro poteri (ve-
dendone al contempo drasticamente ridotti altri) e a divenire co-
munque articolazioni fondamentali dell’“impero cosmopolitico”
(Beck, Grande 2004, pp. 114-119), è parte integrante di questa ete-
rogeneità. Inoltre, come gli stessi Beck e Grande sottolineano nel lo-
ro lavoro, a livello sia di analisi costituzionale sia di analisi territoria-
le, è possibile distinguere un’area di “piena integrazione”, un’area di
“cooperazione approfondita”, un’area di “cooperazione limitata” e
un’area di “influenza estesa” (ivi, pp. 101 s.). È precisamente nel con-
testo di questa eterogeneità dello spazio politico e della costituzione
dell’Unione europea che va a mio parere sviluppata l’affermazione di
Beck e Grande secondo cui “l’Unione europea è anche [...] l’Europa
postcoloniale” (ivi, p. 58).

4. Confini

Partiamo dalla questione del confine, ovvero da un altro degli isti-


tuti fondamentali nella storia dello Stato moderno. Sembra esserci un
ampio consenso, nella letteratura sul tema, sul fatto che le funzioni e
l’istituto stesso del confine stanno esperendo profonde trasformazio-
ni nel contesto dei processi di globalizzazione. Particolarmente rile-
vanti, dal nostro punto di vista, sono le trasformazioni che attengo-
no alle questioni della cittadinanza e delle migrazioni. Coerentemen-
te con la tesi avanzata da Beck e Grande, sembra che ci troviamo di
fronte a un superamento, sia pure in termini niente affatto lineari, del
modello che sotto questo profilo ha preso forma nell’esperienza del-
lo Stato moderno. Mentre in esso l’esistenza di confini stabili, e dun-
que la chiara distinzione fra interno ed esterno, erano le condizioni
dello sviluppo della cittadinanza, oggi assistiamo a un processo che
è stato descritto nei termini di una “deterritorializzazione” del con-
fine (si vedano la letteratura discussa in Mezzadra 2006, parte II, cap.
4 e i saggi raccolti nella prima parte di Mezzadra, a cura di, 2004). Ed
è importante precisare che il termine “deterritorializzazione” non si
riferisce a una situazione in cui spazio e territorio non giocano più al-
cun ruolo nell’operare dei confini, ma piuttosto a una situazione in
cui quest’ultimo non può essere ridotto a un luogo dato, ovvero al li-
mite territoriale di un’unità politica.
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 85

Il nuovo regime di controllo dei confini che ha preso forma in Eu-


ropa nella cornice dell’accordo di Schengen sembra rappresentare un
perfetto caso di studio per questo processo (cfr. ad es. Walters 2002).
Per dirla ancora una volta in breve: ciò che Beck e Grande descrivo-
no come variabilità dei confini sembra corrispondere a un processo
simultaneo di scomposizione e ricomposizione dei confini stessi. Da
una parte le “frontiere esterne” dell’Unione europea proiettano la lo-
ro ombra ben al di là del “limite” territoriale della stessa Unione, co-
involgendo ad esempio nel loro controllo paesi come il Marocco, la
Tunisia, la Libia o l’Ucraina. Dall’altra parte, esse tendono a rein-
scriversi all’interno della “polis” europea, come diviene particolar-
mente chiaro (per quanto non sia in alcun modo a ciò limitato) nel-
l’esistenza di centri di detenzione amministrativa per migranti (ovve-
ro di un istituto peculiare del nuovo regime di controllo dei confini)
nella maggior parte degli Stati europei.
Questo processo di scomposizione e di ricomposizione dei confi-
ni si è andato dispiegando contemporaneamente alla formazione e al-
lo sviluppo della nuova cittadinanza europea, e credo che sia neces-
sario interrogarsi sulle conseguenze di questa coincidenza. La mia
ipotesi è che la stessa cittadinanza europea venga costruendosi come
spazio eterogeneo, ed è precisamente questa eterogeneità della citta-
dinanza europea che crea le condizioni per il riemergere postcolo-
niale della distinzione tra cittadino e suddito all’interno della costi-
tuzione europea. Lo stesso trattato costituzionale, del resto, aveva
sancito anche formalmente l’eterogeneità della cittadinanza europea
costruendola come una “cittadinanza di secondo grado”, che dipen-
de dalla cittadinanza nazionale regolata dai singoli Stati membri (art.
I-10).
Possiamo ora ritornare al nostro punto di partenza, riprendendo
l’analisi di Étienne Balibar. Muovendo precisamente da questa spe-
cifica regolazione della cittadinanza europea, Balibar ha infatti sotto-
lineato come la regolazione nazionale dei meccanismi di inclusione
della cittadinanza finisca ora per essere “totalizzata a livello euro-
peo”, trasformando lo “straniero non comunitario”, ovvero il mi-
grante proveniente dall’esterno dell’Unione europea, in un “escluso
dall’interno”, in un cittadino di seconda classe (Balibar 2001a, p. 191).
Vorrei aggiungere che questo processo, in cui Balibar individua la ra-
dice di una “ri-colonizzazione” delle migrazioni (ivi, p. 78), si deter-
mina in una situazione in cui le politiche migratorie nazionali sono
definite sempre più sotto la pressione delle direttive europee, e in
particolare del nuovo regime di controllo dei confini che ho breve-
7 cap 4* 18-01-2008 0:22 Pagina 86

86 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

mente descritto in precedenza. L’effetto di quest’ultimo finisce per


essere un movimento di inclusione selettiva e differenziale dei mi-
granti, che corrisponde alla produzione permanente di una pluralità
di status (il cui limite è la condizione del migrante “clandestino”, de-
stinato a divenire un abitante stabile dello spazio politico europeo) e
dunque alla disarticolazione della figura universale e unitaria della
cittadinanza moderna. Questo processo si pone al centro delle tra-
sformazioni complessive che stanno investendo la cittadinanza: lungi
dal riguardare soltanto i migranti, in altre parole, tende a investire l’e-
sistenza di quote crescenti di popolazione “autoctona” in Europa, at-
traverso la frammentazione e la precarizzazione dei diritti determi-
nate dalle politiche “neoliberali”. Inoltre, esso pare costituire una
delle caratteristiche fondamentali della trasformazione del mercato
del lavoro in Europa, sempre più determinata da ciò che un’agenzia
autorevole e “ufficiale” come lo European Monitoring Centre on Ra-
cism and Xenophobia di Vienna ha definito nel suo rapporto annuale
del 2001 la “divisione etnico-razziale” del lavoro in Europa.
In queste condizioni, l’eterogeneità della cittadinanza europea
corrisponde all’eterogeneità dei regimi di governamentalità che re-
golano le popolazioni e gli spazi europei. Sempre più soggetti, in cui
possiamo vedere riaffiorare le figure definite da Locke come “altre”
da quella del cittadino moderno, non sembrano abitare lo spazio so-
ciale che corrisponde all’espansione dei diritti di cittadinanza, ovve-
ro la “società civile”. Le loro vite sono piuttosto in misura crescente
i bersagli di quelle tecniche di governamentalità che definiscono
quello che Partha Chatterjee ha recentemente definito lo spazio ete-
rogeneo della società politica, e che spesso “precedono lo Stato-na-
zione, in particolare dove l’esperienza del dominio coloniale europeo
è durata a lungo” (Chatterjee 2004, p. 52).
Una nuova forma di politica, definita domopolitica da William
Walters, interseca la razionalità dell’economia politica liberale nel go-
verno della mobilità. Il termine “domopolitica” fa contemporanea-
mente riferimento al sostantivo latino domus e al verbo latino doma-
re, usato anche metaforicamente per indicare l’atto di conquistare e
“sottomettere uomini e comunità” (Walters 2004, p. 241). È precisa-
mente questo atto di conquista, con la sua impronta coloniale e am-
mantato della retorica della sicurezza nella “casa” europea, che si ri-
trova inscritto nel divenire della cittadinanza europea se la analizzia-
mo dal punto di vista delle politiche migratorie. E come Walters, che
ha coniato il termine “domopolitica” nel contesto di un’analisi del
documento Secure Borders. Secure Havens, un testo programmatico
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IL CITTADINO E IL SUDDITO 87

sulla gestione dei flussi migratori pubblicato dal governo britannico


nel 2002, ritengo che il governo della mobilità prefigurato dalla pe-
culiare sintesi di domopolitica ed economia politica liberale, che
sembra improntare le politiche migratorie europee, non punta “ad
arrestare la mobilità, ma piuttosto a ‘domarla’”. Non punta cioè a
“produrre condizione di immobilità generalizzata, ma a un uso stra-
tegico dell’immobilità in casi specifici unito alla promozione di (de-
terminati tipi di) mobilità” (ivi, p. 248). Punta in altri termini a pro-
muovere quello che ho precedentemente chiamato un processo di in-
clusione selettiva e differenziale dei migranti e del lavoro migrante al-
l’interno dello spazio della cittadinanza europea.

5. Europa a venire

Una postilla per concludere. I concetti di “società politica” e di


“domopolitica” si riferiscono a specifiche tecniche coloniali di go-
vernamentalità e potere che intersecano la costituzione multilivello
europea, rivelando alcune conseguenze poco piacevoli della sua na-
tura postcoloniale. Ma d’altra parte, questa stessa natura presenta an-
che altri aspetti, riconducibili in buona sostanza a quella “presenza
sempre più massiccia, e sempre più legittima” dei migranti (di “po-
polazioni di origine coloniale”) in Europa sottolineata da Balibar nel
passo da cui siamo partiti. L’accento deve essere qui posto sull’ag-
gettivo legittima. A me pare che la legittimità della presenza dei mi-
granti in Europa, indipendentemente dal loro status giuridico, possa
e debba essere compresa nei termini di una radicale re-interpretazio-
ne del concetto di cittadinanza. Secondo questa re-interpretazione,
attenta a sottolineare il nesso storico strettissimo che lega il concetto
di cittadinanza alla vicenda della stuatualità ma al tempo stesso a co-
gliere le tensioni che ospita al suo interno, la cittadinanza non può
mai essere ridotta alla sua definizione formale, istituzionale. C’è un
secondo lato della cittadinanza, che ha precisamente a che fare con
le pratiche sociali e politiche che sfidano la definizione formale della
cittadinanza, forzandone precisamente i confini (cfr. Mezzadra 2004,
Sassen 2006, Rigo 2007).
Ragionando dal punto di vista offerto da questa concezione della
cittadinanza, possiamo vedere gli stessi movimenti migratori come at-
traversati e costituiti da un insieme di comportamenti e pratiche so-
ciali che esercitano una pressione crescente sulla definizione formale
della cittadinanza. In questo senso, i movimenti migratori stanno
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88 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

dando forma sul piano della quotidianità a uno spazio europeo e a


una cittadinanza europea assai diversi da quelli che siamo venuti ana-
lizzando. Stanno indicando perlomeno la possibilità, si potrebbe di-
re, di un’Europa globale, capace di farsi realmente carico della “le-
zione di alterità” iscritta nella costituzione europea dall’eredità colo-
niale. Abbiamo visto come questa lezione possa nutrire pratiche ete-
rogenee di dominazione. E tuttavia, in quanto spazio politico, l’Eu-
ropa è inscritta nel nostro futuro: non è data a mio giudizio, né è au-
spicabile, la possibilità di un ritorno al tempo degli Stati nazionali.
Sta allora all’azione politica trasformare il processo aperto della co-
stituzione europea in uno spazio di pratiche eterogenee di libertà e
uguaglianza. I movimenti migratori postcoloniali del nostro tempo
portano in questo senso una sfida non solo ai confini della cittadi-
nanza europea, ma anche ai confini della nostra immaginazione po-
litica.
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CAPITOLO QUINTO
Il nuovo regime migratorio europeo
e le metamorfosi contemporanee del razzismo

Cela [la race] n’existe pas. Cela produit pourtant des morts.
Produit des morts et continue à assurer l’armature de systè-
mes de discrimination féroces [...]. Non la race n’existe pas.
Si la race existe. Non certes, elle n’est pas ce qu’on dit qu’el-
le est, mais elle est néanmoins la plus tangible, réelle, bru-
tale des réalités.
C. GUILLAUMIN, “Je sais bien mais quand même”, ou les
avatars de la notion de race (1981)

1. Un nuovo nazionalismo?

“Eravamo in pochi a chiamare patria l’Italia. Oggi siamo la mag-


gioranza”. Ricordate lo slogan di Alleanza nazionale durante la cam-
pagna elettorale della primavera 2006? Non è una provocazione af-
fermare che questo slogan – come ogni pronunciamento ideologico
efficace – contiene un nucleo di verità. Negli ultimi anni, in Italia,
l’appartenenza nazionale è stata in effetti riscoperta non soltanto a
destra come valore pubblico fondamentale. La presidenza Ciampi,
da questo punto di vista, ha dato impulso e autorevole legittimazio-
ne a un processo che era già ampiamente in atto. Come non ricorda-
re, in questo senso, il crescendo di retoriche patriottiche che ha ac-
compagnato il coinvolgimento delle forze armate italiane in missioni
di guerra nel corso degli anni Novanta? L’enfasi sull’“interesse na-
zionale” come criterio di orientamento nella politica estera, le racco-
mandazioni di “realismo” nelle relazioni internazionali e la preoccu-
pazione per la posizione dell’Italia nel mondo non sono certo ap-
pannaggio della chiassosa pattuglia di neocons nostrani. Si può anzi
dire che attorno a questi elementi si sia andato costituendo – soprat-
tutto a partire dalla dimostrazione di “fedeltà atlantica” offerta dal
governo D’Alema in occasione della guerra del Kosovo – un vero e
proprio consenso bipartisan sul piano delle retoriche politiche e del
discorso pubblico, indipendentemente dal diverso giudizio sull’uni-
lateralismo statunitense dopo l’11 settembre.
A me pare che sia a partire da questo “nuovo nazionalismo”, di
cui mi sono limitato a indicare schematicamente alcuni tratti, che de-
ve essere impostato il ragionamento critico sulle metamorfosi del raz-
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90 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

zismo contemporaneo, a cui è dedicato questo capitolo. Non è un fe-


nomeno limitato all’Italia, del resto: è un fenomeno a tutti gli effetti
europeo, che deve essere a sua volta collocato nel contesto delle for-
me assunte dal processo di integrazione a partire dall’inizio dello
scorso decennio. La mia tesi è che il nuovo nazionalismo ci parli –
non sembri un paradosso – della crisi e delle trasformazioni dello Sta-
to nazione. È importante in questo senso sottolineare che il dibattito
in proposito ha ormai preso congedo dalle ipotesi e dalle retoriche
che lo hanno a lungo caratterizzato, dall’idea cioè che alla “globaliz-
zazione” corrispondesse un lineare superamento – una sorta di
“estinzione” – dello Stato nazione (cfr., per fare un unico esempio,
Ohmae 1995). Appare sempre più chiaro, in altri termini, che gli Sta-
ti nazionali (alcuni più di altri, ovviamente) sono stati attori fonda-
mentali nell’avviare i processi di globalizzazione (di “de-nazionaliz-
zazione”), e continuano oggi a giocare un ruolo di decisiva impor-
tanza nel suo contraddittorio governo. Al tempo stesso, tuttavia, essi
vengono articolando la propria azione con altri livelli di potere, fino
a configurare un “assemblaggio” di autorità, territorio e diritti radi-
calmente diverso da quello che ha contraddistinto la secolare storia
della forma-Stato moderna (Sassen 2006).
Questa acquisizione del dibattito recente sulla globalizzazione di-
segna un perfetto parallelo con l’immagine della costituzione mate-
riale europea che emerge dagli studi più autorevoli in argomento e
che ho discusso nel precedente capitolo. Anche in questo caso a cor-
reggere gli entusiasmi che all’inizio degli anni Novanta circolavano a
proposito dell’esito linearmente “post-nazionale” del processo di in-
tegrazione si è andata cioè imponendo, in particolare nel dibattito
giuridico, la tesi che il processo di scambio e dislocazione di compe-
tenze tra Stati e Unione europea non è un gioco a somma zero, in cui
cioè alla crescita e al consolidamento di livelli “post-nazionali” di
esercizio del potere corrisponda un proporzionale ridimensiona-
mento dei livelli nazionali (cfr. Weiler 2003, in specie p. 74 e Beck,
Grande 2004). Parafrasando Marx, si potrebbe certamente dire che
la costituzione europea, al pari del resto dell’antica “costituzione mi-
sta” a cui viene di tanto in tanto accostata (cfr. MacCormick 1999, p.
288), è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di
capricci teologici: nel senso che, come ha messo in evidenza tra gli al-
tri Weiler, l’Unione europea “è, in un certo senso, i suoi Stati mem-
bri e, allo stesso tempo, ne è completamente separata”. E, “come te-
stimoniano duemila anni di teologia cristiana, ciò risulta a volte di
difficile comprensione” (ivi, p. 202).
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 91

Da questi processi, in atto con specificità che non vanno dimen-


ticate tanto a livello globale quanto a livello europeo, discendono tra-
sformazioni profondissime degli spazi politici e giuridici (cfr. ad es.
Galli 2001, Balibar 2005, Ferrarese 2006), che sembrano prendere
congedo da quel presupposto dell’omogeneità territoriale che corri-
spondeva alla logica moderna della sovranità. I confini si fanno mo-
bili e porosi, nuovi “spazi laterali” interrompono la continuità giuri-
dica e politica dello stesso territorio statuale, ad esempio nelle zone
di produzione per l’esportazione che sorgono un po’ ovunque nel
“Sud globale” o attraverso le zoning technologies che rappresentano
una delle grandi leve dello sviluppo cinese; l’esercizio della sovrani-
tà si fa articolato e “graduato”, confondendo continuamente la linea
che separa la norma e l’eccezione (cfr. in particolare Ong 2006). Lo
stesso “nuovo nazionalismo” di fronte a cui ci troviamo in Italia e in
Europa deve essere compreso all’interno di queste trasformazioni,
guardando cioè alla sua articolazione con i nuovi “assemblaggi” che
stanno emergendo al di là dell’ordine “nazionale”. E in particolare
mi pare opportuno considerarlo da una parte come un sintomo dei
limiti (delle patologie) dello stesso processo di integrazione europea
– e in particolare della cittadinanza europea in formazione (cfr. Me-
lossi 2005 nonché supra, cap. IV); dall’altra parte come uno degli ele-
menti fondamentali del contesto in cui una nuova forma di razzismo,
compiutamente postanzionale, postcoloniale e “postmoderna”, sta
emergendo.

2. Razzismi

Naturalmente esistono molti punti di vista a partire dai quali il


razzismo può e deve essere analizzato, ed esistono del resto molte
forme di razzismo. Il dibattito sul tema è stato molto ricco negli ulti-
mi anni, ha posto al proprio centro la dimensione processuale del raz-
zismo, la sua “mobilità”, la sua duttilità nell’adattarsi a mutevoli con-
giunture storiche. E ne ha indagato le metamorfosi sotto il profilo
“cognitivo” oltre che sociale e politico, soffermandosi in particolare
sui temi dell’“identità” e della “rappresentazione” 1. Si tratta di un di-
battito da cui sono derivate importanti acquisizioni, di cui terrò con-
1 Cfr., per una sintesi efficace, Siebert 2003; ma si tengano presenti anche, nella scon-
finata letteratura sul tema, i saggi raccolti in Bojad=ijev, Demirovic (a cura di) 2002.
Sulla questione, assai importante, delle tonalità culturaliste ed “etniciste” del razzi-
smo contemporaneo, molto efficace è il lavoro di Gallissot, Kilani, Rivera 2001.
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92 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

to anche in quanto segue. Ai fini dell’analisi qui proposta, tuttavia,


conviene muovere da una definizione politica del razzismo, che si può
riprendere dai lavori di Michel Foucault e soprattutto di Étienne Ba-
libar.
Foucault, nella sua analisi della transizione dalla “guerra delle raz-
ze” al “razzismo di Stato”, insisteva sulla necessità di concentrare l’at-
tenzione sul momento in cui “il razzismo si è inserito come meccani-
smo fondamentale del potere, esattamente così come viene esercitato
negli Stati moderni. E ciò ha fatto sì che non vi sia stato alcun modo
di funzionamento moderno dello Stato che, a un certo punto, a un
certo limite e in certe condizioni, non sia passato attraverso il razzi-
smo” (Foucault 1975, p. 220). E aggiungeva: “ciò che costituisce la
specificità del razzismo moderno non è infatti collegato a delle men-
talità, a delle ideologie, alle menzogne del potere, ma è legato piut-
tosto alla tecnica del potere, alla tecnologia del potere” (ivi, p. 223).
Mi sembrano affermazioni molto importanti, sia per il nesso strettis-
simo che istituiscono tra storia del razzismo e storia della statualità,
sia per l’enfasi posta sul fatto che non dobbiamo analizzare (e criti-
care) il razzismo contrapponendolo, magari come sua “verità”, alle
“menzogne del potere”. Attualizziamo immediatamente questo se-
condo punto: assumendo la prospettiva indicata da Foucault, pos-
siamo senza alcuna contraddizione affermare che le politiche migra-
torie europee hanno una matrice profondamente razzista senza per
questo ritenere mera retorica i programmi contro la discriminazione,
l’“anti-razzismo” e l’insistenza sulla coesione sociale che contraddi-
stinguono il discorso delle istituzioni europee.
Consideriamo dunque il razzismo in relazione con le mutevoli
configurazioni del rapporto tra Stato, sovranità e cittadinanza nella
storia moderna, e teniamo presente il ruolo essenziale giocato in que-
ste configurazioni dal nazionalismo, a partire dal momento in cui –
tra il XVIII e il XIX secolo – la nazione si è appunto imposta come
giuntura fondamentale di quell’articolazione. È in questo senso che
risulta particolarmente importante un’indicazione di Étienne Balibar,
secondo cui il razzismo costituisce un “supplemento interno al na-
zionalismo, sempre in eccesso rispetto a esso, ma sempre indispensa-
bile alla sua costituzione e tuttavia ancora insufficiente per portare a
termine la formazione di una nazione, o il progetto di ‘nazionalizza-
zione’ della società” (in Balibar, Wallerstein 1991, p. 66). È subito il
caso di aggiungere, del resto, che neppure la nazione, evidentemente,
è una forma fissa e statica: e sono proprio le sue trasformazioni – tra
l’altro indistricabili dalle vicende dell’espansione coloniale e impe-
8 cap 5* 18-01-2008 0:25 Pagina 93

IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 93

rialista europea – a offrirci una chiave interpretativa estremamente


efficace per comprendere le trasformazioni del razzismo.
Una volta di più, vi sono molteplici punti di vista a partire dai qua-
li le metamorfosi della forma nazione possono essere analizzate. Quel-
lo che a me pare particolarmente utile in questa sede è il tipo di rap-
porto di dominio che la nazione istituisce e intrattiene con il proprio
spazio, facendone il proprio territorio. Di questi termini è bene sotto-
lineare la complessità semantica, utilizzandoli almeno in una duplice
chiave. Da una parte, occorre tenere presente il modo in cui il con-
cetto di territorio è stato elaborato e formalizzato dalla grande scien-
za giuridica europea tra Otto e Novecento, fino a trovare una provvi-
soria sistemazione nella definizione kelseniana, secondo cui il territo-
rio è “l’ambito di validità” del singolo ordinamento statuale (Kelsen
1932, p. 29). Dall’altra parte, questa accezione del territorio può e de-
ve a mio giudizio essere fatta produttivamente interagire con la defi-
nizione dello “spazio” (colto nella sua distinzione dal “luogo”) offer-
ta da Michel de Certeau: “si ha uno spazio”, scrive quest’ultimo, “dal
momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione,
quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio
di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movi-
menti che si verificano al suo interno” (De Certeau 1980, pp. 175 s.).
Tornerò più avanti sulla definizione di de Certeau. Per intanto, so-
vrapporre le due accezioni di territorio e spazio richiamate mi con-
duce a sottolineare che l’istituzione di un territorio nazionale (e il
tracciato dei suoi confini), come vengono definiti giuridicamente dal-
la “costituzione materiale” di uno Stato, ha sempre avuto a che fare
con l’intersezione nello spazio di corpi in movimento, con il governo
della mobilità. E a sua volta il governo della mobilità, come è stato po-
sto in evidenza da una serie di studi recenti sul “capitalismo storico”,
gioca un ruolo essenziale nella produzione della forza lavoro come
merce, ovvero nella costituzione storica del mercato del lavoro (cfr.
Moulier Boutang 1998 e Mezzadra 2006, parte I, cap. 2). Che questo
processo sia tutt’altro che “idilliaco” appare chiaramente laddove si
consideri il lungo e contraddittorio processo che ha condotto il lavo-
ro salariato “libero” a porsi (provvisoriamente, dovremmo forse ag-
giungere oggi) come norma contrattuale attorno a cui si organizza il
rapporto di impiego nell’Occidente capitalistico tra la fine dell’Otto-
cento e l’inizio del secolo scorso. Una nuova corrente di storia del di-
ritto del lavoro in Inghilterra e negli Stati uniti, ben rappresentata dai
lavori di Robert J. Steinfeld (1991, 2001), ha in questo senso sottoli-
neato come lungo tutto l’Ottocento il lavoro salariato fosse tutt’altro
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94 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

che “libero” da coazioni “extra-economiche” e in particolare da limiti


alla mobilità del lavoro (secondo l’immagine ancor oggi prevalente
della “libertà contrattuale”), e come l’“invenzione del lavoro libero”
sia stata l’esito di intensissime lotte operaie, a cui corrisposero primi
esperimenti di legislazione economica e sociale che imposero preci-
samente, a cavallo tra i due secoli, dei limiti alla libertà contrattuale.
Nel complesso si può affermare che il mercato del lavoro è reso
possibile da un insieme di dispositivi politici e giuridici che puntano
tra l’altro a determinare una peculiare miscela di mobilità e immobi-
lità del lavoro (dei corpi), e che anche questa miscela è storicamente
mutevole: da questo punto di vista, il territorio nazionale si è affer-
mato, nel diciannovesimo e ventesimo secolo in Europa e negli Stati
uniti, come lo spazio all’interno del quale la forza lavoro come merce
veniva prodotta e il mercato del lavoro poteva funzionare “ordinata-
mente”, all’interno della “divisione internazionale del lavoro”. Il raz-
zismo è stato anche (sia chiaro: non certo soltanto, nel senso che il raz-
zismo è stato anche molte altre cose, e alcune forme di razzismo, in
primo luogo l’antisemitismo, non sono certo spiegabili in questo mo-
do) il “supplemento interno” a questo processo di costituzione del
mercato del lavoro, particolarmente virulento nei momenti della sua
crisi e della sua trasformazione.
Si tratta di un’affermazione che potrebbe essere agevolmente
esemplificata in riferimento alle vicende statunitensi (molte indica-
zioni in questo senso si possono rinvenire nell’importante lavoro di
David Roediger 2005). Ma credo che anche per quel che riguarda il
caso italiano abbia la sua validità ai fini di una ricostruzione della sto-
ria del razzismo. Si potrebbe ad esempio leggere in questo senso la
vicenda del razzismo anti-meridionale che accompagnò i primi de-
cenni dello Stato unitario, quando la stessa esistenza di un mercato
nazionale del lavoro in Italia era in discussione (cfr. Teti 1993). Ed è
interessante notare che, in questo contesto, si diffuse una preoccu-
pazione per la qualità specifica dello “stock razziale” italiano che mo-
bilitò antropologi e criminologi di gran nome e che, in un singolare
transito al di là dell’Atlantico, finì per avere ripercussioni sulla con-
dizione degli italiani meridionali negli Stati uniti di inizio Novecen-
to. Basti ricordare la tesi presentata da Alfredo Niceforo in Italiani
del nord e del sud (1901), secondo cui in Italia esistevano due “raz-
ze”, una “ariana” e “caucasica” nel Nord e una “negroide” nel Sud,
che fu ripresa e utilizzata dai funzionari del censimento statunitense
per negare (o quanto meno per mettere in dubbio) la “bianchezza”
degli italiani del Sud, ed entrò così a far parte dei dispositivi di raz-
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 95

zializzazione ed etnicizzazione della cittadinanza e del mercato del la-


voro oltre Oceano (cfr. Guglielmo, Salerno, a cura di, 2003). Il razzi-
smo coloniale che culminò nella guerra di sterminio condotta dal re-
gime fascista in Etiopia (1935-1936) e il violento anti-semitismo che si
espresse nelle leggi anti-ebraiche del 1938, che una nuova generazio-
ne di studiosi ha cominciato a studiare congiuntamente 2, possono a
loro volta essere interpretati come l’estremizzazione di trend già ben
presenti nell’Italia liberale: di trend che tuttavia divennero partico-
larmente virulenti proprio nel momento in cui la divisione interna-
zionale del lavoro, in seguito alla crisi del ’29, era stata terremotata.
Ora, è evidente che anti-semitismo e razzismo coloniale, per quel
che riguarda l’Italia (ma naturalmente l’Italia rappresenta da questo
punto di vista una variante di una vicenda più generalmente euro-
pea), restano ancora oggi ricchi “archivi” i cui frammenti retorici si
ritrovano nel discorso pubblico contemporaneo nelle più diverse
strategie di stigmatizzazione dei migranti (cfr. ad es. Dal Lago 1999,
in specie cap. 5; Dal Lago, Quadrelli 2003, cap. 6). Ma l’articolazio-
ne complessiva di Stato-nazione, sovranità e cittadinanza di cui essi
rappresentarono il “supplemento” (in forme evidentemente diverse
nel periodo liberale e durante il regime fascista) fu nei fatti spezzata
dalla resistenza e dalla nascita della Repubblica. La forma di “Stato
sociale (e) nazionale”, per utilizzare ancora una volta una definizio-
ne di Étienne Balibar (2003, p. 128), che la Costituzione del ’48 con-
traddittoriamente istituì, ospitò tuttavia ben presto – nel processo
materiale del suo svolgimento – una nuova costellazione del razzi-
smo, direttamente legata a una trasformazione profonda e tutt’altro
che pacifica del mercato del lavoro. Nel contesto degli spettacolari
processi di industrializzazione e modernizzazione degli anni Sessanta,
il razzismo anti-meridionale, ancora una volta recuperando in un di-
verso contesto “frammenti” retorici da precedenti epoche storiche,
non aveva più la funzione di “segnare” la differenza tra Nord e Sud
del Paese, bensì quella di contribuire a governare l’ingresso del Sud
dentro il Nord. Esso si pose cioè come “supplemento” funzionale al
governo – all’“addomesticamento”, si potrebbe dire – delle migra-
zioni interne, di una traumatica esperienza di mobilità che cambiò in

2 Vale qui la pena di ricordare la mostra “La menzogna della razza”, realizzata a Bo-
logna nel 1994, di cui si può vedere la presentazione del compianto Riccardo Bo-
navita (2006). Se la vicenda del razziosmo coloniale italiano ha oggi cessato di esse-
re un tabù, lo si deve del resto in buona misura all’impegno encomiabile di Angelo
Del Bocca, di cui va ricordato almeno uno degli ultimi lavori, Italiani brava gente?
(2005).
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96 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

modo radicale non solo la composizione della classe operaia nel no-
stro Paese, ma più in generale il suo paesaggio sociale e culturale.
Si tratta di un fenomeno che ha precisi riscontri in altre realtà eu-
ropee 3. E in Italia come in Europa questa nuova “costellazione” del
razzismo fu sfidata e sconfitta dalle formidabili lotte operaie della fi-
ne degli anni Sessanta, che posero in discussione l’assemblaggio ge-
nerale di Stato nazionale, sovranità e cittadinanza sociale – al pari del
complesso intreccio di relazioni economiche e sociali – che siamo or-
mai abituati a definire “fordista”.

3. Nella crisi del mercato del lavoro

Di qui dobbiamo ripartire. In primo luogo sottolineando che la


presenza crescente dei migranti in Italia è stata, dai primi anni Ot-
tanta, uno degli elementi fondamentali dell’insieme di trasformazio-
ni sociali ed economiche collegate alla crisi del “fordismo”. Del re-
sto, fin dalla crisi dei primi anni Settanta, le migrazioni cominciaro-
no a esibire tratti decisamente innovativi rispetto al passato sul livel-
lo globale, mentre in Europa la fine del reclutamento dei “lavoratori
ospiti” in molti Paesi avviò una nuova epoca nella storia delle migra-
zioni e dei tentativi del loro governo nel vecchio continente. I carat-
teri di turbolenza che le migrazioni transnazionali assumono in mo-
do sempre più marcato – unitamente a significativi cambiamenti nel-
la loro composizione, e in particolare a processi di intensa “femmi-
nilizzazione” – esprimono da una parte, con un segno profondamen-
te contraddittorio in cui occorre tuttavia sottolineare la dimensione
soggettiva delle nuove pratiche di mobilità, una tendenziale disarti-
colazione della divisone internazionale del lavoro; mentre dall’altra
pongono sfide radicali ai modelli classici di governo delle migrazio-
ni, in qualche modo anticipando i dibattiti contemporanei sulla ne-
cessità di individuare schemi più flessibili di management e gover-
nance della mobilità (cfr. Papastergiadis 2000; Castles, Miller 2003;
Castles 2004; Mezzadra 2006, Parte II, cap. 5).
Il caso italiano registra l’insieme di questi elementi, innestandoli
all’interno di una situazione in cui – come in molti altri Paesi euro-
pei – le pratiche di mobilità e di rifiuto del lavoro che si erano deter-
minate sull’onda lunga delle lotte operaie e dei movimenti sociali de-
gli anni Sessanta e Settanta, avevano minato in profondità l’ordine

3 Cfr. ad esempio, per la Germania, l’accurato studio di Bojad=ijev 2005.


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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 97

“nazionale” del mercato del lavoro. La pressione crescente esercitata


dai movimenti migratori da Est e dal “Sud globale” si incrociò così
con i processi di ristrutturazione economica e sociale che rappresen-
tarono una risposta alle pratiche sociali a cui si è fatto cenno: il nuo-
vo regime di accumulazione flessibile che cominciò a delinearsi a par-
tire dai distretti industriali della “terza Italia” nella seconda metà de-
gli anni Settanta pose le condizioni per un inserimento crescente del
lavoro migrante in settori economici di rilievo cruciale 4.
È all’interno di questa situazione che anche in Italia, come nota-
va per la Francia Étienne Balibar verso la fine degli anni Ottanta, “il
termine ‘immigrazione’ è diventato per eccellenza il nome della raz-
za” (in Balibar, Wallerstein 1991, p. 230). È un punto che possiamo
approfondire e precisare seguendo l’indicazione di un altro filosofo
francese, Jacques Rancière: in un libro molto importante, La Mésen-
tante (1995, pp. 161 s.), egli poneva in evidenza il fatto che a essere
“razzializzati” e stigmatizzati “razzialmente” erano gli “immigrati”
in quanto tali. Non che, come si è del resto già detto, all’interno del
“fordismo” i lavoratori immigrati non subissero pratiche di discri-
minazione anche particolarmente dura sotto il profilo giuridico, so-
ciale e culturale. Ma la stessa definizione di “lavoratori immigrati”
indicava almeno un riconoscimento subordinato della loro presenza,
nei termini di Rancière il fatto che occupassero un “luogo”, che aves-
sero una “parte” nell’ordine legittimo delle cose: in quella che vor-
rei chiamare la struttura complessiva, affatto materiale, della “citta-
dinanza sociale” che del “fordismo” disegnava, come si è accennato,
la contraddittoria cornice costituzionale (Mezzadra, Ricciardi 1997).
La circostanza che le retoriche e le pratiche razziste assumessero
come proprio oggetto un “significante vuoto e fluttuante” (per ri-
prendere i termini proposti da Stuart Hall, 1997), ovvero gli “immi-
grati”, segnalava il fatto che lo stesso ordine legittimo delle cose, la
stessa struttura complessiva della cittadinanza, stava diventando
“vuota e fluttuante”. Già ho accennato che questa vera e propria cri-
si di cittadinanza (che siamo ben lungi dall’esserci lasciata alle spal-
le) non può essere ricondotta esclusivamente e linearmente ai pro-
cessi di ristrutturazione capitalistica e all’avvio in Europa di politiche
“neoliberali”. Deve essere cioè sottolineato, ancora una volta, il se-
gno soggettivo impresso su di essa dai movimenti degli anni Sessanta
e Settanta, dalle rivendicazioni di una flessibilità agite come richiesta

4 Si veda in questo senso l’accurata analisi di Gambino 2003; ma ricchi di indicazio-


ni sono anche i lavori di Ricciardi, Raimondi (a cura di) 2004 e di Sacchetto 2004.
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98 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

di libertà e non come tecnica di comando sul lavoro 5, nonché dalle


nuove pratiche di mobilità in cui quelle rivendicazioni si sono tra-
dotte. Considerare questa crisi di cittadinanza secondo il punto di vi-
sta offerto dalle migrazioni conduce a coglierne un lato spesso sotta-
ciuto: ovvero il fatto che, come esito delle grandi trasformazioni che
cominciano a manifestarsi sia all’interno dell’Europa e dell’Occiden-
te sia sul livello globale a partire dai primi anni Settanta, è l’ordine
“nazionale” del mercato del lavoro (come cellula costitutiva della “di-
visione internazionale del lavoro”) a essere posto vieppiù in discus-
sione. Già lo si è detto, ma vale la pena indicarne tutte le conseguen-
ze: è la produzione della forza lavoro come merce, il presupposto del
funzionamento del mercato del lavoro, a non avvenire più in modo
soddisfacente nella cornice del “territorio nazionale”.
Una nuova miscela di mobilità e immobilità del lavoro doveva es-
sere a questo punto prodotta, e le politiche migratorie hanno cercato
precisamente di affrontare questo problema, in Italia come in altri
Paesi europei. Attraverso il protagonismo crescente di diverse istan-
ze e “agenzie” europee si è contemporaneamente andato definendo,
quanto meno nei suoi tratti più generali, un vero e proprio nuovo
“regime migratorio” europeo 6. È su questo nuovo regime migratorio
che occorre portare l’attenzione per comprendere le metamorfosi del
razzismo contemporaneo. Ed è il caso di aggiungere che esso costi-
tuisce in generale un punto di vista privilegiato per studiare il dive-
nire e le trasformazioni dell’istituzionalità europea: suo elemento co-
stitutivo è infatti l’emergere di nuove tecnologie di controllo dei
“confini esterni” europei, che segnalano mutamenti profondi inter-
venuti nello stesso istituto del confine, ancora una volta in sintonia
con processi che si verificano in altre aree del globo (cfr. la letteratu-
ra discussa in Mezzadra 2006, parte II, cap. 4).
Ho insistito nei capitoli precedenti sul nesso che, tanto sotto il
profilo storico quanto sotto il profilo teorico, stringe il concetto di
cittadinanza con l’istituto del confine. Questo nesso diviene eviden-
temente di particolare importanza nel momento in cui, come accade
oggi in Europa, una nuova cittadinanza è in formazione, e si pone
dunque il problema di tracciare confini che circoscrivano il suo spa-
zio, al tempo stesso regolando l’azione dei dispositivi di inclusione ed
esclusione che ogni figura della cittadinanza assume tra i propri pre-
5 È molto importante, in questo senso, l’analisi di Boltanski, Chiapello 1999.
6 Cfr. Karakayali, Tsianos 2005 e la rappresentazione “cartografica” delle politiche
migratorie europee elaborata all’interno del progetto “Transit Migration”: http://
www.transitmigration.org/migmap/.
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 99

supposti. Sotto questo profilo il nuovo regime di controllo dei confi-


ni che sta emergendo in Europa attorno a quelle nuove frontiere (ap-
punto le “frontiere esterne” dell’Unione europea) istituite dall’Ac-
cordo di Schengen e poi dalle successive Convenzioni applicative, fi-
no all’incorporamento dell’acquis di Schengen nel Trattato di Am-
sterdam del 1997, segnala alcuni tratti specifici del rapporto che l’U-
nione europea intrattiene con il proprio spazio.
Enrica Rigo, in un libro importante (Europa di confine, 2007), ha
studiato questo rapporto, discutendo i risultati a cui è pervenuta una
gran mole di letteratura e ponendo in evidenza come esso si configu-
ri in un modo molto diverso rispetto a quello che aveva nel suo com-
plesso caratterizzato la relazione dei moderni Stati nazionali con i
propri “territori”. Basandomi essenzialmente sul lavoro di Rigo, vor-
rei proporre di seguito tre punti fondamentali in cui questa differen-
za si esprime.
In primo luogo, nel controllo delle nuove “frontiere esterne” del-
l’Unione europea stanno emergendo modelli di interazione, che pos-
sono a tutti gli effetti essere definiti “post-nazionali”, tra diverse
istanze, agenzie e soggetti. Sono modelli ibridi, nel senso attribuito a
questo termine da Toni Negri e da Michael Hardt in Impero (2000,
parte III, cap. V), nella misura in cui gli Stati membri cooperano al lo-
ro interno con agenzie come i Comitati Schengen e Frontex (la nuo-
va “Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa al-
le frontiere esterne”), con la Commissione europea, con l’Acnur e
l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nonché con alcune
organizzazioni non governative. E così facendo gli Stati membri del-
l’Unione condividono una delle competenze chiave nella definizione
della sovranità moderna, confermando che, se la logica della sovra-
nità è ben lungi dall’essere in procinto di scomparire nel nostro pre-
sente globale, i soggetti, i modi e gli spazi del suo esercizio stanno
subendo radicali trasformazioni (Sassen 2006, p. 415).
In secondo luogo, i confini europei, resi porosi dalla spinta dei mo-
vimenti migratori, sono costretti a spostarsi continuamente verso sud
e verso est, facendosi mobili e coinvolgendo Stati vicini e lontani nel
loro controllo. Come è stato notato recentemente, ad esempio, men-
tre le rotte attraverso il Sahara stanno diventando rotte migratorie
globali (seguite cioè non soltanto da migranti subsahariani, ma anche
asiatici e perfino latino-americani), “l’Europa punta a ‘esportare’ o
‘delocalizzare’ le proprie contraddizioni: tentando di trasformare l’in-
tero Maghreb in un limes [...], recluta i Paesi del Maghreb come pro-
prie ‘avanguardie’, trasferendo su di essi l’onere di fungere da dighe
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100 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

per arginare la marea della migrazione africana” (Bensaâd 2006, pp.


13 e 16). Più in generale, come si può vedere studiando il processo
dell’allargamento verso est, le “frontiere esterne” europee non se-
gnano più in alcun modo il margine esterno dell’“ambito di validità”
dell’ordinamento giuridico europeo, ma articolano piuttosto la sua
proiezione verso l’esterno, stabilendo anche in questo senso diversi
gradi di internità ed esternità allo spazio europeo. Nel complesso, si
può dunque a giusto titolo parlare di un processo di progressiva de-
territorializzazione del confine.
In terzo luogo, le “frontiere esterne” europee sono oggi giunture
essenziali nell’articolazione (e ancora una volta nella proiezione ver-
so l’esterno e verso l’interno) di tecniche di governamentalità speci-
ficamente indirizzate ai migranti, molto diverse da quelle che siamo
abituati a collegare allo Stato di diritto e alla cittadinanza: tecniche
di governamentalità che assegnano i migranti a uno spazio altro da
quello della “società civile”, analogo piuttosto a quello che un teori-
co postcoloniale come Partha Chatterjee (2004) ha definito “società
politica”. Già lo si è visto nel precedente capitolo, a proposito del
concetto di “domopolitica” proposto da William Walters. In una re-
cente ricerca sul controllo delle “frontiere esterne” europee nello
spazio dell’Egeo, Efthimia Panagiotidis e Vassilis Tsianos approfon-
discono il punto. Lungi dal funzionare come il muro di un’ipotetica
“fortezza”, il confine mostra intera nell’Egeo la sua natura di dispo-
sitivo di governo, freno e canalizzazione della mobilità. Gli stessi
campi di detenzione di cui l’Egeo è disseminato appaiono “stazioni
di transito”: essi costituiscono “il tentativo spazializzato, di domina-
re temporaneamente determinati movimenti, ovvero di amministra-
re vie e rotte per rendere produttiva una mobilità regolata” (Pana-
giotidis, Tsianos 2007, p. 79). Sempre più spesso, nell’Egeo il sog-
giorno in un “campo” costituisce – anziché l’antedente dell’espulsio-
ne – il “biglietto di ingresso” nello spazio europeo (ivi, p. 71). Il con-
fine non si limita così a “striare” lo spazio: incide nei corpi dei mi-
granti una specifica temporalità, quella del transito e dell’attesa, de-
stinata a segnarne il movimento e le condizioni lungo l’intero arco
della permanenza in Europa; a produrre, per riprendere l’efficace
espressione di Federica Sossi (2007, p. 34), vere e proprie “biografie-
confine o biografie al confine”. Anche il confine temporale costituti-
vo dell’esperienza coloniale (cfr. supra, capp. II e IV) finisce così per
essere nuovamente tracciato all’interno dello spazio europeo, contri-
buendo a definirne la cifra di eterogeneità postcoloniale.
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 101

4. Cittadini europei, nuovo razzismo e nuovo antirazzismo

Possiamo ora tornare alla definizione di “spazio” proposta da Mi-


chel de Certeau, su cui ci siamo in precedenza soffermati, per nota-
re che i processi schematicamente descritti sembrano mettere in di-
scussione la possibilità di distinguere in modo netto, secondo le mo-
dalità proposte dallo storico e antropologo francese, lo “spazio” stes-
so dal “luogo”. Vediamo la definizione di quest’ultimo offerta da de
Certeau (2001, p. 175): “è un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il
quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza.
[...] Vale qui la legge del ‘luogo proprio’: gli elementi considerati so-
no gli uni a fianco degli altri, ciascuno situato in un luogo ‘autonomo’
e distinto che esso definisce. Un luogo è dunque una configurazione
istantanea di posizioni. Implica una indicazione di stabilità”.
Ora, questa definizione di de Certeau ben si presta a essere messa
in relazione con il concetto di “polizia” elaborato da Rancière (1995,
pp. 51 ss.), inteso cioè come distribuzione e “conto” delle “parti” su
cui poggia uno specifico regime di organizzazione di una collettività:
come qualcosa di molto simile a quella che definirei la cornice istitu-
zionale e giuridica della cittadinanza. Ma quel che accade in Europa
oggi è precisamente il fatto che la mobilità dei confini finisce per dis-
articolare la “stabilità” della “legge del ‘luogo proprio’”, riaprendo
continuamente, nell’agire stesso delle istituzioni e nel dispiegarsi dei
processi di governance, il movimento della sua produzione. Anche la
definizione del sistema di posizioni che definisce la cittadinanza eu-
ropea dipende in altri termini, per riprendere una delle tesi fonda-
mentali del citato lavoro di Enrica Rigo, dal modo in cui lo “spazio
di circolazione” europeo viene governato.
Saskia Sassen (2006, p. 293) ha scritto recentemente che, così co-
me la cittadinanza costituisce un punto di vista privilegiato attraver-
so cui guardare alla trasformazione della struttura e alla qualità dei
diritti, la migrazione “è una lente che ci permette di comprendere le
tensioni e le contraddizioni che si scaricano sull’appartenenza nazio-
nale”. L’esperienza europea consente di dare un significato affatto pe-
culiare a queste affermazioni: essa mostra cioè come i movimenti dei
migranti, espressione di complesse trasformazioni che investono ap-
punto il piano dell’“appartenenza” e determinano il sorgere e il mol-
tiplicarsi di nuovi “spazi sociali transnazionali” (cfr. ad es. Pries, a cu-
ra di, 2001), entrino direttamente a determinare l’insieme dei pro-
cessi attraverso cui viene quotidianamente prodotta la filigrana della
nuova cittadinanza europea in formazione. Da una parte, essi ne sfi-
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102 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

dano continuamente i confini, costringendo la governance e il mana-


gement delle migrazioni a mimarne l’imprevedibilità, la flessibilità e
la “turbolenza”; dall’altra parte, come si è mostrato nel precedente
capitolo, il nuovo regime migratorio europeo finisce per re-inscrive-
re il confine all’interno dello stesso spazio della cittadinanza, pro-
muovendo un processo di inclusione selettiva e differenziale dei mi-
granti (e del lavoro migrante) in quello stesso spazio. Quel che ne ri-
sulta è la produzione di una molteplicità di posizioni giuridiche e di
una nuova stratificazione gerarchica, attorno a cui si riorganizzano
contemporaneamente, in Europa, la cittadinanza e il mercato del la-
voro e che trova il proprio “limite” nella presenza strutturale di mi-
granti “illegali”: di soggetti che, ancora con Saskia Sassen (2006, pp.
294-296), possiamo definire “non autorizzati, ma riconosciuti”.
Si potrebbe proseguire a lungo nell’analisi del nuovo regime mi-
gratorio europeo, che ha come propri cardini – oltre alle tecniche di
controllo dei confini di cui si è parlato – da una parte il sistema del-
la detenzione amministrativa, che dall’interno dell’Europa si sta “de-
localizzando” ben oltre i suoi confini 7, dall’altra il nesso tra permes-
so di soggiorno e contratto di lavoro, che limita strutturalmente la
mobilità sociale e spaziale dei migranti assegnandoli nei fatti a una
posizione subordinata all’interno del mercato del lavoro. Si potreb-
be ad esempio menzionare la circostanza che, negli ultimi anni, sem-
bra profilarsi in modo abbastanza netto la tendenza a gestire in modo
diverso la “frontiera esterna” orientale e quella meridionale dell’U-
nione europea, favorendo processi di apertura selettiva della prima e
di chiusura della seconda (cfr. Gambino, Sacchetto 2007, pp. 35 s.).
E a questa tendenza, le cui motivazioni sono certo molto complesse
ma che produce come proprio effetto il privilegio di migrazioni
“bianche” rispetto a migrazioni “di colore”, corrisponde evidente-
mente una diversa posizione in Europa (all’interno dello spazio della
cittadinanza europea) dei migranti provenienti dalle due frontiere.
Ma proprio questa osservazione consente di tornare, in conclu-
sione, al tema delle metamorfosi del razzismo. A me pare evidente
che questo tema debba essere affrontato sullo sfondo dei processi che
si sono sommariamente descritti. Come portato di questi processi, la
linea del colore sta inscrivendosi, in fondo per la prima volta nella sto-
ria almeno per quel che riguarda il nostro Paese (mentre diverso è ov-

7 Si veda, per una provvisoria mappa dei campi che a tutti gli effetti possono definir-
si “europei” http://www.migreurop.org/rubrique45.html. Per un inquadramento
teorico della problematica dei campi, cfr. Rahola 2006.
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 103

viamente il discorso per Paesi come la Gran Bretagna e la Francia),


all’interno della società italiana ed europea, dando luogo al riemer-
gere, in condizioni pienamente “postcoloniali”, di forme di vero e
proprio apartheid e della distinzione, ben nota ai manuali di diritto
coloniale, tra “cittadino” e “suddito” (Balibar 2001; Balibar, Mezza-
dra 2006; supra, cap. IV). Lo stesso nuovo nazionalismo di cui si è
parlato in apertura, colto nella sua articolazione con i livelli transna-
zionali emergenti di potere, finisce per legittimare e per assecondare
nelle sue ricadute quotidiane, indipendentemente dalle “intenzioni”
dei suoi proponenti, questi processi. E per aprire lo spazio in cui
opera il suo “supplemento interno”, il razzismo.
Le nuove “fantasie di bianchezza”, per citare uno splendido libro
di Ghassan Hage (1998) sulla realtà australiana, che circolano in Ita-
lia e in Europa, l’enfasi sulle radici storiche esclusive della “civiltà eu-
ropea”, rilanciata nello scenario del post 11 settembre e della “guer-
ra al terrorismo”, non si limitano a produrre un’immagine mistifica-
ta della stessa storia europea, la cui spazialità è stata per secoli deter-
minata da una complessa rete di transiti e scambi con altre terre e “ci-
viltà”, fino a divenire nella modernità inseparabile dalla violenza che
ha contraddistinto il progetto e le pratiche coloniali: mentre legitti-
mano imprese militari al di fuori (o ai “margini”) del territorio euro-
peo, segnano anche lo spazio al cui interno nuove retoriche e nuove
pratiche razziste si diffondono (cfr. Amin 2004).
Limitiamoci a un unico esempio, sottolineando tuttavia che esso
sintetizza tendenze e retoriche molto diffuse: ovvero al discorso di
Marcello Pera, tenuto al meeting di Comunione e Liberazione del
2005, contro i rischi del “meticciato” e dell’“ibridismo”, che minac-
cerebbero appunto di contaminare, per via della presenza crescente
di migranti di religione non cristiana, le radici italiche ed europee
della civiltà. Si sarebbe tentati di rispondere a Pera con l’ironia di
Antonio Gramsci, che in una lettera scritta a un amico dal carcere di
San Vittore nel 1927, così commentava il “tanto strombazzato” libro
di Henri Massis, Défense de l’Occident (1927), uno dei molti lamen-
ti sul declino dell’Europa pubblicati negli anni tra le due guerre, sul-
la scia del successo dei lavori di Oswald Spengler: “ciò che mi fa ri-
dere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta
paura che l’ideologia asiatica di Tagore e di Gandhi non distrugga il
razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata
una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese e che in Francia si
moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere,
che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico,
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104 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band è la pri-


ma molecola di una nuova civiltà eurafricana!” (Gramsci 1988, vol. I,
pp. 95 s.).
Una straordinaria anticipazione gramsciana dei toni e dei temi
della critica postcoloniale degli ultimi anni, non c’è che dire. Il pun-
to consiste tuttavia, a mio giudizio, nel fatto che uomini come Pera
sono perfettamente consapevoli che nessuna metropoli europea po-
trebbe esistere, produrre, perfino essere “competitiva” sul mercato
mondiale, al di fuori della composizione “ibrida” e “meticcia” della
sua popolazione, della sua cultura, dei suoi stili di vita – e natural-
mente del suo mercato del lavoro. Sta qui il punto cruciale, a mio giu-
dizio: le nuove configurazioni del razzismo con cui siamo costretti a
confrontarci oggi in Italia e in Europa non puntano ad assegnare po-
polazioni diverse a diversi spazi; sono piuttosto funzionali a sostene-
re (come loro “supplemento interno”) politiche migratorie che si
propongono di regolare la convivenza gerarchicamente ordinata di
corpi diversi all’interno di un medesimo territorio, fino a legittimare
vere e proprie forme di segregazione.
Non è certo questo l’unico angolo visuale a partire dal quale ana-
lizzare il razzismo contemporaneo in Europa: ma ricondurlo ai pro-
cessi di crisi e trasformazione dell’ordine “nazionale” del mercato del
lavoro e della divisione internazionale del lavoro, assumerlo come esi-
to (e ancora una volta come “supplemento”) di un regime migrato-
rio europeo che determina processi di inclusione selettiva e differen-
ziale dei migranti, da una parte illumina alcuni luoghi e alcune con-
dizioni della sua produzione; mentre dall’altra consente di ancorare
materialmente la stessa analisi dei dispositivi di stigmatizzazione e di
rappresentazione in cui si esprime e delle forme non certo esclusiva-
mente istituzionali (“popolari”) in cui si articola. E fornisce a mio av-
viso indicazioni fondamentali sui modi in cui combatterlo.
Proprio in quanto riguarda le condizioni complessive della citta-
dinanza europea in formazione (e dunque nulla ha di marginale e di
“settoriale”), la lotta anti-razzista non può prescindere oggi dal pro-
tagonismo e dalle lotte dei migranti e delle migranti, dalle concrete
pratiche di cittadinanza che essi promuovono (preziose indicazioni in
proposito possono rinvenirsi ancora nei lavori di Sassen 2006, cap. 6,
e di Rigo 2007). Sono queste lotte e queste pratiche che stanno quo-
tidianamente decentrando e provincializzando l’Europa, aprendola al-
la scoperta delle potenzialità della condizione postcoloniale; e che
pongono le basi perché la crisi di cittadinanza sul cui sfondo agisce
il nuovo razzismo sia occasione di un profondo ripensamento delle
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IL NUOVO REGIME MIGRATORIO EUROPEO 105

forme e delle norme della vita associata, a partire da una radicale


reinvenzione della sintesi di libertà e uguaglianza. Lungi dal poter es-
sere presentata come l’obiettivo da raggiungere, che consentirebbe la
“soluzione” dei problemi dei migranti e delle migranti, la cittadinan-
za europea appare così assai più un terreno di lotta, su cui una poli-
tica anti-razzista all’altezza dei tempi non può evitare di porsi, arti-
colandosi su una molteplicità di livelli. Dentro e contro lo spazio di-
segnato dalle politiche migratorie europee, una nuova politica anti-
razzista può essere elemento decisivo nell’invenzione di un nuovo
spazio europeo, attraversato da pratiche di lotta e di cooperazione ca-
paci di tenere strutturalmente aperta la critica permanente dei confi-
ni istituzionali della sua cittadinanza.
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CAPITOLO SESTO
Vivere in transizione
Verso una teoria eterolinguale della moltitudine

The capitalist and the capitalist system have the aim of li-
mitless capital accumulation. In the realization of this aim,
capitalism stamps its products and its means of production
with the seal of market approval – price. Only by “transla-
ting” all the varied qualities that constitute its products and
means for creating them into one common “language”, that
of currency, can the generator of capitalism’s vitality, the
market, operate.
M.T. TAUSSIG, The Devil and Commodity Fetishism
in South America (1980)

1. Capitale come traduzione

“È impossibile cancellare le conseguenze della storia dell’impe-


rialismo, per quanto intensamente si possa desiderare che essa non
abbia mai avuto luogo”. Prendiamo le mosse da questa affermazione
piuttosto generica dell’intellettuale giapponese Naoki Sakai (1997, p.
18) per procedere a una ricognizione delle condizione specifiche in
cui la sua teoria della traduzione – punto di riferimento tra l’altro di
un progetto editoriale innovativo e importante come quello della col-
lana “Traces” 1 – può offrire strumenti utili al tentativo di stabilire
nuove basi per una teoria critica della politica. Analizzerò queste con-
dizioni in primo luogo dal punto di vista del significato che assume
la dimensione globale in formazione di fronte ai nostri occhi – entro
un processo di transizione che non sembra prossimo a concludersi.
Lungi dall’essere caratterizzata da omogeneità, la dimensione globa-
le è profondamente eterogenea sia per quel che concerne la sua co-
stituzione spaziale sia per quel che concerne la sua costituzione tem-
porale. Al cuore stesso dei processi attraverso cui i rapporti di pote-
re sono ridefiniti nel presente e attraverso cui il capitale globale af-

1 Attualmente pubblicati dalla Hong Kong University Press, i volumi della collana –
fino a oggi ne sono stati pubblicati quattro – escono contemporaneamente in in-
glese, cinese, giapponese e coreano. “Traces” è intesa come una radicale sfida alla
“differenza coloniale” che secondo Naoki Sakai continua a organizzare la produ-
zione e la circolazione del sapere e si presenta come spazio transnazionale e trans-
linguistico di elaborazione critica consapevole della propria collocazione geografica
nell’Asia orientale ma aperto a contributi provenienti da altre realtà. Per una pre-
sentazione del progetto, si veda http://www.arts.cornell.edu/traces/index.htm
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VIVERE IN TRANSIZIONE 107

ferma il proprio dominio si pongono essenziali problemi di articola-


zione della molteplicità di spazi e tempi che compongono la dimen-
sione globale.
Nei dibattiti degli ultimi anni, il concetto di articolazione è stato
ampiamente utilizzato in particolare nella influente variante propo-
sta a metà degli anni Ottanta da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe
sulla base della loro specifica lettura di Gramsci. A loro giudizio, “la
pratica dell’articolazione [...] consiste nella costruzione di punti no-
dali che fissano parzialmente il significato; e il carattere parziale di
questa fissazione del significato deriva dalla strutturale apertura del
sociale, a sua volta da considerare un esito del fatto che ogni discor-
so è ecceduto dall’infinitezza del campo della discorsività” (Laclau,
Mouffe 20012, p. 113). Nonostante i rilievi critici di Stuart Hall a que-
sto proposito (Hall 1986), la definizione di articolazione proposta da
Laclau e Mouffe è sostanzialmente coerente con l’uso che lui stesso
ha fatto del concetto. Hall si riferisce attraverso di esso all’emergere
di una nuova forza storica o, per essere più precisi, all’emergere di
una nuova serie di soggetti politici e sociali attraverso una “connes-
sione non-necessaria” tra questa forza storica e nuove costellazioni
ideologiche. È sulla base di simili autorevoli posizioni che il concetto
di articolazione è divenuto un punto di riferimento essenziale in nu-
merose proposte di ripensamento della politica dei movimenti socia-
li, spesso orientate nel senso di una politica delle identità.
Dal mio punto di vista, il problema essenziale a proposito di que-
ste posizioni teoriche consiste nel fatto che esse non sembrano fare i
conti fino in fondo con il fatto che l’articolazione è un momento stra-
tegico nello stesso concetto di capitale. Se questo è vero in generale
al livello della categoria logica di capitale – basti ricordare il classico
problema della mediazione delle singole “frazioni di capitale” nell’u-
nità di quello che Marx definisce “capitale complessivo” (Kapital im
allgemeinen) – la questione dell’articolazione diviene tanto più cru-
ciale nel nostro presente globale. Articolare livelli geografici, politi-
ci, giuridici, sociali e culturali radicalmente eterogenei nella dimen-
sione globale dei circuiti contemporanei dell’accumulazione è uno
dei problemi cruciali di fronte a cui si trova il capitalismo contem-
poraneo. E anche dal punto di vista del capitale, l’articolazione “con-
siste nella costruzione di punti nodali” che si distendono sull’intera
dimensione globale. Ma il significato di questi punti nodali capitali-
stici (per fare qualche esempio: le grandi borse globali, agenzie di ra-
ting e di servizi per gli investimenti come Moody’s, studi legali trans-
nazionali, attori internazionali e statuali impegnati nella promozione
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108 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

della globalizzazione neoliberale, e così via – è lungi dall’essere solo


“parzialmente fissato”. È piuttosto fissato in modo assoluto, e costi-
tuisce un limite radicale a quel che Laclau e Mouffe definiscono
l’“apertura” del sociale. E nondimeno, come sostiene Stuart Hall
(1986), l’articolazione funziona effettivamente come un linguaggio.
Più precisamente: funziona come un linguaggio quando si trova di
fronte a una pluralità di altri linguaggi che devono essere ridotti al
suo codice.
Articolazione significa dunque traduzione, e una delle tesi di fon-
do di questo capitolo è che la traduzione costituisca oggi uno dei mo-
di essenziali di funzionamento del capitale globale. Il capitale come
traduzione sta costruendo la sua propria dimensione globale: il lin-
guaggio del valore (valore di scambio nella sua pura forma logica) è
la struttura semantica, e soprattutto la grammatica, di questa dimen-
sione, che si riproduce attraverso una variante intensificata di quel
che Naoki Sakai ha definito homolingual address, “indirizzo omolin-
guale” (Sakai 1997, pp. 3 ss.). In questa modalità di comunicazione,
il soggetto dell’enunciazione si rivolge ai destinatari del proprio dis-
corso assumendo la stabilità e l’omogeneità tanto della propria lin-
gua quanto di quella di chi lo ascolta; anche quando le due lingue dif-
feriscono, il “locutore” parla come se gli interlocutori appartenesse-
ro alla sua stessa comunità linguistica, assegnando alla traduzione il
compito di rendere trasparente la comunicazione e riproducendo co-
sì il primato – la vera e propria sovranità – della sua lingua. Si può
aggiungere che questo “indirizzo” è al tempo stesso un’interpellazio-
ne, per riprendere i termini proposti da Louis Althusser: la moltepli-
cità dei linguaggi (ovvero di forme di vita, di relazioni sociali, di “cul-
ture”) che il capitale incontra nel distendere e nel codificare le sue
eterogenee “catene di valore” (Spivak 1999, pp. 117-128) vengono
investite da un “indirizzo” e da un’interpellazione che veicolano l’im-
perativo di conformarsi al linguaggio del valore.
Un alto grado di “ibridismo” e una molteplicità di differenze pos-
sono essere tollerati e perfino promossi dal capitale, come è stato ef-
ficacemente mostrato da Michael Hardt e Toni Negri (2000, parte II,
cap. 4): ma la sua struttura semantica rimane “omolinguale” nella mi-
sura in cui è dominata dal linguaggio del valore. E nondimeno, an-
che considerando questa struttura secondo la prospettiva suggerita
dal concetto di traduzione, essa si conferma profondamente antago-
nistica. La traduzione stessa può essere uno strumento analitico estre-
mamente utile per sviluppare un’analisi degli antagonismi che con-
traddistinguono il capitalismo globale. Questi antagonismi devono
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VIVERE IN TRANSIZIONE 109

essere colti al livello stesso di quella che, riprendendo l’interpreta-


zione di Marx proposta da Jason Read, possiamo chiamare produzio-
ne di soggettività (Read 2003, p. 153). Il capitale come traduzione si
rivolge ai suoi soggetti (li interpella), a un livello evidentemente mol-
to astratto, prescrivendo forme di soggettività le cui pratiche e i cui
linguaggi possano essere tradotte nel linguaggio del valore.
La produzione di valore, nel tempo globale, tende sempre più a
identificarsi con questo genere di traduzione. Come ha mostrato in
modo particolarmente convincente Christian Marazzi, nell’economia
capitalistica contemporanea il linguaggio e la comunicazione “attra-
versano strutturalmente e contemporaneamente sia la sfera della pro-
duzione e distribuzione di beni e servizi, sia la sfera finanziaria” (Ma-
razzi 2002, p. 10). La mediazione (l’articolazione) tra i differenti li-
velli di produzione di valore nell’unità del capitale può essere essa
stessa considerata una mediazione linguistica, in buona sostanza una
traduzione. Da questo punto di vista, appare particolarmente impor-
tante ricordare che, come affermano Naoki Sakai e Jon Solomon, “la
traduzione indica in primo luogo una relazione sociale, le cui forme
permeano l’attività linguistica complessivamente intesa, piuttosto che
designare una situazione secondaria o eccezionale” (Sakai, Solomon
2006, p. 9).
Il concetto stesso di sfruttamento deve essere ridefinito e appro-
fondito in queste condizioni. E sono convinto che in ciò consista uno
dei compiti essenziali di fronte a cui il pensiero critico si trova oggi.
Gli studi culturali e postcoloniali, come esplicitamente affermato da
Stuart Hall (1992), si sono trovati molto più a proprio agio nel con-
centrarsi sul potere piuttosto che sullo sfruttamento. E conseguente-
mente hanno teso ad articolare la propria dimensione politica nei ter-
mini di una critica dei rapporti di potere piuttosto nei termini di una
critica dello sfruttamento, che implicherebbe una ricognizione della
sua mutata geografia nonché della sua “intensificazione”. Per quanto
l’enfasi foucaultiana sulla natura produttiva del potere abbia giocato
un ruolo essenziale negli studi culturali e postcoloniali degli ultimi
anni, questa enfasi unilaterale sul potere ha finito per riprodurre una
sorta di primato logico (e di “esteriorità”) del potere rispetto ai mo-
vimenti e alle pratiche dei soggetti.
Tornando alla tesi di Jason Read, è il caso di ricordare che “alla
base del modo di produzione capitalistico c’è produzione di sogget-
tività nel doppio senso del genitivo: la costituzione della soggettività,
di un particolare comportamento soggettivo, e d’altra parte la po-
tenza produttiva della soggettività, la sua capacità di produrre ric-
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110 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

chezza” (Read 2003, p. 153). Per dirla in un modo schematico (e non


senza correre il rischio di una eccessiva semplificazione), possiamo
affermare che il concetto di potere rende conto delle modalità con
cui si produce la “costituzione della soggettività”, mentre il concetto
di sfruttamento si riferisce agli scontri e alle lotte che si producono
sul terreno della riduzione della “capacità soggettiva di produrre ric-
chezza” alla norma del lavoro astratto, presupposto della sua tradu-
zione nel linguaggio del valore. Questi scontri e queste lotte non si
determinano soltanto nella produzione di ricchezza “materiale”, ma
anche nella produzione di beni “immateriali” come cultura, struttu-
re linguistiche e simboliche, conoscenza e immaginari. Segnano, co-
me ha mostrato ad esempio in modo particolarmente brillante Brett
Neilson (2004), la stessa produzione delle “astrazioni reali” che ren-
dono possibile l’“indirizzo omolinguale” e il regime di traduzione del
capitale.
Dobbiamo guardare allo sfruttamento dal punto di vista del lavo-
ro vivo che viene investito e “catturato” dal capitale attraverso mo-
dalità molteplici ed eterogenee, che convergono tutte verso la pro-
duzione della sua dimensione globale. La composizione del lavoro vi-
vo contemporaneo è attraversata e segnata da questa molteplicità del-
le modalità della sua “cattura” da parte del capitale. E se quest’ulti-
mo articola la propria dimensione globale attraverso la traduzione nel
linguaggio del valore, il nostro compito consiste nel pensare la costi-
tuzione di un soggetto collettivo capace di porsi come soggetto di tra-
sformazione radicale a partire dagli antagonismi e dai conflitti che
contraddistinguono ogni singolo momento di “cattura”. È quasi su-
perfluo aggiungere che nessuno di questi momenti può essere inteso
come meramente individuale, considerato che tutti investono reti di
cooperazione sociale che a loro volta producono forme di soggettivi-
tà. Nell’ultimo paragrafo del capitolo si tenterà di applicare il con-
cetto di “indirizzo eterolinguale” proposto da Naoki Sakai ai proble-
mi della costituzione di un nuovo soggetto politico come processo at-
traverso cui la politica della liberazione deve essere ripensata oggi.
Ma prima è necessario render conto della citazione da cui abbia-
mo preso le mosse. Perché la storia del colonialismo e dell’imperiali-
smo moderni è così importante per comprendere la situazione con-
temporanea? Nel prossimo paragrafo cercherò di mostrare che il ca-
pitale come traduzione riproduce – in condizione pienamente post-
coloniali – una delle caratteristiche di fondo del progetto coloniale
dell’Occidente.
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VIVERE IN TRANSIZIONE 111

2. Il capitale e l’Occidente

Fin dal suo inizio, la storia del capitale è storia mondiale. Come
Marx afferma in modo perentorio nei Grundrisse, “la tendenza a
creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto di ca-
pitale. Ogni limite (Grenze) si presenta qui come ostacolo da supera-
re” (Marx 1857-58, vol. II, p. 9). La storia del capitale non può esse-
re compresa se non la si intende anche nei termini della costruzione
di questa scala geografica senza precedenti (Guha 2002, pp. 35 e 43).
Il tempo e lo spazio del capitale sono strutturalmente intrecciati l’u-
no con l’altro nel progetto della modernità. Come Walter Mignolo e
Anibal Quijano hanno sottolineato dal punto di vista latino-america-
no, ciò di cui abbiamo bisogno è una ricostruzione di questo nesso
strutturale tra tempo e spazio all’interno della storia del capitale che
sia in grado di spiazzare l’immaginario stesso prodotto dal capitale
come sistema mondo nel corso del suo sviluppo. La “sconnessione
tra due diverse forme di modernità – la modernità imperiale e la mo-
dernità coloniale – vive al cuore della definizione della modernità in
generale, nella costituzione del mondo gerarchico e non democrati-
co del capitale”. Una volta di più, siamo di fronte a un problema di
articolazione. La storia del capitale non può essere disgiunta dal fatto
che entrambe le forme di modernità “sono legate a un indice comu-
ne, il valore normativo dell’Occidente” (Sakai, Solomon 2006, p. 21).
Questo indice comune articola sia al livello materiale sia al livello epi-
stemico la storia del capitale come storia mondiale.
Nel momento stesso in cui dobbiamo riconoscere l’efficacia di
questa articolazione, dobbiamo anche ricordare che essa ha operato
attraverso il dominio e la violenza, e che fin dalle origini della mo-
dernità dominio e violenza hanno dovuto fare i conti con molteplici
forme di resistenza. La storia mondiale del capitale è essa stessa frat-
turata da una sorta di doppio movimento, e dobbiamo rendere conto
di questo doppio movimento in ogni tentativo di ricostruirla. Da una
parte abbiamo un processo di espansione del capitale che produce la
sua specifica geografia, dando luogo in particolare a peculiari rela-
zioni tra centro e periferia; dall’altra parte abbiamo forme e pratiche
di resistenza che spiazzano questa stessa geografia. Da una parte ab-
biamo un immaginario costruito attorno alla centralità dell’Europa e
dell’Occidente; dall’altra parte abbiamo “l’immaginario conflittuale
che emerge da e con la differenza coloniale” (Mignolo 2001, p. 57).
Questa scissione si inscrive all’interno del concetto stesso di Occi-
dente, e deve essere posta in evidenza quando si analizzano le varie
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112 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

serie di opposizioni che l’Occidente ha prodotto per rendere conto


degli incontri coloniali che costituiscono la storia moderna in storia
mondiale: l’Asia e l’Occidente, the West and the Rest, e così via.
È da questo punto di vista che, come ha scritto Naoki Sakai, la
modernità “non può essere compresa se non in riferimento alla tra-
duzione” (Sakai 2000a, p. 797). L’unità del tempo storico moderno
(che echeggia nella sua struttura “omogenea e vuota” quella che
Marx ha definito l’“oggettività spettrale del capitale”) è sempre sta-
ta necessariamente prodotta attraverso una sorta di violenta sincro-
nizzazione di una pluralità di tempi eterogenei. E questa violenta sin-
cronizzazione è essa stessa un atto di traduzione. Vale la pena di sot-
tolineare che questo problema è particolarmente acuto nel momen-
to della transizione al capitalismo, in quel processo di “accumulazio-
ne originaria” in cui si tratta di produrre le condizioni di esistenza del
capitalismo (cfr. infra, appendice). Come scrive Dipesh Chakrabarty,
“il problema della modernità capitalistica non è più interpretabile co-
me semplice fenomeno sociologico di transizione storica [...] poiché
esso si presenta anche come problema di traduzione” (Chakrabarty
2000, pp. 34 s.). Il punto è che, considerata in questi termini, la trans-
izione – al pari del resto dell’“accumulazione originaria” (Perelman
2000; De Angelis 2007, pp. 136-141) – non è soltanto una categoria
storica; è al tempo stesso una categoria logica che opera al cuore stes-
so del concetto di capitale.
Possiamo anche porre la questione in questi termini: la transizio-
ne equivale alla produzione delle condizioni di possibilità della tra-
duzione, attraverso il regime di “indirizzo omolinguale” che rende a
sua volta possibile il capitale. E mi pare evidente che, se guardiamo
da questo punto di vista al concetto di transizione, è proprio la trans-
izione nei contesti coloniali a rivelare nel modo più nitido il problema
di fondo che contraddistingue la transizione al capitalismo. Marx ha
tentato di cogliere questo problema attraverso il concetto di “modo
di produzione asiatico”, che proprio per questa ragione continua a
meritare un’attenta analisi indipendentemente dai suoi limiti e dalle
distorsioni da esso prodotte nell’analisi di situazioni storiche e cultu-
rali particolari (Spivak 1999, pp. 98 e 115): lo specifico tipo di etero-
geneità che il capitalismo ha incontrato nei contesti non europei rese
la difficoltà generale di stabilire le condizioni della sua traduzione nel
linguaggio del valore ancor più acuta di quanto non fosse nell’Euro-
pa occidentale (dove comunque, come sappiamo dall’analisi marxia-
na della “cosiddetta accumulazione originaria”, richiese un formida-
bile impiego di violenza). Quel che va aggiunto è che il problema del-
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VIVERE IN TRANSIZIONE 113

la transizione riemerge in ogni momento storico in cui le condizioni


della traduzione devono essere ristabilite su nuove basi. La mia tesi
è precisamente che il capitalismo globale è contraddistinto dal fatto
che il capitale come traduzione è costretto ad affrontare il problema
della produzione delle condizioni di possibilità della traduzione al li-
vello stesso del suo operare quotidiano. Accumulazione primitiva e
transizione (ciò che Marx definiva la “preistoria del capitale”) sono
gli spettri che ritornano a ossessionare il capitale al livello più alto del
suo sviluppo storico.
Naoki Sakai ha posto brillantemente in evidenza che il concetto
di modernità “non può mai essere compreso senza riferirsi alla cop-
pia moderno/premoderno” E ha sottolineato il fatto che questa cop-
pia è strutturalmente legata a una comprensione geopolitica dell’Oc-
cidente come spazio della modernità e del non-Occidente come spa-
zio della premodernità. La relazione tra questi due spazi è stata arti-
colata dalla grande narrazione della modernizzazione, che ha assun-
to la forma di diverse teorie degli “stadi” dello sviluppo storico (cfr.
supra, cap. III). Il concetto di Occidente è esso stesso emerso storica-
mente “nel pieno dell’interazione con l’Altro da sé”, ponendosi co-
me il terreno comune su cui le “differenze” storiche e culturali do-
vevano essere rese commensurabili. L’universalismo moderno è in ef-
fetti impensabile al di fuori di questa continua opera di traduzione:
come scrive Sakai, “l’Occidente è in se stesso particolare, ma costi-
tuisce anche il punto di riferimento in relazione al quale gli ‘altri’ si
riconoscono come particolarità. In questo senso, l’Occidente si pen-
sa nella forma dell’ubiquità” (Sakai 1997, pp. 154 s.). L’impronta co-
loniale dell’universalismo moderno consiste precisamente in questo
movimento di traduzione (cfr. Adamo 2007, pp. 197 s.), e c’è da que-
sto punto di vista una strutturale affinità elettiva tra l’universalismo
moderno e il capitale.
È importante sottolineare, riprendendo gli sviluppi della critica
postcoloniale, che questo movimento di traduzione non ha mai fun-
zionato in modo “liscio”, dato che è stato interrotto, sfidato e conti-
nuamente “ibridato” dai molteplici interventi dei soggetti non occi-
dentali. Ma è egualmente necessario non dimenticare l’efficacia
dell’“indirizzo omolinguale” dell’Occidente nel suo tentativo di im-
prontare contemporaneamente una topografia del sapere e una geo-
politica del potere. L’enfasi posta da Naoki Sakai sulle “rivendica-
zioni di simmetria ed eguaglianza”, sul “rapporto imitativo con ‘l’Oc-
cidente’” che ha caratterizzato attraverso una logica di “co-figura-
zione” la nascita e la storia del pensiero giapponese moderno (Sakai
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114 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

1997, pp. 48 e 68; cfr. anche Sakai 2000b), è una buona esemplifica-
zione di questa efficacia. Al tempo stesso, la sua critica della retorica
dei “valori asiatici”, in cui non vede altro che “un semplice rovescia-
mento del culturalismo eurocentrico” (Sakai 2000a, p. 800), ci ricor-
da che “l’Occidente” continua a esercitare una grande influenza nel
presente globale.
Ciò nondimeno, vale la pena di considerare l’ipotesi che il nostro
tempo sia caratterizzato dal venire a maturazione della lunga crisi del-
le strutture di potere che hanno storicamente articolato e incanalato
l’“indirizzo omolinguale” occidentale all’interno di uno specifico re-
gime di traduzione. L’instabilità del capitale globale trova qui una
delle sue radici più importanti: per metterla ancora una volta in ter-
mini molto astratti, ogni atto di traduzione capitalistica è almeno po-
tenzialmente costretto a confrontarsi con il problema di riaffermare
le condizioni che rendono quella traduzione possibile. I movimenti e
le lotte anticoloniali hanno vittoriosamente sfidato e disarticolato il
“metaconfine” che separava il tempo e lo spazio metropolitani da
quelli coloniali, costringendo il capitale e l’Occidente stesso a misu-
rarsi con una geografia del potere assai più complessa, postcoloniale
(cfr. supra, cap. I). È una geografia attraversata e fratturata da linee
di conflitto e da rapporti di potere, da una molteplicità di confini a
cui corrispondono grandi squilibri nella distribuzione della ricchezza.
Ma la sua crescente complessità rende sempre più difficile interpre-
tarla utilizzando categorie rigide, fisse, di centro e periferia, Nord e
Sud del mondo. Modernità non è più sinonimo di Occidente, e la
sconfitta dell’unilateralismo statunitense in Iraq dovrebbe pur sug-
gerire qualcosa a proposito della crisi del tradizionale “imperiali-
smo”. Il capitale globale stesso non è più necessariamente occiden-
tale nella sua composizione. Ma quel che rimane potente, e ancora ri-
chiede di essere provincializzato e disarticolato, è sicuramente l’Oc-
cidente (non solo l’Europa) come “figura immaginaria” (Chakrabarty
2000, p. 16) che continua a indirizzare la propria interpellazione ai
soggetti che abitano il presente globale.
A me pare che questa persistente influenza dell’Occidente come
“figura immaginaria” sia elemento costitutivo del durevole dominio
del capitale su scala mondiale. È precisamente la profonda affinità tra
l’“indirizzo omolinguale” dell’Occidente e il regime di traduzione at-
traverso cui opera il capitale ciò che garantisce la riproduzione di
quella “figura immaginaria” ben al di là della retorica dello “scontro
di civiltà” e della “guerra al terrore”. Concordo con Naoki Sakai e
Jon Solomon sul fatto che, in queste condizioni, “la critica dell’euro-
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VIVERE IN TRANSIZIONE 115

centrismo tende a divenire una buona retorica per le elite, la cui sog-
gettività si forma in parte in una competizione con ‘l’Occidente’ re-
sa possibile dall’accumulazione (di classe) di valore prodotto dal la-
voro di coloro che sono socialmente sottoposti a quelle stese elite”
(Sakai, Solomon 2006, p. 21). Non è questa la via che mi interessa se-
guire. In qualche modo penso che si debba accettare il pieno dispie-
gamento della logica del capitale, che si debba perfino accettare – per
metterla in termini provocatori – il divenire mondo dell’Occidente
sotto il dominio del capitale, che si debbano cartografare con scru-
polosa attenzione i nuovi antagonismi che segnano questo processo.
E che si debba muovere in direzione della ricerca di un nuovo regi-
me di traduzione, capace di interrompere e disarticolare l’“indirizzo
omolinguale” del capitale e di aprire nuovi spazi di libertà e ugua-
glianza. Spazi in cui un nuovo mondo possa essere inventato: un
mondo al di là di the West e al di là di the Rest.

3. Tempo e spazio del capitalismo globale

Tempo e spazio sono stati al centro del dibattito sulla globalizza-


zione fin dal suo inizio. L’immagine della “compressione spazio-tem-
porale”, originariamente proposta da David Harvey (1989), è diven-
tata una sorta di luogo comune nella letteratura contemporanea sul-
l’argomento. Ritengo che sia necessario andare oltre questo luogo co-
mune e assumere come oggetto di ricerca trasformazioni molto più
profonde nell’articolazione di spazio e tempo, che sembrano prefigu-
rare modalità di esperienza politica, economica, sociale e culturale as-
sai diverse da quella associata al “cronotopo”, per riprendere un’e-
spressione di Michail Bachtin, che ha caratterizzato la modernità. Per
dirla nei termini più semplici possibili: la figura retorica della “com-
pressione spazio-temporale” sembra assumere come scontata l’unità
di tempo e spazio, e tende quindi a produrre un’immagine della di-
mensione globale contemporanea che paradossalmente finisce per ri-
sultare una sorta di specchio del modo in cui spazio e tempo sono
immaginati dal capitale: ovvero, come dimensioni “lisce”, “omoge-
nee e vuote”, mere coordinate dei processi di accumulazione. E so-
prattutto non affronta il problema cruciale della produzione di que-
ste dimensioni e di queste coordinate.
Qualcosa di simile può essere detto anche a proposito dell’uso
dell’immagine dei “flussi” per descrivere il paesaggio dell’età globa-
le: come Anna Tsing ha efficacemente posto in evidenza, anche que-
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116 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

sta immagine conduce troppo spesso a ignorare “la cesellatura dei ca-
nali e la continua ridefinizione delle mappe e delle possibilità della
geografia” che rendono questi flussi possibili (Tsing 2000, p. 327; ma
si veda anche Ferguson 2006, p. 47), limitando, bloccando e “addo-
mesticando” altri flussi (in modo particolare i movimenti dei e delle
migranti). Mentre l’immagine dei flussi tende a circoscrivere l’analisi
della condizione globale al livello della circolazione, ciò di cui vi è ur-
gente necessità è una volta di più una critica dei rapporti di produ-
zione che sono celati al disotto della “superficie” della circolazione,
per usare la metafora suggerita da Marx: ma dobbiamo al tempo stes-
so essere consapevoli del fatto che questi rapporti di produzione non
hanno a che fare soltanto con i rapporti di lavoro intesi in senso tra-
dizionale, riferendosi piuttosto più in generale al “processo di ‘fab-
bricazione’ degli oggetti e dei soggetti che circolano, dei canali della
circolazione e degli elementi di contorno, ‘paesaggistici’, che delimi-
tano e danno forma a questi canali” (Tsing 2000, p. 337).
Guardiamo alle trasformazioni dello spazio da un punto di vista
politico, riprendendo e sviluppando alcuni elementi analitici propo-
sti nel precedente capitolo. Sovranità e diritto, si è visto, sono stati in
età moderna i due criteri fondamentali di definizione di uno spazio
politico nell’esperienza europea (Galli 2001): un territorio era defi-
nito nella sua unità come ambito geografico di validità di una parti-
colare sovranità statale e di un particolare ordinamento giuridico (na-
zionale). Oggi, mentre assistiamo all’emergere di un diritto globale
“centrato su una molteplicità di regimi globali ma parziali che ri-
spondono ai bisogni di settori specializzati”, la sovranità “rimane una
proprietà sistemica, ma la sua localizzazione istituzionale e la sua ca-
pacità di legittimare e assorbire tutto il potere, di essere la fonte del
diritto, sono divenute instabili” (Sassen 2006, pp. 242 e 415). A me
pare che l’immagine di una “costituzione mista” dell’Impero, propo-
sta da Hardt e Negri (2000, parte III, cap. 5), sia particolarmente ef-
ficace nel rendere conto della situazione che emerge da queste com-
plesse trasformazioni. Ma dobbiamo sempre ricordare che questa im-
magine – al pari del resto dello stesso concetto di Impero – va utiliz-
zata a partire da un’accentuata consapevolezza della sua natura ten-
denziale, e non come un’immagine capace di riflettere un modello
fisso, già pienamente dispiegato. Questo significa prendere seria-
mente in considerazione, come elemento che definisce il concetto
stesso e non come occasionale “perturbazione”, la possibilità che su
ogni livello di articolazione della “costituzione mista” si producano
scontri e conflitti. E al tempo stesso conduce a considerare la stessa
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VIVERE IN TRANSIZIONE 117

produzione dello spazio che corrisponde alla “costituzione mista” co-


me un processo dinamico e costantemente in evoluzione.
Da questo punto di vista, un concetto che trovo particolarmente
rilevante e produttivo è quello di “spazi laterali”, o “latitudini”, pro-
posto da Aihwa Ong proprio nel contesto di una discussione critica
di alcune tesi di Impero. Anche se, a mio parere, Ong tende a sem-
plificare eccessivamente l’argomentazione di Hardt e Negri, il con-
cetto di “latitudini” può essere di grande utilità per approfondire l’a-
nalisi delle trasformazioni che stanno ridefinendo la geografia politi-
ca ed economica sotto il segno del capitale globale. In buona sostan-
za, Ong sottolinea il fatto che l’espansione su scala planetaria dei
mercati non corrisponde a una omogeneizzazione delle modalità di
controllo sul lavoro e delle forme di organizzazione del lavoro stes-
so. Piuttosto, siamo di fronte all’emergere di “spazi striati di produ-
zione, che combinano differenti tipi di regime lavorativo” e, contra-
riamente all’idea di una transizione lineare da forme disciplinari a
modalità regolative di controllo, “le reti contemporanee di produ-
zione si distendono su modi carcerari di disciplina lavorativa” (Ong
2006, pp. 121 e 124).
Mentre l’unità stessa degli spazi nazionali nel Sudest asiatico e in
Cina è disarticolata dall’operare del “neoliberalismo come eccezio-
ne” e da vere e proprie zoning technologies che aprono e delimitano
gli spazi in cui “la norma del calcolo mercantile viene introdotta nel-
la gestione delle popolazioni” (ivi, p. 3), spazi laterali ed enclave ri-
producono su una scala transnazionale condizioni di segregazione del
lavoro che tendono a essere etnicizzate. Questo concetto di “latitu-
dini”, che sarebbe opportuno accostare all’analisi delle “enclave mi-
nerarie” in Africa recentemente proposta da James Ferguson (2006,
pp. 13 s., 34-38 e 194-210), consente di precisare l’immagine dell’e-
terogeneità dello spazio globale del capitalismo. Ma al tempo stesso
dà un’idea della struttura complessa del tempo globale: ricostruendo
l’architettura delle reti di produzione di sistemi elettronici gestite da
manager asiatici, che “esibisce una peculiare compenetrazione di al-
ta tecnologia e di tecniche etnicizzate di vera e propria incarcerazio-
ne del lavoro”, Ong osserva che “la distensione geografica delle eco-
nomie di rete è spesso accompagnata a una sorta di distensione tem-
porale, da quel che appare una regressione a ‘più antiche’ forme di
disciplinamento del lavoro, la cui epitome è costituita dallo sweat-
shop ad alta tecnologia” (Ong 2006, p. 125).
È un problema che possiamo tentare di affrontare utilizzando la
distinzione marxiana, più volte richiamata nei capitoli precedenti, tra
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118 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

“sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capi-


tale”, a cui corrisponde quella tra “plusvalore assoluto” e “plusvalo-
re relativo”. Cruciale, in questa distinzione, è precisamente un pro-
blema di diversi tempi storici: non nel senso, come spesso si tende a
mio giudizio erroneamente a pensare, che le due modalità di “sus-
sunzione” si limiterebbero a definire due diversi “stadi” nello svi-
luppo del modo di produzione capitalistico, ma piuttosto nel senso
che esse si riferiscono a due diverse modalità di rapporto del capita-
le con il tempo. Mentre la sussunzione reale indica una situazione in
cui il capitale stesso organizza direttamente le modalità di lavoro e di
cooperazione, producendo una sorta di sincronia tra il tempo del-
l’accumulazione capitalistica e il tempo della produzione, la sussun-
zione formale si riferisce a una diversa situazione: a una situazione
cioè in cui il capitale incontra (Marx usa il verbo vorfinden) forme di
organizzazione e disciplinamento del lavoro “già esistenti” (Marx
1857-58, vol. II, p. 136, c.n.); e si limita a incorporarle (e a sfruttarle)
nel suo processo di sviluppo. La sussunzione formale indica dunque
una situazione in cui una specifica sconnessione temporale si inscrive
nella struttura stessa del capitale.
Lungi dall’essere un residuo del passato, la sussunzione formale
si riproduce e interseca la sussunzione reale nel tempo del capitale
globale. Inoltre, come mostra l’esempio della produzione di sistemi
elettronici proposto da Ong, la distinzione tra sussunzione formale e
sussunzione reale non può essere assunta come criterio attorno a cui
organizzare un tentativo di cartografare la geografia del capitale glo-
bale, come se fosse possibile porre il “Nord globale” come spazio
della sussunzione reale e il “Sud globale” come spazio della sussun-
zione formale. Una volta di più, il problema che si presenta è quello
di rendere conto dell’articolazione tra le due diverse forme di sus-
sunzione, della loro traduzione nel linguaggio unitario del valore.
Più in generale, è proprio la radicale eterogeneità del tempo e del-
lo spazio globali che rende articolazione e traduzione momenti stra-
tegici nel concetto stesso di capitale globale, una volta che si inter-
preti questo concetto come epitome della determinazione capitalisti-
ca del mondo in cui viviamo. A me pare che uno degli operatori lo-
gici fondamentali di articolazione e traduzione possa essere identifi-
cato nel confine. In vari scritti, Étienne Balibar ha sostenuto che il
confine, lungi dall’essere un elemento marginale, tende oggi a inscri-
versi al centro della nostra esperienza politica, sociale e culturale.
L’Europa stessa, secondo Balibar, si sta trasformando in un border-
land, in una “terra di frontiera” (Balibar 2005; cfr. Balibar, Mezzadra
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VIVERE IN TRANSIZIONE 119

2006). Ma quel che occorre aggiungere è che oggi i confini sono in-
vestiti da profondissime trasformazioni, da trasformazioni che ride-
finiscono il concetto stesso di confine. Riprendendo un’ampia lette-
ratura sul tema (cfr. Mezzadra 2006, parte II, cap. 4; Rigo 2007; Cut-
titta 2007), si può affermare che i confini stanno diventando mobili
senza cessare di produrre meccanismi di chiusura anche estrema-
mente rigidi, tendono a “deterritorializzarsi” senza cessare di inve-
stire luoghi determinati.
Come già si è visto nei due precedenti capitoli, l’esperienza euro-
pea è particolarmente significativa da questo punto di vista. Se si con-
siderano congiuntamente il cosiddetto processo di allargamento e il
nuovo regime di controllo delle migrazioni che sta emergendo a li-
vello di Unione europea, la mobilità dei confini può essere analizza-
ta sia considerandoli dispositivi strategici nel determinare l’articola-
zione dello spazio europeo con gli spazi adiacenti (nonché la tradu-
zione del diritto europeo all’interno di altri ordinamenti), sia consi-
derandoli vere e proprie tecniche biopolitiche (nel senso che si è visto
in Walters 2002): tecniche che, possiamo aggiungere ora, iscrivono
all’interno della cittadinanza europea “spazi laterali” attorno a cui
possono essere riorganizzati i mercati del lavoro. Enrica Rigo ha mo-
strato efficacemente come in Europa stiano emergendo nuove gerar-
chie al livello stesso della regolazione giuridica, e come esse stiano
disarticolando la tradizionale omogeneità formale della cittadinanza
moderna. E mentre queste nuove gerarchie stanno penetrando nella
struttura dei mercati del lavoro, tracciando veri e propri “confini di
produzione” (Rigo 2007, pp. 191-197), si vanno definendo anche una
serie di “confini temporali”, come risultato della varie “sale d’attesa”
apprestate per i migranti sia sulle rotte da essi seguite nel viaggio ver-
so l’Europa sia all’interno dello spazio europeo: la condizione giuri-
dica dei migranti finisce per essere regolata “secondo una transito-
rietà destinata, però, a protrarsi indefinitamente” (ivi, p. 214).
A me pare che valga la pena di collegare questo concetto di “con-
fini temporali”, di cui si è vista in precedenza la rilevanza all’interno
del moderno progetto coloniale europeo e occidentale (cfr. supra, in
specie cap. II), con i problemi determinati dall’articolazione tra “sus-
sunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”,
e di assumere i “confini temporali” come dispositivi cruciali nel pro-
durre le necessarie giunture tra diversi tipi di regimi e di disciplina-
mento del lavoro, che sembrano in effetti appartenere a diversi tem-
pi storici. Se torniamo alla categoria di “latitudini” da questo punto
di vista, possiamo affermare che esse sono costituite e delimitate da
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120 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

una complessa serie di confini: confini “geopolitici” che articolano il


loro carattere transnazionale, confini giuridici che limitano la mobi-
lità e i diritti dei migranti, confini di produzione, confini temporali
che separano diversi tempi storici rendendo al tempo stesso possibi-
le la loro traduzione nel linguaggio unitario del valore. E se questi
confini giocano un ruolo essenziale in quello che Achille Mbembe
(2000, p. 260) ha definito l’“addomesticamento del tempo mondia-
le” dal punto di vista del capitale, dobbiamo tuttavia considerarli co-
me costantemente in via di ridefinizione, dato che sono costretti a fa-
re i conti con una serie di pratiche, comportamenti e immaginari sog-
gettivi che pongono sfide radicali alla loro tenuta. Sono queste sfide
a rendere i confini stessi rapporti sociali, attraversati e fratturati dal-
le molteplici tensioni tra processi di “rafforzamento” e di “attraver-
samento ” (Vila 2000): i movimenti e le lotte che si sviluppano attor-
no a essi, in particolare movimenti e lotte che coinvolgono le que-
stioni della migrazione e della mobilità, rivestono in questo senso
un’importanza fondamentale per ogni tentativo di pensare diverse
modalità di “addomesticamento del tempo mondiale”, diversi tipi di
articolazione e traduzione capaci di porre radicalmente in discussio-
ne il dominio del capitale (cfr. Mezzadra 2006).

4. Lavoro vivo in transizione

Movimenti migratori e pratiche di mobilità sono del resto ele-


menti decisivi nell’insieme delle trasformazioni che stanno ridefinen-
do la composizione del lavoro vivo. Uso evidentemente il concetto di
“composizione” ricollegandomi agli sviluppi dell’operaismo italiano
a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Ma al tempo stesso il ri-
ferimento al “lavoro vivo” tiene conto delle considerazioni su questo
concetto marxiano svolte da Dipesh Chakrabarty in un capitolo di
Provincializzare l’Europa, su cui mi sono già soffermato in preceden-
za (cfr. supra, cap. III). Chakrabarty propone in realtà un punto di vi-
sta molto originale sul problema classico del rapporto tra “lavoro
astratto” e “lavoro concreto”, in qualche modo sostituendo quest’ul-
timo concetto con quello di “lavoro vivo”, utilizzato da Marx in par-
ticolare nei Grundrisse. Il punto cruciale, scrive infatti Chakrabarty,
“è che il lavoro che viene reso astratto nel processo di ricerca, da par-
te del capitale, di una misura comune per l’attività umana è lavoro vi-
vo” (Chakrabarty 2000, p. 88). Il processo stesso di astrazione del la-
voro vivo dalla molteplicità di differenze che costituiscono la “vita”
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VIVERE IN TRANSIZIONE 121

è inteso da Chakrabarty come un processo di traduzione (ivi, p. 102):


un processo di traduzione che è al tempo stesso un rapporto sociale
profondamente antagonistico.
Disciplina, violenza e “dispotismo” sono le modalità essenziali at-
traverso cui il capitale si indirizza al lavoro vivo nel suo tentativo di
tradurlo nel codice del lavoro astratto. Per essere più precisi: sono
queste le modalità essenziali che definiscono il rapporto del capitale
con il lavoro vivo in particolare nei processi di transizione, quando la
norma del lavoro astratto – ovvero, “la chiave interpretativa della gri-
glia con cui il capitale ci chiede di osservare il mondo” (ivi, p. 82) –
deve essere imposta a fronte della radicale eterogeneità della “vita”.
Uno dei problemi più rilevanti posti dalla transizione al capitalismo è
la costituzione politica e giuridica del mercato del lavoro. Per rende-
re possibile l’esistenza stessa del mercato del lavoro, deve essere pro-
dotta una merce assolutamente particolare, ovvero la “forza lavoro”,
un concetto pienamente sviluppato da Marx soltanto nel Capitale. È
a mio giudizio necessario introdurre questo concetto per sviluppare
ulteriormente l’analisi proposta da Chakrabarty del rapporto tra la-
voro astratto e lavoro vivo. Come è stato sottolineato da Paolo Virno
(1999, pp. 121-130), il concetto di forza lavoro si riferisce esso stes-
so direttamente alla vita, considerato il fatto che esso è definito da
Marx come “l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esi-
stono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo”
(Marx 1867, pp. 201 s.). Ciò che rende particolarmente importante
nel contesto del nostro discorso questa definizione è che essa fa
emergere il processo necessario di separazione (di astrazione) di que-
ste “attitudini” dal loro “contenitore” (la “corporeità”, la “persona-
lità vivente di un uomo”) che logicamente precede il rapporto capi-
talistico di produzione, costituendone la condizione di possibilità.
Questo processo di separazione è la produzione della forza lavoro
come merce – ovvero la produzione di specifici soggetti costretti a
vendere la loro forza lavoro per riprodursi. È questo il problema fon-
damentale che Marx analizza nello scenario della “cosiddetta accu-
mulazione originaria” (cfr. infra, Appendice). Da una serie di ricer-
che storiche recenti, che si sono richiamate nel precedente capitolo,
sappiamo che la soluzione non poteva consistere – contrariamente a
molte affermazioni dello stesso Marx – nell’affermazione lineare del
lavoro salariato “libero” come modalità “normale” di sussunzione del
lavoro sotto il capitale: altre forme di “cattura” del lavoro, al contra-
rio, erano (e sono) strutturalmente necessarie per rendere disponibi-
le la forza lavoro come merce. Un alto grado di violenza (una serie di
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122 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

pressioni “non pecuniarie” per costringere al lavoro, che vanno dal-


la schiavitù alla servitù a contratto a specifici status giuridicamente
differenziati per i lavoratori e le lavoratrici migranti) è stato e conti-
nua a essere necessario per assicurare la continuità dell’accumulazio-
ne capitalistica – e la continuità di quel che Marx chiamava l’“incon-
tro” tra capitale e forza lavoro (Marx 1867, p. 202; cfr. Althusser
1982). È questa la ragione fondamentale per cui l’accumulazione ori-
ginaria non può essere considerata meramente un momento storico:
deve piuttosto essere assunta come una sorta di riserva di potenziali
“eccezioni” (a quella che Marx chiamava la “silenziosa coazione dei
rapporti economici”, 1867, p. 907) che possono essere attivate in
ogni fase dello sviluppo capitalistico quando il funzionamento ordi-
nario del mercato del lavoro viene messo in discussione e bloccato.
Penso che valga la pena considerare la situazione globale con-
temporanea da questo punto di vista. La radicale eterogeneità dei re-
gimi di controllo e di organizzazione del lavoro non solo a livello
“globale” ma anche su ogni livello “locale”, rapporti di lavoro mobi-
li e flessibili, lo stesso problema di articolare quelli che Ong defini-
sce spazi laterali di produzione con i circuiti globali dell’accumula-
zione compongono uno scenario in cui il capitale si trova continua-
mente di fronte alla possibilità del rifiuto da parte del lavoro vivo di
sottomettersi alla norma del lavoro astratto. Ed è il caso di aggiunge-
re che questo problema si pone anche quando in gioco è l’esigenza
di assicurare quelle condizioni di stabilità di cui necessita il funzio-
namento dei mercati finanziari globali: anche la vita degli abitanti del
“pianeta degli slum” così efficacemente descritto da Mike Davis
(2006) è soggetta alla norma del lavoro astratto, indipendentemente
dal fatto che la loro forza lavoro resti al di fuori del mercato del la-
voro. È proprio la produzione di questa subordinazione del lavoro
vivo al lavoro astratto a costituire uno dei problemi cruciali della
transizione, non solo nel mondo della produzione ma anche più ge-
neralmente come problema di assetto societario complessivo.
È per questo che dovremmo prendere seriamente l’idea di un la-
voro vivo in transizione. Il fatto stesso che la norma del lavoro astrat-
to non possa essere assunta come scontata e debba essere piuttosto
continuamente riaffermata dal capitale lungo l’intero arco delle sue
eterogenee catene di valore rende obsoleta l’immagine tradizionale
della classe operaia, intesa come soggetto collettivo disciplinato (e re-
so politico) dal capitale attraverso la sua organizzazione della coope-
razione lavorativa. Non si tratta di un’affermazione “sociologica”, e
non ne costituisce dunque una smentita il fatto che continuino a esi-
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 123

VIVERE IN TRANSIZIONE 123

stere enormi masse operai di fabbrica. Il punto fondamentale risiede


piuttosto nel fatto che la costituzione e la composizione del lavoro
vivo sono oggi processi aperti, sia dal punto di vista del capitale sia
dal punto di vista delle soggettività che costituiscono lo stesso lavoro
vivo.
Dato che il capitale è costretto a imporre il lavoro astratto come
comune misura dell’attività umana, esso ha bisogno di una figura uni-
taria del lavoro in generale: ma la radicale eterogeneità delle modali-
tà contemporanee di “cattura” del lavoro rende questa rappresenta-
zione capitalistica dell’unità del lavoro problematica, un processo con-
tinuo di traduzione assai più che uno stabile presupposto dello svi-
luppo – un processo di traduzione che si muove senza sosta dalla
produzione alla circolazione alla finanza, dove, come si è detto, l’ap-
parenza dello scambio di capitale con capitale non può liberarsi del
bisogno di assicurare la continua riproduzione su scala globale di
rapporti sociali organizzati attorno alla norma del lavoro astratto.
D’altra parte, dal punto di vista di quella che Jason Read chiama la
“potenza produttiva della soggettività”, l’eterogeneità del lavoro non
corrisponde soltanto a una pluralità di gerarchie che attraversano e
fratturano la sua composizione. Esprime anche la molteplicità di fa-
coltà umane, di pratiche di cooperazione che spesso si sviluppano al
di fuori del comando diretto del capitale, di “forme di vita” che com-
pongono quella potenza produttiva.

5. Verso una teoria eterolinguale della moltitudine

In questa molteplicità dobbiamo saper riconoscere l’impronta di


una storia complessa di lotte e di movimenti del lavoro che hanno dis-
articolato l’immagine tradizionale della classe operaia e le sue rap-
presentazioni politiche. È il caso di ribadire che il concetto di molti-
tudine, introdotto negli ultimi anni all’interno della tradizione dell’o-
peraismo italiano (Hardt, Negri 2000 e 2004; Virno 2004), si propone
in primo luogo di cogliere questa “genealogia” complessa del lavoro
vivo contemporaneo. Ci sono almeno due fraintendimenti molto dif-
fusi nel dibattito internazionale e italiano che vanno preliminarmente
affrontati. In primo luogo, il concetto di moltitudine non punta a op-
porre il lavoro come molteplicità al capitale come Uno: tenta piutto-
sto di far emergere la specifica modalità di articolazione tra unità e
molteplicità che vive al cuore del concetto di capitale e di aprire uno
spazio teorico in cui approfondire la ricerca di un diverso modo di ar-
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124 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

ticolazione tra i due elementi, a partire dalla costruzione di un nuovo


comune (di un nuovo “Uno”) che possa essere la base di un nuovo re-
gime di cooperazione e di produzione. In secondo luogo, anche se il
concetto di moltitudine si pone in modo critico rispetto alle rappre-
sentazioni tradizionali della classe operaia, esso non è una sorta di
icona mistica o estetizzante. È – ed è ben possibile che questo aspet-
to non sia stato sufficientemente sottolineato nella discussione – un
concetto di classe. Ciò significa che è un concetto determinato, co-
struito attorno le variegate ed eterogenee forme di sfruttamento che
contraddistinguono il capitalismo contemporaneo ed è, al pari di
quello di classe, un concetto parziale e di parte (Mezzadra 2007).
Il concetto di moltitudine evidenzia la circostanza che l’eteroge-
neità della composizione del lavoro vivo corrisponde a una moltepli-
cità di lotte, di pratiche di resistenza e rifiuto che non può essere li-
nearmente unificata e rappresentata da organizzazioni tradizionali co-
me partiti e sindacati. Il problema della comunicabilità e della tra-
ducibilità di queste lotte e di queste pratiche necessariamente parziali
diventa così il problema politico fondamentale di una teoria della
moltitudine. In modo necessariamente schematico, possiamo dire che
mentre il capitale pone il suo elemento di unità (il linguaggio del va-
lore) come presupposto del suo “indirizzo omolinguale”, immagina-
re un processo di soggettivazione politica della moltitudine significa
pensare la produzione del comune come una sorta di work in pro-
gress, come risultato – in termini di istituzioni, risorse e spazi condi-
visi – di un movimento capace di reinventare continuamente quella
che Étienne Balibar (1992) ha definito égaliberté, l’unità indissolubi-
le di uguaglianza e libertà.
Non si tratta di un progetto utopico: mentre sottolinea la neces-
sità di inventare e costruire nuove istituzioni, nuove “reti organizza-
te” (Rossiter 2006), il concetto di moltitudine fornisce anche un cri-
terio generale che consente di valutare l’azione delle istituzioni tra-
dizionali, che possono essere rese interne al processo di soggettiva-
zione della moltitudine nella misura in cui sono in grado di aprire e
di consolidare elementi comuni: “punti nodali che fissano parzial-
mente il significato”, per tornare a Mouffe e Laclau. Siamo in effetti
vicini, da questo punto di vista, all’orizzonte della “democrazia radi-
cale”; ma all’interno di questo orizzonte tentiamo di interpretare (e
dunque di mantenere viva) l’eredità fondamentale della critica co-
munista della democrazia nella misura in cui poniamo al centro del
nostro lavoro critico la potenza materiale della moltitudine, la sua ca-
pacità, in quanto soggetto parziale e di parte, di produrre il comune.
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 125

VIVERE IN TRANSIZIONE 125

Al tempo stesso, se da una parte l’importanza strategica che ricono-


sciamo alle migrazioni e alle pratiche di mobilità nella composizione
del lavoro vivo contemporaneo ci conduce a sottolineare di quest’ul-
tima la dimensione globale, il concetto di moltitudine non sfocia in
qualche astratta teorizzazione di una nuova democrazia globale. In-
dica piuttosto la possibilità di “radicare” progetti politici di trasfor-
mazione radicale all’interno di spazi determinati, dal livello locale a
quello continentale, sviluppando in modo creativo le “possibilità del-
la geografia” a cui allude Anna Tsing e rendendo concreto un nuovo
cosmopolitismo.
Lungo queste linee di ragionamento, libertà e uguaglianza diven-
tano esse stesse “caselle vuote”, place holders (Chakrabarty 2000, p.
101), luoghi di comunicazione e traduzione il cui contenuto è aper-
to a una continua trasformazione. E mentre questa importanza es-
senziale riconosciuta ai concetti di libertà e uguaglianza distingue il
progetto della moltitudine da una semplice critica dell’“eurocentri-
smo”, essi stessi devono essere pensati come “in transizione” – e dun-
que in traduzione. Libertà ed eguaglianza non sono condizioni tra-
scendentali della politica, non preesistono come “universali”, per ri-
prendere i termini di Judith Butler, a movimenti sociali “particolari”:
occorre assumere la possibilità stessa dell’esistenza di nozioni con-
flittuali di universalità, che richiedono una pratica di traduzione piut-
tosto diversa da quella implicita nel concetto tradizionale di egemo-
nia (Butler 2000, pp. 162-169; ma si veda anche Balibar 2006). Li-
bertà e uguaglianza finiscono così per porsi, nel senso attribuito al
termine da Jacques Derrida, come tracce, come negazione potenzia-
le del dominio e dello sfruttamento: sono i movimenti e le lotte con-
tro di essi, i processi di costituzione soggettiva a cui danno luogo, a
rendere attuale questa negazione potenziale. Il concetto di moltitu-
dine tenta di cogliere l’eterogeneità di queste lotte e di questi movi-
menti radicando la loro convergenza in pratiche di cooperazione so-
ciale capaci di produrre un nuovo comune.
Dato che il comune non preesiste a questi movimenti e a queste
lotte, a queste pratiche di cooperazione, la moltitudine è una “co-
munità non aggregata di stranieri”: ovvero, come ha scritto Naoki Sa-
kai, “una comunità al cui interno ci rivolgiamo l’uno all’altro attra-
verso l’attitudine dell’indirizzo eterolinguale” (Sakai 1997, p. 9).
Lungi dal preesisterle, anche la lingua di una “comunità non aggre-
gata di stranieri” – il suo comune – emerge soltanto da una comuni-
cazione che assume l’essere straniero di tutte le parti coinvolte come
punto di partenza indipendentemente dalla loro “lingua natia”. La
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 126

126 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

traduzione è qui la lingua di un soggetto in transito. Radicalmente cri-


tico a fronte dell’idea di “una normalità della comunicazione reci-
proca e trasparente”, ma assumendo piuttosto “che ogni enunciato
può fallire sotto il profilo comunicativo perché l’eterogeneità è pro-
pria di ogni medium, linguistico o meno”, l’indirizzo eterolinguale
chiaramente implica che “la traduzione deve essere infinita”. Esso
pone dunque radicalmente in discussione i confini che, attraverso
“l’affiliazione nazionale, etnica o linguistica” (ivi, p. 8), definiscono
comunità commensurabili come condizioni dell’”indirizzo omolin-
guale” e del suo ideale trasparente di comunicazione. È l’idea stessa
di comunità che abbiamo ereditato dalla storia e dal pensiero mo-
derni, che continua a funzionare come luogo strategico “di accumu-
lazione originaria per la costruzione dei soggetti maggioritari del do-
minio”, di “corpi dotati di autorità” e di “forme di rapporto regola-
te secondo i confini apparentemente naturali tra ‘l’individuo’ e il suo
corollario, il collettivo”, a risultare così disarticolata e spiazzata (Sa-
kai, Solomon 2006, pp. 20 s.).
Lungi dall’essere limitata al compito, comunque fondamentale, di
immaginare nuove forme di pratica teorica transnazionale negli studi
culturali e postcoloniali, questa critica dell’idea di comunità che so-
stiene il regime omolinguale di traduzione ci aiuta a problematizzare
ogni concetto semplice del “Noi” a cui ci riferiamo nelle nostre pra-
tiche politiche. Ma al tempo stesso conduce a intensificare la ricerca
di un nuovo terreno comune capace di rendere la vita sociale più ric-
ca, più libera e uguale. Come scrive Meaghan Morris, l’impostazione
di Naoki Sakai “muove dalla domanda su che cosa effettivamente ac-
cada in ogni sforzo di traduzione, piuttosto che cominciare con un
ideale presupposto o un racconto già accettato di come sarebbe o do-
vrebbe essere un mondo senza il bisogno della traduzione – senza la
‘polvere’ creata dalla differenza linguistica e dalla materialità testua-
le, senza faglie di incommensurabilità e senza il deposito dell’incom-
prensione, in breve un mondo senza linguaggio” (Morris 1997, pp.
XIII s.). Possiamo rispondere in modo piuttosto semplice: quel che
accade in uno sforzo di traduzione “eterolinguale” è che una nuova
condizione comune viene prodotta precisamente nello stesso mo-
mento in cui dall’incommensurabilità emerge la differenza. Mi pare
un buon modo di descrivere il tipo di comune che abbiamo in men-
te quando parliamo delle eterogenee lotte e pratiche sociali che co-
stituiscono la moltitudine.
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 127

APPENDICE
Attualità della preistoria
Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro
del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria”

For why should he that is at libertie make himself bond?


Sith then we are free borne,
Let us all servile base subjection scorne.
E. SPENSER, Complaints: Mother Hubbard’s Tale (1591)

I primi capitalisti sono come degli uccelli da preda che


aspettano. Aspettano di incontrare il lavoratore, che arriva
attraverso le fughe del sistema precedente. Questo è anche
il senso preciso di ciò che chiamiamo accumulazione pri-
mitiva.
G. DELEUZE, Sul capitalismo e il desiderio (1973)

1. L’accumulazione originaria, oggi

Il capitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capi-


tale, il testo fondamentale su cui qui ci concentreremo, ci conduce a
ritroso nel tempo, verso l’Inghilterra dei primi secoli moderni. L’og-
getto del capitolo è, secondo l’espressione usata dallo stesso Marx, la
“preistoria” del modo capitalistico di produzione (K, I, p. 881) *. Sia-
mo dunque di fronte a un testo (e a un tema) di interesse puramente
storico, “antiquario”?
Così non è, e le pagine marxiane sull’accumulazione originaria so-
no state negli ultimi anni lette a più riprese, e in diversi contesti, co-

* Abbreviazioni dei testi marxiani citati:


Furti di legna = K. MARX, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), in ID.,
Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975.
Miseria della filosofia = K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia del-
la miseria” del signor Proudhon (1847), Editori Riuniti, Roma 1993.
G = K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-
1858), 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1978.
TüM = K. MARX, Storia delle teorie economiche (1861-1863), 3 voll., Einaudi, Tori-
no 1954.
Salario, prezzo, profitto = K. MARX, Salario, prezzo, profitto (1865), Editori Riuniti,
Roma 1977.
K, I = K. MARX, Il capitale, libro primo (1867), Einaudi, Torino 1975.
MEW = K. MARX, F. ENGELS, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Dietz, Berlin 1958-71.
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 128

128 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

me un contributo decisivo alla critica del presente. Nell’autunno del


1990, in particolare, usciva un numero della rivista statunitense
“Midnight Notes” (il 10) significativamente intitolato New Enclosu-
res. Mentre imperversavano le retoriche “idilliache” (nel senso uti-
lizzato da Marx nel capitolo 24) del “nuovo ordine mondiale”, i com-
pagni di “Midnight Notes” proponevano l’attualità di alcuni concet-
ti e di alcuni temi tratti dal capitolo del Capitale sull’accumulazione
originaria (in particolare quello delle “recinzioni”) per interpretare
criticamente la grande trasformazione del modo di produzione capi-
talistico in atto dalla metà degli anni Settanta. Leggiamo qualche pas-
so dall’editoriale del numero:

oggi, ancora una volta, le recinzioni sono il denominatore comune dell’e-


sperienza proletaria a livello globale. Nella più grande diaspora del secolo,
in ogni continente milioni di donne e uomini vengono sradicati dalle loro
terre, dai loro lavori, dalle loro case da guerre, carestie, epidemie e svalu-
tazioni disposte dal Fondo Monetario Internazionale (i quattro cavalieri
dell’Apocalisse moderna) e vengono dispersi ai quattro angoli del pianeta.
[...] Le Nuove Recinzioni sono il nome della riorganizzazione su larga sca-
la dell’accumulazione avviata a partire dalla metà degli anni Settanta. L’o-
biettivo fondamentale di questo processo è consistito nello sradicare i la-
voratori e le lavoratrici dal terreno su cui erano stati costruiti il loro potere
e la loro organizzazione, in modo che, come gli schiavi africani trapiantati
in America, essi fossero costretti a lavorare e lottare in un ambiente estra-
neo, dove le forme di resistenza possibili a casa non sono più disponibili.
Ancora una volta dunque, come all’alba del capitalismo, la fisionomia del
proletariato mondiale è quella dell’indigente, del vagabondo, del crimina-
le, del mendicante, del venditore ambulante, del rifugiato che lavora in uno
sweatshop, del mercenario, del povero (ivi, pp. 1 e 3).

Due punti in particolare vanno valorizzati nell’analisi proposta dal


collettivo editoriale di “Midnight Notes”. Il primo consiste nel fatto
che il processo descritto (recinzioni, espropriazione, etc.) non ri-
guarda soltanto il “Sud del mondo”, ma investe lo spazio globale del
capitalismo contemporaneo, ridisegnandone continuamente la geo-
grafia (le diverse forme da esso assunte sono definite “aspetti di un
singolo processo unitario: le Nuove Recinzioni, che devono operare
in modi diversi, discreti, anche se sono totalmente interdipendenti”):

secondo la logica dell’accumulazione capitalistica in questa fase, per ogni


fabbrica che viene privatizzata in una zona di libero commercio in Cina e
venduta a una banca commerciale di New York, o per ogni acro di terra
recintato da un progetto di sviluppo della Banca mondiale in Africa o in
Africa come parte di un piano di aggiustamento strutturale presentato con
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 129

ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 129

lo slogan “un debito per l’equità”, una recinzione corrispondente deve de-
terminarsi negli Stati uniti e in Europa occidentale (p. 2).

Il secondo punto riguarda il rilievo strategico che oggi, così come


nelle condizioni dell’accumulazione originaria descritte da Marx, as-
sume la questione della mobilità, da leggere sullo sfondo del grande
problema della produzione della merce forza lavoro – e dunque del-
la costituzione politica (in cui è sempre implicata la violenza) del mer-
cato del lavoro. Leggiamo un ultimo passo dell’editoriale del numero
10 di “Midnight Notes”: “le Nuove Recinzioni fanno del lavoro mo-
bile e migrante la forma dominante di lavoro. Siamo oggi la forza la-
voro più mobile dall’avvento del capitalismo” (p. 4).
Gli esempi dell’attualità delle condizioni dell’accumulazione ori-
ginaria potrebbero essere moltiplicati a piacere, guardando a quanto
avviene nelle campagne del “Sud” del mondo, allo scontro tra nuo-
ve recinzioni e continua riappropriazione di spazi “comuni” all’in-
terno delle reti informatiche, al tentativo di governo delle migrazio-
ni globali e ai molteplici dispositivi predisposti dalle grandi corpora-
tion per costringere i lavoratori e le lavoratrici “cognitivi” a vendere
la propria forza lavoro. Voglio ricordare un unico esempio ulteriore,
per introdurre un testo di cui tornerò a parlare in conclusione. Anna
Lowenhaupt Tsing, un’antropologa che insegna alla University of Ca-
lifornia di Santa Cruz, ha recentemente pubblicato un volume estre-
mamente suggestivo sull’insieme dei conflitti determinati dal tentati-
vo effettuato nel corso degli anni Novanta del Novecento da grandi
corporation giapponesi di aprire (sia posto in corsivo questo verbo, ri-
cordando le parole di Rosa Luxemburg: “il capitalismo nasce e si svi-
luppa storicamente in un ambiente sociale non-capitalistico. [...] Al-
l’interno di quest’ambiente, il processo di accumulazione del capita-
le si apre una strada”, Luxemburg 1913, p. 363) al mercato capitali-
stico del legname le grandi foreste pluviali indonesiane (Tsing 2005).
Ritroviamo molti dei processi di attacco ai diritti “comuni” sulla ter-
ra in nome del diritto privato di proprietà descritte da Marx nel ca-
pitolo 24 del primo libro del Capitale – in primo luogo le enclosures.
Ma dall’analisi di Tsing deriviamo intanto un’ulteriore indicazione
concettuale: l’accumulazione originaria istituisce negli spazi che in-
veste condizioni di frontiera – di una frontiera che si pone al tempo
stesso come frontiera selvaggia (savage) nella misura in cui la sua pri-
ma legge è quella della violenza, e come frontiera “di salvataggio”
(salvage frontier) nella misura in cui la distruzione delle condizioni
sociali “tradizionali” finisce per presentare il capitalismo (specifici
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 130

130 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

capitalisti) come gli unici agenti possibili di uno sviluppo dai carat-
teri di emergenza (ivi, pp. 27 ss.).

2. Questioni di metodo

Ragioniamo dunque, attraverso la problematica dell’accumula-


zione originaria, sui primi secoli dell’età moderna e sul presente.
Dobbiamo valorizzare questo cortocircuito temporale, che dice mol-
to sulla concezione marxiana della storia – o comunque su una con-
cezione della storia che possiamo costruire oggi a partire dalle pagine
marxiane. È d’altro canto un cortocircuito connaturato al “metodo”
marxiano della Darstellung, ben illustrato a rovescio (rispetto al pro-
blema che qui ci occupa) da una nota boutade tratta dalla cosiddetta
Introduzione del ’57: “l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anato-
mia della scimmia” (G, I, p. 33). Come è noto, il problema metodo-
logico fondamentale della critica marxiana dell’economia politica è
quello della dialettica di astratto e concreto (cfr. Il’enkov 1960), che
conduce a formulazioni tra le più impegnative “filosoficamente” di
Marx (“il concreto è concreto perché è sintesi di molte determina-
zioni, cioè unità del molteplice”, G, I, p. 27) e in generale – è il pun-
to che qui maggiormente ci interessa – a tenere continuamente aper-
to, ad assumere come intrinsecamente problematico il rapporto tra
ordine logico e ordine storico dell’esposizione (cfr. Janoska et alii
1994).
Si tratta – proprio l’Introduzione del ’57 lo afferma con forza – di
un problema metodologico storicamente determinato, imposto cioè
dalle caratteristiche fondamentali (uniche) del modo di produzione
capitalistico. Al fondo, nell’Introduzione del ’57 (e in particolare nel
suo § 3, “Il metodo dell’economia politica”), Marx lavora alla ricerca
di un metodo capace di venire a capo della natura di “totalità stori-
camente determinata” dell’economia politica, di illuminare critica-
mente le “condizioni del sorgere delle astrazioni concettuali” su cui si
costruisce il discorso degli economisti non semplicemente ricondu-
cendole a “concreti” processi storici, ma assumendo piuttosto come
principio regolatore il riconoscimento della potenza sociale delle
“astrazioni reali” (capitale, valore, denaro, etc.) nella trama dei rap-
porti che costituiscono il modo di produzione capitalistico.
Il capitolo 24 del Capitale, concentrandosi sull’origine (Ursprung)
del modo di produzione capitalistico, si propone dunque di studiare
le condizioni in cui, “per la prima volta”, un insieme di “astrazioni
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 131

reali” si “incarnano” nella storia, divengono potenze reali e finisco-


no, mi si consenta di giocare con il lessico kantiano, per determinare
le condizioni a priori della stessa esperienza sociale. Ma è precisa-
mente questo cortocircuito tra astratto e concreto che deve ripetersi
ogni giorno, lo ha mostrato in modo particolarmente chiaro Dipesh
Chakrabarty nella sua analisi del rapporto tra “lavoro astratto” e “la-
voro vivo” in Marx (Chakrabarty 2000, cap. 2), perché il modo di
produzione capitalistico continui a esistere e a riprodursi: “l’accu-
mulazione”, scrive del resto Marx, “rappresenta semplicemente co-
me processo continuo ciò che nell’accumulazione primitiva appare
come un processo storico particolare” (TüM, III, p. 295; si veda sul
punto Rosdolsky 1968, pp. 327-329).
Ogni giorno, dunque, deve logicamente ripetersi quanto accadde
“per la prima volta” all’origine della storia del capitalismo: è questo
apparente paradosso che impedisce di considerare come meramente
lineare e progressivo (“omogeneo e vuoto”, secondo i termini utiliz-
zati da Benjamin nella sua critica dello storicismo) il tempo storico
caratteristico del modo di produzione capitalistico. E che propone
piuttosto – accanto all’attualità dell’origine – il grande tema chiara-
mente formulato per la prima volta da Balibar nel suo contributo a
Leggere il Capitale (1965) e poi ripreso negli ultimi quindici – ven-
t’anni da una parte consistente della critica postcoloniale (cfr. l’in-
troduzione alla nuova edizione in Young 1990): la sconnessione, par-
ticolarmente evidente proprio studiando la transizione al capitalismo
nelle condizioni coloniali, nella struttura della temporalità propria
delle società capitalistiche tra quelle che egli definiva la loro diacro-
nia e la loro dinamica (Balibar 1965, p. 324), ovvero il grande pro-
blema teorico dell’“inserzione dei diversi tempi gli uni negli altri”
(ivi, p. 317). La “contemporaneità del non contemporaneo”, nei ter-
mini di Ernst Bloch.
Lo stesso Balibar, nella sua analisi delle pagine marxiane sull’ac-
cumulazione originaria, parlava di “una genealogia degli elementi che
costituiscono la struttura del modo di produzione capitalistico” (ivi,
p. 300). Mi pare sia possibile riprendere questo riferimento alla “ge-
nealogia” per complicare ulteriormente il discorso sul metodo di
Marx, e per determinarlo ulteriormente a proposito della specifica
analisi che ci occupa. Ursprüngliche Akkumulation, a volte tradotto
con “accumulazione primitiva” (e in inglese, ad esempio, sempre re-
so con primitive accumulation), vale propriamente “accumulazione
originaria”. L’aggettivo deriva dal sostantivo tedesco Ursprung – ap-
punto “origine” – e possiamo ben dire che nell’uso marxiano ricom-
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132 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

prende in sé le valenze, su cui ha scritto pagine fondamentali Michel


Foucault, che nella genealogia nietzscheana saranno attribuite a ter-
mini come Entstehung ed Herkunft. Dicevamo precedentemente, nei
termini della seconda delle nietzscheane Considerazioni inattuali, che
l’interesse marxiano per la storia (per la “preistoria”) del modo di
produzione capitalistico nulla ha di “antiquario”. Marx, come Nietz-
sche, guarda con disprezzo a “una storia che avrebbe la funzione di
raccogliere, in una totalità rinchiusa in sé, la diversità infine ridotta
dal tempo; una storia che ci permetterebbe di riconoscerci dovunque
e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconci-
liazione: una storia che getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine
del mondo” (Foucault 1971, p. 42).
Ferma restando la specificità del metodo marxiano, non sarà dun-
que fuori luogo dire della funzione dell’origine nel capitolo 24 quan-
to Foucault dice della funzione dell’emergenza (Entstehung) in
Nietzsche: essa consente di rappresentare “l’entrata in scena delle
forze, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col
vigore, la giovinezza che le è propria” (ivi, p. 39). E d’altronde per
definire queste “forze”, i protagonisti del dramma che costituisce la
trama storica del modo di produzione capitalistico, ovvero il com-
pratore e il venditore di forza lavoro, Marx utilizza notoriamente un
concetto di derivazione teatrale, che già Hobbes (nel cap. XVI del Le-
viatano) aveva caricato di valenze politiche: quello di Charakterma-
ske, originariamente la maschera indossata dall’attore sulla scena per
impersonare il proprio ruolo (cfr. Haug 1995).

3. Per la critica dell’economia classica (e “volgare”)

Abbiamo fin qui visto, sia pure in modo un po’ obliquo, tre gran-
di questioni che possiamo leggere in una luce particolare attraverso
il capitolo 24 del Capitale: questioni kantiane, potremmo dire ancora
celiando, nella misura in cui investono le dimensioni dello spazio e
del tempo del capitalismo. Ma ogni formalismo è qui escluso dalla ri-
levanza strategica che assume su entrambe le dimensioni, nell’anali-
si svolta da Marx, il problema della produzione della merce forza la-
voro: una produzione che incide i corpi e modifica le anime, una pro-
duzione che investe e stravolge – in modo assolutamente concreto e
determinato – il terreno stesso della vita.
Mi si consenta tuttavia un’altra considerazione per dir così preli-
minare. Quello di accumulazione originaria, in Marx, non è un con-
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 133

ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 133

cetto. Fin dal titolo (“La cosiddetta accumulazione originaria”), il ca-


pitolo si muove sul filo di una tagliente ironia (un “registro” stilisti-
co molto caro a Marx), rafforzata dal riferimento “teologico” al pec-
cato originale:
nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stes-
sa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla me-
la e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccon-
tandola come un aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lun-
go tempo trascorsa, da una parte una elite diligente, intelligente e soprat-
tutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperpe-
ravano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale
teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo
pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale econo-
mico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di fa-
ticare (K, I, p. 879).

Naturalmente il riferimento “teologico” va al di là dell’ironia. Che


cos’altro c’è al centro del Genesi se non il problema della spiegazio-
ne e della legittimazione della maledizione del lavoro? Ma l’ironia è
forte, e segnala l’intento polemico del ragionamento svolto da Marx
nel capitolo 24, la critica radicale dell’economia politica classica (e in
questo caso, prima di tutto, di Adam Smith e della sua analisi della
“previous accumulation of stock”): quest’ultima, come risolve la tra-
ma delle relazioni economiche sul piano giuridico-formale (“di su-
perficie”) dell’equivalenza, racconta con toni “idilliaci” le origini del
modo di produzione capitalistico (fondamentali, sulla critica marxia-
na dell’economia classica e dell’economia “volgare”, sono ora le con-
siderazioni di Zanini 2006, in specie pp. 139-148; specificamente sul
tema dell’accumulazione originaria nell’economia classica, cfr. Perel-
man 2000). La realtà dello sfruttamento (della sua origine storica e
del suo statuto concettuale) è l’“arcano” velato dall’economia classi-
ca: in queste pagine, secondo il metodo della Darstellung e, lo ripe-
tiamo, con un’anticipazione potente del metodo genealogico, l’inda-
gine della sua origine svela qualcosa di essenziale sul suo stesso sta-
tuto concettuale.
Al centro dell’analisi marxiana dell’“accumulazione originaria”
non è dunque, contrariamente a quel che accade nell’economia clas-
sica, “una precedente concentrazione di una provvista di merci co-
me capitale nelle mani del compratore di lavoro” (TüM, III, p. 292),
ma la violenta produzione (nonché l’“originaria” accumulazione) del-
le condizioni di possibilità del rapporto capitalistico di produzione,
dell’“incontro” (K, I, p. 202) tra compratore e venditore di forza la-
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134 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

voro: ovvero, come si legge nei Grundrisse, in quella sezione sulle


“Forme che precedono la produzione capitalistica” che deve sempre
essere tenuta presente leggendo il capitolo 24, “la produzione di capi-
talisti e di operai salariati, [...] un prodotto fondamentale del proces-
so di valorizzazione del capitale. L’economia volgare, che vede sol-
tanto le cose prodotte, dimentica completamente questo fatto” (G,
II, p. 145). La stessa accumulazione di denaro (di un “patrimonio
monetario, che considerato in sé e per sé è assolutamente improdut-
tivo, in quanto scaturisce soltanto dalla circolazione e a essa soltanto
appartiene”, ibidem) nulla dice della “formazione originaria” del ca-
pitale: quest’ultima “avviene invece semplicemente per il fatto che il
valore esistente come patrimonio monetario, attraverso il processo
storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene
messo in grado, da un lato di comprare le condizioni oggettive del la-
voro, dall’altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo
degli operai divenuti liberi” (ivi, p. 137).
Nessun “idillio”, dunque, ma un processo che dovrebbe essere
chiamato – come leggiamo in Salario, prezzo, profitto (1865) – “espro-
priazione primitiva”, seguendo il quale si scopre “che la cosiddetta ac-
cumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi sto-
rici i quali si conclusero con la dissociazione dell’unità primitiva fra il
lavoratore e i suoi mezzi di lavoro”. Continua Marx: “la separazione
del lavoratore e degli strumenti di lavoro, una volta compiutasi, si
conserva e si rinnova costantemente a un grado sempre più elevato,
finché una nuova e radicale rivoluzione del sistema di produzione la
distrugge e ristabilisce l’unità primitiva in una forma nuova” (Sala-
rio, prezzo, profitto, p. 75).
Esplicitiamo a questo punto qual è la prospettiva in cui il capito-
lo 24 del Capitale deve essere a mio giudizio letto, coerentemente con
quanto affermato in precedenza a proposito del “metodo” marxiano:
l’Ursprung – come uno specchio concavo – restituisce l’immagine del
modo di produzione capitalistico nel suo complesso, ne illumina, co-
me l’eccezione benjaminiana (assai più di quella schmittiana), alcuni
caratteri fondamentali, e tuttavia celati, del funzionamento “norma-
le”. Collocato alla fine del primo libro (e prima dell’ultimo, quello su
“La teoria moderna della colonizzazione”, che del capitolo sull’ac-
cumulazione originaria costituisce una sorta di appendice), il capito-
lo 24 impone di rileggere a ritroso l’intero tracciato analitico propo-
sto nel libro, interrompendo e riaprendo continuamente – in parti-
colare – l’analisi presentata nel capitolo 23, “La legge generale del-
l’accumulazione capitalistica”. Per dirla nei termini proposti da An-
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 135

tonio Negri quasi trent’anni fa: il capitolo 24 è un esempio di quella


“ricerca” (Forschung) che interviene a rinnovare il terreno dell’“espo-
sizione” (Darstellung) imponendo – o comunque rendendo possibi-
le – una “nuova esposizione”, una neue Darstellung (Negri 1979, pp.
23-26).
“Norma” ed “eccezione” sono concetti che vanno utilizzati e va-
lorizzati in senso determinato leggendo il testo marxiano. Questo si-
gnifica che non vanno soltanto applicati al rapporto tra l’origine, la
storia e il presente del modo di produzione capitalistico, ma devono
essere fatti “lavorare” – se necessario “oltre Marx” – per decostruire
criticamente la stessa immagine di un capitalismo “normale”. Non
che non vi siano “norme” di funzionamento del modo di produzio-
ne capitalistico: ma ogni “norma” include al proprio interno – tanto
logicamente quanto storicamente – una costellazione di “eccezioni”,
che rientrano tra le sue condizioni di possibilità ma al tempo stesso
costituiscono una sorta di riserva di opzioni che possono essere sem-
pre attualizzate. È su questo terreno che possiamo, dobbiamo a mio
giudizio, incrociare ricerche e proposte teoriche tra le più interessanti
presentate negli ultimi anni, quali il lavoro di Yann Moulier Boutang
(1998) sulle “forme difformi” di sottomissione del lavoro al capitale
(“difformi” dalla norma del rapporto salariale) e il progetto di “pro-
vincializzazione dell’Europa” di Dipesh Chakrabarty.
Cospicue tracce di riflessione in questo senso si ritrovano per altro
anche in Marx. Significativi, in questo senso, non sono soltanto il ri-
lievo strategico assegnato alla colonizzazione e la ricchezza di riferi-
menti al tema della schiavitù, che legittimano una ricostruzione della
storia del capitalismo quale quella proposta da molti protagonisti del
Black Marxism (Robinson 1983), che ne rintraccia le origini in Afri-
ca, nelle Indie occidentali e nello spazio atlantico assai più che in In-
ghilterra. Si tratta anche di valorizzare una serie di spunti presenti ne-
gli scritti tardi sulla Russia (cfr., nella letteratura recente, Burgio
2000, cap. IV), in cui l’“eccezionalità” del caso inglese su cui si basa
in buona sostanza l’analisi proposta nel capitolo 24 è esplicitamente
affermata – mentre viene con forza respinto ogni tentativo di dedur-
re da tale analisi un modello di “filosofia della storia” (cfr. K. Marx,
Brief an die Redaktion der “Otetschestwennyje Sapiski” [1877], MEW,
19, in specie p. 111). “L’‘ineluttabilità storica’” del movimento de-
scritto nel capitolo sull’accumulazione originaria, scrive ad esempio
Marx in una lettera a Vera Iwanowa Sassulitsch dell’8 marzo del
1881, “è espressamente limitata ai Paesi dell’Europa occidentale”
(MEW, 35, p. 166).
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136 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

La transizione al capitalismo, è un punto su cui ha ancora una vol-


ta molto insistito negli ultimi anni la critica postcoloniale, non segue
dunque norme prestabilite, può determinarsi secondo modalità sto-
ricamente differenti. E se guardiamo al capitalismo valorizzandone il
carattere di sistema-mondo fin dalle origini, queste modalità diffe-
renti non costituiscono eccezioni “periferiche”, entrando piuttosto a
determinare (nel duplice senso sopra indicato: come condizioni di
possibilità e come “riserva” di opzioni sempre attualizzabili) la strut-
tura del modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Torne-
remo in conclusione sul concetto di transizione e su alcune delle pro-
blematiche a esso connesse. Ma origine (transizione) è termine che ri-
manda comunque sempre alla violenza, definita da Marx con celebre
espressione “messianica”, ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring,
“levatrice della storia, [...] essa stessa potenza (Potenz) economi-
ca” proprio nel capitolo 24 del primo libro del Capitale (K, I, p.
923). Ecco un altro grande tema propostoci dal testo su cui stiamo
soffermandoci, quello – per dirla in termini molto generali – del ruo-
lo della violenza nella storia. Étienne Balibar, redigendo la voce “Ge-
walt” per lo Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, ha pro-
posto recentemente considerazioni molto stimolanti su questo pun-
to (Balibar 2001c).
Vale la pena di segnalare, in ogni caso, che il problema della vio-
lenza si pone su almeno due diversi piani nell’analisi dell’accumula-
zione originaria: da una parte esso rinvia al ruolo cruciale della “vio-
lenza concentrata e organizzata dalla società” – ovvero del potere del-
lo Stato, che proprio nella transizione assume la forma di macchina –
nel determinare la transizione al capitalismo. Marx ricorda il ruolo
del sistema coloniale, del sistema del debito pubblico e del sistema
tributario e protezionistico moderno (K, I, p. 923): è un punto su cui
ha molto insistito nei suoi scritti degli anni Settanta Mario Tronti (cfr.
in particolare Tronti 1977, pp. 212 ss.). Le tesi trontiane vanno com-
prese e discusse tenendo conto del loro “contesto”, ovvero dell’ela-
borazione sull’autonomia del politico: ma la complicazione (sotto il
profilo storico non meno che sotto il profilo logico) del rapporto tra
politica, diritto ed economia (a partire da quella che Marx chiama “la
genesi extraeconomica della proprietà”, G, II, pp. 113 s.) che Tronti
derivava dalla lettura del capitolo 24 resta in ogni caso un’acquisi-
zione preziosa.
Dall’altra parte, l’agire della violenza viene analizzato da Marx
non guardando alla macchina statuale, alla “concentrazione” appun-
to della violenza, ma ai suoi effetti diffusi, sociali, dove in particolare
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 137

si tratta di portare alla luce il ruolo cruciale giocato dallo Stato, dalla
legislazione e dal diritto dapprima nel determinare le condizioni di
esistenza della forza lavoro come merce, poi nel regolare il salario e
la giornata lavorativa (K, I, p. 907). È da questo secondo punto di vi-
sta che Marx scrive pagine magistrali, quali quelle sulle enclosures e
sulla “legislazione sanguinaria” contro il vagabondaggio “quasi uni-
versale” che, Marx lo aveva affermato già nel 1847, nella Miseria del-
la filosofia (pp. 90 s.), precedette la creazione della fabbrica (e la na-
scita della classe operaia) nei primi secoli moderni: veri e propri mo-
delli di “storia sociale” riscoperti come tali nel corso degli anni Ses-
santa del Novecento, a partire dai grandi lavori di E.P. Thompson
(tra cui non si può non ricordare, ovviamente, Rivoluzione industria-
le e classe operaia in Inghilterra, 1963).

4. Una merce diversa dalle altre

Una considerazione a questo proposito. Sotto il profilo storiogra-


fico, un compito importante consiste nell’evidenziare maggiormente
di quanto Marx non faccia nel capitolo 24 il carattere duramente con-
flittuale dei processi sociali e delle condizioni complessive in cui l’ac-
cumulazione originaria si articola. Si tratta cioè, da una parte, di por-
re in risalto che la crisi dell’autorità feudale nelle campagne non vie-
ne prodotta da questi processi, che si inseriscono piuttosto in una
condizione segnata da rivolte – e da vere e proprie guerre – contadi-
ne che disarticolano il tessuto feudale dal suo interno (cfr. Dockès
1980; ma si tenga anche presente, sulla lunga durata dell’insubordi-
nazione contadina, Blickle 2003). Come ha scritto ad esempio in un
libro molto importante Theodore W. Allen, è stata la continuità di
questo movimento di insubordinazione, che si distende tra la cosid-
detta “Wat Tyler’s Rebellion” del 1381 in Inghilterra e le guerre con-
tadine degli anni Venti del Cinquecento in Germania, e non la bor-
ghesia a far saltare il sistema feudale (Allen 1997, pp. 14 s.). E lo stes-
so Allen ha richiamato l’attenzione sul ruolo delle proteste popolari
contro le recinzioni nel determinare, tre anni dopo la sua promulga-
zione, l’abolizione della legge inglese del 1547 che introduceva la
schiavitù come pena per il vagabondaggio (1 Edw. VI 3), e che avreb-
be posto le basi per l’istituzione di un sistema schiavistico nella stes-
sa Inghilterra (ivi, pp. 20-22).
Dall’altra parte si tratta di enfatizzare, lo hanno fatto tra gli altri
in modo particolarmente convincente Peter Linebaugh e Marcus Re-
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138 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

diker (2000; ma si tenga presente anche Linebaugh 1993), la plurali-


tà delle forme in cui si è espressa, molto spesso traducendosi in pra-
tiche e concrete rivendicazioni di mobilità, la resistenza dei “subal-
terni” alla proletarizzazione (alla loro trasformazione in “portatori”
di forza lavoro). Da questo punto di vista, del resto, non mancano
precise indicazioni marxiane. Basti pensare a un noto passo dei
Grundrisse: la massa dei soggetti espulsi dalle campagne si trovò, scri-
ve Marx, “ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita
della sua forza-lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio,
nella rapina. È constatato storicamente che essi hanno tentato in un
primo momento questa seconda via, e che da questa sono stati però
spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che
conduce al mercato del lavoro” (G, II, p. 138).
Ancora una volta si tratta di una questione di rilievo tutt’altro che
meramente “antiquario”: basta pensare all’impatto dei programmi di
aggiustamento strutturale sull’organizzazione sociale ed economica
delle campagne di molti Paesi africani negli anni Ottanta dello scor-
so secolo (alle New Enclosures da essi determinati) e alle migrazioni
transnazionali contemporanee per comprenderlo. La mobilità del la-
voro è del resto, già lo si è sottolineato, uno dei temi centrali nella
scena dell’accumulazione originaria costruita da Marx. E davvero va-
le la pena di ribadire che “non c’è capitalismo senza migrazioni” (cfr.
Mezzadra 2006, in specie parte II, cap. 5).
I movimenti dei “subalterni” (utilizzando questa categoria in ter-
mini rigorosi, per riferirsi a soggetti dominati che non sono ancora
stati “catturati” nel processo di proletarizzazione) sono dunque ele-
mento fondamentale del processo attraverso cui si determina la pro-
duzione della forza lavoro come merce (ovvero del processo di pro-
letarizzazione): ne definiscono il carattere antagonistico. Ed è impor-
tante sottolineare che questo antagonismo va distinto concettual-
mente dall’antagonismo tra lavoro e capitale (che presuppone l’av-
venuta produzione della forza lavoro come merce).
Ciò detto, a me pare che non sia del tutto convincente la propo-
sta di Beverly Silver, in un libro del resto molto bello (Silver 2003),
di distinguere due tipi di insubordinazione nella storia dei movimen-
ti del lavoro, denominando il primo – quello che si determina a fron-
te dei processi di “espropriazione” e di proletarizzazione – il “tipo
Polanyi” e il secondo – quello che si determina a fronte dei processi
di “sfruttamento” – il “tipo Marx”. Si tratta di formule, riconducibi-
li ai lavori di David Harvey (cfr. ad es. Harvey 2003, su cui si vedano
il “simposio” in “Historical Materialism”, XIV, 2006, 4, e le pertinen-
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 139

ti osservazioni critiche di Robinson 2007), che sono circolate ampia-


mente nel marxismo radicale statunitense degli ultimi anni, non di ra-
do conducendo a contrapposizioni analitiche che non mi paiono par-
ticolarmente produttive: al contrario, l’attenzione dovrebbe oggi con-
centrarsi sulle condizioni in cui i due “tipi” di conflitto tendono a so-
vrapporsi, riproponendo violentemente l’originaria articolazione, lo-
gica e storica, appunto di espropriazione e sfruttamento.
E questo accade in particolare proprio quando il “mercato del la-
voro” (l’insieme delle condizioni sociali, istituzionali, giuridiche, “an-
tropologiche” e spaziali che regolano lo scambio di forza lavoro con-
tro salario) viene messo in tensione fino a saltare, attraverso processi
che ripropongono in tutta la sua problematicità ciò che il mercato del
lavoro stesso assume come presupposto: ovvero, la continuità e la
“normalità” della produzione della forza lavoro come merce. Fissia-
mone le conseguenze in termini a noi familiari: la riapertura – sem-
pre duramente conflittuale – del problema della produzione della
forza lavoro come merce non ha ricadute esclusivamente sulle condi-
zioni della classe operaia (cfr. Perelman 2000, p. 33), ma entra piut-
tosto a determinarne la composizione. È, per molti aspetti, la situa-
zione in cui ci troviamo oggi.
Uno dei temi fondamentali del capitolo 24 è in effetti proprio l’a-
nalisi critica del processo di costituzione politica e giuridica del “mer-
cato del lavoro”. Il ruolo strategico giocato dalla violenza in questo
processo svolge ancora una volta una funzione polemica nei con-
fronti dell’economia classica, che aveva costruito le relazioni di mer-
cato proprio come relazioni non solo libere dalla violenza ma a essa
concettualmente contrapposte, e finisce per disarticolare la stessa ca-
tegoria di mercato del lavoro. Nulla v’è di “naturale”, ci dice Marx,
nel fatto che una classe di individui sia costretta, per riprodurre la
propria esistenza, a vendere la propria forza lavoro, la “merce” ap-
punto scambiata sul mercato del lavoro.
È un punto da evidenziare in particolare sullo sfondo dei dibatti-
ti contemporanei su salario e reddito: non per svolgere una critica
“volgare” delle ipotesi di lotta sul reddito, evidentemente, ma per
mostrare intera la complessità di queste ipotesi, che insistono su un
terreno strategico per la stessa esistenza del modo di produzione ca-
pitalistico. Quest’ultimo non può esistere, concettualmente, senza l’e-
lemento di coazione al lavoro di cui Marx traccia la genealogia nel ca-
pitolo sull’accumulazione originaria. La storia del capitalismo, sotto
la spinta incessante delle lotte operaie e proletarie, ha registrato l’at-
tivazione di molteplici dispositivi di “mitigazione” di questo elemen-
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140 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

to di coazione, di cui lo stesso Marx ci dà un saggio nell’analisi, an-


cora una volta metodologicamente magistrale, della giornata lavora-
tiva proposta nel capitolo 8 del primo libro del Capitale (si veda in
proposito Balibar 1993, pp. 101-103). Ma di “mitigazione” occorre
parlare, e non di annullamento (come avverrebbe in alcune ipotesi di
“reddito di esistenza”), poiché l’annullamento della coazione al la-
voro comporterebbe, molto semplicemente, la fine del modo di pro-
duzione capitalistico.
Volgiamoci ora, brevemente, a un altro testo recente che ha insi-
stito sul fatto che l’analisi marxiana dell’accumulazione originaria
“consente di leggere il passato come qualcosa che sopravvive nel pre-
sente”: mi riferisco al libro di Silvia Federici, Caliban and the Witch.
Women, the Body and Primitive Accumulation (2004, p. 12 per la ci-
tazione). Il libro di Federici è parte di uno sviluppo interno al mar-
xismo contemporaneo che, muovendo dalle posizioni dell’operaismo
rivoluzionario, è venuto concentrandosi sulla tematica dei commons
(si vedano ad esempio la rivista “The Commoner”, http://www.com-
moner.org.uk e i lavori di Massimo de Angelis e di Gorge Caffentzis).
Tematica di grande rilievo, evidentemente, che tuttavia è spesso de-
clinata in termini non del tutto soddisfacenti, come lo stesso libro di
Federici a mio giudizio mostra. Tornerò brevemente in conclusione
sul punto. Ma intanto il riferimento a Caliban and the Witch ci con-
sente di introdurre un’altra questione decisiva per l’analisi del pro-
cesso di produzione della forza lavoro come merce: il problema – su
cui è prevista una relazione all’interno di questo stesso ciclo semina-
riale (cfr. supra, “Nota ai testi”) e su cui vale la pena di rileggere al-
cuni testi classici del femminismo radicale degli anni Settanta (basti
qui ricordare i nomi di Selma James, Mariarosa Della Costa, Leopol-
dina Fortunati e Alisa del Re) – del rapporto tra produzione e ripro-
duzione della forza lavoro.
Sotto il profilo storiografico, Silvia Federici insiste sull’importan-
za delle molteplici forme di criminalizzazione, culminate nella caccia
alle streghe (ivi, pp. 163 ss.), dei tentativi da parte delle donne “sub-
alterne” di porre sotto controllo la propria funzione riproduttiva nel-
la crisi demografica che seguì la grande epidemia di peste del XIV se-
colo (ivi, pp. 40 ss.). Siamo qui di fronte a un’altra dimensione es-
senziale (e duramente conflittuale) dell’accumulazione originaria, in
effetti trascurata da Marx: al processo (occorre aggiungerlo? Decisa-
mente non “idilliaco”...) di razionalizzazione capitalistica della ses-
sualità attraverso cui prende forma una divisione sessuale del lavoro
che assegna alle donne la funzione prioritaria di riproduttrici della
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 141

forza lavoro. La condanna dei maleficia, dell’aborto e della contrac-


cezione segna come un basso continuo questo processo (ivi, p. 144),
al culmine del quale il corpo femminile è costruito letteralmente co-
me macchina per la riproduzione: “non è stata la macchina a vapo-
re”, scrive Federici, “e neppure l’orologio, la prima macchina, bensì
il corpo umano” (ivi, p. 146).
Il libro di Silvia Federici è importante anche per un’altra ragione:
analogamente al lavoro di Yann Moulier Boutang, anche Caliban and
the Witch contesta – ancora una volta: storicamente e concettual-
mente – l’identificazione marxiana tra modo di produzione capitali-
stico e lavoro salariato “libero” (ovvero, per citare un passo celebre,
presenza di “venditori della propria forza lavoro”, di “operai liberi
nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di
produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi ap-
partengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore di-
retto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza”, K, I, p. 880). Il punto è
ancora una volta decisivo, in particolare laddove si intenda davvero
prendere seriamente l’invito a “provincializzare l’Europa” e a consi-
derare la dimensione globale in cui si sviluppa fin dalle sue origini il
modo di produzione capitalistico: facendo questo, come già si è ac-
cennato, la “transizione” al capitalismo presenta una pluralità di for-
me di lavoro coatto che appunto “provincializzano” e dislocano la
“norma” del rapporto salariale.
La proposta di Yann Moulier Boutang di sostituire il concetto di
“lavoro dipendente” a quello di “lavoro salariato” come condizione
effettivamente necessaria allo sviluppo del modo di produzione ca-
pitalistico (e di ricomprendere il secondo come variante del primo,
di cui si tratta di studiare le peculiari condizioni storiche, sociali e
giuridiche) pare a me da accettare: essa salva infatti un aspetto es-
senziale dell’enfasi di Marx sul lavoro salariato “libero” (ovvero l’in-
sistenza, proprio nel capitolo 24, sul fatto che il capitale va inteso e
criticato come un rapporto sociale e non come una “cosa”, cfr. K, I,
p. 941), e consente al tempo stesso un’analisi maggiormente accurata
e flessibile sia delle diverse forme assunte dalla transizione sia delle
diverse forme di sottomissione del lavoro al capitale che contraddi-
stinguono il nostro presente “globale”.
Non casualmente, in questo senso, accennavo in precedenza al-
l’immagine marxiana dell’“incontro” tra il proprietario di denaro e il
proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza lavoro. A
partire da questa immagine ha scritto come noto, in un testo del
1982, pagine molto suggestive (ma anche piuttosto enigmatiche)
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142 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

Louis Althusser (1982, in specie pp. 106 ss.). In queste pagine è ben
presente, d’altronde, il riferimento all’analisi marxiana dell’accumu-
lazione originaria, che Althusser arriva a definire l’“autentico nu-
cleo” del Capitale (ivi, p. 109). La semantica di questo “incontro” an-
drebbe studiata con cura, a partire da un’analisi scrupolosa delle im-
plicazioni del verbo utilizzato da Marx nel passo citato sopra, ovvero
vorfinden (cfr. MEW, 23, p. 181, mentre in un passo del capitolo 24,
concettualmente equivalente, Marx scrive gegenüber und in Kontakt
treten, cfr. ivi, p. 742) – un “incontrare” che presuppone la presenza
previa di ciò che si incontra, una “storia precedente” dunque, ap-
punto una Vorgeschichte.
A me pare, in ogni caso, che lavorando sull’immagine dell’“in-
contro” si possa recuperare la sostanza di obiezioni e integrazioni
dell’analisi marxiana quali quelle proposte da Silvia Federici e Yann
Moulier Boutang. La preistoria dell’”incontro”, per dirla con una
battuta, può svolgersi in molte forme, e tra queste la tratta atlantica
non è necessariamente un’“eccezione” rispetto alle enclosures. Come
già si è detto, del resto, che tra i due processi esistessero cospicue
analogie era ben chiaro a Marx: già in un articolo del 1853, pubbli-
cato nella “New York Daily Tribune” e, per la parte che qui ci inte-
ressa, nel giornale cartista scozzese “The People’s Paper”, aveva irri-
so le simpatie abolizioniste della duchessa di Sutherland. Costei, se-
condo i metodi consueti dell’accumulazione originaria, aveva tra-
sformato in pastura per le pecore l’intera sua contea, determinando
tra il 1814 e il 1820 l’espulsione e lo “sterminio” sociale di oltre
15000 abitanti (la sostanza dell’analisi presentata nel 1853 è incor-
porata nel capitolo 24 del primo libro del Capitale: cfr. K, I, pp. 898
s.): “i nemici della schiavitù salariale inglese”, concludeva Marx,
“hanno il diritto di condannare e maledire la schiavitù dei negri; ma
una duchessa di Sutherland, un duca di Atholl, un signore del coto-
ne di Manchester mai!” (K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und
die Sklaverei, MEW, 8, p. 505).
L’“incontro”, dunque, può ben avvenire in una battuta di caccia,
o magari di pesca per riprendere il riferimento di Marx al destino di
una parte degli “aborigeni” (e si potrebbero proporre molte consi-
derazioni su questa scelta terminologica) espulsi dalle loro terre dal-
la duchessa di Sutherland “gettata sulla riva del mare” e che “cercò
di vivere di pesca”: “divennero anfibi e vissero, come dice uno scrit-
tore inglese, metà sul mare e metà sulla terra, e con tutto ciò trasse-
ro dall’uno e dall’altro solo di che vivere a metà” (K, I, p. 899; cfr. K.
Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW 8, p.
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 143

503). Quel che rimane costante tuttavia, e di cui il capitolo sull’accu-


mulazione originaria studia la genealogia, è la radicale differenza dei
due soggetti che “si incontrano” – e il cui rapporto costituisce il ca-
pitale. In un altro libro recente in cui è centrale la tematica della “ac-
cumulazione originaria”, molto influenzato sia da Althusser sia dal-
l’operaismo italiano, Jason Read ha molto insistito sulla produzione
di soggettività (ricordiamo quanto abbiamo letto nei Grundrisse:
“produzione di capitalisti e di operai salariati”) come elemento chia-
ve per il modo di produzione capitalistico: “produzione di soggetti-
vità nei due sensi del genitivo; da una parte la costituzione della sog-
gettività, di un particolare comportamento soggettivo, e dall’altra la
potenza produttiva della soggettività stessa, la sua capacità di pro-
durre ricchezza” (Read 2003, p. 153).
È un punto sviluppato in modo particolare da Read nell’analisi
del capitolo 24 del primo libro del Capitale, che gli serve tra l’altro
per riprendere e approfondire la distinzione (althusseriana) tra “eco-
nomia” e “modo di produzione” capitalistici. Leggiamo un altro bra-
no del libro di Read: “vi è una produzione di soggettività necessaria
alla costituzione del modo di produzione capitalistico. Perché un
nuovo modo di produzione, quale quello del capitale, sia istituito,
non è sufficiente che esso formi semplicemente una nuova economia,
deve istituirsi nelle dimensioni quotidiane dell’esistenza – deve dive-
nire abitudine” (ivi, p. 36). La polemica di Marx contro la rappre-
sentazione “idilliaca” della accumulazione originaria proposta dall’e-
conomia classica si presenta così nella sua piena luce, specificandosi
come un capitolo della più generale polemica da lui ingaggiata contro
l’immagine “astorica” della natura umana assunta dai classici dell’e-
conomia politica a fondamento delle loro analisi. E a ragione Read
sottolinea che in questione non è solo un problema di antropologia
filosofica (e politica), ma anche “il problema più pratico del luogo oc-
cupato nella storia dai desideri, dalle motivazioni e dalle credenze
umane (o dalla soggettività): il problema delle loro condizioni, dei lo-
ro limiti e dei loro effetti” (ivi, p. 20).
Desideri, motivazioni, credenze si presentano radicalmente scissi
nel modo di produzione capitalistico, secondo una linea che taglia la
soggettività distribuendo gli individui nelle due “classi” (sia qui in-
tanto concesso di utilizzare questo termine così impegnativo nel suo
semplice significato logico) dei possessori di denaro e dei possessori
di forza lavoro: il capitolo sull’accumulazione originaria traccia la ge-
nealogia di questa scissione, che conoscerà molteplici metamorfosi
nella storia del capitalismo ma che sarà destinata a riprodursi conti-
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144 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

nuamente, rendendo vano ogni discorso sulla “natura umana” che


pretenda appunto di richiamarsi a un astratto e disincarnato univer-
salismo. Fino a oggi.

5. Nella transizione

Oggi, ieri, l’altro ieri; il presente, la storia, la “preistoria”. Venia-


mo così all’ultima grande questione che abbiamo annunciato di vo-
ler trattare muovendo dall’analisi marxiana dell’accumulazione ori-
ginaria: la transizione. È un tema di formidabile rilievo e complessi-
tà, che da molti segni sembra stia tornando di attualità: l’ultimo libro
di Saskia Sassen (2006), ad esempio, è fondamentalmente uno studio
della transizione dagli assetti politici e giuridici “nazionali” agli as-
setti politici e giuridici “globali”, che ricostruisce la transizione dal-
l’ordine medievale all’ordine moderno per guadagnare una prospet-
tiva comparativa sul presente. Varrebbe la pena da questo punto di
vista, e lo si dovrà fare per meglio inquadrare e per sviluppare il no-
stro ragionamento, di ricostruire almeno tre grandi dibattiti nove-
centeschi sul tema della transizione: quello che vide contrapposti al-
l’inizio degli anni Trenta, all’interno della Scuola di Francoforte,
Franz Borkenau e Henryk Grossmann (cfr. Schiera, a cura di, 1978),
la polemica tra Paul Sweezy e Maurice Dobb che prese avvio sulle
pagine della rivista statunitense “Science and Society” negli anni Cin-
quanta (si veda per una, sintesi, Tronti 1977, pp. 207-227) e il dibat-
tito avviato dalla pubblicazione nel 1976, nella rivista “Past and Pre-
sent”, di un articolo di Robert Brenner (Agrarian Class Structure and
Economic Development in Pre-Industrial Europe), dibattito che rifor-
mulò molti dei temi centrali nella controversia tra Dobb e Sweezy co-
involgendo anche storici non marxisti (i testi fondamentali del dibat-
tito sono raccolti in Ashton, Philpin, a cura di, 1985).
Riattraversare questi dibattiti sarebbe utile in particolare per pre-
cisare l’insieme delle questioni al centro dell’analisi della transizione
al capitalismo: dal rapporto tra “struttura” e “sovrastruttura” a quel-
lo tra agricoltura, commercio, manifattura e industria. Qui ci con-
centreremo preliminarmente soltanto su un paio di punti, l’ultimo
dei quali decisamente eccentrico rispetto ai dibattiti “classici”. Non
prima tuttavia di avere sottolineato una questione ulteriore: ovvero il
fatto che il problema della transizione, da un punto di vista marxista,
riconduce sì continuamente alla “preistoria” del Capitale. Ma una
volta di più ci strappa allo studio meramente storiografico per proiet-
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 145

tarci nel presente. E nel futuro: l’analisi della transizione al capitali-


smo è cioè sempre, contemporaneamente, un ragionamento sulle for-
me della transizione al comunismo, a partire dall’esigenza di com-
prendere se il rapporto tra le due transizioni è un rapporto di omo-
logia o se piuttosto occorre assumere l’ipotesi di una radicale dis-
continuità tra di esse.
Lavoriamo qui sul tema della transizione a partire dal capitolo 24
del primo libro del Capitale. Segnaliamo di sfuggita che, anche sol-
tanto per meglio inquadrare le questioni di seguito indicate, sarebbe
necessario convocare una serie di altre fonti marxiane: sarebbe al-
meno necessario, in particolare, fare un uso meno rapsodico di quel-
lo qui fatto della sezione sulle “Forme che precedono la produzione
capitalistica” dei Grundrisse (cfr. Negri 1979, pp. 116-122, Carandi-
ni 1979 e Dussel 1998, pp. 240-243) e soprattutto, considerato il ri-
lievo che nella nostra analisi assume la questione del rapporto tra co-
lonialismo e transizione al capitalismo, l’insieme dei testi dedicati da
Marx al cosiddetto modo di produzione asiatico (il riferimento fon-
damentale continua a essere su questo problema il vecchio libro di
Sofri 1973; ma varrà la pena di riprendere criticamente anche alcune
osservazioni di Spivak 1999, pp. 91-126).
Riservando a un successivo approfondimento l’analisi di questi te-
sti, limitiamoci dunque, qui, a vedere tre grandi questioni collegate
alla transizione che il capitolo 24 del primo libro del Capitale ci con-
sente di impostare in modo particolarmente originale. Cominciamo
intanto da una conferma, relativa al tema del rapporto tra transizione,
borghesia e “rivoluzione borghese”. L’ultima categoria è stata al cen-
tro di un ampio dibattito negli ultimi anni, che ne ha mostrato intera,
molto spesso con un’intenzione polemica proprio contro la storio-
grafia marxista, la problematicità. Non dobbiamo temere di recepi-
re alcune delle acquisizioni fondamentali di questo dibattito. Proprio
le pagine dedicate da Marx all’accumulazione originaria mostrano in-
tera la correttezza di un’affermazione di Antonio Negri, in un saggio
del 1978 dedicato a una rilettura del dibattito tra Borkenau e Gros-
smann a cui si è in precedenza fatto cenno: “la mia convinzione di
fondo era e resta”, scriveva Negri ricordando il suo Descartes politico,
o della ragionevole ideologia (1970: il volume è da poco uscito in tra-
duzione inglese con una nuova introduzione, che si può leggere in
italiano in “Scienza & Politica”, 2004, 31), “quella che in generale
non si possa parlare di ‘rivoluzione borghese’ ma si debba parlare di
rivoluzione capitalistica (nella accumulazione originaria, manifattu-
riera, industriale e poi socialista), che la categoria della ‘borghesia
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146 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

come classe’ sia estremamente ambigua” (Negri in Schiera, a cura di,


1978, p. 139).
A me pare estremamente importante questo riferimento all’ambi-
guità della categoria di “borghesia come classe”. Non solo perché in
qualche modo anticipa gli sviluppi successivi della storiografia sulla
borghesia, che hanno da una parte mostrato la complessità delle me-
diazioni (politiche, giuridiche, “ideologiche”, culturali e scientifiche)
necessarie perché la borghesia possa costituirsi in soggetto unitario
(cfr. ad es. J. Kocka, a cura di, 1987 e soprattutto Schiera 1987) men-
tre dall’altra hanno insistito sulla “lunga durata” – quantomeno fino
alla Grande guerra – del rapporto simbiotico tra borghesia e nobiltà
che costituisce uno dei temi di fondo dell’analisi marxiana dell’accu-
mulazione originaria (cfr. Mayer 1981). Ma anche perché, mi sembra,
ci restituisce il concetto di classe libero da una serie di incrostazioni
“sociologiche” che su di esso si sono depositate nel tempo. E ci con-
sente di riappropriarcene nel suo originario significato marxiano, un
significato tutto politico (cfr. Mezzadra, Ricciardi 2002).
Veniamo a una seconda questione: il rapporto tra “sussunzione
formale” e “sussunzione reale” del lavoro al capitale. L’accumula-
zione originaria, scrive Marx, non può che essere caratterizzata dalla
“sottomissione (Unterordnung) formale” del lavoro al capitale, e
dunque dall’estrazione di “plusvalore assoluto” (di un plusvalore ot-
tenuto con la continua estensione della giornata lavorativa): “il mo-
do di produzione capitalistico non aveva ancora carattere specifica-
mente capitalistico” (K, I, p. 907), viveva appunto della “sussunzione
formale” (del dominio e dello sfruttamento) di modi di lavoro e for-
me di produzione non direttamente organizzati e rivoluzionati dal
capitale.
È ben nota l’importanza che il rapporto tra sussunzione formale
e sussunzione reale ha avuto all’interno della nostra discussione e del-
la nostra “tradizione” teorica. Per ragioni in primo luogo politiche, si
è a lungo trattato di insistere sulla qualità specifica della “sussunzio-
ne reale” (nonché dell’estrazione di “plusvalore relativo”). In tal mo-
do, tuttavia, un residuo di “storicismo” e di “progressismo” si è insi-
nuato nei nostri discorsi (uso i due concetti nel senso di D. Chakra-
barty, che in Provincializzare l’Europa si è soffermato sul problema di
cui stiamo discutendo), finendo spesso per rendere troppo lineare
quel metodo della lettura della tendenza che rimane comunque tra le
acquisizioni più preziose dell’operaismo italiano. Per quel che con-
cerne specificamente il rapporto tra sussunzione formale e sussun-
zione reale, ciò ha finito per esprimersi in un common sense secondo
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 147

cui i due concetti indicherebbero semplicemente due diverse “epo-


che” del modo di produzione capitalistico, destinate a succedere (ap-
punto linearmente) l’una all’altra.
Certo, Marx fa uso dei due concetti anche per descrivere trasfor-
mazioni (“transizioni”) interne al modo di produzione capitalistico:
e si possono ben leggere in questo senso testi giustamente famosi, co-
me il capitolo 13 del primo libro del Capitale (“Macchine e grande
industria”), il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, e lo stes-
so capitolo VI inedito del primo libro del Capitale (“Risultati del pro-
cesso di produzione immediato”), dove le categorie di “sussunzione
formale” e di “sussunzione reale” sono discusse con grande ampiez-
za e originalità. Ma proprio in quest’ultimo testo leggiamo che la sus-
sunzione formale costituisce al tempo stesso la “forma generale di
qualunque processo di produzione capitalistico” (K, I, p. 1237). Mi
pare un punto di grande importanza, che proprio l’analisi dell’accu-
mulazione originaria consente di valorizzare pienamente.
Cerchiamo di proporre una sintesi di alcune delle cose fin qui det-
te, di “portarle al concetto” come dicono i tedeschi. E facciamolo te-
nendo presenti le questioni dello “storicismo” e del “progressismo”.
In che senso abbiamo intitolato questo testo “Attualità della preisto-
ria”? La “preistoria del capitale”, la sua “storia precedente” (Vorge-
schichte) è e al tempo stesso non è storia del capitale. Marx lo affer-
ma con assoluta chiarezza in un passo della sezione dei Grundrisse
sulle “Forme che precedono la produzione capitalistica”: una serie
di condizioni fondamentali del rapporto di produzione capitalistico
(“una certa abilità di mestiere, lo strumento come mezzo di lavoro,
ecc.”), “in questo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso
la trova già esistente. [...] Il processo storico [della sua produzione]
non è il risultato, ma un presupposto del capitale” (G, II, pp. 135 s.).
D’altro canto, questa peculiare struttura temporale (per cui il tempo
del capitale vive in un rapporto di dipendenza con altri tempi storici,
che non sono suoi propri) contraddistingue nel suo complesso la
“sussunzione formale”, nella misura in cui i modi di lavoro e le for-
me di produzione che la contraddistinguono non sono direttamente
organizzati dal capitale (e dunque sono anch’essi trovati “già esisten-
ti” dal capitale stesso). Lo aveva del resto perfettamente colto già
Rosa Luxemburg, all’inizio dello scorso secolo, sottolineando che il
capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo sviluppo, “di
un ambiente costituito da forme di produzione non-capitalisti-
che” (Luxemburg 1913, p. 363). Ma se prendiamo sul serio l’affer-
mazione precedentemente citata, secondo cui la “sussunzione for-
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148 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

male” è anche la “forma generale di qualunque processo di produ-


zione capitalistico”, la sconnessione temporale di cui stiamo parlando
si inscrive al cuore stesso del concetto di capitale, determinandone
logicamente la struttura.
Questa sconnessione è in fondo riconducibile proprio al rapporto
tra storia e “preistoria” del capitale. Già lo abbiamo detto: questo
rapporto si riapre continuamente nello sviluppo capitalistico, nel suo
quotidiano funzionamento. Ora possiamo aggiungere: progressismo
e storicismo sono sì inscritti nel codice temporale del capitale (e la
critica deve renderne conto), ma ne costituiscono soltanto un vettore
(in fondo letteralmente e profondamente utopico), continuamente in-
terrotto dalla violenta (catastrofica, se vogliamo giocare con i termini
benjaminiani) riapertura del problema dell’origine. Ovvero dal con-
tinuo ripetersi della transizione, termine che oltre a designare il mo-
mento storico appunto dell’origine del capitalismo ben si presta a in-
dicare alcuni tratti fondamentali del suo quotidiano funzionamento,
che balzano in superficie in modo particolare nei grandi momenti di
trasformazione del capitalismo stesso.
Considerato nella sua lunga durata storica e nella sua dimensione
di sistema mondo, il capitalismo è del resto strutturalmente caratte-
rizzato dalla compresenza di sussunzione formale e di sussunzione
reale, di plusvalore assoluto e di plusvalore relativo. A me pare che il
capitalismo contemporaneo porti alle estreme conseguenze questa
compresenza, proprio nella misura in cui, come ha scritto in modo
efficacissimo alcuni anni fa Paolo Virno, uno dei suoi tratti costituti-
vi consiste nel determinare una sorta di “esposizione universale” dei
modi di lavoro e delle forme di produzione che hanno segnato la sua
storia. E si badi: tanto più intenso è il riemergere di sussunzione for-
male e di plusvalore assoluto (con il carico di violenza che è a essi
connaturato) laddove si riapre la questione della produzione della
forza lavoro come merce, laddove cioè quest’ultima non può più es-
sere assunta come presupposto scontato e “regolato” del “mercato
del lavoro”. Non a caso, il concetto di “sussunzione formale” è stato
riproposto, nella nostra discussione degli ultimi anni, da quanti han-
no ragionato sui dispositivi di “cattura” e sfruttamento del “lavoro
cognitivo” (cfr. Vercellone 2006, in specie pp. 55 s.) e da quanti han-
no assunto come tema di ricerca il lavoro migrante e le forme del suo
dominio (cfr. Ricciardi, Raimondi, a cura di, 2004, Mezzadra 2006 e
Rigo 2007).
Non si derivi d’altro canto da questo accostamento (né dall’acco-
stamento ampiamente circolante tra lavoro precario e lavoro mi-
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 149

grante) l’idea che le condizioni di una “ricomposizione” tra le figure


soggettive del lavoro a cui questi concetti fanno riferimento sia qual-
cosa di automatico e “spontaneo”. Il ragionamento svolto sulla com-
presenza di sussunzione formale e sussunzione reale conduce piutto-
sto a evidenziare la radicale eterogeneità delle figure e delle posizio-
ni soggettive che compongono oggi il lavoro vivo, eterogeneità che
costituisce al tempo stesso un elemento di ricchezza e un problema
politico. Da qui deve a mio giudizio ripartire il dibattito sulla cate-
goria di moltitudine.
D’altro canto, è opportuno sottolineare che la compresenza di
sussunzione formale e sussunzione reale, fin qui analizzata nei termi-
ni delle strutture della temporalità, ha importanti implicazioni anche
per un ragionamento su quelle che possiamo definire le coordinate
spaziali del capitalismo contemporaneo. Per dirla in breve: mentre in
altre fasi dello sviluppo capitalistico sussunzione formale e sussun-
zione reale si distribuivano tendenzialmente all’interno di diversi spa-
zi (seguendo la distinzione tra “centro” e “periferia”, “primo” e “ter-
zo mondo”), oggi insiste all’interno di ogni area capitalistica. Di nuo-
vo: non ne consegue certo l’irrilevanza delle differenze tra i diversi
“spazi”, ma i confini tra essi – come hanno messo in evidenza Mi-
chael Hardt e Antonio Negri in Impero (2000) – si fanno mobili e po-
rosi. E ne conseguono decisive implicazioni.
Mi limito a un unico esempio: mentre precedenti fasi dello svi-
luppo capitalistico sono state caratterizzate dal predominio di una
particolare branca della produzione, di un particolare “ciclo di pro-
dotto” (prima il tessile, poi l’automobile), attorno a cui si definivano
gli equilibri interni al “capitale complessivo” e i rapporti gerarchici
tra le diverse aree del sistema mondo capitalistico, oggi risulta estre-
mamente difficile applicare questo modello, centrale nell’intera teoria
del sistema mondo e in particolare nella variante dei cicli delle ege-
monie proposta da Giovanni Arrighi (ad es. 1994). È esemplare a
questo riguardo la conclusione a cui perviene Beverly Silver, piena-
mente interna a questa “scuola”, nel libro citato in precedenza. Nel
tentare di individuare il “ciclo di prodotto” che imprime il proprio
segno al capitalismo contemporaneo, Silver ne rintraccia almeno tre:
l’“industria dei semiconduttori” (a cui si collega nel suo complesso il
“lavoro cognitivo”), i “servizi ai produttori” e i “servizi alla persona”
(Silver 2003, pp. 103-123). È facile far notare che la semplice circo-
stanza che i “cicli di prodotto” individuati siano ben tre segnala una
trasformazione piuttosto radicale rispetto a precedenti “cicli”. Ma il
punto fondamentale è a mio giudizio che questi tre “cicli di prodot-
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150 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

to” attraversano il capitalismo contemporaneo nell’interezza della sua


articolazione spaziale: e a variare sono piuttosto le interne propor-
zioni dell’articolazione tra di essi, nonché della loro articolazione con
altri settori dell’economia.
Ma torniamo alla questione della temporalità, per affrontare un
terzo e ultimo problema collegato al tema della “transizione”. Il dis-
corso precedentemente sviluppato sulla sconnessione temporale in-
scritta all’interno del concetto stesso di capitale si è svolto sul filo del
confronto – oltre che con alcune intuizioni di Étienne Balibar ricor-
date nel secondo paragrafo – con l’analisi del rapporto tra “lavoro
astratto” e “lavoro vivo” proposta da Dipesh Chakrabarty nel secon-
do capitolo di Provincializzare l’Europa. Non si tratta di assumerla in
toto, d’altro canto. A me pare, in particolare, che il ragionamento di
Chakrabarty non faccia sufficientemente i conti con l’insieme dei
problemi di cui qui si è trattato a proposito della produzione di quel-
la merce assolutamente peculiare che è la forza lavoro, limitandosi a
svolgere la questione (del resto assolutamente fondamentale) del ne-
cessario processo di disciplinamento del “lavoro vivo” – ovvero del-
la sua riconduzione alla “norma” del “lavoro astratto”. Il contributo
di Chakrabarty resta tuttavia di grande importanza: le “due storie del
capitale” da lui distinte – l’una (la “Storia 1”) interamente dominata
dalla temporalità “omogenea e vuota” del “lavoro astratto”, l’altra (la
“Storia 2”) costretta a registrare l’eterogeneità costitutiva del “lavo-
ro vivo” – consentono di approfondire e precisare molte delle tesi qui
presentate.
In un saggio scritto con Federico Rahola (supra, cap. I), ho in par-
ticolare cercato di porre in relazione il discorso di Chakrabarty da
una parte con l’analisi del rapporto tra il “singolare collettivo” Sto-
ria e il plurale delle storie sviluppata da Reinhart Koselleck nella sua
storia concettuale della modernità, dall’altra con l’analisi della strut-
tura del tempo storico proposta da Paolo Virno nel suo Il ricordo del
presente (1999). Quel che ci stava a cuore affermare era in buona so-
stanza che anche la tensione tra la Storia e le storie (“risolta” nella
transizione alla modernità) sembra oggi riaprirsi nella quotidianità
del funzionamento del capitalismo globale, nella misura in cui esso è
costretto a fare dell’eterogeneità costitutiva dei tempi storici che in-
contra il terreno strategico su cui si ridefinisce la valorizzazione del
capitale. E in questo modo, finisce per venire in superficie quella ten-
sione tra potenza e atto che, appunto secondo l’analisi di Virno, sta
al fondo della stessa possibilità dell’esperienza storica.
Non torno qui su questo punto, per quanto sia ben consapevole
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 151

della necessità di una sua maggiore articolazione. Vorrei soltanto fa-


re due ulteriori considerazioni muovendo dal testo di Chakrabarty.
La prima riguarda il carattere cruciale, per una ricerca sulla “trans-
izione” al capitalismo e sull’accumulazione originaria, del confronto
con il colonialismo. Nel capitolo 24 del primo libro del Capitale il ri-
ferimento al colonialismo è ben presente, ma in buona misura resta
interno a una rappresentazione del colonialismo stesso come impre-
sa “di rapina” e non guarda alla specificità dei rapporti sociali da es-
so prodotti al di fuori dell’Europa (mentre il capitolo successivo, de-
dicato come si è detto alla “Teoria moderna della colonizzazione”, si
concentra essenzialmente sul colonialismo settler).
Assumere pienamente il punto di vista coloniale sul tema della
transizione, al contrario, conduce da una parte a ridisegnare la sua
stessa “geografia”, ponendo in discussione ogni rapporto lineare tra
centro e periferia del sistema mondo capitalistico fin dalla sua “au-
rora” (ho cominciato a sviluppare questo problema supra, cap. III);
mentre dall’altra – lo ha rilevato ad esempio Partha Chatterjee, un al-
tro protagonista, come Chakrabarty, dello sviluppo dei “Subaltern
Studies”, intervenendo nel “dibattito Brenner” (Chatterjee 1983) –
pone di fronte a situazioni in cui l’“eterogeneità” storica e “culturale”
delle condizioni in cui si determina il violento avvio dello sviluppo
capitalistico a fronte della “storia 1” del capitale è ancora maggiore
rispetto all’Europa occidentale, imponendo “soluzioni” anch’esse ra-
dicalmente eterogenee (ovvero una combinazione di dispositivi di
dominio e di sfruttamento di diversa natura e di diversa “origine”).
La seconda considerazione consiste nel segnalare il fatto, seguen-
do ancora l’analisi di Chakrabarty, che proprio per quest’ultima ra-
gione nelle condizioni del dominio coloniale emerge in modo parti-
colarmente chiaro il nesso che stringe transizione e traduzione (Cha-
krabarty 2000, pp. 34 s. e 102; ma si veda anche supra, cap. VI). Po-
niamo questo nesso nei termini più semplici possibili: perché si de-
termini la transizione al capitalismo è necessario che le condizioni
storicamente e “culturalmente” eterogenee che il capitale incontra e
sussume sotto di sé siano tradotte nei codici che governano la “Sto-
ria 1” del capitale, e in particolare nel codice del “lavoro astratto”,
inteso come “la chiave interpretativa della griglia con cui il capitale
ci chiede di osservare il mondo” (ivi, p. 82). Ma se quanto si è affer-
mato precedentemente a proposito della peculiare “qualità” del tem-
po storico nel capitalismo globale ha una qualche plausibilità, è le-
gittimo fare un passo ulteriore: e affermare che questo nesso tra
transizione e traduzione, ancora una volta particolarmente evidente
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152 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

all’origine del modo di produzione capitalistico, designa uno dei fon-


damentali modi di operare del capitalismo contemporaneo.
Mi pare un’acquisizione di una certa importanza, nella misura in
cui ci consente di guadagnare una prospettiva particolarmente effi-
cace a partire dalla quale guardare alla centralità assunta oggi dal te-
ma della traduzione nei dibattiti di teoria culturale e di teoria politi-
ca. Così ridefinita, la traduzione si mostra intera da una parte nella
sua natura affatto materiale, perdendo ogni aura “culturalista”, dal-
l’altra nella sua ambivalenza (cfr. Adamo 2007, p. 205): terreno fon-
damentale di lavoro per la costruzione di pratiche politiche e di pro-
gettualità “alternative” (come ben sa, banalmente, chiunque abbia
partecipato a un’assemblea di migranti), essa è altresì cruciale nella
continua ricomposizione e trasformazione dei dispositivi di dominio
e di sfruttamento. Lungi dall’appartenere all’empireo di una ideale
comunità habermasiana della comunicazione, essa intrattiene cospi-
cue relazioni proprio con la “levatrice della storia” – con la violenza.
Per tornare a un libro che abbiamo menzionato all’inizio del testo,
quello di Anna Lowenhaupt Tsing che pure insiste sul nesso tra
transizione al capitalismo e traduzione (cfr. Tsing 2005, p. 31) e che
mostra come lo scontro tra i partigiani e gli oppositori dei progetti
delle grandi corporation giapponesi nelle foreste pluviali indonesiane
si sia giocato tra l’altro proprio sul terreno della traduzione (cfr. ivi,
pp. 211 s.), sarà bene prestare particolare attenzione all’ambivalenza
delle “frizioni” (o meglio ancora degli attriti) che il nesso indicato de-
termina.

6. Alla ricerca del comune. Del comunismo

Una postilla per concludere. Una postilla davvero stenografica per


indicare – ancora una volta – un grande tema che l’analisi marxiana
dell’accumulazione originaria ci consegna. È il tema, che già abbia-
mo del resto annunciato, dei commons, di quelle terre e di quei dirit-
ti comuni su cui, all’origine del modo di produzione capitalistico,
operano le “recinzioni”, ritagliando – istituendo violentemente – lo
spazio della proprietà privata. Marx se n’era occupato già giovanissi-
mo, in una serie di articoli sulla “legge contro i furti di legna” scritti
nell’autunno del 1842 per la “Gazzetta renana”. Anche questi testi
sono stati riscoperti negli anni Sessanta, nella grande stagione della
“history from below” (cfr. in particolare Thompson 1975, p. 258, no-
ta 61): per quel che ci riguarda, ci limitiamo a segnalare l’estremo in-
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ATTUALITÀ DELLA PREISTORIA 153

teresse delle riflessioni qui svolte da un Marx impegnato nel con-


fronto critico con la Scuola storica del diritto a difesa dei “diritti con-
suetudinari della plebe” che, a differenza di quelli della nobiltà (de-
finiti, con lessico hegeliano, “consuetudini contro il concetto del di-
ritto razionale”), “sono diritti contro la consuetudine del diritto po-
sitivo” (Furti di legna, p. 187). Di un diritto positivo che – sanzio-
nando appunto in nome della proprietà privata la “consuetudine”
popolare di raccogliere legna nei boschi – attacca una delle basi fon-
damentali della riproduzione dei poveri nelle campagne: “trionfino
gli idoli di legno”, scrive Marx anticipando i toni del capitolo 24 del
primo libro del Capitale, “e cadano le vittime umane!” (ivi, p. 180).
Non si può dire dunque che Marx sia insensibile di fronte all’at-
tacco portato ai diritti e alle terre comuni nel contesto dell’accumu-
lazione originaria. E gli scritti tardi sulla Russia, che già abbiamo ri-
cordato, lasciano ampio spazio all’ipotesi politica che le lotte a difesa
dei commons tradizionali (in questo caso il riferimento è alla obscina,
la comunità rurale russa) possano aprire imprevisti scenari di trans-
izione diretta al comunismo. Ma nell’insieme il giudizio di Marx,
sprezzante nei confronti della ricostruzione apologetica dell’origine
del capitalismo offerta dall’economia classica e volgare, si tiene a di-
stanza di sicurezza dai toni nostalgici ad esempio di un Sismondi che,
nella sua “filantropia ipocondriaca”, è preoccupato soltanto di con-
servare il passato e distoglie lo sguardo dall’antagonismo che segna il
presente (traggo la citazione da K. Marx, Flüchtingsfrage – Wahlbe-
stechung in England – Mr. Cobden, MEW, 8, p. 544). Negazione del-
la negazione: la figura dialettica, per quanto consunta, ben si presta
a indicare il punto di vista marxiano.
Ecco, ho l’impressione che nel dibattito contemporaneo sul tema
dei commons, precedentemente richiamato, i toni nostalgici (la “fi-
lantropia ipocondriaca”) tendano al contrario troppo spesso a pre-
valere, come se appunto i “beni comuni” – rigorosamente declinati
al plurale – fossero esclusivamente qualcosa di dato – e appunto da
conservare. È sintomatico, in questo senso, il libro di Silvia Federici,
Caliban and the Witch, che pure ho per altri versi valorizzato: muo-
vendo dalla sacrosanta enfasi posta sui comportamenti autonomi e
sulla resistenza delle donne nelle campagne tra medioevo e prima età
moderna ai tentativi di porre sotto controllo la loro sessualità, Fede-
rici finisce infatti per proporre una rappresentazione a tratti “idillia-
ca”, e decisamente insostenibile, del feudalesimo europeo!
Quello dei commons, su cui concludiamo la nostra analisi del ca-
pitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capitale, è in
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154 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE

ogni caso – lo ripetiamo – un tema al tempo stesso cruciale e com-


plesso. Coinvolge evidentemente questioni del tutto pratiche (si pen-
si, per fare un paio di esempi tra loro eterogenei, all’acqua, ai servizi
pubblici, ai diritti di proprietà intellettuale) e si collega d’altra parte,
in termini filosofici e politici, alla stessa semantica della comunità, su
cui circolano nel dibattito degli stessi movimenti semplificazioni spe-
culari a quelle indicate a proposito dei commons. Non solo non lo
esaurirò, ma non lo svolgerò neppure in questa sede. Basti un cenno,
che è al tempo stesso un’indicazione per una ricerca necessariamen-
te collettiva: occorre prendere congedo da un’immagine dei commons
come qualcosa di esclusivamente già dato ed esistente, e lavorare al-
l’ipotesi che il comune sia qualcosa che deve essere prodotto, co-
struito da un soggetto collettivo capace, nel processo della sua stessa
costituzione, di distruggere le basi dello sfruttamento e di reinventa-
re le condizioni comuni di una produzione strutturata sulla sintesi di
libertà e uguaglianza. Che cos’altro è il comunismo, il “sogno di una
cosa” che dobbiamo tornare finalmente a sognare?
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MARGHERITA PASCUCCI, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza, Prefazione di An-
tonio Negri
GILLES MÉNAGE, Storia delle donne filosofe, a cura di Alessia Parolotto, Prefazione di
Chiara Zamboni
SLAVOJ -I=EK, America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità
ESTHER COHEN, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento
PIPPO RUSSO, L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante
AGOSTINO PETRILLO, Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova
ENZO TRAVERSO, Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco
GILLES DELEUZE, FÉLIX GUATTARI, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia
PHILIPPE MESNARD, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della soffe-
renza
UBALDO FADINI, Figure del tempo. A partire da Deleuze/Bacon
ERVIN GOFFMAN, Stigma. L’identità negata
ALESSANDRO DAL LAGO, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre
BRUNO ACCARINO (a cura di), La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell’equilibrio
GILLES DELEUZE, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Introdu-
zione e cura di Ubaldo Fadini (nuova edizione accresciuta)
RANAJIT GUHA, GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK, Subaltern Studies. Modernità e (post) co-
lonialismo, a cura di Sandro Mezzadra
PAOLO VIRNO, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente
LOÏC WACQUANT, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale
ALESSANDRO DE GIORGI, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della molti-
tudine (ristampa)
MICHEL FOUCAULT, Raymond Roussel, Introduzione e cura di Massimiliano Guareschi
ALESSANDRO DAL LAGO, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di
controllo (terza ristampa)
ANDREA FUMAGALLI, CHRISTIAN MARAZZI, ADELINO ZANINI, La moneta nell’Impero,
Prefazione di Antonio Negri
MAURIZIO LAZZARATO, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività
FÉLIX GUATTARI, Piano sul pianeta. Capitale mondiale integrato e globalizzazione, Intro-
duzione di Franco Berardi “Bifo”
FRANCO BERARDI “BIFO”, Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione
PHILIPPE ZARIFIAN, L’emergere di un popolo mondo. Appartenenza, singolarità e diveni-
re collettivo
11 biblio 18-01-2008 0:37 Pagina 174

FRANÇOIS ZOURABICHVILI, Deleuze. Una filosofia dell’evento


MARIO PERNIOLA, Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille
JACQUES DERRIDA, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di Giuseppe
Sertoli
HANNAH ARENDT, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Introduzione e cura
di Guido D. Neri (quarta ristampa)
GILLES DELEUZE, CLAIRE PARNET, Conversazioni, Postfazione di Antonio Negri
PAUL VEYNE, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, a cura di Massimilia-
no Guareschi
ADELINO ZANINI, Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx, Introduzione di
Giorgio Lunghini

AMERICANE

MARIO CORONA, Un Rinascimento impossibile. Letteratura, politica e sessualità nell’ope-


ra di Francis Otto Matthiessen
STEFANO ROSSO (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel ci-
nema
JOHN COLLINS, ROSS GLOVER (a cura di), Linguaggio collaterale. Retoriche della guerra al
terrorismo
ROBERO CAGLIERO (a cura di), Fantastico Poe
CYRIL LIONEL ROBERT JAMES, Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e
il mondo in cui viviamo, Postfazioni di Bruno Cartosio e Giorgio Mariani, Nota
biobibliografica di Enzo Traverso
GIORGIO MARIANI, La penna e il tamburo. Gli Indiani d’America e la letteratura degli
Stati Uniti
ROBERTO CAGLIERO, FRANCESCO RONZON (a cura di), Spettri di Haiti. Dal colonialismo
francese all’imperialismo americano
OLIVIERO BERGAMINI, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati Uni-
ti
MARCO SIOLI, Esplorando la nazione. Alle origini dell’espansionismo americano

TRACCE

GLORIA BIANCHETTI, Voci del Mare. Melville, Conrad, Pratt


JEAN-LUC NANCY, La città lontana, con una conversazione con l’autore a cura di Pie-
rangelo Di Vittorio
NANCY SCHEPER-HUGHES, Il traffico di organi nel mercato globale (ristampa)
JEAN-BAPTISTE BOTUL, La vita sessuale di Immanuel Kant, Presentazione di Frédèric Pa-
gès, Postfazione di Luca Toni
OLIVIER RAZAC, Storia politica del filo spinato. La prateria, la trincea e il campo di con-
centramento (ristampa)

DOCUMENTA

LORENZO BERTUCELLI, MILA ORLIĆ (a cura di), Una storia balcanica. Fascismo, comuni-
smo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento
COSTANTINO DI SANTE, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra ita-
liani in Jugoslavia (1941-1952)
11 biblio 18-01-2008 0:37 Pagina 175

GIULIETTA STEFANI, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere
MICHAEL TREGENZA, Purificare e distruggere. I. Il programma “eutanasia” Le prime ca-
mere a gas naziste e lo sterminio dei disabili (1939-1941)
JAVIER RODRIGO, Vencidos. Violenza e persecuzione politica nella Spagna di Franco
RÉGINE ROBIN, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria
COSTANTINO DI SANTE (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i pro-
cessi negati (1941-1951)
11 biblio 18-01-2008 0:37 Pagina 176

Finito di stampare nel mese di febbraio 2008


per conto di ombre corte
da Global Service - S. Giustino (PG)

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