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Sandro Mezzadra
University of Bologna
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Sandro Mezzadra
La condizione postcoloniale
Negli ultimi anni gli “studi postcoloniali” hanno arricchito la nostra com-
prensione della storia della modernità e del presente globale, portando La condizione postcoloniale
alla luce il ruolo costitutivo che ha giocato nella definizione di entram-
bi il progetto coloniale dell’Europa e dell’Occidente. Introdotti anche nel Storia e politica nel presente globale
nostro paese attraverso un congruo numero di traduzioni di testi, auto-
ri come Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee, Achille Mbembe, Ga-
yatri Chakravorty Spivak e Robert J.C. Young sono divenuti riferimenti
La condizione postcoloniale
obbligati nei dibattiti storiografici e teorico-politici, oltre che antropo-
logici e sociologici.
Questo volume presenta il lavoro di uno degli studiosi che hanno mag-
giormente contribuito alla ricezione italiana dei temi e degli autori “post-
coloniali”. In una serie di saggi, l’autore indaga i caratteri salienti della
“condizione postcoloniale”, si interroga sul ruolo che l’esperienza colo-
niale ha avuto nella definizione della storia e dei concetti politici fonda-
mentali della modernità, rintraccia l’eredità del colonialismo nelle politi- ombre corte / culture
che europee di controllo delle migrazioni e si interroga sull’apporto che
dagli studi postcoloniali può venire per una teoria critica della politica al-
l’altezza delle sfide del mondo globale contemporaneo.
Quel che ne risulta è un quadro di estrema attualità sia di un settore di
studi in espansione, come quello appunto postcoloniale, sia di alcuni trat-
ti salienti del nostro presente.
SANDRO MEZZADRA insegna “Studi coloniali e postcoloniali” e “Le frontiere della citta-
dinanza” nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Attualmente è “vi-
siting fellow” presso il Centre for Cultural Research della University of Western Sydney.
Tra i suoi lavori: La costituzione del sociale. Il pensiero giuridico e politico di Hugo Preuss,
Il Mulino, 1999 e, come curatore, I confini della libertà. Per una analisi politica delle mi-
grazioni contemporanee, DeriveApprodi, 2004. Per i nostri tipi ha pubblicato Diritto di
fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione (nuova edizione accresciuta, 2006).
ombre corte
Euro 16,00
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Sandro Mezzadra
La condizione postcoloniale
Storia e politica nel presente globale
ombre corte
2 indice 18-01-2008 0:11 Pagina 4
ISBN: 978-88-95366-09-8
2 indice 18-01-2008 0:11 Pagina 5
Indice
7 Introduzione
20 Nota ai testi
127 APPENDICE
Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del pri-
mo libro del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria”
1. L’accumulazione originaria, oggi; 2. Questioni di metodo; 3. Per la critica
dell’economia classica (e “volgare”); 4. Una merce diversa dalle altre; 5. Nella
transizione; 6. Alla ricerca del comune. Del comunismo
155 Bibliografia
3 introduzione 18-01-2008 0:15 Pagina 7
Introduzione
8 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
INTRODUZIONE 9
10 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
erente nel mondo anglosassone a partire dalla metà degli anni Ot-
tanta. Miguel Mellino (2005, in specie capp. I e II) lo ha fatto in mo-
do egregio ed esaustivo, mostrando come, a partire dalla pubblica-
zione di Orientalismo di Edward Said (1978), un insieme di testi ab-
bia da una parte registrato la radicale innovazione teorica determi-
nata dalla centralità che assumeva in quel libro l’analisi critica del di-
scorso coloniale; e come, dall’altra parte, la critica postcoloniale ab-
bia messo in discussione i caratteri monolitici che il discorso colo-
niale tendeva ad assumere nel lavoro di Said, concentrandosi sui pro-
cessi di ibridazione, negoziazione e resistenza che l’intervento dei
soggetti colonizzati ha iscritto fin dalle origini della modernità nella
trama di quel discorso.
Quel che è importante sottolineare in questa sede è piuttosto il ri-
schio implicito nella tardiva ricezione italiana degli studi postcolo-
niali. Non è d’altronde un fenomeno soltanto italiano: in Francia è
stata necessaria la rivolta delle banlieues nell’autunno del 2005 per
aprire le porte dell’accademia agli studi postcoloniali e per introdur-
li nel mercato editoriale (cfr. Mbembe 2005; Ivekovic 2006 e 2007;
Smouts, a cura di, 2007). L’Europa continentale nel suo complesso
sembra essere stata a lungo riluttante ad accogliere il contributo di
questi studi, ed è questa una delle ragioni per cui, come appare chia-
ro da alcuni capitoli di questo libro (il quarto e il quinto in partico-
lare), ho collocato proprio nella dimensione europea il mio confron-
to con essi. Il punto è, tuttavia, che la ricezione tardiva pare spesso
accompagnarsi all’idea che il postcolonialismo sia una sorta di para-
digma unitario, da accogliere o respingere in toto, tra l’altro proprio
mentre nel mondo anglosassone il campo degli studi postcoloniali sta
letteralmente implodendo, frantumandosi in una serie di ricerche
specialistiche, dopo che la sua agenda ha contribuito a riorientare
complessivamente il dibattito all’interno delle scienze umane e sociali
(Loomba et alii, a cura di, 2005). La distinzione tra condizione post-
coloniale e postcolonialismo, presentata nel primo capitolo, tenta pre-
cisamente di cogliere le opportunità implicite in questa situazione,
ponendo le basi per un uso più libero delle categorie e delle acquisi-
zioni della critica postcoloniale nella definizione di un nuovo para-
digma del pensiero critico.
INTRODUZIONE 11
12 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
INTRODUZIONE 13
vere l’insieme dei processi che hanno condotto alla fine del Terzo
mondo e alla crisi contemporanea della divisione internazionale del
lavoro. Uno dei centri attorno a cui si è organizzato il mio confronto
con gli studi postcoloniali è stato precisamente il tentativo di descri-
vere il vero e proprio terremoto che i processi di globalizzazione de-
terminano nelle mappe e nella geografia politica, economica, cultu-
rale che abbiamo ereditato dalla modernità. E un’importanza cre-
scente, sia sotto il profilo analitico sia sotto il profilo medotologico,
è andata assumendo nel mio lavoro degli ultimi anni il concetto di
confine, di cui indago le metamorfosi nel contesto europeo nei capi-
toli quarto e quinto del libro.
È il caso di ripetere che parlare di fine del Terzo mondo e di crisi
della divisione internazionale del lavoro non significa affermare che
lo spazio globale sia uno spazio “liscio”, che abbiano cessato di esse-
re operativi criteri di organizzazione gerarchica articolati su scala ter-
ritoriale. Al contrario, la centralità attribuita all’analisi dei processi
globali di moltiplicazione dei confini riporta continuamente l’atten-
zione sulle “striature” dello spazio globale, individuando in esse dis-
positivi essenziali alla ridefinizione dei rapporti di sfruttamento e
dominio (nonché siti privilegiati per l’analisi dei persistenti attriti tra
il comando capitalistico e le logiche della sovranità). Il punto fonda-
mentale che si vuole tuttavia sottolineare è che queste “striature”
hanno cessato di organizzare in modo coerente la geografia politica
ed economica planetaria distinguendo tra loro spazi internamente
omogenei e chiaramente differenziati. È in questo contesto che, co-
me scrivono nella prefazione a un libro recente Jean Comaroff e John
L. Comaroff,
le postcolonie sono divenute luoghi cruciali per la produzione di teoria so-
ciale: di teoria sociale sui generis, non semplicemente di una teoria antro-
pologica riferita alle vite e ai tempi di quei mondi un tempo conosciuti co-
me secondo e terzo mondo. [...] La ragione per cui esse sono luoghi indi-
spensabili di produzione teorica sta nel fatto che molti dei grandi tsunami
del XXI secolo sembrano destinati a scatenarsi prima sulle loro coste – o, se
non prima, comunque nella loro forma più percepibile ed estesa – per poi
riverberarsi nelle cosmopoli dell’emisfero settentrionale (Comaroff, Co-
maroff, a cura di, 2006, p. IX).
14 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
INTRODUZIONE 15
16 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
INTRODUZIONE 17
18 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
***
INTRODUZIONE 19
Nota ai testi
I capitoli che compongono questo libro sono stati scritti nel corso
degli ultimi cinque anni, indipendentemente l’uno dall’altro. Li ri-
propongo qui con qualche variazione, qualche aggiornamento bi-
bliografico e l’inserimento di una serie di rimandi interni. Il libro ri-
mane una raccolta di saggi, ma l’auspicio dell’autore è che nel com-
plesso emerga una riflessione sistematica e coerente su alcuni dei te-
mi fondamentali della critica postcoloniale. Indico di seguito le sedi
in cui i singoli capitoli sono stati originariamente pubblicati, coglien-
do l’occasione per ringraziare direttori di riviste e curatori di volumi
collettanei per avermi consentito di raccoglierli in volume.
NOTA AI TESTI 21
CAPITOLO PRIMO
La condizione postcoloniale
24 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 25
2. Decentrare il globale
26 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
5 Vale la pena citare per esteso il passo di Césaire: “Oui, il vaudrait la peine d’étudier,
cliniquement, dans le détail, les démarches d’Hitler et de l’hitlerisme et de révéler
au très distingué, très humaniste, très chrétien bourgeois du XXe siècle qu’il porte
en lui un Hitler qui s’ignore qu’Hitler l’habite, qu’Hitler est son démon, que s’il le
vitupère, c’est par manque de logique, et qu’au fond, ce qu’il pardonne pas à Hitler,
[...] c’est ne pas l’humiliation de l’homme en soi, c’est le crime contre l’homme
blanc, c’est l’humiliation de l’homme blanc, et d’avoir appliqué à l’Europe des pro-
cédés colonialistes dont ne revelaient jusqu’ici que les Arabes d’Algerie, les coolies
de l’Inde, et les nègres d’Afrique” (Césaire 1955, p. 12).
6 “Si può dire che non vi sia nessuna atrocità nazista – campi di concentramento, mu-
tilazioni ed eccidi di massa, profanazione di donne e orrendi oltraggi all’infanzia –
che la civiltà cristiana dell’Europa non abbia praticato contro i popoli di colore in
ogni parte del mondo nel nome di una Razza superiore nata per dominare il mon-
do” (Du Bois 1946, p. 23).
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 27
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 27
28 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
3. Sulla transizione
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 29
30 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 31
4. Differenze postcoloniali
9 “I sintomi registrano non solo tutti i falliti tentativi rivoluzionari del passato, ma,
più modestamente, ogni mancata risposta a una chiamata all’azione o anche solo al-
l’empatia per coloro la cui sofferenza appartiene alla forma di vita di cui si è parte.
Occupano il posto di qualcosa che è là, che insiste sulle nostre vite pur non avendo
mai raggiunto una piena consistenza ontologica. I sintomi, quindi, sono in un certo
senso archivi virtuali di lacune, o meglio, difese contro le lacune che persistono nel-
l’esperienza storica” (E. Santner, Miracles Happen, citato in -i=ek 2002, p. 76).
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 32
32 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
10 In una prefazione scritta di recente per un volume francese sugli studi postcolonia-
li, Balandier – nonostante molte cautele e rilievi critici – mostra di cogliere perfet-
tamente il contributo apportato da questi studi alla comprensione del presente: “il
postcoloniale”, scrive, “designa una situazione che è di fatto quella di tutti i con-
temporanei. Siamo tutti, in forme differenti, in situazione postcoloniale” (Balandier
2007, p. 24).
11 Si può ben dire che in Foucault sia all’opera una sorta di rimozione dell’esperienza
coloniale, il lato oscuro del processo di costruzione del soggetto moderno da lui co-
sì brillantemente ricostruito. Si vedano in questo senso Chatterjee 1983, Said 1986,
Spivak 1988, Stoler 1995.
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 33
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 33
34 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 35
36 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
5. Afferrare il presente
LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE 37
sto stesso presente, con una critica dello “storicismo”, quale ad esem-
pio quella proposta da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare l’Eu-
ropa (2000), che si appunta proprio sulla possibilità di ordinare cro-
nologicamente gli strati di cui si compone il tempo globale. Detta in
altri termini: è la stessa modalità con cui oggi il capitale costruisce (è
costretto a costruire) la sua Storia, la temporalità “omogenea e vuota”
di cui parlava Benjamin, a far sì che vengano continuamente in su-
perficie le storie plurali che esso ha incontrato, incorporato e travol-
to nel processo del suo farsi mondo.
Il tempo del “post”, in questa chiave, è un tempo in cui non sono
certamente venuti meno dominio e sfruttamento, ma in cui piuttosto
appare sospesa la possibilità di individuare luoghi privilegiati per agi-
re la trasformazione (è questo il senso ultimo, ci pare, dell’insistenza
postcoloniale sul decentramento): un tempo in cui, d’altra parte, ogni
giudizio sull’“arretratezza” o sull’“avanzamento” di una determina-
ta situazione si provincializza, nel senso che può trovare soltanto nel
presente – e non in un modello di “sviluppo” assunto come norma-
tivo – il proprio criterio operativo.
Agisce qui un lungo lavorio teorico, a cui hanno dato il proprio
apporto tradizioni eterogenee di pensiero, che si è appuntato al di
fuori dell’“Occidente” sulla categoria di transizione (cfr. infra, cap.
VI e appendice): lo scacco subito non solo dai modelli analitici che
hanno interpretato il colonialismo attraverso un’immagine lineare
della transizione al capitalismo, ma anche e soprattutto dei progetti
politici che, partendo da categorie come “sviluppo ineguale” e “di-
pendenza”, hanno fatto perno sulle pretese virtù progressive dello
“sviluppo”, della “cittadinanza” e del “lavoro salariato”, conduce a
individuare nella contemporanea presenza di una pluralità di tempi
storici, e dunque di forme di dominio e di pratiche di liberazione,
una caratteristica strutturale del capitalismo fuori dall’Occidente, che
oggi si afferma su scala globale penetrando nello stesso spazio che un
tempo si definiva “metropolitano”.
La “provincializzazione dell’Europa” di cui parla Chakrabarty
agisce dunque in un duplice senso: da una parte mostra quanto par-
ticolare e non generalizzabile sia stata l’esperienza del capitalismo eu-
ropeo (o “occidentale”), quanto rilevante sia stata, per riprendere i
termini usati da Yann Moulier Boutang (1998), la presenza di “for-
me difformi” di dominazione del lavoro nella costituzione del capi-
talismo storico come sistema mondo; dall’altra fa definitivamente del-
l’Europa (dell’“Occidente”) una provincia nel momento stesso in cui
pare realizzarsi l’“occidentalizzazione del mondo”, nella misura in cui
4 cap 1* 18-01-2008 0:17 Pagina 38
38 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
CAPITOLO SECONDO
Immagini della cittadinanza nella crisi
dell’antropologia politica moderna
“Il guaio con gli inglesi è che la loro storia si è svolta oltreoceano,
e loro non sanno che cosa significa”. Queste parole, tratte da un fa-
moso romanzo di Salman Rushdie (1988, p. 367) e spesso citate ne-
gli studi postcoloniali anglosassoni (cfr. ad es. Bhabha 1994, p. 231),
circoscrivono in modo molto preciso, una volta che il riferimento al-
l’Inghilterra sia allargato a comprendere in sé la vicenda storica
dell’“Occidente” nel suo complesso, il tema a cui questo capitolo è
dedicato. Riprendendo alcune sollecitazioni che vengono dal filone
di studi indicato, ci si propone infatti di esporre le linee fondamen-
tali di una ricerca sulle ripercussioni che il rapporto con l’altro da sé
– storicamente mediato dal progetto e dall’esperienza coloniale – ha
avuto per la definizione dei concetti di “Europa” e “Occidente” in
età moderna 1. E al tempo stesso si intendono indagare le modalità
con cui quel progetto e quell’esperienza hanno contribuito a definire
la genealogia del mondo “globale” contemporaneo, segnandone il
profilo e tuttavia non potendo in alcun modo esaurire quella che può
essere definita la sua costituzione materiale.
È intanto il caso di notare che, sotto il profilo storico, non man-
cano esempi di consapevolezza europea del processo a cui fanno ri-
ferimento le parole di Rushdie. Vediamone uno, particolarmente si-
gnificativo: proprio negli anni dell’apogeo dell’imperialismo – quan-
do quest’ultimo si avviava a divenire in Inghilterra, nei termini im-
piegati nel 1898 da Lord Curzon, viceré e governatore generale del-
40 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
3 Per prime introduzioni agli studi postcoloniali, si vedano Gandhi 1998, Loomba
1998, Hardt 2000 e Albertazzi, Vecchi (a cura di) 2004, nonché le seguenti antolo-
gie di scritti: Aschcroft, Griffiths, Tiffin (a cura di) 1995, Chambers, Curti (a cura
di) 1997, e Castle (a cura di) 2001. Ma imprescindibile è ora il rimando a Young
2001 (pp. 383 ss. per una discussione di Orientalismo di Said) e 2003, nonché a
Mellino 2005. Sul concetto di “autorità etnografica”, cfr. Clifford 1988, pp. 35 ss.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 42
42 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
4 Clifford 1988, p. 312. Sul concetto di “ibridazione”, si veda ancora Bhabha 1994.
5 Per un esempio significativo, nella storiografia italiana delle dottrine politiche, di
ricerca sulle problematiche del colonialismo, si vedano i lavori di Barié 1953 e 1972,
nonché Abbattista 1979. Utili tracce per la ricerca sull’argomento si possono inoltre
rinvenire in due recenti volumi collettanei, sollecitati dal crescente interesse per la
tematica del “multiculturalismo”: cfr. Savard, Vigezzi (a cura di) 1999 e Cavazzoli
(a cura di) 2001.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 43
44 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
9 Cfr. a questo proposito Costa 1999-2001, vol. I, pp. 285 ss. Ma si tenga presente an-
che Costa 1974 (su Locke in particolare pp. 111 ss. e 182 ss.).
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 45
le: “se è libertà, vera libertà”, si legge poco più avanti nel Saggio,
“spezzare i vincoli che ci legano a una condotta ragionevole, e man-
care di quel freno dell’esame e del giudizio che ci impedisce di sce-
gliere e di fare il peggio, allora solo i pazzi e gli incoscienti sono libe-
ri” (ivi, p. 234) 10. La figura del folle, a cui corrisponde, negli scritti
sulla tolleranza, quella dell’ateo, diviene, nel rapporto sulla questio-
ne della povertà presentato da Locke nel 1698 al “Board of Trade
and Plantation”, quella del povero indisciplinato, colpevolmente in-
capace, per via della “corruzione dei costumi”, del “vizio” e della
“pigrizia” (idleness), di provvedere al proprio sostentamento attra-
verso il lavoro (Locke 1697, p. 447) 11. Sono gli anni di quello che
Foucault ha definito il “grande internamento”, che appare a questo
punto come il rovescio speculare dei processi attraverso cui il mo-
derno spazio della cittadinanza, nonché l’antropologia politica in es-
so implicita, si è andato costituendo fin sotto il profilo concettuale:
folli e poveri indisciplinati sono i soggetti destinati a essere reclusi in
manicomi e workhouses, a essere messi ai lavori forzati sulle grandi
navi della marineria atlantica dove trovano la propria definizione ar-
chetipica alcuni dei tratti costitutivi della disciplina di fabbrica (cfr.
Linebaugh, Rediker 2000).
Il duplice significato assunto in Locke dalla proprietà (proprietà
di sé e proprietà di beni materiali) agisce in profondità, lo si è già det-
to, come confine della cittadinanza nei decenni successivi: i due prin-
cipali argini che i liberali difenderanno lungo tutto l’arco dell’Otto-
cento di fronte alla progressiva estensione del suffragio, appunto
“proprietà e cultura”, possono essere considerati una rielaborazione
di quel duplice significato. Qui interessa tuttavia porre in evidenza
come un ulteriore confine della cittadinanza, quello di genere, trovi
la propria originaria formulazione all’interno del medesimo paradig-
ma “antropologico”. Questo vale innanzitutto per lo stesso Locke: di
contro alla radicalità e alla coerenza con cui Hobbes aveva negato ca-
ratteri di naturalità al rapporto di subordinazione della donna al-
l’uomo, Locke deduce “che nella natura ci sia un fondamento” per
quel rapporto dal semplice fatto della “soggezione in cui le donne
normalmente si trovano nei confronti del marito” (Primo trattato sul
governo, § 47, c.n.); e considerato che il marito e la moglie hanno “in-
telligenze differenti”, ritiene ancora una volta “naturale” che la “de-
10 Particolarmente rilevante, nella prospettiva qui seguita, appare il discorso sul rap-
porto tra melancolia e disciplina svolto nella terza parte di Schiera 1999.
11 Su questo punto si veda Bohlender 2000, in specie pp. 103 ss. Sulla figura dell’ateo
negli scritti lockeani sulla tolleranza, si veda Lanzillo 2002, pp. 88 s.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 46
46 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
cisione ultima” nella famiglia, “cioè a dire il governo, [...] sia dalla
parte dell’uomo in quanto più capace e più forte” 12.
È evidente come la donna, e anche sotto questo profilo ci trovia-
mo di fronte a una questione ben lungi dal riguardare il solo Locke,
sia considerata naturalmente predisposta alla soggezione proprio in
quanto non condivide (o condivide in misura minore dell’uomo)
quella capacità di auto-disciplinamento che abbiamo visto rappre-
sentare la qualità fondamentale dell’individuo come cittadino. A di-
stanza di oltre un secolo, in un contesto filosofico totalmente diver-
so, uno schema non molto distante sarebbe stato proposto da Hegel:
incapace di scindersi dall’ethos della famiglia (la sua “destinazione
sostanziale”, come si legge nel § 166 dei Lineamenti di filosofia del di-
ritto) e dunque di attingere quell’universalità per la quale l’uomo di-
venta cittadino, la donna di cui parla Hegel finisce per essere conse-
gnata a un “principio femminile”, che rende eterna – e ancora una
volta naturale – la condizione di passività storicamente prodotta dal-
la dominazione patriarcale 13. Così stando le cose, avrebbe chiosato
ironicamente John Stuart Mill qualche decennio più tardi, gli uomini
potevano continuare a ritenere che la soggezione femminile non si
fondasse, come nel caso degli schiavi, sulla paura, ma sui sentimenti
(cfr. Mill 1869, pp. 89 s.).
48 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
16 Ricco di spunti a questo riguardo, pur all’interno di una polemica con la storiogra-
fia “postmoderna” che coinvolge anche alcuni esiti del postcolonialismo, è il lavoro
di C. Ginzburg (2000).
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 49
50 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
21 Tocqueville 1839-1852, p. 364 (la citazione è tratta dal Travail sur l’Algérie, scritto
da Tocqueville nel 1841). Su Tocqueville e l’Algeria rimando al bel saggio di Lette-
rio 2005 (e ora soprattutto 2008).
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 52
52 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
22 Su Maine si veda in generale Piccinini 2003 (nonché, più in generale sulle temati-
che del governo delle colonie nell’Ottocento britannico, 2005).
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 53
54 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
23 L’introduzione di L. Ellena alla nuova edizione italiana dei Dannati della terra (Co-
munità, 2000) dà conto della ripresa di interesse per l’opera di Fanon determinata
dallo sviluppo degli studi postcoloniali.
5 cap 2* 18-01-2008 0:19 Pagina 55
24 Per un’analisi delle ricadute che la condizione postcoloniale ha sui concetti di Oc-
cidcente e di modernità, cfr. Appadurai 1996 e Chakrabarty 2000.
25 Per un ripensamento in questo senso del concetto di “universale”, cfr. ancora Bali-
bar 1997, pp. 231 ss. nonché -i=ek 2000, pp. 171 ss.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 56
CAPITOLO TERZO
Tempo storico e semantica politica
nella critica postcoloniale
58 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
60 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
5 Benjamin 1997, p. 45. Nella ormai sconfinata letteratura sulle Tesi di Benjamin, si
segnala il prezioso volumetto di Löwy 2001.
6 Sull’opera storiografica di James, cfr. Robinson 1983, pp. 241-286. Più in generale,
si vedano i saggi raccolti in Farred (a cura di) 1996, nonché la sezione monografica
a lui dedicata, a cura di chi scrive, in “Studi culturali”, IV (2007), 2.
7 C.L.R. James, Da Toussaint Louverture a Fidel Castro (1962), pubblicato in appen-
dice a James 1938, pp. 321 s.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 61
62 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
9 Per una critica di questo esito, certo non estraneo ad alcuni esponenti degli studi
postcoloniali, cfr. Ginzburg 2000. Considerazioni analoghe si trovano del resto in
Trouillot 1995, pp. XVIII s. e 12 ss.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 63
3. Oltre lo “storicismo”
64 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
può esistere solo come casella vuota (place holder), che viene conti-
nuamente usurpata da un particolare storico che tenta di proporsi co-
me universale” (ivi, p. 101).
Si tratta, come si accennava, di una posizione di grande rilievo dal
punto di vista teorico, da cui possono venire spunti di notevole inte-
resse per una riqualificazione del concetto e del lessico dell’universa-
le (si veda in questo senso Fornari 2005). Ma contemporaneamente
l’analisi di Chakrabarty ha precise implicazioni per la pratica storio-
grafica. Invita a fare del movimento di riduzione del plurale delle sto-
rie al singolare della storia, in cui Reinhart Koselleck ha classicamen-
te indicato il tratto peculiare del moderno concetto di storia (cfr. Ko-
selleck 1979, pp. 110-122), un fatto esso stesso storico. Non solo un
concetto come quello di classe operaia, ma anche concetti come cit-
tadinanza e nazione, sono attraversati nel loro stesso statuto logico
dagli scontri, dalle contraddizioni e dagli squilibri che quel movi-
mento produce. La violenza della conquista e della dominazione co-
loniale non fa che intensificare un problema inerente, per citare an-
cora Koselleck, a ognuno dei “singolari collettivi” che formano tanta
parte delle parole della storia, portandone alla luce – e imponendo
come specifico oggetto di ricerca storica – il movimento di costitu-
zione.
Se questo ordine di riflessioni invita a problematizzare, come si è
detto, il lessico dell’universalismo (e dunque i canoni storiografici che
su di esso si sono materialmente costruiti), mi sembra che d’altra par-
te costituisca un sano antidoto alla proliferazione di una mera apolo-
gia delle “differenze”. Mai definitivamente compiuta, la transizione
che ha inaugurato nel segno della conquista la storia moderna come
storia globale, ha tuttavia caratteri di irreversibilità: proprio la vio-
lenza dell’origine ha imposto “un ‘linguaggio comune’ che annulla
per sempre ogni esperienza di differenza che non sia stata mediata
dalle relazioni di potere coloniali e dalla logica globale del capitale”
(Rahola 2003b, p. 163). Non si tratta, da questo punto di vista, di ri-
scoprire ancestrali “tradizioni” da contrapporre – storiograficamen-
te così come politicamente – alla modernità occidentale. Si tratta
piuttosto di lavorare alla costruzione di un quadro più complesso
della stessa modernità, di aprirsi certamente al riconoscimento di una
pluralità di modernità determinata dalle diverse forme assunte in di-
versi contesti storici e geografici dall’incontro/scontro tra storia 1 e
storie 2, per riprendere i termini di Chakrabarty, ma al contempo di
valorizzare la cornice globale e unitaria al cui interno questa stessa
pluralità si è fin da principio fattualmente collocata.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 66
66 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
10 Cfr. Gilroy 1993, p. 51 nonché Mellino 2004. Ma si tenga presente anche Line-
baugh, Rediker 2000.
6 cap 3* 18-01-2008 0:21 Pagina 67
68 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
6. Contrappunti
70 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
72 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
CAPITOLO QUARTO
Il cittadino e il suddito
Una costituzione postcoloniale per l’Unione Europea?
74 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 75
2. Diritto e terrore
76 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 77
78 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 79
scere sotto il nostro sistema fino a fuoriuscire da esso; che con il no-
stro buon governo educhiamo i nostri sudditi facendo loro acquisire
la capacità di meglio governarsi; che essendo stati istruiti nella cultu-
ra europea possano rivendicare in una qualche età futura istituzioni
europee. Non so se un tal giorno mai verrà. Ma non farò mai alcun-
ché per scongiurarlo o per ritardarlo: se verrà, sarà il giorno di cui es-
sere più orgogliosi nell’intera storia inglese” (Macaulay 1898, vol. XI,
pp. 585 s.).
Permanentemente abitata dai “fantasmi” del terrore e di una so-
vranità esercitata per via sostanzialmente amministrativa, la governa-
mentalità coloniale – al pari del discorso coloniale, in tutte le sue va-
rianti, non ultima evidentemente quella giuridica (sul cui ruolo co-
stitutivo per il “discorso coloniale”, cfr. Dirks 1992) – si mostra dun-
que altresì, alla luce dell’esempio indiano, strutturalmente squilibra-
ta dall’operare in essa di imperativi contraddittori: stabilire confini
intransitabili per delimitare gli spazi in cui si muovono, nella colonia,
i cittadini e i sudditi, gerarchizzare il corpo collettivo apparentemen-
te amorfo composto da questi ultimi, delineare strategie di “incor-
porazione” degli stessi sudditi coloniali (cfr. Thomas 1994, p. 142).
Altri esempi, in particolare tratti dall’esperienza africana, andreb-
bero discussi per arricchire e complicare la genealogia della distin-
zione coloniale tra citizen e subject (cfr. Mamdani 1996 e Mbembe
2001, cap. 1). In ogni caso, se da una parte la distinzione – e la con-
temporanea esistenza – del cittadino metropolitano e del suddito co-
loniale corrispondevano ad altre distinzioni che rendevano possibile
una gerarchizzazione dello spazio della cittadinanza all’interno della
stessa metropoli (in particolare, alla distinzione tra cittadini “attivi”
e “passivi”), esse ponevano dall’altra peculiari problemi al pensiero
politico e giuridico europeo. Sotto il profilo della dottrina, si trattava
cioè di render conto in modo coerente della contemporanea esisten-
za del “governo rappresentativo” nella metropoli e del “dispotismo”
nelle colonie. Si è visto in precedenza (supra, cap. 2), attraverso alcu-
ni esempi tratti dai lavori di John Stuart Mill e di Santi Romano, che
tali problemi sono stati in buona parte risolti attraverso lo sviluppo
di una logica del “non ancora” (cfr. Chakrabarty 2000): i popoli di
origine non europea sottoposti a dominio coloniale erano cioè con-
siderati – ad esempio da Mill – “non ancora” maturi per il governo
rappresentativo. E si è anche visto come questa logica corrispondes-
se all’istituzione di uno specifico confine temporale, definito nei ter-
mini di una fondamentale distinzione nella qualità del tempo storico
in cui le colonie vivevano.
7 cap 4* 18-01-2008 0:22 Pagina 80
80 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 81
3. Un nuovo mostro?
82 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 83
84 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
4. Confini
IL CITTADINO E IL SUDDITO 85
86 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
IL CITTADINO E IL SUDDITO 87
5. Europa a venire
88 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
CAPITOLO QUINTO
Il nuovo regime migratorio europeo
e le metamorfosi contemporanee del razzismo
Cela [la race] n’existe pas. Cela produit pourtant des morts.
Produit des morts et continue à assurer l’armature de systè-
mes de discrimination féroces [...]. Non la race n’existe pas.
Si la race existe. Non certes, elle n’est pas ce qu’on dit qu’el-
le est, mais elle est néanmoins la plus tangible, réelle, bru-
tale des réalités.
C. GUILLAUMIN, “Je sais bien mais quand même”, ou les
avatars de la notion de race (1981)
1. Un nuovo nazionalismo?
90 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
2. Razzismi
92 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
94 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
2 Vale qui la pena di ricordare la mostra “La menzogna della razza”, realizzata a Bo-
logna nel 1994, di cui si può vedere la presentazione del compianto Riccardo Bo-
navita (2006). Se la vicenda del razziosmo coloniale italiano ha oggi cessato di esse-
re un tabù, lo si deve del resto in buona misura all’impegno encomiabile di Angelo
Del Bocca, di cui va ricordato almeno uno degli ultimi lavori, Italiani brava gente?
(2005).
8 cap 5* 18-01-2008 0:25 Pagina 96
96 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
modo radicale non solo la composizione della classe operaia nel no-
stro Paese, ma più in generale il suo paesaggio sociale e culturale.
Si tratta di un fenomeno che ha precisi riscontri in altre realtà eu-
ropee 3. E in Italia come in Europa questa nuova “costellazione” del
razzismo fu sfidata e sconfitta dalle formidabili lotte operaie della fi-
ne degli anni Sessanta, che posero in discussione l’assemblaggio ge-
nerale di Stato nazionale, sovranità e cittadinanza sociale – al pari del
complesso intreccio di relazioni economiche e sociali – che siamo or-
mai abituati a definire “fordista”.
98 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALE
7 Si veda, per una provvisoria mappa dei campi che a tutti gli effetti possono definir-
si “europei” http://www.migreurop.org/rubrique45.html. Per un inquadramento
teorico della problematica dei campi, cfr. Rahola 2006.
8 cap 5* 18-01-2008 0:25 Pagina 103
CAPITOLO SESTO
Vivere in transizione
Verso una teoria eterolinguale della moltitudine
The capitalist and the capitalist system have the aim of li-
mitless capital accumulation. In the realization of this aim,
capitalism stamps its products and its means of production
with the seal of market approval – price. Only by “transla-
ting” all the varied qualities that constitute its products and
means for creating them into one common “language”, that
of currency, can the generator of capitalism’s vitality, the
market, operate.
M.T. TAUSSIG, The Devil and Commodity Fetishism
in South America (1980)
1 Attualmente pubblicati dalla Hong Kong University Press, i volumi della collana –
fino a oggi ne sono stati pubblicati quattro – escono contemporaneamente in in-
glese, cinese, giapponese e coreano. “Traces” è intesa come una radicale sfida alla
“differenza coloniale” che secondo Naoki Sakai continua a organizzare la produ-
zione e la circolazione del sapere e si presenta come spazio transnazionale e trans-
linguistico di elaborazione critica consapevole della propria collocazione geografica
nell’Asia orientale ma aperto a contributi provenienti da altre realtà. Per una pre-
sentazione del progetto, si veda http://www.arts.cornell.edu/traces/index.htm
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 107
2. Il capitale e l’Occidente
Fin dal suo inizio, la storia del capitale è storia mondiale. Come
Marx afferma in modo perentorio nei Grundrisse, “la tendenza a
creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto di ca-
pitale. Ogni limite (Grenze) si presenta qui come ostacolo da supera-
re” (Marx 1857-58, vol. II, p. 9). La storia del capitale non può esse-
re compresa se non la si intende anche nei termini della costruzione
di questa scala geografica senza precedenti (Guha 2002, pp. 35 e 43).
Il tempo e lo spazio del capitale sono strutturalmente intrecciati l’u-
no con l’altro nel progetto della modernità. Come Walter Mignolo e
Anibal Quijano hanno sottolineato dal punto di vista latino-america-
no, ciò di cui abbiamo bisogno è una ricostruzione di questo nesso
strutturale tra tempo e spazio all’interno della storia del capitale che
sia in grado di spiazzare l’immaginario stesso prodotto dal capitale
come sistema mondo nel corso del suo sviluppo. La “sconnessione
tra due diverse forme di modernità – la modernità imperiale e la mo-
dernità coloniale – vive al cuore della definizione della modernità in
generale, nella costituzione del mondo gerarchico e non democrati-
co del capitale”. Una volta di più, siamo di fronte a un problema di
articolazione. La storia del capitale non può essere disgiunta dal fatto
che entrambe le forme di modernità “sono legate a un indice comu-
ne, il valore normativo dell’Occidente” (Sakai, Solomon 2006, p. 21).
Questo indice comune articola sia al livello materiale sia al livello epi-
stemico la storia del capitale come storia mondiale.
Nel momento stesso in cui dobbiamo riconoscere l’efficacia di
questa articolazione, dobbiamo anche ricordare che essa ha operato
attraverso il dominio e la violenza, e che fin dalle origini della mo-
dernità dominio e violenza hanno dovuto fare i conti con molteplici
forme di resistenza. La storia mondiale del capitale è essa stessa frat-
turata da una sorta di doppio movimento, e dobbiamo rendere conto
di questo doppio movimento in ogni tentativo di ricostruirla. Da una
parte abbiamo un processo di espansione del capitale che produce la
sua specifica geografia, dando luogo in particolare a peculiari rela-
zioni tra centro e periferia; dall’altra parte abbiamo forme e pratiche
di resistenza che spiazzano questa stessa geografia. Da una parte ab-
biamo un immaginario costruito attorno alla centralità dell’Europa e
dell’Occidente; dall’altra parte abbiamo “l’immaginario conflittuale
che emerge da e con la differenza coloniale” (Mignolo 2001, p. 57).
Questa scissione si inscrive all’interno del concetto stesso di Occi-
dente, e deve essere posta in evidenza quando si analizzano le varie
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 112
1997, pp. 48 e 68; cfr. anche Sakai 2000b), è una buona esemplifica-
zione di questa efficacia. Al tempo stesso, la sua critica della retorica
dei “valori asiatici”, in cui non vede altro che “un semplice rovescia-
mento del culturalismo eurocentrico” (Sakai 2000a, p. 800), ci ricor-
da che “l’Occidente” continua a esercitare una grande influenza nel
presente globale.
Ciò nondimeno, vale la pena di considerare l’ipotesi che il nostro
tempo sia caratterizzato dal venire a maturazione della lunga crisi del-
le strutture di potere che hanno storicamente articolato e incanalato
l’“indirizzo omolinguale” occidentale all’interno di uno specifico re-
gime di traduzione. L’instabilità del capitale globale trova qui una
delle sue radici più importanti: per metterla ancora una volta in ter-
mini molto astratti, ogni atto di traduzione capitalistica è almeno po-
tenzialmente costretto a confrontarsi con il problema di riaffermare
le condizioni che rendono quella traduzione possibile. I movimenti e
le lotte anticoloniali hanno vittoriosamente sfidato e disarticolato il
“metaconfine” che separava il tempo e lo spazio metropolitani da
quelli coloniali, costringendo il capitale e l’Occidente stesso a misu-
rarsi con una geografia del potere assai più complessa, postcoloniale
(cfr. supra, cap. I). È una geografia attraversata e fratturata da linee
di conflitto e da rapporti di potere, da una molteplicità di confini a
cui corrispondono grandi squilibri nella distribuzione della ricchezza.
Ma la sua crescente complessità rende sempre più difficile interpre-
tarla utilizzando categorie rigide, fisse, di centro e periferia, Nord e
Sud del mondo. Modernità non è più sinonimo di Occidente, e la
sconfitta dell’unilateralismo statunitense in Iraq dovrebbe pur sug-
gerire qualcosa a proposito della crisi del tradizionale “imperiali-
smo”. Il capitale globale stesso non è più necessariamente occiden-
tale nella sua composizione. Ma quel che rimane potente, e ancora ri-
chiede di essere provincializzato e disarticolato, è sicuramente l’Oc-
cidente (non solo l’Europa) come “figura immaginaria” (Chakrabarty
2000, p. 16) che continua a indirizzare la propria interpellazione ai
soggetti che abitano il presente globale.
A me pare che questa persistente influenza dell’Occidente come
“figura immaginaria” sia elemento costitutivo del durevole dominio
del capitale su scala mondiale. È precisamente la profonda affinità tra
l’“indirizzo omolinguale” dell’Occidente e il regime di traduzione at-
traverso cui opera il capitale ciò che garantisce la riproduzione di
quella “figura immaginaria” ben al di là della retorica dello “scontro
di civiltà” e della “guerra al terrore”. Concordo con Naoki Sakai e
Jon Solomon sul fatto che, in queste condizioni, “la critica dell’euro-
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 115
centrismo tende a divenire una buona retorica per le elite, la cui sog-
gettività si forma in parte in una competizione con ‘l’Occidente’ re-
sa possibile dall’accumulazione (di classe) di valore prodotto dal la-
voro di coloro che sono socialmente sottoposti a quelle stese elite”
(Sakai, Solomon 2006, p. 21). Non è questa la via che mi interessa se-
guire. In qualche modo penso che si debba accettare il pieno dispie-
gamento della logica del capitale, che si debba perfino accettare – per
metterla in termini provocatori – il divenire mondo dell’Occidente
sotto il dominio del capitale, che si debbano cartografare con scru-
polosa attenzione i nuovi antagonismi che segnano questo processo.
E che si debba muovere in direzione della ricerca di un nuovo regi-
me di traduzione, capace di interrompere e disarticolare l’“indirizzo
omolinguale” del capitale e di aprire nuovi spazi di libertà e ugua-
glianza. Spazi in cui un nuovo mondo possa essere inventato: un
mondo al di là di the West e al di là di the Rest.
sta immagine conduce troppo spesso a ignorare “la cesellatura dei ca-
nali e la continua ridefinizione delle mappe e delle possibilità della
geografia” che rendono questi flussi possibili (Tsing 2000, p. 327; ma
si veda anche Ferguson 2006, p. 47), limitando, bloccando e “addo-
mesticando” altri flussi (in modo particolare i movimenti dei e delle
migranti). Mentre l’immagine dei flussi tende a circoscrivere l’analisi
della condizione globale al livello della circolazione, ciò di cui vi è ur-
gente necessità è una volta di più una critica dei rapporti di produ-
zione che sono celati al disotto della “superficie” della circolazione,
per usare la metafora suggerita da Marx: ma dobbiamo al tempo stes-
so essere consapevoli del fatto che questi rapporti di produzione non
hanno a che fare soltanto con i rapporti di lavoro intesi in senso tra-
dizionale, riferendosi piuttosto più in generale al “processo di ‘fab-
bricazione’ degli oggetti e dei soggetti che circolano, dei canali della
circolazione e degli elementi di contorno, ‘paesaggistici’, che delimi-
tano e danno forma a questi canali” (Tsing 2000, p. 337).
Guardiamo alle trasformazioni dello spazio da un punto di vista
politico, riprendendo e sviluppando alcuni elementi analitici propo-
sti nel precedente capitolo. Sovranità e diritto, si è visto, sono stati in
età moderna i due criteri fondamentali di definizione di uno spazio
politico nell’esperienza europea (Galli 2001): un territorio era defi-
nito nella sua unità come ambito geografico di validità di una parti-
colare sovranità statale e di un particolare ordinamento giuridico (na-
zionale). Oggi, mentre assistiamo all’emergere di un diritto globale
“centrato su una molteplicità di regimi globali ma parziali che ri-
spondono ai bisogni di settori specializzati”, la sovranità “rimane una
proprietà sistemica, ma la sua localizzazione istituzionale e la sua ca-
pacità di legittimare e assorbire tutto il potere, di essere la fonte del
diritto, sono divenute instabili” (Sassen 2006, pp. 242 e 415). A me
pare che l’immagine di una “costituzione mista” dell’Impero, propo-
sta da Hardt e Negri (2000, parte III, cap. 5), sia particolarmente ef-
ficace nel rendere conto della situazione che emerge da queste com-
plesse trasformazioni. Ma dobbiamo sempre ricordare che questa im-
magine – al pari del resto dello stesso concetto di Impero – va utiliz-
zata a partire da un’accentuata consapevolezza della sua natura ten-
denziale, e non come un’immagine capace di riflettere un modello
fisso, già pienamente dispiegato. Questo significa prendere seria-
mente in considerazione, come elemento che definisce il concetto
stesso e non come occasionale “perturbazione”, la possibilità che su
ogni livello di articolazione della “costituzione mista” si producano
scontri e conflitti. E al tempo stesso conduce a considerare la stessa
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 117
2006). Ma quel che occorre aggiungere è che oggi i confini sono in-
vestiti da profondissime trasformazioni, da trasformazioni che ride-
finiscono il concetto stesso di confine. Riprendendo un’ampia lette-
ratura sul tema (cfr. Mezzadra 2006, parte II, cap. 4; Rigo 2007; Cut-
titta 2007), si può affermare che i confini stanno diventando mobili
senza cessare di produrre meccanismi di chiusura anche estrema-
mente rigidi, tendono a “deterritorializzarsi” senza cessare di inve-
stire luoghi determinati.
Come già si è visto nei due precedenti capitoli, l’esperienza euro-
pea è particolarmente significativa da questo punto di vista. Se si con-
siderano congiuntamente il cosiddetto processo di allargamento e il
nuovo regime di controllo delle migrazioni che sta emergendo a li-
vello di Unione europea, la mobilità dei confini può essere analizza-
ta sia considerandoli dispositivi strategici nel determinare l’articola-
zione dello spazio europeo con gli spazi adiacenti (nonché la tradu-
zione del diritto europeo all’interno di altri ordinamenti), sia consi-
derandoli vere e proprie tecniche biopolitiche (nel senso che si è visto
in Walters 2002): tecniche che, possiamo aggiungere ora, iscrivono
all’interno della cittadinanza europea “spazi laterali” attorno a cui
possono essere riorganizzati i mercati del lavoro. Enrica Rigo ha mo-
strato efficacemente come in Europa stiano emergendo nuove gerar-
chie al livello stesso della regolazione giuridica, e come esse stiano
disarticolando la tradizionale omogeneità formale della cittadinanza
moderna. E mentre queste nuove gerarchie stanno penetrando nella
struttura dei mercati del lavoro, tracciando veri e propri “confini di
produzione” (Rigo 2007, pp. 191-197), si vanno definendo anche una
serie di “confini temporali”, come risultato della varie “sale d’attesa”
apprestate per i migranti sia sulle rotte da essi seguite nel viaggio ver-
so l’Europa sia all’interno dello spazio europeo: la condizione giuri-
dica dei migranti finisce per essere regolata “secondo una transito-
rietà destinata, però, a protrarsi indefinitamente” (ivi, p. 214).
A me pare che valga la pena di collegare questo concetto di “con-
fini temporali”, di cui si è vista in precedenza la rilevanza all’interno
del moderno progetto coloniale europeo e occidentale (cfr. supra, in
specie cap. II), con i problemi determinati dall’articolazione tra “sus-
sunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”,
e di assumere i “confini temporali” come dispositivi cruciali nel pro-
durre le necessarie giunture tra diversi tipi di regimi e di disciplina-
mento del lavoro, che sembrano in effetti appartenere a diversi tem-
pi storici. Se torniamo alla categoria di “latitudini” da questo punto
di vista, possiamo affermare che esse sono costituite e delimitate da
9 cap 6 18-01-2008 0:28 Pagina 120
APPENDICE
Attualità della preistoria
Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro
del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria”
lo slogan “un debito per l’equità”, una recinzione corrispondente deve de-
terminarsi negli Stati uniti e in Europa occidentale (p. 2).
capitalisti) come gli unici agenti possibili di uno sviluppo dai carat-
teri di emergenza (ivi, pp. 27 ss.).
2. Questioni di metodo
Abbiamo fin qui visto, sia pure in modo un po’ obliquo, tre gran-
di questioni che possiamo leggere in una luce particolare attraverso
il capitolo 24 del Capitale: questioni kantiane, potremmo dire ancora
celiando, nella misura in cui investono le dimensioni dello spazio e
del tempo del capitalismo. Ma ogni formalismo è qui escluso dalla ri-
levanza strategica che assume su entrambe le dimensioni, nell’anali-
si svolta da Marx, il problema della produzione della merce forza la-
voro: una produzione che incide i corpi e modifica le anime, una pro-
duzione che investe e stravolge – in modo assolutamente concreto e
determinato – il terreno stesso della vita.
Mi si consenta tuttavia un’altra considerazione per dir così preli-
minare. Quello di accumulazione originaria, in Marx, non è un con-
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 133
si tratta di portare alla luce il ruolo cruciale giocato dallo Stato, dalla
legislazione e dal diritto dapprima nel determinare le condizioni di
esistenza della forza lavoro come merce, poi nel regolare il salario e
la giornata lavorativa (K, I, p. 907). È da questo secondo punto di vi-
sta che Marx scrive pagine magistrali, quali quelle sulle enclosures e
sulla “legislazione sanguinaria” contro il vagabondaggio “quasi uni-
versale” che, Marx lo aveva affermato già nel 1847, nella Miseria del-
la filosofia (pp. 90 s.), precedette la creazione della fabbrica (e la na-
scita della classe operaia) nei primi secoli moderni: veri e propri mo-
delli di “storia sociale” riscoperti come tali nel corso degli anni Ses-
santa del Novecento, a partire dai grandi lavori di E.P. Thompson
(tra cui non si può non ricordare, ovviamente, Rivoluzione industria-
le e classe operaia in Inghilterra, 1963).
Louis Althusser (1982, in specie pp. 106 ss.). In queste pagine è ben
presente, d’altronde, il riferimento all’analisi marxiana dell’accumu-
lazione originaria, che Althusser arriva a definire l’“autentico nu-
cleo” del Capitale (ivi, p. 109). La semantica di questo “incontro” an-
drebbe studiata con cura, a partire da un’analisi scrupolosa delle im-
plicazioni del verbo utilizzato da Marx nel passo citato sopra, ovvero
vorfinden (cfr. MEW, 23, p. 181, mentre in un passo del capitolo 24,
concettualmente equivalente, Marx scrive gegenüber und in Kontakt
treten, cfr. ivi, p. 742) – un “incontrare” che presuppone la presenza
previa di ciò che si incontra, una “storia precedente” dunque, ap-
punto una Vorgeschichte.
A me pare, in ogni caso, che lavorando sull’immagine dell’“in-
contro” si possa recuperare la sostanza di obiezioni e integrazioni
dell’analisi marxiana quali quelle proposte da Silvia Federici e Yann
Moulier Boutang. La preistoria dell’”incontro”, per dirla con una
battuta, può svolgersi in molte forme, e tra queste la tratta atlantica
non è necessariamente un’“eccezione” rispetto alle enclosures. Come
già si è detto, del resto, che tra i due processi esistessero cospicue
analogie era ben chiaro a Marx: già in un articolo del 1853, pubbli-
cato nella “New York Daily Tribune” e, per la parte che qui ci inte-
ressa, nel giornale cartista scozzese “The People’s Paper”, aveva irri-
so le simpatie abolizioniste della duchessa di Sutherland. Costei, se-
condo i metodi consueti dell’accumulazione originaria, aveva tra-
sformato in pastura per le pecore l’intera sua contea, determinando
tra il 1814 e il 1820 l’espulsione e lo “sterminio” sociale di oltre
15000 abitanti (la sostanza dell’analisi presentata nel 1853 è incor-
porata nel capitolo 24 del primo libro del Capitale: cfr. K, I, pp. 898
s.): “i nemici della schiavitù salariale inglese”, concludeva Marx,
“hanno il diritto di condannare e maledire la schiavitù dei negri; ma
una duchessa di Sutherland, un duca di Atholl, un signore del coto-
ne di Manchester mai!” (K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und
die Sklaverei, MEW, 8, p. 505).
L’“incontro”, dunque, può ben avvenire in una battuta di caccia,
o magari di pesca per riprendere il riferimento di Marx al destino di
una parte degli “aborigeni” (e si potrebbero proporre molte consi-
derazioni su questa scelta terminologica) espulsi dalle loro terre dal-
la duchessa di Sutherland “gettata sulla riva del mare” e che “cercò
di vivere di pesca”: “divennero anfibi e vissero, come dice uno scrit-
tore inglese, metà sul mare e metà sulla terra, e con tutto ciò trasse-
ro dall’uno e dall’altro solo di che vivere a metà” (K, I, p. 899; cfr. K.
Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW 8, p.
10 appendice 18-01-2008 0:29 Pagina 143
5. Nella transizione
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