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Ulisse e la Rusalka ©

di Mario Majoni

© 2014 by Mario Majoni


Autore:

Mario Majoni
Nato a Recco (GE) il 14/06/1977
Residente a Recco (GE)
in Via Montefiorito 46 d
CAP 16036
tel. 0039 333 1595401
email m.majoni@alice.it

Racconto:

Ulisse e la Rusalka
14963 battute (spazi inclusi)
Sezione A del concorso, “Giallo & Noir nel Golfo”

Il sottoscritto, Mario Majoni, acquisite le informazioni dal titolare del trattamento ai


sensi dell'articolo 13 del D.Lgs. n.196/2003, presta il suo consenso al trattamento da
parte di Studio18 dei dati ai fini inerenti il concorso.
Accetto il regolamento del Concorso di cui ho preso visione e:
Dichiaro che l'opera presentata è frutto della mia fantasia.
Dichiaro di accettare il giudizio insindacabile della Giuria.
Acconsento alla pubblicazione dell'opera in caso di vincita sul sito internet
www.studio18laspezia.com senza nulla a pretendere a titolo di diritto d'Autore pur
rimanendo il proprietario dell'opera.
Porto Mirabello.
Ulisse non aveva mai visitato La Spezia prima di allora, ma era evidente quanto il
complesso fosse moderno, un melange di architetture che non aspiravano a integrarsi
con il resto della città. Nella luce crepuscolare i lampi rimbalzarono sui rilievi che
abbracciavano la valle, fotografando sull'orizzonte lontani edifici collinari, simili alle
fauci di una fiera.
La bionda al suo fianco si fermò alla portiera posteriore della Audi, e non attese
che Ulisse o Marco la aprissero per lei ma si accomodò all'interno da sola; ' shvydko',
aveva semplicemente mormorato, il laconico corrispettivo ucraino di uno 'schnell'
tedesco – 'muoversi'.
Ulisse si avvicinò al posto del conducente; il vento gli picchiò in faccia, mutato in
un istante dal maestrale a uno scirocco foriero di tempesta.
I panfili al vicino ormeggio erano protetti da una diga foranea alla bocca del
golfo, eppure beccheggiavano con violenza; le onde schiumarono contro l'approdo in
cemento, spruzzando di salino i neri capelli di Ulisse mentre questi si rifugiava nel
tepore dell'automobile.
“La Mahmudy è una bestia, ma se la Capitaneria di Porto ha fatto evacuare anche
gli yacht più grandi rimanerci sopra è una stupidaggine.” commentò Marco, mentre il
motore si accendeva, portandoli verso l'intrico urbano delle strade, fra i palmizi e le
magnolie della passeggiata a mare.
“Demirci sa il fatto suo.” mentì Ulisse, sistemando lo specchietto retrovisore, nel
quale intravide un lungo spaccato di cosce accavallate, pelle dorata con uno sfondo di
pied-de-poule. “E poi c'è John.”
“Ci sarà anche il capitano, ma se il vecchio annega noi rimaniamo disoccupati. E
poi mi girano le palle che le leggi non esistano, per lui.”
“Quando sei così ricco puoi fare quello che vuoi.”
I due ragazzi condivisero uno sguardo, e gli occhi di Marco guizzarono per un
attimo verso il retro con un sorriso sbilenco.
“Compresa una modella che ha un terzo dei tuoi anni.”
Ulisse ignorò il commento, e fecero il resto del tragitto in silenzio, fino all'arrivo
all'albergo che si appoggiava alla collina più meridionale del golfo. Ancora una volta, la

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moglie di Demirci non attese che i dipendenti del marito aprissero la porta per lei, ma
uscì sotto alla pioggia.
“Ulisse, ascolta.” disse in ucraino. “Liberati di lui e poi torna qui. Parcheggia nel
garage sul retro e sali con l'ascensore diretto; ti scriverò il codice appena possibile.”
“Sei fuori di testa, Larysa.” rispose Ulisse con un accento identico a quello della
donna. “E se tuo marito venisse a trovarti?”
Larysa rimase impassibile. “Il vecchio non verrà. Non viene mai. Muoviti adesso.”
Ancora una volta 'shvydko', e si allontanò con lunghe falcate.
“Cosa vuole?” chiese Marco, sporgendosi per ammirarne le forme.
“Domattina vuole fare shopping. Non penso che le servirà un addetto di sicurezza
oltre a un interprete; quindi se vuoi farti una dormita, accomodati.”
Marco sorrise a labbra strette.
“Ah, non mi faccio pregare. Ma tu non sognare troppo, rischi di farti del male. È
fuori dal nostro campionato, oltre a essere la moglie di chi ci paga lo stipendio.”
Già, rifletté Ulisse senza dire una parola, così fuori dal suo campionato che
avevano fatto sesso il giorno stesso in cui si erano conosciuti, l'anno prima.
I due ragazzi attraversarono la città sotto a un acquazzone in crescita, fino al
ristorante dove il resto dell'equipaggio stava cenando; adesso doveva solo inventare una
scusa per rimanere da solo, cosa che sarebbe risultata sospetta se qualcuno avesse
anche soltanto ipotizzato la tresca.
Il cellulare di Ulisse squillò, risvegliandolo dalle elucubrazioni e fornendogli un
pretesto immediato mentre si fermava per far scendere Marco.
“Vi chiamo più tardi.” disse semplicemente, e si ri-immise in strada; il telefono
continuava a trillare, il numero 'sconosciuto'.
“Pronto.”
“Ulisse. Ulisse can you hear me?”
Inglese, con un inconfondibile accento turco.
“Yes, mr Demirci, I-”
“Shut up and listen!” berciò l'armatore, 'chiudi il becco e ascolta'. Non gli si era
mai rivolto in un modo simile, e un brivido salì lungo la colonna vertebrale del giovane
interprete.

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“Come on the Mahmudiy at once.” un altro comando perentorio, mai sentito sulle
labbra del vecchio: 'vieni immediatamente sulla Mahmudiy'.
La chiamata fu interrotta dal ritmico tono della linea caduta; Ulisse tentò subito
di richiamare il proprio datore di lavoro, ma il numero non era raggiungibile.
“Porca puttana.”
Era fatta, sapeva tutto, del tradimento di Larysa. Quale altro motivo avrebbe
avuto di aggredirlo verbalmente in un modo simile? Perché convocarlo a quell'ora della
sera, durante il suo turno libero?
Ulisse invertì la marcia e ritracciò il percorso verso il Porto Mirabello, accelerando
fra gli alloggi della marina e la mole scura dell'Arsenale militare.
Non poteva permettersi di perdere un lavoro tanto remunerativo, non per mero
sesso. Con i soldi che guadagnava era in grado di acquistare la compagnia di donne belle
quanto Larysa, o quasi. Ma la relazione consumata fra le menzogne era torbidamente
erotica... come lo era rubare a un milionario le attenzioni di una femmina che non
avrebbe sfigurato fra attrici e modelle.
Eppure, rischiare il proprio futuro in quel modo era una follia.
“Cos'ho nel cervello!” imprecò Ulisse, picchiando i pugni sul volante;
ciononostante, anche in quel momento, il ricordo del corpo perfetto di Larysa fra le sue
mani lo scosse con un fremito.
Maledetta sirena. Ulisse era conscio della propria sudditanza verso l'ammaliatrice,
ma non ne poteva nulla, e in fondo gli andava bene così.
Parcheggiò nel punto più distante dal posto di controllo della Capitaneria, e sfidò
le ondate costeggiando di corsa la banchina, sotto al diluvio.
Saltò sul barcarizzo, e inserì la combinazione numerica sul pannello della porta di
entrata, che si aprì scorrendo.
I movimenti delle onde erano aumentati, e un infido rollio si era aggiunto al
beccheggio; Ulisse attraversò l'ingresso e il corridoio ligneo di tribordo, con gli sguardi
austeri nei dipinti di famiglia appesi alle pareti che sembravano giudicarlo.
“Mister Demirci?” chiamò, notando che non filtrava alcuna luce dalla porta dello
studio. Silenzio.
Bussò due volte, ancora nulla.

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Trattenendo il respiro aprì la porta, e accese la luce; era solo in mezzo al mobilio
di mogano.
“Mister Demirci? John?”
Non ottenne risposta, neanche dal comandante in servizio. Ma Demirci
abbandonava di rado le sue stanze, e la cabina di pilotaggio era poco più in alto. Cosa
stava succedendo?
“Mansur? Vieni qui, bello.” chiamò Ulisse, aggiungendo un fischio insegnatogli
dall'addestratore del levriero afgano dell'armatore. Ancora una volta, silenzio.
Con un'ansia crescente che gli opprimeva il petto tornò nel corridoio, fermandosi
su un uscio a cuspide in stile ottomano. Demirci non sembrava il tipo da fare follie per
una donna – per il vecchio turco Larysa era una compagna-trofeo da esibire durante gli
eventi sociali, nulla di più. Nondimeno, macabre idee sulla vendetta di un milionario
tradito rallentarono i passi di Ulisse.
Quando accese la luce della sala mosse d'istinto un passo indietro. Sopra al
colorato kilim dell'Anatolia che copriva il pavimento giaceva il corpo di Mansur. Dopo
l'attimo di smarrimento Ulisse si precipitò al fianco dell'animale; era vivo, ma il suo
respiro era ridotto a un lievissimo sibilo, le membra immobili.
L'allarme nella voce di Demirci era per il proprio cane, non perché avesse
scoperto il tradimento della moglie! Aveva scelto di chiamare proprio lui solo perché lo
sapeva vicino e, in quanto suo interprete, era nella lista di chiamate rapide
dell'armatore.
Ulisse emise un lungo sospiro di sollievo, prima di realizzare che comunque
Mansur stava morendo; il possente corpo si contrasse appena, e gli occhi acquosi si
fissarono nei suoi, come se lo stesse pregando di aiutarlo.
Vincendo il timore reverenziale dell'affilata dentatura Ulisse gli aprì le fauci, per
cercare di capire cosa impedisse la respirazione; la povera bestia alzò appena una
zampa, ma non aveva più le forze per opporsi.
Proprio come aveva temuto, una massa scura otturava effettivamente la gola del
cane. Ulisse infilò le dita più in fondo che poté, ma non riusciva a raggiungere l'oggetto;
quando estrasse la mano c'era sangue misto alla saliva. L'animale stava morendo.

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“Spero di non fare un danno, piccolo.” mormorò con una carezza alla lunga
pelliccia di Mansur, e lo sollevò afferrandolo per la pancia; diede tre, quattro colpi alla
cavità addominale, improvvisando una manovra Heimlich. Poteva funzionare su un cane?
Ulisse tentò un ultimo, violento strattone, e cadde sulle natiche per l'inerzia del
gesto. Mansur si inarcò subito, e vomitò un lungo fiotto sul pregiato tappeto; con un
guaito si voltò verso Ulisse, appoggiando il muso sul suo grembo con lunghi sospiri
affaticati.
Il sollievo investì Ulisse come una droga. Non solo aveva salvato un povero
animale agonizzante, ma Demirci era ancora all'oscuro circa la sua relazione con Larysa.
La vita era bella!
Con un moto di interesse, scrutò il rigurgito di Mansur, curioso di sapere cosa
avesse soffocato un cane di quelle dimensioni.
“Oh, Dio Santo!” esplose con una punta stridula di isteria nella voce.
In mezzo al tappeto vi era un grosso pollice umano, reciso alla base del
metacarpo da una lacerazione frastagliata che si era portata via tutto il muscolo di
inserzione nel polso; la carnagione del dito era scura, color caffè.
La sensazione di minaccia fisica avvertita da Ulisse increspò uno strato di pelle
sulle sue braccia, e il ragazzo si alzò in piedi, reprimendo a fatica un tremito delle
gambe; i due unici occupanti della nave erano John e Demirci, rispettivamente un
irlandese dai capelli rossi e un turco più pallido di lui.
C'era un clandestino sulla Mahmudiy. L'assenza dei legittimi occupanti
dell'imbarcazione gelò il sangue nelle vene di Ulisse, rinforzando le immagini di violenta
tragedia che la sua fervida mente gli suggerì. Prese il telefono. Nessuna linea.
“Merda, il temporale.” sussurrò, suscitando un guaito del levriero, che si
acciambellò ai suoi piedi, stremato.
Si impose di ignorare le ondate fredde di terrore che lo paralizzavano, e uscì nel
corridoio, fra ombre che non poteva scacciare con la pressione di un interruttore dalla
posizione in cui si trovava. Il suo respiro era rarefatto come in alta montagna.
I gradini verso prua erano illuminati a intermittenza dai fulmini, e sembravano
ondeggiare a tempo con il movimento dell'imbarcazione; tanto minaccioso sembrava il

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percorso che lo avrebbe condotto alla cabina di comando, quanto allettante risultava
l'ingresso illuminato dai lampioni del porto.
Ulisse si convinse a fuggire. Spalle al muro, rasentò i pannelli lignei, un passo alla
volta; a ogni eco di tuoni lontani, a ogni rollio più violento del precedente, faceva
scattare la testa – destra e sinistra, verso entrambe le estremità del corridoio. Quando
conquistò il pannello a fianco della porta a vetri era passato un quarto d'ora.
Uno-cinque-sette-uno. Le ante si separarono con un soffio; Ulisse fu investito da
vento freddo e acqua nebulizzata.
“Siiiii-.” esultò con una lunga espirazione. Era salvo, e adesso doveva soltanto
trovare la Capitaneria di porto, era sufficiente-
La lama lo colpì di poco sotto alle costole fluttuanti sul fianco destro,
squarciando il suo piumino, che si tinse subito di vermiglio; tentò di urlare, ma non
emise alcun suono. Strinse entrambe le mani attorno al braccio che impugnava il
coltello, una delle lame giapponesi della cambusa.
Un energumeno dalla pelle scura come la torba lo spinse all'indietro, tappandogli
la bocca con una mano compressa da uno straccio insanguinato, e lo costrinse a
rientrare con lo strazio dell'acciaio nelle carni. L'uomo aveva le proporzioni fiere di un
namibiano, e torreggiava su di lui di una testa abbondante.
Dopo quella che parve un'eternità l'aggressore ritrasse la lama, e spintonò Ulisse
nell'ingresso; il ragazzo premette subito sulla ferita, e con un guizzo mutuato
dall'adrenalina riuscì a voltarsi e fuggire.
Si sarebbe barricato nella cabina di pilotaggio, avrebbe chiesto soccorso via
radio! Udì un grugnito alle spalle, e seppe che il namibiano non si era fatto sorprendere
dal suo scatto; accelerò nel buio, sperando che la conoscenza dell'ambiente gli fornisse
il vantaggio necessario a seminare il suo aggressore.
Superò le ceramiche del bagno, coprì i gradini con un balzo, e si voltò per salire
ancora, raggiungendo il vano più alto dello yacht; una volta guadagnata la penombra
della stanza sbatté la porta, e la chiuse con due mandate. Afferrò il ricevitore della
radio satellitare, premette il tasto del segnale di emergenza, e senza alcuna cognizione
ulteriore di quel che avrebbe dovuto fare attivò la comunicazione, urlando 'mayday,
mayday!'

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Le forze lo stavano abbandonando; con una lieve diminuzione dell'adrenalina una
fitta alla pancia lo scosse, facendolo cadere in ginocchio. In quel preciso istante la
serratura sferragliò, e la maniglia si mosse. Il namibiano aveva un paio di chiavi!
L'uscio si aprì, e la grande testa scura emerse dal piano inferiore.
Ulisse non era più in grado di fuggire, o tanto meno di opporsi, ma il namibiano
non lo aggredì; strabuzzò gli occhi, esalando un respiro rantolante, e scivolò all'indietro,
con una caduta rovinosa che risuonò attraverso tutta la Mahmudiy.
Passarono lunghissimi istanti, e una chioma bionda emerse dalle scale.
Larysa lo vide, notò la sua ferita, e chiuse gli occhi, rimanendo immobile; infine
si scosse con un sospiro. In mano stringeva un sottile cacciavite, lucido per gli umori che
ne coprivano la sommità.
Era salvo. Cercò di tendere una mano verso la sua salvatrice, ma non aveva più
forze per farlo.
La bella ucraina lo raggiunse nella cabina, e disattivò il segnale d'allarme.
“Non dovevi essere qui.” Il suo tono era glaciale; riappese il ricevitore. Ulisse
ebbe una scarica di terrore tale che ritrovò la forza di stendere le gambe, per un attimo
soltanto; Larysa lo spinse a terra, facendolo crollare all'indietro.
“Perché?” riuscì a boccheggiare lui. Larysa gli premette in mano il punteruolo con
cui aveva ucciso il namibiano, dopodiché si voltò, e Ulisse la seguì con lo sguardo. Più
all'interno vide il corpo di Demirci, riverso in una chiazza di sangue viscoso, le sue
membra esangui.
“Perché. I soldi, ovvio.” spiegò Larysa, mettendo in mano al defunto marito un
batticarne sporco di capelli rossi. John. “Non eri parte del piano, ma hai reso tutto più
semplice. Almeno risulterai l'eroico dipendente che ha difeso fino alla morte il proprio
armatore. All'irlandese va peggio – il codice che l'africano ha usato per entrare era suo.”
Nient'altro, nessun torto segreto che il marito le avesse rivolto, nessun trauma
passato. I soldi.
Gli occhi di Ulisse si chiusero, l'ultimo dettaglio impresso sulla loro retina le
lunghe gambe di Larysa che si allontanavano, meravigliose sotto al sipario di tweed.
Maledetta sirena.

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