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Senza sogni, senza più

amicizie o amore
di Mauro Sorgato

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Quella dannata mattina di Marzo 2008 tutto era perfetto, come per una sorta di
contrappasso di ciò che stava per travolgermi; la risonanza preventiva della crisi
economica a venire, compagna della fine della mia vita come la conoscevo.
Attraversai Piazza del Capitanato sotto a una pioggia di semi di romiglia, che
volteggiavano nell'aria come tanti piccoli paracadutisti, e mi diressi verso la colorata
insegna del mio studio; la fiorista all'angolo mi rivolse un sorriso e un cenno del mento
come ogni mattina, e le risposi con un rapido inchino, unendo le palme delle mani.
I suoi occhi scuri rilucevano ancora del sole caraibico che aveva benedetto per tante
generazioni la sua famiglia, un'altra nota di colore in quella radiosa mattina di Padova.
Svoltai l'angolo con le labbra ancora incurvate in su, e prima di rendermene conto mi
trovai in mezzo a una calca di persone in divisa davanti alle porte della palestra.
“Buongiorno.” esordì il più alto, un uomo dallo sguardo penetrante e un'esposizione
di mostrine sul petto ben più ampia rispetto ai suoi colleghi.
“Lei è Mauro Sorgato? È lei che insegna Yoga qui?”
Annuii, assumendo inconsciamente il cipiglio che non mi avrebbe più abbandonato
per molto tempo. “È successo qualcosa? Come posso aiutarvi?”
“ Se potessimo parlare all'interno...” mi rispose il militare.
Annuii ancora, disorientato, e aprii la saracinesca sotto agli sguardi torvi dei quattro
Carabinieri attorno all'ufficiale; l'unica donna fra gli agenti non si preoccupò di celare una
smorfia a labbra arricciate ogni volta che mi posava gli occhi addosso.
La situazione era abbastanza strana da lasciarmi in balia di un'agitazione impotente
– il mio primo chakra era ghiacciato dall'inquietudine; perché questi militari mi erano così
apertamente ostili, rasentando il disgusto?
Finalmente, dopo essermi offerto invano di preparare un infuso o un tè, l'ufficiale
tornò a parlarmi.
“Signor Sorgato, le dice nulla il nome Sandra Gallo?”
La tensione svanì, e fui colto soltanto da rassegnato scoramento.
“Certo che la conosco... ho cercato di aiutarla in ogni modo, ma non c'era verso che
mi ascoltasse. Se è per il vetro rotto, non intendo sporgere denuncia.”
“Dunque la sua risposta è si, signor Sorgato; un semplice 'si, la conosco' sarebbe
stato sufficiente.”
Con un gesto brusco premette fra le mie mani un plico di carte e mi rivolse un sorriso
sbilenco, vuoto.
“Come da articolo 369 del Codice di Procedura Penale, le notifico questa

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informazione di garanzia a suo carico per molestie sessuali verso la signorina Gallo
Sandra, secondo la Legge 66 del 15 Febbraio 1996, articolo 609 bis...”
Se fossimo stati in un cartone animato la mia mandibola avrebbe penzolato per
qualche istante, per poi infrangersi a terra con il resto del mio corpo, cristallizzato.
“C-che cosa?” riuscii soltanto a domandare, uno sciocco balbettio come palesamento
del mio stupore.
La donna in divisa mi ringhiò contro, letteralmente; gli altri militari non servivano per
sopraffarmi se fossi diventato violento, ma al contrario erano lì per assicurarsi che la loro
collega non facesse sciocchezze. Ai loro occhi, ero già colpevole.
Mi ripresi in tempo per impormi una parlata lenta e composta; visualizzai la
circolazione del prana fino al quarto e quinto chakra – dovevo spiegare come stavano
veramente le cose.
Oltre la vetrina, apparvero gli sguardi dei negozianti della piazza; l'omone rubizzo
che preparava focacce farcite all'angolo scosse il capo, il suo sguardo abbassato per non
incontrare il mio.
La bocca del mio stomaco avvampò per l'acidità. Non potevano giudicarmi tutti per
un crimine che non avevo mai commesso!
“No, no,” mi venne addirittura da sorridere per l'assurdità di tutto questo. “Sandra ha
seri problemi, io l'ho aiutata... doveva dormire qui in palestra per qualche giorno, mentre
suo padre si riprendeva da una delle sue bravate alcoliche. Io–”
“Non deve dirlo a me.” mi interruppe l'ufficiale. “Si cerchi un avvocato. Buona
giornata.”
Notai appena che le persone attorno a me uscirono dallo studio, che la calca oltre le
vetrine dipinte a fiori di saala si dissipava.
È così che terminò la mia vita per come l'avevo sempre conosciuta.

Bepo Gallo, il padre di Sandra, era disoccupato. Non poteva lavorare perché invalido
al settanta percento, ma lo stato non riconosceva la sua disabilità: erano andate perse
tutte le prove che avesse mai effettivamente fatto parte dell'esercito. La veridicità delle sue
pretese era effettivamente scarsa: ignorava di quale reggimento avesse fatto parte, quale
grado o competenze tecniche gli fossero appartenute, o in quali missioni avesse
partecipato in quanto sedicente 'veterano dell'Iraq'. Nulla. “Amnesia.”
Ma io conoscevo quel tipo di persona, sapevo chi era veramente. Bepo era uno di
quegli infami che rifiutano di pagare una scommessa persa. Un furbo convinto di aver

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capito tutto della vita perché campava sulle spalle del sistema, e sulla bontà degli altri.
Quando Sandra si era presentata in palestra per la sua lezione di prova, aveva le
pupille dilatate da chissà quale schifezza, nel bel mezzo del pomeriggio. 'Tutto normale', a
casa sua capitava. Dopo un mese di vita sana, circondata da esempi positivi, non fumava
neppure più.
Tutto andò bene, finché Bepo non decise di dedicare più attenzioni alla figlia, guidato
dalla cieca arbitrarietà della miseria morale; 'nulla di sessuale', o almeno così mi aveva
assicurato Sandra, alleviando con una borsa del ghiaccio il bruciore dello zigomo
tumefatto.
“Mi ha colpito solo una volta.” lo aveva giustificato, senza neppure rendersi conto di
quanto fosse diventato distante il proprio sguardo in quei giorni. Dovevo fare qualcosa.

La convinsi a dormire in palestra per un paio di notti, giusto per far passare i postumi
dell'illogica maratona alcolica con sé stesso che Bepo sembrava intento a vincere.
Quando le affidai le chiavi si protese per abbracciarmi, e non mi tirai di certo indietro;
capita anche a lezione che qualcuno abbia un improvviso bisogno di affetto, che io
condivido con piacere sotto forma di una carezza o un complimento, o anche un
abbraccio.
Sandra ruotò il bacino in avanti, e si premette a me in modo molto poco affettuoso,
cercando le mie labbra con le sue. Il mio errore fu non spingerla via in malo modo. Rimasi
immobile finché non smise di baciarmi; speravo che l'imbarazzo della mia non-
reciprocazione l'avrebbe fermata, ma anzi ricercò la mia bocca con più foga, tirandomi a
sé per la cintura.
Quando la fermai corse via urlando che ero un bastardo, che l'avevo presa in giro
come tutti gli altri. Attesi in palestra, la chiamai invano sul cellulare, ma niente; fino alle
quattro di mattina, quando il mio sonno fra stuoini da Yoga e palle da Pilates fu interrotto
dal mattone che frantumò la vetrina del mio studio.
Sandra mi guardava attraverso i frammenti aguzzi del vetro, il trucco attorno ai suoi
occhi squagliato dal pianto.
Non disse nulla, e corse nuovamente via.

Non si presentò neppure all'incidente probatorio. 'Non se la sentiva di rimanere nella


stessa stanza con me'. La voce monotona del suo avvocato spiegò che le mie 'morbose
attenzioni' durante le lezioni di Yoga l'avevano spinta in una sorta di sudditanza

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psicologica nei miei confronti, che io avrei sfruttato trascinandola in una torbida relazione.
Una sua amica che non avevo neppure mai visto testimoniò di aver frequentato le mie
lezioni, e di aver assistito ai miei modi 'inopportuni' di toccare alcune studentesse.
Il processo andò avanti per quattro anni, e io non vidi mai più Sandra.
Il caso fu archiviato per insufficienza di prove: nulla di cui ero accusato poteva essere
provato. Ma non poteva neppure essere smentito oltre ragionevole dubbio, e infatti agli
occhi di molti, io rimanevo colpevole.

Fui costretto a chiudere lo studio prima del 2009; la crisi fu meno grave che altrove,
ma si sentì anche a Padova. Si sente ancora.
In quell'ottica, dovevo anche far fronte al biasimo; persi iscritti di giorno in giorno, e
poco contava che fossi innocente. C'erano pochi soldi, perché sprecarli con un presunto
pervertito, facendo strane posizioni, che magari chissà, alcune poi sono pure ambigue e
un po' sessuali...
Dovetti trovarmi un lavoro in fabbrica, un'incessante ripetizione di gesti che tentai di
far diventare un mio Yoga personale... qualunque cosa pur di preservare la scintilla che ci
rende umani.
Un giorno in fabbrica trovai anche l'omone rubizzo che mi aveva biasimato nel primo
giorno del mio incubo, il focacciaio; non distolse i suoi occhi dai miei mentre ci
presentavamo, e anche se non si scusò mai per avermi creduto colpevole, capii di aver
davanti un altro uomo nuovo, forse forgiato dalle avversità che erano toccate a lui.
La fiorista di piazza del Capitanato continuò sempre a sorridermi, ogni volta che
passeggiavo fino alla mia vecchia palestra. Divenne quasi un rito del sabato, quando
invece di andare in fabbrica prendevo un caffè in piazza e fantasticavo di parlare con
questa bella giovane, che magari non mi avrebbe alienato come la maggior parte delle
persone che frequentavo prima del processo...

Arrivò il 2014; si diceva che la crisi sarebbe finita molto prima, al massimo nel 2012,
eppure nel Marzo 2014 ci furono i primi tagli in fabbrica.
Non avevo più lo Yoga, e da un po' di tempo avevo iniziato a chiedermi che senso
avesse una vita simile. Senza sogni, senza più amicizie o amore...
Ogni tanto, mentre sorseggiavo il mio caffè sabatino, sospiravo pensando ai bei
tempi passati da così poco, eppure così lontani; sognavo di fuggire via, di andare in un
luogo caldo, di coltivare la terra. Avrei dovuto faticare anche più che in fabbrica, ma sarei

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stato a contatto con qualcosa di vivo... sarei tornato in sintonia con la natura, e con me
stesso.
'Sassofratto, frazione del comune di Terni. Diciotto abitanti attualmente residenti, e il
sindaco garantisce alloggi gratuiti a chi voglia trasferirsi e lavorare in località. Si affittano
gratuitamente campi e terreni agricoli della Provincia.'
Abbassai i fogli delle inserzioni immobiliari, e sospirai verso il verde chiosco che-
Che stava chiudendo. 'Vendesi', diceva il grosso cartello in vetrina; la giovane donna
caraibica che tanto avevo idealizzato negli anni sospirò, circondata adesso da cavalletti
spogli e scaffali vuoti, e tornò a chiudere un grande scatolone.
Mi resi conto che stavo correndo quando mi trovai davanti al legno brunito del
negozio, udii la campanella ancora legata alla porta, e il sorriso che avevo ammirato
sempre e soltanto oltre un vetro mi accolse.
Avevo il fiatone, e dovevo avere un'espressione un po' pazza in volto, a giudicare
dalla risata appena trattenuta dalla fiorista.
“Ci vediamo da tanti anni, ma non ci siamo mai presentati. Io sono Mauro. E non
posso farti andare via senza neppure averti mai parlato! Come mai sta chiudendo il
negozio? Vi spostate?”
Non appena smisi di soverchiarla di inutili parole annuì, e il suo sorriso si appiattì di
un nonnulla, quanto bastava a farmi intuire il suo dispiacere.
“C'è crisi. Il negozio chiude, io devo andare via se non trovo un altro lavoro... ma oggi
non pensarci. Speravo di vederti, è sabato!”
Il mio volto era improvvisamente più caldo, ma la mia interlocutrice interruppe
l'imbarazzo porgendomi una mano.
“Sono Marisol. Ce ne hai messo di tempo prima di venire a salutarmi! Finisco di
chiudere e poi ci prendiamo un caffè insieme?”
Il cuore mi batteva con la stessa violenza della prima notifica del calvario legale che
sarebbe seguito, ma non era accompagnato dalla paura e dal rimpianto. Il cipiglio incarnito
nel corso di sei anni si sciolse, e il sorriso arrivò fino ai miei occhi.
“Volentieri. Dunque sei disoccupata... hai mai sentito parlare di Sassofratto, in
Umbria?”
Forse ero ancora in grado di abbandonarmi alla speranza di un sogno; c'erano
prospettive per l'amicizia, se uno sconosciuto focacciaio si era messo in discussione e mi
si era avvicinato dopo tanto fango sul mio nome; e l'amore, ah. Vedremo.

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