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CORSO di ECONOMIA e POLITICA ALIMENTARE

LEZIONE 1 del 28 Febbraio 2017


Voto unico con il corso di Psicologia. Il prof. Farà una media ponderata dei due voti (7 crediti
economia, 5 crediti psicologia).
Il prof. divide la docenza del corso con la Dott.ssa Cavaliere, il prof. deve fare le ore corrispondenti
a 4 crediti, mentre Cavaliere 3 crediti. È un corso con due docenti. Martedì ci sarà la Cavaliere,
mercoledì lo farà il prof.
Si parlerà di economia agroalimentare e economia della sostenibilità ambientale.
Economia agroalimentare: economia che riguarda tutta la produzione di alimenti, il mercato, il
comportamento del consumatore, le politiche alimentari.
Sostenibilità/Sviluppo Sostenibile: utilizzo razionale delle risorse in modo tale da non esaurire
completamente tutte le risorse e non lasciare nulla alle generazioni future, soprattutto se si parla di
risorse non rinnovabili. Far fronte alle nostre esigenze però con questo approccio di equità
intergenerazionale, per lasciare il mondo anche alle generazioni future.
Ci deve essere EQUITÀ INTERGENERAZIONALE.
Economia della Sostenibilità Ambientale: rispetto dell’ambiente, utilizzo di risorse basso impatto
ambientale. È l’economia applicata allo sviluppo sostenibile, anche detta Bio-Economia.
Tutti processi che partono da organismi viventi.
Le ricerche si focalizzano su 3 aspetti fondamentali:
1- CONSUMER BEHAVIOUR (dalla parte della domanda economica): come si muove il
consumatore, cosa sceglie e cosa fa riferito al prodotto alimentare. Analizzare il suo
comportamento, le sue scelte e capire i fattori determinanti che le influenzano.
Il problema obesità assume anche un aspetto economico molto rilevante. Perché? Perché l’obeso
impegna molto di più i servizi sociali, cioè necessita ad esempio di molte più cure sanitarie e farmaci
e incide sui costi della collettività. La persona obesa poi crea anche dei costi indiretti, dovuti al fatto
che sono persone meno produttive e hanno maggiori assenze sul lavoro ecc. Ad esempio negli Stati
Uniti la popolazione obesa raggiunge circa più del 30% perciò si inizia a sentire l’incidenza della
minor produttività, inizia a essere una componente importante.
Nell’ottica della salute pubblica è importante capire cosa sta dietro alle scelte del consumatore in
modo da poter modificare alcuni fattori e sostenere scelte più salutari o anche ridurre l’incidenza
dell’obesità.
Si stanno da poco studiando anche le scelte dei bambini, è un lavoro preliminare ma si sta iniziando.
Un grosso problema è anche l’obesità infantile (Italia 1° posto in Europa, abbiamo moltissimi bambini
obesi nella nostra società).
Trovare le politiche per favorire consumi più salutari.
2- FILIERE AGROALIMENTARI (dalla parte dell’offerta): insieme delle attività che va dalla
produzione agricola, alla trasformazione industriale, alla distribuzione, alla ristorazione fino
ai consumatori. Si studia come sono organizzate le filiere e si guardano le relazioni tra il
produttore agricolo e la produzione industriale ad esempio, quali standard di sicurezza
alimentare e sostenibilità possono essere adottati o quali standard devono essere rivisitati.
Esempio di sostenibilità: associazioni che combattono per la pesca sostenibile o per la coltivazione
che non vada a distruggere la foresta pluviale. Le aziende che vogliono investire sulla sostenibilità
devono fare modifiche importanti nelle filiere e mettere in atto un coordinamento verticale che vada
dall’agricoltura alla distribuzione. Ci si sta specializzando sulla TRACCIABILITA’ e su come questo
criterio sta modificando le relazioni di filiera sia per motivi di sicurezza alimentare che di qualità del
prodotto e sostenibilità.
3- POLITICHE AGROALIMENTARI: in particolare sull’etichettatura, sulla sicurezza
alimentare, sull’obesità, sulla sostenibilità.
Obiettivi del corso:
1- Saranno forniti Concetti base di economia che servono per affrontare meglio l’analisi
dell’economia agroalimentare, il focus di questo corso è appunto sui mercati alimentari e la
loro struttura e quali politiche bisogna attuare quando questi non funzionano. Parleremo di
domanda/offerta, impresa, consumatore.
2- Sviluppare le conoscenze per analizzare l’organizzazione delle filiere e annesse principali
problematiche del mercato mondiale in termini agroalimentari (Obesità VS Fame nel mondo).
3- Analisi delle politiche dell’UE per il settore alimentare: etichettatura, sicurezza, tracciabilità,
qualità.
Un mercato va bene quando la domanda soddisfa l’offerta ma può anche fallire per diverse
problematiche come la scarsa informazione, allora ci vuole un intervento politico.
Esempio: Health Claim sono frasi, diciture presenti in etichetta per mettere in luce un particolare
effetto che può avere un componente dell’alimento sulla salute. Può essere un effetto benefico o una
riduzione di rischio (esempio malattie CV). Se non ci fosse una regolamentazione e i produttori
potessero scrivere quello che vogliono potrebbe avvenire pubblicità ingannevole, sopravalutazione
dei prodotti commercializzati. È necessaria una legge perché se no il produttore tenderà ad avere un
atteggiamento OPPORTUNISTICO nei confronti del consumatore, che dal canto suo comunque ha
una certa disponibilità verso lo spendere denaro. Perciò il produttore cerca di vendere il prodotto
mettendo in luce attributi che non sono provati a livello scientifico perciò non sono del tutto veritieri.
Negli anni ’90 l’UE ha fatto un regolamento sulla agricoltura biologica perciò adesso si possono
definire biologici solo prodotti che rispettano un determinato disciplinare e devono subire dei
controlli; solo i produttori che sottostanno a questo disciplinare hanno la possibilità di usufruire del
marchio corrispondente. NON SONO AMMESSE altre certificazioni. Se non si ha questo tipo di
certificazione non si possono vendere prodotti definendoli biologici, è vietato. Prima degli anni ’90
non c’era una regolamentazione e “tutto era biologico”. Non c’era una definizione precisa e netta.
Se non c’è regolamentazione è LEGALE scrivere gli attributi di un prodotto. Il mercato però non
funziona bene perché c’è l’atteggiamento opportunistico delle imprese e scarsa informazione da parte
del consumatore. Il mercato fallisce perché con i suoi mezzi non è in grado di garantire al consumatore
che sta acquistando un prodotto corrispondente alle sue aspettative e preferenze e che quindi il prezzo
che paga è corretto.
LEGGE IL PROGRAMMA DEL CORSO: Vedi “Programma di Economia e Politica alimentare”
La parte 3 (vedi sopra) è molto importante per sapere le regole del mercato alimentare nello specifico.
È stato inserito un corso di economia perché ha a che fare con il consumo, con l’alimentazione. È
importante orientarsi nel mercato agroalimentare, nella regolamentazione comunitaria e essere
informati sulle policy che si possono applicare.
MATERIALE DIDATTICO
Non esiste un manuale specifico e preciso, consiglia di basarsi sulle slide con il materiale 2017. Le
carica sul suo sito tra 15 giorni (metà marzo). Chiede SOLO quello che fa a lezione. Dà comunque
sempre delle Reference per approfondire, così chi è interessato può andare a leggere gli articoli.
I libri in circolazione non sono molto aggiornati purtroppo.
ESAME
ORALE. Ma i primi appelli (1 appello a fine giugno e 2 a luglio) sono sempre molto pieni, poi altri
2 a settembre. Se ci sono tante persone iscritte il prof. Decide di fare un esame SCRITTO, di tipo
discorsivo. Capita soprattutto negli appelli di Luglio e si decide al momento. Da settembre in poi
invece sempre orale.
ECONOMIA
Fa parte delle scienze sociali, come sociologia, psicologia. È indirizzata a studiare come gli individui
si rapportano all’interno di una specifica società, di una comunità. È l’oggetto dell’economia. Il
problema fondamentale dell’economia però è quello della scarsità: un problema diventa “economico”
quando è presente una questione, un aspetto legato alla scarsità. Un bene diventa economico quando
è scarso; se c’è abbondanza di un bene allora questo NON è un bene economico. Anche l’aria è un
bene economico adesso (perché adesso è praticamente tutta inquinata, è scarsa l’aria pulita). Anche
il tempo dedicato alle “non-working activities” nella vita odierna è diventato un bene economico
perché scarseggia, è prezioso, diventa risorsa economica.
Il problema economico è come distribuire questo tempo che ho a disposizione nelle diverse attività
da svolgere. In base alle mie priorità personali faccio una SCELTA economica (tempo pieno piuttosto
che part-time). Il non-working time viene valorizzato. Il tempo è così prezioso che ad esempio
l’insalata già pulita di quarta gamma ha un prezzo 5 volte superiore rispetto all’insalata comune. Non
è la tecnologia usata e applicata che ha fatto aumentare così tanto il prezzo dell’ortaggio, ma il
risparmio sul bene economico “tempo”. È un prodotto con molto successo, è un sistema per
monetizzare il nostro tempo, perché il nostro tempo vale tantissimo. Siamo molto disponibili a dare
un valore al nostro tempo. C’è anche il valore assoluto da tenere in considerazione.
L’economia alla fine studia la scarsità delle risorse e le scelte conseguenti migliori da fare per non
peggiorare la situazione. Devono essere scelte efficienti. (il reddito è basso rispetto alle nostre
esigenze). Problema di scelta e allocazione del denaro.
Devo fare scelte efficienti quando c’è un problema di scarsità. Può trattarsi di singoli individui
(microeconomia) o di società nel suo complesso, uno stato, un’organizzazione internazionale
(macroeconomia).
La psicologia studia i processi cognitivi non il problema della scarsità. La sociologia studia altro
ancora.
Un’altra definizione di economia di Samuelson: “Modo in cui le società utilizzano risorse scarse per
produrre beni che sono utili, e come i vari beni vengono distribuiti tra i diversi soggetti”, ritorna
sempre la scarsità, ma si focalizza anche sui beni. La distribuzione dei beni è un altro problema grosso
dell’economia: non solo i ricchi devono permettersi i beni, è importante anche la
RIDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA in modo che una parte rilevante della popolazione sia
in grado di acquistare i beni che sono utili.
L’economia si differenzia in CATEGORIE:
1 POLITICA: in inglese “Economics”. Si occupa del problema della scarsità, crea le teorie di
riferimento sia per il comportamento dei singoli, sia per il comportamento della società nel suo
complesso. È una scienza POSITIVA, cioè guarda la realtà e cerca di rappresentarla, non interessa
dire cosa deve fare un individuo, ma piuttosto capire quello che l’individuo fa. Analizza i
comportamenti praticamente.
Problematiche Microeconomiche: come si comporta il consumatore, come interagiscono
domanda/offerta sul mercato, cosa fanno le imprese
Problematiche Macroeconomiche: crescita del debito pubblico, andamento del Prodotto Interno
Lordo
Il nostro corso comunque si sofferma sulla MICROECONOMIA.
2 AZIENDALE: parte dai presupposti della microeconomia, ma poi si focalizza solo sull’impresa.
L’obiettivo dell’economia aziendale è capire come si gestisce al meglio un’impresa. Studia il bilancio,
studia gli strumenti migliori per mettere in luce l’andamento dell’impresa, studia l’organizzazione
del lavoro all’interno dell’impresa, la strategia dell’impresa, il fatturato, lo stato patrimoniale ecc.
studia anche il marketing per posizionare bene il prodotto sul mercato.
Esiste anche l’economia APPLICATA AD ALTRI SETTORI, ad esempio quella agroalimentare,
industriale, del turismo, finanziaria, si utilizzano criteri derivanti dall’analisi microeconomica
applicata a determinati settori specifici
Un discorso a parte è invece la POLITICA ECONOMICA: da NON confondere con l’economia
politica. Quest’ultima è una scienza positiva perciò studia quello che succede nella realtà, mentre la
POLITICA ECONOMICA è una scienza che studia cosa bisogna fare per raggiungere un certo
obiettivo. È una politica di regolamentazione. Nel momento in cui c’è bisogno di una
regolamentazione, devo studiare quale devo mettere in atto. Studia come aumentare la crescita, quale
deve essere l’imposizione fiscale, come ridurre/aumentare l’inflazione.
Noi studieremo soltanto le “Food Policies” ovvero le politiche applicate al settore alimentare. È
attinente specificatamente al settore.
Mostra 2 grafici presi da un giornale: Tasso di disoccupazione da Gennaio 2015 a Gennaio 2016. È
un esempio di notizia economica attinente alla macroeconomia.

LEZIONE 2 del 01.03.2017


Prof. Cavaliere. Le slide sono disponibili sul sito di Banterle, quindi andate su “chi e dove” di unimi,
trovate Banterle, andate nella sua pagina, sezione didattica a e poi potete scaricare le slide che sono
in linea di massima quelle che seguiremo a lezione. Per scaricare le slide vi chiederà una password e
questa password è alimentazione( non comprarle).
Chiede se c’è qualcuno che registra e dopo risposta affermativa asserisce che l’unica cosa che può
fare è che piuttosto che farci sbobinare e mandare in giro magari cose sbagliate potrebbe, lezione per
lezione (2 lez alla volta), dare una letta grossolana per capire se i concetti macro sono giusti.
Tutto questo per non farci comprare delle dispense costose che magari sono pure sbagliate.
Per qualsiasi cosa scrivere alla sua mail, l’esame generalmente è orale anche se le ultime volte è stato
fatto scritto per necessità.

Cominciamo a parlare di uno dei concetti fondamentali. Quando parliamo di economia uno dei
concetti che dobbiamo avere chiaro è CHE COS’È IL MERCATO e quali sono gli attori che
intervengono in questo mercato.
Il mercato noi lo definiamo come un incontro virtuale tra domanda ed offerta.
DOMANDA e OFFERTA sono altri due concetti fondamentali che sentiremo più volte durante il
corso ed è importante capire cos’è la domanda e cos’è l’offerta.
Questi sono i primi 3 concetti fondamentali (MERCATO-DOMANDA-OFFERTA).
Quando definiamo il mercato come incontro virtuale tra domanda e offerta intendiamo che si
incontrano cioè si mettono d’accordo. Quindi se noi immaginiamo il mercato come il mercato della
frutta e per semplicità noi diciamo che la domanda non è altro che l’acquirente quindi per esempio
noi che andiamo al mercato a chiedere un prodotto, dall’altra parte abbiamo l’offerta. L’offerta è chi
offre ovvero qualsiasi persona che è li per vendere.
Quindi intendiamo l’incontro come accordo, ovvero, l’agricoltore ha venduto la mela a 2€ ed io ero
disposta ad acquistare quella mela a 2€. Quindi quando noi definiamo il mercato come l’equilibrio,
come punto d’incontro tra domanda ed offerta altro non è che venditore e compratore che sono riusciti
a trovare un incontro, questo incontro è quello che definiamo equilibrio del mercato che altro non è
che il prezzo.
In conclusione quando noi definiremo il mercato lo definiremo come: l’incontro tra la domanda e
l’offerta in un punto dell’equilibrio che definiamo prezzo.
Quindi tornando al nostro esempio, la domanda siamo noi che siamo disposti a pagare per quel
prodotto un determinato prezzo e riusciamo a trovare l’equilibrio con il venditore che è disposto a
vendere quel prodotto a quel determinato prezzo. Nel momento in cui non sono disposta a pagare
quel prodotto a quel prezzo (mela non a 2€ ma la voglio a 1.50€) l’equilibrio non avviene. Ogni volta
che al supermercato compro qualcosa noi abbiamo raggiunto un equilibrio, è come se noi andiamo
virtualmente, ogni volta che acquisto, ad incontrare l’offerta.

Nel momento in cui noi diciamo che quel prodotto non va bene, lo scartiamo e optiamo per un altro
prodotto, non c’è un punto d’incontro e quindi il mercato non funziona.
Il primo concetto da fissare bene quindi è quello del MERCATO perché una parte del corso sarà
dedicata ai fallimenti del mercato, vedremo quindi che il mercato non sempre è un modo efficiente
per governare domanda ed offerta (La asimmetria informativa è un esempio in cui il mercato fallisce
perché io vado al supermercato e non so se quello che sto acquistando è realmente quel prodotto , ma
la vedremo più avanti)
COS’È LA DOMANDA? La domanda (individuale) è la funzione di qualcosa, cioè il fatto che io
scelgo un prodotto piuttosto che un altro ovviamente dipende da una serie di fattori, più di tutti il
prezzo, a un determinato prezzo corrisponde una risposta della domanda.
Quindi sicuramente uno dei fattori più importanti che possono influenzare la quantità domandata è il
prezzo del bene (PRIMA VARIABILE).
Se noi dobbiamo disegnare la domanda avremo qualcosa di questo genere dove abbiamo sugli assi il
prezzo e la quantità.
La Prof. Puntualizza che i grafici non sono tantissimi ma chiede di ricordarsi di nominare gli assi.

All’aumentare del prezzo, la quantità domandata diminuisce (inversamente proporzionale). La retta


dell’offerta è opposta a quella della domanda, dove le due rette si incontrano (punto centrale) è il
punto di equilibrio e rappresenta il prezzo.
Questa è la prima variabile che influenza la funzione di domanda, quindi abbiamo detto che una delle
cose che influenzano di più la domanda è il prezzo del bene.

Un altro concetto è il prezzo del bene sostituto (SECONDA VARIABILE), quando si parla di bene
sostituto intendiamo tutto ciò che può contribuire a massimizzare l’utilità del consumatore ma che è
un altro bene.
Concetto molto complicato. Noi pensiamo alla massimizzazione dell’utilità come la massimizzazione
di un beneficio , quindi io massimizzo la mia utilità andando al supermercato e comprando un
prodotto che costa 3€ rispetto ad un prodotto che costa 4€ ovviamente io ho massimizzato la mia
utilità perché quel prodotto che io volevo e che costa 4 l’ho trovato a 3. Questo concetto è un concetto
vero ma solo quando io considero una sola variabile prezzo, se io considero più variabili può
succedere che c’è si un prodotto che costa di più ma che ha delle caratteristiche, per esempio nutritive,
che mi interessano di più.
In termini economici non parliamo di ”mi fa stare meglio” ma parliamo di “utilità”. L’obbiettivo
finale del consumatore è quello di massimizzare al meglio l’utilità.
Il bene sostituto può essere visto come bene identico ma di un altro marchio (due biscotti di marchio
diversi). In altri casi posso parlare di bene sostituto quando abbiamo due prodotti che non
differenziano dal marchio ma sono bensì prodotti simili tipo arancia e mandarino ( sono considerati
beni sostituti). Questo significa che nel momento in cui io ho un processo di decisione in atto,
potrebbe assumere un’influenza reiterante sul processo finale anche il fatto che lo stesso marchio mi
offre un bene che magari è abbastanza sostituibile (tipo delle gallette integrali) però ad un prezzo più
basso. Ecco che noi diciamo che nella funzione quantità domandata può ricoprire un ruolo importante
anche il prezzo del bene sostituto perché massimizza la mia utilità.

Veniamo ora alla TERZA VARIABILE ovvero il reddito, in linea di massima nel momento in cui il
reddito è più alto potrebbe in qualche modo cambiare la quantità domandata. Questo discorso è vero
ma per alcune tipologie di prodotti perché esistono dei prodotti come quelli alimentari in cui la
quantità non varia. Per esempio se io ora guadagno € 1.000 al mese e mangio 500g di pane alla
settimana nel momento in cui io comincio a guadagnare € 2.000 al mese aumento a 700 g alla
settimana, nel momento in cui arrivo a prendere € 2.500 al mese non compro del pane ulteriore in
quanto arrivo ad un momento in cui avviene una sorta di saturazione (effetto plateau) quindi sia noi
che l’amministratore delegato di unimi abbiamo la stessa quantità domandata di bene di prima
necessità. Questo vale per i prodotti alimentari ma di prima necessità e non quelli di lusso, in cui. In
genere all’aumentare del reddito aumenta la domanda del bene.

Arriviamo all’ultima caratteristica (QUARTA VARIABILE), andiamo quindi ad inserire all’interno


della nostra equazione il ruolo delle preferenze, ruolo importantissimo perché ci porta a capire
quanto gli individui cambiano l’uno dall’altro e quindi il fatto che all’interno di una popolazione ci
possano essere delle preferenze così diverse. Questo va un po’ a giustificare il fatto che se io entro in
un supermercato ho sullo scaffale un numero di referenze (prodotti) elevato, quindi la necessità di
offrire al consumatore una vasta gamma di prodotti è il risultato, una risposta, ad un bisogno del
consumatore che chiede diversi prodotti. Questo perché esistono una serie di attributi del prodotto
sulla quale è possibile differenziare il prodotto (attributi sensoriali, di funzione, di nutrizione…).
Consideriamo che l’industria alimentare ha come una delle caratteristiche fondamentali la
differenziazione del prodotto. Dati istat: 55mila industrie alimentari italiane e circa il 90% sono
piccole, micro, medie imprese, vuol dire che è un settore tanto tanto tanto frammentato. Questo
significa che se ci sono cosi poche multinazionali o grandi aziende(grande industria:250 addetti)
ovviamente capite qual è la forza della piccola ovvero riuscire a differenziare il più possibile e capire
qual è l’importanza di sfruttare gli attributi (per esempio certificazioni) . Ricordiamo che il fine ultimo
è quello di massimizzare l’utilità e quindi, nel caso dell’industria, di massimizzare il suo profitto in
modo da riuscire a convincerti che il suo prodotto è migliore rispetto ad uno concorrente andando ad
intercettare il punto di equilibrio. Gli attributi sono quindi una sorta di strategia che utilizza l’azienda
per differenziare i suoi prodotti, ricordiamo che questo è molto importante nell’azienda alimentare
perché i prodotti sono tantissimi.

Ora che abbiamo affrontato tutte queste variabili possiamo capire perché, come dicevamo prima, non
è sempre vero che il consumatore acquista maggiormente il prodotto che costa meno, esempio: se io
sono una fissata con il biologico, a prescindere dal prezzo, io massimizzo la mia utilità perché seguo
una preferenza quindi in quella serie di attributi che influenzano la mia quantità domandata in quel
processo di scelta io ho scelto il biologico, ho seguito solo la mia preferenza non ho seguito il prezzo,
non ho seguito il bene sostituto e non esistono vincoli come il reddito perché io voglio solo biologico.
Non esistono quindi delle affermazioni, esistono degli andamenti che noi definiamo sicuramente
generali e difficilmente ci sarà all’aumento del prezzo un aumento della quantità domandata anche se
anche li possiamo trovare delle eccezioni vedi la quarta gamma (esempio di prodotti che ha un prezzo
alto rispetto all’insalata tradizionale eppure non conosce crisi).

Quindi la curva della domanda, se qualcuno ce la dovesse chiedere, può essere sia curva che rettilinea.

L’unica cosa che si vede meglio nella curva rispetto alla retta è che nella curva distinguo il plateau
ovvero la linea non incontra l’asse quindi anche se riduco il prezzo non posso continuare a chiedere
all’infinito ma comunque c’è una sorta di saturazione.
Esistono delle variabili che permetteranno degli spostamenti che possono essere spostamenti che
avvengono lungo la curva oppure spostamenti proprio della curva (spostano la curva, la retta).
Vediamo un esempio del cambiamento della quantità domandata: il prezzo delle sigarette passa da 2
a 4 euro e quindi il numero delle sigarette fumate passa da 20 a dieci (non è così semplice ma è solo
un esempio). In questo caso non c’è uno spostamento della retta ma c’è uno spostamento lungo la
retta. Quindi la variabile prezzo incide sulla quantità domandata spostando il punto lungo la retta.

Può succedere per esempio che si prendano altri provvedimenti (politiche di intervento), pensiamo
alle immagini che hanno messo sui paccheti di sigarette.

PASSO INDIETRO: la politica di intervento è tutte le volte che noi diremo il mercato è fallito. Ogni
volta che riconosceremo il fallimento del mercato, vorrà dire che ci sarà qualcuno che dovrà
preoccuparsi quindi trovare delle misure, affinchè il mercato possa tornare a quell’equilibrio. Quando
parleremo di misure di intervento divideremo due grandi categorie: da un lato avremo delle misure
basate su sistemi di tassazione (all’interno di questa categoria appartengono anche gli sgravi fiscali)
dall’altro lato abbiamo invece interventi mirati all’informazione quindi tutto ciò che facciamo in italia
(es. informazione alimentare, etichettare i menù) tutta una serie di misure che mirano ad in formare
il consumatore, si basano sulla presa di coscienza del consumatore e quindi aumentare la probabilità
che questo faccia la scelta più virtuosa.
Con queste immagini sui pacchetti di sigarette, io cerco di informare il consumatore sulle
conseguenze di quella scelta e lo rendo consapevole nella speranza che smetta di fumare. Informare
è una misura più light rispetto a quella più invasiva della tassazione.
Quando vi è uno spostamento sulla curva è perché avviene qualcosa, un intervento esterno che, per
esempio nel caso delle sigarette, mi ha disincentivato il consumo e quindi mentre prima il
disincentivare il consumo era dato da una politica basata sui prezzi (prezzo variava e la mia risposta
era ad una variazione di prezzo) in questo caso il prezzo è rimasto lo stesso, l’intervento esterno
basato sull’informazione ha portato una diminuzione del consumo quindi nel primo caso ho un
spostamento sulla curva, nel secondo ho uno spostamento della curva. Ovviamente anche qui quando
aumenta il reddito, potrebbe essere che a prescindere da una variazione del prezzo, dal momento che
il mio reddito aumenta, lasciando il prezzo fisso, posso comprarmi una quantità di prodotto maggiore
quindi avviene uno spostamento sulla curva.

Il primo concetto fondamentale di oggi è la DOMANDA, l’elasticità la faremo la prossima lezione.


Anticipa che abbiamo visto che esiste una reattività della domanda ad una variazione del prezzo,
questa reattività altro non è che l’elasticità. In altri termini l’elasticità mi va a dire: ad una variazione
del prezzo, o del reddito, come varia la quantità domandata, di quanto cambia?
Mi serve sapere di quanto cambia perchè noi andremo a dire che esistono dei prodotti per cui la
domanda è elastica ( si muove tanto) e dei prodotti per cui la domanda è rigida (si muove poco).

Quello che interessa far capire nella lezione di oggi (riassunto dei concetti):
MERCATO: luogo virtuale dove domanda e offerta si incontrano in un punto di equilibrio che prende
il nome di prezzo (mia disponibilità a pagare quel determinato prodotto che incontra la disponibilità
a vendere del venditore a quel prezzo)
All’interno del mercato si muovono due forze, una è la DOMANDA ed una è l’OFFERTA. L’offerta
è l’impresa, noi siamo la domanda quindi i consumatori.
La domanda abbiamo detto che, per semplificare, noi andiamo a valutare la domanda individuale ma
l’ultimo pezzo che andremo a fare è spiegare che esistono delle dinamiche di consumo, degli
andamenti che non sono più riferiti alla sola domanda individuale ma tutt’altro, saranno sommatorie
di domande individuali (bambini, anziani…).
La DOMANDA INDIVIDUALE è funzione del prezzo del bene, prezzo del bene sostituto, del
reddito e delle preferenze.
PREZZO DEL BENE: all’aumentare del prezzo la quantità domandata diminuisce
PREZZO DEL BENE SOSTITUTO: due prodotti identici di due marchi differenti, il bene sostituto
costa meno.
REDDITO: in linea di massima all’aumentare del reddito le quantità richieste tendono ad aumentare
esistono però degli effetti platò (es. del pane)
PREFERENZE: ognuno di noi ha delle preferenze.
Una volta analizzata la funzione di domanda noi possiamo arrivare a dire che il nostro obbiettivo
ultimo è quello di massimizzare l’utilità e combinando le variabili sopra elencate è possibile farlo.
L’ultima cosa che abbiamo visto è che se la mia domanda è quella (curva della domanda), esistono
delle variabili che mi portano uno spostamento lungo la retta e delle variabili che (proprio perché non
variano il prezzo) mi portano uno spostamento della retta.

LEZIONE 3 del 07.03.2017

Il concetto di ELASTICITA’.
Nel momento in cui noi abbiamo una funzione (quindi la domanda è in funzione di reddito, preferenze
o prezzo del bene) diciamo che ad una variazione del prezzo corrisponde una variazione della quantità
della domanda. Il prezzo e la quantità domandata sono inversamente proporzionali, perché ad una
riduzione del prezzo ci si aspetta un aumento della quantità domandata.

Quello che ci dice in più l’elasticità è a quanto corrisponde questo aumento o questa riduzione. In
altri termini l’elasticità dice che: ad una variazione del prezzo corrisponde una variazione nella
quantità domandata, ma la cosa che ci aggiunge è di quanto.
Quindi andiamo a definire l’elasticità come una sorta di reattività; diciamo che qualcosa è tanto
reattivo o poco reattivo in funzione alla risposta che avviene sul mercato.

Facciamo un esempio: immaginiamo di avere il prezzo di un prodotto che si riduce del 50%. A questa
variazione del prezzo, corrisponderà una variazione nella quantità domandata. Quello che ci dice in
più è:
- Il prezzo, cominciamo a capire di quanto si è ridotto. Quindi per calcolare l’elasticità ci serve
sapere che non soltanto c’è stata una riduzione del prezzo, ma che c’è stata una riduzione del
prezzo del 50%.
- L’altro dato che ci serve per capire l’elasticità è di quanto è variata la quantità domandata.

A questa riduzione del prezzo del 50%, corrisponde una variazione della quantità domandata di
quanto? Del 50%, di più o di meno del 50%?
Sulla base di questo maggiore o minore andremo a definire la domanda, che potrà essere:
- una domanda rigida (es. beni di prima necessità);
- una domanda elastica.

Cosa significa? Se un prezzo si riduce del 50%, o aumenta del 50%, non avremo una domanda che
varia in maniera proporzionale alla variazione del reddito. Questo perché, tornando all’esempio del
pane, una riduzione o un aumento del prezzo del pane non porterà mai ad un aumento della quantità
domandata proporzionale alla riduzione del prezzo. Anche se il prezzo aumenta, rientra comunque
nei beni di prima necessità, e quindi non potrò mai eliminare il pane dal paniere di consumo della mia
famiglia. Allo stesso modo, il discorso contrario: anche se il prezzo di quel bene, quindi del pane,
andrà a ridursi a 2 centesimi, io non avrò mai una reazione così forte da comprare quantità di pane
esageratamente più elevati, perché sono vicino ad una situazione dove difficilmente esiste una
reazione così forte in funzione della variazione di prezzo.
Quando definiamo l’elasticità, la definiamo in maniera teorica e valutiamo quanto cambia la curva,
l’inclinazione della retta, però quello che ci interessa è che l’elasticità è alla base di qualsiasi politica
di economia in termini di strategia di marketing. Quindi calcolando l’elasticità si riesce a fare una
sorta di proiezione sui consumi, quindi di quanto il prodotto può essere assorbito dal mercato.

IL CONCETTO DI ELASTICITÀ INCROCIATA


Il concetto di elasticità incrociata esprime come potrebbe variare la quantità domandata del mio
prodotto, nel momento in cui un prodotto concorrente (che non è il mio Yomo, ma ad esempio
Activia) aumenta il prezzo di una %. È incrociata perché in questo caso studio come varia la quantità
domandata del consumatore che è abituato a consumare Activia, nel momento in cui il prezzo della
Yomo (quindi si sta parlando di un bene sostituto) si riduce di una percentuale x.
Quando si parlerà di elasticità incrociata dovete ricordare che si fa riferimento ad un bene sostituto.

Può esserci anche un’elasticità al reddito: in questo caso la quantità domandata cambia, non più
rispetto ad una variazione del prezzo, ma ad una variazione del reddito.

Quando parliamo di beni alimentari, i beni sostituti sono numerosi, quindi si può parlare di domanda
elastica. Quando invece parliamo di benzina, si può dire che non ci sono più beni sostituti, quindi
capite bene che nel momento in cui il prezzo della benzina aumenta, non ci può essere un
atteggiamento del consumatore di cambio verso un altro prodotto. Anche nell’ambito dei prodotti
alimentari, comunque, è possibile fare una distinzione tra beni di lusso e beni di prima necessità, e di
conseguenze ci saranno domande che varieranno tanto da poter essere definite rigide oppure delle
domande che saranno definite elastiche.

Elasticità (E) = è una variazione della quantità domandata rispetto ad una variazione del prezzo, in
termini di percentuale. Se volessimo calcolare matematicamente questa funzione, andiamo a dire che:
Elasticità = ΔQ / Q
ΔP / P

Cos’è successo? Immaginiamo che qui ci sia stato un prezzo che si è abbassato da 5€ a 4€ e si
presuppone (si presuppone, perché non è detto che sia sempre così) però per ora abbiamo solo il
prezzo come variabile, per cui ragioniamo solo sulla parte variabile e su questa variabile diciamo che
in linea di massima è così, ci potrebbero essere dei casi in cui entrano in gioco altre variabili (che
abbiamo visto la scorsa volta), come le preferenze, dove magari il fatto che da 5€ si passi ai 4€ non è
detto che la quantità domandata aumenti, oppure il fatto che il prezzo passi da 4€ a 5€ non è detto che
la quantità domandata passi da 50 a 100, potrebbe rimanere anche invariato, perché c’è una preferenza
per quel prodotto anche se il prezzo aumenta a me non interessa.
Consideriamo solo rispetto al prezzo: se questo prezzo è passato da 5€ a 4€ ha determinato un
aumento della quantità domandata, da 50 a 100.
Calcoliamoci l’elasticità: avremo 50, che abbiamo detto che è una variazione di Q rispetto Q /
variazione di P rispetto a P. Diciamo che:
- Da 50 a 100 è la variazione della quantità domandata (fratto 100 che è rispetto a Q).
- x 100 perché abbiamo detto che è una percentuale
- diviso quello che è successo al prezzo, quindi ΔP / P. Quindi 5 meno 4/4.
Questa è semplicemente un’applicazione di numeri, che siamo andati a sostituire e abbiamo
immaginato una situazione di questo genere, quindi nel momento in cui abbiamo questi dati, li
andiamo a sostituire all’interno della formula ottenendo un -2, che sarà il valore dell’elasticità.
Più avanti definiremo l’elasticità come >1, <1, =1 o =0, ovviamente >2 avrà un senso, cioè se
andiamo a prendere questo tipo di elasticità, <1 vorrà dire che è meno, cioè anelastica. Anelastica
significa che un aumento del 22% provoca una riduzione della quantità domandata solo dell’11%.
Questo è solo un esempio, vi ho portato tanti esempi di curve per farvi vedere casi in cui abbiamo
un’elasticità uguale a 0, >1 o <1.
Quindi abbiamo detto la formula dell’elasticità, e abbiamo fatto un esempio pratico sostituendo
una serie di numeri all’interno della formula e siamo arrivati a calcolare l’elasticità. Ricordate che
l’elasticità è importante per fare una sorta di proiezione di quella che può essere la domanda,
perché l’elasticità, se io conosco il prezzo del prodotto quindi se ho un’idea del prezzo con cui
quel prodotto arriva sul mercato, ovviamente sapere qual è la reattività della domanda è
importante per me che pianifico le vendite, perché quando parliamo di domanda e nello specifico
di elasticità, andiamo a considerare che la reazione del consumatore ad una mossa del mercato.
Io azienda faccio una mossa, intendo fare un’offerta, intendo fare una politica basata sul prezzo,
l’elasticità mi aiuta a capire quale dovrebbe essere la risposta del consumatore.
Una cosa che dovete considerare importante è che l’elasticità non mi serve nel breve termine, ma
concettualmente quello che l’elasticità dice è una reattività del medio periodo. Significa che
l’elasticità dice una tendenza, per esempio, negli anni, quindi mi permette di dire “negli anni, il
prezzo dello zucchero si è ridotto e, nonostante il prezzo si sia ridotto, i consumi siano diminuiti”.
Quindi l’elasticità di riferisce almeno al medio periodo, cioè non è che oggi vado all’Ipercoop,
c’è un 3x2 e quella è l’elasticità. Il fatto che esista una promozione, o che a quel prezzo riesco a
comprare 10 vasetti di yogurt, perché c’è una particolare offerta, data da data di scadenza,
piuttosto che il gusto non ha avuto tanto successo, questa non è elasticità, è semplicemente una
risposta del consumatore ad una politica della grande distribuzione che doveva smaltire della
merce ed ha deciso di fare delle offerte promozionali. Vale lunedì, il martedì, va fino alla
domenica, cioè per dire che la settimana dopo già non c’è più.
Questo significa che l’elasticità non va a misurare un breve periodo, cioè la risposta del
consumatore a questo tipo di offerte o promozioni, perché se vado a vedere la risposta ai vasetti
di yogurt per cui ieri c’era la promozione all’Esselunga e ne potevo comprare 10 al prezzo di 4,
non è che se vado a fare una dinamica dei consumi di quei vasetti di yogurt, vado a notare una
differenza, è stata semplicemente un episodio, una tantum, una politica (nella maggior parte dei
casi non è neanche una politica dell’azienda), è una politica della grande distribuzione data da x
motivi ma che difficilmente quella politica è solo data dall’azienda, ma anche della distribuzione
che non mi aiuterà mai a studiare una dinamica del consumo di quel prodotto.
Quindi attenzione, quando parliamo di elasticità ricordate che è qualcosa che si riferisce al medio
o comunque lungo periodo e che non è la risposta ad un qualcosa una tantum che succede.
Torniamo all’elasticità, abbiamo fatto questo esempio e abbiamo ottenuto un’elasticità <2.
Adesso vedremo i 3 casi:
- 1° caso. Elasticità = 0
- 2° caso. Elasticità >1
- 3° caso. Elasticità <1
Quello che vedete se io vi faccio scorrere velocemente questi grafici, vedete che quello che cambia
è la pendenza della retta.

1° CASO

Se diciamo che esiste una variazione percentuale della domanda ad una variazione del prezzo,
vuol dire che l’elasticità altro non è che la reattività, cioè quanto è reattiva la domanda alla
variazione del prezzo.
Nel momento in cui diciamo che l’elasticità è uguale a 0, vorrà dire che una domanda sarà
perfettamente anelastica.
Anelastica vuol dire che c’è un aumento del reddito, c’è un aumento del prezzo, quindi c’è una
percentuale minima di aumento, perché si passa da 4€ a 5€ ma che però la quantità domandata
rimane perfettamente inalterata. Quindi a prescindere dal fatto che questo prezzo aumenti, la
quantità rimane perfettamente inalterata.
Esempio della benzina. Perché nel momento in cui il prezzo della benzina aumenta, sì possiamo
consumarne meno, perché potrò andare un po’ a piedi o usare la bicicletta ma capite bene che non
c’è margine di sostituzione proprio per quel prodotto (non posso andare ad acqua). E’ un qualcosa
che si ripercuote su tutto il sistema economico (non solo che a me costa di più andare in ufficio)
perché ad esempio anche le mele possono risentire dell’aumento del prezzo della benzina, come
qualsiasi prodotto che non sia a kilometro 0 va a risentire dell’aumento della benzina.
Questo è il caso di una domanda con elasticità uguale a 0. A prescindere da quello che succede
sul mercato, la quantità domandata rimane invariata.

2° CASO
Facciamo un esempio di un’elasticità >1. Succede che c’è una variazione e a questa variazione,
che è del 22%, corrisponde una riduzione del 67%.
Significa che, torniamo all’esempio di prima e avevo detto “ricordatevi di questo 50%”, cioè il
fatto che il prezzo passi da 3€ a 1.5€ tutto giocherà intorno a questa riduzione del prezzo del 50%.
C’è una quantità domandata maggiore del 50%, o minore del 50%. Quando diciamo maggiore o
minore di 1 altro non diciamo che la percentuale di variazione del prezzo, che corrisponde in
questo caso del 22%, la quantità domandata si muove di uno stesso 22% o di più, o di meno?
Questo è quello che succede per esempio ad un bene che definiamo “bene di lusso” perché la
riduzione del prezzo, e basta una minima riduzione del prezzo, per determinare una risposta molto
elevate della domanda. Quindi nel caso di un bene di lusso, per esempio un vino che costa tanto,
nel momento in cui c’è una variazione percentuale sul prezzo di quel prodotto, il consumo di quel
vino non è più una cosa che avviene in maniera occasionale, perché comunque è un vino dove la
bottiglia costa 200€ allora è una cosa che consumo una tantum. Nel momento in cui esiste una
riduzione sul prezzo, la reattività, quindi la risposta a quella riduzione, è molto più elevata rispetto
alla riduzione stessa. Non sarà più un vino che consumerò una volta ogni 2 mesi, ma potrei
consumarla, in funzione della variazione del prezzo, anche una volta a settimana.
Questo è quello che succede quando si parla di consumi extra domestici.
Quando si parla di consumi in generale, quando farete tutta la parte sui settori, l’ultima parte
avrete i consumi. Quando si parla di consumi si possono distinguere in:
- consumi domestici
- consumi extradomestici.
I consumi extradomestici seguono un po’ queste caratteristiche e per intenderci sono quelli al di
fuori delle mura extradomestiche, ad esempio al ristorante. Rispetto al consumo domestico, che
invece è quello all’interno delle mura domestiche, i consumi extradomestici sono dei consumi che
hanno una reattività sicuramente di questo genere perché il fatto che andare a mangiar fuori costa,
non è più una cosa che faccio una volta al mese ma potrei farla una volta a settimana. Quando
parleremo di consumi extradomestici diremo che i consumi extradomestici hanno
un’elasticità > 1.

3° CASO
Per i consumi domestici avremo invece un elasticità < 1.
E’ quello che abbiamo detto per la stragrande maggioranza dei prodotti alimentari dove c’è lo
stesso 22 percento come variazione del prezzo, però nel primo caso avremo una variazione del
67%, e quindi una variazione di gran lunga superiore del 22%, in questo caso invece abbiamo una
riduzione del 22% ma al quale corrisponde una variazione, non più del 67%, ma dell’11%. In
questi esempi, non abbiamo variazioni sul prezzo, ciò che accade al prezzo è lo stesso cioè si
passa da 4€ a 5€, cioè aumenta del 22% in entrambi i casi. Quello per cui andiamo a definire una
domanda più rigida o più elastica, è se a questo 22% corrisponde una variazione della domanda e
di quanto?
Del 67% in un caso, quindi vuol dire che ad una piccola variazione del prezzo corrisponde un
aumento di domanda molto elevate, nell’altro caso invece abbiamo una variazione dell’11%.
C’è sempre una variazione del prezzo che però la domanda non cambia poi di tanto. Ed è quello
che vi dicevo prima del pane. Sicuramente potrebbe esserci un aumento o una riduzione dei
consumi, in funzione della riduzione del prezzo aumentano i consumi, ma sarà una riduzione
relativa perché è un bene di prima necessità.
Il concetto fondamentale è dire come reagisce il consumatore ad una variazione del prezzo.
L’elasticità non è altro che questo concetto: mi torvo davanti ad un prodotto che costa meno e ne
compro tanto di più, poco di più o uguale al giorno prima? Questo è quello che abbiamo definito
con la formula elasticità della domanda rispetto al prezzo (ricordatevi il base al prezzo, perché
poi vediamo quella in base al reddito) ma andiamo a dire una cosa abbastanza intuitiva, l’elasticità
è il pezzettino che aggiungiamo alla scorsa lezione è che il prezzo è più basso, di quanto è più
basso e quanto compro di più.
In questi due grafici, potete vedere se quello che cambia è l’area sottesa a questa curva:
- nel caso in cui l’elasticità è >1, abbiamo qualcosa di molto stretto rispetto all’asse del prezzo
e qualcosa di molto largo rispetto alla quantità. Perché quando diciamo che è >1 vuol dire che
il prezzo si riduce e reagisce tanto la domanda. Quindi avremo qualcosa di molto stretto
rispetto all’asse prezzo e avremo un rettangolo molto largo invece sulla parte della quantità.

- parliamo di elasticità <1 abbiamo un rettangolo molto piccolo, perché abbiamo ad una
reazione del prezzo corrisponde una variazione della quantità domandata molto limitata. Ecco
come cambia drasticamente il disegno sotto la curva.

Questo fa sì che va a cambiare la pendenza della retta e quindi avremo un qualcosa di così
(indica le slide) che sarà uguale a 0, così è >1 che è tanto inclinata, o minore di 1.
Quindi se uno vi chiede: disegnami le 3 elasticità…vedete come passiamo da elasticità uguale a 0,
tanto inclinata vuol dire che è >1, poco inclinata è <1.
- < 1 sarà rigida
- >1 sarà elastica
- Perfettamente anelastica, per cui qualsiasi cosa succede la quantità domanda non cambia.
Questo per farvi capire le differenze sia in termini di area sottesa alla curva o quando disegnate le 3
rette, per farvi ricordare che questa vorrà dire uguale a 0, o >1 o < 1.

ELASTICITA’ RSPETTO AL REDDITO


Passiamo al coefficiente di elasticità non più rispetto al prezzo ma rispetto al reddito. Se prima
l’elasticità al prezzo altro non è che la variazione percentuale della quantità domandata rispetto ad
una variazione del prezzo, come reagisco io consumatore nel momento in cui vado al supermercato
ed il prezzo si è ridotto, questa volta diciamo “come reagisce la domanda in funzione di una variazione
del mio reddito”.
Nel momento in cui il mio reddito cambia, aumenta, si riduce o rimane uguale, cosa succede alla
quantità domandata.
Quando parliamo di prodotti alimentari, anche in questo caso avremo un’elasticità rispetto al reddito
bassa, perché il discorso che facciamo rispetto al reddito non è molto distante rispetto al prezzo: anche
se una persona ha un reddito che improvvisamente cambia, raddoppia o triplica, nel caso di prodotti
alimentari comunque sono dei beni la cui quantità domandata non segue questa variazione del reddito
in maniera così forte. E quindi anche se esiste una variazione molto forte nel reddito non ci sarà una
variazione così forte nella quantità domandata. Perché comunque rientriamo nel fatto che la quantità
di frutta che vado a comprare non subirà delle variazioni così forti. In termini economici diciamo
che per i beni alimentati la variazione della quantità domandata non varia in maniera
proporzionale alla variazione del reddito.
Il reddito aumenta del 50% mentre la quantità che domando di quel bene non aumenta del 50% perché
stiamo parlando di beni che comunque devo acquistare per forza (perché sono beni di prima necessità)
e quindi anche se dovessi cominciare a guadagnare il triplo questo triplo nel reddito, non corrisponde
ad un triplo della quantità domandata. Magari comprerò di più, ma non tanto di più quanto invece è
aumentato il mio reddito.
Aumenta il reddito, aumenta la quantità domandata e quella che è conosciuta come la legge di Engel,
dove abbiamo un effetto di questo genere (indica le slide), dove esiste un plateau, e quindi dove
abbiamo una quantità domandata che aumenta in funzione del reddito.
Abbiamo due grandezze che sono tra loro inversamente proporzionali, perché abbiamo parlato di
prezzo e di quantità domandata e infatti abbiamo visto solo pendenze di questo genere (indica slide).
Significa che il prezzo era qui, qui era la quantità e qui abbiamo detto che si riduce il prezzo, e
passiamo da prezzo 1 al prezzo 2, il prezzo si riduce e corrisponde un passaggio da 1 a 2. Quindi
abbiamo qualcosa di inversamente proporzionale.
In questo caso invece, abbiamo 2 grandezze direttamente proporzionali perché ad un aumento
del reddito aumenta la quantità domandata. Significa che posso dire “è buono che aumentato il
prezzo perché la quantità domandata si riduce”, o viceversa si riduce il prezzo e aumenta la quantità
domandata, nel caso del reddito a prescindere da come questo succeda, questo qua è qualcosa di
direttamente proporzionale. Quindi aumenta il reddito, aumenta la quantità domandata. La stessa cosa
è identica a quella che abbiamo detto prima, solo che in un caso avevamo come riferimento il prezzo,
in questo abbiamo come riferimento il reddito. La cosa che dovete ricordare, quando parliamo della
legge di Engel, che altro non è che ad un aumentare del reddito corrisponde una variazione della
quantità domandata positiva, la legge di Engel è rappresentata da una curva perché esiste un effetto
saturazione (che vi nominavo anche l’altra volta).
A prescindere dal fatto che sia ricercatrice di Unimi, che sia professore ordinario, che sia
amministratore delegato di chissà che, arriverà un punto in cui a prescindere dal fatto che il reddito
continui ad aumentare, la quantità domandata di quel prodotto diventa praticamente stabile e che
quindi non ci sarà in funzione di diversi redditi, delle quantità domandate che aumenteranno in
maniera proporzionale. Arrivato ad un certo punto, sicuramente ci sarà un delta tra un ricercatore e
un professore ordinario, però nel momento in cui si continua a salire, quindi si arriva ad
amministratore delegato, si arriva ad una situazione di plateau. Esiste un delta iniziale, dove a redditi
maggiori ci saranno quantità domandate maggiori, per poi arrivare ad un effetto plateau, quindi un
effetto saturazione dove anche se il reddito comincia, o continua ad aumentare, la quantità di mele
che andrò a comprare sarà praticamente la stessa.
Quando parliamo di elasticità, non mi serve più dire “il prezzo si è ridotto quindi ne compro di più o
di meno”, ma quanto ne compri di più. In questo caso diciamo: il reddito aumenta di quanto, e in
funzione di questa variazione del reddito, quanto cambia la quantità domandata. Anche in questo caso
si può parlare di una reattività più o meno forte in funzione di una variazione del reddito.
Anche in questo caso, per i prodotti alimentari, ad una variazione del reddito non corrisponderà una
variazione altrettanto forte nella quantità domandata. In termini economici si dice che ad una
variazione del reddito, nel caso dei prodotti alimentari, non corrisponde una variazione della quantità
domandata proporzionale a questa variazione. Vuol dire che il reddito aumenta di 10, la quantità
domandata non aumenterà di 10.
L’INCIDENZA DEI CONSUMI ALIMENTARI
Una cosa che si deve considerare e che è successo negli anni e che continua a verificarsi è l’incidenza
sui consumi alimentari.
All’aumentare del reddito, quello che cambia è l’incidenza percentuale della spesa alimentare sul
totale della spesa.
Facciamo un esempio: nel 1970, quando i redditi erano immaginiamo 10.000€ (1.01.20??), succedeva
che su un reddito di 10, l’incidenza della spesa alimentare sul totale della spesa era del 60/70%, cioè
ogni consumatore, sulla base del suo reddito, il 60/70% del suo reddito era destinato a spese
alimentari. Solo il 30% era destinato all’acquisto di altri beni. Ai giorni nostri, questa incidenza della
spesa alimentare sul totale dei consumi corrisponde al 22/23%. Cosa può significare quando dico che
c’era un’incidenza del 60/70%, adesso quest’incidenza si riduce e arriva al 20%?
Dire che l’incidenza percentuale della spesa alimentare sul totale del reddito era del 60% e adesso del
20%, le spiegazioni sono 2: 100 è il mio reddito mensile, se io dico che l’incidenza è del 60% vuol
dire che 60 io li spendo solo per prodotti alimentari.
Nel momento in cui questo 60 diventa 20, due sono le cose:
1. Spendo solo 20 su 100 per prodotti alimentari, ma questo non può essere perché non è che
mangiamo meno rispetto a prima, anche perché siamo obesi. Questo quindi non è, la spesa è
stabile.

2. Il mio riferimento non è più 100, ma è diventato 200, quindi il 20 non è che si è ridotta
l’incidenza in termini di spesa alimentare sul totale della spesa, ma quello che è cambiato è il
mio riferimento.
In altri termini vuol dire che il reddito è aumentato.
Quindi essendo aumentato il reddito sono entrate nelle maniere di consumo (intendendo tutte
le voci di spesa) delle altre spese, quindi vado a destinare parte del mio reddito ad altre spese
che magari prima non erano contemplate.

Significa che l’aumento generalizzato dei redditi ha generato una variazione


dell’incidenza della spesa alimentare sul totale della spesa delle famiglie (considerate
anche che la spesa delle famiglie è rimasta più o meno stabile).
Nel momento in cui diciamo che l’incidenza della spesa vuol dire che c’è stato un aumento
generalizzato dei redditi.

Vediamo l’ultimo concetto a proposito del reddito. Ricapitolando, abbiamo parlato dell’elasticità
rispetto al reddito, abbiamo detto che la variazione della quantità domandata rispetto al reddito segue
quello che abbiamo detto rispetto al prezzo, abbiamo detto che anche nel caso del reddito per i prodotti
alimentari si parla di rigidità e quella che è cambiata negli anni è una sorta di incidenza della spesa
dei generi alimentari rispetto al totale della spesa.
RETTA DI BILANCIO

L’ultimo concetto da capire per quanto riguarda il reddito è la retta di bilancio. La retta di bilancio
possiamo anche definirla come una sorta di VINCOLO DI BILANCIO ed è quello che succede tutte
le volte in cui abbiamo a disposizione un tale reddito e dobbiamo decidere che noi possiamo
acquistare con quella quantità di reddito a disposizione.
Questa è la nostra retta (indica le slide): immaginate che questo sia il punto A, questo sia il punto B
e immaginate che questi due elementi rappresentano i due beni che noi andiamo a comprare. Abbiamo
a disposizione 10€ e con questi 10€ possiamo acquistare solo ed esclusivamente questi 2 beni. Questa
retta, che definiamo retta di bilancio e che viene scritta come il reddito che non è altro che la
quantità che io posso acquistare del bene 1 per il prezzo del bene 1 più la quantità del bene 2
per il prezzo del bene 2.
Quindi il mio reddito io lo posso consumare tutto così.
Diciamo che il nostro reddito è dato dal fatto che posso comprare solo ed esclusivamente questi 2
beni. Quello che mi dice questa retta, o meglio, quello che interessa a noi è l’area sottesa alla retta.
L’area sottesa alla retta dice che la quantità ottimale, quindi il paniere di beni, che posso acquistare,
dato questo reddito.
(indica le slide): se questo è il bene 1, questo è il bene 2, questa è la retta di bilancio dove questo è
quello che mi posso permettere dato questo reddito. Perché qui abbiamo 2 situazioni?
1. abbiamo una variazione del prezzo.
2. abbiamo una variazione del reddito.
È intuitivo che, nel momento in cui il prezzo non è più questo. Qui ho un incrocio, è come dire che
ho trovato una combinazione ottimale tra questi 2 beni. Dato il mio reddito, io posso spenderlo in
questo modo.
Nel momento in cui il prezzo non è più questo, diciamo 6€, se questo prezzo si riduce e diventa 4€,
vedete che ho un cambiamento nel reddito che io posso permettermi. Perché l’area non sarà più
questa, ma è un’area che si stringe perché ho a disposizione 10€, ma se il prezzo cambia, cambierà
anche la quantità che mi posso permettere.
In un caso io potrò permettermi di più, oppure posso permettermi di meno, in funzione del fatto che
il mio reddito è sempre 10€, e il prezzo potrebbe aumentare o diminuire.
Quello che dobbiamo capire da questa immagine è: questa è una retta di bilancio e abbiamo detto che
possiamo definirla anche vincolo di bilancio; lo definiamo “vincolo”, perché è un vincolo il fatto che
io posso spendere solo 10€ e non 15 (il termine vincolo ci viene più facile). Con questi 10 € io lo
posso spendere per acquistare una quantità di un bene e la quantità di un altro bene. L’area sottesa a
quella retta (la prima retta che abbiamo disegnato, cioè quella più esterna) dice: io con 10€ posso
comprare questi prodotti in questa combinazione. Nel momento in cui il prezzo di un bene si riduce,
io con quello stesso reddito (perché il reddito non cambia) potrò comprare di più. Quindi la retta
diventa questa. La retta quindi, banalmente, mi dice: se l’area sottesa è più larga vuol dire che io
posso comprare di più, però non si muove tutta la retta, cambia l’inclinazione (perché io ho a
disposizione sempre 10€). Il prezzo del bene si riduce, io posso comprare di più, per cui la retta andrà
di qua. Quello che mi interessa che capiate è che la retta di bilancio, o vincolo di bilancio, cambia la
sua pendenza e quindi l’area sottesa alla retta dice “con quel reddito posso comprare di più o di meno”.
Ovviamente posso comprare anche di meno, perché il reddito è sempre 10€, se per esempio il prezzo
aumenta, ovviamente dovrò rinunciare a una parte di quantità.
1.17.11… è il reddito fratto il prezzo, quindi qui sotto comprare questo, con questo qua posso
comprare quest’altro.
Potrebbe anche esserci una variazione del reddito. Quindi a prescindere da quello che succede io vado
a dire: nel momento in cui il mio reddito non è più di 100€ ma è di 200€, l’area sottesa alla retta
aumenta in maniera indiscriminata, vuoi che sia il bene 1 o il bene 2, io posso acquistare di più perché
in quel caso, quello che noi chiamiamo retta/vincolo di bilancio mi da la possibilità di acquistare di
più.
Questo è l’ultimo concetto rispetto al reddito.
Quello che abbiamo visto oggi, ricapitolando, è il concetto di elasticità, come reagisce il consumatore
dinanzi a una variazione. Come reagisce il consumatore in termini di quanto acquista, se acquista di
più, di meno o uguale e quindi abbiamo visto diversi tipi di elasticità: rigida, perfettamente anelastica
o più elastica. Vuol dire che esiste una reattività più o meno, che è proporzionale rispetto al prezzo.
Abbiamo parlato di elasticità incrociata, quindi la variazione domandata rispetto a quello che succede
al prezzo di un altro prodotto, e abbiamo detto una cosa molto importante, ricordatela, che l’elasticità
è un concetto in termini di “sto decidendo su un prezzo del prodotto, quale può essere la reazione del
consumatore” e che si riferisce al medio/lungo termine, non è qualcosa che si riferisce al breve
termine.
Rispetto al reddito il concetto è molto simile, anche in questo caso è possibile parlare di un
atteggiamento abbastanza stabile rispetto al reddito dei prodotti alimentari, e abbiamo detto che negli
anni quella che è cambiata è stata un’elasticità in termini di incidenza della spesa alimentare sul totale
della spesa. L’ultima cosa che abbiamo visto è stato un concetto di bilancio, quindi il vincolo di
bilancio e quindi come, dato un determinato reddito, posso comprare di più o di meno, semplicemente
in funzione del prezzo. Dall’altro lato abbiamo detto: il vincolo di bilancio, nel momento in cui il mio
reddito aumenta, io posso acquistare di più.

LEZIONE 4
Domanda studente: l’elasticità correlata al reddito. Quando ci ha fatto vedere la curva era riferita
ai prodotti solo alimentari o in generale?
Risposta: questa è in generale quella che si definisce la curva di Engel, quindi come cambia la
quantità domandata in funzione di una variazione del reddito in generale.
Se vogliamo essere precisi anche nell’ambito dei prodotti alimentari possiamo fare una distinzione e
possiamo dire che ci sono dei beni più di prima necessità e beni che sono meno di prima necessità,
vedi il tartufo, che ha più un atteggiamento da automobile che da mele e pere. Quindi questo è un
discorso generale così come la questione dei consumi che vi dicevo ieri: consumi domestici e consumi
extra domestici che hanno sempre a che fare con l’ambito alimentare, hanno a che fare comunque con
il sistema agro alimentare, ma se vado a pensare a consumi domestici sono consumi facilmente
assimilabili a beni di prima necessità, nel momento in cui vado a pensare ai consumi extra domestici
penso ad andare al ristorante.
Immaginiamo di avere due beni: l’area sottesa al triangolo più grande mi dice che io poso permettermi
con quel reddito quei beni. Ad una variazione del prezzo succede che io non potrò più permettermi
con quello stesso reddito, aumenta il prezzo di uno dei due beni. Quindi verrà a crearsi una
combinazione nuova dei due beni perché in sostanza a uno o tutti e due devono adeguarsi a questa
variazione del prezzo. Quindi potrò con lo stesso reddito, permettermi meno prodotto. Dire che è
reddito fratto prezzo è come dire quantità.
Cosa significa questo? Significa che quello che noi vediamo visivamente non è altro che una riduzione
del nostro potere d’acquisto che è quello che succede tutti i giorni quando il prezzo aumenta e non
c’è un adeguamento del valore della moneta e quindi l’inflazione che cos’è? Altro non è che una
riduzione del potere d’acquisto della mia moneta.
Un discorso più semplice è quella del grafico accanto in cui non abbiamo una variazione del prezzo
ma in questo caso il prezzo rimane lo stesso ma quello che varia è un aumento del mio reddito e
quando ho un aumento del reddito, l’area automaticamente aumenta e quindi con quel reddito potrò
permettermi una quantità maggiore di quel bene.
Tutto quello che noi abbiamo detto fino ad oggi è stato quello che riguarda la domanda individuale.
Oggi vedremo la domanda aggregata. Come vi dicevo già la prima volta, quello che noi abbiamo
detto riguarda la domanda individuale, cioè la domanda del singolo individuo che è funzione di una
serie di parametri. Quello che serve a proposito di analisi della popolazione non è come si muove
l’individuo ma per lo meno segmenti della popolazione. Anche se non vogliamo estendere il discorso
alla popolazione, per lo meno dobbiamo riuscire a parlare di segmenti della popolazione in modo che
se qualche impresa deve lanciare un prodotto sul mercato, una delle prime attività che fa è l’analisi
del mercato. Cosa deve fare un’azienda nell’analisi del mercato? Sicuramente deve studiare alcune
caratteristiche del mercato, i competitor, chi altro produce quel bene, che tipologia di bene produce,
che caratteristiche ha quel bene sostituto ma e ad un certo punto va a studiare la domanda per capire
quali sono i bisogni della popolazione. Anche perché considerate che una delle principali
caratteristiche di un prodotto è quella di dover rispondere ad un bisogno. Nella grande maggioranza
dei casi quando io decido di mettere un prodotto sul mercato, io faccio riferimento ad un target di
consumatori e quindi il fatto che esistano all’interno della popolazione una serie di segmenti che si
muovono in un determinato modo e sono accomunati da una serie di caratteristiche e che quindi sono
in grado di decidere e consumano una serie di prodotti perché accomunati da una serie di variabili.
Quando parliamo di domanda, a me non serve parlare di domanda individuale ma l’ideale è quella di
conoscere una domanda aggregata. E quindi alla Ferrero non interessa quello che preferisce
Francesca ma quello che piace per lo meno ai giovani che hanno una fascia di età tra i 18 e i 26 anni.
Quindi all’interno della popolazione io vado ad identificare una serie di segmenti che hanno una serie
di bisogni e quindi io rispondo a quel bisogno. Quindi ad esempio la necessità di iniziare a mettere
una serie di informazioni in etichetta non è qualcosa che nasce dall’impresa ma è un consumatore che
si mostra sempre più attento a quello che sta mangiando e cerca sempre più informazioni sui prodotti
alimentari e quindi da qui hanno cominciato a dire ad esempio che il mio prodotto può essere
apprezzato di più dal momento che gli dico che è ricco in vitamina D e quindi da lì il fatto che poi si
è pensato che è il caso di regolamentare queste informazioni per evitare che poi vengano date
informazioni false o ambigue.
La necessità parte quindi sempre dal consumatore che chiede qualcosa. Tutta questa attenzione
dell’ambiente e questa moda recente nei confronti della sostenibilità ambientale, quasi quanto il
parlare di salute, da dove nasce? Nasce da una serie di scandali alimentari che hanno portato il
consumatore a stare sempre più attento ad una serie di caratteristiche, più di qualità è una richiesta di
prodotti sicuri e tutta questa richiesta di food safety che di qualità è legata ad una richiesta di ritorno
al naturale e un legame sempre più forte e da qui la richiesta di biologico, Km zero, fattorie in città
quindi tutto ciò che tu porta quasi a dire non c’è stata una manipolazione a livello industriale. Tutto
ciò è qualcosa che risponde ad un bisogno che viene dal basso. Quando faremo il settore
agroalimentare, vedremo che il settore più ricco, che è la grande distribuzione, vedremo che è ricco
perché vicino al consumatore, tanto che parleremo di vantaggio di posizione quindi il fatto di essere
vicino al consumatore è una richiesta perché è in contatto diretto con colui che decide cosa deve
essere prodotto. L’industria alimentare invece non ha un contatto diretto, arriva al consumatore ma
deve attraversare la grande distribuzione oppure deve spendere soldi per delle indagini di mercato per
reperire informazioni oppure deve spendere soldi attraverso la pubblicità. Il fatto che un’azienda deve
comunicare al consumatore qualcosa vuol dire spendere soldi altrimenti noi come facciamo a sapere
che è stata lanciata sul mercato la nuova merendina della “Mulino bianco” altrimenti noi non
possiamo saperlo. Invece la grande distribuzione non ha bisogno di fare. Quindi noi parliamo di
ricchezza in termini di fatturato e valore aggiunto però ha una ricchezza data anche da questo
vantaggio di posizione.
La domanda aggregata in termini concettuali non è nulla di diverso rispetto alla domanda
individuale, ma non è altro che una sommatoria di domande individuali che dipende dagli stessi
identici fattori che abbiamo visto per la domanda individuale. Ovviamente un’analisi di questo tipo
ci permette però di fare delle considerazioni sicuramente più ampie. Pensate come all’interno esistono
ci possono essere delle caratteristiche socio demografiche o economiche che per esempio vanno ad
influenzare la domanda in termine di quantità, cioè quanta gente c’è (aumenta la domanda quando
aumenta la popolazione) però nel momento in cui la popolazione cresce, crescerà anche la domanda.
Importante è anche la distribuzione delle fasce di età: abbiamo una popolazione che aumenta sempre
di più in età media e questo ha sicuramente dei risvolti in termini di prodotti consumati e domandati
piuttosto che una divisione in fasce di reddito: popolazione tanto povera o tanto ricca. Sono una serie
di caratteristiche ma esistono comunque delle caratteristiche socio demografiche ed economiche che
vanno ad influenzare la domanda, piuttosto che una presenza massiccia di neonati.
Ci sono una serie di segmenti della popolazione che se crescono o non ci sono possono influenzare
la domanda di alcuni beni. Quindi devo andare a fare un’analisi dei consumi delle famiglie italiane e
a me sapere della domanda individuale mi interessa relativamente e quello che mi serve per fare
qualsiasi stima o ragionamento è potermi riferire alla domanda aggregata, quanto meno a dei segmenti
della popolazione se non riesco a parlare dell’intera popolazione.

PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA TEORIA NEOCLASSICA


La teoria dei consumi è sempre stata una teoria di stampo neoclassico che si è sempre basata su quattro
principi fondamentali e questi quattro principi, soprattutto nel caso dei prodotti alimentari, non
possiamo tenerli validi tutti e dobbiamo ricorrere ad un’evoluzione della teoria dei consumi.
1. Il primo principio su cui si basava la teoria neoclassica era quello di dire: il consumatore
massimizza la sua utilità. Un consumatore massimizza la sua utilità solo sulla base del reddito.
Quindi un consumatore è razionale cioè sceglie sotto un vincolo di budget e quando noi andiamo
ad acquistare un prodotto e siamo davanti ad una diversa scelta, semplicemente quello che noi
scegliamo è quello che costa meno perché esiste questo vincolo forte dato dal reddito.
2. Il secondo principio è: il mercato è un mercato trasparente. Questo cosa significa? Significa
che noi andiamo al supermercato, acquistiamo un prodotto e siamo perfettamente consapevoli di
quello che stiamo acquistando e siamo perfettamente informati su quel prodotto. Quindi io arrivo
al momento della scelta riesco ad avere tutte le informazioni che mi servono per conoscere bene
quel prodotto.
3. Il terzo principio è quello dell’utilità marginale decrescente e dell’utilità totale crescente.
P.s. L’UTILITA’ MARGINALE: Immaginiamo di avere tanta sete e di avere davanti 10
bicchieri d’acqua; voi bevete il primo bicchiere d’acqua, poi il secondo, poi il terzo bicchiere.
Arrivati al quinto avete bevuto abbastanza. L’utilità marginale non è altro che l’utilità che vi viene
data dalla singola quantità di consumo. L’utilità marginale è quel pezzettino di utilità che voi
aggiungete tutte le volte che si aggiunge un’utilità consumata. All’aumentare della quantità
consumate si riduce l’utilità marginale perché io riesco a trarre un beneficio via via minore.
L’utilità totale cos’è? È la somma delle utilità marginali. L’utilità totale aumenta, l’utilità
marginale diminuisce.
4. L’ultimo è invece il principio dell’omogeneità. Quindi diciamo che l’omogeneità è un principio
che vale sia in termini di prodotto, sia in termini di consumatore. Quindi cosa significa? Che
secondo la teoria neoclassica, i prodotti sono tutti uguali, io consumatori sono tutti uguali e devono
avere tutti lo stesso bisogno. Esiste una sorta di omogeneità tra i prodotti, non esistono numeri di
referenze, tanti brand o caratteristiche.

Questi sono i 4 principi su cui si fondava la teoria neoclassica. Di questi 4 principi l’unico che vale e
rimane anche per i prodotti alimentari è quello dell’utilità marginale. Quindi noi diciamo che l’utilità
marginale decresce e l’utilità totale aumenta, e questo vale anche per i prodotti alimentari.
CRITICHE
Cominciamo dal primo: massimizzazione è per i consumatori razionali. Questo non va bene, perché?
Abbiamo fatto pochi giorni fa il concetto di domanda e abbiamo detto che esistono tante variabili
oltre al reddito che possono in qualche modo indirizzare il consumatore nelle sue scelte, primo tra
tutti la cosa che più rende ogni consumatore diverso dall’altro sono le preferenze. Quindi non esiste
una massimizzazione di utilità basata solo ed esclusivamente su un vincolo di budget. Ad esempio
pensiamo ai consumatori di biologico, altro che vincolo di budget! La loro preferenza è quella di
comprare biologico. Il tuo vincolo è una preferenza. Tu vuoi il bollino del biologico e sei disposto a
pagare qualsiasi cifra per quel tipo di certificazione perché per te è in qualche modo una garanzia di
una serie di pratiche. Nel momento in cui preferite avere il bollino Melinda, che nella vostra mente è
una garanzia di consorzio di tutela, piuttosto che comprare delle mele senza marca, non ho un vincolo
di budget. A questa cosa colleghiamo anche l’ultimo principio che era basato su omogeneità dei
prodotti e omogeneità dei consumatori. Ovviamente le due cose sono collegate, la cosa più importante
da smentire è che non esistono prodotti omogenei, soprattutto nel caso dei prodotti alimentari. I
prodotti alimentari sono prodotti che hanno un elevato livello di differenziazione soprattutto per
quella che è la caratteristica del tessuto produttivo dell’industria alimentare che è caratterizzata da
tantissime piccole imprese (l’ultimo censimento ne ha contate 55.000. Di queste 55.000 il 90% sono
piccole) che quindi devono differenziarsi tra loro con qualsiasi attributo del prodotto che può essere
una strategia per differenziare il prodotto. Ci sarà quello che punterà su attributi nutrizionali (nutrition
and health claims); quello che punterà su attributi di funzione (vedi la IV gamma); ci sarà quello che
punterà al benessere animale. Quindi ci sono tutta una serie di caratteristiche che hanno come
obiettivo quello di arrivare al consumatore perché se non arrivo al consumatore, non posso usare il
delta di prezzo rispetto al prodotto sostituto.
Considerate che esistono delle strategie che vengono messe in atto per differenziare qualcosa che per
sua natura non è differenziabile. Nell’industria alimentare ha senso differenziare, perchè sono dei
prodotti che hanno un processo produttivo e quindi si può aggiungere qualcosa che dia valore al
prodotto iniziale. Nel caso del settore agricolo, è difficile differenziare, infatti parleremo di libera
concorrenza. Perché? Perché sono prodotti tutti uguali tra loro, non esistono delle differenze tra i
prodotti. Quelle che noi definiamo le commodity, o la materia prima agricola sono della materia prima
che non è differenziabile. Sono dei prodotti che difficilmente possono essere differenziati, invece
vuoi l’appartenenza ad un consorzio, vuoi una denominazione d’origine, vuoi il caso della IV gamma,
quindi l’attributo funzione, sono degli attributi che vengono sfruttati per riuscire a rendere
differenziabile qualcosa che per sua natura non potrebbe essere. Perché stiamo parlando di prodotti
indifferenziabili, di prodotti omogenei. Tant’è vero che quando si parla di libera concorrenza, si parla
di prodotti omogenei che sono tutti uguali tra loro. Tant’è vero che quello che io faccio è qualcosa
che sia “ti dico che sono stati coltivati nel rispetto di queste caratteristiche… piuttosto che sono solo
di quel territorio specifico o la IV gamma in cui c’è attributo convenience e io posso arrivare a casa
e mangiarlo direttamente” però non c’è qualcosa che va a modificare il prodotto. È qualcosa che io
provo ad inventarmi per differenziare il prodotto. E quindi capite bene che se tutto questo che viene
messo in piedi ha come obiettivo ultimo la differenziazione del prodotto, riuscire a fidelizzare il
consumatore al mio prodotto, riuscire a convincerlo che il mio prodotto è meglio di qualcun altro.
Quindi se noi accettiamo che non esistono prodotti omogenei, soprattutto nei prodotti alimentari,
automaticamente non potranno esistere consumatori omogenei. Perché così come abbiamo detto,
importantissime sono le differenze. Prima abbiamo detto “quello lì pur di mangiare biologico
pagherebbe qualsiasi prezzo, pur di andare al supermercato e trovare il bollino”. Accanto ci potrebbe
essere uno invece che scansa il biologico e solo perché è biologico non ne vuole sentire parlare.
Quindi capite come la preferenza può in qualche modo gestire e influenzare tanto.
Questo è il secondo principio. Quindi abbiamo detto nel mercato non possiamo parlare di un
consumatore che massimizza la sua utilità solo ed esclusivamente sotto un vincolo di budget ma
esistono delle altre caratteristiche che vanno considerate. Non possiamo parlare di prodotti e
consumatori omogenei. Abbiamo detto utilità marginale, utilità totale e ci va bene, teniamola.
L’ultimo principio è quello del mercato trasparente. Il mercato non è trasparente, il mercato non è
trasparente in generale e nello specifico quello dei prodotti alimentari. Tutto quello che noi andiamo
a dire riguardo i prodotti alimentari è in questo caso vale per altri prodotti.
Esempio: quando voi andate dal dentista che sia il dentista o il meccanico o l’idraulico. Esiste un
modo per riuscire a quantificare in termini di prezzo quello che lui fa? C’è un livello di asimmetria
informativa che è altissimo. Vuole 100 ma noi non riusciamo a quantificare il suo lavoro in 100 e la
cosa che da un punto di vista economico è la più importante quindi anche quando uno vi potrà chiedere
qual è il problema della non trasparenza di mercato, è il fatto che non riusciamo ad identificare un
prezzo. Quindi il problema qual è? Intanto noi diciamo che il mercato non è trasparente e in termini
economici noi parleremo di asimmetria informativa intesa come “esiste un grado di conoscenza su
quel prodotto che è diverso tra produttore e consumatore”. In altri termini tornando al dentista, lui ha
una serie di informazioni che però noi non abbiamo. Quindi al consumatore non arrivano. Adesso
veniamo ai prodotti alimentari. Quello che a noi interessa a livello economico dell’asimmetria
informativa non è il fatto di andare al supermercato o andare dal dentista e non sapere se sto pagando
giusto o no, è la impossibilità di riuscire a identificare o dare un prezzo ad un servizio. E lo stesso
succede al prodotto alimentare: se io non conosco tutte le caratteristiche di quel prodotto, io non posso
dirti che è giusto che costi 5€ o no. Quello che noi facciamo, quindi la difficoltà da un punto di vista
economico è dire io per quella bottiglia d’acqua, se non ho tutte le caratteristiche di quel prodotto,
come faccio a dire che è giusto pagarla 30 centesimi o forse è il caso di pagarla 1€? A me serve che
il produttore mi dica “queste sono le caratteristiche del prodotto” in modo tale da potergli afferire un
prezzo. E quindi dire “quel prodotto costa 3€ sulla base delle caratteristiche che ha è giusto che costi
3€”.
Domanda studente: ad esempio in università il prezzo di un prodotto (acqua) nel distributore
automatico è di 60 centesimi, sul treno è 1,50€. Magari della stessa marca.
Risposta: ma lì è diverso, esiste un servizio. Tutte le volte quello che tu non puoi fare è capire quel
delta di cui tu parli, quindi da 60 centesimi magicamente arriva ad 1,50€, se quel delta di prezzo è
giusto in termini di quel servizio che devo pagare addirittura 90 centesimi. Quello che noi possiamo
arrivare a dire “in realtà esiste un servizio e il fatto che io sono sul treno, ho dimenticato di comprare
l’acqua”. Su quello non ci piove quindi il fatto che noi riconosciamo un delta di prezzo rispetto al
prezzo del distributore va benissimo, quello che non riusciamo a fare è la quantificazione. È giusto
che per quel servizio io devo pagare 90 centesimi? La stessa cosa del prodotto.

Nessuno dice che quel prodotto deve essere gratis, noi riconosciamo una serie di caratteristiche a quel
prodotto e ci sono una serie di caratteristiche che sono quasi oggettive. Al di là di quelle caratteristiche
poi si entra in un clima di fiducia. Tanto è vero che quando parleremo di attributi, parleremo di una
serie di attributi che il consumatore non ha la possibilità di constatare e quindi chiameremo attributi
fiducia. Per quegli attributi, in primis il biologico. È un caso particolare perché sono dei prodotti che
per legge rispettano determinate caratteristiche, ma noi più volte ci siamo trovati a parlare con dei
produttori di biologico che ci hanno detto “fare del biologico veramente non è arrivare sul mercato
con un prezzo che è più alto del 20-30% rispetto al prezzo convenzionale. Fare il biologico veramente
significherebbe pagarlo 3-4 volte di più del prodotto convenzionale. Quindi cosa succede? Esiste
questo delta di prezzo che il consumatore sa che deve pagare per avere il biologico e quindi si stanno
allineando a questa fascia di prezzo più alta ma che non corrisponde a quello reale del biologico.
Quindi ci sono quelli che fanno realmente biologico che ormai stanno uscendo dal mercato perché
non hanno costi sostenibili, questa fascia di mezzo che invece mischia prodotti biologici e non,
perché? Perché non c’è una regolamentazione, o meglio la regolamentazione c’è ma non c’è nessuna
certificazione che controlli. La certificazione esiste, il bollino verde esiste. Ma il problema qual è? È
che secondo il regolamento questi controlli devono essere fatti almeno una volta all’anno. Cosa
significa? Viene una persona in azienda e viene a controllare che una serie di prodotti nella tua azienda
non devono neanche esistere perché devi rispettare una serie di pratiche che poi sono sostenibili e
sono rispetto dell’ambiente, rispetto del territorio… quindi questi prodotti in azienda non devono
stare, però c’è un piccolo problema:
 Ti avvisano quando ti vengono a fare il controllo
 L’azienda e questi enti che vengono a certificare il prodotto, vengono pagati dall’azienda
quindi io che ho l’azienda, vengo da te e ti dico “fammi un controllo, io ti pago, mi dici il tuo
incentivo a dire quell’azienda non fa biologico? L’anno prossimo non mi chiami più.”
Il biologico vero esiste e esistono le aziende che fanno il biologico, il problema è che non so
veramente quanto potranno resistere perché fare biologico costa veramente tanto. Dall’altro lato c’è
il problema fondamentale cioè che l’offerta è veramente vasta e se ci mettiamo a quantificare l’offerta
di biologico che c’è al supermercato reale è poca. Quindi il problema è che per esempio il biologico
è un attributo fiducia e per questo attributo esistono delle certificazioni che dicono a te consumatore
“guarda io capisco che tu non puoi andare in azienda a controllare che l’azienda segue delle pratiche
biologiche sostenibili, quello che io ti posso fare è:siccome ho controllato io per te, io te l’ho
certificato” e quindi diventa non più una fiducia perché in teoria la presenza di quel bollino ha in
qualche modo sostituito quell’attributo, che non è più non è più un attributo fiducia ma un attributo
ricetta e poi quando vedremo gli attributi capiremo perché. Esiste comunque un atto di fiducia che
tu devi fare nel caso del biologico e nel caso della certificazione perché poi ok la certificazione, però
nel momento in cui vedo il bollino verde, comunque mi devo fidare. Il problema dell’asimmetria
informativa è questo. Il fatto che noi non possiamo afferire al prodotto un prezzo e quindi noi di
conseguenza non sappiamo se quel prezzo corrisponde al reale valore di quel bene e quindi noi
andiamo al supermercato, acquistiamo un prodotto, lo paghiamo un prezzo ma non siamo
effettivamente convinti di quello che stiamo facendo. Ovviamente il livello di asimmetria informativa
è giusto, bisogna anche riconoscere che non è un mercato dove il livello di asimmetria informativa
molto alto, perché comunque dei passi in avanti in termini di etichettatura sono stati fatti. Già con il
2006 un po’ di tutte quelle informazioni che venivano date senza criterio su Nutritional and health
claims sono state regolamentate. Adesso con il 432 del 2012 gli Health claims sono state addirittura
listati, quindi un po’ più di chiarezza è stata fatta. Esistono ancora delle caratteristiche che non
possono essere quantificabili ed esistono ancora delle informazioni che al consumatore non sono
obbligatorie dare e quindi esistono una serie di informazioni che vengono date in maniera ancora
volontaria.
Tornando ai nostri principi, abbiamo detto che quelli della teoria neoclassica erano quattro e abbiamo
detto che dei quattro principi che abbiamo elencato, solo uno riusciamo a dire va bene anche dopo la
teoria neoclassica. Perché quella che noi facciamo è un’evoluzione della teoria neoclassica, quindi
quando si è passato dalla teoria neoclassica alla teoria neo-istituzionale dove praticamente passiamo
dal dire il mercato è una forma, un luogo efficiente che riesce ad allocare le risorse in una maniera
efficiente, un luogo in cui si incontrano domanda e offerta. Alla neo-istituzionale si comincia a parlare
di un mercato che non sempre rappresenta la forma più efficiente per allocare le risorse. Tanto è vero
che con la teoria neo-istituzionale si inizia a parlare di fallimenti del mercato che per la teoria
neoclassica non esistevano. Il mercato era l’unica forma di governance quindi per regolare il rapporto
tra domanda e offerta, l’unica forza è il mercato. Il mercato è la forma più efficiente che possa esistere
e non esiste nient’altro. Nel momento in cui si fondava su questi principi. Non possiamo parlare di
massimizzazione dell’utilità sotto un vincolo di budget, non possiamo parlare di mercato trasparente,
non si può parlare di omogeneità, sia in termini di consumatori che di prodotti, nel caso dell’utilità
marginale noi possiamo continuare a dire che esiste un’utilità marginale che decresce e un’utilità
totale che aumenta. Quindi tutto questo per arrivare poi a dire esistono delle evoluzioni di questa
teoria neoclassica, fino a quando arriviamo alla teoria neo-istituzionale dove andremo a riconoscere
delle forme di governance (quando parliamo di forme di governance intendiamo delle forme in cui
domanda e offerta si affacciano, una forma di governance è per esempio il contratto, piuttosto che
l’integrazione verticale, vedremo le filiere, vedremo delle forme che vengono definite alternative al
mercato). Quindi avremo delle forme di governance alternative perché partiremo dal prezzo opposto
che il mercato non è l’unica soluzione dell’incontro tra domanda e offerta, potrebbero esistere delle
forme più efficienti e quindi soprattutto parliamo di fallimenti del mercato e quindi andremo a
riconoscere una serie di situazioni, in primis quella che abbiamo detto della asimmetria informativa
in cui il mercato fallisce. Io per oggi mi fermerei qua, la prossima volta facciamo Lancaster, Becker
e Grossman che sono stati i primi tre che hanno iniziato a confutare la teoria neoclassica.

LEZIONE 5 del 14-03-2017


Abbiamo detto che tutto ciò che è stato detto, negli anni, in principio con la teoria Neoclassica è stato
poi modificato, un pò perché una serie di studi hanno portato a dire che una serie di postulati,
analizzando il mercato agro-alimentare, non erano validi e quindi non si poteva continuare a parlare
di quei postulati ma bisognava aggiornarli.
Abbiamo cominciato col dire che i 4 postulati su cui si fondava la teoria neoclassica sono:
 Simmetria di mercato
 Razionalità del consumatore
 Utilità marginale e utilità totale
 Omogeneità dei consumatori
Questi principi non possono essere applicati al mercato dei prodotti alimentari. Da qui si è partiti per
poi arrivare a riconoscere una serie di caratteristiche proprie dei composti alimentari che ci hanno
portato ad abbandonare la teoria neoclassica e andare verso la teoria neoistituzionale.
La teoria neoistituzionale è una teoria che comincia a riconoscere il mercato come una forma non
efficiente e quindi possono esistere delle forme diverse d’integrazione tra i diversi attori. In realtà
queste frasi che possono sembrare difficilissime, sono delle considerazioni alle quali si può arrivare.
In che senso? Abbiamo detto che la teoria neoclassica si basa su questi 4 principi che sono:
1. Il consumatore massimizza la sua utilità sotto un vincolo di budget. Questo significa che io
vado al supermercato e l’unico vincolo delle mia scelta è il budget. Quindi andrò a scegliere
il mio prodotto solo ed esclusivamente sulla base del mio reddito e la scelta che vado a fare è
considerare solo la variabile reddito. Io massimizzo la mia utilità, cioè massimizzo le mie
preferenze, la mia soddisfazione personale, cioè quando riesco ad acquistare un prodotto con
un prezzo più basso. Il consumatore è assolutamente razionale e sceglie in base solo a questa
variabile.

2. Il secondo principio dice che il mercato dei prodotti alimentari è un mercato trasparente.
Questo vuol dire che io vado al mercato e quando acquisto il prodotto io e il venditore abbiamo
le stesse conoscenze riguardo a quel prodotto. Sto acquistando un prodotto di cui conosco
tutte le caratteristiche e su quel prodotto posso conferire un prezzo. Questa è una cosa
importante su cui ragioniamo più avanti. Questo vuol dire che non c’è nessuna barriera tra me
e colui che vende, quindi sono perfettamente consapevole di ciò che vado ad acquistare.
3. Utilità marginale che decresce, utilità totale che aumenta. Avevamo visto che sembrava
complessa (esempio dell’acqua, es. del panino). Alla fine abbiamo definito l’utilità marginale
come quell’utilità che viene data dall’incremento di una singola mercato-consumo e invece
l’utilità totale è la sommatoria dell’utilità marginale. Cosi come quando abbiamo tanta fame
o sete l’utilità che mi da il primo prodotto consumato è di gran lunga maggiore rispetto
all’utilità che viene data alle quantità che vado a consumare successivamente, quindi decresce.
Poi avevamo detto che l’utilità totale è la sommatoria delle utilità marginali e quindi aumenta.
4. I consumatori ed i prodotti sono tra loro omogenei. Questo vuol dire che c’è una omogeneità
di consumatori (tutti uguali). Se il consumatore va al mercato e sceglie e tutti sono guidati
dalla stessa preferenza, non ha senso dire che il mercato offre dei prodotti differenziati perché
se tutti abbiamo la stessa preferenza sceglieremo tutti lo stesso prodotto e non ha senso
riconoscere una differenziazione dei prodotti. Non soltanto i consumatori sono omogenei,
sono guidati dalle stesse preferenze ma anche i prodotti sono uguali tra loro.

Abbiamo anche detto che questi principi cosi come li abbiamo enunciati non possono valere in
generale per il mercato ed in particolare per il mercato alimentare perché :
1. Cominciamo dal primo principio quello della massimizzazione dell’utilità sotto vincolo di
budget: non è vero perché la domanda è funzione di una serie di caratteristiche tra cui non
solo il prezzo o il reddito ma anche le preferenze. Vuol dire che non sempre il budget,
Es: Esiste il giorno in cui vado al mercato devo comprare un prodotto e prendo quello che
costa di più, potrebbe essere, in questo caso la mia utilità è massimizzata dal prezzo, ma esiste
anche il giorno in cui vado al mercato e voglio comprare qualunque sia il prezzo per quel
prodotto purché abbia quelle caratteristiche. Es: il caso del Biologico, è un caso in cui esiste
un attributo, esiste una certificazione, quindi il prodotto ha una certificazione per la quale io
sono disposto a pagare tanto di più rispetto al prodotto convenzionale, quindi io vado a
massimizzare la mia utilità perché deve avere la certificazione del biologico. Non vado a
massimizzare la mia utilità perché quel prodotto costa meno. E questo tutte le volte che voglio
un prodotto arricchito con qualcosa piuttosto che l’appartenenza ad un consorzio, una
certificazione. Es: l’insalata di quarta gamma. Tutti esempi in cui io massimizzo la mia utilità
non sotto vincolo di budget ma seguendo una preferenza. Quindi il primo principio
sicuramente non vale, è stato superato.
2. Il secondo principio dice che il mercato è trasparente. Anche questo non è vero perché quando
arriverete a studiare il fallimento del mercato, uno dei motivi per cui si parla di fallimento è
la simmetria informativa. La simmetria informativa è una caratteristica del mercato, (di tutte
le tipologie di prodotti non solo quelli agroalimentari). Quando parliamo di simmetria
informativa noi riconosciamo una sorta di dislivello di informazioni tra chi acquista e chi
vende. Non significa che voi andate al supermercato e non sapete cosa state acquistando, ma
sicuramente dei passaggi importanti sono stati fatti in termini di etichettatura. L’etichettatura
è uno strumento che ha come obiettivo di ridurre al minimo il livello di simmetria informativa
e il problema è dal punto di vista economico a noi come interessa la simmetria informativa.
La s. i. è una cosa che non permette al consumatore di conferire un valore a quel bene quindi
in altri termini il problema è che se io non conosco tutte le caratteristiche di questa acqua (ad
es.), automaticamente non posso dire con certezza che questa acqua è giusto costi 50 cent o
forse è il caso che costi di più, perché ha delle caratteristiche che devo andare a pagare. Il
problema della s. i. è questo: non esiste un consumatore che riesce a conferire un valore al
bene e quindi non riesce a dire che quel prezzo che sta pagando per il prodotto è giusto o non
è giusto. Questo non significa che il vostro prodotto è una scatola, un contenitore di una
sostanza di cui non conosciamo niente, certo che ci sono delle caratteristiche del prodotto che
consideriamo e conosciamo, ma esistono tante caratteristiche da riportare in etichetta (ad es.
le caratteristiche nutrizionali che da dicembre sono diventate obbligatorie da riportare).
Quindi ci sono una serie di caratteristiche che vanno aggiunte all’etichetta e aiutano il
consumatore a dare un prezzo a quel prodotto. In altri termini quello che acquisto è un
aspettativa. Io acquisto quel prodotto nella speranza che abbia quelle caratteristiche ma io non
ho la certezza che quel prodotto ha quelle caratteristiche. Arriviamo a dire che il mercato è
asimmetrico. Esiste una asimmetria informativa che prima era molto più alta, negli ultimi anni
dei passi avanti sono stati fatti ma comunque esiste un livello di asimmetria. Pensate ad es. a
gli artigiani che ci offrono una serie di servizi quali noi paghiamo un prezzo che non possiamo
in alcun modo quantificare. Questo non significa che esiste necessariamente una truffa però
noi paghiamo un servizio, una quantità ma non esiste nessuno che ci dice che per questa
quantità bisogna pagare questo. Esiste un servizio, riusciamo a capire cosa ci è stato fatto ma
non riusciamo a dire se il prezzo è quello esatto. Quindi esistono dei mercati dove il livello di
asimmetria informativa è ancora più alto. Anche il secondo principio non va bene.

3. Il terzo principio è stato quello dell’utilità marginale. L’unico dei tre principi sui cui si fondava
la teoria neoclassica che vale ancora, perché tutto quello che abbiamo detto ha un senso
tradurlo anche in termini di prodotti alimentari, ed è quello di cui parlavamo prima. Nel
momento in cui mangio la prima quantità mi darà un utilità, una soddisfazione maggiore
rispetto alle seconde consumate in seguito. Considero la singola utilità e questa va a
decrescere. Parleremo di utilità totale come sommatoria delle utilità marginali.

4. L’ultimo principio: i consumatori sono tra loro omogenei, hanno tutti le stesse preferenze.
Quindi abbiamo un mercato come un qualcosa che risponde ad una necessità, ad un bisogno,
allora vuol dire che anche i prodotti sono uguali tra loro perché abbiamo tutti le stesse
preferenze, vogliamo tutti gli stessi prodotti. Questo capite che non va bene, nello specifico
nell’industria alimentare italiana che ha una cultura caratteristica in tutta Europa, credo sia
l’unica con questa specificità, esiste un elevatissimo numero di piccole imprese,
microimprese, con un numero di addetti anche sotto le dieci unità, quindi questo significa che
è una struttura tanto frammentata dove queste piccole aziende sono anche il 95% di tutte le
imprese, significa che è molto più importante il ruolo della differenziazione dei prodotti,
perché nel momento ho 3 imprese capite bene che queste qui devono trovare solo un modo di
differenziarsi da 2 concorrenti. Quindi nel momento in cui ho un tessuto di micro e piccole
imprese (tutta l’industria alimentare sarà intorno 54-55000, su 55000 il 95% saranno piccole
e micro). Quindi capite che essendo piccole non possono fare economie di scala, cioè produrre
tanto e ridurre i costi, ma possono provare a fare qualità in modo da differenziarsi dai
concorrenti. Come lo fanno? Differenziando i prodotti, può essere un attributo, una
certificazione, qualsiasi strumento per riuscire a differenziare il prodotto dalla concorrenza.
Questa dinamica va poi a spiegare il fatto che andate all’ipermercato e avete un numero di
referenze (per uno stesso prodotto posso scegliere tra tantissime alternative) e questo è il
risultato di un processo molto marcato di differenziazione del prodotto. Non possiamo dire
che il prodotto è omogeneo e di conseguenza come vi dicevo la scorsa volta, non esiste un
mercato se non è stato studiato un bisogno della popolazione, non esiste un prodotto ed una
potenziale domanda, se il prodotto arriva sul mercato c’è stata una analisi del mercato, una
analisi dei consumatori e, dei bisogni, e quindi la prima cosa che io devo fare è decidere il
target e quindi vuol dire che io sto già producendo per un segmento potenziale; ovviamente
non è detto, anche quando hanno messo sul mercato il Grand soleil pensavano fosse un
successone, poi è stato messo sul mercato giovedì e venerdì è stato ritirato, quindi vuol dire
che non è stata una trovata geniale. Anche in quel caso c’è stato qualcuno che ha detto ci sarà
un mercato potenziale, (cioè non è che hanno detto mettete sul mercato questo prodotto che
sicuramente non verrà acquistato); c’è comunque una parte di analisi di mercato e qualcuno
che dice esiste nel mercato, una domanda potenziale per quel prodotto. Esiste un segmento in
termini di bisogni e preferenze da esaudire e quindi faccio un prodotto che risponda a quella
categoria.
Quindi quando noi diciamo che l’industria alimentare è caratterizzata da una struttura molto
frammentata che difficilmente punta alle quantità (solo le multinazionali lo possono fare perché
hanno grandi strutture per produrre tanto in tempi più brevi e costi minori), nel momento in cui
parlo di piccole e micro imprese non posso fare quantità ma l’unico strumento che hanno è fare
qualità. Qualità come la faccio? Devo differenziare, o sugli attributi o sulle caratteristiche del
processo? Per esempio quanti adesso fanno leva sulla (e adesso lo leggete anche in etichetta) cioè
esistono una serie di caratteristiche del prodotto che vengono esaltate. Non è detto che siano delle
caratteristiche proprie (relative a caratteristiche nutrizionali), ma possono essere anche
caratteristiche del processo produttivo ad es. Tutto questo ci porta a dire che esiste una struttura
differenziata di prodotti e quindi automaticamente non possiamo dire che esistano dei
consumatori omogenei. Anche l’ultimo principio non va.
Tutto questo ci porta a dire che c’è stato un lento passaggio dalla teoria neoclassica alla teoria
neoistituzionale in cui il passaggio più importante, centrale, è stato quello di cominciare a dire che il
mercato non rappresenta la forma più efficiente di scambio tra domanda ed offerta ma potrebbero
esserci dei casi in cui questo mercato non è così efficiente. La prima lezione quando abbiamo definito
il mercato e abbiamo detto che è un luogo virtuale dove domanda e offerta si incontrano. Domanda
e offerta sono i due attori che si incontrano in un punto in cui c’è un consumatore disposto a pagare
un prezzo per quel prodotto, e si incontra con un’offerta che è disposta a vendere un prodotto a quel
prezzo. Questo punto d’incontro è lo scambio che avviene sul mercato in prossimità di un certo
prezzo, questa è proprio una delle prime definizioni che abbiamo dato di mercato. Nel momento in
cui cominciamo a lasciare la teoria neoclassica, cominciamo a lasciare anche il fatto che questo
mercato possa rappresentare la forma più efficiente di scambio tra la domanda e l’offerta e quindi
riconosciamo il fatto che il mercato non sempre riesce a fare questa cosa. Dopo diremo che esistono
forme alternative al mercato, ma adesso non ci interessa, per ora diciamo che non sempre il mercato
riesce ad essere efficiente; efficiente vuol dire che se ognuno di noi ha un compito, cerca di farlo al
meglio. Nel momento in cui dico che una persona è efficiente, vuol dire che riesce a fare quella cosa
molto bene. Nel momento in cui dico di fare una cosa ed una persona e questa ancora oggi non l’ha
fatta, non ha fatto il proprio dovere, quella persona è poco efficiente. Quindi il mercato ha un compito,
deve semplicemente regolare domanda ed offerta. Se comincio a dire che questo mercato è poco
efficiente, comincio a riconoscere il mercato come non essere in grado di riuscire sempre a regolare
la domanda e l’offerta. In primis, quando c’è asimmetria informativa, ad esempio io vado al mercato
ed esiste un prodotto per cui io voglio conoscere il lotto di produzione ( x es. ) che non è obbligatorio
riportarlo in etichetta (tranne che per la carne), io riesco a farlo solo se esiste un sistema di
tracciabilità, che non deve essere per forza tracciabilità obbligatoria ma tracciabilità volontaria (poi
nelle ultime lezioni capiremo la differenza); se questo lotto non viene detto in etichetta vuol dire che
io ho acquistato quel prodotto perché tanto ho visto che non è cosa, non arriviamo a capirlo, ma io in
quel momento non ho massimizzato la mia utilità perché sono andato a pagare un prezzo per quel
prodotto ma in realtà non so se quel prezzo è giusto, magari ero disposta a pagare di più se ci fosse
scritto il lotto di produzione, perché volevo sapere precisamente quel è il pezzo di terreno dove è stata
raccolta quella fragola (ad esempio). Io per questa informazione ero disposta a pagare una somma
elevata. Nel momento in cui questa informazione non viene data vuol dire che io sto pagando un
prezzo per quel cestino di fragole ma è un prezzo che non massimizza la mia utilità, non ho una piena
conoscenza del prodotto in primis, punto secondo non so se il prezzo è giusto, magari costano 4 euro
al chilo ma io ero disposta a pagare anche 6 euro nel momento in cui mi dicevano il lotto. Non so se
il prezzo è il reale valore di quel cestino di fragole e due ho una massimizzazione parziale della mia
utilità perché in quel caso la mia utilità corrispondeva ad una preferenza: sapere il lotto di produzione.
Quindi capite bene che in quel momento, se torniamo al compito del mercato che era quello di dire
devi incontrarti con l’offerta in un luogo dove esiste un prezzo, un problema di asimmetria
informativa, come in questo caso, può in qualche modo mettere in discussione il ruolo del mercato.
Infatti arriveremo a parlare di un mercato che se non è efficiente può arrivare anche a fallire.
Parleremo di asimmetria informativa come una delle cause per cui un mercato fallisce, cioè
riconosceremo una incapacità del mercato di regolare domanda e offerta. Il passaggio fondamentale
che non facciamo dalla teoria neoclassica alla teoria neoistituzionale, è un passaggio dove
cominciamo a rivedere questi attori e cominciamo a dire: il mercato non è più una forma così
efficiente per regolare domanda ed offerta e soprattutto noi avevamo visto la domanda e l’offerta
come due agenti che interagiscono in questo mercato, dove la domanda ha un suo obiettivo, l’offerta
offre un suo prodotto ad un certo prezzo. Quando invece parliamo di teoria neoistituzionale, non
soltanto guardiamo il mercato con un’ottica diversa ma cominciamo anche a dire che l’offerta può
avere un comportamento opportunistico.
Il comportamento opportunistico vuol dire che arriviamo a dire che esiste qualcuno che ci piò fregare,
quando andiamo al mercato e vogliamo il lotto e non riusciamo a conoscerlo, significa che siccome
non è obbligatorio, a me costa - perché potrebbe esserci anche la buona fede, riportare il lotto in
etichetta significa avere un sistema di tracciabilità volontaria che costa tanto perché significa seguire
la filiera, seguire i lotti che viaggiano durante tutti i passaggi, una serie di step e di informazioni che
viaggiano con quel prodotto e magari sono anche costose, quindi può essere che qualcuno mi venga
a dire io non lo faccio perché a me costa, oppure potrebbe esserci comportamento opportunistico
perché in realtà non faccio il sistema cosi dettagliato, i miei lotti sono molto grandi, non ho nessun
incentivo a dichiarare qualcosa, quello che mette tutte le specifiche del prodotto vuol dire che noi
stiamo pagando per quella cosa perché riconosce che per quel contenuto di fibra esiste qualcuno
disposto a pagarlo di più quel prodotto, nel momento in cui non lo dichiaro vuol dire o che non ho un
incentivo a dichiararlo (non è che ci può essere un consumatore disposto a pagare un prodotto che ha
un nutriente nella norma) oppure addirittura ha qualcosa da nascondere, per cui a maggior ragione lui
pensa che ci possa essere qualcuno che sarebbe disposto a pagare addirittura in negativo e quindi non
lo dichiara, capite che questo atteggiamento va nella direzione di dire: esiste qualcuno che mi può
fregare e quindi adotto un comportamento opportunistico. Il comportamento opportunistico è sempre
a scapito del consumatore, non possiamo sbagliarci, è un comportamento dell’impresa a scapito del
consumatore. Difficilmente siamo noi che possiamo avere un comportamento opportunistico a scapito
dell’impresa, è sempre l’impresa che non dichiara in etichetta qualcosa che invece dovrebbe
dichiarare.
Quindi questo passaggio che noi facciamo dalla teoria neoclassica a quella neoistituzionale, va a
cambiare il ruolo dei singoli attori (domanda, offerta e mercato). Il mercato non è così efficiente di
governance (regolazione) tra domanda ed offerta, in alcuni casi esistono forme magari più efficienti,
ma per ora diciamo che il suo compito non sempre lo fa bene ( di regolare domanda ed offerta) e che
l’offerta non è solo un attore come la domanda che si muove sul mercato come la domanda e che
cerca di offrire un prodotto ad un dato prezzo ma è un agente del mercato che potrebbe avere dei
comportamenti opportunistici nei confronti del consumatore e quindi della domanda.
Questo passaggio da teoria neoclassica a quella neoistituzionale non è stata una cosa che comincia in
un giorno e finisce in un altro, tanti economisti hanno provato a ragionare sulla teoria neoclassica per
dire questo non va bene e arrivare a dire ripensiamo questa teoria in una nuova teoria che chiameremo
neoistituzionale.
Una delle prime cose che viene attaccata del modello neoclassico è l’omogeneità del prodotto; se
l’industria italiana tende a differenziare tanto per rimanere competitivo sul mercato, automaticamente
non possiamo dire che è un prodotto omogeneo.

Lancaster dice che che il prodotto alimentare è una sorta di contenitore, all’interno del quale esistono
una serie di caratteristiche, e se io devo massimizzare l’utilità quando vado a comprare un prodotto,
questa non è data dal prodotto nel suo insieme ma dalla sommatoria delle utilità che derivano dalle
singole caratteristiche da cui è costituito il mio prodotto. Quindi l’utilità del consumatore non è più
data dal numero di prodotti che mi posso permettere, ma dalla sommatoria delle caratteristiche
intrinseche a quel prodotto. Questo è il primo passaggio che ci viene spiegato da Lancaster,
economista inglese degli anni ’60 che ha cominciato a parlare di eterogeneità dei prodotti.

Il secondo passaggio è stato quello di Becker che ha portato due innovazioni fondamentali:
 Una riguarda il tempo;
 Una riguarda la famiglia.
Gary Becker per primo sviluppò un approccio teorico per lo studio dell’unità familiare noto come la
New Household Economics (NEH). Secondo tale approccio, il soggetto non agisce individualmente
ma collettivamente, nella comunità familiare. In questa teoria il nucleo familiare è considerato una
“small factory”: trasforma input  output (paniere finale di beni – beni z) in grado di massimizzare
l’utilità dei soggetti. I beni, singoli o combinati, sono gli input e le loro caratteristiche o combinazioni
di caratteristiche sono gli output.

Cosa sono gli INPUT?


- Numero di beni acquistati sul mercato (la cui quantità/qualità è decisa in funzione del reddito)
- Teconologie (gli strumenti che la famiglia ha a disposizione per il proprio lavoro)
- Capitale umano (inteso in termini di risorse economiche)
- Non working time, ovvero il tempo che resta a disposizione escludendo le ore di lavoro.

Cosa sono gli OUTPUT?


Commodities = rappresentano le preferenze dei comportamenti della famiglia e sono il mezzo per il
raggiungimento dell’utilità.

 un bene in quanto tale non produce utilità: sono le sue caratteristoche, una volta che siano
valorizzate, o espresse, attraverso la teconologia di consumo, a produrre l’utilità. negli esempi fatti
da Becker, i beni Z sono beni non commerciabili che includono i bambini, il dormire, la salute, attività
ricreative ecc. la famiglia sceglierà poi la migliore combinazione di allocazione delle risorse per
produrre nel miglior modo possibile tali beni.

Quando parleremo di valore aggiunto altro non è che il valore che si crea all’interno dell’azienda. Per
chi ha fatto economia aziendale, sa che queste cose sono delle variabili che vanno inserite nel bilancio,
(ad es. capitale fisso, capitale circolare).
All’interno della famiglia c’è una creazione di valore, e l’esempio che fa è quello del pasto: c’è un
input (qualcuno va al supermercato e compra l’input) poi ci sarà qualcuno che vi chiama e vi dice che
è pronto il pasto. Quello che noi chiamiamo input (la terra, le materie prime per l’azienda) è quello
che a Becker serve per fare la preparazione di questo pasto. L’input sarà il sugo, la pasta... Poi esiste
il piatto della pasta finito che è l’output. All’interno della famiglia esiste una persona che chiama
capo benevolo che va ad allocare le risorse alla famiglia a tutti i membri cercando di massimizzare
la loro utilità e a distribuire la ricchezza, ma è lui l’unico referente di questa piccola impresa. Nella
famiglia ci sono tante persone ed ognuno dice la sua, ognuno massimizzerà la sua utilità in maniera
diversa, ognuno ha le sue preferenze, quindi la presenza di questo individuo permette di mettere a
tacere queste personalità e di fare l’interesse di tutti. Questa persona va ad agire nell’interesse
collettivo di questa small factory. Questa è la prima innovazione di Becker: è il primo che dice la
famiglia è paragonabile ad una impresa. Cosi come funziona l’impresa, può funzionare una famiglia
ed esistono una serie di caratteristiche dell’impresa che sono identiche alla famiglia.

La seconda innovazione do Becker è quella del tempo. Dice che una serie di azioni all’interno del
processo di scelta di un prodotto vengono dettate non solo da un vincolo di budget ma anche dal
vincolo di tempo. Lui ritiene che esiste una variabile altrettanto importante, tipo il tempo, che pare
abbia un’influenza maggiore di quella che può avere il budget.
Esempio funzione produttiva  fasi di preparazione di un pasto.
Input  materie prime alimentari acquistate dalla famiglia (compatibile con il proprio reddito),
trasformate tramite l’usp dei vari utensili a disposizione della famiglia (le tecnologie)
Output  pasto preparato – bene Z
Per la preparazione è necessario che la famiglia disponga di un altro output  il TEMPO.
Questo tempo a cui fa riferimento è il no-working time, quindi non va a pensare al tempo per lavorare
o per dormire, ma quella che è una risorsa scarsa (e qui torniamo a quello che abbiamo fatto alla prima
lezione quando abbiamo detto che tutte le volte che c’è una scarsità di qualcosa noi parliamo di
economia) e qui la risorsa scarsa è il tempo. Quindi esistono delle scelte che facciamo in funzione
della scarsità di tempo.
Il tempo costituisce un input fondamentale, e prende parte in diversi modi alla funzione di produzione
- Risorsa necessaria al momento dell’acquisto
- Materie prima durante la lavorazione
- Consumo del pasto
Nella household economics le attività riproduttive sono influenzate principalmente da due fattori:
1. Il vincolo di bilancio  reddito della famiglia che inevitabilmente condiziona sia la tipologia
che la quantità di beni acquistabili;
2. Il tempo  inteso come non-working activities

Becker affida al TEMPO un ruolo determinante all’interno del suo modello produttivo, infatti
considera contemporaneamente il tempo come un input per le household production e come un limite
alle attività che la famiglia può svolgere. In altri termini, se da un lato è un fattore di produzione
indispenmsabile per qualsiasi attività produttiva, dall’altro (essendo una risorsa scarsa), costituisce
un vincolo poiché il tempo destinato ad un’attività viene indirettamente sottratto allo svolgimento di
un’altra che potrebbe ugualmente accrescere l’utilità finale della famiglia. Ad esempio: in presenza
di un vincolo di tempo la famiglia potrebbe essere portata a scegliere di preparare pietanze poco
elaborate o addirittura a consumare prodotti già pronti in modo da risparmiare giornalmente delle ore
che potrebbero essere dedicate ad altre attività.
Perché è una cosa importante? Perché se ci pensate, il fatto di allocare il tempo ad una attività piuttosto
che ad un'altra potrebbe essere indice di qualcosa, per esempio l’obesità. In funzione dell’allocazione
del tempo libero è possibile riuscire a capire una sorta di profilo del consumatore e quindi si può
provare a spiegare una serie di fenomeni che stanno crescendo a dismisura come il sovrappeso o
l’obesità, piuttosto che il tempo per l’acquisto di un prodotto (esistono persone che fanno la spesa in
un’ora e persone che la fanno in 5 minuti). Il fatto che magari una persona che passa più tempo al
supermercato può essere un indice di una scelta più informata (ci metto un’ora perché magari devo
leggere tutte le etichette di tutto quello che leggo nel carrello, quindi è una scelta molto più ragionata
e informata). ATTENZIONE: non pensate che una scelta informata sia una scelta più salutare, questo
non è stato dimostrato. Una scelta informata è solo più consapevole. Possiamo trovare delle persone
che leggono le etichette e che in maniera informata vanno a fare determinate scelte non salutari.
Si spera che informando di più otteniamo quel risultato ma non è stato dimostrato. Se una persona al
supermercato perde un’ora rispetto ad una che fa una scelta istintiva, fa acquisti ripetuti, compra
sempre le stesse cose piuttosto quelli che non ha mai comprato, ovviamente si presuppone che possa
essere una persona che sceglie meglio, in maniera più informata. Questo ci porta a dire che all’interno
del processo di scelta un ruolo importante è quello del tempo. Un tempo inteso non come tempo di
lavoro ma un tempo di non-lavoro (no-working time).
Se ci pensate, un vincolo di tempo, un problema legato ad una mancanza di tempo, potrebbe portarci
a fare delle scelte meno salutari; non è tanto il fatto che per la spesa ci metto tanto tempo, ma piuttosto
che scelgo dei prodotti più facili da preparare. Questo può spiegare il trend di prodotti che va verso
una più alta densità energetica, ricchi di grassi, di zuccheri ecc.
L’ultima cosa che vi volevo dire riguardo il tempo, è il concetto di time preference perché è
importante come gestisco l’allocazione di tempo nell’arco della giornata. La time preference è la
disponibilità a rinunciare ad un beneficio immediato in cambio di utilità. Cosa significa? Facciamo
che da un lato ho l’hamburger, dall’altro l’insalata; dovremmo scegliere l’insalata, ma il piacere è
diverso. Cosa succede? Nel momento in cui scelgo l’insalata, io riconosco il fatto che alla lunga, il
consumo di insalata rispetto al consumo di patatine fritte può portare ad un’utilità nel medio/lungo
periodo, che è lo stesso dell’attività fisica. Quello che voi avete fatto è stato rinunciare ad un beneficio
immediato. Quindi rinunciare al piatto di patatine non è altro che la time preference. Questo concetto
lo andiamo a collegare all’importanza del tempo e a come il rinunciare ad un beneficio immediato in
cambio di un’attività che mi dà un beneficio sul lungo termine, sia una diversa allocazione del tempo
e può portare il consumatore a scegliere delle attività un po’ più virtuose, salutistiche, a scapito di
attività che sono riconosciute avere una disutilità nel lungo termine.

LEZIONE 6 del 15/03/17


All’interno della famiglia esistono tanti individui di differente utilità. Ognuno avrà le sue
caratteristiche, ognuno pretende di massimizzare la sua utilità in maniera magari diversa rispetto
all’altro. E quindi cosa succede? All’interno di questa famiglia esiste qualcuno che comanda. Questo
“dittatore” che lui chiama (Becker) “dittatore benevolo” è quella persona che va in qualche modo a
gestire la famiglia e a ridistribuire la ricchezza, quindi che va ad allocare anche le risorse.

Il secondo concetto è quello che riguarda il tempo. Questo cosa significa?


Esiste un vincolo di budget che però non è l’unico vincolo durante un processo di scelta; anche il
tempo può giocare un ruolo importante.

L’ultimo concetto che abbiamo annunciato sempre in termini di tempo, è stato il concetto del Time-
preference, che è legato al concetto economico, perché non è altro che un tasso di sconto. Infatti, e
scriviamo la formula del time-preference è proprio il tasso di sconto. Quindi è un concetto
assolutamente economico, e possiamo definirlo come: una disponibilità del consumatore a
rinunciare ad un beneficio immediato in cambio di un’utilità futura.
Questo livello di time-preference si dice possa essere qualcosa di innato, quindi non è detto che può
essere una cosa che si possa correggere negli anni.
Il problema della misurazione del time-preference è che le persone dicono ciò che non pensano a
volte, quindi la domanda classica che si fa per misurare la time-preference è “preferisci un uovo oggi
o una gallina domani?”.
Questa cosa è stata fatta anche sui bambini: c’è un esperimento molto famoso fatto con dei cioccolati
per bambini, dove pare che il livello di time-preference sia qualcosa che può già essere misurato nella
prima infanzia e che aveva una relazione diretta con l’obesità.
Questa è l’ultima cosa che abbiamo detto, e quindi di come la time-preference è studiata soprattutto
in termini economici per spiegare alcuni atteggiamenti di consumo.
L’ultimo pezzo che andiamo a fare e poi chiudiamo questa parte di teoria, è il modello di Grossman:
Molte delle decisioni prese all’interno di una famiglia, ed in particolare la scelta del regime
alimentare, il tempo da dedicare all’attività fisica, alla preparazione dei pasti, alle cure personali, e le
risorse da destinare alle spese mediche… hanno come scopo comune quello di raggiungere o
mantenere un buono stato di salute. A partire da tali considerazioni, Michael Grossman nel 1972
utilizzò la funzione di produzione alla base della household economy per studiare la domanda di
salute e le variabili in grado di influenzarla. Grossman considera la salute come un bene di cui ciascun
individuo è dotato alla nascita e che è soggetto ad un inevitabile deprezzamento nel tempo a causa
dell’età e dello stile di vita. Tale deprezzamento può essere compensato o ripristinato attraverso
opportuni investimenti ed in particolare tramite l’acquisto di prestazioni sanitarie.
Quello che fa Grossman è una sorta di modellazione sulla domanda del bene-salute. Quindi Grossman
dice: immaginate di avere uno stock di salute alla nascita; questo stock di salute col passare degli anni
si deprezza. Quindi è come se noi avessimo un conto in banca che se non viene rimpinguato
ovviamente tende a deprezzarsi; allo stesso modo, lo stock di salute, se non viene rimpinguato, con
l’avanzare dell’età, tende a deprezzare questo bene (età).
Questo bene alla nascita è massimo, alla morte questo bene si annulla. Noi che cosa possiamo fare?
Secondo Grossman, esistono una serie di attività, chiamate “attività virtuose”, che ogni individuo può
fare per lasciare questo stock il più possibile inalterato. Il fatto che noi non fumiamo o “perdiamo”
del tempo in palestra, sono una sorta di investimenti che noi andiamo a fare, degli investimenti che
vanno a rimpinguare il nostro conto in banca. Quello che faccio è dei tentativi che invece cercano di
contrastare il deprezzamento dato dall’età. In ogni caso un minimo di deprezzamento ci sarò
comunque.

Il termine SALUTE  utilizzato in modo generico e non si riferisce esclusivamente all’acquisto di


cure mediche, ma anche all’investimento del proprio non-working time a tutte quelle attività che,
come l’esercizio fisico, hanno un impatto positivo sulla salute. Grossman analizza la salute al pari di
una semplice variabile economica che nella funzione di produzione della famiglia rappresenta l’utilità
comune dei singoli componenti.

Ovviamente essere in salute mi porta a massimizzare l’efficienza della persona, e quindi anche in
termini di società riesco ad essere più efficiente e più produttivo. Infatti quando andremo a vedere
l’obesità, andremo a vedere che il problema economico di questo tipo di patologie è un problema
legato alle esternalità negative. L’esternalità negativa in termini economici che cosa significa?
Significa che esiste una disutilità che io causo a terzi, senza che io paghi qualcosa per questo.
Quello che a noi interessa non è banalmente “l’obesità causa dei costi”, ma il nostro problema è
l’esternalità negativa. Quindi in altri termini, l’obeso non è lui stesso che paga per questi costi che
causa alla società, ma va gravare sul sistema sanitario nazionale. Questo perché noi siamo in un paese
dove la sanità è pubblica e non privata. L’esternalità negativa in generale è una disutilità, mentre
quando una esternalità è positiva è una utilità (una utilità che causo a terzi); in entrambi i casi io non
ho pagato qualcosa per avere questa disutilità o questa utilità. Quando parliamo di disutilità al sistema
parliamo di esternalità negativa sul sistema. Oltre all’obesità, qualsiasi tipo di malattia grava sul
sistema sanitario nazionale. Il problema, il trade-off su cui gli economisti provano a discutere, è il
caso in cui esistono delle malattie dove esiste un atteggiamento non virtuoso, mentre esistono delle
malattie che ti sono capitate, cioè non sei tu che hai avuto un atteggiamento o un comportamento tale
che ti ha portato a questa patologia.
Cominciamo a parlare di offerta e di impresa: secondo Becker, non è altro che una scatola all’interno
della quale succede qualcosa, o almeno si spera succeda qualcosa. L’input in entrata è quello che può
essere visto come materia prima. Il fatto che succeda qualcosa dentro a questa scatola è anche il
motivo per cui io quella cosa vado a pagarla di più. Quindi quel delta corrisponde alla creazione di
valore che c’è stata.
C’è un problema di base perché noi consideriamo un solo passaggio, però nella realtà dei fatti, la
filiera è qualcosa di molto più frammentata. Quindi non è detto che ci sia un solo passaggio. Questo
che cosa significa sulla creazione di valore? Che la creazione del prezzo non è data soltanto dal fatto
che esiste una creazione di valore all’interno di questa scatola, ma anche dai passaggi che fa.
Immaginiamo di andare a comprare dall’agricoltore e compro un formaggio, anche lì c’è stata una
trasformazione. Ma il formaggio lo vado a comprare anche dal supermercato e in quel caso esiste una
filiera molto più frammentata. Quindi sicuramente io pago oltre alla produzione da latte a formaggio,
anche una serie di step intermedi. Nel caso invece in cui vado dal contadino il prezzo più basso,
perché c’è stato un passaggio in meno.
Quindi noi diciamo, esiste un input, esiste un processo produttivo, esiste una creazione di valore e
quindi un output. Che cosa sono gli input?

FUNZIONE DI PRODUZIONE  abbiamo detto che la domanda è in funzione di una serie di


parametri (il prezzo, il prezzo del bene sostituto, il reddito, le preferenze). In questo caso noi
dobbiamo vedere la funzione di produzione, quindi la quantità che io vado a produrre, quindi “Q”
sarà data da quattro variabili:

Qi = f (K, L, T, t) = funzione di produzione dove K=capitale; L=lavoro; T=terra; t=tecnologia

Qual è il significato di questi singoli fattori?


- Capitale K: esiste una differenza sostanziale tra Capitale circolante e Capitale fisso. Il capitale
circolante è quello che finisce ad ogni ciclo produttivo; Il capitale fisso è quello che rimane nel
tempo. Immaginiamo di avere un’azienda, la farina è il capitale circolante. Stiamo parlando di
funzione di produzione, non stiamo parlando di consumatore, ma della quantità prodotta sempre
dall’azienda. Quindi abbiamo la materia prima come capitale circolante, e poi abbiamo il capitale
fisso. Il capitale fisso vuol dire che dura almeno cinque o dieci anni, e sono quelli che noi definiamo
macchinari. Quindi in altri termini rappresentano una ricchezza dell’azienda. Quando noi
andiamo sui registri per andare a registrare le attività, ovviamente questo viene distinto. È facile
registrare il prezzo del materiale circolante, ma nel caso del macchinario, io non andrò a registrare
il prezzo ma vado a fare una sorta di stima di durata di quel macchinario, quindi si va a calcolare
una sorta di ammortamento. Vado a registrare il prezzo del macchinario, quindi è come se io
andassi a diluire quella spesa, ed immagino che quella spesa sia fatta tutto gli anni. Quindi quello
che vado a fare è una sorta di quota di ammortamento, che è una quantificazione del
deprezzamento di quel macchinario. Ma queste quote di ammortamento chi le decide, è una stima
in base a che cosa? in base alle caratteristiche del prodotto.

- Terreno T: Il terreno è una variabile molto importante soprattutto per le aziende agricole, ma è
una variabile naturale, quindi qualcosa che non si rigenera (è destinato ad esaurirsi) e che non
possiamo quantificare; al massimo si può calcolare l’affitto mensile di questo terreno. I
ragionamenti che faremo saranno sul capitale e sul lavoro.
- Lavoro L: possiamo distinguere quattro forme diverse:
 tempo determinato;
 tempo indeterminato;
 lavoro intellettuale;
 lavoro manuale.

- Tecnologia t: va a permettere la creazione di valore. La tecnologia va ad incidere sulla quantità


prodotta e rappresenta la combinazione di capitale e lavoro. È grazie alla tecnologia che io riesco
a combinare il bene/capitale ed il bene/lavoro, in modo tale da avere un prodotto finale; quindi la
tecnologia è quel fattore che mi permette di creare l’output. Infatti quando noi produciamo un
bene, non è detto che K ed L siano sempre gli stessi. Se voi prendete un’azienda agricola, o
comunque un’azienda artigianale in generale, o una grande multinazionale, a parte le differenze di
quantità prodotta, la combinazione di capitale e lavoro in un caso e la combinazione di capitale e
lavoro nell’altro, è tanto diversa. Perché in un caso noi avremo un’azienda che è focalizzata sul
lavoro manuale, quindi abbiamo tanto lavoro e un capitale basso. Nell’altro caso invece abbiamo
un’azienda dove il lavoro è molto basso, però abbiamo degli impianti ingenti.

Queste variabili o grandezze entreranno nel registro contabile e quindi noi avremo l’obiettivo di
registrare per ogni ciclo produttivo quello che a noi è servito per fare quel prodotto

LEZIONE 7 del 21-03-2017


CURVE DI ISOQUANTO
Abbiamo una curva e immaginiamo di avere un
- Punto A che non è altro che una quantità X di Capitale e una Quantità Y di Lavoro
- punto B ci dà una quantità di capitale X2 e una quantità di Lavoro Y2.
Lungo la curva trovo che qualsiasi punto che ha una stessa quantità prodotta; quello che cambia è
la differente combinazione tra K e L, ad esempio nel punto A abbiamo tanto Capitale e poco Lavoro
e contrariamente in B abbiamo poco Capitale e tanto lavoro (ad esempio potremo affermare che il
punto A è un prodotto Industriale e il punto B un prodotto Artigianale). Il primo passaggio è che la
Curva di Isoquanto ci dice quindi che lungo la curva la Quantità prodotta ma cambia l’Intersezione
tra le grandezze capitale e lavoro.
Cosa vuol dire Tanto Capitale e poco Lavoro? Tanto capitale vuol dire che ho un Impianto che
produce molto in un tempo molto ridotto, quindi sarà un impianto che mi è costato tanto. Poco Lavoro
vuol dire che avendo un Impianto del genere ho bisogno di meno manodopera Stiamo parlando di
Efficienza del Impianto e non di Dimensione. Un’impresa Artigianale avrà invece dei macchinari
meno all’avanguardia, quindi avrà bisogno di più Lavoro di manodopera. Per lavoro si intende la
manodopera, ma anche il numero di addetti, e rappresenta una delle variabili che serve per valutare
la grandezza dell’azienda (al di sotto dei 10 addetti microimprese, 10-50 piccole, 50-250 medie, >
250 grandi)
Arriviamo a dire che abbiamo dei prodotti più Standardizzati (a livello industriale) e dall’altra parte
prodotti più Unici (Artigianali).
Abbiamo concluso la parte sulla Domanda individuale; esiste poi una Domanda Collettiva, che ci
consente di capire il trend della popolazione e dei consumi. Che cos’è la Domanda Collettiva? Non è
altro che la Sommatoria di Domande individuali.

L’OFFERTA
Quello che noi facciamo oggi è la Teoria dell’offerta a livello microeconomico, quindi ci rifacciamo
alla singola Impresa.

Cos’è il profitto? è dato da Costi tot – Ricavi tot, quindi il profitto è quello che nel linguaggio comune
è identificato come guadagno, e non è altro che quello che mi resta una volta che ho tolto il costo per
produrre quel bene da ciò che ottengo dalla vendita del prodotto.
Dobbiamo massimizzare il PROFITTO = RICAVI TOT – COSTI TOT.
I RICAVI TOTALI sono dati da Prezzo per Quantità.
Questo si esemplifica di più quando c’è un prezzo che non viene definito dall’impresa, come nel caso
dell’oligopolio dove l’impresa avrà la facoltà di scegliere il prezzo, mentre in altre forme di mercato
il prezzo è scelto dal mercato.

Paragoniamo due forme di mercato:


Nella CONCORRENZA MONOPOLISTICA ogni
imprenditore è libero di arrivare sul mercato con il prezzo
che vuole, quindi è una forma di mercato in cui il produttore
è PRICE MAKER (il produttore decide il prezzo) sulla
base di una serie di caratteristiche e di variabili.

Nel caso di una LIBERA CONCORRENZA il mercato


decide il prezzo, quindi è PRICE TAKER (il produttore
prende il prezzo). Nel modello di concorrenza perfetta non
vengono considerati: la differenziazione, la
concentrazione, l’innovazione (fenomeno esterno
all’economia), la strategia d’impresa, l’asimmetria
informativa fra produttore e consumatore.
Quando abbiamo detto concorrenza monopolistica intendevamo il settore alimentare, in cui i prodotti
sono differenziati. Il caso della libera concorrenza è quello del settore agricolo in cui i prodotti sono
omogenei e non differenziati. In questo caso diciamo che il contadino non andrà sul mercato con il
prezzo che vuole ma ci saranno una serie di variabili, come un’annata dal punto di vista ambientale e
climatico; c’è qualcosa che decide, è il mercato che decide il prezzo.
Nel caso del prodotto alimentare è la mia azienda che produce e io potrò decidere liberamente il
prezzo. Se vado a fare un grafico DISEGNO CON CURVA in cui il prezzo non esiste ma rappresenta
il coefficiente angolare, e questa è la retta/curva dei ricavi totali: mi dice che all’aumentare della
quantità prodotta dall’azienda aumentano i ricavi totali. Del prezzo non me ne frega niente perché è
una variabile esogena, non endogena all’azienda. Sarà endogena nell’azienda price maker
(monopolistica), dove il prezzo andrà considerato; in questo caso consideriamo la libera concorrenza
dove il prezzo è una variabile esogena ed è determinato dal mercato, quindi è l’incontro tra la
domanda e l’offerta che andrà a definire il prezzo. In questo grafico andiamo a dire che la pendenza
della retta dipende dal prezzo.

All’aumentare delle quantità prodotte aumentano i ricavi della mia azienda. Quello che devo sperare
che non succeda è che il prezzo si abbassi; questo provocherebbe una variazione della pendenza
della retta, infatti a parità di quantità il ricavo è più basso. Il prezzo di vendita è determinato
dall’equilibrio di mercato e quindi in libera concorrenza il ricavo totale è una retta che cresce con
un’inclinazione che è pari al prezzo (il prezzo è il coefficiente angolare della retta).

SECONDO PASSAGGIO: cominciamo a parlare di costi, se noi abbiamo sempre in mente qual è la
formula generale del profitto: PROFITTO = RICAVI TOT- COSTI TOT
Cosa sono i costi totali? Sono costo fisso + costo variabile.

COSTO FISSO
Il costo che non varia al variare del processo produttivo e non varia in funzione della quantità. Se io
ho un impianto, il costo dell’impianto che funziona tutta la giornata c’è, è sempre lo stesso ed è fisso,
sia che produco poco sia che produco tanto. Sono ad esempio i costi dell’affitto (es. produco una
scatola di biscotti o 100 il costo dell’affitto non cambia) o l’ammortamento degli impianti.
COSTO VARIABILE
Sono molto legati alla produzione, quindi se un’impresa è chiusa il sabato e la domenica il costo per
esempio dell’energia elettrica cambia. Se un impianto consuma tanto (7 giorni su 7 ad esempio)
produce anche tanto. Se un impianto funziona solo tre giorni su sette consuma meno ma produce
anche meno.

Perché ci interessa capire queste due grandezze separatamente, cioè ricavi totali e costi totali? Perché
tornando al discorso della massimizzazione del profitto l’azienda può intervenire sull’una o sull’altra
grandezza.
Ora ragioniamo sulla retta dei costi.
Costo fisso: la retta non dipende dalla quantità prodotta.
Costi variabili: sono l’esatto contrario, variano in funzione della
quantità prodotta (es energia elettrica, materia prima …); parte
da zero.
Adesso guardiamo i costi totali che sono la somma tra costi fissi
e costi variabili. Li definiamo come una traslazione verso l’alto
della curva dei costi variabili che deve necessariamente partire
dall’intersezione dei costi fissi con l’asse delle ordinate.
Quello che ho riportato qua è la combinazione delle due (retta dei costi fissi e retta dei costi variabili).
Se noi a questo grafico andiamo a sovrapporre la retta dei ricavi cosa succede? Abbiamo la possibilità
di vedere due cose
1. Ci interessa sapere come i costi totali interferiscono con i ricavi totali. Le due curve dovrebbero
incrociarsi in un punto chiamato PUNTO DI PAREGGIO o BREAK EVEN POINT, il punto
in cui i costi totali e ricavi totali si incontrano e il profitto è pari a zero (tutto ciò che io guadagno
lo spendo). Da quel punto in poi potrò cominciare a guadagnare.
2. Il vero obiettivo però è MASSIMIZZARE IL PROFITTO. Esiste un punto in cui il profitto è
massimo (da quel punto in poi ricomincio a scendere, quindi al di sopra di questo punto non mi
conviene produrre!); la massimizzazione del profitto è il punto in cui la distanza tra ricavi e
costi è massima.

LEZIONE 8 del 22 marzo 2017


L’obiettivo dell’impresa è quello di massimizzare la differenza esistente tra i ricavi totali e i costi
totali per massimizzare il profitto dell’impresa. La massimizzazione del profitto implica da un lato
che dobbiamo massimizzare i ricavi e dall’altra minimizzare i costi. Se noi vogliamo fare un
prodotto di altissima qualità anche i costi saranno alti. Scelto a priori un certo livello qualitativo che
dobbiamo raggiungere, l’obiettivo dell’impresa sarà quello di massimizzare i ricavi e minimizzare i
costi.
Per massimizzare i ricavi esistono 2 soluzioni: massimizzare la quantità, o massimizzare il prezzo, o
agire su tutti e due. Se la mia impresa ha una certa capacità produttiva e oltre a quella non si può
andare, come posso aumentare i ricavi? Posso pensare di agire sui prezzi, però ci sono dei problemi.
A seconda del tipo di prodotto che ho, ci sono delle soluzioni in cui l’imprenditore può essere price
maker o price taker. Se l’imprenditore è price maker può agire sui prezzi, se l’imprenditore è price
taker può agire sulla quantità, cioè non ha la possibilità di agire sul prezzo per aumentare i ricavi.
Le materie prime agricole sono un esempio di prodotti in cui gli imprenditori sono price taker. Sono
dei prodotti indifferenziati, cioè per tutte le imprese i prodotti sono i medesimi, quindi il prezzo viene
deciso a livello mondiale dalle dinamiche di domanda ed offerta globale. Il prezzo è esogeno alle
scelte imprenditoriali.
Viceversa esempi di settori in cui l’imprenditore è price maker? Ce ne sono molti: diamanti,
abbigliamento, tecnologia. In campo alimentare sono price maker le imprese della grande industria,
ma anche gli artigiani. Ad esempio il vino e l’olio di oliva, pensate al range di prezzo dell’olio di
oliva nei supermercati.
Qual è la strategia che sta dietro a queste scelte? Quanti sono invece i consumatori che hanno la
possibilità di spender 50 euro al litro di olio? Sono solo una piccola fetta di consumatori. La quantità
da poter vendere sono molto ridotte. Però bastano poche vendite di quel prodotto per avere un ricavo
assolutamente positivo.

Le grandi imprese si differenziano dalle piccole imprese, oltre che per il numero di lavoratori,
soprattutto per il venduto, quindi la differenza sta nella quantità di prodotti venduti. Questi ricavi
si posso definire anche fatturato. Grossolanamente ricavo e fatturato sono simili. Così come è simile
il termine valore della produzione, cioè il concetto di dare un prezzo alla quantità prodotta.
E allora quale può essere il fatturato di una grande impresa alimentare?
Grandi imprese: centinaia di milioni o miliardi
Piccole imprese: 100 mila euro l’anno

Se io voglio sapere quanto è l’ordine di grandezza dei costi di produzione in una piccola azienda che
fattura 100 mila euro, quanto saranno? Siamo sempre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia
di euro; in aziende che fatturano 1 miliardo di euro saremo nell’ordine di centinaia di migliaia di euro.

Quando noi parliamo di ricavi e di costi parliamo di valori assoluti, ma possiamo anche prendere in
considerazione i valori unitari. I valori unitari sono per esempio il ricavo medio, che non è altro che
il ricavo totale diviso la quantità prodotta, che non è altro che il prezzo. Il ricavo medio è il prezzo
del prodotto.
Poi c’è il ricavo marginale che è la variazione del ricavo alla variazione della quantità. È la derivata
prima della funzione del ricavo (questo solo se siamo in libera concorrenza, cioè dove i produttori
sono price taker e il prezzo è esogeno). Per capire il ricavo marginale bisogna chiedersi per esempio:
ho un ricavo di 100 mila euro (piccola impresa); se introduciamo una certa quantità in più di quanto
aumenta il nostro ricavo? Questo è il discorso del ricavo marginale.
Avremo che ricavo medio e ricavo marginale sono uguali solo nel caso della libera concorrenza.

Cosa possiamo dire dei costi? Allo stesso modo possiamo dire che esistono dei costi medi, che
rappresentano il costo di produzione di una singola unità. Se io ho dei costi totali che rappresentano
tutto il costo dell’impresa, se divido questi costi per la quantità ottengo il costo medio di una singola
unità prodotta. Siccome il costo totale è dato da un costo fisso + un costo variabile io posso fare un
COSTO MEDIO FISSO che sarà uguale al costo fisso diviso la quantità prodotta e un COSTO
MEDIO VARIABILE.
Ma se il costo è variabile, cioè varia con la produzione, come faccio a costruire un costo medio? Lo
faccio sulla produzione che ho ottenuto. Supponiamo, l’azienda a fine anno dice: io il prossimo anno
voglio produrre 100 mila matite, poi a fine anno prossimo si vede quanto ha prodotto e sulla base dei
costi che ho ottenuto divido i costi totali diviso la quantità prodotta e ottengo il costo medio, cioè il
costo unitario per ogni singolo prodotto. Questo costo unitario posso ulteriormente suddividerlo in
costo fisso e costo variabile.

Quindi quanto più produco tanto più il costo fisso unitario si


abbassa. Più ne vendo più ripartisco questi costi fissi su un
maggior numero di prodotti. Il costo fisso come entità assoluta
non varia con l’aumentare dei prodotti venduti, ma il costo fisso
unitario varia con la quantità prodotta.
N.B. costo medio fisso e costo fisso unitario sono la stessa cosa!

Anche il costo variabile medio (o unitario) cambia con la quantità prodotta. Mentre il costo fisso è
una retta orizzontale, cioè una quantità fissa, il costo variabile unitario aumenta all’aumentare della
quantità.

Adesso aggiungiamo il costo marginale  non è altro che la variazione del costo totale nel caso in
cui avessi un aumento unitario della produzione. Siccome produco una unità in più, questo costo
marginale è paragonabile al costo unitario. Cioè siccome è la derivata del costo totale rispetto alla
derivata della quantità, dove questa variazione è di una unità questo diventa il mio costo marginale.
Questo costo marginale deve essere confrontabile con il ricavo marginale: mi conviene produrre di
più se il ricavo marginale è superiore al costo marginale, cioè all’incremento di costo che ottengo per
quell’unità aggiuntiva, perché in questo caso vuol dire che ho un profitto.

Ho un grafico in cui metto i costi unitari, cioè costo medio


totale, costo medio variabile, costo medio fisso e costo
marginale. I costi per unità di prodotto (costo medio totale,
costo medio variabile) variano con la quantità prodotta.
Paradossalmente meno produco, più avrò un certo livello di
costo fisso. Se io produco 1 unità, tutto il costo medio fisso
sarà pari a quest’unità, mentre se ripartisco quel costo fisso
su più prodotti, più aumento la quantità più il mio fisso si
abbassa. Un‘azienda è incentivata a produrre tanto per
ridurre i valori dei costi fissi per unità di prodotto.

Il costo medio variabile come varia invece in funzione della quantità prodotta? Ha un andamento a
linea retta. Mentre il costo medio fisso si riduce all’aumentare della produzione, il costo medio
variabile aumenta.

Il costo medio totale è dato dalla somma dei costi medi fissi più i costi medi variabili. La curva dei
costi medi totali è una curva ad U in cui nella prima fase si abbassa in maniera molto sostanziosa
perché all’aumentare delle quantità prevale la riduzione del costo medio fisso rispetto all’aumento
del costo medio variabile. Dopo un certo livello di minimo aumenta il costo medio totale perché i
costi medi fissi sono bassi, mentre i costi medi variabili aumentano e tendono a spingere in alto la
curva dei costi medi totali. Quindi questo costo medio totale dipende da quanto produco.
A questo punto dobbiamo aggiungere il COSTO MARGINALE (= di quanto aumenta il costo totale
rispetto alla quantità prodotta) che è una retta che taglia la curva dei costi medi totali nei punti di
minimo.

LEZIONE 9 del 28-03-2017


L’altra volta siamo partiti ad esaminare il RICAVO TOTALE e, da questo, abbiamo calcolato due
variabili:
𝑝𝑟𝑒𝑧𝑧𝑜∗𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à
1 - il RICAVO MEDIO: = che quindi non è altro che il PREZZO
𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à
2 - il RICAVO MARGINALE: non è altro che la derivata prima del ricavo totale rispetto alla
quantità, per cui solo se siamo in libera concorrenza ed il prezzo è ESOGENO, cioè è una costante
per l’imprenditore, il ricavo marginale è uguale al prezzo. In altre forme di mercato non è così. È
l’aumento del ricavo dovuto all’aumento di un’unità produttiva. Perché mi serve questo tipo di
ragionamento che faccio al margine? Perché in libera concorrenza è fondamentale determinare la
QUANTITA’ OTTIMALE, ovvero quella variabile che serve per ottimizzare il profitto della nostra
impresa. Bisogna massimizzare il profitto, che è dato dalla differenza tra i ricavi e i costi. Il prezzo in
libera concorrenza è un prezzo ESOGENO, è dato dal mercato, dall’incrocio tra domanda e offerta,
per cui non possiamo agire sul prezzo; la mia variabile di decisione è la quantità. Quello che va ad
incidere sul costo totale è la quantità prodotta, così come sul costo variabile; allora il punto centrale
nella nostra analisi per stabilire il massimo profitto, è quello di determinare qual è la quantità
ottimale, ovvero quella quantità che massimizza la differenza tra ricavi e costi (profitto). Il costo
unitario è dato molto dai valori dei prezzi di mercato, un’impresa non può incidere sul prezzo di
acquisto di una materia prima (ad esempio il frumento), il quale sarà dato dal mercato. Attenzione:
non è che più produco e più è alto il profitto; siccome dopo un certo livello i costi aumentano,
soprattutto i costi variabili, allora devo spingere la produzione finché non arrivo a quel punto dove
ottengo la massima differenza tra ricavi e costi. Ecco perché mi è utile il ragionamento al margine. Il
costo del lavoro viene calcolato annualmente da una contrattazione che viene fatta tra i datori di
lavoro (Confindustria, Confartigianato…) e i sindacati che rappresentano i lavoratori (CGL,…).
Quindi il costo del lavoro, che è uno dei principali costi fissi, è stabilito.

Da qui deduciamo che il ricavo medio = ricavo marginale = prezzo.

Allo stesso modo dei ricavi, possiamo calcolare


𝑐𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑓𝑖𝑠𝑠𝑜
- un COSTO MEDIO FISSO (costo fisso unitario): 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎
𝑐𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒
- un COSTO MEDIO VARIABILE: 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎
𝑐𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒
Dalla somma dei due deriva un COSTO MEDIO TOTALE: 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎

Poi possiamo avere anche un COSTO MARGINALE, che non è altro che la derivata prima del costo
totale rispetto alla quantità.

Quando parliamo di efficienza aziendale ci riferiamo ai costi; il massimo profitto non vuol dire avere
i minimi costi possibili. Questo ragionamento lo facciamo con i ricavi totali e i costi totali. Quando
parliamo di ricavi totali e costi totali parliamo di centinaia di migliaia di euro, milioni di euro, miliardi
di euro…
Diverso è se consideriamo il costo medio e il ricavo medio: in questo caso ci riferiamo al singolo
prodotto, quindi non parliamo di milioni di euro, ma del ricavo del singolo prodotto quindi del suo
prezzo. Il prezzo è il valore, è il metodo per valorizzare, dare un valore economico ai beni.

Il PREZZO è il ricavo medio, e in libera concorrenza è anche il ricavo marginale. Il prezzo rispetto
ai costi ci dà il profitto unitario, cioè il profitto medio nella vendita di quel determinato prodotto.

Nel grafico, per conseguenza di questi due andamenti, avrò che il costo medio totale scende
all’inizio, poi aumenta e diventa “asintotico” rispetto alla retta dei costi medi variabili.

Attenzione: il costo minimo mi dice che con quel tot di pezzi io minimizzo i costi, ma non vuol dire
che massimizzo i ricavi.
Aggiungiamo il costo marginale, che taglia il costo medio nel punto di minimo (si può dimostrare),
cade nel punto di minimo.

Il prezzo lo possiamo raffigurare come una retta parallela


all’asse delle ascisse (orizzontale). Supponiamo che il prezzo
sia uguale a P1; dove il prezzo P1 incrocia il costo marginale
si ha la quantità Q1 che massimizza il profitto. Io devo andare
a trovare quella distanza che esiste fra costi e ricavi, che
massimizza il mio profitto. In questa distanza si può
dimostrare che la tangente alla curva dei costi totali è parallela
alla retta dei ricavi totali. Siccome il coefficiente angolare di
questa tangente mi diventa la derivata prima del costo,
praticamente sto parlando del costo marginale. Allora ho che il coefficiente angolare del prezzo deve
essere uguale al coefficiente angolare della tangente del costo totale, quindi sostanzialmente che il
ricavo marginale è uguale al costo marginale.
Il prezzo mi rappresenta anche il ricavo medio e il ricavo marginale. L’angolo di questa tangente ai
costi totali, che sarebbe la derivata prima, rappresenta il costo marginale.
Quindi costo marginale = ricavo marginale = posizione di massimo profitto.
Siccome il ricavo marginale è il prezzo: Max profitto = ricavo marginale = prezzo
Nel punto di massimo profitto la tangente è parallela alla retta dei ricavi. Quando la tangente è
parallela ai ricavi totali ottengo la quantità Q* che è quella che massimizza il profitto.
Ovviamente nell’oligopolio, dove il prezzo è fissato dall’azienda, le cose cambiano.

Per trovare il punto Q  il prezzo, quindi il ricavo marginale, eguaglia il costo marginale, cioè ha la
stessa angolatura della tangente al costo totale. Quando questi due angoli sono uguali posso
individuare quella quantità che mi permette di raggiungere il massimo profitto.
La derivata del ricavo totale è il prezzo, la derivata del costo totale è il costo marginale.
In altri termini, se questo è il prezzo per qualsiasi quantità, il costo marginale invece cambia a seconda
della quantità. Nel momento in cui io dico il prezzo è uguale al costo marginale individuo in questo
modo una quantità ben precisa.
Supponiamo che il prezzo aumenti per ragioni strane, sappiamo che il prezzo esogeno non è fissato
dall’imprenditore. Gli imprenditori sono contenti quando il prezzo aumenta.
Se abbiamo un’azienda microscopica, in libera concorrenza, e il prezzo aumenta, io produco di più e
questa produzione in più viene completamente assorbita su mercato. Se il prezzo aumenta sono
incentivato a produrre di più!

Proviamo a leggere questo grafico al contrario, cioè supponiamo di avere un prezzo di P3 che scende
a P2, cosa succede? Cerco sempre di mantenere il massimo profitto, però riduco le produzioni, quindi
vado a Q2.

Allora capite che c’è una relazione diretta tra prezzo e quantità. Con la domanda era lo stesso?
NO, perché all’aumento del prezzo la quantità si riduce!
Cosa mi ricorda questa retta dei costi marginali? Non è altro che la curva dell’offerta della singola
azienda.
Ma cosa succede se il prezzo arriva a questo punto, che chiamiamo P0, in cui sostanzialmente
abbiamo che il prezzo è uguale al valore dei costi minimi; sostanzialmente il costo medio è uguale al
prezzo. Cosa vuol dire questo caso? Non ci sono profitti.
Cosa succede se il prezzo scende al livello di P-1? Con P-1 l’imprenditore produrrà poco, ovvero la
quantità Q-1, e con questa quantità il costo è più elevato rispetto al prezzo, quindi avrò un profitto
negativo, cioè una perdita. Qui nascono i problemi perché i ricavi non mi coprono più tutti i costi.
Se permane a lungo un prezzo così basso, l’azienda fallisce.
Con l’avvento delle grandi istituzioni, i prezzi scendono, la gente non va più a fare le spese nei negozi
piccoli, che poi chiudono perché vendono poco e a prezzi molto bassi.
Questo grafico vi ha fatto vedere a livello di costi medi e di prezzi come si comporta l’imprenditore
nella concorrenza. Per massimizzare il profitto abbiamo il ricavo marginale = costo marginale, quindi
sostanzialmente il prezzo = al costo marginale. Questa unione del prezzo col costo marginale mi
permette di ricavare una quantità che mi massimizza il profitto.

MERCATO
Cosa è? Il mercato non è altro che l’incontro tra la domanda e l’offerta, cioè tra il consumo e la
produzione. L’incrocio tra queste due permette lo scambio del bene.
Il mercato è un luogo e un tempo in cui si verifica lo scambio del bene, cioè il passaggio di
proprietà da una persona all’altra.
Quindi nel mercato avviene lo scambio, il consumatore ritiene che quei prezzi siano confacenti alle
sue referenze (a quello che lui pensa). Avviene in uno luogo fisico, o in uno spazio virtuale. Il prezzo
dipende dall’incrocio della domanda e dell’offerta. L’incrocio avviene quando si viene a stabilire un
prezzo che va bene sia all’offerente che all’acquirente. Se i due non si mettono d’accordo non c’è lo
scambio; questo prezzo infatti viene anche detto prezzo di equilibrio o di mercato.
Il mercato non ha solo questa funzione di scambio. Secondo la teoria neoclassica il mercato ha una
funzione molto più importante, cioè ha il ruolo di ALLOCARE le risorse. In base alle preferenze ci
sono aziende che falliscono e aziende che riescono stare sul mercato.
Esempio  mercato del lavoro: i laureati nelle materie umanistiche spesso trovano difficoltà nel
trovare lavoro, ecco perché molti corsi di laurea si svuotano. Anche qui il mercato rialloca le risorse.
Per l’economia neoclassica il mercato è la forma di coordinamento del sistema economico e non ci
sono fallimenti del mercato se non in casi rarissimi, gli agenti hanno tutti un comportamento ideale e
l’impresa è una scatola nera in cui vengono trasformate materie prime, capitali e lavoro in prodotti
finiti. In un altro approccio economico, quello istituzionale, si afferma che nel mercato non funziona
tutto bene, e a volte siamo in presenza di fallimento di mercato.

Il mercato lo possiamo dividere in 4 principali forme:


- La libera concorrenza o concorrenza perfetta
- Il monopolio
- L’oligopolio
- La concorrenza monopolistica

La libera concorrenza o concorrenza perfetta è quella a cui noi abbiamo sempre fatto riferimento.
Il monopolio è quella forma in cui a livello di produzione vi è un’unica sola impresa. L’oligopolio
vuol dire poche imprese di grandi dimensioni. La concorrenza monopolistica vuol dire tante imprese
ma che fanno differenziazione del prodotto e possono agire sui prezzi; è il caso dell’industria
alimentare della distribuzione e della ristorazione (mentre la libera concorrenza è quella tipica
dell’agricoltura). L’oligopolio e la concorrenza monopolistica insieme formano la concorrenza
imperfetta.

LIBERA CONCORRENZA
Che tipo di prodotto? OMOGENEO, non è differenziato; quindi non posso dire che il mais fatto da
un certo produttore è diverso da quello fatto da un altro produttore. Ci sono magari categorie
merceologiche, però non possono distinguere quello fatto da un produttore e quello fatto da un altro.
Quindi nella libera concorrenza non c’è differenziazione. Ci sono tantissime imprese, tutte
piccolissime. Può un’impresa avere una quota di mercato? no! Se anche aumenta il prodotto,
l’impresa è talmente piccola che non influenza complessivamente il mercato. Se anche sparisce una
sola impresa non succede niente. La libera concorrenza non ha influenza sul prezzo, perché nella
libera concorrenza i produttori sono “prace taker”; chi fissa il prezzo sono una serie di caratteristiche
esterne al produttore che vanno a determinare il prezzo, come la domanda di determinati paesi, le
condizioni climatiche favorevoli o avverse… La pubblicità non ha senso, questa assume un ruolo nel
momento in cui c’è una differenziazione del prodotto perché serve per comunicare al consumatore
che il mio prodotto ha una caratteristica diversa rispetto agli altri per cui vale la pena pagare. La
variabile di decisione è la quantità. La conoscenza di mercato si ritiene sia perfetta.
In questo modello non vengono considerate una serie di cose come:
- la differenziazione, perché non c’è;
- la concentrazione (perché le imprese sono piccolissime)
- l’innovazione (si considera un fenomeno esterno in economia),
- non ci possono essere delle strategie di imprese
- se c’è asimmetria informativa fra produttore e consumatore.

LEZIONE 10 del 29/03/2017


MONOPOLIO
Opposto alla libera concorrenza c’è il monopolio; non abbiamo più tantissime imprese, ma un’unica
grande impresa che andrà a produrre un bene e non ha nessun incentivo a differenziare il prodotto
perché ne è l’unico produttore, quindi può agire come vuole su quel prodotto. Tanto è vero che spesso
il monopolio non è una forma di mercato ottimale, infatti il monopolio non è molto spesso
un’allocazione efficiente delle risorse, perché una forma
di mercato che va molto bene al produttore e potrebbe
subire un comportamento opportunistico; per questo
esistono leggi anti-trust. Potrebbe anche semplicemente
non indicare un’informazione in etichetta o omettere una
caratteristica del prodotto. Inoltre è all’opposto della
libera concorrenza perché’ il produttore nel monopolio è
PRICE MAKER, decide se imporre un prezzo alto o
basso, se produrre poco o tanto.
E’ un’unica grande impresa senza concorrenti e per questo anche in questo caso la pubblicità ha un
ruolo praticamente nullo o limitato. Esistono dei monopoli legali, come poteva essere Trenitalia prima
di Italo o Alitalia prima di una qualsiasi compagnia lowcost.

OLIGOPOLIO
L’oligopolio è una forma interessante perché è
caratterizzata da POCHE E GRANDI imprese
(o di medie dimensioni). Ci sono diversi esempi di
mercati con oligopolio, come il mercato delle
benzine e delle automobili (nonostante le benzine
siano un prodotto omogeneo, mentre le macchine
sono un prodotto altamente differenziato). Quindi
all’interno dell’oligopolio possiamo avere sia
prodotti differenziati che prodotti omogenei. In
entrambi i casi abbiamo poche aziende e possiamo
parlare di MARKET SHARE o QUOTE DI
MERCATO. La quota di mercato è la quota della
singola impresa rispetto al totale delle imprese, ovviamente facendo riferimento ad un particolare
settore e ad una particolare area geografica. Sarebbe la quantità venduta dalla singola impresa rispetto
alle quantità totali in %, andando a prendere il valore del fatturato. Quindi questa misura che viene
espressa in termini di fatturato mi va a dire qual è la forza della mia impresa rispetto a quel settore in
quel particolare territorio. Solo in questo caso ha senso parlare di quota di mercato, perché in libera
concorrenza queste fette sarebbero piccolissime perché ci sono tantissime imprese e non sarebbe una
misurazione efficiente, e allo stesso modo nel monopolio in cui l’impresa è una, la sua quota di
mercato sarebbe del 100%. Nell’oligopolio cominciamo a parlare di quote di mercato perché
incominciamo ad avere un numero di imprese che sono abbastanza grandi per poter dire qual è il peso
di una singola impresa sul mercato. Quando si parla di oligopolio si parla anche di strategia basata
sul prezzo o strategia basata sulla qualità, perché abbiamo sia prodotti omogenei che differenziati,
quindi posso trovare una strategia PRICE COMPETITION o NON PRICE COMPETITION.
Questo vuol dire che nel momento in cui avrò una price competition avrò come strategia quella di
avere il prezzo più basso di tutto il mercato, nell’altro caso invece la strategia è opposta: produco
meno ma ad un prezzo più alto.
Un’altra caratteristica dell’oligopolio è quella di avere produttori PRICE TAKER e di avere un
IMPORTANTE RUOLO DELLA PUBBLICITA’.
Inoltre esiste la possibilità di avere degli OLIGOPOLI COLLUSIVI che vengono combattuti dalle
leggi anti-trust. Avendo un prodotto omogeneo infatti può succedete che produttori dello stesso
prodotto si mettono d’accordo e fissano un cartello. Al di sotto e al di sopra non si può andare, e
vendono il prodotto tutti allo stesso prezzo. Succede che non possono mai perdere perché si
garantiscono un tetto al di sotto del quale non si può andare, non ci sono fenomeni di competizione
tra i produttori e non c’è trasparenza nei confronti del consumatore. In altri termini, se voi andate in
un mercato dove non esiste competizione tra aziende/produttori, non c’è trasparenza verso il
consumatore perché non c’è differenziazione, e quindi voi non avete la possibilità di scegliere
liberamente in base alle vostre preferenze. Praticamente diventa monopolio. Questa cosa succede non
in tutti i settori e non per tutti i prodotti, ma quello delle benzine è un esempio lampante. In questi
casi interviene l’anti-trust con delle politiche che vanno sempre a protezione del consumatore.

CONCORRENZA MONOPOLISTICA

La concorrenza monopolistica è la forma di


mercato in assoluto più interessante nel nostro
caso perché è quella che caratterizza
l’industria alimentare. Questo nome riprende
un po’ la concorrenza e un po’ il monopolio.
Concorrenza perché nell’industria alimentare
c’è un elevato numero di imprese,
monopolistica perché abbiamo detto che nel
monopolio c’è un’unica grande impresa,
quindi un prodotto che è praticamente unico
nel suo genere. Quindi unendo i 2 termini
riusciamo a descrivere l’industria alimentare,
perché è caratterizzata da un elevato numero
di imprese, ognuna delle quali offre un
prodotto che è unico nel suo genere.
Quindi quando andate al supermercato trovate un gran numero di referenze e ogni prodotto avrà una
sua caratteristica intrinseca o estrinseca, per la quale sarete disposti a pagare un determinato prezzo.
Quando si parla di concorrenza monopolistica, il prezzo e la pubblicità sono due variabili
fondamentali.

STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE
Parliamo di differenziazione del mercato. L’esempio del biologico altro non è che una strategia di
differenziazione del prodotto: cioè facendo attenzione a determinate pratiche di coltivazione, posso
arrivare sul mercato con un prodotto che costa anche il doppio del prodotto tradizionale.
Nel momento in cui invece decido di fare un prodotto ricco di vitamina D è sicuramente una strategia
non price competition, ma in più mi sto riferendo anche a un certo target di consumatori, per esempio
a chi ha problemi alle ossa (studio un segmento della popolazione).
La presenza di un claim spesso induce all’acquisto di quel prodotto perché diventa una sorta di
garanzia di qualità. Quindi quando parliamo di strategie, possiamo parlare di strategie più generali
(basate sul prezzo o sulla qualità), oppure di strategie DI FOCALIZZAZIONE, cioè significa che
prendo un segmento di consumatori, lo studio e faccio un prodotto che vada il più possibile incontro
alle preferenze di quel segmento.
Quando parlo di strategie di differenziazione posso agire o su una caratteristica intrinseca del prodotto
o a livello di una certificazione, per esempio faccio di tutto per ottenere la certificazione ecolabel.
Quando parlo di caratteristiche intrinseche vuol dire che cerco di arricchire il prodotto, dall’altra parte
invece ci potrebbe essere una strategia incentrata sul packaging, quindi è basata su una caratteristica
estrinseca. In alcuni casi caratteristiche intrinseche ed estrinseche devono andare di pari passo, per
esempio non posso trovare una bottiglia di amarone nel cartone. Ci dev’essere anche un minimo di
congruenza tra quello che è una caratteristica intrinseca ed estrinseca.
Un’altra possibilità che io ho nel modo di presentazione del prodotto è quella del MARCHIO. Il
marchio è come il prodotto si presenta, con che nome arriva al consumatore.

Il marchio può essere di due tipi:


- MARCHIO INDIVIDUALE, cioè del prodotto
- MARCHIO COLLETTIVO, cioè la certificazione come per DOP

Il marchio individuale può essere sia


- INDUSTRIALE per esempio Barilla
- COMMERCIALE come Esselunga
La certificazione, quindi il marchio collettivo, vale molto di più del nome del prodotto. Nel caso del
marchio individuale abbiamo per esempio Barilla, poi i marchi della distribuzione (private label),
che sono tutti i prodotti che acquistiamo con il nome della distribuzione, cioè quei prodotti che non
hanno un’identità propria, ma data dalla distribuzione.
Nel caso di marchio collettivo invece esiste un nome proprio ma è legato a quello della certificazione
(DOP, DOC o IGP). Il marchio rientra nelle caratteristiche estrinseche.

Poi abbiamo la pubblicità che è un servizio sia per l’azienda, sia in misura minore per il consumatore.
Esistono anche comunicazioni differenti (come il volantino, la comunicazione presso il punto vendita
ecc..), ma la pubblicità è il mezzo comunicativo più efficiente. Esistono anche vari prezzi della
pubblicità in funzione della fascia oraria e della vicinanza o lontananza dai telegiornali. Ovviamente
la pubblicità che va in onda alle 20 un secondo prima del telegiornale è quella che costa di più.
Quindi attraverso la pubblicità arriviamo a capire che cosa sta succedendo sul mercato. Tutto questo
ha l’obiettivo di fidelizzare il consumatore, il che significa che non soltanto devo convincerlo a
provare il prodotto, ma che deve entrare nei suoi acquisti abitudinari.
Ci sono casi in cui la private label riesce a fidelizzare di più rispetto al marchio, e questo perché nel
caso del marchio la fidelizzazione va su pochi prodotti, mentre nel caso di una “fregatura” da parte
della private label, non mettete in discussione solo il prodotto, ma tutta la distribuzione. Se voi volete
produrre con il marchio della grande distribuzione ci sono degli standard di produzione elevatissimi,
per il semplice motivo che è la grande distribuzione che ci mette la faccia e non voi che siete in quel
caso il produttore. Per esempio con la tracciabilità volontaria si può arrivare a conoscere il preciso
appezzamento di terreno utilizzato, e per i produttori che vogliono produrre per la DGO la tracciabilità
volontaria diventa obbligatoria.

Ultima caratteristica che descrive un prodotto, dal punto di vista intrinseco ed estrinseco è il
PREZZO. Il prezzo è fatto sicuramente sulla base dei costi e in funzione delle caratteristiche del mio
prodotto. Altra cosa che dobbiamo capire è che non si può andare al di sotto di un certo prezzo, vuoi
per non impattare negativamente sulla qualità, altrimenti creo una svalutazione in termini qualitativi
del mio prodotto, e dall’altro lato perché comunque non ci posso perdere. Quindi è una sommatoria
di un prezzo base stabilito e un mix ottimale di costi di produzione e qualità del prodotto.
Quindi per decidere il prezzo avrò:
- costo di produzione;
- valutazione della qualità del mio prodotto;
- prezzi dei prodotti concorrenti;
- disponibilità a pagare del consumatore.
Ovviamente un’oscillazione del prezzo delle materie prime necessarie per fare quel prodotto può
andare ad incidere sul prezzo finale. È la cosa che avviene ogni volta che varia il prezzo della benzina,
che dipende dai trasporti.

CICLO DI VITA DEL PRODOTTO


Possiamo descrivere il ciclo di vita del prodotto
con questo grafico che è caratterizzato da 4
segmenti (o epoche) che hanno una durata
variabile (ci sono dei prodotti che l’ultima fase non
l’hanno ancora conosciuta, e altri prodotti che sono
passati direttamente dalla fase B alla fase C).
Le caratteristiche di queste fasi sono:
1. INTRODUZIONE: le vendite sono
praticamente nulle. Devo cercare di far
conoscere il mio prodotto e quindi in questa
fase è fondamentale la pubblicità. È una fase in
cui i costi sono altissimi.
2. ESPANSIONE: È la fase più importante perché acquisto consumatori. Investo tanto perché devo
fidelizzare il consumatore.
3. STABILIZZAZIONE: non ho acquistato nessuna preferenza di nessun altro consumatore. Sono
stabile. L’investimento in questa fase ha lo scopo di mantenere inalterato il mio pubblico.
4. DECLINO: in questa fase comincio a perdere consumatori, o per i prodotti concorrenti che
diventano più competitivi del mio, o perché è un prodotto che non si innova (ma ad esempio la
nutella rimane sempre uguale ma adotta sempre strategie di marketing soprattutto sulla confezione
per innovare il prodotto; esempio di strategia di marketing: Self refering: è una teoria secondo la
quale l’associazione del prodotto a sé è apprezzata di più rispetto a qualcosa che tu non percepisci
come tuo; questa teoria è quella che è alla base della strategia della coca cola quando ha cominciato
a mettere sulla coca cola i nomi). Il processo di rivitalizzazione del prodotto vuol dire che se un
prodotto è in crisi, per esempio i panini, calano i consumi, quindi per es si decide di fare le
monoporzioni di 80g invece che i sacchetti da 200g perché’ le raccomandazioni sono di 80g di
pane. Questa è una strategia che può in qualche modo riavvicinare il prodotto al consumatore.
Quando parliamo di innovazione questa può essere:
- RADICALE
- INCREMENTALE.
Per esempio il caso dell’insalata di quarta gamma non è radicale perché il prodotto era già sul
mercato, ma è stato introdotta la convenience, dunque è un’innovazione incrementale. Un esempio
di innovazione radicale sono per esempio i probiotici, che sono comparsi sul mercato solo
successivamente.
LEZIONE 11 del 04/04/17
L’ ultima lezione è stata il “ciclo di vita del prodotto”, dove abbiamo detto che è molto importante
per un’azienda puntare sulla differenziazione del prodotto, in particolare per le industrie alimentari.
Nei confronti dei prodotti alimentari c’è una sorta di scetticismo da parte del consumatore quando si
parla di INNOVAZIONE. In effetti il livello di innovazione in campo alimentare è molto basso
rispetto ad altri prodotti. Se noi pensiamo all’industria alimentare il livello di innovazione è di circa
il 2% andando a considerare il numero di brevetti rispetto ad altri settori, che possono essere quello
farmaceutico, chimico. Quindi se chi DOMANDA (che governa il mercato) non è disposto ad
accettare un prodotto innovato, di conseguenza il settore avrà un’OFFERTA DI PRODOTTI POCO
INNOVATIVI, perché non c’è la capacità di assorbire
quella offerta.
Questa curva non possiamo sapere quanto durerà. Anche
la larghezza dei vari segmenti della curva cambiano: il
numero di vendite è in funzione del tempo.
Nella fase di stabilizzazione c’è una buona percentuale di
persone che acquistano il prodotto, ma non c’è una fase di
espansione, quindi non acquisto ne perdo fette di mercato.
Nella fase di declino (D), il mio prodotto non viene più
venduto e c’è bisogno di una rivitalizzazione del prodotto
(innovazione).

FALLIMENTO DEL MERCATO


Nel momento in cui non c’è un incontro tra domanda e offerta, si dice che il mercato non è in grado
di assolvere la propria funzione. Ogni volta che c’è incontro tra domanda e offerta, vuol dire che c’è
scambio. Lo scambio è detto TRANSAZIONE (e non TRANSIZIONE).
Se esiste un problema nel mercato vuol dire che può esserci un’ASIMMETRIA, che è il primo motivo
di fallimento del mercato.
Esiste un intervento pubblico quando c’è fallimento del mercato, cioè una parte terza esterna che
interviene per ristabilire l’efficienza (OBIETTIVO): riportare il mercato come forma di
GOVERNANCE. Cosa sono le forme di governance? il mercato non è sempre l’unica forma di
governance. Le altre forme di governance diverse dal mercato sono necessarie quando esistono dei
costi di transazione che sono troppo elevati. Williamson, il primo a studiare i costi di transazione, ha
detto che un’alternativa potrebbe essere trovare delle forme alternative al mercato, ad esempio i
contratti, l’integrazione verticale (filiera corta). Nella filiera corta si ha un individuo che gioca il ruolo
di produttore, trasformatore e distributore. Dato che vengono meno tutti i passaggi di una filiera
classica, non ci saranno i costi di transazione relativi.

Quando fallisce il mercato? Ad esempio quando c’è Asimmetria informativa, ovvero quando il
consumatore non è a conoscenza di determinate caratteristiche del prodotto. Questo vale per prodotti
alimentare ma anche per altri settori. Il problema dell’asimmetria informativa è il fatto che non riesco
a conferire un prezzo al prodotto. Un esempio dell’asimmetria informativa è rappresentato dalle
certificazioni sui prodotti biologici o anche da certificazione che riguardano per esempio il benessere
degli animali o l’ambiente, che di fatto non possono essere realmente apprezzate dal consumatore; in
questi casi un intervento pubblico ha il ruolo di rassicurare il consumatore e portare ad un livello di
informazione più simmetrica.
Si verifica anche un comportamento opportunistico nei confronti del consumatore, perché paga un
prezzo di un prodotto che non si può verificare. Anche qui l’intervento pubblico ha il ruolo di portare
informazioni al consumatore, come ad esempio le norme che regolano l’etichettatura dei prodotti.
L’intervento pubblico utilizza dei mezzi per tutelare il consumatore.

Il secondo motivo per cui parliamo del fallimento del mercato è l’esternalità, cioè quando non c’è
presenza di mercato quindi è necessario regolamentarlo. L’esternalità sono utilità o disutilità a spese
di qualcun altro. Un’esternalità positiva è un’utilità che viene causata a terzi senza che questi abbiano
pagato qualcosa, per esempio il valore di un immobile adiacente ad uno spazio verde abbandonato
che viene rivalorizzato dopo l’acquisto dell’immobile; questo farà aumentare il valore dell’immobile
senza aver pagato per questa utilità. Non c’è mercato perché non c’è nessuno che paga per questo
servizio, non c’è scambio. L’esternalità negativa è una disutilità. Per esempio l’obesità ha un certo
costo che incide sulla sanità pubblica di tutti e non solo di chi ha causato il danno.
In tutti e due i casi non si riesce a quantificare (non si riesce a dire in termini economici quanto
bisogna pagare, si tratta di qualcosa di etico sia nel primo caso che nel secondo).

I beni pubblici devono sottostare a due principi:


1. Il principio di non esclusione, vuol dire “o è mio o è tuo”.
2. Assenza di rivalità nel consumo; es cattedrale di Milano. Significa dire che chiunque può
usufruire del bene contemporaneamente ad altri, chiunque può godere del bene, anche chi non ha
contribuito.
Un esempio classico di bene pubblico è la sicurezza alimentare; tutti hanno diritto di usufruirne e non
esiste un prezzo da pagare (la sicurezza alimentare è qualcosa di oggettivo). Quindi anche qui non
c’è mercato perché non c’è scambio. Anche chi ha un reddito più basso può usufruire del bene
pubblico come il servizio sanitario. Anche in questi casi vi è un intervento pubblico che consiste nello
stabilire standard, haccp ecc.

L’ultimo esempio di fallimento del mercato è il monopolio, che è una forma di governance non
ottimale perché potrebbe avere dei comportamenti opportunistici nei confronti del consumatore.

L’ultima parte del fallimento del mercato riguarda i costi di transazione. I costi di transazione sono
quei costi che si generano tutte quelle volte che vi è uno scambio nelle diverse parti della filiera e
l’obiettivo di questa teoria è di trovare delle forme di governance che possono in qualche modo ridurre
questi costi.

LEZIONE 12 del 5-4-17


L’ECONOMIA è la scienza che studia il comportamento delle persone in condizioni di scarsità. Il
mercato svolge l’attività di allocazione delle risorse e permette anche il coordinamento del sistema
economico.
Es. Consideriamo un’impresa che fallisce ed esce dal mercato. Le persone che lavorano nell’impresa
devono trovare lavoro in un’altra impresa. Ci sarà quindi una ridistribuzione delle risorse in altre
imprese (RIALLOCAZIONE DELLE RISORSE). Tutte le risorse utilizzate per la produzione, la
manodopera, le macchine ecc.. verranno riallocate per altro.
Il mercato trasmette alle imprese le preferenze dei consumatori. Funziona con meccanismo di
coordinamento economico tra domanda e offerta per distribuire in maniera ottimale le risorse (lavoro,
attrezzatore, terra, ecc..). Questo vale per il mercato di libera concorrenza, non vale per il monopolio.
Ci sono delle politiche di intervento che servono per evitare la formazione dei monopoli,
l’ANTITRUST. In Europa chi se ne occupa è la Direzione Generale Concorrenza.

Se il mercato non è un buon mezzo di coordinamento del sistema economico, ci vuole un intervento
pubblico (politico), che vada a ridurre l’andamento negativo del mercato. C’è bisogno di una
REGOLAMENTAZIONE del sistema per ristabilire l’efficienza, bisogna quindi dettare delle regole
rispettate dalle imprese e dai consumatori.

Ci sono anche casi in cui il mercato non c’è proprio, è il caso dei BENI PUBBLICI. Ad esempio i
parchi pubblici, la sanità, le opere d’arte; non c’è domanda che si concretizza con un prezzo.

Il livello di trasparenza dell’informazione è importante in un mercato che funziona, perché il


consumatore non deve preoccuparsi se il produttore dice il vero riguardo il prezzo del prodotto; questo
si ripercuote sulla distribuzione delle risorse e sull’efficienza del mercato. La regolamentazione ha
senso solo quando c’è fallimento del mercato.

COSTI DI TRANSAZIONE
Sviluppati come teoria da Oliver Williamson, economista statunitense, premio nobel.
Si parla di costi di scambio tra compratore e produttore. Si ha ogni volta che c’è uno scambio.
Lui dice che la teoria neoclassica, nel realizzare il mercato, ha considerato solo i costi di produzione
(costi fissi, variabili, materie prime, lavoro, trasporti, servizi…), ma ci sono altri costi legati alla
specifica transazione, all’uso del mercato.

Es. consideriamo l’acquisto di una automobile e di un pacchetto di pasta. Gli elementi che li
distinguono sono: la frequenza di acquisto, il prezzo, e la necessità (la pasta è bene primario).
La prima cosa che faccio per comprare una macchina è informarsi  dedico del tempo per scegliere,
per fare una transazione. Il tempo è prezioso e viene sottratto al lavoro o alla famiglia. Quindi il tempo
che si dedica per una transazione è un costo.

Williamson dice che i costi di transazione si dividono in 3 grandi categorie:


1. Costo di INFORMAZIONE
2. Costo di NEGOZIAZIONE
3. Costo di MONITORAGGIO

Es. due imprese, una di distribuzione (D) e una industriale (I). D vuole fare una Private Label del
cioccolato, deve trovare una I per farlo. In questo caso D non andrà dal primo I che capita, ma farà
un’accurata selezione. Poi ci sarà una fase di negoziazione per la produzione di cioccolato, verranno
stabiliti dei disciplinari del processo produttivo. Ci saranno poi negoziazioni per il prezzo e poi ci
saranno delle fasi di monitoraggio della produzione da parte di D.
P.s. per una PRIVATE LABEL i costi di negoziazione sono molto più elevati.
Williamson dice anche che i costi di negoziazione dipendono dalle caratteristiche della transazione;
se l’acquisto avviene con alta frequenza i costi sono bassi (pasta); se la frequenza è bassa, i costi sono
alti (automobili).

Molto importante è il GRADO DI INCERTEZZA, cioè quando non conosco bene né il prodotto,
né chi me lo vende. In questo caso i costi sono più elevati, perché devo informarmi di più, trovare
sistemi per ridurre il rischio.

Specificity - Specificità degli investimenti


Es. Industriale I accetta di fare il prodotto per D, ma D richiede l’adeguamento di alcuni parametri
legati alla produzione del prodotto richiesto, una serie di costi che gravano su I. Sono investimenti
specifici, che I deve mettere in atto per vendere il prodotto a D. Si viene a creare una dipendenza
(bilateral dependency) tra i due soggetti che si scambiano i beni.

P.s. anche gli investimenti specifici aumentano i costi di transazione. Se i costi di transazione sono
bassi, la soluzione migliore è il mercato, se invece sono alti la soluzione migliore è fare una
INTEGRAZIONE VERTICALE.
Es. produzione del vino, ci sono due fasi: fase di produzione agricola (A) e una fase di produzione
del vino (P)  La soluzione migliore per limitare i costi di transazione è avere un’unica impresa che
faccia sia la fase A che P.

- Se la specificità è alta, i costi di transazione sono alti


- Se la frequenza è alta i costi sono bassi
- Se i costi sono alti è meglio l’integrazione verticale.

Quando devo fare un intervento pubblico? Ci sono due concetti da considerare: EFFICIENZA ed
EQUITA’: l’equità è la ridistribuzione della ricchezza tra tutti; le tasse si basano su questo principio,
chi è più ricco paga più tasse.

Pareto, economista svizzero, studiò quando è meglio fare un intervento pubblico considerando
l’efficienza. Ha studiato il benessere sociale. Dice che la società raggiunge il massimo benessere
sociale quando raggiunge la massima efficienza. Ci sono le 3 condizioni paretiane:
1. massima efficienza alla produzione  ottima locazione delle risorse;
2. massima efficienza nello scambio di beni tra individui  simmetria informativa, ridurre al minimo
i comportamenti opportunistici;
3. massima efficienza congiunta tra la produzione e lo scambio.

Devono esistere delle manovre correttive politiche per intervenire sui fallimenti del mercato al fine
di raggiungere il benessere sociale.

LEZIONE 13 del 11/4/2017


La regolamentazione ha l’obbiettivo di ridurre il fallimento del mercato e ridare efficienza al sistema
economico quando il mercato non funziona più. La volta scorsa abbiamo detto che, se funziona bene,
il mercato va bene come strumento di coordinamento all’interno del sistema economico; se il mercato
non funziona bene allora bisogna pensare ad un altro tipo di regolamentazione, quindi a un intervento
pubblico che vada a regolamentare.
Quindi: MERCATO  FALLIMENTO DEL MERCATO REGOLAMENTAZIONE

TEORIA DI PARETO: è interessato al discorso dell’EFFICIENZA, che in termini economici vuol


dire allocare le risorse in modo ottimale o più semplicemente che c’è un’elevata produttività, non ci
sono sprechi… questa è l’ottica dell’efficienza. In quest’ottica , l’ipotesi di Pareto afferma che se gli
individui cercano la loro utilità, sono egoisti e cercano di massimizzare il loro benessere.
Secondo punto: ammettiamo una concorrenza, cioè non c’è monopolio; c’è un mercato con delle
risorse e sono diverse da stato a stato, perché c’è uno stato con più lavoro, uno con più risorse, uno
con più terre e quell’altro con più petrolio... Quindi in uno stato c’è una determinata educazione, un
determinato livello tecnologico. Quindi ipotizziamo che c’è un elevato livello di tecnologia, per
ipotesi non c’è esternalità e poi ci sono determinate distribuzioni all’indirizzo, cioè Pareto dice che
in una società ci sono diversi livelli economici, ci sono persone con reddito più elevato e persone con
reddito più basso. Allora con queste premesse (la concorrenza, la quantità di risorse, una determinata
distribuzione della ricchezza), l’obbiettivo è quello di MASSIMIZZARE IL BENESSERE
SOCIALE. Pareto dice: quando la società, rappresentata da individui, raggiunge il massimo
benessere sociale possibile? Attenzione: Il massimo benessere sociale, non individuale; Pareto dice
“io non lavoro sulle diversità di reddito, però lavoro sull’efficienza, cioè lavoro per rendere questa
società più efficiente possibile in modo che gli individui che appartengono a questa società
raggiungono il massimo benessere. Dunque secondo voi quando si raggiunge questo massimo
benessere? Quando abbiamo una buona condizione, ovvero abbiamo un buon utilizzo delle risorse.
Quindi raggiungiamo il massimo benessere di questa condizione quando c’è un BUON UTILIZZO
DELLE RISORSE. Si raggiunge il massimo benessere se la sommatoria di tutte le utilità raggiunge
il punto massimo. Pareto afferma che la società raggiunge il massimo benessere:
1. Quando si ha il massimo utilizzo e la massima allocazione delle risorse dalle diverse attività
produttive.
2. Massima efficienza dello scambio di beni tra individui; ipotizziamo che ognuno, sulla base delle
sue preferenze, possa comprare più prodotti, ammessi dal proprio reddito. Quindi acquisto dei beni
e questo acquisto raggiunge la mia massima utilità. Però attenzione: la massima utilità di tutti gli
individui nel contesto della società.

Quindi se le risorse sono utilizzate nel modo migliore possibile e se gli individui si scambiano i
beni complessivamente in modo tale che ognuno massimizza la propria utilità, quindi fanno delle
scelte che manifestano le loro preferenze, allora si ha il massimo benessere.

Tutta l’analisi che abbiamo fatto sulla domanda si basa sulla teoria dell’utilità che non abbiamo
potuto fare, e che afferma che l’individuo cerca di massimizzare la propria utilità, il proprio grado
di soddisfazione.
Pareto dice, guardando alla società, che la secondo condizione (ovvero la massima efficienza dello
scambio di beni tra individui) porta complessivamente la società a raggiungere un’utilità sociale
che è la massima possibile, in cui tutti gli individui hanno massimizzato la propria utilità. Pareto
ipotizza che ognuno ha la sua utilità e la società permette a tutti gli individui di raggiungere la
massima utilità possibile complessivamente, quindi la società raggiungerà il suo benessere, stante
il fatto che ognuno ha un certo reddito.
In altri termini bisognerebbe pensare che non esistono asimmetrie informative, che non esistano
fregature, ecc. Quindi se io vado al supermercato sono sicuro che quel prodotto ha le caratteristiche
che mi aspetto. Quindi tutto questo serve per massimizzare la mia utilità, ovvero spendo dei soldi
per comprare dei prodotti che conosco e che sono quelli che io preferisco.
3. Massima efficienza congiunta, che è la condizione dello scambio. Quindi ci vuole da un lato (dal
punto di vista della produzione) che tutte le risorse siano usate nel modo ottimale, e dall’altra parte
(dal punto di vista della domanda) che lo scambio tra individui venga effettuato in modo ottimale,
ovvero che non ci siano comportamenti opportunistici e quindi c’è la massima efficienza dello
scambio.

Allora se ci sono queste tre condizioni si raggiunge il così detto OTTIMO PARIETIANO, cioè la
nostra società raggiunge la frontiera del benessere. Quindi si raggiunge la FRONTIERA DEL
BENESSERE. Pareto dice che, per raggiu ngere questa frontiera del benessere, ci vuole un
MERCATO DI CONCORRENZE.

Lo stato deve intervenire in due situazioni:


1. Quando il mercato porta una inefficienza, quindi c’è comportamento opportunistico, ci sono
delle esternalità.
2. Per la questione di equità: se in una società ci sono persone che sono molto ricche e altre molto
povere, ovviamente si creano forti squilibri che possono portare a delle problematiche sociali.
Allora il ruolo dell’intervento pubblico potrebbe essere anche quello di ridurre gli squilibri
economici e sociali esistenti all’interno della società. In altri termini: ridistribuire la ricchezza.
Un “sistema sanitario” come il nostro, pagato da tutti i contribuenti e non dalla prestazione singola,
può essere visto come un sistema di equità. I poveri devono avere la possibilità di andare a farsi
curare e ricevere le stesse cure che vengono date ai ricchi. Anche “l’imposizione fiscale” è un
principio di equità, ovvero scaglioni di aliquote sempre più elevata per i redditi più elevati (una
persona ricca paga molto di più di tasse rispetto a una persona povera). Quindi le politiche di
efficienza sono quelle rivolte a rendere il sistema economico molto più efficiente: ad utilizzare
meglio le risorse e ad evitare gli sprechi; le politiche ridistributive, invece, sono quelle che
cercano di distribuire meglio la ricchezza, secondo il principio di equità.

Abbiamo detto che Pareto si interessa di EFFICIENZA, allora qual è il ruolo della politica
economica? Il ruolo della politica economica è presente sia nel caso di efficienza che nel caso di
equità, però noi ci concentreremo sull’efficienza, perché ci focalizziamo sull’ambito alimentare.
L’intervento dello stato serve per correggere i fallimenti del mercato; questi interventi si chiamano
INTERVENTI PARETO EFFICIENTI, proprio perché vanno nella direzione di migliorare
l’efficienza del sistema economico e quindi di guardare al benessere complessivo.
Viceversa quando noi parliamo di equità, il problema è la ridistribuzione della ricchezza; gli interventi
sono ridistributivi, ma non è detto che in questo caso siano efficienti. Molto spesso un intervento
ridistributivo non risulta efficiente.
Quando si cambiano le politiche economiche occorre valutare gli effetti di queste politiche. Quando
applico una politica ridistributiva, applico il PRINCIPIO DI COMPENSAZIONE, ossia tolgo a
qualcuno per dare a qualcun altro; in questo caso l’intervento è efficiente, perché ho migliorato
l’equità e non ho modificato l’efficienza, perché non ho modificato il benessere complessivo.
In tutto ciò noi però non abbiamo considerato il politico, cioè colui che prende le decisioni; lo
consideriamo come una sorta di ente esogeno, che in teoria interviene nella società per massimizzare
il benessere di tutti, ma nella pratica non avviene sempre. C’è una scuola di pensiero (Bolchoice) che
ha endogenizzato il comportamento del politico, cioè critica la politica classica e dice che se si guarda
solo in astratto al benessere della società non viene considerato il comportamento dei politici. Se
volete fare un’analisi precisa dovete endogenizzare il comportamento del politico, cioè dovete
considerare anche che i politici intervengono non come deus ex macchina esterni alla società, ma
fanno parte della società e hanno delle funzioni di utilità. Il politico non va a massimizzare, nei suoi
interventi, la società, ma innanzitutto massimizza i suoi elettori, e poi guarderà alle sue lobby, i gruppi
che l’hanno sostenuto. Cosa sono queste lobby? Sono gruppi non tanto ampi di persone con un
obiettivo comune, es. gli industriali del petrolio, gli industriali delle energie alternative. Questi
industriali ovviamente chiedono al politico leggi che vanno a loro favore. Nel sistema americano
queste lobby sono istituzionalizzati.

IL SISTEMA AGROALIMENTARE
Abbiamo studiato la domanda individuale, cioè la domanda di una quantità di un bene dipende dal
prezzo; quando però parliamo di consumi alimentari possiamo intendere il CONSUMO
PROCAPITE. La domanda aggregata dipende dalle singole domande individuali; ci sono elementi
che incidono sulla domanda aggregata che però non incidono sulla domanda individuale: es.
l’incremento demografico: in una società che sta crescendo dal punto di vista demografico, la
domanda aggregata aumenterà. Oggi c’è un altro fenomeno importante, ossia l’immigrazione, lo
stabilirsi di una popolazione, e anche questo fa aumentare la domanda aggregata. (questo però se il
tasso di immigrazione è superiore a quello di emigrazione). Pensiamo alla distribuzione della
ricchezza di una popolazione e ragioniamo sul fatto che all’interno di una popolazione ci siano
persone molto ricche e le altre povere  non avremo la stessa domanda aggregata nelle due
situazioni; quindi anche nel caso della distribuzione della ricchezza c’è un effetto sulla domanda
aggregata. Altro fattore è la distribuzione della popolazione per classi d’età: cambia la domanda
aggregata perché cambiano le tipologie di consumi. Quindi a seconda della distribuzione delle classi
di età la domanda aggregata cambia.
Quando parliamo di domanda aggregata e di domanda di beni alimentari dobbiamo distinguere i
CONSUMI DOMESTICI dai CONSUMI EXTRA DOMESTICI. Che differenza c’è? I consumi
domestici sono i prodotti acquistati per la preparazione di alimenti per il consumo in casa, mentre i
consumi extradomestici sono quelli che vengono fatti presso la ristorazione commerciale (ristoranti,
pizzerie, fast food, bar...) oppure presso la ristorazione collettiva (mense). Attenzione: attraverso
questi due canali c’è una grande differenza nel pagare come anche nel servizio. Nel caso della
ristorazione collettiva la disponibilità a pagare è molto bassa, mentre per la ristorazione commerciale
la vostra disponibilità a pagare è più alta.

I consumi domestici sono cresciuti tantissimo dal dopoguerra; oggi sono stabili dal punto di vista
fisico, ma sono in calo rispetto al totale dei consumi delle famiglie; un tempo i consumi alimentari
incidevano per quasi il 50%, adesso sono intorno al 15%, anche se si spende di più adesso di quanto
si spendeva prima. E come mai allora questo? Perché sono aumentati i consumi non alimentari, per
es. vestiario, vacanze, cinema, sport, etc.
Quando varia il reddito, varia la domanda per i prodotti alimentari? Inizialmente si, ma di poco.
Quindi l’elasticità rispetto al reddito è molto bassa. I consumi alimentari quindi sono consumi molto
stabili.

I consumi extradomestici, in particolare la ristorazione commerciale, sono molto dinamici.


L’elasticità rispetto al reddito aumenta.
Guardiamo il grafico che è quello di spesa di consumi alimentari dal 2000 al 2014: la domanda sale
fino al 2008, dove tende un pochino a scendere, però sostanzialmente sono stabili. Nel grafico che fa
riferimento ai prodotti per l’arredamento, dopo il 2008 avremmo una drastica riduzione. I beni
alimentari si dicono anti-ciclici perché risentono poco della variazione economica complessiva. Se
invece andiamo a vedere i consumi extradomestici notiamo che sono aumentati, anche dopo il 2008
sono aumentati, meno, ma sono comunque aumentati. Quindi in buona sostanza leggera crescita e
stabilizzazione dei beni mangiati in casa e in crescita la domanda dei consumi extradomestici.
Attenzione: questo tipo di analisi è fatta considerando i PREZZI CORRENTI, il che vuol dire
considerando i prezzi di anno in anno. Esiste però una cosa che si chiama INFLAZIONE, ossia un
aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Noi siamo in un periodo di alta o bassa inflazione?
Bassissima, vuol dire che siamo in un periodo sotto 1% di inflazione. Dopo il 2008 c’è stato un
periodo di deflazione, abbassamento del prezzo. Negli anni ’70 l’inflazione era sopra al 10%. Quando
c’è alta inflazione, succede che la moneta perde il potere d’acquisto, ossia se all’inizio dell’anno con
1 euro posso acquistare il caffè, alla fine dell’anno, aumentando l’inflazione (>10%), non posso
acquistare quel caffè perché costerà di più.
Ora, se io vado a leggere lo stesso grafico ma lo considero a PREZZI COSTANTI, cioè tolgo
l’effetto dell’inflazione, ottengo un altro grafico (grafico dal 1970 al 2014). Il concetto fondamentale
è questo; immaginate di avere costanti i prezzi per un anno, ad esempio prendo in considerazione
l’anno 2000, in questo modo elimino l’inflazione e mi rimangono solo le quantità consumate (mentre
nel grafico precedente ho un mix tra quantità e prezzo). Guardando il grafico facciamo qualche
osservazione: dagli anni ’70 in poi, guardando i consumi domestici, possiamo notare come, pur
avendo un’inflazione alta, le quantità acquistate sono aumentante passando 75% a più di 85-90 %.
Poi c’è una fortissima crescita dovuta al boom economico. Negli anni ‘80 crescita più leggera, negli
anni ‘90 un po’ più altalenante ma sempre in crescita, e dopo il 2008, in cui i consumi si contraggono
in termini reali (cioè togliendo l’inflazione), mentre in termini nominali, considerando l’inflazione,
rimangono costanti. Quelli che sono cresciuti in termini reali sono i costi extradomestici (enorme
crescita).
La cosa interessante è che nel 1970 il totale dei consumi alimentari rappresentavano il 42%, quindi
per ogni famiglia il 42% del reddito era speso per l’alimentazione. Poi dopo che cos’è successo? la
percentuale di spesa per l’alimentazione sul totale dei consumi è scesa, e attualmente è al di sotto del
22%. Come mai si sono ridotti in termini percentuali? Perché sono aumentati tutti i consumi no food.

LEZIONE 14 del 12-04-2017


La differenza tra i due grafici della volta scorsa è che in un grafico ho i valori correnti, mentre
nell’altro valori concatenati; ovvero nel primo grafico si vede qualcosa che tende a crescere negli
anni, nell’altro grafico invece ci sono dei consumi molto più altalenanti. Questa differenza si spiega
attraverso l’inflazione, quindi quando si dice valori correnti o valori concatenati, in un caso si ha una
fotografia tale quale del consumo, quindi si fa una registrazione dei consumi senza considerare il fatto
che ci può essere una variazione non tanto della quantità domandata, ma un aumento della quantità
domandata in relazione alla variazione dei prezzi. Quindi quello che si dice è che c’è un valore al
netto dell’inflazione. Quindi quando si parla di valori correnti, vado a valutare la quantità senza
considerare i prezzi, mentre quando si deve fare una valutazione a valori concatenati prendo il prezzo
ma non dell’anno di riferimento, ma di quello precedente o concatenato ad un anno di riferimento.
Andando a concatenare il prezzo ad un dato anno, ad esempio all’anno 2000, vuol dire che quello che
viene fatto dal 2000 all’anno corrente è una reale valutazione esclusivamente di solo quantità senza
tenere conto del prezzo. Questo mi permette di fare una valutazione reale dei consumi, senza tener
conto dei prezzi, quindi senza tenere conto dell’inflazione. Se si fa una valutazione a prezzi correnti
quello che ne risulta è una stima che potrebbe non corrispondere ad una reale variazione della quantità
perché dentro ho incorporato la variazione dei prezzi. Se invece si fa una valutazione sulla dinamica
reale, allora si va ad ancorare il prezzo anno per anno, per cui si valuta realmente ed esclusivamente
una dinamica reale, mentre con una valutazione a valori correnti si ha una dinamica apparente.

L’inflazione è calcolata dall’Istat, il quale ad inizio anno registra un paniere di beni in un determinato
mercato e poi va a fare la stessa rilevazione a fine anno sullo stesso paniere di bene e nello stesso
mercato, andando a vedere qual è la variazione e determinando così l’inflazione.

Una cosa che è da notare è che esiste ancora nel paniere dei beni un’importante quantità di gente che
continua a consumare carne. Rispetto al 2014 non vi è stata nessun tipo di deflazione nel consumo di
carne. La maggior parte della spesa è destinata a pane e carne, e anche i vegetali rimangono stabili;
c’è un leggero aumento della frutta e poi abbiamo una percentuale di acquisto di gran lunga più bassa
per il pesce rispetto a quello della carne. Sicuramente non si può dire che c’è un fattore reddito, perché
comunque carne e pesce sono degli alimenti costosi, ma il pesce continua essere di tradizione solo di
alcune regioni d’Italia. Questo era per farvi vedere il grafico per incidenza sul totale della spesa.

Invece quest’altro grafico (kg/procapite) ha fatto un paragone tra diversi Paesi; abbiamo preso due
paesi da paragonare: Germania e Italia; vedete come ci sono alcuni andamenti che rispecchiano molto
le tradizioni di ogni Paese per alcuni prodotti (i cereali 117-Germania e 160-Italia; vino 25-Germania
e 35-Italia.

Attributi
Gli attributi possono essere delle caratteristiche sulle base delle quali poter differenziare il prodotto.
Li classifichiamo in due tipologie: una classificazione basata su attributi estrinseci ed intrinseci, ed
un’altra basata sul livello, sulle caretteristiche di asimmetrizzazione.

Prima classificazione attributi: intrinseci ed estrinseci


La differenza maggiore è che in un caso si parla di attributi legati strettamente alle caratteristiche del
prodotto, mentre gli attributi estrinseci hanno a che fare con l’estetica del prodotto. Sono delle
caratteristiche che servono per comunicare al consumatore; possono essere ad esempio il packaging,
le etichette, il colore… insomma delle caratteristiche estetiche del prodotto. Quindi sia gli attributi
estrinseci che quelli intriseci fanno parte di una strategia di differenziazione di un’impresa.
Quando si parla di attributi intrinseci dobbiamo distinguere due caratteristiche fondamentali: il
primo attributo è quello della sicurezza alimentare, che è qualcosa di oggettivo che deve essere
garantita a tutti (a differenza della qualità che è un attributo soggettivo e non deve essere garantita).
Per la sicurezza non dev’esserci un prezzo in più che il consumatore deve pagare, mentre per la qualità
si può pagare di più. Ultima differenza è che nel caso della sicurezza si parla di bene pubblico, mentre
nel caso della qualità si parla di bene privato. Quindi il prerequisito degli attributi è la sicurezza
alimentare. Prima di potere definire un prodotto più o meno di qualità, ci deve essere un livello di
sicurezza alimentare. Ci sono una serie di standard di sicurezza che devono essere mantenuti nel
prodotto, al di sotto dei quali il prodotto non è ritenuto sicuro (microrganismi patogeni, metalli
pesanti, pesticidi, contaminanti ecc).

Oltre a questo prerequisito ci può essere l’attributo nutrizionale, ovvero tutto ciò che ha che fare
con le caratteristiche e le proprietà nutrizionali del prodotto; anche in relazione a questo attributo ci
possono essere strategie di differenziazione diverse.

Poi abbiamo gli attributi organolettici sensoriali del prodotto, ovvero tutto ciò che riguardo l’odore,
il sapore, la freschezza, leggerezza...
Poi ci sono gli attributi di funzione, ad esempio: le confezioni da 6 bottiglie dell’acqua, l’estensione
della shelf-life, le insalate di quarta gamma...
Poi abbiamo l’attributo di processo, che riguarda il processo produttivo, ad esempio: la quantità di
acqua riciclata durante il processo produttivo, l’emissione di anidride carbonica, il rispetto di una
serie di certificazioni, il trattamento degli animali...
Quindi tutte questi sono stati definiti attributi intrinseci al prodotto, ovvero attributi che riguardano il
prodotto.

Gli attributi estrinseci sono indicatori e segnali come ad esempio la presenza di una certificazione,
l’etichettatura, il rispetto di uno standart... ovvero tutto ciò che io comunico al consumatore, qualcosa
di estetico al prodotto. I segnali possono essere: il prezzo, la marca, il nome del prodotto, dov’è stato
prodotto… ovvero una serie di caratteristiche che riguardano l’estetica del prodotto.

Seconda classificazione attributi: asimmetria informativa


All’interno di queste categorie di attributi esistono degli attributi che il consumatore può vedere, ad
altri che il consumatore non può vedere: esisteranno delle caratteristiche che si possono conoscere
attraverso le etichette, ma esisteranno anche degli attributi che si collocheranno a metà, tipo il sapore.
Che cosa succede? Accanto a questa classificazione, che mi ha permesso di individuare ciò che è
proprio del prodotto e ciò che è estetica del prodotto, ne esiste un’altra che permette di classificare
gli attributi del prodotto sulla base della asimmetria informativa.
In base alla classificazione che si fa sul diverso livello di asimmetria informativa, avremo gli attributi
ricerca, degli attributi esperienza e degli attributi fiducia:
- Gli attributi ricerca sono tutta una serie di attributi per i quali il livello di asimmetria informativa
è molto basso, ovvero che produttore e consumatore hanno le stesse informazioni.
- Gli attributi nutrizionali per cui è presente un’etichetta che esprime esattamente il quantitativo
di tutte le componenti, sono attributi che possono essere inducibili ad attributi ricerca, ovvero se
c’è un’adeguata ricerca da parte del consumatore al momento dell’acquisto si riesce ad acquistare
il prodotto in una condizione di perfetta informazione, quindi si acquista in modo informato e
consapevole. Il livello di asimmetria informativa è medio.
- l’attributo esperienza, si riferisce a tutti gli attributi sensoriali, ovvero si acquista sulla base di
una serie di caratteristiche di piacevolezza, però solo una volta assaggiato lo saprò con certezza.
Si fanno delle valutazioni sensoriali in base ad un’aspettativa, e nella maggior parte dei casi ci si
basa su un’esperienza passata. Il livello di asimmetria è media, perché si arriverà a conoscere solo
dopo un’esperienza di consumo.
- Il livello massimo di asimmetria informativa esiste per la serie di attributi fiducia per i quali non
si arriva a conoscere il prodotto neppure dopo il consumo; ad esempio quando qualcuno non
certifica, ma vuole fare credere il benessere animale. Se si dice che il prodotto è stato fatto nel
rispetto degli animali è qualcosa che rientra negli attributi fiducia e poi neanche dopo il consumo
si può valutare la veridicità di quell’informazione, motivo per cui esiste un livello di asimmetria
informativa che è massimo.

Se nell’attributo ricerca non sussiste alcun problema perché non c’è asimmetria, nell’attributo
esperienza l’impresa ha l’obiettivo di farlo provare per fidelizzare il consumatore; quindi c’è un
livello di asimmetria informativa medio o molto basso perché non c’è intenzione di ingannare il
consumatore. Nell’attributo fiducia ciò che non è riportato in etichetta può essere vero o no; questo
accade soprattutto quando la filiera è lunga e non si ha la possibilità di andare in azienda e controllare.
Per ridurre questa asimmetria subentra la certificazione, la quale regolamenta e garantite da enti terzi
che vanno al posto del consumatore nell’azienda a controllare, garantendo la veridicità di
un’informazione. Questi attributi sono degli attributi che nascono come attributi fiducia, ma grazie
ad enti terzi che verificano la veridicità dell’informazione vengono trasformati in attributi ricerca,
perché basta leggere attentamente l’etichetta e si trovano le certificazioni scritte (es. bollino verde per
il biologico).

Sistema agro-alimentare
Il sistema agro-alimentare è un insieme di attività: produzione e distribuzione dei prodotti agro-
alimentare fino al consumatore finale; invece il sistema agri-business è un sistema più generale che
comprende non solo le attività per la produzione di alimenti, ma anche quelle che utilizzano materie
prime agricole per produzioni non alimentare, ad esempio l’industria del mobile, tessile ecc.

Sistema agro-alimentare: nel suo interno dobbiamo definire il settore, la filiera e il sistema:
- Partiamo dalla filiera (viene disegnata una linea dritta sulla lavagna) che definisce il percorso di
un prodotto a partire dal sistema agricolo e che arriva ad un consumatore finale. È fatta da una
serie di step. Quindi è definita come scomposizione verticale del sistema agro-alimentare; non è
generale ma è specifica di un prodotto che viene identificato.
- Il settore, invece, non fa riferimento ad un prodotto specifico, ma è l’insieme di aziende che fanno
tutte la stessa cosa. Se la filiera quindi è una scomposizione verticale, il settore è una
scomposizione orizzontale del sistema agro-alimentare (nella scomposizione per definire la filiera
si ha la necessità di parlare di un determinato prodotto, mentre per parlare di settore si dividono
tutte le aziende che fanno parte del settore agricolo, tutte quelle del settore dell’industria
alimentare, tutte quelle che fanno distribuzione… è una scomposizione orizzontale).
- Il sistema agro-alimentare è qualcosa che considera tutti i prodotti e va a definire i vari settori
del sistema; infatti è l’insieme delle attività di produzione e distribuzione che riguardano tutti i
prodotti alimentari, quindi riguarda il food, dal quale escludiamo il sistema agri-business
(mangimi, tessile, legno ecc). All’interno dell’agro-alimentare si può trovare l’insieme di tutti i
settori dei prodotti alimentari. Quindi è un insieme di settore e filiera.
All’interno di questo sistema agro-alimentare si generano tre flussi diversi: flussi finanziari, flussi di
prodotto e flussi di informazione:
- Flusso di prodotto, perché all’interno del sistema circolano dei prodotti alimentari, quindi ci sono
dei flussi di prodotto che si generano in tutti questi passaggi; ovviamente il flusso di prodotto che
si genera a valle è il prodotto con valore aggiuntivo, perché essendoci diversi step di
trasformazione/elaborazione di quel prodotto si spera che ci sia una variazione di valore.
- Flussi informativi, ovvero la tracciabilità; in ogni passaggio c’è qualcuno che registra dei dati in
modo tale da poter determinare alla fine del processo produttivo un prodotto diverso al prodotto
iniziale sul quale però sono state registrate delle informazioni. Le informazioni a valle sono
maggiori rispetto a quelle a monte, perché in ogni step la filiera ha aggiunto delle informazioni.
- Flussi finanziari, perché c’è stata una creazione di valore anche in termini monetari. E’ partito
con un valore iniziale di materia prima molto basso e poi, una volta trasformato, ha aumentato il
suo valore. Quindi l’industria paga l’agricoltore, la distribuzione paga l’industria, ecc… In questo
caso, al contrario degli altri flussi, il flusso finanziario è più alto a monte.

I settori che vedremo nel dettaglio sono i settori dell’agricoltura, della distribuzione e della
ristorazione. L’agricoltura è tutto ciò che serve per la coltivazione del suolo e l’allevamento animale,
poi il settore dell’industria alimentare è il primo step in cui viene operata una trasformazione del
prodotto (in una filiera ci possono essere più fasi di una stessa trasformazione), e infine c’è la
distribuzione che ha il compito di rendere il prodotto disponibile sia al consumatore finale, ma anche
ad altri sistemi; infatti esistono la distribuzione business to consumator e business to business. Nella
distribuzione business to business la distribuzione fornisce alla ristorazione, mentre nell’altro caso si
ha la distribuzione direttamente al consumatore finale (supermercato classico).

LEZIONE 15 del 19.04.17


Come possiamo definire l’agricoltura? Non è altro che l’attività rivolta alla coltivazione del suolo e
allevamento degli animali, e insieme alla pesca e alle foreste forma il settore primario, quello che
utilizza le risorse della terra. Le materie prime agricole in molti casi sono già prodotti finiti. Infatti,
se vedete in questo grafico, trovate una freccia che collega l’agricoltura direttamente alla
distribuzione saltando l’industria, perché i prodotti freschi vanno direttamente alla distribuzione o
alla ristorazione. L’agricoltura o fa prodotti che vanno consumati freschi, quelli orto-frutticoli, o fa
materie prime. Produce molte materie prime come ad esempio il grano, l’uva che è trasformata in
vino, le olive che sono trasformate in olio, il latte come materia prima che deve essere pastorizzato
per essere consumato fresco o trasformato in formaggio... Tutte queste sono materie prime agricole
che si definiscono anche commodities; sono un prodotto omogeneo, cioè non sono differenziate.
L’industria alimentare trasforma le materie prime di origine agricola in prodotti finiti. Tutte le materie
prime utilizzate dall’industria alimentare sono agricole? No, ci sono edulcoranti, lieviti… ma sono
degli ingredienti, non materie prime principali. Tutte queste sono agricole o c’è qualcosa di non
agricolo? Ad esempio l’acqua: se prendiamo l’industria delle acque minerali, si utilizza un prodotto
naturale, ma non una materia prima agricola; il sale non è una materia prima agricola.
Dobbiamo considerare che ci sono dei settori a più stretto contatto con l’agricoltura, come ad esempio
quello caseario che trasforma il latte. In questo caso il contatto con l’agricoltura è molto diretto. Il
vino è la trasformazione dell’uva ed è un contatto diretto, cioè dipende tantissimo dalla materia prima.
Nell’olio, la provenienza e la varietà sono tutto. Ci sono queste categorie di prodotto che sono mono-
ingrediente. La pasta è un’attività collegata all’agricoltura o no? Assolutamente sì, perché il grano
duro da cui deriva la semola è l’ingrediente fondamentale, così come i salumi e altre tantissime
produzioni. Se prendo ad esempio i soft drink non sono collegati all’agricoltura, c’è un legame molto
flebile. È più difficile capire il collegamento di questi prodotti.
Quindi ci sono materie prime agricole e materie prime naturali. Alcuni prodotti sono prettamente
legati all’agricoltura, altri un po’ meno, ma comunque si parla sempre di materie prime agricole che
hanno un ruolo fondamentale. Tra l’altro il grande costo della trasformazione è dovuto alle materie
prime agricole. Ad esempio il caffè ha un legame fortissimo con l’agricoltura; il cioccolato anche, in
base al legame con il cacao.
Noi parliamo di industria sia riferendoci alle grandi imprese (Barilla, Ferrero, Parmalat, Galbani) che
alle piccolissime imprese. Quando parlo di settore industriale, si fa riferimento alla Nestlè che è il più
grande gruppo industriale al mondo nell’alimentare, ma anche alla piccola gelateria artigianale che
ha due addetti e che fa un giro di affari molto. La cosa importante è la tipologia di attività e di
processo, quindi in questo caso la trasformazione di materie prime agricole in prodotti finiti.
Poi c’è la distribuzione, che è un settore, ma non un’attività in cui si realizzano dei prodotti.
L’agricoltura fa parte del settore primario insieme ad allevamento e alle foreste. L’industria
alimentare, che è un settore di trasformazione, fa parte del settore secondario (settore che comprende
tutte le attività di trasformazione industriale). La distribuzione fa parte del settore dei servizi; infatti,
non realizza dei prodotti, ma offre un servizio al consumatore finale. La distribuzione offre due servizi
importanti: il primo è un servizio logistico, cioè il trasporto dal luogo di produzione al luogo di
consumo; il secondo è la selezione, cioè la distribuzione acquista dei prodotti alimentari che poi
rivende e in questo atto di acquisto seleziona i prodotti che vuole vendere e li seleziona in base alle
richieste dei consumatori. Da ciò possiamo dire che la distribuzione occupa un ruolo strategico perché
ha direttamente contatto con il consumatore finale. Definizione: “la distribuzione è un’attività di
servizio rivolta al trasferimento di prodotti alimentari dal produttore al consumatore in modo da
renderli disponibili nei tempi e nei luoghi preferiti dal consumatore”.
La distribuzione può essere all’ingrosso e al dettaglio. La distribuzione al dettaglio è tutta quella che
si rivolge al consumatore finale ed è quindi un rapporto business to consumer (b to c). La distribuzione
all’ingrosso è quella che si rivolge alla ristorazione o ad altri distributori ed è una b to b, cioè business
to business. Non fatevi ingannare dalla parola ingrosso che sembra qualcosa di grande perché quella
che noi chiamiamo GDO, cioè grande distribuzione organizzata (supermercati, ipermercati, grandi
catene), fa parte del dettaglio, che però comprende anche i piccoli dettaglianti tradizionali
(fruttivendoli, i panettieri o i macellai). Dall’altra parte c’è la ristorazione che non ha un rapporto
diretto con l’industria alimentare, ma si avvale della distribuzione all’ingrosso. In genere sono dei
distributori specializzati proprio per il canale HORECA (hotel, ristoranti e caffè). La ristorazione è
un’attività rivolta alla preparazione dei pasti per il consumatore finale. In questo caso c’è una
distinzione tra ristorazione commerciale, cioè il canale HORECA, che è il canale della ristorazione
“ludica” (ristoranti, bar, pizzerie, fast food) e la ristorazione collettiva, che si rivolge a una comunità
di consumatori organizzata, cioè agli studenti (mense universitarie), ospedali, le attività dei
convegni... C’è un premium price per la ristorazione commerciale? L’attività di preparazione del
pasto dà luogo a una differenziazione di servizio e quindi a una richiesta di prezzo considerevole e
quindi una disponibilità da parte del consumatore a pagare? Sì, infatti c’è la differenza dei prezzi dei
ristoranti. Nella ristorazione collettiva i prezzi sono contenuti. Solo per il servizio di mensa
ospedaliero in Italia si ha un costo molto elevato. La ristorazione commerciale è il vero pasto fuori
casa a cui corrisponde anche una disponibilità considerevole a pagare, mentre la ristorazione
collettiva è un pasto fuori casa fatto per necessità.
Il segmento più ricco è quello della convegnistica, che si chiama banqueting, o quello per eventi
particolari, come matrimoni, e in questo caso è un settore simile a quello della ristorazione
commerciale.

Nell’ambito del sistema agro alimentare questi settori (agricolura, industria, distribuzione,
ristorazione) sono tutti integrati e quelle frecce indicano che ci sono dei flussi di prodotti da un settore
all’altro.
Nel sistema agro alimentare il ruolo centrale è occupato dalla distribuzione perché si interfaccia con
il consumatore finale e perché abbiamo delle aziende di notevoli dimensioni. Pensate alla grande
distribuzione organizzata o alla più grande catena che c’è al mondo (Walmart) che è una potenza, ma
anche Carrefour e catene italiane (Esselunga, Conad, Coop). L’industria come fa ad avere le
informazioni sui consumatori? Deve fare le indagini di mercato, ma queste sono molto costose, e
deve fare molta pubblicità. Per quanto riguarda le private label, se vado in un supermercato la private
label la vedo lì e quindi non devo fare pubblicità. Invece, un prodotto nuovo fatto dall’industria deve
essere pubblicizzato per essere conosciuto, e in genere non ci si fida molto dei prodotti che non si
conoscono. L’agricoltura è quella più lontana di tutti a livello informativo e quindi è quella un po’
più in difficoltà da questo punto di vista.

AGRICOLTURA
La funzione dell’agricoltura è produrre materie prime (e prodotti finiti nel caso di prodotti orto
frutticoli). Il tipo di prodotto è omogeneo, è una commodity. Ci sono circa un milione di imprese
agricole in Italia. Sono così tante perché la coltivazione dei campi obbliga l’impresa a non essere
eccessivamente grande perché sono attività che si svolgono sul territorio. Ci sono imprese agricole di
grande fatturato paragonabile a una media impresa industriale. Possono influenzare la quota del
mercato? No, perché l’impresa è talmente piccola che la sua quota di mercato è infinitesima. Le
imprese agricole sono price taker, non possono decidere il prezzo per due motivi: per prima cosa
perché sono troppo piccole, e poi perché il prodotto è omogeneo. Se uno fa il biologico vende a un
prezzo più elevato, ma anche qui non è il singolo produttore, ma è la categoria merceologica. La
forma di mercato è libera concorrenza.

INDUSTRIA ALIMENTARE
La funzione è trasformare le materie prime in prodotti finiti. Il tipo di prodotto è differenziato, sulla
base degli attributi nutrizionali, organolettici, funzionali e sensoriali. Numerosità delle imprese:
media, è molto più bassa dell’agricoltura, ma non è un oligopolio perché nell’industria alimentare si
trovano sia le grandi imprese (che dovrebbero essere un gruppo oligopolistico - Barilla, Nestlè,
Ferrero), sia una miriade di piccole e medie imprese. In Italia si parla di circa sessantamila imprese
nell’industria alimentare, e sono tante. Quindi le grandi e le medie imprese hanno delle quote di
mercato molto rilevanti. Una media impresa può avere un 4-5-6% di quota di mercato, che è una
quota di mercato importante. C’è influenza sul prezzo, sono price maker perché il prodotto è
differenziato. La distribuzione tenderà a vendere prodotti alimentari a prezzi bassi perché vuole
vendere tanto, questo si chiama locazione. I prodotti dell’industria alimentare tante volte hanno un
prezzo notevole e hanno un premium price molto alto. C’è un conflitto di interesse perché la
distribuzione vuole vendere a prezzi più bassi e l’industria a prezzi più alti, però i produttori sono
price maker anche se sono influenzati dalla distribuzione. Barriere all’entrata esistono, ma non sono
enormi. L’importanza della pubblicità è fondamentale perché avendo un prodotto differenziato devo
farlo conoscere. La forma di mercato è quella della concorrenza monopolistica.

DISTRIBUZIONE
La distribuzione offre un servizio commerciale. Nel caso della distribuzione si parla di tipo di servizio,
e non di tipo di prodotto. Il servizio della distribuzione è omogeneo o differenziato? Assolutamente
differenziato. Nell’ambito del dettaglio troviamo delle tipologie differenti: nelle GDO il servizio è a
self service; invece, dal piccolo dettagliante la vendita è assistita. La prima differenza è la tipologia
di vendita, self service vs vendita assistita. Nella grande distribuzione troviamo delle zone a vendita
assistita, pesce o a volte la panetteria e i prodotti da forno. Già questo è un sistema per differenziare
il sistema di servizio offerto. Un secondo modo per differenziare sono le private label, perché si
vendono i prodotti con il marchio industriale invece che con il proprio nome. Molte imprese della
distribuzione attualmente fanno le filiere di qualità, cioè le filiere dove si utilizza la produzione
agricola integrata o dove la filiera è integrata e controllata verticalmente. Tutti questi sono sistemi
per differenziare il tipo di servizio.
La numerosità dell’impresa è media perché è simile al caso dell’industria alimentare, in cui c’è il
nucleo oligopolistico formato dalle grandi imprese della distribuzione (Carrefour, Walmart) e poi ci
sono una miriade di piccoli dettaglianti tradizionali, che soffrono molto la concorrenza. Nell’industria
la concorrenza orizzontale, tra piccole e grandi imprese, è meno forte. Il micro birrificio non fa
concorrenza ai grandi produttori di birra, ma il piccolo dettagliante artigiano tende a sparire rispetto
al grande supermercato perché ci sono prezzi differenti e prodotti differenti. C’è influenza sulla quota
di mercato, perché le imprese grandi hanno quote di mercato rilevanti (non è corretto in questo caso
il concetto di quota di mercato, ma si può capire facilmente). Sono price maker. Contrattano un po’
con l’industria, ma gli esperti di marketing della distribuzione aggiornano i prezzi tutte le settimane
per ogni prodotto perché si rapportano continuamente con i distributori e i concorrenti. Le barriere
all’entrata non sono enormi, ma ci sono. La pubblicità è importante nella distribuzione, ma è diversa
rispetto all’industria. Nell’industria si pubblicizza uno specifico prodotto, nella distribuzione si
pubblicizza l’insegna. La forma di mercato è quella della concorrenza monopolistica come
l’industria.

C’è un caso particolare che è quello della filiera corta: ad esempio alcune aziende alimentari hanno
uno spaccio e quindi non fanno solo attività di produzione, ma fanno anche attività di vendita.
L’attività prevalente rimane quella della produzione. Esempio: la gelateria artigianale. La gelateria fa
produzione e vendita. È più industria o distribuzione? In effetti, ci sono delle situazioni in cui le
attività si mischiano. Dal punto di vista didattico c’è la differenziazione dei settori ed è chiara e
importante, ma in questo caso c’è un sistema, l’Istat, che valuta l’attività prevalente della gelateria e
potrebbe definire il settore di appartenenza. Quindi ci sono delle imprese che hanno più di un’attività
e che non sono riconducibili a un unico settore.
Un caso particolare è quello della filiera corta. Abbiamo definito la filiera come un insieme di attività
e riguarda una singola categoria di prodotto. Siamo nel caso della filiera corta quando queste diverse
attività vengono effettuate da una sola impresa. Ad esempio, per la produzione del vino ci potrebbe
essere un’impresa agricola che ha sia il vigneto per la produzione dell’uva, sia la cantina per la
trasformazione e vende anche il vino. La filiera corta rappresenta l’insieme delle attività che
riguardano l’impresa agricola che consentono di avvicinare le relazioni tra produttore e consumatore.
In questo caso si parla di filiera corta o anche di vendite dirette; le filiere corte sono di diverse
tipologie: quella tipica è quella che produce olio, vino e lo vende. Un altro esempio è quello dei
farmer markets: sono nati negli Stati Uniti e gli agricoltori vanno a vendere i loro prodotti
periodicamente nelle grandi città. Si trovano mercati non fatti da commercianti, ma sono i produttori
che vendono. In Italia si chiamano mercati contadini. Altri esempi sono la vendita per
corrispondenza o l’e-commerce. Ad esempio un’azienda agricola che produce vino e lo vende
mediante internet, oppure la consegna a domicilio a singolo o a gruppi organizzati. Un’altra cosa
molto diffusa in Olanda è la raccolta di prodotti agricoli da parte del consumatore, che pagano in base
al peso. Un altro esempio è la fornitura di gruppi di acquisto: ad esempio i GAS, gruppi di acquisto
solidale, sono un’organizzazione di consumatori che si mettono insieme e comprano i prodotti dai
produttori. Hanno tre vantaggi: 1. che i prodotti sono di una qualità migliore perché si cercano i
produttori più validi; 2. si riescono ad avere prezzi più bassi perché si salta il canale della distribuzione
e si va direttamente al produttore; 3. è un sistema per sostenere i piccoli produttori. Ancora c’è la
fornitura dei prodotti diretti alla ristorazione: anche i ristoranti si forniscono direttamente dai
produttori agricoli e non dai canali della distribuzione; un esempio è il chilometro zero, in cui il
ristorante si fornisce da produttori della zona (nel raggio di 50 Km) in modo che i costi di trasporto
si riducono. Tutti questi sono esempi di filiera corta. Questa conoscenza diretta del produttore genera
un rapporto di fiducia che garantisce la quantità.

LEZIONE 16 del 26/04/17


Quando parliamo di filiera corta significa che c’è una sorta di condensazione tra i diversi step della
filiera e quindi è come se esistesse un passaggio diretto da A a B. Questo implica che ci sono una
serie di vantaggi sia per il produttore che per il consumatore, come la riduzione del prezzo del
prodotto e un rapporto diretto col produttore, quindi una percezione diretta della qualità e una fiducia
maggiore rispetto a quel prodotto. Non tutti hanno il passaggio da A a B, ma è una filiera corta quando
c’è la condensazione di uno o più passaggi di un unico operatore.

Gli svantaggi sono:


1. non tutti i prodotti possono essere acquistati tramite la filiera corta, quindi eliminiamo tutto il
lattiero-caseario, eliminiamo una serie di salumi, la pasta... Per cui la filiera corta riguarda solo
determinati prodotti, altri dobbiamo per forza acquistarli in GDO.
2. in città non è facile reperire prodotti in filiera corta; pensate a un agriturismo o a un’azienda
agricola che si trovano al di fuori delle aree metropolitane, per cui sono più scomodi da
raggiungere. Sono scomodi in termini di ACCESSO, che è la disponibilità di un prodotto in un
determinato punto. Si parla di food desert quando ci sono aree dove è difficile reperire alcuni
prodotti.

Considerate che la filiera corta è vista come una sorta di canale di vendita alternativo per delle
micro-realtà che non hanno la possibilità di essere competitive sul mercato.

Adesso vedremo l’industria alimentare e le sue caratteristiche. Esistono delle realtà che noi
definiamo piccole, ma alcune sono addirittura talmente micro che non riescono ad arrivare sul
mercato per una serie di costi che non possono sostenere, quindi magari l’opzione di vendere
attraverso la filiera corta può essere una possibilità per riuscire a rimanere sul mercato.
Definizione di DISTRETTO AGROINDUSTRIALE: deriva dalla definizione di distretto
industriale di Marshall. Praticamente è qualcosa che viene prodotto all’interno di una determinata
area circoscritta, delimitata dal punto di vista geografico. Infatti la definizione di distretto considera
la variabile spaziale di produzione di piccole imprese. Quando si parla di distretto nel nostro caso c’è
l’esempio del distretto del Parmigiano Reggiano. C’è una competenza specifica all’interno di un
delimitato territorio. Ci sono una serie di aziende che si trovano localizzate e concentrate in un a
determinata area geografica e che producono un determinato prodotto, e questo si chiama distretto
agroindustriale. Ogni impresa all’interno del territorio e della filiera possono svolgere diversi
processi produttivi; l’importante è che tutte le imprese contribuiscano alla produzione dello stesso
prodotto. Ovviamente dev’esserci una significativa rilevanza nel mercato nazionale; ci saranno
determinate caratteristiche come una certa altezza dei terreni, piuttosto che struttura del territorio o
condizioni climatiche, che contribuiscono alla creazione di quel prodotto.

Quindi distretto agroindustriale deriva da una definizione più grande di distretto che è stata data da
Marshall.

Torniamo al SETTORE AGRICOLO, che ha anche altre caratteristiche:


- le aziende sono piccole, in alcuni casi si parla proprio di micro aziende, molto spesso alcune sono
a conduzione familiare;
- non sempre il settore agricolo è destinato alla produzione di generi alimentari, ma potrebbe anche
entrare a far parte di filiere NO FOOD: filiera del legno, dei mangimi, del tessile, del tabacco 
alla fine arriveremo a parlare di multifunzionalità del settore agricolo, cosa che invece non si
può dire degli altri settori;
- Recentemente si inizia a fare biodisel, biodolo a partire dalla materia prima agricola. Questo
aspetto ha ripercussioni positive in termini ambientali, perché si stanno cercando di trovare
alternative ai combustibili negativi per l’ambiente. Alla base sta che la materia prima è agricola e
nel caso delle nostre produzioni sono produzioni di elevata qualità, ed è un problema. Quindi esiste
qualcosa che ha un effetto positivo sull’ambiente, ma esiste una sorta di svantaggio in termini
economici perché la materia prima di partenza di altissima qualità non viene destinata alla materia
prima commestibile; quindi c’è una sorta di deprezzamento della materia prima.
- L’ultimo aspetto è l’esternalità. Il caso dell’agricoltura, quindi ad es. un agriturismo, può essere
vista come un’esternalità positiva, perché esiste una sorta di valorizzazione del paesaggio.

La multifunzionalità del settore agricolo non avviene nel settore alimentare, che è abbastanza
statico. La sua funzione è quella di trasformare un prodotto e di creare un valore. Abbiamo detto che
sono delle imprese di un numero abbastanza elevato (non siamo nell’ordine dei 2 milioni e mezzo del
settore agricolo, però siamo intorno alle 60 mila unità, quindi un numero abbastanza elevato). Inoltre
è caratterizzato da una concorrenza monopolistica, quindi non si parla di libera concorrenza perché
non abbiamo prodotti indifferenziati, non c’è concorrenza tra le aziende.
È un settore ANTICICLICO: ha avuto negli anni una situazione molto altalenante. Dal 2008 al 2010
c’è stata una recessione economica che ha colpito praticamente tutti i settori, ma non per il settore
alimentare, dove non c’è stata crisi ma solo delle microvariazioni in negativo; in momenti di grande
espansione economica non si sono registrate grandi variazioni economiche positive. Per esempio
quello delle telecomunicazioni è un settore che sicuramente non può essere definito anticiclico,
perché perde tanto in un momento di crisi e cresce tanto in un momento di espansione economica.
Quello che invece noi diciamo del settore alimentare è che è anticiclico perché è abbastanza
stazionario. È lo stesso discorso che facciamo riguardo i consumi domestici: non hanno delle grosse
reattività al reddito.

Una seconda caratteristica è quella dell’alimentare estero: è un comparto che continua a crescere,
però rimane comunque a dei livelli non troppo elevati. L’incidenza sul fatturato dell’industria
alimentare rimane comunque non troppo significativo. Questo perché queste industrie, che in totale
sono circa 60 000, non hanno una situazione equa: il 95% di esse sono micro e piccole imprese.
Questo significa che la multinazionale è in grado di internazionalizzare di più, è in grado di esportare
di più. Pensate che nel momento in cui bisogna dare un’impronta all’azienda per le esportazioni, o
comunque rivolgersi a un mercato che non è italiano, esistono una serie di capitali da investire proprio
in termini di organizzazione dell’azienda. Nel momento in cui noi diciamo che il 95% delle aziende
sono micro o piccole, queste non hanno la forza per rivolgersi a un mercato estero. Abbiamo un
mercato estero che continua a crescere, che però non ha ancora un’incidenza rilevante rispetto al
fatturato estero che è di 30 miliardi.

Molto spesso quando uno pensa al sistema agroalimentare, pensa al suo valore, che è di 277 miliardi.
In relazione a cosa capisco che è una grandezza importante nel nostro paese oppure no? La cosa che
a noi serve è sapere il PIL. Ponendo che il PIL rappresenta una misura della ricchezza del nostro
paese, io vado a vedere qual è l’incidenza del sistema agroalimentare sul PIL in maniera tale da
riuscire a capirne il peso. Si fa in due modi:
1) Calcolo il valore aggiunto di tutti i settori e li rapporto al PIL, per vedere quanto incidono.
2) Calcolo degli occupati: posso avere lo stesso risultato prendendo il numero di occupati dei vari
settori e rapportandoli agli occupati totali.
3) L’ultimo sistema è quello di rapportarlo ai consumi alimentari (ma non è molto attendibile
perché inglobo anche il consumo alimentare degli stranieri che sono in Italia e quindi ho un bias
nella misurazione).

I più attendibili sono i primi due. Il sistema agroalimentare incide sul PIL del 17%, quindi non ha
un’incidenza elevata. In passato siamo arrivati anche a percentuali di 70%-80%, perché la ricchezza
economica del nostro paese era per lo più fondata sul sistema agroalimentare del nostro paese. Questo
significa che l’80% della ricchezza del nostro paese era tutta data dal sistema agroalimentare.
Ora sono entrati una serie di settori e di servizi che vanno a costituire la ricchezza del nostro paese e
quindi il sistema agroalimentare incide meno. Questo non vuol dire che si è ridotto il valore del
sistema agroalimentare sul PIL, ma semplicemente che sono subentrate altre attività, altri servizi.

Il settore che incide di più su tutto il sistema agroalimentare è quello della distribuzione. Infatti
definiamo il settore della distribuzione come il settore più ricco in assoluto.

Noi pensiamo che una grande azienda da 250 addetti è sicuramente più competitiva di quella con 5
addetti, ma in realtà questo non succede nel settore dell’industria alimentare (nella distribuzione non
sta succedendo). Avviene perché ognuna applica la strategia che vuole, ad esempio agendo sulle
quantità e sui prezzi; non c’è una competizione diretta, non pretendono entrambe di competere sulla
stessa cosa.
Un’altra strategia per l’industria alimentare è la possibilità di fare PRIVATE LABEL. È la svolta in
termini economici sia del produttore che per il consumatore. Dà la possibilità anche ad una piccola
azienda di arrivare a distribuire presso una GDO semplicemente perché si limita a produrre e vendere
alla grande distribuzione; ma è la grande distribuzione che va a vendere con il suo marchio e quindi
c’è un vantaggio in termini di costo anche per l’aziendina. Il marchio della distribuzione, oltre a
metterci la firma, pensa anche al confezionamento per esempio. La private label è una strategia,
soprattutto a disposizione di una piccola azienda, che riesce a trarne beneficio.

L’altra opzione è fare DUAL BRANDING, ossia l’azienda decide di fare prodotti sia a marchio
proprio che a marchio della distribuzione. Succede che avrà una linea di prodotti sulla quale andrà ad
investire di più. L’azienda investe molto di più per la ricerca sulla confezione, per la ricerca sviluppo,
per lo studio di quanti imballaggi mettere… e quindi la produzione ha un costo alto. Un’altra parte
della produzione invece decide di fare private label, e qui i costi di ricerca e sviluppo sono pari a zero.
Quindi riesce a produrre sempre la stessa quantità, ma non può farli tutti a marchio proprio, per cui
decide di destinare una parte della propria produzione a private label. Questo si può osservare dietro
la confezione di un prodotto a marchio della distribuzione che in alcuni casi presenta lo stabilimento
di produzione del marchio leader.

Altra opzione è fare i PRIMI PREZZI, ossia arrivare sul mercato con il prezzo più basso in assoluto.
Quando abbiamo un prodotto artigianale abbiamo un prezzo più alto, poi abbiamo il prodotto a
marchio leader e poi abbiamo la private label; infine abbiamo i primi prezzi. Questi prodotti sono fatti
da aziende sconosciute, che decidono di arrivare per la prima volta sul mercato e che arrivano con un
livello ancora più basso delle private label. Quindi l’azienda necessita di tempo per essere conosciuta
e produce quantità molto basse. Viene così identificato come primo prezzo nella parte più bassa dello
scaffale. Nel momento in cui qualcuno comincia a comprarlo e il prodotto comincia ad affermarsi, il
suo prezzo comincia a salire.

Queste differenti strategie permettono di creare questa situazione che è assolutamente caratteristica
solo dell’industria alimentare, definita di BIPOLARISMO STRUTTURALE, che è dato da grandi
aziende contro piccole aziende, che riescono ad essere competitive sul mercato perché non sono mai
realmente in competizione tra loro. Questo è quello che noi diciamo riguardo l’industria alimentare.

L’ultimo passaggio è quello della distribuzione. La distribuzione ha una funzione logistica, quindi
deve trasferire qualcosa. Tornando al termine accessibile, deve rendere un prodotto accessibile a tutti.
Ha una forma di mercato che è quella della concorrenza monopolistica; ha una situazione anche in
questo caso di bipolarismo, che però funziona molto male perché, a differenza dell’industria, nella
distribuzione non ci sono diverse strategie, le aziende (che sia un ipermercato, un supermercato o un
minimarket) hanno tutte lo stesso obiettivo: rendere accessibile un prodotto a tutta la popolazione.
Quindi cosa sta succedendo? le GDO stanno schiacciando la piccola distribuzione, ovvero i
minimarket. A volte sono negozi altamente specializzati, più legati alla cultura che a una reale utilità.
Se noi andiamo nei piccoli centri abitati, qui ci sono i minimarket perché magari non è arrivata la
GDO, o comunque ce ne sono poche, e quindi si è rimasti alla tradizione del piccolo dettagliante,
anche perché ha delle caratteristiche che alcuni preferiscono. In primis nelle piccole distribuzioni c’è
un’assistenza, ovvero una persona che ti segue durante la spesa. Nel supermercato c’è una grande
despecializzazione, quindi in un unico punto vendita voi trovate tutto ed è una risposta a uno stile di
vita molto più frenetico. Comprare prodotti in tanti negozi diversi richiede anche molto più tempo. È
come se ci fosse una sorta di evoluzione dello stile di acquisto che segue un po’ quelle che sono le
abitudini. Nel minimarket di un unico prodotto avremo due tre marchi, non venti linee come nelle
GDO. Recentemente, anche legato alla crisi economica, c’è stato un aumento del numero di discount.
Se in qualche modo la vendita è leggermente più assistita nel supermercato, nell’ipermercato lo è
ancora meno e nel discount è praticamente assente; ci sono prodotti che non troviamo neanche
sistemati sullo scaffale, ma sono ancora negli scatoloni. Tutto questo incide sul costo.

La parte più ricca della filiera è la distribuzione per due motivi fondamentali  vantaggio economico
in termini di ricchezza, e vantaggio di posizione:
1) Vantaggio economico: il consumatore va al supermercato e paga, mentre la distribuzione non deve
necessariamente pagare direttamente, ma i suoi ordini e i suoi fornitori li va a pagare anche a 90
giorni. Quindi quello che ha la distribuzione, a differenza di tutti gli altri settori della catena, è una
disponibilità di cash immediata.
2) vantaggio di posizione, dato dal fatto che è la parte più vicina al consumatore; riescono a sapere
per primi quali sono le nostre preferenze; quindi è un vantaggio di tipo informativo.

In ordine di despecializzazione e numero di referenze abbiamo: minimarcket, supermercato,


ipermercato e discount.

Una cosa da chiarire sulla privata label è la possibilità di avere un livello di sicurezza molto più
elevato. Questo non significa che ci sono prodotti più o meno sicuri, perché la sicurezza alimentare è
un prerequisito per tutti i prodotti; ma quello che succede è che si crea un meccanismo attraverso il
quale la grande distribuzione sta alzando sempre di più i livelli di standard qualitativi e di sicurezza,
per riuscire a produrre col proprio marchio. Questi standard per legge sarebbero facoltativi ma la
grande distribuzione li pone come requisito fondamentale per produrre col proprio marchio; ad
esempio la tracciabilità volontaria. C’è un livello di standard molto elevato perché esiste una sorta di
rischio di reputazione che non può essere compromesso. Inizialmente la private label (o in generale i
prodotti non a marchio) venivano identificati come prodotti di qualità più bassa. Adesso c’è stata una
maggiore consapevolezza e quindi c’è una crescita di questi prodotti a marchio della distribuzione.
Sicuramente contribuisce anche il fattore prezzo, che è più basso.

Esiste un margine di redditività che è più alto nel caso la grande distribuzione andasse a vendere i
prodotti di una piccola azienda che altrimenti non riuscirebbe a rimanere sul mercato, piuttosto che i
prodotti già di marca.

La ristorazione è l’ultimo step della filiera. La ristorazione commerciale è un settore che sta andando
molto bene, se invece parliamo della ristorazione collettiva è un settore che sta andando molto male.
La ristorazione commerciale sta crescendo per via dell’aumento generale dei redditi; inoltre
aumentano sempre più le occasioni di consumo dei pasti fuori casa. C’è una ristorazione tradizionale
e una veloce (fast food). C’è una grande diffusione del franchising: è la possibilità che io ho di
utilizzare un punto vendita sfruttando un marchio noto. Questo cosa mi permette di aprire un punto
vendita che non ha bisogno di una fase iniziale di pubblicità del marchio, perché sfrutta il brand
consolidato nella mente del consumatore. Non devo pubblicizzare, semplicemente devo informare gli
altri punti vendita che ne è stato aperto un nuovo. Non ho la possibilità di fare nessun tipo di
variazione anche alla struttura del locale, che deve rientrare in quelle che sono le caratteristiche
fondamentali del marchio. Io sono l’affiliato e devo pagare una % sul fatturato all’azienda madre che
mi consente di commercializzare prodotti utilizzando il proprio marchio.

La ristorazione collettiva invece è tutt’altro. Ha delle caratteristiche particolari: innanzitutto i pasti


sono rivolti a comunità e a gruppi di persone. La caratteristica fondamentale è il lavoro e il prezzo.
La mensa, a differenza del ristorante o del fast food, si trova a erogare un elevatissimo numero di
pasti in un momento molto limitato della giornata. La pausa pranzo delle mense è ristretta all’ora di
tempo prestabilita. In un arco di tempo molto limitato devono erogare un elevato numero di pasti e
questo è il primo aspetto negativo. Il secondo è il prezzo, perché nel caso della mensa non esiste una
differenziazione tale da avere un pasto a 20 euro. Non avendo la possibilità di differenziare, il margine
è molto limitato. L’autoproduzione non è più conveniente, come il fatto di produrre all’interno della
struttura; quindi c’è la diffusione di aziende specializzate che forniscono pasti dall’esterno e quindi
cucine decentralizzate che distribuiscono i pasti per riuscire ad abbattere un po’ i costi.
Esiste una differenza: c’è una fornitura diretta e una indiretta (quella dei buoni pasto).
All’interno dell’azienda devo avere uno spazio adibito alla mensa, ma se l’affitto in quella posizione
costa tantissimo, l’azienda è più conveniente fornire i buoni pasto, ossia avere una sorta di
convenzione con alcune trattorie, osterie e punti vendita vicini.

Quando si parla di fornitura diretta il problema fondamentale è quello del prezzo. In più esiste il
committente pubblico.

LEZIONE 17 del 09/05


INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL MERCATO AGROALIMENTARE
Nell’ambito agroalimentare si sta assistendo a una internazionalizzazione dei mercati. Iniziamo a
definire cosa si intende per internazionalizzazione, e per prima cosa distinguiamo i due concetti di
internazionalizzazione delle imprese e dei mercati. Li distinguiamo perché un conto è la singola
impresa che tende a internazionalizzarsi, cioè tende a operare nei mercati esteri, un altro conto è
quando i mercati dei diversi paesi si integrano fra di loro.
L’internazionalizzazione delle imprese: vuol dire che l’ambito di azione dell’impresa (acquisti e
vendite) non si limita solamente al paese dove l’impresa è nata e dove ha i suoi principali stabilimenti
o dove vende principalmente i propri prodotti, ma si estende a più paesi, e il modo più banale per
portare i propri prodotti all’estero è l’esportazione. Quando inizia questo processo? Quando
l’impresa si trova un po’ “stretta” nella sua realtà nazionale e vuole espandere il suo mercato. Questa
internazionalizzazione può limitarsi solo alle esportazioni, oppure può comprendere una modalità di
internazionalizzazione molto più rilevante in termini di investimento diretto all’estero. Cosa vuol
dire? Vuol dire che l’impresa fa una propria filiale all’estero. Esempio pratico: Barilla un po’ di tempo
fa ha aperto negli Stati Uniti uno stabilimento per la produzione di pasta; Quando l’impresa esporta,
esporta il prodotto che viene realizzato in Italia, quindi utilizzando lavoratori e strutture italiane, e
quindi tutto il fatturato va alla impresa che produce, anche se poi viene esportato il prodotto. Nel
momento invece in cui un’impresa apre un’altra filiale in un altro stato, il fatturato non sarà più il
fatturato italiano, perché utilizza risorse, persone e capitali di un altro stato.
L’altro concetto è quello dell’internazionalizzazione del mercato: in questo caso vuol dire che sono
i mercati che si integrano. Immaginiamo di avere un mercato chiuso, ossia un mercato dove esistono
delle forti politiche protezionistiche, ossia politiche che proteggono il mercato interno. Nel 1957 col
trattato di Roma viene istituita la comunità europea, che per uniformare tutto il suo mercato attua la
politica di abolire i dazi e rendere possibile la movimentazione dei beni tra i diversi paesi”; si crea
quella che si chiama un’area unica di libero scambio. Nel 1957 erano pochi i paesi che
partecipavano alla comunità europea (paesi fondatori: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda,
Lussemburgo). La comunità europea nasce come una comunità di libero scambio; siamo nel periodo
del boom economico. Creando una grande area di libero scambio si sarebbe facilitato il commercio,
perché i dazi limitavano il commercio; quindi togliendo i dazi si voleva dare ancora più impulso alla
crescita economica perché si iniziava a esportare i propri prodotti agli altri paesi. Questo è un esempio
di internazionalizzazione del mercato, ossia un sistema economico aperto in cui si realizzano gli
scambi internazionali senza barriere commerciali. L’internazionalizzazione del mercato è molto più
rilevante dell’internazionalizzazione delle imprese, perché quest’ultima è qualcosa che dipende dalla
singola scelta dell’impresa, viceversa l’internazionalizzazione del mercato è una scelta di carattere
politico, ed è fatta per facilitare la crescita economica; aumenta la concorrenza, ma stimola anche un
adeguamento delle imprese alla competizione.
Sempre nei primi anni ‘60, nell’ambito della comunità europea si è deciso di mettere in atto la prima
politica comune, cioè una politica che riguardasse tutti i paesi della comunità europea. Questa prima
politica comune è stata la POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA. Nel contempo i paesi
mettevano dei dazi sui prodotti che venivano da fuori della comunità europea; questo perché
all’interno dell’Unione Europea si è deciso di mantenere un prezzo dei prodotti agricoli molto più
elevato degli altri mercati mondiali. Il passaggio dall’internazionalizzazione del mercato alla
globalizzazione è sostanzialmente il trasferimento del concetto di area di libero scambio da gruppo
di paesi alla globalità. Di aree di libero scambio ce ne sono diverse, per esempio c’è un’area tra Stati
Uniti, Messico e Italia, poi tra i paesi dell’America latina... Si ritiene che un maggior commercio
mondiale possa facilitare uno sviluppo economico; poi in realtà ci sono delle opinioni contrapposte,
perché secondo alcuni invece la globalizzazione e la liberalizzazione del commercio tende poi a
penalizzare i paesi più poveri.
Ho usato la parola protezionismo e la parola liberalizzazione (diverso dalla parola liberale, che è una
dottrina politica): Protezionismo vuol dire mettere in atto delle politiche che tendono a proteggere
l’economia di una certa nazione, quindi si usano i dazi; siccome temo la competizione allora mi
proteggo con dei dazi. Il liberismo è il contrario, ossia riduco tutti i dazi perché sono convinto che la
liberalizzazione dei mercati favorisca un migliore crescita economica.

MODALITA’ DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
1. partiamo dal commercio internazionale, dove la presenza all’estero è limitata al prodotto, quindi
io produco il prodotto in Italia dopodiché lo esporto all’estero. Attenzione, questa cosa non è
prerogativa delle grandi imprese (che comunque sono facilitate perché hanno più canali
internazionali), ma ci sono una miriade di piccole imprese che esportano. In Lombardia è pieno di
imprese alimentari che esportano i loro prodotti all’estero. Sapete qual è il principale prodotto
alimentare che noi esportiamo? il vino. Per esportare all’estero non serve molto, basta una persona
che si occupa di aspetti commerciali e che crea contatti con l’estero. Ci sono anche tante imprese
che importano, ad esempio tutte le imprese che producono caffe che deve essere importato dalla
fascia tropicale. Quindi bisogna andare ad acquistare nei paesi produttori, come nel caso del té, del
caffé, del cacao.... Quindi anche l’import genera un commercio internazionale. Pensiamo a un altro
caso: la pasta, che è di origine italiana e ne esportiamo tantissima. Il volume economico è inferiore
di poco a quello del vino. Per quanto riguarda la materia prima, utilizziamo solo grano duro
italiano? Assolutamente no, quasi il 50% del grano duro è di importazione. Lo importiamo da una
serie di paesi, come Canada, Stati Uniti, Ucraina, Russia… e lo importiamo perché il grano in
Italia non è sufficiente. Quindi in questo caso abbiamo un flusso di importazione di materia prima,
l’elaborazione in Italia e poi l’esportazione del prodotto finito.

2. Poi abbiamo l’investimento diretto estero, che si divide in 3 grandi categorie: le filiali
commerciali, le filiali produttive e le acquisizioni:
 Le filiali commerciali  ipotizziamo di avere un’impresa che esporta molto in un mercato
estero, supponiamo in Germania, che è uno dei partner commerciali più importanti per l’Italia;
se un’impresa grossa con un fatturato considerevole inizia a esportare tanto in Germania, può
stabilire direttamente un ufficio a Berlino, perché con questo ufficio avrà delle persone della
propria impresa che gestiranno tutte le vendite del prodotto in loco, che vuol dire conoscere il
consumatore tedesco e fare campagne pubblicitarie mirate. Quindi si può essere una struttura
stabile che accompagna le vendite del prodotto nel paese di destinazione. Questo avviene
quando le vendite sono importanti, quando il giro di affari è una cosa ingente. Quindi le filiali
commerciali sono quelle che si occupano della vendita del prodotto che è stato prodotto in Italia.
 Le filiali produttive, come il caso della Barilla che ha aperto uno stabilimento negli Stati Uniti,
quindi produce il prodotto direttamente nel territorio di esportazione. In alcuni settori come nel
tessile è molto diffusa questa cosa che si chiama out-sources, cioè siccome ci sono dei costi di
produzione molto più bassi (ad esempio in Cina, Vietnam…) allora si va a produrre in questi
paesi e poi si importa in Italia; in ambito alimentare questo meccanismo non c’è, perché c’è il
problema della deperibilità, la diversità della materia prima, prodotti DOP e IGP perdono di
significato, aumenta il costo per il trasporto (che per i prodotti alimentari è molto maggiore di
quelli tessili, perché questi li posso comprimere mentre il cibo contiene acqua e non si può
comprimere).
 Acquisizioni, pensiamo al caso di Lactalis (gruppo industriale agroalimentare francese che
opera nel settore dell'industria lattiero-casearia), che ha comprato tantissime aziende in Italia
(es. Parmalat). Perché ha comprato queste imprese? Questa è un’altra internazionalizzazione
ma che non è né una filiale commerciale, né una filiale produttiva. Ad esempio Galbani ha
acquistato le quote di mercato di diverse imprese in Italia; ha acquistato i loro prodotti, i loro
brevetti, il loro marchio… questo è un altro modo di internazionalizzazione che si chiama
investimento diretto all’estero. Anche la Barilla ha acquistato imprese all’estero. Nel caso
dell’acquisizione parliamo di qualcosa di più della filiale produttiva, perché non si è solamente
uno stabilimento in loco che produce prodotti, ma si acquistano i prodotti e il maschio delle
altre imprese in loco.
 Poi ci sono gli accordi commerciali, ossia un’impresa si mette d’accordo con un’altra impresa
di un altro paese, in modo che la seconda distribuisca nel proprio paese i prodotti della prima.

Ora vediamo un po’ nell’ambito del sistema agroalimentare come possono configurarsi le tre tipologie
che abbiamo detto a seconda che parliamo di agricoltura, di industria alimentare e di distribuzione.
Nel primo caso, agricoltura, si può parlare di commercio internazionale? Assolutamente si, ad
esempio il grano duro che viene importato in Italia per fare pasta: ma il mercato delle commodities
agricole è molto importante (riso, cereali, olio, soia) ed è un mercato che sta molto crescendo. Ci
possono essere delle filiali commerciali fatte da imprese agricole? No, perché sono talmente piccole
che non possono mettere in atto delle filiali commerciali all’estero. Quello che però possono fare è
comprare un’altra azienda agricola all’estero; si possono fare accordi in ambito di aziende agricole?
No, perché non esistono.

Industria alimentare: possono fare commercio internazionale (pensiamo a yogurt, caffe, salumi); si
possono creare filiali commerciali; si possono fare filiali produttive e acquisizioni; quindi si possono
percorrere tutte le forme di internazionalizzazione.

Distribuzione: non fa commercio internazionale, ma vende! Però può fare le proprie filiali
commerciali, che è proprio il punto vendita. Ad esempio il Carrefour ha aperto i suoi punti vendita in
tutto il mondo, quindi sono filiali della distribuzione. Ovviamente non ci sono filiali produttive perché
la distribuzione non produce. Il Carrefour ha acquistato un supermercato in Italia che si chiamava
GS. Anche qui poi si possono fare accordi sulla distribuzione. Quindi in questo caso abbiamo sia
filiali commerciali e sia acquisizioni.
Le imprese italiane della distribuzione sono internazionalizzate, cioè hanno anche punti vendita
all’estero? No, Esselunga, Coop ecc non hanno supermercati all’estero. Carrefour invece è secondo
distributore al mondo dopo Walmart, che è distribuito in tutti gli USA e in Europa; Carrefour è
diffusissimo in tutto il mondo. C’è un effetto legato all’internazionalizzazione della distribuzione
sull’industria alimentare? Il fatto che Carrefour sia cosi diffuso in tutto il mondo, ha poi degli effetti
sull’industria alimentare francese? Assolutamente si, quando Carrefour andrà a vendere in Cina e
vendere i prodotti francesi; quando venderà in brasile venderà principalmente prodotti francesi.
Quindi avere un distributore così internazionalizzato come Carrefour avrà grossi benefici
sull’industria francese, proprio perché funziona da leva. Poi venderà anche prodotti locali, però
ovviamente ci sono molti prodotti francesi. Noi non abbiamo catene di supermercati all’estero, e
questo un po’ ci penalizza.

Quali sono le finalità dell’internazionalizzazione? Perché andiamo a esportare? Innanzitutto,


commercio internazionale: si va all’estero per aumentare le vendite; si va all’estero quando nella
propria realtà nazionale non si riesce più a crescere, nel senso io ho un buon prodotto, vendo in Italia,
raggiungo una buona quota di mercato. ma non posso andare oltre. Allora provo a vendere all’estero,
quindi esporto per CERCARE NUOVO MERCATO. Oppure se lo vedo sul fronte importazioni lo
faccio per portare un prodotto che in Italia non c’è. Quando si fanno investimenti diretti esteri le cose
cambiano un po’. anche qui si espande il mercato. Posso anche pensare: vado a fare uno stabilimento
dove c’è materia prima, per esempio caffe, cacao, banane in America.. però in realtà non è molto
seguito. Ma lo posso fare anche per ridurre i costi di lavoro. Nel tessile si usa questo meccanismo di
andare a produrre in qualche paese dell’Asia dove i costi di lavoro sono più bassi e poi si importa in
Italia il prodotto finito. Però cosa può succedere? Che se io ad esempio esporto un certo prodotto in
Cina, e ad esempio ci potrebbero essere i vantaggi grazie ai costi più bassi, forse mi conviene produrre
direttamente là. Oppure si possono ridurre i costi di trasporto, pensiamo a Barilla che ha aperto uno
stabilimento in America, è chiaro che trasportare tutta la pasta in Italia dagli USA può essere costoso,
quindi produco direttamente lì.
Attualmente con la globalizzazione le politiche protezionistiche si sono molto ridotte ma ci sono
tutt’ora; nel momento in cui io vado a fare un prodotto in Italia e poi lo esporto per esempio negli
USA, posso imporre politiche protezionistiche, che riguardano ad esempio l’etichettatura, oppure sul
batterio Listeria, che soprattutto negli USA ha tolleranza zero. Nel momento in cui io produco
direttamente lì, evito tutte le problematiche del protezionismo perché devo conformarmi con le leggi
che esistono.
Un altro problema importante è quello delle fluttuazioni monetarie. Vi faccio un esempio, secondo
voi quanto è il cambio dollaro-euro attualmente? Un euro vale 1.09 dollari. Cosa vuol dire? un dollaro
vale di meno, servono più dollari per acquistare un euro. Supponiamo di avere all’inizio una parità,
ossia un euro vale un dollaro. Io sono un produttore italiano, produco vino e lo esporto negli USA,
dove lo vendo a 10 $ alla bottiglia, dopodiché i 10 dollari li porto in Italia e li cambio in 10 euro;
supponiamo che questo accade al tempo t1, mentre al tempo t2 c’è una svalutazione del dollaro, per
cui un euro mi vale 1.5 dollari, il prezzo però rimane lo stesso. Quindi esporto il mio vino a 10 dollari,
però adesso ci vogliono 1.5 dollari per portarli in euro. Quindi questa operazione qui quanti euro mi
da? 6.50 euro. Attenzione: che cosa succede quando il dollaro si deprezza rispetto all’euro? Gli
esportatori guadagnano molto meno; l’esportazione ci perde. Immaginiamo che l’euro si svaluti, in
questo caso il prezzo rimane lo stesso, però quando converto i dollari in euro ho un valore più alto.
Le esportazioni in questo caso sono assolutamente avvantaggiate. In questo caso posso abbassare il
prezzo di vendita così che aumento le vendite, e quindi aumenta ancora di più il mio ricavo. Questi
eventi monetari incidono molto sul commercio internazionale, nel bene e nel male. Quindi quando
l’euro è forte, come in questo caso, non è sempre bene per le imprese, perché abbiamo difficoltà a
esportare.
Se ci sono forti fluttuazioni monetarie gli investimenti diretti all’estero consentono di evitare queste
problematiche, perché produco direttamente lì e vendo direttamente in dollari. Un tempo, prima che
ci fosse l’euro, in Europa c’era una crisi monetaria, perché c’erano tutte le diverse monete che
fluttuavano, e l’Italia per cercare di essere competitiva svalutava la propria lira per esportare di più.
L’euro ci ha dato stabilità monetaria.

Ultimo aspetto importante: con l’investimento estero si entra nella realtà produttiva del paese, cioè se
io faccio un’azienda produttiva all’estero, entro nella realtà produttiva, quindi conosco bene quali
sono le leggi, come sono fatti i consumatori… ad esempio in America i gusti della pizza sono
completamente diversi. Essere lì con un’impresa vuol dire anche conoscere tutte queste abitudini e
riuscire a conformarsi a tutte quelle che sono le esigenze del consumatore.

Poi abbiamo gli accordi, che servono per ridurre i costi di distribuzione. Andiamo adesso a parlare di
un modello generale per spiegare il commercio internazionale, che si chiama modello di … min
1:14:40
Questi due studiosi del nord Europa hanno cercato di capire cosa ci fosse alla base del commercio
internazionale, e hanno fatto questo modello molto valido, ma che ha un grosso limite che è quello di
considerare prodotti non differenziati; il concetto è molto interessante: dice che ogni paese ha una
dotazione di fattori (le risorse produttive, il lavoro, l’energia…); ad esempio gli USA hanno petrolio,
hanno molta terra. Quelli che sono i fattori abbondanti sono poco costosi, come il lavoro in Cina e
nei paesi asiatici, dove il lavoro non è un fattore limitante. La terra negli USA è un esempio, perché
costa molto molto meno rispetto a quello che costa in Italia, dove c’è poca pianura. Le risorse scarse
viceversa sono molto costose; da qui nasce il concetto di COSTO COMPARATO, cioè se io vado
a produrre cereali negli USA o li vado a produrre in Italia, avranno un costo basso se prodotti negli
Stati Uniti, mentre in Italia saranno costosi. Quindi, conviene produrre cereali in Italia? No perché
conviene molto di più produrli negli Stati Uniti e poi importarli. Allora, se un paese avrà un vantaggio
in questo costo comparato a quel paese conviene specializzarsi su quel prodotto, che usa le risorse
più abbondanti. Allora in questo senso gli stati uniti sono i più grandi esportatori di cereali nel mondo,
proprio perché hanno un costo comparato basso; in Italia invece pensiamo al vino, grazie a tutta la
zona collinare noi abbiamo un vantaggio comparato su questo prodotto, e infatti l’Italia è uno dei
grandi esportatori di vino nel mondo. Quindi una nazione esporta i prodotti realizzati con fattori più
abbondanti, e importa i prodotti che devono essere realizzati con i fattori più scarsi.

GRAFICO: qui noi abbiamo la solita quantità prodotta e il solito prezzo; immaginiamo di avere
domanda e offerta e immaginiamo di avere un’economia chiusa, ossia ci sono forti barriere
protezionistiche e quindi non è possibile fare esportazione e importazione; in questo caso ci sarà un
prezzo di equilibrio e una certa quantità. Ipotizziamo che il prezzo di questo paese sia molto più
elevato rispetto alla media dei prezzi degli altri paesi; se io a un certo punto tolgo tutte le barriere e
quindi abbasso tutti i dazi, succedere che l’economia diventerà aperta. Allora per ipotesi, io avrò il
prezzo del prodotto che sarà più basso del prezzo del mercato interno; quindi cosa succede? Che il
prezzo nuovo diventa il prezzo del mercato mondiale. Ma se il prezzo è questo, i produttori
diminuiranno la quantità prodotta perché alcuni produttori non riescono a sostenere i prezzi, e quindi
escono dal mercato. Oppure altre aziende cambiano tipo di prodotto. Quindi la quantità prodotta si
riduce a un altro valore, contemporaneamente però la domanda del mercato, siccome il prezzo si è
abbassato, aumenta, e quindi si arriverà a una nuova quantità. Ci sarà una discrepanza tra la quantità
domandata e la quantità offerta. Questa differenza rappresenta il livello delle importazioni; cioè nel
nostro paese verrà importata una quantità che è la differenza tra le due quantità domandata-offerta.
Quindi l’apertura del mercato porta ad un abbassamento del prezzo che ha effetti positivi e negativi;
negativi per la produzione, positivi per la domanda. Quindi il paese diventa importatore.
Adesso invece facciamo un ragionamento simile, e abbiamo sempre un paese chiuso. Supponiamo
adesso di avere un prodotto come il vino e il nostro paese ha un vantaggio comparato quindi il prezzo
del mercato mondiale è più alto del prezzo del mercato interno. Se io apro questa economia cosa
succede? Succederà che il prezzo si adeguerà a quello del mercato mondiale. Mi conviene vendere
all’estero; la disponibilità del prodotto sulla domanda interna si riduce, e il prezzo si alza e l’offerta
aumenta. Cosa è la differenza tra le due quantità Qs e Qd? Sono le ESPORTAZIONI. Nel caso del
vino noi ne produciamo di più di quanto è la nostra domanda, quindi ci permettiamo un vantaggio
competitivo. Quindi il surplus di vino che produciamo lo esportiamo.
LEZIONE 18 ECONOMIA 10 MAGGIO 2017
AVVISO: mercoledì 17 la prof farà lezione nelle ore di fisiologia per un’assenza del prof di fisiologia
(9-12.30).
Gli esami di economia e psicologia sono indipendenti tra loro: se io faccio l’esame di economia
prima di fare l’esame di psicologia devo avvisare il prof di economia (glielo comunico il giorno che
vado a fare il suo esame) in modo che lui possa annotarsi il mio nome. Quando poi, faccio anche
l’esame di psicologia, il prof di psicologia comunica i nomi ed i voti al prof di economia in modo che
lui possa fare la media finale. Per la registrazione del voto finale (media di economia e psicologia)
devo iscrivermi ufficialmente al primo appello disponibile di economia in modo che il prof di
economia possa verbalizzarmi il voto. Se, invece faccio prima l’esame di psicologia il problema non
si pone, perché nel momento in cui vado a fare l’esame di economia comunico al prof di aver fatto
già psicologia e lui avendo già il mio voto di psicologia può verbalizzare subito tutto.
Tra oggi e la prossima lezione dovremmo iniziare e completare l’obesità e iniziare la parte relativa
all’etichettatura con legislazione e studi. Con Banterle dovrete fare la parte della malnutrizione,
politiche per la sicurezza, politiche per la qualità, costi di transazione e tracciabilità. Min.11
ASPETTI ECONOMICI DELL’OBESITA’
Una notizia che mi ha sconvolto è che l’obesità sviluppa più vittime di una guerra ed ogni 10 minuti
una persona muore per colpa dell’obesità, quindi è il caso di sviluppare delle politiche di intervento
più drastiche e più invasive di quelle presenti.
L’obesità è definita come uno sbilanciamento tra entrata ed uscita energetica dell’organismo, è stata
definita come un fenomeno di carattere epidemico e il problema è che non è più una malattia che
riguarda solo alcune parti del mondo; questo perché l’obesità si era inizialmente diffusa come una
patologia che interessava i paesi ricchi ed industrializzati, ma con il passare del tempo si è estesa
anche ai paesi più poveri in cui si è vista una crescita del tasso di obesità.
Il modo più efficiente per misurare l’obesità è la misurazione del BMI, anche se molti studi hanno
dimostrato che il BMI non è così affidabile per poter parlare di tasso di sovrappeso ed obesità, ma
potrebbero esistere delle misurazioni più attendibili, come la circonferenza della vita che permette la
misurazione del grasso addominale.
Gli ultimi numeri del WHO riguardo la diffusione dell’obesità stimano la presenza di 2-3 miliardi di
soggetti in sovrappeso e di 700 milioni di soggetti obesi.
Tutte le politiche realizzate fino a questo momento hanno cercato di risolvere il più grande paradosso
del mondo moderno, ossia lo sviluppo in modo correlato sia dell’obesità (malnutrizione in eccesso)
che della malnutrizione in difetto; tramite continue ricerche si sta tentando di diminuire gli sprechi
alimentari, favorendo l’uso di OGM per sopperire ad una condizione di mancanza continuativa di
alimenti in alcune parti del mondo.
In Italia si ha una situazione meno drammatica rispetto ad altri paesi, ciò significa che se prendiamo
l’Italia e la confrontiamo con paesi che hanno un analogo sviluppo economico ci accorgiamo come
la diffusione dell’obesità in Italia sia molto più contenuta; gli ultimi dati ISTAT del 2016 hanno dato
una media del tasso di obesità in Italia attorno al 10% rispetto al tasso di obesità degli USA pari al
33% e della Gran Bretagna del 25%. Nel momento in cui si introducono delle politiche di intervento,
si identifica la presenza di una condizione di consapevolezza nei soggetti riguardo il problema
dell’obesità, quindi per la presenza del problema dell’obesità percepito dai soggetti si ha l’innesco di
politiche d’azione sempre più mirate alla diminuzione del problema.
(la prof fa l’esempio del fumo, esempio che è applicabile in modo uguale sostituendo il problema del
fumo con il problema dell’obesità).
Si parte dal fatto che lo Stato percepisce un problema con una corrispondente gravità e decide di
intervenire con una mirata politica di intervento; nel caso dell’obesità in Italia non possono essere
applicate delle politiche troppo invasive come la tassazione delle bevande gassate o dei Junk Foods
perché si ha ancora un tasso di obesità troppo basso (10%) ed il problema non è ancora così diffuso,
sentito e pericoloso da determinare azioni drastiche; inoltre, non si ha un singolo fattore direttamente
responsabile della malattia perché l’obesità è definita come una patologia multifattoriale in cui sono
coinvolti diversi fattori (a differenza del fumo, in cui, la sigaretta è considerata la diretta responsabile
di alcune patologie portando a sviluppare una campagna mirata contro il fumo e contro il consumo
delle sigarette).Negli USA queste politiche, ed altre politiche drastiche ed invadenti, possono essere
maggiormente applicate per la presenza di un tasso di obesità maggiore e per maggiore
coinvolgimento della popolazione nella situazione problematica. In Italia, per ora, sono sviluppate
solo delle politiche d’informazione.

Questa è la situazione aggiornata al 2013, ma comunque quello che potete vedere è che sicuramente
i tassi continuano a crescere nelle zone dove questo problema è cominciato e, come vedete, parecchie
sono le parti del mondo dove si registrano questi tassi di sovrappeso ed obesità continuamente
crescenti.
Un cosa che accomuna la malnutrizione per eccesso (obesità) e per difetto è la problematica
dell’accesso al cibo, in cui, nella malnutrizione per difetto si ha completa mancanza di accesso al cibo
con mancanza di sostentamento o mancanza di disponibilità economica dei soggetti verso prodotti
alimentari considerati più sani ma che hanno un costo maggiore rispetto ad altri prodotti (alcune fasce
della popolazione, anche in Italia, non possono accedere a prodotti sani per un loro alto costo e per
bassa disponibilità economia dei soggetti stessi), mentre nella malnutrizione per eccesso si ha un
eccessiva disponibilità di cibo per la popolazione.

In Italia, per quanto riguarda l’obesità, si hanno 3 caratteristiche fondamentali che contraddistinguono
il nostro Paese:
- Rispetto a paesi con analoga situazione di sviluppo economico si ha dei tassi di obesità più
bassi;
- Le regioni del sud Italia hanno tassi di obesità più elevati rispetto alle regioni del nord e questa
è una cosa strana; in Campania o Calabria si hanno tassi di obesità e sovrappeso altissimi
nonostante una migliore qualità delle materie prime disponibili al sud rispetto al nord; questo
può essere spiegato identificando le regioni del sud come caratterizzate da un reddito pro-
capite più basso che può influenzare i processi di acquisto. In realtà quest’ultima
affermazione è solo un’ipotesi perché non si conosce in modo specifico la causa e le
relazioni tra una maggiore presenza di obesità al sud rispetto che al nord.
(La prof dice che non esiste una sola causa ma esistono più fattori che contribuiscono
all’obesità, in quanto non c’è uno spettro di variabile che circoscrivono questa malattia).
- Si ha il problema dell’obesità infantile ed in Italia il numero di bambini/adolescenti (7-11
anni) obesi è il più alto d’Europa; questo problema è molto importante ed è associato all’alta
probabilità di questi soggetti di diventare adulti obesi, aumentando ulteriormente il tasso di
obesità in futuro.
A livello europeo le regioni del Mediterraneo hanno un tasso di obesità relativamente più contenuto
grazie, in parte, anche alla dieta mediterranea che è ampiamente promossa come capace di mantenere
un’adeguata condizione di salute nel soggetto.

(la prof esprime la sua opinione riguardo all’evento a cui ha partecipato e riguardo ad un intervento
che è stato fatto a favore della dieta mediterranea).
Iniziamo a capire qual è il problema economico..
Dobbiamo spiegare il comportamento del consumatore che può portare a sviluppare una condizione
di obesità, che non comprende solo i comportamenti dei soggetti obesi, ma anche i comportamenti di
acquisto specifici verso alcune classi di prodotti perché nel momento in cui si capisce cosa spinge il
soggetto ad acquistare alcuni prodotti lo si può indirizzare verso l’acquisto di prodotti considerati più
sani (healthy) e salutari e provare ad avere dei comportamenti più virtuosi riducendo così una serie
di patologie correlate ad abitudini alimentari sbagliate.
Dobbiamo spiegare cosa sta dietro questa problematica:
Esiste una teoria neoclassica ed una teoria neocostituzionale e noi dobbiamo condividere una delle
due teorie, perché nel momento in cui noi ci approcciamo al problema significa che siamo abbastanza
informati e siamo arrivati al punto che secondo noi l’obesità è il risultato di una scelta consapevole o
il risultato di una scelta inconsapevole. Il consumatore obeso sceglie di consumare un determinato
prodotto in maniera consapevole o in modo inconsapevole perché non sa delle caratteristiche
inadeguate di quel prodotto. La spiegazione sta in questo esempio.
Condividere la teoria neoclassica significa che il consumatore è razionale, che massimizza la sua
utilità ed è perfettamente informato e consapevole (ricorda cosa si intende per teoria neoclassica:
mercato trasparente e consumatore che conosce completamente il prodotto), quindi quando il
consumatore razionale si reca al supermercato, acquista un prodotto (Nutella) in modo cosciente e
consapevole ed è informato perfettamente sul prodotto e sulle conseguenze che quel prodotto causa
alla salute. Questo è il classico esempio di tutta quella parte della letteratura che spiega il
comportamento di una persona in sovrappeso o obesa come il risultato di una scelta razionale e quindi
teoria neoclassica.
Nel momento in cui si passa alla teoria neoistituzionale si sviluppa una differenza fondamentale
rispetto alla teoria neoclassica perché si riconosce la presenza del fallimento del mercato, quindi non
diciamo più che il consumatore va al supermercato ed acquista un dato prodotto (Nutella) perché
conosce in modo completo le relative conseguenze, ma diciamo che il consumatore va al
supermercato ed acquista il prodotto (Nutella) ma non sa bene le caratteristiche del prodotto e le
conseguenze di quel prodotto sulla salute. Questo non significa che non legge l’etichetta ma
semplicemente ignora la presenza di caratteristiche che rendono il prodotto non salutare. Questa è la
differenza che divide in maniera assoluta chi studia l’obesità con un approccio neoclassico-
razionale da chi studia l’obesità con un approccio neoistituzionale con una differenza nella
modalità con cui i soggetti si approcciano alla presenza e sviluppo di una condizione di obesità.
In questa ottica si possono avere sia delle politiche di informazione applicabili a diversi campi, sia
delle politiche in cui oltre all’informazione si deve avere un piano di azione più mirato perché il
consumatore è già consapevole delle conseguenze portate dal consumo di prodotti non sani,
sviluppando una dipendenza da cibo; la presenza di una dipendenza da cibo non rende efficaci le
politiche di informazioni con la necessità di applicare delle politiche più aggressive come le
tassazioni. Nel momento in cui riconosciamo che vi è una dipendenza di cibo o dipendenza da fumo,
delle politiche di informazione non hanno effetto. Es. del fumo: le persone sono consapevoli che il
fumo fa male ma vi è una dipendenza. È più efficace un politica che mira alla tassazione.
Nella teoria neoclassica non esiste un fallimento del mercato perché quando il consumatore va al
supermercato e acquista la nutella in maniera consapevole: è anche il risultato di un mercato che
funziona quindi non bisogna far nulla.
La principale problematica associata all’obesità è il costo diretto ed indiretto collegato ad un soggetto
obeso con costi nella gestione, nello sviluppo di diagnosi e di analisi volte a rilevare e quantificare il
grado di obesità del soggetto e le patologie correlate (costi diretti) e costi indiretti correlati al fatto
che un soggetto obeso non è produttivo e grava sul sistema sanitario nazionale: si parla, così, di
fallimento del mercato perché si è in presenza di un soggetto che essendo obeso grava sul sistema
sanitario che essendo pubblico sviluppa esternalità negativa e induce fallimento (questo esempio può
essere applicato anche al fumo). (la prof ribadisce il concetto di esternalità negativa)
Questa condizione non si sviluppa in presenza di un sistema sanitario privato come quello americano.
Quali possono essere le cause dell’obesità? Se ne hanno molte, alcune più conosciute di altre, come:
- Predisposizione costituzionale: è una concausa su cui non si può intervenire molto.
- Cambiamenti della società: come il passaggio dalla società rurale ad urbana che implica un
cambiamento delle attività dei soggetti durante la giornata in termini di dispendio energetico.
- Rivoluzione tecnologica: sviluppo di prodotti ad alta densità energica con costi bassi che
hanno modificato le abitudini di consumo e non sono così salutari. Si è cercato di andare
incontro alle molteplici esigenze del consumatore fino ad una condizione di saturazione
eccessiva che ha portato in questi ultimi periodo ad un ritorno alle vecchie abitudini come
agricoltura a Km 0, ripristino di vecchie cultivar, ritorno al biologico e poco raffinato. Se voi
mettete insieme tutte queste cose è l’opposto dell’industrializzazione.
- Informazioni e conoscenze: eccessiva informazione del consumatore o mal-informazione del
consumatore con diffusione anche non adeguata di raccomandazioni alimentari. È
fondamentale verificare la veridicità delle informazioni che possono raggiungere il
consumatore. L’assenza di adeguate conoscenze del soggetto nel campo nutrizionale ed
alimentare che non permettono adeguata valutazione del grado di veridicità delle informazioni
disponibili.
- Cause psicologiche: condizioni di dipendenza da cibo (fame compulsiva) ed assenza di
adeguate politiche di intervento che possono ridurre l’aspetto psicologico dell’obesità.

LEZIONE 19 del 16/05/2017


N.b.: Il Prof. riprende l’argomento della lezione numero 17 per concluderlo.
INTERNAZIONALIZZAZIONE
La scorsa volta abbiamo parlato delle modalità di internazionalizzazione (commercio internazionale,
investimento diretto estero e accordi) e di come queste si possono coniugare con i diversi settori
dell’agroalimentare (agricoltura, industria alimentare, distribuzione).
Abbiamo visto le motivazioni che spingono le imprese all’internazionalizzazione, quali sono le
finalità.
Abbiamo poi affrontato il tema delle politiche protezionistiche, in quanto abbiamo parlato delle due
scuole di pensiero, da una parte il liberismo che dice “liberalizziamo tutti i mercati e facilitiamo il
commercio internazionale” e dall’altra il protezionismo che, viceversa, dice “proteggiamo
l’economia, soprattutto quando i produttori non sono particolarmente competitivi, in particolare da
situazioni in cui c’è elevata competitività e quindi c’è il rischio che porti via quote di mercato”.
Abbiamo parlato anche delle fluttuazioni monetarie: vi ho fatto l’esempio dollaro-euro, di come varia
il loro rapporto e di come questo influenza il commercio internazionale, perché quando l’euro è forte
le esportazioni europee verso gli Stati Uniti sono paradossalmente svantaggiate.

Abbiamo visto il modello di HECKSCHER-OHLIN: questo modello, sebbene abbia diverse


semplificazioni, è molto rappresentativo delle motivazioni che spingono le imprese, quindi i Paesi, al
commercio internazionale. Ricordate che in questo modello i prodotti non sono differenziati e i
mercati sono concorrenziali: ogni Paese ha determinati fattori che sono abbondanti (poco costosi) ed
altri fattori che sono scarsi (molto costosi): ad esempio il lavoro in Cina o in Vietnam è abbondante
e il costo del lavoro è molto basso; la terra negli Stati Uniti è molto abbondante e assolutamente
economica, in Italia invece è molto costosa perché ce n’è poca (1/3 in montagna e 1/3 in collina, che
è molto difficile da coltivare perché aspra, 1/3 in pianura).
Dal fatto che esistono fattori abbondanti e fattori scarsi deriva il concetto di COSTO COMPARATO:
a livello internazionale occorre comparare i costi di diversi Paesi, e se un Paese ha i costi più elevati
comparativamente a un altro Paese, quel Paese lì avrà uno svantaggio nel commercio internazionale,
per quel prodotto.
Ad esempio se l’Italia (dove il costo della Terra è alto) produce cereali e confronto il costo di questi
cereali rispetto a quello dei cereali prodotti negli Stati Uniti (dove il costo della terra è basso), capite
che il costo dei cereali italiani sarà più alto.
Quindi gli Stati Uniti hanno un costo comparato più basso, quindi hanno un VANTAGGIO
COMPARATO, cioè nel commercio internazionale si trovano avvantaggiati.
Quindi questo modello dice che ad ogni Paese conviene specializzarsi su quei prodotti dove c’è il
vantaggio comparato, perché così riescono ad esportarli e a vincere la concorrenza perché il mio
prodotto ha questo vantaggio perché i costi di origine sono più bassi rispetto a quelli di altri Paesi.
Se tutti si specializzano nei prodotti dove hanno un vantaggio comparato viene massimizzata l’utilità
sociale complessiva a livello mondiale.
Quindi ad esempio l’Italia non ha un vantaggio a specializzarsi nei cereali, ma ha un vantaggio a
specializzarsi in produzioni che utilizzano meglio il terreno, dato che ce n’è poco, ad esempio per il
vino, dove l’Italia riesce ad avere un vantaggio comparato rispetto a tanti altri Paesi, infatti siamo
grandi produttori (specializzati) ed esportatori di questo prodotto.
Pensate alla varietà di vino che c’è in Italia nelle diverse regioni, dal Piemonte alla Sicilia, una varietà
enorme e dei vini che sono eccellenti, pensiamo al Barolo piemontese, al Nero d’Avola siciliano…
Abbiamo quindi descritto il modello di HECKSCHER-OHLIN attraverso questo grafico:

1) In questo caso (assolutamente teorico) supponiamo di


avere un Paese chiuso (non esistono importazioni ed
esportazioni), con domanda e offerta, e un prezzo di
equilibrio Pi che dà origine a questa quantità Qi.
Ipotizziamo che ad un certo punto si aprano le frontiere (sono
adesso possibili sia le importazioni che le esportazioni);
supponiamo che il Paese sia l’Italia e il prodotto i cereali: il
prezzo Pw è più basso del prezzo Pi, cioè una volta che noi
abbiamo il mercato, il prezzo dei cereali, che viene
determinato sulla base della produzione americana, è un
prezzo più basso di quello che si ha in Italia, perché abbiamo
detto che gli Stati Uniti hanno un vantaggio comparato, a seguito del fatto che hanno un costo
comparato più basso.
Quando si apre l’economia e il prezzo dei cereali è più basso di quello interno, succede che i produttori
interni non produrranno più la quantità Qi, ma una quantità più bassa Qs, perché naturalmente non
riescono a “starci dentro” con il prezzo Pw a coprire i costi di produzione, cioè siccome abbiamo tanti
produttori che hanno dimensioni differenti, solamente quelli che hanno una certa dimensione, che
riescono a raggiungere un’economia di scala e ad essere abbastanza competitivi sul mercato possono
continuare a produrre cereali. Gli altri, quando il prezzo passa da Pi a Pw o chiudono la loro azienda
e spariscono dal mercato oppure si mettono a produrre qualcos’altro. L’effetto complessivo è che la
produzione si riduca da Qi a Qs.
Se il prezzo diminuisce l’altra conseguenza è che la domanda al posto di essere Qi aumenta e diventa
Qd , perché la riduzione del prezzo lungo la curva della domanda porta ad un aumento della domanda,
sia quella delle materie prime che del prodotto finito.
Quindi ad esempio nel mercato italiano c’è una situazione in cui la domanda è aumentata, la
produzione è diminuita. Se il mercato fosse chiuso a fronte di un aumento della domanda e della
riduzione della produzione aumenterebbero i prezzi; ma siccome siamo in un mercato aperto la
differenza che c’è tra la domanda e l’offerta viene ripagata dalle IMPORTAZIONI, cioè sono le
importazioni, che rappresentano questa differenza tra Qd e Qs , che vanno a sostituire l’offerta interna,
proprio perché viene importato un prodotto che è competitivo, realizzato su scala nazionale.
In effetti, se ci pensate, in Italia per la produzione di cereali va proprio così, cioè pensiamo ad esempio
alla produzione di grano duro: ne usiamo tantissimo per la produzione della pasta ma solo il 50% di
questo è di origine italiana, il resto è importato, perché noi non siamo così competitivi nella
produzione di grano duro.
2) Vediamo adesso la situazione in cui il Paese è
esportatore: torniamo all’esempio di prima, il prezzo è
quello del mercato chiuso, quindi prezzo di equilibrio Pi e
quantità di equilibrio Qi.
Questa volta però il paese (Italia) ha un vantaggio
competitivo nella produzione. Allora quando si apre il
mercato, il prezzo del mercato mondiale, ad esempio del
vino in Inghilterra, è più alto del prezzo del mercato interno;
i produttori italiani in questo caso esportano il vino italiano
all’estero. Innanzitutto l’aumento del prezzo determina un
aumento della quantità prodotta e questo viene assorbito
soprattutto dai mercati esteri; anche nel mercato interno c’è un aumento del prezzo, che ovviamente
si allinea con il mercato mondiale, perché i produttori tendono ad esportare e quindi c’è meno vino
sul mercato nazionale.
Questo aumento del prezzo porta ad una riduzione della domanda, ovviamente, però paradossalmente
l’offerta aumenta. La domanda interna si riduce la l’offerta interna aumenta perché siamo in
un’economia aperta e quindi i produttori producono di più per l’esportazione. La differenza che c’è
tra Qs’ e Qd’ è la quantità esportata, al prezzo più elevato Pw, nel mercato internazionale.

Quindi due situazioni completamente diverse:


- nel primo caso dove c’è uno svantaggio comparato, l’Italia all’apertura del mercato assiste ad una
perdita da parte dei produttori, perché il prezzo di vendita è più basso: alcuni chiudono l’azienda, altri
riescono a stare in piedi perché hanno costi più bassi, però ovviamente il prezzo più basso per i
produttori non è mai una bella cosa; quindi in questo caso l’apertura è sfavorevole è sfavorevole per
i produttori, ma per i consumatori è un vantaggio.
- per i prodotti per cui esiste un vantaggio comparato, invece, all’apertura del mercato il prezzo
aumenta, e questo aumento porta ad un aumento della produzione Qs’, quindi i produttori sono
contentissimi, possono produrre di più e hanno dei profitti molto più elevati, mentre i consumatori lo
sono un po’ meno.

Sapete che quando si parla di globalizzazione, dell’internazionalizzazione, ci sono quelli favorevoli


e ci sono quelli contrari; recentemente, prima che venisse eletto Trump, c’era in ballo un grossissimo
negoziato che riguardava tutta l’Europa con gli Stati Uniti, che si chiamava “TTIP”, per favorire il
commercio internazionale e l’integrazione tra le due economie in un’ottica di sviluppo; alcuni erano
assolutamente d’accordo, altri no. Ho fatto un lavoro insieme alla Prof.ssa Cavaliere e abbiamo
dimostrato che in realtà la situazione non è così tutto a favore/tutto a sfavore, perché dipende dai
singoli prodotti, dalle singole situazioni. Capite che per i produttori di vino italiano l’accordo TTIP
poteva rappresentare un rafforzamento delle nostre esportazioni di vino nel mercato, cioè una
situazione di questo genere, perché miglioravano le condizioni per l’esportazione. In quest’ottica
l’accordo funziona bene. Viceversa, per le produzioni di cereali, si rischiava di ridurre ulteriormente
la nostra, già poca, produzione, perché il TTIP avrebbe creato un aumento delle importazioni dagli
Stati Uniti.
Questo per dire che quando si fanno queste analisi non vanno mai bene le posizioni ideologiche tutti
a favore/tutti contro, bisogna ragionarci sopra prima di prendere decisioni, molto spesso la
convenienza dipende da diverse situazioni, come abbiamo appena visto (per il vino favorevole, per i
cereali no).

Quindi le situazioni sono differenziate sul modello di HECKSCHER-OHLIN a seconda che abbiamo
un vantaggio comparato, perché abbiamo le caratteristiche che ci permettono di produrre bene quel
prodotto con costi contenuti, oppure abbiamo uno svantaggio comparato. Naturalmente questo
modello è troppo semplicistico perché considera il prodotto INDIFFERENZIATO, il problema della
differenziazione del prodotto qui non viene preso in considerazione.

Quando parliamo di apertura del commercio internazionale, parliamo sostanzialmente della riduzione
delle “barriere protezionistiche” o “strumenti di protezione dei mercati”, che sono dei meccanismi
per proteggere il mercato, impediscono il commercio internazionale. Proprio perché si parla di
protezione si parla anche di barriere, che si possono dividere in due categorie:

- barriere tariffarie: sono ad esempio I dazi, il dazio è una tassa sulle importazioni; supponiamo che
io dica che se questo è il prezzo Pi sul mercato interno e voglio sfavorire le importazioni, il governo
mette una tassa di questo genere (un dazio) e l’effetto è quello di aumentare il prezzo da Pi a Pi + d
(cioè dazio) perché l’importatore scarica questa tassa, che deve pagare, sul mercato finale.
Supponiamo che io sia un commerciante, e compro il grano negli Stati Uniti e lo rivendo in Italia;
acquisto il grano a 50 euro per tonnellata, arrivo in Italia e devo pagare il dazio di 20 euro per
tonnellata. A quanto lo venderò nel mercato italiano? A 70 euro, in modo tale che il prezzo maggiorato
non mi fa perdere nulla, ma va a compensare il dazio che ho pagato. L’effetto del dazio è quello di
aumentare questo prezzo di 20 euro per tonnellata, cioè da 50 a 70, quindi il valore sarà 70 euro per
tonnellata. Il dazio o “barriera tariffaria” è una tassa (quantitativa) che si fa pagare a colui che sta
importando il prodotto sulla importazione per tonnellata o per numero.

- barriere non tariffarie  General Agreement on Tariff and Trade (Gatt); World Trade
Organisation (WTO)
Vi faccio un esempio pratico: in Inghilterra il volante nelle auto non si trova sulla sinistra, ma sulla
destra, e anche il senso di circolazione è opposto al nostro; quando l’Inghilterra è entrata nell’UE
questo non andava bene, perché era una differenziazione rispetto allo standard che esiste all’interno
dell’UE, che prevede il volante sulla sinistra e la guida sulla destra. Perché gli inglesi hanno il volante
sulla destra e perché hanno voluto mantenere questa abitudine? Immaginiamo di avere un’impresa di
automobili italiane che vuole esportare in Inghilterra: ha una linea produttiva per tutta Europa e gran
parte del Mondo che prevede le macchine con volante sulla sinistra, se vuole esportare in Inghilterra
deve fare delle macchine apposite con il volante sulla destra, e ovviamente fare una cosa del genere
non è facile, bisogna adattare tutta la catena produttiva. Questa è un’abitudine inglese ma si configura
come barriera non tariffaria, come una norma che tende a scoraggiare le importazioni.
Ci sono tantissime barriere non tariffarie e sono tutte norme che esistono nei diversi Paesi, che molto
spesso vengono fatte per ridurre le importazioni, il commercio internazionale. Sono più subdole
rispetto alle barriere tariffarie.

Immaginiamo adesso che io sia un esportatore americano e che voglia commercializzare della soia
nel mercato europeo, mi troverò di fronte ad una normativa europea che dice che ci sono regole molto
strette per quanto riguarda gli OGM, che si possono essere commercializzati solo se autorizzati, solo
se hanno passato dei protocolli complicati. Negli Stati Uniti tutta la soia è OGM, perché per loro non
esiste il principio di precauzione (che dice che: se c’è il dubbio che una componente di un alimento
possa nuocere alla salute, questa componente non può essere messa in commercio); negli Stati Uniti
è al contrario, cioè quando esiste la prova che una componente di un alimento possa essere nociva
per la salute, allora viene ritirato. Ma fin quando non esistono delle prove che dimostrino che sono
nocive, allora il prodotto può essere venduto.
Se ci mettiamo quindi nell’ottica di un commerciante statunitense che vuole esportare la soia dagli
Stati Uniti e portarla in Europa, si trova di fronte ad una normativa sugli OGM che è una barriera non
tariffaria.
Stessa identica cosa per la carne e gli ormoni (per loro non è vietato somministrarli agli animali negli
allevamenti, da noi si).
Stessa cosa per la normativa sulla Listeria che c’è in Europa, che è diversa da quella che c’è negli
Stati Uniti.
Se voi andate negli Stati Uniti ed esportate il prosciutto crudo e beccano Listeria vi bloccano, eppure
in Europa non è così, si sa che in Europa ci sono casi di intossicazione dovuti da Listeria; allora hanno
messo barriere non tariffarie. Capite che quando noi parliamo per esempio della normativa sanitaria
il confine tra una normativa che protegge il consumatore e una normativa che viceversa protegge il
mercato è molto difficile da definire. Nel senso che ci sono tante situazioni in cui vengono messe
delle normative che apparentemente vengono fatte per proteggere il consumatore ma poi tendono
anche proteggere il mercato dall’importazione. Queste sono tutte barriere non tariffarie. A livello
mondiale c’è una disputa tra Europa e Stati Uniti proprio su questa normativa perché loro dicono voi
state usando la carne e gli ormoni solo per proteggere il mercato, non c’è nessuna prova scientifica
che gli ormoni poi possano essere nocivi per la salute. L’Europa invece paga le multe ma poi continua
a tenere questa normativa sul divieto di utilizzare gli ormoni nella produzione di carne.
Qual è il luogo dove si discutono tutte queste faccende legate al commercio internazionale: la World
Trade Organization che ha sede a Ginevra e che è l’organizzazione mondiale del commercio.
In particolare negli ultimi 20-30 anni c’è stata una tendenza alla liberalizzazione del commercio, cioè
di pari passo alla globalizzazione e allo sviluppo tecnologico che favoriva un maggior commercio
internazionale(abiti, aerei ecc), maggiori relazioni commerciali (grazie a internet ecc), il trasporto
delle persone, e quindi di fronte a questo sviluppo tecnologico e sociale anche nell’ambito
dell’economia e in particolare del commercio internazionale c’è stata un’apertura del commercio cioè
si sono ridotte tutte quelle barriere tariffarie. Queste si sono ridotte proprio con l’obiettivo di favorire
il commercio internazionale. Le barriere non tariffarie sono più complicate da ridurre. Però per
esempio nell’ambito degli alimenti, quando un paese vuole mettere una norma sulla sicurezza
alimentare deve notificarla al WTO e viene discussa anche nell’ambito del codex alimentarius che è
un codice di leggi che viene conservato presso la FAO perché c’è sempre il dubbio che il paese ….
una norma che apparentemente sia a favore della sicurezza alimentare ma in realtà sia una norma
restrittiva della concorrenza. L’UE propende verso la sicurezza alimentare però d’altra parte l’eccesso
di normativa sulla sicurezza alimentare va a deprimere la possibilità dei paesi in via di sviluppo di
esportare i loro prodotti nei paesi industrializzati. Questo è un problema che va dibattuto.
I DAZI
Adesso sinteticamente vi faccio veder come funzionano i dazi.
I dazi non sono altro che una tassa sulle importazioni. Qual è l’effetto del dazio? E’ quello di far
aumentare il prezzo interno, al prezzo più alto la produzione cresce da Qs a Qs’, siccome il prezzo è
più alto allora la quantità prodotta rimane più alta. Senza dazio il prezzo del prodotto importato
sarebbe 50, ma siccome c’è un dazio di 20 il prezzo del prodotto importato diventa 70. Allora se il
prezzo è 70 abbiamo molti più produttori di quel prodotto e la produzione passa da Qs a Qs’, quindi
prezzo più alto con quantità più alta.
Se il prezzo è 50 la quantità domandata sarebbe il mio QD, ma se il prezzo è 70 la quantità domandata
naturalmente si riduce e diventa QD’. Allora l’effetto complessivo del dazio è quello di aumentare la
produzione interna infatti il dazio è una barriera protezionistica che avvantaggia i produttori e
viceversa riduce la domanda interna.
Le importazioni con il dazio si riducono perché prima erano da QD a QS, adesso sono da QD’ A QS’.
Il dazio è qualcosa che riduce le importazioni, avvantaggia i produttori nazionali perché il prezzo è
più alto e possono produrre di più e svantaggia viceversa i consumatori perché avrebbero dei prodotti
con dei prezzi più bassi invece pagano dei prezzi più alti. Complessivamente l’operazione del dazio
è svantaggiosa dal punto di vista dell’essere sociale perché questa misura porta dei vantaggi ai
produttori e degli svantaggi ai consumatori ma dal punto di vista dell’interesse sociale il vantaggio
che hanno i produttori è minore rispetto allo svantaggio che hanno i consumatori, ecco perché questi
dazi tendono a essere abbassati a livello mondiale.
Come faccio a valutare il commercio internazionale? Se noi siamo in Italia e voglio analizzare il
commercio internazionale qual è l’indicatore più semplice che posso utilizzare? Il saldo assoluto,
spiegato da export e import. Allora io prendo il valore dell’esportazione di un determinato settore (es.
cereali) prendo il valore delle importazioni, quindi facendo export-import ottengo questo saldo
assoluto.

Un pochino più complesso ma più


interessante è il saldo normalizzato, che ha
al numeratore export-import (saldo
assoluto) e al denominatore troviamo la
somma dei due (export + import). Come
mai?
Ipotizziamo di avere un paese che è solo
esportatore di un certo prodotto. Il valore
del saldo assoluto è solo il valore
dell’export. Il saldo normalizzato è 1 .
(es. 50 -0/ 50+0= 50/50 =1)
Poniamo un altro caso: un paese che è solo
importatore. Allora esportazione =0, e l’importazione è -50. sotto abbiamo 0 + 50, quindi tot -1.
Quindi +1 è la soluzione di un paese solo esportatore; -1 è la soluzione di un paese solo importatore.
Poi c’è il caso in cui le esportazioni sono uguali alle importazioni. Quindi 50-50=0, 50+50=100,
quindi 0/100=0; quindi quando le esportazioni sono uguali alle importazioni il saldo normalizzato è
0.
Questo indicatore ci dice che se il valore -1 il paese è importatore, se il valore è 0 il paese non è ne
esportatore né importatore, se il valore è +1 il paese esportatore.
Supponiamo che sia -0,5 vuol dire che il paese è un importatore NETTO, cioè importa molto più di
quanto esporta, e se le esportazioni sono pari a +0,5 è al contrario.
Altra cosa importante è l’incidenza dell’import e dell’export sul valore della produzione. Per es
l’Italia ha un fatturato di 120miliardi di euro dell’industria alimentare, le esportazioni ammontano a
25 miliardi di euro, così io ogni anno posso fare 25 su 120 e trovo quanto è il valore del fatturato
prodotto in italia che viene esportato. Questa è l’incidenza dell’esportazione sul fatturato tot. Ci da
un’idea di quanto quel settore sia aperto e indirizzato a
esportare.
In questa tabella trovate il commercio estero dei principali
comparti agroalimentari con importazioni, esportazioni e
saldo normalizzato(in%). Trovate tutto il settore primario,
cioè tutti i prodotti dell’agricoltura, poi tutti i prodotti
dell’industria alimentare, e poi il totale. La situazione per
import ed export agricolo: noi importiamo cereali per 2,6
miliardi di euro, quanto esportiamo? Guardate il saldo
umanizzato è -91%, vicino a -1. Cioè importiamo un sacco di
cereali e non ne esportiamo niente.
Siamo invece esportatori netti degli ortaggi (+0.25) e nella frutta.
Allora totale del primario: importazione per 13 miliardi,
esportazione per 6 miliardi, siamo degli importatori netti cioè
importiamo un sacco (cereali, cacao, caffè, prodotti tropicali,
animali vivi..) e esportiamo ortofrutta.
Nella parte industriale, carni fresche e congelate importiamo 4
miliardi e esportiamo 2,7miliardi. Importiamo soprattutto latte e
formaggi ed esportiamo tutti i nostri prodotti come grana, parm.
Reggiano, pecorino, gorgonzola, taleggio, provolone..
importiamo più olio, invece il vino 5 miliardi di esportazione.
Allora tutta la parte complessivamente è maggiore l’esportazione (vino, formaggi, derivati del
pomodoro, e pasta) rispetto all’importazione(carni e pesci congelati, animali vivi, oli). La parte
agricola fortemente negativa per tutte le importazioni di cereali e prodotti tropicali, nella parte
industriale la parte positiva sono vino, pasta,, formaggi, derivati del pomodoro. Complessivamente la
nostra bilancia agroalimentare però è negativa, siamo dei grandi trasformatori ma carenti nella
produzione agricola.
LA SOTTONUTRIZIONE
La sottonutrizione fa
riferimento a una mancanza
di un adeguato e stabile
apporto calorico giornaliero.
Senza questo un individuo
non può svolgere una vita
attiva. La condizione di
sottonutrizione non riguarda
periodi di breve durata ma
una situazione permanente
che riguarda soprattutto
donne e bambini pensate ai
bambini che senza un
adeguato apporto calorico
non riescono a svilupparsi
bene.
Chi fa le stime sulle persone
sottonutrite? La FAO,
organizzazione mondiale
dell’onu che riguarda nello specifico l’agricoltura e l’alimentazione. In particolare vengono
considerati 3 dati per fare queste stime e questi calcoli:
- valuta la produzione complessiva, importazione, esportazione in modo da arrivare a valutare per via
indiretta una sorta di disponibilità calorica cioè io dico questa è la produzione - l’esportazione +
l’importazione e ho totale di produzione di un prodotto(es. grano), associo le calorie e ho la
disponibilità calorica proveniente dal grano. Si effettua per tutti i prodotti che un paese produce e
ottengo la disponibilità calorica complessiva
- valuto i dati relativi alle caratteristiche della popolazione, si fa la stima sul fabbisogno calorico.
Disponibilità calorica-fabbisogno calorico mi da l’idea della popolazione che vive in condizioni di
sottonutrizione.
-poi ci sono i dati che derivano da indagini sulle
famiglie specifiche di un paese.

Quando parliamo di sicurezza alimentare


noi intendiamo la food safety(dal punto di
vista igienico sanitario), mentre il termine inglese “security” si riferisce al fatto che ci sia disponibilità
calorica adeguata (quantitativo).
Nel mondo secondo le stime della FAO esistono 805 milioni di persone che sono in questa situazione
di sottonutrizione cronica.
Queste sono diminuite negli ultimi 10 anni di 100 milioni ma sono veramente ancora tante. Questi
805 milioni di persone in costante sottonutrizione rappresentano insieme gli abitanti dell’UE-28 (513
milioni) e degli USA (324milioni). La maggior parte delle persone che soffrono la fame sono nei
paesi in via di sviluppo, una piccola parte deriva anche dai paesi industrializzati.
Paradossalmente nel sud –est asiatico
troviamo la maggior parte delle persone
sottonutrite si trova in India e in Cina e
in Indonesia. Questo porta
paradossalmente all’INDIA E CHINA
PARADOX cioè la Cina da anni sta
crescendo a tassi di sviluppi del 5-6-7-
8%, quindi sviluppo in atto
notevolissimo però ci sono ancora zone
rurali in cui sono lo stesso
sottosviluppate. Fino a poco tempo fa in
Cina ogni famiglia poteva fare un solo
bambino, adesso li hanno portati a
2(norma per ridurre la sottonutrizione).

Abbiamo l’Africa sub-sahariana (26%) e


l’America latina ma grosso si localizza in India
e in Cina. Ma se noi andiamo a vedere
l’incidenza delle persone sottonutrite sul totale
della popolazione vediamo che quelli messi peggio sono i paesi africani, cioè in buona sostanza il
grosso delle persone sottonutrite si trova in India e in Cina, ma questi siccome sono dei paesi molto
grandi (tanti abitanti in totale) hanno una bassa incidenza. In Africa invece ci sono dei paesi con più
del 35% di persone sottonutrite. I paesi africani sono quelli messi peggio da questo punto di vista.

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