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ANTROPOLOGIA CULTURALE

L’antropologia è lo studio dell’umanità, (logos – discorso, antropo – uomo). È un sapere che si colloca in un
punto di intersezione fra le scienze biologiche, discipline che studiano la vita attraverso i processi biologici e
le scienze sociali, discipline che studiano l’essere umano da una prospettiva sociale.
Queste discipline sono accomunate dalla domanda “Cosa rende l’essere umano un essere unico?”, questa
acquisisce tanto più valore se noi guardiamo all’uomo in una prospettiva comparata alle altre specie
animali. Possiamo vedere attraverso dei percorsi (archeologia, lingua, biologia e cultura) che l’uomo
modella l’ambiente in cui vive in maniera molto più impattante rispetto agli altri animali.
Nell’antropologia biologica, l’essere umano ha una biologia unica rispetto agli altri animali, condivide con
alcuni di essi la struttura biologica (con i primati, membri non ancora umani dell’ordine dei mammiferi).
Nell’antropologia linguistica l’uomo ha un sistema comunicativo straordinario, ha delle caratteristiche
sconosciute a qualsiasi altro animale.
Nell’antropologia culturale l’uomo rispetto alle altre specie animali tende a fare pochissimo affidamento
all’istinto. L’uomo vive gran parte della propria vita facendo riferimento a modelli culturali che gli dicono
come comportarsi nel mondo, li incorpora a tal punto che pensa che gli appartengono biologicamente.
Dalla nascita comincia un processo di apprendimento che finisce con l’incorporare (una parte capita che lo
metta in discussione o lo rifiuti).
L’antropologia si distingue per una particolare prospettiva: non si distingue per un particolare ambito o
oggetto di studio (come le altre discipline), ma lo fa per il fatto di adottare una particolare prospettiva.
Questa dovrebbe portare l’antropologo/a ad un peculiare approccio alla conoscenza di ciò che lo circonda.
Aiuta a porci nei confronti del mondo che ci circonda in modo mai riduttivo, evitando sempre
categorizzazioni semplicistiche.
Mette in guardia dal pericolo di interpretare una cultura basandosi sulle prime impressioni che possono
aversi di pratiche o discorsi non familiari (es. Anacirema, di Miller).

Lo studio delle società deve essere maneggiato con prudenza e responsabilità, problematizzando gli
stereotipi e i pregiudizi. Prima l’antropologia non aveva un vero e proprio metodo, era superficiale ed aveva
un atteggiamento di parte verso le altre società. con un periodo di autocritica questo è cambiato. Ora si ha
un metodo, ovvero la ricerca sul campo, la ricerca etnografica, l’osservazione partecipante.
La prospettiva si può dire:
 Empirica
 Olistica
 Adattiva
 Comparativa
 Relativista

RELATIVISMO
Interpretazione di idee e pratiche culturali secondo la prospettiva di coloro che li elaborano.
Si divide in tre parti:
1. Metodologico: tutta l’azione sociale si costituisce di dati dello stesso tipo, all’antropologo interessa
chi fa cosa e come lo fa; per fare ciò ha bisogno di porre i dati tutti sullo stesso piano, come se
avessero tutti lo stesso valore. Ci si può sbilanciare un fenomeno solo quando si possiedono
abbastanza dati che mi permettono di farlo, ma di base non si dovrebbe dire ciò che è giusto o ciò
che è sbagliato
2. Teoretico: tutte le azioni sociali umane hanno senso nel loro contesto. Individui diversi vedono le
cose in modo differente, secondo le loro molteplici esperienze di vita
3. Filosofico: ogni sistema di valori è ugualmente valido e deve essere accettato in sé
Etnocentrismo: utilizzo dei propri valori quali parametro di riferimento per stabilire se e quanto le pratiche
altrui siano adeguate. Tutto ciò che non si adegua al nostro modo di stare al mondo spesso viene definito
“disumano” o “contro natura” o “sbagliato”.
Bisognerebbe sospendere il giudizio, per osservare, interpretare e descrivere valori e pratiche culturali che
avvengono in seno ai contesti in cui vivono coloro che quei valori li avvallano.

EMPIRISMO
Il dato si ricava in un preciso modo, è l’approfondimento della conoscenza attraverso la pratica. In
antropologia si traduce in una partecipazione osservante.
Nella ricerca antropologica, la prospettiva etica (la cornice analitica usata dall’outsider per studiare una
società) dovrebbe consistere con la prospettiva emica (con le percezioni e categorie degli insiders, le loro
spiegazioni del perché fanno ciò che fanno).
Bronislaw Malinowski è stato uno dei primi antropologi che segna un punto di rottura rispetto agli perché
fino a quel momento loro erano degli studiosi da scrivania, mentre lui dà inizio ad un nuovo approccio, più
basato sul campo.
Nel 1922 pubblica il libro “Gli argonauti del Pacifico occidentale” dove descrive la vita di queste società e
del metodo dell’osservazione partecipante. Bisogna avvicinarsi all’oggetto di studio per riuscire a cogliere il
punto di vista dei nativi. Questo rapporto di vicinanza fa capire che l’antropologo ha il compito di
raccontare cosa fanno le società indigene attingendo dal loro punto di vista, dandogli rilevanza.
Dopo essere stati vicino all’oggetto di studio, le informazione vanno filtrate, descritte e pubblicate. Nel
diario di campo devono confluire una molteplicità di dati che derivano dall’osservazione, e si dividono in:
1. Dati emici: sono i dati che provengono dall’interno, sono le informazioni che descrivono il mondo
dal punto di vista dei nostri interlocutori, emerge da come l’interlocutore spiega ciò che fa o ciò che
accade. Questo dato è possibile raccoglierlo cercando di instaurare una relazione di scambio con gli
interlocutori, informale (laddove possibile), che si potrebbe trasformare in una relazione di amicizia
o di affetto. Nel momento in cui si instaura un dialogo con gli interlocutori in condizioni di parità e
di vicinanza ci si trova una condizione di esprimersi e di spiegarsi
2. Dati etici: sono quei dati che derivano esclusivamente dalla prospettiva dell’antropologo, da un
approccio esterno agli interlocutori (le impressioni, sensazioni). Etico è un modo di conoscere e
descrivere una società attraverso le categorie dell’osservatore, non tiene conto del fatto che ciò che
io osservo e le categorie che uso per descriverlo potrebbero avere un significato differente per i
miei interlocutori, o potrebbero non esistere affatto
La ricerca dovrebbe essere l’esito di questi due dati.

ADATTAMENTO
Tutte le società si modificano continuamente nel corso del tempo. Le tradizioni si conservano solo quando
hanno una funzione nel presente. È una prospettiva evolutiva (termine con concezione negativa), o meglio
adattiva, che rende meglio l’idea perché l’idea è che sia nel memento in cui sviluppano delle pratiche
nuove, sia quando imparano delle pratiche da altre società, loro agiscono sempre e comunque in risposta a
ciò che le circonda secondo delle strategie che le aiutano ad adeguarsi all’ambiente fisico e sociale in cui si
ritrovano a vivere. Il modo è una realtà in costante mutamento, tutte le società in questo tentativo di
adattarsi si modificano costantemente, sono in costante metamorfosi. Le tradizioni e le usanze che
decidono di adottare o di mantenere in questi processi di trasformazione non sono delle tradizioni che
restano per inerzia, perché una società è più arretrata di un’altra ma perché quei valori nel presente
svolgono una precisa funzione.

COMPARAZIONE
Ogni contatto tra culture è un momento di comparazione. Consente di:
 determinare la varietà umana
 identificare e valorizzare la diversità
 ridurre il pregiudizio etnocentrico
 individuare i flussi o gli elementi regolari
 documentare il cambiamento e la stabilità
 problematizzare
È necessario ridurre il pregiudizio etnocentrico/problematizzare.
Secondo Hobbes la vita delle popolazioni che non vivono nelle condizioni adagiate delle altre società, è
tragica: non c’è posto per l’industria, non c’è una cultura della terra, non c’è alcuna cognizione del tempo,
non c’è un’arte, non esiste forma di letteratura, non c’è una società. chi vive in una società primitiva vive in
una condizione di angoscia perenne e rischia di morire in qualsiasi momento.
Tra gli anni ‘60/’70 gli antropologi cominciano ad essere interessati da quelle società che nel discorso
collettivo potevano essere considerate primitive (su cui c’era pregiudizio), di cacciatori e raccoglitori. Erano
società ridotte dal punto di vista numerico che sono concentrate in alcune regioni dell’Africa, America e
centro America, Australia, praticano pochissima agricoltura/allevamento e non hanno un’economia
produttiva; vivono di caccia e di raccolta (piccoli frutti che fornisce l’ambiente che li circonda). Per il loro
stile di vita hanno un rapporto simbiotico per l’ambiente in cui vivono, ne dipendono.
La società maggioritaria vuole far si che questi gruppi abbandonino le loro attività per dedicarsi a una nuova
economia produttiva, per sedentarizzarsi.
Gran parte di questi gruppi in realtà lavorano solo poche ore in meno rispetto alla giornata lavorativa
dell’europeo medio, nel momento in cui non lavorano si godono il loro tempo libero. Durante questi
momenti, non oziano, ma si impegnano in attività sociali e di socializzazione articolate e ricche: giocano,
praticano l’oratoria (arte del dire, del parlare in pubblico), un oggetto di grande interesse per gli antropologi
linguisti, perché rappresenta una forma molto complessa di comunicazione ed è una forma di
comunicazione che caratterizza le società che sono basate sull’oralità, acquisiscono e trasmettono sapere
attraverso l’oralità, senza scrittura. Si raccontano storie che contengono una morale ed educano, ciò
significa che elaborano una loro narrativa (epopee, miti della comunità). Perciò il loro stile di vita alla fine
non è così lontano da quello delle società considerate civilizzate. Tutto ciò era un pregiudizio etnocentrico,
poiché svalutava la cultura altrui in una condizione di scarsità di dati reali.
La comparazione con l’altro contribuisce a far si che noi vediamo noi stessi in una luce diversa, per metterci
in discussione.
Malinowski sostiene che ogni volta che le persone si trovan o coinvolte in attività rilevanti e che si trovano
in difficoltà che non possono gestire con la tecnologia, questi elaborano delle pratiche che li aiutano a
gestirle psicologicamente, per compensare il gap della tecnologia. Sono strategie chiamate magical
thinking, magiche, che si servono della forza del pensiero. È l’idea di poter influenzare la realtà secondo il
pensiero personale, usare la magia con una finalità pratica.
Oltre alla mera superstizione, consente agli umani di acquisire un sentimento di controllo in circostanze
nelle quali si sentono impotenti.
Le società si accorgono di possedere pratiche e idee simili anche quando si percepiscono profondamente
differenti, per questo probabilmente essere inizieranno a vedere se stesse e l’altro in maniera diversa.

OLISMO
Unire molti aspetti del modo di vivere di una società per restituire un contesto sfumato utile a capire
perché i suoi membri fanno ciò che fanno. Significa mettere assieme tutti i diversi modi di vivere che si
possono trovare in una società, per capire perché i membri di una società fanno ciò che fanno non posso
soffermarmi a guardare solo una singola cosa, ho bisogno di leggere tutto ciò che sta intorno.

CULTURA
È l’insieme dei significati e di conseguenti modelli di comportamento che gli esseri umani acquisiscono in
quanti membri della società, assieme agli artefatti materiali e alle strutture che creano e che usano.
Da una comunità semiotica (campo di significati culturali e valori condivisi o perlomeno riconosciuti) ad una
cultura in senso proprio: la condivisione di significati ha portato ad una lenta e progressiva stratificazione di
pratiche sociali comuni che si sono diffuse e radicate attraverso un processo molecolare che ha
determinato l’accumularsi, nel tempo e nello spazio, di comportamenti tendenzialmente simili.

La comunità semiotica consiste in un campo di significati culturali e di valori condivisi. Si tratta di uno spazio
mentale collettivo, popolato di individui che condividono, o almeno riconoscono, un certo repertorio di
significati, simboli, norme, prassi e valori e con essi possono manifestare differenti legami emotivi ed
ideologici.
 INCULTURAZIONE —> Assimilazione da parte dell’individuo di una particolare cultura, durante un
processo di socializzazione che implica adattamento e dialogo.
Gli adulti che stanno più vicini ad un bimbo nel momento della nascita tramandano la cultura.
L’inculturazione è assorbimenti da parte dell’individuo del modello culturale a cui appartiene o
comunque a cui appartengono i suoi genitori. Il processo di inculturazione avviene attraverso la
socializzazione ovvero il contatto diretto, la relazione che si instaura con altri individui
 ACCULTURAZIONE —> trasformazione o cambiamento che uno dello culturale può subire a seguito
del contatto con un altro modello culturale. Quindi un modello che si modifica per via del contatto
con un altro modello culturale subisce un processo di acculturazione, quando questa
trasformazione viene imposta dall’altro modello culturale, l’acculturazione diventa assimilazione
 ASSIMILAZIONE —> Un’ individuo abbandona la propria cultura originaria per assumere quella
dominante ma non per propria volontà. L’acculturazione invece avviene in modo più neutro.

L’inculturazione avviene in due modi:


1. APPRENDIMENTO FORMALE —> avviene in seno alle istituzioni. Consiste nell’acquisizione della
conoscenza degli elementi della cultura in cui sono nato, all’interno delle istituzioni che sono
pensate specificatamente per svolgere questo ruolo (es. scuola, chiesa…). Le istituzioni ovviamente
possono cambiare da un contesto all’altro (per noi è un edificio, per altri si svolge sotto gli alberi).
Tutte le società si dotano di istituzioni che esistono per trasmettere ai più giovani le specifiche
conoscenze e capacità e valori di cui si pensa avranno bisogno nella loro vita per essere membri di
quella determinata società.
2. APPRENDIMENTO INFORMALE —> Tutto quello che noi abbiamo imparato fino ad gli è solo una
piccola parte della nostra cultura, perché in realtà gran parte dell’apprendimento che abbiamo
avuto fino ad oggi è avvenuto in modo informale. Osservando e ascoltando, imitando e misurando
le risposte. Quindi gran parte che oggi noi sappiamo della società in cui viviamo lo abbiamo
imparato dalla nascita osservando e ascoltando le persone che ci hanno circondato, imitandole e
misurando le risposte, ovvero, credere di conoscere il mondo e osare e per questo vengo “punito”
(es. bambina risponde male e quindi gli arriva una sberla). L’apprendimento informale comporta
una maturazione e si può accompagnare ad una incorporazione della cultura. Quindi partecipando
alla vita quotidiana, l’individuo più o meno consapevolmente si assorbe e naturalizza un certo
modo di vedere e comportarci e di pensare, che diventano il nostro modo abituale di stare al
mondo. Questo tipo di inculturazione, talvolta si trasforma e diventa un vero e proprio processo di
INCORPORAZIONE (non in tutti i casi) —> incorporare la propria cultura significa assorbili a tal
punto che diventano quasi parte della nostra biologia (es. linguaggio: se un neonato emette suoni
casuali e poi il suono “ma” noi pensiamo che voglia dire mamma e cosi iniziamo a ripetere la parola
“mamma” e la mamma lo festeggia e lo invita a dire mamma e modifica il proprio comportamento,
e il bambino, osservando come le persone che gli stanno intorno reagiscono a questo particolare
suono, capirà che fare suoni casuali non significa niente e che invece dire “ma” significa produrre
un suono che ha un valore, così succede che il bambino allena il proprio apparato vocale per
imparare a recepire ed emettere alcuni suoni significativi per le persone che le circondano e non
altri suoni. Man mano che il bambino apprende nuove parole, modella il proprio corpo, allenerà il
proprio apparato vocale ad emettere più facilmente e in maniera automatica alcune combinazioni
di suoni e non altri e da grande imparerà una nuova lingua farà fatica ad emettere alcuni suoni). La
cultura cambia costantemente e anche noi siamo sottoposti ad un costante processo di
metamorfosi.

Quindi il processo di inculturazione è un processo che dura per tutta la nostra vita perché i modelli culturale
si adattano costantemente perché rispondono ai cambiamenti ambientali, economici, alla influenze
esterne.
ADATTIVA
La cultura cambia nel tempo ma non cessa di esistere, si trasforma come conseguenza dell’incontro. La
cultura ha capacità d compromesso tra “l’essere”e il “poter essere”o il “dover essere” (a seconda che
l’incontro sia più o meno pacifico). Non esiste e non è mai esistita una società monoculturale ovvero una
società che si dota di un’unica cultura e all’interno della quale tutti i soggetti si comportino allo stesso modo
non esistono società che siano impermeabili agli influssi esterni. Ogni cultura è METICCIA, ovvero l’esito di
una mescolanza. Ogni cultura è IBRIDA. Le culture sempre sono entità aperte con intensità più o meno
variabili, ma sono sempre elementi malleabili, si adattano a volte anche in maniera imprevedibile al mutare
delle situazioni, ciò significa che sanno sempre far variare entro certi limiti alcune loro strutture per
adeguarsi al cambiamento determinato dall’incontro, ovvero trovarsi nello stesso luogo
contemporaneamente con altre culture. La creatività è un tratto fondamentale delle culture che sono
provviste di meccanismi che consentono di generare innovazione, quindi di rispondere ad un incontro non
per forza imitando l’altro ma ripensandosi, tenendo qualcosa di proprio ma rivisitandolo. Quindi non
bisogna pensare che una cultura annienti l’altra. Quindi quando si dice che le culture si adattano non si dice
che le culture cessano di essere se stesse.

STRUMENTI DI RACCOLTA DI DATI DELL’ANTROPOLOGO: la ricerca sul campo - la ricerca etnografica


Gli antropologi oggi non sono più in prevalenza maschile e non più prevalentemente occidentali. Gli
antropologi oggi fanno molta ricerca sul campo.
In che modo imparano qualcosa sulle culture di altre società? Quali sono i maggiori dilemmi che si trovano
ad affrontare sul campo?
Uno degli aspetti che distingue il lavoro dell’antropologo rispetto ad altri scienziati è la prospettiva ma
anche altre strategie e strumenti.
Mentre gli studiosi delle altre discipline sviluppano modelli starasti del comportamento umano, gli
antropologi li costruiscono partendo da un’esperienza diretta sul campo, un’esperienza osservativo-
partecipante. Una partecipazione a particolari momenti della vita dei loro interlocutori in contesti non
laboratoriali. L’antropologo non vuol studiare gli interlocutori per definire il modo in cui gli interlocutori
dovrebbero comportarsi, ma solo per capire il modo in cui loro pensano e agiscono.

Quando si parla di ricerca sul campo si fa riferimento anche al termine:


ETNOGRAFIA —> è il processo basato su una partecipazione osservante (integrata con ulteriori strumenti di
indagine). Ma è anche il prodotto finale che diffonde gli esiti della ricerca partecipata su supporto (non)
cartaceo.

I pionieri della ricerca etnografica sono Margareth Mead e Bronislaw Malinowski.

FRANZ BOAS
Ogni tanto si occupava di ricerche sul campo, ma solo per confrontarsi con i leader delle comunità varie per
sottoporgli loro questionari e interviste. Non era una vera e propria immersione sul campo.
Margaret Mead voleva affermare l’infondatezza del concetto di “razza”, soprattutto sul collegamento di
questo con l’intelligenza umana.
Nel 1925 la Mead parte per le isole Samoa. Vuole capire se l’adolescenza sia una problematica universale
per tutti gli individui (ispirata da Freud, che con i suoi studi lo afferma).
Qui impara la lingua, registra le storie della popolazione e le analizza e giunge ad una conclusione: qui
l’adolescenza è in gran parte serena, libera da quei conflitti che si osservano spesso nella società
euroamericana. Secondo lei questa serenità si leghi al fatto che sia una maggiore libertà sessuale rispetto
alla società occidentale. Lì gli adolescenti sono incoraggiati a sperimentare la propria sessualità, fin dalla
tenera età, capita che gli adulti/ragazzi più grandi inizino le ragazze alla loro vita sessuale, anche prima del
matrimonio. Il sesso non era considerato un tabù.
Nota anche altri aspetti rispetto all’organizzazione sociale: si accorge che c’è un’organizzazione socio-
politica per cui c’è un capo e le famiglie sono divise in ranghi (classi sociali). normalmente la famiglia del
capo è vista come la famiglia più importante della società, con più privilegi e responsabilità nella società. tra
gli obblighi della famiglia c’è quello di scegliere fra le figlie femmine colei destinata a diventare una “tapoo”,
ovvero una vergine cerimoniale; su di lei ricadrà il compito di mantenere alto l’onore della famiglia (resterà
vergine fino al matrimonio). Questa è l’unica eccezione per cui a una donna viene negata la libertà sessuale.
È la pioniera dell’antropologia visuale: ha introdotto l’uso di fotografie all’interno dell’antropologia nsieme
al marito Bateson.
C’è un’esplicita intenzionalità metodologica nell’uso di tecniche visuali per la raccolta dei dati. Il lavoro gli è
stato commissionato dal presidente del Commitee for the study of dementia praecox. Una delle ragioni per
cui fu scelta l’isola di Bali come location per l’indagine fu perché all’interno della cultura balinese
comparivano, istituzionalizzati e culturalmente previsti, dei comportamenti (come ad esempio trance
dissociativa) che in occidente erano associati alla schizofrenia (denominata “dementia praecox”).
Intervista, fotografia e film sono senza distinzione gerarchica. Parola e immagine si relazionano, senza
escludersi vicendevolmente. La Mead, con un approccio particolaristico, responsabile dell’elaborazione
della maggior parte degli appunti redatti sul campo, mentre Bateson è più portato nell’approccio olistico,
responsabile della realizzazione del materiale fotografica e cinematografica.
La Mead è addetta alla produzione scritta, ha un sistema di annotazione in fase di esecuzione del fenomeno
studiato: descrizione cronologica dei dati osservati (running field notes) nella quale ricorrono un titolo che
indica l’azione in corso, informazioni contestuali e la trascrizione della nomenclatura in lingua locale.
Poi ci sono le descrizioni ex-post degli argomenti culturali riguardanti i comportamenti, e da considerazioni
di carattere etnografico.
All’interno delle field notes della Mead si trovano anche numerose informazioni riguardanti le fotografie. La
documentazione fu arricchita alla redazione di un diario nel quale registrò tutte le attività e gli eventi
osservati contestualmente all’indagine.
Bateson invece era addetto alla fotografia, sia nella fase di scatto sul campo e che nell’organizzazione delle
immagini in seno al testo.
C’è stata la produzione di 25.000 fotografie e 6.756 km di pellicola cinematografica. L’opera fotografica è
l’esito di una selezione di 759 fotografie dal corpus iniziale, selezione effettuata da Bateson secondo un
approccio multidisciplinare.
I paramentri secondo cui Bateson seleziona il materiale fotografico sono indicati con “terms of relevance,
photographic quality and size”.
L’integrazione del materiale raccolto con le registrazioni dell’assistente balinese dei due ricercatori, che
collaborava alle traduzioni delle conversazioni in lingua balinese e alla redazione delle genealogie degli
attori sociali.
L’esito finale è un volume suddiviso in due parti:
1. opera di Mead: introduzione etnografica sugli argomenti che saranno sviluppati nella seconda parte
2. opera di Bateson: immagini organizzate in 100 tavole

Da un approccio positivista che guarda solo ai processi materiali e agli individui come se non fossero dotati
di agency ad un approccio intersoggettivo basato sull’idea di incontro tra antropologo/a e interlocutori/rici
una conoscenza reciproca e quindi interculturale.
L’idea alla base di un progetto etnografico è:
 stare sul campo: il campo è lo spazio (luogo fisico e/o orizzonte cognitivo) dove l’antropologo vuole
essere per svolgere la sua ricerca. L’individuo non è quasi mai in un luogo soltanto e l’etnografia
può essere multi situata nel sistema mondo, contrapposta cioè all’idea di uno studio radicato
esclusivamente in un luogo e all’interno di un gruppo relativamente ristretto.
La ricerca si dice così multisituata, poiché l’antropologo/a si sposta in più luoghi
 osservare e partecipare attraverso la costruzione di una rete di relazioni sociali: si osserva non solo
l’evento eccezionale, il rituale, le cerimonie o le feste, ma la routine, ovvero le cose che le persone
normalmente dicono e fanno. È dalla routine che l’antropologo/a cercano di derivare i significati e
le regole che danno un senso alle vite dei propri interlocutori.
L’osservazione non è mai passiva, ma è partecipante; si osserva e si agisce, si interagisce, si cerca di
partecipare alle attività ordinarie degli interlocutori. Così c’è la conoscenza per familiarizzazione o
impregnazione, ovvero un sapere che dà l’impressione intima di conoscere lo scenario degli
avvenimenti che si svolgono intorno a noi, di avere familiarità, in modo che possiamo anche
prevedere che cosa può succedere in una data circostanza, ci permette di conoscere le regole
implicite di una cultura
 interpretare significati
 restituire in modo sostenibile nei contenuti (comprensibile per i destinatari ed etico, rispettoso)

RICERCA COVERT
I partecipanti allo studio non sono consapevoli del loro ruolo di osservati e non conoscono gli obiettivi del
ricercatore né il reale motivo della sua presenza in un dato contesto.

RICERCA OVERT
Il ricercatore dichiara ai partecipanti la propria identità, l’oggetto della ricerca, il suo ed il loro ruolo e
chiede il permesso di partecipazione.

GLI OGGETTI DELLA SCIENZA ANTROPOLOGICA


In passato l’antropologia si interessava alle popolazioni più esotiche, ma con il tempo qualcosa è cambiato.
Quel tipo di antropologia era chiamato “etnografia di salvataggio”, perché si voleva preservare quelle
società, credendole in pericolo per via del colonialismo.
Ora il contesto della ricerca antropologica è diventato l’intero pianeta, dentro cui tutte le società e non solo
quelle etniche diventano delle società locali.

IL RITUALE
Implica il fatto di agire: non è sufficiente sedersi e pensare di celebrare un rituale. Si compone di un insieme
di azioni, implica una procedura stereotipata che segue un ordine più o meno preciso di movimenti/azioni.
Si tratta di azioni simboliche che in quanto tali hanno un particolare significato per il più o meno esteso
gruppo sociale di riferimento.
Che collegamento c’è fra il rituale e una società? Cosa dice un rituale della cosmologia di una società (come
la società pensa che sia nato il mondo)? In che modo gli individui fanno esperienza del rituale, con quale
intensità lo usano? Come si evolvono i rituali?
I rituali rimandano alle società non occidentali, ma non riguardano esclusivamente le zone esotiche, non ha
sempre una natura religiosa (come ci è indetto a pensare).
Cosa non è rituale? Ciò che non ha particolare significato (es. lavarsi i denti tutte le mattine). In
antropologia il rituale ha tre caratteristiche principali:
1. azione: il rituale implica il fatto di agire, non è sufficiente sedersi e pensare di celebrare un rituale
2. stereotipo: il rituale si compone di un insieme di azioni, esso implica una procedura stereotipata
che segue un ordine più o meno preciso di movimenti/azioni
3. significato: si tratta di azioni simboliche (che in quanto tali hanno un particolare significato per il più
o meno esteso gruppo sociale di riferimento
il rituale è un comportamento collettivo che rafforza l’identità collettiva.
Malinowski afferma che il rituale rafforza il senso di comunità e allevia il senso di ansia e paura determinato
dall’ignoto.
Radcliff Brown pensa che il senso collettivo non c’entra molto con il rituale, piuttosto dà sicurezza e serve
ad enfatizzare l’ansietà, sprona.
Il termine rituale fa riferimento a pratiche formalizzate che si svolgono secondo regole o procedure
specifiche. Si tratta di comportamenti che hanno un carattere straordinario, peculiare rispetto ad altre
attività sociali ordinarie.
Esistono due categorie di rituali ben conosciute:
1. il rituale intensificativo:
- Thaipusam (Tamil) è un rituale che viene celebrato annualmente da molti indù. I devoti
costruiscono strutture di bambù che si chiamano Kabaddi (fardelli) e si sottopongono ad un
processo di perforazione del corpo, su guance, lingua, schiena e petto.
È un rituale in cui si commemora il giorno in cui la dea della fertilità Parvati dona a Murugan
(dio della guerra) una spada per sconfiggere un demone. I rituali di questo tipo vengono
chiamati anche rituali del terrore, per via delle modalità utilizzate;
- Il Paso del Fuego è un rituale che si fa ogni anno a Giugno in un villaggio, San Pedro Manrique
(Spagna). Gli abitanti del posto, dopo aver raccolto per tutto l’anno la legna adatta, si radunano
per iniziare il rituale (pirobazia, camminata sui carboni ardenti). La temperature è di circa 700°
C. ci sono musiche, ci sono danze, e partecipano le sacerdotesse vergini, che sono state scelte
nel mese di Maggio nel giorno della Croce, vestono un abito tradizionale, portano sulla testa un
cesto di pane benedetto durante la processione. Ci sono anche le autorità religiose e non, il
sindaco e dietro una folla di cittadini e visitatori. Attorno alla mezzanotte si giunge in questo
luogo, in cui sorge la cattedrale del villaggio, e si ferma la musica per dare inizio al rituale. I
camminatori e camminatrici (con età non inferiore ai 14 anni) in onore di San Giovanni, si
caricano qualcuno sulle spalle e iniziano la camminata. Si dice che i camminatori non riportino
ustioni perché la Vergine li protegge. La partecipazione qui è facoltativa, non c’è un obbligo di
prendere parte al rituale.
Talvolta l’adesione è obbligatoria, con pena l’espulsione dalla comunità.
In che modo i rituali si traducono nei comportamenti quotidiani? Soprattutto nei giorni precedenti e
successivi al rituale, lo stesso influisce tantissimo anche nei comportamenti di ogni giorno. Più il
rituale è doloroso, più l’empatia e la solidarietà verso il prossimo è maggiore
2. il rituale iniziatico: “into manhood” rituale di tre giorni per le ragazze che arrivano alla pubertà. Le
ragazze ballano tutta una notte. È un rituale anche di battesimo diciamo perché si individua un
padrino o madrina adulto che insieme al resto della comunità si prenderanno cura della ragazza
quando non ci saranno più i genitori. Si celebra molto il senso di comunità. Il villaggio rappresenta il
luogo dove sempre la ragazza troverà protezione.
Molte società condividono l’idea che la vita dell’individuo sia costituita da tappe: nascita, pubertà,
età adulta, tappa della genitorialità/paternità/maternità, morte. Ciascuna di queste tappe è
segnata da un rituale, che ha il fine di celebrare il transito della persona dalla condizione
precedente a quella nuova. Questo è un rituale di passaggio, che non significa rito iniziatico, ma
accompagna il ciclo fisiologico della vita dell’individuo, mentre quello iniziatico ha a che fare con
tappe sociali, per un individuo giunge il momento della trasformazione, ed è deciso dalla società e
non dal corpo. I rituali iniziatici sono molto forti, visibili.
Per esempio, nella pubertà delle ragazze c’è un rituale di passaggio (arrivo del ciclo mestruale),
talvolta esiste anche un rito sociale, che viene a prescindere da ciò che succede a livello biologico.
Dopo il rito avviene un cambio di status.
Si compone di alcune fasi:
 separazione: l’individuo viene separato dalla condizione precedente senza possibilità di
ritorno, è una separazione irreversibile
 modificazione corporea: la separazione è tanto più incisiva se si fissa nella testa e sul corpo
dell’iniziato/a, avviene una pratica di mutilazione corporea, sul corpo deve essere posto un
segno che ha due finalità, ovvero rendere evidente alla comunità che la trasformazione è
avvenuta e imprimere nella memoria dell’iniziato/a il ricordo indelebile che qualcosa nella
sua vita è cambiato, che non sono più le persone di prima
 morte/nuova vita: una sorta di recitazione che vuole riprodurre sulla scena questa sorta di
morte ideale e di passaggio a una nuova vita. Prima dei rituali iniziatici, l’iniziando/a
vengono considerati come morti o morenti, e quest’idea di morte viene recitata attraverso
delle fasi di anti socialità (es. allontanamento dell’iniziando/a dalla comunità).
Il concetto di morte a volte viene espresso attraverso un forte indebolimento del corpo

LA RELIGIONE
L’antropologia la pensa come un’istituzione socio culturale e si interroga su che cosa sia. Per capire come
pensa in relazione alla religione, Durkheim afferma che la religione non deve essere definita in termiti di
divinità, ma nei termini del sacro, in cui ricadono le cose che in una società si distinguono per la loro
straordinarietà. Si deve distinguere da ciò che è sacro e ciò che è profano, fra l’ordinario e lo straordinario.
La religione si può definire come un’istituzione socio culturale che raggruppa un insieme di pratiche che si
legano al sacro, senza che questo implichi un giudizio di valore su ciò che deve o no essere considerato
sacro.
Il sacro ha a che fare ad una valenza simbolica, i gruppi sociali elaborano dei loro significati e si servono dei
simboli, così vediamo che esistono dei simboli legati al sacro. Anche gli oggetti possono assumere un
significato sacro.
Questa spiegazione deve sempre essere dimostrata. Durkheim non tiene in considerazione il metodo, come
si studia la religione, trascura elementi significativi.
L’antropologia utilizza invece strumenti peculiari come la cultura e l’approccio relativista.

QUALE VOCABOLARIO? Totem, Taboo-Tapu, Sciamano.


Cos'è la religione secondo le scienze antropologiche? Dare una definizione secondo l'antropologia implica
compiere un'azione culturale. Non è la natura a dirci cosa sia la religione, sono gli uomini. Le definizioni non
sono mai vere a prescindere, sono idee umane dove c'è un consenso più o meno esteso all'interno di una
comunità. Questo consenso è dato dal fatto che secondo alcuni sembrano efficaci, produttive.
Gli antropologi provano a dare una definizione procedendo per esclusione, cercando di definire cosa non
potrebbe essere religione.
Definire la religione solo come credenza in Dio è molto limitativo, perché escluderebbe quelle credenze che
non contemplano un unico Dio. La religione quindi non è credenza in unico Dio ma credenza in divinità,
però rischiamo di escludere da questa definizione tutte quelle religioni che non fanno riferimento né a uno
ne a più dei.
Qualsiasi tentativo di definire la religione in termini antropologici rischierebbe di fallire. Tanti antropologi
nel tempo hanno provato a definire la religione, ogni studioso sembra avere una propria idea di cosa possa
essere la religione e enfatizza alcuni aspetti del fenomeno. L'idea però si basa sempre sulle comunità che
l'antropologo ha studiato, quindi sono descrizioni parziali.
La religione o le religioni racchiudono tutte in un modo o nell'altro queste definizioni ma ogni religione ne
ripresenta una o tutte in modo disordinato nell'ambito di ogni singola manifestazione religiosa.
Il rituale ad esempio potrebbe essere l'elemento chiave di molte religioni, ma alcune lo valorizzano di più,
altre meno ecc. Se partiamo dal presupposto che tutte le religioni contemplino delle idee, concetti, azioni
poi però non tutte mettono in pratica quelle idee allo stesso modo.
Cos'è che rende la religione religiosa? È utile guardare la religione come fosse un modello culturale. La
religione di per sé non è altro che un insieme di idee e comportamenti, funziona come qualsiasi altra
cultura. Adotta rappresentazioni mentali, idee, comportamenti verbali, fisici ecc, prevede forme di
apprendimento formali/informali e quindi presenta molti aspetti che abbiamo ritrovato con il concetto di
cultura. C'è una cosa che caratterizza la religione rispetto alle altre culture è l'oggetto, un oggetto
particolare. L'oggetto della religione si espande fino a includere il non-umano. Il non umano con cui molti
individui ritengono di essere in relazione.
Tra tante definizioni che ci vengono date, quella più idonea potrebbe essere quella che ci offre Robin: la
religione può essere vista come un'estensione che allarga le relazioni sociali oltre i confini della società
puramente umana. Estensione nella quale gli esseri umani coinvolti si trovino in una posizione di
dipendenza rispetto ai loro altri non-umani. Ci dice poco di come deve caratterizzarsi ogni singola religione
ma ci dice che è estrapolato dalla cultura. Non ci è dato sapere cosa popoli il mondo invisibile, ogni
religione ci dice cosa ci sia nel loro mondo invisibile.
Si tratta di una relazione di comunicazione, rispetto, potere, controllo ecc ma pur sempre una relazione che
presenta alcune caratteristiche di una relazione sociale.

In sintesi la religione è un insieme di idee e comportamenti, è un fenomeno profondamente umano e


sociale, che nasce ed è guidato dalla mente, dal sentimento e dalla società e nel quale il non-umano, il
soprannaturale è visto come profondamente umano e sociale. Per i membri di una comunità religiosa gli
esseri e le forze in cui credono sono parte del loro mondo sociale e questo è il nostro punto di partenza ma
più in là è difficile andare. Nessuna teoria così come nessuna definizione è probabilmente in grado di
catturare l'intera essenza o natura della religione. Tutte tuttavia cercano le spiegazioni della religione nella
non-religione e tutte contribuiscono a una comprensione complessiva della religione.
Per lo stesso motivo, risulta difficile individuare il modo trasversale le funzioni che la religione dovrebbe
svolgere nella società e le funzioni identificate da Durkheim e altri/e richiedono sempre di essere verificate
caso per caso.
Possiamo riflettere su cosa la religione faccia, oltre ciò che sia. Anche in questo ambito gli antropologi
hanno offerto una varietà di prospettive, di teoria. Ognuna valida e con dei limiti perché si tratta di teorie
che derivano da uno studio specifico di campo. Nessuna teoria o definizione quindi sostanzialmente è in
grado di catturare l'essenza intera della religione.
Per questo motivo individuare le funzioni che la religione dovrebbe svolgere nella società risulta difficile.
Durkheim ci dice che la funzione e i ruoli che svolge la religione all'interno della società sono
essenzialmente 3:
1. Le società usano la religione come una forma di controllo sociale nel senso che le persone si
comportano bene non soltanto per timore di essere disapprovati da amici e parenti ma anche per
stare nelle buone grazie di chi si trova nel mondo invisibile, che spesso è percepito come qualcuno
che ha un potere molto forte e diretto sugli umani
2. La religione svolge la funzione di dare uno scopo alla vita delle persone, la religione da una ragione
per concepire la propria esistenza in modo significativo rendendole partecipi per un grande
progetto che Dio avrebbe escogitato
3. La religione può favorire la coesione sociale, unendo le persone attraverso simboli, valori condivisi,
norme ed è un elemento che la religione può avere in comune con la cultura.
La religione può essere anche causa di divisione sociale, ad esempio la teoria del conflitto sociale di Marx
afferma come la religione possa aumentare le ineguaglianze presenti nella società.
Se guardiamo la religione attraverso la lente del conflitto sociale effettivamente può contribuire alle
ineguaglianze sociali, di genere, razziali ecc.

LA VITA UMANA E LA VITA DI GRUPPO: pratiche di relazionalità


La vita umana è nella maggior parte di casi una vita di gruppo, di società ma i modi in cui gli esseri umani
decidono di organizzarsi in gruppo non sono universali, seguono il principio della creatività: ogni gruppo
umano modella delle sue particolari pratiche di relazionalità e stabilisce in maniera autonoma, delle regole
che definiscono il carattere delle relazioni sociali tra individui. Stabilisce le condizioni che rendono una
relazione sociale valida e riconoscibile per i membri del medesimo gruppo sociale. Le pratiche di
relazionalità possono avere un'estensione variabile (solo livello locale, o regionale, o nazionale).
In antropologia si distinguono 2 grandi categorie di relazioni: UFFICIALI e NON UFFICIALI.
L'amicizia rappresenta un esempio di pratica relazionale non ufficiale. Si tratta di un legame che unisce due
o più individui tramite l'affetto e quindi indipendentemente dalla sussistenza di legami biologici, rapporti
sessuali, di alleanze formali o elementi di altra natura in cui la società può riconoscere pubblicamente,
ufficialmente la capacità di definire una relazione sociale.
Ciò che invece accade per la parentela. In alcune società la linea che divide l'amicizia dalla parentela è
molto sottile. L'amicizia però si attiva per una scelta individuale e si limita ad un riconoscimento del tutto
personale, la parentela mostra caratteri differenti. Quindi la parentela sono relazioni sociali fondate su
legami culturalmente riconosciuti (in particolare di discendenza, matrimonio e adozione).

PARENTELA
Per molti anni gli studi, soprattutto Euroamericani sulla parentela, hanno risentito di un approccio
etnocentrico, secondo il quale tutte le società in modo universale ponevano alla base di essa
principalmente due elementi:
 La condivisione di una sostanza biologica, e quindi lo sperma, i geni, il sangue, il latte materno e
quindi anche il secondo elemento
 L'atto del concepimento, quindi la relazione sessuale tra due individui.
I parenti sono coloro tra i quali intercorre un rapporto biologico, e questo vale in particolare per
l'affiliazione dove il legame biologico tende a prevalere su qualsiasi altra forma di legame sociale al punto
che ci rende impossibile immaginare un figlio che non abbia lo stesso sangue dei genitori. Solo in tempi
recenti, anche da un punto di vista normativo, i figli legittimi sono stati equiparati a quelli naturali, ma per
lungo tempo non è stato così.
Attualmente infatti le leggi di molti paesi europei non sanno gestire quei problemi posti ad esempio dalla
procreazione assistita, dove il padre legale non è il genitore del bambino ovvero che ha un legame biologico
e diretto con il bambino oppure la madre non ha fornito l'ovulo/utero dove è avvenuta la gestazione. I
bambini nati da queste situazioni secondo i casi possono avere un padre e una madre, oppure una madre e
due padri, oppure ancora due madri e un padre. Oppure tre madri, possono esserci diverse situazioni
complicate, perchè tutto dipende da quanti individui hanno collaborato. Anche da un punto di vista sociale-
giuridico questa situazione chiama in causa altre questioni.
In situazioni come queste il bambino cresce conoscendo tanto l'identità del padre legale, o madre legale,
quanto quella del genitore/genitrice, quindi madre o padre biologici con il quale è consentito avere un
legame affettivo. Questo tipo di trasparenza non fa crescere in questo bambino nessun tipo di conflitto
imputato al fatto che il padre o madre legale non coincidano con il padre o madre biologica.
Negli anni l'antropologia ha dimostrato che quella relazione tra parentela biologica a parentela legale che
nella società euroamericana si vive ancora oggi come un fortissimo conflitto nel quale la seconda oggi si
trova in concorrenza con la prima e dove la prima, ovvero biologica, normalmente è considerata quella per
eccellenza in altre società non si considera affatto problematica.
Gli studi sulla parentela inizialmente basati sulla cosiddetta biologia della riproduzione, i quali per un certo
periodo di tempo si erano imposti a livello globale, hanno dovuto pian piano cedere il posto ad un numero
sempre maggiore di etnografie che dimostravano e ancora oggi dimostrano:
- da un lato la sussistenza di forme di parentela basate anche su altri elementi, non per forza
biologico, ad esempio l'anima, alcuni tratti spirituali
- da un altro lato queste stesse etnografie dimostrano che molte società o riconoscono il
principio della relazione biologica ma in modi che possono differire rispetto la società
maggioritaria euroamericana, quindi la biologia può effettivamente dare forme di parentela,
oppure società che accanto alla relazione biologica pongono anche la relazione legale o sociale
a cui attribuiscono lo stesso valore o in alcuni casi anche un valore più rilevante di quello
attribuito alla relazione biologica. La parentela quindi può essere biologica ma anche sociale, e
talvolta può essere solo sociale e non biologica.
L'importante è che noi antropologhe ci poniamo di fronte a questo tema con un certo tipo di apertura,
pronti a recepire anche situazioni che fino tempi recenti non avevano nulla di familiare nella società
euroamericana.
Nonostante la grande varietà delle forme di parentela negli anni, è stato possibile individuare 3 meccanismi
principali che nelle diverse società esistenti o esistite sembrano avere effettivamente concorso a
determinare delle relazioni parentali. Si sono osservate quindi in modo quasi trasversale alle società 3
meccanismi che possono creare dei parenti: ovvero DISCENDENZA, ADOZIONE, MATRIMONIO.
Nelle varie società i parenti possono essere creati tramite questi 3 meccanismi. Il motivo per cui è stato
possibile identificare in maniera particolare la parentela è perchè questi 3 meccanismi si basano a loro volta
su 3 esperienze universali:
 NASCITA a cui può legarsi la discendenza
 ACCUDIMENTO a cui può legarsi l'adozione
 ACCOPPIAMENTO a cui può legarsi il matrimonio.
Si basano ma non coincidono, il matrimonio è sicuramente basato sull'accoppiamento ma non coincide. Ci
sono società dove è possibile che due individui si accoppiano senza sposarsi, però due individui che si
sposano sono individui che si accoppiano.
Questo dipende dal fatto che nascita, accudimento, accoppiamento sono 3 situazioni che si sono osservate
in ogni società esistente ma poiché le diverse società possono dare dei significati diversi a queste 3
esperienze ovviamente le pratiche relazioni che ne scaturiscono possono modificarsi da un gruppo all'altro.
La parentela rappresenta come altri istituti una dimensione particolare, culturale sulla quale esiste una
forma di consenso che però si limita a ciascuna società, ogni società stabilisce autonomamente chi siano i
parenti.

DISCENDENZA
Principio culturale, è una costruzione sociale frutto del consenso dei membri della società, che definisce la
relazionalità attraverso il legame genitore-figlio. Quindi riconosce ufficialmente che genitore e figlio esiste
una relazione sociale significativa la quale fa sì che il genitore e il figlio, e nel tempo i figli del figlio siano
tutti parte, tutti inclusi in un particolare gruppo. Si tratta di una relazione che si trasmette (dal genitore al
figlio, e dal figlio a sua volta ai discendenti). Si tratta di una relazione che valorizza l'elemento biologico.
L'appartenenza a questo gruppo, dei discendenti, non è un'appartenenza fine a se stessa, tra i discendenti
spesso si instaurano dei sentimenti, aspettative ecc MA soprattutto tra i discendenti si instaurano delle
relazioni sociali ufficialmente riconosciute dalla società e che possono determinare situazioni giuridiche, o
politiche o di altra natura che hanno rilevanza ufficiale.
La discendenza rappresenta quel canale attraverso cui da una generazione all'altra avviene il trasferimento
di diritti, di doveri, trasmissione di beni, status, residenza, appartenenza etnica o comunque rappresenta il
canale attraverso cui si controlla l'accesso alle risorse della società.
In antropologia si sono osservati diversi modi di tracciare la discendenza nelle diverse società, alcuni sono
più inclusivi altri più esclusivi.
Un sistema piuttosto ampio di tracciare la discendenza è quello della discendenza indifferenziata: nella
quale si tiene conto tanto della discendenza maschile tanto di quella femminile.
Gli individui si considerano imparentati simultaneamente con il genitore paterno e con il genitore materno.

Esempio Bart Simpson: discendente in ugual modo della famiglia di Homer quanto famiglia di Marge.
Un altro sistema è la discendenza bilineare: Bart appartiene a 2 gruppi di discendenza, attraverso questi 2
canali possono transitare dei beni, titoli, status differenti a seconda dei diversi ruoli che sono inesplicati dai
genitori. Sempre attraverso queste 2 linee noi possiamo individuare i parenti di Bart, che saranno coloro
che hanno un legame biologico con Marge che con Homer. In caso di discendenza bilaterale e
indifferenziata il gruppo dei discendenti si forma attorno ad un individuo (il nostro ego, ad esempio Bart) e
comprende tutte le persone di entrambi i sessi collegate a Bart per via dei legami che in seno a quella
società si ritengono rilevanti, in questo caso sia il legame con il padre che con la madre.
Ciascun individuo che fa parte del gruppo di discendenti di Bart può avere un parentato diverso di cui Bart
farà parte ma di cui faranno parte anche altri individui non imparentati con Bart. Bart avrà parenti in
comune con Ling (figlia di sua zia) ma avrà anche parenti non comuni. Questi 2 meccanismi si sono osservati
spesso nella società maggioritaria euroamericana.

Esistono anche dei meccanismi più esclusivi di definizione della discendenza, ovvero meccanismi che
escludono dal gruppo dai discendenti individui che invece la discendenza indifferenziata e bilineare
farebbero invece rientrare.
Sistemi più restrittivi sono LE DISCENDENZE UNILINEARI. Queste discendenze si basano sul presupposto che
una relazione genitore-figlio sia più importante dell'altra. Ad esempio la relazione genitore maschio-figlio
sia più importante della relazione genitrice-figlio o viceversa. In questi casi la discendenza di Ego dipende da
quali dei due genitori in una data società abbia maggiore importanza, non potere.
I meccanismi unilineari possono essere 2:
1. MATRILIGNAGGIO:la discendenza è tracciata solo attraverso la madre e la nonna materna, quindi il
gruppo dei parenti discendenti si compone dei membri maschi e femmine che discendono
dall'antenato femmina attraverso la linea femminile. Significa quindi che ciò che è legato alla
discendenza viene trasmesso a Ego sin dalla nascita per il fatto che Ego sia figlio/a di una certa
madre e solo a questa si guarda per stabilire chi siano i parenti di ego.
Da un punto di vista ufficiale i figli non saranno discendenti dal padre o nonno, nel matrilignaggio.
Nel matrilignaggio però rileva un particolare legame, ed è quello che Ego instaura con lo zio
materno, in molti matrilignaggio esiste un istituto che si chiama avuncolato, è un complesso di
elementi giudici/culturali che informano la relazione tra lo zio materno e i suoi nipoti. In virtù
dell'avuncolato lo zio oltre a provvedere al sostentamento della famiglia di sua sorella trasmette ai
figli di lei i suoi bene, le sue cariche politiche, religiose e spesso esercita la propria autorità, si
comporta quasi da padre legale con i figli delle sue sorelle.
L'aggettivo matrilineare non si deve confondere con l'aggettivo matriarcale, si guarda alla madre
per stabilire la discendenza ma questo non significa che le donne hanno il potere perchè può
comunque accadere che comunque all'interno di un matrilignaggio siano gli uomini a ottenere
potere politico, normalmente nei matrilignaggi lo zio materno più anziano è anche il capo famiglia.
2. PATRILIGNAGGIO: il legame di un individuo con i suoi parenti viene tracciato tramite la via paterna.
Il gruppo dei discendenti si compone dei membri maschi e femmine che discendono dall'antenato
maschio della linea maschile.
Secondo una lettura antropologica succede che le donne nel momento in cui si sposano, le donne
che farebbero parte del lignaggio di loro padre escano dal patrilignaggio per entrare nel gruppo del
marito per far sì che i loro figli entrino nel lignaggio dello sposo e vi rimangano.
Molti studi ci hanno dimostrato che accanto ai casi di effettivo assorbimento delle mogli nel lignaggio del
marito, spesso si sono osservate delle formazioni sociali in cui i figli del lignaggio del padre, mantengono dei
legami molto saldi con i parenti della madre. In questo tipo di situazioni si parla di un'altra discendenza,
ovvero DISCENDENZA COMPLEMENTARE.
In questa discendenza la madre riconosce ufficialmente la relazione figlio-padre ma funge anche da anello
di congiunzione tra il figlio e lo zio materno. Ad esempio nelle società del Congo che sono patrilineari, nel
caso in cui un padre si dimostri incapace di mantenere e educare i propri figli questi ultimi vengono
sottoposti alle cure e protezione della madre maschile, ovvero lo zio materno.
Un caso particolare è quello degli Nzema del Ghana, presentano dei meccanismi di discendenza particolari.
In qualche modo valorizzano molto bene entrambe le linee di discendenza per quanto una resti quella
ufficiale (matrilignaggio) e una quella ufficiosa (patrilignaggio).
Una studiosa ha analizzato la Procreazione Nzema e ha dimostrato l'esistenza di 2 sistemi Nzema di
relazioni: uno identifica con sistema di discendenza ed è matrilineare, e l'altro sistema è di filiazione che
invece segue la linea materna, patrifiliazione. Arriva a capire questo perché nel processo di Procreazione
Nzema c'è l'esito di un doppio contributo: la madre fornisce al bambino ossa e carne, il padre sangue e
spirito. Quindi entrambi questi 2 individui trasmettono al figlio elementi essenziali alla sua sopravvivenza.

INQUADRAMENTO STORICO-GIURIDICO DELLE PRESENZE ROM E SINTI IN EUROPA E IN ITALIA


ZINGARO —> espressione “politetica” costruita da individui accumunati soltanto da una stigmatizzazione
negativa ovvero il fatto di essere disapprovati socialmente da parte di coloro che al contrario, non si
considerano zingari. È un’espressione usata da moltissimo tempo ma che è estranea ai rom e ai sinti, non fa
parte del loro vocabolario. Alcuni fanno derivare questa parola dal greco, altri dal turco o dal persiano, si
pensa che possa giungere da più lingue ma in realtà non ha un’origine certa. È una parola che ritroviamo in
molte varianti nelle varie lingue europee (gitano, gipsy,,,).il significato è altrettanto fluido. Si usa per
definire più comunità che ha soggetti che cambiano nel corso degli anni e che hanno caratteristiche
culturali molto diverse ma che sono accomunati in questa categoria di “zingari” a causa della
stigmatizzazione negativa e della disapprovazione sociale. È una categoria che viene costruita dai non
zingari per indicare coloro i quali vengono considerati zingari. È una categoria che tende a caratterizzare
coloro i quali ci ricadono forzatamente in senso discriminatorio, sulla base del fatto che queste persone
apparentemente adottano uno stile di vita diverso da quello adottato da coloro che si definiscono non
zingari. È una categoria che segna il destino e la condizione sociale e giuridica di coloro che vengono
etichettati come zingari. 

GAGÉ —> così come lo zingaro rappresenta l’alteritá per il non zingaro, il gago rappresenta l’alteritá per lo
zingaro, ovvero ciò che non è romani o romanes. Il gago, in genere, è anche il nemico per definizione, il
quale per guadagnarsi la fiducia del rom e del sinto, deve dimostrare di non essere tale. Zingari e gage sono
costruzioni/rappresentazioni provenienti dall’esterno, rispettivamente da una delle due parti per descrivere
l’altra e sono in opposizione, ma la dimensione romani e quella gagikani possono facilmente mescolarsi, per
esempio tramite i matrimoni. I gage sono dividi rispetto a tutta la dimensione rom in cui rientrano alcuni
gruppi. Dal punto di vista dei rom e sinti, la dimensione gagikani è  imperfetta e viceversa. 

Questi due vocaboli, in sintesi, sono rappresentazioni, costruzioni, provenienti dall’eterno, dall’una o
dall’altra parte per descrivere chi sta dall’altra parte. Entrambi sono convinti che queste due categorie
siano molto diverse, in realtà nella pratica queste realtà si mescolano molto spesso (matrimoni appunto).
Sono dimensioni malleabili anche se al momento del matrimonio, l’idea è che una delle due dimensioni
debba cedere il passo all’altra, quindi c’è un processo di degagizzazione e di deziganizzazione. 

QUANTI ZINGARI? 
I numeri e le statistiche non sono per niente precisi perché molti di coloro che appartengono a questi
gruppi, mettono in atto strategie mimetiche e cercano di confondersi con le popolazioni non zingare per
facilitare la propria vita, perché dichiararsi zingari non è conveniente dati i numerosi pregiudizi. Allo stesso
modo non è  conveniente dichiararsi come rom e sinti (che sono i loro nomi corretti) perché viene
semplicemente considerato un sinonimo di zingaro e quindi considerato negativo. Anche da un punto di
vista antropologico l’operazione di quantificare e studiare questi gruppi è difficile perché le espressioni che
si potrebbero utilizzare rinviano sempre ad una doppia immagine: da un lato identificano questi gruppi,
dall’altro li stigmatizzano fortemente. 
Il problema è  difficile da risolvere perché nel caso di altri gruppi il processo di auto-identificazione può
servirsi di una serie di riferimenti che non solo sono neutri, ma sono anche vari, quindi ragionare
sull’identità di alcune comunità può risultare più semplice rispetto a queste comunità di rom e sinti. Queste
categorie non hanno una lingue nazionale di riferimento riconosciuta, non hanno una fede ufficialmente
riconosciuta o un luogo di appartenenza, un luogo statale (uno stato rom o sinto), in alcuni casi non hanno
una cittadinanza (alcuni sono apolidi) e per coloro che la cittadinanza ce l’hanno, spesso l’identità nazionale
non rispecchia la loro identità culturale. Da un gruppo all’altro si possono trovare diverse idee, pratiche
culturali, sistemi giuridici… anche l’elemento che si pensa essere distintivo di queste culture, ovvero il fatto
di essere nomadi, non è un elemento che li distingue tutti, perché alcuni sono completamente stanziati. Per
questo e per altri motivi solo alcuni dei numeri che abbiamo sono relativamente affidabili, anche perché
non è mai stato fatto un censimento europeo delle popolazioni rom e sinti e non è nemmeno possibile fare
un censimento etico perché è illegale. Sono abbastanza affidabili le cosiddette stime che possono essere
fatte nei vari stati europee. Tali stime negli ultimi decenni sono rimaste quasi invariate, queste stime si
deducono dai rapporti europei che presentano i numeri minimi e massimi di rom e sinti nei vari contesti
(dentro la scuola, al lavoro…). Stando alle stime minime degli anni 2000, in tutta Europa la popolazione si
aggirava intorno ai 6 milioni circa di persone di etnia rom e sinta, le stime massime parlano di circa il
doppio. 

Leonardo Piasere, antropologo, ha idealmente suddivido circa 7 milioni di questi ipotetici sinti e rom in tre
diverse “Europe”:
1. Europa zingara —> maggiore concentrazione di etnia rom e sinta. Racchiude circa il 60% di tutta l a
popolazione rom e sinta che troviamo in Europa e che è concentrata nelle aree balcaniche
(Romania, Bulgaria, Slovacchia, macedonia…). All’interno di ciascuno di questi stati ci sono delle
variabili, non sono tutti equamente distribuiti in questi stati. In ciascuno di questi stati c’è una
percentuale che va dal 3/4% all’11% sulla popolazione totale. La Romania è lo stato con la maggiore
concentrazione di rom e sinti di tutta l’Europa (circa il 26% di tutta la popolazione rom e sinta che si
trova in Europa). 
2. Europa zingara —> racchiude circa il 14.7% della popolazione rom e sinta europea per lo più situata
nella zona atlantica (Portogallo, Spagna, Irlanda, Francia) 
3. Europa zingara—> si costituisce di circa il 10.5% di tutta la popolazione rom e sinta Europa (Italia,
Regno Unito e Germania). In questi paesi la popolazione rom e sinta va dalla 0.10% allo 0.15%.
Molto spesso questa area è quella su cui si basano le valutazioni sulle comunità rom e sinti di tutta
Europa e ciò porta ad una grande incomprensione dato il basso numero di persone rom e sinti
presenti. Dovrebbero utilizzare le altre aree per avere valutazioni più realistiche. 

Non è possibile individuare traiettorie precise sul modo in cui dentro queste tre Europe le comunità rom e
sinti si distribuiscono. Per esempio in Bulgaria le popolazioni rom e sinti hanno ripopolato interi villaggi,
mentre in altri paesi sono solo in zone periferiche. 

Si può affermare che nel sud-est europeo c’è una maggiore concentrazione di popolazione rom e sinta
rispetto ad altre zone europee, le ragioni di questo sono note, sono ragioni storiche —> affondano le radici
nel 1300/1400: il continente è diviso in due, nell’Europa occidentale c’è un sistema feudale che sta finendo
e inizia a svilupparsi l’economia capitalista, sradicamento dei contadini dalle campagne, mercantilismo,
allentamento dei legami servili, in Europa orientale invece il feudalesimo sta nascendo, quindi si sta
costituendo una divisione gerarchica rigida tra vassalli e proprietari terrieri. Il modello di dominazione che
adotta l’impero Ottomano, che si sta ampliando in quel periodo storico, viene chiamato tributale e significa
che si basa su una fonte imposizione fiscale sui popoli conquistati, la quale è controbilanciata da una
autonomia nelle politiche domestiche e le politiche domestiche e i modelli culturali di riferimento e questo
vale anche per rom e sinti, per loro quindi non sono previsti statu particolari ma sono considerati uguali a
tutta la popolazione conquistata, devono solo pagare le tasse come gli altri. All’interno dell’impero
ottomano ci sono anche due stati vassalli: il principato di Moldavia e il principato di Wallachia che hanno
uno status giuridico particolare, sono abbastanza autonome, qui gli zingari sono schiavi a priori fin dal
momento della nascita. Sono schiavi, considerati proprietà dei signori e sono quindi venduti, scambiati… ma
rappresentano in quanto schiavi e lavoratori, una grande risorsa. Sono considerati beni di lusso in questi
due principati, e quindi verso di loro c’è una politica protezionista. 
La presenza di rom nell’est Europa resta stabile per molti secoli e questo giustifica gli altri numeri attuali. 

Diversa è la situazione dell’europa occidentale (nord-ovest) —> sembra che in questa parte di Europa gli
zingari arrivino circa attorno al 1400. Ci arrivano perché sanno che ci sono regioni molto ricche e non c’è
schiavitu, ma c’è bisogno di manodopera a basso costo. Però fin dagli inizi, le cronache di questi tempi
raccontano di rapporti molto difficili e ostili tra popolazione gage e comunità rom, soprattutto tra rom e
gagi tedeschi. Queste cronache raccontano che c’è difficolta a sottomettere queste comunità alle politiche
di dominazione ce si stanno sviluppando in questo cambiamento europeo (fine del feudalesimo…). In
questo contesto le comunità rom e soprattutto quelle che praticano una maggiore mobilita resistono al
sistema di dominazione imposto da questi nuovi stati nascenti, sfuggono al controllo dello stato che si
irrigidisce e si centralizza sempre di più imponendo regole, come la sedentarizzazione, che non sono
compatibili con queste comunità, ecco che lo zingaro diventa l’emblema della disobbedienza, diventa
simbolo di colui che non vuole assimilarsi. E per questo diventa anche qualcuno da denigrare e cacciare e
condannare e talvolta da perseguitare con disposizioni anti-zingare estremamente aspre emanate sia dagli
stati che dalla chiesa. A partire dal 1400 circa fino a tempi recenti queste comunità rom e sinti subiscono
violenze atroci ma nessuno riuscirà mai a dominarli. 
Dalle fonti risulta che  attorno alla fine del 1700 ci siano regioni europee che si vantano di non avere zingari,
ma probabilmente molti di loro si sono semplicemente nascosti lungo i confini o nelle regioni impervie
(foreste per esempio). Tutti questi che sono riusciti a sopravvivere hanno sviluppato una organizzazione
sociale che Piasere definisce “organizzazione a polvere” nel senso che si sono riorganizzati in gruppi esigui
più o meno mobili accomunati dal fato di esser composti da parenti, normalmente sono famiglie allargate.
Piasere dice che loro probabilmente hanno tentato di rispondere a questa dispersione forzata con la
coesione parentale. La coesione parentale è uno degli elementi fondamentali della cultura rom —> viene
elaborata una vera e propria cultura della parentela come atto di resistenza e resilienza contro i gagi.
Quindi i soggetti restano nascosti ma comunque legati. 

LE EUROPE ZINGARE
La storia degli zingari in Europa è la storia di alcuni popoli europei completamente censurata perché
l’identità rom è considerata in antitesi con l’identità Europea che si vuole costruire nel 1400. Tale identità
europea è sedentaria e questo aspetto si ritiene antitetico rispetto al nomadismo che viene universalmente
attribuito ai rom. Si pensa che i rom siano in antitesi con le popolazioni maggioritarie perché li si ritiene tutti
nomadi, mentre invece il nomadismo è  più un immagine che si attribuisce a questi gruppi che un vero e
proprio tratto reale. Piasere ha disegnato altre due Europe zingare oltre alle tre precedenti, guardando alle
pratiche d mobilita e sedentarietà delle comunità rom —> fin da tempi remoti, nell’immaginario delle
popolazioni europee, anche per via della letteratura e dell’arte, si è  diffusa una cosiddetta immagine-
schema che ha un forte potere inconscio ed è un’immagine che rappresenta l’idea che si ha di un’esterna
comunità, ed è l’immagine stereotipata dello zingaro nomade. È  sicuramente vero che esistono gruppi rom
itineranti, ma è altrettanto vero che le varie trasformazioni che si sono avute a livello sociale, politico ed
economico hanno portato per alcuni gruppi ad una scomparsa delle pratiche itineranti e per altri gruppi
invece le hanno introdotte. Oggi circa l’80% della popolazione rom e sinti è sedentaria. Le politiche dei
campi nomadi e degli sgomberi , hanno creato nell’ultimo secolo comunità rom e sinti forzatamente
nomadi. Bisogna trattare i concetti di mobilita e sedentarietà in modo delicato perché sono concetti molto
relativi. 
Piasere dice che, in linea di massima,  si può considerare sedentaria una comunità più o meno estesa che si
sposta poco, che ha un domicilio fisso e che ha una abitazione stabile. Mentre il concetto di mobilita si
deduce dal concetto precedentemente espresso. 
Piasere quindi sostiene che si possa tracciare una linea in Europa che da oriente ad occidente la divide. Al di
sopra della linea (Francia, Germania, Inghilterra, Italia settentrionale…), la comunità rom e sinta, in
coincidenza con la seconda guerra mondiale, era tendenzialmente ancora itinerante. Al di sotto della linea
(Spagna, centro e sud Italia…) la popolazione rom e sinta è  tendenzialmente sedentaria in quello stesso
periodo storico. 

LE EUROPE ROM, SINTI, MANUS, KALE


Servendoci sempre ad altre Europe zingare di Piasere osserviamo altri aspetti. 
Fino ad ora le europe che abbiamo visto sono quelle che sono viste da fuori, non dai rom. Ci sono anche le
Europe “viste da dentro” , ovvero come queste comunità si vedono rispetto all’Europa e come si
identificano. 
Il professor Piasere distingue quindi altre due europe tracciando una linea che divide l’Europa
verticalmente: 
 A Est si trovano in maggioranza comunità che si chiamano Rom. Rom è  anche un vocabolo della
lingua romanes e ha un doppio significato, da un lato rappresenta un etnonimo, ovvero
un’espressione con cui l’intera comunità si auto-denomina, dall’altro Rom significa uomo/marito. 
 A Ovest si trovano una molteplicità di gruppi che si identificano secondo nomi differenti, tra questi
gruppi ci sono anche i Rom, oltre a gruppi sinti, manus e kale. Questi gruppi, sono accomunati dal
fatto di parlare dialetti inter-comprensibili, e sono delle lingue che contengono tanti vocaboli locali
e tanti vocaboli romanes. Sinti e manus sono imparentati che ad un certo punto della storia si sono
divisi in rotte migratorie differenti. Alcuni dei manus che arrivano in Italia, si uniscono ai sinti italiani
e ricominciano a identificarsi come sinti. I kale sono principalmente in Finlandia, nel Galles e in
Spagna, conosciuti anche come gitani. Kale deriva dal romanes e significa “neri, scuri di carnagione”
è spesso stata usata come dispregiativo dai gage.

In mezzo a loro, se per un attimo ci dimentichiamo la linea immaginaria, si trovano altri gruppi sparsi che si
distinguono perché non parlano la lingua romanes. Ad esempio nel nord ovest dell’Europa si trovano questi
gruppi che si denominano Travellers oppure Rudari.

Non è possibile definire la cultura rom come una sola a livello globale perché è  estremamente
differenziata. Non si possono proporre generalizzazioni. Per affrontare un qualsiasi discorso su queste
comunità bisogna studiare le reti familiari e i loro rapporti con le comunità rom in Europa e con i gagi
presenti in quel particolare contesto. Queste relazioni possono essere di lunghissimo periodo o appena
iniziate, devono tenere conto delle politiche locali presenti riferite a queste comunità. Il tutto non deve mai
dimenticare tutta la storia che segue e che ha caratterizzato queste comunità.

ZINGARI
In quanto categoria etnicizzante e genetico-biologica, il termine si applica soprattutto ai gruppi rom e sinti
(benché questa parola non appartenga ai vocabolari romanes e sinto).
Si tratta però anche di un termine ombrello che può essere usato per includervi un numero maggiore di
gruppi (come i travellers irlandesi, gli jenishe della Svizzera e le gens du vojage francesi) caratterizzati in
modo discriminatorio sul presupposto di un particolare stile di vita che la maggioranza sociale attribuisce
loro e percepisce come distante dal proprio.
I rom e sinti che hanno perso la vita dei lager nazisti sono stati 500.000 e sembra che nessuno li voglia
ricordare.
ANTIZIGANISMO
Termine coniato nel 1928 dal cittadino sovietico di etnia rom Aleksandr German (era un attivista) per
denunciare l’atteggiamento ostile verso i rom. È usato ancora per indicare:
 il sistema di pregiudizi e le forme di comportamento avversi agli zingari che, ieri come oggi, sono
quanto mai vivi in Europa (e non solo)
 un vero codice culturale che si è profondamente radicato nella nostra cultura e che costituisce un
misto di pregiudizio tradizionale, odio e delirio razzialista verso chi è percepito come zingaro.
Spesso il termine zingaro viene chiamato in causa anche nella presunzione di molti di poter parlare
delle comunità rom e sinte indipendentemente dall’aver avuto mai esperienze dirette con queste
comunità, gente che parla di loro senza sapere niente.

L’antiziganismo e l’antisemitismo sono affini, salvo che:


 gli stereotipi su zingari ed ebrei funzionano diversamente: i primi sarebbero arcaici e primitivi,
mentre i secondi sarebbero esempi di eccessiva civilizzazione o rifiuto della modernità. Questa
distinzione ce la portiamo dietro dal passato e l’abbiamo avuta anche in tempi recentissimi (es.
nelle enciclopedie abbiamo ancora la definizione di zingaro nell’ottica di persona inferiore rispetto
alla nazione ospitante)
 il razzismo verso gli zingari è più complesso perché mescola elementi “razziali” con tratti di
avversione basati su argomenti altri rispetto alla “razza” (gli zingari sono nomadi, ladri, refrattari a
ogni forma di integrazione, parassiti). C’è una diffidenza basata su argomenti e caratteristiche che si
considerano essere innate negli zingari ma che non sono di tipo razziale, ci si accanisce verso di loro
con espressioni di odio che prescindono da aspetti biologici
 gli zingari sono vittime di cui nessuno sa o vuole troppo parlare (salvo pochi studiosi che si
occupano dei gruppi rom e salvo, in tempi recenti, i movimenti attivisti rom). Per esempio, nel U.S.
Holocaust Memorial Museum di Washington ci fu una proposta di inclusione delle comunità rom e
sinte nelle vittime dell’olocausto, ma alcuni si sono opposti a ciò perché credevano che non
“meritavano” di rientrare in quel contesto
 la mancata elaborazione storica, culturale e sociale condanna gli zingari, facendo si che la loro
discriminazione sia accettata o ritenuta addirittura doverosa.
Già storicamente gli zingari sono sospetti: per uno stile di vita percepito come distante, per l’origine ignota,
per l’ambiguità religiosa, per il supposto colore della pelle. Anche per gli zingari si traccia la linea del colore:
svariati autori scrivono di loro come neri come tartari, popolo nero.
Si sviluppano tre teorie del colore degli zingari:
1. non sono naturalmente neri ma tinti
2. ci sono zingari bianchi (quelli sedentari) e zingari neri (quelli nomadi). Quanto meno si adeguano
alle regole della maggioranza, tanto più vengono percepiti scuri
3. sono scuri perché provengono dall’India.
Le prime azioni razziste iniziano nel 16esimo secolo in Spagna e in Portogallo, c’è un’ossessione sulla
limpidezza del sangue. Ciò comporta l’interdizione civile ed ecclesiastica per loro e per coloro che non sono
in grado di dimostrare di discendere dai vecchi cristiani presenti sul territorio (rom e musulmani convertiti).
Sempre nel 16esimo secolo con la riforma protestante c’è una vera e propria caccia agli zingari, soprattutto
nell’est Europa.
Nel 1710 Adolfo Federico del grandcucato Meclemburgo-Sterlitz fa marchiare ed espellere tutti gli zingari
dal suo territorio.
Nel 1725 re Federico Guglielmo I di Prussia fa impiccare tutti gli zingari maggiorenni.
Nel 18esimo secololo in Austria e Svizzera vengono sottratti i figli ai popoli rom e sinti.

DISCRIMINAZIONE RAZZIALE DEL 2OESIMO SECOLO: la funesta fusione di teorie e propagande


Gobineau unisce teorie evoluzioniste sulla natura e tipizzazioni effettuate nelle scienze antropologiche,
mentre Lombroso teorizza la criminalità ereditaria: gli zingari diventano l’immagine viva di una razza intera
di delinquenti. Alcune caratteristiche attribuite agli zingari diventano innate, infatti inizia un’ossessiva
propaganda sulla purezza razziale.
Heinrich Himmler (1938) si rifà ufficialmente ai criteri razziali sviluppati dagli eugenisti tedeschi per
distinguere:
1. gli zingari razzialmente puri (reinrassige) inizialmente non perseguitati
2. gli zingari di origine mista (mischlinge), considerati pericolosissimi portatori di contaminazione
razziale.
Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, gli zingari (puri o meno) diventano una categoria da eliminare al pari
di ebrei e comunisti. Vengono rinchiusi nello zigeunerlager o lasciarli nel reich ma sterilizzati, in modo da
vietare la loro riproduzione.
L’antiziganismo non si chiude con la fine del nazismo, è nato con gli zingari del 1400, ma in forme diverse
continua a perpetrarsi ancora oggi.
Oggi molti rom e sinti sono segregati in campi separati sul presupposto che “in quanto nomadi” questo sia il
loro habitat ideale. Il campo li nasconde al resto della cittadinanza, in esso ogni forma di diritto viene
sospesa con la complicità di coloro i quali dovrebbero garantire il rispetto del diritto e dei diritti, ovvero
istituzioni e forze dell’ordine.
Nei campi essi devono riorganizzarsi in sistemazioni mobili o fatiscenti baracche, in aree spesso non
attrezzate. Devono “zinganizzarsi” in quanto “zingari” nell’immaginario collettivo italiano (e non solo).
La realtà che accettano non appartiene alla maggior parte di loro che prima di giungere in Italia era
sedentaria, tanto che nelle lingue romanes il termine “campo” non è nemmeno contemplato.
Chi popola questi campi, per la maggior parte è scappato dalla guerra in Iuguslavia, però ora queste
comunità non hanno più un proprio stato, pertanto sono costrette ad errare da un posto all’altro, ecco
perché vengono percepiti come nomadi.

ADOZIONI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: stati donatori e stati riceventi


Mancano dati sulle adozioni di minori che fanno parte delle minoranze interne agli stati (minoranze
culturali, religiose o linguistiche). Esistono gruppi donatori e gruppi riceventi?

In figura, i minori per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso in Italia secondo il paese di
provenienza.
Nel mondo giuridico quando si parla di adozioni di minori si distingue fra adozioni nazionali ed adozioni
internazionali. non si fanno distinzioni sui minori che fanno parte delle varie minoranze all’interno degli
stati.
I dati non tengono conto di questo elemento, questo significa nascondere e trascurare il fatto che dentro
ciascuno stato ci sono dei gruppi che ricevono i bambini e dei gruppi donatori di bambini.
Diversamente, si sa che esistono degli stati donatori e degli stati riceventi (es. in figura).
L’Italia è uno stato che quasi mai dà in adozione i propri bambini, è uno stato per lo più ricevente. Mette i
propri bambini nel circuiti delle adozioni interne (nazionali) ma difficilmente o mai dà i propri bambini fuori
i propri confini.
Ci sono degli accordi ufficiali che stabiliscono che ci siano degli stati che non donino dei bambini e che li
ricevano soltanto (sono situazioni molto sbilanciate, perché si riesce a capire in genere che le adozioni
svolgono due traiettorie specifiche: da est ad ovest e da sud a nord).
I meccanismi che regolano alle adozioni nazionali non rispondono ad accordi diplomatici, sono più celati e
subdoli, ma una volta svelati manifestano dei forti sbilanciamenti giustificati in vario modo, alcuni dei quali
vengono alla luce prepotentemente e lasciano poco spazio alle contestazioni.
Ad esempio, in Australia nel 1995 la Human Rights and equal opportunities Commission on aboriginal
people nasce un progetto nuovo: Bringing them home.
Molti bambini erano stati tolti alle loro famiglie, il 13-17% dei minori di un’unica comunità era stato tolto
dalle loro case per andare in adozione a delle famiglie europee.
Nel 2008 il primo ministro australiano presenta in una conferenza stampa delle scuse ufficiali alle comunità
aborigene. Dice che nel decennio tra il 1995 e il 2005 in alcune comunità rom nell’Italia del nord sono stati
rimossi e dati in adozioni a famiglie gadget circa il 14% dei minori, dati come quelli presenti in Australia.
Qualche tempo dopo le scuse, è il turno del Canada, in cui il primo ministro presenta le sue scuse ufficiali
alle comunità indio-orientali per il periodo chiamato “60ies scoop” (arco storico compreso fra gli anni ’60 e
’90, in cui dagli 11.000 ai 20.000 minori delle famiglie indigene sono stati tolti alle loro famiglie).
Emerge che in alcune particolari famiglie sono state particolarmente interessate a questo fenomeno e un
giudice facente parte della Commission canadese ha definito questo fatto un vero e proprio genocidio
culturale, poiché sono stati dispersi così tanti membri di comunità che possono far sparire le stesse
culturalmente.
Nel 1986 il presidente della configurazione Elvetica, fa le sue scuse alla comunità Jenishe, un gruppo
itinerante spesso affiancato ai sinti, dicendo che dal 1926 al 1972 una media di 12,7 minori jemishe all’anno
sono stati tolti dalle famiglie per essere messi nei collegi o a lavorare delle dipendenze delle famiglie
contadine svizzere.
Dal 2006 al 2012 emerge che il numero di bambini rom dati in adozione ha raggiunto il numero di 28,8
all’anno (da una ricerca effettuata a Roma).
Le autorità hanno così sentito il dovere di scusarsi per ciò che era stato fatto.
Il professor Piasere ha così ritenuto di chiedere un’indagine per sapere con certezza i dati di questi
fenomeni.
Ma dopo l’adozione cos’è successo? Non tutti i bambini venivano dati ad altre famiglie, ma venivano dati ai
parenti dei genitori, in modo che potessero stare con persone conosciute e in un contesto familiare.
In Nuova Zelanda si è scelto di non osservare questo fatto, allontanando i bambini dal loro contesto e
dandoli a famiglie sconosciute. In questo modo ci fu un’impennata di problemi pedagogici e di vissuti di
emarginazione (i bambini presi in esempio sono maori).

ADOZIONI DI MINORI ROM


Bisogna abbandonare l’immagine-schema della famiglia rom abusiva: non c’è differenza rispetto ai gagè.
Così come si deve abbandonare la visione minoritari sta: un ipotetico “stato rom” si collocherebbe al nono
posto (in ordine demografico) fra i paesi d’Europa, visto che sono all’incirca in 10.000.000 solo in Europa.
I rom sono minoranze in seno a ciascuno stato per via della dispersione che fa perdere loro massa critica.
Nel caso italiano: i minori rom dati in adozione sono quasi tutti figli di famiglie rom straniere (ovvero
soggetti ancor più fragili per via della loro mancanza di cittadinanza) e deboli sotto ogni aspetto (giuridico,
economico, sociale e abitativo).
Carlotta Saletti Salza afferma che ci sono state dichiarazioni pronunciate tra il 1985 e il 2005:
 in otto tribunali per i minorenni italiani: Torino, Venezia, Firenze, Bologna, Bari, Lecce, Trento e
Napoli
 8.830 procedure totali: di queste, 227 procedure di adottabilità sono relative a minori rom e sinti
(con 258 minori rom e sinti dichiarati adottabili, perché ogni procedura può riguardare più bambini
di una stessa famiglia). Solo una bambina è tornata alla sua famiglia d’origine.
 La fascia d’età più frequente è quella fra gli 0 e 4 anni, quando questi bambini diventano grandi non
li vuole più nessuno
 I genitori adottivi hanno rifiutato espressamente l’adozione quando hanno scoperto che si trattava
di un bambino rom, sull’idea che avessero una natura deviata, per via del loro sangue
Citazione del professor Piasere:

Carlotta ha rilevato criticità sugli interventi che sono stati effettuati dagli operatori sociali e magistrati:
 Il non intervento: la giustificazione del mancato intervento si basa sull’idea (banale e
pregiudizievole) secondo cui “intervenire non servirebbe a niente” poiché i rom non possono
emanciparsi dalla loro supposta cultura, quindi tanto vale ignorarli (con il rischio di non intervenire,
garantendo tutela, nemmeno nei casi in cui sarebbe invece necessario). Ad esempio, nel
nomadismo, si pensa che tutte le famiglie rom e sinti siano sempre in movimento, perciò si pensa
che non ha senso utilizzare delle risorse per loro visto che sono abituati a spostarsi (così come si
pensa che tutte le donne siano maltrattate e tutti i minori siano costretti a rubare, proprio come i
loro genitori). Si tratta di pregiudizi sociali che viziano l’immagine di queste comunità. Altri
pregiudizi vedono la cultura rom come una non cultura
 Intervento indifferenziato: intervento nei confronti del minore (allontanandolo) pensando di
doverlo tutelare dalla sua stessa famiglia e facendo del minore un soggetto preferenziale per
intervenire su una supposta cultura universale.

SOGLIA SOCIALE
È quella condizione limite avvertita dall’operatore come la condizione che identifica una situazione di
pregiudizio per il minore. L’operatore verifica cioè una situazione familiare e sociale, una condizione di vita
piuttosto che un dato comportamento (del minore o dell’adulto di riferimento), come quelli che mettono il
minore in una posizione di rischio per la sua persona e per la sua crescita, fisica e/o affettiva.
Il problema sta nel fatto che, nell’ambito degli interventi di allontanamento dei minori rom e sinti, vi è
ampia discrezionalità da parte degli operatori nella valutazione di questa soglia e quindi ampia variabilità,
nei differenti casi, relativamente ai criteri utilizzati per la determinazione della condizione di abbandono
morale e materiale.
In alcuni casi i bambini sono stati allontanati perché i genitori, che stavano scappando dalla guerra in
Iugoslavia, hanno lasciato i bambini dai nonni, avendoli presi una volta sistemati nel nuovo paese. Questo
per gli operatori era una forma di abbandono, perciò hanno preso in custodia i minori.
Si potrebbe tentare di uscire da questa dinamica di “tutela” del minore rom accostandosi con maggiore
sensibilità al grado di pregiudizio del singolo minore di cui ci si sta occupando, adottando gli strumenti e le
risorse (anche se scarsi) che già esistono al suo contesto di vita, anche se i genitori si sono trovati ad abitare
in un “campo nomadi”, in una baracca fatta di legno, plastica e lamiera, con un fornellino a bombola per
scaldarsi e cucinare con i topi.
Nell’ambito della tutela minore questo vuol dire conoscere la storia del singolo minore in relazione al
contesto famigliare e sociale in cui egli vive.

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