Per “diritto internazionale pubblico” si intende l’insieme delle norme che regolano i rapporti tra gli enti che partecipano alla vita
di relazione internazionale, che quindi compongono la comunità internazionale.
QUALI SONO GLI ENTI CHE COMPONGONO LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE?
Gli Stati, le organizzazioni internazionali, i movimenti insurrezionali, i movimenti di liberazione nazionale (es. OLP), i governi in
esilio, i comitati internazionali all’estero (fenomeno che appartiene al passato) e vi sono gli enti sui generis quali il Comitato
Internazionale della Croce Rossa, l’Ordine di Malta e la Santa Sede.
La comunità internazionale è una comunità di coordinamento e non di subordinazione. NON esiste nella comunità
internazionale un’autorità sovraordinata, MA gli Stati partecipano ad essa suun piano paritario. Certamente ci sono Stati più
potenti di altri, ci sono Stati più grandi di altri, ma tutti partecipano sullo stesso piano alla comunità internazionale e tutti
contribuiscono con la loro prassi alla formazione della consuetudine (le fonti primarie del diritto internazionale).
Le tre funzioni tipiche di un ordinamento giuridico sono:
1) La produzione del diritto; 2) l’accertamento del diritto; 3) la realizzazione coercitiva del diritto.
Queste funzioni nell’ordinamento internazionale sono decentrate, cioè tutti gli Stati contribuiscono attraverso meccanismi primari
a queste tre funzioni. Viceversa, negli Stati queste tre funzioni sono accentrate in determinati organismi.
1. La produzione del diritto internazionale: cioè delle norme che regolano i rapporti tra gli enti che compongono la
comunità internazionale. Quindi non c’è un unico organismo a cui è affidato il compito di produrre il diritto internazionale,
ma le norme internazionali sono create dagli Stati e dagli altri enti che compongono la comunità internazionale.
2. L’accertamento del diritto: negli ordinamenti interni, i tribunali di solito hanno una competenza obbligatoria, quindi
qualsiasi persona fisica o giuridica può convenire un’altra, quando ritiene di essere stata lesa o ha una pretesa, dinanzi
al tribunale. Il limite è che tale tribunale deve essere competente dal punto di vista territoriale. Nell’ordinamento
internazionale, invece, uno Stato può convenire un altro Stato davanti ad un tribunale internazionale soltanto se lo Stato
convenuto ha espresso il proprio consenso affinché la controversia sia sottoposta al tribunale stesso. La Corte
Internazionale di giustizia, organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite (Aja, Olanda) ha una giurisdizione
consensuale, cioè può pronunciarsi su una controversia solo se entrambi gli Stati parte della controversia sono
d’accordo affinché questa sia decisa dalla Corte.
3. La realizzazione coercitiva del diritto internazionale: lo Stato che ritiene di essere vittima di una violazione di una
norma internazionale da parte di un altro Stato può reagire in autotutela, ossia può comminare una contromisura, che
consiste in un atto che di per sé è illecito, ma diventa lecito perché costituisce la reazione ad un illecito altrui. Essa ha
come obiettivo la cessazione dell’illecito se è questo è a carattere continuo; in secondo luogo abbiamo la riparazione la
quale, può consistere nel risarcimento (es. dazione somma di denaro), nella restituzione intesa come ripristino della
situazione preesistente prima della commissione dell’illecito, può anche consistere nella soddisfazione. Invece, nell’ord
interno, tutto questo non è possibile in quanto l’individuo non può agire in autotutela poiché è un reato l’esercizio
arbitrario delle proprie ragioni.
Diritto internazionale privato: insieme delle norme che regolano i rapporti tra persone fisiche e giuridiche che presentino un
collegamento con più ordinamenti giuridici stranieri.
Ad esempio, nel caso in cui un matrimonio sia contratto da Tizio (italiano) con Sempronia (argentina), la disciplina del matrimonio
sarà oggetto del diritto internazionale privato. In questi casi le norme interne contengono un rinvio alle norme dell’ordinamento
giuridico straniero interessato. Es: in Italia la capacità giuridica degli stranieri è regolata dalle norme dell’ordinamento giuridico
dello stato di cui lo straniero è cittadino.
2 ENTI.
Gli enti che partecipano alla vita di relazione internazionale sono dotati, in misura variabile, della soggettività internazionale. La
soggettività internazionale è la capacità di essere destinatari di norme internazionali e di pretendere il rispetto di tali norme da
parte degli altri soggetti.
1. enti territoriali, cioè gli Stati sovrani e indipendenti e i movimenti insurrezionali (o insorti). Si tratta di enti che si
caratterizzano per il fatto di esercitare un controllo su un territorio;
2. enti non territoriali che aspirano a diventare organizzazioni di governo di un territorio, sonoi governi in esilio, i
comitati internazionali all’estero, i movimenti di liberazione nazionale;
3. enti non territoriali che non aspirano a divenire organizzazioni di governo di un territorio, sono i cosiddetti enti sui
generis, cioè la Santa Sede, il Comitato Internazionale della Croce Rossa e l’Ordine di Malta;
4. organizzazioni internazionali.
n.b: Gli Stati hanno una soggettività internazionale piena, gli altri enti hanno una soggettività internazionale più o meno limitata
a seconda dei casi. → Ad esempio, la soggettività internazionale degli insorti è connessa al controllo del territorio che essi
hanno, dunque potranno stipulare accordi con il governo costituito diretti alla sospensione o cessazione delle ostilità in corso;
potranno stipulare accordi volti a definire il futuro status del territorio che controllano.
L’individuo è un soggetto di diritto internazionale? Secondo alcuni si, secondo Ronzitti ed altri l’individuo NON è un soggetto di
diritto internazionale perché non partecipa a nessuna delle tre funzioni dell’ordinamento giuridico internazionale, è ancora oggi
una tesi controversa. La tesi sulla soggettività internazionale dell’individuo si poggia su due elementi: a)la circostanza che
l’individuo sia legittimato ad adire alcune Corti internazionali per la tutela dei propri diritti. Ad esempio l’individuo può presentare
ricorso alla Corte EDU quando ritenga che uno o più diritti, sanciti dalla CEDU, siano stati violati da uno stato parte della
Convenzione; b)la circostanza che gli individui possano essere considerati responsabili di crimini internazionali. Per tale motivo
possono essere sottoposti a processo dinanzi ad un tribunale internazionale, oltre che da un tribunale interno, ed essere puniti.
La Corte Penale Internazionale punisce i responsabili dei crimini di guerra, contro l’umanità, di genocidio, di aggressione.
➔ Es: San Marino, Principato di Monaco, la Città del Vaticano. Questi sono Stati che hanno una popolazione talmente
ridotta e delle dimensioni limitate ed in quanto tali necessitano del supporto degli Stati confinanti per la conduzione delle
relazioni internazionali. Alcuni dubitano della soggettività internazionale degli Stati esegui, ma questi vengono fugati se si
considera che San Marino, il Principato di Monaco sono comunque membri delle Nazioni Unite. Stessa cosa vale per
Andorra e Lichtenstein.
-Stato membro di una Federazione, nel caso in cui uno Stato abbia una struttura federale, la soggettività internazionale spetta
esclusivamente allo Stato federale e non anche agli Stati federati, per esempio gli Stati Uniti d’America, la soggettività
internazionale spetta allo Stato federale e non ai singoli Stati federati come ad esempio il New Jersey, gli enti federati sono
organizzati secondo il modello statale ma difettano del requisito dell’indipendenza.
-Failed States (Stati falliti), per Stati falliti si intendono quegli Stati in cui un governo effettivo sia venuto a mancare perché il
paese è sconvolto da una guerra civile e quindi il governo che esercitava effettivamente un controllo sul territorio è venuto meno.
Di conseguenza lo Stato versa in una situazione di anarchia, vi sono più fazioni, più movimenti insurrezionali che si contendono il
potere.
➔ Esempio: la Somalia, agli inizi degli anni ’90, viene travolto il regime sanguinario del dittatore Siad Barre ed inizia un
drammatico conflitto interno che riduce il paese in macerie e che vede contrapporsi più movimenti insurrezionali che
lottano per il potere. La situazione sembra essere migliorata soltanto negli ultimi anni, dopo centinaia di migliaia di morti
civili, migliorata attraverso la creazione di un governo transitorio sostenuto dalla comunità internazionale. O anche la
Libia, due governi l’uno non riconosciuto dalla comunità internazionale che ha il controllo della Cirenaica ed è guidato da
un generale dell’esercito di Gheddafi, e l’altro governo con sede a Tripoli che è riconosciuto dalla comunità
internazionale (quindi dall’UE, dalle Nazioni Unite, dalla grande maggioranza degli Stati) guidato da un libico al-Sarrāj
che però ha un controllo del territorio limitatissimo che non arriva neanche all’intera città di Tripoli, data la persistenza di
queste milizie. In Cirenaica è invece più stabile il controllo da parte di questo Governo messo su dal generale Khalifa
Haftar, generale dell’esercito di Gheddafi. Il Governo di al-Sarrāj è riconosciuto, quello di Khalifa Haftar no.
-Stati protetti → Sono entità formatasi durante il periodo coloniale quando lo Stato protettore aveva un’ingerenza più o meno
penetrante nei confronti dello Stato protetto, infatti stipulava per conto suo i trattati internazionali, esercitava congiuntamente agli
organi dello Stato protetto il potere legislativo.
Dunque lo Stato protetto difetta del requisito di indipendenza. Esempi di protettorato sono stati il Marocco e la Tunisia, prima di
raggiungere la loro indipendenza dalla Francia. Oggi il protettorato non è consentito in quanto forma di espansione coloniale (il
territorio del protettorato doveva considerarsi parte integrante della madrepatria) e persiste il divieto di una dominazione
coloniale e situazioni assimilabili.
-Vassallaggio → È un fenomeno da tenere distinto dal protettorato: l’entità sotto vassallaggio gode di una certa autonomia ma
ha funzioni di governo indistinte da quelle dell’entità superiore. Un esempio è l’Egitto con l’Impero Ottomano, in caso di guerra
l’Egitto non poteva rimanere neutrale ma doveva partecipare al conflitto.
Tuttavia NON è sufficiente proclamarsi Stato per diventare tale, occorre infatti costituire un’organizzazione di governo e avere un
controllo stabile del territorio, bisogna soddisfare i requisiti della Convenzione di Montevideo altrimenti sono solamente dei sudditi
ribelli nei confronti dei quali il governo legittimo può solo prendere provvedimenti (es: l’ISIS non ha mai fatto il salto da movimento
insurrezionale a Stato ed è forse il movimento che più di tutti ha fatto ricorso al terrorismo come strumento per perseguire i
proprio obiettivi).
- non possono condurre ostilità in alto mare perché hanno una capacità bellica limitata;
- non hanno diritto allo status di prigionieri di guerra, se catturati, in quanto NON sono legittimi combattenti (il prigioniero di
guerra ha diritto di essere trattato in modo dignitoso e umano, non possono essere obbligati a lavori forzati o non gli si
possono estorcere domande).
Gli Stati Terzi NON possono venire in aiuto degli insorti, tranne che vi sia un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite in questo senso.
Gli Stati terzi possono sostenere il governo legittimo, soprattutto in caso di secessione in virtù del principio di integrità territoriale
di uno Stato. Tendenzialmente gli Stati terzi si astengono dall’intervenire, considerando la questione come rientrante negli affari
interni del Paese.
*** Le Convenzioni di Ginevra del 1949 non sono self-executing e restano inoperanti senza unalegislazione interna di
adeguamento, e sono 4:
2. la prima riguarda il miglioramento delle condizioni dei militari malati e feriti nella guerraterrestre;
3. la seconda riguarda il miglioramento delle condizioni dei militari malati, feriti e naufraghi nellaguerra marittima;
4. la terza riguarda il trattamento dei prigionieri di guerra;
5. la quarta riguarda la protezione dei civili in tempo di guerra.
N.B: Queste 4 convenzioni sono tutte relative ai conflitti armati internazionali, MA l’art. 3 comunea tutte e quattro le convenzioni
riguarda i conflitti interni.
L’art. 3 comune stabilisce degli obblighi fondamentali:
1. Tutti coloro che cessano di partecipare alle ostilità, perché sono malati o feriti, o in uno stato didetenzione oppure hanno
deposto le armi, hanno diritto ad essere trattati con umanità.
2. I malati e i feriti devono essere raccolti o curati.
Nel 1977 furono conclusi due protocolli addizionali alle Convezioni di Ginevra (1949): il primo riguarda i conflitti armati
internazionali; il secondo riguarda la protezione delle vittime dei conflitti armati interni ed amplia le garanzie già previste nell’art.3
comune (si dice che quest’ultimorappresenti lo standard umanitario minimo sotto al quale esistono soltanto le barbarie). **
2. ENTI NON TERRITORIALI CHE ASPIRANO A DIVENIRE ORGANIZZAZIONI DI GOVERNO.
2.1.3 Movimento di liberazione nazionale.
È un ente rappresentativo di un popolo che lotta per il diritto all’autodeterminazione. Occorre distinguere tra:
- diritto all’autodeterminazione interna, cioè il diritto ad avere un governo rappresentativo e democratico
- e diritto all’autodeterminazione esterna è il diritto che spetta ad ogni popolo che si trovi sotto dominazione coloniale o sotto un
regime razzista (es: il Sud Africa ai tempi dell’Apartheid) o sotto un’occupazione straniera.
Questo diritto può essere realizzato attraverso la costituzione di uno Stato indipendente, attraverso l’associazione o l’integrazione
ad uno Stato indipendente (mediante ogni altro status liberamente scelto dal popolo).
n.b: Il diritto all’autodeterminazione esterna spetta solo ai popoli e NON alle minoranze che possono trovare tutela tramite
uno statuto di autonomia all’interno dello Stato (es: la minoranza tedesca in Trentino Alto Adige o minoranza slovena in Friuli
Venezia Giulia).
→ La soggettività dei movimenti di liberazione nazionale è collegata al principio di autodeterminazione dei popoli: quindi il
movimento di liberazione nazionale è soggetto di diritto internazionale per il solo fatto di essere espressione del diritto di
autodeterminazione di un popolo. È irrilevante l’elemento del controllo del territorio, che invece lo è per gli insorti.
I movimenti di liberazione nazionale possono:
- partecipare alle conferenze internazionali senza diritto di voto;
- partecipare ai lavori di organizzazioni internazionali (ad es. nell’ONU ai movimenti di liberazione nazionale è riconosciuto il
ruolo di osservatori all’interno dell’Assemblea generale);
- concludere accordi internazionali relativi alle conduzione delle ostilità, quindi anche alla cessazione delle ostilità, nonché
accordi relativi alla costituzione del nuovo Stato;
- stipulare degli accordi con Stati terzi così da garantire la permanenza delle loro truppe in questi Stati.
Il Governo costituito:
- NON può usare la forza contro il movimento di liberazione nazionale (anche se in concreto tutto ciò negli anni non è
accaduto).
Quello dei Governi in esilio è un istituto che ha avuto particolare rilevanza durante la seconda Guerra Mondiale, quando diversi
Governi di Stati occupati dalla Germania nazista (es. Belgio, Olanda) si rifugiarono nel Regno Unito. Oggi un esempio
relativamente recente di Governo in esilio è stato il Governo del Kuwait in esilio in Arabia Saudita nel periodo dell’occupazione
del Kuwait da parte dell’Iraq, da agosto del 1990 fino alla primavera del 1991.
Alcuni studiosi negano qualsiasi rilevanza internazionale ai Governi in esilio, ritenendo che i Governi in esilio siano
completamente privi di soggettività internazionale, altri invece, come Ronzitti (autore del nostro libro di testo), ritengono che i
Governi in esilio abbiano rilevanza internazionale limitata almeno quando il territorio veniva controllato in modo transitorio, quindi
quando uno Stato, nel corso della guerra, occupava il territorio MA senza estinguere la personalità dello Stato occupato.
→ È necessario che vi sia uno Stato disposto ad ospitare il Governo in esilio e a consentirgli di svolgere delle funzioni tipiche di
una organizzazione statale. Il Governo in esilio è considerato un “ente fiduciario” del popolo che è sotto occupazione straniera e
quindi, per esempio, il Governo in esilio può esigere il rispetto di accordi stipulati a favore della popolazione per cui opera (ad es.
accordi che prevedano la distribuzione di aiuti umanitari).
4. ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI.
È la quarta categoria di enti che partecipano alla vita di relazione internazionale, si tratta di enti derivati perché si formano per
volontà degli Stati (enti originari) e si possono estinguere allo stesso modo. Le organizzazioni internazionali hanno un legame
permanente con gli Stati, si dice una sorta di “cordone ombelicale”, che perseguono fini comuni, comuni agli Stati che sono
membri dell’organizzazione e che sono distinti da quelli propri dei singoli Stati che non sono membri.
Distinguiamo due categorie di organizzazioni internazionali:
-a carattere regionale: di queste possono diventare membri SOLO gli Stati appartenenti ad una data regione geografica (es:
l’UE, solo gli Stati del continente europeo possono diventare membri; l’Unione Africana, solo gli stati del continente Africano
possono esserne membri; la Lega Araba solo gli Stati arabi possono divenire membri);
-a carattere universale: di queste possono divenire membri TUTTI gli Stati della comunità internazionale (es: le Nazioni Unite, di
cui sono membri quasi tutti gli Stati membri della comunità internazionale -193- ; la FAO, Organizzazione per l’alimentazione e
l’agricoltura con sede a Roma; l’UNESCO che promuove l’istruzione e la cultura nel mondo; il Fondo monetario internazionale).
→ Le organizzazioni internazionali di solito sono costituite mediante trattato: gli Stati che intendono istituire un’organizzazione
internazionale concludono un trattato, che può essere aperto ad un numero più o meno ampio di altri Stati, quindi a seconda delle
sue disposizioni potranno essere ammessi all’organizzazione tutti gli Stati del mondo oppure solo quelli di una determinata area
geografica. Le disposizioni del trattato stabiliscono quali condizioni devono essere soddisfatte per l’ammissione.
Vi sono tuttavia delle organizzazioni internazionali che non sono costituite mediante trattato ma la cui costituzione è dovuta ad
una serie di atti non vincolanti, di soft law; l’esempio più importante è rappresentato dall’OSCE , l’Organizzazione per la sicurezza
e la cooperazione in Europa, un’organizzazione a carattere universale e ha sede a Vienna. L’OSCE è stata costituita sulla base
dei documenti adottati dagli Stati partecipanti alla CSCE, Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, ad Helsinki nel
1973 e proseguì per due anni fino al 1975. L’Atto finale della conferenza fu firmato dai capi di Stato di ben 35 Stati; importante è il
cosiddetto Decalogo contenuto nell’atto ed elenca i 10 principi fondamentali che gli Stati partecipanti alla conferenza si
impegnarono a rispettare, tra cui il principio del divieto dell’uso della forza, il principio del rispetto delle frontiere, principi di grande
importanza soprattutto in un momento molto difficile della storia dell’umanità (la Guerra Fredda).
NON bisogna confondere l’OSCE con l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e ha sede a
Parigi. Oggi l’OSCE versa in uno stato di profonda crisi e sembra aver compiuto la sua missione storica (divieto uso forza e armi).
n.b: Le organizzazioni internazionali devono essere distinte dalle organizzazioni non governative (ONG), che sono
associazioni private a carattere transnazionale che perseguono fini il più delle volte legati al miglioramento dell’umanità come la
tutela dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, la protezione della fauna (es: medici senza frontiere, Greenpeace, Save the
children). Quindi in quanto associazioni private sono costituite mediante un atto di diritto interno di uno Stato e possono divenire
membri persone fisiche e giuridiche, coinvolgono come staff persone, cittadini di paesi differenti. Hanno carattere transnazionale
nel senso che, svolgono attività su Stati differenti da quelli in cui hanno sede.
INVECE le organizzazioni intergovernative o semplicemente organizzazioni internazionali di solito sono costituite mediante
trattato o mediante atto internazionale sia pure di natura non vincolante (per esempio l’atto di Helsinki). Nelle organizzazioni
internazionali possono divenire membri solo gli Stati, nelle organizzazioni intergovernative i governi degli Stati.
Le organizzazioni internazionali sono tipici enti non territoriali, NON hanno il controllo di un territorio, né aspirano ad averlo, MA
hanno sede nel territorio dello Stato (es: la Fao a Roma). Le organizzazioni internazionali hanno sede sul territorio di uno Stato e
stipulano con questo Stato un accordo internazionale denominato Accordo di Sede, che stabilisce i reciproci diritti e doveri. Le
organizzazioni internazionali tuttavia in qualche caso, hanno amministrato dei territori (es: le Nazioni Unite in Kosovo).
2.1.9 Le Nazioni Unite.
Nazioni Unite era il nome che si diedero i Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Unione Sovietica e Cina) che combatterono
durante la Seconda Guerra Mondiale le potenze dell’asse. Nell’ottobre del 1943 a Mosca si tenne una Conferenza, durante la
quale le quattro potenze partecipanti cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cina, affermarono la necessità di dar vita
ad una organizzazione internazionale che potesse essere aperta a tutti gli Stati e che assicurasse una pace duratura, ciò che non
era stata in grado di fare la Società delle Nazioni.
Nel 1945 a San Francisco, negli Stati Uniti si tenne la Conferenza di San Francisco che si aprì il 25 aprile e si chiuse nel mese di
giugno durante la quale fu approvata all’unanimità e firmata la Carta delle Nazioni Unite, cioè il trattato istitutivo delle Nazioni
Unite, detta anche “Statuto di San Francisco”, entrò in vigore nell’ottobre del 1945. Con l’entrata in vigore della Carta delle
Nazioni Unite, il patto della Società delle Nazioni si estinse.
L’Italia, la Germania e il Giappone erano ritenuti Stati nemici e poterono divenire membri delle Nazioni Unite soltanto in seguito
(l’Italia è divenuta membro delle Nazioni Unite nel 1955).
All’art. 52 par. 3 si evince che uno Stato parte della controversia deve astenersi dal voto: quindi laddove il Consiglio eserciti le
sue competenze in materia di soluzione pacifica delle controversie e una delle parti della controversia sia anche membro del
Consiglio di Sicurezza, questo membro si deve astenere dal voto perché è parte in causa; questa stessa disposizione NON vale
quando si discute delle minacce alla pace, violazione della pace e gli atti di aggressione o prendere misure conseguenti; ci si
chiede se l’astensione di un membro permanente impedisce l’adozione della risoluzione, dato ciò si è formata una prassi nel
Consiglio di sicurezza, che ha portato a quella che secondo alcuni è una consuetudine particolare cioè la norma secondo cui
l’astensione di un membro permanente NON impedisce l’adozione della delibera, oggi è certamente così sulla base di una prassi
che va avanti da 74 anni, ossia dal ’45 anche se la Carta continua a prevedere diversamente.
→ La responsabilità principale del Consiglio di sicurezza è il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale stabilita
dall’art. 24 par.1: “Al fine di assicurare un’immediata ed effettiva azione da parte delle Nazioni Unite i suoi membri conferiscono al
Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e i poteri del
Consiglio di Sicurezza ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale sono disciplinati dal capitolo 7° che
riguarda il sistema di sicurezza collettiva”, la Carta delle Nazioni Unite vieta la minaccia e l’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali, MA accentra il potere dell’uso della forza in seno al Consiglio di Sicurezza e prevede un meccanismo, il sistema di
sicurezza collettiva, volto ad assicurare la repressione delle violazioni del divieto dell’uso della forza. L’art.39 è l’articolo con cui si
apre il capitolo 7° e stabilisce che il Consiglio di sicurezza deve determinare l’esistenza di una minaccia alla pace o una
violazione alla pace o un atto di aggressione e una volta che tale constatazione sia avvenuta il Consiglio può adottare le
misure necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale adottando risoluzioni aventi carattere
esortativo quindi raccomandazioni, ma anche risoluzioni con forza vincolante e quindi decisioni (il nomen iuris nell’atto è
sempre risoluzione poi dal suo contenuto, si desume che sia una raccomandazione o una decisione).
L’art.40 prevede le cosiddette misure provvisorie, cioè misure volte a prevenire un aggravamento della situazione senza però
pregiudicare la posizione rispettiva delle parti (es. il “cessate il fuoco” che il Consiglio di sicurezza può raccomandare o imporre
alle parti al fine di prevenire un aggravamento della situazione). L’art. 41 prevede poi le misure coercitive non implicanti l’uso
della forza armata, il Consiglio di sicurezza può raccomandare o imporre agli Stati membri di adottare queste misure, si tratta di
un elenco esemplificativo: l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche, delle comunicazioni ferroviarie, marittime,
aeree, postali, telegrafiche e radio o di altri mezzi e l’interruzione delle relazioni diplomatiche. L’art. 42 riguarda invece le misure
coercitive, non è mai stata intrapresa alcuna azione militare diretta, questo perché non sono mai stati conclusi gli accordi
attraverso i quali gli Stati membri avrebbero dovuto mettere a disposizione del Consiglio forze aeree, terrestri o navali. Si è
sviluppata invece la prassi delle autorizzazioni, cioè il
Consiglio autorizza gli Stati membri ad usare la forza per porre fine ad una minaccia alla pace, quindi il Consiglio di sicurezza
agisce tramite gli Stati membri .
Come può essere espresso il consenso, o meglio, come può essere accettata la giurisdizione della Corte?
Esistono 4 diversi meccanismi:
1. Compromesso: gli Stati parti di una controversia possono concludere un compromesso, cioè un accordo con il quale
decidono di sottoporre la controversia già sorta alla Corte;
2. Clausola Compromissoria: gli Stati parti di una controversia possono essere parti di
un trattato che contiene una “clausola compromissoria”, cioè la clausola contenuta in un trattato in virtù della quale qualsiasi
controversia, relativa all’interpretazione e applicazione di quel trattato, può essere sottoposta da ciascuna delle parti della
controversia alla Corte internazionale di Giustizia. In questo caso, è sufficiente un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di
Giustizia perché a monte vi è la clausola compromissoria INVECE il compromesso è un accordo fra due o più Stati, in virtù del
quale questi affidano la soluzione di una controversia già sorta alla Corte internazionale di Giustizia;
3. Dichiarazione unilaterale di accettazione: ciascuno Stato, unilateralmente, può dichiarare di accettare la giurisdizione
della Corte riguardo ad eventuali controversie. La dichiarazione può essere: a) limitata, quindi esser fatta solo nei confronti
degli Stati che, a loro volta, abbiano accettato la giurisdizione della Corte; b) può essere fatta incondizionatamente, cioè
esser fatta nei confronti di qualsiasi Stato; c) può essere limitata ratione temporis, cioè riguardare solo le controversie sorte
in un determinato arco di tempo.
4. Forum Prorogatum: nella situazione in cui uno Stato si rivolge alla Corte internazionale di Giustizia contro un altro Stato il
quale, nonostante non abbia preventivamente accettato la giurisdizione della Corte, manifesta comportamenti concludenti,
allora dimostra di accettare la giurisdizione (es. costituendosi in giudizio, depositando memorie o una lista testimoniale).
Nel 1928 fu concluso il trattato generale di rinuncia alla guerra noto anche come patto “Kellogg-Briand”, dal nome del segretario
di stato americano Kellogg e del ministro degli esteri francese Briand che ne furono i promotori, di cui divennero parte tutti gli Stati
che allora formavano la comunità internazionale, vietava il ricorso alla guerra come mezzo della soluzione delle controversie
internazionali e quindi vietava la guerra di aggressione, le controversie internazionali dovevano essere risolte esclusivamente
attraverso mezzi pacifici, NON venivano banditi né l’intervento né le rappresaglie armate, poiché solo la “guerra” veniva
esplicitamente vietata, poi la legittima difesa era lecita ma non veniva definita né disciplinata, veniva intesa in modo ampio.
La Carta delle Nazioni Unite porta a termine il processo iniziato dai precedenti trattati perché abolisce definitivamente la libertà
di muover guerra di cui godevano gli Stati, prevede un divieto generale di ricorso alla forza armata e anche della sua semplice
minaccia (ultimatum), e anche le rappresaglie armate. E’ prevista dall’art.2 par.4 che stabilisce: “I membri devono astenersi nelle
loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di
qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”, vieta il ricorso alla forza armata
praticamente in qualsiasi circostanza, contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, di qualsiasi Stato,
non si precisa qualsiasi Stato membro; poi con l’espressione in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni
Unite vuole dire che quand’anche la minaccia o l’uso della forza non violasse l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno
Stato, sarebbero comunque vietate quando in contrasto con i fini delle Nazioni Unite (art.1).
n.b: Nel caso della legittima difesa collettiva, occorre aggiungere un’ulteriore limitazione per il terzo che interviene e cioè l’attacco
deve essere di una gravità tale che il suo intervento è assolutamente necessario; poi uno Stato terzo non può intervenire a favore
dello Stato attaccato contro lo Stato attaccante senza che la vittima abbia constatato di essere stata oggetto di un attacco armato,
infatti spetta allo Stato leso accertare che vi sia stato attacco armato e poi richiedere l’aiuto degli altri Stati.
3. L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, gli Stati possono usare la forza su autorizzazione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite: i redattori della Carta delle Nazioni Unite, naturalmente, avevano considerato la possibilità che il
divieto all’uso della forza potesse essere violato e perciò, per assicurare l’effettività del divieto dell’uso della forza nelle
relazioni internazionali, avevano previsto un Sistema di Sicurezza Collettiva.
3. l’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, gli Stati non possono essere obbligati, talvolta si è trattato di operazioni
effettuate in sostituzione di operazioni di peace-keeping (dimostratesi inefficaci) o parallelamente ad azioni di peace-keeping.
Il riconoscimento può essere sottoposto a condizioni, a tale proposito dobbiamo menzionare le due Dichiarazioni di Bruxelles
del 16 dicembre 1991:
In questa prima dichiarazione di Bruxelles vengono stabilite una serie di condizioni che i nuovi Stati sorti dal crollo dell’Unione
Sovietica, devono soddisfare per essere riconosciuti dagli Stati membri delle Comunità Europee: a)il rispetto dei principi della
Carta delle Nazioni Unite; b)il rispetto delle disposizioni degli impegni assunti nell’Atto finale di Helsinki o Atto finale della
Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, la c.d. OSCE del 1975, gli impegni riguardavano il rispetto della
democrazia, dello stato di diritto, il rispetto del principio di legalità, il rispetto dei diritti umani. L’altra dichiarazione di Bruxelles,
riguarda la Jugoslavia, gli Stati membri della CEE stabiliscono che gli Stati sorti dalla ex Jugoslavia che desiderino essere
riconosciuti devono presentare domanda entro il 23 dicembre 1991. Questa domanda viene presentata effettivamente dalla
Slovenia, dalla Croazia, dalla Macedonia e dalla Bosnia-Erzegovina. Succede soltanto Slovenia, Croazia, e Bosnia-Erzegovina
vengono riconosciute nei mesi immediatamente successivi, la Macedonia non viene riconosciuta a causa dell’opposizione della
Grecia (la Grecia ha suo interno ha una regione che prende il nome di Macedonia e che confina in realtà con il nuovo stato di
Macedonia ex repubblica jugoslava, quindi teme che l’ex repubblica jugoslava di Macedonia possa avanzare delle pretese
territoriali e questo nonostante le autorità macedoni dichiarino in ogni modo nella maniera più esplicita che non hanno alcuna
pretesa territoriale sulla Grecia), alla fine nel 1993 la Macedonia viene ammessa alle Nazioni Unite con il nome provvisorio di Ex
Repubblica Jugoslava di Macedonia, solo nel 1995 la Grecia riconosce la Macedonia e l’uso del nome provvisorio.
Recentemente, nei mesi passati, è stato raggiunto un accordo tra le autorità greche e le autorità macedoni riguardo al nome
definitivo di questo Stato che è: Macedonia del Nord.
5.2 RICONOSCIMENTO DI UN GOVERNO.
Il riconoscimento di nuovo governo si ha nel caso in cui questo è il risultato di una rivoluzione o di un colpo di stato. Non vi è il
riconoscimento di governo nel caso di avvicendamento da un governo ad un altro in seguito ad elezioni (ad esempio in Italia non
vi è stato alcun riconoscimento del governo Conte da parte degli altri Paesi della comunità internazionale, poiché si è trattato di
un avvicendamento ordinario dal precedente al nuovo governo in seguito a elezioni svoltasi regolarmente). Il riconoscimento di un
governo si ha SOLO in caso di sovvertimento dell’ordine costituzionale precedente, non in caso di normale avvicendamento di
governi nell’ambito dell’ordinamento costituzionale esistente in un Paese. Con il riconoscimento gli Stati prendono atto del nuovo
assetto costituzionale e manifestano la volontà di mantenere con il nuovo governo le stesse relazioni che avevano col governo
precedente.
Diverse sono le motivazioni per cui gli Stati possono negare il riconoscimento ad un nuovo governo, uno Stato può negare il
riconoscimento di un nuovo governo: a)Se questo non è democratico; b)Se si è affermato con la violazione massiccia dei diritti
umani; c)Se promuove un regime razzista.
Così come il riconoscimento di Stati anche il riconoscimento di governi è un atto politico, dunque un atto pienamente
discrezionale. Alcuni Paesi, come la Gran Bretagna e la Francia, seguono la prassi di non riconoscere nuovi governi ma solo di
riconoscere Stati, per evitare di essere accusati dall’opinione pubblica o dalla comunità nazionale di aver approvato, tramite il
riconoscimento, politiche antidemocratiche o che violano i diritti umani poste in essere dal governo riconosciuto, alcuni paesi non
effettuano il riconoscimento di governi.
Esempio: Recentemente si è discusso in Italia del riconoscimento del governo venezuelano del neo presidente Juan Guaidò,
oppositore politico di Maduro (presidente precedente). In Italia inizialmente il governo si è espresso contro il riconoscimento del
nuovo governo; in seguito si è registrata un’apertura a favore del governo Guidò a condizione che vengano indette nuove
elezioni: da un lato Maduro è stato eletto Presidente con elezioni non riconosciute come pienamente democratiche; dall’altro
Juan Guaidò non è stato eletto presidente del Venezuela con delle elezioni, si è autoproclamato presidente. Maduro ha oggi il
supporto dell’esercito, altrimenti non sarebbe ancora al potere: l’esercito infatti ha beneficiato dell’azione politica di Maduro.
Lo Stato è anche libero di regolare i rapporti che si svolgono all’interno di questa comunità territoriale, quindi, libero di sottoporre
ad una propria normativa tutti i rapporti giuridici che vengono a formarsi all’interno della propria comunità territoriale.
Ci sono però dei limiti a questa libertà: i) il trattamento dello straniero, uno Stato comunque trova dei limiti alla sua autonomia di
disciplinare la posizione dello straniero che è cittadino di un altro Stato; ii) tutela dei diritti umani.
6.2.2 Conquista:
La conquista è un modo di acquisto della sovranità NON più lecito: conquistare un territorio è contrario ad una norma cardine di
tutto il diritto internazionale cioè una norma cogente, inderogabile cioè il divieto di aggressione sancito nella Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli adottata con risoluzione dall’Assemblea Generale e costituisce nucleo duro del principio del divieto all’uso
della forza di cui all’art.2 par 4 della Carta.
→ La conquista di un territorio è illecita, dunque se viene comunque portata a termine è priva di effetti giuridici, è NULLA (es. la
risoluzione con cui il Consiglio di sicurezza dichiarò nulla e mai avvenuta l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq), se
l’intervento armato è autorizzato dal Consiglio di sicurezza, è comunque lecito l’uso della forza, MA non fa sorgere il diritto dello
Stato, che occupa militarmente il territorio di un altro Stato, di esercitare la sua sovranità su quello Stato, di annettere quello
Stato.
Cos’è la Debellatio? La debellatio è la completa distruzione delle forze militari dello Stato nemico. La debellatio può implicare il
diritto di annettere il territorio dello Stato sconfitto.
6.2.3 Cessione:
La cessione è l’unico modo utilizzato di acquisto della sovranità a titolo derivato: si ha quando uno Stato cede volontariamente
una parte del suo territorio e implica il consenso o comunque l’acquiescenza dello Stato che cede questa parte del suo territorio.
Può avvenire tramite una semplice vendita, quindi territorio in cambio di denaro; o tramite trattato.
→ SE uno Stato occupa il territorio di un altro Stato in maniera illecita, la protesta dello Stato occupato, impedisce il sorgere
del diritto di sovranità in capo all’occupante, perché si dice che il titolo giuridico prevale sulla situazione di fatto. Anche
durante l’occupazione bellica, cioè quando il conflitto è ancora in corso, l’occupazione militare non implica l’annessione del
territorio e l’acquisizione della sovranità su quella parte di territorio (questo è stato precisato in un importante parere da
parte della Corte internazionale di giustizia, che è il parere sul muro in Palestina, la Corteha dichiarato nulle le annessioni
fatte da Israele sui territori di Gerusalemme est, Israele governa e amministra comunque a titolo di occupante, quindi non a
titolo di sovrano territoriale).
6.3 AMMINISTRAZIONE DEI TERRITORI.
Esistono dei territori che possono essere amministrati in tutto o in parte da uno Stato o da un’organizzazione internazionale,
senza che questo eserciti la sua sovranità: si parla di amministrazione. Distinguiamo i mandati e le amministrazioni fiduciarie
che oggi non esistono più, perché il processo di decolonizzazione si è completato e tutti gli Stati sono indipendenti, però, ancora
oggi, esistono dei territori sottoposti all’amministrazione di organizzazioni internazionali, un esempio è l’UNMIK, la missione delle
Nazioni unite in Kosovo che ancora oggi è attiva.
6.3.1 Mandati:
Vennero costituiti durante l’epoca della Società delle Nazioni. Si trattava di territori che venivano amministrati da una potenza
amministratrice nell’interesse delle popolazioni che vivevano su quei territori. Si distinguevano i mandati di tipo A, B e C; i
mandati di tipo A vennero trasformati in protettorati, i mandati di tipo B e di tipo C vennero invece trasformati nelle c.d.
amministrazioni fiduciarie con l’avvento delle Nazioni Unite.
Cosa avviene su questi territori? Vi è uno Stato e l’amministratore il c.d. Trustee, amministra questi territori nell’interesse delle
popolazioni ed al fine di facilitare il processo di indipendenza di questi territori, sulla base di un accordo, un trust, con le Nazioni
Unite.
6.4 LA FRONTIERA.
La frontiera o il confine è la linea che delimita la comunità territoriale, cioè è la linea che delimita il territorio nella quale lo Stato
esercita la sua sovranità territoriale. Vi sono due modi per tracciare le frontiere: la delimitazione e la demarcazione.
La delimitazione implica l’utilizzo di coordinate geografiche per segnare dei punti sui territori degli altri Stati. Generalmente
questi punti vengono stabiliti mediante trattato, un trattato bilaterale tra gli Stati.
La demarcazione, invece, consiste nell’apposizione materiale di oggetti, generalmente cippi o reti, sul territorio.
La delimitazione di regola è un atto bilaterale tra i due Stati confinanti che si concretizza nella stipulazione di un accordo
internazionale. La delimitazione può avere luogo ad opera di un tribunale internazionale in caso di controversia tra i due Stati ma
anche in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Come dovrebbe avvenire lo sfruttamento delle risorse naturali cioè l’utilizzo di questo patrimonio comune dell’umanità?
È stato elaborato il sistema parallelo: secondo tale sistema uno Stato per sfruttare le risorse del patrimonio comune dell’umanità
dovrebbe individuare due siti di sfruttamento: uno per il suo sfruttamento, l’altro affinché sia sfruttato dall’impresa nell’interesse
generale di tutti gli Stati. La Convenzione di Montego Bay disciplina nel dettaglio come dovrà avvenire il suo funzionamento:
- individuando l’area;
- istituendo l’autorità che comprende l’impresa, la quale dovrà operare mediante il sistema parallelo. L’impresa
inizialmente avrebbe dovuto avere una posizione privilegiata rispetto agli altri Stati, tuttavia con un accordo del 1994
questa posizione non gli venne più riconosciuta. Quindi, l’impresa dovrebbe operare in una situazione di libera
concorrenza con le imprese dei vari Stati. La Convenzione di Montego Bay disciplina come l’impresa deve operare, ma
ancora ad oggi non è statacreata, perché sostanzialmente non è ancora possibile sfruttare questi territori, infatti
l’autorità che autorizza e coordina le attività di ricerca scientifica non ha avviato ancora nessuna attività di sfruttamento.
→ Costituisce patrimonio comune dell’umanità non solo il fondo marino MA anche la luna, i corpicelesti e lo spazio
extra-atmosferico, è stato sottoscritto un accordo nel 1979 per disciplinare il futuro sfruttamento dei territori lunari, ma
tale sfruttamento non è ancora iniziato.
6.8 ANTARTIDE.
È disciplinato dal trattato di Washington del 1959, entrato in vigore nel 1961, che stabilisce che l’Antartide deve essere usata
SOLO per fini pacifici prevedendo dunque la smilitarizzazione dell’Antartide e la denuclearizzazione, tale principio comporta il
divieto di svolgere qualsiasi attività militare, la costruzione di fortificazioni, la conduzione di manovre ed esperimenti militari, vieta
qualsiasi esplosione nucleare e il deposito di materiale radioattivo.
n.b: Il trattato stabilisce il principio della libertà, per tutti gli Stati, di ricerca scientifica in Antartide, impiegando personale o
materiale militare per tale fine.
Il Trattato inoltre congela le pretese di sovranità: alcuni Stati, infatti, da tempo avanzano alcune pretese territoriali su porzioni del
continente antartico come Francia e Regno Unito che fondano tali pretese sulla scoperta o ancora Cile e Argentina sulla teoria
della contiguità dei loro territori.
→ La gestione del continente antartico è affidata al Comitato delle Parti Consultive, di cui sono membri i 12 Stati che hanno
negoziato il Trattato e gli Stati che hanno conseguito successivamento lo status di parte consultiva. Per acquisire tale status
occorre: i) aver ratificato il trattato; ii) aver svolto una sostanziale attività di ricerca scientifica nel continente (es. stabilendo basi o
effettuando spedizioni scientifiche); infine il giudizio è rimesso alle stesse Parti consultive per cooptazione.
Accanto alle Parti consultive ci sono le “Parti non consultive”, che adottano raccomandazioni rivolte ai propri governi (l’Italia ha
acquisito lo status di Parte consultiva nel 1987).
L’Antartide è una zona ricca di risorse petrolifere ma anche di rame, carbone, oro e argento. E’ stato adottato un trattato, il
trattato di Wellington per la disciplina delle attività minerarie antartiche e assicurare la tutela dell’ambiente antartico da possibili
forme di inquinamento. Alcuni Stati non hanno approvato tale trattato perché avrebbero preferito la cessazione completa delle
attività minerarie, altri invece avrebbero voluto dichiarare l’Antartide “patrimonio comune dell’umanità”, ma non è possibile dal
momento che l’Antartide è oggetto di pretese. Le preoccupazioni concernenti lo sfruttamento minerario e le spinte delle
organizzazioni ambientaliste hanno finito per prevalere: il trattato di Wellington non è mai entrato in vigore. Sono entrati in vigore
il Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico (1998) che dichiara l’Antartide una riserva naturale, votata alla pace e alla
scienza; la Convenzione sulla protezione della foca antartica e quella sulla conservazione della flora e della fauna dell’Antartico.
6.9 ARTICO.
L’Artico (o Polo Nord) NON è composto da terre emerse MA solo da acque marine, ricoperte da ghiacciai, che si stanno
riducendo a causa del riscaldamento globale.
n.b: Siccome si parla sostanzialmente di acque solidificate quindi ghiacciai, NON è sottoposto al regime del territorio MA le acque
adiacenti agli Stati costieri sono assoggettati al regime giuridico del mare territoriale, mentre le zone di mare al di là del limite
esterno del mare territoriale sono soggette al principio della libertà dell’alto mare.
→ Anche in questo caso sono da respingere le pretese di alcuni Stati costieri volte a rivendicare la sovranità su vaste porzioni di
mare adiacenti alle loro acque territoriali come la Federazione Russa (teoria dei settori).
È stato istituito il Consiglio Artico di cui fanno parte gli 8 Stati che si affacciano sull’Artico o storicamente attivi nella regione e
sono il Canada, la Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Federazione Russa, Svezia e Usa.
7 SUCCESSIONE INTERNAZIONALE TRA STATI.
Quando si verificano modificazioni territoriali (smembramento, secessione, fusione, cessione, incorporazione) dobbiamo
distinguere:
- Stato successore cioè il nuovo Stato o lo Stato che accresce il proprio territorio a spese di un altro;
- Stato predecessore cioè lo Stato che si estingue o subisce una diminuzione territoriale.
In queste situazioni quando un nuovo Stato subentra nel governo del territorio di un altro Stato bisogna stabilire SE i diritti e gli
obblighi dello Stato predecessore si trasmettono allo Stato successore e dunque abbia luogo la successione giuridica. La
materia è disciplinata dal diritto consuetudinario, in parte codificata nella Convenzione di Vienna sulla Successione tra Stati
nei trattati del 1978, entrata in vigore nel 1996 con un basso numero di ratifiche (l’Italia non l’ha ratificata) e nella Convenzione
di Vienna sulla successione tra Stati nei beni, archivi e debiti pubblici, del 1983 mai entrata in vigore, entrambe possono
ritenersi uno sviluppo progressivo del diritto internazionale.
Con gli accordi di devoluzione lo Stato predecessore trasferisce al successore tutti i diritti ed obblighi derivanti dai trattati che
trovano applicazione sul territorio su cui si costituisce il nuovo Stato. L’accordo produce obblighi e diritti SOLO nei rapporti tra
Stato predecessore e Stato successore, quest’ultimo dovrà proporre al terzo Stato una novazione per subentrare nei trattati
stipulati tra terzo e predecessore.
→ Per quanto riguarda i debiti pubblici dello Stato predecessore, la regola tradizionale è quella secondo cui i debiti localizzati,
cioè contratti a favore del territorio oggetto della successione (es. costruzione di opere pubbliche) sono trasferiti allo Stato
successore. NON si trasmettono invece allo Stato successore i c.d. debiti odiosi, come quelli contratti dallo Stato predecessore
per condurre una guerra di aggressione. Gli altri debiti (c.d. debiti generali) continuano a far capo al predecessore se questo non
smetta di esistere infatti in caso di estinzione del predecessore per smembramento o incorporazione, è difficile stabilire se i debiti
si estinguano oppure si trasmettano al successore, la dottrina è divisa: alcuni sostengono il principio di continuità del debito e la
Convenzione di Vienna si pronuncia a favore del principio di trasmissibilità in proporzioni eque.
→ Infine per quanto riguarda gli archivi, se questi sono relativi all’amministrazione del territorio ceduto saranno trasferiti al
successore (anche in caso di smembramento). Per gli archivi che non hanno una diretta connessione con il territorio degli Stati
nati dallo smembramento vale il principio dell’equa ripartizione.
8 DIRITTO DEL MARE.
Il regime giuridico del mare territoriale è stato oggetto di vari tentativi di codificazione:
• il primo risale al 1930 all’Aja quando fu convocata una conferenza che non adottò alcuna convenzione sulle acque territoriali
ma inserì nell’atto finale della conferenza il testo di alcune disposizioni in materia del diritto dello Stato costiero sul mare
territoriale e di passaggio inoffensivo;
• l’opera di codificazione del diritto internazionale marittimo fu ripresa dalle Nazioni Unite e dalla commissione del diritto
internazionale arrivando ad un progetto di articoli sul diritto del mare;
• tale progetto fu ripreso nel 1956 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e costituì la base dei negoziati della prima
Conferenza sul diritto del mare tenutasi a Ginevra nel 1958 che si concluse con l’adozione di quattro testi convenzionali
distinti:
1. la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua;
2. la convenzione sull’alto mare;
3. la convenzione sulla piattaforma continentale;
4. la convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare. Furono adottati quattro diversi
accordi per garantire una più ampia partecipazione degli Stati che potevano vincolarsi ad alcune convenzione e non a
tutte (l’Italia per esempio aderì soltanto alle prime due convenzioni).
Tali conferenze tenutasi a Ginevra non bastarono per risolvere i problemi relativi al diritto del mare, perciò, fu costituito
dall’Assemblea generale un Comitato ad hoc sugli usi pacifici del suolo e del sottosuolo marino oltre i limiti della
giurisdizione nazionale (divenne poi un organo permanente dell’assemblea).
• La Terza conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare si svolse in undici sessioni e si concluse a Montego Bay
(Jamaica) o UNCLOS (United Nations Convention on the law of the Sea) nel 1982 nella quale fu adottata la Convenzione
sul diritto del mare composta da 320 articoli e 9 allegati, entrata in vigore nel 1994, che NON abroga le Convenzioni di
Ginevra del 1958 MA ha la prevalenza.
Come si delimita il mare territoriale? Viene determinato mediante la fissazione delle linee di base cioè la linea lungo la costa
calcolata con la bassa marea MA se la costa è molto frastagliata lo Stato costiero può congiungere i punti più sporgenti della
costa ottenendo la linea di base dalla quale calcolare il mare territoriale. Questo sistema di linee può essere utilizzato anche nel
caso in cui la costa sia piatta ma esistano un gruppo di isole nell’immediata vicinanza della costa. Il mare territoriale dalla linea di
base si può estendere fino a un limite massimo di 12 miglia marine (art.3 Convenzione di Montego Bay).
Il mare territoriale è una zona adiacente alla costa dello Stato dove vi esercita la sua sovranità, però lo Stato ha l’obbligo di
sopportare il passaggio inoffensivo delle navi e astenersi dall’esercizio della giurisdizione civile o penale di navi altrui.
→ La convenzione dei diritti del mare di Montego Bay stabilisce che ogni Stato deve consentire il passaggio nel proprio mare
territoriale purché questo sia inoffensivo: il passaggio deve essere continuo e rapido, la sosta o l’ancoraggio sono consentiti
quando costituiscano manovre ordinarie di navigazione o siano necessarie per eventi di forza maggiore o difficoltà. Le navi in
passaggio inoffensivo devono rispettare le leggi e i regolamenti dello Stato costiero (in particolare in materia di sicurezza della
navigazione e prevenzione dell’inquinamento).
Per quanto riguarda il passaggio inoffensivo delle navi mercantili è tollerato; per quello che riguarda le navi militari, alcuni Stati lo
consentono, altri subordinano il passaggio delle navi da guerra alla previa autorizzazione dello Stato costiero. Nel mare
territoriale i sommergibili devono navigare in emersione e mostrare la bandiera; e le portaerei possono attraversare il mare
territoriale purché gli aerei restino appontati, cioè non volino durante il passaggio.
Quando è pregiudizievoli il passaggio? Se nel mare territoriale la nave è impegnata in una delle seguente attività: raccolta
informazioni, uso di armi o di violenza, atti di propaganda, inquinamento pesca allora il passaggio è considerato offensivo.
n.b: lo Stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo del mare territoriale purché la sospensione sia:
a)essenziale alla protezione della sua sicurezza; b)temporanea; c)riguardare specifiche aree del mare territoriale; d)non deve
essere discriminatoria.
→ Un altro limite, oltre quello del passaggio inoffensivo, riguarda il fatto che uno Stato NON può esercitare la giurisdizione civile e
penale nei confronti delle: A) navi da guerra che godono di immunità completa dalla giurisdizione; B) invece le navi mercantili
straniere in passaggio sono esenti da giurisdizione penale solo per fatti interni cioè avvenimenti che riguardano la vita della nave
e non hanno ripercussioni sul mondo esterno, se invece lo sono e dunque si tratti di fatti che turbano la tranquillità e il buon
ordine dello Stato costiero e del mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare la giurisdizione penale; per l’esercizio
dell’azione civile sulle navi mercantili in passaggio nel mare territoriale, lo Stato costiero non può arrestare o dirottare una nave
mercantile straniera per esercitare la giurisdizione civile nei confronti di una persona che si trovi a bordo.
n.b: NON esiste un diritto di sorvolo del mare territoriale, è ammissibile solo quando consentito dallo Stato costiero.
8.2 LE BAIE.
Le baie sono delle insenature che penetrano profondamente nella costa, secondo una norma di diritto consuetudinario gli Stati
possono chiudere con una linea retta le baie: e quindi tutto quello che c’è dalla linea verso l’interno è acqua interna.
→ Lo Stato costiero può chiudere la baia se essa sia una baia in senso giuridico e NON una semplice incurvatura della costa.
La baia è definita giuridica se l’insenatura racchiude la superficie di acque uguale o superiore a quella di un semicerchio avente
per diametro la linea tracciata tra i punti di ingresso della baia, che NON deve superare le 24 miglia.
Le baie storiche possono essere chiuse anche qualora non soddisfino il criterio del semicerchio e indipendentemente della loro
ampiezza purché si riconoscano due condizioni:
1) l’esercizio prolungato dei diritti di sovranità sulle acque della baia da parte dello Stato costiero;
2) l’acquiescenza degli altri Stati.
Esempio di baie storiche: il golfo di Taranto (è stata riconosciuta baia storica seppur con l’opposizione espressa degli Stati Uniti);
i fiordi in Norvegia.
La piattaforma continentale è oggetto di una delle quattro convenzioni di Ginevra, quindi già nel 1958 l’istituto della piattaforma
continentale esisteva. Oggi la sua esistenza è ribadita dalla convenzione di Montego Bay, ma ha natura consuetudinaria.
→ Secondo la convenzione del 1958 la piattaforma doveva estendersi fino al margine continentale che comprende la piattaforma
e la scarpata continentale (la salita). Dopodichè si estende la crosta oceanica, cioè il margine continentale che sta tra la crosta
continentale della terra emersa e la crosta oceanica (gli abissi).
La Convenzione di Ginevra propose per individuare il limite esterno della piattaforma continentale due criteri:
1. Criterio batimetrico: secondo il quale la piattaforma continentale si estende fino al punto in cui la profondità delle acque si
mantiene stabile a 200 miglia;
2. Criterio della sfruttabilità: la piattaforma continentale si estende fin quando la profondità delle acque rende possibile
sfruttare le risorse presenti nella piattaforma. Questo criterio però è un po' iniquo perché lo sfruttamento delle risorse della
piattaforma continentale dipende dalle capacità scientifiche e tecnologiche di uno Stato. Di conseguenza gli Stati meno
sviluppati non potevano rivendicare una piattaforma continentale molto ampia rispetto ad alcuni Stati che sono provvisti di
una tecnologia più avanzata.
→ Così la convenzione del 1982 ha individuato un nuovo criterio :
La piattaforma continentale comprende i fondi marini e il sottosuolo che si estendono al di là della acque territoriali fino a 200
miglia marine dalla linea di base (a partire dalla quale calcoliamo il mare territoriale), MA, può estendersi per la sua
conformazione geografica-geologica la piattaforma continentale ulteriormente cioè oltre queste 200 miglia marine, fino a un
massimo di 350 miglia della linea di base.
n.b: Quando la piattaforma continentale si estende al di là delle 200 miglia marine, quindi fino al limite delle 350 miglia, è posto
un limite sullo sfruttamento delle risorse: lo Stato può procedere a sfruttare le risorse fino a 350 miglia, MA deve destinare una
quota in denaro o in natura all’autorità dei fondi marini.
Come si calcola la frontiera delle piattaforme continentali tra Stati frontisti? Come si delimita la piattaforma continentale
di ciascuno Stato frontista? La Convenzione di Ginevra prevedeva il criterio della linea mediana, OGGI si applica un criterio
diverso: si stabilisce mediante accordo. Un accordo che però, deve essere basato su una soluzione equa che decisa secondo
equità (cioè che deve rispettare la conformazione geografica degli Stati in questione nonché le esigenze di sfruttamento delle
risorse degli Stati).
Quali sono i diritti che lo Stato costiero esercita sulla piattaforma continentale?
Sono diritti relativi UNICAMENTE allo sfruttamento delle risorse naturali (sia le risorse minerali, es. idrocarburi, sia le risorse
biologiche sedentarie, es. flora, fauna ecc..).
I diritti dello Stato costiero su queste risorse naturali sono: a) automatici, perché la piattaforma continentale è un attributo
naturale dello Stato, quindi non è necessario proclamarla; b) esclusivi, cioè soltanto lo Stato costiero può procedere allo
sfruttamento di queste risorse.
n.b: Tuttavia questi diritti sono limitati unicamente al fondo e al sottosuolo marino e NON si estendono alla colonna d’acqua
sovrastante. Nella colonna d'acqua si applica il regime dell'Alto Mare e vengono fatti salvi alcuni diritti di tutti gli altri Stati fra cui:
la libertà di navigazione, di sorvolo, di ricerca scientifica e di posa di cavi e condotte.
→ Lo Stato costiero nelle acque sovrastanti la propria piattaforma continentale può esercitare poteri di controllo nei confronti di
navi straniere unicamente per verificare se queste procedono o meno allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo.
La pirateria si può pensare sia un fenomeno che appartiene ormai al passato ma non è così. La pirateria oggi rientra tra i crimini
internazionali contro l’umanità.
Consiste nella perpetrazione di atti di violenza, detenzione e depredazione (saccheggio) commessi, per fini privati,
dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave in alto mare o contro persone o beni che si trovino a bordo,
possono essere compiuti anche da un aeromobile privato contro un altro aeromobile nello spazio aereo sovrastante l’alto mare.
La comunità internazionale ritenendo che si tratti di un crimine che offende l'intera comunità, ha assoggettato questo crimine al
principio della giurisdizione universale, per cui ogni Stato può reprimere gli atti di pirateria.
→ Il crimine per poter essere qualificato pirateria deve essere commesso in alto mare o nello spazio aereo sovrastante.
→ Gli atti di pirateria possono essere commessi solo da navi private. NON navi da guerra. Alcuni punti da ricordare sono che:
A) ogni Stato può catturare in alto mare la nave pirata, MA tale potere non spetta se la nave pirata si rifugia nelle acque
territoriali altrui, infatti in questo caso dovrà essere lo Stato costiero a procedere alla cattura, in caso di incapacità dello Stato
costiero il Consiglio di sicurezza può autorizzare gli Stati ad intervenire nelle acque territoriali altrui;
B) le navi da guerra di uno Stato straniero hanno il diritto di visita ma non un diritto di cattura che compete solo allo Stato della
bandiera;
C) lo Stato costiero ha il diritto di inseguire e catturare in alto mare, mediante navi o aeromobili da guerra o adibiti a pubblico
servizio, le navi che abbiano violato le sue leggi in zone sottoposte alla sua giurisdizione; l’inseguimento deve aver inizio
quando la nave straniera si trova nelle acque interne, territoriali o nella sua zona contigua, nella ZEE o nelle acque
sovrastanti la piattaforma continentale (negli ultimi casi l’inseguimento potrà essere esercitato solo in relazione a violazioni
dei particolari diritti riconosciuti allo Stato in tali zone).
→ Un atto simile a quello di pirateria che si verifica nel mare territoriale di uno Stato non può essere definito come pirateria vera e
propria, ma si parla di rapina a mano armata in mare.
Il diritto internazionale consuetudinario definisce i poteri dello Stato per prevenirla e reprimerla: l'art. 105 della Convenzione
afferma che “il potere delle navi da guerra o di servizio, di qualsiasi Stato, è di fermare e di catturare una nave sospettata di aver
commesso un atto di pirateria. Inoltre la nave può sequestrare la nave accusata, requisire i beni a bordo e sottoporre a
procedimento penale i responsabili”.
Cos’è successo nella questione relativa ai Marò? Si è instaurata una controversia internazionale tra India e Italia, perché i
Marò sono stati accusati di aver ucciso dei pescatori indiani nella ZEE indiana e sono stati arrestati e sottoposti a dei
procedimenti penali in India. L’Italia ritenendo che l’India non avesse la giurisdizione su quanto accaduto ha avviato un arbitrato
internazionale e si è rivolto all' ITLOS cioè il tribunale internazionale per il diritto del mare che ha sede ad Amburgo. Questo
tribunale ha statuito l'interruzione dei procedimenti avviati nei confronti dei Marò e la rimessione del caso a un ulteriore tribunale
arbitrale ad hoc che è stato istituito presso la Corte permanente di arbitrato con sede all’Aia (Olanda). Il tribunale in questione si
pronuncerà (udienza fissata per luglio) su quale Stato dovrà esercitare la giurisdizione sull'incidente avvenuto ai Marò. Non
decide sulla colpevolezza o innocenza dei Marò. L'India afferma che l'incidente è avvenuto a 33 miglia dalla costa indiana dove
l'India è solita esercitare la sua giurisdizione. L’Italia si oppone affermando che essendo avvenuto nella ZEE non sussista la
giurisdizione dell'India.
→ Oltre alla pirateria possono essere commessi altri atti illeciti via mare ad esempio: traffico di stupefacenti e di immigranti però
NON sono crimini internazionali, MA sono crimini transnazionali, perché NON sussiste il principio della giurisdizione universale,
NON sussiste un potere degli Stati in Alto mare di fermare e catturare navi che compiono traffici illeciti. Per poter catturare una
nave responsabile di tali traffici in mare secondo il diritto internazionale consuetudinario è necessario il consenso dello Stato della
bandiera di quella nave. Esistono le possibilità di stipulare degli accordi, delle convenzioni con gli Stati che forniscono questo
consenso a priori promettono o si impegnano a fornirlo.
8.10 ZONA DI RICERCA E SOCCORSO.
Il dovere di prestare assistenza in mare alle persone in pericolo è norma consuetudinaria antichissima che è stata recepita da
diverse convenzioni internazionali: la convenzione di Montego Bay, la convenzione Solas (salvaguardia delle vite umane in mare
del 1974), la convenzione Sar (ricerca e soccorso del 1979).
L’art. 98 della Convenzione di Montego Bay impone due obblighi allo Stato:
1) Quello di esigere che i comandanti delle sue navi procedano a salvare chiunque si trovi in pericolo in mare, ovviamente
senza mettere a repentaglio la vita del proprio equipaggio;
2) Che istituiscano un servizio permanente ed efficace di ricerca e soccorso nelle acque adiacenti il proprio mare.
L’Italia ha proclamato la propria zona di ricerca e soccorso, quindi un’area dove lo Stato è tenuto a prestare soccorso. Tutti gli
Stati che si affacciano nel Mediterraneo hanno proclamato e istituito zona di ricerca e soccorso anche la Libia la quale però è
totalmente incapace di svolgere tale funzione. Malta anche istituì questa zona, ma molto spropositata rispetto alle capacità estesa
fino a 200 miglia che sovrappone alla zona italiana, infatti vi sono state diverse controversie fra Malta e Italia.
***La Corte internazionale di Giustizia ha due tipi di competenza: una competenza contenziosa e una competenza consultiva.
Nell’esercizio della competenza contenziosa la Corte si pronuncia sulle controversie che gli Stati le sottopongono tramite
sentenza, la quale è vincolante per le parti della controversia; la giurisdizione della Corte ha base consensuale, cioè essa si può
pronunciare su una controversia SOLO se le parti della controversia stessa sono d’accordo affinché questo accada.***
L’art.38 stabilisce le modalità attraverso le quali la Corte deve risolvere le controversie che le sono sottoposte e stabilisce che la
Corte può pronunciarsi secondo diritto oppure secondo equità previsto dall’art. 38 suddiviso in due paragrafi, il paragrafo 1
riguarda le competenza della Corte di decidere secondo diritto le controversie che le sono sottoposte, mentre il paragrafo 2
prevede la competenza della Corte di decidere queste controversie “ex aequo et bono”, ossia secondo equità; tuttavia ad oggi gli
Stati parti di una controversia non hanno mai chiesto alla Corte di decidere secondo equità.
→ MA l’art.38 dello Statuto è considerato da molti un elenco delle fonti del diritto internazionale: nell’ordine troviamo indicati i
trattati internazionali, la consuetudine e i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. Per quanto riguarda,
invece, le sentenze e gli insegnamenti degli studiosi più qualificati (cioè i contributi della dottrina), questi sono solo indicati come
mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche quando manchino disposizioni convenzionali o pattizie, o come
strumenti di integrazione. Effettivamente il contenuto dell’art. 38 par.1 nelle lettere a,b e c, può essere considerato un elenco delle
fonti del diritto internazionale, tuttavia soltanto parziale, infatti NON sono considerate due fonti del diritto internazionale, cioè: a) le
norme imperative, (anche dette norme cogenti o di ius cogens); c) le cosiddette fonti previste da accordo o fonti di terzo grado,
cioè quegli atti vincolanti che sono il prodotto di meccanismi di produzione giuridica previsti da accordi internazionali. n.b: NON
confondere le fonti previste da accordo con gli accordi.
Perché all’art. 38 mancano le norme imperative? Per un motivo di carattere cronologico: lo Statuto della Corte internazionale
di Giustizia, allegato alla Carta delle Nazioni Unite è stato adottato, come la Carta, nel 1945, mentre la nozione di norma
imperativa è successiva. Essa è contenuta per la prima volta nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, quindi
fino a quel momento non era conosciuta questa categoria di fonti del diritto internazionale.
→ Innanzi tutto il primo strumento che la Corte deve applicare sono i trattati, cioè i trattati conclusi tra le parti in lite, poi le norme
consuetudinarie, in quanto norme generali che vincolano tutti gli Stati e quindi vincolano anche gli Stati parti della controversia, e
infine i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.
10.1 CONSUETUDINE.
All’art. 38 è definita come una general practice accepted as law, cioè una pratica generale accettata come diritto. Da questa
definizione noi desumiamo i due elementi che devono sussistere perché possa parlarsi di consuetudine, essi sono:
1) la diuturnitas è la ripetizione costante di un comportamento nel tempo da parte della generalità degli Stati; è anche
considerato l’elemento materiale della consuetudine, è la prassi, la ripetizione costante di un comportamento nel tempo.
→ Generalità di Stati non vuol dire totalità, infatti ciò che conta è che la grande maggioranza degli Stati tenga quel
comportamento in maniera ripetuta nel tempo, con la convinzione della sua conformità a diritto;
→ Affinché si formi una consuetudine il tempo necessario è tanto più breve quanto più vasta e diffusa sia l’assunzione di quel
comportamento da parte degli Stati della comunità internazionale, tuttavia il tempo è un fattore ineliminabile, infatti non esistono
le cosiddette consuetudini istantanee.
2) l’opinio iuris ac necessitatis oppure opinio iuris sive necessitatis, è la convinzione che quel comportamento è conforme a
diritto, è anche definito l’elemento soggettivo o psicologico, (nonostante l’improprietà di assimilare lo Stato ad un uomo,
poiché un uomo ha una psiche mentre uno Stato ne è privo) necessario per la formazione della consuetudine.
3)
Come si fa a capire se un comportamento ripetuto nel tempo dagli Stati sia posto in essere con la convinzione che sia
oggetto di un diritto o di un obbligo? L’opinio iuris può essere desunta da diversi strumenti: da dichiarazioni formulate dagli
Stati, da risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma in questo caso l’opinio iuris non è attribuibile a quegli Stati
che hanno votato contro la risoluzione, oppure a quelli che hanno votato a favore ma che nelle dichiarazioni precedenti il voto o
post voto hanno sottolineato che la risoluzione non è dichiarativa del diritto consuetudinario.
Tale comportamento può essere oggetto di un obbligo, ad esempio l’obbligo di astenersi dall’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali (riconosciuto dalla Corte internazionale di Giustizia nella sentenza resa nel caso Nicaragua contro gli Stati Uniti del
1986).
MA il comportamento oggetto della consuetudine, può anche consistere in un diritto, pensiamo ad esempio al diritto di passaggio
inoffensivo delle navi straniere nel mare territoriale, che è oggi considerata una norma di carattere consuetudinario in ragione
della ripetizione costante nel tempo di un comportamento degli Stati costieri, nell’accordare il passaggio inoffensivo con la
convinzione che la nave straniera abbia questo diritto.
n.b: La differenza tra la consuetudine, che è fonte del diritto internazionale, e il mero uso, in entrambi i casi c’è una
comportamento ripetuto nel tempo, MA solo nel caso della consuetudine quel comportamento è accompagnato dal convincimento
da parte degli Stati che lo pongono in essere che esso sia conforme a diritto.
→ La consuetudine è fonte di norme generali, cioè vincola tutti gli Stati indipendentemente dal fatto che questi abbiano
contribuito con il loro comportamento alla formazione della consuetudine.
Bisogna menzionare la cosiddetta “teoria dell’obiettore permanente”: questa teoria tiene conto dello Stato che si oppone
persistentemente alla formazione di una consuetudine, dunque tenendo un comportamento contrario a quello che sarebbe
richiesto dalla consuetudine, e motivando in maniera espressa questo comportamento; questa teoria NON è oggi accolta dal
diritto internazionale, quindi la teoria del cosiddetto “persistent objector” è in realtà da respingere perché la consuetudine vincola
TUTTI gli Stati, anche quelli che si sono persistentemente opposti alla sua formazione, perciò una volta che la consuetudine si è
formata vincola tutti gli Stati.
Come si fa quindi ad accertare se si sia affermata una consuetudine? Può avvenire attraverso un’indicazione autorevole
della Corte internazionale di Giustizia, se essa in una sua sentenza dichiara una norma come norma consuetudinaria in
considerazione dell’autorevolezza della Corte (possiamo star certi che si tratta di norma consuetudinaria), e questo dà anche alle
pronunce della Corte un peso maggiore rispetto ad un qualsiasi tribunale interno che possa qualificare una norma come norma
consuetudinaria, anche se la giurisprudenza interna può contribuire ad accertare la formazione di una nuova consuetudine.
La consuetudine è fonte di norme generali non scritte MA le norme consuetudinarie che sono non scritte, possono essere
tradotte in norme scritte e contenute in quelle che vengono chiamate “convenzioni di codificazione”, trattati che riproducono le
norme consuetudinarie su una determinata materia.
A questo proposito dobbiamo soffermarci sulla Commissione di diritto internazionale, un organo sussidiario dell’Assemblea
Generale, è stata istituita dall’Assemblea negli anni 40, ed è composta da esperti di diritto internazionale. Attraverso quest’organo
l’Assemblea svolge quella funzione che le è attribuita dall’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite, ovvero la funzione di
promuovere la codificazione del diritto internazionale e il suo sviluppo progressivo; infatti la Commissione del diritto internazionale
prepara dei progetti di convenzione che prendono il nome di Draft articles, cioè progetti di articoli, nei quali codifica le norme
consuetudinarie. Poiché essa ha anche il compito assegnato dall’Assemblea Generale, di promuovere lo sviluppo progressivo del
diritto internazionale, accanto a queste norme codificative del diritto consuetudinario, di solito le convenzioni contengono anche
alcune norme innovative, in misura maggiore o minore, e sta all’interprete capire se si tratta di una norma codificativa
consuetudinaria o se si tratta di una norma innovativa e quindi di una mera disposizione pattizia.
Esempi di convenzioni di codificazione, elaborate dalla Commissione, sono: la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del
1969, la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961, la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963
e molte altre. La Commissione del diritto internazionale ha anche elaborato alcuni progetti di articoli come “il progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale degli Stati” adottato nel 2001 che non si sono ancora tradotti e forse non si tradurranno mai in
un vero trattato, cioè in un testo convenzionale, ma che comunque costituiscono un riferimento fondamentale per gli Stati e per le
organizzazioni internazionali e gli altri enti che partecipano alla vita di relazione internazionale.
Oltre alle consuetudini che sono fonti di norme generali non scritte, vi sono anche delle consuetudini particolari che vincolano
soltanto una ristretta cerchia di Stati che possiamo distinguere in due tipi:
- le consuetudini regionali, cioè le consuetudini che vincolano solo gli Stati appartenenti ad una determinata regione
geografica (es. l’uti possidetis che nacque come una consuetudine particolare in America latina);
- le consuetudini che si formano in deroga a norme di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, abbiamo parlato
a questo proposito delle modalità di voto in seno al Consiglio di Sicurezza e abbiamo visto che in base all’ art. 27 par.3 della
Carta delle Nazioni Unite, una risoluzione su questioni non procedurali, quindi sostanziali, è adottata dal Consiglio di
sicurezza soltanto con il voto positivo di almeno nove membri, all’interno dei quali siano ricompresi tutti i membri permanenti,
perché abbiamo visto che i membri permanenti hanno il potere di veto. Invece in deroga a questa disposizione, si è formata
tra gli Stati membri dell’organizzazione, una consuetudine secondo la quale l’astensione di uno o più membri permanenti
NON impedisce l’adozione di una risoluzione.
***E per quanto riguarda la Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale del
1998 (questo Statuto è entrato in vigore nel 2002 la Corte che ha sede all’Aia, in Olanda ha iniziato a funzionare nel 2003) è
competente a processare e punire gli individui che siano responsabili di crimini di guerra, contro l’umanità, di genocidi, di
aggressione (Naturalmente la Corte si occupa esclusivamente dei maggiori responsabili di questi crimini) e naturalmente lo
Statuto della corte internazionale o Statuto di Roma stabilisce che nessuno individuo che sia già stato processato dalla corte
penale internazionale può essere nuovamente riprocessato per quegli stessi crimini (fatti) davanti ad un tribunale interno. Questa
regola NON ammette eccezioni.
Lo Statuto di Roma stabilisce che un individuo che è stato processato dal tribunale interno per lo stesso fatto non può essere
riprocessato dalla corte internazionale. La suddetta regola incontra delle eccezioni, le seguenti:
- Il processo del tribunale interno mirava a sottrarre il soggetto dalla sua responsabilità, un cosiddetto processo farsa, ovvero
si sapeva già quale sarebbe stato l’esito, sarebbe stato assolto o condannato ad una pena piuttosto lieve a cospetto del
crimine commesso;
- Il processo davanti al tribunale interno non è stato condotto in maniera indipendente e imparziale nel rispetto delle garanzie
previste dal diritto internazionale.***
10.5 FONTI PREVISTE DA ACCORDO
Da non confondere con gli accordi internazionali, sono dette così perché trovano il fondamento della loro obbligatorietà in un
accordo internazionale, che di solito è o un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale o anche un altro trattato che non
abbia per oggetto la suddetta istituzione, come esempio di fonte prevista d’accordo, che non sia istitutivo di un accordo
internazionale, possiamo citare la clausola della nazione più favorita, di solito è inclusa in un trattato in materia commerciale, in
materia di investimenti tra due o più Stati, impone a ciascuna delle parti del trattato di riconoscere a qualsiasi altra parte del
trattato il trattamento più favorevole (es. in caso di dazi doganali, che abbia riconosciuto ad uno Stato terzo).
Come fonti previste d’accordo possiamo menzionare anche gli atti vincolanti emanati dagli organi delle organizzazioni
internazionali, questi di solito hanno solamente il potere di adottare raccomandazioni, atti con contenuto meramente esortativo. In
alcuni casi il trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale attribuisce ad alcuni organi il potere di adottare atti vincolanti,
questi saranno dunque fonti previste d’accordo perché il meccanismo di produzione giuridica di cui sono il risultato scaturisce da
un accordo:
- Un primo esempio di atti vincolanti e dunque fonti previste d’accordo sono i regolamenti, le direttive e le decisioni che l’Ue
può emanare secondo l’art. 288 del TFUE insieme agli atti non vincolanti quali pareri e raccomandazioni (sono fonti previste
d’accordo solo gli atti vincolanti).
- un altro esempio è quello delle Nazioni Unite l’organo dotato di adottare atti vincolanti è il Consiglio di sicurezza che può
attuare risoluzioni a carattere esortativo ma anche risoluzioni vincolanti, ad esempio quelle con cui impone agli Stati membri
di usare la forza coercitiva nei confronti di Stati, o enti non statali, considerati responsabili di una minaccia alla pace, di una
violazione alla pace o di un atto di aggressione; in alcuni limitati casi anche l’assemblea generale attua atti vincolanti.
N.B: Ciò che deve essere chiaro è che sono fonti previste d’accordo gli atti vincolanti che sono emanati dagli organi delle
organizzazioni internazionali.
Vediamo ora di considerare un’altra fonte prevista d’accordo che può essere stabilita da un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale o di un trattato semplice avente un qualsiasi oggetto diverso, cioè la procedura di emendamento con effetti erga
omnes, in ogni caso deve trattarsi di un trattato multilaterale.
La regola fondamentale è quella stabilita dalla Convenzione di Vienna: un trattato può essere modificato da un trattato
successivo, poiché la modifica sia efficace è necessario che TUTTI gli Stati facenti parte del trattato precedente continuino ad
essere parte del trattato successivo, MA il trattato può prevedere diversamente che le modifiche diventino efficaci per gli Stati
parte indipendentemente da una loro ratifica del trattato successivo.
La carta delle Nazioni Unite disciplina in 2 articoli diversi la revisione e l’emendamento (sono entrambe procedure erga omnes):
- l’emendamento riguarda la modifica di singole clausole, prevista dall’art.108
- la revisione invece una modifica più incisiva dell’intero contenuto del trattato e di regola la revisione di un trattato avviene
nell’ambito di una conferenza convocata appositamente a cui partecipano gli Stati parte del trattato e si parlerà di conferenza
di revisione, prevista dall’art.109.
→ L’art. 108 stabilisce che un emendamento alla carta delle Nazioni Unite, modifiche singole di articoli della carta devono essere
adottati dai 2/3 dell’assemblea e dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza e vincoleranno anche gli Stati che non
l’hanno adottato, quindi l’emendamento essendo un atto successivo dovrebbe essere adottato da tutti gli Stati membri per essere
vincolante, invece qui si stabilisce che l’emendamento sarà vincolante per tutti i membri quando si sarà raggiunta la soglia dei 2/3
degli Stati membri.
→ Per la revisione è prevista una procedura analoga dettata dell’art.109: è prevista la convocazione di una conferenza di
revisione della carta dei membri delle Nazioni Unite, ma perché questa conferenza si tenga è necessario che 2/3 degli Stati
membri siano favorevoli, e che tra questi ci siano 9 Stati membri del consiglio di sicurezza (non si applica il diritto di veto). La
revisione della carta decisa durante questa conferenza, entrerà in vigore per tutti gli Stati membri quando sarà stata decisa e
ratificata da 2/3 degli Stati membri tra cui tutti i 5 Stati permanenti.
Perché la procedura di emendamento con effetti erga omnes è fonte prevista d’accordo? Perché la decisione di emendare
il trattato è presa solo da un gruppo di Stati MA automaticamente sono vincolati tutti gli Stati, da decisioni da loro di per sé non
ratificate; la procedura ordinaria o quella di revisione ordinaria NON è fonte prevista d’accordo (lo saranno solo quando l’accordo
in questione andrà a vincolare anche gli Stati che non ratificano).
Per esempio tra le disposizioni che necessitano di modifica, anzi per meglio dire di abrogazione vi è il Consiglio di
amministrazione fiduciaria, che aveva il compito di sovraintendere all’amministrazione dei territori coloniali, in attesa della loro
indipendenza, ormai il processo di decolonizzazione è terminato da più di 30 anni infatti questo consiglio non si riunisce più,
dunque andrebbe eliminato. Un altro che andrebbe eliminato, sono le misure nei confronti di Stati ex nemici, comportanti l’uso
della forza armata, consentita dalla carta nei confronti degli Stati nemici delle Nazioni unite durante la seconda guerra mondiale
(Germania, Italia e Giappone); l’uso della forza armata era prevista per prevenire una politica di aggressione dalle tre precedenti
potenze, oggi queste sono membri delle nazioni unite perciò queste disposizioni sono ormai superate e nell’ambito di una
revisione andrebbero eliminate.
La Giurisprudenza e la dottrina
L’art.38 paragrafo 1 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia fa riferimento alla giurisprudenza e alla dottrina
specificando che costituiscono mezzi sussidiari delle norme giuridiche, quindi NON sono fonti del diritto internazionale.
N.B: È dunque chiaro che né dottrina e né giurisprudenza siano fonti del diritto internazionali, le fonti come abbiamo visto sono
le consuetudini, i trattati, i principi generali riconosciuti dalle nazioni e ci sono poi altre due fonti che non sono indicate nell’art. 38
ovvero le norme cogenti (Ius cogens) e le fonti previste d’accordo.
→ Per quanto riguarda la giurisprudenza, è bene chiarire che le sentenze emesse dai tribunali internazionali, vincolano SOLO le
parti in lite (es. le sentenze della Corte internazionale di giustizia vincolano solo gli Stati protagonisti della controversia) e che il
giudice internazionale è libero nella sua valutazione del caso concreto non è tenuto ad attenersi al principio espresso in una
sentenza riguardante un caso identico mentre negli ordinamenti nazionali cosiddetti di common law i giudici sono tenuti ad
attenersi al principio precedentemente regolato (e quindi non devono rispettare il principio dello stare decisis) vuol dire che
devono attenersi a ciò che è stato deciso in sentenze analoghe, questo principio non fa parte del diritto internazionale. La
giurisprudenza non ha valore vincolante MA di solito la Corte internazionale di giustizia fa riferimento a sentenze precedenti, per
lo più le proprie, attenendosi o non a quanto stabilito in precedenza, mentre di solito non cita la dottrina. Viceversa la Corte
penale internazionale in alcuni casi fa riferimento alle sentenze del tribunale per l’ex Jugoslavia, del tribunale per il Ruanda,
entrambi hanno chiuso i battenti ma nelle loro sentenze hanno fatto spesso e volentieri riferimento alla dottrina.
→ La dottrina è indicata pure, dall’art.38, come mezzo sussidiario e fa riferimento a quei principi, quelle teorie elaborate dagli
studiosi di diritto pubblico più qualificati, qui bisogna prendere in considerazione gli scritti, gli articoli, i contributi ecc.
Pur essendo giurisprudenza e dottrina poste sullo stesso piano dall’art.38 alla prima è da annettere più importanza che alla
seconda.
Perché utilizziamo il termine inglese di soft law per circoscrivere questo insieme di atti? In contrapposizione al cosiddetto
hard law, cioè al diritto internazionale inteso come un insieme di atti vincolanti, vale a dire le norme imperative, le norme
consuetudinarie, le fonti previste d’accordo, le norme pattizie, i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, dunque il
diritto internazionale con le sue fonti.
→ MA il soft law può comunque contribuire alla formazione dell’hard law:
a. pensiamo alle risoluzioni degli organi delle organizzazioni internazionali, anche se non vincolanti queste possono
esprimere l’opinio iuris degli Stati su un determinato argomento, per esempio le risoluzioni dell’assemblea generale
possono esprimere l’opinione degli Stati circa la conformità del diritto o non, di un determinato comportamento, dunque
questi atti non vincolanti degli organi delle organizzazioni internazionali, grazie all’opinio iuris possono contribuire alla
formazione di consuetudini, visto che l’opinio iuris è un elemento costitutivo delle consuetudini;
b. inoltre, i principi espressi nella risoluzione di una conferenza internazionale, possono essere riprodotti in un trattato,
dunque divenire norme pattizie, dunque questi possono essere enunciati formalmente in un trattato e dunque divenire
diritto pattizio;
c. possono anche essere pronunciati in seguito in atti vincolanti emanati dalle organizzazioni internazionali, dunque
divenire fonti previste d’accordo.
Atti Unilaterali
L’atto unilaterale è la manifestazione di volontà di un soggetto di diritto internazionale alla quale non fa riscontro la
manifestazione di volontà di un altro soggetto è qui che sta la differenza tra l’accordo internazionale e l’atto unilaterale.
n.b: se l’accordo scaturisce dalla volontà di più soggetti dotati della necessaria capacità internazionale, diretta a produrre degli
effetti disciplinati dal diritto internazionale, l’atto unilaterale invece vincola il soggetto di diritto internazionale SOLO nel caso in cui
la sua obbligatorietà sia espressamente prevista da una norma consuetudinaria o pattizia.
Dunque bisogna distinguere atti unilaterali previsti dal diritto consuetudinario da quelli previsti dal diritto pattizio:
- gli atti unilaterali previsti dal diritto pattizio:
1) La denuncia o recesso è l’atto mediante il quale uno Stato si scioglie dal vincolo derivante un trattato di cui è parte.
→ Se il trattato è bilaterale si parla di denuncia, quindi in caso trattato in materia commerciale tra l’Italia e Francia, l’Italia
denuncia, ovvero manifesta la volontà di non rispettare il trattato che si estingue.
→ Se il trattato è multilaterale si parla di recesso; se uno Stato parte manifesta di non essere vincolato dal trattato recede, per il
resto il trattato rimane in vigore per gli Stati che ne sono parte. Di solito MA non sempre i trattati multilaterali contengono una
clausola di recesso nella quale sono stabilite le modalità secondo le quali uno Stato può recedere per esempio se si tratta di un
trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale, il recesso deve essere notificato al segretario generale e avrà effetto solo
dopo il decorso di un certo termine che potrà essere di 3 mesi, 6 mesi o anche un anno;
2) Il ricorso o requete è l’atto mediante il quale uno Stato parte di un trattato può sottoporre una controversia riguardante
l’interpretazione o applicazione di quel trattato ad una giurisdizione internazionale. E’ un atto unilaterale poiché il singolo
Stato può rivolgersi alla giurisdizione internazionale, molto spesso la Corte internazionale di giustizia anche se sappiamo che
questa necessita del consenso di tutti gli Stati parti della controversia, MA poiché il consenso è dato a monte da ciascuno
Stato qualsiasi Stato può singolarmente rivolgersi alla giurisdizione internazionale, e lo Stato contro il quale si rivolge non
può sottrarsi avendo già a monte espresso il consenso (la clausola che permette il ricorso alla giurisdizione internazionale
per l’interpretazione di un trattato è chiamata clausola compromissoria).
→ Quindi il ricorso è un atto unilaterale previsto dal diritto pattizio, precisamente dal trattato contenente la clausola
compromissoria in virtù della quale ciascuno Stato parte di un trattato può ricorrere alla giurisdizione internazionale, il più delle
volte ci si rivolge alla corte internazionale di giustizia. Un esempio: la convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948
impone agli Stati parte di prevenire e reprimere il genocidio e le fattispecie connesse (l’istigazione al genocidio, la cospirazione
diretta a commettere il genocidio o la complicità a commettere genocidio); la Bosnia erzegovina, parte della convenzione, si è
avvalsa di questa clausola e ha presentato ricorso alla corte di giustizia nel 1983, ha adito la corte internazionale di giustizia
contro la Repubblica federale iugoslava (cioè Serbia e Montenegro), lamentando la violazione della convenzione, dell’obbligo di
impedire il genocidio in relazione a quello che definiva genocidio dei bosniaci musulmani, ovvero massacri, atti di violenza
generalizzati dei bosniaci musulmani, durante il conflitto nella ex Jugoslavia, a quei tempi in corso.
- gli atti previsti dal diritto consuetudinario:
1) Il riconoscimento di situazioni giuridiche è l’atto unilaterale mediante il quale un soggetto di diritto internazionale dichiara
di considerare una determinata situazione come conforme al diritto con la conseguenza di non poterla più contestare in
seguito. Un esempio può essere il riconoscimento di una baia storica e in seguito non può contestare la legittimità di quella
proclamazione (le baie storiche possono superare le 24 miglia previste dal criterio del semicerchio) l’Italia per esempio ha
proclamato come baia storica il golfo di Taranto che è stato chiuso con una linea di circa 60 miglia che vanno da capo santa
Maria di Leuca a punta Alice in Calabria.
2) L’acquiescenza è il comportamento di un soggetto di diritto internazionale il quale si astiene dal prendere posizione rispetto
ad una situazione giuridica che tocca i propri interessi, con la conseguenza che in seguito NON potrà più contestarla.
3) La protesta è esattamente l’atto contrario, è l’atto unilaterale attraverso cui il soggetto di diritto internazionale dichiara una
situazione che tocca i suoi interessi come non conforme al diritto con la conseguenza di impedire gli effetti che deriverebbero
dall’acquiescenza, dunque avendo mosso la protesta non potrà essergli contestata in seguito.
4) La rinuncia è quando un soggetto manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto soggettivo a lui spettante; può essere
esplicita o si può desumere da atti concludenti.
5) La promessa è l’atto con cui uno Stato si impegna a tenere un determinato comportamento o si obbliga ad astenersi dal
farlo.
6) La notifica è l’atto con cui si rendono al corrente uno o più soggetti di diritto internazionale dell’esistenza di determinati fatti
o situazioni, il soggetto che ha ricevuto la notifica non può ignorare l’esistenza del fatto.
7) L’estoppel è una figura anglosassone, impedisce di rendere priva di effetti una dichiarazione effettuata da uno Stato nei
confronti di un altro, quando la dichiarazione è a svantaggio dello Stato dichiarante e a vantaggio dell’altro Stato.
La Corte internazionale di giustizia elenca alcune norme che considera istitutive di obblighi erga omnes:
- Divieto di aggressione, si tratta di una norma cogente, lo Stato aggredito, cioè lo Stato leso dalla violazione del divieto di
aggressione è legittimato a far valere la violazione del divieto di aggressione del divieto, MA legittimati lo sono anche tutti gli
altri Stati i quali possono agire in legittima difesa anche usando la forza armata in soccorso dello Stato aggredito, è erga
omnes perché NON solo lo Stato leso MA tutti gli altri Stati sono legittimati a far valere la violazione di tale divieto;
- Divieto di genocidio, in questo caso non si può individuare facilmente lo Stato leso come nel precedente divieto, anch’essa
è una norma cogente, accertata dalla Corte internazionale di giustizia in una sentenza del 2006, nel caso di violazione del
divieto di genocidio di solito non c’è uno Stato leso, ad essere vittime del genocidio sono i singoli individui appartenenti ad un
gruppo nazionale, religioso etnico o razziale. MA essendo il divieto di genocidio, norma cogente, norma istitutiva di obblighi
erga omnes, qualsiasi Stato può far valere la violazione del divieto di genocidio indipendentemente dal fatto che i propri
cittadini siano stati vittime del genocidio. Lo Stato nel cui territorio è avvenuto il genocidio difficilmente lo farà perché le
autorità statali saranno complici se non avranno ordinato addirittura di compiere il genocidio.
- Divieto di discriminazione razziale
- Divieto di schiavitù
10.8 CEDU
Tipicamente sono istitutive di obblighi erga omnes le disposizioni dei trattati sui diritti umani in modo particolare, le norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, stipulata nell’ambito del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale a sé
stante distinta dall’Unione Europea) adottata a Roma nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953, di cui oggi sono gli Stati parte della
convenzione sono 47. La convenzione i protocolli allegati elencano una serie di diritti civili e politici che ciascuno Stato che è
parte della convenzione si obbliga a garantire a tutti gli individui che si trovano sotto la sua giurisdizione, nel suo territorio.
→ Nel caso in cui uno o più Stati parti violano questi diritti nei confronti di alcuni soggetti allora qualsiasi altro Stato parte,
indipendentemente dal fatto che questi individui siano cittadini di quello Stato parte, può presentare un ricorso alla Corte europea
dei diritti dell’uomo lamentando la violazione di questi diritti, questi sono i cosiddetti ricorsi interstatali.
→ Vi è poi il ricorso individuale: cioè il singolo individuo che ritiene di essere vittima di una violazione dei diritti sanciti nella
convenzione o nei protocolli può direttamente rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
n.b: Dunque anche le norme pattizie possono essere norme istitutive di obblighi erga omnes.
Lo sono tipicamente le norme contenute nei trattati dei diritti umani, e la Convezione europea dei diritti dell’uomo è il caso più
eclatante, tutti gli Stati parte della convenzione possono proporre ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per lamentare la
violazione della Convenzione da parte di un altro Stato nei confronti di individui sottoposti alla giurisdizione di questo Stato
territoriale o extraterritoriale e ciò indipendentemente dal fatto che questi individui fossero o no cittadini dello Stato ricorrente.
11 I TRATTATI.
Lo strumento di riferimento del diritto dei trattati è la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, entrata in vigore
nel 1980. La convenzione in questione è il frutto di un processo di elaborazione della commissione del diritto internazionale e
disciplina i trattati tra Stati. In seguito nel 1986 è stata conclusa una Convenzione a Vienna sul diritto dei trattati tra Stati e
organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali che tuttavia ancora non è entrata in vigore.
Per quanto riguarda la procedura della conclusione dei trattati dobbiamo distinguerne due: la procedura solenne e la procedura
semplificata.
! Quando entra in vigore il trattato? Se il trattato è bilaterale → entrerà in vigore con lo scambio delle ratifiche, se invece il
trattato è multilaterale → entrerà in vigore una volta raggiunto il numero di ratifiche previsto nel trattato, il numero delle ratifiche
varia da trattato a trattato, potrebbero essere 20, 30 o 50.
n.b: Nella procedura solenne della conclusione dei trattati internazionali lo Stato si vincola al rispetto del trattato con la ratifica o
l’adesione, NON con la firma che ha solo valore di autenticazione del testo. Dalla firma nei trattati conclusi in forma solenne
discende un unico obbligo: l’obbligo di non tenere dei comportamenti contrari a quelli che sono i principi basilari del trattato (ES.
l’oggetto, lo scopo che il trattato si prefigge) questo obbligo cessa nel momento in cui lo Stato comunica al depositario che non
intende divenire parte del trattato.
11.2 PROCEDURA SEMPLIFICATA
La procedura semplificata consta di due sole fasi:
1) I negoziati: cioè i colloqui tra i plenipotenziari diretti ad accordarsi sul testo di un trattato;
2) La firma: che in questo caso, vincola lo Stato al rispetto del trattato.
→ Un trattato può anche essere concluso in forma mista cioè in forma solenne da alcuni Stati (con ratifica e adesione) e in
forma semplificata da altri Stati.
Come si fa a stabilire se la firma ha il valore di vincolare lo Stato al rispetto del trattato oppure no? Il valore obbligatorio
della firma può:
- essere prevista espressamente dal trattato (disposizione espressa del trattato);
- desumersi dal comportamento degli Stati partecipanti ai negoziati, in maniera inequivoca, la loro volontà di assegnare alla
firma il valore di vincolarli al rispetto del trattato (comportamenti concludenti).
→ Nel nostro ordinamento vi è un unico limite alla possibilità di stipulare accordo in forma semplificata e questo limite deriva
dall’art. 80 Cost. che non menziona proprio trattati in forma semplificata, non usa proprio questa espressione, MA prevede che:
“Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica o prevedono arbitrati o
regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o variazioni di legge” quindi le Camere autorizzano
con legge la ratifica di cinque categorie di trattati, queste categorie di trattati non possono essere conclusi in forma semplificata
perché è evidente che non c’è solo bisogno della ratifica MA c’è pure bisogno dell’autorizzazione alla ratifica delle Camere, è
evidente che i trattati NON possono essere conclusi in forma semplificata e cioè che lo Stato italiano non può vincolarsi con quei
trattati con la firma del plenipotenziario.
Dall’art 80 della Cost. inoltre noi desumiamo l’esistenza di tre diverse ipotesi: 1- Accordi in forma semplificata;
2- Accordi conclusi in forma solenne a rispetto dei quali lo Stato italiano si vincola attraverso la ratifica del presidente della
Repubblica;
3- Trattati conclusi in forma solenne a rispetto dei quali lo Stato italiano si vincola attraverso ratifica del presidente della
Repubblica preceduta dall’autorizzazione delle camere.
Bisogna ricordare le cinque categorie di trattati menzionate nell’art.80 che vediamo singolarmente:
1) Trattati di natura politica: la circolare emanata nel 1995 dal ministro degli esteri di allora Susanna Agnelli chiarisce che per
trattati di natura politica devono intendersi soltanto i trattati che hanno un grande rilievo politico cioè quelli che importano
scelte fondamentali di politica estera.
2) Trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari: cioè trattati che rappresentano dei compromessi e quindi hanno
lo scopo di stabilire le modalità per la soluzione di una controversia già sorta e la deferiscono ad un tribunale arbitrale o a
una giurisdizione internazionale, oppure semplicemente trattati che contengono una clausola compromissoria.
3) Trattati che comportano modifiche del territorio nazionale, cioè trattati mediante i quali lo Stato Italiano cede i propri
territori agli Stati confinanti rispetto a territori di limitata estensione, territori di confine o trattati di cui dovesse acquistare parti
del territorio di altri Stati.
4) Trattati che comportano modifiche di legge
5) Trattati che comportano oneri alle finanze: cioè trattati che comportano spese per lo Stato e la circolare Agnelli chiarisce
che deve trattarsi di spese NON previste nel bilancio ordinario dello Stato.
Quali sono gli organi competenti nel negoziare e concludere i trattati internazionali?
Quali siano gli organi competenti dello Stato a stipulare i trattati internazionali lo stabilisce il diritto interno di ciascuno Stato. Il
diritto internazionale detta soltanto alcune norme minime contenute nell’art 7 Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.
→ Dobbiamo dire che sono competenti a negoziare un trattato, quindi rappresentare lo Stato ai fini della negoziazione di un
trattato e della manifestazione del consenso a vincolarsi a quel trattato, due categorie di soggetti: gli individui organi che
esibiscono pieni poteri e gli individui organi i cui pieni poteri sono presunti, in virtù delle funzioni esercitate secondo la prassi degli
Stati. Quindi due sono le categorie di soggetti che sono competenti a negoziare un trattato per conto di uno Stato e manifestare il
consenso dello Stato ad obbligarsi a rispettarlo sempre se in forma semplificata.
Che cosa sono i pieni poteri? L’art 2 par 1 lett c della Convenzione di Vienna definisce i pieni poteri: in sostanza i pieni poteri
sono un documento che designa uno o più individui ai fini della rappresentanza di uno Stato per la negoziazione di un trattato,
l’adozione del testo, la manifestazione del consenso dello Stato a vincolarsi del rispetto di esso. Il documento è firmato dal Capo
dello Stato e controfirmato dal Ministro degli Esteri che quindi sono competenti a rappresentare uno Stato.
Vi è un’altra categoria per rappresentare lo Stato ai fini della negoziazione, modificazione o adozione di un accordo ed è la
categoria degli individui organi i cui pieni poteri sono presunti e che non devono esibire nessun documento, dobbiamo distinguere
tre gruppi:
A) Capi di Stato, Capi di Governo e i Ministri degli Esteri, NON sono tenuti ad esibire i pieni poteri riguardo a nessuno degli
atti relativi alla conclusione di un trattato, quindi i loro poteri (negoziazione, adozione testo e manifestazione del consenso a
obbligarsi nel rispetto del trattato) sono presunti. Non devono esibire alcun documento e i loro poteri discendono dalla carica
rivestita, lo stabilisce la Convenzione di Vienna e il diritto consuetudinario;
B) Capi delle missione diplomatiche, questi pieni poteri sono più limitati rispetto a quelli del primo gruppo: possono compiere
solo atti in materia di adozione del testo del trattato e NON deve esibire pieni poteri per la negoziazione di un accordo, per
esempio l’ambasciatore italiano a Vienna nel caso di un accordo tra l’Italia e l’Austria, e per l’adozione di un testo MA ha
bisogno di pieni poteri per la manifestazione del consenso dello Stato per obbligarsi al trattato. Invece i ministri degli Esteri,
capi di Stato e di governo possono firmare gli accordi senza esibire i pieni poteri.
C) Il rappresentante degli Stati accreditati, è abilitato quindi NON deve esibire i pieni poteri, alla negoziazione di un accordo
nell’ambito della conferenza o nel quadro di quella organizzazione; invece ha bisogno dei pieni poteri per manifestare il
consenso dello Stato ad obbligarsi all’accordo.
N.B: Naturalmente ci riferiamo agli accordi in forma semplificata, perché in quella solenne ci vuole la ratifica da parte del Capo
dello Stato, o adesione se accordo multilaterale.
11.3 LE RISERVE
La definizione di riserva è contenuto sempre nell’art 2 della Convenzione di Vienna: la riserva è una dichiarazione unilaterale
che uno Stato formula al momento della firma, ratifica o adesione di un trattato, e si distinguono:
- riserve eccettuative, sono una dichiarazione unilaterale mediante le quali lo Stato dichiara di non accettare una determinata
clausola o clausole e non si sente obbligato;
- riserve modificative o interpretative, sono una dichiarazione unilaterale attraverso la quale lo Stato dichiara di accettare
ma soltanto con determinate modifiche oppure solo attribuendo un determinato significato ai termini (es. lo stato X formula
una riserva mediante la quale accetta la clausola con la quale si afferma che evitano l’uso di una determinata arma ma a
condizione che il termine conflitto armato sia limitato a conflitti internazionali e non ricomprenda conflitti interni).
n.b: Le riserve vanno distinte dalle dichiarazioni di natura politica che spesso gli Stati formulano al momento dell’adozione di
accordi internazionali; la riserva è diretta a produrre effetti giuridici mentre la dichiarazione di carattere politico NO, quindi quando
dalla riserva non emergono effetti giuridici si tratta di una dichiarazione di natura politica.
→ Le riserve possono essere apposte SOLO nei trattati multilaterali. Una riserva NON ha senso in un trattato bilaterale perché
se uno dei due Stati non intende accettare una parte dell’accordo non può che farlo presente e modificare il testo. L’istituto della
riserva è legato ai trattati multilaterali: lo scopo è quello di consentire la più ampia partecipazione degli Stati ai trattati multilaterali.
Cioè pur di acquisire un nuovo Stato parte si consente che questo possa escludere, come no, l’applicazione di una o più clausole
(riserva eccettuativa).
MA ci sono dei trattati multilaterali aperti (che contengono clausole di adesione) i quali prevedono che non possono essere
apposte riserve, quindi escludono la possibilità di apporre riserve.
es: Uno di questi trattati è lo Statuto di Roma della Corte penale Internazionale, questo Statuto prevede che se lo Stato diventa
parte e decide di ratificare o aderire a questo Statuto deve accettare che sia vincolato da tutte le disposizioni.
La materia delle riserve ha subito un’evoluzione:
→ a partire dalla seconda guerra mondiale dove vigeva il regime del principio dell’integrità del trattato, in virtù di questo
principio sostanzialmente si cercava di fare in modo che tutti gli Stati, che facevano parte, avessero tutti gli stessi obblighi e si
potevano apporre riserve in un trattato soltanto quando: a) era previsto espressamente dal trattato; b) laddove non era previsto
ma la riserva era accettata da TUTTI gli Stati parte, se uno o più Stati parti si opponevano allora lo Stato riservante NON ne
faceva parte.
→ DOPO un’evoluzione si verifica con il parere delle Corte Internazionale di Giustizia del 1951 relativo alle riserve della
Convenzione sul Genocidio del 1948, che contiene una clausola compromissoria: prevede che ciascuno Stato parte possa
ricorrere alla Corte internazionale di giustizia contro un altro Stato parte che ritenga abbia violato uno o più disposizioni sul
genocidio e la clausola compromissoria consente a ciascuno Stato parte di adire unilateralmente la Corte internazionale di
giustizia mentre l’altro Stato, quello accusato di aver violato la convenzione, dovrà necessariamente accettare la giurisdizione
della Corte internazionale di giustizia. Perché l’altro Stato parte deve necessariamente accettare che la controversia sia
risolta dalla Corte internazionale di giustizia?
Perché ha espresso a monte il proprio consenso nel momento in cui è divenuto parte della convenzione sul genocidio che
continente la clausola compromissoria.
Quando nel 1948 fu conclusa la convenzione, sorse immediatamente un dibattito circa la possibilità per gli Stati di divenire parti
della convenzione e apporre delle riserve, in modo particolare alcuni Stati tra cui l’Unione Sovietica avevano manifestato la
volontà di apporre una riserva alla clausola compromissoria cioè non pretendevano di essere obbligati alla clausola
compromissoria perché temevano di poter essere poi portati davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di aver
violato la convenzione. La convenzione sul genocidio non detta alcuna disposizione sulle riserve e quindi non era chiaro se
potessero essere apposte o meno, allora l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1950 adottò una risoluzione con la quale
chiese alla Corte (che svolge non solo una funzione contenziosa ma anche consultiva) un parere a riguardo, la Corte si espresse
con un parere nel 1951:
1- uno Stato PUÒ apporre una riserva alla convenzione sul genocidio ancorché questa NON lo preveda espressamente purché
la riserva sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato cioè purché la riserva non riguardi clausole fondamentali e
caratterizzanti dell’intero trattato;
2- uno Stato già parte può sollevare un’obiezione rispetto ad una riserva, in questo caso il trattato NON entra in vigore nei
rapporti tra lo Stato riservante e lo Stato obiettante.
Sotto la spinta di questo parere si afferma il principio della flessibilità: in virtù di questo principio se il trattato disciplina la
possibilità di porre riserve allora gli Stati possono apporre riserve solo nei limiti in cui è espressamente previsto dal trattato, SE
invece il trattato è silente sulla possibilità di apporre riserve, allora NON è più necessario che la riserva sia accettata da tutti gli
Stati parti ma è necessario che la riserva sia accettata da uno soltanto degli Stati già parti affinché lo Stato riservante diventi
anch’esso parte del trattato.
→ Seconda tappa dell’evoluzione del regime delle riserve nel diritto internazionale è rappresentata dalla Convenzione di Vienna
del 69 sul diritto dei trattati che stabilisce chiaramente: lo Stato all’atto della firma, della ratifica e dell’adesione PUO’ apporre una
riserva ad un trattato a meno che:
1- il trattato esclude completamente la possibilità di apporre riserve;
2- il trattato prevede la possibilità di apporre riserve ma lo Stato vuole apporre una riserva che NON rientra nell’elenco di
quelle ammesse;
3- la riserva NON è compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.
La Convenzione di Vienna non si limita a recepire il dictum della Corte Internazionale di Giustizia ma va oltre facendo una
distinzione tra obiezione semplice e obiezione qualificata: perché stabilisce che il Trattato non entra in vigore tra lo Stato
riservante e lo Stato obiettante soltanto se quest’ultimo solleva un’obiezione qualificata, cioè precisa espressamente che non
vuole che il Trattato entri in vigore tra i rapporti con lo Stato riservante. Altrimenti se lo Stato obiettante si limita ad una obiezione
semplice il trattato entra in vigore tra Stato obiettante e Stato riservante, semplicemente la clausola o clausole oggetto di riserva
NON si applicano nei rapporti tra questi due Stati, MENTRE la Corte internazionale di Giustizia prevedeva che se lo Stato
sollevava un’obiezione il trattato non entrava in vigore nei rapporti tra Stato riservante e Stato obiettante.
n.b: Ronzitti afferma: “secondo la Convenzione di Vienna un’obiezione semplice ha lo stesso effetto di un’accettazione della
riserva se la riserva è eccettuativa”. Se uno Stato già parte del trattato solleva un’obiezione semplice, malgrado l’obiezione, il
trattato entra in vigore. Quindi un’obiezione semplice ha lo stesso effetto di una riserva eccettuativa. Se la riserva è modificativa
gli effetti dell’obiezione sono comunque diversi perché se lo Stato già parte accetta la riserva modificativa vuol dire che il trattato
si applica compresa la clausola oggetto della riserva ma con le modifiche volute dallo Stato riservante. Se invece lo Stato già
parte solleva un’obiezione semplice il trattato si applica ma quella clausola oggetto di riserva non si applica proprio.
Come si stabilisce se un’obiezione è semplice o qualificata? Bisogna leggere con attenzione la dichiarazione del testo.
Spesso accade che nel formulare l’obiezione gli Stati specificano che questa non preclude l’entrata in vigore del trattato nei
rapporti con lo Stato riservante, per evitare che possa essere interpretata come una obiezione qualificata.
N.B: La Convenzione di Vienna, semplifica le cose: prevede che una riserva si intende accettata se uno Stato già parte NON
solleva un’obiezione entro 12 mesi dalla notifica della riserva. NON è necessaria un’accettazione espressa.
Secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati la riserva, l’accettazione espressa e l’obiezione ad una riserva devono
essere formulate per iscritto e devono essere comunicate agli altri Stati che sono già parti e agli altri Stati che sono titolati a
divenire parti (cioè che se il trattato è concluso in forma solenne, hanno concluso il trattato ma non lo hanno ancora ratificato).
QUINDI se il trattato è soggetto a ratifica, cioè concluso in forma solenne, l’eventuale riserva che è formulata all’atto della firma
deve essere confermata al momento della ratifica; la riserva e anche l’obiezione possono essere ritirate in qualsiasi momento
però deve essere effettuato per iscritto.
Dobbiamo un attimo considerare i trattati che istituiscono norme istitutive di obblighi erga omnes (es: i trattati sui diritti
umani in come la CEDU) l’obiezione non ha un significato pratico anzi, comporta la violazione del trattato da parte dello Stato
obiettante perché ciascuno Stato è tenuto al rispetto delle norme del trattato nei confronti di tutti gli altri e ciascun altro Stato può
pretendere il rispetto di quelle norme anche se non è vittima di una violazione, anche se è possibile apporre alcune riserve alla
Convenzione MA di fatto nessuno Stato ha mai sollevato obiezioni alle riserve apposte alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo perché l’obiezione qualificata prevede che il trattato non entri in vigore nei rapporti tra lo Stato riservante e lo Stato
obiettante quindi comunque lo Stato obiettante si troverebbe a non rispettare l’intero trattato nei confronti dello Stato riservante
quindi, se l’obiezione è semplice, lo Stato obiettante applica il trattato nei confronti dello Stato riservante con l’eccezione della
clausola oggetto della riserva MA poiché la convenzione impone obblighi erga omnes, qualsiasi altro Stato già parte può
accusarlo di aver violato la convenzione perché la convenzione istituisce vincoli solidali cioè obblighi erga omnes.
→ Vi sono tuttavia dei segnali consistenti di una ulteriore evoluzione della disciplina delle riserve, ed infatti a partire dalla fine
degli anni 80, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e poi a partire dalla metà degli anni 90 il Comitato dei diritti dell’uomo
(è un organo che ha il compito di vigilare sul rispetto del patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici), si sono espressi a
riguardo e hanno affermato che le riserve inammissibili formulate all’atto della firma, ratifica o dell’adesione devono
semplicemente essere considerate come NON apposte, quindi non pregiudicano la partecipazione dello Stato riservante al
trattato, semplicemente è considerata non apposta, e quindi lo Stato riservante è tenuto al rispetto del trattato, inclusa la clausola
oggetto della riserva se la riserva era eccettuativa, o
politici), si sono espressi a riguardo e hanno affermato che le riserve inammissibili formulate all’atto della firma, ratifica o
dell’adesione devono semplicemente essere considerate come NON apposte, quindi non pregiudicano la partecipazione dello
Stato riservante al trattato, semplicemente è considerata non apposta, e quindi lo Stato riservante è tenuto al rispetto del trattato,
inclusa la clausola oggetto della riserva se la riserva era eccettuativa, o senza alcun tipo di modifica se la riserva era modificativa,
secondo il principio “Utile per inutile non viziatur” (è un principio proprio degli ordinamenti interni assunto dal diritto
internazionale ed espresso con una formula latina che vuol dire l’utile non è inificato dall’inutile).
! INVECE, secondo il diritto consuetudinario lo Stato che formulava una riserva inammissibile, NON diventava parte del trattato,
perché era espressamente esclusa dal trattato o incompatibile con l’oggetto, o scopo del trattato.
Questa nuova tendenza mira a favorire il più possibile la partecipazione degli Stati ai trattati soprattutto nei casi di trattati sui diritti
umani: le riserve inammissibili vengono veramente considerate come non apposte e quindi lo Stato riservante diventa parte del
trattato ed è obbligato anche al rispetto delle clausole oggetto della riserva se eccettuativa, invece senza alcuna modifica se la
riserva era modificativa.
La commissione del diritto internazionale si è espressa a riguardo nella guida sulle riserve ai trattati che ha adottato nel 2011,
si tratta di una guida che raccoglie oltre 100 linea guida che dovrebbero essere d'ausilio agli Stati e alle organizzazioni
internazionali nell’apposizione delle riserve, naturalmente si tratta di un documento che di per sé è NON vincolante, ma data
l’autorevolezza dell’organo da cui promana, sostanzialmente gli Stati e le organizzazioni sono indotti a conformarsi, quindi gli
organi competenti degli Stati sono indotti a guardare bene questa guida prima di procedere alla formulazione di una riserva.
Nell’ordinamento italiano chi è competente a decidere se apporre o no una riserva di un trattato nel nostro
ordinamento? Il governo! È competente il governo che è l’organo legittimato a rappresentare la volontà dello Stato nelle relazioni
internazionali.
Quindi la decisione è politica, e promana dal Governo, poi formalmente chi è che appone la riserva? È il capo dello Stato!
Il presidente della Repubblica almeno nella procedura in forma solenne di conclusione dei trattati internazionali, ratifica i trattati
internazionali (art.87 co. 8 Cost) e nella competenza a ratificare è compresa la competenza ad aderire, quindi è il capo dello
Stato che firma lo strumento di ratifica, lo strumento di adesione, e una o più riserve il cui contenuto è stato deciso dal Governo.
Nel caso delle categorie di trattati stabiliti dall’art.80 Cost. (cioè di quei trattati che hanno un elevato rilievo politico, che
prevedono regolamenti giudiziari o arbitrali, che prevedono oneri alle finanze non previste nel bilancio dello Stato, che prevedono
modifiche di legge o del territorio nazionale) in questo caso, la ratifica o adesione da parte del Capo dello Stato deve essere
preceduta dalla autorizzazione delle Camere, ed allora almeno rispetto a questi trattati è necessario un coordinamento almeno tra
Governo e Parlamento, cioè il Governo NON può decidere di apporre una riserva, e quale sia il contenuto di questa riserva,
senza rendere partecipe il Parlamento, anche se più volte è accaduto che effettivamente il Governo si è comportato così, cioè
che il Governo abbia deciso, e di conseguenza il PDR abbia apposto riserve che non erano contenute nella legge di
autorizzazione alla ratifica adottata dalle Camere e quindi che non erano state indicate dalle Camere. Allora in un caso del
genere, la riserva è senz’altro valida sul piano internazionale, questo vuol dire che se la riserva era eccettuativa lo Stato italiano
non è tenuto al rispetto della clausola oggetto della riserva, e di conseguenza anche che il trattato non entri in vigore nei rapporti
con gli Stati parti che abbiano formulato un’obiezione qualificata, però se è vero che dal punto di vista internazionale la riserva è
senz’altro valida, un comportamento del genere da parte del Governo può incrinare il rapporto di fiducia che deve esistere tra
Parlamento e Governo, specie se la riserva non ha un contenuto meramente tecnico e il Governo non si è prodigato nemmeno di
informare il parlamento.
12.2 ADATTAMENTO.
L’ADATTAMENTO è il meccanismo attraverso il quale le norme internazionali vengono rese applicabili nell’ordinamento interno e
dobbiamo distinguere l’adattamento al diritto consuetudinario, cogente, al diritto pattizio e alle fonti previste da accordo.
Per quanto riguarda i rapporti tra ordinamento internazionale e ordinamento interno esistono due teorie:
a) la teoria monista, secondo la quale esiste un unico ordinamento giuridico e quindi le norme internazionali sono direttamente
applicabili nell’ordinamento interno e vincolano i soggetti dell’ordinamento interno (questa teoria è respinta dalla dottrina e
dalla giurisprudenza italiana compreso Ronzitti, che sostengono la teoria dualista);
b) la teoria dualista, cioè l’ordinamento internazionale e l’ordinamento interno sono ordinamenti separati e originari che
comunicano tra loro attraverso il meccanismo del rinvio.
12.2.1 I rinvii
Distinguiamo due tipi tipi di rinvio:
a) il rinvio formale, mediante il quale le norme dell’ordinamento interno rinviano alle norme dell’ordinamento internazionale nella
loro qualità formale di norme giuridiche (es. l’ordine di esecuzione che costituisce un procedimento speciale di adattamento ai
trattati);
b) il rinvio materiale, le norme dell'ordinamento interno rinviano alle norme del diritto internazionale nel loro contenuto
materiale/sostanziale (es. procedimento ordinario di adattamento ai trattati).
13.2.2 Mediazione
Prevede l’intervento di un terzo: si ha mediazione quando le parti decidono di affidare ad un terzo la soluzione della controversia.
Sono le parti che scelgono il terzo; se è il terzo che si propone le parti devono comunque accettarlo espressamente. Il terzo
innanzitutto porta uno Stato a conoscenza della tesi dell’altro e viceversa, impedisce che le rispettive proposte vengano rigettate,
favorendo invece l’accoglimento delle proposte altrui. Se dopo questi tentativi di mediazione non si riesce comunque a
raggiungere una soluzione comune è lo stesso mediatore a proporre un piano risolutivo della controversia: può sposare una tesi
di uno degli Stati ma deve tener conto delle pretese di tutti gli Stati parte della controversia, oppure può anche accogliere la tesi di
uno Stato prevedendo però una soddisfazione per la controparte. La mediazione NON è vincolante.
13.2.4 L’inchiesta
È un mezzo istituzionalizzato, ovvero una procedura ben strutturata spesso istituita nell’ambito di organizzazioni internazionali. Si
ha quando le parti di una controversia decidono di incaricare una commissione per accertare i fatti che si pongono alla base di
questa controversia. La commissione ha poi l’obbligo di produrre un rapporto che NON ha efficacia vincolante a meno che le parti
non si impegnino a considerarlo vincolante. Ad esempio la Convezione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, nel
prevedere che le parti hanno la possibilità di ricorrere ad un tribunale internazionale per la risoluzione di controversie sulle
materie di competenza della convenzione, afferma che il risultato sarà vincolante.
13.2.5 Conciliazione
Anche la conciliazione è un mezzo istituzionalizzato, che prevede una procedura ben strutturata e spesso le commissioni di
conciliazione sono istituite da organizzazioni internazionali. Vi è una commissione incaricata di svolgere accertamenti sui fatti di
una controversia e di produrre un rapporto che NON è vincolante. A volte l’instaurazione di una commissione di conciliazione è
prevista come obbligatoria da alcuni trattati, ad esempio la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 prevede l’obbligo
della conciliazione per tutte quelle controversie che hanno per oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato.
13.3 MEZZI OBBLIGATORI
13.3.1 Arbitrato
Esso è istituito mediante accordo fra le parti e giunge ad una soluzione OBBLIGATORIA che vincola le parti (es. clausola
compromissoria e compromesso). Le caratteristiche sono:
A) fondamento pattizio del procedimento: l’arbitrato è istituito mediante accordo fra le parti;
B) l’arbitrato è composto da un numero dispari di arbitri (3 o 5 generalmente) scelti dalle parti;
C) efficacia vincolante del lodo arbitrale: Il lodo arbitrale ha efficacia di cosa giudicata e riguarda solo i fatti oggetto della
controversia e ha efficacia solo tra le parti della controversia, ed è definitiva e immutabile. Il lodo arbitrale NON è appellabile ma
può essere sottoposto a revisione, cioè può essere nullo o annullabile (a meno che la parte legittimata a chiedere la revisione
per uno di questi vizi non accetti esplicitamente o tacitamente il vizio) in presenza dei seguenti vizi: errore essenziale, corruzione
del giudice, violenza o eccesso di potere.
→ Distinguiamo tre tipi di lodi o sentenze arbitrali: sentenza di accertamento, che applica il diritto internazionale vigente al caso
concreto e lo risolve in quel senso; la sentenza dispositiva, che stabilisce una nuova disciplina; la sentenza di condanna, che
fa valere la violazione di una norma internazionale e stabilisce l’entità della riparazione dovuta. L’esecuzione dei lodi arbitrali è
comunque rimessa agli Stati.
In Italia la Corte di appello di Roma si occupa di rendere esecutive le sentenze arbitrali internazionali. La Convenzione dell’Aia del
1899 ha istituito la Corte permanente di arbitrato, che ha sede all’Aia nello stesso edificio in cui si trova la Corte internazionale di
giustizia. La Corte internazionale di giustizia non è un organo arbitrale ma in quanto permanente è un organo di giurisdizione.
13.3.2 Giurisdizione
Si distingue dall’arbitrato perché la soluzione della controversia è deferita ad un organo permanente composto da individui
indipendenti e che opera secondo regole prestabilite. Mentre nell’arbitrato la scelta degli arbitri è affidata alle parti in lite nella
giurisdizione i giudici NON sono designati di volta in volta dalle parti ma sono precostituiti, lo stesso vale per le regole di
procedura che NON possono essere cambiate dalle parti.
N.b: È chiaro che se sorge una controversia fra due Stati e si decide di deferire la controversia alla Corte internazionale di
giustizia la quale pronuncia una sentenza, l’accordo non ha più senso. Se invece prima della sentenza della Corte internazionale
di giustizia si giunge ad un accordo, la Corte stralcerà la controversia in quanto si è risolta con l’accordo risolutivo.
Cosa succede se uno Stato non dà esecuzione ad una sentenza? Non si può fare ricorso all’uso della forza armata per
costringere uno Stato ad adempiere, ma è ammessa la contromisura che non comporti l’uso della forza armata. Lo Stato può
ricorrere al Consiglio di sicurezza affinché prenda le misure appropriate: può decidere o raccomandare le misure in questione,
può cioè adottare un atto giuridicamente vincolante oppure un atto meramente esortativo, dunque nel primo caso lo Stato è
costretto a vincolarsi.
Il capitolo 6 della Carta si dedica alla risoluzione pacifica delle controversie, e individua quelle che sono le competenze degli
organi delle Nazioni Unite: in particolare del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea che hanno una funzione di mediazione-
conciliazione e poi vi è un rimando alle norme che disciplinano la Corte internazionale di giustizia, che NON ha una funzione di
mediazione-conciliazione ma giurisdizionale.
→ L’Assemblea generale svolge delle funzioni consultive e di mediazione disciplinate dal proprio regolamento interno.
→ Anche il Consiglio di sicurezza ha funzioni conciliative o di mediazione ma in particolare si attiva quando una controversia
internazionale mette in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Si tratta di un organo politico e NON di un organo
giurisdizionale. Può attivarsi su iniziativa propria, su iniziativa degli Stati (non necessariamente dagli Stati parti della Carta), del
Segretario generale delle Nazioni unite, dell’Assemblea generale. Ha potere di inchiesta, ovvero può istituire delle commissioni di
inchiesta per verificare se una determinata situazione può mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale.
SE gli Stati nella loro autonomia non riescono a risolvere la controversia se questa ha natura giurisdizionale deve essere deferita
alla Corte internazionale di giustizia, se invece ha natura politica deve essere deferita al Consiglio di sicurezza, il quale può:
- può raccomandare la risoluzione della controversia tramite il ricorso a mezzi pacifici;
- può anche individuare uno specifico mezzo per risolvere la controversia.
14 L’INDIVIDUO E LA TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DELL’UOMO
Cosa intendiamo per diritti umani? Intendiamo i diritti degli individui che sono riconosciuti in quanto tali in Trattati internazionali
e dichiarazioni formulate da organi di organizzazioni internazionali (es. la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che è
stata emanata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite) e/o in norme consuetudinarie.
Distinguiamo: diritti civili e politici, per esempio il diritto alla libertà di opinione e di espressione, il diritto di partecipare alle elezioni;
economici, es. il diritto al lavoro; diritti sociali e culturali come il diritto all’istruzione. A queste categorie dobbiamo aggiungere i
diritti delle minoranze e i diritti dei popoli:
- I diritti delle minoranze sono diritti che spettano agli individui appartenenti ad una minoranza e che tuttavia possono essere
esercitati principalmente in materia collettiva, per esempio il diritto di parlare la lingua minoritaria;
- il diritto dei popoli, ci riferiamo particolarmente all’autodeterminazione dei popoli e al diritto alla sovranità sulle risorse
naturali del territorio abitato dai popoli.
Quello della tutela internazionale dei diritti umani è un settore che si è sviluppato a partire della seconda guerra mondiale.
L’olocausto e le altre efferate violazioni dei diritti umani commesse dai nazisti fornirono l’impulso per lo sviluppo di un sistema
internazionale capace di prevenire il ripetersi di queste violazioni. Gli strumenti fondanti di tale sistema sono:
- la Carta delle Nazioni Unite, è il Trattato istitutivo dell’organizzazione delle nazioni unite, concluso nel giugno del 45 ed
entrato in vigore nell’ottobre del 45; stabilisce due obblighi fondamentali: a)all’art 55 l’obbligo di promuovere il rispetto
universale dei diritti umani senza alcuna discriminazione : il rispetto universale e l’osservanza dei diritti umani e delle libertà
fondamentali per tutti senza nessuna distinzione di sesso, razza, lingua o religione; b)all’art.56 l’obbligo di cooperare con le
Nazioni Unite nella promozione, a livello universale, del rispetto dei diritti umani senza alcuna discriminazione: tutti i membri
si impegnano ad intraprendere individualmente o in cooperazione con l’organizzazione per il raggiungimento dei fini indicati
dall’art 55.
- La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, invece, è stata adottata dall’Assemblea generale delle nazioni unite con
una risoluzione (atto soft law), il 10 dicembre del 1948 a Parigi. In questo caso il mese e il giorno sono importanti perché si
tratta del giorno successivo all’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e repressione del
genocidio anch’essa adottata a Parigi. Nel tempo i diritti sanciti dalla dichiarazione si sono consolidati nel diritto
consuetudinario e oggi sono sanciti in massima parte da norme consuetudinarie.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce quei diritti fondamentali che spettano a TUTTI gli uomini e a tutte le
donne, ovunque nel mondo, senza discriminazione alcuna. La Dichiarazione elenca: diritti civili, politici, economici, sociali e
culturali.
La dichiarazione si apre con un enunciazione all’art 1: tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Se noi
scorriamo i diversi diritti enunciati dalla dichiarazione, possiamo leggere innanzitutto diritto alla vita, libertà e sicurezza personale,
divieto alla schiavitù e di servitù, divieto di tortura. Si tratta di diritti che tuttora rimangono non realizzati in diversi paesi del mondo
non solo nei paesi non sviluppati ma anche in quelli sviluppati.
- La dichiarazione è stata poi seguita da numerosi strumenti pattizi, che naturalmente si sono richiamati alla dichiarazione: il
Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, questi
patti sono stati adottati, nell’ambito delle Nazioni Unite, nel 1966 e sono entrati in vigore nel 1976. Poiché entrambi i patti
sono stati adottati delle Nazioni Unite, vengono anche denominati “Patti delle Nazioni Unite”.
Al Patto sui diritti civili e politici, nel momento in cui fu adottato fu allegato un protocollo opzionale, che prevede il meccanismo di
garanzia posto a tutela del rispetto del patto; successivamente è stato adottato un ulteriore protocollo e riguarda l’abolizione della
pena di morte (1989) e integra il contenuto del patto.
Il patto sui diritti economici, sociali e culturali nasce non provvisto di protocolli ma un protocollo viene concluso e adottato nel
2008, prevede un meccanismo di garanzia analogo a quello già esistente per il patto sui diritti civili e politici.
→ Il patto sui diritti civili e politici impone agli Stati parti di garantire i diritti da esso sanciti a tutti gli individui che si trovino sotto la
giurisdizione e nel territorio degli Stati in questione. Tutti i diritti enunciati nel patto devono essere garantiti. Nel momento in cui lo
Stato entra a farne parte li deve garantire. Viene adottato il principio della realizzazione progressiva: ovvero tale patto impone
agli Stati parti di adottare tutte le misure necessarie per assicurare il rispetto dei diritti stabiliti nel patto individualmente o
attraverso la cooperazione internazionale e naturalmente si tiene conto del limite e delle capacità di ciascuno Stato. Tutti i diritti
previsti nel patto richiedono l’emanazione di una legislazione apposita e che richiedono anche risorse economiche per la loro
realizzazione.
n.b: Entrambi i patti impongono agli Stati parti di inviare periodicamente dei rapporti sullo stato di attuazione di essi. Tali rapporti
devono essere inviati al Segretario Generale delle Nazioni Unite che trasmetterà tali rapporti al Comitato dei diritti dell’uomo,
quelli che riguardano il Patto sui diritti civili e politici e al Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, quelli che riguardano
il Patto sui diritti economici sociali e culturali.
Il Comitato economico e sociale è composto da 18 membri indipendenti eletti dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni
Unite; il Comitato dei diritti dell’uomo è anch’esso composto da 18 membri indipendenti, eletti dagli Stati parti del patto.
→ Il patto sui diritti civili e politici consente la deroga dei diritti protetti in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci
l’esistenza dello Stato, tuttavia vi sono alcuni diritti che sono inderogabili, per esempio il divieto di tortura.
14.1 CEDU
Quella che comunemente viene denominata Convenzione europea dei diritti dell'uomo in realtà ha una denominazione ufficiale
differente, che è Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. E’ il primo trattato in
assoluto concluso nell'ambito del Consiglio d'Europa.
→ Il Consiglio d'Europa, organizzazione internazionale a carattere regionale istituita sulla base di un trattato stipulato a Londra
nel 1949 (c.d. Statuto di Londra), ha sede a Strasburgo, è la prima organizzazione conclusa all'indomani della II guerra mondiale
dai Paesi europei: l'obiettivo di quest'organizzazione era creare tra i popoli europei un'unione sempre più stretta, al fine di
salvaguardare e preservare i valori e gli ideali comuni che erano stati calpestati dal nazi-fascismo e di agevolare il progresso
economico e sociale degli Stati membri. Nel frattempo di lì a poco fu istituita la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio
(1951), il Trattato di Parigi che la istituiva entrò in vigore nel '52, nel 1957 furono conclusi i Trattati di Roma istitutivi delle due
comunità (CECA e Euratom) e quindi poi queste nuove organizzazioni svolsero il compito principale di sostenere la ricostruzione
e lo sviluppo economico dell'Europa e il Consiglio d'Europa si è concentrato nella promozione e nella tutela dei diritti umani. I
membri del Consiglio d'Europa sono 47 e si tratta di tutti gli Stati che sono oggi membri dell'Unione Europea più la Turchia (che è
uno stato candidato all'ingresso nell'UE, anche se i negoziati sono ormai pressoché congelati), la Russia e alcune repubbliche ex
sovietiche (come la Georgia, l'Azerbaijan, l'Ucraina), nonché alcuni microstati europei quali il Liechtenstein, San Marino, il
principato di Monaco.
Sempre nell’ambito del Consiglio d'Europa sono state concluse alcune convenzioni che sono aperte anche a Stati che non sono
membri del Consiglio d’Europa, quindi si tratta di trattati che sono conclusi nell'ambito di un'organizzazione a carattere regionale
che però invece hanno un'apertura universale (es. la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, è una
convenzione del 1983 e di questa convenzione sono parti anche gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, l'Australia), quindi non
sempre i trattati conclusi nell'ambito di organizzazioni a carattere regionale sono necessariamente trattati che sono aperti soltanto
agli Stati membri dell'organizzazione, vi possono essere anche dei trattati che tendenzialmente sono aperti a tutti i membri della
comunità internazionale, o almeno a quelli che soddisfano alcune condizioni (tra le quali non vi è la membership
dell'organizzazione).
La Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo è la prima convenzione internazionale interamente dedicato alla tutela dei diritti
umani: la CEDU viene adottata a Roma nel novembre 1950, fino ad allora nessun trattato era stato dedicato interamente alla
tutela dei diritti umani, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo era un atto di soft law e solo con il passare degli anni i
diritti sanciti si sono consolidati nel diritto consuetudinario. C'è una duplice differenza tra la CEDU e la Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo: la Convenzione è un trattato, la Dichiarazione è un atto di soft law; un'altra differenza è che la dichiarazione
enuncia diritti civili e politici ma anche diritti economici sociali e culturali, invece la Convenzione enuncia soltanto diritti civili e
politici, negli anni sono stati conclusi numerosi protocolli, finora sono 16, alcuni di questi hanno modificato il meccanismo di
garanzia della convenzione mentre altri hanno ampliato l'elenco dei diritti sanciti dalla convenzione e non tutti sono entrati in
vigore.
→ La Convenzione stabilisce un nucleo duro di diritti che devono essere garantiti da TUTTI gli Stati parti a tutti gli individui che si
trovino sotto la loro giurisdizione. L'art. 1 stabilisce che gli Stati parti devono assicurare a qualsiasi individuo rientrante sotto la
loro giurisdizione i diritti e le libertà indicati nella sezione prima della convenzione, dunque indipendentemente dalla loro
nazionalità, che si trovino sotto la giurisdizione degli Stati membri. La giurisdizione è intesa prevalentemente in senso territoriale,
cioè con questa espressione s'intende riferire a tutti quegli individui che si trovano sul territorio degli Stati parte; questa
interpretazione del concetto di giurisdizione è invece esclusa dal Patto sui diritti civili e politici, l'art. 2 par. 1 stabilisce "ciascuno
Stato parte del presente patto s'impegna a rispettare ed assicurare a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano
sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti dal presente patto senza alcuna distinzione", è quindi esclusa la possibilità di
pretendere dagli Stati parti il rispetto dei diritti sanciti dal patto nei confronti di individui che si trovino al di fuori del loro territorio;
invece la parola "territory" non compare nell'art. 1 della Convenzione, si parla solo infatti di giurisdizione.
All'art. 2 troviamo il diritto alla vita; all'art. 3 il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all'art. 4 il divieto di schiavitù
servitù e lavoro forzato; all'art. 5 il diritto alla libertà e alla sicurezza; all'art. 6 diritto ad un equo processo; all'art. 7 il principio
"nullum crimen sine lege"; art. 8 diritto al rispetto della vita privata e familiare; art. 9 libertà di pensiero coscienza e religione; art.
10 libertà di espressione; art. 11 libertà di assemblea e associazione; art. 12 il diritto al matrimonio; art. 13 il diritto ad un rimedio
effettivo nel caso in cui di subisca una violazione dei diritti enunciati dalla convenzione, rimedio effettivo previsto dall'ordinamento
dello stato parte e responsabile della violazione; art. 14 divieto di discriminazione nel godimento dei diritti sanciti dalla
convenzione (divieto di discriminazione sessuale, di genere, linguistica, di religione e via dicendo); art. 15 contiene la c.d.
clausola di deroga in caso di emergenza, questo articolo stabilisce che però alcuni diritti sono così fondamentali che devono
essere riconosciuti e garantiti dagli Stati parti sempre, anche in situazioni di emergenza che mettano in pericolo la vita della
nazione (es. in caso di conflitto armato), tali diritti sono: il diritto a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e
degradanti, il diritto a non essere sottoposti a schiavitù e servitù, il diritto alla vita tranne che la morte sia la conseguenza di un
legittimo atto di guerra, il diritto al rispetto del principio "nullum crimen sine lege", quindi il titolo primo.
→ Per quanto riguarda la seconda sezione abbiamo disposizioni in merito al meccanismo di garanzia stabilito per vigilare sul
rispetto dei diritti sanciti dalla Convenzione, rappresentato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
→ Il titolo terzo contiene disposizioni varie che riguardano le riserve, il recesso dalla convenzione, la
firma e la ratifica.
Si è a lungo discusso dell'adesione dell'UE alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo: la convenzione nella sua versione
originaria prevedeva la possibilità di diventare parti solamente per gli Stati membri del Consiglio d'Europa; il dibattito che si è
svolto per lunghi anni e che, soprattutto negli anni '80 e ha portato al risultato che anche l'UE può aderire alla Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo: sul testo della convenzione si potrà infatti leggere tra le disposizioni finali che anche l'UE può
divenire parte della CEDU e al contempo è stata prevista una modifica del trattato sull'Unione Europea in modo tale da stabilire
che l'UE poteva divenire parte della CEDU e questa modifica è stata apportata dal Trattato di Lisbona che ha introdotto una
disposizione secondo cui l'UE aderisce alla CEDU. Tuttavia oggi l'UE non è parte della CEDU perché affinché ciò avvenga è
necessaria la conclusione di un accordo tra Consiglio d'Europa e UE: questo progetto di accordo è stato negoziato dalla
Commissione per conto della UE con il Consiglio d'Europa, questo non si è però mai stato concluso, perché nell'aprile 2013 si
chiudono i negoziati riguardo alla definizione dell'accordo e 3 mesi dopo (nel luglio 2013) la Commissione chiede un parere alla
Corte di giustizia sulla compatibilità di questo accordo previsto con i trattati su cui si fonda l'Unione (Tue e Tfue) e la Corte di
Giustizia emana parere negativo affermando che l'accordo previsto è incompatibile con il diritto dell'Unione, nonostante si parli di
parere, questo ha effetto vincolante, in quanto se il responso è negativo l'accordo non può essere concluso. Dal parere la
situazione è ferma.
A che scopo prevedere l'ingresso dell'UE alla CEDU quando già tutti gli Stati parti dell'UE fanno anche parte della
CEDU? Un'eventuale adesione comporterebbe la possibilità per la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (l'organo di garanzia del
rispetto dei diritti sanciti nella CEDU) di verificare ed accertare eventuali violazioni della CEDU da parte delle istituzioni
dell'Unione, quindi la Corte EDU diventerebbe un'autorità di controllo sulla conformità degli atti emanati dalle istituzioni
dell'Unione; va detto che i diritti sanciti dalla convenzione sono ormai in massima parte recepiti anche nella Carta fondamentale
dei diritti dell'Unione, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è previsto che qualora uno stesso diritto sia sancito dalla
Carta e da una disposizione della Convenzione questo diritto dovrà essere interpretato in maniera almeno NON più restrittiva di
come viene interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e viene consentita una protezione più estesa nell'ambito dell'UE.
n.b: Naturalmente ad essere vincolanti per lo Stato sono le sentenze definitive della Corte, una sentenza diventa definitiva
quando è stata emessa da una Camera e sono trascorsi 3 mesi senza che nessuna delle parti abbiamo chiesto che la questione
sia riesaminata dalla Grande Camera, oppure quando una o entrambe le parti hanno chiesto che la questione sia riesaminata
dalla Grande Camera ma il Collegio dei cinque giudici ha ritenuto che non vi fossero gli estremi per un rinvio alla Grande Camera,
oppure quando non sono trascorsi 3 mesi ma le parti hanno dichiarato espressamente che non intendono chiedere il rinvio alla
Grande Camera. Naturalmente esclusa la possibilità che una decisione della Camera sia rivista dalla Grande Camera su richiesta
di una delle parte formulata entro tre mesi previa decisione favorevole del Collegio dei cinque giudici, NON è previsto un appello
contro la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tutte le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo devono essere motivate; nelle sentenze della Corte internazionale di
giustizia i singoli giudici che non siano d’accordo con la maggioranza riguardo ad uno o più punti possono allegare una opinione
dissenziente, oppure laddove concordino con la posizione della maggioranza ma giungono a questa posizione attraverso un
ragionamento giuridico differente allora possono allegare una opinione concorrente, questo NON è invece possibile per le
sentenze emessa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea in quel caso non ci sono opinioni dissenzienti o concorrenti e
addirittura non si conosce nemmeno il nome dei giudici che hanno votato contro e di quelli che hanno votato a favore. Le
sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, composto dai
ministri degli esteri degli Stati membri del Consiglio d’Europa, e ha il compito di vigilare sulla esecuzione delle sentenze della
Corte, se il Comitato dei Ministri ritiene che lo Stato condannato dalla Corte non si sia conformato alla sentenza può rivolgersi alla
Corte, la Corte verificherà che effettivamente lo Stato non si è conformato e se accerta che lo Stato non si è conformato, rinvierà
di nuovo il caso al Comitato dei Ministri che potrà prendere misure adeguate.
SE l’ordinamento interno dello Stato ripara solo in parte alle conseguenze di questa violazione allora la Corte può accordare alla
parte lesa un'equa soddisfazione (un indennizzo). Affinché la Corte accordi un’equa soddisfazione è necessario che la parte
lesa ne faccia apposita richiesta durante il procedimento.
→ La procedura dinanzi alla Corte è una procedura scritta, un’udienza si tiene solo in casi eccezionali davanti ad una Camera o
davanti alla Grande Camera.
→ La Corte può anche indicare misure provvisorie quando ne venga richiesto da una delle parti, si tratta di misure urgenti che
vincolano lo Stato e che possono essere indicate dalla Corte solo in circostanze estreme, quando vi sia un rischio imminente per
la vita di una o più persone, oppure quando vi sia un rischio imminente e grave di maltrattamenti o atti di tortura o trattamenti
inumani e degradanti. In genere queste misure provvisorie sono richieste dal ricorrente quando c’è nei suoi confronti un’ordinanza
di espulsione oppure una decisione relativa all’estradizione verso uno Stato dove potrebbe essere in pericolo di vita o essere
soggetto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti, allora il difensore del ricorrente si rivolge alla Corte europea dei diritti
dell’uomo e chiede che alla Corte di sospendere l’ordinanza di espulsione o la decisione relativa all’estradizione; le misure
provvisorie possono essere richieste non solo per posta ma anche per fax e la Corte di solito decide nel giro di uno o due giorni,
tempi brevissimi proprio perché c’è un rischio imminente per la vita oppure la minaccia di maltrattamenti nei confronti di persone.
14.4 DIRITTI DELLE MINORANZE
Non c’è una vera definizione generalmente accettata di minoranza e non vi è alcun trattato che include al suo interno questo. Gli
Stati sono stati, sin da sempre, poco propensi al termine di minoranza perché avrebbe limitato la loro libertà di azione, anche per
il semplice fatto di produrre norme di protezione. Possiamo individuare delle caratteristiche tipiche:
- un gruppo che presenti delle particolarità, quindi un gruppo della popolazione che ha specifiche caratteristiche linguistiche,
religiose, nazionali o etniche, caratteristiche che lo distinguono dal resto della popolazione;
- si tratta di un gruppo meno numeroso della popolazione;
- è un gruppo non dominante (es minoranza bianca in SudAfrica dell'Apartheid) e che intende preservare la propria identità
minoritaria, dunque che respinge ogni forma di assimilazione alla popolazione, SE invece desidera assimilarsi e uniformarsi
non necessita di tutela ad hoc.
Andando a parlare delle minoranze linguistiche sono un gruppo di individui che condivide la stessa lingua che lo distingue dal
resto della popolazione. Invece il gruppo religioso è un gruppo di individui che condivide la stessa religione. Il gruppo etnico è
un gruppo di individui che condivide una storia, una tradizione comune e lo stesso modo di vivere e in alcuni casi alcune
caratteristiche di tipo somatico ma anche una condivisione di religione. Il gruppo nazionale è un gruppo di individui che risiede
stabilmente all’interno di un certo Stato, però si riconosce nella popolazione di un altro Stato con la quale ha in comune la lingua,
tradizione, stesso modo di vivere e religione (es. in Slovenia e in Croazia è residente una minoranza nazionale italiana, si tratta di
individui che hanno nazionalità slovena e croata ma che si riconoscono nella popolazione italiana e condividono con noi italiani
religione, cultura, lingua e tradizione).
→ Il riconoscimento del gruppo minoritario, proveniente dal governo dello Stato in cui risiede, è rilevante ma non decisivo al fine
di stabilire la qualità di minoranza di quel gruppo. È importante l’auto-percezione come appartenenti ad una minoranza e deve
essere confermata dai fatti (possesso religione, lingua ecc). I diritti delle minoranze sono collegate al divieto di discriminazione. Il
divieto di discriminazione mira ad assicurare l'uguaglianza davanti alla legge ma anche al diritto di uguale protezione dalla legge.
La tutela delle minoranze è finalizzata ad uguaglianza sostanziale: l’uguaglianza formale consiste nel trattare gli individui allo
stesso modo; l’uguaglianza sostanziale, invece, in un trattamento differenziato in considerazione delle circostanze.
15.4 IL GENOCIDIO
La definizione è introdotta dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948 adottata dopo la 2 guerra mondiale,
all’indomani dello sterminio degli ebrei; la parola “genocidio” fu coniata da un giurista polacco Raphael Lemkin in un volume
intitolato Il dominio dell’asse sull’Europa occupata nella quale trattò le misure adottate dai nazisti e dello sterminio degli ebrei
pubblicato nel 1944 negli Usa (dove l’autore si rifugiò). L’assemblea generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione nella
quale affermò che: l’omicidio è il diniego della vita di un singolo mentre il genocidio è il diniego del diritto all’esistenza di un intero
gruppo umano. La Convenzione indica due elementi affinché si possa parlare di genocidio:
1) elemento soggettivo: l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, razziale, etnico o religioso;
2) elemento oggettivo: può consistere in cinque diverse condotte:
a. l'uccisione di membri di un gruppo protetto;
b. l’inflizione di gravi lesioni fisiche o psichiche al gruppo;
c. la sottoposizione di membri del gruppo a condizioni di vita dirette a provocare la distruzione fisica (es. campi di
concentramento);
d. impedire le nascite all’interno del gruppo; e) trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo causando la
rottura dell’unità del gruppo.