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1 DIRITTO INTERNAZIONALE.

Per “diritto internazionale pubblico” si intende l’insieme delle norme che regolano i rapporti tra gli enti che partecipano alla vita
di relazione internazionale, che quindi compongono la comunità internazionale.
QUALI SONO GLI ENTI CHE COMPONGONO LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE?
Gli Stati, le organizzazioni internazionali, i movimenti insurrezionali, i movimenti di liberazione nazionale (es. OLP), i governi in
esilio, i comitati internazionali all’estero (fenomeno che appartiene al passato) e vi sono gli enti sui generis quali il Comitato
Internazionale della Croce Rossa, l’Ordine di Malta e la Santa Sede.
La comunità internazionale è una comunità di coordinamento e non di subordinazione. NON esiste nella comunità
internazionale un’autorità sovraordinata, MA gli Stati partecipano ad essa suun piano paritario. Certamente ci sono Stati più
potenti di altri, ci sono Stati più grandi di altri, ma tutti partecipano sullo stesso piano alla comunità internazionale e tutti
contribuiscono con la loro prassi alla formazione della consuetudine (le fonti primarie del diritto internazionale).
Le tre funzioni tipiche di un ordinamento giuridico sono:
1) La produzione del diritto; 2) l’accertamento del diritto; 3) la realizzazione coercitiva del diritto.
Queste funzioni nell’ordinamento internazionale sono decentrate, cioè tutti gli Stati contribuiscono attraverso meccanismi primari
a queste tre funzioni. Viceversa, negli Stati queste tre funzioni sono accentrate in determinati organismi.
1. La produzione del diritto internazionale: cioè delle norme che regolano i rapporti tra gli enti che compongono la
comunità internazionale. Quindi non c’è un unico organismo a cui è affidato il compito di produrre il diritto internazionale,
ma le norme internazionali sono create dagli Stati e dagli altri enti che compongono la comunità internazionale.
2. L’accertamento del diritto: negli ordinamenti interni, i tribunali di solito hanno una competenza obbligatoria, quindi
qualsiasi persona fisica o giuridica può convenire un’altra, quando ritiene di essere stata lesa o ha una pretesa, dinanzi
al tribunale. Il limite è che tale tribunale deve essere competente dal punto di vista territoriale. Nell’ordinamento
internazionale, invece, uno Stato può convenire un altro Stato davanti ad un tribunale internazionale soltanto se lo Stato
convenuto ha espresso il proprio consenso affinché la controversia sia sottoposta al tribunale stesso. La Corte
Internazionale di giustizia, organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite (Aja, Olanda) ha una giurisdizione
consensuale, cioè può pronunciarsi su una controversia solo se entrambi gli Stati parte della controversia sono
d’accordo affinché questa sia decisa dalla Corte.
3. La realizzazione coercitiva del diritto internazionale: lo Stato che ritiene di essere vittima di una violazione di una
norma internazionale da parte di un altro Stato può reagire in autotutela, ossia può comminare una contromisura, che
consiste in un atto che di per sé è illecito, ma diventa lecito perché costituisce la reazione ad un illecito altrui. Essa ha
come obiettivo la cessazione dell’illecito se è questo è a carattere continuo; in secondo luogo abbiamo la riparazione la
quale, può consistere nel risarcimento (es. dazione somma di denaro), nella restituzione intesa come ripristino della
situazione preesistente prima della commissione dell’illecito, può anche consistere nella soddisfazione. Invece, nell’ord
interno, tutto questo non è possibile in quanto l’individuo non può agire in autotutela poiché è un reato l’esercizio
arbitrario delle proprie ragioni.
Diritto internazionale privato: insieme delle norme che regolano i rapporti tra persone fisiche e giuridiche che presentino un
collegamento con più ordinamenti giuridici stranieri.
Ad esempio, nel caso in cui un matrimonio sia contratto da Tizio (italiano) con Sempronia (argentina), la disciplina del matrimonio
sarà oggetto del diritto internazionale privato. In questi casi le norme interne contengono un rinvio alle norme dell’ordinamento
giuridico straniero interessato. Es: in Italia la capacità giuridica degli stranieri è regolata dalle norme dell’ordinamento giuridico
dello stato di cui lo straniero è cittadino.
2 ENTI.
Gli enti che partecipano alla vita di relazione internazionale sono dotati, in misura variabile, della soggettività internazionale. La
soggettività internazionale è la capacità di essere destinatari di norme internazionali e di pretendere il rispetto di tali norme da
parte degli altri soggetti.
1. enti territoriali, cioè gli Stati sovrani e indipendenti e i movimenti insurrezionali (o insorti). Si tratta di enti che si
caratterizzano per il fatto di esercitare un controllo su un territorio;
2. enti non territoriali che aspirano a diventare organizzazioni di governo di un territorio, sonoi governi in esilio, i
comitati internazionali all’estero, i movimenti di liberazione nazionale;
3. enti non territoriali che non aspirano a divenire organizzazioni di governo di un territorio, sono i cosiddetti enti sui
generis, cioè la Santa Sede, il Comitato Internazionale della Croce Rossa e l’Ordine di Malta;
4. organizzazioni internazionali.

n.b: Gli Stati hanno una soggettività internazionale piena, gli altri enti hanno una soggettività internazionale più o meno limitata
a seconda dei casi. → Ad esempio, la soggettività internazionale degli insorti è connessa al controllo del territorio che essi
hanno, dunque potranno stipulare accordi con il governo costituito diretti alla sospensione o cessazione delle ostilità in corso;
potranno stipulare accordi volti a definire il futuro status del territorio che controllano.

L’individuo è un soggetto di diritto internazionale? Secondo alcuni si, secondo Ronzitti ed altri l’individuo NON è un soggetto di
diritto internazionale perché non partecipa a nessuna delle tre funzioni dell’ordinamento giuridico internazionale, è ancora oggi
una tesi controversa. La tesi sulla soggettività internazionale dell’individuo si poggia su due elementi: a)la circostanza che
l’individuo sia legittimato ad adire alcune Corti internazionali per la tutela dei propri diritti. Ad esempio l’individuo può presentare
ricorso alla Corte EDU quando ritenga che uno o più diritti, sanciti dalla CEDU, siano stati violati da uno stato parte della
Convenzione; b)la circostanza che gli individui possano essere considerati responsabili di crimini internazionali. Per tale motivo
possono essere sottoposti a processo dinanzi ad un tribunale internazionale, oltre che da un tribunale interno, ed essere puniti.
La Corte Penale Internazionale punisce i responsabili dei crimini di guerra, contro l’umanità, di genocidio, di aggressione.

1. GLI ENTI TERRITORIALI.


2.1.1 Lo stato.
Che cosa si intende per Stato? Una definizione di Stato è contenuta nella Convenzione di Montevideo del 1933 sui “Diritti e i
Doveri degli Stati” che elenca nell’art.1 i requisiti che un ente deve possedere per essere considerato come soggetto di diritto
internazionale:
1) un territorio definito (non è importante la contiguità geografica es. Usa e Alaska);
2) una popolazione permanente (ma non importa il numero per esempio il Lussemburgo ha una popolazione molto ridotta ma
partecipa a pieno titolo alle relazioni internazionali);
3) un governo effettivo;
4) la capacità di entrare in relazione con gli altri Stati.
n.b: Indipendenza ed effettività sono due elementi che devono essere sempre presenti nell’organizzazione di governo
affinché si possa parlare di uno Stato sovrano e indipendente:
Effettività: L’organizzazione di governo deve esercitare un controllo effettivo sul territorio e la popolazione che vi è stanziata.
Indipendenza: Uno Stato si può dire indipendente quando ha un ordinamento giuridico originario, ossia un ordinamento giuridico
fondato su una propria Costituzione (dato formale). Tale requisito non basta poiché occorre il dato reale, cioè pur in presenza di
una Costituzione è necessario che non vi sia una ingerenza totale nell’attività di governo da parte di un altro Stato.
➔ Cosa si intende per Stati sovrani e indipendenti?
Per sovranità si intende la pienezza dei poteri esercitati dallo Stato e riconosciuti allo Stato dal diritto internazionale (quando si
parla di sovranità in questo senso possiamo usare l’espressione sovranità interna); il termine indipendenza si riferisce all’esclusività
dei poteri esercitati dallo Stato e ci si riferisce al non assoggettamento dello Stato ad altra autorità che non sia quella del diritto
internazionale (quando parliamo di indipendenza in questo senso, possiamo anche usare l’espressione sovranità esterna).
n.b: In realtà quello che è necessario come requisito della statualità è la sovranità esterna, l’indipendenza. Invece, la sovranità
interna, la pienezza dei poteri sul territorio riconosciuti allo Stato, è più che altro una conseguenza della statualità. Lo Stato non è
soggetto ad altra autorità se non quella del diritto internazionale e in conseguenza i poteri che esso ha sul territorio sono esclusivie
pieni.
Esempi di Stati che non hanno i requisiti dell’indipendenza e effettività:
-Stato fantoccio: sono enti che si sono proclamati Stati, ma che di fatto sono soggetti ad un controllo statale da parte di un altro
Stato. L’ingerenza da parte di quest’ultimo è tale da escludere il requisito dell’indipendenza.
➔ Esempi: il Manchukuo, Stato proclamato nella regione cinese della Manciuria all’inizio degli anni ’30. All’epoca la
Manciuria era sotto occupazione giapponese. I giapponesi di fatto organizzarono un movimento indipendentista che non
c’era e non aveva una base nella volontà reale della popolazione e proclamò l’indipendenza. I giapponesi inserirono
propri funzionari in tutti i livelli dell’organizzazione di governo. Il Manchukuo si dissolse nel 1945 quando le truppe
sovietiche entrarono nella regione. E’ da molti considerato uno Stato fantoccio la Repubblica Sociale Italia o Repubblica
di Salò, costituita nel settembre del 1943 subito dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso. Si dissolse nell’aprile
del 1945 alla morte di Mussolini.
-Stati esigui, cioè quegli Stati che hanno un territorio e una popolazione talmente ridotti che dipendono in misura più o meno
marcata da altri Stati confinanti per la conduzione delle loro relazioni internazionali.

➔ Es: San Marino, Principato di Monaco, la Città del Vaticano. Questi sono Stati che hanno una popolazione talmente
ridotta e delle dimensioni limitate ed in quanto tali necessitano del supporto degli Stati confinanti per la conduzione delle
relazioni internazionali. Alcuni dubitano della soggettività internazionale degli Stati esegui, ma questi vengono fugati se si
considera che San Marino, il Principato di Monaco sono comunque membri delle Nazioni Unite. Stessa cosa vale per
Andorra e Lichtenstein.

-Stato membro di una Federazione, nel caso in cui uno Stato abbia una struttura federale, la soggettività internazionale spetta
esclusivamente allo Stato federale e non anche agli Stati federati, per esempio gli Stati Uniti d’America, la soggettività
internazionale spetta allo Stato federale e non ai singoli Stati federati come ad esempio il New Jersey, gli enti federati sono
organizzati secondo il modello statale ma difettano del requisito dell’indipendenza.

-Failed States (Stati falliti), per Stati falliti si intendono quegli Stati in cui un governo effettivo sia venuto a mancare perché il
paese è sconvolto da una guerra civile e quindi il governo che esercitava effettivamente un controllo sul territorio è venuto meno.
Di conseguenza lo Stato versa in una situazione di anarchia, vi sono più fazioni, più movimenti insurrezionali che si contendono il
potere.

➔ Esempio: la Somalia, agli inizi degli anni ’90, viene travolto il regime sanguinario del dittatore Siad Barre ed inizia un
drammatico conflitto interno che riduce il paese in macerie e che vede contrapporsi più movimenti insurrezionali che
lottano per il potere. La situazione sembra essere migliorata soltanto negli ultimi anni, dopo centinaia di migliaia di morti
civili, migliorata attraverso la creazione di un governo transitorio sostenuto dalla comunità internazionale. O anche la
Libia, due governi l’uno non riconosciuto dalla comunità internazionale che ha il controllo della Cirenaica ed è guidato da
un generale dell’esercito di Gheddafi, e l’altro governo con sede a Tripoli che è riconosciuto dalla comunità
internazionale (quindi dall’UE, dalle Nazioni Unite, dalla grande maggioranza degli Stati) guidato da un libico al-Sarrāj
che però ha un controllo del territorio limitatissimo che non arriva neanche all’intera città di Tripoli, data la persistenza di
queste milizie. In Cirenaica è invece più stabile il controllo da parte di questo Governo messo su dal generale Khalifa
Haftar, generale dell’esercito di Gheddafi. Il Governo di al-Sarrāj è riconosciuto, quello di Khalifa Haftar no.

-Stati protetti → Sono entità formatasi durante il periodo coloniale quando lo Stato protettore aveva un’ingerenza più o meno
penetrante nei confronti dello Stato protetto, infatti stipulava per conto suo i trattati internazionali, esercitava congiuntamente agli
organi dello Stato protetto il potere legislativo.

Dunque lo Stato protetto difetta del requisito di indipendenza. Esempi di protettorato sono stati il Marocco e la Tunisia, prima di
raggiungere la loro indipendenza dalla Francia. Oggi il protettorato non è consentito in quanto forma di espansione coloniale (il
territorio del protettorato doveva considerarsi parte integrante della madrepatria) e persiste il divieto di una dominazione
coloniale e situazioni assimilabili.

-Vassallaggio → È un fenomeno da tenere distinto dal protettorato: l’entità sotto vassallaggio gode di una certa autonomia ma
ha funzioni di governo indistinte da quelle dell’entità superiore. Un esempio è l’Egitto con l’Impero Ottomano, in caso di guerra
l’Egitto non poteva rimanere neutrale ma doveva partecipare al conflitto.

2.1.2 Movimenti insurrezionali o insorti.


Sono gruppi di individui che perseguono attraverso la lotta armata o il rovesciamento del governo al potere o la secessione, o la
costituzione di uno Stato indipendente su una parte del territorio dello Stato preesistente (c.d. governo legittimo o costituito).
→ La soggettività internazionale degli insorti è legata alla effettività del controllo che essi esercitano su una parte del territorio. Gli
insorti sono considerati soggetti di diritto internazionale SE e FINO A quando esercitano il controllo sul territorio; se perdono
suddetto controllo retrocedono a mero gruppo di individui, si tratta infatti di un ente temporaneo, al contrario in caso di vittoria si
trasformerebbero in uno Stato o si sostituirebbero al governo costituito. Alcuni gruppi insurrezionali utilizzano metodi terroristici,
compiono atti volti a diffondere il terrore fra la popolazione o a costringere le autorità del governo contro cui lottano ad accettare
quelli che sono i loro obiettivi (es: ISIS, Stato islamico dell’Iraq e della Siria).

Tuttavia NON è sufficiente proclamarsi Stato per diventare tale, occorre infatti costituire un’organizzazione di governo e avere un
controllo stabile del territorio, bisogna soddisfare i requisiti della Convenzione di Montevideo altrimenti sono solamente dei sudditi
ribelli nei confronti dei quali il governo legittimo può solo prendere provvedimenti (es: l’ISIS non ha mai fatto il salto da movimento
insurrezionale a Stato ed è forse il movimento che più di tutti ha fatto ricorso al terrorismo come strumento per perseguire i
proprio obiettivi).

Gli insorti sono tenuti:


- al rispetto delle norme che regolano la conduzione delle ostilità con il governo costituito, trattandosi di un conflitto armato
interno, le regole sono quelle relative ai conflitti armati interni o guerre civili. Le principali norme sono contenute nell’art. 3
comune alle 4 Convenzioni di Ginevra del 1949 e nel secondo protocollo addizionale di queste ultime del 1977;
- al rispetto delle norme internazionali che disciplinano l’esercizio del potere di governo sul territorio che controllano (norme
che regolano il rispetto dei diritti umani e norme relative al trattamento degli stranieri);
- possono concludere degli accordi internazionali con altri soggetti internazionali riguardo alla conduzione delle ostilità e al
governo del territorio (tutela diritti umani e trattamento degli stranieri);

- non possono condurre ostilità in alto mare perché hanno una capacità bellica limitata;
- non hanno diritto allo status di prigionieri di guerra, se catturati, in quanto NON sono legittimi combattenti (il prigioniero di
guerra ha diritto di essere trattato in modo dignitoso e umano, non possono essere obbligati a lavori forzati o non gli si
possono estorcere domande).

Il Governo Costituito può:


- reprimere l’insurrezione;
- può arrestare gli insorti e sottoporli a processo dinanzi ai propri tribunali, MA deve rispettare le norme sui diritti umani e
quindi garantire un equo processo e il diritto alla difesa agli insorti (es: molti Paesi hanno mantenuto la pena di morte in
tempo di guerra, quindi in caso di conflitto armato interno può essere irrogata la pena di morte previo giusto processo, altri
paesi come gli Usa continuano a mantenere la pena di morte anche in tempi di pace).

Gli Stati Terzi NON possono venire in aiuto degli insorti, tranne che vi sia un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite in questo senso.
Gli Stati terzi possono sostenere il governo legittimo, soprattutto in caso di secessione in virtù del principio di integrità territoriale
di uno Stato. Tendenzialmente gli Stati terzi si astengono dall’intervenire, considerando la questione come rientrante negli affari
interni del Paese.

Chi risponde dei danni provocati dall’insurrezione?


- Se l’insurrezione è vittoriosa e volta a rovesciare il governo, sarà il nuovo governo a rispondere dei danni provocati dagli
insorti e dal vecchio governo;
- Se l’insurrezione fallisce, il governo costituito non risponde dei danni causati dagli insorti.

*** Le Convenzioni di Ginevra del 1949 non sono self-executing e restano inoperanti senza unalegislazione interna di
adeguamento, e sono 4:
2. la prima riguarda il miglioramento delle condizioni dei militari malati e feriti nella guerraterrestre;
3. la seconda riguarda il miglioramento delle condizioni dei militari malati, feriti e naufraghi nellaguerra marittima;
4. la terza riguarda il trattamento dei prigionieri di guerra;
5. la quarta riguarda la protezione dei civili in tempo di guerra.
N.B: Queste 4 convenzioni sono tutte relative ai conflitti armati internazionali, MA l’art. 3 comunea tutte e quattro le convenzioni
riguarda i conflitti interni.
L’art. 3 comune stabilisce degli obblighi fondamentali:
1. Tutti coloro che cessano di partecipare alle ostilità, perché sono malati o feriti, o in uno stato didetenzione oppure hanno
deposto le armi, hanno diritto ad essere trattati con umanità.
2. I malati e i feriti devono essere raccolti o curati.
Nel 1977 furono conclusi due protocolli addizionali alle Convezioni di Ginevra (1949): il primo riguarda i conflitti armati
internazionali; il secondo riguarda la protezione delle vittime dei conflitti armati interni ed amplia le garanzie già previste nell’art.3
comune (si dice che quest’ultimorappresenti lo standard umanitario minimo sotto al quale esistono soltanto le barbarie). **
2. ENTI NON TERRITORIALI CHE ASPIRANO A DIVENIRE ORGANIZZAZIONI DI GOVERNO.
2.1.3 Movimento di liberazione nazionale.

È un ente rappresentativo di un popolo che lotta per il diritto all’autodeterminazione. Occorre distinguere tra:
- diritto all’autodeterminazione interna, cioè il diritto ad avere un governo rappresentativo e democratico
- e diritto all’autodeterminazione esterna è il diritto che spetta ad ogni popolo che si trovi sotto dominazione coloniale o sotto un
regime razzista (es: il Sud Africa ai tempi dell’Apartheid) o sotto un’occupazione straniera.
Questo diritto può essere realizzato attraverso la costituzione di uno Stato indipendente, attraverso l’associazione o l’integrazione
ad uno Stato indipendente (mediante ogni altro status liberamente scelto dal popolo).
n.b: Il diritto all’autodeterminazione esterna spetta solo ai popoli e NON alle minoranze che possono trovare tutela tramite
uno statuto di autonomia all’interno dello Stato (es: la minoranza tedesca in Trentino Alto Adige o minoranza slovena in Friuli
Venezia Giulia).
→ La soggettività dei movimenti di liberazione nazionale è collegata al principio di autodeterminazione dei popoli: quindi il
movimento di liberazione nazionale è soggetto di diritto internazionale per il solo fatto di essere espressione del diritto di
autodeterminazione di un popolo. È irrilevante l’elemento del controllo del territorio, che invece lo è per gli insorti.
I movimenti di liberazione nazionale possono:
- partecipare alle conferenze internazionali senza diritto di voto;
- partecipare ai lavori di organizzazioni internazionali (ad es. nell’ONU ai movimenti di liberazione nazionale è riconosciuto il
ruolo di osservatori all’interno dell’Assemblea generale);
- concludere accordi internazionali relativi alle conduzione delle ostilità, quindi anche alla cessazione delle ostilità, nonché
accordi relativi alla costituzione del nuovo Stato;
- stipulare degli accordi con Stati terzi così da garantire la permanenza delle loro truppe in questi Stati.

Il Governo costituito:
- NON può usare la forza contro il movimento di liberazione nazionale (anche se in concreto tutto ciò negli anni non è
accaduto).

Gli Stati terzi:


- NON possono intervenire a sostegno del Governo costituito che reprime il diritto all’autodeterminazione;
- possono intervenire a sostegno del movimento di liberazione nazionale.
➔ Secondo i Paesi occidentali gli Stati terzi possono intervenire a sostegno di un movimento di liberazione nazionale ma
questa assistenza è limitata alla fornitura di aiuti umanitari; invece,
➔ secondo altri Paesi, soprattutto i Paesi afro-asiatici, gli Stati terzi possono intervenire a sostegno del movimento di
liberazione nazionale anche mediante invio di armi ed equipaggiamento militare e persino mediante un intervento armato
diretto.
Quali norme disciplinano le ostilità tra il movimento di liberazione nazionale e il Governo costituito che reprime il diritto
all’autodeterminazione? Tradizionalmente il conflitto che oppone il movimento di liberazione nazionale ad un Governo costituito
è un conflitto armato interno, quindi si dovrebbero applicare le norme dei conflitti armati interni (l’art. 3 comune alle 4 Convenzioni
di Ginevra del 1949 e il secondo Protocollo addizionale del 1977).
→ Tuttavia il primo Protocollo addizionale prevede che le norme delle Convenzioni di Ginevra e dello stesso Protocollo, quindi le
norme relative ai conflitti armati internazionali, si applichino ai conflitti per l’autodeterminazione, alle cosiddette “guerre di
liberazione nazionale”, quando siano soddisfatte due condizioni:
1. Lo Stato contro cui il movimento di liberazione nazionale lotta deve aver ratificato le convenzioni di Ginevra e il primo
Protocollo;
2. Il movimento di liberazione nazionale deve aver notificato al depositario del primo Protocollo una dichiarazione nella quale
afferma di voler rispettare le Convenzioni di Ginevra e il primo Protocollo nei rapporti con il Governo costituito.

Esempi attuali di movimenti di liberazione nazionale:


L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Tutt’ora Israele occupa la Cisgiordania e di fatto la Striscia di Gaza.
Infatti, i militari israeliani si sono ritirati nel 2005 ma hanno di fatto sigillato la Striscia di Gaza attraverso un cordone militare lungo
tutto il confine. Inoltre, dopo l’operazione “Piombo fuso” Israele ha imposto il blocco navale davanti alla costa della Striscia di
Gaza. Quindi dal punto di vista del diritto internazionale, la Striscia di Gaza è considerata tuttora territorio occupato.
L’Organizzazione per la liberazione della Palestina ottenne lo status di osservatore nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
già nel 1974. Nel 1988 fu proclamato lo Stato della Palestina e la dizione OLP venne sostituita con il nome Palestina all’interno
dell’Assemblea. Nel 2012 la Palestina viene ammessa come Stato non membro osservatore presso le Nazioni unite. La
concessione di questo status avviene dopo la presentazione della domanda di ammissione come Stato membro delle Nazioni
unite da parte della Palestina. (A decidere sull’ammissione di nuovi Stati è l’Assemblea generale su proposta del Consiglio di
Sicurezza). → Quando la domanda di ammissione alle Nazioni unite della Palestina giunge al Consiglio di sicurezza, alcuni Stati
membri si dimostrano favorevoli altri contrari, tra cui gli USA, i quali sostenevano che la Palestina non avesse tutti i requisiti
richiesti dalla Convenzione di Montevideo per il riconoscimento di uno Stato, in particolare quello di un governo effettivo. Infatti,
esiste un’Autorità nazionale palestinese che esercita poteri di amministrazione sul territorio, ma l’occupazione del territorio da
parte di Israele impedisce di fatto l’esercizio di un potere di governo pieno ed esclusivo da parte dei palestinesi. La domanda
rimane bloccata al Consiglio di sicurezza, così la Palestina con il sostegno di altri Stati presenta un progetto di risoluzione
all’Assemblea per essere ammessa come Stato non membro osservatore alle Nazioni Unite.

2.1.4 I Governi in esilio.

Quello dei Governi in esilio è un istituto che ha avuto particolare rilevanza durante la seconda Guerra Mondiale, quando diversi
Governi di Stati occupati dalla Germania nazista (es. Belgio, Olanda) si rifugiarono nel Regno Unito. Oggi un esempio
relativamente recente di Governo in esilio è stato il Governo del Kuwait in esilio in Arabia Saudita nel periodo dell’occupazione
del Kuwait da parte dell’Iraq, da agosto del 1990 fino alla primavera del 1991.
Alcuni studiosi negano qualsiasi rilevanza internazionale ai Governi in esilio, ritenendo che i Governi in esilio siano
completamente privi di soggettività internazionale, altri invece, come Ronzitti (autore del nostro libro di testo), ritengono che i
Governi in esilio abbiano rilevanza internazionale limitata almeno quando il territorio veniva controllato in modo transitorio, quindi
quando uno Stato, nel corso della guerra, occupava il territorio MA senza estinguere la personalità dello Stato occupato.
→ È necessario che vi sia uno Stato disposto ad ospitare il Governo in esilio e a consentirgli di svolgere delle funzioni tipiche di
una organizzazione statale. Il Governo in esilio è considerato un “ente fiduciario” del popolo che è sotto occupazione straniera e
quindi, per esempio, il Governo in esilio può esigere il rispetto di accordi stipulati a favore della popolazione per cui opera (ad es.
accordi che prevedano la distribuzione di aiuti umanitari).

2.1.5 Comitati nazionali all’estero


Il fenomeno dei Comitati nazionali all’estero è un fenomeno che ormai appartiene al passato: ha acquisito particolare rilevanza
durante la Prima Guerra Mondiale quando diversi Stati (Italia, Francia e Regno Unito) riconobbero i Comitati nazionali
cecoslovacco e polacco.
→ È espressione di un popolo che mira a governare in futuro e che attualmente è sottoposto ad un altro potere. Ha sede in uno
Stato terzo che gli consente di svolgere le funzioni tipiche dell’organizzazione statale rispetto ai connazionali che si trovano
all’estero, e di disporre del proprio esercito con cui combatte lo Stato sotto il cui dominio si trova il popolo che rappresenta.
n.b: Si presuppone che lo Stato al cui interno ha sede il comitato nazionale all’estero sia in guerra con lo Stato sotto il cui dominio
vi è il popolo di cui è rappresentativo il Comitato.
Il Comitato nazionale all’estero è titolare dei diritti e degli obblighi previsti dal diritto bellico, può concludere degli accordi
sull’utilizzo delle proprie forze armate e può concludere accordi con lo Stato che attualmente governa quella comunità nazionale
di cui esso è espressione.

3. ENTI NON TERRITORIALI CHE NON ASPIRANO A DIVENIRE ORGANIZZAZIONI DI GOVERNO.


Sono gli enti cosiddetti “sui generis” (di un genere suo, proprio) sono tre: la Santa Sede, l’Ordine di Malta e il Comitato
Internazionale della Croce Rossa.

2.1.6 Comitato Internazionale della Croce Rossa.


L’acronimo italiano è “CICR”, venne istituito su iniziativa di un cittadino svizzero, Henry Dunant. Nel 1859 Dunant aveva assistito
alle migliaia di soldati morti o feriti non assistiti, durante la Battaglia di Solferino. Pubblica un memoriale di guerra dove racconta
ciò che ha visto e propone la conclusione di un trattato che impone agli Stati parti di raccogliere e curare i militari malati e feriti,
quale che sia l’esercito di appartenenza, quindi anche i nemici. Inoltre Dunant nel memoriale propone la creazione di società di
soccorso, di associazioni che abbiano il compito di assistere i malati e i feriti supportando i servizi delle forze armate. Queste
sue proposte non rimangono senza seguito, anzi, ricevono una positiva accoglienza e nel 1863 viene costituito a Ginevra il
Comitato Internazionale della Croce Rossa. L’anno successivo (1864) il Comitato Internazionale della Croce Rossa appena
costituito propone la conclusione di quel trattato che aveva proposto Dunant, ovvero di quella che poi passerà alla storia come
“Convenzione di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei militari malati e feriti nella guerra terrestre”. Di questa
Convenzione negli anni successivi sono state elaborate delle versioni via via più ampie e quindi sono state stipulate successive
convenzioni aventi lo stesso soggetto, fino ad arrivare a quella che è oggi la 1^ Convenzione di Ginevra del 1949 (la prima
riguardava appunto il miglioramento dei militari malati e feriti nella guerra terrestre e rappresentava una versione avanzata di
quella del 1864).
→ Si tratta di un’associazione privata, costituita secondo il diritto svizzero senza scopo di lucro e ha sede appunto a Ginevra. Il
Comitato Internazionale della Croce Rossa è un ente imparziale, indipendente e neutrale. La missione del CICR è una missione
tipicamente e strettamente umanitaria: proteggere le vittime dei conflitti armati e ne allevia le sofferenze.
Le Convenzioni di Ginevra e i due Protocolli addizionali del ’77 assegnano numerose funzioni al CICR, tra queste troviamo:
organizzare operazioni di soccorso per la popolazione civile; l’altra funzione importante è quella di organizzare visite nei centri di
detenzione dei prigionieri di guerra. n.b: Ha lo status di osservatore presso le Nazioni Unite (ed è per questo che si manifesta la
soggettività nazionale del CICR) e inoltre ha stipulato diversi accordi: intanto un accordo di sede con la Svizzera, che appunto la
ospita; poi accordi con gli Stati in cui opera, accordi che prevedono lo status dei funzionari, lo status della sede e dei relativi beni.
Riceve ovviamente finanziamenti dal Governo svizzero ma anche donazioni da moltissimi Stati.
2.1.7 Santa Sede
La Santa Sede, secondo il codice di diritto canonico, è costituita dal Sommo Pontefice (Papa) e dalla Curia romana. La Santa
Sede svolge da sempre un’intensa attività di relazione internazionale, che non è venuta meno nemmeno nel periodo in cui aveva
perso qualsiasi dominio territoriale (cioè tra il 1870 ed il 1929). Partecipa a conferenze internazionali, stipula Accordi
internazionali, questi accordi quando riguardano lo status del clero in un determinato Stato prendono il nome di Concordati;
inoltre partecipa ai lavori di organizzazione internazionale (per esempio la Santa Sede è membro dell’Agenzia Internazionale
dell’Energia Atomica, è membro dell’OSCE, “Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa”).
→ La Santa Sede possiede lo status di osservatore presso diverse organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite. Inoltre la
Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con la grande maggioranza degli Stati. Le missioni diplomatiche della Santa Sede
presso gli altri Stati prendono il nome di “Nunziature” (non di ambasciate); ed a capo della nunziatura c’è il “Nunzio apostolico”.
n.b: La Santa Sede, persona internazionale, va tenuta distinta dallo Stato della città del Vaticano che invece ha un dominio
territoriale: NON bisogna far confusione sebbene il Papa sia allo stesso tempo capo della Santa Sede e il sovrano dello Stato
Città del Vaticano (precedentemente si diceva “Papa re”, ora non si usa più; ma di fatto la forma di governo dello Stato Città del
Vaticano è una monarchia).
SE l’organizzazione internazionale ha ad oggetto attività che presuppongono un territorio, quindi attività svolte su un territorio, di
quell’organizzazione è membro lo Stato Città del Vaticano, altrimenti è membro la Santa Sede (ad esempio, dell’Unione Postale
Universale che ha ad oggetto il servizio postale, è membro non la Santa Sede ma lo Stato Città del Vaticano, perché l’Unione
postale si occupa di attività da svolgere su un territorio; così anche dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni è membro
non la Santa Sede ma lo Stato Città del Vaticano). La stessa cosa accade per i trattati che presuppongono la sovranità su un
territorio, in questo caso è parte lo Stato Città del Vaticano, per gli altri casi è parte la Santa Sede (ad esempio della Convenzione
di Vienna sulle relazioni diplomatiche del ’61 è parte la Santa Sede; oppure della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del
’69 è parte la Santa Sede).
La moneta dello Stato Città del Vaticano è l’Euro (prima c’erano le Lire; con il passaggio delle Lire all’Euro da parte dell’Italia,
l’Italia ha stipulato per conto della Comunità Europea un accordo con lo Stato Città del Vaticano in virtù del quale l’Euro è stato
introdotto anche all’interno dello Stato Città del Vaticano). Diciamo nello Stato Città del Vaticano e non nella Santa Sede perché
la moneta circola sul territorio e quindi presuppone il territorio.
Stato Città del Vaticano:
Viene costituito in base al Trattato del Laterano, trattato tra Italia e Santa Sede del 1929, firmato da Mussolini. Il Trattato del
Laterano insieme al Concordato e alla Convenzione finanziaria forma i Patti Lateranensi, firmati nel palazzo apostolico del
Laterano, accanto alla Basilica di S. Giovanni il Laterano. Il Trattato del Laterano, costituendo lo Stato Città del Vaticano, ha
posto fine alla cosiddetta “Questione romana”, questione che si protraeva dal 1870 quando la Santa Sede perse qualsiasi
dominio territoriale con l’annessione di Roma al Regno d’Italia, e quindi con la definitiva scomparsa dello Stato Pontificio. Lo
Stato Città del Vaticano è uno Stato all’interno del territorio italiano, precisamente nel territorio di Roma. Ha un territorio
estremamente ridotto, comprende il Colle Vaticano essenzialmente (uno dei famosi 7 Colli) e comprende la Piazza (Piazza S.
Pietro), la Basilica di S. Pietro, il Palazzo apostolico, i palazzi circostanti e i giardini. Il numero di abitanti è molto limitato (si aggira
tra gli 800 e i 900 abitanti) ed in massima parte sono prelati

2.1.8 Ordine di Malta


È un ente non territoriale, deve il suo nome al fatto di aver governato sull’isola di Malta per oltre due secoli tra il 500 e il 700. La
sua nascita risale al IX sec., quando una piccola comunità di monaci iniziò a gestire un ospedale a Gerusalemme, questa
comunità di monaci indicò come proprio patrono San Giovanni, di qui il nome completo “Sovrano Militare Ordine Ospedaliero
di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta”: ospedaliero perché la sua prima missione fu quella di gestire un
ospedale; di San Giovanni perché si era dato come patrono San Giovanni appunto; di Gerusalemme perché questo ospedale si
trovava a Gerusalemme; di Rodi perché prima di approdare a Malta, l’Ordine fece base anche qui per oltre due secoli, tra il 300 e
il 500 (esattamente tra il 1310 e 1522); di Malta perché, fuggito da Rodi l’Ordine ebbe come base Malta. Nel 1798 l’ordine di
Malta fu cacciato dall’isola da Napoleone. Da allora l’ordine di Malta è un ente non territoriale e si dedica esclusivamente ad
attività caritative ed assistenziali sia in tempo di pace che di guerra (anche se non è riportato come intermediario neutrale dalle
Conv. di Ginevra o dal 1 protocollo add.).
Oggi l’Ordine di Malta ha sede a Roma in due palazzi, uno a Via Condotti, l’altro sull’Aventino, Villa Malta.
Dell’ordine di Malta oggi NON fanno parte solo religiosi ma anche laici e fanno parte oggi non solo uomini bensì anche donne.
Inoltre, in passato, soltanto coloro che erano nobili potevano essere ammessi all’ordine di Malta, oggi non è più così.
A capo dell’Ordine vi è il Gran Maestro, eletto a vita a cui l’Italia riconosce le prerogative di un capo di Stato ed è considerato un
capo di Stato estero (quindi gode dei privilegi che sono riservati ai capi di Stato estero). Al Gran Maestro la Chiesa Cattolica
attribuisce il rango di cardinale.
Vi è uno stretto legame tra l’ordine di Malta e la Santa sede, un legame che dal punto di vista religioso è di dipendenza. La
Costituzione dell’ordine di Malta e il codice sono stati approvati dal Papa, che inoltre nomina un cardinale presso l’ordine di Malta
e costui prende il nome di Cardinale Patrono. Un esempio di questa dipendenza è data dal fatto che nel 2017, quello che era
all’epoca gran maestro si è dovuto dimettere su richiesta espressa di Papa Francesco a seguito di uno scandalo.
→ L’ordine di Malta o Smom (Sovrano militare ordine di Malta) ha una soggettività internazionale limitata:
- intrattiene relazioni diplomatiche con un numero consistente di Stati;
- conclude accordi con gli Stati in materie attinenti alle attività assistenziali a cui si dedica;
- ha lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come ente;
- ha una missione permanente presso alcuni istituti specializzati.
A fronte di ciò dobbiamo anche considerare che se è vero che l’ordine di Malta intrattiene relazioni diplomatiche con un numero
consistente di Stati, vi sono anche Stati che negano qualsiasi soggettività internazionale all’ordine di Malta, per esempio Stati
Uniti e Regno Unito, infatti per le autorità britanniche e per quelle americane l’Ordine di Malta è una semplice associazione
privata e dunque non ha alcuna soggettività internazionale, perché è piuttosto assimilabile ad una ONG. Secondo un’altra parte
della dottrina tra cui il prof. Ronzitti, l’ordine di Malta ha una soggettività limitata e questa soggettività esiste solo nei confronti
degli Stati che la riconoscono (in questo caso il riconoscimento avrebbe natura costitutiva), almeno 90 Stati.

4. ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI.
È la quarta categoria di enti che partecipano alla vita di relazione internazionale, si tratta di enti derivati perché si formano per
volontà degli Stati (enti originari) e si possono estinguere allo stesso modo. Le organizzazioni internazionali hanno un legame
permanente con gli Stati, si dice una sorta di “cordone ombelicale”, che perseguono fini comuni, comuni agli Stati che sono
membri dell’organizzazione e che sono distinti da quelli propri dei singoli Stati che non sono membri.
Distinguiamo due categorie di organizzazioni internazionali:
-a carattere regionale: di queste possono diventare membri SOLO gli Stati appartenenti ad una data regione geografica (es:
l’UE, solo gli Stati del continente europeo possono diventare membri; l’Unione Africana, solo gli stati del continente Africano
possono esserne membri; la Lega Araba solo gli Stati arabi possono divenire membri);
-a carattere universale: di queste possono divenire membri TUTTI gli Stati della comunità internazionale (es: le Nazioni Unite, di
cui sono membri quasi tutti gli Stati membri della comunità internazionale -193- ; la FAO, Organizzazione per l’alimentazione e
l’agricoltura con sede a Roma; l’UNESCO che promuove l’istruzione e la cultura nel mondo; il Fondo monetario internazionale).

→ Le organizzazioni internazionali di solito sono costituite mediante trattato: gli Stati che intendono istituire un’organizzazione
internazionale concludono un trattato, che può essere aperto ad un numero più o meno ampio di altri Stati, quindi a seconda delle
sue disposizioni potranno essere ammessi all’organizzazione tutti gli Stati del mondo oppure solo quelli di una determinata area
geografica. Le disposizioni del trattato stabiliscono quali condizioni devono essere soddisfatte per l’ammissione.

Vi sono tuttavia delle organizzazioni internazionali che non sono costituite mediante trattato ma la cui costituzione è dovuta ad
una serie di atti non vincolanti, di soft law; l’esempio più importante è rappresentato dall’OSCE , l’Organizzazione per la sicurezza
e la cooperazione in Europa, un’organizzazione a carattere universale e ha sede a Vienna. L’OSCE è stata costituita sulla base
dei documenti adottati dagli Stati partecipanti alla CSCE, Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, ad Helsinki nel
1973 e proseguì per due anni fino al 1975. L’Atto finale della conferenza fu firmato dai capi di Stato di ben 35 Stati; importante è il
cosiddetto Decalogo contenuto nell’atto ed elenca i 10 principi fondamentali che gli Stati partecipanti alla conferenza si
impegnarono a rispettare, tra cui il principio del divieto dell’uso della forza, il principio del rispetto delle frontiere, principi di grande
importanza soprattutto in un momento molto difficile della storia dell’umanità (la Guerra Fredda).

NON bisogna confondere l’OSCE con l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e ha sede a
Parigi. Oggi l’OSCE versa in uno stato di profonda crisi e sembra aver compiuto la sua missione storica (divieto uso forza e armi).

n.b: Le organizzazioni internazionali devono essere distinte dalle organizzazioni non governative (ONG), che sono
associazioni private a carattere transnazionale che perseguono fini il più delle volte legati al miglioramento dell’umanità come la
tutela dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, la protezione della fauna (es: medici senza frontiere, Greenpeace, Save the
children). Quindi in quanto associazioni private sono costituite mediante un atto di diritto interno di uno Stato e possono divenire
membri persone fisiche e giuridiche, coinvolgono come staff persone, cittadini di paesi differenti. Hanno carattere transnazionale
nel senso che, svolgono attività su Stati differenti da quelli in cui hanno sede.
INVECE le organizzazioni intergovernative o semplicemente organizzazioni internazionali di solito sono costituite mediante
trattato o mediante atto internazionale sia pure di natura non vincolante (per esempio l’atto di Helsinki). Nelle organizzazioni
internazionali possono divenire membri solo gli Stati, nelle organizzazioni intergovernative i governi degli Stati.

Le organizzazioni internazionali sono tipici enti non territoriali, NON hanno il controllo di un territorio, né aspirano ad averlo, MA
hanno sede nel territorio dello Stato (es: la Fao a Roma). Le organizzazioni internazionali hanno sede sul territorio di uno Stato e
stipulano con questo Stato un accordo internazionale denominato Accordo di Sede, che stabilisce i reciproci diritti e doveri. Le
organizzazioni internazionali tuttavia in qualche caso, hanno amministrato dei territori (es: le Nazioni Unite in Kosovo).
2.1.9 Le Nazioni Unite.
Nazioni Unite era il nome che si diedero i Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Unione Sovietica e Cina) che combatterono
durante la Seconda Guerra Mondiale le potenze dell’asse. Nell’ottobre del 1943 a Mosca si tenne una Conferenza, durante la
quale le quattro potenze partecipanti cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cina, affermarono la necessità di dar vita
ad una organizzazione internazionale che potesse essere aperta a tutti gli Stati e che assicurasse una pace duratura, ciò che non
era stata in grado di fare la Società delle Nazioni.
Nel 1945 a San Francisco, negli Stati Uniti si tenne la Conferenza di San Francisco che si aprì il 25 aprile e si chiuse nel mese di
giugno durante la quale fu approvata all’unanimità e firmata la Carta delle Nazioni Unite, cioè il trattato istitutivo delle Nazioni
Unite, detta anche “Statuto di San Francisco”, entrò in vigore nell’ottobre del 1945. Con l’entrata in vigore della Carta delle
Nazioni Unite, il patto della Società delle Nazioni si estinse.
L’Italia, la Germania e il Giappone erano ritenuti Stati nemici e poterono divenire membri delle Nazioni Unite soltanto in seguito
(l’Italia è divenuta membro delle Nazioni Unite nel 1955).

2.1.9.1 Ammissione alle Nazioni Unite:


Le condizioni di ammissioni sono contenute nell’art.4 della Carta che recita: “Lo status di membro delle Nazioni Unite è aperto a
tutti gli altri Stati amanti della pace che accettino gli obblighi contenuti nella presente carta e che a giudizio dell’organizzazione
sono in grado e desiderano eseguire questi obblighi”. continua precisando qual è la procedura di ammissione che è la seguente:
“L’ammissione di qualunque Stato alle Nazioni Unite sarà effettuata con decisione dell’Assemblea Generale previa
raccomandazione del Consiglio di sicurezza”.
Che l’ammissione alle Nazioni Unite di un nuovo Stato sia decisa dall’Assemblea Generale su raccomandazione del Consiglio di
Sicurezza, implica che intanto il Consiglio di Sicurezza deve essere d’accordo che un nuovo Stato diventi membro e, in secondo
luogo, che l’Assemblea Generale si esprima in maggioranza a favore. Accade quindi che, SE anche uno dei membri permanenti
del Consiglio di Sicurezza (che dispone del diritto di veto) si oppone all’ammissione del nuovo Stato, il Consiglio di Sicurezza,
bloccato dal veto di questo Stato, NON potrà formulare alcuna raccomandazione all’Assemblea Generale, la quale non potrà
decidere l’ammissione del nuovo Stato (es. è quello che è accaduto per la Palestina).
Un numero rilevante di Stati è divenuto membro delle Nazioni Unite subito dopo aver acquisito l’indipendenza, come gli Stati sorti
dal processo di decolonizzazione, tra gli anni ’60 e ’70.
Oggi gli Stati membri delle Nazioni Unite sono 193 (l’ultimo in ordine di tempo ad essere ammesso alle Nazioni Unite è il Sud
Sudan che ha proclamato l’indipendenza nel 2011 e si è costituito per secessione dal Sudan).

2.1.9.2 Espulsione dalle Nazioni Unite:


Per quanto concerne l’espulsione dalle Nazioni Unite, l’art.6 afferma che: “L’espulsione di uno Stato dalle Nazioni Unite può
essere disposta sempre dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza nei confronti di uno Stato che abbia in
maniera persistente violato gli obblighi previsti dalla Carta”. Le modalità di ammissione ed espulsione sono le stesse: decide
l’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Finora nessuno Stato è stato espulso anche se si è assistito a
numerosi casi di violazioni ripetute e persistenti della Carta (es. la violazione del divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali che la carta stabilisce).
Laddove siano contenute nel trattato indicazioni sul recesso, allora lo Stato può recedere secondo quelle che sono le disposizioni
contenute nel trattato, se non sono contenute nel trattato disposizioni sul recesso allora bisogna andare a considerare le norme
consuetudinarie sul recesso; nel caso delle Nazioni Unite non c’è una clausola sul recesso e comunque finora mai nessuno Stato
ha sentito l’esigenza di recedere dalle Nazioni Unite.

2.1.9.3 Come si finanziano le Nazioni Unite?


Attraverso quote che gli Stati devono versare, indispensabili per consentire le tante attività che le Nazioni Unite svolgono.

2.1.9.4 Fini dell’ONU.


Sono indicati nell’art.1 e sono dei fini estremamente ampi:
- il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale;
- lo sviluppo di relazioni amichevoli tra gli Stati, fondati sul principio di uguaglianza e sul principio di autodeterminazione dei
popoli;
- il rafforzamento della cooperazione internazionale, quindi della cooperazione tra gli Stati nella soluzione di problemi di
carattere economico, sociale etc. e il rafforzamento della cooperazione tra gli Stati anche nella promozione dei diritti umani.
L’art. 2 elenca i principi che devono essere rispettati per perseguire i fini :
- l’organizzazione è basata sul principio della sovrana uguaglianza di tutti i suoi membri, questo è un principio fondamentale,
non soltanto delle Nazioni Unite in realtà, ma dell’intera comunità internazionale, tutti gli Stati sono uguali e sono dotati della
piena soggettività internazionale ed è il principio di uguaglianza che governa le loro relazioni;
- tutti i membri hanno l’obbligo di dare esecuzione, in buona fede, alle disposizioni della carta;
- il principio della Soluzione pacifica e l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali (art. 2 par. 3);
- il principio del divieto della minaccia e dell’uso della forza nelle relazioni internazionali (art. 2 par. 4), questo divieto è un
divieto fondamentale, che ha scongiurato in più occasioni, almeno finora, una terza guerra mondiale;
- l’obbligo di prestare assistenza alle Nazioni Unite in qualsiasi azione da queste intrapresa e l’obbligo parallelo di astenersi
dall’agire in contrasto con qualsiasi azione intrapresa dalle Nazioni Unite (art.2, par.5).
2.1.9.5 Composizione:
Le Nazioni Unite non hanno la tipica struttura tripartita (Assemblea, Consiglio esecutivo e un Segretario Generale) delle
organizzazioni internazionali MA presentano una struttura più complessa (art.7 della Carta):
1) il Consiglio di Sicurezza; 2) l’Assemblea Generale; 3) il Consiglio Economico e Sociale; 4) il Consiglio di
Amministrazione Fiduciaria; 5) il Segretariato Generale; 6) la Corte Internazionale di Giustizia.

2.1.9.5.1 Consiglio di sicurezza.


E’ un organo politico (non può svolgere funzioni giurisdizionali) composto da 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Russia,
Regno Unito, Francia e Stati Uniti) e 10 eletti ogni 2 anni dall’Assemblea Generale, che sceglie tra Stati che abbiano contribuito
al mantenimento della pace e della sicurezza nonché gli altri fini dell’ONU. Il Consiglio svolge una funzione di mantenimento
della pace e sicurezza internazionale sulla base del sistema di sicurezza collettiva; il Consiglio può attivarsi motu proprio, da
qualsiasi membro delle Nazioni Unite, dal Segretario Generale e dall’Assemblea Generale in caso di controversie che sono
suscettibile a mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. In merito a tali controversie il Consiglio può fare delle
indagini e invitare le parti a risolvere pacificamente la controversia ricorrendo ai mezzi di risoluzione pacifica. L’art. 27 della Carta
delle Nazioni Unite stabilisce come si pronuncia il Consiglio di Sicurezza e distingue:
- delibere su questioni procedurali;
- delibere su questioni non procedurali, cioè sostanziali.
Gli atti emanati dal Consiglio di sicurezza prendono il nome di risoluzioni. Ciascun membro del Consiglio di sicurezza ha a
disposizione un voto, per l’adozione di una risoluzione sono necessari 9 voti favorevoli, SE questa ha ad oggetto questioni
procedurali, sono sufficienti i voti favorevoli di 9 membri, che siano permanenti e non; SE invece la risoluzione ha ad oggetto
questioni sostanziali è necessario il voto favorevole di 9 membri compresi TUTTI i membri permanenti, ciò vuol dire che tutti i
membri permanenti devono votare a favore, devono essere d’accordo all’adozione di quella risoluzione perché è sufficiente il voto
contrario di UNO qualsiasi dei membri permanenti per impedire l’adozione della risoluzione, infatti ciascun membro permanente
ha un potere di veto, quindi col proprio voto negativo può bloccare l’adozione della risoluzione, spesso non si arriva neanche ad
una votazione e quella proposta di risoluzione viene addirittura ritirata.

All’art. 52 par. 3 si evince che uno Stato parte della controversia deve astenersi dal voto: quindi laddove il Consiglio eserciti le
sue competenze in materia di soluzione pacifica delle controversie e una delle parti della controversia sia anche membro del
Consiglio di Sicurezza, questo membro si deve astenere dal voto perché è parte in causa; questa stessa disposizione NON vale
quando si discute delle minacce alla pace, violazione della pace e gli atti di aggressione o prendere misure conseguenti; ci si
chiede se l’astensione di un membro permanente impedisce l’adozione della risoluzione, dato ciò si è formata una prassi nel
Consiglio di sicurezza, che ha portato a quella che secondo alcuni è una consuetudine particolare cioè la norma secondo cui
l’astensione di un membro permanente NON impedisce l’adozione della delibera, oggi è certamente così sulla base di una prassi
che va avanti da 74 anni, ossia dal ’45 anche se la Carta continua a prevedere diversamente.
→ La responsabilità principale del Consiglio di sicurezza è il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale stabilita
dall’art. 24 par.1: “Al fine di assicurare un’immediata ed effettiva azione da parte delle Nazioni Unite i suoi membri conferiscono al
Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e i poteri del
Consiglio di Sicurezza ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale sono disciplinati dal capitolo 7° che
riguarda il sistema di sicurezza collettiva”, la Carta delle Nazioni Unite vieta la minaccia e l’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali, MA accentra il potere dell’uso della forza in seno al Consiglio di Sicurezza e prevede un meccanismo, il sistema di
sicurezza collettiva, volto ad assicurare la repressione delle violazioni del divieto dell’uso della forza. L’art.39 è l’articolo con cui si
apre il capitolo 7° e stabilisce che il Consiglio di sicurezza deve determinare l’esistenza di una minaccia alla pace o una
violazione alla pace o un atto di aggressione e una volta che tale constatazione sia avvenuta il Consiglio può adottare le
misure necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale adottando risoluzioni aventi carattere
esortativo quindi raccomandazioni, ma anche risoluzioni con forza vincolante e quindi decisioni (il nomen iuris nell’atto è
sempre risoluzione poi dal suo contenuto, si desume che sia una raccomandazione o una decisione).
L’art.40 prevede le cosiddette misure provvisorie, cioè misure volte a prevenire un aggravamento della situazione senza però
pregiudicare la posizione rispettiva delle parti (es. il “cessate il fuoco” che il Consiglio di sicurezza può raccomandare o imporre
alle parti al fine di prevenire un aggravamento della situazione). L’art. 41 prevede poi le misure coercitive non implicanti l’uso
della forza armata, il Consiglio di sicurezza può raccomandare o imporre agli Stati membri di adottare queste misure, si tratta di
un elenco esemplificativo: l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche, delle comunicazioni ferroviarie, marittime,
aeree, postali, telegrafiche e radio o di altri mezzi e l’interruzione delle relazioni diplomatiche. L’art. 42 riguarda invece le misure
coercitive, non è mai stata intrapresa alcuna azione militare diretta, questo perché non sono mai stati conclusi gli accordi
attraverso i quali gli Stati membri avrebbero dovuto mettere a disposizione del Consiglio forze aeree, terrestri o navali. Si è
sviluppata invece la prassi delle autorizzazioni, cioè il
Consiglio autorizza gli Stati membri ad usare la forza per porre fine ad una minaccia alla pace, quindi il Consiglio di sicurezza
agisce tramite gli Stati membri .

2.1.9.5.2 Assemblea Generale.


L’Assemblea Generale è composta da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite. Ogni membro ha diritto ad avere fino a 5
rappresentanti (art.9), ma comunque ha un solo voto (art.18). In seno all’Assemblea Generale, non vi sono Stati “più uguali” degli
altri, ma tutti hanno diritto ad un voto e nessuno ha il potere di veto (come invece hanno i membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza).
L’Assemblea Generale può occuparsi di tutte le questioni che rientrano nei fini delle Nazioni Unite (art.10), quindi ha una
competenza in materia molto vasta, MA un potere di adottare atti vincolanti molto limitato (può adottare risoluzioni con effetti
vincolanti, col carattere di decisioni, solo in limitatissimi casi), deve astenersi dal formulare raccomandazioni rispetto a
controversie o situazioni di cui già si stia occupando il Consiglio di Sicurezza (questo per evitare posizioni contrastanti).

In quali casi l’Assemblea Generale ha il potere di adottare atti vincolanti?


- Innanzitutto, decide sull’ammissione di un nuovo Stato alle Nazioni Unite: la procedura prevede che vi sia la proposta del
Consiglio di Sicurezza e la delibera dell’Assemblea Generale;
- ha il potere di ripartire le spese tra i membri e di approvare il bilancio (bilancio annuale);
- ha la competenza di decidere dell’indipendenza dei popoli soggetti ad amministrazione fiduciaria della Nazioni Unite (quei
popoli coloniali che erano assoggettati al sistema di amministrazione temporanea/provvisoria in attesa del raggiungimento
dell’indipendenza).

Con quali maggioranze delibera l’Assemblea Generale?


Ce lo dice l’art.18: bisogna distinguere: A) le delibere su questioni importanti (es: l’ammissione di uno Stato alle Nazioni Unite;
l’approvazione del bilancio; le raccomandazioni in ambito della pace e della sicurezza internazionale), esse sono adottate a
maggioranza dei 2/3 dei membri presenti e votanti; B) le delibere su altre questioni sono adottate con la maggioranza semplice
(50+1) dei presenti e votanti.

2.1.9.5.3 Consiglio Economico e Sociale.


La sigla è ECOSOC, si trova in una posizione subordinata rispetto all’Assemblea Generale, ciò vuol dire che entrambi sono
costretti a seguire le direttive dell’Assemblea Generale. E’ composto da 54 Stati membri delle Nazioni Unite, eletti
dall’Assemblea Generale per 3 anni: dunque, i componenti sono rappresentanti degli Stati di provenienza. L’ECOSOC si occupa
di questioni economiche, sociali, culturali, sanitarie e simili. Su queste questioni, può:
- Condurre degli studi affidandosi ad esperti;
- Convocare delle conferenze internazionali;
- Elaborare dei progetti di convenzioni, da sottoporre poi all’Assemblea Generale (per l’adozione);
- Fare delle raccomandazioni all’Assemblea Generale, agli Stati Membri e agli Istituti Specializzati (Specialized Agencies),
sono vere e proprie organizzazioni internazionali a sé stanti, che sono, tuttavia, collegate alle Nazioni Unite mediante un
accordo che prende appunto il nome di “accordo di collegamento”, fra gli Istituti Specializzati, troviamo la “FAO”
(l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura che ha sede a Roma), l’IMO (l’Organizzazione Marittima Internazionale
che ha sede a Londra), l’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha sede a Ginevra), l’OMS (l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, con sede a Ginevra), l’UNESCO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione, le scienze e la
cultura), l’OIM (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) e ancora l’ICAO (l’Organizzazione internazionale per
l’aviazione civile).
2.1.9.5.4 Consiglio di Amministrazione fiduciaria
L’amministrazione fiduciaria consisteva nella gestione provvisoria di territori di tipo coloniale sotto leggi delle Nazioni Unite. Il
Consiglio di Amministrazione fiduciaria ha ormai perso rilevanza con la scomparsa dell’istituto dell’amministrazione fiduciaria per
effetto della decolonizzazione: tutti i territori amministrati fiduciariamente sono divenuti Stati Indipendenti (l’ultimo, in ordine di
tempo, è stato Palau, un’isola del Pacifico, la quale ha raggiunto l’indipendenza intorno al ‘93/94), a partire da questo momento, il
Consiglio di Amministrazione fiduciaria, che prima si riuniva almeno una volta l’anno, ha modificato le proprie regole di procedura,
prevedendo di riunirsi SOLO quando necessario.
n.b: Se e quando vi sarà una riforma della Carta delle Nazioni Unite, le disposizioni relative al Consiglio di Amministrazione
fiduciaria verranno certamente eliminate, trattandosi di disposizioni ormai superate (obsolete).
Comunque, era previsto che il Consiglio di Amministrazione fiduciaria fosse subordinato all’Assemblea Generale, a cui spettava
decidere dei tempi e dei modi dell’indipendenza dei popoli sotto dominazione coloniale: ma, anche qui, sulla base di una prassi (e
non perché vi fosse una disposizione nella Carta delle Nazioni Unite).

2.1.9.5.5 Segretario Generale


Esso comprende il Segretario Generale e il personale (apparato, staff amministrativo) che le Nazioni Unite richiedono; il
Segretario Generale è il più alto funzionario amministrativo delle Nazioni Unite. E’ nominato dall’Assemblea Generale, su
proposta del Consiglio di Sicurezza: vi deve, dunque, essere il gradimento dei membri permanenti. Il mandato del Segretario
Generale è di 5 anni ed è rinnovabile.
n.b: Come la Corte internazionale di Giustizia, il Segretariato è un organo composto non da Stati, MA da individui: i componenti
NON rappresentano gli Stati di provenienza, sono e devono essere indipendenti.
Cosa fa il segretariato generale?
- Esercita funzioni che gli sono assegnate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale: quindi, funzioni delegate;
- Esercita delle funzioni esecutive: tutte le funzioni che sono necessarie per rendere efficaci le delibere dell’Assemblea
Generale e del Consiglio di Sicurezza.
→ Le operazioni di peace keeping (“caschi blu” dell’onu) sono effettuate sotto la direzione del Segretario generale, dietro delega
del Consiglio di sicurezza, al Segretario è affidato il compito di costituire la forza: individua gli Stati che intendono fornire
volontariamente i contingenti componenti la forza. Il Segretario Generale si avvale di uno staff amministrativo di persone, infatti
c’è un dipartimento apposito (all’interno del Segretariato) “il dipartimento per le operazioni di peace keeping” che si occupa
proprio delle missioni di Peace-Keeping.

2.1.9.5.6 Corte Internazionale di Giustizia.


È definita dall’art.92 della Carta delle Nazioni Unite come il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite.
→ Oltre alla Corte vi sono il Tribunale delle Controversie e il Tribunale d’Appello delle Nazioni Unite che sono organi
giurisdizionali con una competenza molto limitata, si occupano esclusivamente delle controversie di lavoro fra i funzionari delle
Nazioni Unite e l’Organizzazione. Il Tribunale delle Controversie funge da giurisdizione di primo grado, il Tribunale di Appello
funge da giurisdizione d’appello.
La Corte internazionale di Giustizia ha sede a l’Aia, in Olanda. Il Tribunale d’Appello delle Nazioni Unite ha sede a New York,
invece il Tribunale delle Controversie ha più sedi: dal momento che le Nazioni Unite hanno propri funzionari e svolgono attività in
quasi tutti gli Stati del mondo, il Tribunale delle Controversie ha uffici a Ginevra, a New York e Nairobi (Kenya).
La Corte internazionale di Giustizia opera sulla base di uno Statuto allegato alla Carta delle Nazioni Unite e forma parte
integrante di essa. La Corte internazionale di Giustizia è composta da 15 giudici, i quali sono eletti dall’Assemblea Generale e
dal Consiglio di Sicurezza: si dice che operano come “due camere separate”, ovvero risultano eletti i candidati che abbiano
ottenuto la maggioranza assoluta dei voti sia nell’Assemblea Generale che nel Consiglio di Sicurezza. Si tratta di persone che
abbiano una grande e riconosciuta competenza in materia di diritto internazionale, che vengono designati dai gruppi nazionali
della Corte Permanente di Arbitrato, istituita sulla base della Convenzione dell’Aia del 1899, anch’essa ha sede all’Aia, nello
stesso Palazzo della Corte internazionale di Giustizia, che prende il nome di PEACE PALACE (Palazzo della Pace). Sono eletti
per 9 anni e il loro mandato è rinnovabile.
La Corte internazionale di Giustizia ha:
- una competenza “contenziosa”: cioè risolve controversie fra Stati;
- una competenza “consultiva”: cioè formula pareri quando le siano richiesti dagli Istituti Specializzati e da altri Organi delle
Nazioni Unite, solo nell’ambito delle loro competenze e con l’autorizzazione dell’Assemblea Generale.
n.b: La competenza contenziosa ha un fondamento “consensuale”, cioè entrambi gli Stati della controversia devono essere
favorevoli: devono stabilire che a risolverla sia la Corte internazionale di Giustizia. NON c’è una giurisdizione obbligatoria nel
senso che nessuno Stato può essere convenuto innanzi alla Corte, e la controversia non può essere decisa dalla stessa Corte,
senza il suo preliminare consenso.

Chi può sottoporre controversie alla Corte internazionale di Giustizia?


- Gli Stati membri delle Nazioni Unite, i quali sono a loro volta automaticamente parti dello Statuto della Corte internazionale di
Giustizia (ricordiamo che lo Statuto è annesso alla Carta);
- Gli Stati che NON sono membri delle Nazioni Unite, ma che sono divenuti parti dello Statuto della Corte (es. la Svizzera, che
prima di divenire membro delle Nazioni Unite nel 2002, pur ospitando un ufficio a Ginevra che agisce come rappresentanza
delle Nazioni Unite, era parte dello Statuto della Corte);
- Gli Stati che non sono membri delle Nazioni Unite, né sono parti dello Statuto della Corte, alle condizioni stabilite dal
Consiglio di Sicurezza (condizioni stabilite con una risoluzione del 1946 e mai state modificate).

Come può essere espresso il consenso, o meglio, come può essere accettata la giurisdizione della Corte?
Esistono 4 diversi meccanismi:
1. Compromesso: gli Stati parti di una controversia possono concludere un compromesso, cioè un accordo con il quale
decidono di sottoporre la controversia già sorta alla Corte;
2. Clausola Compromissoria: gli Stati parti di una controversia possono essere parti di
un trattato che contiene una “clausola compromissoria”, cioè la clausola contenuta in un trattato in virtù della quale qualsiasi
controversia, relativa all’interpretazione e applicazione di quel trattato, può essere sottoposta da ciascuna delle parti della
controversia alla Corte internazionale di Giustizia. In questo caso, è sufficiente un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di
Giustizia perché a monte vi è la clausola compromissoria INVECE il compromesso è un accordo fra due o più Stati, in virtù del
quale questi affidano la soluzione di una controversia già sorta alla Corte internazionale di Giustizia;
3. Dichiarazione unilaterale di accettazione: ciascuno Stato, unilateralmente, può dichiarare di accettare la giurisdizione
della Corte riguardo ad eventuali controversie. La dichiarazione può essere: a) limitata, quindi esser fatta solo nei confronti
degli Stati che, a loro volta, abbiano accettato la giurisdizione della Corte; b) può essere fatta incondizionatamente, cioè
esser fatta nei confronti di qualsiasi Stato; c) può essere limitata ratione temporis, cioè riguardare solo le controversie sorte
in un determinato arco di tempo.
4. Forum Prorogatum: nella situazione in cui uno Stato si rivolge alla Corte internazionale di Giustizia contro un altro Stato il
quale, nonostante non abbia preventivamente accettato la giurisdizione della Corte, manifesta comportamenti concludenti,
allora dimostra di accettare la giurisdizione (es. costituendosi in giudizio, depositando memorie o una lista testimoniale).

Come si pronuncia la Corte internazionale di Giustizia?


La Corte internazionale di Giustizia si pronuncia a maggioranza, quindi è necessario che la maggioranza dei giudici si esprima a
favore o contro. Nel caso di parità, è determinante il voto del Presidente della Corte (o il giudice che agisce al suo posto).
Le sentenze della Corte internazionale di Giustizia sono pubbliche e devono indicare le motivazioni su cui è basata, i nomi dei
giudici che hanno preso parte alla decisione votando a favore o contro i singoli punti.
L’art. 57 poi stabilisce: “Se la sentenza non rappresenta in tutto o parte l’opinione unanime dei giudici, qualsiasi giudice ha
diritto a depositare un’opinione separata”. Infatti, i giudici che hanno votato contro possono allegare alla sentenza una loro
opinione, motivando le ragioni del loro dissenso (questo atto redatto prende il nome di opinione dissenziente).
SE hanno votato a favore possono anche allegare un’opinione concorrente, laddove essi giungano allo stesso risultato della
maggioranza, ma sulla base di un ragionamento giuridico differente.
n.b: La sentenza vincola soltanto gli Stati che sono parti della controversia e SOLO rispetto al caso deciso.
→ SE il collegio giudicante comprende un giudice avente la nazionalità di uno degli Stati parti della controversia, MA NON anche
dell’altro Stato, quest’ultimo può nominare un giudice che si chiama un giudice ad hoc, che non deve essere necessariamente un
giudice avente la propria nazionalità. Se nel collegio giudicante non vi è un giudice della nazionalità di nessuno delle due parti,
allora ciascuno Stato parte può nominare un giudice ad hoc.
3 DIVIETO ALL’USO DELLA FORZA.
Fino all’inizio del Novecento, il ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali era consentito, gli Stati
godevano di un illimitato diritto di ricorrere alla guerra ma non solo anche a misure di coercizione diverse dalla guerra (es.
rappresaglia armata). Questo era assolutamente consentito dal diritto internazionale che ne disciplinava le modalità con le regole
del c.d. ius in bello, diritto bellico. Una delle prime convenzioni finalizzate limitare il ricorso alla forza armata fu la Convenzione
dell’Aja del 1889 e del 1907, disciplinava i conflitti armati internazionali si limitava a prevedere che l’apertura delle ostilità fosse
preceduta da un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionata (cioè l’ultimatum nel quale si chiedeva, entro tale giorno, tale
ora, deve avvenire questo altrimenti sarà scatenata una guerra). Questa convenzione fu ripetutamente violata nelle due guerre
mondiali (es. la Germania aveva più volte violato questa convenzione di cui era parte, invadendo la Polonia senza una
dichiarazione di guerra o ultimatum, l’invasione della Polonia diede avvio alla Seconda guerra mondiale).
Il Patto della Società delle Nazioni fu adottato nel 1919 e fu inserito all’interno di ciascuno dei cinque trattati di pace negoziati
nella conferenza di pace di Parigi del 1929-30, questa vietava il ricorso alla guerra di aggressione da parte degli Stati membri
della Società nei confronti degli altri Stati membri quindi al di fuori di ciò la guerra di aggressione rimaneva lecita (es. l’Italia violò
questo divieto con l’invasione dell’Etiopia, nel 1935, che era membro della società delle nazioni; Germania e Giappone erano
membri della società delle nazioni ma si ritirarono nel 1933 quando
iniziarono a sviluppare quella politica di riarmo che li porterà poi ad essere gli Stati aggressori, in Europa come in Asia). Quindi il
Patto obbligava a risolvere pacificamente le controversie a regolamento arbitrale o giudiziale, le rappresaglie armate erano lecite.

Nel 1928 fu concluso il trattato generale di rinuncia alla guerra noto anche come patto “Kellogg-Briand”, dal nome del segretario
di stato americano Kellogg e del ministro degli esteri francese Briand che ne furono i promotori, di cui divennero parte tutti gli Stati
che allora formavano la comunità internazionale, vietava il ricorso alla guerra come mezzo della soluzione delle controversie
internazionali e quindi vietava la guerra di aggressione, le controversie internazionali dovevano essere risolte esclusivamente
attraverso mezzi pacifici, NON venivano banditi né l’intervento né le rappresaglie armate, poiché solo la “guerra” veniva
esplicitamente vietata, poi la legittima difesa era lecita ma non veniva definita né disciplinata, veniva intesa in modo ampio.

La Carta delle Nazioni Unite porta a termine il processo iniziato dai precedenti trattati perché abolisce definitivamente la libertà
di muover guerra di cui godevano gli Stati, prevede un divieto generale di ricorso alla forza armata e anche della sua semplice
minaccia (ultimatum), e anche le rappresaglie armate. E’ prevista dall’art.2 par.4 che stabilisce: “I membri devono astenersi nelle
loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di
qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”, vieta il ricorso alla forza armata
praticamente in qualsiasi circostanza, contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, di qualsiasi Stato,
non si precisa qualsiasi Stato membro; poi con l’espressione in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni
Unite vuole dire che quand’anche la minaccia o l’uso della forza non violasse l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno
Stato, sarebbero comunque vietate quando in contrasto con i fini delle Nazioni Unite (art.1).

3.1 ECCEZIONI AL DIVIETO DELL’USO DELLA FORZA.


Il divieto dell’uso della forza è un divieto tendenzialmente assoluto, vi sono delle eccezioni, previste dalla stessa carta delle
Nazioni Unite, e sono:

3.1.1 Legittima difesa


1. Legittima difesa, prevista dall’art.51 della Carta, può essere:
- individuale: spetta a qualsiasi, Stato che subisca un attacco armato, questo può reagire all’attacco usando la forza, appunto
allo scopo di respingerlo;
- collettiva, prevede che uno Stato abbia constatato di essere vittima di un attacco armato e richiede l’assistenza degli altri
Stati, diversi dell’attaccante e dall’attaccato, che possono usare la forza.
Sia per la legittima difesa individuale così come per quella collettiva sono previste le stesse condizioni:
→ È necessario che vi sia un attacco armato, quindi il diritto della legittima difesa può essere esercitato solo dopo che abbia
avuto luogo un attacco armato o anche prima, nell’imminenza dello stesso (c.d. legittima difesa preventiva).
→ Affinché si possa reagire in legittima difesa devono essere oggetto di violenza, in primo luogo, il territorio e gli altri beni che
sono la manifestazione della sovranità di uno Stato (es. le truppe stanziate all’estero, non vengono menzionati gli agenti
diplomatici anche se alcuni considerano i cittadini all’estero come un’estensione del territorio statale).
→ Negli ultimi anni, tuttavia, si è fatta strada l’idea che si possa reagire in legittima difesa anche nei confronti di un attacco
armato proveniente da un ente non statale, tuttavia, la Corte Internazionale di Giustizia, ha negato che un attacco armato, ai fini
della legittima difesa, possa provenire da un ente non statale.
→ La legittima difesa deve essere esercitata entro tre criteri: A) nei limiti posti dal criterio della necessità, una necessità di
legittima difesa urgente; B) della proporzionalità, la difesa deve essere proporzionale all’offesa; C) di immediatezza, non si può
iniziare una guerra in legittima difesa molto tempo dopo l’attacco armato infatti una successiva e tardiva reazione da parte dello
Stato leso si configura più come una rappresaglia; il criterio dell’immediatezza impedisce di invocare la legittima difesa quando
l’occupazione si è consolidata nel tempo, specialmente se risale ad un’epoca in cui l’uso della forza era lecito, in tal caso occorre
tener conto dell'atteggiamento dello Stato leso e della comunità internazionale. La legittima difesa DEVE cessare non appena il
Consiglio di sicurezza abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, questo deve inoltre
essere informato dallo Stato che agisce in legittima difesa delle misure che ha intrapreso per difendersi (vengono escluse le c.d.
secret wars). Però, lo Stato leso per far fronte ad un attacco armato non necessita di alcuna autorizzazione del Consiglio di
sicurezza, essendo la legittima difesa un diritto connaturato con l’esistenza dello Stato.

n.b: Nel caso della legittima difesa collettiva, occorre aggiungere un’ulteriore limitazione per il terzo che interviene e cioè l’attacco
deve essere di una gravità tale che il suo intervento è assolutamente necessario; poi uno Stato terzo non può intervenire a favore
dello Stato attaccato contro lo Stato attaccante senza che la vittima abbia constatato di essere stata oggetto di un attacco armato,
infatti spetta allo Stato leso accertare che vi sia stato attacco armato e poi richiedere l’aiuto degli altri Stati.

3.1.1.1 Legittima difesa preventiva


Legittima difesa preventiva si tratta di azioni armate dirette a respingere un attacco militare certo e
imminente, MA non ancora sferrato. A tal proposito vi sono diverse opinioni:
1. La prima afferma (secondo gli Stati che l’hanno proposta Stati Uniti e Israele, in diverse occasioni) che la legittima difesa
possa essere esercitata anche prima che un attacco sia sferrato perché fanno leva sul termine naturale starebbe ad
indicare che la Carta ha recepito il diritto alla legittima difesa così come era concepito prima della sua entrata in vigore, e
prima dell’entrata in vigore si poteva usare la forza in legittima difesa anche prima di un attacco armato;
2. La seconda opinione è contraria, afferma che ciò non è possibile perché sottolineano come la Carta faccia un riferimento
testuale all’esistenza di un attacco armato (“nel caso in cui abbia luogo un attacco armato”) condizione essenziale per
l’esercizio della legittima difesa, e ritengono che l’aggettivo “naturale” si riferisca al fatto che si tratta di un diritto di cui
nessuno Stato può essere privato;
3. Secondo l’autore del testo Ronzitti, la legittima difesa non può essere qualificata nella sua assolutezza come ritiene la
seconda opinione, infatti grazie alle moderne tecnologie è possibile individuare un missile che è stato lanciato prima
ancora che tocchi il suolo, dunque sarebbe irragionevole attendere che il missile tocchi il suolo causando morti e feriti e
distruggendo i villaggi, quindi prima di poter reagire lo Stato si potrebbe proteggere lanciando degli anti missili per
impedire che l’attacco armato sia completato, dunque accoglie la legittima difesa sia dopo che abbia avuto luogo un
attacco armato sia nell’imminenza dello stesso, la nozione di imminenza di un attacco armato deve essere intesa in
senso restrittivo per evitare abusi;
4. La dottrina sulla “guerra preventiva” elaborata dal Presidente Bush, elaborata dopo l’attacco alle torri gemelle, stabilisce
che si può intervenire in legittima difesa non solo nell’imminenza di un attacco armato MA anche nel caso in cui vi siano
degli Stati che ospitano sul loro territorio movimenti terroristici oppure di Stati che hanno e sviluppano armi di distruzione
di massa.

3.1.2 Misure nei confronti di Stati ex nemici.


2. Le misure nei confronti di Stati ex nemici, cioè di Stati che erano stati nemici degli Stati fondatori dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite, quindi Germania, Italia, Giappone e paesi satelliti. Alcuni disposizioni dell’art. 53 e dell’art. 107 prevedono la
possibilità di ricorrere a misure coercitive, quindi usare la forza, nel caso di un ritorno di questi Paesi ad una politica
aggressiva, queste misure non sono mai state adottate e anzi le disposizioni in questione si dice sono cadute in desuetudine,
oggi non sarebbero in realtà più invocabili perché tutti quelli che erano Stati nemici sono divenuti membri delle Nazioni Unite.

3.1.3 Uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza

3. L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, gli Stati possono usare la forza su autorizzazione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite: i redattori della Carta delle Nazioni Unite, naturalmente, avevano considerato la possibilità che il
divieto all’uso della forza potesse essere violato e perciò, per assicurare l’effettività del divieto dell’uso della forza nelle
relazioni internazionali, avevano previsto un Sistema di Sicurezza Collettiva.

3.1.4 Consenso dell’avente diritto


4. Il consenso dell’avente diritto, se uno Stato entra in territorio altrui con il consenso del sovrano territoriale NON viene
commesso alcun illecito. Il consenso può essere prestato oralmente o in forma scritta e non può essere dato dopo l’ingresso nel
territorio altrui in questo caso non può essere considerato una causa di esclusione del fatto illecito e deve: a) provenire dal
governo effettivamente rappresentativo dello Stato in cui l’intervento ha luogo; b) si deve trattare di una manifestazione della
volontà valida quindi non affetta da vizi (errore, dolo, violenza); c) l’azione dello Stato interveniente non deve violare norme che
lo obbligano a tenere un certo comportamente non solo nei confronti dello Stato leso ma anche nei confronti degli altri Stati
membri della comunità internazionale; d) il consenso non deve essere contrario ad una norma imperativa del diritto
internazionale altrimenti l’uso della forza sarebbe illecito.

3.1.5 Intervento a protezione dei cittadini all’estero


5. L’intervento a protezione dei cittadini all’estero, tale diritto era considerato lecito prima della Carta, oggi vi è il dubbio se tale
diritto sia sopravvissuto all’entrata in vigore della Carta. Gli Stati occidentali ammettono la liceità mentre i Paesi del terzo mondo
no. Naturalmente uno Stato per poter intervenire lecitamente vi deve essere: A) l’esistenza di un serio pericolo di vita per i
cittadini dello Stato interveniente e la mancanza di volontà o incapacità da parte dello Stato territoriale di salvarli; B) l'intervento
non deve prolungarsi oltre il tempo necessario a compiere l’operazione di salvataggio (salvare i propri cittadini e riportarli in
patria).

3.1.6 Intervento di umanità


6. L’intervento di umanità è un intervento armato posto in essere da uno o più Stati nei confronti di uno Stato che viola
massicciamente i diritti umani, oggi è lecito solo se seguito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza (es. intervento Nato in
Kosovo).

3.2 ART. 10 E 11 COST.


→ Il divieto dell’uso della forza trova spazio negli artt. 10 e 11 della Costituzione italiana:
- l’art. 10 non vieta il ricorso alla forza armata ma dispone l’adattamento del diritto interno al diritto consuetudinario e cogente
e dunque ne consegue che nel nostro ordinamento sono vietate quelle azioni proibite dal diritto consuetudinario e cogente;
- l’art. 11 conta tre disposizioni: 1) il ripudio alla guerra, ma non qualsiasi guerra, vieta la guerra di aggressione (quella volta
ad offendere la libertà degli altri popoli e quella che consiste in un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali); 2)
consente limitazioni di sovranità necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni, le limitazioni furono stabilite
per consentire l’ammissione dell’Italia (paese ex nemico) alle Nazioni Unite, le limitazioni di sovranità sono consentite SOLO
in condizioni di parità con gli altri Stati; 3) l’impegno di favorire le organizzazioni internazionali volte a promuovere tale scopo,
cioè la pace e la giustizia tra le Nazioni, quindi non solo le Nazioni Unite ma anche organizzazioni regionali come l’UE (che
ha trovato un ancoraggio costituzionale nell’art.11).
4 IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA.
È un meccanismo (previsto e disciplinato dal capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite ed è intitolato “Azioni riguardanti le
minacce alla pace, le violazioni della pace e gli atti di aggressione”) facente capo al Consiglio di Sicurezza che ha competenza
esclusiva in materia di mantenimento della pace (gli altri organi delle Nazioni Unite non possono esercitare le funzioni del
Consiglio di sicurezza).
→ Il Consiglio di sicurezza può adottare misure sanzionatorie nei confronti degli Stati che violino il divieto quando constata
l’esistenza:
1) di una minaccia alla pace, per esempio può derivare dal pericolo di ostilità tra due Stati o da una situazione interna di uno
Stato;
2) di una violazione della pace, lo scoppio di ostilità tra due Stati ;
3) di un atto di aggressione, la sua definizione è contenuta nella risoluzione 3314 dell’Assemblea Generale, a questa
definizione seguono un elenco di atti che senz’altro costituiscono atti di aggressione, tuttavia l’Assemblea generale chiarisce
che questo elenco non è tassativo e che il Consiglio di sicurezza può in un dato caso ritenere che, anche se un atto rientra
nell’elenco, non è un atto di aggressione o viceversa può ritenere che un atto non ricompreso nell’elenco costituisca un atto
di aggressione. L’art. 1 della Definizione di Aggressione, della Risoluzione 3314 del 1974 possiamo vedere che tale articolo
recita: Aggressione è l’uso della forza armata da parte di uno Stato, contro la sovranità, l’integrità territoriale, l’indipendenza
politica di un altro Stato o in ogni altro modo incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite. Sta poi al Consiglio di Sicurezza
valutare, sulla base dell’art. 3 che elenca gli atti di aggressione e stabilisce che qualsiasi dei seguenti atti indipendentemente
da una dichiarazione di guerra può costituire un atto di aggressione, e troviamo: l’invasione del territorio di uno Stato da
parte di un altro Stato; il bombardamento del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato; il blocco dei porti, delle coste di
uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato; l’ipotesi di aggressione indiretta cioè l’ipotesi di invio da parte di uno
Stato non direttamente delle proprie forze armate che invadono il territorio di un altro Stato ma di mercenari, di gruppi armati,
i quali però compiano nel territorio di un altro Stato, azioni armate di una gravità tale da essere equiparati a quelli compiuti da
un esercito convenzionale, dalle forze armate statali.
n.b: I poteri di intervento (capitolo VII) spettano al Consiglio di sicurezza NON SOLO in caso di conflitto internazionale MA anche
in caso di guerra civile, qualora quest’ultima metta in pericolo la pace.
Il Consiglio di Sicurezza può esercitare tre operazioni in territorio altrui:
1. l’intervento armato da parte del Consiglio di sicurezza, che tuttavia non ha mai trovato attuazione, può consistere in una vera
e propria operazione militare mediante forze aeree, navali o terrestri;

4.1.1 operazioni di peace keeping


2. le operazioni di mantenimento della pace, le c.d. peace keeping, sono effettuate sotto la direzione del Segretario Generale
dietro delega del Consiglio di sicurezza, e possono essere esercitate se ricorrono i seguenti presupposti:
• può essere dispiegata su un territorio SOLO con il consenso dello Stato sul cui territorio la missione è dispiegata (si
distinguono perciò dalle azioni coercitive);
• I Peace-keepers devono essere imparziali, dunque non possono prendere le parti dell’una o dell’altra parte (nel caso
di conflitto o controversia);
• L’uso della forza SOLO in legittima difesa, dunque solo se attaccati (ad esempio, se viene attaccata la base).
➔ Dalle operazioni di Peace-keeping devono essere tenute distinte le operazioni di peace enforcement, che si caratterizzano
per l’uso della forza armata OLTRE i limiti della legittima difesa: il Consiglio di Sicurezza autorizza l’uso della forza armata
non solo in caso di attacco, ma anche per altri fini sempre in vista del mantenimento della pace (ad esempio, per disarmare
le diverse fazioni in lotta);

3. l’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, gli Stati non possono essere obbligati, talvolta si è trattato di operazioni
effettuate in sostituzione di operazioni di peace-keeping (dimostratesi inefficaci) o parallelamente ad azioni di peace-keeping.

4.2 ORGANIZZAZIONI REGIONALI.


Le organizzazioni regionali
L’art.52 della Carta delle Nazioni Unite salvaguarda le funzioni degli accordi o organizzazioni regionali nel campo del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Per poter qualificare una organizzazione come regionale è necessario
che, ai sensi del Capitolo VIII, rispetti i
seguenti requisiti: a)deve essere aperta solo agli Stati di una data regione geografica; b)avere competenze nel campo del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; c)essere conforme e svolgere attività conformi ai fini delle Nazioni
Unite. Le organizzazioni regionali possono: intervenire in soccorso di uno Stato membro senza autorizzazione del Consiglio di
sicurezza poiché si tratta di legittima difesa collettiva, effettuare operazioni di peace keeping, effettuare operazioni coercitive su
delega o su autorizzazione del Consiglio di sicurezza.
5 IL RICONOSCIMNTO.

5.1 RICONOSCIMENTO DI STATI.


Il riconoscimento è l’atto mediante il quale uno Stato preesistente constata la nascita del nuovo Stato e manifesta la volontà di
entrare in relazione con esso. Si tratta di un atto meramente politico che NON costituisce un requisito per la statualità, dunque il
riconoscimento da parte degli altri Stati NON ha natura costitutiva dello Stato, uno Stato esiste se soddisfa i requisiti della
Convenzione di Montevideo, il riconoscimento NON è un requisito ulteriore che deve essere soddisfatto. Oggi quella che
prevale è la c.d. Teoria dichiarativa del riconoscimento, in virtù della quale il riconoscimento equivale ad una constatazione
dell’esistenza del nuovo Stato e non è indispensabile ai fini della sua soggettività internazionale. Certo è che il riconoscimento
contribuisce a consolidare lo Stato, quando maggiore è il numero degli Stati riconoscenti tanto maggiore è la capacità dello Stato
di relazionarsi con gli altri soggetti della comunità internazionale e quindi di consolidarsi nel tempo. Si dice per questo che il
riconoscimento è l’atto di fondazione della vita sociale dello Stato.
Come può avvenire il riconoscimento? Può essere espresso o tacito (implicito).
Riconoscimento espresso: quando è formulato mediante una dichiarazione, un messaggio di congratulazioni o una lettera del
Capo di Stato, del Capo di governo, del ministro degli esteri dello Stato riconoscente.
Riconoscimento tacito: quando si desume da fatti concludenti come può essere l’immediata instaurazione di relazioni
diplomatiche. Se uno Stato preesistente instaura relazioni diplomatiche con uno Stato nuovo è evidente che lo riconosce come
ente statuale. Altra forma di riconoscimento implicito è la stipula di un trattato bilaterale o multilaterale, se uno Stato preesistente
stipula un trattato con lo Stato nuovo è evidente che ne riconosce la statualità.
Bisogna poi distinguere altre forme di riconoscimento:
Riconoscimento de iure o pieno: quando lo Stato preesistente non nutre nessuna riserva sulla stabilità della situazione del
nuovo Stato e manifesta la volontà di stabilire relazioni con il nuovo Stato al massimo livello (per es. attraverso lo scambio di
ambasciatori).
Riconoscimento de facto: quando lo Stato preesistente constata la nascita del nuovo Stato, MA nutre riserve circa la stabilità
della situazione che si è venuta a creare e quindi manifesta la volontà di instaurare relazioni con questo nuovo Stato ma ad un
livello limitato (per es. mediante semplice scambio di incaricati d’affari, ossia i diplomatici).
Riconoscimento prematuro: il riconoscimento può essere prematuro, quando proviene da uno Stato prima che l’ente che si
riconosce abbia effettivamente acquisito tutti i requisiti della statualità.
Quindi il riconoscimento prematuro è un riconoscimento formulato nei confronti di un ente che ancora non può dirsi Stato. Il
riconoscimento prematuro rappresenta un’indebita ingerenza da parte dello Stato riconoscente nei confronti del nuovo Stato.
Quindi può essere per questo considerato una forma d’intervento vietata dal diritto internazionale e dunque un illecito
internazionale.
➔ Esempio: la Bosnia-Erzegovina da parte di molti Stati (tra cui gli stati europei), questo riconoscimento arrivò quando il
Governo della Bosnia-Erzegovina non aveva il pieno controllo del territorio e anzi sul territorio della Bosnia-Erzegovina
infuriavano le battaglie tra bosniaci musulmani e serbo-bosniaci.
➔ Esempio: il riconoscimento del Kosovo; fu riconosciuto da numerosi Stati, oggi sono oltre un centinaio,
nell’immediatezza della proclamazione dell’indipendenza fu riconosciuto da Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Italia,
Germania. Fu considerato prematuro perché in realtà si diceva che non vi fosse un’organizzazione statale,
un’organizzazione di governo effettiva sul territorio. Il Kosovo era una provincia della Serbia a maggioranza albanese,
questa aveva sempre goduto di uno status di autonomia (perché la popolazione era in maggioranza di etnia albanese)
all’interno della Serbia che faceva parte della Jugoslavia. Alla fine degli anni ’80 questo statuto di autonomia fu revocato.
La situazione peggiora, si sviluppa un movimento indipendentista il movimento dell’UCK e dopo la fine della guerra nella
ex Jugoslavia, il Kosovo è provincia della Serbia che a sua volta compone la Repubblica Federale di Jugoslavia ed inizia
una repressione con una conseguente violazione massiccia dei diritti umani nei confronti degli albanesi del Kosovo,
perché ritenuti sostenitori del movimento indipendentista, quindi ci sono deportazioni, massacri, incendi di villaggi da
parte delle forze militari serbe. Quindi la comunità internazionale si allarma e si svolge a Rambouillet in Francia una
conferenza internazionale con l’obiettivo di trovare una soluzione della questione kosovare. Vengono redatti degli
accordi, la componente kosovara firma, invece il Governo federale si rifiuta di firmare questi accordi. A questo punto c’è
un ultimatum da parte del Segretario generale della NATO, il quale minaccia un intervento armato da parte degli stati
membri della NATO se la repressione e le violenze massicce non cesseranno. Questo ultimatum rimane inascoltato e
allora gli Stati membri della NATO, alcuni ma un numero consistente tra cui l’Italia, danno inizio ad un intervento armato,
un intervento aereo, in una campagna di bombardamenti contro obiettivi in massima parte serbi o comunque della
Repubblica Federale di Jugoslavia quindi obiettivi governativi, allo scopo di indurre il Governo di Belgrado a ritirare le
forze militari e para-militari al Kosovo e porre fine a questi atti di violenza indiscriminata. Questo intervento armato non è
autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a causa dell’opposizione della Federazione Russa e della
Repubblica Popolare Cinese che essendo membri permanenti hanno il potere di veto, quindi ciò impedisce l’adozione di
una risoluzione autorizzativa. L’intervento armato dura circa 3 mesi, alla fine quello che era il presidente della Repubblica
Federale di Jugoslavia Slobodan Milošević è costretto ad accettare le condizioni imposti dagli stati membri del G8 (tra cui
c’è l’Italia) cioè il G7 più la Russia sostanzialmente. Queste prevedono il ritiro di tutte le forze militari e paramilitari serbe
dal territorio del Kosovo, la creazione di una forza internazionale a guida NATO che garantisca la sicurezza del territorio
e verifichi l’effettivo ritiro delle forze militari e paramilitari serbe, ma verifichi anche il disarmo dell’UCK (cioè il movimento
indipendentista), e la creazione di una amministrazione del territorio guidata dalle Nazioni Unite, l’UNMIK (United Nations
Interim Administration Mission in Kosovo). Le organizzazioni internazionali non hanno il controllo del territorio, però in
certi casi hanno esercitato funzioni di amministrazione di un territorio, e questo appunto è il caso delle Nazioni Unite in
Kosovo. Quindi di fatto l’amministrazione del Kosovo viene sottratta al Governo federale jugoslavo e assegnata alle
Nazioni Unite che vi inviano il proprio staff. Questa situazione va avanti fino al 17 febbraio 2008 il Kosovo proclama
l’indipendenza e viene immediatamente riconosciuto da numerosi stati occidentali, ma non viene riconosciuto da altri
stati, l’UE si spacca, la Spagna, la Grecia, la Slovacchia, la Romania, Cipro non riconoscono il Kosovo, questo
principalmente per motivi interni dal momento che all’interno devono affrontare questioni o enti indipendentisti temono
che possa costituire un precedente. Il caso del Kosovo viene considerato dagli Stati che lo riconoscono come un
caso sui generis perché di fatto l’indipendenza è stata resa possibile sia pure indirettamente dall’intervento armato della
NATO che ha sottratto l’amministrazione di quel territorio alla Repubblica Federale di Jugoslavia. Naturalmente la Russia
e la Cina non riconoscono il Kosovo. Questa è la situazione attuale, da alcuni il riconoscimento del Kosovo viene
considerato prematuro perché di fatto non c’era un governo effettivo ma piuttosto l’amministrazione delle Nazioni Unite.
L’amministrazione delle Nazioni Unite, così come la presenza militare internazionale a guida NATO erano state previste
dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 del 1999, poiché il Consiglio di Sicurezza non ha revocato il contenuto
della risoluzione 1244 quindi non ha disposto la chiusura dell’UNMIK e la cessazione del funzionamento di questa forza
internazionale che prende il nome di KFOR (Kosovo Force), queste continuano ad esistere tutt’ora. Naturalmente i
compiti nell’UNMIK si sono andati via via restringendo man mano che negli anni si è consolidata un’organizzazione di
governo kosovara, tutt’ora la Serbia non riconosce il Kosovo ma sono stati avviati una serie di colloqui, negoziati, ad alto
livello attraverso la mediazione dell’UE e in modo particolare dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza, in passato Lady Ashton oggi Federica Mogherini, nell’ambito di questi negoziati sono stati conclusi
alcuni accordi fondamentali tipo un accordo sul riconoscimento delle patenti di guida, un accordo sullo scambio dei
registri catastali e dei registri anagrafici, una serie di accordi fondamentali per la vita delle persone. Intanto il Kosovo è
stato ammesso come membro al Fondo Monetario Internazionale, e alla Banca Internazionale per la ricostruzione e lo
sviluppo la c.d. Banca Mondiale, e quindi può beneficiare dei prestiti erogati dalla banca mondiale. Non è divenuto
membro delle Nazioni Unite, l’ammissione alle Nazioni Unite è decisa dall’Assemblea Generale su proposta del
Consiglio di Sicurezza, se quest’ultimo non raccomanda l’ammissione di uno Stato l’Assemblea Generale non può
pronunciarsi, sull’ammissione del Kosovo il Consiglio di Sicurezza è diviso, la Federazione Russa e la Repubblica
Popolare Cinese sono nettamente opposti e questo impedisce l’ammissione del Kosovo alle Nazioni Unite.

Riconoscimento individuale: è quello che proviene da un solo Stato.


Riconoscimento collettivo: è quello che è effettuato da più Stati insieme.

Il riconoscimento può essere sottoposto a condizioni, a tale proposito dobbiamo menzionare le due Dichiarazioni di Bruxelles
del 16 dicembre 1991:
In questa prima dichiarazione di Bruxelles vengono stabilite una serie di condizioni che i nuovi Stati sorti dal crollo dell’Unione
Sovietica, devono soddisfare per essere riconosciuti dagli Stati membri delle Comunità Europee: a)il rispetto dei principi della
Carta delle Nazioni Unite; b)il rispetto delle disposizioni degli impegni assunti nell’Atto finale di Helsinki o Atto finale della
Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, la c.d. OSCE del 1975, gli impegni riguardavano il rispetto della
democrazia, dello stato di diritto, il rispetto del principio di legalità, il rispetto dei diritti umani. L’altra dichiarazione di Bruxelles,
riguarda la Jugoslavia, gli Stati membri della CEE stabiliscono che gli Stati sorti dalla ex Jugoslavia che desiderino essere
riconosciuti devono presentare domanda entro il 23 dicembre 1991. Questa domanda viene presentata effettivamente dalla
Slovenia, dalla Croazia, dalla Macedonia e dalla Bosnia-Erzegovina. Succede soltanto Slovenia, Croazia, e Bosnia-Erzegovina
vengono riconosciute nei mesi immediatamente successivi, la Macedonia non viene riconosciuta a causa dell’opposizione della
Grecia (la Grecia ha suo interno ha una regione che prende il nome di Macedonia e che confina in realtà con il nuovo stato di
Macedonia ex repubblica jugoslava, quindi teme che l’ex repubblica jugoslava di Macedonia possa avanzare delle pretese
territoriali e questo nonostante le autorità macedoni dichiarino in ogni modo nella maniera più esplicita che non hanno alcuna
pretesa territoriale sulla Grecia), alla fine nel 1993 la Macedonia viene ammessa alle Nazioni Unite con il nome provvisorio di Ex
Repubblica Jugoslava di Macedonia, solo nel 1995 la Grecia riconosce la Macedonia e l’uso del nome provvisorio.
Recentemente, nei mesi passati, è stato raggiunto un accordo tra le autorità greche e le autorità macedoni riguardo al nome
definitivo di questo Stato che è: Macedonia del Nord.
5.2 RICONOSCIMENTO DI UN GOVERNO.
Il riconoscimento di nuovo governo si ha nel caso in cui questo è il risultato di una rivoluzione o di un colpo di stato. Non vi è il
riconoscimento di governo nel caso di avvicendamento da un governo ad un altro in seguito ad elezioni (ad esempio in Italia non
vi è stato alcun riconoscimento del governo Conte da parte degli altri Paesi della comunità internazionale, poiché si è trattato di
un avvicendamento ordinario dal precedente al nuovo governo in seguito a elezioni svoltasi regolarmente). Il riconoscimento di un
governo si ha SOLO in caso di sovvertimento dell’ordine costituzionale precedente, non in caso di normale avvicendamento di
governi nell’ambito dell’ordinamento costituzionale esistente in un Paese. Con il riconoscimento gli Stati prendono atto del nuovo
assetto costituzionale e manifestano la volontà di mantenere con il nuovo governo le stesse relazioni che avevano col governo
precedente.
Diverse sono le motivazioni per cui gli Stati possono negare il riconoscimento ad un nuovo governo, uno Stato può negare il
riconoscimento di un nuovo governo: a)Se questo non è democratico; b)Se si è affermato con la violazione massiccia dei diritti
umani; c)Se promuove un regime razzista.

Così come il riconoscimento di Stati anche il riconoscimento di governi è un atto politico, dunque un atto pienamente
discrezionale. Alcuni Paesi, come la Gran Bretagna e la Francia, seguono la prassi di non riconoscere nuovi governi ma solo di
riconoscere Stati, per evitare di essere accusati dall’opinione pubblica o dalla comunità nazionale di aver approvato, tramite il
riconoscimento, politiche antidemocratiche o che violano i diritti umani poste in essere dal governo riconosciuto, alcuni paesi non
effettuano il riconoscimento di governi.
Esempio: Recentemente si è discusso in Italia del riconoscimento del governo venezuelano del neo presidente Juan Guaidò,
oppositore politico di Maduro (presidente precedente). In Italia inizialmente il governo si è espresso contro il riconoscimento del
nuovo governo; in seguito si è registrata un’apertura a favore del governo Guidò a condizione che vengano indette nuove
elezioni: da un lato Maduro è stato eletto Presidente con elezioni non riconosciute come pienamente democratiche; dall’altro
Juan Guaidò non è stato eletto presidente del Venezuela con delle elezioni, si è autoproclamato presidente. Maduro ha oggi il
supporto dell’esercito, altrimenti non sarebbe ancora al potere: l’esercito infatti ha beneficiato dell’azione politica di Maduro.

5.3 RICONOSCIMENTO DEGLI INSORTI.


Il riconoscimento dei movimenti insurrezionali è anch’esso un atto meramente politico, attraverso il quale lo Stato riconoscente
esprime la volontà di non trattare gli insorti come meri criminali, e di intrattenere con essi relazioni con lo scopo di garantire
protezione ai propri sudditi stanziati nel territorio controllato dagli insorti o può anche avere come obiettivo quello di prendere le
distanze dal governo costituito che ad esempio si è macchiato di gravi violazioni, sottolineando così la vicinanza agli insorti.
Trattandosi di un atto di natura politica, il riconoscimento NON ha valore costitutivo della personalità giuridica degli insorti.
→ Un riconoscimento prematuro, secondo una parte della dottrina costituisce un illecito internazionale nei confronti del governo
legittimo.

5.4 RICONOSCIMENTO DI BELLIGERANZA.


È l’atto con cui un conflitto interno viene equiparato ad un conflitto internazionale, con la conseguenza dell’applicazione al
conflitto delle norme relative al conflitto armato internazionale.
→ Il conflitto internazionale è quello che vede contrapposti due o più Stati; il conflitto interno è invece un conflitto che vede
contrapposti uno o più movimenti insurrezionali contro il governo costituito oppure, se il governo è caduto, più movimenti
insurrezionali che combattono tra loro per acquisire il potere.
Il riconoscimento di belligeranza può provenire:
- dal governo costituito, raramente il governo costituito opera un riconoscimento di belligeranza, in quanto si troverebbe ad
applicare al proprio conflitto con gli insorti le norme sui conflitti armati internazionali, le quali sono molto più numerose e
pongono più limiti rispetto a quelle relative ai conflitti armati interni (es: nei conflitti armati interni, il governo costituito può
arrestare gli insorti e sottoporli a processo secondo le proprie norme interne purché rispetti i diritti umani; nei conflitti armati
internazionali gli insorti acquistano lo status di rifugiato, che pone una serie di vincoli superiori allo Stato).
- Dagli Stati terzi, che si obbligano a rispettare, nei rapporti sia con gli insorti che con il governo costituito, le norme relative al
diritto della neutralità.
Il riconoscimento di belligeranza è un atto meramente giuridico e NON un atto politico, in quanto comporta delle conseguenze
giuridiche, cioè l’applicazione di un corpus di norme differente: non più le norme dei conflitti armati interni MA le norme relative ai
conflitti armati internazionali, non più le norme relative al tempo di pace MA le norme del diritto delle neutralità.
5.5 RICONOSCIMENTO DI MOVIMENTI DI LIBERAZIONE NAZIONALE
Si tratta di un atto di natura politica con cui si riconosce il movimento quale ente che rappresenta il popolo in lotta per
l’autodeterminazione, diventa rilevante soprattutto quando vi sono più movimenti di liberazione nazionale che aspirano a
rappresentare un popolo. Può essere effettuato sia da Stati che da organizzazioni internazionali, ed è importante perché
eseguendolo riconoscono quale movimento è l’ente che ha diritto a rappresentare il popolo in lotta per l’autodeterminazione, e
che dunque ha diritto a partecipare ad una conferenza internazionale anche senza diritto di voto o che deve essere preso in
considerazione ai fini della futura indipendenza del territorio.

5.6 RICONOSCIMENTO DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE


Il riconoscimento, oltre che gli enti, può riguardare anche le situazioni giuridiche: cioè si riconosce una situazione come conforme
al diritto. Sono per esempio le annessioni territoriali e l’estensione della sovranità dello Stato costiero sulle aree marine adiacenti
alle sue coste (es. baie storiche).
→ È un atto giuridico e non può essere successivamente revocato e dunque non riconoscere più quella situazione come
conforme a diritto.

5.7 IL DISCONOSCIMENTO E LE POLITICHE DI NON RICONOSCIMENTO


Il disconoscimento è la condotta tenuta da uno Stato nei confronti di un ente che non si vuole riconoscere oppure che non si
vuole più riconoscere, e quindi nel ritiro del precedente riconoscimento.
→ Il disconoscimento può riguardare anche i governi.
Le politiche di non riconoscimento sono seguite dagli Stati nei confronti di altri enti internazionali o situazioni giuridiche:
- volontariamente, dunque equivale al disconoscimento (es. nella dichiarazione di Bruxelles gli Stati membri della CE
stabilirono che non avrebbero riconosciuto entità frutto di aggressioni);
- sotto sollecitazione di un terzo, quindi sotto pressione di uno Stato terzo, per esempio quando vuole tenere isolato un
soggetto di diritto internazionale dal resto della comunità internazionale (es. RFT nei confronti della RDT;
- in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, qualora la risoluzione abbia natura obbligatoria
gli Stati hanno il dovere di adottare la politica di non riconoscimento (non riconoscimento collettivo).
6 IL TERRITORIO DELLO STATO.
Il territorio è uno degli elementi costitutivi dello Stato riportato dalla Convenzione di Montevideo. Una norma fondamentale del
diritto internazionale riguarda la sovranità territoriale: si tratta di una norma di diritto generale, quindi, consuetudinario che
vincola tutti gli Stati della comunità internazionale, che si è affermata dopo il crollo del Sacro Romano Impero. Durante l’epoca
delle monarchie assolute il territorio veniva concepito come una proprietà del sovrano, il sovrano aveva un diritto di proprietà sul
territorio dal quale discendeva il potere di governare i cittadini (questi erano una sorta di pertinenza del territorio); con l’avvento
dell’epoca contemporanea, la concezione privatistica del territorio viene meno.
→ Il territorio, oggi, può essere definito come l’ambito entro il quale lo Stato esercita la propria sovranità o il proprio imperium
(cioè la potestà di governo).
Come esercita tale potestà di governo? Ciascuno Stato esercita in maniera esclusiva il proprio potere di governo sulla propria
comunità territoriale.
n.b: Non bisogna confondere l’imperium con il dominium perché sono due concetto distinti: il dominium ha natura privatistica
cioè l’esercizio di diritti reali, si parla di dominium in relazione a quegli immobili che uno Stato o cittadini di uno Stato acquistano
nel territorio di un altro Stato, SENZA però acquisire anche la sovranità sulla porzione di territorio dove è situato l’immobile ma
soltanto diritti reali sull’immobile.
! Lo Stato esercita in maniera esclusiva e libera la propria sovranità sulla propria comunità territoriale, di conseguenza ogni
attività che si svolge nel territorio dello Stato senza il consenso del governo di quello Stato è illecita.
→ Perciò, ogni Stato ha da un lato il diritto di esercitare in maniera libera ed esclusiva il proprio governo sul proprio territorio,
dall’altro l’obbligo di astenersi dall’esercitare potere di governo o poteri coercitivi sul territorio degli altri Stati.

Da cosa è composto il territorio? Il territorio comprende:


a) il territorio in senso stretto cioè la terra;
b) il mare territoriale;
c) lo spazio aereo sovrastante il territorio e il mare territoriale.
Al di là del mare territoriale sono presenti altre zone marine: zona contigua, zona archeologica, zona economica esclusiva (ZEE),
piattaforma continentale e alto mare MA i poteri che lo Stato esercita su queste diverse aree marine differiscono da quelli
esercitati nel mare territoriale, il quale appartiene alla sovranità territoriale piena ed esclusiva dello Stato.

Lo Stato è anche libero di regolare i rapporti che si svolgono all’interno di questa comunità territoriale, quindi, libero di sottoporre
ad una propria normativa tutti i rapporti giuridici che vengono a formarsi all’interno della propria comunità territoriale.
Ci sono però dei limiti a questa libertà: i) il trattamento dello straniero, uno Stato comunque trova dei limiti alla sua autonomia di
disciplinare la posizione dello straniero che è cittadino di un altro Stato; ii) tutela dei diritti umani.

6.1 IL DOMINIO RISERVATO.


Al di là di questi limiti c’è un ambito di materie all’interno del quale lo Stato NON può subire nessuna ingerenza ed è pienamente
libero di regolare come meglio crede: il Dominio Riservato (domestic jurisdiction).
Cos’è il dominio riservato? Il dominio riservato è l’insieme di quelle materie che il diritto internazionale lascia gli Stati liberi di
regolare come meglio credono.
→ Nella Carta dei diritti e dei doveri degli Stati viene sancito tale principio. Pertanto, ogni Stato è libero di scegliere il proprio
sistema di governo, il proprio sistema sociale, economico e politico.
Es: la scelta della forma di Stato o di governo, spetta unicamente al singolo Stato scegliere repubblica piuttosto che
monarchia o repubblica presidenziale piuttosto che parlamentare. Il diritto internazionale NON può intervenire in questa scelta
che è rimessa allo Stato; lo sfruttamento delle risorse naturali di uno Stato, la Carta dei diritti e dei doveri degli Stati sancisce
la piena sovranità dello Stato nello sfruttamento delle sue risorse naturali.
Vi è un insieme di materie che il diritto internazionale tutela dall’ingerenza delle Nazioni Unite, che non possono occuparsi di
queste materie, tali materie infatti sono lasciate all’autonomia degli Stati (art.2). Ci sono due teorie attraverso le quali è possibile
individuare le materie del dominio riservato nelle quali le Nazioni Unite non possono intervenire:
- Teoria giuridica del dominio riservato: elaborata dalla Corte permanente di giustizia internazionale (precursore dell’attuale
Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite), secondo questa teoria sono oggetto del dominio riservato dello Stato
tutte le materie che NON sono disciplinate dal diritto internazionale (principio sancito nel parere sui decreti di nazionalità di
Marocco e Tunisia: la Francia aveva due protettorati cioè il Marocco e la Tunisia, ad un certo punto la Francia adotta un
decreto con cui decide di estendere la cittadinanza francese a tutti coloro che nascono in territorio tunisino-marocchino,
nonostante la Francia in precedenza aveva stipulato un trattato con il Regno Unito con il quale si impegnava a non
estendere la sua cittadinanza francese a residenti stranieri di nazionalità britannica e con il decreto adottato in riferimento
alla Tunisia e al Marocco, la cittadinanza doveva essere estesa anche a cittadini britannici nati in Tunisia e Marocco; di
conseguenza, il Regno Unito protesta e viene chiesto il parere alla Corte che sancisce che la materia NON è oggetto di
dominio riservato perché era disciplinata da un documento di diritto internazionale, il trattato).
- Teoria che ha una portata maggiormente restrittiva: secondo questa teoria NON fanno parte del dominio riservato dello
Stato le materie disciplinate dal diritto internazionale e tutte le materie di cui le Nazioni Unite si siano occupate e non
necessariamente che siano state oggetto di atti giuridici, quindi, anche quelle materie che sono state trattate dell’Assemblea
Generale in risoluzioni prive di efficacia vincolante o in documenti di soft law (es. la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo non è un trattato ma una dichiarazione e pertanto non vincolante).
→ Vi sono due eccezioni in cui nonostante la materia appartenga al dominio riservato dello Stato, le Nazioni Unite possono
intervenire:
1) Esistenza/sussistenza del consenso dall’avente diritto e cioè dello Stato, lo Stato presta il suo consenso affinché le Nazioni
Unite intervengano in una materia che appartiene al suo dominio riservato;
2) Ipotesi in cui il Consiglio di Sicurezza accerta una minaccia/violazione/atto di aggressione e ai sensi dell’art 39 della Carta
delle Nazioni Unite quando sussiste una delle tre ipotesi il Consiglio di sicurezza può adottare delle misure coercitive che
possono implicare o non implicare l’uso della forza. Dunque, in questi casi anche se la questione riguarda una materia che
appartiene al dominio riservato degli Stati, SE vi è una risoluzione del Consiglio di sicurezza adottata ai sensi del capitolo VII
della Carta, l’ingerenza delle Nazioni Unite è lecita.

6.2 MODI DI ACQUISTO DELLA SOVRANITÀ.


Si distinguono in modi di acquisto a titolo originario (appropriazione di un territorio nullius e la conquista) e modi di acquisto
a titolo derivato (la cessione).

6.2.1 Appropriazione di un territorio nullius:


Un territorio nullius è un territorio che non appartiene a nessuno Stato. Per l’appropriazione di un territorio nullius sono necessari
due elementi:
- l’occupatio cioè l’occupazione fisica del territorio;
- animus possidendi cioè la volontà di annetterlo e governarlo, volontà che deve essere espressa esplicitamente in una
dichiarazione o in maniera implicita attraverso comportamenti concludenti.
Oggi non esistono più territori nullius. Esistono dei territori che non sono sottoposti all’appropriazione di nessuno Stato, come il
patrimonio comune dell’umanità (cioè il suolo, il sottosuolo marino al di là della giurisdizione degli Stati), i territori destinati ad un
popolo in lotta per la sua autodeterminazione perché se uno Stato occupa il territorio destinato ad un popolo in lotta per la sua
autodeterminazione, quell’occupazione non fa sorgere il diritto di sovranità dello Stato occupante su quel territorio in virtù del
principio di autodeterminazione dei popoli.

6.2.2 Conquista:
La conquista è un modo di acquisto della sovranità NON più lecito: conquistare un territorio è contrario ad una norma cardine di
tutto il diritto internazionale cioè una norma cogente, inderogabile cioè il divieto di aggressione sancito nella Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli adottata con risoluzione dall’Assemblea Generale e costituisce nucleo duro del principio del divieto all’uso
della forza di cui all’art.2 par 4 della Carta.
→ La conquista di un territorio è illecita, dunque se viene comunque portata a termine è priva di effetti giuridici, è NULLA (es. la
risoluzione con cui il Consiglio di sicurezza dichiarò nulla e mai avvenuta l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq), se
l’intervento armato è autorizzato dal Consiglio di sicurezza, è comunque lecito l’uso della forza, MA non fa sorgere il diritto dello
Stato, che occupa militarmente il territorio di un altro Stato, di esercitare la sua sovranità su quello Stato, di annettere quello
Stato.
Cos’è la Debellatio? La debellatio è la completa distruzione delle forze militari dello Stato nemico. La debellatio può implicare il
diritto di annettere il territorio dello Stato sconfitto.

6.2.3 Cessione:
La cessione è l’unico modo utilizzato di acquisto della sovranità a titolo derivato: si ha quando uno Stato cede volontariamente
una parte del suo territorio e implica il consenso o comunque l’acquiescenza dello Stato che cede questa parte del suo territorio.
Può avvenire tramite una semplice vendita, quindi territorio in cambio di denaro; o tramite trattato.
→ SE uno Stato occupa il territorio di un altro Stato in maniera illecita, la protesta dello Stato occupato, impedisce il sorgere
del diritto di sovranità in capo all’occupante, perché si dice che il titolo giuridico prevale sulla situazione di fatto. Anche
durante l’occupazione bellica, cioè quando il conflitto è ancora in corso, l’occupazione militare non implica l’annessione del
territorio e l’acquisizione della sovranità su quella parte di territorio (questo è stato precisato in un importante parere da
parte della Corte internazionale di giustizia, che è il parere sul muro in Palestina, la Corteha dichiarato nulle le annessioni
fatte da Israele sui territori di Gerusalemme est, Israele governa e amministra comunque a titolo di occupante, quindi non a
titolo di sovrano territoriale).
6.3 AMMINISTRAZIONE DEI TERRITORI.
Esistono dei territori che possono essere amministrati in tutto o in parte da uno Stato o da un’organizzazione internazionale,
senza che questo eserciti la sua sovranità: si parla di amministrazione. Distinguiamo i mandati e le amministrazioni fiduciarie
che oggi non esistono più, perché il processo di decolonizzazione si è completato e tutti gli Stati sono indipendenti, però, ancora
oggi, esistono dei territori sottoposti all’amministrazione di organizzazioni internazionali, un esempio è l’UNMIK, la missione delle
Nazioni unite in Kosovo che ancora oggi è attiva.

6.3.1 Mandati:
Vennero costituiti durante l’epoca della Società delle Nazioni. Si trattava di territori che venivano amministrati da una potenza
amministratrice nell’interesse delle popolazioni che vivevano su quei territori. Si distinguevano i mandati di tipo A, B e C; i
mandati di tipo A vennero trasformati in protettorati, i mandati di tipo B e di tipo C vennero invece trasformati nelle c.d.
amministrazioni fiduciarie con l’avvento delle Nazioni Unite.
Cosa avviene su questi territori? Vi è uno Stato e l’amministratore il c.d. Trustee, amministra questi territori nell’interesse delle
popolazioni ed al fine di facilitare il processo di indipendenza di questi territori, sulla base di un accordo, un trust, con le Nazioni
Unite.

6.3.2 Amministrazioni fiduciarie:


Nella sostanza cambia poco con i mandati perché vi è sempre uno Stato che disciplina un territorio nell’interesse della
popolazione di quel territorio. Soltanto che nelle amministrazioni fiduciarie, questa amministrazione è regolata insieme alle
Nazioni Unite, è sorvegliata da parte del Consiglio di amministrazione fiduciaria.
Vi sono anche dei territori molto esigui, molto piccoli geograficamente che appartengono ad uno Stato ma sono amministrati da
un altro Stato come il Guantanamo, che si trova a Cuba, ed è occupata dagli Stati Uniti d’America. Anche durante il conflitto
bellico, quindi durante l’occupatio bellica, bisogna amministrare i territori. Il territorio occupato è amministrato dai vertici militari
dello Stato occupante (es. Trieste e i dintorni occidentali vennero sottoposti ad occupatio bellica degli Stati Uniti e del Regno
Unito. Nel ’54 si ha la stipulazione del memorandum di Londra con cui questi territori vengono divisi in due parti: la parte A viene
affidata all’amministrazione italiana, quindi non più USA e UK; la parte orientale resta alla Jugoslavia. Sarà soltanto con il trattato
di Osimo del 1975 che la zona B verrà ceduta dall’Italia alla Jugoslavia. L’Italia perderà la sua sovranità e anche
l’amministrazione di questo territorio).

6.4 LA FRONTIERA.
La frontiera o il confine è la linea che delimita la comunità territoriale, cioè è la linea che delimita il territorio nella quale lo Stato
esercita la sua sovranità territoriale. Vi sono due modi per tracciare le frontiere: la delimitazione e la demarcazione.
La delimitazione implica l’utilizzo di coordinate geografiche per segnare dei punti sui territori degli altri Stati. Generalmente
questi punti vengono stabiliti mediante trattato, un trattato bilaterale tra gli Stati.
La demarcazione, invece, consiste nell’apposizione materiale di oggetti, generalmente cippi o reti, sul territorio.
La delimitazione di regola è un atto bilaterale tra i due Stati confinanti che si concretizza nella stipulazione di un accordo
internazionale. La delimitazione può avere luogo ad opera di un tribunale internazionale in caso di controversia tra i due Stati ma
anche in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Le principali norme sulle frontiere:


- L’uti possidetis, è una norma consuetudinaria nata come regionale in America Latina, ma che si è poi affermata come
generale. Secondo l’uti possidetis, i confini dei nuovi Stati, cioè degli Stati di nuova indipendenza, corrispondevano alle
delimitazioni delle vecchie circoscrizioni coloniali.
L’America latina era una colonia di Spagna e Portogallo, che avevano suddiviso il territorio in circoscrizioni amministrative per
amministrarlo. Con la decolonizzazione e quindi, l’indipendenza di nuovi Stati, era necessario stabilire i confini di questi nuovi
Stati divenuti indipendenti. Allora, si è deciso di applicare questo principio, questa norma, secondo cui i confini delle circoscrizioni
amministrative stabilite da Spagna e Portogallo all’epoca coloniale, diventavano automaticamente i confini dei nuovi Stati che si
erano appena formati.
L’uti possidetis come si afferma come norma a carattere generale, se nasce a carattere regionale? Perché ha trovato
applicazione anche in Africa e poi in Europa, quindi poi in tutto il mondo. Ecco perché si è affermata a carattere generale. Anche
l’Africa era una terra di colonie, ma i colonizzatori avevano stabilito i confini delle loro circoscrizioni in maniera arbitraria, senza
tener conto delle popolazioni che le abitavano, delle diverse etnie, delle esigenze di queste popolazioni. Così, con la
decolonizzazione, si decise di applicare in maniera generalizzata l’uti possidetis anche in Africa.
Anche dopo lo smembramento della Jugoslavia venne applicata la norma dell’uti possidetis, perciò, i confini delle circoscrizioni
delle province della Jugoslavia, quando era stato federale della Jugoslavia, divennero i confini dei nuovi Stati (Montenegro,
Bosnia-Erzegovina, Serbia, Croazia, Macedonia e Slovenia).
N.B: L’uti possidetis è una norma a carattere generale e come tutte le norme a carattere generale possono essere derogate
mediante trattati. Quindi, può benissimo accadere che due Stati stipulino un trattato e decidano di non applicare questa norma,
ma di applicare un rimedio diverso. Diciamo che tutte le norme sulle frontiere, che sia frontiera di terra, frontiera marittima ecc,
generalmente sono derogate mediante trattato.
- La regola del Thalweg che si applica in relazione ai fiumi che stanno tra due Stati e quindi dobbiamo delimitarli e capire
quale parte di acqua appartiene ad uno Stato e quale parte di acqua di questo fiume appartiene ad un altro Stato. SE è
navigabile si individua come linea quella mediana del canale navigabile (si prende il canale navigabile e si calcola questa
mediana all’interno di questo canale) SE non è navigabile la linea semplicemente mediana, calcolata in base alla distanza da
una riva all’altra (si calcola la distanza da una riva all’altra, si fa la metà e viene calcolata la linea mediana al centro).
- Anche per quanto riguarda i laghi si utilizza il criterio della linea mediana: di un lago viene tracciata la linea ai punti di confine
dei due Stati sulla costa, se vi sono più Stati, la linea mediana viene congiunta con i confini di tutti gli stati frontisti.
- Per le montagne vige il criterio dello spartiacque oppure si congiungono le vette più alte delle montagne (c’è una catena
montuosa vengono individuate le vette più alte, poi vengono posti dei punti sulle vette più alte e si congiungono questi punti).
- Per il mare territoriale invece ogni Stato ha un limite esterno fissato a 12 miglia marine dalla linea di base, tuttavia, può
capitare che vi siano degli stretti dove abbiamo due Stati frontisti e la quantità di acque fra i due Stati non giunge a 24 miglia
marine (cioè 12+12 che è il limite del mare), perciò, anche qui si calcola la linea mediana (quindi, se c’è una quantità di
acque di 10 miglia marine che separano lo stato a dallo stato b, la linea mediana sarà 5, quindi, il mare territoriale di ogni
stato si estenderà fino a 5 miglia marine).
- Anche per la piattaforma continentale si utilizzava, in precedenza, il criterio della linea mediana, oggi viene utilizzato un
criterio basato sull’equità stabilito dalla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare: bisogna tener conto della
conformazione geografica della piattaforma degli Stati, le esigenze degli Stati, la sfruttabilità di quella piattaforma. Questo
criterio dell’equità deve essere applicato anche quando la demarcazione, la divisione della piattaforma continentale viene
rimandata ad una corte o tribunale.

6.5 MODIFICAZIONI DEL TERRITORIO.


Smembramento: quando sul territorio dello Stato preesistente si vengono a formare nuovi Stati (es. Repubblica Federale
Socialista di Jugoslavia, la Serbia e il Montenegro inizialmente costituirono un nuovo Stato cioè la Repubblica Federale di
Jugoslavia -senza sociale- dopo diventeranno Serbia-Montenegro e alla fine nel 2006 il Montenegro proclamerà la sua
indipendenza, fino a divenire 6 Stati sovrani e indipendenti da repubbliche federate, nel 2008 la Serbia subisce un’ulteriore
decurtazione nel territorio, il Kosovo si proclama infatti indipendente).
Cessione: quando lo Stato preesistente cede la porzione del suo territorio ad un altro Stato.
Secessione: quando vi è la costituzione di uno Stato indipendente su una parte di territorio di uno Stato preesistente, è il modo
più frequente di modificazione del territorio (es. il Montenegro dalla Serbia-Montenegro che costituivano un unico Stato; un’ipotesi
di secessione è anche quella del Kosovo, che era una provincia della Serbia).
Fusione: quando due Stati preesistenti si uniscono dando vita ad un unico e nuovo Stato (es. Tanzania è nata dalla fusione del
Tanganica e Zanzibar).
Incorporazione: uno Stato preesistente estende la sua sovranità sul territorio che appartiene ad un altro Stato che si estingue
(es. i territori della repubblica democratica tedesca vennero incorporati alla Germania dell’ovest, la repubblica federale tedesca).
Quando si verificano tutti questi fenomeni vige il Principio della stabilità delle frontiere: cioè le frontiere rimangono intatte. SE
la frontiera è stata stabilita mediante trattato, siccome il trattato sulle frontiere esaurisce i suoi effetti non appena viene applicato,
NON si ha la successione del trattato.
Allora, se la frontiera, che deve rimanere stabile secondo la regola generale, è stata stabilita mediante trattato, siccome tutti i
trattati sulle frontiere non appena vengono applicati esauriscono i loro effetti, lo Stato nuovo non succede nei termini del trattato
del vecchio Stato. La frontiera rimane sostanzialmente quella, i cambiamenti di sovranità su territori non intaccano le frontiere.

6.6 SERVITÙ INTERNAZIONALI.


Nel diritto internazionale non possiamo applicare il concetto di servitù prediale perché non possiamo individuare un fondo
servente e un fondo dominante in quanto vi è la parità, l’uguaglianza fra tutti gli Stati, MA possiamo individuare delle forme di
Servitù Personale: cioè uno Stato può imprimere dei vincoli di natura reale sul proprio territorio.
Sono servitù internazionali:
i) dei territori smilitarizzati (obbligo di non costruire fortificazioni militari o di mantenere forze militari nella zona) o
neutralizzati (il territorio neutrale non può divenire teatro di guerra, dove non possono essere compiute, in caso di guerra,
operazioni militari né dal sovrano territoriale né da terzi Stati);
j) il diritto di passaggio;
k) il diritto di accesso al mare, per esempio lo Stato A che confina con lo Stato B, per giungere in un luogo che può essere
lo sbocco sul mare che non ha, deve necessariamente passare nel territorio dello Stato B, allo Stato A è infatti
riconosciuto un diritto di accesso al mare in quanto Stato privo di litorale, MA le modalità devono essere concordate con
lo Stato interessato e quindi lo Stato B che può concedere (perché non è obbligato) questo passaggio allo stato A.
6.7 IL PATRIMONIO COMUNE DELL’UMANITÀ.
Il concetto di patrimonio dell’umanità si è affermato nei secoli scorsi, implicava l’esistenza di territori che non appartenevano a
nessuno Stato. Tuttavia, il concetto di patrimonio comune dell’umanità acquisì nuova rilevanza a partire dal 1967 durante la terza
conferenza di codificazione del diritto del mare (da questa terza conferenza uscì fuori la Convenzione di Montego Bay), il
rappresentante maltese presso le Nazioni Unite propose la creazione di un patrimonio comune dell’umanità, che fu accolta dagli
altri Stati, che comprendeva il suolo e il sottosuolo marino al di là delle giurisdizioni nazionali, quindi al di là della piattaforma
continentale.
Presenta tre caratteristiche:
- Inappropriabilità di queste zone dunque nessuno Stato può appropriarsene e quindi esercitare diritti sovrani su questi
territori, ogni Stato ha l’obbligo di NON riconoscere eventuali pretese effettuate da altri Stati;
- Utilizzo pacifico cioè l’utilizzo delle loro risorse solo a fini pacifici;
- Sfruttamento collettivo di tali risorse, cioè bisogna tenere conto degli interessi di tutti i popoli, con particolare riferimento
agli Stati meno avanzati.
-
La Convenzione di Montego Bay ha istituito la c.d Area (che comprende il patrimonio comune dell’umanità). Tale area è
disciplinata da un’organizzazione internazionale l’autorità internazionale dei fondi marini che si compone di alcuni organi:
- Assemblea
- Consiglio
- Segretariato
- Impresa

Come dovrebbe avvenire lo sfruttamento delle risorse naturali cioè l’utilizzo di questo patrimonio comune dell’umanità?
È stato elaborato il sistema parallelo: secondo tale sistema uno Stato per sfruttare le risorse del patrimonio comune dell’umanità
dovrebbe individuare due siti di sfruttamento: uno per il suo sfruttamento, l’altro affinché sia sfruttato dall’impresa nell’interesse
generale di tutti gli Stati. La Convenzione di Montego Bay disciplina nel dettaglio come dovrà avvenire il suo funzionamento:
- individuando l’area;
- istituendo l’autorità che comprende l’impresa, la quale dovrà operare mediante il sistema parallelo. L’impresa
inizialmente avrebbe dovuto avere una posizione privilegiata rispetto agli altri Stati, tuttavia con un accordo del 1994
questa posizione non gli venne più riconosciuta. Quindi, l’impresa dovrebbe operare in una situazione di libera
concorrenza con le imprese dei vari Stati. La Convenzione di Montego Bay disciplina come l’impresa deve operare, ma
ancora ad oggi non è statacreata, perché sostanzialmente non è ancora possibile sfruttare questi territori, infatti
l’autorità che autorizza e coordina le attività di ricerca scientifica non ha avviato ancora nessuna attività di sfruttamento.
→ Costituisce patrimonio comune dell’umanità non solo il fondo marino MA anche la luna, i corpicelesti e lo spazio
extra-atmosferico, è stato sottoscritto un accordo nel 1979 per disciplinare il futuro sfruttamento dei territori lunari, ma
tale sfruttamento non è ancora iniziato.

6.8 ANTARTIDE.
È disciplinato dal trattato di Washington del 1959, entrato in vigore nel 1961, che stabilisce che l’Antartide deve essere usata
SOLO per fini pacifici prevedendo dunque la smilitarizzazione dell’Antartide e la denuclearizzazione, tale principio comporta il
divieto di svolgere qualsiasi attività militare, la costruzione di fortificazioni, la conduzione di manovre ed esperimenti militari, vieta
qualsiasi esplosione nucleare e il deposito di materiale radioattivo.
n.b: Il trattato stabilisce il principio della libertà, per tutti gli Stati, di ricerca scientifica in Antartide, impiegando personale o
materiale militare per tale fine.
Il Trattato inoltre congela le pretese di sovranità: alcuni Stati, infatti, da tempo avanzano alcune pretese territoriali su porzioni del
continente antartico come Francia e Regno Unito che fondano tali pretese sulla scoperta o ancora Cile e Argentina sulla teoria
della contiguità dei loro territori.
→ La gestione del continente antartico è affidata al Comitato delle Parti Consultive, di cui sono membri i 12 Stati che hanno
negoziato il Trattato e gli Stati che hanno conseguito successivamento lo status di parte consultiva. Per acquisire tale status
occorre: i) aver ratificato il trattato; ii) aver svolto una sostanziale attività di ricerca scientifica nel continente (es. stabilendo basi o
effettuando spedizioni scientifiche); infine il giudizio è rimesso alle stesse Parti consultive per cooptazione.
Accanto alle Parti consultive ci sono le “Parti non consultive”, che adottano raccomandazioni rivolte ai propri governi (l’Italia ha
acquisito lo status di Parte consultiva nel 1987).
L’Antartide è una zona ricca di risorse petrolifere ma anche di rame, carbone, oro e argento. E’ stato adottato un trattato, il
trattato di Wellington per la disciplina delle attività minerarie antartiche e assicurare la tutela dell’ambiente antartico da possibili
forme di inquinamento. Alcuni Stati non hanno approvato tale trattato perché avrebbero preferito la cessazione completa delle
attività minerarie, altri invece avrebbero voluto dichiarare l’Antartide “patrimonio comune dell’umanità”, ma non è possibile dal
momento che l’Antartide è oggetto di pretese. Le preoccupazioni concernenti lo sfruttamento minerario e le spinte delle
organizzazioni ambientaliste hanno finito per prevalere: il trattato di Wellington non è mai entrato in vigore. Sono entrati in vigore
il Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico (1998) che dichiara l’Antartide una riserva naturale, votata alla pace e alla
scienza; la Convenzione sulla protezione della foca antartica e quella sulla conservazione della flora e della fauna dell’Antartico.
6.9 ARTICO.
L’Artico (o Polo Nord) NON è composto da terre emerse MA solo da acque marine, ricoperte da ghiacciai, che si stanno
riducendo a causa del riscaldamento globale.
n.b: Siccome si parla sostanzialmente di acque solidificate quindi ghiacciai, NON è sottoposto al regime del territorio MA le acque
adiacenti agli Stati costieri sono assoggettati al regime giuridico del mare territoriale, mentre le zone di mare al di là del limite
esterno del mare territoriale sono soggette al principio della libertà dell’alto mare.
→ Anche in questo caso sono da respingere le pretese di alcuni Stati costieri volte a rivendicare la sovranità su vaste porzioni di
mare adiacenti alle loro acque territoriali come la Federazione Russa (teoria dei settori).
È stato istituito il Consiglio Artico di cui fanno parte gli 8 Stati che si affacciano sull’Artico o storicamente attivi nella regione e
sono il Canada, la Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Federazione Russa, Svezia e Usa.
7 SUCCESSIONE INTERNAZIONALE TRA STATI.
Quando si verificano modificazioni territoriali (smembramento, secessione, fusione, cessione, incorporazione) dobbiamo
distinguere:
- Stato successore cioè il nuovo Stato o lo Stato che accresce il proprio territorio a spese di un altro;
- Stato predecessore cioè lo Stato che si estingue o subisce una diminuzione territoriale.
In queste situazioni quando un nuovo Stato subentra nel governo del territorio di un altro Stato bisogna stabilire SE i diritti e gli
obblighi dello Stato predecessore si trasmettono allo Stato successore e dunque abbia luogo la successione giuridica. La
materia è disciplinata dal diritto consuetudinario, in parte codificata nella Convenzione di Vienna sulla Successione tra Stati
nei trattati del 1978, entrata in vigore nel 1996 con un basso numero di ratifiche (l’Italia non l’ha ratificata) e nella Convenzione
di Vienna sulla successione tra Stati nei beni, archivi e debiti pubblici, del 1983 mai entrata in vigore, entrambe possono
ritenersi uno sviluppo progressivo del diritto internazionale.

→ NON dà luogo a successione giuridica:


- un mutamento rivoluzionario di regime, che non estingue la personalità internazionale dello Stato, tanto che il nuovo governo
sorto dalla rivoluzione dovrà adempiere tutti gli obblighi facenti capo al vecchio regime e sarà titolare dei relativi diritti;
- l’anarchia, poiché nemmeno in questo caso si verifica l’estinzione dello Stato;
- è da escludere la successione per lo Stato protetto dopo l’estinzione del vincolo di protettorato;
- l’occupatio bellica non dà luogo al fenomeno successorio;
- per quanto riguarda gli Stati risorti bisogna valutare i singoli casi.

7.1 SUCCESSIONE NEI TRATTATI.


Qualora un territorio sia oggetto di un mutamento di sovranità, lo Stato successore subentra nel governo del territorio dello Stato
predecessore e ne acquista la sovranità a titolo originario MA si pone il problema di sapere se lo Stato successore subentri nei
trattati internazionali stipulati dallo Stato predecessore:
→ Qualora la frontiera sia stata delimitata mediante trattato, non ha luogo una vera e propria successione nel trattato dal
momento che i trattati di delimitazione una volta eseguito esaurisce i suoi effetti MA vale il principio della stabilità delle
frontiere: lo Stato successore subentra nel diritto di sovranità territoriale dello Stato predecessore.
→ i trattati bilaterali, stipulati dallo Stato predecessore, NON vengono trasmessi (principio tabula rasa) allo Stato successore A
MENO CHE: a) il trattato non sia fonte di situazioni giuridiche localizzate, SE i trattati sono localizzabili, cioè stabiliscono obblighi
e diritti rispetto a un determinato territorio (es. fissazione di frontiere, diritto di transito per uno Stato confinante) si applica il
principio della continuità dei trattati, in base al quale i trattati conclusi dallo Stato predecessore sono trasmessi allo Stato
successore (che ne è vincolato = res transit cum suo onere); b) lo Stato successore ha interesse a subentrare in un trattato
bilaterale stipulato dallo Stato predecessore, in questo caso il vecchio trattato costituirà la base per la conclusione di un nuovo
accordo formalmente distinto dal precedente ma di contenuto identico.
→ Fanno eccezione i trattati a prevalente connotazione politica (es. quelli relativi all’installazione di basi militari straniere, non
creano rapporti giuridici localizzati hanno natura politica) che cessano a meno che non vengano novati mediante accordo tra
successore e terzo (principio tabula rasa).
→ Per quanto riguarda i trattati multilaterali, invece, si è sviluppata una consuetudine internazionale, secondo cui, il nuovo
Stato NON subentra automaticamente nel trattato multilaterale che trovava applicazione sul territorio oggetto del mutamento di
sovranità MA ha diritto di divenire parte mediante una dichiarazione di continuità o notificazione del nuovo Stato; la notifica di
successione non è ovviamente possibile per i trattati multilaterali ristretti e per i trattati istitutivi di un’organizzazione
internazionale; SOLO in caso di fusione se entrambi gli Stati predecessori sono stati membri dell'organizzazione è consentita una
procedura di ammissione semplificata.
N.B: Tali regole NON si applicano in caso di cessione o incorporazione, gli accordi dello Stato predecessore non si trasmettono al
successore.

Con gli accordi di devoluzione lo Stato predecessore trasferisce al successore tutti i diritti ed obblighi derivanti dai trattati che
trovano applicazione sul territorio su cui si costituisce il nuovo Stato. L’accordo produce obblighi e diritti SOLO nei rapporti tra
Stato predecessore e Stato successore, quest’ultimo dovrà proporre al terzo Stato una novazione per subentrare nei trattati
stipulati tra terzo e predecessore.

7.2 SUCCESSIONE NEI BENI, DEBITI E ARCHIVI DELLO STATO.


→ Per quanto riguarda i beni, occorre distinguere:
- I beni immobili situati nel territorio oggetto del mutamento di sovranità vengono trasferiti allo Stato successore, tale regola
si applica a tutte le figure successorie.
- I beni appartenenti allo Stato predecessore e situati in uno Stato terzo divengono proprietà dello Stato successore in
caso di estinzione del predecessore per incorporazione, fusione o smembramento; INVECE restano di proprietà del
predecessore in caso di secessione o cessione.
- Rimangono di proprietà dello Stato predecessore anche per i beni mobili di proprietà del predecessore ma situati nel
territorio oggetto del mutamento di sovranità (es. oggetti nei musei). n.b: in caso di smembramento è difficile determinare a
quale dei successori spettino le proprietà del predecessore all’estero, la questione può essere risolta solo mediante un
accordo tra gli Stati interessati.
Inoltre per quanto riguarda i beni appartenenti a Stati terzi o a stranieri situati nel territorio oggetto della successione, la
Convenzione stabilisce che NON sono pregiudicati dal mutamento di sovranità.

→ Per quanto riguarda i debiti pubblici dello Stato predecessore, la regola tradizionale è quella secondo cui i debiti localizzati,
cioè contratti a favore del territorio oggetto della successione (es. costruzione di opere pubbliche) sono trasferiti allo Stato
successore. NON si trasmettono invece allo Stato successore i c.d. debiti odiosi, come quelli contratti dallo Stato predecessore
per condurre una guerra di aggressione. Gli altri debiti (c.d. debiti generali) continuano a far capo al predecessore se questo non
smetta di esistere infatti in caso di estinzione del predecessore per smembramento o incorporazione, è difficile stabilire se i debiti
si estinguano oppure si trasmettano al successore, la dottrina è divisa: alcuni sostengono il principio di continuità del debito e la
Convenzione di Vienna si pronuncia a favore del principio di trasmissibilità in proporzioni eque.

→ Infine per quanto riguarda gli archivi, se questi sono relativi all’amministrazione del territorio ceduto saranno trasferiti al
successore (anche in caso di smembramento). Per gli archivi che non hanno una diretta connessione con il territorio degli Stati
nati dallo smembramento vale il principio dell’equa ripartizione.
8 DIRITTO DEL MARE.
Il regime giuridico del mare territoriale è stato oggetto di vari tentativi di codificazione:
• il primo risale al 1930 all’Aja quando fu convocata una conferenza che non adottò alcuna convenzione sulle acque territoriali
ma inserì nell’atto finale della conferenza il testo di alcune disposizioni in materia del diritto dello Stato costiero sul mare
territoriale e di passaggio inoffensivo;
• l’opera di codificazione del diritto internazionale marittimo fu ripresa dalle Nazioni Unite e dalla commissione del diritto
internazionale arrivando ad un progetto di articoli sul diritto del mare;
• tale progetto fu ripreso nel 1956 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e costituì la base dei negoziati della prima
Conferenza sul diritto del mare tenutasi a Ginevra nel 1958 che si concluse con l’adozione di quattro testi convenzionali
distinti:
1. la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua;
2. la convenzione sull’alto mare;
3. la convenzione sulla piattaforma continentale;
4. la convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare. Furono adottati quattro diversi
accordi per garantire una più ampia partecipazione degli Stati che potevano vincolarsi ad alcune convenzione e non a
tutte (l’Italia per esempio aderì soltanto alle prime due convenzioni).
Tali conferenze tenutasi a Ginevra non bastarono per risolvere i problemi relativi al diritto del mare, perciò, fu costituito
dall’Assemblea generale un Comitato ad hoc sugli usi pacifici del suolo e del sottosuolo marino oltre i limiti della
giurisdizione nazionale (divenne poi un organo permanente dell’assemblea).
• La Terza conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare si svolse in undici sessioni e si concluse a Montego Bay
(Jamaica) o UNCLOS (United Nations Convention on the law of the Sea) nel 1982 nella quale fu adottata la Convenzione
sul diritto del mare composta da 320 articoli e 9 allegati, entrata in vigore nel 1994, che NON abroga le Convenzioni di
Ginevra del 1958 MA ha la prevalenza.

8.1 MARE TERRITORIALE.


La sovranità di ogni Stato costiero si estende (oltre al territorio e alle acque interne) ad una zona di mare adiacente alle coste, il
c.d. mare territoriale, soggetto alla sovranità dello Stato insieme allo spazio aereo sovrastante e sottostante (il letto e il
sottosuolo marino).
Acqua interna: le acque che si trovano dalla linea di base verso l’interno e non dal limite esterno del mare territoriale (es. i porti, i
fiumi e i laghi sono acque interne e come tali sono parificate al territorio).

Come si delimita il mare territoriale? Viene determinato mediante la fissazione delle linee di base cioè la linea lungo la costa
calcolata con la bassa marea MA se la costa è molto frastagliata lo Stato costiero può congiungere i punti più sporgenti della
costa ottenendo la linea di base dalla quale calcolare il mare territoriale. Questo sistema di linee può essere utilizzato anche nel
caso in cui la costa sia piatta ma esistano un gruppo di isole nell’immediata vicinanza della costa. Il mare territoriale dalla linea di
base si può estendere fino a un limite massimo di 12 miglia marine (art.3 Convenzione di Montego Bay).

Il mare territoriale è una zona adiacente alla costa dello Stato dove vi esercita la sua sovranità, però lo Stato ha l’obbligo di
sopportare il passaggio inoffensivo delle navi e astenersi dall’esercizio della giurisdizione civile o penale di navi altrui.
→ La convenzione dei diritti del mare di Montego Bay stabilisce che ogni Stato deve consentire il passaggio nel proprio mare
territoriale purché questo sia inoffensivo: il passaggio deve essere continuo e rapido, la sosta o l’ancoraggio sono consentiti
quando costituiscano manovre ordinarie di navigazione o siano necessarie per eventi di forza maggiore o difficoltà. Le navi in
passaggio inoffensivo devono rispettare le leggi e i regolamenti dello Stato costiero (in particolare in materia di sicurezza della
navigazione e prevenzione dell’inquinamento).
Per quanto riguarda il passaggio inoffensivo delle navi mercantili è tollerato; per quello che riguarda le navi militari, alcuni Stati lo
consentono, altri subordinano il passaggio delle navi da guerra alla previa autorizzazione dello Stato costiero. Nel mare
territoriale i sommergibili devono navigare in emersione e mostrare la bandiera; e le portaerei possono attraversare il mare
territoriale purché gli aerei restino appontati, cioè non volino durante il passaggio.
Quando è pregiudizievoli il passaggio? Se nel mare territoriale la nave è impegnata in una delle seguente attività: raccolta
informazioni, uso di armi o di violenza, atti di propaganda, inquinamento pesca allora il passaggio è considerato offensivo.
n.b: lo Stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo del mare territoriale purché la sospensione sia:
a)essenziale alla protezione della sua sicurezza; b)temporanea; c)riguardare specifiche aree del mare territoriale; d)non deve
essere discriminatoria.

→ Un altro limite, oltre quello del passaggio inoffensivo, riguarda il fatto che uno Stato NON può esercitare la giurisdizione civile e
penale nei confronti delle: A) navi da guerra che godono di immunità completa dalla giurisdizione; B) invece le navi mercantili
straniere in passaggio sono esenti da giurisdizione penale solo per fatti interni cioè avvenimenti che riguardano la vita della nave
e non hanno ripercussioni sul mondo esterno, se invece lo sono e dunque si tratti di fatti che turbano la tranquillità e il buon
ordine dello Stato costiero e del mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare la giurisdizione penale; per l’esercizio
dell’azione civile sulle navi mercantili in passaggio nel mare territoriale, lo Stato costiero non può arrestare o dirottare una nave
mercantile straniera per esercitare la giurisdizione civile nei confronti di una persona che si trovi a bordo.
n.b: NON esiste un diritto di sorvolo del mare territoriale, è ammissibile solo quando consentito dallo Stato costiero.

Il mare territoriale italiano:


Secondo l’art 2 del codice della navigazione il mare territoriale italiano aveva un’estensione di 6 miglia marine, a partire dalla
linea di base. Venivano dichiarati soggetti sottoposti alla sovranità dello Stato i golfi, seni e baie e aperture non superiore a 20
miglia. Successivamente, la legge 359/74 modifica l’art 2 del codice di navigazione estendendo l’ampiezza del mare territoriale
italiano a 12 miglia, calcolate sempre dalla linea di costa a bassa marea e ha adottato per le baie il criterio delle 24 miglia.

8.2 LE BAIE.
Le baie sono delle insenature che penetrano profondamente nella costa, secondo una norma di diritto consuetudinario gli Stati
possono chiudere con una linea retta le baie: e quindi tutto quello che c’è dalla linea verso l’interno è acqua interna.
→ Lo Stato costiero può chiudere la baia se essa sia una baia in senso giuridico e NON una semplice incurvatura della costa.
La baia è definita giuridica se l’insenatura racchiude la superficie di acque uguale o superiore a quella di un semicerchio avente
per diametro la linea tracciata tra i punti di ingresso della baia, che NON deve superare le 24 miglia.

Le baie storiche possono essere chiuse anche qualora non soddisfino il criterio del semicerchio e indipendentemente della loro
ampiezza purché si riconoscano due condizioni:
1) l’esercizio prolungato dei diritti di sovranità sulle acque della baia da parte dello Stato costiero;
2) l’acquiescenza degli altri Stati.
Esempio di baie storiche: il golfo di Taranto (è stata riconosciuta baia storica seppur con l’opposizione espressa degli Stati Uniti);
i fiordi in Norvegia.

8.3 STRETTI INTERNAZIONALI.


Gli stretti sono quei bracci di mare situati tra due terre emerse, compresi nelle acque territoriali dello Stato o degli Stati rivieraschi
che mettono in comunicazione due parti più ampie di mare.
→ Sugli stretti internazionali viene garantito il passaggio inoffensivo NON sospendibile (sia per le navi private che per le navi
militari) a differenza di quanto avviene per il passaggio nelle acque territoriali.
→ Per quanto riguarda il regime degli stretti internazionali era già stato disciplinato dalla convenzione di Ginevra del 58 e ha
subito una notevole revisione con la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare dell’82 che ha introdotto la nozione di
passaggio in transito, che riconosce diritti più ampi del passaggio inoffensivo:
- il transito delle navi private e da guerra non sospendibile;
- il diritto di sorvolo degli aeromobili civili e militari;
- la possibilità per i sommergibili di navigare in immersione durante l’attraversamento dello stretto. Il passaggio in transito si
applica agli stretti utilizzati per la navigazione internazionale che mettono in comunicazione due parti di alto mare o due zone
economiche esclusive oppure una zona economica esclusiva e una di alto mare.
N.B: NON si applica il passaggio in transito MA il passaggio inoffensivo non sospendibile: a)agli stretti che collegano il mare
territoriale di uno Stato a una parte di alto mare/zona economica esclusiva di un altro Stato; b)oppure agli stretti che collegano
due zone di alto mare comprese tra il continente e un'isola appartenenti allo stesso Stato costiero.
*** Questo regime è applicabile allo stretto di Messina, quindi, NON è applicabile il regime giuridico degli stretti internazionali ma
si applica il passaggio inoffensivo non sospendibile.

8.4 ZONA CONTIGUA.


È una zona adiacente al mare territoriale e DEVE essere istituita (l’istituzione è del tutto facoltativa), invece il mare territoriale è
un attributo naturale dello Stato costiero (è ipso iure), si estende per altre 12 miglia a partire dal limite esterno del mare
territoriale, dunque dalla linea di base sono 24 miglia.
Serve unicamente a tutelare lo Stato che può esercitare sulle navi straniere diritti di controllo necessari e prevenire o reprimere
infrazioni alle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie e di immigrazione (l’Italia si è astenuta dal proclamare una zona contigua, infatti,
l’estensione del mare territoriale a 12 miglia negli anni ‘70 ha assorbito la zona contigua, perché l’Italia prima aveva un mare
territoriale di 6 miglia e una zona contigua di altre 6 miglia).

8.5 ZONA ARCHEOLOGICA


La Convenzione del diritto del mare ha introdotto la possibilità di istituire una zona archeologica (l’Italia non ha proclamato
formalmente una zona archeologica ma sono state istituite zone di protezione ecologica che tutela il patrimonio storico e
archeologico in conformità della Convenzione e ha un’estensione più ampia della zona archeologica) comprende la zona del
fondo marino adiacente alla costa. Può avere un’estensione di 24 miglia dalla linea di base. Allo Stato costiero, in questa fascia,
sono riconosciuti diritti speciali di controllo e giurisdizione in ordine alla rimozione di oggetti di valore archeologico e storico.
→ La rimozione degli oggetti archeologici e storici senza il consenso dello Stato costiero costituisce una violazione delle sue leggi
e dei suoi regolamenti.
→ Sono impregiudicati i diritti dei proprietari identificabili.

8.6 LA PIATTAFORMA CONTINENTALE


La piattaforma continentale comprende il fondo e il sottosuolo che si estendono al di là delle giurisdizioni nazionali, quindi al di là
del mare territoriale, costituisce il naturale prolungamento della terraferma.
→ Sulla piattaforma continentale lo Stato esercita poteri esclusivi e automatici in relazione allo sfruttamento delle risorse.
n.b: La piattaforma continentale NON va proclamata, esiste. Così come il mare territoriale è un attributo naturale dello Stato
costiero.

La piattaforma continentale è oggetto di una delle quattro convenzioni di Ginevra, quindi già nel 1958 l’istituto della piattaforma
continentale esisteva. Oggi la sua esistenza è ribadita dalla convenzione di Montego Bay, ma ha natura consuetudinaria.
→ Secondo la convenzione del 1958 la piattaforma doveva estendersi fino al margine continentale che comprende la piattaforma
e la scarpata continentale (la salita). Dopodichè si estende la crosta oceanica, cioè il margine continentale che sta tra la crosta
continentale della terra emersa e la crosta oceanica (gli abissi).
La Convenzione di Ginevra propose per individuare il limite esterno della piattaforma continentale due criteri:
1. Criterio batimetrico: secondo il quale la piattaforma continentale si estende fino al punto in cui la profondità delle acque si
mantiene stabile a 200 miglia;
2. Criterio della sfruttabilità: la piattaforma continentale si estende fin quando la profondità delle acque rende possibile
sfruttare le risorse presenti nella piattaforma. Questo criterio però è un po' iniquo perché lo sfruttamento delle risorse della
piattaforma continentale dipende dalle capacità scientifiche e tecnologiche di uno Stato. Di conseguenza gli Stati meno
sviluppati non potevano rivendicare una piattaforma continentale molto ampia rispetto ad alcuni Stati che sono provvisti di
una tecnologia più avanzata.
→ Così la convenzione del 1982 ha individuato un nuovo criterio :
La piattaforma continentale comprende i fondi marini e il sottosuolo che si estendono al di là della acque territoriali fino a 200
miglia marine dalla linea di base (a partire dalla quale calcoliamo il mare territoriale), MA, può estendersi per la sua
conformazione geografica-geologica la piattaforma continentale ulteriormente cioè oltre queste 200 miglia marine, fino a un
massimo di 350 miglia della linea di base.
n.b: Quando la piattaforma continentale si estende al di là delle 200 miglia marine, quindi fino al limite delle 350 miglia, è posto
un limite sullo sfruttamento delle risorse: lo Stato può procedere a sfruttare le risorse fino a 350 miglia, MA deve destinare una
quota in denaro o in natura all’autorità dei fondi marini.
Come si calcola la frontiera delle piattaforme continentali tra Stati frontisti? Come si delimita la piattaforma continentale
di ciascuno Stato frontista? La Convenzione di Ginevra prevedeva il criterio della linea mediana, OGGI si applica un criterio
diverso: si stabilisce mediante accordo. Un accordo che però, deve essere basato su una soluzione equa che decisa secondo
equità (cioè che deve rispettare la conformazione geografica degli Stati in questione nonché le esigenze di sfruttamento delle
risorse degli Stati).
Quali sono i diritti che lo Stato costiero esercita sulla piattaforma continentale?
Sono diritti relativi UNICAMENTE allo sfruttamento delle risorse naturali (sia le risorse minerali, es. idrocarburi, sia le risorse
biologiche sedentarie, es. flora, fauna ecc..).
I diritti dello Stato costiero su queste risorse naturali sono: a) automatici, perché la piattaforma continentale è un attributo
naturale dello Stato, quindi non è necessario proclamarla; b) esclusivi, cioè soltanto lo Stato costiero può procedere allo
sfruttamento di queste risorse.
n.b: Tuttavia questi diritti sono limitati unicamente al fondo e al sottosuolo marino e NON si estendono alla colonna d’acqua
sovrastante. Nella colonna d'acqua si applica il regime dell'Alto Mare e vengono fatti salvi alcuni diritti di tutti gli altri Stati fra cui:
la libertà di navigazione, di sorvolo, di ricerca scientifica e di posa di cavi e condotte.
→ Lo Stato costiero nelle acque sovrastanti la propria piattaforma continentale può esercitare poteri di controllo nei confronti di
navi straniere unicamente per verificare se queste procedono o meno allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo.

8.7 ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA (ZEE)


La zona economica esclusiva è un istituto del diritto del mare relativamente nuovo, infatti viene introdotta dalla convenzione di
Montego Bay del 1982. Viene introdotta per le pretese di molti Stati costieri nei confronti delle acque prospicienti il proprio mare
territoriale di diritti esclusivi in relazione alle risorse ittiche. Gli Stati pretendevano di poter sfruttare le risorse ittiche (pescare) in
maniera esclusiva nelle acque adiacenti il loro mare territoriale, escludendo quindi la possibilità a Stati terzi di pescare nelle
acque vicino le loro coste.
Oggi la ZEE ha acquisito natura consuetudinaria, quindi è prevista dalla convenzione di Montego Bay, ma comunque la sua
esistenza ha natura consuetudinaria.
→ Al contrario della piattaforma continentale la ZEE va proclamata, in quanto NON è un attributo naturale dello Stato come il
mare territoriale e la piattaforma continentale, altrimenti non esiste. Se non esiste le acque sulle quali potrebbe essere istituita
sono acque internazionali (Alto mare).
n.b: Tuttavia laddove viene proclamata la ZEE comprende e assorbe la piattaforma continentale. Quando viene istituita la ZEE,
essa si estende fino a 200 miglia marine dalla linea di base e implica che lo Stato costiero in questa fascia di mare può
rivendicare diritti esclusivi in relazione allo sfruttamento, alla gestione e alla conservazione delle risorse naturali MA può
rivendicare diritti esclusivi in relazione allo sfruttamento di tutte le risorse minerali presenti nella colonna, nel fondo e nel
sottosuolo.
Di conseguenza in queste acque lo Stato costiero può:
a) esercitare poteri di controllo nei confronti di navi straniere in relazione alle risorse, in relazione all’installazione di isole e altre
installazioni artificiali e in relazione alla ricerca scientifica;
b) esercitare poteri di prevenzione e repressione di fenomeni inquinanti.
Lo Stato può procedere allo sfruttamento delle risorse ittiche entro certi limiti: cioè deve stabilire la specie di pesce che può
essere pescato, il periodo in cui è possibile procedere alla pesca e anche un limite massimo di pesce che può essere pescato. Se
lo Stato non riesce a pescare la quantità massima di pesce pescabile allora deve permettere a Stati terzi di pescare nella sua
ZEE il surplus (cioè quello che lui non riesce a sfruttare). Questo generalmente viene regolato mediante accordo, un accordo
bilaterale tra lo Stato costiero e lo Stato terzo che intende sfruttare il surplus.

8.8 IL REGIME DELL’ALTO MARE


L'articolo 86 dell'Unclos (Convenzione ‘82) afferma che “tutte le acque che non sono comprese nel mare territoriale degli Stati o
nella ZEE degli Stati costituiscono l'Alto mare e sono soggette ad un regime di libertà specifico".
- Quando è istituita la ZEE, l'Alto mare inizia ad estendersi dal limite esterno della ZEE (200 miglia marine dalla linea di base);
- Quando non è istituita la ZEE l'Alto mare si sviluppa a partire dal limite del mare territoriale (12 miglia dalla linea di base).
- Se ha proclamato la zona contigua ma non ha proclamato la ZEE rimane il limite delle 12 miglia del mare territoriale, la zona
contigua è considerata Alto mare (!).
L’Alto mare è aperto a TUTTI, NON può essere assoggettato alla giurisdizione di alcuno Stato. Tutti gli Stati possono utilizzarlo,
anche gli Stati non costieri (es.la Svizzera può esercitare le libertà dell'Alto mare).
L’articolo 86 della Convenzione di Montego Bay prevede quelle che sono le libertà che caratterizzano il regime dell'Alto mare e
che possono essere esercitate da tutti gli Stati:
1) Libertà di navigazione: le navi di tutti gli Stati possono navigare in Alto mare;
2) Libertà di pesca, che è invece limitata nella ZEE
3) Libertà di posa di cavi e condotte sottomarine (sul fondo);
4) Libertà di ricerca scientifica;
5) Libertà di sorvolo;
6) Libertà di costruire isole artificiali e altre installazioni.
→ Tutti gli Stati possono esercitarle nella misura in cui non precludono il godimento delle stesse libertà agli altri Stati.

8.9 NAZIONALITÀ DELLE NAVI:


Ogni nave viene registrata da uno Stato ed è soggetta al controllo e alla giurisdizione di quello Stato. Lo Stato esercita la propria
giurisdizione sulla nave come se fosse parte del proprio territorio.
Affinché uno Stato possa attribuire la propria nazionalità sono necessari due requisiti :
1. Un collegamento diretto tra lo Stato e la nave (genin link);
2. L’esercizio effettivo di giurisdizione e controllo su quella nave sulle condizioni di sicurezza, sulla professionalità
dell'equipaggio in generale.
Esiste poi il fenomeno delle bandiere ombra: alcuni Stati, definiti come paradisi fiscali o generalmente quelli meno sviluppati, che
concedono la propria nazionalità senza che effettivamente sussista questo genin link, senza che effettivamente svolgano un
controllo sulla sicurezza, sull'equipaggio o sulla navigabilità di queste navi (es: Gibilterra). Spesso generalmente queste navi
battono bandiera ombra, questa bandiera non è riconosciuta e alcuni Stati equiparano la nave battente bandiera ombra a una
nave priva di nazionalità (non è una norma).
n.b: Le navi possono avere una SOLA nazionalità, cioè la bandiera di un solo Stato.
→ Tuttavia alcune navi si dotano di più nazionalità, quindi di più bandiere e si iscrivono in più registri di diversi Stati. In questo
caso la nave è considerata PRIVA di bandiera. Si parla di bandiere di convenienza (uno Stato si dota di più bandiere, a
seconda di quale gli conviene ne sventola una o un'altra). Questo NON può avvenire, è contrario al diritto internazionale, l'uso
della bandiera di convenienza è illegittimo, non è riconosciuto dal diritto internazionale.
Che vuol dire che una nave è priva di bandiera? Vuol dire che è soggetta alla giurisdizione di qualsiasi Stato. Infatti, l’articolo
92 della convenzione di Montego Bay afferma che “in acque internazionali una nave è soggetta alla giurisdizione dello Stato di
cui batte la bandiera”. Quindi, uno Stato NON può esercitare in acque internazionali la sua giurisdizione su una nave straniera
MA se quella nave però è priva di bandiera può esercitare i suoi poteri di controllo.
La convenzione di Montego Bay afferma il diritto di visita delle navi da guerra o in servizio pubblico (polizia) straniere di ogni
Stato che si trovino in Alto mare nei confronti di:
1. Navi privi di nazionalità;
2. Navi coinvolte nel traffico di schiavi (anche se la schiavitù è un istituto abolito, la norma ancora sussiste);
3. Navi che effettuano trasmissioni non autorizzate;
4. Navi pirata (navi che si sospettano abbiano commesso atti di pirateria marittima).

Il diritto di visita implica il diritto di:


a) fermare e abbordare la nave in questione;
b) verificare la nazionalità della nave;
c) ispezionare l'imbarcazione (dopo aver controllato se vi siano dei sospetti fondati).

La pirateria si può pensare sia un fenomeno che appartiene ormai al passato ma non è così. La pirateria oggi rientra tra i crimini
internazionali contro l’umanità.
Consiste nella perpetrazione di atti di violenza, detenzione e depredazione (saccheggio) commessi, per fini privati,
dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave in alto mare o contro persone o beni che si trovino a bordo,
possono essere compiuti anche da un aeromobile privato contro un altro aeromobile nello spazio aereo sovrastante l’alto mare.
La comunità internazionale ritenendo che si tratti di un crimine che offende l'intera comunità, ha assoggettato questo crimine al
principio della giurisdizione universale, per cui ogni Stato può reprimere gli atti di pirateria.
→ Il crimine per poter essere qualificato pirateria deve essere commesso in alto mare o nello spazio aereo sovrastante.
→ Gli atti di pirateria possono essere commessi solo da navi private. NON navi da guerra. Alcuni punti da ricordare sono che:
A) ogni Stato può catturare in alto mare la nave pirata, MA tale potere non spetta se la nave pirata si rifugia nelle acque
territoriali altrui, infatti in questo caso dovrà essere lo Stato costiero a procedere alla cattura, in caso di incapacità dello Stato
costiero il Consiglio di sicurezza può autorizzare gli Stati ad intervenire nelle acque territoriali altrui;
B) le navi da guerra di uno Stato straniero hanno il diritto di visita ma non un diritto di cattura che compete solo allo Stato della
bandiera;
C) lo Stato costiero ha il diritto di inseguire e catturare in alto mare, mediante navi o aeromobili da guerra o adibiti a pubblico
servizio, le navi che abbiano violato le sue leggi in zone sottoposte alla sua giurisdizione; l’inseguimento deve aver inizio
quando la nave straniera si trova nelle acque interne, territoriali o nella sua zona contigua, nella ZEE o nelle acque
sovrastanti la piattaforma continentale (negli ultimi casi l’inseguimento potrà essere esercitato solo in relazione a violazioni
dei particolari diritti riconosciuti allo Stato in tali zone).
→ Un atto simile a quello di pirateria che si verifica nel mare territoriale di uno Stato non può essere definito come pirateria vera e
propria, ma si parla di rapina a mano armata in mare.
Il diritto internazionale consuetudinario definisce i poteri dello Stato per prevenirla e reprimerla: l'art. 105 della Convenzione
afferma che “il potere delle navi da guerra o di servizio, di qualsiasi Stato, è di fermare e di catturare una nave sospettata di aver
commesso un atto di pirateria. Inoltre la nave può sequestrare la nave accusata, requisire i beni a bordo e sottoporre a
procedimento penale i responsabili”.

Cos’è successo nella questione relativa ai Marò? Si è instaurata una controversia internazionale tra India e Italia, perché i
Marò sono stati accusati di aver ucciso dei pescatori indiani nella ZEE indiana e sono stati arrestati e sottoposti a dei
procedimenti penali in India. L’Italia ritenendo che l’India non avesse la giurisdizione su quanto accaduto ha avviato un arbitrato
internazionale e si è rivolto all' ITLOS cioè il tribunale internazionale per il diritto del mare che ha sede ad Amburgo. Questo
tribunale ha statuito l'interruzione dei procedimenti avviati nei confronti dei Marò e la rimessione del caso a un ulteriore tribunale
arbitrale ad hoc che è stato istituito presso la Corte permanente di arbitrato con sede all’Aia (Olanda). Il tribunale in questione si
pronuncerà (udienza fissata per luglio) su quale Stato dovrà esercitare la giurisdizione sull'incidente avvenuto ai Marò. Non
decide sulla colpevolezza o innocenza dei Marò. L'India afferma che l'incidente è avvenuto a 33 miglia dalla costa indiana dove
l'India è solita esercitare la sua giurisdizione. L’Italia si oppone affermando che essendo avvenuto nella ZEE non sussista la
giurisdizione dell'India.
→ Oltre alla pirateria possono essere commessi altri atti illeciti via mare ad esempio: traffico di stupefacenti e di immigranti però
NON sono crimini internazionali, MA sono crimini transnazionali, perché NON sussiste il principio della giurisdizione universale,
NON sussiste un potere degli Stati in Alto mare di fermare e catturare navi che compiono traffici illeciti. Per poter catturare una
nave responsabile di tali traffici in mare secondo il diritto internazionale consuetudinario è necessario il consenso dello Stato della
bandiera di quella nave. Esistono le possibilità di stipulare degli accordi, delle convenzioni con gli Stati che forniscono questo
consenso a priori promettono o si impegnano a fornirlo.
8.10 ZONA DI RICERCA E SOCCORSO.
Il dovere di prestare assistenza in mare alle persone in pericolo è norma consuetudinaria antichissima che è stata recepita da
diverse convenzioni internazionali: la convenzione di Montego Bay, la convenzione Solas (salvaguardia delle vite umane in mare
del 1974), la convenzione Sar (ricerca e soccorso del 1979).
L’art. 98 della Convenzione di Montego Bay impone due obblighi allo Stato:
1) Quello di esigere che i comandanti delle sue navi procedano a salvare chiunque si trovi in pericolo in mare, ovviamente
senza mettere a repentaglio la vita del proprio equipaggio;
2) Che istituiscano un servizio permanente ed efficace di ricerca e soccorso nelle acque adiacenti il proprio mare.
L’Italia ha proclamato la propria zona di ricerca e soccorso, quindi un’area dove lo Stato è tenuto a prestare soccorso. Tutti gli
Stati che si affacciano nel Mediterraneo hanno proclamato e istituito zona di ricerca e soccorso anche la Libia la quale però è
totalmente incapace di svolgere tale funzione. Malta anche istituì questa zona, ma molto spropositata rispetto alle capacità estesa
fino a 200 miglia che sovrappone alla zona italiana, infatti vi sono state diverse controversie fra Malta e Italia.

8.11 ZONA DI IDENTIFICAZIONE AEREA.


La libertà di sorvolo è ammessa nello spazio aereo sopra l’alto mare, ma anche sopra la ZEE e la zona contigua. Sono emerse
numerose pretese di diversi Stati ad istituire lungo le proprie coste delle zone di identificazione aerea che si estendono per decine
di miglia nello spazio aereo sovrastante l’alto mare, in modo da poter identificare gli aerei che entrano in tali zone e che si
dirigono verso il loro territorio, che devono farsi identificare e fornire informazioni relative al volo alle autorità territoriali. Le zone di
identificazione aerea sono ammesse quando lo Stato eserciti tale diritto ragionevolmente e al fine di proteggere la sua sicurezza.

8.12 GLI STATI-ARCIPELAGO


Lo Stato arcipelago è costituito da uno o più arcipelaghi ed eventualmente da altre isole. L’arcipelago è un gruppo di isole, le
quali hanno le une con le altre rapporti così stretti da formare un tutt'uno geografico, economico, politico o che storicamente siano
considerate tali. E’ stato introdotto dalla Convenzione del 1982 che stabilisce che gli Stati-arcipelago possono tracciare delle linee
di base rette che congiungono i punti estremi delle isole o degli scogli emergenti dell’arcipelago.
n.b: la chiusura è ammissibile purché il tracciato delle linee includa al suo interno le isole principali dell’arcipelago e la
proporzione tra le acque racchiuse dalle linee sia tra uno e nove e uno. La lunghezza delle singole linee rette NON può essere
superiore a 100 miglia marine.
Uno Stato che si proclama Stato-arcipelago guadagna vaste aree marine. Le zone di mare all’interno di tali rette sono
denominate acque arcipelagiche e sono assoggettate alla sovranità dello Stato. A tali zone si applica il diritto di passaggio
arcipelagico il quale è assimilabile al diritto di passaggio in transito attraverso gli stretti e comprende il diritto di navigazione
e di sorvolo senza impedimento e per i sommergibili quello di transito in immersione.
9 IMMUNITÀ -LA TUTELA DELL’INDIPENDENZA STATALE

9.1 ESENZIONE DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE.


→ Una norma di diritto consuetudinario stabilisce che uno Stato NON può essere sottoposto a giurisdizione di fronte ai tribunali di
uno Stato estero, a meno che lo Stato non accetti volontariamente di sottoporsi alla giurisdizione di un altro Stato e dunque
rinunci all’immunità; ciascuno Stato godeva dell’immunità assoluta, tale norma era diretta a proteggere l’uguaglianza degli Stati
sul piano internazionale (uguaglianza sancita dalla Carta delle nazioni uniti e derogata dalla composizione del Consiglio di
sicurezza) e tutelare la loro indipendenza.
→ Oggi, la teoria dell’immunità è ristretta e lo si deve alla giurisprudenza italiana e belga (dopo la prima guerra mondiale) e
distingue: le attività iure imperii e le attività iure gestionis.
1. Le attività iure imperii sono attività che sono esercizio delle sue funzioni sovrane, per le quali ciascuno Stato, secondo il
diritto internazionale vigente, gode di immunità dalla giurisdizione di Stati esteri quindi è esente da giurisdizione di fronte ai
tribunali di un altro Stato nel compimento di queste attività;
2. Le attività iure gestionis cioè atti di natura privatistica, le attività nelle quali lo Stato agisce come agirebbe un privato, in
questo caso lo Stato NON gode dell’immunità.
La distinzione tra le due attività in alcuni casi è semplice: l’attività di addestramento degli aerei è attività iure imperii (esempio
tipico riconosciuto dalla Corte di Cassazione), mentre l’emissione di titoli di obbligazioni è da considerarsi iure gestionis. In alcuni
casi la distinzione tra le due attività è di dubbia determinazione, può accadere che la stessa attività, a seconda delle circostanze,
può essere sia iure gestionis e iure imperii: ad es. l’acquisto di un immobile da parte dello Stato nel territorio di uno Stato estero
può avvenire per puro investimento oppure essere adibito a sede di rappresentanza diplomatica (in questo caso non è evidente il
tipo di attività e quindi consideriamo lo scopo e non la natura dell’atto). Il venditore dell’immobile NON potrà convenire in giudizio
lo Stato estero, laddove sorga una controversia in relazione al pagamento del prezzo, se quell’immobile è destinato ad essere
adibito a sede dell’ambasciata (iure imperii); se l’acquisto è finalizzato ad un investimento, il venditore potrà citarlo in giudizio
(iure gestionis).
→ Nel caso di attività atti iure imperii lo Stato estero convenuto in giudizio ha sempre due possibilità: a) sollevare l’eccezione del
difetto di giurisdizione; b) oppure rinunciare all’immunità e costituirsi in giudizio.
In questo ambito sono state concluse due Convenzioni: la Convenzione di Basilea (conclusa nell’ambito del Consiglio d’Europa,
organizzazione a carattere regionale) del 1972 e la Convenzione Onu conclusa a New York nel 2004 (nell’ambito delle Nazioni
Unite, organizzazione a carattere universale). Queste seguono il “Criterio della Lista”: il principio generale è quello secondo cui
uno Stato NON può essere sottoposto a giurisdizione straniera MA elencano una serie di situazioni in cui l’immunità dalla
giurisdizione NON può essere invocata, queste situazioni riguardano sostanzialmente attività iure gestionis.
→ La nostra Corte di Cassazione ha incluso una nuova eccezione all’immunità degli Stati dalla giurisdizione e si tratta di
un’attività iure imperii quando l’atto in questione costituisca un crimine internazionale (Caso Ferrini).

9.2 IMMUNITÀ DALLE MISURE CAUTELARI ED ESECUTIVE.


Alla distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis corrisponde l’analoga distinzione tra:
- beni adibiti allo svolgimento di attività sovrane dello Stato (es. immobile dell’ambasciata);
- beni che rientrano nella sfera delle attività private dello Stato (es. immobili acquistati per investimenti).
Anche in questo caso è prevista una immunità di carattere ristretto (sviluppato dai tribunali svizzeri ed italiani a partire dagli
anni ‘70 per poi essere adottato anche dai tribunali di altri paesi fino ad essere accolto dalla Convenzione ONU del 2004): gli Stati
NON possono sottoporre a misure esecutive i beni di Stati esteri destinati allo svolgimento di funzioni pubblicistiche, possono
invece procedere all’esecuzione dei beni destinati ad attività private.
→ Le misure cautelari non sono ammesse a meno che lo Stato NON vi abbia consentito.
Per quanto riguarda alcuni beni sono sorti dei dubbi: es. i conti correnti della missione diplomatica che potrebbero essere usati
tanto per attività iure imperii tanto per attività iure gestionis, la giurisprudenza è indecisa tra la tesi che privilegia il denaro
depositato sul conto bancario della missione diplomatica è destinato ad attività sovrane oppure la tesi opposta che si fonda
sull’impossibilità di dimostrare che la somma depositata sul conto corrente sia destinata a soddisfare le attività pubblicistiche
dell’ente. In seguito è stato deciso che: i depositi bancari e postali delle rappresentanze diplomatiche e consolari NON possono
essere soggetti ad esecuzione forzata.

9.3 IMMUNITÀ E DIRITTO DI ACCESSO ALLA GIUSTIZIA.


Il diritto di accesso alla giustizia garantito dall’art.24 della Costituzione e dall’art.6 della Cedu consiste nel fatto che ogni individuo
ha diritto a ricorrere a competenti tribunali contro atti che violino il diritto fondamentali a lui riconosciuti.
9.4 IMMUNITÀ DEGLI ORGANI STRANIERI (ORGANICA)
Le attività dell'individuo-organo NON sono attività proprie dell’individuo MA dello Stato di cui è organo e per cui agisce, l’attività è
quindi imputata allo Stato TRANNE che venga commesso un crimine internazionale, in questo caso l’atto non solo è imputato allo
Stato ma anche all’individuo organo, si parla di immunità organica, secondo cui l’attività tenuta dagli organi è considerata come
attività dello Stato e non come attività individuale posta in essere da soggetti privati. All’immunità organica si accompagna
l’immunità di natura personale, per gli atti che l’individuo organo svolge al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni.
n.b: le due immunità sono comunque distinte. Tra gli organi dello Stato vi sono:
a) i capi di Stato e i capi di governo, che godono dell’immunità organica (come qualsiasi altro organo dello Stato) e beneficiano
delle stesse immunità degli agenti diplomatici quando si trovano all’estero, per garantire lo svolgimento delle loro funzioni
(inviolabilità dei locali, della persona, fiscale, della corrispondenza) MA l’immunità dalla giurisdizione penale non spetta al
termine della carica;
b) il ministro degli affari esteri gode dell’immunità completa dalla giurisdizione penale sia per gli atti individuali che per quelli
ufficiali, purché sia in carica, l’immunità infatti sussiste anche quando sia stato commesso un crimine internazionale perché
strumentale allo svolgimento delle sue funzioni; l’immunità organica viene meno per le attività clandestine poste in territorio
altrui.

9.5 IMMUNITÀ DEGLI AGENTI DIPLOMATICI


Gli agenti diplomatici sono dei funzionari di uno Stato che svolge, in territorio estero, funzioni attinenti alle relazioni internazionali.
Vengono investiti delle loro funzioni dopo la procedura di accreditamento. Questo settore del diritto internazionale è oggetto di
un’apposita convenzione promossa dalle Nazioni unite: la Convenzione di Vienna del 1961, in Italia resa esecutiva nel 1967.
→ Secondo il diritto internazionale e la Convenzione di Vienna agli agenti diplomatici sono accordate delle immunità diplomatiche
per consentirgli di svolgere liberamente le loro funzioni, lo proteggono sia nei confronti degli Stati in cui transita per raggiungere la
sede diplomatica o farvi ritorno e sia nei confronti dello Stato accreditatario.
Oltre che ai capi missione e al personale diplomatico delle missioni, le immunità si applicano alle loro famiglie, al personale non
diplomatico della missione e al personale di servizio degli agenti diplomatici.
Le immunità sono:
a) l’inviolabilità dei locali della missione diplomatica, che si estende anche ai mezzi di trasporto e alla corrispondenza ufficiale
della missione; l’inviolabilità consiste nel fatto che gli organi dello Stato territoriale non vi possono penetrare senza il
consenso del capo della missione nonostante la sovranità comunque appartenga allo Stato accreditatario e NON allo Stato
accreditante (extraterritorialità della missione diplomatica). In più una persona che trova rifugio nella missione
diplomatica NON può essere arrestata a meno che il capo della missione esprima il proprio assenso;
b) l’inviolabilità personale dell’agente diplomatico, cioè della persona dell’agente diplomatico; lo Stato territoriale NON può
esercitare misure coercitive nei confronti dell’agente diplomatico straniero, che non può essere sottoposto all’arresto o alla
detenzione;
c) l’immunità dell’agente diplomatico dalla giurisdizione locale, per gli atti compiuti come persona privata (oltre quindi agli atti
compiuti in relazione al suo lavoro), l’immunità dalla giurisdizione dei tribunali dello Stato territoriale per gli atti privati vale
soltanto finché durano le funzioni diplomatiche della persona in questione, una volta terminata la missione può essere
sottoposto alla giurisdizione dello Stato presso cui era accreditato per tali atti. L’immunità organica dura anche dopo la
cessazione delle sue funzioni, in quanto atti imputabili allo Stato accreditante. L’agente che si renda responsabile di reati può
essere dichiarata dallo Stato territoriale persona non grata e lo Stato può porre fine alle sue funzioni. ! SOLO lo Stato
accreditante può rinunciare all’immunità dei suoi agenti diplomatici dalla giurisdizione locale.
d) l’immunità fiscale, cioè l’esenzione fiscale delle imposte dirette personali e dei dazi doganali, ma non le imposte indirette.

9.6 IMMUNITÀ DEI CONSOLI


I Consoli sono funzionari attraverso i quali lo Stato esercita attività del suo diritto interno sul territorio di uno Stato straniero, per
concessione di questo. Anche le funzioni e immunità dei Consoli sono disciplinate dalla Convenzione di Vienna del 1961, ad essi
sono riconosciute le cosiddette immunità consolari analoghe alle immunità diplomatiche MA meno estese: anch’essi godono
dell’inviolabilità personale, tranne in caso di reato grave possono essere arrestati e dichiarati persone non grate; godono
dell’immunità organica (immunità dalla giurisdizione solamente per gli atti che attengono all’esercizio delle sue funzioni) e
dell’archivio consolare; l’inviolabilità dell’abitazione e della corrispondenza.

9.7 IMMUNITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI


Si discute se spettano alle organizzazioni internazionali nello Stato del foro l’immunità dalla giurisdizione. Di regola si provvede
mediante stipulazione di strumenti ad hoc per le singole organizzazioni. La Carta delle Nazioni unite prevede che
l’Organizzazione gode nel territorio di ciascuno dei suoi membri dei privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei
suoi fini. Ci sono molti pareri discordanti, chi la riconosce e chi no MA la Suprema Corte ha statuito che bisogna determinare caso
per caso se queste ultime godono dell’immunità dalla giurisdizione aggiungendo che non è sicuro affermare l’esistenza di una
norma consuetudinaria che estenda a tutte le organizzazioni internazionali il principio dell’immunità dalla giurisdizione.
→ I funzionari internazionali godono SOLO dell’immunità organica (quindi solo per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro
funzioni), NON godono di immunità e privilegi di natura personale.
10 LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE.
Innanzitutto, bisogna fare riferimento all’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di Giustizia, che è annesso alla Carta
delle Nazioni Unite e costituisce parte integrante di essa.

***La Corte internazionale di Giustizia ha due tipi di competenza: una competenza contenziosa e una competenza consultiva.
Nell’esercizio della competenza contenziosa la Corte si pronuncia sulle controversie che gli Stati le sottopongono tramite
sentenza, la quale è vincolante per le parti della controversia; la giurisdizione della Corte ha base consensuale, cioè essa si può
pronunciare su una controversia SOLO se le parti della controversia stessa sono d’accordo affinché questo accada.***
L’art.38 stabilisce le modalità attraverso le quali la Corte deve risolvere le controversie che le sono sottoposte e stabilisce che la
Corte può pronunciarsi secondo diritto oppure secondo equità previsto dall’art. 38 suddiviso in due paragrafi, il paragrafo 1
riguarda le competenza della Corte di decidere secondo diritto le controversie che le sono sottoposte, mentre il paragrafo 2
prevede la competenza della Corte di decidere queste controversie “ex aequo et bono”, ossia secondo equità; tuttavia ad oggi gli
Stati parti di una controversia non hanno mai chiesto alla Corte di decidere secondo equità.
→ MA l’art.38 dello Statuto è considerato da molti un elenco delle fonti del diritto internazionale: nell’ordine troviamo indicati i
trattati internazionali, la consuetudine e i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. Per quanto riguarda,
invece, le sentenze e gli insegnamenti degli studiosi più qualificati (cioè i contributi della dottrina), questi sono solo indicati come
mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche quando manchino disposizioni convenzionali o pattizie, o come
strumenti di integrazione. Effettivamente il contenuto dell’art. 38 par.1 nelle lettere a,b e c, può essere considerato un elenco delle
fonti del diritto internazionale, tuttavia soltanto parziale, infatti NON sono considerate due fonti del diritto internazionale, cioè: a) le
norme imperative, (anche dette norme cogenti o di ius cogens); c) le cosiddette fonti previste da accordo o fonti di terzo grado,
cioè quegli atti vincolanti che sono il prodotto di meccanismi di produzione giuridica previsti da accordi internazionali. n.b: NON
confondere le fonti previste da accordo con gli accordi.
Perché all’art. 38 mancano le norme imperative? Per un motivo di carattere cronologico: lo Statuto della Corte internazionale
di Giustizia, allegato alla Carta delle Nazioni Unite è stato adottato, come la Carta, nel 1945, mentre la nozione di norma
imperativa è successiva. Essa è contenuta per la prima volta nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, quindi
fino a quel momento non era conosciuta questa categoria di fonti del diritto internazionale.
→ Innanzi tutto il primo strumento che la Corte deve applicare sono i trattati, cioè i trattati conclusi tra le parti in lite, poi le norme
consuetudinarie, in quanto norme generali che vincolano tutti gli Stati e quindi vincolano anche gli Stati parti della controversia, e
infine i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.

10.1 CONSUETUDINE.
All’art. 38 è definita come una general practice accepted as law, cioè una pratica generale accettata come diritto. Da questa
definizione noi desumiamo i due elementi che devono sussistere perché possa parlarsi di consuetudine, essi sono:
1) la diuturnitas è la ripetizione costante di un comportamento nel tempo da parte della generalità degli Stati; è anche
considerato l’elemento materiale della consuetudine, è la prassi, la ripetizione costante di un comportamento nel tempo.
→ Generalità di Stati non vuol dire totalità, infatti ciò che conta è che la grande maggioranza degli Stati tenga quel
comportamento in maniera ripetuta nel tempo, con la convinzione della sua conformità a diritto;
→ Affinché si formi una consuetudine il tempo necessario è tanto più breve quanto più vasta e diffusa sia l’assunzione di quel
comportamento da parte degli Stati della comunità internazionale, tuttavia il tempo è un fattore ineliminabile, infatti non esistono
le cosiddette consuetudini istantanee.
2) l’opinio iuris ac necessitatis oppure opinio iuris sive necessitatis, è la convinzione che quel comportamento è conforme a
diritto, è anche definito l’elemento soggettivo o psicologico, (nonostante l’improprietà di assimilare lo Stato ad un uomo,
poiché un uomo ha una psiche mentre uno Stato ne è privo) necessario per la formazione della consuetudine.
3)
Come si fa a capire se un comportamento ripetuto nel tempo dagli Stati sia posto in essere con la convinzione che sia
oggetto di un diritto o di un obbligo? L’opinio iuris può essere desunta da diversi strumenti: da dichiarazioni formulate dagli
Stati, da risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma in questo caso l’opinio iuris non è attribuibile a quegli Stati
che hanno votato contro la risoluzione, oppure a quelli che hanno votato a favore ma che nelle dichiarazioni precedenti il voto o
post voto hanno sottolineato che la risoluzione non è dichiarativa del diritto consuetudinario.
Tale comportamento può essere oggetto di un obbligo, ad esempio l’obbligo di astenersi dall’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali (riconosciuto dalla Corte internazionale di Giustizia nella sentenza resa nel caso Nicaragua contro gli Stati Uniti del
1986).
MA il comportamento oggetto della consuetudine, può anche consistere in un diritto, pensiamo ad esempio al diritto di passaggio
inoffensivo delle navi straniere nel mare territoriale, che è oggi considerata una norma di carattere consuetudinario in ragione
della ripetizione costante nel tempo di un comportamento degli Stati costieri, nell’accordare il passaggio inoffensivo con la
convinzione che la nave straniera abbia questo diritto.
n.b: La differenza tra la consuetudine, che è fonte del diritto internazionale, e il mero uso, in entrambi i casi c’è una
comportamento ripetuto nel tempo, MA solo nel caso della consuetudine quel comportamento è accompagnato dal convincimento
da parte degli Stati che lo pongono in essere che esso sia conforme a diritto.
→ La consuetudine è fonte di norme generali, cioè vincola tutti gli Stati indipendentemente dal fatto che questi abbiano
contribuito con il loro comportamento alla formazione della consuetudine.
Bisogna menzionare la cosiddetta “teoria dell’obiettore permanente”: questa teoria tiene conto dello Stato che si oppone
persistentemente alla formazione di una consuetudine, dunque tenendo un comportamento contrario a quello che sarebbe
richiesto dalla consuetudine, e motivando in maniera espressa questo comportamento; questa teoria NON è oggi accolta dal
diritto internazionale, quindi la teoria del cosiddetto “persistent objector” è in realtà da respingere perché la consuetudine vincola
TUTTI gli Stati, anche quelli che si sono persistentemente opposti alla sua formazione, perciò una volta che la consuetudine si è
formata vincola tutti gli Stati.

Come si fa quindi ad accertare se si sia affermata una consuetudine? Può avvenire attraverso un’indicazione autorevole
della Corte internazionale di Giustizia, se essa in una sua sentenza dichiara una norma come norma consuetudinaria in
considerazione dell’autorevolezza della Corte (possiamo star certi che si tratta di norma consuetudinaria), e questo dà anche alle
pronunce della Corte un peso maggiore rispetto ad un qualsiasi tribunale interno che possa qualificare una norma come norma
consuetudinaria, anche se la giurisprudenza interna può contribuire ad accertare la formazione di una nuova consuetudine.

La consuetudine è fonte di norme generali non scritte MA le norme consuetudinarie che sono non scritte, possono essere
tradotte in norme scritte e contenute in quelle che vengono chiamate “convenzioni di codificazione”, trattati che riproducono le
norme consuetudinarie su una determinata materia.
A questo proposito dobbiamo soffermarci sulla Commissione di diritto internazionale, un organo sussidiario dell’Assemblea
Generale, è stata istituita dall’Assemblea negli anni 40, ed è composta da esperti di diritto internazionale. Attraverso quest’organo
l’Assemblea svolge quella funzione che le è attribuita dall’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite, ovvero la funzione di
promuovere la codificazione del diritto internazionale e il suo sviluppo progressivo; infatti la Commissione del diritto internazionale
prepara dei progetti di convenzione che prendono il nome di Draft articles, cioè progetti di articoli, nei quali codifica le norme
consuetudinarie. Poiché essa ha anche il compito assegnato dall’Assemblea Generale, di promuovere lo sviluppo progressivo del
diritto internazionale, accanto a queste norme codificative del diritto consuetudinario, di solito le convenzioni contengono anche
alcune norme innovative, in misura maggiore o minore, e sta all’interprete capire se si tratta di una norma codificativa
consuetudinaria o se si tratta di una norma innovativa e quindi di una mera disposizione pattizia.
Esempi di convenzioni di codificazione, elaborate dalla Commissione, sono: la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del
1969, la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961, la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963
e molte altre. La Commissione del diritto internazionale ha anche elaborato alcuni progetti di articoli come “il progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale degli Stati” adottato nel 2001 che non si sono ancora tradotti e forse non si tradurranno mai in
un vero trattato, cioè in un testo convenzionale, ma che comunque costituiscono un riferimento fondamentale per gli Stati e per le
organizzazioni internazionali e gli altri enti che partecipano alla vita di relazione internazionale.
Oltre alle consuetudini che sono fonti di norme generali non scritte, vi sono anche delle consuetudini particolari che vincolano
soltanto una ristretta cerchia di Stati che possiamo distinguere in due tipi:
- le consuetudini regionali, cioè le consuetudini che vincolano solo gli Stati appartenenti ad una determinata regione
geografica (es. l’uti possidetis che nacque come una consuetudine particolare in America latina);
- le consuetudini che si formano in deroga a norme di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, abbiamo parlato
a questo proposito delle modalità di voto in seno al Consiglio di Sicurezza e abbiamo visto che in base all’ art. 27 par.3 della
Carta delle Nazioni Unite, una risoluzione su questioni non procedurali, quindi sostanziali, è adottata dal Consiglio di
sicurezza soltanto con il voto positivo di almeno nove membri, all’interno dei quali siano ricompresi tutti i membri permanenti,
perché abbiamo visto che i membri permanenti hanno il potere di veto. Invece in deroga a questa disposizione, si è formata
tra gli Stati membri dell’organizzazione, una consuetudine secondo la quale l’astensione di uno o più membri permanenti
NON impedisce l’adozione di una risoluzione.

10.2 NORME IMPERATIVE (O COGENTI)


Le norme imperative NON sono incluse nell’art. 38 par.1 dello Statuto della Corte internazionale di Giustizia, in quanto all’epoca
dell’adozione dello Statuto questo tipo di fonte non era ancora conosciuto; è stata la convenzione di Vienna del 1969 sul diritto
dei trattati, a darne una prima definizione e a introdurre la nozione di norma imperativa nell’art.53 dove indica una delle cause di
invalidità dei trattati cioè la contrarietà ad una norma imperativa, dunque un trattato che sia in contrasto con una norma
imperativa è affetto da una invalidità assoluta.
La definizione di norma imperativa data dall’articolo è la seguente:
“Ai fini della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta
dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga (norma
inderogabile) e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale successiva avente lo
stesso carattere.”
→ Quindi abbiamo detto che sono norme imperative secondo l’art 53, quelle norme accettate e riconosciute dalla comunità
internazionale degli Stati nel suo insieme come norme non derogabili e non modificabili, SE NON da norme successive aventi
lo stesso carattere.
In sostanza le norme imperative sono norme che nascono come norme consuetudinarie, le quali sono caratterizzate da un opinio
iuris MA in questo caso l’opinio iuris consiste non solo nella convinzione che quel comportamento è conforme a diritto, ma anche
nella convinzione che la norma in questione non è derogabile mediante accordo, ovvero nella convinzione della sua
inderogabilità.
N.B: C’è una differenza netta tra le norme consuetudinarie e le norme imperative: le norme consuetudinarie sono derogabili
mediante accordo a titolo di lex specialis, cioè in virtù del principio di specialità (l’accordo è tradizionalmente considerato una
fonte di secondo grado rispetto alle consuetudini che sono considerate fonti di primo grado, questo perché secondo una
convinzione generalizzata gli accordi traggono la loro obbligatorietà da una norma consuetudinaria, la norma “pacta sunt
servand” -i patti devono essere osservati- quindi, gli accordi sono tradizionalmente considerati fonti di secondo grado rispetto
alle consuetudini, ma pur essendo subordinati alle consuetudini, essi possono derogare alle norme consuetudinarie perché detta
una disciplina più dettagliata applicabile tra le parti del trattato, rispetto a quella contenuta nella norma consuetudinaria che
vincola la generalità degli Stati), le norme cogenti NON possono essere derogate: un accordo che sia in contrasto con una norma
cogente è invalido, invece il fatto che un accordo sia in contrasto con una norma consuetudinaria non è di per sé causa di
invalidità, poiché esso può dettare una disciplina più specifica rispetto alla norma consuetudinaria di una data materia, applicabile
nei soli rapporti tra gli Stati parti.
→ Così come una consuetudine può essere modificata da una consuetudine successiva, anche una norma cogente può essere
modificata da una norma cogente successiva, infatti se andiamo a rileggere la disposizione dell’art 53, questo afferma che: “una
norma imperativa è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come una norma
che non può essere derogata e che può essere modificata solo da una norma internazionale successiva avente lo stesso
carattere”.
Esempi di norme cogenti: il divieto di aggressione, detto divieto è considerato il nucleo del divieto dell’uso della forza nelle
relazioni internazionali (alcuni considerano nel suo insieme il divieto dell’uso della forza come una norma cogente, ma la Corte
internazionale di Giustizia non l’ha mai affermato, si è limitata ad affermare che il divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni
internazionali è una norma consuetudinaria, certamente non c’è dubbio sul fatto che il divieto di aggressione sia una norma
cogente) il divieto di genocidio (riconosciuta dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza resa nel caso Repubblica
democratica del Congo contro Ruanda), altre norme che hanno sicuramente carattere cogente, anche se non c’è una pronuncia
della Corte internazionale di Giustizia è il divieto di apartheid, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto di
commettere crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Corte è da sempre molto cauta a riconoscere ad una norma
carattere di norma cogente, e in ragione di questa sua prudenza, se quest’ultima arriva a definire una norma come norma
cogente certamente è una norma cogente.

10.3 ACCORDI INTERNAZIONALI.


Gli accordi internazionali o trattati, patti, protocolli, convenzioni (sono tutti sinonimi) sono il risultato della concorde manifestazione
di volontà di due o più enti, dotati della necessaria capacità internazionale, diretta a produrre determinati effetti disciplinati dal
diritto internazionale. Perché parliamo di due o più enti? Perché gli accordi internazionali possono essere conclusi tra Stati, MA
anche tra uno Stato e un’organizzazione internazionale, o tra organizzazioni internazionali, possono essere conclusi dagli insorti
con il governo costituito, da movimenti di liberazione nazionale o anche dagli enti sui generis (Santa Sede, Ordine di Malta,
Comitato internazionale della Croce Rossa).
→ Inoltre un accordo internazionale può essere concluso sia in forma scritta, e questo è il caso più frequente, sia in forma orale;
nel diritto internazionale vige infatti, il principio della libertà di forma. Nel caso in cui l’accordo sia concluso in forma orale, sorge
però il problema di stabilire esattamente il contenuto dell’accordo, è importante stabilirlo per evitare successive contestazioni da
parte dell’uno o dell’altro Stato. Perciò il contenuto di quanto viene concordato risulta di solito dalle cosiddette minute degli
incontri: sono praticamente dei verbali degli incontri tra le delegazioni degli enti interessati.
La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, entrata in vigore nel 1980, che regola tutti gli aspetti della vita del
trattato, dalla sua formazione alla sua estinzione, definita il trattato sui trattati disciplina, tuttavia, soltanto gli accordi in forma
scritta e soltanto i trattati tra Stati. È stata in seguito conclusa un ulteriore Convenzione nel 1986, la Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati specificando tra Stati e organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali, NON è però
ancora entrata in vigore, quindi non ha avuto grande successo; di fatto questa dell’86 riproduce gran parte delle disposizioni di
quella del ’69 avendo come riferimento però soltanto i trattati tra Stati e organizzazioni internazionali e tra organizzazioni
internazionali.
Un trattato può risultare da un unico documento, ma può anche risultare da due o più documenti, per esempio nel caso in cui ci
sia uno scambio di note o uno scambio di lettere.
→ Dobbiamo distinguere: gli accordi bilaterali, accordi tra due soggetti (es. gli scambi di note o di lettere) e gli accordi
multilaterali, accordi tra più parti che si distinguono in:
- accordi multilaterali aperti che contengono una clausola denominata clausola di adesione, che stabilisce le modalità
secondo le quali i soggetti che non hanno partecipato ai negoziati e non hanno firmato l’accordo possono in un momento
successivo divenire parti del trattato (es. lo Statuto della Corte penale internazionale è un accordo multilaterale aperto,
l’obiettivo è che tutti gli Stati del mondo diventino parti dello Statuto di Roma e che quindi la Corte possa avere una
giurisdizione universale);
- accordi multilaterali chiusi sono quelli che NON contengono la clausola di adesione, quindi Stati o soggetti diversi da quelli
che hanno negoziato e firmato l’accordo NON possono divenirne parti.
N.B: L’accordo può disciplinare qualsiasi materia MA c’è un unico limite che è rappresentato dallo ius cogens, cioè dal diritto
cogente: un accordo in contrasto con una norma cogente è invalido (art.53, Convenzione di Vienna). Ad esempio: tra le norme
cogenti vi è senz’altro il divieto di aggressione, un eventuale accordo tra l’Ungheria e l’Italia in base al quale i due Stati si
impegnano a sostenersi a vicenda in caso di aggressione nei confronti di uno Stato terzo, quindi un trattato di alleanza
aggressiva, un trattato del genere è invalido, perché in contrasto con la norma cogente sul divieto di aggressione invece sarebbe
legittimo e valido un patto di legittima difesa collettiva, un accordo in virtù del quale gli Stati che ne sono parti si impegnano a
sostenersi a vicenda, nel caso in cui subiscano un’aggressione da parte di uno Stato terzo.
Riguardo ai rapporti tra accordo e diritto cogente dobbiamo considerare anche l’art. 64, che riguarda la sopravvenienza di una
nuova norma imperativa del diritto internazionale generale (ius cogens superveniens) è una causa di estinzione del trattato.
Nell’art 53 viene affermato che un accordo nel momento in cui è concluso è in contrasto con una norma cogente preesistente è
invalido, l’ipotesi disciplinata dall’art 64 riguarda un accordo tra due o più parti, perfettamente valido nel momento in cui viene
concluso, e che diventa invalido e si estingue nel caso in cui sopravvenga una norma cogente con cui questo accordo è in
contrasto.

10.4 PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO


Sono principi propri dell’ordinamento interno della generalità degli Stati e che proprio perché fanno parte dell’ordinamento interno
pressoché di tutti gli Stati, sono assunti dal diritto internazionale.
→ Non si parla più di principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili ma piuttosto di principi generali di diritto
riconosciuti dall’insieme delle Nazioni perché “nazioni civili” era un’espressione usuale ai tempi del Colonialismo mentre ad
oggi risulta anacronistica anzi è considerata offensiva nei confronti dei paesi in via di sviluppo che nel linguaggio comune
risultavano non civili e contrapposti alle potenze dell’epoca come gli Stati Uniti, l’impero zarista che poi divenne Unione Sovietica.
Sono richiamati nell’ordinamento internazionale allo scopo di integrare quando necessario il diritto pattizio e consuetudinario,
dunque sono principi che nascono nell’ordinamento interno dello Stato e che proprio perché sono comuni alla generalità degli
Stati sono assunti dal diritto internazionale con una funzione integratrice del diritto pattizio e consuetudinario, da ciò si capisce
la loro collocazione nell’art. 38 dello Statuto della corte internazionale di giustizia, dopo i trattati e le consuetudini.
n.b: Infatti la Corte, nel risolvere una controversia, innanzitutto deve applicare i trattati internazionali stipulati tra le parti della
controversia, successivamente le consuetudini e in terzo luogo laddove manchino o siano lacunose le norme pattizie e
consuetudinari appunto i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni.
Alcuni esempi di principi, che solitamente sono espressi in latino, poiché sono principi che hanno delle origini antiche negli
ordinamenti interni (sono dunque secolari) sono: a) Nemo iudex in re sua -nessuno è giudice della propria casa- è bene, per la
propria carriera di giurista, avere bene in mente queste formule per applicarle al momento giusto; b) In claris non fit interpretatio,
laddove il contenuto della disposizione è chiaro non è necessaria alcuna interpretazione; c) Ne bis in idem, bisogna dunque
distinguere il principio del ne bis in idem nazionale da quello internazionale: per quanto riguarda quello nazionale, in virtù di
questo nessuno può essere sottoposto allo stesso giudizio e condannato all’interno dello stesso Stato due volte, dunque il diritto
di non essere sottoposto e condannato due volte per lo stesso reato all’interno dello Stato, quello internazionale comporta il diritto
di non essere sottoposto e condannato per un reato dai tribunali di uno Stato quando per lo stesso reato è già stato processato e
condannato dai tribunali di un altro Stato. La Corte costituzionale italiana in una famosa sentenza del 1967 NON ha tuttavia
riconosciuto al principio del ne bis in idem internazionale lo status di principio generale di diritto riconosciuto dalle Nazioni,
dunque in Italia un soggetto può essere sottoposto a giudizio anche se è già stato processato e condannato all’estero. In ogni
caso il ne bis internazionale opera soltanto nei rapporti tra tribunali di Stati diversi.

***E per quanto riguarda la Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale del
1998 (questo Statuto è entrato in vigore nel 2002 la Corte che ha sede all’Aia, in Olanda ha iniziato a funzionare nel 2003) è
competente a processare e punire gli individui che siano responsabili di crimini di guerra, contro l’umanità, di genocidi, di
aggressione (Naturalmente la Corte si occupa esclusivamente dei maggiori responsabili di questi crimini) e naturalmente lo
Statuto della corte internazionale o Statuto di Roma stabilisce che nessuno individuo che sia già stato processato dalla corte
penale internazionale può essere nuovamente riprocessato per quegli stessi crimini (fatti) davanti ad un tribunale interno. Questa
regola NON ammette eccezioni.
Lo Statuto di Roma stabilisce che un individuo che è stato processato dal tribunale interno per lo stesso fatto non può essere
riprocessato dalla corte internazionale. La suddetta regola incontra delle eccezioni, le seguenti:
- Il processo del tribunale interno mirava a sottrarre il soggetto dalla sua responsabilità, un cosiddetto processo farsa, ovvero
si sapeva già quale sarebbe stato l’esito, sarebbe stato assolto o condannato ad una pena piuttosto lieve a cospetto del
crimine commesso;
- Il processo davanti al tribunale interno non è stato condotto in maniera indipendente e imparziale nel rispetto delle garanzie
previste dal diritto internazionale.***
10.5 FONTI PREVISTE DA ACCORDO
Da non confondere con gli accordi internazionali, sono dette così perché trovano il fondamento della loro obbligatorietà in un
accordo internazionale, che di solito è o un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale o anche un altro trattato che non
abbia per oggetto la suddetta istituzione, come esempio di fonte prevista d’accordo, che non sia istitutivo di un accordo
internazionale, possiamo citare la clausola della nazione più favorita, di solito è inclusa in un trattato in materia commerciale, in
materia di investimenti tra due o più Stati, impone a ciascuna delle parti del trattato di riconoscere a qualsiasi altra parte del
trattato il trattamento più favorevole (es. in caso di dazi doganali, che abbia riconosciuto ad uno Stato terzo).
Come fonti previste d’accordo possiamo menzionare anche gli atti vincolanti emanati dagli organi delle organizzazioni
internazionali, questi di solito hanno solamente il potere di adottare raccomandazioni, atti con contenuto meramente esortativo. In
alcuni casi il trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale attribuisce ad alcuni organi il potere di adottare atti vincolanti,
questi saranno dunque fonti previste d’accordo perché il meccanismo di produzione giuridica di cui sono il risultato scaturisce da
un accordo:
- Un primo esempio di atti vincolanti e dunque fonti previste d’accordo sono i regolamenti, le direttive e le decisioni che l’Ue
può emanare secondo l’art. 288 del TFUE insieme agli atti non vincolanti quali pareri e raccomandazioni (sono fonti previste
d’accordo solo gli atti vincolanti).
- un altro esempio è quello delle Nazioni Unite l’organo dotato di adottare atti vincolanti è il Consiglio di sicurezza che può
attuare risoluzioni a carattere esortativo ma anche risoluzioni vincolanti, ad esempio quelle con cui impone agli Stati membri
di usare la forza coercitiva nei confronti di Stati, o enti non statali, considerati responsabili di una minaccia alla pace, di una
violazione alla pace o di un atto di aggressione; in alcuni limitati casi anche l’assemblea generale attua atti vincolanti.
N.B: Ciò che deve essere chiaro è che sono fonti previste d’accordo gli atti vincolanti che sono emanati dagli organi delle
organizzazioni internazionali.
Vediamo ora di considerare un’altra fonte prevista d’accordo che può essere stabilita da un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale o di un trattato semplice avente un qualsiasi oggetto diverso, cioè la procedura di emendamento con effetti erga
omnes, in ogni caso deve trattarsi di un trattato multilaterale.
La regola fondamentale è quella stabilita dalla Convenzione di Vienna: un trattato può essere modificato da un trattato
successivo, poiché la modifica sia efficace è necessario che TUTTI gli Stati facenti parte del trattato precedente continuino ad
essere parte del trattato successivo, MA il trattato può prevedere diversamente che le modifiche diventino efficaci per gli Stati
parte indipendentemente da una loro ratifica del trattato successivo.
La carta delle Nazioni Unite disciplina in 2 articoli diversi la revisione e l’emendamento (sono entrambe procedure erga omnes):
- l’emendamento riguarda la modifica di singole clausole, prevista dall’art.108
- la revisione invece una modifica più incisiva dell’intero contenuto del trattato e di regola la revisione di un trattato avviene
nell’ambito di una conferenza convocata appositamente a cui partecipano gli Stati parte del trattato e si parlerà di conferenza
di revisione, prevista dall’art.109.
→ L’art. 108 stabilisce che un emendamento alla carta delle Nazioni Unite, modifiche singole di articoli della carta devono essere
adottati dai 2/3 dell’assemblea e dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza e vincoleranno anche gli Stati che non
l’hanno adottato, quindi l’emendamento essendo un atto successivo dovrebbe essere adottato da tutti gli Stati membri per essere
vincolante, invece qui si stabilisce che l’emendamento sarà vincolante per tutti i membri quando si sarà raggiunta la soglia dei 2/3
degli Stati membri.
→ Per la revisione è prevista una procedura analoga dettata dell’art.109: è prevista la convocazione di una conferenza di
revisione della carta dei membri delle Nazioni Unite, ma perché questa conferenza si tenga è necessario che 2/3 degli Stati
membri siano favorevoli, e che tra questi ci siano 9 Stati membri del consiglio di sicurezza (non si applica il diritto di veto). La
revisione della carta decisa durante questa conferenza, entrerà in vigore per tutti gli Stati membri quando sarà stata decisa e
ratificata da 2/3 degli Stati membri tra cui tutti i 5 Stati permanenti.
Perché la procedura di emendamento con effetti erga omnes è fonte prevista d’accordo? Perché la decisione di emendare
il trattato è presa solo da un gruppo di Stati MA automaticamente sono vincolati tutti gli Stati, da decisioni da loro di per sé non
ratificate; la procedura ordinaria o quella di revisione ordinaria NON è fonte prevista d’accordo (lo saranno solo quando l’accordo
in questione andrà a vincolare anche gli Stati che non ratificano).
Per esempio tra le disposizioni che necessitano di modifica, anzi per meglio dire di abrogazione vi è il Consiglio di
amministrazione fiduciaria, che aveva il compito di sovraintendere all’amministrazione dei territori coloniali, in attesa della loro
indipendenza, ormai il processo di decolonizzazione è terminato da più di 30 anni infatti questo consiglio non si riunisce più,
dunque andrebbe eliminato. Un altro che andrebbe eliminato, sono le misure nei confronti di Stati ex nemici, comportanti l’uso
della forza armata, consentita dalla carta nei confronti degli Stati nemici delle Nazioni unite durante la seconda guerra mondiale
(Germania, Italia e Giappone); l’uso della forza armata era prevista per prevenire una politica di aggressione dalle tre precedenti
potenze, oggi queste sono membri delle nazioni unite perciò queste disposizioni sono ormai superate e nell’ambito di una
revisione andrebbero eliminate.

La Giurisprudenza e la dottrina
L’art.38 paragrafo 1 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia fa riferimento alla giurisprudenza e alla dottrina
specificando che costituiscono mezzi sussidiari delle norme giuridiche, quindi NON sono fonti del diritto internazionale.
N.B: È dunque chiaro che né dottrina e né giurisprudenza siano fonti del diritto internazionali, le fonti come abbiamo visto sono
le consuetudini, i trattati, i principi generali riconosciuti dalle nazioni e ci sono poi altre due fonti che non sono indicate nell’art. 38
ovvero le norme cogenti (Ius cogens) e le fonti previste d’accordo.
→ Per quanto riguarda la giurisprudenza, è bene chiarire che le sentenze emesse dai tribunali internazionali, vincolano SOLO le
parti in lite (es. le sentenze della Corte internazionale di giustizia vincolano solo gli Stati protagonisti della controversia) e che il
giudice internazionale è libero nella sua valutazione del caso concreto non è tenuto ad attenersi al principio espresso in una
sentenza riguardante un caso identico mentre negli ordinamenti nazionali cosiddetti di common law i giudici sono tenuti ad
attenersi al principio precedentemente regolato (e quindi non devono rispettare il principio dello stare decisis) vuol dire che
devono attenersi a ciò che è stato deciso in sentenze analoghe, questo principio non fa parte del diritto internazionale. La
giurisprudenza non ha valore vincolante MA di solito la Corte internazionale di giustizia fa riferimento a sentenze precedenti, per
lo più le proprie, attenendosi o non a quanto stabilito in precedenza, mentre di solito non cita la dottrina. Viceversa la Corte
penale internazionale in alcuni casi fa riferimento alle sentenze del tribunale per l’ex Jugoslavia, del tribunale per il Ruanda,
entrambi hanno chiuso i battenti ma nelle loro sentenze hanno fatto spesso e volentieri riferimento alla dottrina.
→ La dottrina è indicata pure, dall’art.38, come mezzo sussidiario e fa riferimento a quei principi, quelle teorie elaborate dagli
studiosi di diritto pubblico più qualificati, qui bisogna prendere in considerazione gli scritti, gli articoli, i contributi ecc.
Pur essendo giurisprudenza e dottrina poste sullo stesso piano dall’art.38 alla prima è da annettere più importanza che alla
seconda.

10.6 SOFT LAW


S’intende l’insieme degli atti NON vincolanti adottati nell’ambito di conferenze internazionali, oppure dagli organi di organizzazioni
internazionali. Quindi per esempio atti di soft law sono le risoluzioni non vincolanti dell’assemblea generale; le raccomandazioni o
i pareri emanate dalle istituzioni europee.
Anche quelli adottati durante una conferenza internazionale sono considerati atti di soft law, per esempio le risoluzioni proposte
negli anni durante le conferenze internazionali sull’ambiente.

Perché utilizziamo il termine inglese di soft law per circoscrivere questo insieme di atti? In contrapposizione al cosiddetto
hard law, cioè al diritto internazionale inteso come un insieme di atti vincolanti, vale a dire le norme imperative, le norme
consuetudinarie, le fonti previste d’accordo, le norme pattizie, i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, dunque il
diritto internazionale con le sue fonti.
→ MA il soft law può comunque contribuire alla formazione dell’hard law:
a. pensiamo alle risoluzioni degli organi delle organizzazioni internazionali, anche se non vincolanti queste possono
esprimere l’opinio iuris degli Stati su un determinato argomento, per esempio le risoluzioni dell’assemblea generale
possono esprimere l’opinione degli Stati circa la conformità del diritto o non, di un determinato comportamento, dunque
questi atti non vincolanti degli organi delle organizzazioni internazionali, grazie all’opinio iuris possono contribuire alla
formazione di consuetudini, visto che l’opinio iuris è un elemento costitutivo delle consuetudini;
b. inoltre, i principi espressi nella risoluzione di una conferenza internazionale, possono essere riprodotti in un trattato,
dunque divenire norme pattizie, dunque questi possono essere enunciati formalmente in un trattato e dunque divenire
diritto pattizio;
c. possono anche essere pronunciati in seguito in atti vincolanti emanati dalle organizzazioni internazionali, dunque
divenire fonti previste d’accordo.

Atti Unilaterali
L’atto unilaterale è la manifestazione di volontà di un soggetto di diritto internazionale alla quale non fa riscontro la
manifestazione di volontà di un altro soggetto è qui che sta la differenza tra l’accordo internazionale e l’atto unilaterale.
n.b: se l’accordo scaturisce dalla volontà di più soggetti dotati della necessaria capacità internazionale, diretta a produrre degli
effetti disciplinati dal diritto internazionale, l’atto unilaterale invece vincola il soggetto di diritto internazionale SOLO nel caso in cui
la sua obbligatorietà sia espressamente prevista da una norma consuetudinaria o pattizia.
Dunque bisogna distinguere atti unilaterali previsti dal diritto consuetudinario da quelli previsti dal diritto pattizio:
- gli atti unilaterali previsti dal diritto pattizio:
1) La denuncia o recesso è l’atto mediante il quale uno Stato si scioglie dal vincolo derivante un trattato di cui è parte.
→ Se il trattato è bilaterale si parla di denuncia, quindi in caso trattato in materia commerciale tra l’Italia e Francia, l’Italia
denuncia, ovvero manifesta la volontà di non rispettare il trattato che si estingue.
→ Se il trattato è multilaterale si parla di recesso; se uno Stato parte manifesta di non essere vincolato dal trattato recede, per il
resto il trattato rimane in vigore per gli Stati che ne sono parte. Di solito MA non sempre i trattati multilaterali contengono una
clausola di recesso nella quale sono stabilite le modalità secondo le quali uno Stato può recedere per esempio se si tratta di un
trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale, il recesso deve essere notificato al segretario generale e avrà effetto solo
dopo il decorso di un certo termine che potrà essere di 3 mesi, 6 mesi o anche un anno;
2) Il ricorso o requete è l’atto mediante il quale uno Stato parte di un trattato può sottoporre una controversia riguardante
l’interpretazione o applicazione di quel trattato ad una giurisdizione internazionale. E’ un atto unilaterale poiché il singolo
Stato può rivolgersi alla giurisdizione internazionale, molto spesso la Corte internazionale di giustizia anche se sappiamo che
questa necessita del consenso di tutti gli Stati parti della controversia, MA poiché il consenso è dato a monte da ciascuno
Stato qualsiasi Stato può singolarmente rivolgersi alla giurisdizione internazionale, e lo Stato contro il quale si rivolge non
può sottrarsi avendo già a monte espresso il consenso (la clausola che permette il ricorso alla giurisdizione internazionale
per l’interpretazione di un trattato è chiamata clausola compromissoria).
→ Quindi il ricorso è un atto unilaterale previsto dal diritto pattizio, precisamente dal trattato contenente la clausola
compromissoria in virtù della quale ciascuno Stato parte di un trattato può ricorrere alla giurisdizione internazionale, il più delle
volte ci si rivolge alla corte internazionale di giustizia. Un esempio: la convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948
impone agli Stati parte di prevenire e reprimere il genocidio e le fattispecie connesse (l’istigazione al genocidio, la cospirazione
diretta a commettere il genocidio o la complicità a commettere genocidio); la Bosnia erzegovina, parte della convenzione, si è
avvalsa di questa clausola e ha presentato ricorso alla corte di giustizia nel 1983, ha adito la corte internazionale di giustizia
contro la Repubblica federale iugoslava (cioè Serbia e Montenegro), lamentando la violazione della convenzione, dell’obbligo di
impedire il genocidio in relazione a quello che definiva genocidio dei bosniaci musulmani, ovvero massacri, atti di violenza
generalizzati dei bosniaci musulmani, durante il conflitto nella ex Jugoslavia, a quei tempi in corso.
- gli atti previsti dal diritto consuetudinario:
1) Il riconoscimento di situazioni giuridiche è l’atto unilaterale mediante il quale un soggetto di diritto internazionale dichiara
di considerare una determinata situazione come conforme al diritto con la conseguenza di non poterla più contestare in
seguito. Un esempio può essere il riconoscimento di una baia storica e in seguito non può contestare la legittimità di quella
proclamazione (le baie storiche possono superare le 24 miglia previste dal criterio del semicerchio) l’Italia per esempio ha
proclamato come baia storica il golfo di Taranto che è stato chiuso con una linea di circa 60 miglia che vanno da capo santa
Maria di Leuca a punta Alice in Calabria.
2) L’acquiescenza è il comportamento di un soggetto di diritto internazionale il quale si astiene dal prendere posizione rispetto
ad una situazione giuridica che tocca i propri interessi, con la conseguenza che in seguito NON potrà più contestarla.
3) La protesta è esattamente l’atto contrario, è l’atto unilaterale attraverso cui il soggetto di diritto internazionale dichiara una
situazione che tocca i suoi interessi come non conforme al diritto con la conseguenza di impedire gli effetti che deriverebbero
dall’acquiescenza, dunque avendo mosso la protesta non potrà essergli contestata in seguito.
4) La rinuncia è quando un soggetto manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto soggettivo a lui spettante; può essere
esplicita o si può desumere da atti concludenti.
5) La promessa è l’atto con cui uno Stato si impegna a tenere un determinato comportamento o si obbliga ad astenersi dal
farlo.
6) La notifica è l’atto con cui si rendono al corrente uno o più soggetti di diritto internazionale dell’esistenza di determinati fatti
o situazioni, il soggetto che ha ricevuto la notifica non può ignorare l’esistenza del fatto.
7) L’estoppel è una figura anglosassone, impedisce di rendere priva di effetti una dichiarazione effettuata da uno Stato nei
confronti di un altro, quando la dichiarazione è a svantaggio dello Stato dichiarante e a vantaggio dell’altro Stato.

10.7 NORME ISTITUTIVE DI OBBLIGHI ERGA OMNES


Le norme istitutive di obblighi erga omnes possono essere: a) consuetudinarie; b) cogenti;
c) pattizie. NON sono una fonte del diritto internazionale a sé stante MA si tratta di norme che possono appartenere all’una o
all’altra fonte del diritto internazionale.
n.b: E’ certo che le norme cogenti sono TUTTE istitutive di obblighi erga omnes MA non è vero che gli obblighi erga omnes sono
creati soltanto da norme cogenti; gli obblighi erga omnes possono derivare anche da norme consuetudinarie e da norme pattizie.
Che cosa s’intende per obblighi erga omnes? Le norme istitutive di obblighi erga omnes sono norme che istituiscono obblighi
verso tutti. Le norme internazionali creano di regola soltanto obblighi bilaterali cioè obblighi di un soggetto nei confronti di un altro
soggetto e di conseguenza se una norma internazionale crea un obbligo per lo Stato A nei confronti dello stato B soltanto lo Stato
B può pretendere il rispetto di quell’obbligo da parte dello stato A. Anche i trattati multilaterali, che vincolano più Stati o
organizzazioni internazionali, possono essere scomposti in un fascio di rapporti bilaterali, quindi se per ipotesi un trattato è
concluso da quattro Stati confinanti, lo stato A sarà tenuto a garantire quanto convenuto nel trattato nei confronti dello Stato B,
poi lo Stato A sarà obbligato a garantire quanto convenuto convenuto nel trattato nei confronti dello stato C, e poi nei confronti
dello Stato D, e poi lo Stato B sarà tenuto a garantire quanto convenuto nel trattato nei confronti dello Stato A e separatamente
nei confronti dello Stato C, ecc; si continua così per tutti gli Stati parte del trattato multilaterale.
→ Questo sistema è alterato nel caso in cui ci si trovi dinanzi a norme internazionali che sono istitutivi di obblighi erga omnes,
cioè di norme il cui rispetto può essere preteso da tutti i soggetti di diritto internazionale se si tratta di norme cogenti o di norme
consuetudinarie e laddove invece si tratti di norme pattizie il rispetto di questi obblighi può essere preteso da tutti gli Stati parti del
trattato.
Il primo riferimento in assoluto a questa categoria di norme internazionali fu fatto dalla Corte internazionale di giustizia in una
celebre sentenza del 1970, sentenza resa in una controversia tra Belgio e Spagna, la controversia riguardava una società, la
Barcelona Traction Lite and Power Company, nella sentenza relativa a questa controversia la Corte internazionale di giustizia
formulò una distinzione tra:
-obblighi che esistono per uno Stato nei confronti di un altro Stato nell’ambito della protezione diplomatica;
- obblighi che esistono per uno Stato nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme, appunto obblighi erga omnes
(affermato dalla corte internazionale di giustizia).
***L’istituto della protezione diplomatica viene in rilievo laddove uno Stato non rispetti le norme internazionali sul trattamento
degli stranieri.
Per esempio: uno Stato non consenta ad uno straniero di accedere ai propri tribunali per far valere i propri diritti, in questo caso è
negato l’accesso alla giustizia, ci troveremmo dinanzi al cosiddetto diniego di giustizia.
Altra ipotesi: uno straniero è arrestato apparentemente senza alcun motivo oppure nei suoi confronti sono violati i diritti
fondamentali, come il diritto di non essere sottoposto a tortura durante un interrogatorio.
→ Qualora uno Stato non rispetti le norme sul trattamento degli stranieri, lo straniero o meglio lo Stato di cui è cittadino lo
straniero maltrattato può agire in protezione diplomatica, vuol dire che può assumere la difesa del proprio cittadino sul piano
internazionale, lo Stato, di cui è cittadino lo straniero maltrattato, mantiene una discrezionalità circa se agire in protezione
diplomatica e attraverso quali modalità agire in protezione diplomatica fatti salvi alcuni limiti fondamentali tra cui il divieto dell’uso
della forza armata.
→ La protezione diplomatica può in realtà essere esercitata dallo Stato non solo in difesa di una persona fisica, MA anche in
difesa di una persona giuridica in particolare di una società commerciale.***

La Corte internazionale di giustizia elenca alcune norme che considera istitutive di obblighi erga omnes:
- Divieto di aggressione, si tratta di una norma cogente, lo Stato aggredito, cioè lo Stato leso dalla violazione del divieto di
aggressione è legittimato a far valere la violazione del divieto di aggressione del divieto, MA legittimati lo sono anche tutti gli
altri Stati i quali possono agire in legittima difesa anche usando la forza armata in soccorso dello Stato aggredito, è erga
omnes perché NON solo lo Stato leso MA tutti gli altri Stati sono legittimati a far valere la violazione di tale divieto;
- Divieto di genocidio, in questo caso non si può individuare facilmente lo Stato leso come nel precedente divieto, anch’essa
è una norma cogente, accertata dalla Corte internazionale di giustizia in una sentenza del 2006, nel caso di violazione del
divieto di genocidio di solito non c’è uno Stato leso, ad essere vittime del genocidio sono i singoli individui appartenenti ad un
gruppo nazionale, religioso etnico o razziale. MA essendo il divieto di genocidio, norma cogente, norma istitutiva di obblighi
erga omnes, qualsiasi Stato può far valere la violazione del divieto di genocidio indipendentemente dal fatto che i propri
cittadini siano stati vittime del genocidio. Lo Stato nel cui territorio è avvenuto il genocidio difficilmente lo farà perché le
autorità statali saranno complici se non avranno ordinato addirittura di compiere il genocidio.
- Divieto di discriminazione razziale
- Divieto di schiavitù

10.8 CEDU
Tipicamente sono istitutive di obblighi erga omnes le disposizioni dei trattati sui diritti umani in modo particolare, le norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, stipulata nell’ambito del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale a sé
stante distinta dall’Unione Europea) adottata a Roma nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953, di cui oggi sono gli Stati parte della
convenzione sono 47. La convenzione i protocolli allegati elencano una serie di diritti civili e politici che ciascuno Stato che è
parte della convenzione si obbliga a garantire a tutti gli individui che si trovano sotto la sua giurisdizione, nel suo territorio.
→ Nel caso in cui uno o più Stati parti violano questi diritti nei confronti di alcuni soggetti allora qualsiasi altro Stato parte,
indipendentemente dal fatto che questi individui siano cittadini di quello Stato parte, può presentare un ricorso alla Corte europea
dei diritti dell’uomo lamentando la violazione di questi diritti, questi sono i cosiddetti ricorsi interstatali.
→ Vi è poi il ricorso individuale: cioè il singolo individuo che ritiene di essere vittima di una violazione dei diritti sanciti nella
convenzione o nei protocolli può direttamente rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
n.b: Dunque anche le norme pattizie possono essere norme istitutive di obblighi erga omnes.
Lo sono tipicamente le norme contenute nei trattati dei diritti umani, e la Convezione europea dei diritti dell’uomo è il caso più
eclatante, tutti gli Stati parte della convenzione possono proporre ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per lamentare la
violazione della Convenzione da parte di un altro Stato nei confronti di individui sottoposti alla giurisdizione di questo Stato
territoriale o extraterritoriale e ciò indipendentemente dal fatto che questi individui fossero o no cittadini dello Stato ricorrente.
11 I TRATTATI.
Lo strumento di riferimento del diritto dei trattati è la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, entrata in vigore
nel 1980. La convenzione in questione è il frutto di un processo di elaborazione della commissione del diritto internazionale e
disciplina i trattati tra Stati. In seguito nel 1986 è stata conclusa una Convenzione a Vienna sul diritto dei trattati tra Stati e
organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali che tuttavia ancora non è entrata in vigore.
Per quanto riguarda la procedura della conclusione dei trattati dobbiamo distinguerne due: la procedura solenne e la procedura
semplificata.

11.1 PROCEDURA SOLENNE.


La procedura solenne consta di diverse fasi:
1)Negoziati tra i Plenipotenziari: la procedura di stipulazione di un trattato inizia con la negoziazione tra i plenipotenziari ossia i
soggetti dotati di pieni poteri che rappresentano gli Stati i quali si mettono d’accordo su un testo. La negoziazione dei trattati
multilaterali ha luogo nell’ambito di una conferenza internazionale oppure in seno all’organo di un’organizzazione internazionale,
in quest’ultimo caso è necessario il consenso di tutti gli Stati partecipanti se invece il testo è adottato in una conferenza
internazionale nel qual caso l’adozione avviene con il consenso dei ⅔ degli Stati presenti e votanti;
2)Parafatura: ossia l’apposizione delle iniziali dei plenipotenziari al testo del trattato (es. quindi se il plenipotenziario si chiama
Paolo Gentiloni PG).
3) Firma: dopo la parafatura i plenipotenziari firmano il testo del trattato per esteso (es. Paolo Gentiloni); la firma ha la funzione di
certificare come autentico il testo del trattato (tale testo potrà essere modificato solo previa riapertura dei negoziati).
4) Ratifica: è l’atto attraverso il quale lo Stato si obbliga a rispettare il trattato (quindi ha partecipato al negoziato e lo ha firmato
nel termine).
➔ Bisogna distinguere la ratifica dall’adesione: cioè l’atto mediante il quale in un trattato multilaterale aperto si vincola al
rispetto del trattato uno Stato che NON ha partecipato ai negoziati, oppure uno Stato che ha partecipato ai negoziati ma
non ha firmato il trattato nel termine stabilito, di solito viene indicato un termine entro il quale il trattato rimane aperto alla
firma, decorso quell’arco di tempo il trattato NON potrà più essere firmato con la conseguenza che se trascorso il
termine per la firma lo Stato che ha partecipato ai negoziati non ha firmato in tempo è assimilato allo Stato che non ha
partecipato ai negoziati e quindi l’atto con il quale si vincola al rispetto del trattato è sempre l’adesione.
n.b: Si parla di trattati multilaterali aperti quando si ha nel trattato la clausola di adesione che consente agli Stati che non
hanno partecipato ai negoziati di obbligarsi al rispetto del trattato.
Nell’ordinamento italiano la ratifica dei trattati internazionali è di competenza del Presidente della Repubblica MA la decisione
politica di procedere o no alla ratifica del trattato spetta sempre al governo. L’art 87, comma 8 della Cost. stabilisce che il
Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionali previa (quando occorre) autorizzazione delle camere e nella
competenza a ratificare rientra quella ad aderire, perché ratifica e adesione hanno lo stesso contenuto: cambia la denominazione
a seconda delle condizioni in cui si trova lo Stato che vi procede.
→ SE il trattato è bilaterale vi è lo scambio delle ratifiche, SE invece il trattato è multilaterale vi è il deposito di ciascuna ratifica da
parte di ciascuno Stato presso un depositario, deposito della ratifica o successivamente deposito dell’adesione. Chi può
svolgere le funzioni di depositario? Il governo di uno Stato o un’organizzazione internazionale, per esempio il depositario delle
convenzioni di Ginevra del 1949 e dei due protocolli del 1977 è il Consiglio federale svizzero cioè il governo svizzero; il
depositario dei due patti delle Nazioni unite sui diritti civili e politici del 66 e il patto gemello sempre del 66 sui diritti economici,
sociali e culturali è stato il Segretario generale delle Nazioni unite perché si tratta di due trattati conclusi nel quadro delle Nazioni
unite.

! Quando entra in vigore il trattato? Se il trattato è bilaterale → entrerà in vigore con lo scambio delle ratifiche, se invece il
trattato è multilaterale → entrerà in vigore una volta raggiunto il numero di ratifiche previsto nel trattato, il numero delle ratifiche
varia da trattato a trattato, potrebbero essere 20, 30 o 50.

n.b: Nella procedura solenne della conclusione dei trattati internazionali lo Stato si vincola al rispetto del trattato con la ratifica o
l’adesione, NON con la firma che ha solo valore di autenticazione del testo. Dalla firma nei trattati conclusi in forma solenne
discende un unico obbligo: l’obbligo di non tenere dei comportamenti contrari a quelli che sono i principi basilari del trattato (ES.
l’oggetto, lo scopo che il trattato si prefigge) questo obbligo cessa nel momento in cui lo Stato comunica al depositario che non
intende divenire parte del trattato.
11.2 PROCEDURA SEMPLIFICATA
La procedura semplificata consta di due sole fasi:
1) I negoziati: cioè i colloqui tra i plenipotenziari diretti ad accordarsi sul testo di un trattato;
2) La firma: che in questo caso, vincola lo Stato al rispetto del trattato.
→ Un trattato può anche essere concluso in forma mista cioè in forma solenne da alcuni Stati (con ratifica e adesione) e in
forma semplificata da altri Stati.
Come si fa a stabilire se la firma ha il valore di vincolare lo Stato al rispetto del trattato oppure no? Il valore obbligatorio
della firma può:
- essere prevista espressamente dal trattato (disposizione espressa del trattato);
- desumersi dal comportamento degli Stati partecipanti ai negoziati, in maniera inequivoca, la loro volontà di assegnare alla
firma il valore di vincolarli al rispetto del trattato (comportamenti concludenti).
→ Nel nostro ordinamento vi è un unico limite alla possibilità di stipulare accordo in forma semplificata e questo limite deriva
dall’art. 80 Cost. che non menziona proprio trattati in forma semplificata, non usa proprio questa espressione, MA prevede che:
“Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica o prevedono arbitrati o
regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o variazioni di legge” quindi le Camere autorizzano
con legge la ratifica di cinque categorie di trattati, queste categorie di trattati non possono essere conclusi in forma semplificata
perché è evidente che non c’è solo bisogno della ratifica MA c’è pure bisogno dell’autorizzazione alla ratifica delle Camere, è
evidente che i trattati NON possono essere conclusi in forma semplificata e cioè che lo Stato italiano non può vincolarsi con quei
trattati con la firma del plenipotenziario.
Dall’art 80 della Cost. inoltre noi desumiamo l’esistenza di tre diverse ipotesi: 1- Accordi in forma semplificata;
2- Accordi conclusi in forma solenne a rispetto dei quali lo Stato italiano si vincola attraverso la ratifica del presidente della
Repubblica;
3- Trattati conclusi in forma solenne a rispetto dei quali lo Stato italiano si vincola attraverso ratifica del presidente della
Repubblica preceduta dall’autorizzazione delle camere.
Bisogna ricordare le cinque categorie di trattati menzionate nell’art.80 che vediamo singolarmente:
1) Trattati di natura politica: la circolare emanata nel 1995 dal ministro degli esteri di allora Susanna Agnelli chiarisce che per
trattati di natura politica devono intendersi soltanto i trattati che hanno un grande rilievo politico cioè quelli che importano
scelte fondamentali di politica estera.
2) Trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari: cioè trattati che rappresentano dei compromessi e quindi hanno
lo scopo di stabilire le modalità per la soluzione di una controversia già sorta e la deferiscono ad un tribunale arbitrale o a
una giurisdizione internazionale, oppure semplicemente trattati che contengono una clausola compromissoria.
3) Trattati che comportano modifiche del territorio nazionale, cioè trattati mediante i quali lo Stato Italiano cede i propri
territori agli Stati confinanti rispetto a territori di limitata estensione, territori di confine o trattati di cui dovesse acquistare parti
del territorio di altri Stati.
4) Trattati che comportano modifiche di legge
5) Trattati che comportano oneri alle finanze: cioè trattati che comportano spese per lo Stato e la circolare Agnelli chiarisce
che deve trattarsi di spese NON previste nel bilancio ordinario dello Stato.

Quali sono gli organi competenti nel negoziare e concludere i trattati internazionali?
Quali siano gli organi competenti dello Stato a stipulare i trattati internazionali lo stabilisce il diritto interno di ciascuno Stato. Il
diritto internazionale detta soltanto alcune norme minime contenute nell’art 7 Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.
→ Dobbiamo dire che sono competenti a negoziare un trattato, quindi rappresentare lo Stato ai fini della negoziazione di un
trattato e della manifestazione del consenso a vincolarsi a quel trattato, due categorie di soggetti: gli individui organi che
esibiscono pieni poteri e gli individui organi i cui pieni poteri sono presunti, in virtù delle funzioni esercitate secondo la prassi degli
Stati. Quindi due sono le categorie di soggetti che sono competenti a negoziare un trattato per conto di uno Stato e manifestare il
consenso dello Stato ad obbligarsi a rispettarlo sempre se in forma semplificata.
Che cosa sono i pieni poteri? L’art 2 par 1 lett c della Convenzione di Vienna definisce i pieni poteri: in sostanza i pieni poteri
sono un documento che designa uno o più individui ai fini della rappresentanza di uno Stato per la negoziazione di un trattato,
l’adozione del testo, la manifestazione del consenso dello Stato a vincolarsi del rispetto di esso. Il documento è firmato dal Capo
dello Stato e controfirmato dal Ministro degli Esteri che quindi sono competenti a rappresentare uno Stato.
Vi è un’altra categoria per rappresentare lo Stato ai fini della negoziazione, modificazione o adozione di un accordo ed è la
categoria degli individui organi i cui pieni poteri sono presunti e che non devono esibire nessun documento, dobbiamo distinguere
tre gruppi:
A) Capi di Stato, Capi di Governo e i Ministri degli Esteri, NON sono tenuti ad esibire i pieni poteri riguardo a nessuno degli
atti relativi alla conclusione di un trattato, quindi i loro poteri (negoziazione, adozione testo e manifestazione del consenso a
obbligarsi nel rispetto del trattato) sono presunti. Non devono esibire alcun documento e i loro poteri discendono dalla carica
rivestita, lo stabilisce la Convenzione di Vienna e il diritto consuetudinario;
B) Capi delle missione diplomatiche, questi pieni poteri sono più limitati rispetto a quelli del primo gruppo: possono compiere
solo atti in materia di adozione del testo del trattato e NON deve esibire pieni poteri per la negoziazione di un accordo, per
esempio l’ambasciatore italiano a Vienna nel caso di un accordo tra l’Italia e l’Austria, e per l’adozione di un testo MA ha
bisogno di pieni poteri per la manifestazione del consenso dello Stato per obbligarsi al trattato. Invece i ministri degli Esteri,
capi di Stato e di governo possono firmare gli accordi senza esibire i pieni poteri.
C) Il rappresentante degli Stati accreditati, è abilitato quindi NON deve esibire i pieni poteri, alla negoziazione di un accordo
nell’ambito della conferenza o nel quadro di quella organizzazione; invece ha bisogno dei pieni poteri per manifestare il
consenso dello Stato ad obbligarsi all’accordo.
N.B: Naturalmente ci riferiamo agli accordi in forma semplificata, perché in quella solenne ci vuole la ratifica da parte del Capo
dello Stato, o adesione se accordo multilaterale.

11.3 LE RISERVE
La definizione di riserva è contenuto sempre nell’art 2 della Convenzione di Vienna: la riserva è una dichiarazione unilaterale
che uno Stato formula al momento della firma, ratifica o adesione di un trattato, e si distinguono:
- riserve eccettuative, sono una dichiarazione unilaterale mediante le quali lo Stato dichiara di non accettare una determinata
clausola o clausole e non si sente obbligato;
- riserve modificative o interpretative, sono una dichiarazione unilaterale attraverso la quale lo Stato dichiara di accettare
ma soltanto con determinate modifiche oppure solo attribuendo un determinato significato ai termini (es. lo stato X formula
una riserva mediante la quale accetta la clausola con la quale si afferma che evitano l’uso di una determinata arma ma a
condizione che il termine conflitto armato sia limitato a conflitti internazionali e non ricomprenda conflitti interni).
n.b: Le riserve vanno distinte dalle dichiarazioni di natura politica che spesso gli Stati formulano al momento dell’adozione di
accordi internazionali; la riserva è diretta a produrre effetti giuridici mentre la dichiarazione di carattere politico NO, quindi quando
dalla riserva non emergono effetti giuridici si tratta di una dichiarazione di natura politica.
→ Le riserve possono essere apposte SOLO nei trattati multilaterali. Una riserva NON ha senso in un trattato bilaterale perché
se uno dei due Stati non intende accettare una parte dell’accordo non può che farlo presente e modificare il testo. L’istituto della
riserva è legato ai trattati multilaterali: lo scopo è quello di consentire la più ampia partecipazione degli Stati ai trattati multilaterali.
Cioè pur di acquisire un nuovo Stato parte si consente che questo possa escludere, come no, l’applicazione di una o più clausole
(riserva eccettuativa).
MA ci sono dei trattati multilaterali aperti (che contengono clausole di adesione) i quali prevedono che non possono essere
apposte riserve, quindi escludono la possibilità di apporre riserve.
es: Uno di questi trattati è lo Statuto di Roma della Corte penale Internazionale, questo Statuto prevede che se lo Stato diventa
parte e decide di ratificare o aderire a questo Statuto deve accettare che sia vincolato da tutte le disposizioni.
La materia delle riserve ha subito un’evoluzione:
→ a partire dalla seconda guerra mondiale dove vigeva il regime del principio dell’integrità del trattato, in virtù di questo
principio sostanzialmente si cercava di fare in modo che tutti gli Stati, che facevano parte, avessero tutti gli stessi obblighi e si
potevano apporre riserve in un trattato soltanto quando: a) era previsto espressamente dal trattato; b) laddove non era previsto
ma la riserva era accettata da TUTTI gli Stati parte, se uno o più Stati parti si opponevano allora lo Stato riservante NON ne
faceva parte.
→ DOPO un’evoluzione si verifica con il parere delle Corte Internazionale di Giustizia del 1951 relativo alle riserve della
Convenzione sul Genocidio del 1948, che contiene una clausola compromissoria: prevede che ciascuno Stato parte possa
ricorrere alla Corte internazionale di giustizia contro un altro Stato parte che ritenga abbia violato uno o più disposizioni sul
genocidio e la clausola compromissoria consente a ciascuno Stato parte di adire unilateralmente la Corte internazionale di
giustizia mentre l’altro Stato, quello accusato di aver violato la convenzione, dovrà necessariamente accettare la giurisdizione
della Corte internazionale di giustizia. Perché l’altro Stato parte deve necessariamente accettare che la controversia sia
risolta dalla Corte internazionale di giustizia?
Perché ha espresso a monte il proprio consenso nel momento in cui è divenuto parte della convenzione sul genocidio che
continente la clausola compromissoria.
Quando nel 1948 fu conclusa la convenzione, sorse immediatamente un dibattito circa la possibilità per gli Stati di divenire parti
della convenzione e apporre delle riserve, in modo particolare alcuni Stati tra cui l’Unione Sovietica avevano manifestato la
volontà di apporre una riserva alla clausola compromissoria cioè non pretendevano di essere obbligati alla clausola
compromissoria perché temevano di poter essere poi portati davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di aver
violato la convenzione. La convenzione sul genocidio non detta alcuna disposizione sulle riserve e quindi non era chiaro se
potessero essere apposte o meno, allora l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1950 adottò una risoluzione con la quale
chiese alla Corte (che svolge non solo una funzione contenziosa ma anche consultiva) un parere a riguardo, la Corte si espresse
con un parere nel 1951:
1- uno Stato PUÒ apporre una riserva alla convenzione sul genocidio ancorché questa NON lo preveda espressamente purché
la riserva sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato cioè purché la riserva non riguardi clausole fondamentali e
caratterizzanti dell’intero trattato;
2- uno Stato già parte può sollevare un’obiezione rispetto ad una riserva, in questo caso il trattato NON entra in vigore nei
rapporti tra lo Stato riservante e lo Stato obiettante.
Sotto la spinta di questo parere si afferma il principio della flessibilità: in virtù di questo principio se il trattato disciplina la
possibilità di porre riserve allora gli Stati possono apporre riserve solo nei limiti in cui è espressamente previsto dal trattato, SE
invece il trattato è silente sulla possibilità di apporre riserve, allora NON è più necessario che la riserva sia accettata da tutti gli
Stati parti ma è necessario che la riserva sia accettata da uno soltanto degli Stati già parti affinché lo Stato riservante diventi
anch’esso parte del trattato.
→ Seconda tappa dell’evoluzione del regime delle riserve nel diritto internazionale è rappresentata dalla Convenzione di Vienna
del 69 sul diritto dei trattati che stabilisce chiaramente: lo Stato all’atto della firma, della ratifica e dell’adesione PUO’ apporre una
riserva ad un trattato a meno che:
1- il trattato esclude completamente la possibilità di apporre riserve;
2- il trattato prevede la possibilità di apporre riserve ma lo Stato vuole apporre una riserva che NON rientra nell’elenco di
quelle ammesse;
3- la riserva NON è compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.
La Convenzione di Vienna non si limita a recepire il dictum della Corte Internazionale di Giustizia ma va oltre facendo una
distinzione tra obiezione semplice e obiezione qualificata: perché stabilisce che il Trattato non entra in vigore tra lo Stato
riservante e lo Stato obiettante soltanto se quest’ultimo solleva un’obiezione qualificata, cioè precisa espressamente che non
vuole che il Trattato entri in vigore tra i rapporti con lo Stato riservante. Altrimenti se lo Stato obiettante si limita ad una obiezione
semplice il trattato entra in vigore tra Stato obiettante e Stato riservante, semplicemente la clausola o clausole oggetto di riserva
NON si applicano nei rapporti tra questi due Stati, MENTRE la Corte internazionale di Giustizia prevedeva che se lo Stato
sollevava un’obiezione il trattato non entrava in vigore nei rapporti tra Stato riservante e Stato obiettante.
n.b: Ronzitti afferma: “secondo la Convenzione di Vienna un’obiezione semplice ha lo stesso effetto di un’accettazione della
riserva se la riserva è eccettuativa”. Se uno Stato già parte del trattato solleva un’obiezione semplice, malgrado l’obiezione, il
trattato entra in vigore. Quindi un’obiezione semplice ha lo stesso effetto di una riserva eccettuativa. Se la riserva è modificativa
gli effetti dell’obiezione sono comunque diversi perché se lo Stato già parte accetta la riserva modificativa vuol dire che il trattato
si applica compresa la clausola oggetto della riserva ma con le modifiche volute dallo Stato riservante. Se invece lo Stato già
parte solleva un’obiezione semplice il trattato si applica ma quella clausola oggetto di riserva non si applica proprio.
Come si stabilisce se un’obiezione è semplice o qualificata? Bisogna leggere con attenzione la dichiarazione del testo.
Spesso accade che nel formulare l’obiezione gli Stati specificano che questa non preclude l’entrata in vigore del trattato nei
rapporti con lo Stato riservante, per evitare che possa essere interpretata come una obiezione qualificata.
N.B: La Convenzione di Vienna, semplifica le cose: prevede che una riserva si intende accettata se uno Stato già parte NON
solleva un’obiezione entro 12 mesi dalla notifica della riserva. NON è necessaria un’accettazione espressa.
Secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati la riserva, l’accettazione espressa e l’obiezione ad una riserva devono
essere formulate per iscritto e devono essere comunicate agli altri Stati che sono già parti e agli altri Stati che sono titolati a
divenire parti (cioè che se il trattato è concluso in forma solenne, hanno concluso il trattato ma non lo hanno ancora ratificato).
QUINDI se il trattato è soggetto a ratifica, cioè concluso in forma solenne, l’eventuale riserva che è formulata all’atto della firma
deve essere confermata al momento della ratifica; la riserva e anche l’obiezione possono essere ritirate in qualsiasi momento
però deve essere effettuato per iscritto.
Dobbiamo un attimo considerare i trattati che istituiscono norme istitutive di obblighi erga omnes (es: i trattati sui diritti
umani in come la CEDU) l’obiezione non ha un significato pratico anzi, comporta la violazione del trattato da parte dello Stato
obiettante perché ciascuno Stato è tenuto al rispetto delle norme del trattato nei confronti di tutti gli altri e ciascun altro Stato può
pretendere il rispetto di quelle norme anche se non è vittima di una violazione, anche se è possibile apporre alcune riserve alla
Convenzione MA di fatto nessuno Stato ha mai sollevato obiezioni alle riserve apposte alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo perché l’obiezione qualificata prevede che il trattato non entri in vigore nei rapporti tra lo Stato riservante e lo Stato
obiettante quindi comunque lo Stato obiettante si troverebbe a non rispettare l’intero trattato nei confronti dello Stato riservante
quindi, se l’obiezione è semplice, lo Stato obiettante applica il trattato nei confronti dello Stato riservante con l’eccezione della
clausola oggetto della riserva MA poiché la convenzione impone obblighi erga omnes, qualsiasi altro Stato già parte può
accusarlo di aver violato la convenzione perché la convenzione istituisce vincoli solidali cioè obblighi erga omnes.
→ Vi sono tuttavia dei segnali consistenti di una ulteriore evoluzione della disciplina delle riserve, ed infatti a partire dalla fine
degli anni 80, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e poi a partire dalla metà degli anni 90 il Comitato dei diritti dell’uomo
(è un organo che ha il compito di vigilare sul rispetto del patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici), si sono espressi a
riguardo e hanno affermato che le riserve inammissibili formulate all’atto della firma, ratifica o dell’adesione devono
semplicemente essere considerate come NON apposte, quindi non pregiudicano la partecipazione dello Stato riservante al
trattato, semplicemente è considerata non apposta, e quindi lo Stato riservante è tenuto al rispetto del trattato, inclusa la clausola
oggetto della riserva se la riserva era eccettuativa, o

politici), si sono espressi a riguardo e hanno affermato che le riserve inammissibili formulate all’atto della firma, ratifica o
dell’adesione devono semplicemente essere considerate come NON apposte, quindi non pregiudicano la partecipazione dello
Stato riservante al trattato, semplicemente è considerata non apposta, e quindi lo Stato riservante è tenuto al rispetto del trattato,
inclusa la clausola oggetto della riserva se la riserva era eccettuativa, o senza alcun tipo di modifica se la riserva era modificativa,
secondo il principio “Utile per inutile non viziatur” (è un principio proprio degli ordinamenti interni assunto dal diritto
internazionale ed espresso con una formula latina che vuol dire l’utile non è inificato dall’inutile).
! INVECE, secondo il diritto consuetudinario lo Stato che formulava una riserva inammissibile, NON diventava parte del trattato,
perché era espressamente esclusa dal trattato o incompatibile con l’oggetto, o scopo del trattato.
Questa nuova tendenza mira a favorire il più possibile la partecipazione degli Stati ai trattati soprattutto nei casi di trattati sui diritti
umani: le riserve inammissibili vengono veramente considerate come non apposte e quindi lo Stato riservante diventa parte del
trattato ed è obbligato anche al rispetto delle clausole oggetto della riserva se eccettuativa, invece senza alcuna modifica se la
riserva era modificativa.
La commissione del diritto internazionale si è espressa a riguardo nella guida sulle riserve ai trattati che ha adottato nel 2011,
si tratta di una guida che raccoglie oltre 100 linea guida che dovrebbero essere d'ausilio agli Stati e alle organizzazioni
internazionali nell’apposizione delle riserve, naturalmente si tratta di un documento che di per sé è NON vincolante, ma data
l’autorevolezza dell’organo da cui promana, sostanzialmente gli Stati e le organizzazioni sono indotti a conformarsi, quindi gli
organi competenti degli Stati sono indotti a guardare bene questa guida prima di procedere alla formulazione di una riserva.

11.3.1 Riserve tardive.


Un’altra novità, riguarda le cosiddette riserve tardive.
Secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, una riserva può essere apposta quando? Al momento della firma,
al momento della ratifica o dell’adesione.
→ Se il trattato è in forma solenne e la riserva è apposta al momento della firma, deve essere confermata, ribadita al momento
della ratifica.
→ Ora si tende invece a consentire l’apposizione, la formulazione di riserve, anche in un momento successivo alla ratifica o alla
adesione, purché nessuno degli Stati che sono già parti formuli obiezioni entro un certo termine. Questa tendenza è testimoniata
dalla prassi del Segretario Generale delle Nazioni Unite che è il depositario di tutti i trattati conclusi nel quadro delle Nazioni
Unite, ed oggi ammette anche le riserve formulate dopo la ratifica o adesione purché nessuno degli altri Stati già parti del trattato
si opponga, quindi formuli un’obiezione, entro 12 mesi.

Nell’ordinamento italiano chi è competente a decidere se apporre o no una riserva di un trattato nel nostro
ordinamento? Il governo! È competente il governo che è l’organo legittimato a rappresentare la volontà dello Stato nelle relazioni
internazionali.
Quindi la decisione è politica, e promana dal Governo, poi formalmente chi è che appone la riserva? È il capo dello Stato!
Il presidente della Repubblica almeno nella procedura in forma solenne di conclusione dei trattati internazionali, ratifica i trattati
internazionali (art.87 co. 8 Cost) e nella competenza a ratificare è compresa la competenza ad aderire, quindi è il capo dello
Stato che firma lo strumento di ratifica, lo strumento di adesione, e una o più riserve il cui contenuto è stato deciso dal Governo.
Nel caso delle categorie di trattati stabiliti dall’art.80 Cost. (cioè di quei trattati che hanno un elevato rilievo politico, che
prevedono regolamenti giudiziari o arbitrali, che prevedono oneri alle finanze non previste nel bilancio dello Stato, che prevedono
modifiche di legge o del territorio nazionale) in questo caso, la ratifica o adesione da parte del Capo dello Stato deve essere
preceduta dalla autorizzazione delle Camere, ed allora almeno rispetto a questi trattati è necessario un coordinamento almeno tra
Governo e Parlamento, cioè il Governo NON può decidere di apporre una riserva, e quale sia il contenuto di questa riserva,
senza rendere partecipe il Parlamento, anche se più volte è accaduto che effettivamente il Governo si è comportato così, cioè
che il Governo abbia deciso, e di conseguenza il PDR abbia apposto riserve che non erano contenute nella legge di
autorizzazione alla ratifica adottata dalle Camere e quindi che non erano state indicate dalle Camere. Allora in un caso del
genere, la riserva è senz’altro valida sul piano internazionale, questo vuol dire che se la riserva era eccettuativa lo Stato italiano
non è tenuto al rispetto della clausola oggetto della riserva, e di conseguenza anche che il trattato non entri in vigore nei rapporti
con gli Stati parti che abbiano formulato un’obiezione qualificata, però se è vero che dal punto di vista internazionale la riserva è
senz’altro valida, un comportamento del genere da parte del Governo può incrinare il rapporto di fiducia che deve esistere tra
Parlamento e Governo, specie se la riserva non ha un contenuto meramente tecnico e il Governo non si è prodigato nemmeno di
informare il parlamento.

11.4 REGISTRAZIONE DEI TRATTATI PRESSO IL SEGRETARIO GENERALE


La carta delle Nazioni Unite prevede che tutti i trattati conclusi dagli Stati membri debbano essere registrati presso il Segretario
generale.
N.B: La registrazione è qualcosa di diverso rispetto al deposito dello strumento di ratifica o di adesione presso il Segretario
generale: il deposito della ratifica o dell’adesione presso il segretario generale, riguarda i soli trattati conclusi nell’ambito delle
Nazioni Unite, invece l’art. 102 della Carta delle Nazioni Unite prevede che qualsiasi trattato concluso da uno dei membri delle
Nazioni Unite, dopo l’entrata in vigore della presente Carta, deve essere registrato il prima possibile presso il Segretariato e
pubblicato dal Segretariato.
→ Tutti i trattati registrati presso il segretario generale, quindi presso il segretariato, sono raccolti in una collezione che si chiama:
“United Nations Treaty Series” cioè Serie dei trattati delle Nazioni Unite. Questa collezione oggi è anche online, basta digitare
su google United Nations Treaty Collection, ed è possibile vedere l’elenco di questi trattati.
→ La registrazione ha luogo di solito dopo l’entrata in vigore del trattato.
Da un punto di vista delle Nazioni Unite, l’unica conseguenza della mancata registrazione di un trattato presso il Segretariato
generale è l’impossibilità di invocare poi il trattato dinanzi ad un organo delle Nazioni Unite e quindi viene di rilievo innanzitutto la
Corte Internazionale di Giustizia alla quale non si potrà poi convocare questo trattato in un eventuale controversia tra Stati di
fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, infatti l’art. 102 par.2 stabilisce che nessuno Stato di un tale trattato, che
non sia stato registrato secondo le disposizioni del paragrafo 1, può invocare questo trattato dinanzi ad un organo delle Nazioni
Unite.
Nel caso in cui di un accordo di cui è incerta la natura (es. se si tratta di un vero e proprio trattato internazionale o di una mera
intesa di carattere politico) di solito se un testo è registrato presso il segretariato, e quindi noi lo troviamo all’interno della United
Nations Treaty Collection possiamo star certi che si tratti di un trattato internazionale e non di un’intesa. Il dubbio naturalmente
quand’è che sorge? Quando questo presunto accordo è concluso in forma semplificata, allora noi possiamo non essere certi se
si tratti di un vero e proprio trattato oppure di una mera intesa di carattere politico, perché se invece il trattato è concluso in forma
solenne, allora li non ci sono dubbi, perché se tra le clausole finali è prevista la ratifica e l’adesione, è evidente che ci troviamo di
fronte ad un trattato.

11.5 APPLICAZIONE PROVVISORIA DEI TRATTATI


L’istituto dell’applicazione provvisoria è disciplinato dall’art. 25 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Dobbiamo
distinguere l’entrata in vigore del trattato, dalla sua applicazione provvisoria.
Quando entra in vigore un trattato? Se si tratta di un trattato è bilaterale questo entra in vigore con lo scambio delle ratifiche,
se è multilaterale quando è raggiunto il numero di ratifiche previsto all’interno del trattato stesso.
→ MA può accadere che il trattato sia applicato provvisoriamente prima della sua entrata in vigore in attesa che questo numero di
ratifiche sia raggiunto e questo naturalmente può accadere SOLO per i trattati multilaterali conclusi in forma solenne, perché di
regola stabiliscono un numero di ratifiche che deve essere raggiunto per la propria entrata in vigore.
Ma come possibile che due o più Stati firmatari applichino il trattato provvisoriamente in attesa della sua entrata in
vigore? Vi sono due opzioni:
- Se nel trattato c’è una clausola apposita sull’applicazione provvisoria, quella sola clausola si ritiene che entri in vigore per
effetto della firma, e quindi che quella clausola sia un mini accordo in forma semplificata conclusa parallelamente al trattato
di cui si tratta e la firma del trattato sarebbe anche la firma di questo mini accordo ed essendo un accordo in forma
semplificata vincola gli Stati firmatari;
- gli Stati contestualmente alla firma del trattato o successivamente alla firma del trattato, possono concludere un accordo
autonomo vero e proprio in forma semplificata, separatamente da tutti, con il quale stabiliscono le modalità dell’applicazione
provvisoria del trattato.
La clausola relativa all’applicazione provvisoria è tuttavia considerata espressione di un accordo
distinto, concluso in forma semplificata contestualmente al trattato di cui si tratta.
Infatti, se un trattato è concluso in forma solenne vuol dire che le sue disposizioni NON sono vincolanti prima della sua entrata in
vigore a seguito del raggiungimento del numero delle ratifiche necessarie, NON sono vincolanti per nessuno Stato firmatario
perché la firma NON obbliga gli Stati al rispetto del trattato in forma solenne, dalla firma deriva un unico obbligo che è quello di
non tenere dei comportamenti volti a privare il trattato del suo oggetto o del suo scopo.
→ Se noi consideriamo l’ordinamento italiano si è discusso nella dottrina italiana sulla compatibilità delle norme internazionali in
materia di applicazione provvisoria dei trattati di cui all’art. 80 Cost., cioè ai trattati conclusi in forma solenne rispetto ai quali la
ratifica o l’adesione del capo dello Stato deve essere preceduta dalla autorizzazione delle Camere, e allora alcuni hanno rilevato
come di fatto l’applicazione provvisoria di un trattato multilaterale da parte dell’Italia, decisa dal Governo comporterebbe uno
scavalcamento delle competenze del Parlamento, perché di fatto il Parlamento si troverebbe a discutere del disegno di legge di
autorizzazione alla ratifica di un trattato, che l’Italia già applica provvisoriamente, quindi sostanzialmente il Parlamento italiano si
troverebbe di fronte al fatto compiuto, e NON potrebbe ragionevolmente negare l’autorizzazione alla ratifica del trattato che di
fatto l’Italia già applica ed è già vincolata. Nella prassi l’Italia ha proceduto all’applicazione provvisoria di numerosi accordi militari,
cioè numerosi accordi in materia di difesa, accordi che riguardavano la partecipazione dell’Italia a missioni multinazionali o a
missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite (accordi dell’art.80: questo genere sono accordi di grande rilievo politico perché
comportano scelte fondamentali di politica estera, sono accordi che di solito prevedono ingenti oneri per l’Italia, spese quindi che
non sono preventivate nel bilancio dello Stato), ed in questi casi ragioni di urgenza impedivano di attendere i tempi necessari per
l’autorizzazione alla ratifica da parte delle Camere, quindi il Governo ha disposto l’applicazione provvisoria di questi accordi prima
ancora dell’autorizzazione alla ratifica o adesione da parte delle Camere. Per evitare accuse di scavalcamento delle competenze
del Parlamento il Governo si è sempre preoccupato di tenere e di informare tempestivamente le commissioni parlamentari
competenti riguardo alle decisioni già prese di applicare provvisoriamente questi accordi.

11.6 INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI


La Convenzione di Vienna disciplina anche l’interpretazione dei trattati che deve essere eseguita seguendo un criterio obiettivo e
in buona fede. Occorre seguire l’interpretazione testuale, cioè attribuire ai termini il loro significato ordinario tenendo conto del
loro contesto, dell’oggetto (cioè le clausole essenziali) e dello scopo del trattato.
→ Per contesto si deve intendere non solo il testo del trattato ma anche:
a. il suo preambolo, che può contenere importanti statuizioni;
b. anche gli allegati fanno parte del contesto e costituiscono parte integrante del trattato;
c. ogni accordo in rapporto con il trattato e concluso contemporaneamente a questo;
d. ogni “strumento” posto in essere da una o più parti in occasione della conclusione del trattato e che le altri parti
accettano come strumento collegato al trattato.
Ai fini dell’interpretazione occorre tenere conto anche:
- di ogni accordo posteriore tra le parti in relazione all’interpretazione/applicazione del trattato;
- della prassi successiva seguita nell’applicazione del trattato;
- di qualsiasi regola di diritto internazionale pertinente, applicabile nei rapporti tra le parti (es. i principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili).
La convenzione di Vienna sminuisce i lavori preparatori che invece sono valorizzati nel metodo di interpretazione soggettivistico,
costituiscono dei mezzi complementari a cui si può ricorrere quando nonostante il ricorso al metodo obiettivistico e ai criteri
precedenti il senso del trattato è oscuro oppure assurdo o irragionevole. Altri mezzi complementari sono le circostanze in cui il
trattato è stato concluso, quindi il quadro storico, gli avvenimenti che hanno portato alla conclusione del trattato.
I trattati multilaterali sono redatti in più lingue e tutte le lingue “fanno egualmente fede” si presume quindi che i termini del trattato
abbiano lo stesso significato. Nel caso di errore materiale (NON è una causa di invalidità relativa) si ricorre alla correzione del
testo.
→ La teoria dei poteri impliciti altamente criticata in dottrina e non accolta dalla Convenzione riguarda i trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali per cui gli organi avrebbero non solo i poteri stabiliti dal trattato istitutivo ma anche quelli necessari
per raggiungere i fini dell’organizzazione.

11.7 RAPPORTO TRA TRATTATI E STATI TERZI


In linea di principio un trattato vincola SOLO i soggetti che ne sono parti, che possono essere Stati o organizzazioni
internazionali. Vige un principio espresso in formula latina “pacta tertiis nec prosunt, nec nocent”, in altre parole i trattati non
favoriscono né danneggiano i terzi.
→ I trattati NON possono creare né obblighi né diritti per i soggetti terzi, tale principio di base è espresso dall’art. 34 della
Convenzione di Vienna del 69: il trattato NON può creare obblighi e diritti per uno Stato terzo, MA eventualmente soltanto con il
suo consenso. Quindi affinché un trattato imponga obblighi o riconosca diritti a Stati terzi è necessario il suo consenso.
Distinguiamo:
- I trattati a carico del terzo, previsti dall’art.35 della Convenzione di Vienna, cioè i trattati che prevedono obblighi per gli
Stati terzi soltanto quando sono soddisfatte due condizioni: a)le parti intendono creare un obbligo per il terzo; b)lo Stato terzo
consente ad assumere quest’obbligo, e consente espressamente per iscritto;
- i trattati a favore del terzo che prevedono diritti a favore di terzi sono disciplinati dall’art.36, anche qui devono essere
soddisfatte due condizioni: a)le parti intendano creare un diritto a favore di uno Stato terzo; b)lo Stato terzo acconsente al
diritto in questione, ma salvo indicazioni contrarie, il consenso è presunto. Cioè si tratta di un diritto, perciò si presume che il
terzo vi acconsenta, tranne che NON vi siano espresse indicazioni contrarie, ma tecnicamente se da un trattato concluso tra
tre soggetti e uno Stato riceve dei diritti non può che essere favorevole.
L’art. 37 della convenzione di Vienna stabilisce la disciplina per la revoca dell’obbligo e del diritto:
A) SE il trattato prevede un obbligo a carico del terzo, l’obbligo NON può essere revocato senza il consenso dello Stato terzo,
tranne che il trattato non preveda diversamente;
B) SE invece il trattato prevede un diritto a favore del terzo, siccome si tratta di una concessione di favore da parte delle parti del
trattato, il diritto può essere revocato dalle parti senza il consenso del terzo, tranne che il trattato non prevedesse diversamente.

11.8 TRATTATI CHE ISTITUISCONO UN REGIME OBIETTIVO


Si tratta di trattati che pur avendo come parti un numero limitato di Stati, istituiscono un regime che si impone a tutti gli Stati della
comunità internazionale quindi non c’è bisogno che gli Stati terzi esprimano espressamente il loro consenso all’accettazione
dell’obbligo, gli obblighi imposti dal trattato si impongono a tutti gli Stati senza avere la necessità di un loro espresso consenso,
alcuni esempi sono:
1) La convenzione di Costantinopoli del 1888 sul Canale di Suez, questa convenzione stabilisce il regime che si deve
applicare alla navigazione nel Canale di Suez, che come saprete è stato realizzato nella seconda metà dell’800 e che ha
favorito immensamente i traffici tra l’oceano indiano ed il Mediterraneo, perché ha aperto una nuova rotta commerciale,
perché fino ad allora era sostanzialmente necessario circumnavigare l’Africa;
2) il trattato tra Stati Uniti e Panama del 1903, cui è subentrato un successivo trattato sempre tra Stati Uniti e Panama nel
1977; questi trattati disciplinano la navigazione nel canale di Panama;
3) il trattato di Washington del 1959 sull’Antartide, prevede che l’Antartide debba essere usato soltanto per fini pacifici, non
possono essere istituite installazioni militari ne possono essere ammassati armi o possono essere condotti esperimenti
militari, si parla di smilitarizzazione dell’Antartide, così pure nell’Antartide non può essere depositato alcun materiale
radioattivo e non possono essere condotti esperimenti nucleari, si parla a riguardo di denuclearizzazione dell’Antartide, gli
Stati parti del trattato di Washington sono poco più di 50, ma il regime previsto da questo trattato si impone a tutti gli Stati
che compongono la comunità internazionale, a tutti gli Stati è proibito depositare materiale radioattivo a condurre esperimenti
nucleari in Antartide ed a tutti gli Stati è vietato costruire o mantenere installazioni militari o depositi di armi o effettuare
esperimenti militari in Antartide.
11.9 CAUSE DI INVALIDITÀ DEI TRATTATI
Le cause di invalidità dei trattati sono disciplinate dagli artt. 46 a 53 della Conv. Di Vienna del 69, e gli artt. da 46 a 50
riguardano le cause di invalidità relativa, mentre quelli da 51 a 53 quelle di invalidità assoluta.
Come si fa a distinguere le cause di invalidità assoluta e le cause di invalidità relativa? Sono tre i criteri che differenziano
le cause di invalidità assoluta dalle cause di invalidità relativa e sono: la sanabilità, la divisibilità, la legittimazione ad
invocare la causa di invalidità.
→ Le cause di invalidità assoluta, NON sono sanabili, il diritto di far valere la causa di invalidità non si perde mai; invece le
cause di invalidità relativa sono sanabili e uno Stato perde il diritto di invocare una causa di invalidità relativa se dopo essere
venuto a conoscenza del vizio, accetta di dare esecuzione al trattato, o comunque accetta esplicitamente di considerare il
trattato valido.
→ Una causa di invalidità assoluta quand’anche riguardi una sola delle clausole del trattato, comporta l’invalidità del trattato nel
suo complesso, quindi se anche una sola il trattato è affetto da invalidità in toto; invece se la causa di invalidità è relativa allora il
trattato potrebbe rimanere in vigore se l’invalidità colpisce o riguarda una sola o poche clausola di quel trattato, clausole che
sono separabili dal resto del trattato, il trattato non è colpito nel suo insieme dall’invalidità, e quindi resta valido per le clausole
non colpite dall’invalidità.
→ Qualsiasi causa di invalidità assoluta, può essere invocata in ogni tempo e da qualsiasi degli Stati parti del trattato; invece la
causa di invalidità relativa, può essere invocata soltanto dagli Stati che sono vittime del vizio, quindi nei confronti dei quali è
stato messo in atto un comportamento doloso, oppure che sono caduti in errore e via dicendo.

11.9.1 Cause di INVALIDITA’ RELATIVA


1) Art. 46, violazione di una norma interna sulla competenza a stipulare: la conclusione di un trattato in violazione delle
regole di diritto interno sulla competenza a stipulare può costituire una causa di invalidità relativa se riguarda una norma
interna di importanza fondamentale sulla competenza a stipulare e la violazione deve essere manifesta, cioè quando è
obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti, secondo la pratica abituale, in buona fede;
2) Art. 47, mancato rispetto da parte dei rappresentanti dello Stato dei limiti posti al suo potere: questo può essere
invocato come causa di invalidità del trattato solo se lo Stato in questione ha comunicato agli altri Stati partecipanti ai
negoziati questi limiti, prima della manifestazione del consenso da parte del rappresentante, quindi del plenipotenziario
sostanzialmente, si deve trattare di trattati in forma semplificata. Però è una causa di invalidità che di fatto non trova
applicazione nella pratica, però bisogna ricordarla perché è prevista.
3) Art. 48, errore: l’errore consiste nella falsa rappresentazione di un fatto o di una situazione che uno Stato riteneva esistente
al momento della stipulazione del trattato. L’errore deve essere di fatto NON si può trattare di errore di diritto cioè una
cattiva conoscenza del diritto internazionale da parte degli organi competenti dello Stato, non potrebbe essere invocata per
invalidare il trattato; l’errore deve essere: a) essenziale, cioè quando lo Stato non avrebbe concluso il trattato se non fosse
caduto in errore;
b) incolpevole, cioè lo Stato che invoca l’errore come causa di invalidità del trattato NON deve aver contribuito con il proprio
comportamento a causare l’errore e quindi alla sua determinazione, quindi deve essere incolpevole; c) scusabile, cioè lo Stato
non era consapevole della possibilità di un errore, se lo Stato era consapevole e ha accettato di concludere quel trattato qui
allora l’errore non è scusabile e quindi non può essere invocato quale causa di invalidità del trattato poi concluso.
Diversa è la disciplina dell’errore materiale, che non è causa d’invalidità, è relativo alla redazione del testo del trattato esempio
una parola per errore è stata modificata con un’altra per via del completamento automatico da parte del computer, allora li si fa
luogo alla semplice correzione del testo del trattato;
4) Art.49, dolo: si intende la condotta fraudolenta di uno Stato che con raggiri o altri artifizi, altri mezzi ingannevoli, ha indotto la
controparte, quindi evidentemente plenipotenziari di un altro o degli altri Stati, partecipanti al negoziato, a concludere il
trattato;
5) Art.50, corruzione dell’organo stipulante: per costituire causa di invalidità del trattato deve essere stata tale da indurre lo
Stato alla conclusione del trattato da parte di un altro Stato partecipante. Si può trattare di un’azione diretta o indiretta dello
Stato, questo è irrilevante, non è necessario che a corrompere il plenipotenziario sia stato un individuo organo dello Stato,
può essere anche un privato che però agisce per conto dello Stato (es: una bustarella al plenipotenziario per indurlo a
firmare il trattato).

11.9.2 Cause di INVALIDITA’ ASSOLUTA


1) Art. 51, violenza esercitata sull’organo stipulante: Laddove il rappresentante dello Stato sia stato indotto a concludere il
trattato mediante pressioni, quindi con l'uso della forza fisica, o minacce dirette contro la sua persona o contro la sua
reputazione, il trattato sarà da considerarsi invalido e l'invalidità è assoluta e quindi insanabile. Un caso citato dalla
Commissione di Diritto internazionale nel progetto di articoli che poi è divenuto la Convenzione di Vienna del 1969 è quello
verificatosi nel 1939, quando Hitler convocò a Berlino il Presidente Cecoslovacco Hacha e gli presentò il testo di quello che
poi è divenuto, appunto, il Trattato di Berlino che prevedeva il controllo della Germania sulla Boemia e la Moravia, Hacha fu
indotto a firmare questo trattato in condizioni psicofisiche alterate dalle minacce di Hitler e di Goering, il Trattato di Berlino
del 1939 è un chiaro esempio di Trattato da considerarsi invalido perché concluso mediante il ricorso alla violenza nei
confronti del rappresentante dello Stato.
2) Art. 52, violenza nei confronti dello Stato nel suo complesso: un trattato è stato concluso attraverso l’uso della forza o di
minacce, è evidentemente un trattato affetto da invalidità poiché vi è stato ricorso alla forza armata in contrasto con i principi
della Carta delle Nazioni Unite. Il divieto di aggressione peraltro ha oramai natura cogente, quindi in un caso del genere ci
troveremmo di fronte ad una duplice causa di invalidità in realtà: non soltanto il ricorso alla forza armata in violazione dei
principi della Carta delle Nazioni Unite, ma anche il contrasto con una norma cogente, e la contrarietà con una norma
cogente è causa di invalidità assoluta dei trattati prevista dall'articolo 53 della Convenzione di Vienna;
3) Art.53, contrarietà ad una norma imperativa o cogente: l'art. 53 da una definizione di norma cogente, stabilisce infatti
che: “un trattato è nullo, quindi invalido, se al momento della sua conclusione è in contrasto con una norma imperativa del
diritto internazionale generale” può essere derogata e modificata solo da una norma successiva avente lo stesso carattere,
ci riferiamo a una norma dello stesso rango: le norme cogenti non sono derogabili mediante accordo, che è fonte di secondo
grado.

11.10 SOSPENSIONE ED ESTINZIONE DEI TRATTATI INTERNAZIONALI


Gli artt. 54-64 della Convenzione di Vienna disciplinano le cause di estinzione, alcune di queste sono considerate come cause di
sospensione. Le cause di estinzione oltre a quelle del trattato (esecuzione, termine e condizione risolutiva) sono:
a) il recesso e la denuncia: questi hanno lo stesso contenuto però il primo ha luogo nei trattati multilaterali mentre la seconda
nei trattati bilaterali, se il trattato contiene una clausola di recesso o denuncia lo Stato dovrà seguire la procedura prevista in
questa clausola di recesso; se invece il trattato non contiene una clausola di recesso, questo è comunque possibile purché:
a)o sia accertata la volontà effettiva delle parti di ammettere il recesso; b)il diritto di recesso è comunque desumibile dalla
natura del trattato. Il recesso non può avere effetto prima di 12 mesi dalla notifica della volontà di recedere: quindi il recesso
non è istantaneo nel momento in cui viene comunicato agli altri Stati parte, ma continua ad essere parte del trattato fino allo
scadere dei 12 mesi; naturalmente se c'è una clausola di recesso, la stessa potrà stabilire un termine differente.
b) la violazione sostanziale del trattato ad opera di una delle parti: ciascuna parte di un trattato (bilaterale o multilaterale)
può invocare la violazione del trattato da parte di un'altra parte contraente come causa della sospensione dell'applicazione o,
addirittura, di estinzione del trattato stesso. Si applica un principio, espresso con un brocardo latino inadimplenti non est
adimplendum cioè nei confronti di colui che è inadempiente non vi è l'obbligo di adempiere. Naturalmente NON è sufficiente
una qualsiasi violazione del trattato per determinare la sua sospensione o addirittura la sua estinzione, ma deve trattarsi di
una violazione sostanziale del trattato, per esempio la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione
dell'oggetto e dello scopo del trattato e deve trattarsi di una violazione del trattato che "implichi un ripudio del trattato non
consentito dalla Convenzione di Vienna".
c) l'impossibilità sopravvenuta: anche questa può essere una causa di sospensione dell'applicazione o può essere una
causa di estinzione del trattato. Se l'impossibilità sopravvenuta è temporanea, allora sarà una mera causa di sospensione
dell'applicazione del trattato, se l'impossibilità sopravvenuta è definitiva, allora questa sarà inevitabilmente una causa di
estinzione del trattato. Perchè l'impossibilità sopravvenuta sia definitiva, e quindi comporti l'estinzione del trattato, è
necessaria "la scomparsa o distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all'esecuzione del trattato" (es. può accadere
che uno Stato costiero stipuli un accordo con un altro Stato confinante che preveda una servitù di passaggio, cioè il diritto
dello Stato confinante di attraversare il territorio dello Stato costiero per accedere al mare, se per effetto di un successivo
trattato di cessione, lo Stato costiero perde il litorale, perchè lo cede ad un altro Stato, allora il trattato che prevedeva la
servitù di passaggio a favore dello Stato confinante si estingue per impossibilità sopravvenuta dell'esecuzione). Si lega a
questa causa il brocardo latino “ad impossibilia nemo tenetur” cioè nessuno è costretto a fare ciò che è impossibile.
d) il mutamento fondamentale delle circostanze, anch'esso può essere una causa di estinzione o di sospensione
dell'applicazione di un trattato. Ciascuna parte di un trattato può invocare un mutamento fondamentale delle circostanze
esistenti al tempo della sua conclusione come causa di estinzione o di sospensione dell'applicazione. Questo mutamento
fondamentale delle circostanze può essere invocato: 1)quando questo mutamento non era stato previsto; 2)il mutamento
trasforma definitivamente e radicalmente la portata degli obblighi che devono essere ancora eseguiti; 3)l'esistenza di quelle
circostanze che sono mutate è stato un fattore determinante ai fini del consenso delle parti ad obbligarsi. Uno Stato parte del
trattato non può invocare un mutamento fondamentale delle circostanze come causa né di estinzione né di sospensione
dell'applicazione di un trattato se:
il mutamento deriva dalla violazione di un obbligo previsto dal trattato o dalla violazione di un'altra norma internazionale che
è ad esso imputabile;
questo stabilisce un confine.
Il mutamento fondamentale delle circostanze come causa di estinzione o di sospensione dell'applicazione del trattato è
spesso indicato anche come "clausola rebus sic stantibus".
e) la conclusione di un trattato successivo: la conclusione di un trattato successivo tra le stesse parti è causa di estinzione
del trattato se risulta dal testo del trattato successivo o in altro modo che era
intenzione delle parti che la materia fosse, da quel momento in poi, disciplinata dal trattato successivo, oppure se le disposizioni
del trattato successivo sono incompatibili con quelle del trattato precedente ed è quindi impossibile applicare entrambi (il primo
trattato e quello successivo): in queste due ipotesi il primo trattato si estingue ed è il trattato successivo che disciplina i rapporti
fra le parti. Invece la conclusione di un trattato successivo fra le stesse parti è causa di sospensione dell'applicazione del
trattato se risulta dal trattato successivo stesso o in altro modo che questa era intenzione delle parti mantenere in vigore i due
trattati, considerando il primo trattato solo sospeso nella sua applicazione ma non estinto.
f) la sopravvenienza di una norma imperativa del diritto internazionale: distinguiamo lo ius cogens come causa di
invalidità di un trattato e lo ius cogens superveniens che è causa di estinzione del trattato: un trattato che venga concluso in
contrasto con una norma imperativa, (art. 53 della Convenzione di Vienna) è invalido, invece nello ius cogens superveniens
consideriamo l'ipotesi in cui un trattato, perfettamente valido nel momento in cui viene concluso diventa invalido e si estingue
in conseguenza del sopravvenire di una norma cogente, la sopravvenienza di una norma cogente con la quale il trattato è in
contrasto è causa di estinzione del trattato (art. 64 della Convenzione di Vienna).
g) la guerra: dobbiamo considerare gli effetti dei conflitti armati sui trattati, cioè, se fra le parti di un trattato scoppia un
conflitto armato, qual è la sorte del trattato? La Commissione del diritto internazionale ha a lungo studiato il tema e alla
fine ha redatto un progetto di articoli, che è stato adottato in via definitiva nel 2011, che illustra le norme consuetudinarie che
riguardano gli effetti dei conflitti armati sui trattati:
- può innanzitutto accadere che un trattato preveda espressamente la sua sospensione o la sua estinzione nel caso in cui fra
gli Stati parte scoppi un conflitto armato, se il trattato contempla questa ipotesi allora la sorte del trattato sarà quella prevista
nella clausola relativa;
- se il trattato non contempla l'ipotesi dello scoppio di un conflitto armato fra gli Stati parti il progetto di articoli considera il
conflitto armato come una possibile causa di estinzione/sospensione/recesso del trattato. Però in realtà in tutti i casi in cui
scoppi un conflitto armato di solito è invocabile anche un'altra causa di sospensione dell'applicazione, estinzione o recesso
per es. si potrebbe anche invocare il mutamento fondamentale delle circostanza, oppure si potrebbe invocare una violazione
sostanziale del trattato ad opera di una parte, dipende sempre dal contenuto del trattato o dalle circostanze concrete.
→ Il progetto prevede che innanzitutto bisogna interpretare il trattato secondo le normali regole di interpretazione dei trattati,
stabilite nella Convenzione di Vienna, se esso sia suscettibile di una estinzione o di una mera sospensione o proprio di recesso
per effetto del conflitto armato. Se però questa opera di interpretazione non porta a nessun risultato certo bisogna considerare:
a)la natura del trattato, vuol dire l'oggetto, lo scopo e le parti del trattato; b)le caratteristiche del conflitto, da considerare saranno
l'intensità, la durata del conflitto, l'estensione a livello territoriale.
Vi è comunque un elenco, allegato al progetto di articoli, di trattati che per il loro oggetto si deve ritenere che, secondo la
Commissione di diritto internazionale, devono considerarsi comunque in vigore in tutto o in parte durante un conflitto armato, e
tra questi trattati vengono inclusi anche i trattati in materia di diritti umani. Vedremo che in alcuni trattati in materia di diritti
umani, come ad es. la Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo o piuttosto il Patto delle Nazioni Unite sui Diritti Civili e Politici,
può essere inserita una clausola di deroga che consente agli Stati parti di questi trattati di derogare alle norme in essi
contenuti, e quindi di non applicare e di non rispettare i diritti sanciti in caso di conflitto armato o di altro pericolo che minacci la
vita della Nazione ma contengono anche un elenco di diritti che sono inderogabili e che devono essere assicurati sempre,
anche in caso di conflitto armato, per esempio il diritto alla vita, tranne che la morte sia effetto di un legittimo atto di guerra, il
divieto di tortura o di trattamenti inumani e degradanti, il divieto di schiavitù.

11.11 LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE IN MATERIA DI INVALIDITÀ ED ESTINZIONE DEI


TRATTATI
La Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969 ha previsto un'apposita procedura per far valere l'invalidità o
l'estinzione dei trattati, disciplinata dal 65-68, che però NON è riproduttiva del diritto consuetudinario quindi si applica solo ai
trattati conclusi dopo l’entrata in vigore della convenzione stessa per gli Stati che l’abbiano ratificata o vi abbiano aderito (per
l’Italia quindi si riferisce ai trattati conclusi dopo il 1980). Lo Stato che invoca l'invalidità o l'estinzione di un trattato deve,
secondo questa procedura, notificare questa sua pretesa, agli altri Stati parti del trattato, per iscritto:
- se, trascorsi almeno 3 mesi dalla notifica, nessuno degli altri Stati parti solleva obiezioni allora lo Stato che ha notificato può
definitivamente dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti, che il trattato è da considerarsi invalido o estinto;
- se invece uno o più Stati parti sollevano obiezioni, allora si innesca una controversia tra lo Stato che pretende che il trattato
è da considerarsi invalido o estinto e gli altri Stati che invece si oppongono e ritengono che il trattato sia da considerarsi
ancora valido e in vigore.
Questa controversia DEVE ovviamente essere risolta con mezzi pacifici (non si può usare la forza) indicati dall'art. 33 della
Carta delle Nazioni Unite (negoziati, ricorrendo alla mediazione, all'arbitrato, a un regolamento giudiziario ecc.).
→ Se, passati 12 mesi dal momento in cui è stata sollevata l'obiezione, la controversia NON è risolta, la Convenzione di Vienna
prevede due procedure:
- le controversie che hanno per oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato per contrarietà allo iu cogens è previsto che sia
la parte che pretende che esista la causa di invalidità sia l'altra (o le altre) che si è opposta, possono unilateralmente
rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia e sottoporle questa controversia, la Corte deciderà con sentenza;
- per tutte le altre cause di invalidità e di estinzione se comunque trascorsi 12 mesi la controversia non è risolta, allora
ciascuna parte della controversia può unilateralmente mettere in moto un meccanismo di conciliazione previsto proprio
dalla Convenzione di Vienna: è un mezzo pacifico di soluzione delle controversie, viene nominata una commissione di
conciliazione che formula raccomandazioni per la soluzione della controversia; le parti della controversia NON sono però
obbligate a conformarsi al rapporto della commissione di conciliazione (non si tratta di una procedura giudiziaria, non è
vincolante), MA in questo caso si tratta di conciliazione obbligatoria: infatti ciascuna parte della controversia può
unilateralmente mettere in moto il meccanismo di conciliazione e l'altra parte è obbligata ad accettare il procedimento di
conciliazione perché nel momento in cui è divenuta parte della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ha accettato la
possibilità che questo meccanismo fosse messo in funzione in caso di controversia e quindi il consenso è già stato espresso
(n.b: la parola obbligatoria si riferisce al fatto che l'altra parte è tenuta ad accettare il ricorso al meccanismo di conciliazione,
NON si riferisce all'esito del meccanismo di conciliazione il rapporto della commissione di conciliazione resta sempre non
vincolante) quindi se anche la conciliazione è obbligatoria comunque entrambe le parti restano libere di conformarsi o no al
rapporto e di seguire o no le raccomandazioni della Commissione di Conciliazione, ciò che c'è di obbligatorio è che l'altra
parte deve accettare il fatto che sia stato attivato il meccanismo di conciliazione. NON è detto che la controversia sia risolta
in via definitiva, perché se le parti non si conformano al rapporto della commissione di conciliazione la controversia rimane
paralizzata in eterno, almeno finché non intervenga un fatto nuovo o ci sia un cambio di atteggiamento ad opera delle parti.
! La stessa procedura si applica nel caso in cui una parte invochi la sospensione dell'applicazione del trattato e le altre si
oppongano, oppure una parte manifesti la volontà di recedere dal trattato, il trattato non prevede espressamente la possibilità di
recedere, e le altre parti si oppongono al recesso invocando il fatto che il trattato non prevede espressamente questa possibilità.
12 ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO A QUELLO INTERNAZIONALE.
Con riguardo all’adattamento del diritto interno al diritto consuetudinario dovremo fare necessariamente riferimento al caso
esaminato dalla Corte Internazionale di Giustizia relativo alla controversia Germania e Italia:

12.1 CASO FERRINI.


Il caso Ferrini riguardava la richiesta di risarcimento in relazione alla deportazione di un cittadino italiano, il signor Ferrini,
catturato dalle forze tedesche e costretto ai lavori forzati nell’industria bellica tedesca, durante l’occupazione dell’Italia centro-
settentrionale, o meglio nella zona di Arezzo nel 1944, da parte del terzo reich. La deportazione di Ferrini, così come quella di
altri civili, in Germania costituì una chiara violazione del regolamento ammesso alla quarta convenzione dell’Aja 1907 (le cui
disposizioni sono ormai diventate diritto consuetudinario) che vieta di utilizzare gli abitanti dei territori occupati per operazione
belliche contro la loro patria.
! Oggi la deportazione della popolazione civile dei territori occupati finalizzata al lavoro forzato costituisce un crimine di guerra.
→ La Germania che era stata convenuta in giudizio aveva eccepito l’immunità dalla giurisdizione, quindi il caso arriva in Corte di
Cassazione e quest’ultima nella sent. del 2004 ESCLUDE l’immunità dalla giurisdizione, sebbene la deportazione finalizzata al
lavoro forzato costituisca attività iure imperii, con conseguenza che la Germania non può avvalersi dell’immunità dalla
giurisdizione, si svolge il processo e la Germania viene condannata al risarcimento del danno. Questo principio viene confermato
anche nella sent. del 2008 che riguarda la strage di Civitella sempre vicino ad Arezzo (strage giugno del 1944 dove in
rappresaglia per l’uccisione da parte dei partigiani di 4 soldati tedeschi, furono uccisi dai tedeschi 203 civili). I familiari delle
vittime, sull’onda della sent. Ferrini citano in giudizio la Germania chiedendo il risarcimento del danno, la Germania invoca ancora
una volta l’eccezione del difetto di giurisdizione, il caso arriva in Cassazione e quest’ultima esclude l’immunità dalla giurisdizione,
e la Germania viene condannata al risarcimento del danno.
La giurisprudenza italiana comincia a fare notizia in Europa e i familiari delle vittime dei crimini nazisti di altri paesi europei,
cominciano a valutare la possibilità e a proporre ricorsi, questo in modo particolare in Grecia per ottenere il risarcimento del
danno dalla Germania.
→ A questo punto la Germania decide di adire la Corte Internazionale di Giustizia nel dicembre del 2008, facendo ricorso contro
l’Italia, lamentando la violazione del principio dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione per attività iure imperii. La
Germania invoca la clausola compromissoria contenuta nella Convenzione Europea per la risoluzione pacifica delle
controversie internazionali, conclusa sempre nell’ambito del Consiglio d’Europa nel 1957.
Questa Convenzione è stata ratificata sia dall’Italia che dalla Germania; gli Stati parte della Convenzione riconoscono la
giurisdizione della Corte su tutte le controversie che riguardino questioni di diritto internazionale.
→ La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) si pronuncia sulla controversia in questione con sent. del 2012, dando torto
all’Italia e ragione alla Germania: la CIG afferma che l’Italia nel sottoporre a giudizio la Germania innanzi ai propri organi
giudiziari per atti costituenti crimini internazionali ha violato il principio consuetudinario dell’immunità degli Stati esteri dalla
giurisdizione per attività iure imperii. La CIG fa presente che:
- i giudici italiani sono gli unici ad aver affermato che l’immunità viene meno laddove l’atto costituisca una violazione di una
norma cogente;
- non vi è nessuna legislazione nazionale che prevede come eccezione all’immunità il fatto che l’atto costituisca una violazione
di una norma cogente (la legislazione italiana non prevedeva l’esclusione dell’immunità dalla giurisdizione per atti iure imperii
costituenti gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, e quindi violazione di una norma cogente);
- l’immunità dalla giurisdizione è una norma di natura procedurale, e quindi non può essere messa sullo stesso piano della
norma che vieta la commissione di crimini internazionali, quindi che ha carattere sostanziale.
La Corte attraverso questa argomentazione voleva arrivare quindi ad escludere che la Germania potesse essere convenuta in
giudizio davanti ai tribunali italiani e di altri Stati per il risarcimento dei danni derivanti da crimini commessi dai nazisti, questo
ragionamento sollevò molte critiche.
La CIG accogliendo il ricorso della Germania l’ha salvata da molti risarcimenti.
n.b: La sentenza resa dalla Corte vincola gli Stati parti della controversia, se lo Stato soccombente non si conforma alla
sentenza, l’altro Stato può rivolgersi al Consiglio di sicurezza che questo può raccomandare e quindi adottare una risoluzione
avente contenuto meramente esortativo o adottare una risoluzione vincolante per garantire l’esecuzione della sentenza.
Naturalmente per l’adozione della risoluzione, trattandosi di una risoluzione su questioni sostanziali, occorrono 9 voti favorevoli
tra i quali DEVONO essere ricompresi i voti dei 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza.
→ L’italia si è conformata alla sentenza della Corte internazionale di giustizia, attraverso la l.5/2013 cioè la legge contenente
l’autorizzazione all’adesione e l’ordine di esecuzione della convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli
Stati e dei lori beni.
! Si tratta di uno di quei trattati la cui ratifica o adesione deve essere preceduta dall’autorizzazione delle camere, quindi con la
legge 5/2013 le camere autorizzano l’adesione e la stessa legge contiene l’ordine di esecuzione cioè il procedimento speciale di
adattamento dell’ordinamento interno a questa convenzione.
Con tale legge viene previsto un nuovo motivo di revocazione delle sentenze passate in giudicato, consentendo così alla
Germania di chiedere la revocazione delle sentenze passata in giudicato che la obbliga al risarcimento del danno.
Per quanto riguarda i procedimenti ancora in corso, la Corte internazionale di giustizia aveva imposto all’Italia di impedire che
nuove sentenze emesse dai giudici italiani potessero essere in contrasto con il principio dell’immunità degli Stati esteri dalla
giurisdizione e quindi il giudice davanti al quale questo caso pende, deve dichiarare d’ufficio il difetto di giurisdizione.
n.b: Con la sentenza della Corte del 2012, la Corte di cassazione è costretta a mutare orientamento rispetto a quanto aveva
affermato nella sentenza del 2004 e ritorna ad affermare il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione degli Stati esteri
anche di fronte crimini internazionali.
→ Il tribunale di Firenze chiamato a pronunciarsi sulla immunità dalla giurisdizione della Germania solleva la questione di
legittimità costituzionale della legge 5/2013 nella parte in cui prevede il nuovo motivo di revocazione delle sentenze passate in
giudicato e rispetto a cui il giudice deve dichiarare d’ufficio il difetto di giurisdizione e anche la legge 848/1957 (la legge che
contiene l’ordine di esecuzione della Carta delle Nazioni Unite) nella parte in cui prevede l’obbligo di conformarsi alle sentenze
della Corte internazionale di giustizia e quindi nel caso dell’obbligo per l’Italia di conformarsi alla sentenza resa nel 2012.
→ La corte costituzionale si pronuncia con sentenza n.238/2014 riguardo alla conformità della legge 5/2013 e della legge
848/1957 e in questa sentenza afferma che la norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione nella parte
in cui riconosce l’immunità allo Stato estero anche per atti costituenti crimini di guerra e contro l’umanità è in contrasto con gli art
2 e 24 della Costituzione, l’art 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, l’art 24 il c.d. diritto di accesso alla giustizia, quindi dettano
dei principi fondamentali. La Corte ha affermato che la norma consuetudinaria in questione NON può ritenersi immessa nel nostro
ordinamento attraverso l’art 10 c. 1 della Cost. il quale stabilisce che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute.
Questa disposizione contiene un rinvio formale alle norme consuetudinarie ovvero alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute nella loro qualità formale di norme giuridiche.
Riepilogo:
1) 2004 Sentenza Corte di Cassazione “Caso Ferrari”.
2) Le successive sentenze che confermano quanto affermato dalla Sentenza Ferrini.
3) 2008 La Germania si rivolge alla Corte Internazionale di Giustizia contro l’Italia.
4) 2012 Sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che dà torto all’Italia.
5) 2013 l’Italia con la legge n.5 dà esecuzione alle sentenze della Corte int. di Giustizia.
6) 2014 con la sentenza n.238 la Corte Costituzionale dichiara l’illeggittimità costituzionale della l.5/2013 e della l.248/1957.

12.2 ADATTAMENTO.
L’ADATTAMENTO è il meccanismo attraverso il quale le norme internazionali vengono rese applicabili nell’ordinamento interno e
dobbiamo distinguere l’adattamento al diritto consuetudinario, cogente, al diritto pattizio e alle fonti previste da accordo.
Per quanto riguarda i rapporti tra ordinamento internazionale e ordinamento interno esistono due teorie:
a) la teoria monista, secondo la quale esiste un unico ordinamento giuridico e quindi le norme internazionali sono direttamente
applicabili nell’ordinamento interno e vincolano i soggetti dell’ordinamento interno (questa teoria è respinta dalla dottrina e
dalla giurisprudenza italiana compreso Ronzitti, che sostengono la teoria dualista);
b) la teoria dualista, cioè l’ordinamento internazionale e l’ordinamento interno sono ordinamenti separati e originari che
comunicano tra loro attraverso il meccanismo del rinvio.

12.2.1 I rinvii
Distinguiamo due tipi tipi di rinvio:
a) il rinvio formale, mediante il quale le norme dell’ordinamento interno rinviano alle norme dell’ordinamento internazionale nella
loro qualità formale di norme giuridiche (es. l’ordine di esecuzione che costituisce un procedimento speciale di adattamento ai
trattati);
b) il rinvio materiale, le norme dell'ordinamento interno rinviano alle norme del diritto internazionale nel loro contenuto
materiale/sostanziale (es. procedimento ordinario di adattamento ai trattati).

12.3 ADATTAMENTO DIRITTO CONSUETUDINARIO


E’ disciplinato dall’art.10 c.1 Cost. che stabilisce che: “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”. Si tratta di un meccanismo di rinvio formale, le norme dell’ordinamento italiano
rinviano alle norme del diritto internazionale consuetudinario nella loro qualità di norme giuridiche.
Quando una norma consuetudinaria si forma nell’ordinamento internazionale, ad esse si adatta automaticamente l’ordinamento
interno; proprio in considerazione di ciò, un famoso studioso del diritto internazionale Tommaso Perassi ha definito l’art. 10 c.1
come un “trasformatore permanente”, del diritto internazionale in diritto interno.
→ Il rango delle norme consuetudinarie immesse nel nostro ordinamento attraverso l’art.10 c.1 della Costituzione è quello di
norme costituzionali. La conseguenza di ciò è che una norma di legge ordinaria in contrasto con una norma consuetudinaria,
potrà essere dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Questo è stato affermato da una celebre sentenza, la
sentenza 48/1979, la Corte Costituzionale nella sentenza in questione afferma che: le norme consuetudinarie immesse nel
nostro ordinamento tramite l’art.10 c.1 e formatesi successivamente all’entrata in vigore della Costituzione incontrano un limite: il
rispetto dei principi fondamentali della Costituzione (es. i principi relativi alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo).
Da questa affermazione la dottrina italiana ha desunto in via interpretativa una distinzione tra:
a) norme consuetudinarie formatesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il meccanismo di cui all’art.10 c.1, quindi
l’adattamento del diritto interno al diritto consuetudinario, in questo caso NON opererebbe SE la norma consuetudinaria sia in
contrasto con un principio fondamentale della Costituzione;
b) norme consuetudinarie formatesi prima, invece l’adattamento opererebbe comunque anche qualora una norma del genere si
rivelasse in contrasto con un principio fondamentale della Costituzione.
→ Bisogna adesso richiamare la sentenza 238/2014 con la quale la Corte Costituzionale ha affermato che la norma
consuetudinaria sull'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione NON deve nemmeno ritenersi immessa nel nostro ordinamento
nella parte in cui riconosce allo Stato straniero l’immunità dalla giurisdizione anche per atti costituenti crimini di guerra e crimini
contro l’umanità e di conseguenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della:
- legge n 5 del 2013 mediante la quale l’Italia aveva dato esecuzione alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del
2012;
- legge 848 del 1957 (che contiene l’ordine di esecuzione alla Carta delle Nazioni Unite) nella parte in cui impone all’Italia di dare
esecuzione alla sentenza della Corte internazionale di giustizia in questione. In questa stessa sentenza (238/2014) la Corte
costituzionale ha dato l’interpretazione autentica di quanto affermato nella sentenza 48/1979: la norma consuetudinaria
sull’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione si è formata prima dell’entrata in vigore della Costituzione e allora secondo
l’interpretazione che la dottrina aveva dato della sentenza 48 del ’79, la norma in questione avrebbe dovuto applicarsi nel nostro
ordinamento anche nel caso di un contrasto con principi fondamentali della Costituzione, INVECE aveva semplicemente
affermato che le norme consuetudinarie posteriori all’entrata in vigore della Costituzione non sono immesse se in contrasto con i
principi fondamentali della costituzione e ha chiarito che, dunque smentendo la dottrina, anche le norme formatesi prima
dell’entrata in vigore della Costituzione NON devono considerarsi immesse nel nostro ordinamento se sono in contrasto con
principi fondamentali della Costituzione. Ciò ha consentito alla Corte di escludere l’applicazione della norma sull’immunità degli
Stati esteri dalla giurisdizione nel caso di atti costituenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
N.B: Dunque le norme consuetudinarie immesse nel nostro ordinamento tramite l’art. 10 c.1 della Cost. hanno lo stesso rango
delle norme costituzionali; per quanto riguarda le norme consuetudinarie in contrasto con i principi fondamentali della
Costituzione, queste NON devono considerarsi immesse nel nostro ordinamento sia che si siano formate dopo l’entrata in vigore
della Costituzione sia che si siano formate prima.
Ma cosa accade nel caso di contrasto tra una norma consuetudinaria e una norma costituzionale che non appartiene al
nucleo dei principi fondamentali della Costituzione? In una situazione del genere, la norma consuetudinaria dovrebbe
prevalere a titolo di lex specialis infatti le norme consuetudinarie immesse nel nostro ordinamento, godrebbero comunque
dell’attributo della specialità (Non vi sono però casi concreti in proposito finora). Oltre alle consuetudini generali, quelle che
vincolano tutti gli Stati, esistono anche delle consuetudini regionali, cioè quelle che si formano tra gli Stati di una data regione
geografia e perciò vincolano solo quelli. Attraverso l’art.10 c.1 della Cost. vengono immesse nel nostro ordinamento non soltanto
le consuetudini generali ma anche le consuetudini regionali che vincolano l’Italia, dunque quelle formatesi tra gli Stati del
continente europeo.

12.4 ADATTAMENTO DIRITTO COGENTE


Avviene anch’esso mediante l’art.10 c.1 Cost., la formula dell’art. in questione è così ampia da ricomprendere anche le norme
cogenti, infatti esso recita “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute” e le norme cogenti sono norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, esse nascono come norme
consuetudinarie le quali acquistano nel tempo una opinio iuris particolarmente qualificata, in quanto si aggiunge la convinzione
che la norma sia inderogabile, non può essere derogata mediante accordo.
N.B: La differenza tra adattamento al diritto cogente e adattamento al diritto consuetudinario è che il rango delle norme cogenti
immesse nel nostro ordinamento NON è quello di semplici norme costituzionali ma qualcosa di più: esse sono assimilate ai
principi supremi della Costituzione.
→ La Corte costituzionale nella sentenza 1146/1988 distingue i principi supremi della Costituzione da tutte le altre norme
costituzionali infatti le norme costituzionali sono modificabili mediante il procedimento di revisione costituzionale MENTRE i
principi supremi della Costituzione NON sono modificabili nemmeno mediante una legge di revisione costituzionale.
! Come afferma il prof Ronzitti le norme cogenti sono assimilabili ai principi supremi della Costituzione, ma vi è una differenza: i
principi supremi della Costituzione NON sono modificabili, mentre le norme cogenti sono modificabili da norme successive aventi
lo stesso carattere.
12.5 ADATTAMENTO DIRITTO PATTIZIO
Esso può avvenire mediante tre diversi procedimenti: il procedimento ordinario, il procedimento speciale e il procedimento misto:
- Il procedimento speciale, nel nostro ordinamento consiste nell’ordine di esecuzione la cui formula è:
“piena e intera esecuzione è data ad un trattato X, a partire dalla sua entrata in vigore”.
L’ordine di esecuzione è chiaramente un meccanismo di rinvio formale dell’ordinamento italiano alle norme dell’ordinamento
internazionale, in modo specifico stiamo parlando di norme pattizie; dunque, mediante l’ordine di esecuzione, il nostro
ordinamento rinvia alle norme del trattato nella loro qualità formale, appunto di norme pattizie, NON vi è alcun richiamo al
contenuto materiale delle norme del trattato, viene citato in generale il trattato.
Questa formula può essere contenuta in una legge oppure in un atto regolamentare (decreto).
→ Se il trattato al cui adattamento si deve procedere è un trattato soggetto a legge di autorizzazione alla ratifica (cioè uno dei
trattati di cui all’art 80 della Costituzione), allora l’ordine di esecuzione è di solito contenuto nella legge di autorizzazione alla
ratifica.
Abbiamo visto quale è formula dell’ordine di esecuzione, abbiamo visto che per i trattati di cui all’art. 80 è incluso nella
stessa legge di autorizzazione alla ratifica o all’adesione, non trovate che vi sia una contraddizione? Quando parliamo di
autorizzazione alla ratifica o all’adesione ci riferiamo ad un trattato di cui l’Italia non è ancora parte, quando parliamo di ordine di
esecuzione parliamo di adattamento dell’ordinamento interno al trattato e da un punto di vista logico, prima l’Italia si vincola al
rispetto del trattato e poi adegua il proprio ordinamento al trattato, le camere autorizzano la ratifica, poi è il presidente della
repubblica che ratifica il trattato e l’Italia si vincola al rispetto del trattato in conseguenza della ratifica o dell’adesione, l’ordine di
esecuzione non attiene alla stipulazione del trattato ma piuttosto all’adattamento e questo adattamento dovrebbe essere
successivo alla stipulazione del trattato. In realtà la contraddizione è soltanto apparente perché l’ordine di esecuzione viene
inserito all’interno della legge di autorizzazione alla ratifica o adesione MA i suoi effetti sono posticipati al momento in cui il
trattato entra in vigore, quindi sono posticipati ad un momento successivo (piena e intera esecuzione è data ad un trattato X, a
partire dalla sua entrata in vigore).
→ Se il trattato è bilaterale, entrerà in vigore con lo scambio delle ratifiche, quindi l’ordine di esecuzione sarà operante in
conseguenza dello stato delle ratifiche; se il trattato è multilaterale entrerà in vigore quando viene raggiunto il numero delle
ratifiche indicato in una delle clausole finali del trattato, e solo allora sarà operante l’ordine di esecuzione;
- Il procedimento ordinario consiste nella riformulazione delle norme del trattato in norme interne, in sostanza le norme del
trattato vengono riprodotte in un atto interno che potrà essere un atto legislativo (legge ordinaria o costituzionale a seconda
dei casi) o un atto regolamentare. Le norme pattizie immesse nel nostro ordinamento attraverso il procedimento ordinario
hanno una vita separata da quella delle norme del trattato, dunque se il trattato si estingue a livello internazionale, ciò non ha
riflessi sulle norme interne adottate per adattare il nostro ordinamento a quel trattato. La legge ordinaria o costituzionale o il
regolamento continuano a rimanere in vigore fintanto che non siano modificati da un atto interno successivo. Il procedimento
ordinario di adattamento è un tipico esempio di rinvio materiale, le norme dell’ordinamento interno rinviano alle norme del
trattato nel loro contenuto materiale.
Qual è il vantaggio del procedimento ordinario e del procedimento speciale?
Il vantaggio del procedimento speciale è la rapidità: per il parlamento l’adattamento ad un trattato mediante speciale è semplice
basta inserire una formuletta all’interno della legge di autorizzazione alla ratifica o adesione di un trattato, se si tratta di un trattato
di cui all’art. 80, e questo garantisce l’adattamento del nostro ordinamento al trattato; lo svantaggio è l’impossibilità di garantire
con questo procedimento l’adeguamento del nostro ordinamento alle norme non self-executing del trattato, cioè quelle norme che
non possono trovare immediata applicazione, poiché l’ordinamento interno non dispone degli organi, delle procedure,
meccanismi, o non prevede le sanzioni necessarie affinché ciò sia possibile;
1- il vantaggio del procedimento ordinario è certamente la possibilità che attraverso questo si garantisce l’adeguamento del
nostro ordinamento anche alle norme non self-executing del trattato, perché dal momento in cui le norme del trattato vengono
riprodotte in un atto interno, in questo atto interno si inseriranno anche le disposizioni che prevedono i meccanismi, le
procedure, gli organi o le sanzioni necessarie a garantire l’applicazione delle norme in questione; lo svantaggio, che è un
vantaggio dell’ordine di esecuzione, sono i tempi lunghi che sono necessari per l’adozione da parte del Parlamento e talvolta
anche da parte degli organi amministrativi preposti dei regolamenti necessari per adeguare l’ordinamento interno al trattato;
- Il procedimento misto mira a sommare i benefici del procedimento speciale con quelli del procedimento ordinario e consiste
nell’emanazione dell’ordine di esecuzione accompagnato dalle norme di adattamento ad-hoc volte ad assicurare
l’applicazione delle norme non self-executing del trattato, quindi nel procedimento misto c’è la legge di autorizzazione alla
ratifica o all’adesione dove vi è sempre l’ordine di esecuzione che può essere accompagnato da norme di adattamento ad-
hoc. Ad esempio la Convenzione di Parigi sulle Armi chimiche del 1993 è al contempo una convenzione di disarmo, diretta
a impedire la produzione e obbligare alla distruzione di determinate armi, e una convenzione di diritto internazionale
comunitario, che vieta o limita l’uso di determinate armi; l’Italia ha ratificato questa convenzione e per l’adattamento
dell’ordinamento italiano a questa convenzione è stato seguito un procedimento misto, ovvero nella legge di autorizzazione
alla ratifica è stato inserito l’ordine di esecuzione e sono state inserite alcune disposizioni di adattamento ad-hoc volte ad
assicurare l’adattamento delle norme non self-executing.
Le norme pattizie immesse nell’ordinamento interno mediante l’ordine di esecuzione di solito hanno lo stesso rango dell’atto nel
quale l’ordine di esecuzione è contenuto: se come di solito accade l’ordine di esecuzione è contenuto nella legge di
autorizzazione alla ratifica e adesione che è una legge ordinaria, allora le norme del trattato hanno il rango di norma di legge
ordinaria.
→ Su questa materia è intervenuta la riforma del titolo V della Costituzione, la legge n° 3 del 2001 che ha introdotto un nuovo
art.117 c. 1 Cost. che prevede che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. In sostanza le leggi ordinarie e regionali
devono rispettare la Costituzione, le norme vincolanti dell’Unione Europea e devono rispettare gli obblighi internazionali.
→ La cosiddetta legge “La Loggia” ovvero la legge 131 del 2003, ha chiarito che costituiscono vincoli alla potestà legislativa
dello Stato e delle Regioni anche quelli derivanti da Trattati internazionali, quindi ha chiarito che l’espressione obblighi
internazionali deve ritenersi comprensiva degli obblighi derivanti dai trattati, TUTTI i trattati, sia quelli conclusi in forma solenne
che quelli conclusi in forma semplificata.
Qual è la conseguenza di tutto ciò? Ne discende che una legge dello Stato o una legge regionale possono essere dichiarate
costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale che sono in contrasto con una norma o più norme di un trattato di cui
l’Italia è parte, e ciò per contrasto con l’art. 117 comma 1 della Costituzione, che impone l’emanazione di leggi statali e regionali
nel rispetto degli obblighi derivanti dai trattati.
DUNQUE, il nuovo art 117 comma 1 della Cost. sancisce la superiorità del trattato rispetto alla legge ordinaria, la quale può
essere dichiarata costituzionalmente illegittima se in contrasto con un trattato di cui l’Italia è parte.
Ciò vuol dire che le norme pattizie hanno immesso nel nostro ordinamento attraverso l’ordine di esecuzione, hanno
ormai il rango costituzionale? NO! E’ stato chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenze gemelle 348-349 del 2007 che le
norme pattizie immesse nel nostro ordinamento attraverso l’ordine di esecuzione sono da considerarsi norme interposte, norme
che si trovano ad un livello superiore rispetto alla legge ordinaria e che tuttavia sono subordinate alla Costituzione (si trovano ad
un livello sub-costituzionale); secondo la Corte costituzionale in caso di contrasto tra una norma pattizia e una norma di legge
ordinaria, il giudice interno deve cercare di interpretare la legge ordinaria in conformità della norma pattizia se poi questa opera di
interpretazione risulta infruttuosa, quindi non consente di superare il contrasto, allora il giudice deve necessariamente sollevare la
questione di legittimità costituzionale e attendere la pronuncia della Corte costituzionale, il giudice interno NON può esso stesso
disapplicare la norma di legge ordinaria che viene in contrasto con la norma pattizia ma deve attendere la pronuncia della Corte
costituzionale.
N.B: Naturalmente se invece l’adattamento al trattato avviene secondo il procedimento ordinario e quindi si sceglie di riprodurre
le norme del trattato attraverso una legge costituzionale allora ecco che la situazione è differente perché avremo un atto interno
che è chiaramente una legge costituzionale, quindi che ha rango costituzionale.

12.6 ADATTAMENTO ALLE FONTI PREVISTE DA ACCORDO


La categoria più cospicua di fonti previste da accordo è rappresentata dagli atti vincolanti emanati dalle organizzazioni
internazionali: l’Unione Europea è l’organizzazione i cui organi hanno più di ogni altra organizzazione il potere di emanare atti
vincolanti, le organizzazioni europee emanano regolamenti, direttive, decisioni e ciò in una vasta serie di settori. Se, come nel
caso dei regolamenti dell’unione, il trattato istitutivo dell’organizzazione internazionale prevede espressamente l’efficacia interna
di questi atti, allora in linea di principio NON è necessario un atto di adattamento ad hoc, quindi nel caso del regolamento, l’art.
288 del TFUE stabilisce espressamente che questo è direttamente applicabile negli Stati membri.
N.B: In linea di principio, se il trattato istitutivo dell’organizzazione internazionale prevede chiaramente l’efficacia interna dell’atto
vincolante emanato dai suoi organi allora NON è necessario un atto di adattamento ad hoc MA si ritiene che l’ordine di
esecuzione del trattato istitutivo dell’organizzazione copra anche gli atti emanati dagli organi dell’istituzione sulla base delle
norme del trattato istitutivo.
→ Se invece, il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dice riguardo l’efficacia interna dell’atto o degli atti emanati dai suoi
organi allora NON è sufficiente l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo dell’organizzazione in questione MA sono necessari
atti di adattamento ad hoc; per esempio, le risoluzioni vincolanti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per queste si
ritiene necessario un atto di adattamento ad hoc, non si ritiene che l’ordine di esecuzione della Carta delle Nazioni Unite assicuri
l’adattamento a queste risoluzioni.
13 SOLUZIONE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI E L’ACCERTAMENTO
DEL DIRITTO.
La soluzione delle controversie internazionali si basa su un principio fondamentale che è quello della “libertà dei mezzi”, cioè
quello della libertà degli Stati di scegliere il mezzo cui fare ricorso per risolvere la controversia che nasce fra di essi, perché alla
base della soluzione di una controversia internazionale vi è la volontà degli Stati che ne sono parti di risolverla attraverso un
accordo: questo accordo può avere ad oggetto direttamente la soluzione della controversia, oppure l’individuazione di un mezzo
cui fare ricorso per risolvere la controversia.
Il diritto internazionale è ricco di norme che hanno ad oggetto la soluzione delle controversie fra Stati, per lo più norme di origine
pattizia (norme convenzionali): a partire dalle Convenzioni dell’Aja, quella del 1899 e quella del 1907 sulla soluzione pacifica
delle controversie tra Stati.
→ Oggi vi è una norma fondamentale che ha assunto carattere consuetudinario, questa norma è quella che sancisce l’obbligo di
risolvere le controversie in maniera pacifica, che è sancito dall’art. 2 par. 3, Carta delle Nazioni Unite, quest’obbligo impone agli
Stati di ricorrere ai mezzi pacifici per risolvere le controversie ogni volta che una controversia può mettere in pericolo la pace, la
sicurezza internazionale e la giustizia, obbligo sancito anche dalla Dichiarazione sulle relazioni amichevoli degli Stati,
adottata dall’Assemblea Generale nel 1970 e, ancora, nella Dichiarazione di Manila dell’82.
→ A queste disposizioni corrisponde il divieto di ricorrere ai mezzi coercitivi sancito all’art. 2 par. 4, Carta delle N.U., che
afferma appunto il divieto per gli Stati di ricorrere nelle relazioni internazionali alla minaccia e all’uso della forza contro l’integrità
territoriale, l’indipendenza politica, o comunque in ogni altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite.
Cos’è una controversia internazionale? La controversia innanzitutto deve essere “internazionale”, cioè nella quale siano
coinvolte 2 o più entità sovrane, soggetti di diritto internazionale e che si instaura al di là di ogni ordine statale. La controversia si
compone di due elementi:
1. la pretesa di uno Stato;
2. dall’altro la resistenza a tale pretesa da parte di un altro Stato.
Quindi quando sussiste una controversia internazionale? Quando innanzitutto c’è un conflitto di interessi e in relazione a
questo conflitto di interessi abbiamo da un lato la pretesa di uno Stato e dell’altro la resistenza di un altro Stato.
N.B: Ovviamente NON possiamo confondere la controversia stessa con il conflitto di interessi: vi è sempre un conflitto di
interesse tra Stati (di natura economica, politica..), la controversia sussiste solo quando si avanza una pretesa in relazione al
conflitto di interessi e quella pretesa è opposta da un altro Stato.

Le controversie possono essere classificate:


1) una prima classificazione è quella che le distingue in controversie di natura politica e controversie di natura giuridica, a
seconda che le parti si avvalgano, rispettivamente, di ragioni di ordine politico o ragioni di ordine giuridico, tuttavia questa
distinzione perde un po' di significato perché generalmente ogni controversia che sorge fra due Stati ha comunque delle
ragioni politiche, per cui si può dire che esistono delle controversie di natura politica che hanno anche degli aspetti giuridici al
loro interno.
Un esempio è la controversia tra Stati Uniti e Nicaragua, che vedeva quindi gli Stati Uniti opposti al Nicaragua sandinista.
Possiamo distinguere la pretesa di carattere politico degli Stati Uniti di rovesciare il Governo sandinista in Nicaragua, una pretesa
non tutelata dal diritto internazionale; le pretese di carattere giuridico, che poi sono giunte davanti alla Corte internazionale di
giustizia (risolte con sentenza nell’86), erano le questioni relative alla posa di mine nei porti del Nicaragua da parte degli Stati
Uniti e il sostegno economico-militare che gli Stati Uniti davano ai Contras (gruppo insurrezionale che si opponeva al Governo)
del Nicaragua, quindi è una controversia mista: da un lato pretese politiche e dall’altro pretese giuridiche.
2) Un’altra distinzione è quella tra “controversie justiciable” e “controversie non justiciable”: cioè controversie in relazione alle
quali le parti abbiano assunto nei loro rapporti reciproci o nell’ambito di organizzazioni internazionali obblighi di regolamento
(cioè, all’insorgere di una controversia hanno assunto l’obbligo di ricorrere a mezzi giuridici di risoluzione delle controversie),
se non hanno invece assunto alcun obbligo di regolamento, le definiamo come “non justiciable”.
3) Un'ulteriore distinzione da fare è quella tra due concetti: l’estinzione di una controversia e la
soluzione di una controversia. L’estinzione di una controversia consiste in un fatto pre-giuridico, che fa
venir meno le pretese degli Stati, può basarsi su motivi vari che possono ricollegarsi oppure essere totalmente autonomi da ogni
tentativo di avviare procedure diplomatiche o giuridiche per la risoluzione della controversia. La soluzione della controversia
consiste, invece, nella valutazione giuridica delle ragioni delle parti e può essere raggiunta tramite un accordo risolutivo tra le
parti, oppure la decisione di un Tribunale o un altro organo appositamente istituito a livello internazionale.
Tendenzialmente estinzione e soluzione della controversia coincidono ogni qualvolta si ha un accordo risolutivo.
Perché? Perché l’accordo risolutivo, essendo espressione della volontà delle parti, è testimonianza del venir meno della pretesa
avanzata rispettivamente dagli Stati e crea nuovo diritto tra gli Stati.
→ Questa coincidenza può NON esserci quando si è in presenza di una sentenza, di una decisione di un Tribunale arbitrale (ad
esempio: Corte permanente) perché la soluzione decisa da questa sentenza può non accontentare una delle parti, la quale
continua ad avanzare la sua pretesa, quindi in questo caso la controversia viene risolta ma NON si estingue.
13.1 MEZZI DI RISOLUZIONE PACIFICA DELLE CONTROVERSIE.
Oggi è superata la distinzione tra mezzi pacifici e mezzi non pacifici (o coercitivi) perché vige l’obbligo di risolvere pacificamente
le controversie internazionali (art. 2, par. 3, Carta delle N.U.), cui corrisponde il divieto di ricorrere a mezzi coercitivi, cioè alla
minaccia o all’uso della forza, per risolvere le controversie internazionali.
→ I mezzi possono essere: organizzati (o istituzionalizzati) e non organizzati, la differenza è che i primi implicano una procedura
ben strutturata spesso nell’ambito delle organizzazioni internazionali.
→ Distinguiamo ancora i mezzi di regolamento politico, cioè che hanno natura politica e i mezzi giudiziari, che implicano il ricorso
a procedure di carattere giudiziario.
→ La classificazione più importante, contenuta nell’art.33 par.1 della Carta delle Nazioni Unite è quella che distingue:
- mezzi obbligatori ( o “ad esito vincolante”) cioè l’arbitrato e la giurisdizione;
- mezzi diplomatici (o “ad esito non vincolante”): il negoziato, la mediazione, i buoni uffici (non sono elencati nell’art.33 ma
sono stati inseriti nella dichiarazione d 5yni Manila dell’82), l’inchiesta e la conciliazione. Questi mezzi non devono essere
attuati in maniera successiva, NON sono elencati in ordine, infatti abbiamo detto prima che vige il principio della libertà di
scelta dei mezzi di risoluzione pacifica delle controversie, inoltre è possibile anche ricorrere a più mezzi.

13.2 MEZZI DIPLOMATICI (O AD ESITO NON VINCOLANTE)


13.2.1 Negoziato
È l’unico mezzo che NON implica l’intervento di un terzo, consiste in consultazioni e scambi di informazioni a livello diplomatico. Il
loro scopo è quello di giungere ad un accordo risolutivo: le parti a tal fine hanno l’obbligo di agire in buona fede. Il negoziato
raramente si traduce in un accordo di mero accertamento che risolve la controversia secondo diritto infatti più spesso è una
soluzione di compromesso che ha natura politica. Talvolta i negoziati non giungono direttamente alla risoluzione della
controversia ma solo all’individuazione di un ulteriore mezzo più sofisticato di soluzione, è il metodo a cui gli Stati ricorrono a
prima istanza. Alle volte il ricorso al negoziato è previsto come obbligatorio: cioè gli Stati possono obbligarsi a priori a considerare
il negoziato come un tentativo obbligatorio prima di poter ricorrere ad altro mezzo.

13.2.2 Mediazione
Prevede l’intervento di un terzo: si ha mediazione quando le parti decidono di affidare ad un terzo la soluzione della controversia.
Sono le parti che scelgono il terzo; se è il terzo che si propone le parti devono comunque accettarlo espressamente. Il terzo
innanzitutto porta uno Stato a conoscenza della tesi dell’altro e viceversa, impedisce che le rispettive proposte vengano rigettate,
favorendo invece l’accoglimento delle proposte altrui. Se dopo questi tentativi di mediazione non si riesce comunque a
raggiungere una soluzione comune è lo stesso mediatore a proporre un piano risolutivo della controversia: può sposare una tesi
di uno degli Stati ma deve tener conto delle pretese di tutti gli Stati parte della controversia, oppure può anche accogliere la tesi di
uno Stato prevedendo però una soddisfazione per la controparte. La mediazione NON è vincolante.

13.2.3 Buoni uffici


NON è previsto dall’art. 33 della Carta Onu che elenca i mezzi di risoluzione pacifica delle controversie, ma è stato inserito nella
Dichiarazione di Manila del 1982.
Sono simili alla mediazione in quanto prevedono l’intervento di un terzo e giungono ad una proposta di soluzione che NON è
vincolante. MA mentre nella mediazione se le parti non giungono ad un accordo di risoluzione è il mediatore a proporre un piano
di soluzione della controversia, ha un ruolo più attivo, nei buoni uffici ciò non accade.

13.2.4 L’inchiesta
È un mezzo istituzionalizzato, ovvero una procedura ben strutturata spesso istituita nell’ambito di organizzazioni internazionali. Si
ha quando le parti di una controversia decidono di incaricare una commissione per accertare i fatti che si pongono alla base di
questa controversia. La commissione ha poi l’obbligo di produrre un rapporto che NON ha efficacia vincolante a meno che le parti
non si impegnino a considerarlo vincolante. Ad esempio la Convezione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, nel
prevedere che le parti hanno la possibilità di ricorrere ad un tribunale internazionale per la risoluzione di controversie sulle
materie di competenza della convenzione, afferma che il risultato sarà vincolante.

13.2.5 Conciliazione
Anche la conciliazione è un mezzo istituzionalizzato, che prevede una procedura ben strutturata e spesso le commissioni di
conciliazione sono istituite da organizzazioni internazionali. Vi è una commissione incaricata di svolgere accertamenti sui fatti di
una controversia e di produrre un rapporto che NON è vincolante. A volte l’instaurazione di una commissione di conciliazione è
prevista come obbligatoria da alcuni trattati, ad esempio la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 prevede l’obbligo
della conciliazione per tutte quelle controversie che hanno per oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato.
13.3 MEZZI OBBLIGATORI
13.3.1 Arbitrato
Esso è istituito mediante accordo fra le parti e giunge ad una soluzione OBBLIGATORIA che vincola le parti (es. clausola
compromissoria e compromesso). Le caratteristiche sono:
A) fondamento pattizio del procedimento: l’arbitrato è istituito mediante accordo fra le parti;
B) l’arbitrato è composto da un numero dispari di arbitri (3 o 5 generalmente) scelti dalle parti;
C) efficacia vincolante del lodo arbitrale: Il lodo arbitrale ha efficacia di cosa giudicata e riguarda solo i fatti oggetto della
controversia e ha efficacia solo tra le parti della controversia, ed è definitiva e immutabile. Il lodo arbitrale NON è appellabile ma
può essere sottoposto a revisione, cioè può essere nullo o annullabile (a meno che la parte legittimata a chiedere la revisione
per uno di questi vizi non accetti esplicitamente o tacitamente il vizio) in presenza dei seguenti vizi: errore essenziale, corruzione
del giudice, violenza o eccesso di potere.
→ Distinguiamo tre tipi di lodi o sentenze arbitrali: sentenza di accertamento, che applica il diritto internazionale vigente al caso
concreto e lo risolve in quel senso; la sentenza dispositiva, che stabilisce una nuova disciplina; la sentenza di condanna, che
fa valere la violazione di una norma internazionale e stabilisce l’entità della riparazione dovuta. L’esecuzione dei lodi arbitrali è
comunque rimessa agli Stati.
In Italia la Corte di appello di Roma si occupa di rendere esecutive le sentenze arbitrali internazionali. La Convenzione dell’Aia del
1899 ha istituito la Corte permanente di arbitrato, che ha sede all’Aia nello stesso edificio in cui si trova la Corte internazionale di
giustizia. La Corte internazionale di giustizia non è un organo arbitrale ma in quanto permanente è un organo di giurisdizione.

13.3.2 Giurisdizione
Si distingue dall’arbitrato perché la soluzione della controversia è deferita ad un organo permanente composto da individui
indipendenti e che opera secondo regole prestabilite. Mentre nell’arbitrato la scelta degli arbitri è affidata alle parti in lite nella
giurisdizione i giudici NON sono designati di volta in volta dalle parti ma sono precostituiti, lo stesso vale per le regole di
procedura che NON possono essere cambiate dalle parti.
N.b: È chiaro che se sorge una controversia fra due Stati e si decide di deferire la controversia alla Corte internazionale di
giustizia la quale pronuncia una sentenza, l’accordo non ha più senso. Se invece prima della sentenza della Corte internazionale
di giustizia si giunge ad un accordo, la Corte stralcerà la controversia in quanto si è risolta con l’accordo risolutivo.

Cosa succede se uno Stato non dà esecuzione ad una sentenza? Non si può fare ricorso all’uso della forza armata per
costringere uno Stato ad adempiere, ma è ammessa la contromisura che non comporti l’uso della forza armata. Lo Stato può
ricorrere al Consiglio di sicurezza affinché prenda le misure appropriate: può decidere o raccomandare le misure in questione,
può cioè adottare un atto giuridicamente vincolante oppure un atto meramente esortativo, dunque nel primo caso lo Stato è
costretto a vincolarsi.
Il capitolo 6 della Carta si dedica alla risoluzione pacifica delle controversie, e individua quelle che sono le competenze degli
organi delle Nazioni Unite: in particolare del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea che hanno una funzione di mediazione-
conciliazione e poi vi è un rimando alle norme che disciplinano la Corte internazionale di giustizia, che NON ha una funzione di
mediazione-conciliazione ma giurisdizionale.
→ L’Assemblea generale svolge delle funzioni consultive e di mediazione disciplinate dal proprio regolamento interno.
→ Anche il Consiglio di sicurezza ha funzioni conciliative o di mediazione ma in particolare si attiva quando una controversia
internazionale mette in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Si tratta di un organo politico e NON di un organo
giurisdizionale. Può attivarsi su iniziativa propria, su iniziativa degli Stati (non necessariamente dagli Stati parti della Carta), del
Segretario generale delle Nazioni unite, dell’Assemblea generale. Ha potere di inchiesta, ovvero può istituire delle commissioni di
inchiesta per verificare se una determinata situazione può mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale.
SE gli Stati nella loro autonomia non riescono a risolvere la controversia se questa ha natura giurisdizionale deve essere deferita
alla Corte internazionale di giustizia, se invece ha natura politica deve essere deferita al Consiglio di sicurezza, il quale può:
- può raccomandare la risoluzione della controversia tramite il ricorso a mezzi pacifici;
- può anche individuare uno specifico mezzo per risolvere la controversia.
14 L’INDIVIDUO E LA TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DELL’UOMO
Cosa intendiamo per diritti umani? Intendiamo i diritti degli individui che sono riconosciuti in quanto tali in Trattati internazionali
e dichiarazioni formulate da organi di organizzazioni internazionali (es. la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che è
stata emanata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite) e/o in norme consuetudinarie.
Distinguiamo: diritti civili e politici, per esempio il diritto alla libertà di opinione e di espressione, il diritto di partecipare alle elezioni;
economici, es. il diritto al lavoro; diritti sociali e culturali come il diritto all’istruzione. A queste categorie dobbiamo aggiungere i
diritti delle minoranze e i diritti dei popoli:
- I diritti delle minoranze sono diritti che spettano agli individui appartenenti ad una minoranza e che tuttavia possono essere
esercitati principalmente in materia collettiva, per esempio il diritto di parlare la lingua minoritaria;
- il diritto dei popoli, ci riferiamo particolarmente all’autodeterminazione dei popoli e al diritto alla sovranità sulle risorse
naturali del territorio abitato dai popoli.
Quello della tutela internazionale dei diritti umani è un settore che si è sviluppato a partire della seconda guerra mondiale.
L’olocausto e le altre efferate violazioni dei diritti umani commesse dai nazisti fornirono l’impulso per lo sviluppo di un sistema
internazionale capace di prevenire il ripetersi di queste violazioni. Gli strumenti fondanti di tale sistema sono:
- la Carta delle Nazioni Unite, è il Trattato istitutivo dell’organizzazione delle nazioni unite, concluso nel giugno del 45 ed
entrato in vigore nell’ottobre del 45; stabilisce due obblighi fondamentali: a)all’art 55 l’obbligo di promuovere il rispetto
universale dei diritti umani senza alcuna discriminazione : il rispetto universale e l’osservanza dei diritti umani e delle libertà
fondamentali per tutti senza nessuna distinzione di sesso, razza, lingua o religione; b)all’art.56 l’obbligo di cooperare con le
Nazioni Unite nella promozione, a livello universale, del rispetto dei diritti umani senza alcuna discriminazione: tutti i membri
si impegnano ad intraprendere individualmente o in cooperazione con l’organizzazione per il raggiungimento dei fini indicati
dall’art 55.
- La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, invece, è stata adottata dall’Assemblea generale delle nazioni unite con
una risoluzione (atto soft law), il 10 dicembre del 1948 a Parigi. In questo caso il mese e il giorno sono importanti perché si
tratta del giorno successivo all’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e repressione del
genocidio anch’essa adottata a Parigi. Nel tempo i diritti sanciti dalla dichiarazione si sono consolidati nel diritto
consuetudinario e oggi sono sanciti in massima parte da norme consuetudinarie.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce quei diritti fondamentali che spettano a TUTTI gli uomini e a tutte le
donne, ovunque nel mondo, senza discriminazione alcuna. La Dichiarazione elenca: diritti civili, politici, economici, sociali e
culturali.
La dichiarazione si apre con un enunciazione all’art 1: tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Se noi
scorriamo i diversi diritti enunciati dalla dichiarazione, possiamo leggere innanzitutto diritto alla vita, libertà e sicurezza personale,
divieto alla schiavitù e di servitù, divieto di tortura. Si tratta di diritti che tuttora rimangono non realizzati in diversi paesi del mondo
non solo nei paesi non sviluppati ma anche in quelli sviluppati.
- La dichiarazione è stata poi seguita da numerosi strumenti pattizi, che naturalmente si sono richiamati alla dichiarazione: il
Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, questi
patti sono stati adottati, nell’ambito delle Nazioni Unite, nel 1966 e sono entrati in vigore nel 1976. Poiché entrambi i patti
sono stati adottati delle Nazioni Unite, vengono anche denominati “Patti delle Nazioni Unite”.
Al Patto sui diritti civili e politici, nel momento in cui fu adottato fu allegato un protocollo opzionale, che prevede il meccanismo di
garanzia posto a tutela del rispetto del patto; successivamente è stato adottato un ulteriore protocollo e riguarda l’abolizione della
pena di morte (1989) e integra il contenuto del patto.
Il patto sui diritti economici, sociali e culturali nasce non provvisto di protocolli ma un protocollo viene concluso e adottato nel
2008, prevede un meccanismo di garanzia analogo a quello già esistente per il patto sui diritti civili e politici.
→ Il patto sui diritti civili e politici impone agli Stati parti di garantire i diritti da esso sanciti a tutti gli individui che si trovino sotto la
giurisdizione e nel territorio degli Stati in questione. Tutti i diritti enunciati nel patto devono essere garantiti. Nel momento in cui lo
Stato entra a farne parte li deve garantire. Viene adottato il principio della realizzazione progressiva: ovvero tale patto impone
agli Stati parti di adottare tutte le misure necessarie per assicurare il rispetto dei diritti stabiliti nel patto individualmente o
attraverso la cooperazione internazionale e naturalmente si tiene conto del limite e delle capacità di ciascuno Stato. Tutti i diritti
previsti nel patto richiedono l’emanazione di una legislazione apposita e che richiedono anche risorse economiche per la loro
realizzazione.
n.b: Entrambi i patti impongono agli Stati parti di inviare periodicamente dei rapporti sullo stato di attuazione di essi. Tali rapporti
devono essere inviati al Segretario Generale delle Nazioni Unite che trasmetterà tali rapporti al Comitato dei diritti dell’uomo,
quelli che riguardano il Patto sui diritti civili e politici e al Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, quelli che riguardano
il Patto sui diritti economici sociali e culturali.
Il Comitato economico e sociale è composto da 18 membri indipendenti eletti dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni
Unite; il Comitato dei diritti dell’uomo è anch’esso composto da 18 membri indipendenti, eletti dagli Stati parti del patto.
→ Il patto sui diritti civili e politici consente la deroga dei diritti protetti in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci
l’esistenza dello Stato, tuttavia vi sono alcuni diritti che sono inderogabili, per esempio il divieto di tortura.
14.1 CEDU
Quella che comunemente viene denominata Convenzione europea dei diritti dell'uomo in realtà ha una denominazione ufficiale
differente, che è Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. E’ il primo trattato in
assoluto concluso nell'ambito del Consiglio d'Europa.
→ Il Consiglio d'Europa, organizzazione internazionale a carattere regionale istituita sulla base di un trattato stipulato a Londra
nel 1949 (c.d. Statuto di Londra), ha sede a Strasburgo, è la prima organizzazione conclusa all'indomani della II guerra mondiale
dai Paesi europei: l'obiettivo di quest'organizzazione era creare tra i popoli europei un'unione sempre più stretta, al fine di
salvaguardare e preservare i valori e gli ideali comuni che erano stati calpestati dal nazi-fascismo e di agevolare il progresso
economico e sociale degli Stati membri. Nel frattempo di lì a poco fu istituita la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio
(1951), il Trattato di Parigi che la istituiva entrò in vigore nel '52, nel 1957 furono conclusi i Trattati di Roma istitutivi delle due
comunità (CECA e Euratom) e quindi poi queste nuove organizzazioni svolsero il compito principale di sostenere la ricostruzione
e lo sviluppo economico dell'Europa e il Consiglio d'Europa si è concentrato nella promozione e nella tutela dei diritti umani. I
membri del Consiglio d'Europa sono 47 e si tratta di tutti gli Stati che sono oggi membri dell'Unione Europea più la Turchia (che è
uno stato candidato all'ingresso nell'UE, anche se i negoziati sono ormai pressoché congelati), la Russia e alcune repubbliche ex
sovietiche (come la Georgia, l'Azerbaijan, l'Ucraina), nonché alcuni microstati europei quali il Liechtenstein, San Marino, il
principato di Monaco.
Sempre nell’ambito del Consiglio d'Europa sono state concluse alcune convenzioni che sono aperte anche a Stati che non sono
membri del Consiglio d’Europa, quindi si tratta di trattati che sono conclusi nell'ambito di un'organizzazione a carattere regionale
che però invece hanno un'apertura universale (es. la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, è una
convenzione del 1983 e di questa convenzione sono parti anche gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, l'Australia), quindi non
sempre i trattati conclusi nell'ambito di organizzazioni a carattere regionale sono necessariamente trattati che sono aperti soltanto
agli Stati membri dell'organizzazione, vi possono essere anche dei trattati che tendenzialmente sono aperti a tutti i membri della
comunità internazionale, o almeno a quelli che soddisfano alcune condizioni (tra le quali non vi è la membership
dell'organizzazione).
La Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo è la prima convenzione internazionale interamente dedicato alla tutela dei diritti
umani: la CEDU viene adottata a Roma nel novembre 1950, fino ad allora nessun trattato era stato dedicato interamente alla
tutela dei diritti umani, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo era un atto di soft law e solo con il passare degli anni i
diritti sanciti si sono consolidati nel diritto consuetudinario. C'è una duplice differenza tra la CEDU e la Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo: la Convenzione è un trattato, la Dichiarazione è un atto di soft law; un'altra differenza è che la dichiarazione
enuncia diritti civili e politici ma anche diritti economici sociali e culturali, invece la Convenzione enuncia soltanto diritti civili e
politici, negli anni sono stati conclusi numerosi protocolli, finora sono 16, alcuni di questi hanno modificato il meccanismo di
garanzia della convenzione mentre altri hanno ampliato l'elenco dei diritti sanciti dalla convenzione e non tutti sono entrati in
vigore.
→ La Convenzione stabilisce un nucleo duro di diritti che devono essere garantiti da TUTTI gli Stati parti a tutti gli individui che si
trovino sotto la loro giurisdizione. L'art. 1 stabilisce che gli Stati parti devono assicurare a qualsiasi individuo rientrante sotto la
loro giurisdizione i diritti e le libertà indicati nella sezione prima della convenzione, dunque indipendentemente dalla loro
nazionalità, che si trovino sotto la giurisdizione degli Stati membri. La giurisdizione è intesa prevalentemente in senso territoriale,
cioè con questa espressione s'intende riferire a tutti quegli individui che si trovano sul territorio degli Stati parte; questa
interpretazione del concetto di giurisdizione è invece esclusa dal Patto sui diritti civili e politici, l'art. 2 par. 1 stabilisce "ciascuno
Stato parte del presente patto s'impegna a rispettare ed assicurare a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano
sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti dal presente patto senza alcuna distinzione", è quindi esclusa la possibilità di
pretendere dagli Stati parti il rispetto dei diritti sanciti dal patto nei confronti di individui che si trovino al di fuori del loro territorio;
invece la parola "territory" non compare nell'art. 1 della Convenzione, si parla solo infatti di giurisdizione.
All'art. 2 troviamo il diritto alla vita; all'art. 3 il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all'art. 4 il divieto di schiavitù
servitù e lavoro forzato; all'art. 5 il diritto alla libertà e alla sicurezza; all'art. 6 diritto ad un equo processo; all'art. 7 il principio
"nullum crimen sine lege"; art. 8 diritto al rispetto della vita privata e familiare; art. 9 libertà di pensiero coscienza e religione; art.
10 libertà di espressione; art. 11 libertà di assemblea e associazione; art. 12 il diritto al matrimonio; art. 13 il diritto ad un rimedio
effettivo nel caso in cui di subisca una violazione dei diritti enunciati dalla convenzione, rimedio effettivo previsto dall'ordinamento
dello stato parte e responsabile della violazione; art. 14 divieto di discriminazione nel godimento dei diritti sanciti dalla
convenzione (divieto di discriminazione sessuale, di genere, linguistica, di religione e via dicendo); art. 15 contiene la c.d.
clausola di deroga in caso di emergenza, questo articolo stabilisce che però alcuni diritti sono così fondamentali che devono
essere riconosciuti e garantiti dagli Stati parti sempre, anche in situazioni di emergenza che mettano in pericolo la vita della
nazione (es. in caso di conflitto armato), tali diritti sono: il diritto a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e
degradanti, il diritto a non essere sottoposti a schiavitù e servitù, il diritto alla vita tranne che la morte sia la conseguenza di un
legittimo atto di guerra, il diritto al rispetto del principio "nullum crimen sine lege", quindi il titolo primo.
→ Per quanto riguarda la seconda sezione abbiamo disposizioni in merito al meccanismo di garanzia stabilito per vigilare sul
rispetto dei diritti sanciti dalla Convenzione, rappresentato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
→ Il titolo terzo contiene disposizioni varie che riguardano le riserve, il recesso dalla convenzione, la
firma e la ratifica.
Si è a lungo discusso dell'adesione dell'UE alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo: la convenzione nella sua versione
originaria prevedeva la possibilità di diventare parti solamente per gli Stati membri del Consiglio d'Europa; il dibattito che si è
svolto per lunghi anni e che, soprattutto negli anni '80 e ha portato al risultato che anche l'UE può aderire alla Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo: sul testo della convenzione si potrà infatti leggere tra le disposizioni finali che anche l'UE può
divenire parte della CEDU e al contempo è stata prevista una modifica del trattato sull'Unione Europea in modo tale da stabilire
che l'UE poteva divenire parte della CEDU e questa modifica è stata apportata dal Trattato di Lisbona che ha introdotto una
disposizione secondo cui l'UE aderisce alla CEDU. Tuttavia oggi l'UE non è parte della CEDU perché affinché ciò avvenga è
necessaria la conclusione di un accordo tra Consiglio d'Europa e UE: questo progetto di accordo è stato negoziato dalla
Commissione per conto della UE con il Consiglio d'Europa, questo non si è però mai stato concluso, perché nell'aprile 2013 si
chiudono i negoziati riguardo alla definizione dell'accordo e 3 mesi dopo (nel luglio 2013) la Commissione chiede un parere alla
Corte di giustizia sulla compatibilità di questo accordo previsto con i trattati su cui si fonda l'Unione (Tue e Tfue) e la Corte di
Giustizia emana parere negativo affermando che l'accordo previsto è incompatibile con il diritto dell'Unione, nonostante si parli di
parere, questo ha effetto vincolante, in quanto se il responso è negativo l'accordo non può essere concluso. Dal parere la
situazione è ferma.

A che scopo prevedere l'ingresso dell'UE alla CEDU quando già tutti gli Stati parti dell'UE fanno anche parte della
CEDU? Un'eventuale adesione comporterebbe la possibilità per la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (l'organo di garanzia del
rispetto dei diritti sanciti nella CEDU) di verificare ed accertare eventuali violazioni della CEDU da parte delle istituzioni
dell'Unione, quindi la Corte EDU diventerebbe un'autorità di controllo sulla conformità degli atti emanati dalle istituzioni
dell'Unione; va detto che i diritti sanciti dalla convenzione sono ormai in massima parte recepiti anche nella Carta fondamentale
dei diritti dell'Unione, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è previsto che qualora uno stesso diritto sia sancito dalla
Carta e da una disposizione della Convenzione questo diritto dovrà essere interpretato in maniera almeno NON più restrittiva di
come viene interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e viene consentita una protezione più estesa nell'ambito dell'UE.

14.2 LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO.


La Corte Europea dei diritti dell'Uomo (1959) ha la funzione di assicurare il rispetto dei diritti sanciti dalla Convenzione e dei
protocolli che nel corso degli anni sono stati conclusi e che quindi hanno ampliato l'elenco dei diritti stabiliti dalla Convenzione. Ha
sede a Strasburgo (Francia) nella stessa città del Consiglio d’Europa, ed è composta da 47 giudici che corrispondono al
numero degli Stati parti della Convenzione, restano in carica 9 anni e NON sono rieleggibili, il loro mandato termina in ogni caso
al raggiungimento dei 70 anni. I giudici sono eletti dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, e questa è a sua volta
composta da parlamentari dei diversi Stati del Consiglio d'Europa e il numero dei parlamentari di ciascuno Stato membro varia a
seconda della entità della popolazione dello Stato in questione (gli Stati più popolosi hanno il maggior numero di componenti:
Italia, Germania, Francia, Federazione Russa hanno tutti 18 membri; quelli più piccoli ne hanno soltanto due a testa), vi è dunque
una rappresentatività indiretta dei popoli degli Stati membri. È Articolata in: Giudice Unico, Comitati di 3 giudici, Camere di 7
giudici e Grande Camera di 17 giudici.
→ Alla Corte possono essere presentati due tipi di ricorsi:
- ricorsi interstatali: uno Stato parte della convenzione si rivolge alla Corte lamentando la violazione di uno o più diritti garantiti
dalla Convenzione da parte di uno degli Stati parte, è irrilevante che le vittime della violazione siano individui aventi la
cittadinanza dello Stato lamentante ed è irrilevante che un qualsiasi pregiudizio discenda dallo Stato ricorrente dalla violazione,
quindi le norme contenute della CEDU sono norme costitutive di obblighi erga omnes, perché il rispetto dei diritti sanciti in
queste norme può essere preteso da qualsiasi Stato parte indipendentemente dall'esistenza di una connessione con la
violazione.
- ricorsi individuali: cioè la possibilità per gli individui (o gruppi di individui o ONG) di rivolgersi direttamente alla Corte Europea
dei diritti dell'Uomo lamentando la violazione dei diritti ad essi riconosciuti dalla convenzione da parte di uno degli Stati parte; è
irrilevante la nazionalità dell'individuo, MA al momento della violazione l'individuo deve essere sotto la giurisdizione dello Stato
parte.

14.3 CONDIZIONI DI RICEVIBILITÀ DEI RICORSI


1. previo esaurimento dei ricorsi interni: condizione comune sia ai ricorsi interstatali che ai ricorsi individuali, prima di
presentare il ricorso il ricorrente deve avere esperito tutti i mezzi di ricorso disponibili nell'ordinamento interno dello Stato che
ritiene responsabile della violazione dei suoi diritti prima di rivolgersi alla Corte, in sostanza vuol dire che bisogna avere
esaurito tutti i gradi di giudizio; però se lo Stato NON dispone di ricorsi effettivi la condizione del previo esaurimento deve
considerarsi assolta.
La Corte ha chiarito il concetto di Stato che non dispone di ricorsi effettivi con il caso Cestaro contro Italia: si tratta del caso
delle violenze compiute da agenti di polizia italiani nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001 nei confronti di
manifestanti, in quel caso la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha riconosciuto che l'Italia aveva violato il divieto di tortura e ha
riconosciuto che l'Italia non disponeva di una legislazione penale adeguata a reprimere questi atti, quindi ha ingiunto all'Italia di
adottare questa legislazione e l'Italia si è adeguata a questa sentenza emanando nel 2017 una legge che ha introdotto il reato di
tortura nel nostro codice penale. In questa sentenza del 2015 la Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo ha stabilito che cosa si deve intendere per ricorso effettivo: si deve intendere un ricorso che sia disponibile non
solo in teoria ma anche in pratica, ovvero un ricorso che sia suscettibile di fornire al ricorrente un rimedio alle sue lamentele e che
abbia prospettive ragionevoli di successo.
2. Vi è poi un termine entro il quale può essere presentato un ricorso e questo termine è di 6 mesi dalla data di quando la
decisione interna emanata dal più alto grado di giudizio è divenuta definitiva. Il protocollo n.15, che non è ancora entrato in
vigore, riduce questo termine da 6 a 4 mesi.
3. Vi sono poi una serie di condizioni ulteriori che però devono essere soddisfatte SOLO dai ricorsi individuali:
a) NON devono essere anonimi;
b) NON devono essere identici ad altri già presentati alla Corte o ad altra istanza internazionale (n.b: così come anche per
i reclami al Comitato dei Diritti dell'Uomo: unica differenza è che davanti al comitato la procedura si conclude con un
parere che non è vincolante, mentre la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo decide con sentenza);
c) il ricorrente deve aver subito un pregiudizio significativo: questa condizione è stata introdotta per cercare di limitare la
mole di ricorsi presentati alla Corte.
Il giudice unico opera come una sorta di filtro che fa un primo esame del ricorso individuale e può dichiararlo irricevibile e la sua
decisione è definitiva. Altrimenti, se il giudice unico non lo ritiene irricevibile, trasmette questo ricorso ad un Comitato o a una
Camera. A sua volta il Comitato può dichiararlo irricevibile, e finisce lì, oppure dichiararlo ricevibile e pronunciarsi nel merito
quando il caso è coperto da una giurisprudenza consolidata ("un caso facile"); il Comitato può dichiarare il ricorso ricevibile MA
ritiene di NON pronunciarsi nel merito, perché non è coperto da giurisprudenza consolidata, e allora lo trasmette alla Camera. La
Camera si pronuncia sempre sui ricorsi interstatali e si pronuncia anche sui ricorsi individuali su cui non si sia pronunciato il
Comitato; se il caso solleva gravi problemi di interpretazione della Convenzione e dei protocolli, oppure è in contrasto con la
giurisprudenza della Corte allora può trasmettere il ricorso alla Grande Camera, a meno che una delle parti non si opponga: se
una delle parti si oppone alla trasmissione del ricorso alla Grande Camera, la Camera deve pronunciarsi nel merito (questa
condizione è eliminata dal protocollo n.15, non ancora in vigore, l’obiettivo del protocollo è velocizzare l'esame dei ricorsi). MA
dopo la sentenza della Camera, può anche accadere che una parte, entro 3 mesi dalla data della sentenza della Camera, faccia
richiesta che la sentenza venga rivista dalla Grande Camera e su tale richiesta decide un collegio di 5 giudici che valuta se
effettivamente accogliere questa richiesta, se la accoglie il caso passa alla Grande Camera che si pronuncerà con sentenza.
→ La sentenza è vincolante per le parti e quindi se la Corte accerta la violazione di uno o più diritti sanciti dalla Convenzione
allora lo Stato in questione deve fare quanto necessario per riparare alla violazione, dovrà conformarsi alla sentenza e quindi
dovrà modificare o abrogare la legislazione che contrasta con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo o potrà essere
obbligato ad emanare un nuovo atto legislativo; se la Corte condanna lo Stato per una violazione che dipende da carenze
strutturali dell'ordinamento interno allora lo stesso deve adottare tutte le misure necessarie per eliminare queste lacune (caso
Cestaro).

n.b: Naturalmente ad essere vincolanti per lo Stato sono le sentenze definitive della Corte, una sentenza diventa definitiva
quando è stata emessa da una Camera e sono trascorsi 3 mesi senza che nessuna delle parti abbiamo chiesto che la questione
sia riesaminata dalla Grande Camera, oppure quando una o entrambe le parti hanno chiesto che la questione sia riesaminata
dalla Grande Camera ma il Collegio dei cinque giudici ha ritenuto che non vi fossero gli estremi per un rinvio alla Grande Camera,
oppure quando non sono trascorsi 3 mesi ma le parti hanno dichiarato espressamente che non intendono chiedere il rinvio alla
Grande Camera. Naturalmente esclusa la possibilità che una decisione della Camera sia rivista dalla Grande Camera su richiesta
di una delle parte formulata entro tre mesi previa decisione favorevole del Collegio dei cinque giudici, NON è previsto un appello
contro la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tutte le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo devono essere motivate; nelle sentenze della Corte internazionale di
giustizia i singoli giudici che non siano d’accordo con la maggioranza riguardo ad uno o più punti possono allegare una opinione
dissenziente, oppure laddove concordino con la posizione della maggioranza ma giungono a questa posizione attraverso un
ragionamento giuridico differente allora possono allegare una opinione concorrente, questo NON è invece possibile per le
sentenze emessa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea in quel caso non ci sono opinioni dissenzienti o concorrenti e
addirittura non si conosce nemmeno il nome dei giudici che hanno votato contro e di quelli che hanno votato a favore. Le
sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, composto dai
ministri degli esteri degli Stati membri del Consiglio d’Europa, e ha il compito di vigilare sulla esecuzione delle sentenze della
Corte, se il Comitato dei Ministri ritiene che lo Stato condannato dalla Corte non si sia conformato alla sentenza può rivolgersi alla
Corte, la Corte verificherà che effettivamente lo Stato non si è conformato e se accerta che lo Stato non si è conformato, rinvierà
di nuovo il caso al Comitato dei Ministri che potrà prendere misure adeguate.
SE l’ordinamento interno dello Stato ripara solo in parte alle conseguenze di questa violazione allora la Corte può accordare alla
parte lesa un'equa soddisfazione (un indennizzo). Affinché la Corte accordi un’equa soddisfazione è necessario che la parte
lesa ne faccia apposita richiesta durante il procedimento.
→ La procedura dinanzi alla Corte è una procedura scritta, un’udienza si tiene solo in casi eccezionali davanti ad una Camera o
davanti alla Grande Camera.
→ La Corte può anche indicare misure provvisorie quando ne venga richiesto da una delle parti, si tratta di misure urgenti che
vincolano lo Stato e che possono essere indicate dalla Corte solo in circostanze estreme, quando vi sia un rischio imminente per
la vita di una o più persone, oppure quando vi sia un rischio imminente e grave di maltrattamenti o atti di tortura o trattamenti
inumani e degradanti. In genere queste misure provvisorie sono richieste dal ricorrente quando c’è nei suoi confronti un’ordinanza
di espulsione oppure una decisione relativa all’estradizione verso uno Stato dove potrebbe essere in pericolo di vita o essere
soggetto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti, allora il difensore del ricorrente si rivolge alla Corte europea dei diritti
dell’uomo e chiede che alla Corte di sospendere l’ordinanza di espulsione o la decisione relativa all’estradizione; le misure
provvisorie possono essere richieste non solo per posta ma anche per fax e la Corte di solito decide nel giro di uno o due giorni,
tempi brevissimi proprio perché c’è un rischio imminente per la vita oppure la minaccia di maltrattamenti nei confronti di persone.
14.4 DIRITTI DELLE MINORANZE
Non c’è una vera definizione generalmente accettata di minoranza e non vi è alcun trattato che include al suo interno questo. Gli
Stati sono stati, sin da sempre, poco propensi al termine di minoranza perché avrebbe limitato la loro libertà di azione, anche per
il semplice fatto di produrre norme di protezione. Possiamo individuare delle caratteristiche tipiche:
- un gruppo che presenti delle particolarità, quindi un gruppo della popolazione che ha specifiche caratteristiche linguistiche,
religiose, nazionali o etniche, caratteristiche che lo distinguono dal resto della popolazione;
- si tratta di un gruppo meno numeroso della popolazione;
- è un gruppo non dominante (es minoranza bianca in SudAfrica dell'Apartheid) e che intende preservare la propria identità
minoritaria, dunque che respinge ogni forma di assimilazione alla popolazione, SE invece desidera assimilarsi e uniformarsi
non necessita di tutela ad hoc.
Andando a parlare delle minoranze linguistiche sono un gruppo di individui che condivide la stessa lingua che lo distingue dal
resto della popolazione. Invece il gruppo religioso è un gruppo di individui che condivide la stessa religione. Il gruppo etnico è
un gruppo di individui che condivide una storia, una tradizione comune e lo stesso modo di vivere e in alcuni casi alcune
caratteristiche di tipo somatico ma anche una condivisione di religione. Il gruppo nazionale è un gruppo di individui che risiede
stabilmente all’interno di un certo Stato, però si riconosce nella popolazione di un altro Stato con la quale ha in comune la lingua,
tradizione, stesso modo di vivere e religione (es. in Slovenia e in Croazia è residente una minoranza nazionale italiana, si tratta di
individui che hanno nazionalità slovena e croata ma che si riconoscono nella popolazione italiana e condividono con noi italiani
religione, cultura, lingua e tradizione).
→ Il riconoscimento del gruppo minoritario, proveniente dal governo dello Stato in cui risiede, è rilevante ma non decisivo al fine
di stabilire la qualità di minoranza di quel gruppo. È importante l’auto-percezione come appartenenti ad una minoranza e deve
essere confermata dai fatti (possesso religione, lingua ecc). I diritti delle minoranze sono collegate al divieto di discriminazione. Il
divieto di discriminazione mira ad assicurare l'uguaglianza davanti alla legge ma anche al diritto di uguale protezione dalla legge.
La tutela delle minoranze è finalizzata ad uguaglianza sostanziale: l’uguaglianza formale consiste nel trattare gli individui allo
stesso modo; l’uguaglianza sostanziale, invece, in un trattamento differenziato in considerazione delle circostanze.

14.5 DIRITTO AUTODETERMINAZIONE


Questo principio è uno dei principi cardini del diritto internazionale contemporaneo. Ormai è considerato, dalla dottrina, come
principio consuetudinario e cogente. Sulla sua natura cogente, si è
espressa anche la Commissione del diritto Internazionale sul “Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per illeciti
internazionali” del 2011 e mai tradotto in convenzione internazionale.
Il principio di autodeterminazione è costitutiva di obblighi erga omnes, dunque il suo rispetto può essere richiesto da parte di tutti
gli Stati che compongono la comunità internazionale.
Questo diritto è stato sancito per la prima volta nella Carta delle Nazioni Unite nell’art 1 e anche in entrambi i Patti del 1966 con le
stesse parole.
Dobbiamo distinguere l’autodeterminazione interna e autodeterminazione esterna: il primo è il diritto spettante ad ogni popolo
ad avere un ordinamento democratico e rappresentativo, e perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale vi deve
essere una rappresentanza al governo; il secondo consiste nel diritto che ogni popolo ha di determinare liberamente la forma
statale che desidera all’interno della comunità internazionale, questo diritto può essere invocato dai popoli che si trovino in tre
condizioni: a) Dominazione coloniale; b) Dominazione razzista; c) Occupazione straniera.
Le minoranze hanno diritto all’autodeterminazione? Le minoranze NON sono popoli e quindi NON sono titolari di un diritto di
autodeterminazione esterna MA hanno diritto all’autodeterminazione interna perché il governo dello Stato deve essere
rappresentativo del gruppo minoritario e garantita una rappresentanza in parlamento e altri organi centrali del gruppo minoritario.
→ Quando parliamo di diritto all’autodeterminazione dei popoli dobbiamo richiamare necessariamente il parere reso dalla Corte
internazionale di giustizia sul muro in Palestina nel 2004 in questo parere la corte sottolinea il carattere erga omnes del
principio di autodeterminazione dei popoli: l’obbligo a carico di tutti gli Stati membri della comunità internazionale di NON
riconoscere la situazione derivante dalla costruzione del muro, e di NON prestare assistenza ad Israele nel mantenimento di
questa situazione. Quindi il principio di autodeterminazione dei popoli è da considerarsi una norma istitutiva di obblighi erga
omnes, il cui rispetto può essere preteso da TUTTI i membri della comunità internazionale.
Il governo israeliano costruì il muro per prevenire ulteriori attacchi terroristici provenienti dai territori occupati e precisamente dalla
Cisgiordania, lo definì come una barriera di sicurezza. Il problema è che questa barriera è stata costruita seguendo un tracciato
che devia in modo sostanziale la linea di separazione stabilita dall’armistizio tra Israele e Giordania nel 1949 e dunque questa
barriera penetra in quello che è il territorio della Giordania. La costruzione del muro naturalmente solleva grosse critiche da parte
della stragrande maggioranza degli altri Stati e allora nel 2003 l’assemblea generale adotta una risoluzione con la quale chiede
alla corte internazionale di giustizia un parere che afferma che la costruzione del muro, oltre a violare diversi diritti umani, viola il
diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Se si trasforma in una situazione permanente ci troveremo dinanzi ad una
vera e propria annessione de facto da parte di Israele di quelle parti del territorio in cui deve sorgere lo Stato della Palestina.
Israele ha ignorato completamente il parere ed ha proseguito la costruzione del muro e sta lentamente diventando una situazione
permanente.
→ Un altro parere fu quello reso dalla corte internazionale di giustizia sulla conformità della
dichiarazione di indipendenza del Kosovo: il Kosovo rappresentava una minoranza (albanese) all’interno della Serbia e di
conseguenza le minoranze non godono del diritto all’autodeterminazione esterna, e quindi non vi è alcuna base internazionale
per l’indipendenza del Kosovo. Un’altra teoria sostenuta da alcuni Stati è quella della secessione-rimedio, cioè laddove ad una
parte della popolazione siano negati diritti fondamentali, allora questo gruppo della popolazione può procedere alla secessione,
quale estremo rimedio di fronte ad una prassi dello Stato diretta a calpestare i diritti fondamentali, che spettano a questo gruppo.
La Corte stabilisce che la dichiarazione di indipendenza kosovara NON è contraria ad alcuna norma internazionale. La corte si
sofferma in modo particolare sulla amministrazione provvisoria del Kosovo affidata alle Nazioni Unite, ma il consiglio di sicurezza
non stabiliva lo status definitivo del Kosovo. E quindi hanno o no diritto all’autodeterminazione? Su questo punto la corte non si è
pronunciata, sostanzialmente da un lato la corte ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non viola
alcuna norma internazionale però non ha chiarito se il popolo kosovaro avesse o no diritto all’indipendenza.

Il Consiglio dei diritti Umani


È stato istituito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006, e succede a quella che era la
Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite.
→ La Commissione sui diritti umani era stata istituita come organo sussidiario del Consiglio economico e sociale, ed era
composta da 53 Stati membri eletti dal consiglio economico e sociale, aveva il compito di vigilare sul rispetto dei trattati conclusi
nell’ambito delle Nazioni Unite da parte degli Stati parti di questi trattati.
Il consiglio dei diritti umani invece è un organo sussidiario, non del consiglio economico e sociale ma dell’Assemblea Generale,
ed è composto da 47 Stati membri eletti dall’assemblea generale per 3 anni (l’Italia è stata eletta membro del consiglio dei diritti
umani per il triennio 2019-2021, quindi il nostro paese attualmente è membro del consiglio dei diritti umani). Anche il consiglio ha
il compito di vigilare sul rispetto dei trattati conclusi nell’ambito delle Nazioni Unite da parte degli Stati che ne sono parti.
Perché istituire un altro e nuovo organo se la funzione è la stessa? L’esigenza di superare la commissione dei diritti umani è
nata dal fatto che negli anni si è rivelata praticamente inefficiente, inefficace (il momento più basso si è raggiunto quando la
presidenza della commissione dei diritti umani è stata assegnata alla Libia di Gheddafi).
Ci sono poi delle differenze nelle modalità operative dei due organi, infatti il Consiglio si riunisce molto più frequentemente della
Commissione, e in quanto organo sussidiario dell’assemblea generale può rivolgere delle raccomandazioni a questa su una
questione che rientri tra i fini delle Nazioni Unite, tranne quelle che siano già all’esame del Consiglio di sicurezza; inoltre il
consiglio dei diritti umani può istituire delle commissioni di inchiesta che hanno il compito di indagare su massicce violazioni dei
diritti fondamentali nell’ambito di situazioni definite a livello geografico e temporale. Attraverso la procedura di esame periodico
universale, si procede all’esame periodico dello stato di attuazione in ciascuno Stato membro delle Nazioni Unite degli obblighi
esistenti in capo a questo Stato ed in materia dei diritti umani derivanti dai trattati di cui questo Stato è parte, ma anche derivanti
dal diritto consuetudinario. La procedura, si conclude con un rapporto che viene redatto da tre Stati membri della commissione, i
quali formano la cosiddetta Troika, che viene nominato per ciascuno Stato sottoposto all’esame periodico universale, e questo
rapporto contiene i commenti e le raccomandazioni dei diversi Stati finalizzati ad un miglioramento della protezione dei diritti
umani da parte dello Stato sotto esame. Il rapporto ovviamente NON è vincolante MA rappresenta, proprio per l’autorevolezza
dell’organo da cui proviene, un riferimento importante circa lo stato di rispetto dei diritti umani in quel determinato paese.
15 RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALE DEGLI STATI. (D. PENALE)
La responsabilità internazionale sorge in capo ad uno Stato o ad un’organizzazione internazionale in conseguenza della
commissione di un illecito internazionale.
→ La responsabilità internazionale degli Stati per l’illecito internazionale è stata oggetto di un apposito progetto di articoli
elaborato dalla Commissione del diritto internazionale e approvato in via definitiva nel 2001, e finora non si è trasformato in un
trattato. Invece il tema della responsabilità internazionale delle Organizzazioni internazionali per l’illecito internazionale è stato
oggetto di un successivo e distinto progetto di articoli: il Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale delle organizzazioni
internazionali, elaborato sempre dalla Commissione del diritto internazionale ed approvato in via definitiva nel 2011, ma anche
questo progetto finora non si è trasformato in un trattato.

15.1 L’ILLECITO INTERNAZIONALE.


L’illecito internazionale è caratterizzato da due elementi che devono sussistere affinché possa ritenersi commesso un illecito
internazionale:
1) elemento oggettivo: consiste in una condotta contraria ad un obbligo internazionale e dunque in una condotta consistente
nella violazione di una norma internazionale (cogente, consuetudinaria, pattizia, un principio generale di diritto o una fonte
prevista da accordo, è irrilevante il tipo di norma internazionale violata ciò che conta è che si tratti di una norma vigente),
questa condotta può essere di tipo commissivo quindi consistere in un comportamento attivo oppure di tipo omissivo quindi
consiste in una omissione. Se la condotta si protrae nel tempo, avremo un illecito a carattere continuato (es. l’occupazione di
uno Stato nel territorio di un altro Stato), invece se la condotta ha carattere istantaneo allora avremo un illecito a carattere
istantaneo (es. la confisca di un immobile di uno Stato presente nel territorio di un altro Stato);
2) elemento soggettivo: consiste nell’attribuzione di quella condotta ad uno Stato ed esistono delle regole a riguardo:
a) è imputabile allo Stato la condotta di qualsiasi dei suoi organi, deve trattarsi tuttavia di un individuo o di un ente che ha
lo status di organo in base al diritto interno dello Stato, è irrilevante il tipo di organo e la posizione che questo occupa
nell’apparato statale (es. può trattarsi di un organo del potere esecutivo, del potere legislativo, del potere giudiziario);
b) è imputabile allo Stato anche la condotta di individui che NON sono organi dello Stato ma che sono abilitati dallo Stato
ad esercitare prerogative dell’autorità di governo, ciò anche quando si tratti di atti ultra vires cioè di atti posti in essere al
di fuori delle competenze proprie di questi organi statali o di questi individui abilitati ad esercitare prerogative dell’autorità
di governo (es. le violenze e maltrattamenti posti in essere dalle forze di polizia) gli atti ultra vires così come gli atti
commessi nell’esercizio delle loro competenze sono da imputare allo Stato e quindi determinano una responsabilità dello
Stato;
c) è imputabile allo Stato la condotta di semplici individui o gruppi di individui che agiscano sulla base di istruzioni o sotto la
direzione e il controllo dello Stato;
d) è imputabile allo Stato la condotta di semplici individui o gruppi di individui che sia successivamente riconosciuta dalle
autorità di uno Stato.

15.2 CAUSE DI ESCLUSIONE DELL’ILLECITO INTERNAZIONALE


Si tratta di circostanze che se presenti escludono l’illiceità della condotta e sono espressamente indicate nel progetto di articoli e
sono: il consenso dell’avente diritto, la legittima difesa, la forza maggiore, l’estremo pericolo o distress, lo stato di necessità e la
contromisura.
- Il consenso dell’avente diritto: quindi se forze armate straniere sono presenti sul territorio di uno Stato che ha dato il proprio
consenso sulla base di un accordo, allora non si può parlare di un illecito internazionale dal momento che c’è il consenso del
sovrano territoriale.
- Legittima difesa: vale esclusivamente se l’illecito consiste nell'uso della forza armata, è prevista dall’art. 51 della Carta delle
Nazioni Unite, può essere individuale o collettiva e costituisce ormai una norma consuetudinaria come accertato dalla Corte
internazionale di giustizia nella sentenza resa nel caso Nicaragua contro Stati Uniti nel 1986.
- Forza maggiore: secondo il progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per forza maggiore si deve intendere una forza
irresistibile o un evento imprevedibile che non consente all’individuo-organo o all’individuo nelle circostanze di agire in
conformità all’obbligo internazionale. Tradizionalmente venivano distinte quindi vi era la forza irresistibile, definita forza
maggiore e l’evento imprevedibile, definito caso fortuito; il progetto di articoli della Commissione del diritto internazionale
invece accorpa queste due cause in una causa unica che viene chiamata forza maggiore; la forza maggiore quando consiste
nell’evento imprevedibile non può essere invocata se lo Stato ha accettato il rischio che l’evento si verificasse.
- Estremo pericolo o distress: una situazione nella quale l’individuo non ha altro mezzo se non di agire in senso contrario
all’obbligo internazionale per salvare la propria vita o la vita delle persone a lui affidate; l’estremo pericolo non può essere
invocato se la condotta dell’individuo è suscettibile di creare un pericolo comparabile o più grave a quello che si cerca di
evitare.
→ La forza maggiore e l’estremo pericolo NON possono essere invocate se la situazione è dovuta dalla condotta dello Stato che
la invoca.
- Stato di necessità: può essere invocato come causa di esclusione dell’illecito soltanto quando la condotta è l’unico mezzo
per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato di fronte ad un pericolo imminente e grave però la condotta in
questione NON deve pregiudicare gravemente un interesse altrettanto essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei
quali l’obbligo è dovuto. Naturalmente lo Stato NON può invocare lo Stato di necessità se con la sua condotta ha provocato
la situazione di pericolo oppure se la norma violata esclude espressamente la possibilità di invocare lo stato di necessità (es.
la Gran Bretagna catturò una nave americana che era diretta a Bordeaux con un carico di viveri, ad escludere l’illiceità
intervenne lo stato di necessità. La Gran Bretagna catturò la nave per salvaguardare un interesse essenziale da un pericolo
grave ed imminente cioè sfamare la popolazione britannica che era gravemente colpita da una carestia).
- Contromisura: consiste in un comportamento che di per sé sarebbe illecito ma che nel caso concreto è da considerarsi
lecito perché costituisce la reazione ad un illecito altrui. La contromisura può consistere nella violazione di una norma
consuetudinaria, pattizia o anche di un obbligo stabilito da una fonte prevista da accordo, in ogni caso NON può trattarsi di
una violazione di una norma cogente. Le contromisure NON hanno come scopo quello di punire lo Stato che ha compiuto un
illecito (scopo afflittivo) ma lo scopo è quello di ottenere l’adempimento degli obblighi derivanti dall’illecito, in particolare
l’obbligo di ottenere la riparazione. La contromisura DEVE cessare non appena lo Stato offensore si è conformato agli
obblighi derivanti dalla commissione dell’illecito. In ogni caso la contromisura deve essere proporzionata all’illecito subito, se
non viene rispettato il principio di proporzionalità la contromisura è considerata un atto illecito per la parte esorbitante. Le
contromisure NON possono consistere nella violazione del divieto all’uso della forza armata, dei diritti umani fondamentali,
delle norme di diritto internazionale umanitarie che vietano rappresaglie, nella violazione delle norme che riguardano
l’inviolabilità degli agenti diplomatici, dei locali, degli archivi e dei documenti diplomatici e consolari (per esempio il
diplomatico dello Stato x accreditato presso lo Stato y non potrà essere arrestato dallo Stato y ma dovrà nel caso essere
dichiarato persona non gradita dallo Stato accreditante ed espulso).
Quali sono le conseguenze dell’illecito internazionale? Anche le conseguenze dell’illecito sono elencate nel progetto di
articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2015 e sono: l’obbligo di cessazione dell’illecito (se l’illecito ha
carattere continuato), l’obbligo di fornire garanzie o assicurazioni di non reiterazione dell’illecito e l’obbligo di procedere
con le riparazioni, le contromisure hanno lo scopo di ottenere l’adempimento degli obblighi derivanti dall’illecito primo fra tutte
l’obbligo della riparazione.
→ La riparazione può assumere tre forme diverse:
1. restituzione, deve intendersi il ripristino della situazione esistente prima della commissione dell’illecito;
2. risarcimento, consiste nella dazione di una somma di denaro che deve coprire il danno emergente, il lucro cessante e
gli interessi, si procede solo qualora la restituzione non sia possibile o sia possibile solo in parte;
3. soddisfazione, è una sorta di riparazione per danni morali e può consistere: in una manifestazione di scuse da parte del
Capo di Stato o di governo dello Stato offensore, in un risarcimento di tipo simbolico, nella condanna degli autori
materiali dell’illecito;
A scegliere la forma di riparazione è lo Stato leso, a meno che non vi sia una sentenza della Corte internazionale di giustizia che
accerti la responsabilità internazionale dello Stato e stabilisce le conseguenze di tale responsabilità quindi la forma di riparazione.
Queste forme di riparazione non sono necessariamente alternative ma possono essere cumulative.
Chi può pretendere il rispetto di questi obblighi da parte dello Stato offensore? Lo Stato leso ovviamente ha diritto a
pretendere l’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dall’illecito e può comminare una contromisura se lo Stato offensore non
procede all’adempimento e anche gli Stati diversi dallo Stato leso ma comunque toccati dalla violazione, hanno un diritto ma più
limitato, può trattarsi di Stati che fanno parte di un gruppo di Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste anche se l’obbligo è
stato violato nei confronti di un singolo Stato oppure può trattarsi di tutti gli Stati della comunità internazionale quando si tratta di
obblighi erga omnes, che sussistono appunto nei confronti di tutta la comunità internazionale e il cui rispetto può essere preteso
da tutti i membri della comunità internazionale.
Cosa possono fare tutti gli Stati che non siano lo Stato leso? Se viene violata una norma cogente tutti gli Stati della comunità
internazionale possono rivolgersi allo Stato offensore per ottenere l’adempimento degli obblighi derivanti dall’illecito: possono
pretendere la cessazione dell’illecito da parte dello Stato offensore se l’illecito ha carattere continuato, possono pretendere
assicurazioni o garanzie di non reiterazione; possono pretendere anche la riparazione, quindi la restituzione, il risarcimento e la
soddisfazione da parte dello Stato offensore a favore dello Stato leso.
Questi Stati possono anche ricorrere a contromisure nei confronti dello Stato offensore? Il progetto di articoli della
commissione internazionale afferma che possono adottare misure lecite. Secondo Ronzitti questi Stati possono ricorrere a
contromisure: per esempio se è stato violato un obbligo erga omnes sui diritti umani possono adottare misure di embargo su
determinate merci oppure congelare i fondi dello Stato offensore senza attendere una decisione del Consiglio di sicurezza.
Comunque non si può agire ad una contromisura con l’uso della forza.

15.3 I CRIMINI INTERNAZIONALI


Un crimine internazionale è un atto posto in essere da un singolo individuo che lede gravemente i valori su cui si fonda la
comunità internazionale e da cui discende una responsabilità penale dell'individuo stesso. I valori su cui si fonda la comunità
internazionale, secondo alcuni sono individuabili nella pace, benessere e sicurezza dell'umanità, questi valori sono indicati nel
preambolo dello Statuto della Corte Penale Internazionale.
→ Se l'individuo è un individuo organo (es. un soldato) egli NON è coperto dalla c.d. "immunità organica", l'individuo organo
normalmente non risponde degli atti posti in essere nell'esercizio delle sue funzioni perchè questi atti sono direttamente imputati
allo Stato di cui è organo, se però l'atto che pone in essere l'individuo organo si qualifica come un crimine internazionale allora
avremo, eventualmente, un illecito internazionale, cioè la violazione di una norma internazionale da parte dello Stato con
conseguente responsabilità internazionale dello Stato MA avremo anche una responsabilità penale dell'individuo.
n.b: I crimini internazionali quindi NON sono coperti dalla c.d. "immunità organica", di conseguenza un comandante militare che
ordini un massacro di civili commette un crimine internazionale (di guerra) e il fatto che egli sia un individuo organo e che abbia
agito per conto del proprio Stato non lo esonera dalla responsabilità.
Distinguiamo diverse categorie di crimini internazionali:
- i crimini di guerra: sono violazioni gravi delle norme che disciplinano la conduzione delle ostilità e la protezione delle vittime
dei conflitti armati e per essere tale deve avere una connessione con il conflitto armato (es. uccisione, deportazione..);
- i crimini contro l'umanità: sono atti che recano offesa all'intero genere umano e che sono posti in essere nel quadro di
atrocità nei confronti della popolazione civile, questi possono essere commessi sia in tempo di guerra che in tempo di pace;
- crimine di genocidio: la definizione è contenuta nella Convenzione delle Nazioni Unite sul Genocidio del 1948, il genocidio
è il diniego del diritto all’esistenza di un intero gruppo umano;
- crimine di aggressione: la definizione è contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998 (la
Corte è il primo tribunale penale internazionale a carattere permanente, ha sede a l'Aja, e durante la conferenza di revisione
dello Statuto si è svolta nel 2010 a Kampala - capitale dell'Uganda - e tra gli emendamenti adottati vi è anche un
emendamento che definisce il crimine di aggressione): si intende per aggressione la pianificazione, preparazione, avvio o
conduzione di un atto di aggressione che costituisce una violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite per la sua
gravità, dimensioni o natura, da parte di individui che siano in grado di controllare l'azione politica o militare dello Stato
(quindi organi di vertice politico-militari), si dice infatti che il crimine di aggressione è un crimine di leader.
Una prima tripartizione dei crimini internazionali, quindi distinzione in diverse categorie dei crimini internazionali, fu prevista nella
Carta del Tribunale internazionale militare di Norimberga che attribuiva la competenza a processare e punire i maggiori
responsabili di crimini di guerra, crimini contro la pace, crimini contro l'umanità, poi nel diritto consuetudinario dei crimini contro la
pace si è consolidato soltanto il crimine di aggressione. A distanza di alcuni mesi dall'istituzione del Tribunale militare
internazionale di Norimberga, fu istituito il Tribunale internazionale militare per l'estremo oriente, il tribunale di Tokyo, che
anch’esso processò i maggiori responsabili dell'impero giapponese per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e crimini contro
la pace.

La giustizia penale internazionale


Prima dell’istituzione di un nuovo Tribunale penale internazionale vi furono:
- il Tribunale militare internazionale anche detto di Norimberga (dalla città in cui ebbe sede l’unico processo) istituito con
l’Accordo di Londra nel 1945 concluso da Stati Uniti, URSS, Francia e Regno Unito per processare e punire i maggiori
responsabili dei crimini commessi dal terzo reich e furono processati 24 militari.
→ Lo Statuto del Tribunale di Norimberga attribuiva al Tribunale la giurisdizione su tre categorie di crimini: crimini di guerra,
crimini contro la pace e crimini contro l’umanità.
I crimini contro la pace furono definiti come la pianificazione, preparazione, avvio o conduzione di una guerra di aggressione o
di una guerra di violazione di trattati o assicurazioni internazionali si trattò di una categoria di crimini internazionali innovativa per
l’epoca perché il divieto di condurre una guerra di aggressione era una norma di carattere consuetudinario già prima dell’inizio
della Seconda Guerra Mondiale MA all’epoca non era prevista una responsabilità penale del singolo individuo, che avviene con lo
Statuto del Tribunale di Norimberga. La Germania nazista aveva violato l’obbligo di rispettare i trattati internazionali scatenando
una guerra di aggressione in diversi casi, come il Patto
Ribbentrop-Molotov ovvero il patto di non aggressione nei confronti dell’Unione Sovietica nel 1941, la Germania infatti invade
l’Unione Sovietica, in più la Germania nazista aveva dato assicurazione a diversi paesi che questi non sarebbero stati invasi ed a
distanza di qualche mese questi paesi furono invasi (la Norvegia, l’Olanda, il Lussemburgo, il Belgio).
Lo Statuto del Tribunale di Norimberga introduce anche i crimini contro l’umanità elencando: lo sterminio, la deportazione
finalizzata al lavoro forzato di popolazioni civili, la persecuzione per motivi politici, razziali o religiosi, questa categoria di crimini
veniva delineata in modo ampio da poter includere quello che fu il genocidio nei confronti degli ebrei, la parola genocidio non
viene usata nello Statuto del Tribunale di Norimberga. La categoria di crimini contro l’umanità è così ampia da ricomprendere
anche questi atti da un lato, dall’altro però proprio perché si trattava di una categoria di crimini nuova veniva in qualche modo
limitata perché si richiedeva che questi atti fossero commessi in connessione con o in esecuzione di altri crimini rientranti nella
giurisdizione del Tribunale cioè o crimini di guerra o crimini contro la pace.
I difensori degli imputati durante il processo di Norimberga lamentarono la violazione del principio dell’irretroattività delle norme
penali facendo riferimento ai crimini contro la pace (ma in realtà la stessa obiezione valeva per i crimini contro l’umanità, perché
anche questi non erano previsti dal diritto consuetudinario al momento della Seconda Guerra Mondiale), il Tribunale comunque
respinse questa obiezione (principio nullum crimen sine lege), affermando che la Carta del Tribunale era espressione del diritto
esistente al tempo della sua creazione.
- il Tribunale militare internazionale per l’estremo Oriente fu invece istituito a distanza di alcuni mesi dal Tribunale di
Norimberga nel gennaio del 1946 per processare i maggiori responsabili dei crimini commessi dal Giappone imperiale. Lo
Statuto del Tribunale di Tokyo fu modellato sullo Statuto del Tribunale di Norimberga infatti il Tribunale di Tokyo aveva
giurisdizione sui crimini contro la pace, sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità. Anche qui si trattò di poco più di
una ventina di individui tra cui il primo ministro, il ministro degli esteri, l’ambasciatore giapponese in Italia, non vi era però
alcun membro della famiglia imperiale sebbene certamente l’imperatore giapponese e gli altri membri della famiglia imperiale
fossero coinvolti anche gravemente coinvolti nei crimini commessi. Si arrivò ad una sentenza soltanto nel 1948 il Tribunale di
Tokyo non assolse nessuno degli imputati, alcuni furono condannati a morte per impiccagione, altri furono condannati alla
reclusione.

15.4 IL GENOCIDIO
La definizione è introdotta dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948 adottata dopo la 2 guerra mondiale,
all’indomani dello sterminio degli ebrei; la parola “genocidio” fu coniata da un giurista polacco Raphael Lemkin in un volume
intitolato Il dominio dell’asse sull’Europa occupata nella quale trattò le misure adottate dai nazisti e dello sterminio degli ebrei
pubblicato nel 1944 negli Usa (dove l’autore si rifugiò). L’assemblea generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione nella
quale affermò che: l’omicidio è il diniego della vita di un singolo mentre il genocidio è il diniego del diritto all’esistenza di un intero
gruppo umano. La Convenzione indica due elementi affinché si possa parlare di genocidio:
1) elemento soggettivo: l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, razziale, etnico o religioso;
2) elemento oggettivo: può consistere in cinque diverse condotte:
a. l'uccisione di membri di un gruppo protetto;
b. l’inflizione di gravi lesioni fisiche o psichiche al gruppo;
c. la sottoposizione di membri del gruppo a condizioni di vita dirette a provocare la distruzione fisica (es. campi di
concentramento);
d. impedire le nascite all’interno del gruppo; e) trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo causando la
rottura dell’unità del gruppo.

15.5 I TRIBUNALI PENALI INTERNAZIONALI PER L’EX JUGOSLAVIA E PER IL RUANDA


Nella prima metà degli anni 90 vennero istituiti due nuovi tribunali penali internazionali: il Tribunale penale internazionale per la ex
Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Entrambi questi tribunali sono istituiti dal Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite con una risoluzione ai sensi del capitolo VII che riguarda le azioni rispetto alle minacce alla pace, alla
violazione della pace e atti di aggressione. Sono organi sussidiari del Consiglio di Sicurezza e tutte le spese relative al
funzionamento di questi due tribunali sono a carico del bilancio delle Nazioni Unite.
→ Il Tribunale per la ex Jugoslavia venne istituito nel 1993, ha sede all’Aia (anche la Corte internazionale di giustizia e ha sede
anche la Corte penale internazionale), con il compito storico di processare e punire i responsabili dei crimini commessi sul
territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1° gennaio del 1991. Nel giugno del 1991 ha inizio il processo che porterà allo
smembramento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e di fronte a frequenti massacri, violenze sistematiche nei
confronti dei civili il Consiglio di Sicurezza decide di istituire, nel 1993, un tribunale penale internazionale con il compito di
processare i responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio commessi sul territorio dell’ex-
Jugoslavia e viene indicato come termine iniziale il 1° gennaio 1991 anche se in realtà il conflitto inizia a giugno del 1991 e non
viene indicato un termine finale perché il Consiglio di Sicurezza stabilisce che questo termine sarà fissato una volta raggiunta la
pace, la mancata indicazione del termine finale consentirà al Tribunale di processare e punire anche i responsabili dei crimini
commessi in Kosovo, cioè la repressione da parte delle forze militari e paramilitari serbe nei confronti della minoranza albanese
del Kosovo.
n.b: Nello Statuto del Tribunale per la ex Jugoslavia rispetto ai crimini contro l’umanità NON si richiede più la necessità di una
connessione con altre categorie di crimini, il Tribunale per la
ex-Jugoslavia ha giurisdizione sui crimini contro l’umanità (quindi deportazione, sterminio, trasferimento forzato, stupro e altri atti
immani) indipendentemente dall’esistenza di una connessione con gli altri crimini su cui ha giurisdizione. Ed oggi effettivamente
nel diritto consuetudinario gli atti costituenti crimini contro l’umanità sono considerati punibili indipendentemente dal fatto che
siano commessi in connessione con o in esecuzione di altre categorie di crimini.
→ Nel 1994 il Consiglio di Sicurezza istituisce un altro Tribunale penale internazionale ad hoc ovvero il Tribunale penale
internazionale per il Ruanda, con la competenza a processare e punire i responsabili dei crimini commessi sul territorio del
Ruanda cioè il genocidio ma anche di crimini contro l’umanità e violazioni gravi dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra
e del secondo Protocollo addizionale (si trattava di un conflitto armato interno quindi le norme applicabili erano l’art. 3 comune
alle Convenzioni di Ginevra e il secondo Protocollo addizionale che il Ruanda aveva ratificato). Il Tribunale per il Ruanda aveva
giurisdizione da chiunque quale che fosse la sua nazionalità sul territorio del Ruanda e da cittadini ruandesi sul territorio di Stati
confinanti con il Ruanda (Burundi, Tanzania, Uganda e Repubblica democratica del Congo).
Il genocidio fu perpetrato da ruandesi di etnia hutu nei confronti di ruandesi di etnia tutsi, tra il 1° gennaio del 1994 e il 31
dicembre del 1994. Il Ruanda prima della guerra civile nel 1994 era il paese del continente africano più popolato, nell’arco di
pochi mesi tra l’aprile e il luglio del 1994 nel Ruanda si è verificato un genocidio causando la morte di circa un milione di persone.
Il Ruanda era ed è abitato da ruandesi appartenenti al gruppo dei tutsi, al gruppo degli hutu e poi c’è un gruppo minoritario il twa,
tutti condividono la stessa religione, hanno più o meno gli stessi tratti somatici, hanno essenzialmente la stessa cultura, parlano la
stessa lingua. Tuttavia, in epoca coloniale, il Ruanda è stato oggetto di dominazione belga, si è consolidata anche per effetto
delle politiche coloniali una divisione della società ruandese in gruppi, i belgi si avvalsero per il loro dominio coloniale soprattutto
dei tutsi che erano minoritari circa il 15-16% della popolazione (mentre gli hutu erano maggioritari l’83-84% della popolazione)
perché all’epoca i belgi consideravano i tutsi più intelligenti, più affini a loro somaticamente perché tendevano ad essere più
chiari, un po’ più alti. Con la concessione dell’indipendenza e il suffragio universale diretto, i tutsi persero la loro supremazia
perché ovviamente le elezioni furono vinte dagli hutu e ci fu un breve periodo di democrazia che fu rovesciato con un colpo di
stato che portò al potere un dittatore. Il genocidio ruandese ha inizio nell’aprile del 1994 dopo un incidente aereo nel quale
rimane coinvolto il dittatore (che era hutu). Hanno inizio i massacri nei confronti dei tutsi e nei confronti degli hutu moderati
favorevoli ad una condivisione del potere con i tutsi. Nei mesi successivi centinaia di migliaia di tutsi vengono trucidati. Viene
formato un governo provvisorio e nei mesi successivi questo governo chiederà al Consiglio di Sicurezza di istituire un tribunale
sul modello del tribunale dell’ex-Jugoslavia per processare i maggiori responsabili dei crimini commessi sul territorio del Ruanda.
I due Tribunali hanno chiuso ormai i battenti, quindi NON sono più in funzione, il Tribunale per la ex-Jugoslavia ha chiuso i
battenti nel dicembre del 2017, mentre invece il tribunale per il Ruanda nel 2015, tuttavia per garantire il completamento del
lavoro dei due tribunali nel 2010 il Consiglio di Sicurezza ha istituito il meccanismo internazionale residuale per i tribunali
penali, si tratta di una struttura completamente a carico del bilancio della Nazioni Unite con due sezioni una relativa al Tribunale
per la ex-Jugoslavia, l’altra relativa al Tribunale per il Ruanda, che hanno l’obbligo di completare il lavoro dei due tribunali. Nel
corso degli anni le spese relative ai due tribunali si rivelate molto onerose, il Consiglio di Sicurezza inizialmente ha premuto per
un rapido completamento dei processi, ma poi ha ritenuto di prevedere che nella fase finale che il lavoro fosse gestito da questo
meccanismo con queste due sezioni, una struttura più snella e più agile rispetto ai due tribunali. La sezione relativa al Tribunale
per la ex-Jugoslavia è entrata in funzione il 1° luglio 2013, mentre la sezione relativa al Tribunale per il Ruanda è entrata in
funzione il 1° luglio 2012. È stato previsto che gli individui ricercati dai tribunali non ancora catturati sarebbero stati processati
davanti alla rispettiva sezione una volta catturati. Per quanto riguarda il Tribunale per la ex-Jugoslavia non ci sono latitanti,
invece, per quanto riguarda il Tribunale per il Ruanda, all’atto della chiusura del Tribunale rimanevano dei latitanti.
n.b: I due tribunali in questione così come i due tribunali di Tokyo e di Norimberga erano giurisdizioni a carattere temporaneo,
sono stati istituiti con uno scopo storico ben definito, quello di processare e punire i responsabili di crimini verificatisi in un
determinato contesto storico-geografico, di qui la chiusura una volta completato il lavoro.
Il Consiglio di Sicurezza NON ha più istituito dei tribunali penali internazionali dopo l’esperienza dei tribunali in questione
(Jugoslavia e Ruanda). Si è optato per i cosiddetti tribunali ibridi o da alcuni chiamati anche tribunali internazionalizzati, ossia
dei tribunali con giurisdizione su crimini internazionali, composti in parte da giudici nominati dalle autorità statali e in parte dai
giudici internazionali, nominati da organi internazionali (es. nominati dal Segretario Generale delle Nazioni Unite), i costi di tali
tribunali non sono interamente a carico delle Nazioni Unite.

15.6 LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE


Il primo e unico Tribunale Internazionale a carattere permanente è stato istituito nel 1998 nell’ambito di una conferenza
diplomatica convocata a Roma dalle Nazioni Unite nel palazzo della FAO, è stato adottato lo Statuto della Corte Penale
Internazionale, o “Statuto di Roma”. Lo Statuto è entrato in vigore il 1° luglio del 2002 dopo il raggiungimento della sessantesima
ratifica. Ha sede all’Aia. Lo Statuto di Roma è un vero Trattato internazionale, mentre lo Statuto del Tribunale per la Ex-
Jugoslavia e quello in Ruanda erano semplicemente allegati alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza istitutive dei tribunali che
sono stati modificati attraverso successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
Gli organi della Corte sono: la Presidenza, le Sezioni (sezione preliminare, di primo grado, d’appello) l’Ufficio del Procuratore e la
Cancellaria; ad essi si aggiunge l’Assemblea degli Stati parti dello Statuto di Roma.
→ Lo Statuto contiene una clausola di adesione per cui possono divenire parte tutti gli Stati del mondo. L’aspirazione è quella
dell’universalità, ossia far sì che tutti gli Stati del mondo diventino parte dello Statuto. Oggi sono 122 gli Stati hanno ratificato o
aderito allo Statuto, due Stati hanno esercitato la facoltà di recesso: Burundi e Filippine.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite è il depositario dello Statuto di Roma, perché il trattato è stato concluso nell’ambito di
una Conferenza convocata dalle Nazioni Unite, anche se la Corte Penale Internazionale è indipendente dalle N.U. ma ha un
rapporto privilegiato con esse infatti è stato concluso un accordo in base al quale vi è un obbligo di cooperazione tra le Nazioni
Unite e la Corte.
→ La Corte Penale Internazionale ha giurisdizione su: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini di genocidio, crimini di
aggressione.
La Corte NON ha giurisdizione universale, cioè non può processare chiunque e dovunque, esistono tre diversi meccanismi di
attivazione:
1) Deferimento di una situazione al procuratore della Corte da parte di uno Stato parte, uno Stato parte può deferire una
situazione dalla quale appaiono essere commessi dei crimini, al procuratore della corte, in questo caso il procuratore può
aprire una indagine;
2) da parte del Consiglio di sicurezza, il procuratore può aprire una indagine se il Consiglio di Sicurezza gli deferisce una
situazione nella quale sembrano essere stati commessi dei crimini, quindi gli chiede di indagare mediante una risoluzione (ai
sensi del Cap.7 della Carta delle Nazioni Unite); in questo caso il procuratore ha giurisdizione sui crimini anche se sono stati
commessi da cittadini di Stati non parti e sul territorio di Stati non parti e di Stati non parti che non hanno accettato la
giurisdizione della Corte !!!
Inoltre lo Statuto di Roma prevede che una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa imporre al procuratore e alla Corte di non
aprire alcuna indagine, di non avviare alcun procedimento oppure di sospendere quelli già in corso per un periodo fino a 12 mesi;
gli Usa, Cina e Russia non fanno parte dello Statuto di Roma, soltanto Regno Unito e Francia (membri permanenti del CdS) sono
parti dello Statuto di Roma;
3) Azione proprio motu da parte del procuratore, il procuratore può adire una indagine di propria iniziativa: in questo caso
deve ottenere l’autorizzazione della Camera preliminare.
n.b: SE il procuratore agisce in seguito al deferimento di una situazione da parte di uno Stato parte oppure se agisce proprio
motu, allora la Corte può processare un individuo SOLO se questo: a) è cittadino di uno Stato parte; b) ha commesso il crimine
su un territorio di uno Stato parte; c) lo Stato ha accettato la giurisdizione della Corte con riguardo determinati crimini o un
determinato arco temporale (è equiparato allo Stato parte!).

15.7 RAPPORTO TRA TRIBUNALE AD HOC E TRIBUNALI NAZIONALI


I due Tribunali ad hoc avevano la supremazia sui Tribunali nazionali, nel senso che potevano chiedere in qualsiasi momento il
deferimento di un procedimento in corso davanti ad un Tribunale nazionale, i giudici nazionali avrebbero dovuto astenersi dal
continuare ad esaminare il caso e trasferire gli atti direttamente al Tribunale per la Ex-Jugoslavia e Ruanda.

15.8 RAPPORTO TRA LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE E I TRIBUNALI NAZIONALI


La Corte NON ha giurisdizione prioritaria, la sua competenza è fondata sul principio di complementarietà: la Corte può
giudicare SOLO se il Tribunale nazionale non intenda o non è in grado di procedere, si dice unwillingness or inability e le
definizioni sono definite dallo Statuto: per esempio nel primo caso un esempio è l’ingiustificato ritardo dei procedimenti e la
mancanza di imparzialità, mentre tra i casi di Inability vi è la mancanza di un sistema giudiziario.

15.9 CRIMINE E ATTO DI AGGRESSIONE


Lo Statuto di Roma nella sua formulazione originaria non dava una definizione del crimine di aggressione, e rinviava l’esercizio
della giurisdizione ad un momento successivo ovvero a quando una definizione del crimine fosse stata adottata e fossero state
definite le condizioni dell’esercizio della giurisdizione sul crimine da parte della Corte.
La Conferenza di Kampala (capitale Uganda) svoltasi nel 2010, ha adottato alcuni emendamenti allo Statuto di Roma tra cui la
definizione di crimine di aggressione, stabilendo le condizioni attraverso le quali la Corte può processare gli individui per questo
crimine cioè: 1) il raggiungimento di 30 ratifiche degli emendamenti sui crimini di aggressione (raggiunti nel 2017 e l’Assemblea
degli Stati parti ha deciso l’applicazione della giurisdizione della Corte sui crimini di aggressione a partire del 2018); 2) una
decisione da parte dell’Assemblea degli Stati parti che attribuisce alla Corte la giurisdizione su questo crimine.
Com’è definito il CRIMINE di aggressione? È definito come pianificazione, preparazione, avvio e conduzione di un atto di
aggressione che per la sua natura e dimensione costituisce una violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite.
Com’è definito l’ATTO di aggressione? Come qualsiasi uso della forza armata contro la sovranità territoriale, l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica di un qualsiasi altro Stato in altro modo incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite,
definizione contenuta nella risoluzione 3314 del 1974 dell’Assemblea Generale; inoltre, dalla risoluzione viene ripreso l’elenco
che comprende: i bombardamenti da parte di uno Stato nei confronti di un altro; il blocco dei porti e delle coste, fino ad arrivare
all’ipotesi dell’aggressione indirett

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