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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali

Tesi di Laurea

Cattedra di Studi Strategici

STORIA ED EVOLUZIONE DEL POTERE AEREO:


DAGLI ALBORI DELLA QUESTIONE AEREA ALL’IMPIEGO
TATTICO E STRATEGICO DELL’AVIAZIONE

RELATORE
Prof. Germano DOTTORI
CANDIDATA
Virginia Elydia CORBELLI
Matr. 627502
CORRELATORE
Prof. Gregory ALEGI

Anno Accademico 2019/2020

1
2
Ai miei amati Nonni ed angeli custodi, Aldo e Antonia, ovunque siate ora.
A mia Madre, roccia della mia vita.
Nella speranza di avervi finalmente resi orgogliosi.

3
INDICE

INTRODUZIONE……………………………………………………………….. …………….. 6

CAPITOLO PRIMO
1. Evoluzione del potere aereo. Dagli albori della questione aerea alla nascita delle
aeronautiche militari

1.1. Alle origini dell’aeronautica: dalle prime “macchine volanti” agli aeroplani………………. 10
1.2. La nascita della questione aerea…………………………………………………………….. 14
1.3. La Prima guerra mondiale…………………………………………………………………… 17
1.3.1. Il contributo dell’aviazione italiana contro gli austriaci…………………………….. 25
1.4. Il potere aereo nel periodo tra le due guerre………………………………………………… 32
1.4.1. La nascita delle aeronautiche militari……………………………………………….. 34
1.4.1.1. La Luftwaffe………………………………………………………………… 35
1.4.1.2. La Royal Air Force………………………………………………………….. 36
1.4.1.3. La Regia Aeronautica……………………………………………………….. 38
1.4.1.4. L’aeronautica militare sovietica (Voenno-vozdušnye sily)…………………. 39
1.4.1.5. L’aviazione giapponese…………………………………………………….. 40
1.4.1.6. La United States Army Air Force…………………………………………… 42

CAPITOLO SECONDO
2. Teorici e dottrine del potere aereo

2.1. Teorici e dottrine della guerra aerea………………………………………………………… 44


2.2. Giulio Douhet e la teoria del dominio dell’aria……………………………………………… 45
2.3. Sostenitori e detrattori del pensiero di Douhet………………………………………………. 52
2.4. Oltre Douhet: Mecozzi, Trenchard, Mitchell……………………………………………….. 54

CAPITOLO TERZO
3. Le conferenze sulla regolamentazione della guerra nei cieli e i laboratori della guerra aerea

3.1. La Conferenza di Washington………………………………………………………………. 60


3.2. La Conferenza di Ginevra ………………………………………………………………….. 62
3.3. La guerra d’Etiopia………………………………………………………………………….. 63
3.4. La guerra civile spagnola……………………………………………………………………. 72

CAPITOLO QUARTO
4. Il potere aereo nella Seconda guerra mondiale

4.1. Il potere aereo nella Seconda guerra mondiale……………………………………………… 78


4.2. La Campagna di Polonia e la Campagna di Norvegia………………………………………. 79
4.3. La Campagna di Francia ……………………………………………………………………. 82
4.4. La Campagna d’Inghilterra………………………………………………………………….. 84
4.5. Il fronte orientale: l’Operazione Barbarossa………………………………………………… 87
4
4.6. La guerra del Pacifico……………………………………………………………………….. 89
4.7. L’avvento dell’era atomica. Il potere aereo nell’era nucleare………………………………. 91
4.8. Geopolitica del potere aereo nel secondo dopoguerra: Renner e de Seversky……………… 95
4.9. Il potere aereo nella dottrina occidentale e in quella sovietica………………………………. 99

CAPITOLO QUINTO
5. Il potere aereo in funzione operativa
5.1. L’impiego tattico del potere aereo statunitense nella Guerra di Corea……………………… 102
5.2. La forza aerea statunitense nella Guerra del Vietnam……………………………………….. 105
5.2.1. Il potere aereo si spoglia della concezione “mitica” attribuitagli dai teorici della guerra
aerea…………………………………………………………………………………..108
5.3. La Guerra dei Sei Giorni e la Guerra dello Yom Kippur……………………………………. 110

CAPITOLO SESTO
6. L’evoluzione e l’uso del potere aereo post Guerra Fredda
6.1. La prima guerra del Golfo…………………………………………………………………… 113
6.2. La guerra del Kosovo………………………………………………………………………... 116
6.3. La guerra in Libia……………………………………………………………………………. 119

CONCLUSIONI………………………………………………………………………………… 123

BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………………….. 126

DOCUMENTI E PUBBLICAZIONI………………………………………………………….. 134

SITOGRAFIA…………………………………………………………………………………… 137

RIASSUNTO……………………………………………………………………………………. 138

5
Introduzione

Alla base del presente elaborato vi è la volontà di andare alla radice di uno degli
elementi più importanti dei conflitti contemporanei, ovvero il potere aereo, tracciandone
la storia e l’evoluzione.
Partendo dagli albori dell’aeronautica, passando per la nascita della questione
aerea e della nozione di “dominio dell’aria”, si giungerà a delineare lo sviluppo del
concetto di “potere aereo” sino al suo impiego tattico e strategico nel contesto di alcuni
fra i più significativi teatri di guerra contemporanei.
Se può risultare semplice intuire cosa s’intenda per “potere aereo”, decisamente
più difficile è trovare una definizione scientifica per tale concetto. Si potrebbe ricorrere
alla definizione che ne dà il documento inglese AP3000 British Air Power Doctrine,
secondo cui «il potere aereo è la capacità di proiettare le forze militari nell’aria o nello
spazio con o da una piattaforma aerea che, a sua volta, opera al di sopra della superficie
della terra». Benché si tratti di una definizione per lo più didattica, che non tiene conto
dell’onnicomprensività del termine, può essere utilizzata come punto di partenza.
Dai primi successi di volo dei fratelli Wright nel 1903, sino alla costruzione dei
primi velivoli a motore e il loro impiego nel primo conflitto mondiale, la progressiva
conquista della terza dimensione – quella dell’aria – ha comportato un mutamento
radicale nello scenario internazionale; non soltanto ha reso obsoleti i confini geografici,
aprendo nuove frontiere mai esplorate prima e scardinando le dottrine geopolitiche e
geostrategiche che fino a quel momento avevano influenzato i rapporti tra i Paesi, ma nel
corso del tempo ha anche cambiato totalmente il modo di concepire e di condurre le
guerre.
Parallelamente alla nascita del potere aereo, si è sviluppata anche una dottrina del
potere aereo, alimentata ed affinata dagli studi di numerosi teorici della guerra aerea, che
tra il primo e il secondo dopoguerra ha condotto gradualmente le potenze alla creazione
di una forza aerea autonoma e indipendente da quelle di terra e di mare.
L’aviazione è andata via via acquisendo sempre più centralità nello svolgimento
delle operazioni militari, tanto da assumere ruoli strategici e tattici di grandissima
rilevanza – e spesso risolutivi – nel contesto dei conflitti contemporanei. A tal proposito,
per comprendere meglio l’importanza dell’elemento aereo, si andrà a presentare più nel

6
dettaglio il ruolo che il potere aereo ha giocato nelle guerre di Corea, Vietnam, Sei Giorni,
Yom Kippur, Golfo, Kosovo e Libia.

Le motivazioni che mi hanno spinta a trattare il tema del potere aereo per la mia
tesi di laurea derivano strettamente da interessi ed esperienze personali. Ho sempre nutrito
una grande attrazione verso il mondo militare e ho trovato in questo argomento di tesi la
perfetta sintesi tra due delle mie passioni: quella per l’aviazione e quella per la storia
militare.
La scelta è stata altresì influenzata dall’esperienza che ho avuto l’onore di
intraprendere circa tre anni fa con l’Esercito Italiano. Ho infatti trascorso un periodo di
intensa formazione teorica e pratica presso la Scuola di Fanteria di Cesano, il Centro
Addestramento Paracadutismo di Pisa e la base militare Villaggio Italia di Belo Polje in
Kosovo. E’ stata una delle esperienze più preziose che io abbia mai abbracciato, sia a
livello formativo che umano. Ho vissuto tale opportunità con il massimo dell’entusiasmo
e della gratitudine, e ho potuto godere di insegnamenti unici che hanno sfamato, ma anche
ulteriormente alimentato, le mie propensioni e miei interessi. Soprattutto, ho avuto modo
di sperimentare da vicino e vivere la realtà di KFOR e di un teatro operativo nonostante
tutto ancora “caldo” come quello del Kosovo, le cui vicende e i cui luoghi segnati dagli
avvenimenti storici, hanno contribuito ad influenzare la scelta dell’argomento.

L’obiettivo del presente elaborato è quello di cercare di ricostruire il lungo


percorso del potere aereo, quello che l’ha portato, oggi, a ricoprire un ruolo fondamentale.
Ho voluto iniziare questo lavoro dall’archè, dalle macchine volanti e dai palloni
aerostatici, insomma dalle origini dell’aeronautica, per poter meglio comprendere gli
immensi progressi tecnologici che hanno condotto alla creazione di mezzi aerei sempre
più strabilianti, capaci di superare la classica dicotomia forza terrestre-forza navale,
imporsi sulla scena e divenire addirittura elementi essenziali della guerra. Ho messo in
evidenza le eccezionali peculiarità del potere aereo ma anche i suoi difetti, i suoi successi
ma anche le sue sconfitte, sottolineando alcuni punti di criticità. Al termine di questo
lungo tracciato, l’elaborato mira a proporre una chiave di lettura del ruolo attuale del
potere aereo scevra da qualunque entusiasmo acritico, riconoscendo la grande valenza
autonoma strategica – spesso risolutiva – del potere aereo ma, allo stesso tempo, la

7
necessità che in determinati contesti esso sia in grado di operare in sinergia con gli altri
livelli di potere (terrestre e navale), sottolineando il valore di un approccio interforze.
.
La tesi è articolata in sei capitoli.
Il primo capitolo inizierà con un breve excursus storico sulle origini
dell’aeronautica a partire dai primi esperimenti di macchine volanti, passando per i palloni
aerostatici, fino alla costruzione dei primi velivoli più pesanti dell’aria. In seguito sarà
affrontata la nascita della questione aerea, emersa parallelamente alla conquista della
terza dimensione (l’aria), e l’impiego dell’aviazione nella sua funzione meramente
ricognitiva e di supporto all’esercito nel corso della Prima guerra mondiale. Infine,
saranno evidenziati i grandi traguardi raggiunti dall’aviazione nel periodo tra le due
guerre e la conseguente nascita delle prime aeronautiche militari, vale a dire le prime
forze aeree indipendenti dal controllo dell’esercito.

Il secondo capitolo si concentrerà sulla dottrina del potere aereo e sulle teorie della
guerra aerea, trattando nello specifico autori come Douhet, Trenchard, Mitchell e
Mecozzi. Verranno messe in evidenza eventuali analogie, differenze e contrasti tra gli
autori e in che misura i loro studi abbiano rivoluzionato il modo di concepire l’aviazione
da quel momento in poi.

Nel terzo capitolo si tratteranno le prime Conferenze sulla regolamentazione della


guerra nei cieli, in particolare la Conferenza di Washington e la Conferenza di Ginevra,
e i laboratori della guerra aerea a cavallo delle due guerre mondiali, ovvero la guerra
d’Etiopia e la guerra civile spagnola.

Il quarto capitolo sarà incentrato sull’impiego del potere aereo nel corso delle
campagne della Seconda guerra mondiale, in particolare nelle campagne di Polonia,
Norvegia, Francia, Inghilterra, nonché sul fronte orientale con l’Operazione Barbarossa.
Si passerà poi ad illustrare il potere aereo nella guerra del Pacifico e il conseguente
avvento dell’era atomica, con la nuova funzione aggiunta del potere aereo, quella
nucleare. Infine, si esporranno le teorie geopolitiche del potere aereo di Renner e de

8
Seversky e la differenza del ruolo affidato all’aviazione dalla dottrina occidentale e da
quella sovietica.

Il quinto capitolo approfondirà l’utilizzo del potere aereo in funzione operativa,


focalizzandosi su alcuni tra i conflitti più importanti avvenuti nel periodo della Guerra
Fredda, ovvero la Corea, il Vietnam, la guerra dei Sei Giorni e la guerra dello Yom
Kippur.

Nel sesto ed ultimo capitolo verranno trattati l’evoluzione e l’uso del potere aereo
post-Guerra Fredda, più specificatamente nell’ambito delle guerre del Golfo, del Kosovo
e della Libia.

9
CAPITOLO PRIMO

1. EVOLUZIONE DEL POTERE AEREO. DAGLI ALBORI DELLA


QUESTIONE AEREA ALLA NASCITA DELLE AERONAUTICHE
MILITARI

1.1. Alle origini dell’aeronautica: dalle prime “macchine volanti” agli


aeroplani

Il desiderio di volare ha affascinato gli uomini sin dall’antichità. Già alcuni


filosofi pitagorici avevano tentato di realizzare oggetti in grado di spiccare il volo,
passando per l’inventore berbero Abbas Ibn Firnas che, nell’875, anticipando di mille
anni i fratelli Wright, costruì una “macchina volante” ispirandosi al naturale volo degli
uccelli, con la quale si lanciò da una torre di Cordova – impresa che gli valse il
riconoscimento come uno dei padri dell’aviazione –. La macchina volante in questione
era un rudimentale “ornitottero”, ovvero un marchingegno composto da ali mobili che
sfruttava il movimento meccanico del pilota per consentire il volo. L’ornitottero più
famoso è però certamente quello di Leonardo da Vinci (1452–1519), nonché il primo
progettato seguendo un approccio ingegneristico, difatti era azionato da un complesso
meccanismo di archi e funi.
Nel Seicento, l’inglese Robert Hooke e l’italiano Giovanni Alfonso Borelli
capirono che i muscoli dell’uomo non erano sufficientemente forti per sostenerlo in aria
senza l’aiuto di qualche motore1. Ma soltanto un secolo più tardi, e precisamente nella
seconda metà del Settecento, si supereranno le limitazioni intrinseche delle prime
macchine volanti e il sogno di volare diverrà realtà. Nel 1782, infatti, il fabbricante di
carta Joseph Montgolfier diede inizio ad una serie di esperimenti con palloni gonfiati ad
aria calda, ottenuta facendo bruciare della carta sotto il pallone stesso. Nel 1783, insieme
al fratello Etienne, realizzò finalmente il primo pallone aerostatico in grado di sollevarsi
da terra portando a bordo un piccolo equipaggio, il quale prese il nome di “mongolfiera”2.

1
Sulle origini dell’aeronautica cfr. B. COLLIER, Storia della guerra aerea. Dai pionieri della
ricognizione ai reattori supersonici, Milano, Mondadori, 1974, pp. 7 sgg.; G. DICORATO (a cura di),
Storia dell’aviazione, Milano, Fabbri, 1973; R. ABATE, Storia degli aerei, Milano, La Sorgente, 1964
2
B. COLLIER, op. cit.

10
Fu proprio con i palloni aerostatici che ebbe inizio la fase pioneristica
dell’evoluzione della guerra aerea, caratterizzata dai primi tentativi di utilizzo dei velivoli
in chiave bellica. Degna di nota, in tal senso, fu la nascita del Corpo di Aerostati francese
– a tutti gli effetti il primo corpo militare aeronautico della storia –. Composto da palloni
particolarmente robusti alimentati da un grande generatore, esso si distinse nella Battaglia
di Fleurus del 1794, permettendo ai francesi di vincerla nel giro di poche ore grazie
all’importanza tattica delle osservazioni aeree. Alla fine del 1862, nell’ambito della
guerra di secessione, le forze dell’Unione disponevano di diversi palloni costruiti
espressamente per scopi militari. Gli aerostati furono utilizzati anche dai britannici nel
Sudan nel 1885 e dagli italiani in Eritrea nel 1887 e nel 1888, passando dall’alimentazione
ad aria calda all’alimentazione a gas.
Interessante sottolineare come, già nel 1670, il gesuita Francesco Lana de Terzi3,
anticipando di secoli la questione del bombardamento delle città, avesse predetto la
possibilità di una guerra aerea, immaginando una “nave volante” che avrebbe potuto
attaccare città, castelli e persino navi sganciando proiettili, bombe o aprendo il fuoco4.
Nel 1897 l’ingegnere austriaco David Schwartz creò la prima aeronave rigida del
mondo, il cui involucro era composto di alluminio in fogli su una struttura tubolare in
alluminio; a partire da tale esperimento, altri progettisti si cimentarono nella costruzione
– più o meno fortunata – di aeronavi rigide, semirigide o flosce. Nacquero, inoltre, i primi
club aeronautici5.
Va osservato che sia i palloni aerostatici sia, successivamente, i dirigibili, furono
inizialmente – e per lungo tempo – adibiti a funzioni prevalentemente ricognitive e
d’osservazione6. La centralità di tale ruolo fu evidenziata anche da due italiani: il capitano
Lo Forte, che nel 1884 scrisse un articolo dal titolo “L’Aeronautica e le sue applicazioni
militari”7, e l’ingegnere Giovanni De Rossi, che nel 1887 pubblicò il libro “La
locomozione aerea. Impiego dei palloni in guerra”8. Entrambi gli autori individuarono

3
Professore di matematica e fisica, noto per la sua opera “Prodromo ovvero saggio di alcune
invenzioni nuove”, Brescia, Rizzardi, 1670
4
T. HIPPLER, Bombing the People: Giulio Douhet and the Foundations of Air-Power Strategy,
1884 – 1939, Cambridge, Cambridge University Press, 2013
5
In particolare, nel 1898 fu fondato a Parigi l’Aéro Club di Francia e nel 1866 fu fondata in
Inghilterra una Aeronautical Society
6
Vedasi anche, sull’argomento, G. DICORATO, op. cit., pp. 9 sgg.
7
F. LO FORTE, L’Aeronautica e le sue applicazioni militari, in “Rivista di Artiglieria e Genio”,
vol. III, 1884
8
G. DE ROSSI, La locomozione aerea. Impiego dei palloni in guerra, Lanciano, Carabba, 1887

11
nella ricognizione sul campo di battaglia e nella rapidità dei collegamenti con i comandi
terrestri le doti essenziali dei primi mezzi volanti9.
Si dovrà attendere il XX secolo perché i veicoli comincino ad essere impiegati in
tutte le loro potenzialità belliche. Nel corso del primo ventennio del Novecento, infatti, i
nuovi dirigibili (aerostati di forma allungata) furono impiegati nell’ambito della guerra
italo-turca del 1911 e poi, soprattutto, nella Grande Guerra10. Tuttavia, essi palesavano
ancora notevoli criticità dal punto di vista tecnico. Il problema principale di questi mezzi
era dato dalla difficoltà di vincere la resistenza dell’aria e, conseguentemente, di
impiegare in modo efficace i timoni di direzione11.
Una svolta decisiva si ebbe con l’introduzione dei motori a scoppio nell’aviazione.
Tanto l’aeronautica civile quanto quella militare poterono così avvalersi di dirigibili di
ottima qualità, realizzati con struttura rigida in alluminio, tra cui vanno annoverati in
primo luogo i tedeschi Zeppelin, ideati dal conte Ferdinand von Zeppelin e dalla ditta
costruttrice “Luftschiffbau Zeppelin GmbH”12. Nel 1900 egli portò a termine la
costruzione di un’aeronave lunga quasi 130 metri e fornita di due motori marini Daimler,
migliorandola nel 1905 grazie all’utilizzo di motori più potenti. Ideò poi un’ulteriore
versione di aeronave lunga 137 metri che offrì all’esercito tedesco, e concesse l’uso di
alcune delle sue aeronavi per scopi commerciali13. Ben presto la produzione e l’impiego
di aerostati si diffusero in tutta Europa, dove di particolare qualità fu la produzione
italiana. Fra i maggiori progettisti spiccano figure di primo piano come quelle di
Forlanini, Usuelli, Schio e, per quanto concerne l’impiego propriamente militare dei
dirigibili, i capitani Ricaldoni e Crocco. Questi ultimi, nel 1908, idearono il dirigibile
semirigido tipo P, prodotto in una serie di modelli via via più efficienti che diedero ottima
prova di sé tanto nella guerra italo-turca del 1911 quanto nella Prima guerra mondiale
(1915-1918)14.
Nonostante l’indubbio miglioramento che i progressi tecnologici avevano

9
G. GARELLO, L’idroaviazione italiana nella Grande Guerra, in “Storia Militare”, n.198, 2010
10
Vi furono lunghe discussioni sulla maggiore utilità militare del dirigibile o dell’aeroplano. Tali
diatribe si risolsero a favore del secondo nel corso della Grande Guerra.
11
Cfr. M. VAN CREVELD, The Age of Airpower, New York, Public Affairs, 2011, pp. 7 sgg.
12
Per approfondimenti sul lavoro di Zeppelin cfr. J. TOLAND, The Great Dirigibles. Their
Triumphs and Disasters, Dover, New York, 1972
13
Nel giro di pochi anni i dirigibili commerciali Zeppelin trasportarono circa 35000 passeggeri e
furono usati anche per addestrare soldati e marinai a manovrarli in aria e sul suolo.
14
Per una dettagliata ricostruzione dell’aeronautica italiana cfr. P. FERRARI (a cura di),
L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 15 sgg.

12
apportato al dirigibile, quest’ultimo sarebbe stato ben presto reso obsoleto dall’avvento
del suo grande rivale, l’aeroplano, che fu realizzato a partire dai pionieristici esperimenti
dei fratelli Wright nel 190315. Accadde così che l’aerostato – definito come oggetto “più
leggero dell’aria” – venne definitivamente soppiantato dall’aeroplano, che, al contrario,
era un mezzo “più pesante dell’aria”16.
L’invenzione dell’aeroplano segnò una delle più straordinarie rivoluzioni
tecnologiche dell’umanità. Come ha osservato opportunamente Angelucci, «quando, nel
1903, i fratelli Wright compirono il primo volo di una macchina alata17 non
immaginavano di certo che ne sarebbe derivata un’accelerazione senza precedenti alla
storia dell’uomo e che il dominio dell’aria avrebbe, profondamente, cambiato il modo di
condurre le guerre»18. Dopo aver ottenuto il brevetto nel 1906, i fratelli Wright strinsero
accordi con le industrie europee di Gran Bretagna, Francia e Germania per la produzione
dei loro aerei e motori, e diedero inizio ad una serie di voli dimostrativi in giro per
l’Europa. In particolare Wilbur Wright effettuò più di un centinaio di voli, realizzando
anche alcune acrobazie che destarono grande stupore tra tutti gli astanti19.
Ben presto le nazioni europee fecero a gara nella costruzione e nel lancio di
velivoli sempre più sofisticati e perfezionati. Una posizione di primato la ricoprì, nella
prima decade del Novecento, la Francia, con grandi progettisti e costruttori come Voisin,
Delagrange, Ferber, Blériot, Farman, etc.20. Gli incessanti progressi del volo in Francia
furono ulteriormente confermati quando Blériot riuscì per la prima volta ad attraversare
la Manica in aeroplano21.
Non meno arditi furono gli italiani. Il primo aeroplano di costruzione interamente
italiana fu progettato e realizzato a Torino nel 1908 dall’ingegnere Aristide Faccioli. Si
trattava di un triplano propulso da un motore a quattro cilindri ed otto stantuffi con due

15
Sui fondamentali esperimenti dei fratelli Orville e Wilbur Wright, cfr. O. WRIGHT-W.
WRIGHT, La storia delle origini dell’aeroplano, Roma, Armando, 2014, pp. 3 sgg.
16
R. TREBBI, I segreti del volo, Milano, Hoepli, 2013, pp. 12 sgg.
17
Si trattava di un aliante sperimentato da Wilbur Wright sulla spiaggia di Kitty Hawk, una
cittadina nella Carolina del Nord. Successivamente, i fratelli Wright costruirono tre aerei a motore,
denominati “Flyer”, “Flyer II” e “Flyer III”, dotati di motori sempre più potenti.
18
G. ANGELUCCI, Douhet e la teoria del dominio dell’aria, in G. Angelucci-L. Vierucci (a cura
di), Il diritto internazionale umanitario e la guerra aerea. Scritti scelti, Firenze, Firenze University Press,
2010, p. 25
19
B. COLLIER, op.cit., pp. 51-52
20
Sull’aeronautica francese nel corso del primo ventennio del Novecento, cfr. W. RALEIGH, The
History of the War in the Air (1914-1918), Londra, Coda Books, 2016, pp. 29 sgg.
21
G. FIOCCO, Dai fratelli Wright a Hiroshima. Breve storia della questione aerea (1903 – 1945),
Roma, Carocci, 2002

13
eliche controrotanti. Il 13 gennaio 1909 decollò per la prima volta dall’ippodromo di
Mirafiori, pilotato dal figlio dell’ingegnere, Mario Faccioli. Appena un mese dopo, nel
febbraio del 1909, sorgeva a Roma la prima scuola di volo, il Club Aviatori, che nel 1911
– in significativa concomitanza con lo scoppio della guerra italo-turca – fu trasformata in
scuola militare. Qui Wilbur Wright in persona addestrò due tenenti, Mario Calderara e
Umberto Savoia, che divennero i primi due italiani brevettati piloti di aeroplano.
La guerra italo-turca vide l’uso sistematico di aeroplani da parte dell’esercito
italiano. Il mezzo “più pesante dell’aria” fu impiegato con successo con finalità
esplorative sul territorio nemico e, altresì, per bombardare da lontano le postazioni
avversarie, sebbene le funzioni di tipo offensivo fossero nei primi aerei decisamente
minoritarie e ancora tutte da sviluppare22.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la nazione che disponeva della flotta
aerea meglio organizzata era senza dubbio la Francia, che nell’estate del 1914 contava 22
squadriglie aeree composte da 142 aeroplani. Nettamente inferiore, per numero di
velivoli, era l’aeronautica inglese, che contava non più di quattro squadroni per un totale
di 50 apparecchi. L’Italia, da parte sua, contava nel 1914 non più di 70 velivoli, contro i
100 dell’Austria e i 240 della Germania. Le potenze minori, invece, registravano numeri
decisamente meno rilevanti23.

1.2. La nascita della questione aerea

Come accennato in precedenza, gli aeroplani a motore furono usati in funzione


bellica per la prima volta in occasione della guerra italo-turca (o guerra di Libia) del 1911.
In quell’anno ancora non si poteva parlare né di dottrina del potere aereo24 e né tantomeno
di aviazione strategica. Questo non deve sorprendere, poiché non esistevano forze aeree

22
Sul ruolo avuto dall’aviazione italiana nella Guerra di Libia, cfr. P. FERRARI, op. cit., pp. 307
sgg.; G. FINIZIO, Fra guerra, aviazione e politica. Giulio Douhet (1914-1916), Roma, Youcanprint, 2017,
pp. 48 sgg.; T. BRINATI-U.FISCHETTI-S.STEFANUTTI, L’aeronautica, gli aerei e le battaglie aeree.
L’epopea del volo dalle origini ai giorni nostri, Varese, Demetra, 1998, pp. 9 sgg.
23
Per un quadro organico dell’evoluzione storica dell’aeronautica militare e della guerra aerea nel
corso del primo ventennio del Novecento, cfr. B. COLLIER, op. cit., pp. 47 sgg.
24
E’ opportuno chiarire cosa s’intenda per “dottrina”. La dottrina deriva da tre fonti: gli
insegnamenti della storia della guerra, la teoria sviluppata a partire dal pensiero strategico e i progressi
tecnologici. In particolare, la dottrina del potere aereo stabilisce le norme alla base dell’impiego del potere
aereo, come si è evoluta l’arma aerea, quali sono le sue potenzialità e in che modo influenza la strategia e
la politica di difesa nazionale.

14
indipendenti e la tecnologia non aveva raggiunto livelli tali da consentire lo sviluppo di
velivoli che avessero una valenza anche strategica25. Il corpo di spedizione italiano era
composto da una piccola sezione aerea che, sotto il comando del capitano Carlo Piazza,
svolse importanti funzioni di ricognizione e sperimentò il lancio di piccole bombe sugli
accampamenti militari avversari26. A seguito di tali raid, però, la Sublime Porta denunciò
gli italiani per aver colpito un ospedale. Nonostante non vi fossero prove a sostegno di
quell’affermazione, non si potè escludere la possibilità che fosse stata casualmente
bombardata una tenda usata per ospitare i feriti27.
Questa controversia sollevò la cosiddetta “questione aerea”, ovvero l’esigenza di
comprendere se e in quale misura un bombardamento aereo potesse essere considerato
lecito secondo le leggi internazionali. Facendo un passo indietro, già nel corso della prima
conferenza dell’Aja del 189928, su impulso del governo russo, era stato affrontato il tema
del bombardamento dal cielo, nonostante questo fosse ancora in una fase embrionale. In
proposito, si decise di vietare tale pratica e di continuare a monitorare l’evoluzione della
guerra aerea. Successivamente, nella seconda conferenza dell’Aja del 1907, era stato
nuovamente discusso il tema del bombardamento; l’effetto fu quanto disposto dall’art. 25
della Convenzione del 1907, che vietò «di attaccare o di bombardare, con qualsiasi
mezzo, città, villaggi, abitazioni, o edifizi che non siano difesi»29. Sembrava dunque che
accampamenti militari, porti militari, arsenali e depositi militari potessero considerarsi
obiettivi legittimi di bombardamenti. In caso di attacco a luoghi difesi, l’art. 26 prevedeva
che «il comandante delle truppe d’assalto, prima d’intraprendere il bombardamento, e
salvo il caso di assalto di viva forza, dovrà fare tutto quanto sta in lui per avvertirne le
autorità»30. Dalla presenza di queste disposizioni si evince come, sin dall’inizio, si pensò

25
Per “strategia” s’intende il modo in cui le forze armate vengono impiegate per raggiungere scopi
militari e, di conseguenza, anche politici.
26
Per un maggiore approfondimento sulla guerra di Libia, cfr. I primi voli di guerra nel mondo.
Libia MCMXI, Ufficio storico dell’Aeronautica militare, Roma, 1951, pp. 7 sgg.
27
Cfr. B. COLLIER, op.cit., p. 58
28
Lo scopo di tale conferenza, convocata dallo zar Nicola II di Russia, era di discutere i principi
del diritto bellico al fine di raggiungere una durevole e reale pace e, soprattutto, di limitare il progressivo
sviluppo degli armamenti. L’accordo sul disarmo non fu raggiunto, ma furono firmate diverse convenzioni
sulla regolamentazione della guerra terrestre e marittima, sull’uso di proiettili, sul lancio di esplosivi da
palloni aerostatici e sulla risoluzione delle controversie internazionali. In seguito a quest’ultima, fu creata
la Corte permanente di arbitrato dell’Aja.
29
Per il testo completo della Convenzione, cfr.
https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_Giuridico/Documents/65159_co
nvenzione4.pdf; ultima consultazione 23 settembre 2020
30
Ibidem

15
alle temibili conseguenze dell’impiego dell’arma aerea e si sentì il bisogno di
disciplinarlo con un codice di comportamento riconosciuto, a cui poter fare riferimento
in caso di necessità. Tali prescrizioni furono talvolta violate, ma in generale furono
accettate come vincolanti dalle forze in guerra.
Nel 1910, sempre nell’ambito delle discussioni sulla regolamentazione della
guerra aerea, l’Istituto per il diritto internazionale di Bruxelles, impegnato nel
promuovere l’umanizzazione dei conflitti, nominò una commissione di studio sulla
questione aerea. All’interno di tale gruppo si formò subito una spaccatura tra chi
considerava l’aeroplano un’arma assimilabile a quelle tradizionali e chi, invece, riteneva
necessario battersi per scongiurare la militarizzazione dei cieli 31. Al termine di un lungo
dibattito, si approvò la mozione per cui «La guerra aerea è permessa, ma a condizione di
non presentare per le persone o le proprietà della popolazione pacifica dei pericoli più
grandi della guerra terrestre o marittima»32.
Tornando alla guerra del 1911 – intrapresa pochi mesi dopo la ratifica della
mozione dell’Istituto – le gesta dell’aviazione sabauda provocarono qualche imbarazzo
tra i pacifisti italiani che avevano appoggiato l’impresa libica, o quantomeno che non
l’avevano osteggiata33. Ma non sussistendo un vero e proprio divieto di bombardamento
dal cielo, l’Italia non aveva violato alcun trattato internazionale; ormai era chiaro che, in
assenza di un accordo tra le potenze, nulla avrebbe potuto impedire il diffondersi
dell’arma aerea34. Da quel momento in poi, l’impiego dell’aeroplano in guerra fu
costantemente accompagnato da numerose polemiche, che vedevano contrapporsi chi, da
una parte, non voleva eliminare l’importanza del lato militare dell’aviazione bloccandone
lo sviluppo, e chi, dall’altra, dava voce alla necessità di impedire che una magnifica
rivoluzione come il volo umano si trasformasse in una minaccia per la civiltà.

31
Cfr. G. FIOCCO, op.cit., p. 17
32
Cfr. Annuaire de l’Institut de Droit international, vol. XXIV, Parigi, Pedone, 1911, p. 346
33
Cfr. G. FIOCCO, op.cit., p. 18
34
Ibidem

16
1.3. La Prima guerra mondiale

La Prima guerra mondiale fu certamente un evento di importanza decisiva per


l’evoluzione tecnologica degli aeroplani come strumenti bellici35. Se si fa un raffronto tra
la tecnologia aerea alla vigilia del grande conflitto e la tecnologia aerea dopo il 1918, si
osserva un divario notevole. Alla vigilia del conflitto, infatti, pur essendo stato
saltuariamente utilizzato come strumento di bombardamento – ricordiamo ancora la
guerra italo-turca del 1911 –, l’aereo svolgeva primariamente funzioni ricognitive e
ausiliarie alle forze di terra e di mare. La sua velocità media era di 80-120 chilometri
orari, il suo raggio d’azione scarso, e ciò, appunto, ne imponeva un uso soprattutto come
mezzo di osservazione delle postazioni avversarie36. Inoltre, era ancora uno strumento di
tela e legno, privo di strumentazione di bordo e di funzioni offensive. Svolgeva i suoi
compiti ricognitivi anche grazie all’ausilio prezioso della fotografia aerea. Saranno
proprio le urgenze belliche del primo conflitto mondiale a determinare un profondo
sviluppo della tecnologia aerea, insieme con il netto aumento della produzione di velivoli.
Tutto ciò avvenne in tempi rapidissimi. Nel 1918, il vecchio aereo con le
caratteristiche anzidette era oramai del tutto obsoleto a fronte dei modernissimi caccia,
che potevano raggiungere una velocità anche di 200 km/h e che, oltre ad essere dotati di
mitragliatrici, svolgevano funzione di bombardieri, potendo trasportare fino ad una
tonnellata di bombe. Finalmente, dunque, la funzione offensiva diveniva una prerogativa
cruciale dei velivoli bellici. Anche il raggio d’azione coperto dai nuovi aeroplani era
incomparabilmente più ampio di quello dei vecchi velivoli.
Come si è detto, non fu soltanto l’evoluzione tecnologica a subire
un’accelerazione vertiginosa sotto la pressione delle esigenze belliche, ma anche la
quantità della produzione aumentò a dismisura. Infatti, nel corso dei cinque anni della
Prima guerra mondiale tutti i Paesi che presero parte al conflitto produssero,
complessivamente, circa 180mila aeroplani. Una cifra straordinaria se si considera che,
dai primi del Novecento fino alla vigilia della Grande Guerra, a livello mondiale erano
stati prodotti non più di 10mila aerei37.

35
Sui progressi delle forze aeree durante la guerra cfr. G.W.F. HALLGARTEN, Storia della corsa
agli armamenti, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 94-97
36
Cfr. M. VAN CREVELD, op.cit., pp. 15 sgg.; B. COLLIER, op.cit., pp. 61 sgg.
37
Cfr. T. D. CROUCH, Wings. A History of Aviation from Kites to the Space Age, New York,
Norton & Company, 2014, pp. 171 sgg.

17
Sul finire del conflitto, la Germania contava circa 5mila aeroplani, esclusi i
dirigibili Zeppelin – gran parte dei quali, a causa della loro vulnerabilità, erano andati
distrutti nel corso dei tentativi infruttuosi di bombardare a tappeto l’Inghilterra 38 e, per
questo, le loro missioni erano state sospese dai tedeschi, favorendo l’utilizzo dei
bombardieri pesanti Gotha –; la Francia contava circa 4.500 velivoli; l’Inghilterra 4.900;
l’Italia poco meno di 2mila e l’Austria circa 1.300. Se si fa un raffronto con le cifre della
vigilia della guerra, il divario è immenso. Iniziava, inoltre, a farsi largo una concezione
tipologica degli aerei, che venivano denominati e progettati a seconda della loro differente
struttura e finalità bellica. Accanto all’aviazione da bombardamento si profilava così
anche l’aviazione da caccia, e da queste era distinta tanto l’aviazione da ricognizione
quanto l’aviazione di osservazione del tiro. Parimenti, anche il personale militare addetto
all’aviazione aveva notevolmente sviluppato le sue capacità e competenze, in una misura
difficilmente immaginabile solo fino a pochi anni prima.
Come vedremo in seguito, la neonata “guerra aerea”39 – che avrebbe segnato in
profondità tutti gli eventi bellici successivi – diede impulso ad una serie di nuove
teorizzazioni circa il “dominio dell’aria” come requisito imprescindibile per raggiungere
la vittoria nella guerra contemporanea (ci si riferisce qui prevalentemente alle teorie di
Giulio Douhet40, di cui si dirà in dettaglio più oltre)41. Eppure, nonostante i grandi
successi che l’aviazione aveva conseguito nel corso della Grande Guerra, perdurava il
preconcetto che, tutto sommato, essa non fosse altro che uno strumento ausiliario
dell’esercito e della marina. Le prese di posizione di Douhet ebbero, in quest’ottica,
un’importanza capitale. Attestandosi su una posizione vicina a quella che già in
precedenza avevano sostenuto politici e militari come David Lloyd George42 e Jan

38
Cfr. R. ROBISON, Droni nel cielo. Storia degli aeromobili a pilotaggio remoto, Roma,
Youcanprint, 2017, pp. 49 sgg.
39
Sul concetto di “air war”, cfr. P. S. MEILINGER, Air War. Theory and Practice, Londra, Frank
Cass, 2003, pp. 1 sgg.
40
Il Generale Douhet fu uno dei pionieri nell’impiego delle forze aeree in Italia e iniziò a
tratteggiare il concetto di “aeroplano potente”, primo passo verso le sue teorie sul bombardamento
strategico.
41
Per un quadro d’insieme cfr. G. ANGELUCCI, op.cit.
42
Politico britannico che, dopo l’attacco tedesco al Belgio del 1914, si schierò subito a favore
dell’intervento in guerra. Nel 1915 divenne Ministro delle Munizioni, nel 1916 Ministro della Guerra e,
pochi mesi dopo, Primo Ministro. Diede un nuovo ed energico impulso al conflitto, al termine del quale fu
tra i massimi artefici della pace di Versailles. Per un approfondimento sul suo contributo strategico alla
Prima guerra mondiale, cfr. D. FRENCH, The Strategy of the Lloyd George Coalition 1916-1918, New
York: The Clarendon Press, Oxford University Press, 1995

18
Smuts43, egli vide con chiarezza come il ruolo che il futuro prossimo avrebbe riservato
alle forze aeree nella guerra contemporanea fosse destinato a crescere e a diventare
addirittura cruciale. Non soltanto, cioè, gli aerei avrebbero contribuito alla vittoria delle
truppe terrestri e navali, ma avrebbero ben presto raggiunto risultati bellici decisivi in
piena autonomia44.
La nascente guerra aerea non rappresentò un evento decisivo soltanto
nell’evoluzione della guerra contemporanea e nelle congiunte teorie belliche: tutta
l’opinione pubblica, infatti, fu vivacemente sollecitata e affascinata dalle imprese
eccezionali compiute dai grandi aviatori, i cosiddetti “assi dell’aviazione”, che
abbondarono presso tutti gli eserciti belligeranti. In effetti, non poteva esservi contrasto
più netto tra la monotonia e la stasi della guerra di posizione imposta dalle trincee e
l’originalità, l’arditezza e l’imprevedibilità delle azioni compiute dai grandi aviatori45.
Dapprima essi furono addirittura privi del paracadute, motivo per cui risultò rimarchevole
lo spirito di sacrificio che rivelarono in servigio al loro Paese. Volavano soprattutto di
notte, con l’ausilio di bussole o delle stelle, esattamente come i naviganti delle ere
premoderne; la necessità di volare nottetempo era imposta, specialmente agli inizi della
guerra mondiale, dalla scarsa velocità degli aerei, che durante il giorno, a causa di ciò,
sarebbero stati facilmente bersaglio della contraerea avversaria.
Anche la poesia, l’arte e la letteratura sentirono in profondità il mito degli aviatori
e l’ideale di un’azione bellica libera, incondizionata ed eroica; si pensi, ad esempio, a
Gabriele d’Annunzio, il quale a più riprese celebrò nei suoi componimenti la tecnologia
e la velocità dell’attività aerea46, o Filippo Tommaso Marinetti e i futuristi, che negli aerei
da guerra videro uno dei contrassegni salienti della modernità che avanzava mandando in
frantumi tutti i vecchiumi della tradizione47. Lo storico Bernhard Siegert, a proposito del

43
Durante la prima guerra mondiale, in seguito agli attacchi aerei tedeschi su Londra, il
maresciallo Jan Smuts fu il primo a sostenere la necessità per il Regno Unito di creare una forza aerea
indipendente con un proprio stato maggiore.
44
B. COLLIER, op.cit., p. 123
45
Sull’antitesi, tanto cara all’opinione pubblica del tempo, tra guerra di trincea e guerra aerea
(statica, logorante, sordida la prima; libera, imprevedibile, eroica la seconda) cfr. W. RALEIGH, op.cit.,
pp. 61 sgg.
46
Ad esempio l’Alcyone del 1903, in cui il mito di Icaro ricorre frequentemente a simboleggiare
la conquista dei cieli da parte dell’uomo, o il romanzo del 1910 Forse che sì forse che no, in cui l’aeroplano,
insieme all’automobile, diventa un mezzo per l’espansione dell’Io.
47
Su queste tematiche si veda l’approfondita analisi svolta da F. ESPOSITO, Fascism, Aviation
and Mythical Modernity, Londra, Palgrave-MacMillan, 2015, pp. 100 sgg.

19
celebre volo su Vienna di d’Annunzio48 e, in generale, a proposito della risoluta difesa
ideologica e insieme lirica fatta dal Vate della guerra aerea, ha parlato della presenza, nel
grande letterato abruzzese, di un “poetic douhetism”49.
Non si insisterà mai abbastanza sugli straordinari miglioramenti tecnologici che
gli aerei registrarono tra il 1914 e il 1918. Gli aerei ricognitori degli esordi, in legno e
tela, proverbiali per la loro lentezza ed insicurezza, furono soppiantati da ricognitori assai
più veloci, sicuri ed efficaci. Ma fu soprattutto nell’aviazione da caccia che si registrarono
i più notevoli progressi: i nuovi caccia erano monoposto e con mitragliatrice in dotazione.
Se in un primo tempo, infatti, la mitragliatrice era affidata allo stesso pilota,
successivamente essa venne sincronizzata con il movimento dell’elica, così da non
distogliere il pilota dalle sue funzioni di guida50. Non meno rilevante fu l’avanzamento
che la tecnologia aerea conobbe in quel periodo anche per quel che riguarda l’impiego di
materiali. Proprio nel corso della Grande Guerra vide la luce il primo aereo interamente
metallico, opera dei tedeschi. Anche i motori andarono incontro ad ulteriori migliorie,
divenendo sempre più potenti ma nel contempo sempre più leggeri rispetto al passato.
È innegabile che la Prima guerra mondiale sia stata il conflitto in cui la rivoluzione
tecnologica, che aveva avuto inizio già intorno alla metà dell’Ottocento, trovò una larga
e persino esasperata applicazione51. Si è detto, infatti, che tutte le guerre combattute sino
ad allora si erano svolte su due dimensioni: la dimensione terrestre e quella navale. Con
la Grande Guerra si introducevano ben altre due dimensioni: una, naturalmente, quella
della guerra aerea, e un’altra, quella della guerra al di sotto delle acque, condotta grazie
ai sommergibili52.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: quali sono state le necessità, dal punto di
vista militare e strategico, che hanno fatto comprendere l’importanza insostituibile
dell’utilizzo degli aerei in chiave bellica? Un autore come Curami ha osservato

48
Il 9 agosto 1918 8 Ansaldo S.V.A., a bordo di uno dei quali vi era d’Annunzio con il capitano
Natale Palli, compirono un’impresa senza eguali, ideata dallo stesso poeta: partendo dal Campo di
Aviazione di San Pelagio (Padova), volarono indisturbati sino a Vienna, dove riuscirono ad abbassarsi a
una quota inferiore agli 800 metri e a lanciare 50.000 copie di un volantino preparato da d’Annunzio e
350.000 copie di un secondo volantino scritto da Ugo Ojetti. In entrambi si invitavano i viennesi alla resa.
Tale impresa, totalmente inoffensiva, ebbe una vastissima eco sia in Italia che all’estero, tanto che la stessa
stampa austriaca accolse con favore l’iniziativa e riconobbe il valore di d’Annunzio.
49
Cfr. F. ESPOSITO, op.cit., p. 101
50
Cfr. P. S. MEILINGER, op.cit., pp. 2 sgg.
51
Cfr. P. FERRARI (a cura di), La grande guerra aerea (1915-1918), Valdagno, Rossato, 1994
52
Ivi, pp. 71 sgg.

20
opportunamente che la prima e fondamentale necessità che ha determinato l’impiego
degli aerei e, nel contempo, l’accelerata evoluzione tecnologica dell’aeronautica militare,
era legata all’indispensabilità di poter osservare dall’alto il nemico 53. In passato, questo
lo si poteva fare solo in forma estremamente limitata, osservando cioè il nemico da
un’altura; il che significava, inevitabilmente, disporre di un panorama ristretto. Il sogno
dei militari di ogni epoca, invece, era sempre stato quello di poter vedere il nemico “oltre
la collina”54. Quanto questa facoltà fosse preziosa e determinante è confermato dal fatto
che diversi successi – o, all’opposto, insuccessi – bellici furono dovuti proprio a tale
possibilità o impossibilità. Caso paradigmatico quello della battaglia di Waterloo, dove
Napoleone venne sconfitto anche per il fatto che non fu in grado di vedere, e dunque di
attaccare, le truppe delle forze armate avversarie poiché queste si erano attestate sul
rovescio di alcune pieghe del terreno55.
Ciò spiega la ragione per cui, in primis, i compiti spettanti all’aeronautica militare
furono di tipo ricognitivo. Non è un caso, infatti, che all’inizio della Grande Guerra il
protagonista del volo aereo fosse di fatto l’ufficiale osservatore. Il pilota era considerato
una sorta di accompagnatore o di “chauffeur” dell’aria, la cui funzione consisteva
semplicemente nel supportare il militare che avrebbe dovuto svolgere il suo compito
ricognitivo. Naturalmente, dalla mera ricognizione all’impiego di aerei con funzione
propriamente offensiva, il passo era breve. Già dalla fine del Settecento, ossia già dalle
guerre della Rivoluzione francese e poi napoleoniche, si era intuito che, oltre
all’osservazione e ricognizione dall’alto, era possibile anche compiere efficaci operazioni
di offesa dai cieli. Si ricordi ad esempio che, nel 1849, nel corso della campagna d’Italia,
il feldmaresciallo Radetzky utilizzò delle mongolfiere per colpire la riottosa Venezia56.
Il ruolo minoritario che, all’inizio della Grande Guerra, caratterizzò le forze aeree,
non è da imputarsi tuttavia esclusivamente al livello tecnologico ancora incipiente che, a
quel tempo, l’aeronautica si trovava a dover scontare. Tra le resistenze vi erano anche, e
forse soprattutto, remore e pregiudizi di altro genere. Ci si rendeva sicuramente conto che

53
A. CURAMI, L’aeronautica, in G. Rochat (a cura di), La storiografia militare italiana negli
ultimi vent’anni, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 79-80
54
Cfr. J. LUVAAS, The Military Legacy of the Civil War. The European Inheritance, Lawrence,
University Press of Kansas, 1988, pp. 41 sgg.
55
Cfr. A. MASSIGNANI, La Grande Guerra: un bilancio complessivo, in P. Ferrari (a cura di),
La grande guerra aerea (1915-1918), cit., p. 268
56
Cfr. J. LUVAAS, op.cit., pp. 41 sgg.

21
l’ingresso massiccio dell’aeronautica nei nuovi conflitti avrebbe inevitabilmente
rivoluzionato l’assetto tradizionale della guerra, e per tale ragione l’aeronautica veniva
vista con scetticismo o addirittura avversata da parecchi militari e politici, specialmente
di orientamento conservatore. Interessante, da questo punto di vista, la dichiarazione che
solo otto mesi prima della fine del conflitto mondiale, nel marzo 1918, Eugenio Chiesa –
a quel tempo Commissario per l’Aeronautica – rese in un documento ufficiale. Scriveva
Chiesa che «al principio della nostra guerra, pochissimi erano coloro – nello stesso
ambiente militare – che credessero nell’aviazione: questa si impose solamente, poco per
volta, con la dura realtà dei fatti»57.
Dunque la guerra aerea trovò dapprima un’accoglienza tiepida, che si fece
calorosa a poco a poco. Sempre Chiesa fa un’altra affermazione di grande importanza, in
cui appare con chiarezza come il limitato utilizzo, all’inizio della Grande Guerra, di forze
aeronautiche, fosse dovuto in primis proprio alla tenacia dei preconcetti nutriti contro di
essa negli ambienti conservatori. Secondo Chiesa, «il maggior numero di inconvenienti
nel periodo di preparazione sono stati dovuti al fatto che i preposti all’aviazione in Italia
– salvo l’eccezione di Douhet – sono stati non degli entusiasti, ma dei trascinati a
rimorchio dell’evidenza man mano maturata»58. Emerge da questo passo il ruolo di
antesignano che ricoprì Douhet, le cui teorie si andranno presto ad illustrare. Gli altri, del
tutto scettici all’inizio, dovettero letteralmente essere trainati “al rimorchio” dai successi
irresistibili che man mano le forze aeree conseguivano, imponendosi come uno strumento
semplicemente irrinunciabile per la guerra moderna.
Certo, al principio della guerra mondiale molte operazioni aeree che oggi
apparirebbero quasi banali presero un sapore avventuroso: così l’opinione pubblica
recepì, ad esempio, un semplice volo di ricognizione che d’Annunzio compì da Asiago a
Trento nel 191759, soltanto un anno prima del famoso volo su Vienna. Ben presto, tuttavia,
apparve chiaro a tutte le parti in conflitto che il ruolo dell’aviazione poteva andare ben al
di là del compito, in sé prezioso, della ricognizione. Gli Austro-ungarici, ad esempio,
presero in considerazione la possibilità di recare offesa dal cielo con il loro progetto volto
a distruggere le opere di bonifica nelle zone di Rovigo e di Ferrara – operazione che fu
poi abbandonata perché apparve troppo pericolosa, dal momento che, tra l’andata e il

57
Citato in A. MASSIGNANI, op.cit., p. 269
58
Ivi, pp. 269-270
59
P. FERRARI (a cura di), La grande guerra aerea (1915-1918), cit., pp. 101 sgg.

22
ritorno, avrebbe impegnato gli aerei per circa trecento chilometri60 –.
Quel che è certo è che l’affermarsi dell’aeronautica nella Grande Guerra fu
caratterizzato da scontri aerei dal sapore puramente tattico-operativo. Gli aerei furono
usati per la prima volta in numero consistente in appoggio ad eserciti sul campo di
battaglia quando la Germania si trovò impegnata, nel 1914, nella guerra sui due fronti
orientale e occidentale61. Successivamente, gli aerei tedeschi sorvolarono Londra nel
maggio del 191562, in quello che fu probabilmente il primo impiego strategico dell’aereo
della storia. Fu l’inizio di una serie di missioni che sarebbero culminate nei raid pesanti
del 191763. I tedeschi furono anche i primi ad introdurre cannoni ad alzo molto elevato,
progettati per colpire i ricognitori nemici, ma non riuscirono ad impedire la ricognizione
fotografica64. Essa era, per molti aspetti, più efficace dell’osservazione diretta, poiché le
fotografie aeree fornivano dati oggettivi più attendibili degli appunti di un osservatore,
soggetto ad errori; inoltre, potevano essere riprodotte in più copie e studiate in modo
dettagliato dagli ufficiali65.
A partire dal 1915, tutti gli schieramenti che nel corso della Prima guerra mondiale
ricorsero al bombardamento aereo si resero ben presto conto di quanto fosse difficile
colpire con precisione gli obiettivi prefissati: un’analisi dei bombardamenti compiuti da
aerei britannici e francesi nei primi mesi del 1915 rivelò che, su 141 missioni, soltanto tre
volte era stato effettivamente colpito l’obiettivo con successo66.
Fin dall’inizio, gli attacchi tedeschi all’Inghilterra avevano provocato forti
reazioni e richieste di rappresaglie, appoggiate, tra gli altri, da importanti testate
giornalistiche e dal famoso scrittore Arthur Conan Doyle67. Ma c’era anche chi si era

60
Ivi, p. 274
61
B. COLLIER, op.cit., p. 61
62
Le città europee iniziavano così a sperimentare la logorante realtà degli allarmi e delle notti
trascorse in rifugi di fortuna. A Parigi, ogni cittadino doveva rispettare una serie di prescrizioni durante i
raid nemici. I proprietari di locali adibiti a rifugio collettivo dovevano assicurare l’accesso a questi spazi
per tutta la durata dell’emergenza, e gli inquilini di primi piani erano invitati ad ospitare i vicini dei piani
superiori in caso di pericolo, poiché i piani alti erano più esposti agli effetti delle bombe. A Londra, il
governo promosse l’utilizzo delle stazioni della metropolitana come rifugio in caso di attacco.
63
G. FIOCCO, op.cit., p. 21. Oltre all’Inghilterra, gli aerei tedeschi bombardarono anche Parigi
con circa novanta attacchi aerei tra il 1917 e il 1918, che provocarono oltre 200 vittime.
64
Tale tipo di ricognizione avvenne dapprima con macchine fotografiche tenute in mano dagli
aviatori, poi con apparecchi appositi dotati di un alloggiamento predisposto nell’aereo.
65
B. COLLIER, op.cit., p. 72
66
Sui problemi della precisione nei raid cfr. J.M. SPAIGHT, Air Power and the Cities, Londra,
Longmans/Green and Co., 1930, pp. 177 sgg.
67
G. FIOCCO, op.cit., p. 22

23
schierato contro l’ipotesi di reazione, affermando la necessità di non abbassarsi allo stesso
livello dei tedeschi, dal momento che uccidere dei civili innocenti solo per rispondere agli
atti delittuosi tedeschi sarebbe stato crudele. Le polemiche raggiunsero il culmine nel
1917, quando gli attacchi aerei tedeschi divennero sempre più frequenti ed efficaci. A
quel punto, vi furono effettivamente delle ritorsioni: il 14 aprile una squadra di velivoli
francesi e inglesi attaccò Friburgo, provocando a sua volta la morte di alcuni civili. Tale
iniziativa scatenò non poche proteste e malcontenti.
Tuttavia, in Inghilterra iniziava a farsi strada l’idea che una guerra aerea,
sfruttando tutte le potenzialità dell’arma aerea, avrebbe permesso di portare il conflitto
oltre il logorante stallo delle trincee, mettendo fine alla “guerra di posizione” una volta
per tutte. Da quel momento in poi prevalse questa linea, e i raid sulle città tedesche
divennero sempre più frequenti, superando ormai il limite della semplice ritorsione68. In
più, prese presto piede l’idea del bombardiere come arma autonoma, tanto che Lloyd
George nominò un comitato speciale per lo studio della difesa dei cieli; quest’ultimo,
presieduto da Smuts, raccomandò in un rapporto la creazione di un’aeronautica militare
indipendente accompagnata dalle seguenti parole, che riconoscevano ormai la crescente
importanza dell’arma aerea:

«Forse non è lontano il giorno in cui le operazioni aeree, con la loro devastazione dei
territori nemici e la distruzione di centri industriali e popolosi su vasta scala, potrebbero diventare
le principali operazioni di guerra, rispetto alle quali le più tradizionali forme di intervento militare
e navale risulterebbero secondarie e subordinate»69.

L’essenza della teoria di Lloyd George e Smuts era che il controllo di un corpo di
bombardieri strategici avrebbe permesso al governo di condurre azioni di guerra
indipendenti dall’esercito e dalla marina, e che queste azioni si sarebbero potute
dimostrare decisive70. Fu così che, il 1° aprile 1918, venne costituita la Royal Air Force
(RAF), il primo esempio nella storia di forza aerea indipendente.
Un mese dopo, nel maggio del 1918, nacque anche la U.S. Army Air Service

68
Ivi, p. 24
69
Cfr. E. M. EMME, Some Fallacies Concerning Air Power, in “The Annuals of The American
Academy of Political and Social Science”, 1955, p. 14
70
B. COLLIER, op.cit., p. 101

24
americana, che, sotto il comando tattico del colonnello William Mitchell – il quale aveva
le idee chiare sulla strategia e la tattica da applicare –, passò all’offensiva bombardando
e mitragliando i campi d’aviazione e le linee di comunicazione71.

1.3.1. Il contributo dell’aviazione italiana contro gli austriaci

Per tutto il 1915, incontestabilmente, l’Austria-Ungheria ebbe a disposizione


forze aeree nettamente superiori rispetto a quelle italiane: a fronte di 23 squadriglie
italiane, infatti, vi erano ben 48 squadriglie austriache. Ma si trattava di una condizione
di vantaggio che non sarebbe stata destinata a durare a lungo. A partire dal 1916, infatti,
i successi dell’aviazione italiana contro gli austriaci si fecero sempre più palpabili: il 12
febbraio di quell’anno, per la prima volta nel corso di un combattimento, un velivolo
austro-ungarico venne abbattuto dalle forze aeree italiane dell’aviazione da caccia72.
Sempre nel corso del 1916 venne ulteriormente perfezionato e applicato, tanto dagli
italiani quanto dagli austro-ungarici, il principio del cosiddetto bombardamento
strategico. Gli austriaci avevano sottoposto a bombardamento diverse città italiane e gli
italiani risposero con successo con il bombardamento della città di Lubiana il 18 febbraio
1916, sulla quale furono lasciati cadere 1800 kg di bombe73.
Un ulteriore passo in avanti nell’affermazione del ruolo delle forze aeree del
nostro esercito si registrò nel 1917, allorché il generale Cadorna ufficialmente individuò
quelli che, a suo avviso, erano i tre compiti fondamentali e irrinunciabili dell’aviazione,
vale a dire: ricognizione, caccia ed offesa74. La ricognizione, allora, manteneva pur
sempre un ruolo preminente. Tuttavia, tra il 1917 e il 1918 le funzioni di caccia e di offesa
cominciarono ad affermarsi e, sia pur lentamente, a divenire quelle decisive. A partire
grossomodo dalla metà del 1917 le unità aeree di combattimento presero ad intervenire
nella lotta che si svolgeva a terra attaccando bersagli terrestri a bassa quota con bombe,
bombe a mano e mitragliatrici75.
Per comune ammissione degli storici, il 1917 rappresentò una svolta in riferimento
agli equilibri del fronte italiano. Gli Alleati, infatti, avevano fornito all’esercito del nostro

71
Ivi, pp. 104-105
72
Cfr., sul tema, F. PORRO, La guerra nell’aria, Milano, Mondadori, 1995, pp. 85 sgg.
73
Cfr. A. MASSIGNANI, op.cit., p. 206
74
P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., pp. 278 sgg.
75
F. PORRO, op.cit., p. 137

25
Paese aerei particolarmente avanzati dal punto di vista tecnologico – Nieuport 17 e SPAD
S.VII –. Conseguenza di ciò fu la netta superiorità delle forze aeree italiane rispetto a
quelle austro-ungariche. Consapevolezza, peraltro, che non tardò ad affermarsi presso i
protagonisti, se è vero che lo stesso generale Cadorna, in un’istruzione diramata nel
giugno 1917, asseriva trionfante che «l’aviazione che ci sta di fronte è ormai nettamente
inferiore alla nostra»76.
Solo due mesi dopo, nell’agosto 1917, si ebbe la prova effettiva della veridicità di
queste parole. Precisamente dal 17 agosto al 15 settembre, gli austriaci portarono avanti
un’offensiva mediante l’uso di 12 squadriglie da ricognizione, 1 squadriglia di
bombardamento e 4 squadriglie da caccia, congiuntamente a 3 reparti di palloni
aerostatici; quest’offensiva fallì per via, appunto, della netta inferiorità delle forze aeree
austriache rispetto a quelle italiane. Si pensi che, solo dal 16 al 24 agosto, gli aerei italiani
lanciarono circa 100 tonnellate di bombe, provocando la distruzione al suolo di 150 aerei
austro-ungarici77. Durante tutto il periodo di questa offensiva si fronteggiarono 200 aerei
e dirigibili. È accertato che solo nella giornata del 19 agosto 1917 entrarono in azione 229
aerei, che salirono a 261 il giorno successivo e, il 22 agosto, arrivarono ad una cifra
complessiva di 250. Insomma, in tutto il periodo agosto-ottobre 1917, ci si attestò intorno
ai 200 aerei al giorno circa78. Non ci si deve dimenticare, tuttavia, che la superiorità
italiana fu dovuta all’indiscutibile apporto dato da unità francesi, inglesi e americane, le
quali fornirono all’esercito italiano appoggio non soltanto a terra79.
Anche gli austriaci, da parte loro, nonostante le condizioni di svantaggio in cui si
trovavano, non rinunciarono a fare il più largo uso possibile delle loro forze aeree.
Particolarmente aspri furono i combattimenti che videro protagonisti gli austriaci e gli
italiani tra il 10 e il 16 di agosto. Il 12 agosto furono registrati cinque abbattimenti di aerei
italiani; il 15 agosto altri cinque aerei italiani sarebbero caduti sotto il fuoco nemico e,
infine, tra il 18 e il 28 dello stesso mese, vi sarebbero stati altri dodici aerei abbattuti.
Nel corso dell’undicesima battaglia sull’Isonzo le forze aeree austro-ungariche
effettuarono più di mille voli. Nonostante tale dispiegamento di forze, l’aeronautica

76
Cfr. Ivi, p. 139.
77
Cfr. B. DI MARTINO, Guerra aerea. Vicende ed immagini dell’aviazione italiana sugli
altopiani veneto-trentini, Valdagno, Rossato, 1999, pp. 43 sgg.
78
Cfr. F. PORRO, op.cit., pp. 90-91; B. DI MARTINO, op.cit., p. 45
79
Cfr. ivi, pp. 58 sgg.; L. CONTINI, L’aviazione italiana in guerra, Milano, Marangoni, 1974,
pp. 27 sgg.

26
italiana risultò di gran lunga più incisiva: aerei italiani come i Caproni svolsero, in quel
periodo, numerose incursioni, scopo delle quali era anche appoggiare direttamente i
combattimenti a terra.
Man mano che la tecnologia rendeva sempre più efficienti ed affidabili gli aerei,
in concomitanza i dirigibili e i palloni aerostatici perdevano rilevanza. Le loro capacità
ricognitive – e altresì offensive – si rivelarono inevitabilmente inferiori rispetto a quelle
degli aerei a motore. Nel caso in cui il vento, per citare un esempio, fosse rimasto al di
sotto dei 15 metri al secondo, un pallone della capacità di mille metri cubi, benché dotato
di motore, avrebbe potuto consentire un’osservazione per un raggio non superiore a 15-
20 chilometri. Evidentemente, la limitata mobilità di questi mezzi fu, anche solo per la
fase ricognitiva, una delle ragioni del loro ineluttabile declino80.
Anche quella che fu, storicamente, la più cocente disfatta subita dell’esercito
italiano durante la Grande Guerra – la Rotta di Caporetto (ottobre-novembre 1917) –, nota
anche come Dodicesima Battaglia dell’Isonzo, vide un importante ruolo svolto dalle forze
aeree austro-ungariche81. Furono schierate 15 compagnie da ricognizione, 4 da caccia e 1
da bombardamento, oltre, come già si è visto, a 3 compagnie di palloni da parte degli
austro-ungarici. I tedeschi parteciparono con 6 compagnie, dando appoggio agli imperiali.
Nonostante la superiorità dell’aviazione italiana, la disfatta di Caporetto colse di sorpresa
anche le forze aeree del nostro Paese, che a loro volta vennero coinvolte precipitosamente
nella ritirata. È appurato, infatti, che gli aerei dovettero rapidamente tentare di ritirarsi
dagli aeroporti che erano stati travolti dalla potente avanzata austriaca. Essi furono
abbattuti oppure, perlopiù su iniziativa individuale dei piloti, finirono per ritrovarsi
impegnati in combattimenti occasionali82. Le perdite materiali furono ingenti. Stando a
dati statistici forniti dalle autorità italiane, sino al 15 novembre ebbero luogo 70
combattimenti, l’esito dei quali fu l’abbattimento di 39 velivoli avversari83.
Dopo Caporetto, comunque, si segnalano importanti episodi di valore da parte
delle forze aeree italiane. Il 26 dicembre si verificò il bombardamento diurno ad opera

80
P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., p. 281
81
Su Caporetto, sulle sue valenze militari e altresì sulle importanti ripercussioni politiche che ebbe
specialmente in Italia, cfr. P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Milano,
Mondadori, 1999
82
Cfr. R. GENTILLI-P. VARRIALE, I reparti dell’aviazione italiana nella Grande Guerra,
Roma, USSME, 1999, pp. 25 sgg.
83
Cfr. B. DI MARTINO, op.cit., pp. 43 sgg.; L. CONTINI, op.cit., pp. 66 sgg., oltre agli importanti
dati offerti da R. GENTILLI-P. VARRIALE, op.cit., pp. 25 sgg.

27
degli austro-ungarici sulla città di Istrana – bombardamento che fu giustificato come
rappresaglia contro l’incursione che il giorno di Natale era stata fatta sugli aeroporti
tedeschi dalle forze aeree italiane –. Il bombardamento di Istrana suscitò la reazione
italiana, che si tradusse in una battaglia aerea di ampie proporzioni che vide il decollo,
sotto il bombardamento dei nemici, dei caccia tricolori, i quali distrussero dodici aerei
austriaci senza subire alcuna perdita84.
La storiografia è unanime nel sottolineare l’importanza, anche morale, di questo
episodio, che rivelava come l’Italia stesse rialzando finalmente il capo dopo lo scacco di
Caporetto85. Già solo la prima settimana di dicembre, infatti, l’aviazione si distinse nel
colpire le concentrazioni delle truppe avversarie e i loro centri logistici, con l’impiego di
non meno di 250 aeroplani86. Sempre secondo dati offerti da fonti italiane, nel corso
dell’intero 1917 si ebbero non meno di settecento combattimenti aerei, l’esito dei quali
fu l’abbattimento di almeno 190 velivoli austro-ungarici87.
L’appoggio che gli Alleati diedero alle forze aeree del nostro Paese fu
determinante non soltanto dal punto di vista materiale, per via della fornitura di uomini,
aerei, munizioni e strumentazione, bensì anche nella ridefinizione di strategie e
procedure, specialmente per quanto riguardava le attività di ordine ricognitivo.
A partire da fine anno gli austro-ungarici misero mano ad una generale
riorganizzazione del loro esercito, incluse le stesse forze aeronautiche. La strategia che
da allora iniziò a svilupparsi fu quella del bombardamento terroristico, effettuato
nottetempo. Si ricordano le incursioni che il 26 gennaio le unità aeree austro-ungariche
compirono ai danni di installazioni militari italiane a Mestre, Castelfranco Veneto e
Treviso, dove nel complesso furono sganciate oltre 21 tonnellate di bombe88. Operazioni,
queste, in cui giocarono un ruolo importante anche le forze tedesche. Pronta fu la reazione
italiana contro questi atti terroristici: la stazione di Innsbruck venne presa di mira, il 20
febbraio, dall’aeronautica tricolore; quattro giorni più tardi, gli austro-ungarici risposero
attaccando a loro volta gli aeroporti di Trevignano, Castello e Treviso. Il 26 febbraio si

84
Su Istrana e le conseguenze che ebbe cfr. L. CONTINI, op.cit., pp. 137 sgg.
85
Cfr. G. ALEGI, La battaglia aerea di Istrana: 26 dicembre 1917, in “Storia Militare”, n. 5,
Febbraio 1994, pp. 41-48
86
L. CONTINI, op.cit., pp. 138 sgg.
87
P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., p. 284; G.
ALEGI, op. cit., pp. 47 sgg.
88
Ivi, p. 138

28
registrò un’altra offensiva italiana contro Bolzano, Trento, Cles, Calliano e
Mezzolombardo. Come è facile notare, fu un continuo botta e risposta, per cui ad attacchi
di una parte rispondeva la controffensiva dell’altra.
Nel 1918 si verificò una sensibile evoluzione tecnologica e strategica degli aerei
italiani: i Caproni iniziarono sistematicamente a compiere operazioni di bombardamento
anche durante il giorno. Tali missioni diurne venivano svolte in formazione anche
avvalendosi dell’ausilio protettivo della caccia, indizio inequivocabile di una rinnovata
capacità di controllo dell’aria. Va rilevata una sempre più stretta sinergia tra funzione
offensiva e funzione ricognitiva, difatti i bombardamenti svolti di giorno presupponevano
il ricorso alle fotografie, che venivano scattate tanto prima quanto dopo i bombardamenti
stessi; questo consentiva anche di quantificare i danni effettivamente provocati, laddove
in precedenza, durante bombardamenti svolti soprattutto nottetempo, l’effettiva entità dei
danni arrecati rimaneva vaga e, in molti casi, fantasiosa89.
È stato osservato opportunamente come questo impiego sistematico delle forze
aeree contribuisse al delinearsi di un inquietante scenario di “guerra totale”90. Aspetto
totalizzante, quello del conflitto mondiale, che è confermato anche dal diretto
coinvolgimento dei civili in molte occasioni e, per quanto concerne la guerra aerea, con
particolare riferimento ad un episodio significativo, ovvero l’attacco che uno Zeppelin
isolato effettuò su Napoli l’11 marzo. Sul capoluogo campano furono scaricate quasi 7
tonnellate di bombe, con danni ingenti – perfino dal punto di vista psicologico – sulla
popolazione, che ne rimase terrorizzata. Quell’episodio confermò definitivamente che
non vi erano spazi entro i confini nazionali che si potessero ragionevolmente considerare
sottratti al possibile intervento dei nemici91.
In generale, Caporetto fu una dura lezione per tutto l’esercito italiano. Si
procedette subito anche ad una riorganizzazione dell’aeronautica italiana e ad un riassetto
generale anche dei suoi dirigenti. Il Comando Supremo dell’Aeronautica, ad esempio,
assunse la denominazione di Comando Superiore di Aeronautica, al capo del quale fu
posto il generale Bongiovanni. Sempre per effetto e conseguenza della disfatta di
Caporetto, si definirono altresì una serie di norme riguardanti le modalità attraverso cui
sarebbe dovuto essere espletato il servizio di ricognizione, che fino ad allora non era stato

89
Cfr. P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., p. 6
90
Ivi, p. 285
91
Cfr. A. MASSIGNANI, op.cit., pp. 284 sgg.

29
sottoposto a norme severe e si fondava sull’intesa di tipo personale tra i comandi di terra
e quelli aerei92.
Il 1918 fu un anno di intensi scontri aerei, tra cui l’attacco degli austro-ungarici
su Mestre del 12 marzo, il cui obiettivo era la distruzione dei centri abitati93. E proseguiva,
intanto, il solito “gioco” di attacchi e contrattacchi, azioni e rappresaglie. Al
bombardamento di Mestre fece seguito un intensificarsi dei bombardamenti da parte
italiana, sempre con il valido appoggio degli Alleati, che sovente operavano insieme agli
italiani sui Caproni94.
In giugno l’Impero austro-ungarico tentò un’ultima offensiva aerea, ma si
confermò ancora la netta superiorità delle forze aeree italiane. Solo nella prima quindicina
del mese esse abbatterono circa altri 60 aerei nemici95.
Si giunse, così, alla decisiva battaglia del Solstizio (15 giugno 1918), cui le forze
aeree italiane diedero un apporto cruciale. Si stima che per quell’evento bellico fossero
stati predisposti 553 aerei, cui si aggiunsero 100 velivoli alleati (221 caccia, 56
bombardieri, 276 ricognitori, nonché 80 aerei inglesi e 20 francesi)96. Fonti ulteriori,
tuttavia, hanno modificato al rialzo questi dati. Secondo Gentili e Varriale, gli aerei
italiani sarebbero stati non meno di 64797. L’aviazione imperiale, dal canto suo, avrebbe
avuto a disposizione 623 aerei, il che significava una condizione di sostanziale parità con
il nemico98. Il contributo dell’aviazione nella battaglia del Solstizio fu decisivo in quanto
i bombardamenti si concentrarono su obiettivi strategici come ponti e passerelle,
impedendo al nemico il passaggio del Piave. Solo nella prima decina di giugno
l’aeronautica italiana abbatté 5 palloni e oltre 70 aerei austro-ungarici99.
Nella fase terminale della Grande Guerra, insomma, le perdite austro-ungariche –
anche dal punto di vista delle forze aeree – furono ingenti. Ma in quel periodo, in
particolare il 19 giugno, sul Montello perse la vita anche Francesco Baracca, ucciso da

92
L. CONTINI, op.cit., pp. 137 sgg.
93
Cfr. anche la monografia di W. S. FITCH, Wings in the Night. Flying the Caproni Bomber in
the World War 1, Nashville, The Battery Press, 1989, pp. 131 sgg.
94
F. PORRO, op.cit., p. 285
95
Cfr. Ministero della Guerra, L’esercito italiano nella Grande Guerra (1915-1918). Vol. V. Le
operazioni del 1918, Roma, USSME, 1980, pp. 650 sgg.
96
F. PORRO, op.cit., p. 286; L. CONTINI, op.cit., pp. 164-165
97
R. GENTILLI-P. VARRIALE, op.cit., pp. 30 sgg.
98
F. PORRO, op.cit., p. 285; L. CONTINI, op.cit., p. 161. Cfr., inoltre, R. GENTILLI-P.
VARRIALE, op.cit., p. 30
99
Cfr. L. CONTINI, op.cit., pp. 170 sgg.

30
un cecchino austriaco nel corso di uno dei suoi voli. Fu la scomparsa di colui che sarebbe
stato considerato, in assoluto, il più grande asso dell’aviazione italiana e mondiale,
destinato come tale ad entrare nella leggenda100. Anche gli austro-ungarici persero il loro
maggiore “asso”: il tenente Crawford, il quale vantava sino ad allora 32 vittorie in scontri
aerei101.
Secondo una stima complessiva, tra gennaio e giugno 1918 le forze aeree austro-
ungariche avrebbero ingaggiato contro quelle italiane non meno di 1.750
combattimenti102. Fu in quel periodo, anche in seguito alle ingenti perdite subite, che
l’aviazione austro-ungarica iniziò a fare un uso sistematico dei paracadute. Occorreva
escogitare misure che tutelassero la vita degli aviatori, preziosi soldati addestrati, e che
ne rafforzassero il morale. Così, a partire dal settembre 1918, tutti i piloti austro-ungarici
disposero di un paracadute. I documenti a nostra disposizione confermano che vi furono
lanci di emergenza tanto dagli aerei quanto, soprattutto, dai palloni, anche se non di rado
con esito mortale103.
Indiscutibile, nell’ultima fase del conflitto, fu la superiorità delle forze aeree
italiane su quelle austro-ungariche. In diverse occasioni gli aerei italiani effettuarono con
grande successo bombardamenti concentrati su obiettivi strategici e ricognizioni ardite,
spesso anche nelle più lontane retrovie imperiali, e si resero protagonisti di imprese
uniche che ne sancirono una supremazia non solo bellica, ma anche di “immagine”.
Ricordando nuovamente, a tal proposito, il celebre volo su Vienna di d’Annunzio, fu
proprio lo “spirito di cavalleria” degli italiani a rifulgere in quell’occasione. In sostanza,
il messaggio che d’Annunzio intendeva veicolare attraverso i volantini lanciati sulla
capitale, era: avremmo potuto bombardare liberamente la vostra grande città ma non
l’abbiamo fatto, astenendoci dal tenere lo stesso comportamento che gli austro-ungarici
ebbero a più riprese in Italia, allorché non esitarono a bombardare proditoriamente anche
i piccoli centri104. Questo gesto fu, senza dubbio, uno smacco enorme per l’Austria-
Ungheria, e contribuì in parte al rafforzamento di una situazione non propriamente
favorevole per l’Impero.

100
Su Baracca e, in generale, sugli assi dell’aviazione italiana, oltre a tutta la bibliografia
precedentemente citata, cfr. P. MELOGRANI, op.cit., pp. 216 sgg.
101
Cfr. F. PORRO, op.cit., pp. 331 sgg.
102
Cfr. W. S. FITCH, op.cit., pp. 101 sgg.
103
F. PORRO, op.cit., pp. 348 sgg.
104
P. MELOGRANI, op.cit., pp. 193 sgg.

31
1.4. Il potere aereo nel periodo tra le due guerre

La Prima guerra mondiale, come si è visto, diede un impulso decisivo allo


sviluppo dell’aviazione. Ma si sbaglierebbe a ritenere che essa promosse soltanto
l’aviazione militare. Anche l’aviazione commerciale e quella civile trassero beneficio dai
progressi fatti dall’aviazione militare nel corso della Grande Guerra.
Nel maggio 1919 il tenente Albert Cushing Read, aviatore della marina degli Stati
Uniti, effettuò il primo volo transatlantico a tappe, da Terranova105 a Lisbona, a bordo di
un idrovolante Curtiss106. Un mese dopo, i britannici John Alcock e Arthur Whitten
Brown furono protagonisti del primo volo transatlantico diretto senza scalo da Terranova
a Galway, pilotando un bombardiere Vickers Vimy107. Nell’estate dello stesso anno
società inglesi, olandesi, francesi e tedesche offrivano servizi a pagamento di trasporto
passeggeri o posta tra le capitali europee108. Nel 1927 un aereo all’avanguardia, costruito
con una struttura mista di metallo e legno, con un motore di circa 220 cavalli, denominato
“Spirit of Saint Louis” – dalla città americana ove era stato progettato e costruito –,
decollò da New York e giunse a Parigi, accolto da una folla festante, dopo circa 33 ore di
traversata. Il pilota, lo statunitense Charles Lindbergh, entrò nella leggenda
dell’aviazione109. Molti altri sono gli episodi e i protagonisti che si potrebbero menzionare
per evocare i fasti dell’aviazione commerciale e civile dell’epoca. In generale, tutto il
periodo che va dal 1918 agli albori della Seconda guerra mondiale vide il susseguirsi
senza sosta di traversate e trasvolate compiute da aerei che diventavano sempre più
potenti ed affidabili. La trasfigurazione mitologica che aveva accompagnato, rivestendoli
di un’aura di leggenda, i grandi assi dell’aviazione militare durante il primo conflitto
mondiale, accompagnava ora anche le gesta dei protagonisti dell’aviazione civile. Tra
questi vale la pena ricordare anche l’italiano Francesco De Pinedo, con la sua trasvolata
dell’Atlantico del 1927 a bordo del “mitico” idrovolante Savoia-Marchetti S.55,
protagonista di celebri trasvolate oceaniche e simbolo del progresso tecnologico italiano

105
Isola canadese dell’Oceano Atlantico
106
B. COLLIER, op.cit., p. 114
107
Ibidem
108
Ibidem
109
S. M. GRAY, Charles A. Lindbergh and the American Dilemma. The Conflict of Technology
and Human Values, Bowling Green, Bowling Green State University Popular Press, 1988, pp. 12 sgg.

32
nei primi anni del fascismo110. L’aeroplano, nonostante fosse ancora un mezzo rumoroso
e privo di comfort, iniziava ad essere visto come un veicolo utile per viaggi rapidi; e,
benché il primo dirigibile commerciale tedesco di quel periodo, il Graf Zeppelin, avesse
stabilito nuovi livelli di comfort e durata del volo, ormai la reputazione degli aeromobili
stava crescendo inesorabilmente.
Vennero inoltre perfezionati, all’epoca, gli idrovolanti, dove risultati di eccellenza
li raggiunsero gli italiani. Basti richiamare la grande impresa che, in occasione del
decennale della fondazione della Aeronautica Militare Italiana, fu compiuta da due
formazioni di Savoia-Marchetti S.55: la traversata dell’Atlantico in formazione.
Percorrendo oltre 20mila chilometri, questi idrovolanti giunsero da Roma a New York e
fecero ritorno nella capitale italiana. A capo delle squadriglie vi era uno dei gerarchi di
spicco del regime fascista, il generale Italo Balbo.
I grandi progressi compiuti dall’aviazione civile e commerciale, tuttavia, non
furono altro che un interludio fra grandi conflagrazioni belliche. Difatti, dopo la Prima
guerra mondiale e prima dello scoppio della Seconda, alcuni importanti conflitti videro
nuovamente l’aviazione militare in primo piano: la guerra d’Etiopia, la guerra fra Cina e
Giappone e la guerra di Spagna111.
Il periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra fu caratterizzato anche
da una fase di pace forzata nelle relazioni internazionali. In seguito al Trattato di
Versailles del 1919, infatti, si cercò innanzitutto di promuovere il disarmo di tutte le
potenze, per evitare il verificarsi di un nuovo conflitto mondiale. In particolare, le potenze
vincitrici imposero alla Germania delle rigide condizioni112, poiché una Germania
disarmata non avrebbe potuto turbare la pace in Europa per un lungo periodo. I francesi,
seppur non convinti del fatto che, grazie a quella pace, avrebbero ottenuto la sicurezza
cui anelavano, avevano più da guadagnare dall’evitare una guerra piuttosto che dallo
scatenarne un’altra. Gli inglesi apportarono significative riduzioni ai bilanci della marina,
dell’esercito e dell’aviazione, abolirono le difese aeree e ridussero le difese costiere113.

110
Cfr. M. VAN CREVELD, op.cit., pp. 39 sgg.
111
F. DELLA PERUTA, Storia del Novecento, Torino, Loescher, 1991, pp. 116 sgg.
112
Secondo le clausole del Trattato, i tedeschi furono costretti a rinunciare alla maggior parte delle
loro navi da guerra, a più di 15.000 aeroplani, a 27.000 motori per aerei e a tutti i dirigibili. Per sei mesi
veniva fatto divieto ai tedeschi di produrre o importare aeroplani o motori per aerei. Inoltre, dal 1922 al
1926 furono imposti limiti alle dimensioni degli aerei da essi costruiti.
113
B. COLLIER, op.cit., p. 115

33
Ma le speranze di attuare una generale diminuzione degli armamenti furono presto
infrante dal rifiuto, da parte degli Stati Uniti, di ratificare il trattato di pace. Questo causò
la rottura degli impegni contratti dalle potenze vincitrici, tanto che i francesi, preoccupati
per il venir meno di ogni garanzia contro la Germania, decisero di mantenere il loro
esercito e una considerevole forza aerea ad appoggiarlo.
Nel primo dopoguerra conobbe un impulso senza precedenti anche la riflessione
politico-militare circa la portata e gli scopi della guerra aerea. Molti esperti militari e
uomini politici italiani, europei e d’oltreoceano – tra i quali il generale Giulio Douhet –
continuarono ad evidenziare l’importanza dell’aviazione. Produssero, inoltre, importanti
scritti e trattati in cui, da varie angolazioni critiche, venivano esaltate le potenzialità
ancora inespresse e, in generale, il significato della guerra aerea nel contesto delle altre
modalità belliche. L’idea di fondo, sostenuta soprattutto da Douhet, era quella per cui la
guerra aerea avrebbe finito per primeggiare su tutte le altre forme di guerra, assumendo
per certi versi i caratteri di guerra “totalizzante”, e il bombardiere sarebbe diventato
l’elemento risolutore dei conflitti114.

1.4.1. La nascita delle aeronautiche militari

A cavallo delle due guerre si rafforzarono gli insegnamenti appresi sul campo di
battaglia. Questo periodo è considerato come uno dei più fertili nell’evoluzione
dell’aviazione. Le potenze sentirono fortemente la necessità di dotarsi di una propria forza
aerea indipendente, consce del fatto che, da lì in poi, tutte le future guerre sarebbero state
combattute anche in aria. Sicuramente contribuirono alla nascita delle prime aeronautiche
militari anche gli studi di alcuni teorici della guerra aerea, tra cui in particolare l’italiano
Douhet, che sarà approfondito più avanti.
In questo lasso di tempo, inoltre, si susseguirono imprese memorabili, in cui si
distinse anche l’Italia: nel 1926 un monoplano Macchi vinse la coppa Schneider; nel 1930
Italo Balbo volò con 12 idrovolanti Savoia-Marchetti da Orbetello a Rio de Janeiro e, nel
1933, con 24 idrovolanti da Roma a Chicago; nel 1927 Charles Lindbergh compì la prima
traversata dell’Atlantico in aeroplano a bordo dello Spirit of St. Louis, volando da New
York a Parigi in sole 33 ore; nel 1929 il dirigibile tedesco Graf Zeppelin effettuò un volo

114
G. FIOCCO, op.cit., p. 31

34
senza scalo da Friedrichshafen a Tokyo, con a bordo venti passeggeri, in appena quattro
giorni; e ancora il Generale americano Mitchell, con un gruppo di bombardieri, riuscì ad
affondare ben sei navi corazzate115. Il “potere aereo” – o meglio, “dominio dell’aria”, dal
momento che il termine airpower fu introdotto solo all’inizio degli anni Quaranta da
Alexander de Seversky – iniziava così a sviluppare tutte le sue potenzialità e capacità
dimostrando, ancora una volta, di poter fare la differenza.

1.4.1.1. La Luftwaffe

Dopo la sconfitta patita nella Prima guerra mondiale e le durissime restrizioni che
gli Alleati imposero al riarmo tedesco, nel corso degli anni Venti e poi negli anni Trenta,
l’aviazione della Germania crebbe straordinariamente per quantità e qualità, dapprima in
modo clandestino116. Infatti, già a partire dal 1925 venne fondata l’organizzazione
paramilitare denominata “Deutsche Verkehrsfliegerschule”, tramite la quale venne
segretamente avviata nella Repubblica di Weimar la formazione di piloti militari
servendosi degli aerei civili. Questa politica di segretezza fu definitivamente abbandonata
nel momento in cui prese il potere Adolf Hitler; sotto gli auspici del Führer venne
ufficialmente istituita, nel 1935, la Luftwaffe, la nuova forza aerea tedesca, il cui comando
fu affidato a colui che sarebbe divenuto uno dei più importanti gerarchi del futuro Reich:
il delfino di Hitler Hermann Göring117. Come vedremo più avanti, cruciale si rivelò il
contributo che la Luftwaffe apportò, specialmente durante i primi anni del secondo
conflitto mondiale, alla causa tedesca, concorrendo in maniera decisiva al buon esito di
quella che Hitler e gli strateghi del regime nazionalsocialista definirono Blitzkrieg, ovvero
“guerra lampo”118.
Le forze aeree tedesche furono impiegate con successo anche nella guerra civile
spagnola, nel corso della quale ebbero modo di affinare le loro tecniche e sviluppare
ulteriormente i velivoli a disposizione. Così, alla vigilia della Seconda guerra mondiale,

115
B. COLLIER, op.cit., pp. 123-124
116
Cfr. G. DICORATO (a cura di), op.cit., p. 625
117
Sulla discussa figura di Göring, che fu alla fine processato e condannato a morte a Norimberga,
cfr. D. IRVING, Göring. Il maresciallo del Reich, Milano, Mondadori, 1989, e A. READ, Alla corte del
Führer. Göring, Goebbels e Himmler. Intrighi e lotta per il potere nel Terzo Reich, Milano, Mondadori,
2006
118
B. COLLIER, op.cit., pp. 134 sgg.

35
la Luftwaffe risultava essere l’aviazione più potente al mondo: nel 1939 si calcola che
contasse oltre 4mila aerei operativi, di cui circa 1.200 bombardieri, 350
cacciabombardieri a tuffo, circa 800 caccia, 400 caccia pesanti e oltre 450 velivoli da
trasporto. Il personale in essi impiegato contava, includendo anche i tecnici di terra, non
meno di due milioni di uomini119. Tutte le formazioni operative e unità dalla Luftwaffe
erano organizzate in quattro flotte aeree, denominate Luftflotte, indicate rispettivamente
con i numeri 1, 2, 3 e 4120. Ciascuna delle Luftflotte era composta tanto da formazioni
operative quanto da formazioni direttive, e ognuna di esse aveva il compito di inviare in
una determinata area specifiche unità operative con tutti i mezzi e i rifornimenti del
caso121.
Va detto che l’effettiva capacità distruttiva della forza aerea nazista fu enfatizzata
anche da un’efficace propaganda messa a punto dal regime, che indusse non di rado gli
stessi nemici a sopravvalutarne la pericolosità122.

1.4.1.2. La Royal Air Force

Istituita nel 1918 in seguito alla fusione dei Royal Flying Corps con lo scopo di
bombardare la Germania, la Royal Air Force è la forza aerea indipendente più antica al
mondo. Fu verosimilmente la più potente tra le forze armate britanniche della Seconda
guerra mondiale, ed è ancora oggi la quinta forza aerea in tutto il mondo. Essa dimostrò
in più occasioni il valore di un servizio aereo indipendente piuttosto che subordinato a
quelli di mare e di terra, per esempio nella Battaglia d’Inghilterra del 1940 o negli efficaci
bombardamenti sulla Germania. Alla fine della Prima guerra mondiale, la forza aerea
inglese aveva già acquisito esperienza e capacità nella difesa nazionale, nella
cooperazione militare e, limitatamente, nel bombardamento strategico. La RAF conobbe
poi un poderoso sviluppo nel corso degli anni Trenta, quando, cioè, era ripresa senza
mezzi termini la corsa agli armamenti in tutta Europa: vennero incrementati gli squadroni,
predisposte ingenti riserve, costruiti ulteriori bombardieri e create le cosiddette shadow
factories, che sarebbero potute essere rapidamente convertite in fabbriche di produzione

119
E. R. HOOTON, Luftwaffe at War. Gathering Storm (1933-1939), Londra, Allan, 2007, p. 24
120
B. COLLIER, op.cit., p. 161
121
T. D. CROUCH, op.cit., pp. 39 sgg.
122
R. G. GRANT, Il volo. 100 anni di aviazione, Novara, De Agostini, 2003, p. 176

36
di aeromobili in caso di guerra123.
Durante la Seconda guerra mondiale, la RAF svolse un ruolo fondamentale
soprattutto in funzione difensiva, allorché essa assunse il compito di difendere i cieli della
Gran Bretagna contro la Luftwaffe tedesca nel 1940; se i tedeschi non arrivarono ad
invadere la Gran Bretagna, fu certamente grazie alla grande opera difensiva della sua
forza aerea. Del resto, l’assoluta crucialità del contributo apportato dalle forze armate
britanniche fu riconosciuta dallo stesso premier anglosassone, Winston Churchill, il
quale, in un celebre discorso tenuto alla House of Commons nell’agosto 1940, dopo che
il pericolo dell’invasione germanica era stato sventato, disse, con una delle sue efficaci e
taglienti formule: «Mai, nel campo dei conflitti umani, così tanti dovettero così tanto a
così pochi»124.
Ma la Royal Air Force non si distinse esclusivamente per funzioni difensive; non
meno rilevanti, infatti, furono anche gli usi offensivi dalla forza aerea. L’attività svolta in
particolare dal Bomber Command diede impulso ad un capillare bombardamento
strategico ai danni della Germania. Ricordiamo che il Bomber Command venne
appositamente istituito nel 1936 e che, nel corso del secondo conflitto mondiale, effettuò
quasi 400mila voli, colpendo obiettivi militari nonché città e centri industriali della
Germania e, in generale, dei territori che la Wehrmacht e i suoi alleati occupavano.
Ancora una volta è la lezione di Douhet che, seppur implicitamente, continua ad
echeggiare da questi eventi. Gli attacchi, infatti, furono prevalentemente notturni ed è
evidente che essi furono organizzati anche con lo scopo di piegare la società civile. Ciò
si evince in particolare dalle incursioni ai danni di Dresda e Amburgo, che ebbero luogo
mediante una strategia di attacchi a tappeto condotti nottetempo che si rivelarono
particolarmente efficaci proprio per l’estrema e meticolosa precisione con cui le tecniche
di bombardamento della RAF vennero attuate125.
L’efficacissima funzione difensiva messa in atto nel corso della Battaglia
d’Inghilterra del 1940 gettò le premesse per una non meno efficace, quantunque silenziosa
e, all’apparenza, inoperosa, attività di difesa svolta dalla Royal Air Force negli anni della
Guerra Fredda. La RAF, in quel periodo, si fece carico eminentemente della difesa della
Gran Bretagna e, in generale, dell’Europa continentale contro potenziali attacchi da parte

123
J. A. OLSEN, Global Air Power, Washington, D.C., Potomac Books, Inc., 2011, p. 24
124
J. BUCKLEY, The RAF and Trade Defence (1919-1945), Londra, Ryburn, 1945, pp. 199 sgg.
125
Ivi, pp. 206 sgg.

37
delle forze armate del blocco socialista. Il deterrente nucleare del Regno Unito, inoltre,
fu in larga misura mantenuto proprio dalla RAF126.
Si conta che, al principio del secondo conflitto mondiale, in termini di consistenza
numerica la Royal Air Force fosse circa la metà della Luftwaffe127, ma difficilmente
uguagliabile fu il livello di integrazione che essa seppe mantenere con le altre forze
armate di terra e di mare; gli inglesi furono fautori non già dell’assoluto e unilaterale
primato delle forze aeree, bensì, piuttosto, dell’integrazione e sinergia armonica di tutte
e tre le forze armate: aeree, terrestri e marittime128.

1.4.1.3. La Regia Aeronautica

All’inizio della Seconda guerra mondiale, tra le principali potenze dell’Asse,


l’Italia era quella che certamente contava i mezzi minori, tanto in termini di uomini quanto
in termini di strumenti. Basti pensare che la Luftwaffe contava circa due milioni di
uomini, mentre la Regia Aeronautica disponeva di poco più di 100mila effettivi e gli aerei
effettivamente adibiti al combattimento non erano forse più di 2mila129. Situazione
singolare se si considera che l’aviazione italiana, nel corso del primo conflitto mondiale,
aveva conosciuto un notevolissimo sviluppo ed era stata considerata, almeno fino alla
metà degli anni Trenta, come una delle migliori al mondo. Tuttavia, a causa della
concorrenza delle altre aviazioni, queste caratteristiche d’avanguardia furono perse
dall’Italia.
Sul piano strettamente storico-cronologico ricordiamo che la Regia Aeronautica
fu, insieme alla Regia Marina e al Regio Esercito, una delle tre forze armate del Regno
d’Italia, e che essa venne istituita con apposito decreto regio nel 1923. Fino a tutto il
periodo antecedente alla Seconda guerra mondiale, come già detto, l’aviazione italiana fu
considerata all’avanguardia a livello mondiale. Vi sono autori, infatti, che sostengono che
l’Italia abbia contribuito in maniera decisiva a quella che è stata definita “l’età dell’oro”
dell’aviazione: ci si riferisce in particolare alle crociere aeree compiute dagli Italiani, alla

126
Ivi, pp. 303 sgg.
127
Cfr. G. DICORATO, op.cit., pp. 133 sgg.
128
Cfr. ivi, pp. 469 sgg.
129
Per un quadro d’insieme cfr. P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del
Novecento, cit.

38
loro partecipazione alla Coppa Schneider130 e agli impieghi strettamente militari
dell’aeronautica italiana nel corso della Guerra d’Etiopia (1935-1936) e della Guerra
civile spagnola (1936-1939), ove la forza aerea diede il suo contributo al successo della
fazione antirepubblicana tramite l’Aviazione Legionaria, costola appositamente costituita
per dare sostegno alle truppe guidate da Francisco Franco131.
Purtroppo, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale le forze armate italiane
non erano assolutamente pronte ad affrontare un conflitto di tale portata; la Regia
Aeronautica, poi, si presentava decisamente debole a livello di risorse, uomini e mezzi.
Nonostante dunque i suoi successi e le sue eccellenti prestazioni nel periodo tra le due
guerre, l’industria aeronautica italiana non era stata in grado di rimanere al passo con le
altre potenze.

1.4.1.4. L’aeronautica militare sovietica (Voenno-vozdušnye sily)

Al principio della Seconda guerra mondiale, si conta che l’aviazione sovietica


fosse, sul piano quantitativo-numerico, la più grande del mondo132. Fu fondata – come
del resto molte delle forze militari aeronautiche europee – nel corso della Prima guerra
mondiale, nel 1918, e rimase operativa fino al 1991, anno di dissoluzione dell’Unione
Sovietica. Come si è detto, dal punto di vista degli apparecchi questa forza armata fu la
più grande del mondo fino a tutti gli anni Trenta: si conta che gli apparecchi a sua
disposizione oscillassero tra i 10mila e i 15mila. Vastissimo, inoltre, era l’impiego delle
risorse umane: non meno di quattro milioni, se oltre ai soldati in pianta stabile si
considerano anche i riservisti che venivano coscritti per un periodo di 24 mesi133.
L’aviazione russa si articolava in cinque comandi dotati di una loro autonomia: la
cosiddetta aviazione di prima linea o aviazione frontale; l’aviazione strategica,
denominata anche aviazione a lungo raggio; la guardia nazionale, ovvero il comando più
importante dell’aviazione; l’aviazione della Marina o aviazione navale e, da ultimo,
l’aviazione dell’esercito o aviazione da trasporto134.

130
F. PRICOLO, La Regia Aeronautica nella Seconda Guerra Mondiale, Milano, Longanesi,
1991, pp. 113 sgg.
131
Ivi, pp. 139 sgg.
132
G. DICORATO (a cura di), op.cit., p. 545
133
Ivi, pp. 173 sgg.
134
Ivi, pp. 301 sgg.

39
Gran parte degli aeroplani a disposizione delle forze aeronautiche russe
appartenevano all’aviazione frontale, che ne aveva un numero non inferiore a 3mila. La
concezione russa dell’aviazione non prevedeva l’unilaterale e assoluto primato delle forze
aeree sulle forze militari terrestri e navali, bensì, al contrario, la stretta cooperazione e
sinergia di tutte e tre le dimensioni, con quella aerea però sempre subordinata alle altre
due. Infatti, i circa 3mila aeroplani a disposizione dell’aviazione frontale avevano il
compito di fornire supporto alle truppe di terra oltre che contrastare la contraerea e,
naturalmente, distruggere l’aviazione nemica. Dato che l’Unione Sovietica si estendeva
come un vero e proprio impero, la prima linea era a sua volta suddivisa in una serie di
sottocomandi che corrispondevano ad altrettante forze aeree, stabilite in altrettanti Paesi
facenti parte dell’Unione Sovietica (Bielorussia, Ucraina, Georgia, etc.).
La dimensione di supporto difensivo della prima linea era poi integrata dalla
funzione offensiva svolta dal secondo dei comandi autonomi dell’aviazione russa,
l’aviazione strategica, che si articolava a sua volta in tre sottocomandi ulteriori: due di
questi erano localizzati nei pressi del fronte occidentale; un altro, invece, spostato vero il
fronte orientale135. Si ritiene che allo scoppio della Seconda guerra mondiale l’aviazione
strategica si avvalesse di circa 1000 unità. Il terzo dei corpi autonomi, nonché quello
fondamentale, era la guardia nazionale, da cui dipendevano tutte le unità superficie-aria.
Vi era poi l’aviazione navale, che si avvaleva di oltre 70mila uomini e di circa 12mila
aeroplani e che agiva appunto in stretta sinergia con le forze di mare. Infine, quinto ed
ultimo dei corpi autonomi, l’aviazione dell’esercito, il cui compito era principalmente
quello di fornire assistenza per il trasporto di truppe e riserve strategiche e, in generale,
di svolgere le attività logistiche necessarie136.

1.4.1.5. L’aviazione giapponese

Finora abbiamo considerato esclusivamente, tra le forze aeree che svolsero un


ruolo determinante nella guerra mondiale, le nazioni occidentali. Ma che dire
dell’Oriente? Occorre fare riferimento a quella che è stata la maggiore potenza orientale
della Seconda guerra mondiale, vale a dire il Giappone. È noto che il Giappone si schierò

135
Ivi, p. 139; B. COLLIER, op.cit., pp. 318 sgg.
136
Cfr. G. DICORATO (a cura di), op.cit., pp. 131 sgg.

40
a fianco delle potenze dell’Asse nel dicembre 1941, quando già da parecchi anni era in
corso il conflitto con la Cina. Ciò non è casuale in riferimento alla guerra aerea e alle
forze militari: fu proprio in seguito al conflitto con la Cina che l’aviazione militare
nipponica conobbe uno sviluppo straordinario. Oltre alla Cina, il Giappone si vide
coinvolto anche nel conflitto con l’Unione Sovietica, quando quest’ultima gli dichiarò
guerra nel 1945. L’evoluzione dell’aeronautica militare giapponese, infatti, si caratterizza
in quegli anni proprio per la messa a punto e l’impiego di modelli da combattimento in
primis in grado di operare in climi estremamente rigidi e, in generale, dotati di autonomia
ridotta. Sta di fatto che nel 1941, nel momento in cui il Giappone entrò in guerra al fianco
delle potenze dell’Asse, i velivoli a disposizione dell’Esercito erano circa 1.500, dislocati
tra varie aree: Giappone, Cina, Filippine, Manciuria e Siberia137.
Gli anni Trenta furono un periodo di grande rivolgimento all’interno
dell’aeronautica militare giapponese. Il Paese trasse ispirazione soprattutto
dall’esperienza svolta all’estero da molti militari giapponesi e fu così che la forza
aeronautica del Giappone divenne imponente e, soprattutto, incentrata sul principio della
sinergia e cooperazione tra forze navali e forze aeree. Si può parlare, in proposito, di una
vera e propria forza aeronavale, essendo talmente stretti i rapporti tra forze aeree e forze
marittime che ben difficilmente si sarebbero potuti considerare separatamente. Nel 1941
la marina giapponese aveva a disposizione nove portaerei, sulle quali erano imbarcati
oltre 400 aeroplani, articolati in 5 squadre d’attacco. L’Esercito imperiale giapponese
contemplava, al suo interno, l’aeronautica, dunque quest’ultima non era una forza armata
autonoma.138
Man mano che gli anni passarono, tuttavia, il ruolo che le forze aeronavali
giapponesi svolgevano in seno alla guerra divenne sempre più limitato. La pressione
esercitata dagli statunitensi, portando all’affondamento di molte delle portaerei
giapponesi, relegò di fatto l’aviazione navale ad un ruolo sempre più secondario. Fu anche
per questa ragione che, specialmente verso la fine della guerra, si moltiplicarono i gesti
disperati dei cosiddetti kamikaze.

137
Ivi, p. 565.
138
Cfr. H. SAKAIDA, Japanese Army Air Force Aces (1937-1945), Oxford, Osprey, 1997, pp. 39
sgg.

41
1.4.1.6. La United States Army Air Force

Durante l’intero svolgimento del secondo conflitto mondiale l’aviazione


statunitense non fu mai indipendente: ritroviamo qui un dualismo per certi versi simile a
quello che abbiamo visto a proposito del Giappone. Da un lato, infatti, vi era un’aviazione
di Marina che era parte integrante della United States Navy; dall’altro lato, vi era una
United States Army Air Force, che era invece parte integrante dell’Esercito139.
Per paradossale che ciò possa apparire, gli Stati Uniti furono alquanto lenti nel
promuovere un’aeronautica militare autonoma, nonostante essi, storicamente, fossero
all’avanguardia in tale campo grazie alle pionieristiche scoperte dei fratelli Wright140.
Certamente gli Stati Uniti furono, tra le nazioni intervenute nel corso della Prima guerra
mondiale, una delle più evolute dal punto di vista militare e tecnologico. Eppure la loro
forza aeronautica, a quel tempo, era in uno stato di sviluppo ancora embrionale. Ben
pochi, infatti, furono gli aerei che realizzarono; per giunta, questi velivoli venivano molto
spesso costruiti in base a licenze rilasciate dal Regno Unito141. E non è tutto: abbiamo
avuto modo di vedere come, sia negli scritti dei teorici sia nella prassi operativa
dell’aeronautica della maggior parte delle nazioni europee, le forze aeree venissero ben
presto configurandosi alla stregua di una forza militare autonoma e addirittura preminente
rispetto alle altre forze armate. Gli Stati Uniti, invece, da questo punto di vista rivelarono
un trend inverso: si dovrà attendere addirittura il 1947, dunque il termine del secondo
conflitto mondiale, affinché l’aeronautica si costituisca una forza armata indipendente.
Ad ogni modo, specialmente nel corso degli anni Trenta, gli Stati Uniti si resero
sempre più conto dell’assoluta indispensabilità per la guerra contemporanea di una forza
aerea competitiva e ben organizzata; ecco allora per quale ragione, in quel periodo,
l’aeronautica statunitense compì passi da gigante. L’ottima qualità dei caccia che gli
americani seppero progettare si rivelò quantomeno paragonabile, se non superiore, agli
omologhi realizzati dalle aeronautiche delle principali nazioni europee. Gli Stati Uniti si
collocarono in una posizione nettamente avanzata specialmente per quanto riguardava la
costruzione di bombardieri con funzionalità strategiche (in ciò, comunque, si deve

139
G. DICORATO (a cura di), op.cit., pp. 411 sgg.
140
Cfr. R. G. GRANT, op.cit., p. 76
141
G. DICORATO (a cura di), op.cit., pp. 411 sgg.

42
ravvisare ancora una volta l’influsso dell’aeronautica britannica)142.
Ma se apprezzabili furono i progressi che l’aeronautica statunitense conobbe nel
corso del primo decennio degli anni Trenta, addirittura straordinari furono i suoi
avanzamenti nel triennio 1939-1941. Un così formidabile sviluppo riguardò in primis la
forza aerea dell’Esercito statunitense, la United States Army Air Force143. Si consideri,
infatti, che se al principio del 1939 gli Stati Uniti contavano circa 2.500 aerei e 20mila
uomini, nell’estate del 1941 i militari impiegati erano divenuti oltre 150mila. Per quanto
concerne il numero dei velivoli, questo era salito a 7mila144. Al principio degli anni
Quaranta, gli americani potevano vantare autentici velivoli d’avanguardia come il Bell P-
39 Airacobra, il Curtiss P-40, il North American P-51 Mustang e il bombardiere a lungo
raggio Boeing B-17 Flying Fortress145.
Gli Stati Uniti, naturalmente, erano anche una potenza marittima, dato che
l’oceano lambisce entrambi i lati, Est ed Ovest, del Paese. Ciò spiega per quale ragione –
in maniera non dissimile dai giapponesi – cercassero di sviluppare una peculiare sinergia
tra forze navali e forze aeree e si impegnassero, per questo, nella costruzione di grandi
portaerei. Tra le più famose: USS Enterprise, USS Yorktown, USS Ranger, USS
Saratoga, USS Lexington146.

142
R. G. GRANT, op.cit., pp. 178 sgg.
143
G. DICORATO (a cura di), op.cit., p. 568
144
M. VAN CREVELD, op.cit., pp. 173 sgg.
145
R. G. GRANT, op.cit., p. 202
146
Ivi, p. 171

43
CAPITOLO SECONDO

2. TEORICI E DOTTRINE DEL POTERE AEREO

2.1. Teorici e dottrine della guerra aerea

I progressi tecnologici dell’aviazione militare portarono ad un ripensamento


complessivo del concetto stesso della guerra: le forze aeree diventavano esse stesse il
nucleo fondamentale della guerra contemporanea. Inoltre, il crescente dibattito sulla
relazione tra tecnologia e dottrina – chi viene prima? Chi delle due influenza l’altra? –
vide contrapporsi numerosi studiosi della guerra aerea. Molti di questi si espressero in
favore del primato della dottrina sulla tecnologia, poiché compito della ricerca
tecnologica è quello di trovare soluzioni tecniche adatte a raggiungere gli scopi
individuati dalla dottrina e di saperle poi adeguare e sviluppare, a seconda delle esigenze,
nel corso delle operazioni belliche; nessun conflitto è uguale al precedente poiché in
ognuno si distinguono necessità diverse, pertanto la tecnologia deve andare di pari passo
con le indicazioni strategiche della dottrina147.
Comunque, l’idea secondo cui, all’interno della guerra “totale”, le forze aeree
avrebbero dovuto avere un ruolo sempre più decisivo, non fu soltanto una persuasione
dettata dalla concreta pratica bellica, ma anche un assunto elaborato teoricamente da vari
autori. La guerra aerea fu, infatti, oggetto di approfondite teorie e polemiche accanite, che
si tradussero in alcuni dei più importanti testi che la teoria della guerra contemporanea
abbia prodotto. Gli autori – o anche “teorici della guerra aerea” – che con i loro studi
hanno contribuito allo sviluppo della dottrina del potere aereo, sono stati spesso
emarginati al loro tempo, e il valore della loro riflessione è stato compreso ed apprezzato
soltanto diversi anni dopo. Di questi si tratterà nei paragrafi che seguono.

147
Un chiaro esempio di quanto affermato è riscontrabile nell’evoluzione della tecnologia e del
ruolo dell’aeroplano vista nei paragrafi precedenti: da semplice mezzo di ricognizione complementare ai
palloni aerostatici e con scarse dotazioni tecniche nel periodo pioneristico, a mezzo in grado di lanciare
bombe rudimentali, fino a mezzo con ottime capacità e prestazioni in quanto a velocità, raggio d’azione ed
elevazione, in grado di apportare un decisivo contributo allo svolgimento di una guerra, al pari del potere
terrestre e navale. Come vedremo, poi, durante la Seconda guerra mondiale il potere aereo dimostrerà
appieno la sua forza strategica autonoma ed essenziale.

44
2.2. Giulio Douhet e la teoria del dominio dell’aria

Un fervente sostenitore dell’arma aerea, nonché della predominanza della dottrina


sulla tecnologia, fu il generale Giulio Douhet (1869-1930), uno dei più grandi strateghi
italiani di tutti i tempi – benché, come spesso accade in questi casi, la sua grandezza non
sempre fu riconosciuta in vita148 –. Le elaborazioni teoriche di Douhet sull’importanza
del dominio dell’aria non nacquero da una riflessione puramente astratta, ma derivarono
dall’osservazione diretta delle cose militari. Egli, infatti, era un ufficiale del genio militare
oltre che un ingegnere; laureatosi presso il Politecnico di Torino, da subito mostrò un
interesse persistente nei confronti della problematica puramente tecnologica del volo,
arrivando a considerare la possibilità di applicazione del volo alla guerra. In giovane età,
quando ancora era tenente, nel corso della guerra libica del 1911, egli aveva assistito al
primo impiego bellico di aeromobili italiani, che diede luogo a quelli che sono considerati
i primi bombardamenti aerei della storia, e fu incaricato di stendere alcuni rapporti tecnici
sull’aviazione italiana nel corso del conflitto149. Anche successivamente, durante la
Grande Guerra, Douhet si occupò di redigere alcune relazioni tecniche, in particolare sui
bombardamenti aerei che gli austriaci avevano compiuto su Veneto e Lombardia,
riguardo ai quali ci ha lasciato un parere molto dettagliato150.
Frutto di questa prolungata riflessione a contatto con alcuni dei più rilevanti eventi
bellici del Novecento, fu la sua opera più importante: Il dominio dell’aria, pubblicata nel
1921 e considerata all’unanimità un classico del pensiero militare moderno, più volte
tradotta in varie lingue e discussa criticamente da molti autori. Il “dominio dell’aria” di
cui Douhet parla non è soltanto una locuzione per definire una strategia militare, ma rivela
un’acuta intelligenza politica di come si andassero trasformando i rapporti bellici del
mondo contemporaneo. Ricollegandosi ad intuizioni che già autori come Lloyd George e
Smuts avevano elaborato nel corso della Prima guerra mondiale, egli riteneva fosse
oramai imminente il periodo in cui le forze aeree si sarebbero dovute svincolare dal ruolo
di mero sussidio fin lì svolto per divenire la forza militare decisiva, conseguendo in piena

148
Cfr. M. PIVA, La tomba dimenticata di Giulio Douhet, in “Aeronautica”, n. 3, 2008
149
Cfr. A. D. HARVEY, Bombing and the Air War on the Italian Front (1915-1918), in “Air
Power History”, n. 5, 2000, pp. 112 sgg.
150
Tutti gli studi dedicati all’aeronautica di Douhet sono stati ristampati, congiuntamente alla sua
opera principale dal titolo Il dominio dell’aria, nella silloge G. DOUHET, Il dominio dell’aria e altri scritti,
Roma, Aeronautica Militare, Ufficio Storico, 2002

45
autonomia risultati fondamentali per la vittoria151. Nell’ambito di un conflitto bisognava
perseguire, quindi, la superiorità aerea tramite la conquista della cosiddetta “terza
dimensione”, ovvero l’aria, dove il potere aereo avrebbe potuto esprimere al massimo
tutta la sua forza strategica.
Divisa in quattro parti, l’opera in oggetto metteva in risalto quale fosse “la nuova
forma della guerra” a seguito della rivoluzione tecnologica dell’aeronautica. In
particolare, secondo Douhet, il dominio dell’aria come caratteristica saliente della
potenza vincitrice, portava con sé una serie di conseguenze estreme. Dominare l’aria – si
legge testualmente in Douhet –,

«vuol dire mettersi in grado di esplicare contro il nemico azioni offensive di un tale ordine
di grandezza, superiore a tutte quelle che mente umana poté immaginare; vuol dire mettersi in
grado di tagliare l’esercito e la flotta nemica dalle loro basi, impedendo loro non solo di
combattere, ma di vivere; vuol dire proteggere in modo sicuro e assoluto tutto il proprio territorio
e il proprio mare da tali offese, mantenere in efficienza il proprio esercito e la propria flotta,
permettere al proprio Paese di vivere e di lavorare nella tranquillità più completa; vuol dire,
insomma: vincere»152.

Dominio dell’aria significava una guerra totale, senza limiti, che tuttavia portava
con sé una serie di implicazioni che destarono non poco scandalo presso coloro che, per
primi, recensirono il trattato del Generale italiano153. Tutti i concetti e i principi
fondamentali della guerra tradizionale, in virtù dell’intervento delle forze aeree, uscivano
rivoluzionati e stravolti. Il concetto stesso di “campo di battaglia” – per fare un esempio
particolarmente significativo – perdeva completamente i suoi connotati tradizionali e si
disponeva, sosteneva il Generale, a ricevere significati completamente nuovi. Il campo di
battaglia delle guerre del futuro, infatti, sarebbe stato limitato esclusivamente dai confini
delle nazioni belligeranti154. Era, questo, il concetto di “guerra totale” che molti altri
scrittori militari e politici avrebbero poi teorizzato nel corso del Novecento, anche sulla

151
Per un quadro d’insieme del pensiero di Douhet, cfr. B. COLLIER, op.cit., pp. 123 sgg. Inoltre,
un’efficace caratterizzazione critica della personalità, della biografia e del pensiero di Giulio Douhet è
contenuta nella voce di G. ROCHAT, Giulio Douhet, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 1992, vol.
41, p. 503
152
G. DOUHET, op.cit., p. 16
153
Cfr. B. COLLIER, op.cit., p. 123; G. ROCHAT, op.cit.
154
G. DOUHET, op.cit., pp. 20 sgg.

46
scia delle suggestioni ricavate dal trattato di Douhet, ma non sempre citandolo come
sarebbe stato doveroso155. Guerra totale, per Douhet, significava una guerra che
condizionava tutti gli aspetti della società civile, nessuno escluso; ragion per cui veniva
meno quella separazione tra vita civile e vita militare, zone di guerra e zone sottratte alla
guerra, che la tradizione militare e strategica assumeva come indiscussa. L’intero spazio
sociale, geografico e urbano diveniva potenzialmente scenario di operazioni belliche. La
rilevanza di queste riflessioni sta nel fatto che, come si è anticipato, esse trascendono di
gran lunga l’aspetto puramente strategico e, sia pure implicitamente, formano una visione
propriamente politica della nuova guerra in quanto “guerra totale” o, come anche la
definiva Douhet, “guerra integrale”156.
Anche la demarcazione, chiara sino a tutto l’Ottocento, tra civili e militari, veniva
meno nella teorizzazione della guerra contemporanea incentrata sul domino dell’aria. Da
un lato, infatti – osservava Douhet –, tutti i cittadini degli Stati belligeranti sarebbero
divenuti almeno potenzialmente dei combattenti (più tardi si sarebbe detto dei partigiani);
dall’altro lato, proprio per questo, tutti sarebbero stati potenzialmente bersaglio delle
ostilità nemiche. Pertanto il bombardamento di case, fabbriche, officine, etc. sarebbe
stato, da quel momento in poi, un aspetto essenziale e imprescindibile della guerra
contemporanea. Ecco allora per quale ragione alcuni autori, tendenzialmente critici nei
confronti di Douhet, hanno parlato della teorizzazione di una vera e propria forma di
“terrorismo di Stato”157. Douhet, in effetti, arriva a teorizzare nella forma più cruda ed
estrema il realismo politico, disinteressandosi senz’altro del diritto internazionale
umanitario: è lui ad affermare che la capacità di coinvolgere e sottoporre i civili alla
guerra rappresenta la chiave di volta della vittoria. Scrive Douhet: «Chi bombarda le città
meglio e prima dell’altro, avrà ragione dell’altro”»158. Si è parlato, a questo proposito,
con tono fortemente riprovatorio, di un Douhet “apologeta del terrorismo di Stato”159.
Senza prendere posizione su questo punto, sta di fatto che, quantomeno implicitamente,
si consolida in Douhet una chiara visione di una guerra contemporanea che fa venir meno

155
Sull’importanza del pensiero militare di Giulio Douhet nel corso del Novecento cfr. anche C.
JEAN, Guerra, strategia e sicurezza, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 35 sgg.
156
Sul concetto di “guerra integrale” resa possibile dal potere aereo, cfr. G. FINIZIO, op.cit., pp.
24 sgg.
157
Cfr. G. ANGELUCCI, op.cit., p. 47
158
Ibidem. Cfr. anche G. DOUHET, op.cit., pp. 7 sgg.
159
Ibidem

47
tutte le demarcazioni e delimitazioni tradizionali: parlare di guerra significava ormai
aprire il campo ad una guerra totale e al conseguente rischio di una devastazione integrale,
che vedeva esposti in primis proprio i civili – come di fatto la Seconda guerra mondiale,
in quanto “guerra civile”, si sarebbe incaricata di dimostrare –.
Al di là della cornice generale di interesse geopolitico, i capisaldi essenziali della
teoria strategico-militare del dominio dell’aria rivendicata da Douhet sono
fondamentalmente tre: concentrazione dello sforzo; autonomia della forza aerea;
combattenti160. Snoccioliamo uno per uno questi tre punti:
- Concentrazione dello sforzo. È stato osservato come, con questo principio,
Douhet avesse osato rovesciare i presupposti essenziali della teoria della guerra che un
secolo prima Carl von Clausewitz aveva delucidato nel suo trattato Della guerra (1832).
L’idea di fondo di Clausewitz era che, in maniera naturale, le azioni belliche difensive
prevalessero rispetto a quelle offensive: concezione, questa, che a lungo aveva ispirato
teorici della guerra e militari. Ora, la concezione “integrale” di guerra che a Douhet viene
ispirata dal dominio dell’aria comporta, appunto, il rifiuto di questo assunto: proprio
grazie alle possibilità offerte dal bombardamento aereo strategico, le operazioni offensive
divenivano sempre più micidiali, risolutive ed efficaci. Un’efficace offensiva la si poteva
ottenere mediante ciò che è stata definita da lui “concentrazione dello sforzo”. Occorreva,
cioè, che si ottenesse «la concentrazione massiccia della potenza di fuoco su determinati
punti decisivi alla conduzione delle ostilità»161. A questa conclusione Douhet approdava
anche per via della constatazione di come, nella guerra contemporanea, azioni veramente
risolutive condotte per terra o per mare divenissero sempre più problematiche e sempre
meno decisive. Anche per questo, allora, il dominio dell’aria si confermava nel suo ruolo
assolutamente ineludibile.
- Autonomia della forza aerea. Questo punto è già emerso a più riprese in
precedenza. Era convinzione irremovibile di Douhet che le forze aeree non dovessero
essere ridotte al rango di mero sussidio o ausilio rispetto alle forze terrestri e marittime,
ma che dovessero avere una loro autonomia di azione, muovendo dal presupposto per cui
il cielo rappresentava un teatro di operazioni belliche indipendenti rispetto a quelle
terrestri e a quelle marittime. L’aviazione militare, allora, doveva essere impiegata in

160
G. ANGELUCCI, op.cit., pp. 27 sgg.
161
Ibidem

48
missioni specifiche secondo una programmazione di impiego autonoma e, in ogni caso,
inconfondibile e distinta rispetto a quella delle forze armate terrestri e marittime.
- Combattenti. Giungiamo qui, forse, all’aspetto veramente cruciale di tutta la
teorizzazione di Douhet. L’idea della guerra aerea come “guerra totale” o “integrale”
risiede nel fatto che le forze aeree non soltanto acquisivano un rilievo autonomo, ma
divenivano addirittura decisive ai fini della vittoria. Il dominio dell’aria, come già detto,
non aveva limiti né confini, diversamente dal mare e, ancor più, dalla terra; esso si
rivelava un teatro di guerra assolutamente indipendente e per ciò stesso cruciale, su cui
era indispensabile programmare l’offensiva strategica e concentrare gli sforzi. Dominare
l’aria significava estromettere da questo elemento il nemico: letteralmente, come afferma
Douhet, impedirgli di volare, conservando esclusivamente per se stessi tale facoltà. Nella
guerra integrale, l’intera popolazione avrebbe potuto essere coinvolta come soggetto
belligerante attivo e, nel contempo, come bersaglio passivo delle operazioni militari
nemiche. Obiettivi della guerra contemporanea diventavano città, opifici e industrie, così
da spezzare il nerbo della produttività industriale del nemico e le sue risorse economiche,
fiaccando nel contempo – come Douhet osserva con spregiudicato realismo – anche le
risorse morali della società civile. Per raggiungere questo obiettivo nel modo più sicuro
ed efficace, bisognava fare ancora una volta affidamento sul mezzo aereo: solo colpendo
dall’alto in modo strategico, infatti, sarebbe stato possibile distruggere i centri urbani e
industriali e, allo stesso tempo, gettare nella disperazione la popolazione, primo passo per
la resa del nemico162.
Un’altra importante riflessione emerge dal confronto con le concezioni
geopolitiche e militari di von Clausewitz, di cui, ancora una volta, il pensiero di Douhet
appare come l’esatta antitesi163. Clausewitz era ancora fermo all’idea che la guerra fosse,
in fondo, un duello in grande svolto non tra due individui, bensì tra due eserciti. Duello
che si doveva svolgere secondo determinate regole prestabilite, al termine del quale
sarebbe stato subito chiaro chi era il vincitore e chi lo sconfitto. Non è un caso che
Clausewitz, sfiorando il paradosso, arrivasse addirittura ad osservare che la guerra, per
certi versi, è simile ad un gioco, vale a dire ad uno scontro svolto sulla base di regole
esplicite e condivise. Scrive, infatti, che «nella gamma intera delle attività umane, la

162
Sullo spregiudicato amoralismo della teoria della guerra di Douhet cfr. G. ANGELUCCI,
op.cit., pp. 47 sgg. e G. ROCHAT, op.cit., p. 119
163
Cfr. C. JEAN, op.cit., pp. 19 sgg.

49
guerra è quella che più assomiglia al gioco delle carte»164. Douhet, al contrario, si trova a
svolgere le sue riflessioni in un periodo storico che vede una formidabile accelerazione
della tecnologia anche e soprattutto nel campo dei mezzi di offesa. La guerra a carattere
totale prevedeva che non vi fossero “regole cavalleresche” di sorta; per questo, la
problematica del diritto internazionale umanitario è senz’altro messa da parte da Douhet,
che da questo punto di vista pare, piuttosto, un teorico del “terrorismo di Stato”165. La
guerra, allora, non è nulla di simile ad un “gioco”. Al contrario, qualsiasi regola è
suscettibile di essere violata, purché ciò porti alla vittoria. La concezione che Douhet
aveva della guerra era di tipo tecnologico e strettamente scientifico: l’attività bellica era
il frutto di quella che egli definiva “scienza della guerra” – evidentemente memore di
concezioni positivistiche tardo ottocentesche –, ossia della capacità della scienza e della
tecnologia di pervadere e trasformare nel profondo ogni aspetto della vita sociale, ivi
inclusa l’arte militare166.
La fiducia che Douhet ripone nel mezzo aereo è assoluta. Egli non ha dubbi, e
questo convincimento ricorre più volte nelle pagine de Il dominio dell’aria: se l’aviazione
militare venisse adeguatamente sviluppata, dal punto di vista organizzativo, tecnologico
e strategico, di per sé essa sarebbe in grado di assicurare la vittoria. Proprio perché l’offesa
proveniva dal cielo ed era come tale imprevedibile, la difesa era idealmente impossibile.
Le forze di terra, infatti, si muovono con velocità inimmaginabilmente inferiore rispetto
a quella delle forze aeree, e di conseguenza sono destinate non solo a soccombere rispetto
a queste, ma anche a non poter svolgere un’azione contraerea realmente efficace. Pertanto
il destino della guerra contemporanea non si giocava sulla terra, non si giocava nei mari,
bensì quasi esclusivamente nei cieli. Ecco la ragione per cui era fondamentale
impossessarsi del “terzo elemento”, estromettendone l’avversario.
Dagli anni Trenta in poi, dopo la sua morte, Douhet ebbe tanti sostenitori ma
anche tanti detrattori. Tra i sostenitori vi sono coloro i quali hanno apprezzato la sua
straordinaria capacità di intuire l’importanza dell’elemento aereo nel contesto della guerra
contemporanea. Tra i detrattori vi sono solo coloro i quali hanno messo in evidenza la
pressoché totale assenza di remore umanitarie che caratterizzò il pensiero del Generale
italiano. Davvero per lui la guerra non era un gioco che si fondava su regole condivise e,

164
C. VON CLAUSEWITZ, Della guerra, Milano, Mondadori, 2009, pp. 216 sgg.
165
L’espressione, già menzionata in precedenza, è riportata in G. ANGELUCCI, op.cit., p. 47
166
Su guerra e scienza in Douhet cfr. G. ANGELUCCI, op.cit., p. 28

50
soprattutto, eticamente ispirate.
I progressi della tecnologia avevano irrevocabilmente mutato il volto della guerra,
così come i criteri che fino a tempi relativamente recenti erano stati decisivi per stabilire
la vittoria o la sconfitta negli scontri bellici. Scriveva Douhet:

«In ordine al conseguimento della vittoria, avrà certamente più influenza un


bombardamento aereo che costringa a sgomberare qualche città di svariate centinaia di migliaia
di abitanti che non una battaglia del tipo delle numerosissime che si combatterono durante la
Grande Guerra, senza risultati di apprezzabile valore»167.

L’idea della guerra come “duello in grande” in cui si fronteggiano in campo aperto
due eserciti usciva così alquanto ridimensionata. Anche la demarcazione, cara al diritto
internazionale umanitario, tra mezzi bellici leciti e illeciti, legittimi e vietati, perdeva ogni
valore agli occhi di Douhet, il quale aveva assistito, in Africa, all’uso spregiudicato di
armi chimiche.
Molteplici furono le reazioni, sia in positivo che in negativo, che l’opera di Douhet
scatenò. Non soltanto egli si trovò a concordare con alcuni dei più rilevanti teorici della
guerra suoi contemporanei, come Renner e de Seversky, di cui diremo più oltre, ma si
trovò anche ad anticipare le riflessioni che, molti anni dopo, conclusa la Seconda guerra
mondiale, lo scrittore e militare americano Bernard Brodie produsse circa la necessità di
abbinare sistematicamente arma nucleare e vettore aereo (in effetti, se si pensa alle bombe
atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, si fa chiara la giustezza delle teorie di
Douhet: il Giappone fu definitivamente messo in ginocchio proprio grazie alla forma più
estrema di guerra aerea). In aggiunta, le riflessioni di Douhet hanno avuto il merito di
anticipare le analisi che l’economista statunitense Thomas Schelling elaborò al principio
degli anni Sessanta – quasi quarant’anni dopo l’apparizione del trattato di Douhet – circa
la necessità, in guerra, di attuare operazioni punitive secondo una strategia denominata
“contro città” (vale a dire l’indispensabilità di procedere a bombardamenti a tappeto dei
centri abitati, così da spezzare il morale della società civile e indurre quest’ultima a
chiedere al governo la resa).
Un autore come Angelucci si è spinto oltre nell’individuare le suggestive

167
G. DOUHET, op.cit., p. 92

51
ascendenze esercitate su vari autori dal pensiero di Douhet nei decenni successivi.
Opportunamente, egli fa anche il nome del grande giurista e politologo tedesco Carl
Schmitt, che specialmente in opere come Il concetto discriminatorio di guerra168 e Teoria
del partigiano169 sviluppò nuclei tematici molto simili a quelli introdotti da Douhet
riguardo alla guerra totale come caratteristica propria della contemporaneità, dovuta
all’aggiungersi, alle due tradizionali dimensioni della terra e del mare, dell’elemento
dell’aria; per di più, lo stesso Schmitt introdusse la figura ambigua del “partigiano” come
una sorta di tipologia intermedia tra il militare di professione della tradizione e il civile,
proprio con l’intento di mostrare come, nella guerra contemporanea, la demarcazione tra
militari e civili venisse oramai meno170.

2.3. Sostenitori e detrattori del pensiero di Douhet

Le reazioni che gli studi di Douhet hanno provocato sono state, come prevedibile,
ambivalenti. Non vi è dubbio che egli abbia saputo cogliere la profonda portata innovativa
della rivoluzione tecnologica che aveva investito la guerra contemporanea, rendendola
integrale, e che aveva determinato l’ascesa del ruolo dell’aeronautica; tuttavia, non sono
mancati critici sottili, i quali, pur senza negare il valore e l’importanza dell’opera di
Douhet, hanno ritenuto di dover ridimensionare l’enfatizzazione del ruolo cruciale che
l’aviazione avrebbe nel decidere le sorti della guerra. Questi teorici sono stati portati a
muovere delle obiezioni anche rilevanti alle tesi di Douhet. In primis, hanno osservato
come l’aviazione militare, per quanto giochi sempre un ruolo cruciale, molto spesso non
abbia avuto di per sé un’efficacia determinante ed esclusiva. Non sarebbero rari i casi,
cioè, in cui gli attacchi aerei, anche quando riusciti, non abbiano determinato la vittoria,
bensì, al contrario, siano stati piuttosto apripista e prodromi di una serie di azioni belliche
ulteriori, di stampo più tradizionale, condotte via mare o via terra. Paradigmatiche, in
tempi a noi più vicini, le operazioni belliche che hanno avuto luogo durante la Prima
guerra del Golfo in vista della liberazione del Kuwait ad opera di una coalizione di forze
internazionali, e che, appunto, hanno richiesto, dopo l’intervento dell’aviazione militare,

168
C. SCHMITT, Il concetto discriminatorio di guerra, Roma-Bari, Laterza, 2008 (versione
originale Die Wendung zum diskriminierenden, Berlino, Duncker & Humbolt, 1938)
169
C. SCHMITT, Teoria del partigiano, Milano, Adelphi, 2005 (versione originale Theorie des
Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlino, Duncker & Humbolt, 1963)
170
G. ANGELUCCI, op.cit., p. 30

52
quello di forze di mare e di terra171.
Non sono mancati, per contro, pareri opposti, i quali hanno inteso mostrare quanto
altri eventi bellici recenti si siano invece lasciati perfettamente ispirare dalle teorie
elaborate da Douhet parecchi decenni prima. È il caso, ad esempio, della campagna della
NATO contro la Jugoslavia per la liberazione del Kosovo nella primavera del 1999.
L’intervento aereo, secondo questi osservatori, è stato assolutamente decisivo per la
risoluzione del conflitto in chiave antijugoslava. Sicché – afferma l’autore Angelucci –
saremmo qui in presenza di una prova incontrovertibile della validità delle previsioni
elaborate da Douhet, dal momento che – prosegue lo studioso – «fu proprio il potere aereo
a costringere alla resa le forze jugoslave del regime di Milosevic a causa dei ripetuti e
prolungati attacchi che ne avrebbero infranto la volontà e la capacità di resistenza»172.
Ad ogni modo, è indiscutibile che non pochi scrittori militari e strateghi, a
tutt’oggi, continuino a professare la loro ammirazione nei confronti di Douhet e
dichiarino di trarre ispirazione dai suoi scritti: persino alcuni strateghi cinesi, come Qiao
Liang e Wang Xiangsui, hanno avuto modo di parlare, nella seconda metà degli anni
Novanta, della guerra contemporanea come di una “guerra senza limiti” – nozione che,
chiaramente, sarebbe una sorta di riedizione della “guerra totale” teorizzata a suo tempo
da Douhet –, termine che ricorre esplicitamente nelle pagine dei due studiosi cinesi. Altri
autori ancora, pur criticando il “terrorismo di Stato” professato da Douhet, hanno per altro
verso messo in luce le profonde capacità anticipatrici del Generale italiano.
Si potrebbe discutere a lungo su tutte le obiezioni e contro-obiezioni; esse, in ogni
caso, già con la loro stessa presenza, sono conferma della persistente vitalità e rilevanza
delle teorie di Douhet, seppur elaborate in un contesto storico e sociale così lontano da
quello attuale. Anche il successivo timore suscitato dalla minaccia nucleare, a ben
considerare, appare indirettamente una conferma dell’assoluto primato del dominio
dell’aria: i casi di Hiroshima e Nagasaki ne sono la prova inconfutabile.

171
Ibidem
172
Ibidem

53
2.4. Oltre Douhet: Mecozzi, Trenchard, Mitchell

Giulio Douhet non fu certamente l’unico degli scrittori militari che si occuparono
della portata innovativa della guerra aerea. Alcuni di questi proposero concezioni della
guerra aerea per certi versi simili alle sue, pur arrivandovi per strade proprie e con
argomentazioni originali. Abbiamo già avuto modo di osservare come l’opera principale
di Douhet, Il dominio dell’aria, fosse stata tradotta in più lingue. Essa fu discussa, tra gli
altri, dallo scrittore e militare americano William (Billy) Mitchell, con il quale peraltro
Douhet sviluppò una ricca relazione epistolare173. Anche in Gran Bretagna si intrattennero
vivaci discussioni del suo libro; gli inglesi, tuttavia, preferirono seguire le concezioni di
un altro teorico, Sir Hugh Trenchard, che approfondì in particolare il tema del
bombardamento strategico e fu uno dei padri della Royal Air Force.
Fra i tanti aspetti delle concezioni teoriche di Douhet, quello che più stimolò
l’attenzione degli altri teorici, italiani e non, fu – oltre la sua idea per cui la forza aerea
dovesse rappresentare un corpo indipendente in posizione di primato – l’assunto per cui
la funzione offensiva – il bombardamento – fosse il compito principale che spettava
all’aviazione, la quale solo secondariamente poteva essere impiegata con finalità
ricognitive; visione nettamente in contrasto con quanto era accaduto nelle guerre del
primo ventennio del Novecento, dove, come abbiamo visto, si iniziò con l’impiego
ricognitivo degli aerei, per poi scoprire gradualmente la rilevanza propriamente offensiva
dell’aviazione militare. Il bombardamento deve avere carattere strategico per Douhet, e
dunque essere bombardamento a tappeto. L’aviazione non deve curarsi dei bersagli
piccoli: sono i bersagli grandi che vanno presi di mira, con l’avvertenza che il bersaglio
che viene preso di mira deve essere completamente distrutto, contando sull’effetto morale
oltre che sull’effetto materiale di siffatta operazione.
Le prime reazioni alle teorie di Douhet si ebbero in Italia, in particolare con gli
scritti di un altro generale e teorico dell’aviazione, Amedeo Mecozzi (1892-1971), che
già era stato un asso dell’aviazione nella Prima guerra mondiale e che, forte delle sue
esperienze belliche maturate sul campo, divergeva da Douhet proprio nel rivendicare
l’utilizzo dell’aviazione in un senso fondamentalmente tattico. Certamente egli

173
Cfr. G. FIOCCO, op.cit., pp. 116 sgg.

54
convergeva con Douhet sulla necessità di fare dell’aviazione una forza armata
indipendente e di prestigio; tuttavia, per quanto concerne gli scopi che la nuova arma
doveva conseguire, le differenze rispetto a Douhet risaltano vistosamente, tanto che
Mecozzi è considerato da molti “l’anti-Douhet”. Per Douhet le forze aeree rappresentano
un’armata indipendente, e questa indipendenza porta il teorico militare a svalutare, in
sostanza, le due restanti forze militari, quelle di mare e quelle di terra. Da questo punto
di vista, la posizione di Mecozzi è più prudente: egli ritiene che le forze terrestri e
marittime seguitino a svolgere un ruolo insostituibile anche nella guerra contemporanea.
Anch’egli parla di “guerra totale”, tuttavia il significato che attribuisce a tale locuzione è
diverso rispetto a quello di Douhet. Secondo Mecozzi, la guerra contemporanea è da dirsi
“totale” nel senso che ad essa prendono parte, oltre che le forze aeree, anche le forze
terrestri e quelle marittime, con ruoli non meno significativi: vi deve essere, cioè, una
stretta sinergia delle tre forze, in maniera armoniosa, evitando che una delle tre prenda il
sopravvento sulle altre, proprio perché tutte e tre hanno la stessa dignità e importanza.
Come ha osservato Paniccia, nel rivendicare il carattere totale della guerra odierna
«Mecozzi la definiva come un tutto unico, quindi guidata da un’unica visione strategica,
in cui ogni forza armata operava in armonia con le altre verso un fine comune»174. Nel
rivendicare questa visione, Mecozzi fa riferimento anche ai dati della Grande Guerra
appena conclusa (egli scrisse la maggior parte dei suoi articoli soprattutto negli anni
Venti)175. I maggiori danni al nemico – puntualizza Mecozzi – non sono stati prodotti dai
grandi bombardieri, come Douhet sostiene; al contrario, è stata la caccia e soprattutto
l’artiglieria antiaerea a produrre i più rilevanti danni, sia materiali che morali, agli austro-
ungarici176.
Il concetto di “guerra totale” di Mecozzi si distacca da quello di Douhet anche per
un altro aspetto importante. Abbiamo detto come Douhet non esiti, con spregiudicato
machiavellismo, a farsi alfiere di una sorta di “terrorismo di Stato”, ritenendo che
l’obiettivo principale dei bombardamenti debba essere la popolazione civile, poiché tra
civile e militare non vi è più distinzione di principio nella guerra contemporanea. Al

174
A. PANICCIA, Trasformare il futuro. Nuovo manuale di strategia, Milano, Mazzanti, 2017, p.
29
175
Mecozzi iniziò a scrivere articoli sull’aeronautica appena finita la prima guerra mondiale, sul
giornale “Il Dovere”, il cui direttore era lo stesso Douhet; ben presto, però, le sue idee entrarono in contrasto
con quelle douhettiane, sino ad arrivare, nel 1927, a formulare un attacco diretto alle teorie di Douhet.
176
A. PANICCIA, op.cit., p. 30

55
contrario, Mecozzi afferma che ogni azione bellica debba avere come obiettivo principale
bersagli precisi e utili alle forze armate del nemico piuttosto che i centri demografici.
Mecozzi si allinea, così, ad una posizione di tipo classico, come quella approfondita da
Clausewitz. Ad onor del vero, Mecozzi non fa leva su argomentazioni astrattamente
umanitarie, ma il cuore del suo ragionamento è strettamente tecnico, puramente militare.
Egli ritiene che attacchi indiscriminati, portati su vaste superfici variamente distruggibili,
non sarebbero risolutivi al fine della vittoria. Dunque, piuttosto che puntare sulle aree
urbane, il bombardamento aereo avrebbe dovuto svilupparsi secondo una tattica di
precisione, indirizzandosi, cioè, su ben determinati obiettivi militari e industriali.
A tal proposito si deve a Mecozzi la teorizzazione del concetto di “volo rasente”,
con il quale egli genialmente anticipa le teorie, molto più tarde, sulla penetrazione a bassa
quota. L’idea di fondo risiedeva nel fatto che un numero ridotto di aerei, volando ad alta
velocità ma tuttavia tenendosi alla minima quota possibile, avrebbe potuto introdursi nello
spazio aereo nemico distruggendo obiettivi militari selezionati contando sull’effetto
sorpresa177. Anche su questo punto, dunque, vi era netta antitesi tra Douhet e Mecozzi; il
primo, infatti, proponeva una visione completamente differente, sostenendo che la
penetrazione nello spazio nemico aereo dovesse avvenire ad alta quota e, per giunta,
dovesse essere compiuta da ampie masse di bombardieri.
La riflessione di Mecozzi, essendo vissuto molto più a lungo di Douhet, lo ha
condotto ad interessanti evoluzioni specialmente dopo la Seconda guerra mondiale, nella
seconda metà degli anni Quaranta. Dopo aver assistito ai disastri di Hiroshima e Nagasaki,
trasse da quegli eventi conferma ulteriore dell’inumanità dei bombardamenti strategici.
Da qui nacque l’ultimo suo scritto, considerato il suo testamento spirituale: Guerra agli
inermi ed aviazione d’assalto178, in cui, di fronte al grande sviluppo della missilistica
intercontinentale, egli ribadisce che il bombardamento strategico non solo è inutile ai fini
della vittoria militare ma, altresì, contrario alle universali leggi dell’umanità. Egli, quindi,
oltrepassa il machiavellismo e lo spregiudicato realismo politico di Douhet e milita per
recuperare, accanto alle istanze della vittoria, anche quelle dell’umanità e della pietà per
gli inermi.
Volgendo lo sguardo ai teorici di altri Paesi, non si può non fare il nome di Sir

177
Ivi, p. 31
178
A. MECOZZI, Guerra agli inermi ed aviazione d’assalto, Roma, Artigrafiche Scalia, 1965

56
Hugh Trenchard (1873-1956). Questi può essere considerato, a buon diritto, il “Douhet
inglese”, anche per via della precisa concordanza di alcune sue visioni con altrettanti
concetti fondamentali del Generale italiano. Divenuto comandante generale, nel 1915,
dell’aviazione dell’esercito inglese – il neocostituito Royal Flying Corps –, Trenchard
accompagnò all’azione pratica e militare anche una sistematica riflessione teorica in
materia di aviazione militare e guerra aerea. Durante il primo conflitto mondiale,
interpellato dal Governo inglese circa la possibilità di realizzare una difesa di tipo aereo
contro i dirigibili e i bombardieri tedeschi, Trenchard rispose negativamente: mancando
una rete di avvistamento efficace, a suo giudizio un sistema difensivo che si basasse sugli
aerei sarebbe stato impossibile179. Ciò significava, allora, che la sola difesa concretamente
attuabile dovesse avere natura preventiva (nel linguaggio militare e strategico di oggi si
parlerebbe di “contraviazione”). Tale difesa preventiva, nell’idea di Trenchard, avrebbe
avuto il carattere di attacco diretto contro i campi di volo tedeschi e, soprattutto, contro
le città tedesche, sottoposte a sistematico bombardamento strategico.
Appaiono così subito chiare le analogie del suo pensiero con quello di Douhet e,
nel contempo, la sua distanza rispetto a Mecozzi, strenuo sostenitore del bombardamento
di precisione verso cui Trenchard nutriva un esplicito scetticismo. Il bombardamento
indiscriminato di intere aree urbane, già sostenuto da Douhet, trova così un altrettanto
risoluto fautore in Trenchard; questa tattica avrebbe avuto successo ancora durante la
Seconda guerra mondiale, allorché, per esser certi di aver distrutto una fabbrica, si usava
procedere a quello che veniva definito area bombing, vale a dire il bombardamento
sistematico, a tappeto, di tutta l’area urbana circostante180.
Ma non si esauriscono qui le affinità di Trenchard con Douhet. Come il suo
mentore italiano, il militare e teorico inglese si batté strenuamente affinché l’aviazione
militare costituisse una terza e indipendente armata181: il che avvenne, anche dietro sua
diretta intercessione e pressione, nel 1918, quando vide la luce la Royal Air Force (RAF),
che di fatto fu a lungo la prima aviazione indipendente, nella quale lo stesso Trenchard
ebbe l’onore di essere nominato Capo di Stato Maggiore. Secondo la sua idea, in molte

179
Ibidem
180
A. PANICCIA, op.cit., p. 40
181
Paradossalmente, fino al 1917 Trenchard aveva considerato folle l’idea di una forza aerea
indipendente come mezzo per mettere fine alla guerra. Quando, però, gli fu affidato il comando proprio di
un corpo di bombardieri strategici destinato al bombardamento della Germania, egli tornò sui suoi passi e
si schierò a favore di un’azione aerea indipendente, divenendone uno dei maggiori sostenitori e promotori.

57
circostanze la RAF avrebbe dovuto letteralmente sostituire le forze navali e di terra182,
svolgendo le operazioni in modo più efficace e ad un costo minore in termini economici
e di feriti. Con l’appoggio di Churchill, allora Ministro della Guerra e dell’Aria,
Trenchard mise in pratica tale concetto nei territori inglesi nel Medio Oriente e lungo la
frontiera nordovest per tutti gli anni Venti, servendosi della RAF invece che dell’esercito
per controllare le aree più vaste e remote183. Anche lui vedeva nella forza aerea l’elemento
risolutivo, al di sopra delle altre forze armate.
Un altro importante teorico della guerra aerea è l’americano William (Billy)
Mitchell. In maniera del tutto analoga a Douhet, Mitchell non esita a dichiarare il primato
della forza aeronautica rispetto alla forza militare terrestre e a quella marittima,
affermando altresì che la prima debba essere autonoma rispetto alle altre due. È noto che
Mitchell conobbe personalmente Douhet e ne studiò approfonditamente l’opera
maggiore184. Certamente, nei suoi scritti di strategia ed arte militare si ritrovano molteplici
punti di consonanza con quelli del Generale italiano. Oltre all’idea dell’autonomia e
superiorità della forza aerea, vi è anche l’idea dell’indispensabilità del bombardamento
strategico protratto ad oltranza. Anche per Mitchell fondamentale è la geostrategia, per
cui è necessario bombardare non soltanto gli obiettivi militari, ma anche le infrastrutture.
Egli non sposa tuttavia il crudo realismo politico e militare di Douhet: non vi è, cioè, nelle
sue pagine riferimento all’essenzialità, per piegare il nemico, di fiaccare il morale dei
cittadini mediante la guerra aerea. Il tema del terrore seminato nella popolazione è
assente. Ritiene, però, che lo scontro sul piano strettamente militare non sia sufficiente: è
appunto alle infrastrutture tecnologiche, industriali, etc. che bisogna puntare, mediante le
forze aeree, per far capitolare definitivamente il nemico185.
La lungimiranza con cui Mitchell diede risalto alla centralità della guerra aerea è
confermata, in particolare, da quella che è forse la sua più celebre presa di posizione:
l’impressionante previsione che, già nella prima metà degli anni Venti, fece del futuro
disastro di Pearl Harbor, o meglio della possibilità che, attraverso il Pacifico, forze armate

182
Trenchard promosse l’innovativo concetto di “sostituzione”, conosciuto anche come “controllo
dell’aria”.
183
Cfr. DR. ALAN STEPHENS, In search of the knock-out blow: the development of air power
doctrine 1911-1945, Air Power Studies Centre, febbraio 1998
184
A. PANICCIA, op.cit., p. 40
185
P. J. HUGILL, La comunicazione mondiale dal 1844. Geopolitica e tecnologia, Milano,
Feltrinelli, 2005, p. 24

58
giapponesi potessero prendere di mira le coste statunitensi. Nel 1924, infatti, dopo aver
svolto una visita ufficiale alle Filippine e alle Hawaii, Mitchell tenne a Washington una
conferenza dai toni decisamente profetici. Affermò quanto segue:

«Le sorti della prossima guerra verranno decise dalla forza aerea. Oggi le nostre capacità
di offesa dall’aria sono irrisorie, ma ancora più trascurabili sono le nostre possibilità di difesa
dagli attacchi dall’aria, soprattutto dalle nostre basi navali. Quella di Pearl Harbor, che
rappresenta la chiave del dominio del Pacifico, è completamente sguarnita. Io prevedo che un
giorno i bombardieri in quota, quelli in picchiata e gli aerosiluranti di una potenza straniera
decollati da portaerei, coleranno a picco le nostre navi alla fonda. L’attacco sarà sferrato senza
preavviso una mattina di domenica e la potenza a cui alludo sarà il Giappone»186.

Implicitamente, in questa dichiarazione ritroviamo una serie di elementi che ci


riconducono alla lezione di Douhet. In primis, l’idea che nella guerra contemporanea non
vi siano effettivi confini dei campi di battaglia se non quelli dell’intero globo terracqueo
– sarebbe stato dunque possibile attraversare l’intero Pacifico avvalendosi di portaerei per
scatenare l’attacco e provocare il terrore nel cuore della patria nemica –; poi, ancora una
volta, l’idea dell’assoluta superiorità degli attacchi sferrati dall’alto rispetto a qualsiasi
altra forma di operazione bellica di terra o di mare; e, naturalmente, l’assunto che la guerra
aerea si fondasse anzitutto sul bombardamento, sull’offensiva, sia pure con l’ausilio e il
supporto marittimo delle portaerei – elemento assente nella riflessione di Douhet e
introdotto in maniera originale dallo stesso Mitchell –.
L’attacco di Pearl Harbor venne effettivamente sferrato, come da lui anticipato
nella conferenza di Washington, proprio sul far dell’alba di domenica 7 dicembre 1941:
quell’evento bellico avrebbe stravolto l’andamento della Seconda guerra mondiale187.

186
R. IACOPINI, La battaglia che cambiò la Seconda Guerra Mondiale: Pearl Harbor, Milano,
Mondadori, 2013, p. 103
187
Per un quadro d’insieme sul significato militare e politico di Pearl Harbor, cfr. P. HERDE,
Pearl Harbor, Milano, Rizzoli, 1986

59
CAPITOLO TERZO

3. LE CONFERENZE SULLA REGOLAMENTAZIONE DELLA GUERRA


NEI CIELI E I LABORATORI DELLA GUERRA AEREA

3.1. La Conferenza di Washington

Il carattere di “guerra integrale” che si andava delineando con lo sviluppo della


guerra aerea, ormai anche ampiamente teorizzato da autori come Douhet, rese chiaro
quanto non fosse più sostenibile la distinzione tra civili e militari. Tutti, da quel momento
in poi, compresi i non combattenti, sarebbero stati coinvolti nei conflitti. I bombardamenti
avrebbero anche avuto un forte peso psicologico sulle popolazioni, scoraggiando
qualsiasi tentativo di resistenza. Scrive Douhet a tal proposito:

«[…] E se, nella seconda giornata, altri 10, 20, 50 centri vengono colpiti, chi potrà ancora
tenere le popolazioni smarrite dal gettarsi alle campagne, per sottrarsi dai centri che costituiscono
i bersagli del nemico? Necessariamente un dissolvimento deve prodursi, un dissolvimento
profondo di tutto l’organismo, e non può mancare di giungere rapidamente il momento in cui, per
sfuggire all’angoscia, le popolazioni, sospinte unicamente dall’istinto della conservazione,
richiederanno a qualunque condizione, la cessazione della lotta»188.

La prospettiva dell’affermazione di una guerra di questo tipo poneva rilevanti


problemi etici, per esempio: si sarebbe dovuta lasciare mano libera ai bombardieri o si
sarebbe dovuto difendere il rispetto dei diritti dei civili? Alla luce di ciò, il primo
confronto sul tema del fattore aereo fu rappresentato dalla Conferenza di Washington del
1921. Nell’ambito di questa, venne costituito un sottocomitato aeronautico con il compito
di redigere un rapporto sul disarmo aereo e sulle regole di conduzione della guerra nei
cieli189. Per quanto riguarda il disarmo aereo, però, la discussione fu deludente; non si

188
G. DOUHET, op.cit., p. 40
189
Cfr. MINISTERO DELLA GUERRA, COMANDO SUPERIORE D’AERONAUTICA,
UFFICIO NOTIZIARIO, L’aeronautica alla conferenza di Washington, Roma, Stabilimento poligrafico
per l’amministrazione della guerra, 1922, pp. 19-20 e MINISTÈRE DES AFFAIRES ÉTRANGÈRES,
Documents diplomatiques, Conference de Washington (Juillet 1921-Février 1922), Paris, Imprimerie
Nationale, 1923, p. 34

60
raggiunse alcun risultato concreto, dal momento che nessuna potenza intendeva legarsi le
mani. Il disarmo aereo fu ritenuto quindi impraticabile: i governi non volevano provocare
danni al libero sviluppo dell’aviazione civile, pertanto non ritenevano opportuno prendere
decisioni vincolanti190. L’unico tentativo che riuscì al riguardo fu quello di porre dei limiti
al tonnellaggio delle flotte di portaerei e al dislocamento di singole portaerei. Così Gran
Bretagna, Francia, Italia, Giappone e Stati Uniti accettarono di non potersi dotare di
portaerei che dislocassero più di 33mila tonnellate ciascuna191. Gli americani e i
giapponesi, disponendo di portaerei più grandi, riuscirono a sviluppare efficienti caccia,
aerosiluranti e bombardieri in picchiata per le portaerei192.
Per quanto concerne, invece, la regolamentazione della guerra aerea, dietro
proposta del sottocomitato venne formata una commissione di giuristi per studiare le
modifiche da apportare alle leggi di guerra193. Era evidente come, ormai, le attuali norme
del diritto internazionale non fossero più adeguate agli sviluppi che la tecnologia bellica
aveva registrato in quegli anni. Gli orientamenti in merito alla questione aerea erano
discordi; come abbiamo visto, già prima del 1914 alcuni avevano sostenuto la necessità
di abolire l’arma aerea, salvo che per scopi di ricognizione, poiché il progresso
tecnologico avrebbe reso inaccettabile la terribile capacità di distruzione dei bombardieri.
Al contrario, altri si erano pronunciati favorevolmente riguardo al proseguimento
dell’utilizzo degli aerei in funzione bellica, poiché essi avevano ancora grandi potenzialità
da sviluppare e sarebbero diventati elementi cruciali nella risoluzione dei conflitti. Tra le
altre cose, i futuri belligeranti non avrebbero mai rinunciato ad un’arma così efficace.
Pertanto, invece di imporre dei rigidi divieti che nessun Paese avrebbe mai
rispettato, la commissione formata a Washington volle cercare un compromesso tra i
criteri umanitari e la realtà della guerra aerea194; fu così che elaborò un regolamento di 62
articoli nel quale veniva proibita qualsiasi forma di bombardamento terroristico della
popolazione civile195. Era invece concesso il bombardamento di obiettivi militari,

190
G. FIOCCO, op.cit., p. 34
191
B. COLLIER, op.cit., p. 121
192
Ivi, p. 122
193
G. FIOCCO, op.cit., p. 36
194
Ibidem
195
In particolare, l’art. 22 recitava: «Il bombardamento aereo eseguito con lo scopo di terrorizzare
la popolazione civile, di distruggere o danneggiare la proprietà privata di carattere non militare, o di colpire
non combattenti, è proibito». Per evitare il ripetersi delle tragedie dell’ultima guerra, sarebbe stato
necessario osservare tale disposizione. Cfr. “The American Journal of International Law”, Supplement
1923, Official Documents, pp. 249-250

61
comprese le industrie belliche. Questo causava, però, un altro dilemma etico: le industrie
che producevano armamenti erano spesso situate nei centri urbani o a ridosso di quartieri
operai; come potevano gli aviatori, sorvolando una città a grande altezza, magari di notte,
bombardare con precisione un obiettivo specifico, senza causare gravi danni anche alla
popolazione civile? In che modo essi avrebbero dovuto valutare di volta in volta le
conseguenze di ogni loro azione?
Probabilmente, fu anche per queste difficoltà che il progetto della Conferenza di
Washington naufragò, non venendo sottoscritto dalle potenze stesse che l’avevano voluto.
Oltre a ciò, ci si era resi conto che i vantaggi dell’arma aerea erano troppo grandi per
rinunciarvi; un codice umanitario della guerra aerea non sarebbe mai stato preso sul serio,
e ogni scrupolo morale sarebbe venuto meno fin dalle prime ore del conflitto
successivo196.

3.2. La Conferenza di Ginevra

Dopo il duro disarmo imposto alla Germania a Versailles, e i lavori dall’esito fallimentare
della Conferenza di Washington, ci si aspettava un ulteriore e decisivo passo in direzione
del disarmo da parte delle potenze vincitrici. Per questo si guardava con speranza alla
futura conferenza sul disarmo, che avrebbe affrontato ancora una volta il problema aereo.
I lavori della Conferenza di Ginevra iniziarono nel 1932 in un clima già teso: in
quel periodo, infatti, venivano pubblicizzati, tra l’opinione pubblica, i rischi di una guerra
aerea senza regole e la tragicità dell’arma aerochimica, vedendo nell’abolizione del
bombardiere l’unica soluzione197. Compito dei governi era, in tale contesto, quello di
trovare un compromesso tra le tante posizioni e le possibili soluzioni.
Il primo passo venne compiuto dai francesi, che proposero di creare una forza
aerea internazionale. Il progetto fu subito ostacolato dai tedeschi, dal momento che la
Francia si riservava di mantenere le sue forze aeree, pur mettendole a disposizione della
causa, e questo avrebbe effettivamente aggirato le richieste di parità aerea 198. Il governo
francese presentò un secondo piano, in base al quale la pratica del bombardamento

196
G. FIOCCO, op.cit., p. 38
197
Cfr. A. MARSHALL, Chemical Warfare and Disarmament, in “Nature” 129-906, giugno 1932,
p. 810
198
G. FIOCCO, op.cit., p. 50

62
sarebbe stata proibita e speciali unità aeronautiche avrebbero assicurato il controllo;
inoltre, onde evitare ulteriori polemiche, gli stessi francesi sarebbero stati disposti a
rinunciare in modo permanente ai propri aeroplani. Neanche questa iniziativa, tuttavia,
riscosse il successo sperato.
Un altro problema degno di attenzione riguardava l’aviazione civile, più nello
specifico la necessità di assicurare che i moderni aerei civili non venissero riconvertiti per
scopi militari199. La questione veniva posta soprattutto dai francesi, timorosi di
un’imminente – benché inverosimile nel breve termine – aggressione tedesca.
Oltre alla Francia, altra protagonista dei negoziati ginevrini fu l’Inghilterra. Tra
gli inglesi si fronteggiarono due schieramenti opposti: da una parte, i cosiddetti “falchi
douhetiani”200, fautori della guerra aerea; dall’altra, i sostenitori del disarmo aereo, per i
quali era necessario giungere in tale sede ad un accordo internazionale per impedire i
futuri orrori della guerra aerea. Dopo una serie di botte e risposte e di proposte avanzate
ora dall’una ora dall’altra parte – non senza il verificarsi di tensioni –, si giunse alla
conclusione che l’unico modo per garantire la sicurezza contro gli attacchi aerei a
tradimento fosse l’avere a disposizione una flotta di bombardieri pronti a condurre
un’adeguata azione di rappresaglia. Il 5 marzo 1933 il comitato governativo per il disarmo
decise ufficialmente di abbandonare ogni proposito di abolizione dell’aeronautica
militare o di controllo dell’aviazione civile. Ancora una volta, insomma, tramontava la
possibilità di trovare una soluzione concreta al problema aereo.

3.3. La guerra d’Etiopia

Grazie all’esperienza e ai progressi tecnologici maturati durante la Grande Guerra,


l’apporto dato dall’aeronautica italiana durante il conflitto etiopico fu significativo201.
L’azione delle forze aeree italiane si svolse in circostanze particolari poiché,
innanzitutto, si trovò davanti un nemico naturalmente assai poco progredito da un punto
di vista militare, strategico e tecnologico, che non poteva di conseguenza opporre
all’esercito italiano delle forze aeree all’altezza. Venne a mancare, dunque, il primo

199
Ibidem
200
Ivi, p. 51
201
Per un quadro d’insieme organico, sia politico sia militare, della guerra di Etiopia, si veda la
monografia di N. LABANCA, La guerra d’Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2015

63
ostacolo che solitamente l’aeronautica militare deve prevedere durante un conflitto,
ovvero la presenza di forze aeree nemiche considerevoli. Nondimeno, però,
all’aeronautica italiana si palesarono molti altri ostacoli ed impedimenti. Le basi
nazionali, ad esempio, erano molto lontane, da qui l’urgenza di attivarsi per la creazione
di basi locali. Inoltre il clima inclemente, dato dalla struttura montuosa del terreno e
dall’altezza sopra il livello del mare, comportava un elevato livello di rarefazione
dell’atmosfera, causa di altrettante difficoltà per le operazioni da compiere in volo202.
Se si guarda a quelli che furono gli impieghi effettivi dell’aeronautica militare nel
corso della guerra d’Etiopia, per certi versi essi confermarono le previsioni teoriche, già
avanzate nel corso degli anni Venti da Douhet, circa il primato della guerra aerea sulle
altre guerre e la sostituzione della prima tipologia di guerra alle seconde. Grazie alle sue
forze aeree, infatti, l’esercito italiano riuscì a tenere sotto controllo le mosse del nemico,
costringendolo ad effettuare quasi esclusivamente spostamenti nottetempo. La libertà di
manovra degli etiopi fu compromessa notevolmente. Incisivo fu anche il ricorso al fuoco
dall’alto tramite bombe e mitragliatrici. Testimonianze italiane della guerra etiopica
rammentano che, talvolta, al solo apparire delle squadriglie aeree italiane, interi nuclei
dell’esercito avversario si disperdevano spontaneamente203.
Le forze aeree italiane ostacolarono i rifornimenti alle forze nemiche ed
esercitarono un attivo controllo su pozzi e guadi; una vera e propria opera di sorveglianza
continua e di disturbo, che seppe trasporsi anche in azioni tattiche di ampio respiro. Non
di rado, infatti, l’aviazione si rivelò efficace nell’inseguire le masse militari africane in
rotta, sostituendosi a quella che in passato era la tipica azione di inseguimento svolta dalla
cavalleria – il che conferma, come vedremo in seguito, quanto radicate fossero nella prassi
bellica contemporanea le teorie di Douhet circa il primato dell’aviazione –204. Preziosa,
inoltre, si rivelò l’opera di rifornimento dall’alto prestata a favore delle unità avanzate.
Intere divisioni in marcia furono vettovagliate in questo modo, vincendo le asperità di un
terreno arduo, su cui non sarebbe stato possibile attuare né carreggi né someggi205.
Dall’alto pioveva ogni sorta di viveri (sacchi di farina, bevande, vivande, etc.),
nonché casse di munizioni ed armi. In alcuni casi fu possibile impiegare le forze aeree

202
Sull’aeronautica in Etiopia si veda l’importante studio di R. GENTILLI, L’aeronautica in Libia
e in Etiopia, in P. Ferrari (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., pp. 301 sgg.
203
Ivi, pp. 311 sgg.
204
P. FERRARI, L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., pp. 268 sgg.
205
Ibidem

64
anche per il trasporto di bestiame e, naturalmente, per scopi sanitari, provvedendo allo
sgombero rapido di malati e feriti. Se si fa un confronto sommario fra l’utilizzo delle forze
aeree nella guerra d’Etiopia, con quello che fu l’impiego dell’aeronautica nel corso della
Prima guerra mondiale – da parte degli italiani e non solo – si comprende quanto tangibili
fossero stati i progressi; non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche da quello
strategico e funzionale, data la grande varietà e duttilità di impiego che le forze aeree
avevano oramai raggiunto. Durante la campagna dell’Africa orientale, l’aereo fu
adoperato anche come mezzo per spostare interi reparti di truppa. Trasporti che, in alcuni
casi, interessarono addirittura interi battaglioni (esperimento, questo, che sarebbe stato
ripetuto alcuni anni più tardi, in occasione dell’occupazione del territorio albanese
nell’aprile 1939)206.
Già da questo quadro emerge il ruolo assolutamente centrale che le forze aeree
svolsero nelle operazioni militari in Africa orientale. Tale posizione di primato,
purtroppo, assume connotati anche assai deplorevoli, se si pensa ai crimini di guerra che,
come la storiografia più avvertita ha incontestabilmente dimostrato da alcuni decenni a
questa parte, gli eserciti italiani commisero nel continente nero.
Durante le prime fasi dell’aggressione italiana, l’aviazione svolse soprattutto
compiti di ricognizione, come avvenne sul fiume Tacazzè e sulla città di Macallè. Al di
là delle funzioni di osservazione, vettovagliamento, trasporto di uomini, merci, bestiame,
etc., all’inizio del conflitto si affermò anche un’altra funzione, che può essere definita
“funzione ideologica”207. Dai cieli, infatti, gli aerei potevano far piovere letteralmente di
tutto: vettovaglie, bombe, armi, ma anche messaggi e volantini. Oltre al celebre e già
menzionato volo di d’Annunzio su Vienna, un uso “ideologico” delle forze aeree si
riscontra anche nel corso della guerra etiope, allorché il generale Emilio De Bono – che
Mussolini volle al comando dell’esercito coloniale nella prima fase del conflitto – diede
l’ordine alle forze aeree di far piovere su villaggi e centri abitati dei volantini, allo scopo
di creare malumori e divisioni nel fronte interno avversario208.

206
Sull’occupazione italiana dell’Albania cfr. M. BORGOGNI, Tra continuità e incertezza. Italia
e Albania (1914-1939). La strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’operazione “Oltre Mare
Tirana”, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 256 sgg.
207
Sulla “funzione ideologica” dell’aeronautica militare, cfr. G. DICORATO (a cura di), op.cit.,
pp. 201 sgg.
208
Cfr. S. BELLADONNA, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Vicenza, Neri
Pozza, 2015, pp. 111 sgg.

65
Ma ben presto tutte queste funzioni, caratteristiche della prima fase del conflitto,
furono oltrepassate e integrate da un più concreto e massiccio impiego bellico
direttamente caldeggiato da Mussolini, il quale ordinò a De Bono, peraltro ricalcitrante,
di compiere – citazione testuale di Mussolini – un “balzo in avanti” nell’impiego delle
forze aeree in Etiopia209. I bombardieri che furono schierati tra la fine di novembre 1935
e gennaio 1936 furono oltre un centinaio: «Un complesso offensivo superiore persino – è
stato osservato – a quello che l’Italia avrebbe schierato nella Seconda guerra mondiale
sui fronti belga, russo e nordafricano. Di contro, l’aviazione etiopica era dotata di un
numero incomparabilmente misero di aerei e ancor più scarso di piloti (molti dei quali
stranieri)»210.
Un così massiccio dispiegamento di forze non tardò a produrre i suoi effetti. Dopo
la sostituzione del riluttante De Bono con Badoglio, il 6 dicembre ebbe inizio una delle
più poderose azioni aeree dell’intera guerra, il bombardamento terroristico di Dessiè,
dove in quel periodo risiedeva il negus. La città venne attaccata da 18 aerei Caproni con
esplosivi e spezzoni incendiari, generando conseguenze rovinose per la popolazione211.
Una larga eco di riprovazioni suscitò specialmente, in tutto il mondo civile, il
coinvolgimento dell’ospedale nei bombardamenti. In verità, questa fu solo una delle tante
operazioni contrarie al diritto internazionale umanitario compiute durante le campagne
africane: divenne sempre più evidente l’impotenza delle democrazie occidentali davanti
all’incessante ascesa del bombardiere e alla conseguente sconfitta dello ius in bello212.
Se si è parlato, giustamente, di un primato della guerra aerea nelle campagne
africane e di uno svolgimento delle operazioni belliche spesso in collisione con i principi
umanitari, ciò è dovuto anche al fatto che l’aviazione italiana fece un uso sistematico di
gas tossici, che furono certamente tra le principali cause della sconfitta etiope213. Un ruolo
fondamentale nella guerra chimica condotta dagli italiani in Africa lo ebbe la bomba C-
500T. Questa bomba, sganciata dagli aerei, esplodeva a circa 250 metri di altezza,

209
G. DICORATO (a cura di), op.cit., p. 204
210
S. BELLADONNA, op.cit., p. 112
211
G. FIOCCO, op.cit., p. 112
212
Il negus Hailè Selassiè denunciò a Ginevra i raid dell’aviazione italiana contro il suo popolo e
pose l’attenzione sul grave pericolo che correva l’intero meccanismo della sicurezza collettiva. Con ogni
speranza umanitaria ormai abbandonata, accettando quella situazione si andava creando un precedente
pericoloso. L’assemblea della Società delle Nazioni non ascoltò tale monito, aprendo di fatto la strada a
violazioni sempre più massicce del diritto umanitario.
213
P. FERRARI (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento., cit., pp. 268 sgg.

66
sprigionando una pioggia di gocce corrosive dal caratteristico odore pungente, simile a
quello della mostarda. Tale composto chimico era l’iprite, uno dei gas più utilizzati nella
guerra chimica, altresì definito “gas mostarda”214 proprio in ragione del suo odore:

« […] Circa l’efficacia dell’aggressivo liquido, si può dire che esso agisce principalmente
per contatto delle goccioline sulla pelle degli individui colpiti. Il contatto ha luogo anche
attraverso gli indumenti di qualsiasi natura essi siano (lana, tela, cuoio, ecc) se chi li indossa,
appena si accorge di essere colpito, non abbia l’avvertenza di liberarsene. […] L’effetto
dell’aggressivo liquido non è immediato. I primi sintomi si manifestano dalle 6 alle 12 ore dopo
che l’individuo è stato colpito. Dopo 12-24 ore si manifestano le prime lesioni che, se la superficie
colpita è grande, sono gravissime e che, ad ogni modo, sono di lentissima guarigione anche se la
superficie colpita è piccola»215.

In Italia fu preventivato l’acquisto di oltre 4.600 bombe C-500T. In Africa


orientale ne giunsero, fino a tutto il 1936, circa 3.300, ripartite tra Somalia ed Eritrea,
sebbene nel corso di quell’anno la capacità produttiva degli stabilimenti italiani fosse
enormemente aumentata, giungendo fino a 18 tonnellate al giorno216.
Come fosse vissuta dagli stessi protagonisti l’azione svolta dall’aeronautica
militare italiana, è chiarito da importanti testimonianze, tra cui spiccano alcune memorie
di Alessandro Paolini, Ministro della cultura popolare durante il fascismo. Ricordando i
suoi voli sui cieli d’Africa insieme a Galeazzo Ciano, egli scriveva:

«Grande è l’entusiasmo quando apprendiamo che avremo il privilegio di portare per primi
il tricolore sul cielo di Adua. Indico i due batuffoli bianchi a Ciano e a Casero che sono ai posti
di pilotaggio. Mano alzata, Ciano mi fa segno di tenermi pronto a bombardare. Siamo a un
migliaio di metri di quota, diretti al ghebì. Affacciato alla botola che si apre sull’abisso turchino
e verde, regolo il puntamento e poso il pollice sul bottone dello sgancio elettrico delle bombe.
Ciano abbassa la mano; premo il bottoncino d’osso. Seguiamo tutti con gli occhi il precipitare
della bomba. Si sa che al suo scoppio – solitario su quest’altipiano remoto e poco praticato, in
mezzo a un villaggio di nome famoso ma di misero aspetto – per uno straordinario concorso di

214
S. BELLADONNA, op.cit., pp. 113 sgg.
215
Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, Fondo AOI, cart. 176,
fasc.1
216
S. BELLADONNA, op.cit., pp. 116 sgg.

67
circostanze il mondo intero tende l’orecchio»217.

Il regime fascista tentò di far passare sotto silenzio l’uso dei gas, ma le accuse
contro i metodi di guerra italiani erano fondate e le conseguenze degli stessi troppo
evidenti218. Di fatto l’iprite fu il fattore tattico decisivo del conflitto, che permise di
abbreviarlo di anni219.
Nel febbraio 1936 i gas, quantomeno sul fronte nord, non furono più impiegati.
Vi è tuttavia ragione di ritenere che ciò non fu dovuto a motivazioni di ordine strategico-
militare, bensì meramente politico. Il 2 marzo, infatti, si sarebbe riunito il Comitato dei
Diciotto per discutere le sanzioni che la Società delle Nazioni avrebbe dovuto comminare
a chiunque violasse le regole del diritto internazionale umanitario, anche con l’impiego
di armi chimiche. L’ordine del giorno prevedeva, tra le più pesanti sanzioni ai danni
dell’Italia, l’estensione dell’embargo al petrolio: il che si sarebbe tradotto, nel nostro
Paese, in una crisi semplicemente irreversibile. Se le indagini avessero confermato
l’impiego dei gas, la comunità internazionale avrebbe dovuto fermare quel metodo di
guerra. I rappresentanti britannici del Comitato portarono avanti una linea dura nei
confronti dell’Italia, ma si scontrarono spesso con l’ostruzionismo francese. Il 9 aprile,
un sottocomitato di giuristi creato per l’occasione riconobbe che non vi erano procedure
ufficialmente riconosciute da seguire in caso di violazione delle norme belliche; pertanto,
i delegati si limitarono soltanto ad elaborare un telegramma che chiedeva ai belligeranti
di porre fine a tutte le violazioni in corso220.
Le sanzioni verso l’Italia non entrarono dunque in vigore – anche grazie, come
già menzionato, all’efficace intervento positivo della Francia a sostegno dell’Italia221 – e
gli attacchi aerei a base di gas ripresero indisturbati. Verosimilmente, Mussolini e i suoi
generali poterono sfruttare il fatto che l’attenzione della Società delle Nazioni, ad un certo
punto, fu dirottata verso eventi di gravità maggiore: il 7 marzo Hitler aveva radicalizzato
la sua contestazione del Trattato di Locarno e si accingeva alla militarizzazione della

217
Ivi, pp. 69-70
218
Per approfondimenti cfr. A. DEL BOCA (a cura di), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra
d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 17-48
219
G. FIOCCO, op.cit., p. 116
220
Ivi, p. 121
221
Per approfondimenti sulle complesse relazioni politico-diplomatiche tra Italia e Francia fino a
tutto il 1936, cfr. la monografia di F. LEFEBVRE D’OVIDIO, L’intesa italo-francese del 1935 nella
politica estera di Mussolini, Roma, Carocci, 1984, pp. 219 sgg.

68
Renania222.
Storicamente, la conquista dell’Etiopia culminò nella proclamazione dell’Impero
a seguito della presa di Addis Abeba. Il ruolo cruciale che l’aviazione italiana aveva
ricoperto nel raggiungimento di questa vittoria fu subito esaltato dall’opinione pubblica,
dalla stampa e dalla propaganda politica, anche per via del fatto che dell’aviazione
avevano fatto parte, in qualità di ufficiali, alcuni membri della famiglia del Duce223.
Ma la forza militare aerea italiana fu giudicata anche con una profonda
ambivalenza, soprattutto all’estero, dove i bombardamenti chimici avevano provocato
indignazione in larghi strati dell’opinione pubblica. D’altronde, la cosiddetta “guerra
chimica” era stata opera proprio della nostra aviazione, che per prima aveva mostrato al
mondo l’uso dell’aeroplano moderno in campo militare, facendo dell’Etiopia «un
gigantesco laboratorio della guerra terroristica»224. Certo è che la Regia Aeronautica
aveva sistematicamente e ripetutamente violato i princìpi bellici umanitari ed
inevitabilmente ciò si tradusse in una violenta campagna anti-italiana da parte della
stampa estera, specie anglosassone e americana; questo anche perché la visibilità della
guerra aerea era stata macroscopica. Come è stato infatti opportunamente osservato da
Gentilli, «gli aeroplani non si possono nascondere: nessun inviato poteva sapere se gli
Ascari o le Camicie Nere distruggevano un villaggio, ma se una bomba cadeva per sbaglio
nei pressi di un ospedale da campo, tutti i giornali di Gran Bretagna e Stati Uniti parlavano
dei “crimini degli aviatori fascisti”»225.
A questo punto, vale la pena tracciare un bilancio della funzione svolta dalla Regia
Aeronautica nella Guerra d’Etiopia. Abbiamo visto come, a partire dal primo conflitto
mondiale, l’aeronautica andò rendendosi sempre più autonoma rispetto all’esercito e,
anzi, secondo le teorizzazioni del generale Douhet e di altri autori affini, essa avrebbe
dovuto finire per inglobare all’interno dei suoi piani strategici ogni altro aspetto della
guerra contemporanea. Ma nella Guerra d’Etiopia tutto questo non si verificò affatto: la
guerra combattuta dagli aerei non ebbe ruolo autonomo, bensì fu risolutamente posta al
servizio dell’esercito (il cui comando era affidato a Pietro Badoglio). Ciò significava che
i compiti assegnati alle forze aeree erano sostanzialmente di sussidio alle truppe di

222
F. LEFEBVRE D’OVIDIO, op.cit., pp. 113 sgg.
223
Cfr. R. GENTILLI, op.cit., pp. 317 sgg.
224
G. FIOCCO, op.cit., p. 117
225
R. GENTILLI, op.cit., pp. 317-318

69
terra226. Per Badoglio, l’aeronautica non era dal punto di vista strategico un’arma
radicalmente innovativa, che avrebbe dovuto mutare complessivamente l’assetto della
guerra configurando in essa una terza dimensione assolutamente prioritaria. Per il
Generale, infatti, “aeronautica” significava semplicemente artiglieria con raggio più
lungo e, in ultima analisi, intendenza alata. Per lui le forze aeree non erano se non «mortai,
cavalleggeri e carretti casualmente con le ali»227. Lo stesso Badoglio, del resto, in un
importante documento come la sua monografia dal titolo “La Guerra d’Etiopia”228,
redatta a ridosso della proclamazione dell’Impero, esplicitamente asseriva:
«All’aviazione io affidavo il compito che le forze terrestri non potevano più assolvere:
quello di inseguire le colonne nemiche»229.
Lungi, tuttavia, dall’ottica di Badoglio, l’intenzione di sminuire la rilevanza del
ruolo giocato dall’aviazione nei cieli di Etiopia. Scriveva sempre il Generale:
«L’aviazione italiana in Etiopia, assicurando rapide vittorie e rapide conquiste, ha mutato
radicalmente le tradizionali norme tattiche della guerra coloniale»230. Non era certamente
una visione retrograda: tuttavia, se si pone a raffronto con quella di Douhet, ne scaturisce
un’antitesi netta e, soprattutto, in Badoglio, una lungimiranza senza dubbio minore. Che
con la guerra nei cieli si introducesse una terza dimensione bellica, tale da stravolgere la
guerra come conosciuta fino a quel momento rendendola “guerra totale”, era una delle
consapevolezze che a Badoglio, almeno per il momento, sfuggivano. Tuttavia, egli era
portato ad asserire che nel futuro l’aviazione sarebbe stata impegnata in compiti sempre
nuovi, avrebbe dato contributi sempre più importanti e decisivi, sicché a buon diritto essa
doveva essere definita “l’arma dell’avvenire”231.
L’aeronautica italiana, anche dopo la proclamazione dell’Impero, continuò a
svolgere una funzione in senso stretto militare insostituibile. Le fu infatti attribuito un
compito di presidio coloniale e una funzione permanente di polizia. Così, se durante la
guerra etiopica le forze aeree italiane avevano operato su una direttrice di non più di 400
chilometri, da Asmara a Dessié, dopo la disfatta dell’Etiopia e con un potenziale rimasto

Cfr. P. PIERI – G. ROCHAT, Badoglio, Torino, UTET, 1974, pp. 99 sgg.; L. PIGNATELLI,
226

La guerra dei sette mesi, Milano, Longanesi, 1992, pp. 33 sgg.


227
R. GENTILLI, op.cit., p. 318
228
P. BADOGLIO, La guerra d’Etiopia, Milano, Mondadori, 1936
229
Ivi, pp. 79 sgg.
230
Ivi, p. 119
231
Ivi, p. 110

70
immutato, esse si trovarono a dover offrire copertura aerea ad un territorio enormemente
più vasto, dal momento che la sua estensione era pari a 20 paralleli e 20 meridiani232. Per
fronteggiare tale situazione, fu ideata la creazione di una pluralità di basi aeree a carattere
autosufficiente (tra le quali Imi, Javello, Irgalem, Gondar). Sempre Badoglio, nel testo
dianzi menzionato, ci offre un quadro chiaro di quale fosse il compito che le forze aeree
italiane svolgevano anche dopo la proclamazione dell’Impero:

«Il vastissimo territorio è controllato per intero dalle nostre squadriglie […]. L’Impero
etiopico è suddiviso in settori aeronautici opportunamente adattati ai governi costituiti: in ogni
settore esiste una serie di campi base e di campi di manovra perfettamente attrezzati […]. Le forze
aeree dell’impero africano, forti di qualche centinaio di apparecchi, tenuti sempre in efficienza
con mezzi e con riserve già predisposti in sito, costituiscono una massa aerea di primo ordine,
destinata a un peso preponderante in qualsiasi contingenza a venire, anche improvvisa»233.

È possibile cogliere anche il rovescio della medaglia dei successi vantati dalla
propaganda ufficiale italiana. Di fatto, queste parole lasciavano trapelare
un’interpretazione dell’aeronautica italiana alla stregua di una sorta di mero presidio
coloniale. Le visioni strategiche relative alla poderosa guerra che si andava preparando in
Europa sembravano, dunque, escludere un ruolo centrale dell’aviazione – e ciò proprio
mentre i teorici, come a breve si vedrà, attribuivano un ruolo assolutamente cruciale e
insostituibile alle forze aeree in ogni guerra a venire –. Era come se politici e militari
italiani escludessero per l’aeronautica tricolore qualsiasi visione strategica di portata
oceanica. Non è un caso, infatti, che anche gli stanziamenti di fondi previsti per
l’aeronautica italiana, subito dopo la fine della guerra in Etiopia, si ridussero
drasticamente. Se nel 1936-1937 lo stanziamento per l’aeronautica italiana dell’Africa
orientale era stato di 600 milioni (114 dei quali rappresentavano un contributo del
Ministero delle Colonie), nel successivo anno 1937-1938 esso scese drasticamente a 231
milioni234.
Ancora una volta è possibile avvertire il divario esistente tra la propaganda di
regime, tesa ad enfatizzare il ruolo dell’aeronautica e a promettere stanziamenti, e la ben

232
R. GENTILLI, op.cit., pp. 322-323
233
P. BADOGLIO, op.cit., pp. 116 sgg.
234
R. GENTILLI, op.cit., pp. 323-324

71
più prosaica realtà dei fatti. Il Duce soleva ripetere che un’aviazione imperiale, degna
della nuova realtà politica creata dagli sforzi espansionistici italiani, era oramai una realtà
che sarebbe divenuta ancor più forte e potente. Questo rimase, per lungo tempo, soltanto
un proclama ad effetto cui non tennero dietro i fatti. Ecco anche il motivo per cui, per il
servizio svolto nell’Africa orientale, l’aviazione non conseguì grandi onori militari.
Inoltre il fuoco della propaganda, nel frattempo, si stava spostando sulla Spagna. Era,
cioè, nei cieli iberici che ora si costruivano le carriere e si accumulavano medaglie.

3.4. La guerra civile spagnola

Terminata la sua attività in Etiopia, la guerra aerea si spostò in Spagna, dove si


svolse essenzialmente in due fasi: la prima, più breve, ebbe luogo tra l’agosto e l’ottobre
1936; la seconda, assai più lunga, ebbe inizio dal periodo immediatamente successivo e
si protrasse fino al 1939, vale a dire fino alla fine del conflitto235.
Nella prima fase delle operazioni belliche aeree emerse subito la superiorità
tecnica del fronte nazionalista, anche grazie agli aiuti di cui i golpisti poterono avvalersi,
soprattutto da parte di tedeschi e italiani. Il 6 agosto, infatti, sbarcarono a Cadice 36
velivoli tedeschi: 6 caccia biplani Heinkel He 51 e 30 Junkers Ju 52. Le funzioni
logistiche di trasporto furono decisive già in questa primissima fase del conflitto, dal
momento che grazie a questi velivoli tedeschi fu possibile trasferire sul continente
sostanziosi reparti del cosiddetto “esercito d’Africa spagnolo”.
Quanto ai contributi italiani in questa prima fase, essi corrisposero a 10
bombardieri S.81 partiti dalla Sardegna il 30 luglio, con la funzione di contrastare
soprattutto la flotta spagnola che per lo più era rimasta fedele al regime repubblicano,
rendendo di fatto impossibile l’intervento navale contro i golpisti. Si può tranquillamente
sostenere che il contributo nazi-fascista in questa fase, se si considera l’intero triennio
della guerra civile, fu forse in assoluto il più rilevante per la causa dei golpisti spagnoli.
Non bisogna dimenticare che il cosiddetto Alzamiento del 18 luglio 1936 era riuscito in
vaste aree del Paese, ma era significativamente fallito proprio nelle città più importanti
(Barcellona, Madrid, Valencia, Bilbao), anche per via dell’adesione solamente parziale
della Guardia Civil e dell’esercito, che si erano divisi al loro interno, schierandosi a favore

235
Cfr. A. EMILIANI – G. F. GHERGO, Nei cieli di Spagna, Milano, Apostolo, 1986

72
oppure contro il colpo di Stato.
Dopo la Prima guerra mondiale, la guerra civile di Spagna fu cartina di tornasole
di quanto rilevante fosse oramai divenuto il ruolo delle forze aeree in qualsiasi guerra. La
Repubblica spagnola, infatti, fu soffocata in tre anni di aspro conflitto, che alla fine
portarono all’instaurazione della dittatura. Se non ci fosse stato un così tempestivo aiuto
da parte tedesca e italiana, il golpe non sarebbe mai stato possibile.
Gli aviatori tedeschi vennero inquadrati in un’apposita legione denominata
“Condor”236. Gli aviatori inviati dal regime fascista, invece, dapprima operarono
camuffati come membri della Legione straniera, ossia mercenari. Sta di fatto che sia gli
uni sia gli altri rimasero indiscutibilmente padroni del campo fino a tutto l’ottobre 1936.
Nel contrastare la resistenza repubblicana, si distinse in particolare l’aviazione italiana.
Fra i velivoli utilizzati, vale la pena ricordare il famoso Fiat C.R.32: un biplano da caccia
del 1934, dotato di due mitragliatrici con 400 colpi ciascuna, che grazie ai modesti carichi
alari poteva compiere prestazioni acrobatiche notevolissime237. Contro questi Fiat,
l’aviazione repubblicana non poté contrapporre se non degli antiquati Delage 52, senza
nemmeno la possibilità di avvalersi dell’appoggio dell’aviazione straniera, dato
l’isolamento di cui soffrì in questa prima fase del conflitto. Francisco Franco non fu nelle
condizioni di poter organizzare un vero e proprio blocco navale che impedisse il
rifornimento alle forze repubblicane resistenti, ma a ciò supplì l’aviazione che, con i suoi
bombardamenti intensivi di porti e navi, esercitò un vero e proprio “blocco aereo”,
contribuendo in maniera decisiva alla vittoria delle forze nazionaliste spagnole238.
Si entra così in quella che è stata definita, in riferimento alla guerra aerea, la
seconda fase della guerra civile spagnola (novembre 1936 – aprile 1939)239. In questa fase
il panorama generale iniziò a cambiare, anche perché il soverchiante primato italo-tedesco
a sostegno dei golpisti iniziò ad essere contrastato dall’arrivo delle prime brigate
internazionali, manifestazione dell’antifascismo europeo (di cui fecero parte gli stessi

236
Cfr. R. H. WHEALY, Hitler and Spain. The Nazi Role in the Spanish Civil War, Lexington,
The University Press of Kentucky, 1989, pp. 101-102
237
In seguito al suo impiego nella guerra civile spagnola, questo aereo si guadagnò il titolo di uno
dei migliori biplani prodotti.
238
Per un quadro aggiornato della Guerra civile spagnola cfr. A. BOTTI (a cura di), Guerra civile
spagnola, Milano, Corriere della Sera, 2016; A. BEEVOR, La Guerra civile spagnola, Milano, Rizzoli,
2010; T. HUGH, Storia della Guerra civile spagnola, Torino, Einaudi, 1964
239
Cfr. L. CEVA, L’aeronautica nella Guerra civile spagnola, in P. Ferrari (a cura di),
L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, cit., pp. 337 sgg.

73
italiani e tedeschi).
Questa parte della guerra si aprì con pesanti incursioni sulla città di Madrid da
parte dell’aviazione italo-tedesca. Non mancarono, anche qui, forti accuse contro le
modalità di bombardamento, ma la guerra aerea non si arrestò. Tristemente nota fu
l’incursione aerea dell’aprile 1937 compiuta dall’Aviazione Legionaria italiana e dalla
Legione Condor tedesca con potenti ordigni esplosivi e proiettili incendiari di alluminio
sulla città basca di Guernica – evento reso poi celebre dalla grande tela omonima di
Picasso –. Scelsero per attaccare un lunedì, giorno del mercato settimanale, così che fosse
presente una grande concentrazione di persone. Questo raid così spietato si inquadrava
all’interno delle operazioni nel nord della Spagna della primavera-estate 1937 (nell’area
di Santander, Bilbao e Durango)240 e costituì un vero e proprio esperimento di guerra
totale, una sorta di banco di prova specialmente per la giovane Luftwaffe. Nonostante
Francisco Franco negasse ogni coinvolgimento dei nazionalisti nella distruzione di
Guernica, attribuendone invece la responsabilità ai “rossi” stessi (che avrebbero così
potuto screditare il nemico), la maggior parte dell’opinione pubblica si convinse subito
che si fosse trattato di deliberato terrorismo di matrice nazionalista.
Nella seconda fase della guerra civile spagnola si assistette ad un complessivo
mutamento di fisionomia, non soltanto per quanto concerneva la guerra aerea. I
nazionalisti assunsero la qualifica di “franchisti”, dal momento che, tra i vari capi golpisti
che avevano condotto le operazioni sino a quel momento, Franco era asceso ad una
posizione di indubbia preminenza – tanto che nel novembre 1936 egli riuscì a farsi
nominare Generalissimo, nonché Capo dello Stato –. Sul lato repubblicano, un ruolo
cruciale fu svolto dagli aiuti sovietici, che si tradussero nell’intervento di aerei come i
biplani Polikarpov I-15, in grado di competere validamente con i Fiat italiani. Di fronte a
quanto accadeva in Spagna, si registrò una vera e propria paralisi delle democrazie
europee ed occidentali. La conseguenza della massiccia presenza sovietica nel conflitto
fu, nel maggio 1937, la formazione del Governo Negrín, in virtù del quale la Repubblica
assunse un carattere progressivamente socialista241.
Dopo la battaglia dell’Ebro, che si svolse dal luglio all’ottobre 1938, la
Repubblica era oramai sul punto di capitolare. In particolare gli aiuti sovietici si andarono

240
Cfr. A. BEEVOR, op.cit., pp. 172 sgg.
241
Cfr. T. HUGH, op.cit., pp. 199 sgg.

74
progressivamente diradando, soprattutto per via dell’ostacolo rappresentato dalle forze
aeree italiane e tedesche e dai sommergibili italiani. Questo si spiega anche alla luce dei
grandi mutamenti che stavano intervenendo nella politica europea del tempo; difatti, le
pulsioni espansionistiche naziste nell’Europa centrale e orientale tra il marzo 1938 e il
marzo 1939 indussero Stalin ad un mutamento di prospettiva che si tradusse, infine, nel
patto di reciproca non belligeranza con Hitler e nel conseguente abbandono della causa
spagnola.
Come già successe in Etiopia, anche nella guerra civile spagnola le forze aeree si
resero protagoniste di azioni contrarie al diritto internazionale umanitario – ombre, anche
assai intense, che sempre accompagnarono le luci della guerra aerea del Novecento –.
Oltre al menzionato bombardamento di Guernica, ad esempio, allorché fu presa
Barcellona nel gennaio 1939, i resti dell’esercito repubblicano, insieme a quasi mezzo
milione di profughi civili, furono costretti a ritirarsi al di là dei Pirenei. Un esodo di
proporzioni immani che ebbe tragiche conseguenze specialmente per i civili, i quali, con
la speranza di giungere in Francia e trovare ospitalità presso i campi per rifugiati che ivi
venivano allestiti, erano intanto sottoposti ai bombardamenti dal cielo delle forze aeree
italiane e tedesche242. Due mesi più tardi, il 28 marzo, capitolò anche Madrid e Francisco
Franco dichiarò terminata la guerra.
Numerosi furono, in quei mesi, i dibattiti delle democrazie occidentali sul
carattere totalizzante della guerra aerea in Spagna, a partire dalla tragedia di Guernica.
Da una parte, molti condannarono senza mezzi termini la spietatezza dell’aviazione italo-
tedesca, accusandola di terrorismo e chiedendo a gran voce la conduzione di un’inchiesta
internazionale da parte della Società delle Nazioni. Dall’altra parte, molti altri non furono
disposti a sottoscrivere le accuse di terrorismo e portarono all’attenzione pubblica esempi
di altrettanti bombardamenti effettuati dall’aviazione repubblicana, nonché il fatto che,
durante la Grande Guerra, anche gli inglesi, che ora si dicevano indignati, avevano
bombardato chiese e campanili per eliminare posti di osservazione nemici243. Spettò
comunque al Primo Ministro inglese Eden il compito di tirare le somme della disputa:
egli riconobbe la gravità di quanto accaduto a Guernica ed esternò il timore che quello
potesse rappresentare un precedente. L’uso smisurato del bombardiere costituiva un

242
Ivi, pp. 300 sgg.
243
G. FIOCCO, op.cit., p. 147

75
pericolo per tutta l’Europa e, pertanto, sarebbe stato opportuno avviare un’inchiesta
internazionale sulla vicenda di Guernica. Tuttavia, in un clima quasi surreale di ipocrisia,
ancora una volta la battaglia contro la guerra aerea si rivelò persa in partenza244.
Dall’esame delle vicende spagnole emersero problemi strategici nuovi ai quali
non si era mai pensato prima. Ad esempio, si iniziò ad intuire che il bombardiere di
precisione in picchiata sarebbe stato presto sostituito dal bombardamento ad alta quota e
che il ricorso ad attacchi aerei dal mare, dove era più difficile organizzare una rete
d’avvistamento, sarebbe diventato sempre più frequente245. Inoltre, bisognava anche
considerare il valore psicologico dell’arma aerea: quali effetti aveva sul sistema nervoso
della popolazione civile e dei tanti operai che, con spirito di sacrificio, continuavano il
loro lavoro nelle industrie militari, nonostante il suono delle sirene? Per i sostenitori della
forza distruttrice del bombardiere, l’opera di logoramento svolta dagli aeroplani
provocava una pressione e uno stress tali nella popolazione da far sviluppare un rifiuto
della guerra, dimostrando così che un’efficace supremazia aerea poteva condurre più
velocemente alla vittoria246. Secondo altre testimonianze, invece, la tesi
dell’insostenibilità psicologica dei raid era infondata: esempio lampante, in tal senso,
poteva essere l’assedio di Barcellona, durante il quale la resistenza popolare si era
dimostrata accanita anche davanti agli attacchi più intensi247; addirittura, i trasporti
avevano continuato a circolare regolarmente, i cinema e i caffè erano rimasti aperti e la
gente si riuniva ogni giorno in strada per commentare i danni dell’ultima incursione248.
Questo tipo di reazione – dato dalla rassegnazione, dall’assuefazione ma anche dalla
fierezza di combattere per una giusta causa – dimostrava l’inconsistenza dell’assunto di
una fragilità psicologica delle masse sottoposte a bombardamenti.
I civili spagnoli morti nei bombardamenti furono circa 15mila, cifra che
rappresentava soltanto il 4 per cento del numero totale delle vittime del conflitto249;
l’aeroplano era quindi ancora lontano dal rappresentare la prima causa di morte in

244
Cfr. P. PRESTON, La guerra civile spagnola (1936-1939), Milano, Mondadori, 1999, pp. 123-
124
245
G. FIOCCO, op.cit., p. 152
246
Cfr. G. L. STEER, Lessons of the Spanish War, in “The Spectator”, 23 luglio 1937, p. 138
247
Cfr. T. HUGH, op.cit., p. 549 in cui afferma che «molti feriti, dalle loro barelle, esortavano col
pugno chiuso la gente a resistere».
248
Cfr. G. FIOCCO, op.cit., p. 153
249
Ivi, p. 157

76
guerra250, con buona pace dei profeti dell’arma aerea.

250
Emblematico il caso del Generale inglese Fuller, il quale, giunto in Spagna, osservò che i
bombardieri avevano provocato danni insignificanti, e si meravigliò davanti alla tranquillità dei civili
nonostante gli allarmi.

77
CAPITOLO QUARTO

4. IL POTERE AEREO NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

4.1. Il potere aereo nella Seconda guerra mondiale

Ancor più che nella Grande Guerra, nella Seconda guerra mondiale l’aviazione
svolse un ruolo assolutamente fondamentale, a partire dagli esordi sino alle battute finali
del conflitto. In qualsiasi teatro di combattimento furono presenti aeroplani, e questi
furono impiegati senza esclusione di colpi da tutte le nazioni in lotta. Si videro, infatti, gli
aeroplani svolgere, di volta in volta, le funzioni più disparate: di bombardiere (tattico,
strategico e in picchiata); di cacciabombardiere e caccia; di trasporto; di collegamento; di
ricognizione; di aerosilurante e pattugliatore marittimo, proprio per limitarsi agli aspetti
più essenziali251. Non vi è dubbio, insomma, che le sorti della Seconda guerra mondiale
furono profondamente influenzate dall’aviazione, in primo luogo perché l’aereo venne
adoperato come bombardiere e dunque – in ottemperanza, si potrebbe dire, alle teorie di
Douhet e dei suoi seguaci – fu deputato alla distruzione strategica di centri industriali e
infrastrutture, oltre che del morale delle popolazioni; in secondo luogo, perché l’aereo
diede un suo fondamentale contributo anche allo svolgimento delle offensive di terra e di
mare.
Douhet, Mitchell e – come vedremo più oltre – de Seversky avevano rivendicato
la tesi per cui marina ed esercito erano, se non obsoleti, comunque destinati ad un ruolo
secondario. La sicurezza degli Stati – e in primo luogo degli Stati Uniti, se ci atteniamo
soprattutto alle teorizzazioni di Mitchell – avrebbe dovuto poggiare sulla forza aerea,
quantunque basata a terra o in mare mediante portaerei252. Tali teorie sembravano essere
state confermate proprio da tutte le operazioni di bombardamento dell’Italia contro
l’Etiopia, nonché nel corso della guerra civile spagnola, della guerra sino-giapponese e
nella prima parte della Seconda guerra mondiale. Eppure, come si vedrà nel dettaglio, pur
senza negare l’autonomia dell’aviazione, si osserva come, nella Seconda guerra
mondiale, la forza aerea abbia potuto espletare le sue funzioni solo nel quadro di una

251
G. DICORATO (a cura di), op.cit., pp. 118 sgg.
252
B. R. SULLIVAN, Miti e realtà del potere aereo dopo il 1945. La prospettiva americana, in
P. Ferrari (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento., cit., pp. 441 sgg.

78
cooperazione con le forze di terra e di mare. Il bisogno di portare avanti operazioni
congiunte divenne evidente all’inizio della Seconda guerra mondiale; nessuna delle
potenze belligeranti, in quel momento, era pronta ad attuare tali operazioni, ma furono
costrette dalle circostanze ad imparare rapidamente.
Non sempre, nel corso della storia, la jointness – ovvero la cooperazione tra le
forze militari – è stata vista come necessaria; anzi, talvolta addirittura è stata ritenuta non
auspicabile.
Durante la Seconda guerra mondiale la collaborazione tra le forze di aria, terra e
mare è divenuta indispensabile proprio a causa dello svilupparsi del potere aereo. Essendo
ormai chiaro come l’aeroplano fosse essenziale nella conduzione delle operazioni sia a
terra che in mare, la dimensione dell’aria non poteva più essere ignorata e non si poteva
più negare l’importanza di un’azione militare congiunta e coordinata. Ovviamente,
l’avvicinamento tra le forze ha causato dei disaccordi e delle tensioni, se non altro perché
soldati, marinai e aviatori hanno diverse idee e punti di vista sulla natura della guerra,
sulla conduzione di un conflitto, sulle strategie da attuare, sulla dottrina da seguire, etc.
Queste diverse interpretazioni hanno certamente influenzato l’utilizzo dell’aeroplano
nelle operazioni svolte durante la Seconda guerra mondiale, ma in ogni caso il potere
aereo si è rivelato cruciale in ognuna di quest’ultime (anche se quasi mai davvero
risolutivo, escludendo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki).

4.2. La Campagna di Polonia e la Campagna di Norvegia

I primi due anni del secondo conflitto mondiale furono caratterizzati, per lo più,
dalla lotta tra la Luftwaffe e le forze alleate.
Nell’agosto 1939 iniziò a girare la voce che Hitler avesse intenzione di sferrare a
breve un attacco contro la Polonia. Questa fuga di notizie spaventò non poco gli stessi
capi militari tedeschi, convinti fino a quel momento che non avrebbero dovuto affrontare
nessun conflitto rilevante prima del 1942253. Compiere un simile gesto avrebbe significato
entrare in guerra anche contro Francia e Gran Bretagna, ritrovandosi impegnati su ben
due fronti contemporaneamente, ma Hitler si dimostrò deciso nel perseguire la sua idea
di un blitzkrieg (guerra.-lampo) per affondare la Polonia; anzi, il 23 agosto firmò a Mosca

253
B. COLLIER, op.cit., p. 161

79
il patto russo-tedesco e ordinò ufficialmente l’invasione della Polonia, prevista per il 1°
settembre.
La Germania utilizzò, per il bombardamento sulla Polonia, assetti tattici anziché
strategici, a causa del divieto – derivante dalle dure condizioni del Trattato di Versailles
– di costruire motori potenti in grado di trasportare e sganciare grosse quantità di ordigni
esplosivi; per questo si dedicò alla costruzione di bombardieri tattici come il noto JU-87
Stuka. Alla campagna di Polonia furono assegnate due Luftflotte, le quali già nel giro di
due giorni annientarono l’aviazione polacca; successivamente, esse si dedicarono ad
appoggiare le forze terrestri, sia direttamente tramite bombardamento su truppe nemiche,
sia indirettamente bombardando strade e ferrovie, depositi di munizioni, fabbriche di
armi, etc. In seguito ai pesanti attacchi aerei, al bombardamento di Varsavia e all’avanzata
delle truppe tedesche e russe, la Polonia si arrese entro la fine del mese. Le prestazioni
della Luftwaffe in Polonia attirarono l’attenzione di molti osservatori: ormai era evidente
la portata della potenza aerea tedesca.
In seguito all’attacco alla Polonia, come previsto Francia e Gran Bretagna
dichiararono guerra alla Germania. Tuttavia, le due potenze non erano in grado di avviare
un’offensiva sul fronte occidentale, per questo cercarono di guadagnare più tempo
possibile per raccogliere le loro forze e affrontare il Terzo Reich. Si verificò quindi un
periodo di stallo nelle operazioni militari di terra (Sitzkrieg, ovvero guerra seduta), tanto
che, fino alla primavera del 1940, solamente la Luftwaffe si vide impegnata in qualche
missione di tipo aeronavale, nel lancio di volantini propagandistici o nel compimento di
raid sul Regno Unito. Questi raid provocarono contrasti tra la Luftwaffe e la marina
militare tedesca, essendo quest’ultima timorosa di ritorsioni britanniche, che raggiunsero
il culmine quando la Luftwaffe affondò per sbaglio due cacciatorpediniere tedeschi. Vi
furono, poi, diversi scontri aerei sopra la linea Maginot tra la Luftwaffe e l’Armée de l’air
francese.
Nella primavera del 1940 la situazione si sbloccò. L’alleanza stretta da Hitler con
l’Unione Sovietica costituiva sempre più motivo di grande preoccupazione e ormai non
c’era più tempo da perdere; gli Alleati iniziarono a cercare la soluzione migliore per
fermare la Germania. Dopo molte riflessioni sul da farsi, arrivarono a considerare la
possibilità di rivolgere la loro attenzione al Nord Europa, precisamente alla Norvegia,
poiché quest’ultima costituiva per la Germania la maggior fornitrice di minerale di ferro,

80
materiale utilissimo nella produzione di armi. Nonostante la Norvegia si fosse dichiarata
neutrale, gli Alleati erano convinti che, compromettendo i rifornimenti di ferro alla
Germania ed assicurandoseli per sé, sarebbero riusciti ad arginare il pericolo tedesco; per
tale ragione Winston Churchill ordinò alla Royal Navy di piazzare delle mine esplosive
nelle acque territoriali norvegesi, in modo tale da spingere i cargo tedeschi carichi di ferro
destinato alla Germania verso il mare aperto, per intercettarli e distruggerli lì.
Così, nell’aprile 1940, la Royal Navy iniziò effettivamente a piantare esplosivi
nelle acque territoriali norvegesi. A quel punto Hitler, preoccupato di non poter più avere
accesso al ferro, iniziò a sviluppare un piano per occupare sia la Norvegia che la
Danimarca, in modo da proteggere l’accesso al Baltico ed assicurarsi che il commercio
del ferro rimanesse intatto. La sua idea era quella di un attacco rapido, su larga scala e
poderoso; tuttavia, la Germania non era ancora avvezza alle operazioni militari congiunte,
tanto che, nel cercare di coordinare l’azione delle tre forze, sorsero non pochi problemi.
Durante la campagna, i comandi dell’aria, della terra e del mare finirono per ricevere gli
ordini separatamente, dimostrando tutta la debolezza intrinseca della mancanza di
sinergia tra le forze.
Nonostante ciò, il piano di Hitler si svolse con successo: le due principali basi
aeree danesi furono subito sfruttate dalla Luftwaffe per trasportare truppe e rifornimenti
verso la Norvegia254 ed utilizzate come trampolino per i bombardieri a lungo raggio; dopo
solamente un giorno, la Danimarca si arrese e le cinque città portuali più importanti della
Norvegia, assediate da circa 1000 aerei, 6 divisioni dell’esercito, truppe di superficie ed
un battaglione di paracadutisti, capitolarono255.
Al tempo della campagna di Norvegia, le operazioni militari congiunte erano nella
loro fase embrionale, per questo non si concretizzarono in modo appropriato. Tanto i
tedeschi quanto gli Alleati non riuscirono ad istituire un comando che gestisse la
cooperazione interforze; ci furono ordini contrastanti riguardo una stessa operazione e
l’intelligence non fu in grado di trasmettere informazioni accurate sui numeri e le
posizioni dell’aviazione nemica256. Gli Alleati, poi, formarono due task force
indipendenti al fine di rioccupare Trondheim e Narvik, ma le operazioni a Trondheim si

254
Si stima che la Luftwaffe riuscì a trasportare quasi 3000 truppe tedesche in Norvegia,
effettuando così il più grande trasporto aereo di tutta la guerra.
255
P. S. MEILINGER, op.cit., p. 132
256
Ivi, p. 135

81
rivelarono un disastro, anche perché la base aerea più vicina si trovava a 600 miglia di
distanza e quindi la RAF non potè intervenire; a Narvik la situazione fu invece meno
negativa per gli Alleati, ma solamente perché, trovandosi molto a Nord della Norvegia,
anche la Luftwaffe ebbe difficoltà ad agire in quella zona così inospitale.
Il successo della Germania in Norvegia si deve esclusivamente al fatto che la
Luftwaffe possedesse la superiorità aerea; il Consiglio dei Ministri inglese credeva che la
superiorità in mare avrebbe permesso ai britannici di giungere dalle coste ed agire in
Norvegia tranquillamente, ma la Luftwaffe già dominava lo spazio aereo sopra il litorale.
Senza il controllo dell’aria, e quindi della superficie sottostante, era impossibile per gli
Alleati condurre operazioni decisive. Nel giro di due settimane essi si videro costretti ad
evacuare le loro forze dalla Norvegia, anche perché, nel frattempo, era scoppiata la
Battaglia di Francia (maggio 1940) e la campagna di Norvegia perse conseguentemente
di importanza.

4.3. La Campagna di Francia

In seguito ai successi riportati in Polonia e in Norvegia, Hitler percepì l’esigenza


di impiegare finalmente la propria forza militare anche sul fronte occidentale. In
particolare, i suoi piani prevedevano l’occupazione del Belgio e dei Paesi Bassi, e
successivamente l’attacco alla Francia, in modo da colpire al cuore gli Alleati. Alla vigilia
dell’attacco, le unità corazzate tedesche risultavano nettamente rafforzate: erano 10 e
comprendevano 2600 carri armati, contro i 2400 francesi e britannici. Gli Alleati non
possedevano, dunque, una forza corazzata di contrattacco adeguata a quella dei
tedeschi257. La Luftwaffe contava 51 squadriglie in più rispetto a quelle possedute
all’inizio della guerra e un totale di ben 2.200.000 uomini. La superiorità tedesca era
evidente anche in aria: la Germania mise in campo circa 1700 bombardieri, 1200 caccia,
650 ricognitori, 470 aerei da trasporto e 50 alianti258. Da parte loro, i francesi furono in
grado di utilizzare soltanto 150 bombardieri, 700 caccia e non più di 400 ricognitori. I
britannici, invece, 500 aerei e 250 caccia259.
Il 10 maggio 1940 ebbe inizio la Campagna di Francia. Seguendo il piano

257
B. COLLIER, op.cit., pp. 185-186
258
Ivi, p. 186
259
Ibidem

82
strategico denominato Sichelschnitt (“colpo di falce”), la Wehrmacht impiegò sul fronte
occidentale tre gruppi d’armate: il Gruppo d’armate A, che, dopo aver attraversato il
Lussemburgo, sfondò contro ogni previsione le difese francesi nelle Foreste delle
Ardenne e giunse sino alla Mosa, per poi dirigersi sulla Manica; il Gruppo d’armate B,
che invase nel frattempo il Belgio e i Paesi Bassi; e il Gruppo d’armate C, che tenne una
posizione difensiva lungo la linea Maginot. Il Corpo di Spedizione Britannico e l’esercito
francese, appoggiati da alcune divisioni belghe e olandesi, si trovarono in netta inferiorità
numerica davanti alle divisioni tedesche, e rimasero sorpresi dalla rapidità e
dall’efficienza dell’attacco tedesco, di cui avevano sottovalutato le potenzialità. Oltre a
ciò, come abbiamo ricordato dianzi, la Germania dominava anche l’aria: l’aviazione
tedesca effettuò ingenti bombardamenti sulle basi aeree francesi e olandesi, distruggendo
aerei al suolo e in cielo, nonché su città come Rotterdam e su postazioni nemiche. Ancora
una volta, il dominio dell’aria fu determinante per la riuscita delle azioni militari. I
tedeschi riuscirono a smentire le previsioni alleate, secondo le quali essi avrebbero
impiegato almeno dieci giorni per superare i canali e i fiumi olandesi. Tra le altre cose, la
Germania diede vita anche alla prima operazione aviotrasportata della storia: il 10 maggio
stesso, paracadutisti e corpi di fanteria aviotrasportata vennero paracadutati su obiettivi
chiave sia in Belgio che in Olanda, agevolando così l’avanzata del Gruppo d’armate B.
Gli attacchi aerei tedeschi sulla Francia aumentarono in intensità e frequenza nei
giorni successivi, raggiungendo il culmine nel pomeriggio del 13 maggio, quando per
diverse ore ondate di bombardieri in quota e in picchiata si alternarono nel
bombardamento continuo di postazioni di artiglieria e di fanteria260. I francesi non furono
in grado di schierare nessun caccia che abbattesse o mettesse in fuga gli aerei tedeschi e
gli incessanti bombardamenti di quelle ore fiaccarono notevolmente il morale dei soldati,
molti dei quali alla loro prima esperienza di guerra. L’attacco combinato di aviazione,
Panzer e truppe d’assalto permise ai tedeschi di portare avanti con successo l’azione
militare, frantumando diverse divisioni Alleate. L’artiglieria e la fanteria francesi,
numericamente inferiori e spesso mal equipaggiate, senza alcuna copertura aerea, si
ritirarono in modo disordinato di fronte all’avanzata tedesca; gli uomini erano
chiaramente in preda ad un attacco di panico di massa e scapparono col consenso degli

260
Ivi, p. 195

83
ufficiali stessi261.
Ormai stremati dai bombardamenti tedeschi, i Paesi Bassi si arresero il 15 maggio.
Il forte belga di Eben-Emael, considerato uno dei più imprendibili d’Europa, fu occupato
nel giro di 30 ore dai soldati tedeschi, atterrati con degli alianti sulla sua copertura. La
situazione iniziò a farsi preoccupante anche a Parigi, dove il governo francese stava già
bruciando gli archivi e preparando l’evacuazione della città. La Francia aveva ormai
utilizzato la maggior parte delle divisioni della riserva strategica e l’inferiorità dei soldati
francesi, a livello di numeri ed equipaggiamenti, era netta in confronto alle truppe
tedesche. Nonostante gli attacchi di successo a Sud, lanciati da De Gaulle il 17 e 19
maggio, le armate tedesche riuscirono ancora una volta ad affermare la propria superiorità
e costrinsero il colonnello ad arretrare. Il 20 maggio, i Panzerkorps giunsero sulla Manica
praticamente indisturbati; pochi giorni dopo, le città di Boulogne e Calais caddero in
mano ai tedeschi. Il Belgio si arrese il 28 maggio.
I francesi persero ogni speranza di vittoria, considerato anche che le forze
britanniche stavano ormai evacuando il continente, e il 10 giugno il governo francese si
trasferì a Bordeaux, dichiarando Parigi città aperta. Il 14 giugno i tedeschi entrarono nella
capitale transalpina e il 25 giugno la Francia firmò l’armistizio con le potenze dell’Asse.

4.4. La Campagna d’Inghilterra

La battaglia d’Inghilterra fu il primo scontro interamente combattuto da forze


aeree. I bombardamenti aerei vi conobbero la loro massima intensità. Esso vide
contrapporsi la Luftwaffe e la Royal Air Force, con una limitata partecipazione della
Regia Aeronautica. I primi attacchi furono lanciati dalla Germania, con lo scopo di
condurre il Regno Unito alla resa in brevissimo tempo: Hitler era certo che l’armistizio
fosse imminente.
Se, fino a quel momento, la Luftwaffe aveva agito per lo più in funzione tattica
fornendo supporto all’esercito, adesso era giunto il momento di operare in modo
indipendente e di guadagnare la superiorità aerea sull’aviazione britannica sfruttando le
teorie del bombardamento strategico di Douhet; bisognava, dunque, concentrarsi non

261
Ivi, p. 196

84
sulla linea del fronte, ma sulla distruzione di obiettivi strategici, quali fabbriche, ferrovie,
ponti, aeroporti e centri di produzione aeronautica. Come forze in campo, i tedeschi
organizzarono tre Luftflotten, ognuna delle quali predisposta al bombardamento di una
specifica area dell’Inghilterra.
Dopo il netto rifiuto da parte di Churchill delle proposte di pace tedesche, nel
luglio 1940, la Luftwaffe diede inizio ai bombardamenti, dapprima sulle navi lungo la
Manica, sui convogli di rifornimento e sui porti; successivamente, i bombardamenti si
spostarono sugli aeroporti della costa, su quelli intorno a Londra, sulle fabbriche
aeronautiche e sulle infrastrutture della RAF. La Luftwaffe si stava sostanzialmente
attenendo ai piani, ma i forti contrasti che sorsero tra i suoi comandanti riguardo la
strategia dell’azione portarono questi ultimi a commettere gravi errori. A ciò si aggiunse
un servizio d’informazione sull’apparato difensivo britannico molto impreciso e
frammentato, che non permise alla Luftwaffe di ricevere informazioni chiare e aggiornate
sull’organizzazione della difesa della RAF e che più volte le fece erroneamente credere
di aver ridotto il Comando Caccia al limite delle forze.
Da parte sua, il Regno Unito contava su un apparato organizzativo di comando e
controllo molto complesso: prima di tutto venivano rilevati i nemici in arrivo grazie alle
stazioni radar; successivamente, il Corpo Avvistatori li seguiva da terra tramite dei
binocoli; infine, tutte le informazioni venivano trasmesse alla Sala Operativa del
Comando Caccia. Da qui, gli ufficiali impartivano gli ordini del caso, dirigendo l’azione
della RAF in base ai ragguagli sulle posizioni e sui movimenti dei tedeschi262. Nonostante
in questo sistema di difesa emergessero delle pecche – quali errori di interpretazione dei
dati radar, impossibilità per il Corpo Avvistatori di seguire i nemici durante la notte o con
il mal tempo e difficoltà nelle comunicazioni radio tra Sala Operativa e RAF –, il
Comando Caccia della RAF riuscì comunque ad operare con elevata efficienza, al
contrario della Luftwaffe che iniziava ad indebolirsi.
La Luftwaffe adottò la tattica di utilizzare delle ridotte formazioni di bombardieri
scortate da vicino da numerosi caccia. Il problema di una simile decisione tattica fu che i
caccia, notevolmente più veloci dei bombardieri, si videro invece costretti a volare alla
medesima quota e velocità di questi, circostanza che condusse a gravi perdite tra i caccia

262
A tal proposito, determinante fu la decifrazione delle comunicazioni radiofoniche segrete dei
tedeschi tramite la macchina Enigma, che permise agli inglesi di conoscere in anticipo i piani d’incursione
della Luftwaffe.

85
stessi. Nonostante ciò, i caccia tedeschi si dimostrarono eccezionali e i loro piloti
altrettanto formidabili.
Per quanto riguarda la RAF, nella Campagna d’Inghilterra si distinsero i caccia
Spitfire e Hurricane. I primi, più veloci ed agili, furono preposti all’attacco dei caccia di
scorta tedeschi; i secondi, più lenti, furono preposti all’attacco dei bombardieri, anche se
non di rado si scambiarono i ruoli. La tattica inglese consistette nel lanciare attacchi
continui contro i nemici, in modo da disgregare le formazioni dei loro bombardieri e finirli
uno ad uno.
In seguito ad un periodo di feroci combattimenti, in cui la Luftwaffe prese di mira
più di 30 aeroporti inglesi e la RAF subì ingenti perdite, la notte del 24 agosto i
bombardieri tedeschi sganciarono, seppur per errore, delle bombe su Londra. La notte
successiva, su ordine di Churchill, gli inglesi bombardarono a loro volta Berlino, dando
il via ad un vortice crescente di bombardamenti contro le rispettive città. A partire dal 7
settembre, quasi ogni notte i tedeschi avviarono una serie di raid aerei su Londra, sia
contro obiettivi militari ma anche bombardamenti indiscriminati, definiti dei veri e propri
bombardamenti terroristici, che coinvolsero la popolazione civile di Londra, Liverpool,
Coventry ed altre città. Questo fece sì che i bombardamenti fino a quel momento effettuati
sugli aeroporti diminuissero notevolmente, tanto da lasciare alla RAF, che ormai si
credeva ad un passo dalla sconfitta, l’inaspettata possibilità di riprendere fiato e di
riorganizzare le proprie basi. La RAF rispose quindi ai bombardamenti su Londra in modo
pronto ed efficace, schierando forze decisamente superiori a quanto si aspettasse la
Luftwaffe, che, come abbiamo detto, pagava anche lo scotto delle gravi lacune nello
spionaggio tedesco. Inoltre, la distanza delle basi aeree tedesche da Londra fu un altro
motivo di grande svantaggio. Il cambio di tattica deciso da Hitler fu cruciale nel concedere
agli inglesi tempo prezioso per la preparazione della controffensiva, ma deleterio per la
Luftwaffe, la cui superiorità numerica non si rivelò sufficiente a spuntare la battaglia.
Una volta divenuta chiara l’impossibilità di neutralizzare la RAF, il 19 settembre
Hitler rinunciò al piano d’invasione dell’Inghilterra263, pur ordinando il prosieguo dei

263
Dopo la resa della Francia, Hitler era convinto che anche la Gran Bretagna avrebbe chiesto la
pace. Per spingerla alla resa, decise di programmarne l’invasione, attribuendo a tale piano il nome in codice
Unternehmen Seelöwe, ovvero “operazione Leone marino”. Il piano prevedeva che la Luftwaffe dovesse
annientare la RAF e distrarre la Marina inglese dalla Manica, così da permettere alle divisioni della
Wehrmacht di sbarcare indisturbate sulla costa e penetrare in Inghilterra.

86
blitz aerei su Londra e su altre città sino al maggio 1941264. Anche la Regia Aeronautica,
a partire da ottobre, contribuì all’offensiva contro gli inglesi, schierando in particolare 75
bombardieri FIAT Br 20, 100 caccia FIAT Cr 42 e G 50 e alcuni aerei da ricognizione265.
Tutti questi velivoli, comunque, non diedero alcun apporto significativo: per un motivo o
per un altro, infatti, si rivelarono nettamente inferiori agli Hurricane e agli Spitfire inglesi.
Con lo spostamento dell’attenzione tedesca sul fronte orientale nel maggio 1941,
la battaglia d’Inghilterra giunse praticamente al termine, sancendo la vittoria inglese e la
prima disfatta tedesca; disfatta che segnò un punto di svolta, dal momento che arrestò
l’ondata di sconfitte iniziata con l’invasione della Polonia e donò nuova speranza alle
forze Alleate.

4.5. Il fronte orientale: l’Operazione Barbarossa

Dopo l’umiliante rovescio nella battaglia d’Inghilterra Hitler, che aveva già in
mente di invadere l’Unione Sovietica, ritenne che fosse giunto il momento di
concretizzare i suoi piani. Tra le altre cose, egli non aveva ancora abbandonato il
proposito di una pace con gli inglesi, e pensò che un’invasione dell’Unione Sovietica
avrebbe convinto la Gran Bretagna ad accordare la pace ai tedeschi in chiave
anticomunista. Invece, una volta dichiarata guerra all’Unione Sovietica, la Gran Bretagna
si alleò con l’URSS, in un insolito sodalizio capitalismo-comunismo.
La guerra contro l’URSS ebbe inizio il 22 giugno 1941. Le truppe tedesche
invasero l’Unione Sovietica attraverso la parte di territorio polacco sotto il suo controllo,
impiegando lo stesso numero di divisioni che avevano usato sul fronte occidentale nel
1940 e circa 3000 aerei di supporto alle avanzate delle armate su Leningrado, Mosca e il
bacino del Donec266. L’Armata Rossa disponeva di meno di 1500 carri armati, affidati ad
equipaggi quasi del tutto inesperti. Per quanto riguarda i velivoli, l’URSS poteva contare
su un gran numero di aerei, ma la loro maggioranza era ormai obsoleta. Inoltre, le
comunicazioni erano rudimentali e i radar assolutamente non paragonabili a quelli

264
Tra il 15 novembre 1940 e il 16 maggio 1941 la Luftwaffe compì, tra le principali, 14 incursioni
su Londra, 8 su Liverpool, Birmingham e Plymouth, 6 su Bristol , 5 su Glasgow, 4 su Southampton, 3 su
Portsmouth e Manchester e una seconda incursione su Coventry. Complessivamente, tra il 7 settembre 1940
e il 16 maggio 1941, circa 19.000 tonnellate di bombe furono sganciate su Londra e nei dintorni.
265
B. COLLIER, op.cit., p. 234
266
Ivi, p. 320

87
utilizzati dai tedeschi.
La tattica della Luftwaffe consistette in primis nell’immobilizzare l’aviazione
sovietica, e successivamente nell’appoggiare le forze di terra durante gli attacchi agli
obiettivi sul campo, nonché nel compiere voli di ricognizione267. Nel momento in cui i
tedeschi avviarono finalmente l’offensiva forzando la linea di demarcazione, si
ritrovarono davanti un’Armata Rossa impreparata e spaesata. Per questo, soltanto nel
corso del primo giorno, gli aerei russi distrutti furono 1200. La Gran Bretagna promise
all’Unione Sovietica tutto il possibile aiuto materiale ed economico, inviandole tra le altre
cose molti dei suoi velivoli e carri armati; inoltre, s’impegnò nel fornirle una grande
quantità di materie prime, mentre gli Stati Uniti le fornirono numerose quantità di
manufatti268.
Dopo due settimane di interruzione degli attacchi da parte dei tedeschi, a causa
del sopraggiungere della pioggia e della neve, i russi riuscirono però a guadagnare il
vantaggio nell’aria. Furono favoriti dal fatto di poter disporre di basi permanenti con piste
di decollo e atterraggio sgombre da neve e ghiaccio da cui far partire caccia e bombardieri,
mentre i piloti dei caccia tedeschi erano impossibilitati al decollo per via del rischio di
atterraggi difficoltosi in campi d’aviazione coperti di ghiaccio, che avrebbero provocato
ingenti danni ai propri velivoli269. I tedeschi non potevano permettersi di perdere velivoli,
poiché disponevano di pochissimi pezzi di ricambio e la Luftwaffe non era abbastanza
equipaggiata per affrontare determinate condizioni. Nonostante un’efficace
controffensiva russa, che allontanò i tedeschi da Mosca, e nonostante l’imminente inverno
russo, Hitler proibì la ritirata generale ed insistette nel mantenere la linea difensiva. Ma
le truppe tedesche iniziarono a soffrire gravi disagi a causa delle rigidissime temperature
presenti in teatro: non possedevano indumenti ed equipaggiamenti adatti, i veicoli
cingolati non riuscivano a mettersi in moto a causa del gelo, le armi tendevano a bloccarsi
spesso per lo stesso motivo e il carburante per i veicoli veniva utilizzato per accendere
fuochi270. Il freddo e la debolezza fisica e mentale fiaccarono completamente gli uomini.
Anche la Luftwaffe, ormai, versava in condizioni pessime: alla fine del 1941 alcune unità
erano in grado di utilizzare soltanto meno di un terzo dei loro aerei ed altre unità, rimaste

267
Ivi, p. 323
268
Ivi, p. 326
269
Ivi, p. 328
270
Ivi, p. 329

88
totalmente a secco di velivoli ed equipaggi, furono addirittura sciolte271. La Luftwaffe
non era più in grado di dare supporto aereo alle truppe di terra operanti in Russia. Come
se non bastasse, nell’estate del 1942 alla RAF si aggiunse la forza aerea statunitense
(USAAF). I B-17 Flying Fortress americani, tuttavia, subirono ingenti perdite, in quanto
sprovvisti di corazzatura e con serbatoi non in grado di auto sigillarsi in caso di
perforazione. Solo con l’introduzione, nel 1944, del P-51 Mustang, fu possibile ridurre
notevolmente gli abbattimenti.
I successivi fallimenti tedeschi e gli attacchi aerei britannici e americani sulla
Germania sul fronte occidentale, costrinsero la Luftwaffe a ritirare i propri velivoli dal
fronte orientale nel maggio 1945.

4.6. La guerra del Pacifico

Negli anni Venti e Trenta, il Giappone conobbe una progressiva militarizzazione


che gli permise di modernizzare e riorganizzare il suo esercito. Non fu creato un corpo di
bombardieri indipendente, ma le forze aeree rimasero destinate all’appoggio delle forze
navali e terrestri. Nel 1941 l’esercito giapponese poteva contare su circa 1500 aerei.
Prescindendo dalle motivazioni politiche alla base di una tale decisione, poiché
non hanno rilevanza ai fini di questo lavoro, il 7 dicembre gli aerei giapponesi raggiunsero
e bombardarono la flotta statunitense ormeggiata a Pearl Harbor, affondando tutte le navi
corazzate ivi ancorate, distruggendo 350 aerei americani e uccidendo molti tra marinai,
soldati e marines. Fu «la più impressionante impresa aerea cui il mondo aveva mai
assistito»272. Nonostante i gravi danni arrecati, però, i giapponesi mancarono gli obiettivi
di maggiore importanza strategica: infatti né le portaerei americane – nascoste agli
attacchi aerei poiché in riparazione o in missione – né i depositi di carburante furono
bombardati; tale contingenza si rivelò decisiva, in seguito, nell’accelerare la sconfitta del
Giappone.
L’Impero nipponico confidava nelle proprie possibilità di vittoria, dal momento
che la sua Marina possedeva la miglior forza aeronavale dell’epoca, equipaggi con un alto
livello di addestramento, mezzi eccellenti ed un servizio di spionaggio efficiente.

271
Ivi, p. 330
272
Ivi, p. 349

89
Dall’altra parte, comunque, anche gli Stati Uniti possedevano una forza aeronavale tra le
più potenti al mondo, e soprattutto potevano contare sulle loro straordinarie capacità
industriali. Le portaerei svolsero un ruolo importante in questo conflitto: grazie ad esse
era possibile estendere la portata e l’efficacia degli attacchi aerei nonché penetrare in
profondità, motivo per cui si assistette alla trasformazione del potere navale in potere
aeronavale. Le portaerei divennero per l’avversario l’obiettivo fondamentale da
annientare.
La tattica del bombardamento strategico, utilizzata con successo dagli americani
nel teatro europeo, non fu praticabile nel Pacifico a causa delle grandi distanze. Gli
americani, infatti, disponendo del B-17 – ovvero un bombardiere non abbastanza
autonomo da raggiungere le città giapponesi e tornare alle proprie basi o portaerei –, a
parte il raid su Tokyo dell’aprile 1942 non riuscirono mai a costituire una reale minaccia
per i giapponesi. La situazione cambiò nel 1944 con l’introduzione di un nuovo
bombardiere, il Boeing B-29 Superfortress, caratterizzato dal doppio del raggio d’azione
del precedente B-17. Tuttavia non bastarono gli attacchi aerei nel cuore dell’Impero né le
devastanti bombe incendiarie di cui gli americani si servirono a partire dal 1945 a fiaccare
il morale e la resistenza dei giapponesi, i quali continuarono a lottare strenuamente e a
difendersi dal bombardamento strategico dei B-29 americani anche grazie alle valorose
azioni dei kamikaze.
La svolta decisiva arrivò nell’estate del 1945, quando gli americani misero a punto
la bomba atomica. A porre definitivamente fine agli slanci di resistenza del Giappone ci
pensò il primo ordigno nucleare della storia sganciato sulla città di Hiroshima il 6 agosto,
seguita dopo pochi giorni dalla città di Nagasaki. Entrambi gli attacchi provocarono
gravissime perdite tra la popolazione, per non contare tutte le persone che morirono negli
anni successivi a causa degli effetti devastanti delle radiazioni. Fu proprio in
quell’occasione che il potere aereo fece esattamente ciò che aveva promesso negli ultimi
25 anni: terminare la guerra il più velocemente possibile. Il Giappone non poté fare altro
che arrendersi, con una capitolazione che segnò la fine della Seconda guerra mondiale e
l’inizio dell’età nucleare, caratterizzata dal nuovo ruolo del potere aereo come vettore
nucleare.
La Seconda guerra mondiale riaccese il dibattito tra i sostenitori e i detrattori del
bombardamento strategico. Gli studiosi che mettevano in dubbio l’utilità del

90
bombardamento strategico affermavano che le offensive aeree inglesi e americane non
erano bastate a scuotere la perseveranza della Germania nel continuare la guerra e che gli
attacchi alle fabbriche giapponesi di aerei erano falliti. Inoltre, i bombardieri a lungo
raggio si erano dimostrati mezzi imprecisi. I sostenitori del bombardamento strategico,
invece, ribatterono che i bombardamenti a tappeto e gli attacchi mirati erano stati cruciali
nell’annientare obiettivi strategici in Germania e si erano rivelati efficaci soprattutto in
Giappone. Questa differenza di pensiero si riversò anche nel tipo di costruzioni aeree: i
Paesi sostenitori della natura strategica dell’aereo resero le forze aeree indipendenti e
canalizzarono la loro attenzione sulla produzione di bombardieri a lungo raggio. Gli altri
Paesi, invece, si concentrarono sulla natura tattica dei velivoli, essendo questi considerati
mezzi di supporto tattico subordinati all’esercito e alla marina.

4.7. L’avvento dell’era atomica. Il potere aereo nell’era nucleare

Nel loro libro “Airpower in the Nuclear Age”273, il maresciallo Michael J.


Armitage e il comandante R. A. Mason sostennero che il potere aereo rappresentasse il
fattore dominante del secondo dopoguerra. Difatti, la Seconda guerra mondiale aveva
provato che, sia in superficie che in mare, nessuna operazione militare su larga scala
avrebbe potuto avere successo se non supportata dalle forze aeree. In realtà, il vero fattore
dominante del secondo dopoguerra furono le armi nucleari, che da quel momento in poi
avrebbero influenzato e dominato il pensiero strategico. Il lancio delle prime bombe
atomiche, effettuato sulle città di Hiroshima e Nagasaki, segnò la nascita della cosiddetta
“era atomica” – termine coniato dal giornalista americano William L. Laurence dopo aver
assistito in prima persona ai bombardamenti – e attribuì agli Stati Uniti il primato
nucleare. Fu subito chiaro che le armi nucleari avrebbero reso le forze armate,
specialmente quelle americane che le avevano dispiegate ed utilizzate per prime, le
invincibili padrone del mondo. Per questo motivo molti ufficiali delle forze aeree
americane presero a sottolineare l’importanza di rendere il potere aereo indipendente dal
controllo dell’esercito e trasformarlo in un servizio autonomo, alla stregua di tutti gli altri
Paesi. Cosa che avvenne effettivamente nel 1947 con la creazione della United States Air

273
M. J. ARMITAGE - R. A. MASON, Airpower in the Nuclear Age, Urbana, University of
Illinois Press, 1983, pp. 1-19

91
Force (USAF). L’esercito americano, invece, determinato a servirsi anch’esso delle armi
nucleari, occupò una fabbrica tedesca di missili V-2, localizzando inoltre il gruppo di
esperti che aveva lavorato alla loro costruzione e portandolo negli Stati Uniti. Il team,
guidato da Wernher von Braun, sviluppò missili per gli Stati Uniti dal 1948 al 1955.
Dopo il lancio delle bombe atomiche iniziò a diventare evidente che le armi
nucleari avrebbero cambiato radicalmente il modo di combattere le guerre e le
motivazioni alla base di quest’ultime. Il più grande sostenitore di questa verità fu Bernard
Brodie, stratega militare americano e autore di molti importanti lavori che influenzarono
il dibattito sulle armi nucleari per oltre cinquant’anni e che gli valsero il soprannome di
“the American Clausewitz”. In particolare, in “The Absolute Weapon”274, Brodie anticipò
lo sviluppo della dottrina della “massive retaliation”275 (“rappresaglia massiccia”), che
divenne centrale nella strategia nucleare americana degli anni Cinquanta.
Lo sviluppo e la diffusione delle armi nucleari appariva ormai un processo
inevitabile: nel 1949, soltanto quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki, anche l’Unione
Sovietica riuscì a costruire il suo primo ordigno atomico, eguagliando gli Stati Uniti. Si
andò così configurando quel sistema di potenze che avrebbe caratterizzato tutto il periodo
della Guerra Fredda (1947-1991), ovvero il bipolarismo, e che vide per 45 anni gli Stati
Uniti e l’URSS in posizioni dominanti.
Per diverso tempo dopo il 1945, l’aviazione strategica si configurò come unico
vettore nucleare, confermando la concezione classica douhetiana della guerra aerea276.
Ma con l’intensificarsi degli esperimenti nucleari delle due superpotenze e, soprattutto,
la progettazione del primo missile balistico intercontinentale da parte dell’URSS e il
lancio dello Sputnik nello spazio, la dimensione dei nuovi conflitti si spostò sul piano
missilistico e spaziale. La guerra nucleare e la guerra spaziale si sostituirono alla guerra
aerea.277
Durante tutta la Guerra Fredda, in una competizione nucleare e spaziale continua,

274
B. BRODIE, The Absolute Weapon: Atomic Power and World Order, New York, Harcourt,
1946
275
Strategia nucleare coniata dal segretario di Stato americano Dulles nel 1954 che prevedeva, in
caso di un attacco nemico, una risposta massiccia di forza sproporzionata rispetto all’attacco subito. Tale
strategia aveva come scopo quello di dissuadere qualunque altro Stato dall’attaccare per primo, per paura
di una ritorsione.
276
Cfr. COL. F. BOTTI, Dalla strategia aerea alla strategia spaziale, in “Informazioni della
difesa”, 2/2000, p. 45
277
Ibidem

92
le due superpotenze migliorarono costantemente i propri arsenali nucleari. Nel 1954 il
segretario di Stato dell’amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles, coniò il termine
“rappresaglia massiccia” in riferimento alla minaccia comunista rappresentata
dall’URSS. In particolare egli affermò l’importanza primaria della difesa locale e della
sicurezza collettiva, per cui un eventuale passo falso da parte dell’Unione Sovietica
avrebbe scatenato una ritorsione massiccia da parte degli Stati Uniti. Questa strategia fu
resa pubblica proprio con lo scopo di fungere da deterrente e risultò credibile in quanto
gli Stati Uniti possedevano numerosissime basi sul territorio americano e in Europa,
mentre l’URSS non disponeva di vettori nucleari con raggio sufficiente a raggiungere
l’America.
Ma la progettazione dei primi missili balistici intercontinentali da parte dell’URSS
e il successo del lancio nello spazio dello Sputnik – che assegnò il primato spaziale ai
sovietici nel 1957 – ribaltarono la situazione e, per la prima volta, resero concreta la
possibilità di una guerra nucleare tra le due superpotenze. A tal proposito, in quel periodo
si sviluppò un’altra dottrina, quella della “distruzione mutua assicurata”, secondo la quale
ad ogni attacco nucleare da parte di un Paese sarebbe inevitabilmente corrisposto un
contrattacco nucleare da parte del Paese colpito; questo tipo di scontro non avrebbe
ovviamente portato nessuna vittoria, ma soltanto distruzione in entrambi i Paesi, motivo
per cui le due superpotenze si astennero sempre dal far scoppiare una guerra nucleare.
Tutto il periodo della Guerra Fredda si svolse quindi sul filo del rasoio, con
l’incubo costante del nucleare, e vide alternarsi l’incessante lotta al riarmo e i tentativi di
controllo degli armamenti tra Stati Uniti e URSS. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi
non furono mai interrotte durante la Guerra Fredda, sebbene ci volle molto impegno per
mantenerle. In seguito alla crisi dei missili di Cuba del 1962, che quasi causò lo scoppio
di una guerra nucleare – sfiorata anche nel 1948 con la questione del blocco di Berlino –
, la corsa agli armamenti nucleari rallentò drasticamente e le due superpotenze
compresero appieno gli esiti catastrofici che un possibile scontro nucleare avrebbe
comportato; in ambito NATO la dottrina della distruzione mutua assicurata venne
abbandonata in favore della dottrina della risposta flessibile278. Le trattative sul disarmo
che ebbero inizio a partire dagli anni ’60 – salvo una battuta d’arresto nel periodo dal

278
Strategia militare adottata negli anni ’60 dal presidente Kennedy, secondo la quale si sarebbe
dovuto rispondere ad ogni minaccia o attacco in modo adeguato e proporzionale, graduando e controllando
l’escalation.

93
1979 al 1985 a causa di un deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e URSS –,
portarono ad importanti accordi sulla limitazione degli armamenti: il SALT I (1972), il
protocollo anti missili balistici (1972), il SALT II (1979), il trattato INF (1987), il trattato
START I (1989) e il trattato START II (1993).
La fine della Guerra Gredda nel 1989 pose fine alla gara spaziale, ma fece
emergere l’importanza strategica del missile a media gittata, considerato nelle teorie
occidentali il sostituto dell’aereo strategico279. Tale missile divenne un’arma operativa a
tutti gli effetti, raggiungendo un’autonoma valenza strategica: preciso, invulnerabile, più
economico rispetto all’avanzata tecnologia dell’aereo, avrebbe anche evitato i numerosi
abbattimenti degli aerei in guerra e la conseguente cattura dei piloti280. Sostanzialmente,
nel mondo occidentale la combinazione satellite spaziale-missile venne a rappresentare il
fattore strategico predominante sui tre elementi classici del conflitto (forza navale, forza
terrestre, forza aerea).
Nonostante ciò, la jointness tra forze d’aria e forze terrestri rimase una parte
essenziale della guerra moderna. Il potere aereo, durante la Guerra Fredda, ricoprì un
ruolo importante in molte occasioni. Ad esempio, nella guerra di Corea la difficile azione
delle truppe di terra fece affidamento sul supporto aereo, che permise di contenere i Nord
Coreani e di controbilanciare la superiorità numerica delle forze cinesi281; la guerra del
Vietnam rafforzò l’idea che il potere aereo fosse indissolubilmente legato al potere
marittimo e a quello terrestre, considerato che la combinazione tra le quattro forze (US
Navy, US Army, US Air Force e US Marine Corps) giocò un ruolo cruciale nel conflitto;
ed ancora, l’impiego del potere aereo da parte di Israele nell’appoggiare le truppe di
superficie fu un fattore determinante per il suo successo nel 1967 e nel 1973. In entrambe
le guerre, infatti, il potere aereo apportò un contributo considerevole all’esercito
israeliano, sia a livello difensivo che offensivo.
L’originaria funzione del potere aereo rimase quindi essenziale; ma accanto ad
esso si sviluppò, come abbiamo visto, una nuova dimensione del potere, quella spaziale.

279
COL. F. BOTTI, op.cit., p. 46
280
Ibidem
281
D. JORDAN, Air and space warfare, in Understanding modern warfare, Cambridge,
Cambridge University Press, 2016, p. 266

94
4.8. Geopolitica del potere aereo nel secondo dopoguerra: Renner e de
Seversky

Lo sviluppo dell’arma aerea e missilistica del secondo dopoguerra non fu solo ed


esclusivamente un fatto pragmatico. Al contrario, si trattò di uno sviluppo accompagnato
e, in molti casi, preparato e condizionato, da concomitanti riflessioni di ordine teorico,
che anticiparono i possibili sviluppi che il potere aereo avrebbe percorso. L’innovazione
apportata dall’aeronautica in campo militare fu talmente pervasiva e profonda che le
teorizzazioni – possiamo dire di “prima generazione” – degli studiosi di strategia aerea
(Douhet, Mitchell, Trenchard) o di strategia nucleare come Brodie282, sebbene di
importanza cruciale, non furono le sole. Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, venne
elaborata un’altra serie di teorie, relative alle forme d’impiego dell’immenso potenziale
degli aerei nelle guerre future, in seguito alla comparsa delle armi nucleari. Questa volta,
ad occuparsene furono alcuni studiosi di geopolitica – i teorici di “seconda generazione”
– tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, alimentando una vera e propria
“mistica del potere aereo”283.
Tradizionalmente, la geopolitica è definita come quella disciplina che studia il
rapporto tra potere politico e spazio geografico, e in che misura il secondo influenzi il
primo. Fino a quel momento, lo spazio geografico aveva fatto riferimento esclusivamente
alle due dimensioni di terra e mare; ma dall’avvento del potere aereo, con la conquista
della cosiddetta terza dimensione, quella dell’aria, e anche di quella spaziale grazie alle
armi atomiche e ai missili intercontinentali, lo spazio geografico preso in considerazione
si era inevitabilmente trasformato. Per cui, sebbene le prime teorie geopolitiche dei primi
del Novecento non contemplassero in alcun modo l’aeroplano – a quei tempi nella sua
fase embrionale e considerato, come abbiamo ampiamente visto, per lo più un mezzo di
ricognizione senza alcun potenziale autonomo e strategico –, nel secondo dopoguerra le
cose cambiarono. Tra le maggiori teorie geopolitiche sul potere aereo del periodo
troviamo senz’altro quelle di George Renner e Alexander P. de Seversky,
La peculiare concezione della strategia bellica aerea di de Seversky – strategia che
egli lega strettamente a principi di geopolitica – è illustrata soprattutto nella sua opera

282
B. BRODIE, Strategy in the Missile Age, Princeton, Princeton University Press, 1959
283
C. JEAN, Manuale di geopolitica, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 42-43; cfr. E. A. COHEN,
The Mystique of US Air Power, in “Foreign Affairs”, gennaio-febbraio 1994, pp. 109-124

95
maggiore, “Victory Through Air Power”, che vide la luce nel 1942284. Per comprenderla
meglio, occorre prima prendere le mosse da un altro teorico che fu suo precursore e i cui
pensieri furono accolti e sviluppati da de Seversky. Si tratta dell’americano George
Renner, il quale, a sua volta, sviluppò le sue teorie in materia di strategia aeronautica
secondo un’originale concezione geopolitica.
Renner sostenne che la nascita del potere aereo non soltanto aveva comportato un
rivolgimento radicale negli assetti della guerra contemporanea, ma aveva avuto anche
ripercussioni profonde sullo scenario geopolitico: la tradizionale contrapposizione fra
terra e mare si era affievolita e i cosiddetti heartlands285 erano ormai diventati due, uno
negli Stati Uniti e l’altro nell’URSS, entrambi raggiungibili solo tramite l’Oceano
Artico286.
Come anticipato, questa tesi fu ripresa e sviluppata da de Seversky. Anche per lui
il potere aereo aveva mutato il volto della geopolitica contemporanea, specialmente in
considerazione del fatto che gli aerei erano ormai in grado di percorrere grandi distanze
in tempi relativamente brevi. L’intero mondo, secondo de Seversky, doveva essere diviso
in due grandi aree o circles (“cerchi”)287; tali cerchi avevano come centro i cuori
industriali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, e come raggio la distanza che poteva
essere coperta dai bombardieri strategici288. Ora, se agli Stati Uniti spettava il dominio
dell’emisfero occidentale, all’URSS sarebbe chiaramente andato il dominio dell’emisfero
euro-asiatico289. La potenza di entrambe queste realtà geopolitiche, o cerchi, era analoga.
Per gli Stati Uniti, secondo de Seversky, sarebbe stato sconveniente creare basi aeree al
di fuori dei propri confini, poiché per poterle difendere sarebbe stato necessario accollarsi
oneri pesanti sia in termini finanziari che di personale290. La potenza aerea occidentale,
quindi, avrebbe dovuto essere concentrata tutta entro i confini degli Stati Uniti, e, al più,
in Gran Bretagna, Paese legato all’America per comunanza di tradizioni linguistiche e

284
A. DE SEVERSKY, Victory Through Air Power, New York, Simon & Schuster, 1942
285
Termine coniato dal geografo Sir Halford Mackinder in riferimento alla zona centrale
dell’Eurasia, vale a dire il territorio compreso tra il Volga, il Fiume Azzurro, l’Artico e l’Himalaya,
corrispondente all’incirca alla Russia centro-meridionale e alle zone limitrofe. Secondo le sue teorie
geopolitiche, l’heartland costituiva il cuore di tutti i territori, e chi l’avesse controllato avrebbe potuto
comandare il mondo.
286
C. JEAN, Geopolitica del mondo contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 173 sgg.
287
A. DE SEVERSKY, Potenza aerea: chiave della sopravvivenza, Milano, Garzanti, 1953, p.
240
288
C. JEAN, Manuale di geopolitica, cit., p. 43
289
C. JEAN, Geopolitica del mondo contemporaneo, cit., p. 171
290
C. JEAN, Manuale di geopolitica, cit., p. 43

96
culturali e che – secondo una precisa definizione di de Seversky – rappresentava «l’unico
avamposto difendibile dell’Occidente»291.
Già nel 1942, quando gli esiti del secondo conflitto mondiale non erano ancora
prevedibili, apparve chiaro a de Seversky che i fascismi sarebbero caduti e che il mondo
sarebbe stato letteralmente spartito nei due grandi poli di influenza, appunto i due cerchi,
formati da Stati Uniti e URSS. Come ha osservato, tra gli altri, Carlo Jean, de Seversky
arrivò a prefigurare la peculiare realtà della Guerra Fredda292. Tale visione, acuta e
lungimirante, venne tuttavia compensata – per così dire – da una singolare miopia
riguardo l’importanza dell’egemonia americana, che sarebbe stata celebrata in tutto il
mondo occidentale dopo il termine del secondo conflitto mondiale. Secondo alcuni autori,
de Seversky si era richiamato implicitamente, rinnovandone presupposti e contenuti, alla
“dottrina Monroe”, che rivendicava la necessità che gli Stati Uniti non si impegnassero
in conflitti al di là dei propri confini e conducessero una politica estera soprattutto di tipo
difensivo293. Questa dottrina, pronunciata da James Monroe al Congresso nel dicembre
1823, mirava a ribadire l’assunto della supremazia statunitense in tutto il continente
americano e l’assoluta intolleranza, da parte americana, di qualsiasi ingerenza o
intromissione delle potenze europee negli affari americani; allo stesso modo, affermava
la volontà degli Stati Uniti di non inserirsi in alcuna disputa o controversia che riguardasse
le potenze del vecchio continente. Vi sarebbero, dunque, alcuni elementi di analogia tra
la dottrina Monroe e le dottrine di de Seversky in ragione del fatto che quest’ultimo,
esaltando il potere aereo e svalutando quello navale, non concepiva basi aeree al di fuori
dei confini americani e riteneva assolutamente non utile la creazione di basi oltremare,
dichiarandole superflue e controproducenti294.
L’aviazione strategica, insomma, secondo de Seversky era l’elemento
fondamentale della guerra contemporanea; le flotte navali erano semplicemente da
considerarsi oltrepassate e solo la potenza aerea avrebbe deciso, in futuro, della vittoria o
della sconfitta di uno Stato in guerra. È evidente la tendenza a non prendere in debita

291
A. DE SEVERSKY, Potenza aerea: chiave della sopravvivenza, cit., p. 241; C. JEAN,
Manuale di geopolitica, cit., p. 43
292
C. JEAN, Geopolitica del mondo contemporaneo, cit., pp. 171 sgg.
293
Cfr. W. R. MEAD, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti
d’America, Milano, Garzanti, 2005, pp. 113 sgg., e M. MARIANO, L’America nell’Occidente. Storia della
dottrina Monroe (1823-1963), Roma, Carocci, 2013
294
Ibidem

97
considerazione neanche quel ruolo cruciale che in varie occasioni, nel corso della Seconda
guerra mondiale, avevano svolto le navi portaerei. Egli non intendeva, in ogni caso,
sminuirne in assoluto l’importanza, quanto piuttosto ridimensionarla, considerandola,
cioè, uno stadio intermedio che l’evoluzione tecnologica e militare avrebbe reso
senz’altro obsoleto. Sempre nel suo libro, de Seversky scriveva che le basi oltremare, le
portaerei e le flotte erano state indispensabili solo perché non si era ancora giunti al punto
di rafforzare l’autonomia dei bombardieri; quando a ciò si fosse giunto, il potere navale
avrebbe dovuto svolgere mere funzioni di supporto295. Ciò presupponeva l’idea per cui i
bombardieri sarebbero dovuti essere di dimensioni e potenza tali da avere una grande
autonomia, così da poter colpire anche prescindendo da basi oltremare e, appunto,
prendendo il volo soltanto da basi situate all’interno dei confini nazionali296.
Quest’analisi ci consente di evidenziare le “ombre” delle teorie di de Seversky –
sottolineate a più riprese dai critici –, fondamentalmente riconducibili a
quell’“isolazionismo aereo” che trapela con ogni chiarezza dal suo pensiero 297. Il fatto
che la vittoria degli Alleati avrebbe potuto e dovuto tradursi in una grande egemonia
americana sull’intero mondo occidentale – e non solo sul continente americano –,
sfuggiva alla sua attenzione. Egli non teneva conto della realtà politica, non
comprendendo l’importanza per gli Stati Uniti di proiettarsi oltre i propri confini al fine
di convincere gli europei a cercare la loro sicurezza nell’Alleanza atlantica piuttosto che
in un eventuale accordo con l’URSS298. Anzi, era proprio la presenza militare americana
nelle realtà europee che egli riteneva superflua e persino deleteria. Nella sua visione
geopolitica la componente militare, e innanzitutto aerea, prendeva il sopravvento sulla
visione politica. Come risulta anche da alcuni passi della sua opera principale, Victory
Through Air Power, quella che egli chiama in modo spregiativo la “disseminazione” di
basi aeree al di fuori dei confini statunitensi sarebbe risultata verosimilmente un
deterrente assai scarso e, addirittura, sarebbe stata una miccia in grado di far esplodere
una nuova polveriera, prefigurando una possibile terza guerra mondiale299.

295
Cfr. A. DE SEVERSKY, Potenza aerea, chiave della sopravvivenza, cit., pp. 131 sgg., e P.
PARET, Makers of Modern Strategy: from Machiavelli to the Nuclear Age, Princeton, Princeton University
Press, 1986, pp. 303 sgg.
296
Cfr. A. DE SEVERSKY, Potenza aerea, chiave della sopravvivenza, cit., pp. 113 sgg.
297
Sull’isolazionismo aereo cfr. C. JEAN, Geopolitica del mondo contemporaneo, cit., pp. 183
sgg.
298
C. JEAN, Manuale di geopolitica, cit., p. 43
299
P. PARET (a cura di), Guerra e strategia nell’età contemporanea, Torino, Marietti, 2007, p.

98
Nonostante quindi le loro teorie avessero ad oggetto il potere aereo, di cui
compresero appieno la forza e la centralità – a differenza delle teorie geopolitiche
classiche dei primi decenni del Novecento (Mackinder, Mahan, Spykman, etc.) –, De
Seversky e Renner appaiono ai nostri occhi come uomini del passato non proiettati al
futuro, poiché non compresero come l’inespugnabilità dell’heartland fosse un concetto
strettamente legato alla tecnologia di quel tempo e destinato quindi ad essere superato;
difatti, l’incessante sviluppo della tecnologia avrebbe – e così è stato – modificato
drasticamente la geostrategia: non sarebbero più esistiti confini naturali e tutto il mondo
sarebbe stato coperto dal raggio d’azione degli aerei.

4.9. Il potere aereo nella dottrina occidentale e in quella sovietica

La dottrina del potere aereo, in più di cento anni da quel primo volo dei fratelli
Wright a Kitty Hawk, si è evoluta incessantemente di pari passo con gli sviluppi della
tecnologia. Se con riferimento alla Prima guerra mondiale ancora non si poteva parlare di
potere aereo, considerato che gli aerei erano visti per lo più come mezzi di supporto e
ricognizione proprio a causa degli scarsi progressi tecnologici e dei limiti oggettivi degli
aeromobili, nel corso della Seconda guerra mondiale gli aerei risultarono notevolmente
migliorati: il potere aereo dimostrò allora le sue potenzialità, assumendo finalmente
rilevanza e imponendosi come elemento necessario di un conflitto. Con la nascita
dell’arma nucleare, poi, esso assume ancora più centralità, in quanto, oltre alle sue
tradizionali funzioni, l’aereo acquisisce anche quella di vettore degli ordigni nucleari. Le
teorie di Douhet, Mitchell e Trenchard vedono così realizzarsi quella supremazia aerea a
lungo preconizzata.
Durante la Guerra Fredda, tale supremazia spettò soltanto a due superpotenze,
l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, i due poli di quel sistema bipolare che avrebbe
permeato il mondo per poco meno di mezzo secolo. Ma pur riconoscendo e condividendo
entrambi l’importanza del potere aereo, vi è tuttavia una differenza sostanziale nel ruolo
che le due superpotenze gli attribuirono, riconducibile ad ideologie contrapposte.
Nella dottrina dei Paesi occidentali, il potere aereo era l’elemento risolutivo di un

14

99
conflitto; quindi non solo era decisivo, ma anche in grado di influenzare le sorti della
guerra. La dottrina occidentale vedeva nell’aereo una forza operativa che andava ben oltre
la mera funzione di supporto alle forze terrestri: al mezzo aereo venne attribuito un vero
e proprio ruolo strategico e non fu più considerato accessorio ai poteri terrestre e navale,
ma loro pari. Tale visione fu largamente influenzata dalle teorie di Douhet e degli altri
teorici sostenitori dell’aviazione strategica, dal momento che anche il bombardamento
aereo assunse un grande valore strategico. Fu proprio da queste considerazioni che nacque
l’idea – e l’esigenza – di dar vita ad una forza armata autonoma, conclusione a cui
giunsero tutti i Paesi occidentali, seppur con tempistiche differenti. Sta di fatto che, alla
fine del secondo conflitto mondiale, ogni Paese occidentale possedeva la sua aviazione,
cui era affidato appunto un ruolo strategico.
Molto diversa era la situazione dall’altro lato della cortina di ferro. La dottrina
sovietica del potere aereo conobbe un progresso discontinuo e fu fortemente influenzata
dall’ideologia politica per più di sessant’anni300. Dal momento che l’URSS era un Paese
per la maggior parte privo di sbocchi sul mare, e l’obiettivo primario del governo era
quello di diffondere il comunismo, la sua principale componente militare si sviluppò e
concentrò nelle truppe terrestri, sulle quali gravava l’onere di difendere i confini
nazionali301. A differenza dei Paesi occidentali, dunque, la dottrina sovietica considerava
l’esercito come l’elemento fondante della difesa, e vedeva la forza aerea come un fattore
essenziale ma, comunque, subordinato, il cui ruolo – di tipo tattico anziché strategico –
era quello di supportare l’esercito nelle sue operazioni di superficie. La dottrina del potere
aereo, in questo caso, fu plasmata in base alle necessità dell’ideologia sovietica, senza
fare i conti con la realtà delle enormi potenzialità strategiche dell’aereo; per questo motivo
l’Unione Sovietica non rese mai la forza aerea sovietica una forza armata indipendente302.
C’è da dire che il successo della coalizione occidentale nella Guerra del Golfo del
1991 e la dissoluzione dell’URSS segnarono un punto di svolta per la forza aerea
sovietica: per la prima volta, la gerarchia militare accettò la realtà di una pervasiva terza
dimensione costituita dall’aria e dallo spazio e riconobbe la necessità di dotarsi di una
forza aerea indipendente che facesse riferimento ad una propria dottrina303. La forza aerea

300
J. A. OLSEN, op.cit., p. 217
301
Ivi, pp. 179-180
302
Ivi, pp. 187-188
303
Ivi, p. 218

100
russa, a partire da quel momento, mise più da parte l’ideologia, del resto tramontata, e si
lasciò influenzare piuttosto dalle esigenze della sicurezza nazionale e dalle iniziative
strategiche.
Attualmente, la dottrina aerea russa è quasi del tutto allineata alle dottrine del
potere aereo delle principali forze aeree del mondo304.

304
Ibidem

101
CAPITOLO QUINTO

5. IL POTERE AEREO IN FUNZIONE OPERATIVA

5.1. L’impiego tattico del potere aereo statunitense nella Guerra di Corea

La Guerra di Corea fu uno degli episodi più significativi della Guerra Fredda. Il
mondo intero parve sul punto di cadere in un nuovo conflitto globale, ulteriormente
aggravato dalla possibilità d’impiego di armi nucleari.
La Corea degli anni Cinquanta è un Paese spaccato in due: a nord del 38° parallelo,
l’Unione Sovietica aveva creato la Repubblica democratica popolare di Corea sotto il
controllo di Kim Il-sung, mentre a sud di tale parallelo una commissione delle Nazioni
Unite aveva fondato la Repubblica di Corea, affidata al leader Syngman Rhee e posta
sotto l’influenza degli Stati Uniti. Fra le due parti vi era, come intuibile, una certa
tensione, tanto che il commercio tra loro era completamente paralizzato 305. Pur
desiderando entrambe una riunificazione della penisola, non vi era tuttavia concordanza
sulle modalità da attuare per raggiungere tale scopo.
Il casus belli fu, nel giugno 1950, un tentativo d’invasione da parte della Corea
del Nord comunista – appoggiata da carri armati e aerei prodotti in Russia – ai danni della
Corea del Sud. L’intento di Kim era quello di un blitzkrieg per occupare il Sud nel giro
di pochissimo tempo. L’esercito sudcoreano, addestrato e rifornito dagli Stati Uniti ma
privo di carri armati, aerei o artiglieria pesante, subì gravi perdite e Seul capitolò il 28
giugno306.
Gli Stati Uniti non potevano lasciar cadere una tale sfida; pertanto, chiesero ed
ottennero dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU una prima risoluzione per il cessate il
fuoco immediato e successivamente una seconda, grazie alla quale sedici Paesi307 delle
Nazioni Unite inviarono le proprie forze armate a sostegno della Corea del Sud.
La guerra iniziò con qualche difficoltà: la forza aerea americana, di recente
indipendenza – l’USAF –, visto il successo del concetto di bombardamento strategico

305
B. COLLIER, op.cit., p. 420
306
Ivi, p. 422
307
Australia, Belgio, Canada, Colombia, Etiopia, Filippine, Francia, Grecia, Lussemburgo, Nuova
Zelanda, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti, Thailandia, Turchia e Unione sudafricana.

102
nella Seconda guerra mondiale, aveva canalizzato tutte le sue risorse ed attenzioni verso
il perseguimento della capacità strategica in vista di una guerra nucleare. Sul piano tattico
vi erano quindi molte lacune. Il generale americano MacArthur si trovò così a disporre di
truppe deboli, mal addestrate e distanti più di 500 chilometri dal fronte, motivo per cui si
dovettero mettere a sua disposizione 1200 aerei del corpo aereo americano dell’Estremo
Oriente308.
Considerato che l’economia della Corea del Nord era di tipo agricolo e
caratterizzata dunque da scarsi impianti industriali, i B-29 statunitensi, attraverso una
serie di ripetuti bombardamenti, distrussero integralmente le fabbriche dei nordcoreani
nel giro di poche settimane309. Ma le vere esigenze della guerra si dimostrarono essere
altre, per cui i velivoli americani assunsero anche la funzione di appoggio aereo
ravvicinato alle forze terrestri e di interdizione per impedire i rifornimenti di armi,
carburante, munizioni etc. ai nordcoreani. Fu proprio la combinazione di questi due tipi
di operazioni aeree, improntate ad un utilizzo tattico dell’aereo, che costrinse finalmente
le forze nordcoreane a ritirarsi sopra il 38° parallelo.
Si susseguirono una serie di attacchi, ora da una parte ora dall’altra, che ad un
certo punto resero quanto mai palpabile il pericolo di una degenerazione in senso nucleare
del conflitto in seguito all’intervento diretto della Cina310. Infatti il generale MacArthur,
offuscato dal desiderio di vincere a tutti i costi quella guerra, assestando così un pesante
colpo al comunismo, violando le disposizioni di Washington elaborò un piano che
prevedeva la distruzione di obiettivi strategici sia in Cina che in Corea tramite l’utilizzo
di ordigni nucleari. Fortunatamente, il pericolo fu scongiurato grazie all’intervento della
Casa Bianca, che rimosse e sostituì MacArthur.
Nella guerra di Corea si assistette ad un confronto tra Stati Uniti e URSS anche
nel campo della tecnologia aeronautica. Innovativo, sotto questo punto di vista, fu lo
scenario che si aprì nelle battaglie aeree condotte a sud del fiume Yalu – nei pressi del
confine tra Cina e Corea del Nord – tra la nuova generazione di velivoli americani (F-80
Shooting Star, F-84 Thunderjet e, soprattutto, F-86 Sabre) e il russo Mikoyan-Gurevich
MiG-15 (nome in codice NATO “Fagot”). Qui si ebbero, infatti, le prime battaglie di
caccia a reazione nella storia dell’aviazione, tanto che quella zona prese il nome di Mig

308
B. COLLIER, op.cit., p. 422
309
M. HASTINGS, La guerra di Corea, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 136 sgg.
310
S. H. LEE, La Guerra di Corea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 66 sgg.

103
Alley. I caccia più all’avanguardia a disposizione degli americani erano gli F-86,
decisamente superiori ai pur eccellenti MiG-15 russi, che costituirono comunque
avversari temibili soprattutto per la notevole rapidità di accelerazione, la velocità di salita,
l’eccellente capacità di combattimento ad alta quota, la capacità di supportare un
armamento pesante e la possibilità di decollare e atterrare anche su piste di lunghezza
ridotta311.
Anche il trasporto aereo svolse un ruolo importante in Corea nell’assicurare tutti
i rifornimenti necessari alle truppe americane.
Una grande differenza la fece anche il tipo di addestramento dei piloti: quelli
americani erano veterani della Seconda guerra mondiale, con tanta esperienza nel volo e
nella conduzione di operazioni di guerra; quelli nordcoreani, invece, erano piloti con una
scarsissima conoscenza dell’aereo, che erano stati addestrati in modo piuttosto blando
dall’Unione Sovietica.
La guerra di Corea mise però in luce alcuni problemi nell’utilizzo che si fece del
potere aereo: in primis, il bombardamento a tappeto da parte dei B-29 americani non
aveva avuto effetti così evidenti sul nemico, tanto che alcuni storici affermarono di non
esser mai riusciti a trovare prove concrete della morte anche di un solo nordcoreano312;
in secondo luogo, i bombardamenti dei bersagli industriali non si erano rivelati così
efficaci nel destabilizzare un esercito come quello nordcoreano, che non si serviva di
trasporti motorizzati e aveva bisogno soltanto di pochissime tonnellate di rifornimenti al
giorno; in terzo ed ultimo luogo, era emersa la debolezza di un coordinamento non proprio
efficiente tra le truppe di terra, che richiedevano un appoggio ravvicinato, e le forze aeree,
che si concentravano invece sugli attacchi alle linee di comunicazione nemiche nelle
retrovie313.
Questi problemi derivarono certamente da scelte errate. Come affermò il generale
statunitense Matthew B. Ridgway314, «Uno degli errori principali commessi durante la
guerra di Corea nacque dalla pretesa di fondare la nostra strategia su quelle che
credevamo fossero le intenzioni del nemico, senza tener conto di ciò che sapevamo sul

311
Cfr. Ivi, pp. 121 sgg.
312
B. COLLIER, op.cit., p. 423
313
Ibidem
314
Il Generale Ridgway prese le redini dello United Nations Command in seguito alla deposizione
del Generale MacArthur, e si distinse nella guerra di Corea riuscendo a riequilibrare la situazione.

104
potenziale di cui esso disponeva effettivamente»315. In effetti, nonostante fosse chiaro che
la Cina sarebbe stata perfettamente in grado di invadere la Corea, MacArthur non prese
mai in considerazione una tale evenienza, basando i propri calcoli sul presupposto – errato
– che “nessun militare di buon senso”316 avrebbe impegnato le sue forze lungo il confine
nordcoreano.
Inoltre in molti, al tempo della guerra in Corea, erano convinti che le forze aeree
potessero compiere miracoli, bloccando completamente i rifornimenti del nemico, ma
isolare il campo di battaglia si era dimostrato impossibile: l’aviazione infatti, benché
avesse salvato gli americani dal disastro e permesso l’intervento delle Nazioni Unite,
aveva pur sempre i suoi limiti, nonostante alcuni non li volessero riconoscere317.

5.2. La forza aerea statunitense nella Guerra del Vietnam

La partecipazione degli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam iniziò nel 1962 e si
concluse nel 1973. La guerra si svolse prevalentemente nel Vietnam meridionale e si
concretizzò in uno scontro tra la Repubblica del Vietnam, nata dopo la Conferenza di
Ginevra del 1954 e posta sotto l’influenza degli Stati Uniti, e il Vietnam del Nord, che
godeva invece dell’appoggio di Unione Sovietica e Cina per via del suo orientamento
comunista318. Il conflitto vide l’impegno americano crescere sempre di più nel corso degli
anni, passando dall’iniziale fornitura di appoggio militare, allo spiegamento di enormi
quantità di forze terrestri, navali e aeree, in quella che viene definita un’escalation.
I bombardamenti di tipo propriamente strategico da parte degli americani
iniziarono ad aver luogo soltanto in una fase assai più avanzata del conflitto, vale a dire
dal 1964, quando il Presidente Lyndon Baines Johnson ordinò la prima operazione bellica
dell’USAF (operazione Barrel Roll) in risposta ad un precedente attacco nordvietnamita.
Da quel momento in poi si susseguirono numerose operazioni che videro
protagonisti i velivoli americani: bombardamenti sulle postazioni nemiche, attività di
interdizione ai rifornimenti e di supporto alle forze di superficie, attacchi mirati a

315
M. B. RIDGWAY, Guerra sul 38° parallelo, Milano, Rizzoli, 1969, p. 221
316
Ibidem
317
Ivi, p. 222
318
Per un inquadramento generale di questa lunga e sanguinosa guerra si veda S. KARNOW,
Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 2000; F. FITZGERALD, Il lago in fiamme. Storia della
guerra in Vietnam, Torino, Einaudi, 1974

105
sopprimere i sistemi di difesa avversari e missioni di tipo “diplomatico” – come la famosa
Rolling Thunder – per forzare l’avversario verso il negoziato e abbatterne il morale,
condotte senza alcun tipo di limitazione all’utilizzo del potere aereo. I mezzi aerei
impiegati in tali operazioni dalla US Air Force e dalla US Navy furono i
cacciabombardieri A-6, F-4 e F-105319.
Come già in Corea, anche nel caso del conflitto vietnamita le previsioni di de
Seversky circa la necessità di potenziare all’estremo i mezzi della guerra aerea evitando,
nel contempo, di impiegare basi al di fuori del territorio americano, furono disattese dalle
autorità politiche e militari. In entrambi i conflitti, infatti, si rivelò di importanza cruciale
l’apporto delle navi portaerei. Nel caso specifico del Vietnam, furono impiegate
complessivamente 17 portaerei, di cui 11 risalivano agli anni Quaranta e furono pertanto
sottoposte ad un globale ammodernamento in occasione dell’inizio del conflitto. Ad esse
si aggiunsero, successivamente, 6 portaerei costruite ex novo, assai più grandi e moderne,
fra cui una a propulsione nucleare, la USS Enterprise320.
Le necessità di riparazione, di rifornimento e di turnazione degli equipaggi fecero
sì che soltanto un terzo di tutte queste portaerei d’attacco potesse essere
contemporaneamente operativo in mare. Del resto, le portaerei americane erano schierate
anche nel Mediterraneo, nel Mar dei Caraibi e nel Nord Atlantico per via della posizione
di preminenza geopolitica degli Stati Uniti, il che, appunto, non rese possibile il loro
impiego sinergico nel corso del conflitto vietnamita. Ciò nonostante, pur trovandosi
distanti dal teatro di guerra, alcune di esse riuscirono ad offrire un validissimo contributo
alle operazioni di bombardamento.
Con un tale allestimento, e benché il bombardamento strategico fosse iniziato solo
nella seconda fase del conflitto, la potenza offensiva aerea di cui gli americani
disponevano era dunque davvero ingente.
Sullivan scrisse, a proposito dell’utilizzo strategico del potere aereo in Vietnam:
«A dispetto di quella che poteva essere la sua effettiva utilità per gli Stati Uniti nella
guerra in Vietnam, il potere aereo della Marina venne impiegato per condurre, con aerei
progettati per ruoli tattici, una campagna di bombardamento strategico contro il Vietnam
del Nord»321.

319
Cfr. S. KARNOW, op.cit., pp. 333 sgg.
320
F. FITZGERALD, op.cit., pp. 139 sgg.
321
B. R. SULLIVAN, op.cit., p. 446

106
Gli storici concordano nel ritenere poco felice la decisione di avvalersi di aerei da
appoggio tattico della US Air Force all’interno della campagna di bombardamento
strategico del Vietnam del Nord322. I cacciabombardieri, infatti, dovevano compiere
molteplici missioni al fine di poter sganciare lo stesso tonnellaggio di bombe che un B-
52 avrebbe potuto sganciare con un solo attacco.
La conseguenza di tale scelta fu che gli aviatori della US Navy, della US Air Force
e del Marine Corps si videro costretti a realizzare molte più operazioni di quelle che
avrebbero dovuto compiere se gli stessi obiettivi fossero stati presi di mira sempre e solo
dai bombardieri strategici. Si calcola che essi sganciarono sul Vietnam del Nord un
quantitativo di bombe così ingente che il loro tonnellaggio complessivo risultò doppio
rispetto a quello sganciato dalla US Army Air Force sulla Germania nel quadriennio
1942-1945323.
Il risultato di questo massiccio sforzo fu indubbiamente pagato a caro prezzo dalle
forze americane, tanto da divenire una ferita indelebile nella memoria degli americani:
migliaia di caccia americani vennero distrutti e centinaia e centinaia di piloti furono
catturati o uccisi; molti dei veterani, invece, riportarono gravi traumi sia fisici che
psicologici.
Anche l’insuccesso della campagna aerea Rolling Thunder, la più lunga e
disastrosa campagna mai condotta dalle forze aeree americane, il cui obiettivo sarebbe
stato quello di piegare definitivamente il Vietnam del Nord, costò caro agli Stati Uniti.
Tale campagna fallì per diversi motivi: innanzitutto, per via delle frequenti interruzioni
dei bombardamenti e delle numerose aree interdette al bombardamento a causa di divieti
politici e diplomatici, per cui la campagna si trovò ad essere sospesa e ripresa più volte e
ciò contribuì ulteriormente a diminuirne l’efficacia – anche perché, durante gli stop, il
regime di Hanoi ne approfittava per rinforzarsi, riparare i danni subiti e migliorare
l’efficienza del proprio sistema di difesa aerea324 –; altro motivo, analogo agli errori già
commessi nella guerra di Corea, fu che i continui bombardamenti sulle scarsissime
industrie nordvietnamite servirono solo ad indebolire e sfiancare l’USAF, rivelandosi nel
concreto inutili dal momento che le industrie nordvietnamite non rappresentavano
assolutamente un bene primario del Paese; inoltre, come già in Corea, cruciale fu

322
S. KARNOW, op.cit., pp. 149 sgg.
323
F. FITZGERALD, op.cit., pp. 122 sgg.
324
B. R. SULLIVAN, op.cit., pp. 446-447

107
l’assenza di un’appropriata strategia d’azione che tenesse conto delle reali possibilità di
reazioni inaspettate, come in questo caso furono quelle dei Vietcong; infine, forse la
ragione più importante: il potere aereo è, in fin dei conti, impotente nei confronti della
guerriglia.
Infatti il regime di Hanoi, avvalendosi delle consulenze e del supporto di Unione
Sovietica, Cina e Nord Corea, non rimase certo a guardare. A poco a poco, dal principio
della guerra in avanti, esso mise in atto un sistema di difesa aerea sempre più capillare,
incentrato sull’impiego sistematico di migliaia di cannoni antiaerei, missili terra-aria
guidati da un sofisticato sistema radar. Particolarmente efficienti, dal punto di vista
tecnologico, furono gli aerei messi a disposizione dai sovietici: i MiG-19 e i MiG-21, che
rimpiazzarono i MiG-15 e i MiG-17 della Guerra di Corea e che si distinsero per la loro
estrema maneggevolezza e rapidità.
Ad ogni modo, non tutto andò per il verso sbagliato per gli americani: grazie al
trasporto aereo, e in particolare agli elicotteri, fu possibile supportare logisticamente le
basi americane in Vietnam; la funzione di ricognizione aerea si confermò fondamentale;
infine, l’attività di interdizione riuscì a bloccare gran parte dei rifornimenti alle truppe
nordvietnamite.

5.2.1. Il potere aereo si spoglia della concezione “mitica” attribuitagli dai teorici
della guerra aerea

Bisogna fare una considerazione: la campagna di bombardamento sistematico


aveva provocato certamente un numero considerevole di distruzioni in Vietnam, ma gli
ostacoli di natura diplomatica e politica avevano impedito di sottoporre ad un
bombardamento ininterrotto i territori nordvietnamiti, non potendo così in alcun modo
rendere la guerra una guerra totale; ciò dimostra quanto fosse fondata su basi
essenzialmente “mitiche” la concezione che rivendicava il primato assoluto e unilaterale
dell’aeronautica, illustrata in particolare da Douhet e da quegli scrittori militari che ne
avevano seguito le orme. Tale concezione douhetiana, pur geniale e destinata ad influire
in profondità sulle concezioni teoriche posteriori della guerra, aveva il difetto di
“assolutizzare” il fattore aeronautico attribuendogli una valenza “totale” che, in concreto,
nello svolgimento di una guerra, esso non avrebbe mai potuto avere. Ciò perché non

108
soltanto vi sono, oltre alla componente aerea, anche quella marittima e terrestre, ma altresì
perché la guerra, in fondo, altro non è se non la prosecuzione della politica con altri
mezzi325.
Tra guerra e politica da un lato, e guerra e diplomazia dall’altro, vi sono dunque
frontiere mobili: un rapporto di osmosi e compenetrazione reciproca, non già di
esclusione, come invece le premesse teoriche del discorso di Douhet prevedevano.
Come ha osservato Sullivan in merito, «Con il senno di poi, ora appariva ovvio
che i profeti del potere aereo avevano sviluppato le loro teorie in reazione alla moderna
guerra d’assedio condotta dalle maggiori potenze industriali sul fronte occidentale, su
quello italiano e su quello di Salonicco nel 1914-1917»326. E ancora,

«Si potrebbe sostenere che la guerra civile spagnola e la guerra cino-giapponese


prefigurassero i conflitti che si sarebbero sviluppati dopo la Seconda guerra mondiale in Corea,
Vietnam e nel Golfo per il fatto che una o entrambe le parti, in quella guerra, dipendevano per i
loro rifornimenti da aerei militari provenienti dall’esterno rispetto al teatro dello scontro. Di
conseguenza un osservatore preveggente degli anni Trenta avrebbe potuto capire che del
bombardamento strategico si sarebbe potuto fare un uso limitato contro un nemico che faceva
assegnamento su armi importate da altri Paesi. Ma persino un osservatore così lungimirante
difficilmente avrebbe potuto prevedere sia le armi nucleari sia i missili balistici, per non parlare
dell’uso combinato che se ne sarebbe fatto vent’anni dopo»327.

A distanza dunque di alcuni decenni, emergeva con chiarezza la contraddizione


fra le teorie della guerra aerea, che aspiravano a valere in forma assoluta, e la realtà delle
guerre successive, assai più circoscritta e influenzata da molteplici fattori.
Impossibile perciò non concordare con la conclusione, dal sapore paradossale, del
discorso di Sullivan: «Per ironia, la tecnologia aveva permesso la nascita delle teorie di
Douhet e altri solo per poter continuare la sua rapida evoluzione, rendendo così ben presto
obsolete le teorie del potere aereo»328.
Ad ogni modo, per quanto la rivoluzione tecnologica e il mutare degli scenari
geopolitici abbiano dimostrato una serie di “deficit” inerenti alle teorie del potere aereo,

325
C. VON CLAUSEWITZ, op.cit.
326
B. R. SULLIVAN, op.cit., p. 447
327
Ibidem
328
Ibidem

109
sarebbe ingiusto ritenerle completamente errate o prive di significato. Esse, infatti, sono
nate da una constatazione fondamentalmente giusta, ossia l’intuizione della straordinaria
rilevanza che il potere aereo avrebbe assunto e che il futuro, difatti, ha confermato.

5.3. La Guerra dei Sei Giorni e la Guerra dello Yom Kippur

Parallelamente alla Guerra del Vietnam, si svolse anche la cosiddetta Guerra dei
Sei Giorni (5-10 giugno 1967), facente parte del più ampio conflitto arabo-israeliano.
Questa guerra, durata letteralmente sei giorni, vide Israele fronteggiare le forze
congiunte di Giordania, Siria ed Egitto. Si risolse con la vittoria di Israele ed ebbe un
effetto decisivo nel contesto dei conflitti arabo-israeliani, poiché rafforzò nettamente la
supremazia di Israele in quell’area, anzitutto allargando in maniera significativa
l’estensione territoriale del Paese.
Si è trattato di un conflitto i cui esiti hanno condizionato profondamente i
drammatici sviluppi della questione palestinese, come ancora oggi vediamo329.
La rilevanza imprescindibile del potere aereo uscì più che mai confermata da
questa guerra, in cui la netta vittoria israeliana si spiega proprio a partire dall’incredibile
successo degli attacchi fulminei delle sue forze aeree al suo inizio.
La decisione di aprire le ostilità fu presa da Israele dopo un lungo addestramento
dei suoi piloti e un’attenta preparazione; per gli israeliani era fondamentale, a livello
strategico, distruggere in tempi rapidissimi le forze aeree siriane ed egiziane, per evitare
che esse, a causa della vicinanza dei confini, potessero replicare agli attacchi. Per questo
motivo si può dire che la strategia adottata da Israele fu quella di un attacco preventivo,
con il fine di conquistare la superiorità aerea essenziale anche nell’appoggio alle
operazioni delle truppe di superficie330.
Così, all’alba del 5 giugno, gli israeliani lanciarono l’”operazione focus”, un
attacco aereo a sorpresa di vaste proporzioni talmente intenso che, nel giro di poche ore,
distrusse completamente le forze aeree nemiche. Le forze aeree israeliane si
concentrarono in particolare sull’attaccare le basi aeree avversarie, così da abbattere i

329
Per un quadro d’insieme si veda P. G. DONINI, I paesi arabi, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp.
136 sgg.; M. B. OREN, La guerra dei Sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano,
Milano, Mondadori, 2003
330
Cfr, E. O’BALLANCE, The Third Arab-Israeli War, Londra, Faber & Faber, 1972

110
velivoli direttamente a terra. In totale Israele neutralizzò 300 velivoli nemici. Questa
mossa vincente spianò la strada alle successive vittorie che l’esercito israeliano conseguì
a terra331: la campagna terrestre che si svolse nei restanti giorni del conflitto permise ad
Israele di occupare Gerusalemme, Hebron e tutta la Cisgiordania.
Da questo conflitto emerge un aspetto importante, ovvero il successo dell’azione
integrata di forze aeree e forze terrestri, con il potere aereo che fu indispensabile nel creare
le condizioni per la successiva avanzata terrestre. Anche questa volta, se si confrontano
le teorizzazioni sulla guerra aerea di Douhet, Trenchard e Mitchell con la realtà della
guerra, appare evidente come il potere aereo non acquisì un carattere totalizzante: non
tradusse, cioè, la guerra in una guerra totale dominata esclusivamente dagli aerei – il che
avrebbe presupposto, ad esempio, massicci attacchi aerei sui centri industriali e sulle
popolazioni civili, lasciando soltanto ridotti margini d’intervento alle truppe di terra –, al
contrario esso costituì un elemento sì essenziale, ma comunque non sufficiente di per sé
ai fini della vittoria; la carta vincente israeliana risiedette proprio nell’eccellente
coordinazione e cooperazione tra potere aereo e forze terrestri.
Sei anni dopo, nell’ottobre 1973, si svolse un’altra guerra che vide il potere aereo
israeliano come protagonista: la cosiddetta Guerra dello Yom Kippur, in cui furono
nuovamente coinvolti Israele, Siria ed Egitto. Il conflitto prese le mosse dalla volontà di
Egitto e Siria di recuperare i territori perduti nel 1967.
L’attacco, anche questo a sorpresa, venne effettuato il 6 ottobre, ovvero il giorno
dello Yom Kippur, la più sacra festività ebraica durante la quale i fedeli devono dedicarsi
alla preghiera e al digiuno. La scelta del giorno non fu ovviamente casuale, poiché in
questo modo siriani ed egiziani accrebbero le difficoltà della difesa israeliana.
Gli egiziani arrivarono da Ovest, oltrepassando il Canale di Suez ed entrando nel
Sinai, mentre i siriani attaccarono le alture del Golan. Nei primi giorni le perdite israeliane
furono ingenti, tanto che il Paese si convinse di essere sul punto di cedere, ma nel giro di
una settimana riuscì a riorganizzarsi: gli Stati Uniti di Nixon accolsero le richieste di aiuto
del Primo Ministro Golda Meir e, a partire dal 14 ottobre, avviarono l’operazione Nickel
Grass, creando un ponte aereo strategico per trasportare armi e rifornimenti vari ad
Israele.
Tra le altre cose, gli americani fornirono agli israeliani alcuni velivoli di ultima

331
Cfr. A. SHLOMO, Arab-Israeli Air Wars (1947-1982), Jerusalem, Ospray, 2001, pp. 199 sgg.

111
generazione, gli F-4 Phantom II, grazie ai quali i piloti israeliani riuscirono a contrastare
efficacemente gli attacchi dei missili terra-aria delle forze arabe.
L’esercito israeliano, da parte sua, attraversò in senso inverso il canale di Suez e
distrusse tutte le batterie antiaeree arabe che avevano impedito all’aviazione di agire
indisturbata, dimostrando ancora una volta l’importanza di una sinergia tra forze di terra
e forze aeree.
Dopo una settimana di scontri durissimi, il 22 ottobre l’ONU approvò una
risoluzione che imponeva il cessate il fuoco, invocando la fine delle ostilità tra Israele ed
Egitto. Nonostante ciò, gli egiziani distrussero ancora nove carri armati israeliani, e in
tutta risposta le truppe israeliane decisero di portare a termine ciò che avevano iniziato:
raggiunsero la Terza Armata egiziana ad ovest del Canale di Suez, a soli 100 chilometri
dal Cairo, e l’accerchiarono completamente, tagliando tutti i rifornimenti umanitari ai
soldati egiziani ormai stremati, nel deserto, senza cibo né acqua. A quel punto, gli Stati
Uniti adottarono altre due risoluzioni che imponevano il cessate il fuoco immediato,
esercitando forti pressioni su Israele affinché si fermasse e non distruggesse la Terza
Armata egiziana.
Il 25 ottobre sia Israele che Egitto deposero ufficialmente le armi.

112
CAPITOLO SESTO

6. L’EVOLUZIONE E L’USO DEL POTERE AEREO POST GUERRA


FREDDA

6.1. La prima guerra del Golfo

Al termine della Guerra Fredda, con il collasso dell’Unione Sovietica, lo scenario


internazionale iniziò a mutare profondamente e il potere aereo divenne ancora più
rilevante.
Ciò è evidente, soprattutto, nella guerra del Golfo del 1991 e nella guerra per il
Kosovo del 1999. Entrambi i conflitti dimostrarono quanto le forze aeree potessero essere
non solo decisive, ma anche risolutive. Inoltre, a partire da questi eventi bellici, si aprì
nuovamente l’antico dibattito sull’effettiva capacità del potere aereo di portare da solo
alla vittoria.
La guerra del Golfo332 segnò un punto di svolta nella concezione del potere aereo,
il momento in cui tutte le lezioni apprese nei precedenti conflitti vennero definitivamente
superate e si fecero strada nuovi riferimenti per la dottrina del potere aereo333.
Nella guerra del Golfo fu la componente aerea a dominare l’intera strategia
statunitense, seppur sempre ben integrata con le altre forze. Inizialmente si pose un
problema circa l’organizzazione del command and control334, ovvero se affidare tale
funzione ad un controllo centralizzato o a più comandanti. Alla fine, vinse la soluzione –
sostenuta fermamente dall’USAF – del controllo centralizzato; si provvide dunque a
costruire una struttura unica cui partecipassero i vari comandanti delle forze aeree,
terrestri e navali, creando una perfetta sinergia fra i tre elementi. Il potere aereo assunse

332
Ricordiamo, brevemente, che fu una guerra combattuta nel 1991 tra Stati Uniti e Iraq in seguito
all’invasione e all’occupazione, da parte di quest’ultimo, del Kuwait. Gli Stati Uniti intervennero in difesa
dell’Arabia Saudita e per ripristinare lo status quo.
333
E’ nell’ambito di questa guerra che nascono alcuni elementi rivoluzionari della dottrina, come
ad esempio la definizione di categorie di obiettivi, della priorità da assegnare a ciascuno di essi e delle fasi
della campagna aerea.
334
Letteralmente “comando e controllo”, si tratta dell’esercizio dell’autorità e della direzione, da
parte di un comandante appropriatamente designato, nei confronti delle forze a lui assegnate per il
compimento di una missione.

113
il compito di coordinare e gestire tutti gli assetti aerei e decidere in che modo utilizzarli
al meglio.
La prima operazione militare americana – che tecnicamente anticipò la guerra del
Golfo – fu l’”operazione Desert Shield”, la più grande operazione di posizionamento
logistico a carattere offensivo-difensivo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Grazie
a questa operazione, le forze americane riuscirono a far arrivare in Arabia Saudita, per
via aerea, terrestre e navale, ingenti aiuti: centinaia di migliaia di uomini, migliaia di
tonnellate di armamenti, decine di migliaia di tonnellate di viveri, munizioni, portaerei,
incrociatori, sommergibili nucleari, uno stormo di caccia F-15 Eagle e tutto il necessario
utile all’approvvigionamento di una poderosa forza militare335. All’operazione
contribuirono anche molte altre nazioni.
Desert Shield avrebbe dovuto svolgere funzioni di deterrenza, ma una volta
conclusa la fase di schieramento delle unità, il 16 gennaio 1991 l’Iraq si rifiutò di
abbandonare il Kuwait; da qui la decisione degli Stati Uniti di passare all’attacco.
L’operazione Desert Shield si trasformò allora nell’”operazione Desert Storm” –
peculiare il passaggio dal termine “shield”, scudo, ad indicare la funzione per lo più
difensiva dell’operazione, a “storm”, tempesta, emblematico di un’offensiva poderosa –.
Fu così che ebbe ufficialmente inizio la guerra del Golfo.
La campagna aerea pianificata dagli Stati Uniti nell’ambito dell’offensiva prese il
nome di “Instant Thunder”, volutamente simile a quello della disastrosa operazione
Rolling Thunder del Vietnam, in un tentativo di esorcizzazione dei fantasmi del passato,
ma anche per evidenziare la differenza rispetto al bombardamento graduale della Rolling
Thunder; infatti, l’operazione Instant Thunder si prefigurava come una campagna aerea
furiosa, rapida e massiccia, al fine di conseguire tutti gli obiettivi nel minor tempo
possibile e con il minor costo in termini di vite e danni collaterali336.
Il potere aereo aveva come primo compito quello di assicurarsi la conquista della
superiorità aerea, in modo tale da interdire all’Iraq l’utilizzo di mezzi aerei e facilitare le
operazioni delle truppe di terra. Gli attacchi aerei si concentrarono prioritariamente sui
cosiddetti “centri di gravità” (COG, Centers of Gravity), ovvero i punti più deboli e di

335
Ibidem
336
LT COL J. V. MARTIN, Victory from above. Air power theory and the conduct of operations
Operation Desert Shield and Desert Storm, Alabama, Air University Press, 1994, p. 53

114
maggior rilevanza strategica del nemico. In proposito, il colonnello Warden sviluppò un
modello basato su degli anelli concentrici, ognuno rappresentativo di un centro di gravità
avversario: le forze militari di terra, la popolazione civile, le infrastrutture civili e militari,
i centri industriali e, infine, il più importante, la struttura di comando337.

Figura 1. Modello dei cinque anelli (Centers of Gravity) del colonnello John Warden. Fonte: jstor.org

Gli aerei americani fecero più di 1000 uscite al giorno, un numero impressionante
che comportò enormi sforzi ma assicurò il criterio “op tempo”338. Gli Stati Uniti si
servirono anche di altre armi quali, ad esempio, le “bombe intelligenti”339, i missili da
crociera, le bombe a grappolo e le bombe “taglia margherite”340.
L’attività aerea si dedicò poi anche alle operazioni di contraviazione offensiva,
focalizzandosi su attacchi mirati ai campi di volo e ai siti radar e missilistici iracheni,
arrivando poi a compiere con stupefacente successo attacchi sui quartieri generali del
comando, da cui dipendeva il sistema di difesa iracheno. In ultima battuta, l’aviazione
fornì supporto diretto alla campagna terrestre, Desert Sabre.

337
Ivi, p. 50
338
Nella dottrina dell’USAF, questo criterio indica la capacità di condurre operazioni ad alta
intensità per un tempo prolungato.
339
Bombe guidate progettate per colpire con precisione uno specifico bersaglio e minimizzare i
danni a ciò che è al di fuori del loro obiettivo.
340
Bombe in grado di spianare una sezione di bosco di 1500m.

115
Questo piano d’azione permise di portare avanti anche le altre missioni in
superficie e in mare aumentandone sensibilmente le possibilità di successo, e contribuì a
creare un senso di vulnerabilità nel nemico341.
Il potere aereo fu essenziale in tutte le sue funzioni: offensiva, difensiva e di
interdizione. Fu in grado di porre le condizioni necessarie per una vittoria rapida contro
l’esercito iracheno. La sua attività si focalizzò su un’offensiva massiccia che gli assicurò
il controllo dell’aria e il danneggiamento dei centri di gravità strategici e operativi del
nemico.
Il potere aereo si rivelò quindi il fattore dominante e decisivo, anche se non
condusse da solo alla vittoria: esso fu integrato con le operazioni di terra e fu questo a
sancire il successo dell’intera azione.

6.2. La guerra del Kosovo

Dopo la guerra del Golfo, scoppiò la crisi dei Balcani, con la dissoluzione dell’ex
Jugoslavia. Questa crisi era il sintomo di un mondo che cambiava in seguito al tramonto
del sistema bipolare che, per quasi cinquant’anni, aveva governato lo scenario
internazionale. Senza più alcuna influenza da parte della disciolta Unione Sovietica, i
Paesi a rischio instabilità, che prima erano in un certo senso mantenuti stabili dal timore
nutrito nei confronti di Mosca, iniziarono a palesare tutte le loro situazioni problematiche.
La Federazione Jugoslava si frammentò, dando inizio ad una serie di secessioni
concatenate, che alla fine implicarono violenze diffuse e contrapposte campagne di
pulizia etnica.
In un contesto già così teso, nel 1999 si svolse la guerra del Kosovo. Diverse sono
le cause attribuibili al conflitto. Senza dubbio il “neighbour effect” giocò un ruolo
fondamentale nell’avvio delle ostilità, dal momento che le precedenti guerre nell’area
avevano diffuso un’instabilità generale nella regione del Kosovo che aveva
progressivamente alimentato i nazionalismi delle etnie serbe ed albanesi342.

341
LT COL J. V. MARTIN, op.cit., p. 54
342
AA.VV., The Role of Italian Fighter Aircraft in Crisis Management Operations: Trends and
Needs, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2014, p. 42

116
Nel 1996 ebbero inizio i contrasti tra il Kosovo Liberation Army (KLA)343 e le
truppe jugoslave. Essi si trasformarono presto in un’escalation di violenza che sfociò
nell’uccisione di decine di civili. Nel gennaio 1999, dietro le pressioni della NATO, si
compì un tentativo di negoziazione promosso dal Contact Group (Stati Uniti, Russia,
Regno Unito, Francia, Italia e Germania) che, però, fallì a causa dell’abbandono del
tavolo delle trattative da parte della Federazione Jugoslava344. La NATO decise allora di
intervenire militarmente nel conflitto.
La campagna aerea del Kosovo, denominata Operation Allied Force, iniziò il 24
marzo 1999 e si protrasse per 78 giorni di intensi bombardamenti. La decisione
dell’intervento fu presa, a detta della NATO, per evitare la catastrofe umanitaria che stava
imperversando in Kosovo, e dopo aver tentato, per più di un anno, di risolvere il conflitto
con mezzi diplomatici345.
La strategia militare mirava a costringere le forze paramilitari fedeli a Slobodan
Milosevic ad abbandonare il Kosovo, a fermare la repressione degli albanesi kosovari e a
ridurre al minimo il numero di vittime (danni collaterali). Nei primi giorni del conflitto,
la NATO concentrò i suoi sforzi nella distruzione del sistema di difesa aereo jugoslavo;
dopo dieci giorni di campagna aerea, però, i risultati non erano soddisfacenti: le difese
jugoslave non erano state seriamente danneggiate e Milosevic non appariva propenso ad
aprire un negoziato346.
A quel punto, la NATO decise di modificare la sua strategia, indirizzando i suoi
attacchi alle linee strategiche di comunicazione e tagliando i rifornimenti energetici della
Jugoslavia. Iniziò anche a cooperare con le truppe dell’UCK per le operazioni terrestri
effettuate direttamente sul suolo del Kosovo.
Il cambio di strategia si dimostrò vincente, in quanto dopo più di due mesi di
bombardamenti continui Milosevic si vide costretto ad accettare un accordo. In realtà, sia
lui che la NATO erano ormai stremati dalla situazione, sulla quale iniziava a pesare molto
anche l’opinione pubblica e il morale della popolazione, ormai esasperata. Questo aspetto

343
UÇK (Ushtria Çlirimtare Kosovës), organizzazione paramilitare kosovaro-albanese.
344
Non a torto secondo Henry Kissinger, poiché l’accordo previsto poneva delle condizioni
inaccettabili per uno Stato sovrano. Si trattava, più che altro, di una provocazione diretta a giustificare
l’avvio della guerra.
345
AA.VV., op.cit., p.43
346
IISS, NATO’S campaign in Yugoslavia, in “Strategic Comments”, vol. 5, n. 3, April 1999, pp.
1-4

117
richiama alla mente e conferma ciò che Douhet affermava riguardo la capacità del
bombardamento strategico di minare lo stato d’animo di una popolazione, sfiancandola a
tal punto da provocare nelle persone un rifiuto assoluto della guerra. Fu proprio quello
che accadde in Kosovo.
La guerra civile del Kosovo terminò ufficialmente nel giugno 1999, in seguito alla
firma degli accordi di tregua di Kumanovo. Da quel momento in poi, la NATO Kosovo
Force (KFOR) fu impiegata in Kosovo per scopi di peace-keeping e stabilizzazione del
territorio.
Nell’operazione Allied Force il maggior contributo venne apportato dagli Stati
Uniti, con circa 800 velivoli; tra i Paesi europei fu invece la Francia a dare il maggior
apporto347. Anche l’Italia fornì una partecipazione significativa: si conta che, da marzo a
giugno 1999, intervenne nel conflitto schierando 50 aerei – tra cui F-104, Tornado, AMX
e AV-8B – con una media di 1022 uscite al giorno348, costituendosi come il terzo maggior
contributore in termini di dispiegamento di velivoli. E’ interessante sottolineare il fatto
che praticamente tutti i velivoli della NATO partirono da basi italiane, per cui senza
l’appoggio logistico dell’Italia sarebbe stato pressoché impossibile portare avanti air
strikes ad alta intensità.
Nello svolgimento della campagna aerea si acquisì come prima cosa la superiorità
aerea attraverso operazioni di contraviazione offensiva. Vennero impiegati diversi assetti
dei velivoli: missioni di soppressione della difesa aerea nemica tramite attacchi sui siti
radar e missilistici, velivoli di guerra elettronica per interferire con i radar e le
comunicazioni, aerei cisterna per il rifornimento in volo, velivoli radar per controllare lo
spazio aereo, ed altro ancora. Inoltre, i velivoli adottarono il metodo della penetrazione
ad alta quota, condotta spesso di notte, in modo tale da rimanere al di sopra di eventuali
minacce come missili spalleggiabili e altre armi di piccolo calibro; cosa che permise loro
di non subire perdite.
Si pose molta attenzione alla questione dei danni collaterali, che influenzò la scelta
degli obiettivi, il tipo di armamento da impiegare e il modo di rilascio dell’armamento349.
Di conseguenza, per gli obiettivi sensibili – cioè ad alto rischio di danni collaterali – si

347
RAND, Research Brief, Operation Allied Force – Lessons for Future Coalition Operations, pp.
1-2
348
AA.VV., op.cit., p.45
349
GEN. S. A. A. FORNASIERO, Operazioni aeree nei Balcani: quali insegnamenti?, in
“Informazioni della difesa”, 3/2000, p. 28

118
utilizzarono armamenti di alta precisione. Nonostante però quasi tutti i velivoli
statunitensi possedessero un armamento di precisione, molti furono gli errori commessi
con l’effetto di provocare la morte di centinaia di civili in varie aree del Kosovo.
La risposta jugoslava fu piuttosto massiccia e una volta l’aviazione di Belgrado
riuscì addirittura ad abbattere un F-117A dell’USAF, pur trattandosi per lo più di un colpo
di fortuna.
Nella guerra in Kosovo, come è evidente, il potere aereo svolse ancora una volta
un ruolo cruciale. Fu protagonista assoluto del conflitto e, per la prima volta, l’impiego
di bombardamenti aerei portò da solo il nemico ad accettare buona parte delle condizioni
che gli si voleva imporre: le profezie di Douhet e dei suoi segaci si concretizzarono.
Emerse in tutta la sua evidenza anche la concezione di Clausewitz, già incontrata nel
corso di questo elaborato, secondo cui la guerra altro non è che la continuazione della
politica tramite altri mezzi; difatti, una volta falliti i tentativi politici di risoluzione della
controversia, si affidò ai militari il compito di continuare tale processo con l’aggiunta di
altri mezzi. La campagna aerea in Kosovo si concluse senza vittime alleate350.

6.3. La guerra in Libia

Le ragioni dell’intervento multinazionale in Libia sono ancora controverse e


oggetto di studi e analisi da parte di esperti e giuristi351. Francia, Regno Unito e Stati Uniti
ricoprirono il ruolo politico principale nell’avviare le operazioni militari, e in particolare
l’impegno delle forze armate statunitensi fu indispensabile nell’avvio dell’intervento
internazionale e nella conduzione della prima fase della campagna in Libia352. Altre
tredici nazioni si unirono alla coalizione – tra cui l’Italia –, nonostante fossero scettiche
sulle implicazioni di lungo termine della guerra sulla stabilità libica353.

350
Ivi, p. 26
351
A proposito di questo dibattito, cfr. N. RONZITTI, NATO’S Intervention in Libya: A genuine
action to protect a civilian population in mortal danger or an intervention aimed at regime change?, in
“The Italian Yearbook of International Law”, vol. 21, 2011, pp. 3-21
352
AA.VV., op.cit., p. 53
353
Ibidem

119
Sembra, comunque, che la ragione umanitaria abbia caratterizzato il fattore
principale d’intervento354, anche se, come vedremo, si sono presto fatti strada alcuni dubbi
al riguardo.
Ufficialmente, le operazioni militari furono intraprese in risposta ad eventi
accaduti durante la ribellione libica, nel contesto di una più ampia agitazione in Medio
Oriente e Nord Africa. L'insurrezione era iniziata dopo una serie di proteste e rivolte
contro il regime di Muammar Gheddafi nel febbraio 2011. Le proteste, in particolare
nell'area di Bengasi, Beida e Derna, erano sfociate in una ribellione armata che si era
diffusa in tutto il Paese con l'obiettivo di rovesciare il governo in carica355. Il governo
libico rispose con una repressione talmente violenta che provocò forte indignazione nella
comunità internazionale: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU reagì con una risoluzione
che prevedeva l’embargo totale sulle armi dirette verso il Paese nordafricano, il
congelamento dei beni delle persone individuate in una lista allegata (per lo più parenti
di Gheddafi stesso ed esponenti del governo libico), il divieto di spostamenti imposto a
Gheddafi, nonché il rispetto del diritto internazionale umanitario356.
Il 17 marzo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò un’altra risoluzione, che
imponeva il cessate il fuoco a Gheddafi, stabiliva una no-fly zone sui cieli libici e
consentiva ai Paesi della coalizione internazionale coinvolti nel conflitto l’utilizzo di
qualunque mezzo – anche della forza – per proteggere i civili dalle forze lealiste di
Gheddafi357, con l’unico limite del divieto di procedere ad un’occupazione militare.
Questo punto in particolare può essere considerato il primo esempio di applicazione
pratica della dottrina della responsibility to protect358.
Il 19 marzo, in seguito al perpetrarsi degli attacchi libici in violazione alle
risoluzioni ONU, i leader di Stati Uniti, Regno Unito e Francia diedero inizio alle prime
operazioni militari, nella cornice di una Coalition of the Willing.

354
Ivi, p. 54
355
Ibidem
356
Risoluzione 1970/2011, 26 febbraio 2011, https://www.undocs.org/S/RES/1970%20(2011);
ultima consultazione 23 settembre 2020
357
Risoluzione 1973/2011, 17 marzo 2011, https://www.undocs.org/S/RES/1973%20(2011);
ultima consultazione 23 settembre 2020
358
Secondo questa dottrina, qualunque Stato della comunità internazionale ha la responsabilità di
proteggere la popolazione di uno Stato qualora questo non sia in grado di prevenire o porre fine alle
violazioni dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione stessa.

120
Le prime attività consistettero in una serie di ricognizioni aeree dello spazio aereo
libico da parte di alcuni caccia francesi, che successivamente attaccarono quattro mezzi
corazzati dell’esercito libico situati a Bengasi359 (“operazione Harmattan”), e
proseguirono con il lancio di più di un centinaio di missili da crociera Tomahawk da unità
navali americane e inglesi (cacciatorpediniere lanciamissili, sottomarini nucleari e navi
d’assalto anfibie), operazione che prese il nome di “operazione Odyssey Dawn”. Anche
la RAF, nello stesso giorno, dispiegò missili contro obiettivi militari libici.
Come accadde per la guerra del Kosovo, anche stavolta l’Italia mise a disposizione
della coalizione internazionale le proprie basi aeree, precisamente 7, fornendo un grande
appoggio logistico e strategico, nonché centinaia di piloti, 1000 marinai e diverse unità
navali.
Nei giorni successivi continuarono i bombardamenti da parte delle aviazioni della
coalizione internazionale, nell’ambito dei quali i velivoli svolsero tanto funzioni
offensive quanto di ricognizione e deterrenza.
Il 23 marzo la NATO intervenne nelle acque internazionali di fronte alla Libia –
non potendo accedere alle acque libiche senza un mandato – per assicurare l’effettivo
rispetto delle due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Questa operazione prese il nome
di “operazione Unified Protector”. Vennero schierati velivoli e navi con l’obiettivo di
perquisire tutte le imbarcazioni sospette, in modo da garantire l’osservanza dell’embargo
sulle armi, mentre il comando della no-fly zone e i bombardamenti aerei rimasero
prerogativa della coalizione internazionale.
Il 31 marzo la campagna militare passò sotto l’egida della NATO, che racchiuse
in un unico comando le operazioni legate agli obiettivi delle due risoluzioni.
I raid proseguirono ed aumentarono di intensità, prendendo di mira non soltanto
il campo di battaglia, ma anche Tripoli e i centri nevralgici del potere del Rais. Questa
strategia ci riporta a quella sorta di “diplomazia coercitiva” adottata anche nella guerra
del Kosovo, allorché si alzò la pressione sul leader Milosevic per indurlo al tavolo
negoziale.

359
https://www.defense.gouv.fr/fre/air/actus-air/libye-debut-des-operations-aeriennes-francaises;
ultima consultazione 23 settembre 2020

121
In maggio si giunse alla conquista da parte della NATO di Tripoli, Sirte e gran
parte della Libia. Il conflitto si concluse in ottobre con la morte di Gheddafi per mano dei
ribelli.
L’operazione Unified Protector non fu un intervento militare così imponente
rispetto allo standard della NATO: la coalizione effettuò una media di soltanto 100 sortite
al giorno, di cui solo la metà erano di attacco. Paragonata alle operazioni svolte, ad
esempio, in Kosovo nel 1999, appare evidente la differenza di portata tra le due campagne
aeree.
La guerra di Libia del 2011 confermò ulteriormente il ruolo essenziale e strategico
del potere aereo, sia in chiave prettamente offensiva che di deterrenza, nel conseguire gli
obiettivi stabiliti dalla politica. Esso svolse il suo compito di porre fine al conflitto in
tempi rapidi e con le minori perdite possibili. E’ proprio in questa guerra, infatti, se
confrontata con le precedenti, che si registra il minor numero di vittime civili; questo
perché i bombardamenti di precisione funzionarono nel colpire gli obiettivi specifici,
limitando i danni collaterali.
Accanto a quella propriamente offensiva, si rivelarono fondamentali anche la
funzione di ricognizione – in quanto permise di acquisire immagini aeree preziose
dell’area delle operazioni – e quella di rifornimento in volo – divenuta poi indispensabile
in tutti i conflitti successivi, nonostante non tutte le forze aeree ne dispongano –.
Il potere aereo si dimostrò di nuovo un elemento imprescindibile ed efficace nel
condurre al successo, grazie alla neutralizzazione delle forze aeree nemiche e dei punti
strategici della potenza avversaria. Nel caso specifico della Libia, però, rimase aperta una
questione controversa: se l’obiettivo della missione NATO fosse stato quello di
proteggere la popolazione civile dai crimini contro l’umanità commessi dal governo
libico, la sola morte di Gheddafi non sarebbe potuta bastare di per sé a garantire la
salvezza della popolazione; infatti, gli abusi nei confronti dei civili continuarono anche
dopo la sua morte360. Se è vero, quindi, che l’intervento si concluse con una vittoria sul
piano militare, dall’altro lato esso non portò realmente a termine l’obiettivo di proteggere
i civili. Questo lasciò qualche dubbio sull’effettiva ragione dell’intervento NATO.

Cfr. G. BARTOLINI, L’operazione Unified Protector in Libia e la condotta delle ostilità, in


360

“Rivista di diritto internazionale”, 4/2012

122
Conclusioni

Questo lavoro ha cercato di ripercorrere le fasi fondamentali della nascita del


potere aereo, a partire dai primi impieghi di mera ricognizione aerea nella guerra italo-
turca del 1911, sino all’incredibile sviluppo tecnologico conosciuto dai velivoli e al loro
conseguente impiego tattico e strategico in alcuni significanti conflitti contemporanei.
L’evoluzione del potere aereo è stata senza dubbio molto rapida: in poco più di
cento anni dalla prima alzata in volo di un “velivolo più pesante dell’aria”, gli aerei sono
passati dal non poter rimanere in aria per più di cinque minuti alla capacità di compiere
un volo di più di un giorno; da una velocità di appena 160 km/h ad una velocità di più di
3mila km/h; e anche la capacità di carico è sensibilmente aumentata, facendo sì che già
dalla fine degli anni Sessanta gli aerei potessero trasportare missili (un esempio lampante
è la guerra del Vietnam). I bombardieri, grazie allo sviluppo di bombe intelligenti, sono
arrivati a poter distruggere ogni obiettivo con il lancio di un solo ordigno, quando in
passato sarebbero state necessarie più di una dozzina di bombe per raggiungere lo stesso
risultato.
Le teorie della guerra aerea di autori come Douhet, Trenchard e Mitchell hanno
affiancato il processo di sviluppo tecnologico dell’aereo, ponendo grande attenzione sulla
funzione del bombardamento strategico del potere aereo come unico mezzo in grado di
conseguire la vittoria in un conflitto. L’affermarsi del potere aereo è tuttavia avvenuto
non senza l’emergere di alcune criticità: ad esempio, c’è stato un momento storico in cui
la potenza distruttrice del bombardamento strategico, che si andava delineando con
chiarezza in quel periodo, ha suscitato molto timore nell’opinione pubblica, portando a
vari tentativi di disarmo aereo e regolamentazione della guerra nei cieli come le due già
trattate Conferenze di Washington (1921) e di Ginevra (1932). Entrambe, però, hanno
fallito nel loro tentativo di abolizione delle aeronautiche militari e di regolamentazione
della guerra aerea, poiché tutte le potenze iniziavano già a comprendere la grandiosità
dell’arma aerea e l’impossibilità di farne a meno. Si trattava del periodo immediatamente
antecedente allo scoppio della guerra d’Etiopia e di quella civile spagnola, in cui, come
si è avuto modo di esaminare, si è fatto un uso massiccio – e poi aspramente condannato
– dell’arma aerea, tanto da poter essere definite i primi laboratori della guerra aerea.

123
Durante le campagne della Seconda guerra mondiale, il potere aereo ha avuto
l’occasione di mostrarsi in tutta la sua efficacia e potenza, ma è stato con i primi
bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki che il suo ruolo è iniziato a diventare
ancora più centrale, assumendo anche quello di vettore dell’arma nucleare.
In seguito alla disamina di alcune delle maggiori guerre degli ultimi anni (Corea,
Vietnam, Sei Giorni, Yom Kippur, Golfo, Kosovo e Libia), che hanno visto un ingente
dispiegamento di forze aeree, è stato possibile rilevare nella pratica il contributo
fondamentale che esse hanno apportato alla riuscita delle operazioni militari. In queste
occasioni, il potere aereo è stato in grado di condurre al raggiungimento degli obiettivi in
tempi rapidi e con il minor numero di perdite possibili. Seppur accompagnato da alcune
polemiche nel corso del tempo, è innegabile che l’impiego del potere aereo abbia fatto la
differenza e sia divenuto un elemento oramai imprescindibile dei conflitti.
E’ facile dunque intuire quanto il potere aereo si sia andato costituendo come un
fattore decisivo e, talvolta, addirittura risolutivo, nei conflitti che hanno contraddistinto
gli scenari internazionali degli ultimi anni. Esso si è trovato a confrontarsi sin da subito
con il potere militare terrestre e il potere marittimo, i due elementi che fino alla comparsa
della terza dimensione avevano caratterizzato ogni guerra; dall’essere inizialmente
subordinato al potere terrestre, con funzioni prettamente ricognitive e di supporto, il
potere aereo è arrivato ben presto a guadagnare una sua autonomia strategica e ad imporsi
tra le forze armate, in un momento di svolta in cui si stavano superando i riferimenti delle
teorie geopolitiche classiche. Così l’antica contrapposizione tra potenza di terra e potenza
di mare, che aveva a lungo governato le relazioni tra gli Stati e le loro scelte strategiche,
si è dimostrata obsoleta con l’irruzione sulla scena del potere aereo. Ora le dimensioni
diventavano tre: navale, terrestre ed aerea, e non vi era predominanza dell’una sull’altra.
Proprio su questo punto le teorie di autori come Douhet si possono ritenere inesatte: pur
assodato che il potere aereo sia essenziale nelle sue funzioni strategiche e tattiche – così
come il bombardamento strategico –, che spesso renda concretamente possibili le
operazioni di terra e di mare grazie alla conquista della superiorità aerea, e che le teorie
degli studiosi di guerra aerea siano state fondamentali e rivoluzionarie nello sviluppo di
una dottrina aerea, tuttavia si è anche osservato, in diverse occasioni, che il solo potere
aereo non può, di per sé, essere sufficiente al raggiungimento della vittoria; in molti casi
(come, ad esempio, nel corso delle campagne della Seconda guerra mondiale) esso è

124
risultato vincente solo quando operante in perfetta collaborazione e sinergia con le altre
due dimensioni del potere, terrestre e navale.
Da un altro punto di vista, però, bisogna riconoscere che il potere aereo è stato
anche in grado di agire da solo, di svolgere, cioè, anche in autonomia un ruolo spesso
decisivo. Ma questo non perché sia da ostentare una sua presunta superiorità sugli altri
due poteri, ma perché in alcuni tipi di conflitto il potere aereo è risultato e risulta essere
il mezzo più appropriato di cui servirsi. A tal proposito, come si ha avuto modo di vedere
ad esempio nel caso del Kosovo e della Libia, il potere aereo è stato in grado di offrire
una risposta flessibile al carattere asimmetrico del conflitto, dimostrando le sue grandi
capacità di adattamento. In certi casi, quindi, grazie alle sue peculiarità, può risultare
preferibile l’impiego del potere aereo rispetto a quello delle altre forze militari, come ad
esempio quando, nelle prime fasi di un conflitto, è di cruciale importanza annientare in
prima battuta il potenziale bellico del nemico al fine di annullarne la capacità di risposta,
o anche quando si voglia costringerlo al negoziato. Per questo motivo, anche l’approccio
interforze, che tendenzialmente è quello preferibile, può avere dei limiti, in quanto in
determinati casi il potere aereo risulta essere il mezzo più idoneo e addirittura risolutivo
nello svolgimento di un conflitto.
Con l’avanzamento della tecnologia e la comparsa del potere spaziale, anche la
sinergia tra potere aereo e potere spaziale è divenuta vitale nella conduzione di conflitti,
specialmente se si pensa al grandissimo valore dell’intelligence che si può ricavare dalle
piattaforme aeree e spaziali e che è parte fondamentale della pianificazione militare, e
ancora alla tecnologia spaziale di cui oggi si può disporre, come l’utilizzo del GPS, che
si è talmente tanto integrata nelle operazioni militari ordinarie da non poterne più fare a
meno.
Nello scenario internazionale attuale, guardare al passato è sicuramente
importante: le lezioni apprese nei teatri operativi degli ultimi anni sono fondamentali nel
comprendere gli errori commessi – riconducibili soprattutto ad errori di strategia – ma è
necessario anche non lasciarsi condizionare dalle esperienze passate e saper adottare
strategie d’azione diverse per ogni conflitto, impiegando le tre forze militari a seconda
delle caratteristiche del teatro, identificando di volta in volta i mezzi più idonei al
conseguimento degli obiettivi e mantenendo sempre il passo con l’incessante evoluzione
tecnologica dei mezzi bellici.

125
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o (ultima consultazione 23 settembre 2020)

137
RIASSUNTO

Alla base del presente elaborato vi è la volontà di andare alla radice di uno degli elementi più
importanti dei conflitti contemporanei, ovvero il potere aereo, tracciandone la storia e l’evoluzione.
Partendo dagli albori dell’aeronautica, passando per la nascita della questione aerea e della nozione
di “dominio dell’aria”, si è giunti a delineare lo sviluppo del concetto di “potere aereo” sino al suo
impiego tattico e strategico nel contesto di alcuni fra i più significativi teatri di guerra contemporanei.
Se può risultare semplice intuire cosa s’intenda per “potere aereo”, decisamente più difficile
è trovare una definizione scientifica per tale concetto. Si potrebbe ricorrere alla definizione che ne dà
il documento inglese AP3000 British Air Power Doctrine, secondo cui «il potere aereo è la capacità
di proiettare le forze militari nell’aria o nello spazio con o da una piattaforma aerea che, a sua volta,
opera al di sopra della superficie della terra». Benché si tratti di una definizione per lo più didattica,
che non tiene conto dell’onnicomprensività del termine, può essere utilizzata come punto di partenza.

Dopo gli esperimenti delle prime “macchine volanti”, il 1783 fu l’anno in cui i fratelli
Montgolfier riuscirono finalmente a realizzare il primo pallone aerostatico in grado di sollevarsi da
terra portando a bordo un piccolo equipaggio. Fu proprio con i palloni aerostatici che ebbe inizio la
fase pioneristica dell’evoluzione della guerra aerea, caratterizzata dai primi tentativi di utilizzo dei
velivoli in chiave bellica. I palloni aerostatici furono infatti utilizzati con successo, ad esempio, nella
Battaglia di Fleurus del 1794 e nella guerra di secessione del 1862, passando dall’alimentazione ad
aria calda all’alimentazione a gas. Nel 1897 arrivò la prima aeronave rigida del mondo.
Sia i palloni aerostatici che, successivamente, i dirigibili, furono inizialmente – e per lungo
tempo – adibiti a funzioni per lo più ricognitive e d’osservazione. I nuovi dirigibili furono impiegati
nell’ambito della guerra italo-turca del 1911 e, soprattutto, nella Grande Guerra, sebbene palesassero
ancora notevoli criticità dal punto di vista tecnico. Una svolta decisiva si ebbe con l’introduzione dei
motori a scoppio nell’aviazione, grazie ai quali tanto l’aeronautica civile quanto quella militare
poterono avvalersi di dirigibili di ottima qualità. Ben presto le nazioni europee fecero a gara nella
costruzione e nel lancio di velivoli sempre più sofisticati e perfezionati.
Nonostante il miglioramento che i progressi tecnologici avevano apportato al dirigibile,
quest’ultimo sarebbe stato ben presto reso obsoleto dall’avvento del suo grande rivale, l’aeroplano,
realizzato a partire dai pioneristici esperimenti dei fratelli Wright nel 1903. Accade così che
l’aerostato, definito come oggetto “più leggero dell’aria”, venne soppiantato definitivamente
dall’aeroplano, che, al contrario, era un mezzo “più pesante dell’aria”. L’invenzione dell’aeroplano

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segnò una delle più straordinarie rivoluzioni tecnologiche dell’umanità e cambiò profondamente il
modo di condurre le guerre.
La guerra italo-turca del 1911 vide l’uso sistematico di aeroplani da parte dell’esercito
italiano: il mezzo “più pesante dell’aria” fu impiegato con successo con finalità esplorative sul
territorio nemico e per bombardare da lontano le postazioni avversarie, sebbene le funzioni di tipo
offensivo fossero nei primi aerei decisamente minoritarie. In quell’anno ancora non si poteva parlare
né di dottrina del potere aereo e né tantomeno di aviazione strategica, in quanto non esistevano forze
aeree indipendenti e la tecnologia non aveva raggiunto livelli tali da consentire lo sviluppo di velivoli
che avessero una qualche valenza strategica.
La cosiddetta “questione aerea” fu sollevata proprio nell’ambito della guerra italo-turca, in
seguito alla sperimentazione, da parte italiana, del lancio di piccole bombe sugli accampamenti
militari avversari; si pensò da subito alle temibili conseguenze dell’impiego dell’arma aerea e si sentì
l’esigenza di comprendere se e in quale misura un bombardamento aereo potesse essere considerato
lecito secondo le leggi internazionali. Da quel momento in poi, l’impiego dell’aeroplano in guerra fu
costantemente accompagnato da numerose polemiche, che vedevano contrapporsi chi, da una parte,
non voleva eliminare l’importanza del lato militare dell’aviazione bloccandone lo sviluppo, e chi,
dall’altra, dava voce alla necessità di impedire che una magnifica rivoluzione come il volo umano si
trasformasse in una minaccia per la civiltà.
La Prima guerra mondiale fu un evento di importanza decisiva per l’evoluzione tecnologica
degli aeroplani come strumenti bellici e per il notevole incremento nella loro produzione. Alla vigilia
del conflitto l’aereo era ancora uno strumento di tela e legno privo di funzioni offensive, e la sua
velocità media e il suo raggio d’azione erano scarsi, per questo svolgeva primariamente funzioni
ricognitive e ausiliarie alle forze di terra e mare. Ma le urgenze belliche del primo conflitto mondiale
determinarono un profondo sviluppo della tecnologia aerea, che portò, nel 1918, alla creazione di
modernissimi caccia che resero obsoleti i vecchi aerei; potevano raggiungere velocità inimmaginabili
fino a quel momento, avevano un ampissimo raggio d’azione e, oltre ad essere dotati di mitragliatrici,
svolgevano funzione di bombardieri. Finalmente la funzione offensiva diveniva una prerogativa
cruciale dei velivoli bellici.
La neonata “guerra aerea”, che avrebbe segnato in profondità tutti gli eventi bellici successivi,
diede anche impulso ad una serie di teorizzazioni circa il “dominio dell’aria” come requisito
imprescindibile per raggiungere la vittoria nella guerra contemporanea; le prese di posizione di
Douhet ebbero, in quest’ottica, un’importanza capitale. La guerra aerea fu un evento decisivo anche
per l’impatto che ebbe sull’opinione pubblica, la quale fu sollecitata e affascinata dalle imprese
eccezionali compiute dai grandi aviatori, i cosiddetti “assi dell’aviazione”. Anche la poesia, l’arte e

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la letteratura sentirono in profondità il mito degli aviatori e l’ideale di un’azione bellica libera,
incondizionata ed eroica; si pensi, ad esempio, a Gabriele d’Annunzio, il quale a più riprese celebrò
nei suoi componimenti la tecnologia e la velocità dell’attività aerea, o Filippo Tommaso Marinetti e
i futuristi, che negli aerei da guerra video uno dei contrassegni salienti della modernità che avanzava
mandando in frantumi tutti i vecchiumi della tradizione. Tutte le guerre combattute sino ad allora si
erano svolte su due dimensioni: la dimensione terrestre e quella navale. Con la Grande Guerra
s’introdusse una terza dimensione: quella dell’aria.
Il ruolo meramente ricognitivo, e quindi secondario, che all’inizio della Grande Guerra
caratterizzò le forze aeree, non è da imputarsi soltanto al livello tecnologico ancora incipiente, ma tra
le resistenze vi erano anche e soprattutto remore e pregiudizi di altro genere. Con la consapevolezza
che l’ingresso massiccio dell’aeronautica nei nuovi conflitti avrebbe inevitabilmente rivoluzionato
l’assetto tradizionale della guerra, essa era vista con scetticismo o addirittura avversata da molti
militari e politici di orientamento conservatore. Dunque, la guerra aerea trovò dapprima
un’accoglienza tiepida, che si fece calorosa man mano che le forze aeree conseguirono irresistibili
successi. Anzi, ben presto, nel corso della Prima guerra mondiale, prese piede l’idea del bombardiere
come arma autonoma, tanto che i politici e militari britannici Smuts e Lloyd George raccomandarono
la creazione di un’aeronautica militare indipendente dall’esercito e dalla marina.
A partire dal 1916, nell’ambito della guerra aerea tra aviazione italiana e aviazione austriaca,
venne perfezionato e applicato, sia dall’una che dall’altra, il principio del bombardamento strategico,
e le funzioni di caccia e di offesa cominciarono ad affermarsi accanto a quella di ricognizione.
La Prima guerra mondiale diede un impulso decisivo allo sviluppo dell’aviazione militare, ma
anche l’aviazione commerciale e quella civile trassero beneficio dai progressi dell’aviazione militare.
Infatti, per tutto il periodo dal 1918 all’inizio della Seconda guerra mondiale, si susseguirono senza
sosta traversate e trasvolate compiute da aerei sempre più potenti ed affidabili.
Nel periodo tra le due guerre, alcuni esperti militari e uomini politici come Douhet
continuarono ad evidenziare l’importanza dell’aviazione e le sue potenzialità ancora inespresse,
ritenendo che la guerra aerea avrebbe finito per primeggiare su tutte le altre forme di guerra. Questo
periodo è da considerarsi uno dei più fertili nell’evoluzione dell’aviazione, tanto che le potenze
iniziarono a sentire la necessità di dotarsi di una propria forza aerea indipendente. Fu così che
nacquero le prime aeronautiche militari, ovvero le prime forze aeree indipendenti dall’esercito e dalla
marina. In Germania, nel 1935, nacque la Luftwaffe; nel Regno Unito, nel 1918, la Royal Air Force
(che si distinse soprattutto per il livello di integrazione che seppe mantenere con le altre forze armate
di terra e di mare, promuovendo non già l’assoluto e unilaterale primato delle forze aeree ma,
piuttosto, la sinergia armonica di tutte e tre le forze armate); in Italia, nel 1923, la Regia Aeronautica;

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e infine, nell’URSS, nel 1918, la Voenno-vozdušnye sily. Per quanto riguarda l’aviazione statunitense,
invece, essa rimase subordinata all’esercito e alla marina (così come quella giapponese) e divenne
una forza indipendente (United States Air Force) soltanto nel 1947.
I progressi tecnologici dell’aviazione militare portarono ad un ripensamento complessivo del
concetto stesso della guerra. Vari autori elaborarono teoricamente l’idea secondo cui, all’interno della
guerra totale, le forze aeree avrebbero dovuto avere un ruolo sempre più decisivo. I cosiddetti “teorici
della guerra aerea”, dunque, scrissero alcuni dei più importanti testi che la teoria della guerra
contemporanea abbia prodotto, contribuendo allo sviluppo della dottrina del potere aereo. Uno di
questi teorici fu il generale Giulio Douhet, uno dei più grandi strateghi italiani di tutti i tempi. Nella
sua famosa opera Il dominio dell’aria del 1921, ricollegandosi a Smuts e Lloyd George, egli riteneva
che le forze aeree si sarebbero dovute presto svincolare dal ruolo di mero sussidio fin lì svolto per
divenire la forza militare decisiva nel conseguimento della vittoria. Per Douhet, “dominio dell’aria”
significava esplicare contro il nemico azioni offensive sempre più micidiali, risolutive ed efficaci,
quindi mettere in atto una “guerra totale”, che condizionasse tutti gli aspetti della società civile e
facesse venir meno la separazione tra vita civile e vita militare, coinvolgendo anche la popolazione
come soggetto belligerante oltre che come bersaglio passivo. Ecco perché alcuni autori parlarono
della teorizzazione di una vera e propria forma di “terrorismo di Stato”. Anche il concetto di “campo
di battaglia” perse tutti i suoi connotati tradizionali, dal momento che il campo di battaglia delle
guerre del futuro sarebbe stato limitato solamente dai confini delle nazioni belligeranti. L’opera di
Douhet, come prevedibile, suscitò reazioni controverse. I suoi detrattori osservarono come
l’aviazione militare, per quanto cruciale, molto spesso non avesse avuto di per sé un’efficacia
determinante, ma piuttosto fosse servita da apripista per una serie di azioni belliche ulteriori condotte
via mare e via terra. I suoi sostenitori, invece, confermarono che il potere aereo si fosse dimostrato
assolutamente decisivo per la risoluzione dei conflitti, come accaduto ad esempio nella guerra del
Kosovo del 1999.
Oltre Douhet, altri furono gli autori militari che si occuparono della portata innovativa della
guerra aerea. Tra questi si ricordano, in particolare, Mecozzi, Trenchard e Mitchell. Mecozzi,
considerato l’”anti Douhet”, divergeva dal generale italiano nel rivendicare l’utilizzo dell’aviazione
in un senso tattico e nel ritenere che le forze terrestri e marittime continuassero a svolgere un ruolo
insostituibile nella guerra contemporanea; nella sua idea, vi doveva essere una stretta sinergia delle
tre forze, evitando che una delle tre prendesse il sopravvento sulle altre. Mecozzi definiva la “guerra
totale” come un’unica visione strategica in cui ogni forza armata operasse in armonia con le altre e
sosteneva che l’azione bellica dovesse avere come obiettivo principale bersagli precisi e utili alle
forze armate del nemico piuttosto che i centri demografici. Trenchard, al contrario, può essere

141
considerato il “Douhet inglese”. Anche lui sosteneva il bombardamento indiscriminato di intere aree
urbane e la necessità che l’aviazione militare costituisse una terza e indipendente armata. Mitchell fu
un altro fautore dell’opera douhetiana: egli sosteneva l’indispensabilità del bombardamento strategico
protratto ad oltranza e non esitò a dichiarare il primato della forza aeronautica rispetto alle altre due
forze e l’importanza della creazione di una forza aerea autonoma.
Il carattere di “guerra integrale” che si andava delineando con lo sviluppo della guerra aerea
rese evidente quanto non fosse più sostenibile la distinzione tra civili e militari. I bombardamenti
avrebbero avuto un forte peso psicologico sulle popolazioni. La prospettiva di una guerra di questo
tipo poneva rilevanti problemi etici, motivo per cui vennero convocate due Conferenze sulla
regolamentazione della guerra nei cieli: la Conferenza di Washington del 1921 e la Conferenza di
Ginevra del 1932. Entrambe si conclusero con esito fallimentare – a parte l’elaborazione di un
regolamento che avrebbe proibito il bombardamento terroristico della popolazione civile – dal
momento che nessuna potenza intendeva legarsi le mani rinunciando ai vantaggi dell’arma aerea.
Nel 1935 ebbe inizio la guerra d’Etiopia, in cui le forze aeree italiane si dimostrarono
fondamentali nella vittoria e nella conquista dell’Etiopia svolgendo funzioni di ricognizione, di
osservazione, di vettovagliamento, di trasporto, di interdizione dei rifornimenti ai nemici e di
bombardamento, sebbene non ebbero un ruolo autonomo ma di sussidio rispetto all’esercito. L’anno
successivo, nel 1936, scoppiò la guerra civile spagnola, che fu cartina di tornasole di quanto rilevante
fosse ormai divenuto il ruolo delle forze aeree; infatti, senza il sostegno delle aviazioni tedesca ed
italiana, che piegarono la Repubblica spagnola nel giro di tre anni, il golpe non sarebbe mai stato
possibile.
Ancor più che nella Grande Guerra, nella Seconda guerra mondiale l’aviazione svolse un ruolo
assolutamente fondamentale. In qualsiasi teatro di combattimento furono presenti aeroplani,
impiegati senza esclusioni di colpi da tutte le potenze in lotta. Essi svolsero le funzioni più disparate:
di bombardiere tattico e strategico; di cacciabombardiere e caccia; di trasporto; di collegamento; di
ricognizione; di aerosilurante e di pattugliatore marittimo. Le sorti della Seconda guerra mondiale
furono profondamente influenzate dall’aviazione, anche se quest’ultima poté espletare le sue funzioni
solo in collaborazione con le forze di terra e di mare. Questo fu particolarmente evidente nelle
Campagne di Polonia, Norvegia, Francia, Inghilterra e sul fronte Orientale. La guerra del Pacifico
segnò un punto di svolta, in quanto gli americani, nel 1945, misero a punto la bomba atomica e
sganciarono così il primo ordigno nucleare della storia su Hiroshima e Nagasaki, dando ufficialmente
inizio all’era atomica e aggiungendo all’aviazione una nuova funzione, quella di vettore dell’arma
nucleare. L’aviazione strategica svolse questo ruolo per diverso tempo dopo il 1945, ma con la
progettazione del primo missile balistico intercontinentale e il lancio dello Sputnik nello spazio da

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parte dell’URSS, la dimensione dei nuovi conflitti si spostò sul piano missilistico e spaziale. La guerra
nucleare e la guerra spaziale si sostituirono alla guerra aerea e il missile a media gittata iniziò ad
essere considerato, nelle teorie occidentali, il sostituto dell’aereo strategico.
Con il prefigurarsi del bipolarismo, la supremazia aerea spettò soltanto a Stati Uniti e URSS,
che avevano però visioni diverse – riflesso di ideologie contrapposte – del ruolo da attribuire al potere
aereo. In particolare, nella dottrina dei Paesi occidentali il potere aereo era l’elemento risolutivo del
conflitto, quindi assunse un vero e proprio ruolo strategico e non fu più considerato accessorio agli
altri poteri. La dottrina sovietica del potere aereo, invece, attribuiva al potere aereo un ruolo tattico di
supporto alle truppe terrestri, che costituivano l’elemento fondante della difesa. Questo perché,
essendo l’URSS un Paese per la maggior parte privo di sbocchi sul mare, la sua principale
componente militare si era sviluppata e concentrata nelle truppe terrestri, su cui gravava l’onere di
difendere i confini nazionali.
Dal momento che, con la comparsa della dimensione dell’aria e di quella spaziale, lo spazio
geografico della geopolitica si era trasformato, alcuni studiosi di geopolitica elaborarono un’altra
serie di teorie sul potenziale degli aerei nelle guerre future in relazione alla comparsa delle armi
nucleari, in particolare George Renner e Alexander de Seversky. Il primo sostenne che la nascita del
potere aereo avesse avuto profonde ripercussioni sullo scenario geopolitico, per cui la tradizionale
contrapposizione fra terra e mare si era affievolita e i cosiddetti heartlands erano diventati due, uno
negli Stati Uniti e uno nell’URSS. Allo stesso modo, de Seversky era dell’idea che il potere aereo
avesse mutato il volto della geopolitica contemporanea, e che l’intero mondo dovesse essere diviso
in due grandi aree o “cerchi”, che avevano come centro i cuori industriali degli Stati Uniti e dell’URSS
e come raggio la distanza che poteva essere coperta dai bombardieri strategici. Secondo de Seversky,
però, gli Stati Uniti avrebbero dovuto concentrare la loro potenza aerea entro i propri confini, evitando
di creare basi aeree oltremare – a suo parere superflue e controproducenti –; il punto debole della
teorizzazione di questo “isolazionismo aereo” fu che non tenne conto del fatto che, dopo la Seconda
guerra mondiale, l’egemonia americana avrebbe coinvolto tutto il mondo occidentale, non soltanto il
continente americano, pertanto sarebbe stato impossibile astenersi dal condurre conflitti al di fuori
dei confini.
Alcuni importanti esempi dell’utilizzo del potere aereo in funzione operativa nel periodo della
Guerra Fredda si possono riscontrare nella guerra di Corea, del Vietnam , dei Sei Giorni e dello Yom
Kippur. In tutti questi conflitti, nonostante alcuni errori di strategia commessi, il potere aereo
confermò ancora una volta la propria centralità, ma allo stesso tempo emerse anche l’importanza di
una jointness tra forze d’aria, forze terrestri e forze navali: nella guerra di Corea, la difficile azione
delle truppe di terra fece affidamento sul supporto aereo (ruolo tattico), che permise di contenere i

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nordcoreani e di controbilanciare la superiorità numerica delle forze cinesi svolgendo anche una
funzione di interdizione per impedire i rifornimenti di armi, carburante, munizioni e quant’altro ai
nordcoreani; in Vietnam, la combinazione tra le quattro forze (US Navy, US Air Force, US Army e
US Marine Corps) e l’utilizzo di portaerei giocò un ruolo cruciale nel conflitto; ed ancora, l’impiego
del potere aereo da parte di Israele nell’appoggiare le truppe terrestri fu un fattore determinante per il
suo successo nel 1967 (guerra dei Sei Giorni) e nel 1973 (guerra dello Yom Kippur). In entrambe le
guerre, infatti, il potere aereo apportò un contributo considerevole all’esercito israeliano, sia a livello
difensivo che offensivo.
Per quanto riguarda il periodo post-guerra fredda, venne fatto un uso massiccio di forze aeree
nelle guerre del Golfo, del Kosovo e della Libia: nella guerra del Golfo fu il fattore aereo a dominare
l’intera strategia statunitense, seppur ben integrato con le altre forze, e svolse funzioni di
bombardamento, di interdizione, di contraviazione offensiva e di supporto alle truppe di terra; nella
guerra del Kosovo, il potere aereo svolse funzioni di bombardamento, di interdizione e di
contraviazione offensiva, e per la prima volta portò da solo il nemico ad accettare buona parte delle
condizioni che gli si voleva imporre; nella guerra di Libia, infine, il potere aereo svolse funzioni di
ricognizione dello spazio aereo libico, di bombardamento e di deterrenza, e pose fine al conflitto in
tempi rapidi e con le minori perdite possibile. Difatti, fu proprio in questa guerra che, se confrontata
con le precedenti, si registrò il minor numero di vittime civili; questo perché i bombardamenti di
precisione funzionarono nel colpire gli obiettivi specifici, limitando i danni collaterali.

E’ facile, a questo punto, intuire quanto il potere aereo si sia andato costituendo come un
fattore decisivo e, talvolta, addirittura risolutivo, nei conflitti che hanno contraddistinto gli scenari
internazionali degli ultimi anni. Esso si è trovato a confrontarsi sin da subito con il potere militare
terrestre e il potere marittimo, i due elementi che fino alla comparsa della terza dimensione avevano
caratterizzato ogni guerra; dall’essere inizialmente subordinato al potere terrestre, con funzioni
prettamente ricognitive e di supporto, il potere aereo è arrivato ben presto a guadagnare una sua
autonomia strategica e ad imporsi tra le forze armate, in un momento di svolta in cui si stavano
superando i riferimenti delle teorie geopolitiche classiche. Così l’antica contrapposizione tra potenza
di terra e potenza di mare, che aveva a lungo governato le relazioni tra gli Stati e le loro scelte
strategiche, si è dimostrata obsoleta con l’irruzione sulla scena del potere aereo. Ora le dimensioni
diventavano tre: navale, terrestre ed aerea, e non vi era predominanza dell’una sull’altra. Proprio su
questo punto le teorie di autori come Douhet si possono ritenere inesatte: pur assodato che il potere
aereo sia essenziale nelle sue funzioni strategiche e tattiche – così come il bombardamento strategico
–, che spesso renda concretamente possibili le operazioni di terra e di mare grazie alla conquista della

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superiorità aerea, e che le teorie degli studiosi di guerra aerea siano state fondamentali e rivoluzionarie
nello sviluppo di una dottrina aerea, tuttavia si è anche osservato, in diverse occasioni, che il solo
potere aereo non può, di per sé, essere sufficiente al raggiungimento della vittoria; in molti casi (come,
ad esempio, nel corso delle campagne della Seconda guerra mondiale) esso è risultato vincente solo
quando operante in perfetta collaborazione e sinergia con le altre due dimensioni del potere, terrestre
e navale.
Da un altro punto di vista, però, bisogna riconoscere che il potere aereo è stato anche in grado
di agire da solo, di svolgere, cioè, anche in autonomia un ruolo spesso decisivo. Ma questo non perché
sia da ostentare una sua presunta superiorità sugli altri due poteri, ma perché in alcuni tipi di conflitto
il potere aereo è risultato e risulta essere il mezzo più appropriato di cui servirsi. A tal proposito, come
si ha avuto modo di vedere ad esempio nel caso del Kosovo e della Libia, il potere aereo è stato in
grado di offrire una risposta flessibile al carattere asimmetrico del conflitto, dimostrando le sue grandi
capacità di adattamento. In certi casi, quindi, grazie alle sue peculiarità, può risultare preferibile
l’impiego del potere aereo rispetto a quello delle altre forze militari, come ad esempio quando, nelle
prime fasi di un conflitto, è di cruciale importanza annientare in prima battuta il potenziale bellico
del nemico al fine di annullarne la capacità di risposta, o anche quando si voglia costringerlo al
negoziato. Per questo motivo, anche l’approccio interforze, che tendenzialmente è quello preferibile,
può avere dei limiti, in quanto in determinati casi il potere aereo risulta essere il mezzo più idoneo e
addirittura risolutivo nello svolgimento di un conflitto.

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