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Il ‘900 come tempo dei totalitarismi

Una definizione di totalitarismo

Come ben noto, il Novecento è stato un periodo di profonde contraddizioni e mutamenti, esso ha segnato in
maniera più che mai evidente il passaggio dall’età moderna a quella propriamente contemporanea lasciando,
in un lasso di tempo relativamente breve, una macchia indelebile sulla storia: l’ascesa dei totalitarismi.
È per questo che in riferimento a tale periodo storico si può anche parlare di una «età dei totalitarismi».

Prima di poter descrivere le coordinate storiche e socio-politiche di questo fenomeno, è però innanzitutto
necessario, seppure con difficoltà, cercare di fornirne una definizione formale.

Il «totalitarismo», o meglio più propriamente considerabile «Stato totalitario», si configura come una
forma di governo statale che tenta di apporre alla società una “volontà politica unificata” eliminando
qualsiasi confine proprio fra Stato e società.
Per quanto diverso in denominazioni e natura in base alle zone in cui si è diffuso, esso presenta alcune
caratteristiche che lo contraddistinguono:

- concentrazione del potere nelle mani di un piccolo ed inamovibile gruppo oligarchico, riunito in un
unico partito che assume il controllo completo delle istituzioni

- imposizione forzata di un’ideologia ufficiale, che impedisce dunque la libertà di pensiero ed espressione

- controllo diretto delle forze operanti nello Stato (polizia, esercito, servizi segreti…) e uso di queste
ultime per imporre il terrore verso qualsiasi forma di opposizione o dissenso

- controllo completo di informazione e cultura, allo scopo di imporre mediante la propaganda un “pensiero
unico” ed impedire il sorgere di qualsiasi forma di dissenso

Nel complesso il totalitarismo si distingue dall’autoritarismo, con cui comunque spesso si è presentato in
forma complementare, in quanto quest’ultimo ammette un limitato pluralismo socio-culturale.

L’ascesa dei totalitarismi nel Novecento

Fra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso in molti paesi europei si instaurarono numerosi regimi totalitari.

La difficile situazione del primo dopoguerra aveva messo in evidenza l’incapacità del classico Stato
liberale di dare una risposta al senso di precarietà all’epoca diffuso fra le masse, colpite quasi ovunque
nel vecchio continente da una pesante crisi economica, e alle nuove problematiche sociali subentrate.

Fu così che l’uso della violenza volta a sedare gli scioperi e mantenere l’ordine, nonché la soppressione delle
libertà, il protezionismo e l’accentrato dirigismo statale, conobbero una capillare diffusione e sembrarono
rivelarsi la carta vincente alla soluzione di tutti i problemi.

In particolare, i tre totalitarismi “più grandi” (non per virtuosismo ovviamente, ma per pura portata
storica) del Novecento, che costituirono poi il modello per quelli sorti negli altri Stati, furono: il regime
stalinista in Unione Sovietica, il regime fascista in Italia e quello nazista in Germania.

[Nella trattazione ci concentreremo soltanto sul fascismo.]


Il primo dopoguerra e la nascita del fascismo

Il regime fascista è quello a cui noi, come italiani, siamo storicamente più strettamente correlati, ed è
conoscendone le origini, l’evoluzione e le conseguenze che possiamo riconoscere errori da non commettere
più ed aspirare a costruire qualcosa di migliore.

Nel primo dopoguerra italiano, un periodo caratterizzato da grave crisi economica e profondo malessere
sociale le forze liberali che fino ad allora avevano dominato la scena politica avrebbero potuto rappresentare
un elemento di stabilizzazione all’interno della società: le stesse tuttavia non soltanto si dimostrarono
incapaci di mediare il fermento delle forze sociali per trovare una soluzione ai problemi del paese, ma
anche di assumere un impostazione più moderna che le trovasse preparate ad affrontare la situazione.

All’indomani della guerra ciò favorì dunque l’ascesa di nuovi «partiti di massa» che meglio sapevano
rispondere alle esigenze della popolazione: il Partito Popolare Italiano (fondato da Don Luigi Sturzo e di
ispirazione cattolica), il Partito socialista ed, in particolare, il movimento fascista.

Benito Mussolini seppe abilmente approfittare della confusa situazione politica italiana.
Dopo essere stato espulso dal Partito socialista e dalla direzione dell’Avanti! per le sue posizioni
interventiste, egli aveva dapprima fondato il quotidiano Il Popolo d’Italia e successivamente aveva dato vita
nel marzo del 1919 ai Fasci di combattimento, movimento la cui riunione fondativa si tenne a Milano in un
palazzo di piazza San Sepolcro.

Il programma iniziale del fascismo, chiamato proprio “Programma di San Sepolcro”, si contraddistingueva
sulla scena politica di italiana per il suo carattere squisitamente duttile e trasversale, che inglobava
istanze provenienti sia dall’estrema destra che dagli ambienti di sinistra, consentendogli comunque di
superare questi tradizionali schieramenti: ad un acceso nazionalismo infatti, il fascismo avvicendava
l’instaurazione di una repubblica con autonomie regionali, l’estensione del suffragio universale alle
donne, l’abolizione del Senato di nomina regia e della coscrizione obbligatoria, nonché la riduzione della
giornata lavorativa.

In ogni caso tratti principali che in breve tempo il movimento fascista assunse rimanevano il nazionalismo,
l’antiparlamentarismo, l’antiplutocrazia e soprattutto l’esaltazione dell’azione violenta ed individuale

A partire dalla sua nascita nel 1919, nel giro di pochi anni, il fascismo raccolse infatti sempre più consensi
e Mussolini abbandonò rapidamente i suoi progetti repubblicani trasformando il suo movimento in
senso conservatore ed apertamente anti-socialista, ricorrendo anche all’uso della violenza attraverso le
cosiddette «squadracce» (gruppi paramilitari, riconoscibili dalla camicia nera, che perpetravano sopprusi
verso scioperanti ed oppositori), la cui azione venne tuttavia tollerata dal governo e dalle istituzioni locali.

L’ufficiale consacrazione politica del fascismo avvenne invece con le elezioni del maggio 1921 quando, per
arginare l’ascesa di socialisti e cattolici, alleandosi con i liberali nel “blocco nazionale” i fascisti
riuscirono ad ottenere una considerevole rappresentanza parlamentare.
Entrato nelle sedi istituzionali ed ottenuta una “patente di rispettabilità” Mussolini formalizzò dunque le
strutture interne al suo movimento, riprendendone saldamente in mano le redini e trasformando
ufficialmente i Fasci di combattimento in Partito Nazionale Fascista (PNF).

A questo punto il fondatore del fascismo perseguì una politica dal duplice volto, continuando a sostenere la
violenza squadrista ed allo stesso tempo approfittando dei mezzi legali offertigli dalle istituzioni.
L’ascesa del fascismo e la fine dell’Italia liberale

Mentre nel paese la situazione continuava a deteriorasi, Mussolini vide dunque aprirsi la possibilità di una
conquista definitiva del potere, che si concretizzò nella cosiddetta «marcia su Roma».

Nella notte fra il 27 ed il 28 ottobre 1922 si consumò infatti un atto di forza che si trasformò in un vero e
proprio colpo di Stato: migliaia di camicie nere affluirono verso la capitale guidate da alcuni degli
esponenti più in vista del PNF e, di fronte al rifiuto di firmare la dichiarazione dello stato d’assedio di
Vittorio Emanuele II, l’allora Presidente del Consiglio Luigi Facta dichiarò le dimissioni aprendo la crisi di
governo.
Giunto anch’egli a Roma, il 30 ottobre Mussolini venne ricevuto dal sovrano ed ottenne l’incarico di
formare una nuova compagine governativa, segnando la fine dell’Italia liberale.

Il primo governo Mussolini, la cui formazione sembrava aver scongiurato lo scoppio di una guerra civile, si
presentava ancora apparentemente all’interno dei binari democratici ed istituzionali: esso era un governo di
colazione con liberali e popolari, che aveva lasciato inalterate le libertà di stampa ed associazione
garantendo il rispetto dello Statuto albertino.
In realtà il capo del movimento fascista continuava ad appoggiare le azioni illegali degli squadristi, e
cominciò a lavorare per svuotare di ogni prerogativa il Parlamento e le istituzioni statali ed accrescere la
propria influenza, istituendo il «Gran consiglio del fascismo» e fondando la «Milizia volontaria per la
sicurezza nazionale».

Tuttavia il vero colpo di grazia alle istituzioni democratiche venne inferto in occasione delle elezioni del
1924, con l’approvazione di una nuova legge elettorale (la cosiddetta legge Acerbo): questa reintroduceva il
sistema maggioritario e prevedeva un forte premio di maggioranza per il primo partito del paese.
I risultati delle tornate elettorali, svolte in un clima di violenza ed esplicita intimidazione, si conclusero con
una schiacciante vittoria dei candidati fascisti (riuniti nel cosiddetto «Listone nazionale») e Mussolini
ebbe l’opportunità di formare un governo composto solo da suoi fedelissimi.

A questo punto l’opposizione (composta da socialisti, comunisti, liberali e repubblicani) riconobbe i brogli
fascisti e richiese l’annullamento delle elezioni: voce più vigorosa di denuncia dei soprusi si fece in
particolare il deputato socialista Giacomo Matteotti, il quale pronunciò peraltro in Parlamento un durissimo
discorso contro gli esponenti fascisti.
In tutta risposta egli venne brutalmente rapito ed assassinato il 10 giugno del 1924.

Di fronte allo scalpore provocato dalla scomparsa di Matteotti, le forze contrarie al fascismo decisero di non
collaborare più ai lavori parlamentari dando inizio alla protesta della «secessione dell’Aventino», tuttavia
percepita la debolezza dell’opposizione Mussolini ritenne fosse giunto il giusto momento per una svolta
politica decisiva.

Il 3 gennaio 1925, in un celeberrimo quanto infame discorso alla Camera, Mussolini rivendicò a sé ogni
responsabilità dell’assassinio di Matteotti e dichiarò esplicitamente le aspirazioni del fascismo: era
dunque l’inizio del processo di smantellamento dello Stato liberale e di costruzione del regime autoritario e
totalitario.

Costruzione e caratteristiche dello Stato fascista

Il definitivo passaggio dal sistema democratico a un regime autoritario in Italia si ebbe con la promulgazione,
fra il 1925 ed il 1926, delle cosiddette “leggi fascistissime”, ispirate dal giurista Alfredo Rocco e finalizzate
al rafforzamento del governo fascista e all’abolizione della separazione dei poteri.
Le novità liberticide ed autoritarie introdotte da queste leggi erano numerose:

- la carica di Presidente del Consiglio venne trasformata in quella di «Segretario di Stato», che era
responsabile del proprio operato solamente di fronte al sovrano e non al Parlamento

- il potere del governo venne aumentato su scala nazionale, riconoscendogli ampie facoltà di emanare
legge, e locale, conferendo maggiori prerogative ai prefetti e sostituendo la figura elettiva del sindaco e del
consiglio comunale con la nomina diretta dell’autorità del podestà

- venne sancito lo scioglimento di tutti i partiti e movimenti di opposizione al fascismo e stabilito


l’obbligo per tutti i dipendenti pubblici di iscriversi al Partito Nazionale Fascista

- furono istituiti il confino come sanzione principale nei confronti di coloro ostili al regime, il Tribunale
speciale per la difesa dello Stato contro gli oppositori e ripristinata la pena di morte

- venne definitivamente soppressa ogni libertà di stampa ed opinione

Le decisioni prese vennero infine consolidate da una riforma elettorale varata nel maggio 1928: in base ad
essa l’elettore era chiamato unicamente ad approvare o rigettare per la Camera dei deputati una lista unica
nazionale di 400 candidati designati dal Gran consiglio del fascismo.

Il regime totalitario: propaganda e controllo


La costruzione della forma totalitaria del nuovo Stato fascista cominciò a partire dalla volontà di accrescere
e consolidare il consenso nei confronti del regime.

Mussolini diede infatti origine ad un vero e proprio culto della propria immagine, facendosi appellare
“duce” (ovvero condottiero, della nazione si intende) e richiamando costantemente ad un fantomatico legame
fra il fascismo e la Roma antica, e fece ampio ricorso ad una martellante propaganda.

Proprio in quest’ultimo ambito il regime dimostrò grande abilità e spregiudicatezza.


La stampa fu il canale propagandistico a cui il regime fascista prestò più attenzione: venne perseguita
una scrupolosa opera di “fascistizzazione” dei giornali tesa ad instaurare un controllo politico degli stessi ed
addirittura, attraverso il sistema delle «veline», veniva comunicato direttamente alle testate quali notizie
dovevano essere pubblicate ed in che modo sarebbero dovute essere state commentate.
Anche la radio, mezzo di comunicazione relativamente recente e peraltro considerato frutto del “genio
italico” di Guglielmo Marconi, venne sottoposta ad un rigido controllo dello Stato (attraverso l’istituzione
dell’Eiar) che intraprese un’opera di trasmissione e diffusione capillare.
Persino il cinema, infine, fu un altro grande protagonista della propaganda fascista: con la fondazione
dell’Istituto Luce venne incentivata la produzione di documentari e soprattutto di cinegiornali, che con toni
enfatici esaltavano le grandi imprese del duce.

Come già anticipato, tratto distintivo dei regimi totalitari consta nell’imposizione dell’ideologia unica: il
fascismo individuò in tale ambito come obiettivo il controllo delle giovani generazioni attraverso
l’istruzione e l’inquadramento di tutte le componenti della società in organizzazioni di partito.

Nel campo dell’istruzione nel 1923 venne attuata la cosiddetta riforma Gentile, che prevedeva una
ristrutturazione gerarchica e militarista delle istituzioni scolastiche, sei anni dopo venne istituita l’Opera
nazionale Balilla, preposta all’istruzione parascolastica (militare per i ragazzi e puericulturale per le
ragazze) e nel 1931 fu costituito il Gruppo universitario fascista.

Anche uomini e donne già inseriti nella società adulta, come anticipato, vennero inquadrati in
associazioni che ne pianificassero capillarmente il tempo libero, come l’Opera nazionale dopolavoro.

Il fascismo infine non mancò neppure di consolidare il proprio potere attraverso strumenti di controllo che
reprimessero ogni forma di dissenso o comportamento considerato deviante.
Fra il 1927 ed il 1930 venne istituito il più famigerato strumento di repressione fascista, l’Ovra: una polizia
politica segreta abilissima nello scovare e rimuovere ogni recrudescenza antifascista.

Anche sul fronte religioso, essendo la quasi totalità della popolazione italiana all’epoca cattolica, Mussolini
cercò inoltre di accattivarsi favori e simpatie.
Egli riuscì nel suo obiettivo attraverso la sottoscrizione dei Patti lateranensi: un accordo sottoscritto nel
febbraio del 1929 fra il Duce ed il segretario di Stato della Chiesa Gasparri che poneva fine al dissidio tra
Chiesa e Stato italiano, e che era suddiviso in:

- un trattato, sulla base del quale veniva imposto il cattolicesimo come unica religione di Stato e veniva
riconosciuta la sovranità del pontefice sul nuovo Stato di Città del Vaticano

- una convenzione finanziaria, in base alla quale lo Stato italiano si impegnava a pagare alla Chiesa una
forte somma di denaro come riparazione per i danni subiti

- un concordato, in base al quale lo Stato garantiva alla Chiesa libertà di esercizio del potere spirituale,
esonerava i sacerdoti dal servizio militare, introduceva l’insegnamento religioso nelle scuole e riconosceva
gli effetti civili del matrimonio

L’oscuro lato delle leggi razziali


L’avventura coloniale italiana voluta dal regime fascista in Etiopia, durante la quale vennero adottate
tattiche belliche che violavano qualsiasi convenzione internazionale, e l’avvicinamento dell’Italia alla
Germania nazista di Hitler sancito dalla sottoscrizione dell’Asse Roma-Berlino (1936), sollecitarono invece
per Mussolini la necessità di stabilire una specifica legislazione razziale.

Alcune leggi del 1937 avevano scoraggiato le relazioni fra africani che vivevano nei possedimenti coloniali e
“puri italiani”, tuttavia la testimonianza più nota del razzismo italiano risiede nella pubblicazione l’anno
successivo (15 luglio 1938) del Manifesto di difesa della razza.
Questo documento, firmato da 180 scienziati aderenti al regime, dichiarava esplicitamente l’adesione del
regime fascista alle teorie razziste e fu a partire da ciò che venne emanata una lunga serie di decreti legge,
noti nel complesso come “leggi per la difesa della razza”.

Queste ultime avevano come obiettivo la discriminazione e la persecuzione degli ebrei, contemplandone:
l’esclusione dalla scuola pubblica, il divieto di matrimonio con italiani, il divieto di possedere aziende ed
attività commerciali, il divieto di prestare servizio nelle forze armate o nella pubblica amministrazione, il
divieto di esercitare lavori o professioni in qualsiasi campo se non con altri ebrei.
Ben presto queste “limitazioni”, come definite dallo stesso regime, si trasformarono in un’opera di
deportazione ed eliminazione della comunità ebraica.

Come si può comprendere, assieme alla sua natura liberticida, l’antisemitismo rappresenta una delle
pagine più oscure del Ventennio fascista e della storia italiana, e sullo stesso il dibattito fra gli storici
rimane però ancora aperto.
In merito al rapporto fra le legislazioni razziali promulgate rispettivamente dal fascismo e dal nazismo, è
indubbio secondo gli studiosi che l’adozione di una politica discriminatoria da parte di Mussolini abbia
rappresentato una scelta assolutamente autonoma e svincolata dall’influenza tedesca, tuttavia non ne
sono chiare le precise motivazioni.

Fino al 1936 infatti l’eventualità di un “problema ebraico” in Italia sembrava assai remota, come
testimoniato addirittura dal fatto che il regime avesse garantito anni prima alle comunità israelitiche la libertà
di culto. La svolta in tal senso sembrerebbe dunque essere derivata da circostanze tutte interne al paese
(come la contrarietà di personalità ebraiche alla politica economica e coloniale del fascismo), ma consolidata
dalla decisiva personale convinzione del duce che per “rendere granitica” l’alleanza italo-tedesca fosse
necessario quanto più che mai allineare le politiche dei due regimi.

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