03 del 20/10/2021
Sbobinatori: Manuel Martella, Simona Tassinari
Revisionatore: Alessandro Ravaglia
Docente: Prof. Marco Menchetti
Psicopatologia dell’affettività
Possiedono un fattore di innesco, un qualcosa in grado di provocarle [Giovanni vince 5000$ al gratta e vinci
ed è felice], con cui condividono una forte interazione [nds causale e temporale];
Decorso temporale (che può essere di breve durata, legato all’interazione con il fattore di innesco);
Risposta neurovegetativa, è immediata e tende poi a ridursi in intensità con il passare del tempo. [La
risposta di paura può essere legata a un senso di batticuore o di testa pesante o più leggera]
Talvolta, in base all’occorrenza di fattori di innesco nuovi e diversi che possono modificare l’emozione
prevalente, il soggetto può cambiare rapidamente il proprio stato emotivo (Il professore chiarisce il concetto
tramite un esempio: se bocciati ad un esame tornando a casa compriamo un gratta e vinci e vinciamo 5mila
euro, il nostro umore avrà un repentino cambiamento da frustrazione/rabbia a felicità).
2. Sentimenti
I sentimenti sono una via di mezzo tra umore ed emozione, sono dei vissuti emotivi persistenti relativamente
influenzati da fattori di innesco.
3. Umore
L’umore è l’estremo opposto rispetto al sentimento, si tratta di un fondo stabile, uno stato d’animo persistente,
che cambia nel raggio di settimane (varia con lentezza). Esso influenza il nostro comportamento e non è molto
modificabile da fattori di innesco. Le persone cosiddette “lunatiche” rappresentano un’eccezione, perché di
giorno in giorno cambiano leggermente il loro stato d’animo, quando di solito l’umore cambia nel corso di più
tempo.
La depressione è una patologia dell’umore, che non va quindi confusa con l’emozione di tristezza come
qualche volta si tende a fare (la tristezza può durare anche più di qualche ora in presenza di problemi gravi
nella vita del soggetto, ma non necessariamente sarà depressione).
L’umore è descritto secondo due polarità: al centro è rappresentata l’eutimia (indica uno stato di umore nella
norma), livello dal quale l’umore può:
- Ridursi, e di conseguenza passare ad una stato di umore definito
o Depressione
o L’estremo di uno stato depressivo è chiamato stupore melanconico, che può peggiorare fino
al rallentamento estremo (blocco ideomotorio)
- Elevarsi:
o Mania
o L’estremo di uno stato maniacale è chiamato furore maniacale: il soggetto non riesce a stare
fermo (“come un treno in corsa”), ha comportamenti estremamente agitati.
Depressione
La depressione è la patologia psichiatrica probabilmente più frequente, in cui all’interno del quadro clinico
vengono descritti una serie di segni e sintomi di diversa natura:
- Psicologici (riguardanti gli aspetti dell’umore)
- Cognitivi
- Neuro-vegetativi
- Comportamentali (il paziente appare sedentario, passivo, rinunciatario).
• Disturbo depressivo persistente (distimia): stato di depressione leggera (con sintomi lievi) ma cronica,
che nel tempo risulta invalidante. Per la diagnosi è infatti necessaria la prolungata presenza del disturbo,
che va dai 6 mesi ai 2 anni. La distimia è legata soprattutto ai segni neuro-vegetativi e comportamentali
della depressione, è più polarizzata in questa direzione rispetto alle altre. Questi pazienti lamentano una
maggiore passività, stanchezza, rallentamento e bassa vitalità generale;
• Disturbo disforico premestruale, entità ben conosciuta legata alla fase post-ovulatoria del ciclo ovarico-
uterino, dall’ovulazione all’inizio della mestruazione. In questa fase le pazienti sviluppano un’alterazione
dell’umore ricorrente ogni mese (e per questo invalidante) di depressione associata a irritabilità e tensione
che non si riesce a indirizzare;
Il professore legge il caso clinico (che descrive i comportamenti tipici di un pz depresso) e pone inizialmente
l’attenzione sulla difficoltà ad alzarsi al mattino: aspetto tipico depressivo, chiamato “insonnia terminale”, in
cui il paziente appena sveglio vorrebbe continuare a dormire, perchè non sente di avere le forze per affrontare
la nuova giornata. Al contrario nei disturbi d’ansia si ha l’ “insonnia iniziale”, in cui il paziente ha difficoltà
ad addormentarsi la sera.
L’inappetenza è un altro sintomo riferibile alla depressione, come anche: anedonia, agitazione, anergia e sensi
di colpa. I pazienti depressi finiscono per sentirsi in colpa in quanto non trovano una causa di malattia tangibile
(nds la depressione non ha segni che si misurano con il termometro) che giustifichi i loro comportamenti rinunciatari:
mancanza di vita sociale o incapacità di sostenere un impegno lavorativo o di badare ai figli.
Il CSM restituisce quindi una diagnosi di episodio depressivo maggiore di grado moderato (qualche sintomo
in più rispetto alla minima soglia), per il quale è suggerito un trattamento farmacologico antidepressivo
(Citalopram). Un’anticipazione importante riguardo la discussione sulla terapia depressiva: gli antidepressivi
impiegano circa 1 mese per iniziare a funzionare. Durante questo periodo si può ragionare sull’utilizza di
altre classi di farmaci per lenire i sintomi principali: alleviare il disturbo del sonno con un ipnotico (dosaggio
basso, mezza compressa per due/tre settimane) o un ansiolitico qualora vi sia una componente ansiosa.
Dopo i primi effetti degli antidepressivi, va abbassata immediatamente la dose degli altri farmaci somministrati
(ipnotici, ansiolitici…) e programmare una serie di colloqui psicologici.
Dopo circa 1 mese, quando inizia a stare meglio, inizia un ciclo di colloqui psicologici, in cui vengono discussi
gli eventi che hanno preceduto la depressione e anche il contesto interpersonale.
Una volta si parlava di depressione endogena (il paziente ha una predisposizione genetica alla depressione,
anche in seguito ad eventi non troppo drammatici) o reattiva (in seguito a gravi eventi). Oggi invece si utilizza
un modello bio-psico-sociale, in cui tutti questi fattori (biologici, psicologici e sociali) concorrono nel
determinare la malattia, e la società partecipa a modulare l’espressione del disturbo psicopatologico.
All’interno di questo concetto quindi ci saranno persone con una biologia più sfavorevole, predisposte a
sviluppare il disturbo anche per eventi poco traumatici, rispetto ad altri, che non hanno lo stesso corredo
genetico, ma nei quali non si può escludere la possibilità che si manifestino episodi depressivi solo perché non
possiedono quella determinata serie di geni sfavorevoli.
A questo punto il prof interroga gli studenti su quale possa essere la/le ragione/i all’origine del disturbo
dell’umore.
Marito: relazione soddisfacente anche nell’ultimo anno c’è stato qualche screzio a causa del lavoro,
lavorano infatti nello stesso posto.
Figli: sono la principale causa del senso di colpa perché ha l’impressione di non prendersene cura
come dovrebbe e come loro vorrebbero.
Madre: rapporto complesso dovuto al carattere autoritario della madre, che la paziente avverte essere
molto giudicante, tanto da non essere riuscita a dire di aver intrapreso un percorso di cura al centro
di salute mentale. La situazione è aggravata dal ruolo cruciale della madre nel momento di difficoltà
in quanto è lei ad occuparsi dei bimbi.
Padre: rapporto confidenziale e migliore del rapporto materno, lavorava nello stesso posto della
figlia, hanno una relazione positiva.
Colleghi: rapporto conflittuale perché la paziente riferisce che sembrano non comprendere i suoi
problemi e non volerla aiutare.
La ricerca anamnestica porta poi alla luce un evento che è stato il punto di innesco della fase depressiva, non
la causa, ma la goccia che fa traboccare il vaso: la paziente già sotto stress per la cura dei figli e il rientro al
lavoro, tornata alle solite mansioni viene trasferita dopo pochi giorni in un nuovo reparto. Durante la sua
assenza, infatti, era stata introdotta una nuova regola per cui due persone imparentate non possono lavorare
nello stesso reparto; lei e il marito avevano sempre lavorato nello stesso reparto, perciò il marito che non
aveva mai interrotto l’attività lavorativa viene confermato, mentre lei viene spostata in un nuovo reparto e si
ritrova con mansioni diverse e nuovi colleghi.
È sicuramente utile ricercare gli eventi di vita che hanno causato l’aumento di stress e affaticamento che è
poi sfociato nell’episodio depressivo, nel caso di Federica si riassumono:
In un momento di affaticamento e stress la paziente si ritrova quindi sottoposta ad ulteriore stress causato dalla
necessità di adattarsi e di mettersi in relazione con un nuovo ambiente, l’esito è per lei molto sfavorevole.
Il caso clinico è un perfetto esempio di come i fattori sociali possano modulare l’espressione dei sintomi
psicopatologici.
Si può presumere, senza certezza però, che se lei fosse tornata a lavorare nel solito ambiente, a lei già familiare,
magari non avrebbe subito l’aumento di stress che ha poi innescato l’episodio depressivo. Politiche di
protezione sul lavoro, di protezione per le donne con figli non sono quindi secondarie nell’ambito della
salvaguardia della salute mentale.
- Caratteristiche cliniche: incidono in parte sulla scelta del trattamento. Esistono varie forme di
depressione:
o forme ansiose: irrequietezza, tensione, difficoltà a concentrarsi
o forme atipiche (manifestazioni atipiche): casi in cui si ha aumento di peso e aumento del sonno
o forme psicotiche: con deliri e allucinazioni
o forme catatoniche: arresto psicomotorio, mutacismo, negativismo, ecolalia, ecoprassia.
o forme melanconiche: anedonia, rallentamento o agitazione, andamento circadiano
o forme miste: segni di maniacalità.
[vengono citate tra queste le forme ansiogene, atipiche e psicotiche, il resto è riportato dalle slide]
- Non intraprendere un percorso psicologico con lo scopo di entrare nelle tematiche depressive
per analizzare gli eventi che hanno causato e che alimentano la depressione: spesso la visione del
paziente rispetto al proprio problema è distorta e può portarlo a riferire cose non vere a causa del
pessimismo e della depressione dell’umore che lo caratterizzano, magari identificando come causa
primaria eventi che in realtà sono marginali. In fase acuta, quindi, può essere sì utile chiedere qualche
informazione per orientarsi e inquadrare l’ambiente del paziente, ma entrare troppo nel dettaglio non
è utile al miglioramento. L’analisi delle cause nel dettaglio sarà invece utile nella fase successiva, dopo
qualche mese, quando il paziente si sentirà meglio e lo sguardo sarà più lucido.
- Spiegare che esistono trattamenti efficaci. Il paziente è spesso scoraggiato quando arriva in
ambulatorio, non crede in genere vi siano possibilità di miglioramento: bisogna smentirlo ed infondere
una ragionevole speranza. Quando si prescrive un antidepressivo, infatti, si ha la certezza statistica che
4 pazienti su 10 dopo un mese e mezzo staranno meglio, mentre dopo tre mesi la percentuale sale al
55-60%. Si può quindi ragionevolmente dire al paziente che è più probabile che i farmaci abbiano
effetto rispetto all’inefficacia degli stessi. Il problema della convinzione che gli antidepressivi non
siano farmaci efficaci è infatti diffuso non solo nella popolazione laica ma anche nella stessa classe
medica: è una convinzione errata che va smentita. Il trattamento antidepressivo efficace comprende
anche la terapia psicologica, quando svolta nei tempi corretti (ha dati di efficacia sovrapponibili alla
terapia medica). Tirando le somme si hanno varie armi efficaci contro la depressione, che motivano la
ragionevole speranza e la probabilità favorevole di miglioramento del paziente con il trattamento.
- Discutere con franchezza le idee suicidarie del paziente. Bisogna chiedere francamente al paziente,
ad esempio, se ha mai pensato di farsi del male, in che modo, è importante chiedere se ha mai pensato
di uccidersi. Una paura comune tra gli operatori sanitari, chiedendo e parlando di suicidio, è quella di
incoraggiare, stimolare o addirittura inculcare l’idea stessa del suicidio, ma, di fatto, è una paura
infondata. Tutti i pazienti depressi, come visto, hanno idee suicidarie, e circa un 50% ha pensato anche
alla progettualità dell’atto. Parlandone non si va sicuramente ad incoraggiare il suicidio, né tanto meno
si fornisce l’idea, perchè il paziente nel 95% dei casi già l’ha maturata. È più probabile invece che
tragga sollievo dal parlarne francamente.
Tipicamente il paziente depresso se manifesta le idee suicidarie in famiglia ha reazioni che vanno dalla
negazione al rifiuto o non accettazione, dal tentativo di evitare l’argomento alla disperazione e al pianto
dei familiari. Impara quindi dalle reazioni ricevute che è meglio non parlarne, pur continuando a
coltivare l’idea nella sua mente. Riuscire a parlarne con il medico, quindi, spesso è motivo di sollievo
per il paziente, che normalizza il pensiero.
Il parlarne rafforza inoltre l’alleanza terapeutica medico-paziente, perché il paziente si sente di poter
affrontare anche questi aspetti, scaricando parzialmente il peso che teneva nascosto e al tempo stesso
sentendosi compreso nella gravità della sua sintomatologia: capisce che il medico sa quanto sta male
e fino a dove potrebbe spingersi.
Si parlerà meglio la prossima lezione del modo migliore di affrontare l’argomento, però in generale si
procede con domande graduali (ha mai sofferto per molti giorni in maniera insopportabile? Ha mai
pensato che non valesse la pena di vivere? Ha mai pensato che vorrebbe morire? Ha mai pensato di
fare qualcosa per smettere di vivere?).
- Incontrare i familiari per informarli: il paziente depresso arriva all’osservazione anche dopo mesi
di depressione e i familiari sono spesso esausti e provati dalla situazione, tanto da diventare in alcuni
casi addirittura ostacoli per la guarigione. Bisogna informarli dell’esistenza di questa patologia che da
soli potrebbero non comprendere o non riconoscere come tale (scambiano la malattia per semplice
pigrizia).
Cosa non dire/fare
- Evitare di formulare una diagnosi precisa (quindi bisogna chiamare la malattia col suo nome).
Molte persone preferiscono non pronunciare la parola depressione, sostituendola con parole come
ansia o esaurimento, ma, in questo modo, l’impressione che si dà al paziente è di non comprendere la
sua sintomatologia, di essere vaghi, così che il paziente si senta non capito. [quindi in positivo: formulare
una diagnosi precisa]
- Stimolare il paziente a reagire e fare. [quindi in positivo: non stimolarlo a reagire]
- Minimizzare le problematiche. [quindi in positivo: non minimizzare]
- Focalizzarsi solo sui sintomi fisici come problema principale, prescrivendo indagini sempre più
sofisticate per cercarne la causa che invece può essere riconducibile alla sola depressione. [quindi in
positivo: non focalizzarsi sui soli sintomi fisici]
- Fare discorsi evasivi riguardo al trattamento. I farmaci antidepressivi sono efficaci ed è sbagliato
pensare il contrario. [quindi in positivo: non essere evasivi]
- Evitare di discutere le idee suicidarie [quindi in positivo: discutere francamente le idee suicidarie]
- Allearsi con i familiari colpevolizzanti o che tentano di stimolare il paziente a reagire. [quindi in
positivo: non allearsi con familiari colpevolizzanti]
Cosa dire/fare e cosa non dire/fare in fase di miglioramento
Trascorso qualche mese dalla fase acuta in corso di trattamento antidepressivo il paziente auspicabilmente sta
meglio e l’approccio deve di conseguenza cambiare. In questa fase successiva è opportuno:
- Incoraggiare con moderazione il paziente a riprendere alcune attività, inizialmente più solitarie,
come una passeggiata vicino a casa da soli, poi in compagnia (magari insieme a qualche caro amico).
- Ricostruire la storia dell’episodio depressivo, analizzando eventi causanti e alimentanti, ricercando
di pari passo le cause di vulnerabilità.
- Spiegare che la depressione è spesso un disturbo ricorrente [75%]
- Addestrare la persona a riconoscere i segnali premonitori: la prima cosa che solitamente si altera in
un episodio depressivo è il sonno, per cui, se il paziente dorme peggio, si sveglia presto, si alza con
fatica e con un po’ di ansia, deve scattare il sospetto di essere davanti ad un nuovo episodio depressivo.
- Spiegare che occorre continuare il trattamento nonostante i miglioramenti: si ha una iniziale risposta
ad un mese e una risposta completa a tre mesi, dopo i quali però è importante continuare la terapia.
Secondo alcune linee guida bisogna proseguire altri 4 mesi per un totale di 7-8 mesi di terapia, mentre
secondo altre linee guida va eseguita per almeno 9 mesi.
Molti pazienti dopo qualche mese stanno meglio, però non essendo seguiti in maniera continuativa dopo il
miglioramento decidono autonomamente di sospendere il farmaco guidati dal buonsenso: è molto pericoloso
perché si espongono ad un rischio di ricaduta abbastanza rapida, rischio che è invece azzerato dalla
continuazione della terapia.
Anche con la terapia continuativa per 7-9 mesi dopo qualche anno possono esserci nuovi episodi, quando se
ne accumulano almeno 3, in particolare se gravi e se associati ad un rischio suicidario significativo, le linee
guida consigliano una terapia continuativa quod vitam.
- Nella fase di miglioramento bisogna monitorare attentamente le idee suicidarie: passata la fase
peggiore tendenzialmente i familiari e i medici si rilassano, si tratta però di una fase pericolosissima
per il suicidio. Paradossalmente, infatti, nella fase acuta l’anergia del paziente è così forte da impedirgli
di mettere in atto gli intenti suicidari, mentre nella fase di miglioramento il paziente è più attivo,
nonostante il miglioramento non sia consolidato. In questa fase paradossalmente il parziale recupero
delle forze può supportare il ripresentarsi di idee suicidarie, traducendosi in atto pratico. Particolari
eventi negativi o grosse delusioni che riportano a galla i peggiori pensieri della fase acuta, possono
infatti slatentizzare queste idee, che non essendo più contrastate dall’anergia della fase precedente
risultano maggiormente associate alla realizzazione pratica del suicidio (o ad un suo tentativo).
Il professore riporta un caso clinico personale di un paziente alcolista gravemente depresso, che più volte era
stato a rischio di suicidarsi. Il tentativo di suicidio invece era accaduto in fase di miglioramento: il dottore lo
aveva visto la mattina, il paziente stava molto meglio, era andato alla visita sbarbato, pulito, vestito bene e
sia il dottore che i familiari avevano pensato di essere usciti dalla fase acuta. Il pomeriggio però aveva una
visita per il rinnovo della patente che gli è andata male e in quanto alcolista gli è stato negato il rinnovo.
L’episodio è stato per lui una grossa delusione e nel pomeriggio si è buttato dalla finestra del suo
appartamento al quarto piano. Il paziente è sopravvissuto ma con gravi menomazioni.
Questo caso sottolinea quindi come la fase di miglioramento sia un momento molto delicato in cui è
fondamentale continuare a monitorare il paziente.
- È importante sostenere ed istruire i familiari sulla delicatezza di questa fase, favorendo il loro ruolo
nella ripresa della abitudini di vita.
DOMANDA
Quando si è parlato del periodo di depressione acuta in cui non è indicata la psicoterapia, è un periodo in cui
le persone sono ricoverate o proseguono la vita normale?
“È un periodo di ricovero nei casi particolarmente gravi, ma di solito è un soggetto che sta seguendo una
terapia farmacologica (che però richiede tempo). Potrebbe essere seguito tramite dei colloqui, che non sono
però colloqui psicoterapeutici”