1 del 06/10/2021
Sbobinatori: Laura Lambertini, Francesca Lazzarini
Revisionatrice: Chiara Leopizzi
Docente: Prof. Marco Menchetti
Argomenti: introduzione al corso ed elementi di psichiatria delle cure primarie
Il professore non riesce a risolvere i problemi audio per fare lezione anche a chi segue da casa, per
cui afferma che cercherà di recuperare in seguito i concetti fondamentali. Su virtuale sono già
presenti il materiale della lezione di oggi e ulteriore materiale di approfondimento.
INTRODUZIONE AL CORSO
Contenuti e competenze:
Il professore presenta quello che sarà il programma del corso e le competenze da acquisire ai fini
dell’esame. Prima di tutto si dovrà essere in grado di riconoscere i principali disturbi mentali e di
impostare un adeguato progetto terapeutico. Si dovranno poi conoscere i fondamenti del colloquio
clinico, della psicopatologia e dei principali disturbi psichiatrici che si incontrano nella pratica della
medicina. A tal proposito, è importante sottolineare come lo psichiatra, in quanto specialista,
incontrerà pazienti che potranno avere schizofrenia, disturbi bipolari, disturbi della personalità o
alimentari, ma in realtà, anche chi nel corso della propria carriera non farà lo psichiatra, vedrà
comunque un elevatissimo numero di pazienti con disturbi di pertinenza psichiatrica come disturbi
dell’umore e disturbi d’ansia (molto comuni nella popolazione generale). Si pensi che su una media
di 30 pazienti che, ipoteticamente, un medico di medicina generale incontra nella giornata, una decina
di questi, circa il 30%, soffre di disturbi mentali.
Bisogna conoscere il rapporto tra le patologie internistiche e i disturbi mentali, la psicosomatica e la
psichiatria di consultazione e collegamento. Si dovrà essere in grado di effettuare una diagnosi di
disturbo mentale. È, inoltre, richiesta una conoscenza di base della psichiatria delle
farmacotossicodipendenze, della psicogeriatria, della psichiatria dell’adolescenza, del disturbo del
comportamento alimentare.
1) La prima parte consisterà in qualche elemento di psichiatria delle cure primarie. È infatti vero
che chi lavora nelle cure primarie, chi lavora nella medicina interna, in vari reparti e al pronto
soccorso, è esposto ad un grande numero di persone con disturbi mentali e dovrà quindi avere
una conoscenza di base sia per il riconoscimento del quadro, sia per un primo approccio al
paziente;
2) Nella seconda sezione, parleremo dei disturbi psichiatrici comuni. Per comuni, aggettivo
inteso nell’accezione inglese di common, si intendono dei disturbi ad alta prevalenza
(interessano circa un 30% della popolazione). Queste persone finiscono per accedere a tutti i
livelli del sistema sanitario. Sono definiti comuni: la depressione, l’ansia, gli attacchi di
panico, i disturbi somatoformi e i disturbi da uso di sostanze. Per quanto riguarda quest’ultimo
disturbo in particolare, è oggi molto elevato il numero di persone che fanno uso di sostanze
in maniera non positiva, sino ad avere problemi di funzionamento;
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3) Nella terza sezione parleremo dei disturbi mentali cronico persistenti. Questi sono quelli con
cui lavora prevalentemente lo psichiatra;
4) Il quarto capitolo del programma sarà invece sui disturbi della personalità, tema che ha
ricadute importanti su vare discipline mediche;
5) Faremo poi qualcosa di psicogeriatria, in considerazione del fatto che i casi di Alzheimer sono
in aumento;
il primo riguarda il colloquio clinico. Questo corso si ripromette di far sviluppare allo studente
maggiori abilità di comunicazione nel rapporto medico-paziente, con focus anche sul paziente
con disturbi mentali. È un corso rivolto soprattutto a chi non farà lo psichiatra e avrà quindi
magari meno tempo per acquisire queste basi;
Infine, segnala un corso di alta formazione, post laurea, per chi ha interesse per i disturbi di
personalità. Si tratta di 10-12 lezioni e qualche seminario distribuiti su un anno.
Manuale consigliato:
Per approfondimenti:
Sadock BJ, Sadock VA, Ruiz P. Kaplan & Sadock’s Sinossi di Psichiatria. Piccin, 2018. (Solo per
super appassionati della materia)
Smith RC, D’Mello D, Osborn GG, Freilich L, Dwamena FC, Laird-Flick H. Essentials of Psychiatry
in Primary Care: Behavioral Health in the Medical Setting. McGraw-Hill, 2019.
(da questo testo il professore prende alcune cose che dirà a lezione riguardo la psichiatria in un setting
di medicina generale. Scaricabile su Kindle, ma anch’esso non necessario ai fini dell’esame).
Il materiale della lezione verrà inoltre caricato su Virtuale subito prima dell’inizio di questa.
Modalità d’esame:
L’esame è una prova orale sui contenuti del programma. Di solito si compone di tre domande. Ci sarà
sempre una domanda di farmacologia, mentre le altre due potrebbero essere ad esempio una domanda
su un disturbo (es. parlami del disturbo post traumatico da stress, sintomi con cui si presenta, il
decorso, eziopatogenesi e trattamento). Poi ci potrebbe essere una domanda di psicopatologia (es.
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cos’è un delirio, cos’è un’allucinazione). Il voto finale risulterà dalla media aritmetica con il voto di
psicologia clinica, approssimato di solito in eccesso.
Il professore riceve il Venerdì mattina, previa mail di conferma. È inoltre disponibile a rispondere ad
eventuali dubbi e domande per mail.
Si parlerà poi di quelle situazioni definite come somatizzazioni, disturbi somatoformi o sintomi
inspiegabili. Queste condizioni vengono definite anche come disturbi funzionali, dove per funzionale
si intende una condizione sintomatologica nella quale non sono evidenziabili segni o alterazioni alle
indagini diagnostiche. Questi sintomi medici non trovano dunque spiegazione in una causa organica.
Vengono allora descritti come funzionali, di natura dunque psicologica;
Approccio al paziente;
Disturbi somatoformi.
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spettro di condizioni molto più ampio che va da casi con sintomatologia lieve, nei quali è addirittura
necessario interrogarsi se è opportuno intervenire o meno, fino invece a situazioni molto gravi.
Inoltre, seppur molte di queste situazioni sembrino lievi e non impattanti, si corrono comunque due
rischi: da un lato, che la condizione peggiori, arrivando ad una gravità maggiore; dall’altro, il rischio
è quello della cronicizzazione dei sintomi ansioso-depressivi. Magari il paziente si mostrerà ancora
in grado di lavorare e portare avanti la propria vita, tuttavia, inizierà ad avere una serie di
problematiche che lo porteranno ad adottare stili di vita insalubri e a fare scelte non appropriate. Ad
esempio, queste persone potrebbero mantenere ancora la vita di relazione ma smettere di fare attività
fisica, iniziare a mangiare comfort food, non fare più i controlli periodici consigliati sul proprio stato
di salute, peggiorando così la propria situazione fisica. È chiaro, quindi, come queste sindromi siano
estremamente insidiose. Ancora più frequenti sono poi i casi di abuso di sostanze e dipendenze
comportamentali, quali la ludopatia o la dipendenza da internet.
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Lo studio, inoltre, mostrava come la gran
parte di questi pazienti veniva curato in un
setting esclusivamente di medicina generale.
Nei paesi più ricchi, esisteva anche la
possibilità di un intervento da parte dello
specialista, e, in alcuni casi, i due
professionisti collaboravano. Si vede però,
purtroppo, che la fetta del grafico a torta che
equivale a questo terzo caso, è abbastanza
piccola. Questa collaborazione sarebbe
auspicabile aumentasse, in un’ottica di miglioramento della salute pubblica.
Più recentemente, nel 2005, è stato invece condotto uno studio internazionale che trattava della
disabilità correlata ai disturbi psichiatrici. Il grafico a torta ci restituisce una stima dei casi di
disabilità che le diverse patologie nel mondo causano. Il numero in percentuale ci indica gli anni persi
per disabilità, ovverosia quanti anni di vita le persone perdono a causa della disabilità che le varie
malattie comportano. Vediamo, ad esempio, che le malattie cardiovascolari coprono un’importante
fetta della torta, essendo responsabili del 22% della disabilità mondiale. Le malattie oncologiche sono
causa dell’11%, le malattie respiratorie dell’8%, quelle digestive del 6 %: un quadro quindi molto
variegato. Arrivando a parlare, infine, dei casi di disabilità conseguenti a malattie neuropsichiatriche,
dove sono quelle psichiatriche ad avere un peso decisamente maggiore rispetto alle neurologiche, la
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percentuale si attesta al 28%. Queste hanno quindi un impatto molto superiore rispetto alle altre, in
particolar modo, la depressione. Considerando quanto appena detto, è stato anche coniato lo slogan
“no health without mental health”, proprio a sottolineare come la salute mentale sia una
componente fondamentale della salute globale dell’individuo.
Non è così scontato essere consapevoli dell’importanza della salute mentale, né tantomeno lo si è
sempre stati in passato. Basti pensare che fino al secolo scorso i malati psichiatrici venivano curati in
manicomio, in strutture quindi isolate, che nella maggior parte dei casi (Bologna faceva eccezione)
si trovavano fuori dalle mura della città. Di conseguenza, da parte della società non c’era una grande
percezione dei disturbi mentali.
Sempre nel secolo scorso, d’altro canto, prendeva voce anche un movimento che portava avanti l’idea
che in realtà le malattie psichiatriche non esistessero, ma che fossero solo un prodotto del disagio
sociale: chi non riusciva ad adattarsi alla crudeltà e agli aspetti negativi della società ne soffriva,
manifestando così il proprio disagio. Non si trattava dunque di una malattia, ma di un’errata
concezione della società.
L’approccio stesso alla psichiatria e al discorso sulla salute mentale non è quindi per niente banale o
scontato. Ad oggi, grazie alla maggiore ricerca e anche alla scoperta di correlati organici alle malattie
psichiatriche, la psichiatria è entrata a pieno titolo nel campo della medicina. Si tratta però di
un’acquisizione relativamente recente, come si esemplifica anche nel fatto che alcuni medici di
medicina generale, ormai prossimi alla pensione ma ancora oggi in servizio, nel loro corso di studi
potevano non studiare la psichiatria, che era un esame semplicemente complementare. Chi si è
formato negli anni ‘70/’80 non è quindi detto possieda una formazione accademica sui disturbi
psichiatrici.
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A questo punto, un ruolo di
filtro importante è svolto dal
medico di medicina generale
che deve essere in grado di
riconoscere questi disturbi, di
impostare un intervento
terapeutico o eventualmente
chiamare in causa uno
specialista. Se il medico non è in
grado invece di riconoscere la
condizione, il percorso del
paziente rischia di fermarsi
senza che la persona riceva il giusto aiuto. Una parte di questi pazienti, dove necessario, continuerà
il proprio percorso con l’intervento di uno specialista, idealmente abbastanza pochi, e un numero
ancora minore di questi andrà incontro ad un ricovero ospedaliero, che oggi è un’evenienza
abbastanza rara. Ricapitolando, questo è quello che il MMG deve essere in grado di fare: riconoscere
questi disturbi e i segni, possibilmente in una fase iniziale, spiegare al paziente la diagnosi e iniziare
ad impostare un piano di trattamento. Infine, nei casi più gravi, inviare il paziente dallo specialista.
Caso clinico:
Cesare è un signore di 61 anni, impiegato in banca, sposato. Ha due figli maschi che ormai vivono
fuori casa. Non è mai stato seguito in ambito psichiatrico. Ha sempre condotto una vita abbastanza
regolare. È appassionato di moto, di sci. Ha una buona propensione culinaria. È una persona
estroversa e socievole. Ha una lieve obesità e assume la metformina grazie alla quale ha un buon
controllo glicemico. Soffre inoltre di ipertensione essenziale benigna da parecchi anni, trattata
farmacologicamente. Ad un certo punto, a seguito di un test di screening di sangue occulto nelle feci
gli viene diagnosticata una neoplasia al colon.
Viene iniziato immediatamente il percorso terapeutico, il paziente viene operato e sottoposto a
chemioterapia.
N.d.s. a questo punto il professore rivolge alla classe la seguente domanda: “come vi aspettate che
reagisca inizialmente alla diagnosi e ai trattamenti (considerando che si tratta di una persona con degli
interessi, socievole, estroversa…)?”
Risposte degli studenti:
una possibilità è che si deprima e inizi ad avere pensieri negativi;
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far finta di niente, negare totalmente;
iniziare a condurre una vita sregolata (abuso di sostanze, comportamenti irrazionali...) perché
“non ha più nulla da perdere”;
ansia per l’incertezza di ciò che succederà;
anche se non sta bene può avere una reazione di apparente e iniziale positività.
Il professore conferma che sono tutte possibilità plausibili (forse quella delle sostanze è un po’ più
estrema) ma in realtà nella maggior parte dei casi la prima reazione è quella di farsi forza, apparendo
ben determinato ad affrontare il percorso terapeutico.
Tuttavia accade che nel corso del tempo, dopo la sottoposizione a chemioterapia e ai suoi effetti
collaterali, il paziente che prima era una persona attiva, viene limitato in quelle che sono le sue
passioni, si sente più stanco, non a causa della depressione ma per effetto dell’operazione e delle cure.
In questa prima fase si tratta ancora di un effetto fisico.
Col passare del tempo il paziente inizia a trascorrere più tempo nel letto, anche durante le ore diurne
e la spinta volitiva che lo ha sempre caratterizzato inizia a venire meno, si impigrisce, la chemioterapia
gli provoca nausea quindi inizia a magiare meno e questo lo indebolisce ulteriormente. Al termine del
secondo ciclo di terapia, nonostante i buoni risultati della terapia (l’oncologo è soddisfatto perché la
malattia è sotto controllo), il paziente è fortemente sfiduciato e sostiene di non voler proseguire le
cure; è a questo punto che probabilmente si passa nel territorio di una depressione ed è necessaria una
consultazione psichiatrica. In questo caso, da una malattia organica come il tumore al colon, il quadro
si è poi ampliato sfociando in una verosimile patologia depressiva (il campanello d’allarme è
rappresentato dal fatto che il paziente sia sfiduciato nonostante la cura abbia dato buoni risultati).
Domanda del professore: Come si fa a distinguere il momento di passaggio dalla debolezza fisica
legata agli effetti collaterali della chemio (nausea, inappetenza, stanchezza) alle manifestazioni della
depressione? Come si fa a capire quando è sopravvenuta una depressione?
Risposte degli studenti:
quando nonostante i miglioramenti, le buone notizie non lo influenzano positivamente;
quando, nonostante il paziente abbia terminato le cure (quindi svaniscono gli effetti collaterali),
comunque non riprende il suo precedente stile di vita.
Quello che abbiamo descritto è quindi il caso di un paziente che ha sviluppato una depressione clinica
a partire da una patologia tumorale: i cambiamenti del suo stile di vita e la terapia l’hanno condotto a
uno stato depressivo.
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A questo punto, il professore mostra il seguente grafico in cui viene messa in confronto la stima della
qualità della vita in presenza di una condizione internistica con quella di una condizione internistica
associata alla depressione: si può notare che, quando è presente anche la depressione, la qualità della
vita decade (ad esempio se una persona ha il diabete la sua qualità di vita scende di 10 punti rispetto
a una persona sana, se ha diabete e depressione scende di 20 punti).
Il seguente grafico, invece, mostra una stima dei costi sanitari di diverse patologie. Si può notare che
se una persona ha uno scompenso cardiaco è molto costosa per il sistema sanitario, se ha anche la
depressione i costi raddoppiano e questo perché spesso la persona depressa non rispetta la terapia e
quindi viene ricoverata più volte oppure perché la depressione aumenta il rischio di sviluppare altre
patologie (in particolare, il rischio di avere un infarto aumenta di tre volte rispetto a una persona non
affetta da depressione).
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N.d.s. il professore distribuisce le fotocopie del seguente articolo:
https://www.kingsfund.org.uk/publications/long-term-conditions-and-mental-health
Spesso nel mondo delle cure primarie e della medicina interna il paziente non si presenta dal medico
riferendo sintomi psicologici (angoscia, calo del morale …) ma dei sintomi fisici cronici ed
invalidanti. Inoltre, più il paziente ha sintomi gravi ed invalidanti, più è facile che essi si associno a
un disturbo mentale.
La presentazione con sintomi fisici deve quindi sempre far sospettare e indagare la presenza di una
condizione come l’ansia o la depressione
Domanda del professore: perché il paziente tende a presentare sintomi fisici piuttosto che psicologici?
Risposte studenti:
Per essere creduto (anche perché i medici generali solitamente prestano più attenzione ai
sintomi fisici per questioni di praticità e di tempistiche, per cui per il paziente è più facile
presentarsi con il cosiddetto “somatic ticket”);
Perché spesso il paziente non ne è consapevole o ne è consapevole solo in parte (per esempio,
la sua esperienza è quella di un senso di pesantezza al petto e pensa che il problema sia di tipo
fisico come un male al cuore e non un’angoscia che prova da tempo);
Per vergogna, perché i sintomi psicologici sono spesso associati a debolezza o pigrizia.
N.d.s. per spiegare il concetto il professore racconta di un suo collega che in modo provocatorio
entrava in aula chiedendo agli studenti che avessero mai avuto problema di carattere mentale di
alzare la mano e mai nessuno l’alzava, se invece avesse chiesto di alzare la mano a chi tifa il Bologna
nessuno si sarebbe vergognato.
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Questo perché purtroppo ancora ad oggi c’è un grande stigma rispetto ai disturbi mentali nonostante
si stia piano piano arrivando ad una normalizzazione anche grazie al fatto che ci sono sempre più
persone famose che ne parlano o ne sono affette (cita la ginnasta Simone Biles o la tennista Naomi
Osaka) consiglia anche di guardare su Netflix il documentario “Untold:Fish vs Federer”(in cui il
tennista Mardy Fish non si presenta in campo); gli atleti sono particolarmente soggetti a sviluppare
queste problematiche perché sottoposti a una pressione eccessiva può sfociare in depressione,
sindromi da dissociazione e attacchi di ansia.
Ci sono due tipologie di presentazione di disturbo mentale con sintomi fisici cronici:
1) Malattie croniche disabilitanti che possono avere un impatto negativo sul piano psicologico e
quindi complicarsi con un disturbo mentale associato;
2) Sintomi medici inspiegabili senza basi fisiopatologiche identificabili come ad esempio un dolore
cronico o una stanchezza persistente.
Caso clinico:
La signora Carla ha 47 anni, convive col compagno e i due figli di 10 e 16 anni, fa la casalinga e in
passato ha lavorato come impiegata fino alla seconda gravidanza.
È sempre stata una persona riservata ed introversa, ha poche amicizie fuori dall’ambito familiare, non
ha particolari hobby e si dedica alla casa e ai figli con una certa soddisfazione, non ha quindi grandi
ambizioni. È seguita dall’età di di 31 anni dal centro di salute mentale del suo paese perché soffre di
disturbo dell’umore ricorrente, per cui partiamo da un quadro già conclamato di disturbo mentale.
L’esordio del disturbo risale a subito dopo la prima gravidanza, evento comune nel genere femminile:
si tratta di una leggera depressione post partum, non eccessiva, in seguito alla quale si è rivolta a degli
specialisti ed è stata meglio.
Alla nascita del secondo figlio a 37 anni ha avuto, invece, un episodio grave che ha richiesto un
ricovero in un ambiente specialistico.
Due anni dopo, alla madre viene diagnosticato un tumore allo stadio terminale quindi Carla, che si
era appena ripresa da un episodio di depressione piuttosto grave, perde la madre ed ha un altro
episodio depressivo. Questi due ultimi episodi ravvicinati impattano molto sulla sua vita: cambia
lavoro, si occupa di casa e figli ma necessita di aiuto perché da sola a volte non riesce a svolgere le
sue attività.
Per stabilizzare l’umore, è stato necessario impostare una polifarmacoterapia con due antidepressivi
e un antipsicotico ad alto dosaggio (gli antipsicotici fungono anche da stabilizzatori dell’umore e si
usano in associazione con gli antidepressivi nelle forme più gravi di depressione).
Dopo questo trattamento piano piano si riprende, non ha più recidive però qualche sintomo depressivo
residuo rimane, inoltre quando si prova a ridurre la terapia farmacologica compaiono subito episodi
di ansia e di difficoltà a dormire, perciò la terapia deve essere mantenuta ad alti dosaggi.
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Oggi, a distanza di sei anni, la sua salute fisica è molto peggiorata, rientra nelle forme di obesità
(l’aumento progressivo del peso è iniziato con le gravidanze e ha inciso sicuramente anche la terapia
farmacologica), ha una lombosacralgia cronica con documentata artrosi diffusa della colonna e alcune
protrusioni ed ernie discali.
Ha sviluppato un ipotiroidismo e recentemente è entrata in menopausa quindi l’assetto ormonale è
particolarmente sfavorevole. È molto sedentaria e ha anche qualche dolore e instabilità. Non è molto
costante nel seguire le indicazioni riabilitative e fuma un pacchetto di sigarette al giorno.
Al colloquio è abbastanza lucida, un po’ trasandata, l’umore è irritabile più che depresso, è un po’
disforica. Riporta una certa difficoltà a concentrarsi e il sonno è disturbato, infatti, da tempo fa uso di
sonniferi e analgesici perché di notte può avere dolore però questi farmaci non sembrano più avere
effetto.
Il primo caso che abbiamo trattato (il signor Cesare) era l’esempio in cui si passa da una malattia
fisica alla depressione, questo esempio invece (la signora Carla) mostra il caso contrario: una persona
che ha una patologia depressiva che si aggrava, passando da una forma depressiva controllata a una
grave, e questa patologia depressiva sfocia in una compromissione della salute fisica. Queste due
persone (Cesare e Carla) alla fine sviluppano entrambe importanti problemi di salute fisica e mentale:
questi casi non sono una eccezione, ma sono la norma per chi lavora sul territorio ma anche a livello
ospedaliero.
Infine, c’è anche un ulteriore caso più raro: in cui malattie internistiche causano direttamente dei
disturbi mentali; di solito si tratta di patologie neurologiche o endocrinologiche che instaurano
meccanismi diretti. Ad esempio alcuni ictus, specialmente nell’emisfero sinistro nella zona fronto-
parietale, danno dei quadri clinici virtualmente indistinguibili dalla depressione. Ci sono anche alcuni
trattamenti che possono portare a questa condizione: la terapia a base di Interferon (rischiano di
entrare in depressione 3 su 10 persone che si sottopongono a tale terapia, tant’è che anni fa si
proponeva di associare degli antidepressivi come profilassi).
Quindi va sempre tenuta in considerazione questa possibilità perché se è possibile togliere il fattore
scatenante, il disturbo mentale si riduce sensibilmente se non addirittura scompare.
Si tratta di sintomi mal definiti che non hanno una chiara spiegazione fisiopatologica.
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Gli psichiatri li definiscono in vari modi che però non prendono piede nell’ambito della medicina
generale perché si tratta di classificazioni spesso non soddisfacenti quindi in realtà ogni specialistica
ha coniato i propri termini: dolore cronico, fibromialgia, intestino irritabile, la sindrome della fatica
cronica …
Di solito il dolore è il sintomo più importante e può essere legato al rachide, alla testa, al torace, alle
articolazioni...altri sintomi frequentemente associati sono l’affaticamento, disturbi gastrointestinali,
febbre, perdita di peso, (sciatalgia, lombalgia che sono dolori centrali più rari).
In alcuni casi, c’è inizialmente un problema oggettivabile, spesso minore, di difficile risoluzione, una
sindrome dolorosa oppure una storia di malattia come un tumore.
Il decorso di questi sintomi inspiegabili è molto importante per orientare la diagnosi. Di solito è
intermittente e gli episodi acuti sono fortemente legati ad eventi stressanti (se la persona va incontro
ad eventi sfavorevoli peggiora, se invece ha dei momenti di tranquillità e riesce a distrarsi sta meglio).
In altri casi, il percorso è più lineare ma può esserci sempre un peggioramento se si aggiunge una
fonte di stress.
Solitamente si tratta di persone che si rivolgono spesso in maniera disordinata e caotica ai servizi
sanitari, fanno numerosi esami, visite, accessi al pronto soccorso senza però mai trovare una soluzione
ai loro problemi e questo accade anche a causa della scarsa utilità dei trattamenti proposti (perché
sono di solito terapie sintomatiche a cui questi pazienti sono spesso resistenti).
A causa di questi motivi tali pazienti finiscono per essere frustrati e insoddisfatti.
In questi casi la valutazione deve essere il più possibile mirata, è inutile ripetere i test continuamente
ogni sei mesi per essere sicuri perché questo paradossalmente rischia di creare uno stato di maggiore
ansia nel paziente.
Bisogna escludere le più ragionevoli ipotesi diagnostiche e ricercare l’eventuale disturbo
somatoforme anche in maniera proattiva.
Molto spesso il paziente ha il terrore che non venga riscontrata una patologia grave sottostante a
questi lievi sintomi (ad esempio teme che un lieve dolore allo stomaco nasconda in realtà un tumore)
oppure ha sfiducia nella capacità del medico di fare diagnosi. Altre volte, può essere anche il medico
ad avere il timore di non riuscire a riscontrare un eventuale importante problema sottostante e quindi
questa doppia paura finisce per creare una situazione caotica in cui si fanno esami e consultazioni
continui in assenza di nuovi dati e referti.
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