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ISBN: 978-88-6538-001-7
a cura di
Philip Graham
Institute of Child Health, London, UK
InDICE
1 Introduzione 9
Philip J. Graham
Prima Parte:
Teoria dello sviluppo cognitivo e pratica clinica
SECONDA Parte:
Coinvolgimento e processo diagnostico
TERZA Parte:
Gruppi di clienti
QUARTA Parte:
Applicazioni in problematiche psicosociali
QUINTA Parte:
Applicazione a disturbi specifici dell’infanzia e dell’adolescenza
SESTA Parte:
Applicazioni della CBT in interventi preventivi
Introduzione
Philip J. Graham
Institute of Child Health, Londra, Regno Unito
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Philip J. Graham
a svolgere determinati compiti cognitivi nel proprio ambiente naturale molto prima
rispetto all’ambiente artificiale del laboratorio. Come Derek Bolton mostra chiara-
mente nel Capitolo 2 di questo testo, venne riconosciuta l’importanza di distinguere la
competenza dalla performance; così come il ruolo che le esperienze precoci e il contesto
giocavano nella performance che i bambini erano in grado di dimostrare. Come sug-
geriscono ÒConnor e Creswell nel Capitolo 3, esiste una variazione molto più grande
nelle competenze possedute da bambini della stessa età rispetto a quella riconosciuta
da Piaget.
Nonostante le notevoli modificazioni apportate alla teoria Piagetiana, come evi-
denziato da ÒConnor e Creswell, il riferimento a questa teoria è ancora così diffuso da
poter essere considerato automatico in coloro che si occupano di sviluppo cognitivo dei
bambini. Tuttavia, come questi ultimi autori suggeriscono, è più appropriato conside-
rare “quale atto cognitivo sia coinvolto nella produzione/mantenimento del problema
in quel caso particolare”. Un simile approccio scoraggerebbe la tendenza a ignorare la
possibilità che la CBT possa essere utile con i bambini solo a causa della loro immatu-
rità cognitiva. Se, come indica Stallard nel Capitolo 8, esistono prove che dall’età di 7
anni i bambini sono in grado di riflettere con un certo grado di competenza sui propri
processi cognitivi (Salmon e Bryant, 2002), non c’è ragione di pensare che non possano
prendere parte a quelle tecniche utilizzate dalla CBT che prevedono questa particola-
re capacità cognitiva. Certamente, il capitolo di Stallard sull’utilizzo della CBT con i
bambini piccoli suggerisce che, confrontando l’efficacia della CBT in bambini di età
differenti, non esistono prove di minori benefici per i bambini più; addirittura a volte
sembrano trarne di più.
Dalla prima edizione di questo libro nel 1998, si sono verificati una serie di altri
sviluppi nel campo della CBT per i bambini, alcuni dei quali la differenziano ulterior-
mente da quella per gli adulti. In particolare, e tutto questo non sorprende alla luce
della crescita impressionante che ha avuto la terapia familiare fra gli anni sessanta e la
fine degli anni ottanta, c’è una tendenza sempre maggiore a tenere conto, nel corso
che assume il disturbo, dell’influenza degli altri membri della famiglia, soprattutto dei
genitori. Wolpert, Doe ed Elsworth, nel Capitolo 7 enfatizzano soprattutto le questioni
etiche che sorgono nella CBT quando i punti di vista e gli interessi dei bambini e dei
genitori differiscono. Ma suggeriscono anche che le tecniche di terapia familiare, come
l’intervista sistemica, potrebbero svolgere un ruolo utile agli stadi iniziali della terapia,
quando si indagano le differenze nelle percezioni dei membri della famiglia su ciò essi
considerano “il problema” e su cosa hanno fatto per affrontarlo. Questi autori riferi-
scono, sulla base della propria esperienza, che anche altre tecniche di terapia familiare,
come il reframing, potrebbero essere utili nell’applicazione della CBT.
La collaborazione con i genitori viene considerato un focus centrale nel trattamen-
to cognitivo comportamentale di una serie di disturbi trattati in questo testo. Ma il
coinvolgimento dei genitori non riguarda solo il trattamento del bambino. Molti degli
autori di questi capitoli sottolineano la necessità di lavorare sugli aspetti cognitivi dei
genitori per ottenere un risultato positivo con il bambino. Douglas, nel Capitolo 12,
sui disturbi del sonno e dell’alimentazione nei bambini piccoli, indica per esempio la
necessità di correggere i pensieri distorti o irrazionali dei genitori sul cibo, la pulizia
e sui pattern di sonno. Bailey assume un punto di vista simile quando prende in con-
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Introduzione
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Philip J. Graham
trattamento e assicurarsi che esso sia stato compreso da tutte le parti coinvolte; (3) è
meno probabile un accordo di tutte le parti sul trattamento; (4) è meno probabile avere
procedure sensibili alla cultura e al genere sessuale e che (5) è più difficile fra coincidere
il conseguimento degli obiettivi terapeutici con un miglioramento reale nella vita del
bambino. La risoluzione di questo dilemma sembrerebbe incorporare, all’interno dei
protocolli standardizzati di ricerca, aspetti individualizzati del trattamento.
Leggendo i capitoli di questo libro, si viene colpiti dalla diversità degli approcci
che si raccolgono sotto l’espressione CBT. Certamente, le sovrapposizioni fra la CBT,
la terapia comportamentale, la psicoterapia interpersonale, il training delle competenze
di problem-solving, il training delle competenze sociali e la terapia familiare sembrano
significative. Non sono estranee alla CBT nemmeno le terapie psicodinamiche. Sch-
midt, nel Capitolo 5 sugli interventi motivazionali, parla di tecniche come l’ascolto
riflessivo, per il quale sarebbe utile un training nell’intervista psicodinamica. Inoltre,
sono convincenti anche le prove dell’importanza di fattori non specifici, fra cui l’auto-
revolezza, il calore umano e una relazione positiva cliente-terapeuta, così ben descritti
da Weersing e Brent nel Capitolo 4.
È anche evidente in molti contributi di questo libro la necessità di combinare
la CBT con altre forme di terapia. Relativamente ai disturbi dell’alimentazione, per
esempio, la CBT da sola potrebbe essere sufficiente per la bulimia, ma per l’anoressia
nervosa la terapia familiare potrebbe dare un contributo di valore (Stewart, Capitolo
21). Nel disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, i farmaci sono la forma di
trattamento primaria per i bambini che presentano una sintomatologia molto grave,
ma la CBT, spesso in combinazione con gli stimolanti, può essere considerata l’ap-
proccio di elezione quando questi sintomi sono collegati a situazioni specifiche e sono
associati ad altri disturbi (Pelham e Walker, Capitolo 14). I risultati molto promettenti
riferiti nella prevenzione e nella gestione dei problemi della condotta da McMahon e
Rhule (Capitolo 27) suggeriscono che la combinazione di approcci diversi, soprattutto
con una presa in carico intensiva della famiglia che viene affidata a uno specialista, può
essere efficace nella riduzione delle ricadute.
Si potrebbe verificare la sovrapposizione fra differenti forme di terapia, ma in que-
sti ultimi 6 anni dalla pubblicazione della prima edizione di questo testo, le conferme
dell’efficacia della CBT e di approcci a essa collegati (spesso se confrontati con altre
forme di terapia), in un’ampia varietà di condizioni (Carr, 2000; Fonagy et al., 2002),
sono diventate sempre più autorevoli. Si spera che i prossimi anni vedranno un’espan-
sione delle opportunità di training per i terapeuti che desiderano utilizzare questo ap-
proccio.
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PRIMA PARTE
Introduzione
Il termine terapia cognitivo comportamentale (CBT) viene utilizzato per indicare
numerosi interventi nell’ambito della salute mentale dei bambini e degli adolescenti, fra
cui (senza un ordine particolare) metodi psicoeducativi, tecniche di gestione della rab-
bia e dell’ansia, procedure di condizionamento operante, tecniche comportamentali di
esposizione allo stimolo, auto-istruzione, esercizio graduale, rilassamento, training delle
competenze sociali, alcune forme di parent training e la ristrutturazione cognitiva simile
a quella utilizzata nella CBT per adulti. Ci si chiede sinceramente se e in che modo
questa varietà possa essere considerata espressione di un modello unificato. In ogni
caso, tutti gli autori afferenti alla teoria e alla pratica della CBT nell’infanzia e nell’ado-
lescenza indicano l’importanza di tener in considerazione le problematiche evolutive nel
modello di trattamento, anche se è meno comune riscontrare indicazioni dettagliate di
quali siano le problematiche evolutive cruciali per la CBT in questa fascia di età.
A opinione dell’autore, la conseguenza è che alla base dell’aspetto evolutivo della
CBT ci sono un insieme di domande teoriche complesse e una mancanza di dati. Dato
che i metodi comportamentali possono essere utilizzati con i bambini e che in qualche
caso funzionino, cosa si aggiunge con la terapia “cognitiva”? Qual è la reale differenza
– nella metodologia o nei modelli – fra la terapia comportamentale per i bambini e la
terapia cognitiva? Ha un senso dire che la terapia comportamentale modifica i pensieri
ed è pertanto una (una forma di) terapia cognitiva? Cosa c’entra la verbalizzazione?
Quali aspetti dell’attività cognitiva vengono affrontati dalla verbalizzazione e non dalla
modificazione comportamentale? Quali atti cognitivi sono implicati nella CBT con
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Derek Bolton
gli adulti? I bambini hanno queste capacità cognitive e a quale età le conseguono?
Tutte queste domande vengono affrontate in questo capitolo partendo prima di tutto
dagli atti cognitivi implicati nella CBT con gli adulti e nei relativi modelli teorici della
psicopatologia adulta e affrontando, in secondo luogo, le implicazioni della teoria e
della ricerca dello sviluppo cognitivo. La letteratura disponibile a riguardo è certamente
molto ampia e complessa; pertanto qui presentiamo un contributo selettivo e parziale
che, piuttosto che dare risposte, fa sorgere ulteriori domande.
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
Il modello generale della CBT è applicabile a numerosi problemi fra cui la de-
pressione (Beck, 1976); i disturbi d’ansia come la fobia sociale, il disturbo da attacchi
di panico e il disturbo post-traumatico da stress (Clark, 1999); il disturbo ossessivo
compulsivo (Salkovskis, 1996a), la bulimia (Vitousek, 1996), l’affaticamento cronico
(Sharp, 197) e la schizofrenia (Garety et al., 2001). Dato il modello – almeno un mo-
dello generale, o meglio, quando possibile, un modello per ogni specifica condizione
– come opera la CBT? Il processo diagnostico si conduce tenendo a mente il modello,
per verificare se questo possa, almeno in parte, essere ragionevolmente adattato al caso
particolare e, se sì, renderne chiari i dettagli espressivi. Questo significa cercare di iden-
tificare quali siano, nello specifico, i pensieri negativi e il loro contenuto, le situazioni
critiche che li attivano, le distorsioni cognitive, gli atteggiamenti disfunzionali, gli as-
sunti cognitivi fondamentali e i comportamenti protettivi, le valutazioni secondarie e
le relative conseguenze e la relazione funzionale che collega tutti questi aspetti (o per lo
meno tutti quelli che è possibile identificare). Si possono anche prendere in conside-
razione le origini degli assunti cognitivi fallaci - per es. se queste acquistano un senso
nella famiglia di origine. Tuttavia, occuparsi dell’origine degli assunti cognitivi falsi è
un obiettivo secondario nel processo diagnostico, il cui focus principale è invece identi-
ficare quali aspetti devono essere modificati, per indurre un cambiamento anche nelle
emozioni e nei comportamenti problematici. Di solito, coerentemente con il modello,
il cambiamento si incentra sui giudizi, una rappresentazione della realtà, del sé o degli
altri che implica i pensieri e gli stili cognitivi descritti nel modello generale – forse un
assunto cognitivo fondamentale, forse un pattern di pensieri negativi o entrambi.
Mano a mano che la il processo diagnostico va avanti, si riformula il modello facen-
dolo aderire alla situazione particolare di quella persona, in uno stile e linguaggio simile
il più possibile a quello del cliente, che deve condividerlo con il terapeuta. Una volta
giunti a una ridefinizione concordata del modello, si identificano i giudizi secondari
più rilevanti responsabili del problema e si individua, quindi, il focus del cambiamento.
Il cambiamento nella CBT prevede: prendere in considerazione alternative agli assunti
cognitivi fondamentali fallaci (giudizi), riesaminare le prove e le contro prove evidenti
alla luce di queste nuove alternative e verificare sperimentalmente le alternative indivi-
duate. Quest’ultimo aspetto include, ma non è limitato a, tecniche di terapia compor-
tamentale quali l’esposizione allo stimolo, ridefinita alla luce del modello cognitivo.
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Derek Bolton
mentale fra pensiero e azione. Nel modello evolutivo sviluppato da Vygotsky, il pensiero
e l’azione sono visti come processi fondamentalmente sociali e in questa prospettiva
troviamo un’intuizione molto vicina a uno dei principi teorici fondamentali della CBT,
propriamente, che il linguaggio ha un ruolo chiave nella regolazione (o controllo) del-
l’azione. A riguardo, Vygotsky scriveva (1981, pp. 69-70):
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
L’adolescente è l’individuo che inizia a costruire “sistemi” o “teorie”, nel senso più ampio del
termine. Il bambino non costruisce sistemi. Il pensiero spontaneo potrebbe essere più o meno
sistematico … ma è l’osservatore che vede questo sistema dall’esterno, mentre il bambino non
ne è mai consapevole dal momento che non riflette mai sui propri pensieri … Il bambino non
ha capacità di riflessione, ossia non ha pensieri di secondo ordine che operano criticamente nei
confronti del proprio stesso pensiero. Non si può costruire alcuna teoria senza questo tipo di
riflessione. Al contrario, l’adolescente è in grado di analizzare il proprio pensiero e di costruire
teorie. Il fatto che queste teorie siano ipersemplificate, goffe e che di solito non siano per nulla
originali non è una questione pertinente.
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Derek Bolton
Tipi di meta-cognizione
La regolazione del comportamento attraverso la meta-cognizione (o riflessione sui
propri atti cognitivi), di solito a mezzo del linguaggio, viene enfatizzata nella CBT per
adulti, per quanto si riferisca invero a differenti aspetti. Sembra che il linguaggio sia
criticamente coinvolto nei processi meta-cognitivi e, in particolare, nello sviluppo di
una teoria della mente, ma i dettagli e anche la direzione della causalità restano ancora
poco chiari (vedere, per esempio, Astington e Jenkins, 1999). Di seguito presentiamo
alcuni aspetti di cui si occupa la CBT, a partire da ciò che Piaget enfatizzava di più.
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
mente tardi nel corso dello sviluppo; i bambini di 5 anni ne hanno pochissima, ma
gli adolescenti iniziano a svilupparla. Ci sono per esempio prove che il concetto di
validità inferenziale viene sviluppato e applicato nella tarda infanzia o nell’adolescen-
za (Moshman e Franks, 1986), ma ci sono anche prove che i preadolescenti, anche
bambini di scuola elementare, in particolari ambiti di conoscenza, conoscono molto
bene alcuni aspetti cruciali della costruzione e dell’implementazione delle teorie,
come, per esempio, la differenziazione di teorie ipotetiche dalla realtà. (Sodian et al.,
1991).
Questo tipo di valutazioni sono ovviamente cruciali, se non in tutti, nella maggior
parte dei modelli e metodologie di terapia cognitiva e includono molti dei così detti
“pensieri automatici negativi” (NATs), considerati fondamentali nell’interpretazione
dell’esperienza presente e quindi nella regolazione delle emozioni e dei comportamen-
ti. Potrebbe non essere di particolare importanza se queste valutazioni sono precedute
introdotte da pronomi personali – “essi penseranno che sono …” – fintanto che la
distinzione fra ciò che essi pensano e ciò che io penso deve ancora essere compresa.
Certamente, come molti clinici che lavorano con i bambini e le famiglie, l’autore si è
spesso chiesto se in qualche modo, i commenti piuttosto critici, ripetuti nel tempo, che
i genitori rivolgono al bambino diventano i NATs dell’adulto, mentre, al contrario, i
commenti incoraggianti diventano i pensieri automatici positivi (ATs). Questo sarebbe
coerente con gli elementi chiave della psicologia evolutiva di Vygotsky evidenziati in
precedenza, ossia che la vita mentale è un’interiorizzazione della vita sociale e , nello
specifico, che il pensiero è un dialogo interiore. Nei modelli cognitivi dei disturbi della
salute mentale in età adulta, si ritiene di solito che i NATs vengano attivati da situazioni
particolari ma anche da asserzioni e, molto probabilmente, da assunti cognitivi fonda-
mentali disfunzionali.
Sulla base delle considerazioni appena fatte è possibile che su un piano evolutivo
esista una via diretta dalla situazione attivante ai NATs, costituita dai giudizi dei ge-
nitori, senza la mediazione di teoremi generali. In ogni caso, apparentemente non c’è
motivo, dal punto di vista dello sviluppo cognitivo, di porre limiti più bassi all’età in
cui i bambini possono avere, spontaneamente o in seguito a interiorizzazione, queste
riflessioni su pensieri, opinioni o comportamenti; oppure sul proprio sé che ha o fa
determinate cose. Ci potrebbero essere fattori evolutivi relativi al contenuto, così come
alle differenze individuali. Per esempio, stati emotivi più complessi come l’orgoglio e la
vergogna sembrano comparire nella fase di transizione fra la prima e la media infanzia
(Harter, 1996; Stevenson-Hinde e Shouldice, 1996).
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Derek Bolton
Riconoscere che gli stati mentali possono essere sotto il controllo della persona,
anche se alcuni sono più facilmente controllabili di altri, è un’altra forma di meta-
cognizione. Ci sono prove che questa capacità è presente già dai 7 anni, anche se si
sviluppa maggiormente nelle fasi successive della prepubertà (Flavell e Green, 1999).
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
potrebbe credere di essere stato arrabbiato con l’amico perché quest’ultimo era stato
cattivo con lui, ma in realtà era arrabbiato perché l’amico aveva qualcosa che lui stesso
desiderava; o qualcuno potrebbe credere che non esista elaborazione dell’informazio-
ne che regola un comportamento, come l’arousal fisiologico, mentre questa c’è, come
nel disturbo da attacchi di panico; o che c’è quando invece non c’è, come nei primi
esperimenti sulla manipolazione dei fattori sociali nell’attribuzione causale (Schacter
e Singer, 1962). Ma anche se i giudizi meta-cognitivi di quarto tipo possono essere
sbagliati (in qualcuno dei modi appena descritti), generano ulteriori comportamenti
coerenti con essi. Nell’esempio appena dato, i comportamenti successivi potrebbero
essere: un’ipocrita sicurezza delle proprie azioni o una rabbia incontrollata, panico
ed emozioni appropriate alla situazione. Questi sono nuovi comportamenti generati
dalle riflessioni sui pensieri, dai pensieri sull’elaborazione delle informazioni, o sulla
mancanza di questa, che regolano il comportamento (di primo ordine) di un indi-
viduo. Di conseguenza, se i pensieri di primo e secondo ordine coincidono, se un
individuo ha una rappresentazione corretta dell’altro, siamo in presenza di una certa
integrità e certezza nell’azione, mentre, se questi differiscono, siamo in qualche modo
di fronte a dei problemi, come quelli che la CBT e altre forme di psicoterapia cercano
di risolvere (Bolton, 1995).
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Derek Bolton
vità non motivata da quali fattori viene attivata, come, per esempio, la frustrazione o il
conflitto, e come vengono valutati da uno stile attributivo esterno?
L’esperienza clinica suggerisce che i bambini spesso riferiscono pensieri di questo
tipo. Alcune delle più recenti e importanti ricerche sulla teoria della CBT per bambini,
si sono focalizzate semplicemente su una domanda empirica cruciale: fino a che punto
i bambini mostrano quegli stili cognitivi e quei contenuti propri del modello della CBT
per gli adulti? I risultati sono promettenti: studi che hanno utilizzato campioni non
clinici indicano che i bambini e gli adolescenti presentano giudizi cognitivi, associati
alla depressione o all’ansia, simili a quelli riscontrati negli adulti (per es. Garber et al.
1993; Chorpita et al., 1996; Hadwin et al., 1997).
Ovviamente, il processo diagnostico con bambini piccoli presenta problematiche
peculiari. Porre semplicemente delle domande sui sentimenti e le emozioni presenti in
determinate situazioni problematiche, con i bambini potrebbe non portare ai risultati
sperati, dal momento che mediamente questi trovano le conversazioni lunghe più
complesse e perché potrebbero essere maggiormente focalizzati sul presente. Questo
non vuol dire che l’intervista clinica con i bambini non possa generare resoconti arti-
colati delle situazioni problematiche – chiaramente, questo a volte succede. Il grado di
successo potrebbe dipendere, fra le altre cose, dal grado in cui gli eventi e le emozioni
a essi associati sono stati verbalizzati e ricordati in conversazioni con la famiglia, come
succede nei casi non clinici (Nelson, 1996). Altrimenti, è utile applicare il principio
in base al quale un pensiero attivo in un particolare contesto, è più facilmente acces-
sibile all’interno di quel contesto stesso e, pertanto, potrebbe essere d’aiuto utilizzare
una rappresentazione pratica – per esempio, l’esposizione a stimoli ansiogeni potrebbe
facilitare l’espressione di specifiche percezioni di minaccia. Oppure, tenendo a mente
che i genitori potrebbero aver osservato il bambino in queste situazioni chiave mentre
il clinico no, si potrebbe semplicemente chiedere loro se il bambino abbia mai detto
qualcosa a riguardo della situazione in questione. Alternativamente, si potrebbe utiliz-
zare un paradigma a scelta multipla non forzata per facilitare il ricordo e il racconto.
Il terapeuta potrebbe dire ad alta voce – “per es. “Bhé, quando mi arrabbio con mio
fratello è spesso perché ha fatto questo, quest’altro e quest’altro ancora” – o il terapeu-
ta potrebbe invitare i genitori a chiedersi perché sono arrabbiati e lo scopo di simili
conversazioni, che non hanno il bambino come focus esplicito, è portare il bambino
stesso a esprimere la propria opinione sul caso. Questo succede spesso, anche se non
sempre. Ci sono molti altri modi ben noti ai professionisti della salute mentale, come
il role-play, la narrazione di una storia e così via. Lo scopo principale del processo
diagnostico nella CBT è scoprire, attraverso self-report spontanei o guidati, quali giu-
dizi, quando presenti, siano nella realtà alla base delle emozioni e dei comportamenti
problematici.
La domanda principale della diagnosi è, pertanto, quali sono e che contenuto han-
no i giudizi che nella realtà sono responsabili della generazione e/o del mantenimento
dei problemi di quel particolare bambino. Quando questi valutazioni esistono e hanno
un contenuto, possono essere affrontate nelle modalità familiari alla CBT per adulti;
se invece nel bambino non sono presenti altre tipologie di pensieri o contenuti che di
solito vengono riscontrati negli adulti e sono parte della teorizzazione di quel partico-
lare disturbo negli adulti, non è importante. In altre parole, la risposta alla domanda
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
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Derek Bolton
Conclusioni
C’è una discreta concordanza sotto molti aspetti fra le assunzioni empiriche della
CBT e alcuni fondamentali principi dello sviluppo cognitivo relativa al legame molto
stretto fra il pensiero e azione e al ruolo del linguaggio nella mediazione del comporta-
mento. La teoria stadiale generale piagetiana sosteneva tuttavia che le competenze meta-
cognitive, cruciali nella CBT, compaiono più avanti negli anni (ossia nell’adolescenza)
e questa teoria è stata utilizzata per spiegare i risultati piuttosto scarsi ottenuti in alcuni
primi studi sull’applicazione della CBT ai bambini. In generale, la teoria stadiale piage-
tiana è stata superata grazie a cambiamenti in diversi paradigmi e, pertanto, la domanda
generale “quale livello di sviluppo cognitivo è necessario per la CBT?” non è più quella
fondamentale. La domanda diventa piuttosto: “quali atti cognitivi sono coinvolti nell’in-
sorgenza e nel mantenimento del problema in questo caso particolare?” Non sembrano
esserci dunque ragioni del perché tutti, o la maggior parte, dei modelli e delle tecniche di
terapia cognitiva non dovrebbero essere applicati ai bambini; una volta che questi sono
in grado di utilizzare il linguaggio, con un range di età indefinitamente più basso. Potreb-
bero esserci casi in cui la CBT non dà buoni risultati, ma, per esempio, il fallimento nel
caso del comportamento impulsivo, potrebbe meglio essere spiegato facendo riferimento
a condizioni particolari, piuttosto a modelli generali di sviluppo cognitivo.
La CBT per i bambini è ai primi stadi di sviluppo e c’è una necessità sempre mag-
giore di condurre ricerche in molte aree, non solo nell’ambito dello sviluppo cognitivo.
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Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi
Riconoscimenti
Versioni precedenti di questo capitolo sono state presentate come intervento in
un simposio sui “Nuovi sviluppi nella comprensione del pensiero dei bambini e degli
adolescenti” alla BABCP Annual Conference, Glasgow, Giugno 2001 e al Children’s De-
partment Seminar, South London e Maudsley NHS Trust, nel Febbraio 2002. L’autore
è grato a numerosi colleghi per i suggerimenti utili forniti nelle versioni precedenti, e
fra questi in particolare a Francesca Happé, Ulrike Schmidt e Ruth Williams. Gli errori
rimasti sono tutti ascrivibili all’autore.
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31
CAPITOLO 3
Negli ultimi anni, c’è stata una proliferazione di studi che hanno dimostrato l’ef-
ficacia della terapia cognitivo comportamentale (CBT) con i bambini. I risultati di
queste indagini forniscono prove chiare che la CBT è uno strumento clinico efficace
per il trattamento di alcuni fra i più comuni disturbi psicologici dell’infanzia e del-
l’adolescenza, soprattutto l’ansia e la depressione (Kendall, 1985; Harrington et al.
1998). Una volta che è stato superato questo primo e principale ostacolo, si può di-
rigere l’attenzione a due domande successive: quali sono i meccanismi alla base di un
trattamento efficace e come possiamo spiegare l’inevitabile variabilità nella risposta al
trattamento? Questo capitolo cerca di rispondere a queste ultime due domande appel-
landosi alle teorie evolutive e alle ricerche più rilevanti nell’ambito dei pensieri sociali
e dei disturbi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza.
Gli scopi di questo capitolo sono: evidenziare perché è necessario un modello
evolutivo della CBT e come può essere costruito; passare in rassegna i risultati esempli-
ficativi della ricerca sui pensieri sociali nei bambini e vedere fino a che punto la CBT
per questa fascia di età è a conoscenza di questi risultati; identificare alcuni ostacoli che
impediscono una maggiore sintesi fra la ricerca evolutiva e clinica rilevante per la CBT
con i bambini e trarre alcune implicazioni per la diagnosi e l’intervento.
33
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
diversi aspetti fra loro distinti. La prima considerazione fondamentale è portare alla
luce gli effetti e i meccanismi implicati o, in altre parole, la natura delle continuità e
delle discontinuità nello sviluppo. In un’accezione più ampia, la psicopatologia è stata
definita in termini di traiettoria di sviluppo individuale che ha subito una deviazione
dal corso evolutivo normale (per es. Bowlby, 1988). In altre parole, piuttosto che (o
forse oltre che) vedere la psicopatologia come una costellazione di sintomi, si potrebbe
valutarla sulla base della capacità dell’individuo di rispondere alle sfide evolutive, quali
la formazione di relazioni positive con il gruppo di pari nella media infanzia. In termini
diagnostici, il focus non dovrebbe essere soltanto sull’espressione dei sintomi, ma an-
che sul corso evolutivo dell’individuo e sulle probabili proiezioni del disturbo. Questo
approccio ha anche delle implicazioni nella concettualizzazione del trattamento. Così,
per esempio, gli studi di prevenzione e intervento che mostrano miglioramenti più
consistenti o addirittura costanti nell’adattamento dei bambini dopo il trattamento
(Barrett et al., 1996; Silverman et al., 1999), potrebbero essere spiegati alla luce dell’in-
tervento stesso che va a modificare la traiettoria evolutiva del bambino e non solo alla
luce della riduzione della sintomatologia.
Una seconda caratteristica dell’approccio evolutivo, applicabile alla CBT, è iden-
tificare gli elementi che, in quella fase evolutiva del bambino, potrebbero modulare la
risposta al trattamento o la maniera in cui il trattamento deve essere condotto. La posi-
zione alternativa (ossia “non evolutiva”) ritiene che, nello sviluppo cognitivo, linguisti-
co o sociale del bambino, non ci sia nulla di pertinente all’applicazione dell’intervento
o alla spiegazione degli effetti successivi. Pochi sarebbero concordi con quest’ultimo
concetto, anche se si tratta di un’ipotesi che raramente è stata direttamente presa in
considerazione e rifiutata. Così, per esempio, lo stesso intervento di CBT ha effetti
differenti se erogato a bambini in differenti fasi dello sviluppo? Se sì, cosa spiega queste
differenze? Rispetto alla media adolescenza, i bambini più piccoli hanno bisogno di
una forma di CBT che usi meno la strutturazione cognitiva? Questo potrebbe essere,
per esempio, il caso dell’ansia nei bambini molto piccoli che non è mediata dalla co-
gnizione/linguaggio (per es. Prins, 2000).
Più in generale, potremmo porci un insieme parallelo di domande relative all’espres-
sione della psicopatologia nei bambini. Per esempio, il fatto che l’ansia generalizzata ha
un’epoca di insorgenza più tardiva rispetto all’ansia da separazione cosa suggerisce sulla
complessità cognitiva alla base della fenomenologia di questi disturbi? Forse l’ansia
generalizzata richiede processi cognitivi più complessi, propriamente quelli necessari
per una generalizzazione? Rispondere a domande di questo tipo non è semplice, ma ci
sono alcuni risultati esemplificativi. Pertanto, la capacità dei bambini di generalizzare
fra contesti o di mostrare una qualche comprensione dell’idea di costanza, è già eviden-
te nella prima infanzia. Tuttavia, anche se la costanza di caratteristiche fisiche concrete
e osservabili emerge nella prima infanzia e quella di genere compare leggermente più
tardi (Gouze e Nadelman, 1980), fino alla tarda infanzia i bambini non sono in grado
di rilevare la costanza di caratteristiche interiori (psicologiche) (per es. 8-9 per l’identi-
tà in Guardo e Bonan, 1971). Di conseguenza, prima della media infanzia, i bambini
per descrivere se stessi e per spiegare il proprio comportamento raramente utilizzano
terminologie riconducibili a tratti (Rotenberg, 1982). Similmente, rispetto a bambini
ansiosi più piccoli, i bambini ansiosi più grandi (gli adolescenti) mostrano un maggior
34
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
Il modello “non evolutivo” alla base della CBT è stato ampiamente descritto. Per-
tanto, non c’è nulla nella teoria (così come è definita nella sue parti generali) che
lascia prevedere che i bambini piccoli sarebbero meno responsivi alla CBT rispetto ai
bambini più grandi o, più in generale, come la variabilità nella risposta al trattamento
35
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
potrebbe essere espressione del contesto o della fase evolutiva del bambino. Inoltre, il
focus è sempre stato tradizionalmente sul processo di cambiamento dei pensieri e dei
comportamenti nel “qui-e-ora” e meno sulla comprensione delle loro origini (anche
se una possibile eccezione a questo potrebbe essere il lavoro più recente basato sugli
schemi in pazienti che hanno problematiche complesse).
Malgrado la mancanza di enfasi sull’aspetto evolutivo nella CBT, non può sfuggire
all’attenzione del clinico che lo sviluppo del bambino è rilevante ai fini del tratta-
mento. Questa impressione clinica è rinforzata da una serie di recenti articoli teorici
e di capitoli di testi che discutono le problematiche evolutive nella CBT. Tuttavia, gli
scritti su questo argomento, di solito, fanno ricorso a concetti vaghi sullo sviluppo
che non indicano particolari meccanismi o non portano con sé alcuna applicazione
clinica particolare. Come risultato, l’aspetto evolutivo nell’applicazione della CBT o
nella comprensione della relativa efficacia resta poco chiaro; ossia, mentre l’accordo
sulla necessità di un modello evolutivo per la CBT è ampio, non c’è consenso su quale
sia l’aspetto evolutivo critico e su come dovrebbe essere modificata, di conseguenza, la
pratica clinica.
Il problema dell’età rappresenta bene come rimanga ambiguo, nella CBT, il ruolo
dello sviluppo cognitivo. Relativamente alla pratica clinica, sono state incoraggiate al-
cune considerazioni sull’età e sembra esserci un accordo generale sul fatto che i bambini
più grandi potrebbero rispondere meglio ad approcci cognitivi, mentre i bambini più
piccoli potrebbero richiedere tecniche più comportamentali. Tuttavia, a tutt’oggi non
esiste una formulazione chiara del perché l’età del bambino dovrebbe moderare la rispo-
sta al trattamento o modellare l’applicazione dell’intervento stesso. Questa incertezza
concettuale si riflette nei risultati empirici. Una meta-analisi sulla risposta al trattamen-
to suggerisce che l’età potrebbe essere un importante predittore, con effetti più grandi
per la tarda e la prima adolescenza rispetto alla pre-adolescenza (Durlak et al., 1991).In
contrasto, studi più recenti hanno riferito che un’età più bassa (per es. pre-adolescenti
versus adolescenti) era predittiva di una risposta più positiva al trattamento con una
componente cognitiva (per es. Southam-Gerow et al., 2001). In questo caso, l’età più
elevata potrebbe essere associata a risultati meno positivi perché le distorsioni cognitive
potrebbero essere più radicate e più difficili da modificare (anche se gli effetti dell’età
responsabili della durata e della gravità del disturbo non vengono spesso riferiti; vedere
anche Cowen e Durlak, 2000); altri studi ancora non hanno riscontrato effetti dell’età
sugli esiti del trattamento. In breve, il ruolo dell’età nella risposta all’intervento, non è
consolidato e potrebbe differire in diversi disturbi dell’infanzia (Hudson et al., 2002).
La ragione per cui l’età non fa progredire la ricerca in nessuna direzione sostanziale
è che essa è solo rappresentativa di una serie di processi evolutivi, di cui solamente
alcuni potrebbero essere rilevanti in una terapia cognitiva. Dobbiamo chiederci cosa
nell’età potrebbe spiegare la variabilità nella risposta al trattamento. Inoltre, un focus
solo sull’età oscura le differenze individuali nelle competenze socio-cognitive che po-
trebbero non essere così dipendenti da questo fattore, argomento discusso in seguito in
maggiore dettaglio. Di conseguenza, non dovremmo sorprenderci di trovare che l’età è
al massimo un predittore non sempre costante della risposta al trattamento, e non do-
vremmo nemmeno investire troppo nei risultati che dimostrano che c’è (o non c’è) un
collegamento fra l’età e la risposta al trattamento. Cosa importante, i risultati ambigui
36
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
sull’età come predittore della risposta all’intervento non significano che non ci possano
essere importanti vincoli evolutivi per la CBT, ma semplicemente che l’età non è un
indice sensibile di quali siano questi fattori mediatori.
La parte restante del capitolo esaminerà le ipotesi alternative all’età che potrebbero
andare a costruire il modello evolutivo che spiega i meccanismi del trattamento e la
variabilità nella risposta.
Una linea di ricerca molto utile ed estremamente produttiva sul piano clinico ana-
lizza l’elaborazione delle informazioni sociali nei bambini. Esistono numerosi esempi
di ricerche di questo tipo, fra cui quella di Dodge e colleghi (Crick e Dodge, 1994) e
altri (Garber e Flynn, 2001). Le componenti del modello di social information proces-
37
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
sing sviluppato da Dodge sono relative alla decodifica e all’interpretazione dei segnali
sociali (per es. perché quel bambino è venuto a sbattere contro di me?), alla definizione
di obiettivi per il proprio comportamento (per es. cosa desidero fare adesso – dato che
penso che l’altro bambino sia venuto a sbattere contro di me deliberatamente e a scopo
provocatorio?), alla generazione di potenziali soluzioni e alla valutazione dei relativi effet-
ti (per es. cosa succederebbe se lo colpissi a mia volta?) (Dodge, 1993). Numerosi gruppi
di ricerca hanno fornito supporto al modello di social information processing attraverso
numerosi campioni clinici, anche se il modello sembra essere maggiormente applicabile
a popolazioni aggressive o con disturbo della condotta (Dodge e Frame, 1982).
Questa linea di ricerca è piuttosto vantaggiosa per il contesto clinico sotto nu-
merosi aspetti. Primo, le metodologie utilizzate per individuare i pensieri distorti nei
bambini sono facilmente importabili nel setting clinico. Pertanto, queste tecniche uti-
lizzate nelle ricerche su citate potrebbero essere integrate all’interno di un processo
diagnostico clinico standardizzato. Secondo, ci sono attualmente programmi di in-
tervento e prevenzione sviluppati alla luce del modello di social information processing.
Uno degli esempi più noti è il programma di prevenzione Fast Track (Conduct Problems
Prevention Research Group, 1992; Gruppo di Ricerca sulla Prevenzione dei Disturbi
della Condotta). Terzo, non per caso, all’interno di questa prospettiva, l’individuazione
degli obiettivi di trattamento e delle strategie per raggiungerli è del tutto coerente con
il modello della CBT. Certamente, questo approccio potrebbe essere considerato una
particolare forma di CBT per i bambini.
La teoria dell’attaccamento
38
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
di attaccamento nei bambini con in età scolare si basa per lo più sull’utilizzo di storie
proiettive e di giochi con bambole e/o pupazzi che riescono a creare un varco nelle
rappresentazioni che i bambini hanno del sé e dei caregiver (Bretherton e Mulholland,
1999; Green et al., 2000). In queste valutazioni, si mostrano al bambino delle immagi-
ni con pupazzi e si racconta l’inizio di una storia con una tematica relativa all’attacca-
mento (per es. il bambino si fa male) e si chiede al bambino di completare la storia; si
chiedono informazioni sui sentimenti del bambino e dei genitori e su ciò che succederà
in seguito. Il contenuto della storia del bambino viene codificato sulla base delle se-
guenti tematiche: sicurezza (per es. il bambino racconta di cercare i genitori e di trarre
da loro il conforto e di ritornare in seguito al gioco), evitamento (per es. il bambino
non nomina proprio i genitori nella propria storia e sembra confortarsi da sé) e aggres-
sività, controllo e caos. In alcuni casi, vengono codificate anche le caratteristiche della
narrazione per individuare una storia con un chiaro inizio, una parte centrale e una
fine (risoluzione) versus uno stile narrativo incoerente o confuso in cui la “l’evoluzione
della storia” è difficile da seguire. Sono stati ideati numerosi protocolli di valutazione e
di sistemi di codifica (Bretherton et al., 1990; Green et al., 2000).
Diverse linee di ricerca mostrano come le rappresentazioni sull’attaccamento mo-
dellino le interpretazioni e le spiegazioni che i bambini assegnano alle esperienze sociali
ed emotive. In uno studio, alcuni bambini di 3 anni, che si riteneva avessero un attac-
camento insicuro (ossia non ottimale), mostravano una maggiore tendenza a ricordare
le emozioni negative in un test di richiamo, mentre i bambini sicuri mostravano un
maggiore ricordo di emozioni positive relative allo stesso stimolo (Belsky et al., 1996).
La spiegazione potrebbe essere che i bambini insicuri presentano una tendenza distorta
a fare attenzione e a focalizzarsi sulle esperienze negative; forse perché questo è più coe-
rente con la propria esperienza o perché per loro questo schema, utilizzato nel passato,
si è rivelato particolarmente adattivo. Un altro studio su bambini dai 2 ai 6 anni e mez-
zo, ha riscontrato che l’attaccamento insicuro era associato a una minore comprensione
delle emozioni negative; rispetto ai bambini con attaccamento sicuro; i bambini con
attaccamento insicuro avevano maggiori difficoltà a spiegare o a trovare un senso alle
emozioni negative, in indagini sulla comprensione delle emozioni negli altri condot-
te in laboratorio e in contesti naturali (Laible e Thompson, 1998). Questi due studi
hanno dimostrato come, fin da un’età precoce, le rappresentazioni dell’attaccamento
influenzano il modo in cui i bambini elaborano le esperienze emotive.
Se queste “distorsioni” cognitive sull’attaccamento hanno o meno una possibilità
di inserimento diretto nel contesto clinico è un altro problema. Sarebbe prematuro e
scorretto considerare i pensieri dei bambini con attaccamento insicuro come delle di-
storsioni; ossia, i pensieri dei bambini insicuri che vedono i propri genitori come non
disponibili o incapaci di offrire un conforto e di supportarli con forza quando neces-
sario, potrebbero essere accurati. Il concetto di “distorsione” potrebbe invece essere più
pertinente alle situazioni in cui questi modelli o aspettative vengono riportati, o trasfe-
riti ad altre relazioni, con i pari, gli insegnanti e altri ancora. Pertanto, il trasferimento
ad altre relazioni di pensieri e di aspettative relative a genitori non disponibili/insen-
sibili, è probabilmente una delle ragioni per cui i bambini con attaccamento insicuro
mostrano maggiori problematiche nelle relazioni sociali e con i pari e sono a rischio
di problemi emotivi e comportamentali. Ciò non di meno, nonostante l’esistenza di
39
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
Nella ricerca psicologica sono stati generati numerosi modelli e paradigmi cogni-
tivi per studiare come i bambini piccoli comprendono la mente – la propria e quella
altrui (Flavell, 1999). Il focus di queste ricerche è l’età prescolare, dai 2 ai 6 anni circa.
Inoltre numerosi sono i concetti ideati e operazionalizzati all’interno di questa cornice
concettuale e di questa finestra di età: teoria della mente, assumere la prospettiva con-
cettuale e interpersonale dell’altro, empatia e comprensione delle emozioni. Almeno
agli inizi, la ricerca derivante da questa tradizione ha avuto un’importanza sostanziale
nello sviluppo di modelli di CBT. Questo perché la maggior parte di queste ricerche e
delle teorie soggiacenti cercano di identificare i processi rudimentali con cui i bambini
arrivano a comprendere i collegamenti fra i pensieri, i sentimenti e il comportamento.
Inoltre, come nel caso dei modelli dell’attaccamento e del social information processing,
le procedure utilizzate nella ricerca possono essere adattate al contesto clinico, anche se
la maggior parte delle misure identificate sono state sviluppate e validate su un’età che
di solito non è presa in considerazione per la CBT (ossia sotto i 6 anni).
Una domanda propria di questa linea di ricerca è se ci sia o meno un legame fra
l’emergere delle competenze sociali chiave nei bambini piccoli (per es. l’emergere della
comprensione emotiva), focus della ricerca, e le distorsioni dei pensieri e delle emozioni,
focus della clinica. L’insorgenza di pensieri sociali nella prima infanzia e delle differenze
individuali nei pensieri distorti (manifesti solo dopo che sono on-line) sembrerebbero
essere scollegate su un piano evolutivo. Pertanto, i risultati di indagini formali sulla
teoria della mente potrebbero essere irrilevanti al di fuori di un range di età 3-5 anni,
dal momento che i bambini in seguito raggiungono normalmente questa abilità (a ecce-
zione di quelli affetti da autismo e da quelli con ritardi cognitivi e del linguaggio, che
40
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
la acquisiscono più in là nello sviluppo). Così, per esempio, nelle ricerche formali che
verificano la presenza di una teoria della mente, i bambini con disturbo della condotta
sembrano non mostrare deficit (Happé e Frith, 1996). È necessario tenere sotto osser-
vazione l’empatia e alcuni costrutti correlati alla teoria della mente, fino alla finestra
temporale in cui i bambini vengono segnalati all’attenzione dei clinici. Il progresso in
questo settore è lento, anche se gli sforzi per sviluppare tali misure per la tarda infanzia
e l’adolescenza si sono intensificati negli ultimi anni (Happé, 1994; Bosacki e Astin-
gton, 1999). Per adesso, la ricerca nel campo della comprensione delle emozioni, della
mentalizzazione e di concetti simili, nella tradizione della psicologia evolutiva, deve
ancora essere collegata con le domande e i casi che all’attenzione dei ricercatori clinici.
Così, per esempio, non sappiamo ancora se le differenze individuali nella risposta dei
bambini al trattamento siano associabili a differenze individuali nei processi superiori
di comprensione delle emozioni e di mentalizzazione. Ci sono chiaramente prospettive
per una sintesi maggiore e questa è una linea di ricerca ancora più necessaria.
L’elenco di questi tre modelli e paradigmi per lo studio delle cognizioni sociali nei
bambini non è esaustivo. Piuttosto, questi sono stati scelti perché sottoposti a ricer-
che estese, perché hanno un valore pratico e possono essere tradotti all’interno di un
processo diagnostico clinico e perché, rispetto ai modelli tradizionali dello sviluppo
cognitivo, potrebbero fare più luce su come lavora la CBT.
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Thomas O’Connor e Cathy Creswell
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La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
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Thomas O’Connor e Cathy Creswell
Il contesto di trattamento
Fino a che punto sia possibile incorporare con successo la prospettiva evolutiva
nella CBT con i bambini, potrebbe avere meno a che fare con l’applicazione effettiva del
trattamento e di più con il contesto in cui questo viene erogato. Questa è l’implicazione
dei risultati ottenuti in numerosi gruppi di ricerche cliniche in cui era stata sperimentata
l’aggiunta do una componente familiare alla CBT con i bambini (vedere il Capitolo 7).
L’annessione di una componente familiare nel trattamento discende dalla constatazio-
ne che determinati processi familiari si accompagnano all’ansia del bambino. Dadds e
colleghi (Dadds e Barrett, 1996; Shortt et al., 2001) identificano uno di questi processi
nell’accrescimento, da parte della famiglia, delle risposte di evitamento. Si suggerisce
di includere la famiglia come parte del trattamento sulla base dei processi familiari che
44
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
Una delle ragioni alla base del debole legame fra prove empiriche e pratica clini-
ca della CBT con i bambini, è la difficoltà di misurare i processi socio-cognitivi. Per
esempio, un’importante lezione metodologica derivante dalla ricerca è quella che la
capacità dei bambini di dimostrare le proprie competenze socio-cognitive è influen-
zata dalla tipologia della valutazione. Un buon esempio si può trarre dalla misurazio-
ne della comprensione che i bambini hanno delle emozioni miste. Comprendere le
emozioni miste, ossia capire che un evento può provocare reazioni emotive positive
45
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
e negative, è una pietra miliare dello sviluppo della comprensione emotiva e delle
cause delle emozioni nei bambini, che ha implicazioni più ampie per il loro sviluppo
psicologico. Stabilire con precisione il momento in cui, nel corso dello sviluppo, si
può affermare che i bambini comprendono che gli eventi possono provocare emozioni
positive e negative, potrebbe sembrare un compito semplice. Tuttavia, la capacità dei
bambini di nominare le emozioni miste in risposta a un particolare evento dipende da
come viene presentato il compito. Questo è mostrato in uno studio su 50 bambini di
6 anni condotto da Brown e Dunn (1996). Essi hanno riscontrato che, se si diceva ai
bambini che un personaggio della storia aveva un atteggiamento sia positivo sia ne-
gativo verso un particolare evento, la maggior parte di essi (42 su 50) era in grado di
dare delle motivazioni per questi sentimenti misti; mentre, se non si diceva ai bambini
come si sentiva il personaggio e si chiedeva invece loro di dire come poteva sentirsi il
protagonista della storia, solo 16 facevano spontaneamente riferimento a sentimenti
positivi e negativi allo stesso tempo. Un numero ancora più esiguo di bambini (11 su
50) erano stati in grado di fare spontaneamente un esempio personale di un evento che
li aveva generato in loro sentimenti sia positivi sia negativi. Così, anche per la doman-
da “quando un bambino è in grado di comprendere le emozioni miste?”, dovremmo
supporre che questo avvenga circa a 6 anni. Tuttavia, questo potrebbe essere legato
al modo in cui operazionalizziamo la comprensione delle emozioni ambivalenti. Se
invece si pone la domanda in quest’altro modo “quando la comprensione delle emo-
zioni ambivalenti può essere inclusa nel contesto clinico?” allora la risposta non sarà
6 anni ma piuttosto un’età successiva, in cui i bambini riferiscono spontaneamente
sentimenti ambigui relativi a eventi delle proprie vite (che potrebbe essere più vicina
alle indicazioni di ricerca precedenti).
Un’ulteriore potenziale limitazione dell’estensione delle attuali ricerche sui proces-
si socio-cognitivi al contesto clinico è che molte valutazioni sperimentali hanno una
valenza emotiva neutra (per es. come nel caso dei compiti piagetiani) o, se ci sono delle
emozioni coinvolte, questo avviene all’interno di un contesto ipotetico, che non ha nes-
sun legame con il bambino (per es. come nel caso dei compiti di comprensione emotiva
in cui si chiede al bambino di prevedere l’emozione del protagonista di una vignetta).
L’applicabilità al contesto clinico delle metodologie più comunemente utilizzate e dei
relativi risultati viene molto probabilmente compromessa in seguito “all’impersonalità”
della valutazione. Ci si aspetta che i processi cognitivi relativi a eventi neutrali o ipote-
tici possano non essere tradotti nella psicologia individuale dell’adulto o del bambino.
Dopo tutto, per un pò di tempo è stato considerato che la vulnerabilità cognitiva alla
depressione (per es. l’attribuzione di eventi negativi a caratteristiche interiori e stabili
del sé) potrebbe non essere sempre attiva, ma emergere unicamente in risposta a eventi
negativi o in situazioni di umore negativo (per es. Teasdale, 1988). Prove recenti sugge-
riscono che si potrebbe accedere più facilmente ai pensieri dei bambini, fra cui alcuni
ascrivibili a possibili disturbi clinici, in una situazione di umore negativo. Per esempio,
nel proprio studio condotto su bambini di 5 anni, Murray e colleghi (Murray et al.,
2001) hanno trovato che i pensieri negativi (espressioni di disperazione o di inutilità
del sé) venivano si manifestavano spontaneamente quando si induceva un umore ne-
gativo; in questo caso attraverso un gioco a carte con un amico in cui la vittoria o la
perdita venivano manipolate sperimentalmente. I pensieri negativi non erano presenti
46
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
quando il bambino vinceva, ma era possibile osservarli quando perdeva. Inoltre, risul-
tava evidente un’associazione con l’esposizione a pensieri negativi e alla depressione
materna solo quando in cui il bambino stava perdendo al gioco. I risultati di Murray
et al. (2001) sono significativi nel dimostrare che i pensieri negativi (depressogeni)
espressi spontaneamente vengono osservati in bambini già dall’età di 5 anni, che questi
pensieri si osservano più comunemente fra coloro a rischio di depressione e che vengo-
no elicitati in contesti di umore negativo e non positivo (non negativo).
Un terzo esempio riguarda la distinzione fra la competenza e la performance nella
valutazione delle abilità socio-cognitive e il ruolo del contesto. Alcuni buoni esempi
sono forniti dal fatto che i bambini mostrano un’ampia variabilità intra-individuale
nell’esibizione della propria complessità cognitiva, come osservabile nelle discussioni
con i genitori, i coetanei e i fratelli (Brown et al., 1996; vedere anche Cole et al., 1997),
proprio come i ragazzi della prima adolescenza nell’uso che fanno della comprensione
emotiva e della capacità di mentalizzazione quando parlano di relazioni positive versus
quelle conflittuali (ÒConnor e Hirsch, 1999). Ne consegue che, affinché la ricerca
sui processi socio-cognitivi possa essere più utile su un piano clinico, deve essere posta
un’enfasi maggiore sul contesto sociale, relazionale o affettivo in cui queste vengono
condotte.
Il divario generale fra la teoria evolutiva e la pratica clinica non solo non è ne-
cessario ma è anche è contro-intuitivo. Questo stato di cose si spiega probabilmente
attraverso una serie di altri fattori che non hanno a che fare con il modo in cui viene
condotta la ricerca. Per esempio, c’è una generale mancanza di influenza incrociata
fra i risultati evolutivi e clinici nei giornali applicativi e di ricerca; i clinici tendono a
non leggere i risultati delle ricerche e, dal loro lato, i ricercatori “puri” fanno fatica a
spiegare il significato clinico dei propri risultati e a diffonderli al di fuori del contesto
accademico. In ogni caso, sono necessari maggiori sforzi per porre rimedio a tutto ciò.
Inoltre, includere una componente di teoria evolutiva nei corsi di addestramento alla
CBT è un buon punto di partenza, proprio come includere una discussione concen-
trata sulla teoria evolutiva nei testi diretti ai professionisti e alla clinica applicata (come
mostrato dal presente volume). Resta ancora da vedere i benefici che questi sforzi por-
teranno. La conoscenza della teoria evolutiva renderà più efficaci i terapeuti cognitivo
comportamentali? La conoscenza della ricerca in ambito evolutivo permetterà ai clinici
di identificare quegli individui che hanno maggiori probabilità di rispondere alla CBT?
Forse. Al momento, l’argomentazione più forte a favore dell’adozione di una prospetti-
va evolutiva è unicamente la promessa di un trattamento più efficace.
47
Thomas O’Connor e Cathy Creswell
Se esistessero dei pre-requisiti cognitivi all’efficacia della CBT, allora sarebbe pos-
sibile sviluppare una misura di screening per identificare quei bambini con maggiori
probabilità di rispondere a questa forma di trattamento. Similmente, se fossero noti
i fattori contestuali che ostacolano la CBT, allora sarebbe un lavoro ragionevolmente
semplice distinguere quei bambini che più facilmente risponderebbero a un trattamen-
to relativamente breve applicato all’interno di una cornice standard di CBT. Sfortu-
natamente, nonostante i molti anni di applicazione della CBT ai bambini, i progressi
su questi due fronti sono stati scarsi. Di conseguenza, i suggerimenti per il contesto
clinico sono necessariamente ipotetici. Ciò non di meno, delineiamo alcune ipotesi.
Prendiamo come punto di partenza la necessità di accertarsi, il prima possibile nel
corso del contatto clinico, della probabilità che il trattamento ha di riuscire o di fallire.
Le tematiche gemelle sviluppate in questo capitolo prevedono di tenere in considera-
zione la complessità socio-cognitiva e il contesto del bambino. Non ci sono indicatori
chiave del successo del trattamento. È importante tuttavia escludere alcuni fra i candi-
dati più ovvi. Pertanto, potrebbe essere importante una valutazione delle competenze
linguistiche e intellettive di base, utilizzando strumenti di valutazione cognitivi tradizio-
nali, in particolare se si dubita dell’adeguatezza della CBT a causa dell’età del bambino.
Tuttavia, i test standardizzati valutano unicamente le abilità intellettuali molto generali
e potrebbero non essere sensibili al tipo di processi cognitivi utilizzati nella CBT.
Fra le tipologie più specifiche di valutazione socio-cognitiva disponibili, quelle
sviluppate da Dodge e colleghi citate precedentemente sembrano essere applicabili al
contesto clinico. Le misure della comprensione delle emozioni in bambini più gran-
di, della capacità riflessiva e dell’abilità di utilizzare i propri e altrui stati mentali non
sono state ancora completamente sviluppate, ma potrebbe essere utile esplorare questo
campo. Per esempio ci sono prove, tratte da numerose fonti, che dimostrano come le
misurazioni basate su interviste sembrano andare bene per i bambini dagli 8 anni in
poi ed è possibile che questo sia il contesto ottimale per indagare questi processi socio-
cognitivi (per es. Target et al., 1998; Humfress et al., 2002). Inevitabilmente, tuttavia,
in assenza di misure o di metodologie stabilite, i clinici si troveranno di fronte a dover
sperimentare in prima persona come far venire fuori al meglio la capacità del bambino
di collegare pensieri, sentimenti e comportamenti.
I suggerimenti relativi alla valutazione del contesto del bambino sono più ovvi.
Viene solitamente condotta una valutazione accurata della famiglia del bambino e delle
relazioni familiari e l’importanza di questa valutazione è supportata dai risultati della
ricerca. In aggiunta alla valutazione della sintomatologia nei genitori, che potrebbero
entrambi alterare e complicare il trattamento, è utile effettuare un’analisi anche della
qualità della relazione genitore-bambino. Fortunatamente, esistono linee guida speci-
fiche sulle tipologie di relazione genitore-bambino che potrebbero suscitare interesse.
I risultati che indicano come la famiglia accresca l’evitamento del bambino e pertanto
contribuisca a mantenere e ad accentuare la sintomatologia sono veramente molti (Bar-
rett et al., 1996; Dadds e Barrett, 1996; Hudson e Rapee, 2001); ci sono, inoltre, una
serie di altre dimensioni relative alla relazione genitore-bambino, predominanti nella
ricerca, e che è utile incorporare in un processo di valutazione clinica della relazione
48
La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
Conclusioni
In conclusione, presentiamo una serie di affermazioni riassuntive. Primo, a oggi
l’allineamento fra la ricerca evolutiva “generale” nell’ambito dei processi socio-cognitivi
e la ricerca clinica/applicata sulla CBT con i bambini è scarso. Inoltre, queste linee di
indagine si basano su modelli e paradigmi ampiamente differenti. Secondo, e forse con-
seguente al del punto precedente, ci sono pochissime prove empiriche per un modello
evolutivo alla base della CBT con i bambini. In base ai risultati pubblicati, i casi in cui
l’aspetto evolutivo è stato inserito con successo all’interno di un approccio terapeutico,
sono limitati all’attenzione al contesto in cui veniva erogata la CBT (propriamente, come
parte di un modello familiare o meno) piuttosto che alla modifica della CBT di per sé.
Sorprendentemente ci sono poche linee guida relative a quali cambiamenti sarebbero
necessari per i bambini più piccoli versus quelli più grandi (vedere anche il Capitolo 8)
o su quali valutazioni dovrebbero essere fatte per stabilire l’appropriatezza di tali modi-
fiche. Terzo, la tesi alla base di questo capitolo sostiene che un approccio evolutivo alla
diagnosi e all’intervento/prevenzione potrebbe essere d’aiuto nel chiarire i meccanismi
di cambiamento nella CBT con i bambini e nell’identificare i predittori di una buona
risposta versus una negativa. Rimane compito della ricerca futura verificare l’ipotesi se-
condo cui un modello evolutivo della CBT migliorerebbe il successo terapeutico.
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La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva
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CAPITOLO 4
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V. Robin Weersing e David A. Brent
attualmente disponibili (per es. Kazdin, 1995; Russell e Shirk, 1998; Weisz et al.,
1998; Kazdin, 2001). Per esempio, si sa sorprendentemente poco di come le psicotera-
pie efficaci producano esisti positivi per i ragazzi e le loro famiglie. Nel 1990, Kazdin
e colleghi hanno passato in rassegna la letteratura sui risultati dei trattamenti per i
ragazzi e hanno riscontrato che più del 3% degli studi includeva misure del processo
terapeutico (Kazdin et al., 1990).In una rassegna recente della letteratura sugli ESTs
per i ragazzi, Weersing e Weisz (2002) hanno alzato la stima al 10% anche se hanno
utilizzato una definizione in qualche modo differente dei meccanismi del trattamento.
Comprendere in che modo lavora la terapia potrebbe essere una cosa di gran valore,
per i ricercatori coinvolti nella verifica di modelli della psicopatologia e dell’interven-
to (per es. Judd e Kenny, 1981; Weersing e Weisz, 2002) e per i professionisti che
cercano di applicare efficacemente trattamenti nella forma più consistente e “pura”
possibile (per es. Scott e Sechrest, 1989). Le analisi sui meccanismi della terapia po-
trebbero servire anche a ridurre la lista di 300 e più trattamenti per i bambini e gli
adolescenti in maniera utile. Sembra probabile che il numero dei meccanismi di azio-
ne terapeutica sia minore rispetto a specifici e identificati protocolli di trattamento e
potremmo riuscire a organizzare, sintetizzare e snellire il nostro portfolio di interventi
focalizzandoci su come i membri della nostra famiglia terapeutica siano collegati fra
loro sul piano dei meccanismi in azione.
Nel resto del capitolo, forniremo una rassegna della letteratura esistente che
collega i processi terapeutici ai risultati del trattamento per bambini e adolescen-
ti. Escluderemo gli “studi sulla modulazione del trattamento” – ossia, le analisi dei
meccanismi d’azione terapeutici specifici di un singolo orientamento teorico o pro-
gramma terapeutico (come gli studi che indagano il ruolo del cambiamento cognitivo
nel produrre gli effetti propri della CBT su giovani depressi). I lettori sono invitati a
consultare Weersing e Weisz (2002) per una rassegna recente sulla letteratura relativa
alla modulazione del trattamento nell’infanzia e nell’adolescenza. La ricerca sul pro-
cesso terapeutico, si basa, in gran parte, su un modello generico di azione terapeutica,
in cui si ritiene che gli elementi comuni del trattamento, come sperimentare una
relazione terapeutica accogliente, siano responsabili della gran parte dell’esito della
terapia. Si ipotizza che differenti tipologie di terapia (comportamentale, psicodina-
mica) per differenti problematiche (ansia, delinquenza) lavorino attraverso gli stessi
meccanismi fondamentali. In accordo con ciò, nella nostra rassegna della ricerca sul
processo terapeutico per i giovani, includiamo trattamenti presi da un’ampia gamma
di orientamenti teorici, trattando un insieme vasto di problematiche della giovinezza
e della famiglia.
56
Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
leli, piuttosto che collegati. Come precedentemente menzionato, meno del 3% degli
studi sugli esiti della terapia includeva misure generali dei processi terapeutici, come
la relazione terapeutica (Kazdin et al., 1990). Similmente, pochissimi studi che si
focalizzano sui processi terapeutici collegano questi meccanismi terapeutici generali
agli esiti nella vita reale, oggetto tipico delle prove cliniche di ricerca (Shirk e Russell,
1996).
La ricerca sui processi e sugli esiti della terapia per gli adulti è molto più estesa
della letteratura sui giovani, con circa 2300 risultati all’ultimo principale conteggio
(Orlinsky et al., 1994). I risultati di questo esteso corpo di ricerca sugli adulti sono stati
sintetizzati in numerosi modelli concettuali, di cui forse il più importante è il model-
lo generico della psicoterapia (Orlinsky e Howard, 1987). Nella sua forma originale,
il modello generico includeva cinque dimensioni del processo terapeutico che erano
considerate maggiormente responsabili degli esiti successivi: (1) la presenza di un con-
tratto terapeutico (ossia il format, la durata, la frequenza); (2) procedure terapeutiche
tecniche; (3) la creazione di una relazione terapeutica; (4) la sintonizzazione del cliente
su se stesso (la motivazione e l’apertura al cambiamento) e (5) gli effetti seduta per se-
duta (le realizzazioni terapeutiche). Orlinsky e Howard hanno anche identificato, nel
processo terapeutico, una serie di input relativi al terapeuta, al cliente e alla società (per
es. l’etnia) e una serie di output o esiti del trattamento. Con una revisione nel corso del
tempo (Orlinsky et al., 1994), il modello generico è stato un’euristica utile per orga-
nizzare questo corpo di ricerche, includendo nuovi risultati all’interno di un contesto
significativo e generando nuove ipotesi per la ricerca.
La ricerca sul processo terapeutico nei bambini manca di una simile cornice orga-
nizzativa. Una soluzione potrebbe essere esportare il ben noto modello generico della
psicoterapia perché costituisca la base concettuale per la ricerca sul processo terapeutico
nell’infanzia. Secondo gli autori, questo potrebbe introdurre soltanto più confusione
che chiarezza, dal momento che il modello generico non coglie alcuni aspetti pragma-
tici chiave del lavoro terapeutico con i bambini e gli adolescenti. Per esempio, diver-
samente dagli adulti, i bambini e gli adolescenti raramente entrano attivamente nel
proprio contratto terapeutico, collaborano per allineare i parametri del trattamento ai
propri bisogni percepiti o arrivano al trattamento dopo aver identificato un problema
o sono aperti al cambiamento. Piuttosto, i bambini e gli adolescenti vengono portati in
terapia dai genitori – se non contro la propria volontà, spesso senza essere consapevoli
che qualcosa non va in loro e con scarse aspettative sull’utilità della psicoterapia per la
propria vita (Yeh e Weisz, 2001). Dato questo livello di influenza ambientale sulle vite
dei ragazzi, il focus dei trattamenti potrebbe essere diretto solo in parti ai ragazzi stessi,
come evidenziato dall’inclusione, in questa rassegna sulla ricerca sul processo terapeu-
tico in età giovanile, del parent training (Patterson e Chamberlain, 1994) e della terapia
familiare (Alexander et al., 1976).
Dati i dubbi sull’applicabilità dei modelli adulti al processo terapeutico infantile,
organizzeremo la nostra rassegna della letteratura sul processo terapeutico in aree tema-
tiche piuttosto che sulla base del modello di Orlinsky e Howard. Limiteremo anche la
rassegna agli studi puramente descrittivi e invece ci focalizzeremo sulle analisi che cer-
cano di collegare i processi terapeutici ai cambiamenti nel livello di stress, dei sintomi
e del funzionamento dei bambini e degli adolescenti.
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V. Robin Weersing e David A. Brent
Dal primo studio sul processo terapeutico nei bambini condotto negli anni ’40
fino a tutti gli anni ’60, la ricerca in questo ambito si era focalizzata quasi esclusi-
vamente sulla caratterizzazione del processo terapeutico del gioco non direttivo. La
maggior parte di questi primi lavori sembra essere una codifica microanalitica di tutti
i comportamenti che si verificano nel corso di quest’ora di ludoterapia, piuttosto che
una misurazione selettiva di quelle interazioni terapeuta-bambino considerate, su un
piano teorico, componenti significative del cambiamento. In questa prima letteratura
e nei seguenti studi di follow-up, sono stati fatti alcuni tentativi per misurare come
i comportamenti di queste gioco-terapie potessero variare nel corso del trattamento
(Landisberg e Snyder, 1946), in base al livello evolutivo del bambino (Lebo, 1952),
in bambini disturbati versus bambini “normali” in simulazioni di terapia (Moustakas
e Schalock, 1955) e a seconda del tipo di ludoterapia, non direttiva e psicodinamica
(Dana e Dana, 1969; Boll, 1971). In questi primi decenni di ricerca sul processo te-
rapeutico infantile, non sono stati fatti tentativi per collegare le misure descrittive del
processo terapeutico ai cambiamenti nella sintomatologia in seguito al trattamento.
Fino dalla metà degli anni ’60, l’interesse nella classificazione esaustiva di tutti i
comportamenti che si verificavano nel corso della terapia è scemato ed è stato sostituito
da un’enfasi sull’analisi dei processi terapeutici che si riteneva facilitassero od ostaco-
lassero direttamente l’esito positivo. Una serie di studi hanno analizzato i livelli di
scontro, di guida, di insegnamento e di strutturazione del terapeuta includendoli tutti
nella categoria più generale di “direttività” dello stile terapeutico. È interessante notare
che tutte le analisi della direttività del terapeuta nella rassegna degli autori erano state
condotte nel contesto di una terapia con bambini aggressivi, impulsivi o disfunzionali
e le loro famiglie e pertanto si sa poco della direttività del terapeuta con ragazzi che
hanno sintomi interiorizzati. Un’analisi della flessibilità del terapeuta nella CBT classica
per bambini ansiosi (Kendall e Chu, 2000) non ha riscontrato relazioni significative fra
la direttività e il risultato. Tuttavia, l’attinenza di questo studio con il problema della
direttività è dubbia, dal momento che la flessibilità sembrava essere misurata attraverso
una personalizzazione del protocollo in direzione degli interessi e delle competenze del
bambino (per es. modificare il mezzo con cui si presenta un dizionario delle emozioni)
piuttosto che da un atteggiamento interpersonale del terapeuta permissivo o guidato
dal cliente.
In terapie non comportamentali per problemi di comportamento disfunzionale,
sembra esserci un effetto positivo del terapeuta che assume un atteggiamento direttivo
con i propri piccoli clienti. Nell’unico studio pubblicato che mette in relazione i proces-
si con i risultati per questo tipo di terapia, Truax e Wittmer (1973) hanno trovato che
elevati livelli di scontro del terapeuta, rivolti a “meccanismi di difesa”, erano significa-
tivamente associati con esiti migliori nella terapia psicodinamica di gruppo con giovani
delinquenti, fra i quali un minor tempo passato in prigione al follow-up di un anno.
58
Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
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V. Robin Weersing e David A. Brent
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Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
terapeuti potrebbe non essere del tutto negativa e che un certo livello di ribellione dal
lato dei genitori, insieme a una quantità ottimale di stimolazione e di perseveranza da
parte del terapeuta, sia non solo prevedibile ma addirittura desiderabile (Patterson e
Chamberlain, 1994).
61
V. Robin Weersing e David A. Brent
dizioni facilitanti, ma non abbiamo scoperto studi di terapia infantile che esaminassero
la genuinità o l’empatia senza misurare anche il calore umano. Molti fra i primissimi
sistemi di codifica descrittivi della ludoterapia, brevemente passati in rassegna preceden-
temente, includevano, nella classificazione completa dei comportamenti del terapeuta
e del bambino, categorie, per il terapeuta, vagamente simili al calore, alla riflessione o
rielaborazione e all’osservazione attenta (per es. Moustakas e Schalock, 1955).
La maggior parte delle ricerche che analizzano il legame fra gli effetti delle condi-
zioni facilitanti e gli esiti delle terapie infantili non comportamentali sono state con-
dotte da Truax e colleghi nel corso della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, nel
corso di terapie di gruppo con giovani delinquenti istituzionalizzati. Complessivamen-
te, queste indagini supportano l’ipotesi che elevati livelli di condizioni facilitanti hanno
effetti positivi sul concetto di sé degli adolescenti (per es. Truax, 1971) e in misure
del livello complessivo di funzionamento, come per esempio il tempo passato fuori di
prigione (per es. Truax et. Al., 1970). I risultati più consistenti e meno ambigui sono
stati ottenuti da Truax et al. (1996) in una terapia di gruppo con ragazze delinquenti.
Era stata sottoposta a valutazione la capacità dei terapeuti di fornire condizioni facili-
tanti, basandosi su osservazioni precedenti del loro lavoro con un campione similare di
clienti, e i gruppi terapeutici erano stati classificati sulla base della presenza di un livello
elevato o basso di condizioni facilitanti prima dell’inizio del trattamento. In media, i
membri del gruppo con elevato livello di condizioni facilitanti dava risultati migliori
in una serie di misure dell’esito terapeutico – concetto di sé, accettazione delle regole
sociali, atteggiamento verso la famiglia e tempo passato al di fuori di istituti.
La relazione fra le condizioni facilitanti del terapeuta e gli esiti positivi osservato
con gli adolescenti potrebbe restare vero anche con i bambini. In uno studio descrittivo
della ludoterapia centrata-sul-cliente, Siegel (1972) ha osservato che i bambini a cui
venivano forniti elevati livelli di condizioni facilitanti, rispetto a quelli a cui venivano
forniti livelli bassi di condizioni facilitanti, nel corso delle sedute, con il progredire
del trattamento, rispondevano con affermazioni su di sé più positive e penetranti. In
un’analisi processo-risultato sugli effetti delle condizioni facilitanti, Truax et al. (1973)
hanno diviso i propri terapeuti in due categorie, alto e basso livello di condizioni facili-
tanti (sulla base del calore umano e dell’empatia; la genuinità si era rivelata una misura
on affidabile). I bambini nevrotici che avevano ricevuto la terapia da terapeuti che
mostravano un livello elevato di condizioni facilitanti, a giudizio dei genitori, avevano
un funzionamento complessivo decisamente migliore alla fine del trattamento; mentre
i bambini trattati da terapeuti che fornivano un livello basso di condizioni facilitanti,
di nuovo secondo il giudizio dei genitori, erano peggiorati significativamente.
La relazione terapeutica
La nostra rassegna del processo terapeutico con i bambini, fino a ora si è focalizzata
sugli stili interpersonali del terapeuta che sono stati collegati con l’esito del trattamento.
Lo studio della relazione terapeutica come meccanismo di cambiamento prevede l’ana-
lisi dell’interazione fra gli stili del terapeuta e del cliente e l’analisi dei comportamenti,
atteggiamenti e sentimenti che il terapeuta ha solo parzialmente il potere di manipo-
62
Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
lare. In quanto tale, la qualità della relazione terapeutica potrebbe essere influenzata
da alcune caratteristiche dei bambini e degli adolescenti, come per esempio un passato
traumatico (Eltz et al., 1995) e lo sviluppo di una relazione positiva potrebbe in parte
essere un aspetto del processo terapeutico, facilitato dai comportamenti e dalle tecniche
del terapeuta, e in parte funzione delle caratteristiche preesistenti, del bambino e del
terapeuta, esterne al processo terapeutico in quanto tale.
Come definita da Bordin (1979), la relazione terapeutica generalmente si intende
costituita da due principali componenti: (1) il legame terapeutico, o i sentimenti positi-
vi reciproci fra cliente e terapeuta e (2) la collaborazione attiva, che prevede una visione
condivisa degli obiettivi del trattamento e una collaborazione sui compiti terapeutici
necessari per il conseguimento di questi obiettivi. Nella letteratura sulla psicoterapia
per gli adulti, la costruzione di una relazione terapeutica solida si è rivelata il migliore
predittore singolo del processo terapeutico (vedere Horvath e Symonds, 1991), con una
correlazione piuttosto affidabile fra 0.20 e 0.30 con gli esiti della terapia (per es. Martin
et al., 2000). Shirk e Saiz (1992) hanno sostenuto che la relazione terapeutica potrebbe
contribuire in maniera ancora più significativa all’esito della terapia con i bambini e gli
adolescenti, a causa della condizione di “clienti involontari” in cui numerosi bambini e
adolescenti si trovano all’inizio della terapia e dei deficit sociali che si suppongono alla
base dello sviluppo e del mantenimento di numerose gravi difficoltà.
Certamente, i bambini e i genitori indicano spesso l’esperienza di una relazione te-
rapeutica positiva come una dimensione critica del trattamento, anche negli interventi
a base comportamentale che hanno una dose piuttosto ingente di procedure tecniche
e di esercizi da fare a casa. Per esempio, in uno studio di Motta e Lynch (1990), due
terzi dei genitori i cui bambini avevano ricevuto una terapia comportamentale per
problemi di acting-out, disattenzione e difficoltà scolastiche, avevano identificato la re-
lazione terapeutica come la componente più importante del protocollo di trattamento
dei propri bambini; nessun genitore aveva giudicate le tecniche comportamentali di
primaria importanza per il risultato finale. Similmente, in uno studio di follow-up su
partecipanti a una CBT, in una prova clinica per l’ansia, il 44% dei bambini e degli
adolescenti avevano giudicato la relazione sviluppata con il proprio terapeuta l’aspetto
più importante del trattamento (la risposta più popolare fra tutte; Kendall e Southam-
Gerow, 1996). Al contrario, la gestione della propria ansia era stato considerato il fat-
tore più importante dal 39% dei partecipanti. I problemi nella relazione terapeutica
si sono rivelati un predittore significativo dell’abbandono del trattamento nel corso di
prove cliniche o di gruppi di parent-training per bambini antisociali (Kazdin e Wassell,
1998) e nel corso di terapie eclettiche prestate in centri comunitari di assistenza per
bambini (Garcia e Weisz, 2002).
Tuttavia, mentre l’importanza di una relazione terapeutica positiva sembra essere
chiara per i clienti, gli effetti reali della relazione sui sintomi e sul funzionamento
sono definiti con minore chiarezza. Nella rassegna degli autori, sono stati trovati
dieci studi processo-risultato in funzione della relazione (vedere Tabella 4.1). In tre
di questi studi, le correlazioni della qualità della relazione terapeutica con il risulta-
to, in direzione positiva, erano in generale non significative (Motta e Lynch, 1990;
Motta e Tobin, 1992; Kendall, 1994). I rimanenti sette studi forniscono alcune prove
a favore di un collegamento fra la relazione e l’esito della terapia, ma i risultati sono
63
V. Robin Weersing e David A. Brent
Sintesi
La letteratura sul processo terapeutico con i bambini e gli adolescenti è scarsa e di-
spersa; tuttavia, da questo corpo di lavori, emergono poche tematiche costanti. Primo,
per le famiglie è importante lo stile interpersonale del terapeuta. La qualità della rela-
64
Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
zione terapeutica, in particolare, è molto importante sia peri genitori sia per i bambini.
Le relazioni calorose vengono apprezzate e ricordate, a volte anche molti anni dopo
(Kendall e Southam-Gerow, 1996). La relazione terapeutica è considerata centrale per
l’esperienza terapeutica in tutte le tipologie di intervento terapeutico e in numerosi
tipi di problematiche dei bambini (vedere Tabella 4.1.). Inoltre, una cattiva relazione
potrebbe rappresentare per le famiglie una ragione sufficiente per interrompere il trat-
tamento – una ragione ancora più forte della percezione di uno scarso miglioramento
nella sintomatologia (per es. Garcia e Weisz, 2002).
Tabella 4.1 La qualità della relazione terapeutica e gli esiti del trattamento
Kazdin e Parent Training + Comportamento Sì/No La relazione dei genitori con il tera-
Wassel CBT al bambino disfunzionale peuta non correlava direttamente con
(2000) l’esito. La percezione dell’importanza
del trattamento era in relazione con il
cambiamento terapeutico.
cont...
65
V. Robin Weersing e David A. Brent
Florsheim Multiplo, tratta- Delinquenza Sì/No Una relazione positiva all’inizio della
et al. menti utilizzati terapia era predittore di un esito ne-
(2000) nell’assistenza più gativo, ma una relazione positiva in un
comune trattamento di 3 mesi era predittore di
tassi più bassi di recidività.
Noser e Multiplo, tratta- Eterogenea Sì/No La qualità della relazione valutata dai
Bickman menti utilizzati (campione Fort bambini era collegata a cambiamenti
(2000) nell’assistenza più Bragg) positivi riferiti dai genitori, dai terapeuti
comune e dagli intervistatori. Non era predittiva
degli esiti valutati dai bambini stessi.
Green et al. Ricovero indivi- Eterogenea Sì/No L’alleanza positiva con il bambino era
(2001) dualizzato (campione di pa- predittore di un buon esito, ma la re-
zienti ricoverati) lazione positiva con i genitori era pre-
dittore di un aumento nei sintomi inte-
riorizzati.
Johnson et al. Terapia familiare Famiglie a rischio Sì Le valutazioni degli adolescenti e dei
(2002) di perdere la cu- genitori sulla relazione correlavano con
stodia dei propri l’esito. Tuttavia, ci sono alcuni proble-
figli adolescenti mi relativi alla numerosità del campio-
ne, alle analisi e alla non indipendenza
delle valutazioni.
Secondo, anche se i fattori generici del processo sono importanti per i pazienti, non
è molto chiaro se questi abbiano effettivamente un impatto sui sintomi e sul funzio-
namento, e le prove suggeriscono che le variabili di processo di solito non influenzano
l’esito in maniera semplice e lineare. Gli studi sulla direttività del terapeuta ne sono un
buon esempio. Una scarsa direttività potrebbe rallentare il progresso (per es. Braswell
et al., 1985), ma troppa potrebbe provocare reazioni negative e una scarsa compliance al
trattamento (per es. Patterson e Forgatch, 1985). Le analisi sulla relazione terapeutica
mostrano un pattern simile di complessità (o forse di incoerenza) nei risultati.
Terzo, i disegni sperimentali della maggior parte degli studi sul processo terapeuti-
co non sono riusciti a chiarire queste relazioni complesse fra il processo e l’esito. Salvo
alcune importanti eccezioni, come il lavoro di Patterson e colleghi, il processo e l’esito
vengono valutati simultaneamente, dalla stessa persona e spesso alla fine del tratta-
mento. Data la natura correlazionale della maggioranza di queste ricerche, una simile
strategia valutativa rende impossibile determinare l’ordine temporale dei cambiamenti
nei processi e nei sintomi, la chiave per determinare la direzione della causalità di qua-
lunque relazione processo-risultato osservata.
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Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi
69
SECONDA PARTE
COINVOLGIMENTO E PROCESSO
DIAGNOSTICO
CAPITOLO 5
Il coinvolgimento e l’intervista
motivazionale
Ulrike Schmidt
Institute of Psychiatry, Londra, UK
Introduzione
Nella pratica psichiatrica e psicologica, si presume spesso che, quando le persone
si presentano per una valutazione, il solo fatto di esserci indichi che la persona ha
deciso che ha bisogno di “qualcosa”, una diagnosi o un trattamento che sia. Questo
implica anche che il paziente riconosca che qualcosa non va, che qualcosa lo angoscia
e che desidera cambiare o superare il proprio “problema”. Si presume inoltre che
il lavoro dei professionisti della salute sia fornire informazioni, consigli o un aiuto
pratico, così come indurre un cambiamento positivo, un miglioramento nella salute
e una riduzione del livello di stress dei propri pazienti. Fino a un certo punto, queste
assunzioni tacite hanno una certa validità, ma spesso, quando si lavora con pazienti
giovani, anche se i genitori potrebbero sottoscriverle a pieno, ci si potrebbe imbattere
in delle disparità molto grandi fra gli obiettivi dei genitori e quelli del professionista
da un lato e quelli dei ragazzi dall’altro. Alcune fra queste discrepanze derivano da
problematiche evolutive; altre da aspetti tipici del disturbo o della problematica in
quanto tale.
Per esempio, uno dei compiti evolutivi importanti dell’adolescenza è la costruzio-
ne di un’identità individuale e la conquista dell’indipendenza dalla famiglia di origine.
Fare e pensare cose che vanno contro l’autorità e le regole degli adulti, è una par-
te normale del processo di crescita. Frequentare un ambulatorio e parlare con adulto
estraneo, che viene visto come un’estensione dell’autorità genitoriale, di qualcosa che
l’adolescente considera “non proprio un problema” o che vorrebbe rimanesse un’espe-
rienza privata vergognosa e strettamente protetta, è qualcosa di difficile e spiacevole e
all’inizio il ragazzo potrebbe rifiutarla. Ci potrebbero anche essere importanti caratteri-
stiche del disturbo o del comportamento problematico che il ragazzo considera positive
73
Ulrike Schmidt
e che non desidera eliminare. Per esempio, Lucy, una ragazza di 15 anni che prima era
un pò pienotta e veniva presa in giro dai propri compagni per il peso, venne portata alla
clinica dalla madre perché era stata vista a scuola buttare via il proprio pranzo, perché
aveva perso peso e aveva ammesso ai propri genitori di sentirsi male appositamente
ogni giorno. Inoltre, a volte si tagliuzzava gli avambracci quando mangiava più di
quanto avrebbe dovuto. Non era disponibile a sottoporsi ad alcun trattamento perché
era contenta del proprio nuovo aspetto magro, che significava non essere più presa
in giro ed essere ammessa in un gruppo popolare di ragazze a scuola e avere il primo
fidanzato. I professionisti della salute mentale pertanto devono mantenere un difficile
equilibrio fra ciò che il paziente vorrebbe, ciò che desiderano i genitori e ciò che egli,
come clinico, giudica necessario. La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è un
trattamento orientato all’azione che richiede tradizionalmente un paziente volitivo e
collaborativo, motivato al cambiamento. Coinvolgere il paziente giovane per metterlo
in grado di fare un uso ottimale di tutto ciò che la CBT ha da offrire è un compito
difficile ma cruciale.
Di seguito, vengono descritti alcuni concetti teorici (per es. modelli di cambia-
mento comportamentale) e una cornice clinica (basata sull’intervista motivazionale),
che sono utili nel lavoro con i pazienti giovani, per coinvolgerli e aiutarli a sviluppare
obiettivi di cambiamento personale riducendo così l’ambivalenza e la resistenza al cam-
biamento.
74
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
75
Ulrike Schmidt
• Scarsa convinzione e scarsa sicurezza: Scopri dove ci sono idee fallaci o mancan-
ti nella conoscenza che il tuo paziente ha del problema. Incoraggialo a pensare
ad aspetti che precedentemente non aveva considerato. Forniscigli informazioni
nuove e rilevanti. L’aspetto di novità dell’informazione è molto importante per su-
scitare interesse (K. Eammons, comunicazione personale). Per esempio, potrebbe
essere interessato a prendere in prestito un libro nuovo o una videocassetta? Poni
l’accento sulla libertà di scelta personale.
Evidenzia il fatto che capisci come il problema attualmente possa non dargli fasti-
dio. Comunicagli che accetterai qualunque cosa egli dovesse decidere relativamente
al cambiamento, ma suggeriscigli di pensarci su e di prendere in considerazio-
ne questa eventualità. Chiarisci che se dovesse essere maggiormente interessato
al cambiamento saresti lì per aiutarlo in ogni maniera possibile e per offrirgli il
supporto necessario.
• Bassa convinzione e elevata sicurezza: Aiuta il paziente a identificare e discutere le
discrepanze fra ciò che egli desidera per se stesso nel futuro e la situazione in cui
si trova al momento. Aiutalo a riconoscere queste divergenze e le mancanze nelle
informazioni che ha. Discuti con il paziente la sua gerarchia di valori e aiutalo a
decidere cosa considera più importante per la sua vita. Enfatizza nuovamente la
totale libertà di scelta del paziente.
• Elevata convinzione ed elevata sicurezza: Lavora con il paziente per prevedere e
anticipare eventuali momenti di difficoltà. Offrigli informazioni, consigli pratici e
addestralo in competenze specifiche da utilizzare come abilità alternative, lasciagli
decidere liberamente cosa può essere più utile a sostegno dei propri sforzi. Identi-
76
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
Abbiamo inoltre riscontrato che è utile avere a disposizione una scala aggiuntiva
che misuri quanto le altre persone vicine al paziente sono desiderose di vedere un
cambiamento. Questo permette di evidenziare il contesto sociale in cui si verifica il
mutamento.
Quanto giudichi importante cambiare ….? Su una scala da 0 a 10, dove 0 indica per nulla
importante e 10 indica estremamente importante, dove ti collocheresti?
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Per nulla Estremamente
importante importante
Quanto ti senti sicuro di riuscire a cambiare…, se dovessi decidere di farlo? Su una scala
da 0 a 10, dove 0 sta per nulla sicuro e dove 10 sta per del tutto sicuro, dove ti collocheresti?
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Per nulla Estremamente
sicuro sicuro
77
Ulrike Schmidt
Per esempio, sorgeranno dei conflitti se ci sarà una grande disparità fra i differenti
membri della famiglia relativamente alla prontezza al cambiamento. Le famiglie con
un ragazzo che ha dei problemi potrebbero richiedergli di cambiare istantaneamente,
cosa che potrebbe portare a un ambiente “non motivante”, in cui c’è un elevato tas-
so di conflittualità e di espressione di emozioni negative. In alternativa, differenze di
opinioni fra i genitori sulla gravità della situazione potrebbero paralizzare qualunque
tentativo di modifica. Questi esempi mostrano la necessità di condurre un’ampia ana-
lisi del contesto psicosociale.
L’intervista motivazionale
Parallelamente allo sviluppo di questi modelli di comprensione del cambiamento,
è stata sviluppata su basi empiriche l’intervista motivazionale (MI), una forma di inte-
razione terapeutica svincolata da qualunque approccio teorico (per una rassegna vedere
Miller 1995, 1998, 2000; Miller e Rollnick, 2002). Le tecniche di intervista si basano
sull’osservazione di come il comportamento del terapeuta può influenzare il risultato.
Per esempio, il cliente di solito mostra una certa resistenza quando il terapeuta utilizza
uno stile confrontativo deciso ed eccessivo e questa stessa resistenza scompare del tutto
nel caso dell’approccio centrato-sul-cliente. Miller ha sviluppato un intervento breve,
the drinker check-up (il check-up del bevitore), in cui venivano operazionalizzati alcuni
dei fattori noti per influenzare positivamente l’esito della terapia. Questo check-up,
che prevedeva un feedback motivazionale, veniva paragonato con uno che utilizzava
un approccio confrontativo. Il risultato, la quantità di alcol bevuta a distanza di un
anno, era peggiore nel gruppo di pazienti che avevano ricevuto un feedback in modalità
confrontativa (Miller et al., 1993). In un ulteriore studio, è stato trovato che, se si dava
un feedback motivazionale all’inizio dell’intervento prima del ricovero, i pazienti ave-
vano un risultato migliore. I terapeuti di questo gruppo riferivano che i propri pazienti
avevano partecipato con maggiore pienezza al trattamento e sembravano essere più
motivati (Bien et al., 1993; Brown e Miller, 1993).
78
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
1. L’ascolto riflessivo. Al livello più basilare, la riflessione viene utilizzata come tenta-
tivo per comprendere la prospettiva del paziente. È pertanto una sorta di verifica
di un’ipotesi. Attraverso la riflessione, il terapeuta chiede al paziente: “è questo che
intendevi dire?” e questo implica che il paziente è l’esperto del proprio problema
e non il professionista. Strategicamente si utilizzano forme differenti di riflessione
(come l’iper-reazione, la iporeazione, la doppia riflessione) quando i clienti sono
ambivalenti o resistenti al cambiamento (vedere di seguito la sezione sulla resisten-
za). L’utilizzo della riflessione nella MI la rende differente dalla CBT in cui si uti-
lizza l’interrogazione socratica. Tuttavia, entrambe le metodologie hanno obiettivi
simili – ossia facilitare la scoperta di sé – soprattutto se la riflessione viene utilizzata
con scopi strategici. Si potrebbe sostenere che la riflessione è meno intrusiva del-
l’interrogazione socratica e che pertanto potrebbe essere più appropriata nei primi
stadi dell’incontro terapeutico, soprattutto con i clienti riluttanti al cambiamento.
2. L’Affermazione. Molti ragazzi che si presentano con un problema potrebbero aver
avuto feedback negativi dai coetanei o dalla famiglia sulle proprie difficoltà e po-
79
Ulrike Schmidt
80
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
e tutto si risolvesse?”
9. Enfasi sulla scelta personale
Per esempio, “cosa desidereresti succedesse in seguito al nostro incontro di oggi?”
10. Suggerimenti e feedback relativi a eventuali problemi o rischi per la salute: Offri questi
suggerimenti se è il caso, senza dare lezioni o minacciare. Potrebbe essere necessario
chiedere il permesso al paziente di fare tutto ciò. Per esempio, “Ho visto una serie di
persone giovani con difficoltà simili alle tue – vorresti che ti parlassi del tipo di difficoltà
che tendono a incontrare le persone con questo problema e cosa hanno trovato utile?”
11. Offrire una lista di possibili alternative di cambiamento
Per esempio, “una possibilità che abbiamo è inviarti a un counselor per analizzare con
lui più in profondità alcune questioni di cui abbiamo già parlato. Un’altra alternativa
potrebbe essere quella di prescriverti alcuni farmaci, che potrebbero aiutarti. Cosa pre-
feriresti?”
Gestire la resistenza
All’interno del paradigma della MI, la resistenza è considerata un risultato del-
l’interazione fra il cliente e il terapeuta e non qualcosa che è localizzato all’interno del
cliente. Questo permette di riconoscere che il comportamento del terapeuta può “far
scendere o salire” il livello di resistenza del cliente. È più probabile che si verifichi una
resistenza quando il cliente sperimenta una potenziale perdita di libertà o di possibilità
di scelta (Moyers e Rollnick, 2002). Questo produce inevitabilmente un desiderio di
contro-reagire alla percezione di perdita della possibilità di scelta. La MI può essere
utile nel rispondere a questo tipo di resistenza, mentre altre tipologie più intrapersonali
di resistenza potrebbero essere meno accessibili a questa metodologia.
Nella MI vengono utilizzate due risposte per gestire la resistenza: quella riflessiva o
quella strategica. Di seguito forniamo degli esempi di entrambe le tecniche:
1. Esprimere rispetto nei confronti del paziente: per es. riconoscere la riluttanza a essere
presenti “Apprezzo il fatto che non sia stata per te una decisione facile quella di venire
qui oggi”
2. Iper e ipo reazione: Queste sono due forme di riflessione che indirizzano la persona
verso il cambiamento.
Per esempio, se il paziente afferma di non avere proprio un problema, il terapeuta
riflette questa affermazione, minimizzando lo scarso desiderio di cambiare (iporea-
zione). Lo scopo è portare il paziente a esprimere il proprio disaccordo.
Allo stesso modo, nel caso del cliente che dipinge un quadro completamente fune-
sto delle proprie difficoltà, il terapeuta esagera ancor di più le espressioni del pa-
ziente, ossia ha una iper-reazione, di nuovo allo scopo di fargli esprimere il proprio
disaccordo.
3. La riflessione delle emozioni: Piuttosto che riflettere i contenuti della resistenza del
paziente, potrebbe essere utile riflettere gli stati emotivi che si celano dietro questi
contenuti, per aiutare il paziente a sentirsi maggiormente compreso.
81
Ulrike Schmidt
Per esempio, “Cosa migliorerebbe per te se decidessi di cambiare?” “Se lo avessi saputo
non mi troverei qui adesso!”
“Sembri arrabbiato relativamente a…, questa rabbia potrebbe aiutarti a combattere
questa situazione” oppure “Ti senti confuso e irritato dal tuo … e non sai cosa fare”
4. Duplice riflessione: Questa è utile se la persona è molto ambivalente e riferisce mes-
saggi contrastanti.
Per esempio, “Non credi che il tuo … ti stia facendo del male seriamente adesso ma
allo stesso tempo sei preoccupato che ti possa sfuggire di mano in seguito”.
Ti piacerebbe davvero tenere il tuo … sotto controllo e odieresti non riuscire più a
fare…e puoi anche vedere che sta causando seri problemi alla tua famiglia e ai tuoi
studi.”
5. Giustapposizione di due valori importanti ma incoerenti fra di loro: L’utilità di questa
tecnica sta nel massimizzare le discrepanze del cliente.
Per esempio, “Mi chiedo se è davvero possibile per te continuare … e mantenere anche
tutte le tue attività extracurricolari”.
6. Enfatizzare la scelta/il controllo personale
Questo deve essere fatto con attenzione e rispetto.
Per esempio, “forse deciderai che è più utile per te continuare … nel modo in cui hai
fatto fino a oggi, anche se ti costa”.
“È una tua scelta decidere cosa fare in proposito”
“Nessuno può decidere questo per te”
“Nessuno può cambiare il tuo … per te. Solo tu puoi farlo.”
7. Reinquadramento
Reinquadrare la resistenza al cambiamento ricostruendo in ottica positiva le moti-
vazioni alla base della non volontà di è una forma di rispetto verso il paziente.
8. I sintomi come ricompensa.
Per esempio, “potresti avere bisogno di gratificarti alla sera per aver studiato molto
durante il giorno”
9. I sintomi come una funzione protettiva. Per esempio, “Non vuoi caricare ulteriore stress
sulla tua famiglia condividendo apertamente con loro le preoccupazioni o difficoltà del-
la tua vita (fare degli esempi). Come risultato, ti porti tutto dentro e assorbi la tensione
e lo stress attraverso … un modo per cercare di non gravare sulla tua famiglia”.
10. I sintomi come funzioni adattive. Per esempio, “il tuo … può essere visto come un
mezzo per evitare il conflitto e la tensione all’interno del tuo matrimonio. Il tuo …
tende a mantenere lo status quo, a mantenere le cose come sono. Sembra come se tu
fossi stato … per preservare intatta la tua famiglia. Tuttavia non sembri a tuo agio in
questa situazione”.
11. Utilizzare esempi paradossali gentili
Questa procedura deve essere sempre condotta con attenzione, rispetto e calore
umano. Per esempio, “Non mi hai convinto di essere veramente preoccupato”.
“Ti dirò una preoccupazione che ho. Questo programma di trattamento richiede una
giusta dose di motivazione da parte di chi lo intraprende e, francamente, non sono
sicuro, da ciò che mi hai detto fino a questo momento, che tu sia abbastanza motivato
da portarlo avanti. Credi dovremmo andare avanti?”
“Non sono sicuro che tu sia veramente interessato al cambiamento, o a osservare con
82
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
attenzione i tuoi … problemi. Sembra che tu sia più felice nell’andare avanti come
prima.”
12. Spostamento del focus
A volte di fronte alla resistenza potrebbe essere semplicemente utile spostarsi su
un argomento differente di conversazione, per evitare lo scontro diretto. Questo
permetterà di guadagnare tempo per costruire l’alleanza terapeutica e rivisitare in
seguito aree maggiormente problematiche.
83
Ulrike Schmidt
I punti (1), (3), (4) e (5) si occupano di questioni relative al modello transteorico
di cambiamento. Analizzano le ragioni che supportano il cambiamento e hanno lo
scopo di aiutare il cliente a spostare l’equilibrio decisionale dei pro e dei contro in dire-
zione del cambiamento. I punti (2) e (6) si occupano degli aspetti interpersonali della
relazione terapeutica. Il terapeuta deve fornire un contesto accogliente e ottimistico e
assumere una posizione “one-down” enfatizzando l’autonomia del cliente e il diritto di
scelta, ma essendo sempre pronto a offrire consigli da esperto e a insegnare competenze
una volta che il paziente è pronto a “partire”.
In generale, la MI sembra funzionare nella riduzione della “negatività” del cliente
(Miller, 1999) e nel Project Match (1997b) si era rilevata particolarmente utile nell’aiu-
tare pazienti irosi. Bassi livelli di resistenza sono predittivi di cambiamento (Miller
et al., 1993) e hanno un effetto più potente del semplice accrescere le affermazioni
positive sul cambiamento. La resistenza spesso segue allo scontro. Di solito i terapeuti
prima di ricevere un training nella MI passano di solito fra il 5 e il 15% del tempo in
scontri diretti piuttosto forti. A meno che l’atteggiamento confrontativo del terapeuta
non si riduca in funzione del training nella MI, nel risultato finale la percentuale di
cambiamento sarà bassissima.
84
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
85
Ulrike Schmidt
menti tendevano a persistere anche diversi mesi dopo la valutazione (Humfress et al.
2002).Il feedback può essere utile per mostrare ai pazienti la gravità del problema e per
iniziare una discussione sul trattamento indicato per quello stadio. Questo facilita un
approccio collaborativo e riduce il potenziale di scontro fra il paziente e il terapeuta.
Uno dei fondamenti della MI è che il cliente dovrebbe assumersi la responsabilità
personale di scegliere se desidera o meno cambiare. Chiaramente, per molti problemi
che si trovano ad affrontare persone giovani, questa possibilità non è né realistica, né
desiderabile o etica e potrebbe esserci un contesto legale che proibisce questa sorta di
approccio.
Un modo in cui il terapeuta può spiegare questa situazione all’interno di una
cornice motivazionale è quello di introdurre il concetto di “un’autorità o un potere
superiore” che condiziona le azioni del terapeuta e del paziente. Questo significa che il
terapeuta non deve utilizzare lo scontro diretto o la coercizione, ma si accosta all’area
problematica indirettamente attraverso le regole della società. Un esempio è il seguen-
te: “Le regole della buona pratica medica per la gestione dell’anoressia nervosa suggeriscono
che il paziente dovrebbe essere pesato a ogni seduta. Io e te dobbiamo rispettare queste regole.
Non devi vedere il tuo peso se non vuoi. Come possiamo fare?”
Abbiamo già precedentemente menzionato che spesso c’è grossa disparità fra i
membri della famiglia in termini di importanza assegnata al problema. I genitori po-
trebbero avere livelli di preoccupazione differenti sui problemi del ragazzo e potrebbero
avere idee diverse sul da farsi. Questi punti di vista contrastanti possono portare a
elevati livelli di scontro a casa, cosa contraria all’approccio motivazionale del clinico.
Esiste un intervento che include la trasmissione alla famiglia dei principi base della MI.
Oltre a sviluppare competenze comunicative, si insegna ai membri della famiglia anche
come rinforzare i comportamenti non sintomatici e come rimuovere la propria atten-
zione dei comportamenti problematici. Queste tecniche si basano sul Community Rein-
forcement Approach (CRAFT; Meyers et al., 1998) che, nell’ambito della dipendenza da
droga e dal alcol, si è rivelato altamente efficace nel coinvolgere nel trattamento clienti
scarsamente motivati (Meyers et al., 1999; Miller et al., 1999; Meyers et al., 2002).
Al di là della valutazione iniziale, l’autore e i colleghi hanno riscontrato che i pa-
zienti giovani trovano utile discutere gli aspetti motivazionali delle proprie difficoltà
attraverso l’utilizzo di esercizi scritti – per es. scrivere due lettere al futuro, una imma-
ginando se stessi senza la propria difficoltà e l’altra immaginandosi di avere ancora il
problema presente, o scrivere una lettera al proprio problema come fosse un amico o
un nemico (Schmidt et al., 2002).
Miller (1999) nel discutere alcuni dei limiti dell’intervista motivazionale ha indi-
cato che, anche nel momento in cui si riconosce l’importanza del cambiamento e si
fiducia in esso, potrebbe ancora non essere possibile intraprendere le azioni necessarie
per cambiare se il cliente non si considera così importante da dover essere “salvato”.
Questo si collega a forti assunti cognitivi fondamentali disadattivi che sono auto-sa-
botanti. In questi casi, si devono compiere dei tentativi nella terapia per concentrarsi
sull’identificazione e sulla modifica di questi assunti fondamentali prima di lavorare
sulla motivazione al cambiamento. Pertanto, la terapia sarà un processo di cicli reiterati
di valutazione e cambiamento.
86
Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale
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CAPITOLO 6
Il settore della terapia cognitivo comportamentale (CBT) per i bambini e gli adole-
scenti si sta evolvendo rapidamente e si trova ora in uno stadio interessante di sviluppo.
La maggior parte delle prove controllate e randomizzate sulla CBT, per una serie di
disturbi, erano più orientate a un’ottica comportamentale che cognitiva. Gli approcci
più cognitivi alla CBT devono ancora essere valutati e sono ancora al livello dello studio
del caso singolo. In linea con la fase di sviluppo in cui si trova questo campo, la for-
mulazione cognitiva del caso non è un’area che ha suscitato grande interesse nella CBT
per bambini e adolescenti e la letteratura a riguardo è davvero scarsa. Tuttavia, essa è
attualmente oggetto di un interessante dibattito nella letteratura sulla CBT per adulti e
questo è ciò di cui ci occuperemo in questa sede.
Questo capitolo descriverà la natura della formulazione cognitiva del caso e gli
aspetti da tenere in considerazione quando la si intraprende con i bambini e gli ado-
lescenti. Si discuterà degli approcci più recenti alla CBT per bambini e adolescenti e
del ruolo della famiglia in questa formulazione. Descriveremo la necessità di ulteriori
ricerche in una serie di ambiti e il ruolo che queste avrebbero nello sviluppo di modelli
cognitivi per i bambini e gli adolescenti. Infine, descriveremo un caso esemplificativo
che mostrerà l’utilizzo della formulazione cognitiva del caso. Il trattamento basato su
questo tipo di formulazione verrà poi confrontato con un caso di CBT a orientamento
maggiormente comportamentale. Complessivamente, l’idea portante di questo capito-
lo, è che per far progredire la CBT per i bambini e gli adolescenti, sarebbe essenziale svi-
luppare modelli cognitivi, analizzare le formulazioni cognitive e i trattamenti derivati.
91
Jonquil Drinkwater
92
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
Bisogna tenere a mente una serie di importanti aspetti quando si intraprende una
formulazione cognitiva con bambini e adolescenti. Primo, i pensieri sono in fase di svi-
luppo nell’infanzia e nell’adolescenza, influenzati da una serie di fattori contestuali fra
cui la famiglia, i coetanei e la scuola. Secondo, la formulazione cognitiva del caso deve
essere appropriata al livello di sviluppo del bambino. Questo è vero anche in relazione
alle componenti e allo stile dell’intervento (vedere il Capitolo 8). Infine, il ruolo della
famiglia nello sviluppo e nel mantenimento dei pensieri distorti, così come nel fornire
fattori protettivi e nel promuovere il cambiamento. La ricerca evolutiva ha iniziato a
identificare i collegamenti fra gli atti cognitivi dei genitori e quelli dei figli (Garber
e Robinson, 1997). Tuttavia, alcune ricerche fondamentali sui modelli cognitivi nei
bambini e negli adolescenti accrescerebbero enormemente la nostra capacità di svilup-
pare formulazioni efficaci che tengano conto di questi fattori.
L’attuale dibattito nella letteratura sulla CBT per adulti è stato sintetizzato da
Tarrier e Calam (2002). Essi indicano che, nella CBT per adulti, i professionisti
che si trovavano a gestire l’eterogeneità della pratica clinica tendevano a utilizzare la
formulazione del caso, mentre i ricercatori clinici, che valutano l’efficacia di specifici
trattamenti attraverso prove cliniche, no. La valutazione di solito mira a raggruppare
i pazienti all’interno di un gruppo omogeneo e a trarre un giudizio su un trattamento
standardizzato, di solito basato sull’utilizzo di un manuale. Questa procedura viene
sempre più accusata di allontanarsi dalla pratica clinica quotidiana. Tarrier e Calam
(2002) hanno riassunto l’attuale dibattito sulla CBT per adulti attraverso due doman-
de chiave: nella ricerca clinica bisognerebbe utilizzare il protocollo del trattamento
standardizzato o della formulazione cognitiva del caso e, nella pratica clinica biso-
gnerebbe utilizzare il protocollo del trattamento standardizzato o della formulazione
cognitiva del caso? Persons (1991) ha sostenuto una forte argomentazione a favore di
un protocollo di ricerca che includesse la formulazione cognitiva del caso e la diagno-
93
Jonquil Drinkwater
94
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
95
Jonquil Drinkwater
bambino -–o potrebbe scegliere di individuare solo aspetti dei comportamenti dei geni-
tori e dei familiari che contribuiscono al mantenimento del disturbo del bambino.
Suggeriamo che sia importante considerare il ruolo della famiglia nello sviluppo e
nel mantenimento dei pensieri distorti a tutti i livelli della formulazione cognitiva. I fa-
miliari hanno un ruolo importante nello sviluppo degli schemi. Potrebbero anche avere
un ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento dei problemi stessi attraverso i propri atti
cognitivi (per es. attenzione selettiva, attribuzione causale, aspettative e assunzioni)
e i propri comportamenti, fra cui rassicurazione e iperprotezione. Per fare l’esempio
della depressione, White e Barrowclough (1998) hanno trovato che le madri depresse
facevano un numero maggiore di attribuzioni causali sui problemi comportamentali
dei figli e consideravano queste cause come qualcosa di personale e unico del bambino,
più stabili e sotto il controllo volontario del bambino stesso. La tendenza ad attribuire i
problemi comportamentali del bambino a fattori idiosincratici o personali era preditti-
va di una diagnosi di depressione e di punteggi depressivi più elevati in misure standar-
dizzate. Gli autori suggeriscono che queste attribuzioni possano mediare le risposte di
coping e quindi influenzare il comportamento genitoriale. Cosa interessante, Garber e
Robinson (1997) hanno mostrato che, dopo avere tenuto sotto controllo i livelli di de-
pressione, i figli di madri depresse presentavano comunque delle differenze fra lo stile
attributivo e la percezione della propria utilità. Mettendo insieme questi due risultati,
si ipotizza che i pensieri e i comportamenti dei genitori verso i figli potrebbero aver
portato alla formazione di schemi negativi nei bambini stessi. Questi schemi negativi
potrebbero essere mantenuti attivi dai pensieri e comportamenti negativi costanti del
genitore. A sua volta, lo schema del genitore potrebbe essere mantenuto dai pensieri e
dai comportamenti negativi del bambino.
Il coinvolgimento delle famiglie nella formulazione cognitiva del caso è al primis-
simo stadio. Come precedentemente discusso, la maggior parte della ricerca sugli esiti
della CBT nei bambini e negli adolescenti non include spesso interventi basati sulla
formulazione cognitiva. Tuttavia, è interessante passare in rassegna la ricerca su quegli
interventi di CBT che hanno incluso membri della famiglia, per verificare se esistono
prove che il coinvolgimento della famiglia accresca l’efficacia della CBT. Barrett et al.
(1996, 2001) hanno paragonato la CBT individuale con la CBT unita a una gestione
dell’ansia familiare (FAM).Entrambi i gruppi mostravano un miglioramento significa-
tivo se paragonati con una lista d’attesa di controllo e i punteggi clinici e di self-report
indicavano la presenza di benefici aggiuntivi per il gruppo CBT più FAM. Tuttavia, il
follow-up a 6 anni mostrava che la CBT più la FAM non era più efficace della CBT da
sola. Cobham et al. (1998) hanno trovato che l’inclusione di una componente familiare
aumentava l’efficacia del trattamento solo per quei bambini che avevano almeno un
genitore ansioso. Mendlowitz et al. (1999) hanno rilevato un maggiore coinvolgimento
genitoriale nelle strategie di coping attivo del bambino, ma non nei livelli d’ansia. Spen-
ce et al. (2000) hanno riscontrato che l’efficacia della CBT non era significativamente
più grande quando si aggiungeva una componente familiare.
Albano e Kendall (2002) rendono questi risultati misti ancora più interessanti
evidenziando che, sulla base del manuale di Kendall, i genitori sono coinvolti anche
nella CBT individuale. Sostengono che il clinico valuta ciascuna situazione individuale
e “dosa” il grado di coinvolgimento genitoriale. Tredici prove cliniche randomizzate
96
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
basate sul manuale di Kendall hanno fornito un forte sostegno all’efficacia del trat-
tamento che presentava. Tuttavia, dal momento che non c’è stata alcuna analisi delle
componenti del pacchetto della CBT di Kendall e che il grado di coinvolgimento dei
genitori variava fra gli individui, il contributo del coinvolgimento genitoriale alla sua
efficacia non poteva essere determinato.
Tornando più nello specifico sull’attività cognitiva, Nuata et al. (2003) hanno pa-
ragonato la sola CBT con la CBT associata a un parent training cognitivo (CPT) e non
hanno riscontrato effetti aggiuntivi ascrivili al CPT. Dal momento che non erano di-
sponibili strumenti per valutare i cambiamenti nei pensieri dei genitori, gli autori non
sono stati in grado di giudicare se questi fossero cambiati, anche se questo non aveva
influenzato l’ansia del bambino, o se non fossero cambiati affatto. Lo status attuale dei
risultati della ricerca sugli aspetti cognitivi del coinvolgimento familiare nella CBT,
indica che non ci sono idee chiare su quali cambiamenti sarebbero necessari per miglio-
rare i risultati. Non si sa bene quali siano i cambiamenti cognitivi, se ci sono, ascrivibili
agli attuali interventi, si sa ancora come mantenerli. Supponiamo che la mancanza di
una formulazione cognitiva del caso sia un altro fattore che potrebbe in parte spiegare
i risultati ambigui nei trattamenti che includono le famiglie. Una formulazione cogni-
tiva del caso che include i fattori familiari potrebbe guidare l’intervento. Il terapeuta
potrebbe scegliere di non coinvolgere la famiglia, ma di lavorare solo con l’individuo
come, per esempio, nel caso di un adolescente. Questo intervento individuale potrebbe
tuttavia includere l’osservazione dei fattori familiari. Suggeriamo che dal momento che
gli attuali interventi di CBT non si basano su una formulazione cognitiva del caso, que-
sto limita l’efficacia di questi interventi e contribuisce ai risultati ambigui. Inoltre, se il
bambino o la famiglia non comprendono la propria formulazione, questo potrebbe far
diminuire con il tempo l’efficacia dell’intervento, o portare addirittura a una ricaduta.
Quindi, la questione del coinvolgimento delle famiglie nella formulazione cognitiva e
nell’intervento per bambini e adolescenti è in una fase interessante di sviluppo.
97
Jonquil Drinkwater
ma utilizzano concetti cognitivi semplici come la modifica del discorso interiore. Sug-
geriamo che gli adolescenti, in particolare, possano trarre benefici da formulazioni co-
gnitive del caso basate su modelli cognitivi adulti e dalla varietà di interventi cognitivi
basati su questi modelli. Descriveremo un caso esemplificativo allo scopo di illustrare
una formulazione cognitiva del caso e gli interventi, prettamente cognitivi, basati su
questa.
John è un ragazzo di 14 anni che soffre di attacchi di panico, ha paura di ammalarsi
e di morire, presenta sintomi depressivi e problemi familiari. È il più giovane di tre
figli, la distanza con i fratelli è molto ampia e si sente isolato e non amato. Un anno
prima dell’insorgenza dei problemi di John, la madre aveva avuto una relazione e aveva
incolpato John e i fratelli per la successiva rottura del matrimonio. Il padre di John
aveva sempre avuto paura che le persone si ammalassero e morissero. È sempre stato
preoccupato della propria e della altrui salute, soprattutto da quando uno dei fratelli
ha avuto un infarto in età molto precoce. La storia di John includeva alcuni episodi di
ansia all’età di 10 anni, che erano stati trattati con l’esposizione allo stimolo ansiogeno.
Gli attuali problemi di John sono iniziati dopo che lo zio ha avuto un secondo attacco
cardiaco. Poco dopo, John riferisce di essere andato al bagno di aver guardato il tappeto
e di aver creduto che pendesse all’insù. Aveva pensato che ci fosse qualcosa che non
andava nella propria testa ed era entrato in panico. Aveva iniziato ad avere attacchi di
panico due volte al giorno, evitava di uscire, verificava sempre di non avere sintomi
strani, cercava rassicurazioni costanti, si sforzava di controllare il proprio respiro, si
distraeva picchiettando le gambe e sedendosi quando si sentiva ansioso. Divenne de-
presso perché non credeva di poter superare i propri attacchi di panico e sentiva che gli
stavano rovinando la vita.
Il primo elemento della concettualizzazione riguardava gli attacchi di panico e si
basava sulla teoria cognitiva del panico (Clark, 1986). Questa teoria dice che gli indi-
vidui vanno in panico quando hanno la tendenza a interpretare una serie di sensazioni
corporee in ottica catastrofica. Le sensazioni che vengono fraintese sono principalmen-
te quelle coinvolte nelle risposte normali di ansia, per esempio le palpitazioni o il re-
spiro corto. Il fraintendimento in ottica catastrofica implica l’interpretazione di queste
sensazioni come indicatori di un impellente malore fisico o mentale come un attacco
cardiaco, o la perdita di controllo dei propri pensieri o la pazzia. Nel caso di John, la
miccia che aveva provocato il primo attacco di panico era l’aver guardato in basso trop-
po velocemente e aver pensato che il tappeto penzolasse all’insù. Aveva pensato “E se
questo dipendesse da un tumore al cervello?” e la convinzione era del 100%. Divenne
ansioso e cominciò a soffrire di vertigini, a sudare e ad avere brividi in conseguenza
alla risposta d’ansia. Fece un’altra interpretazione sbagliata, ossia che questi sintomi
indicassero che stava per morire.
Il secondo elemento della concettualizzazione riguardava le preoccupazioni per la
salute. La teoria cognitiva delle ansie per la salute afferma che segnali corporei, sintomi,
variazioni e informazioni mediche tendono a essere percepiti come più minacciosi di
ciò che sono in realtà e che una particolare malattia è ritenuta più probabile di ciò che
è in realtà (Salkovskis e Warwick, 1986). Allo stesso tempo, le persone hanno maggiori
probabilità di considerarsi incapaci di prevenire la malattia, incapaci di influenzarne il
corso e prive di mezzi efficaci per fare fronte alla minaccia percepita. Se le sensazioni o
98
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
i segnali non aumentano con il livello dell’ansia, o la persona non considera immediata
la catastrofe, allora la reazione sarà la preoccupazione per la salute. Tuttavia, se i sintomi
interpretati come segno di catastrofe imminente, fanno parte dell’arousal del sistema
nervoso autonomo in seguito all’ansia, allora questi aumenteranno e la risposta più
probabile sarà un attacco di panico.
John, presentava sia attacchi di panico sia preoccupazione per la salute. L’ansia per
la salute si innescava quando non riusciva a raggiungere qualcosa o quando muoveva la
testa all’improvviso. Aveva pensieri del tipo “Ho un tumore al cervello, o un’emorragia
cerebrale o la sclerosi multipla”. I fattori psicologici che contribuivano al mantenimen-
to di queste convinzioni includevano, prima di tutto, fattori cognitivi come la foca-
lizzazione su sensazioni corporee, preoccupazioni relative alla salute e una distorsione
verso prove confermatorie della malattia. Un altro fattore era l’aumento del livello di
arousal fisiologico in risposta alla percezione di una minaccia. Infine c’erano una serie
di fattori comportamentali che contribuivano a mantenere l’ansia per la salute come la
ricerca di rassicurazione, l’evitare di uscire, il molleggiare le gambe, il controllare la vi-
sta e comportamenti specifici di sicurezza come sedersi o muoversi lentamente. Venne
preso in considerazione il ruolo della famiglia nell’insorgenza e nel mantenimento dei
problemi di John, a tutti i livelli della formulazione cognitiva. Le primissime esperienze
di relazione all’interno della famiglia erano coinvolte nello sviluppo degli assunti co-
gnitivi fondamentali. Per fare alcuni esempi specifici, la malattia e la paura della salute
del padre erano stati importanti nello sviluppo delle convinzioni e assunzioni sulla
salute e padre e figlio ne condividevano numerose. I pensieri sul non essere amato e
non curato erano spiegabili alla luce della situazione matrimoniale e delle affermazioni
e comportamenti negativi e rifiutanti della madre per molti anni. L’incidente critico
era un altro esempio di malattia nella famiglia e nei fattori di mantenimento c’erano le
rassicurazioni che la famiglia dava a John quando le chiedeva. Per tutto il corso della
valutazione e del trattamento, la formulazione è stata rivista e modificata. Venne svi-
luppata una formulazione complessiva che includeva i fattori familiari e che accomuna-
va le esperienze precoci, gli assunti fondamentali e disfunzionali, l’incidente critico e i
problemi presenti al momento in quattro ambiti distinti: cognitivo, comportamentale,
affettivo e fisiologico. Tutti gli aspetti della concettualizzazione vennero raggiunti in
collaborazione con John (Figura 6.1).
Sulla base di questa formulazione è stato sviluppato un piano di trattamento. La
sezione seguente descrive solo le tecniche utilizzate per modificare i pensieri tratti dal
modello cognitivo adulto. Gli attacchi di panico sono stati trattati per primi e il trat-
tamento si basava sulle tecniche utilizzate da Clark (1996).Questo implica, prima di
tutto, l’identificazione delle interpretazioni catastrofiche delle sensazioni corporee e
poi la generazione di interpretazioni alternative non catastrofiche. Poi, è stata verificata
la validità delle interpretazioni non catastrofiche attraverso la discussione e gli esperi-
menti comportamentali.
Le sperimentazioni comportamentali sono state organizzate per mostrare a John
che la catastrofe temuta non si verificava. Tutti i sintomi di John sono venuti alla luce
e si è lavorato sistematicamente su di essi – per es. sensazioni di distanziamento e de-
realizzazione. Come sempre nell’approccio cognitivo della CBT lo scopo delle prove
comportamentali è quello di modificare i pensieri.
99
Jonquil Drinkwater
Sono fragile
Assunti cognitivi Non ho nessun controllo sulla mia salute
Fondamentali Non sono degno d’amore
Nessuno si occuperà di me
Le persone possono morire
improvvisamente
Incidente
Secondo attacco cardiaco dello zio
critico
100
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
Sono state utilizzate una serie di tecniche cognitive per i problemi di John fra cui
la ristrutturazione cognitiva. John presentava anche una fusione fra azione e pensiero,
dal momento riteneva che una cosa pensata doveva per forza essere reale. Per esempio,
se pensava che la sorella avrebbe avuto un attacco di cuore credeva che questo sarebbe
successo, o se pensava che avesse un cancro al polmone questo doveva essere vero. Nelle
sedute si è lavorato su questi esempi per dimostrare che pensare qualcosa non vuol dire
che questa sia vera. Sono stati inclusi esempi umoristici del tipo: se credi che la luna sia
fatta di formaggio blu, questo vuol dire che è vero?
È stata intrapresa anche una modificazione delle immaginazioni dal momento
che John ne aveva una ricorrente: cadere sul pavimento senza nessuno che andasse ad
aiutarlo. Abbiamo dipanato il significato dell’immagine e poi abbiamo aiutato John a
trasformarla per cambiarne il significato. Dopo la trasformazione, l’immagine include-
va alcuni amici che lo aiutavano ad alzarsi e che gli dicevano che si trattava soltanto di
un’immaginazione. Sono state utilizzate anche delle prove sconfermatorie spontanee.
Per esempio John credeva di non riuscire ad alzarsi la mattina senza la sveglia.
Una mattina la sveglia non era suonata e questo evento era stato utilizzato come
prova sconfermatoria di quella convinzione. Altri aspetti della terapia includevano un
lavoro comune per far cessare il maggior numero possibile di fattori di mantenimento
del problema fra cui l’evitamento (per es. evitare di uscire dalla casa) e i comportamenti
di sicurezza (per es. sedersi per evitare di cadere).
L’intervento sui fattori familiari è stato condotto unicamente con John e la sorella
maggiore dal momento che i genitori si erano rifiutati di prendere parte alle sedute. La
sorella maggiore era coinvolta nello sviluppo della formulazione del caso e nel tratta-
mento scelto. Ha aiutato John ad individuare alcuni dei fattori familiari nello sviluppo
e nel mantenimento dei problemi di John, fra cui il ruolo della preoccupazione per la
salute del padre e dei problemi coniugali dei genitori. Era stata anche attivamente coin-
volta nel diminuire la ricerca di rassicurazione. Il trattamento ha avuto un buon esito
misurato attraverso questionari standardizzati e il miglioramento era presente anche al
follow-up dopo un anno.
È interessante confrontare questo caso con uno pubblicato da Ollendick (1995)
che aveva utilizzato un approccio di CBT prevalentemente comportamentale. Anche
lo studio di Ollendick coinvolgeva un paziente di 14 anni con attacchi di panico, as-
sociati in questo caso all’agorafobia. Il trattamento prevedeva, prima di tutto, l’esame
della natura del panico e delle differenze fra questo e l’ansia. Le sedute seguenti erano
focalizzate sull’insegnamento di tecniche di rilassamento e sullo sviluppo di auto-affer-
mazioni positive e di strategie di auto-istruzione derivate da Meichenbaum (1977). È
stata sviluppata una gerarchia di situazioni agorafobiche per l’esposizione e le sedute di
esposizione in vivo si verificavano con il terapeuta o il genitore al di fuori delle sedute
cliniche (Tabella 6.1).
Entrambi i casi singoli avevano avuto un esito positivo. Tuttavia, la natura degli
elementi cognitivi e le tecniche cognitive utilizzate nel caso qui descritto sono forte-
mente differenti. Sono necessarie ricerche per indagare come l’attuale uso di tecniche
comportamentali abbia un impatto e sia in grado di modificare i pensieri, per es. l’uti-
lizzo dell’esposizione allo stimolo fobico all’interno di una cornice cognitiva. Questi
due casi esemplificativi evidenziano le attuali marcate differenze nel settore.
101
Jonquil Drinkwater
Tabella 6.1 Le tecniche utilizzate per modificare i pensieri in ciascuno dei casi
esemplificativi
I possibili progressi
La CBT è impegnata in direzione di una validazione empirica sia in termini di
premesse teoriche che di esiti del trattamento. La questione relativa alla formulazione
cognitiva del caso non è differente e dovrebbe essere risolta facendo riferimento ai
risultati empirici. Sono necessarie ricerche fondamentali per sviluppare modelli co-
gnitivi che, diversamente da quelli adulti, si occupino dell’insorgenza e del manteni-
mento dei problemi psicologici. La CBT per gli adulti così come quella per bambini
o adolescenti trarrebbe grande beneficio da questi modelli e dai trattamenti da essi
derivati.
Sono necessarie anche ulteriori ricerche in una serie di aree differenti. Alcune di
queste sono: il confronto fra trattamenti basati sulla formulazione o sui manuali; il
ruolo della famiglia nella formulazione cognitiva del caso e negli interventi da essa
derivati; prove cliniche che mettano a confronto la CBT con altri trattamenti e studi
longitudinali. Suggeriamo qui che lo spostamento vero un approccio di CBT mag-
giormente cognitivo, che include l’utilizzo di una formulazione cognitiva individua-
lizzata del caso, potrebbe essere una via efficace di progresso per la CBT per bambini
e adolescenti.
102
La formulazione del caso nella terapia cognitiva
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104
TERZA PARTE
GRUPPI DI CLIENTI
CAPITOLO 7
Jenny Doe
Luton Family Consultation Clinic, Luton, UK
Introduzione
Mentre i tentativi di rispondere all’appello di Kendall di “chiarire il ruolo del
coinvolgimento dei genitori nell’esito della terapia infantile” (Kendall, 1994) sono stati
sempre più numerosi, ci sono ancora pochissime ricerche consistenti che possono gui-
dare i clinici su come coinvolgere al meglio i genitori nella terapia cognitivo comporta-
mentale (CBT) per bambini e ragazzi. I genitori possono essere coinvolti nella CBT dei
propri figli in tre ruoli: facilitatori, co-terapeuti o clienti (Stallard, 2002b). La lettera-
tura di ricerca suggerisce che il coinvolgimento dei genitori in uno o più di questi ruoli
potrebbe dare dei benefici, a breve e medio termine in una serie di disturbi soprattutto
con i bambini piccoli; anche se i vantaggi a lungo termine sono meno chiari (Barrett et
al., 1996; Fonagy et al., 2002).
La gran parte della letteratura sulla CBT per bambini e ragazzi continua a mo-
strare le proprie radici “adulte” poiché il focus primario con gli stessi bambini è sul
lavoro individuale. Mentre recenti lavori hanno sottolineato la necessità di adottare una
prospettiva sistemica (per es. Friedburg e McClure, 2002; Stallard, 2002a), c’è stata
una discussione poco approfondita su come si potrebbe raggiungere questo obiettivo.
Inoltre, ci sono state scarse analisi dei fattori da prendere in considerazione quando si
determina la natura e l’ampiezza del coinvolgimento dei genitori, come possano essere
negoziati i ruoli genitoriali e concordati con i genitori stessi o come potrebbero essere
affrontate, in modo più ampio e più complesso, le questioni relative alla famiglia.
In questo capitolo, esploreremo alcuni dei contrasti che possono sorgere quando
107
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
108
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
• Focus su come i pensieri, • Basare gli interventi su una • Impegno verso l’apertura e
i sentimenti e i comporta- formulazione cognitiva (e la collaborazione
menti si influenzano reci- comportamentale) del caso
procamente che è in costante evoluzio-
ne • Principio della minima in-
• Focus individuale • Forte alleanza terapeutica vasività
• Nessun interesse nelle mo- • Enfasi sulla collaborazione • Credere nelle capacità di
tivazioni inconsce e sulla partecipazione atti- ripresa
va
• Orientamento al problema • I problemi sono semplice-
• Il cambiamento non di- e agli obiettivi mente un passo succes-
pende necessariamente • Enfasi iniziale sul presente sivo nel continuum delle
dal conoscere la causa • Orientamento educativo difficoltà normali che si in-
originaria di tutto, anche e focus sulla prevenzione contrano
se questa potrebbe essere delle ricadute
analizzata • Tempo limitato
• Sedute strutturate
• Insegnare al cliente a iden-
tificare, valutare e rispon- • Ottimismo verso le possi-
dere a pensieri e convin- bilità di cambiamento
• È necessario comprende- zioni disadattive • Obiettivi stabiliti dal cliente
re la relazione fra pensieri, • Utilizzare una serie di tecni-
sentimenti e comporta- che per modificare l’orien-
menti in relazione al pro- tamento del pensiero e del
blema specifico comportamento per es.
interrogazione socratica,
tecniche di rilassamento,
esposizione allo stimolo e
prevenzione della risposta,
riconoscimento emotivo
109
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
Queste problematiche cliniche possono essere raggruppate in tre aree che possono
essere definite come “domini di interesse etico”:
110
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
et al., 2001). Agli estremi, le differenze di opinione fra i bambini e i loro genitori po-
trebbero portare a un conflitto sul consenso al trattamento e questo potrebbe far sorge-
re problematiche etiche e legali molto complesse. Anche se nella maggior parte dei casi
non si presentano differenze di opinione così assolute, i clinici devono sempre sapere
chi è a dare il consenso al trattamento e come valutare questo aspetto. Quindi, prima
di analizzare le difficoltà più comuni che sorgono del tentativo di equilibrare punti di
vista conflittuali nel lavoro clinico quotidiano con i bambini e le famiglie, in una CBT,
affronteremo gli aspetti formali relativi al consenso.
Tabella 7.2 Ambiti di interesse etico nell’utilizzo della CBT con i bambini e i genitori
Ambito di interesse Esempi in cui l’applicazione dei Domande chiave che devono
etico principi della CBT potrebbe far essere affrontate
sorgere delle difficoltà
Affrontare questioni Il principio della minima invasi- Come è possibile valutare e ge-
familiari vità potrebbe voler dire non af- stire le problematiche familiari?
frontare i problemi familiari sog- Sembra appropriato mantene-
giacenti che potrebbero essere re un focus individuale quando
dannosi per il bambino si lavora con i bambini e le loro
famiglie?
Promuovere una col- Potrebbe esserci una mancanza Come si può determinare al me-
laborazione genuina di chiarezza sul ruolo dei geni- glio e riconoscere quale ruolo
tori nella terapia – si potrebbe dovrebbero giocare i genitori in
parlare di genitori “co-terapeuti” un trattamento? Come si può
che però in realtà vengono trat- ottimizzare il coinvolgimento di
tati come pazienti. È possibile tutti i membri della famiglia nelle
essere veramente collaborativi decisioni?
con tutti i membri della famiglia
tenendo a mente le differenze di
potere esistenti fra gli adulti (te-
rapeuta e genitori) e i bambini
111
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
La CBT dovrebbe essere intrapresa solo quando il bambino e/o gli altri adulti
importanti danno un consenso informato. I clinici devono iniziare ogni lavoro con i
bambini e le famiglie dopo aver chiaramente compreso chi sta fornendo il consenso al
trattamento.
Quando i bambini hanno le abilità necessarie per compiere una scelta informata
da soli, il loro punto di vista (piuttosto che quello dei genitori o di altri che ne fanno
le veci) dovrebbe essere quello primario, fino a che il terapeuta non lo considera con-
trario agli interessi del bambino stesso (British Medical Association, 1995; Royal College
of Psychiatrists, 1997). Il rifiuto consapevole da parte di un bambino, che esprime con
costanza il desiderio di non partecipare ad alcun intervento giudicato però positivo per
i suoi interessi, potrebbe rappresentare un caso in cui richiedere l’intervento di un tri-
bunale. In pratica, imporsi sui desideri di un bambino capace di intendere e di volere,
può essere giustificabile solo in circostanze in cui esiste una significativa minaccia per
la vita del bambino stesso o l’eventualità di un danno significativo a lungo termine e
quando i benefici dell’intervento sono piuttosto evidenti.
In generale, le guide pubblicate suggeriscono che si presume che ragazzi fra i 16 e i
18 anni siano in grado di dare un consenso, a meno che non ci siano ragioni specifiche
per invocare procedure legali, quali quelle contenute nel Mentale Health Act. Per i bam-
bini e i ragazzi al di sotto dei 16 anni, il consenso può essere dato dal bambino stesso,
da un genitore, dall’autorità locale (per i bambini assistiti da strutture territoriali) o
da un tribunale. Per questo gruppo, non esiste alcuna presunta competenza nel dare il
consenso e si richiede al clinico di valutare se il paziente sia o meno in grado di fornire
il proprio consenso quando necessario. Un ragazzo in grado di dare il proprio consenso
dovrebbe mostrare un “sufficiente livello di capacità di comprensione e intelligenza che
gli permettano di capire appieno ciò che gli viene proposto” (Gillick v. West Norfolk and
Wisbech Area Health Authority, 1986). Tutto ciò richiede una comprensione dei rischi
e dei benefici dell’intervento al di là dei disagi e degli inconvenienti immediati che il
trattamento potrebbe prevedere.
Nel caso in cui i bambini non siano considerati abbastanza competenti per dare il
proprio consenso, il trattamento può essere deciso da un genitore, da un’autorità locale
o da un tribunale, in linea con il punto di vista del clinico su quelli che sono gli interessi
del bambino. La patria potestà è della madre del bambino. Anche il padre ha la patria
potestà se era sposato con la mamma del bambino al momento della sua nascita o se
questo è stato esplicitamente stabilito e registrato in qualche atto successivo. Non si
può rinunciare alla patria potestà nemmeno se il bambino è sotto la tutela dell’autorità
locale o se viene adottato. Mentre tutti quelli che hanno la patria potestà dovrebbero
essere idealmente coinvolti nel processo decisionale, il disaccordo fra i genitori non
preclude necessariamente che si possa prendere una decisione. Il Children’s Act stabi-
lisce che “nel caso in cui più di una persona eserciti la patria potestà su un bambino,
ciascuna può agire da sola”. Quando coloro che condividono la responsabilità del bam-
bino sono in disaccordo, la persona che si oppone al trattamento ha la responsabilità
di appellarsi al tribunale per impedirlo (Bainham, 1998). Se i genitori sono separati, è
buona prassi tenere informato il genitore assente quando è possibile, ma non ci sono
112
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
obblighi legali e quindi bisognerà tenere in conto anche altri fattori e giudicare il tut-
to sempre in relazione a cosa è meglio per il bambino. Spesso è necessaria un’attenta
gestione di queste situazioni per evitare che la decisione relativa al trattamento venga
imbrigliata nei conflitti fra i genitori (FOCUS, 1999).
113
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
famiglia, sul problema e su come dovrebbe essere affrontato (Watzlawick et al., 1974;
Hoffman, 1981; McGoldrick, 1998). In particolare, si può considerare il lavoro di Pear-
ce e Cronen (1980) come un’applicazione dell’approccio cognitivo alla comunicazione
familiare, che analizza e spiega come gli assunti cognitivi fondamentali (individuali e
condivisi) possano influenzare il comportamento e le relazioni dei singoli membri.
Si possono utilizzare le “domande riflessive”, utilizzate nella terapia familiare
(Tomm 1987a, b), per aiutare i membri della famiglia a mettere in discussione le pro-
prie convinzioni e i propri pensieri. Le domande riflessive sono: “domande poste con
l’intento di …(attivare) …una riflessione autonoma sul significato di pattern pre-esi-
stenti di pensiero e di comportamento” (Tomm, 1987a). Mentre il linguaggio è diffe-
rente da quello della CBT, i principi soggiacenti potrebbero essere considerati simili
poiché, mettendo in dubbio le false convinzioni e cognizioni, i singoli membri della
famiglia vengono incoraggiati a far emergere modalità di spiegazione alternative più
costruttive. Anche la tecnica del reframing che deriva dalla letteratura sistemica po-
trebbe essere applicata con successo alle famiglie, per aiutarle ad arrivare a una visione
condivisa delle difficoltà. Il reframing prevede che il terapeuta incoraggi i membri della
famiglia ad applicare nel quotidiano i nuovi significati, cosa che facilita lo sviluppo
di un’inclinazione più positiva a particolari comportamenti o eventi. Per esempio, un
bambino definito aggressivo dai propri genitori potrebbe, in un altro contesto, essere
definito focoso. Se il terapeuta chiama gli “scoppi di aggressività”, “scoppi di focosità”,
dà un significato alternativo allo stesso comportamento (Wilkinson, 1998).
Quando è possibile, lo scopo del terapeuta e di tutti i membri della famiglia è quel-
lo di arrivare a una visione delle difficoltà che non implichi una critica al bambino o a
qualche altro membro della famiglia e che le posizioni di tutta la famiglia siano tali da
promuovere la collaborazione per superare i problemi. L’utilizzo che Michael White fa
della conversazione esteriorizzata, caratterizzata da tecniche di intervista volte a enfatiz-
zare una via d’uscita condivisa piuttosto che le cause del problema, ci sembra essere coe-
rente con la teoria e la pratica generale della CBT (vedere la Tabella 7.1) e fornisce una
possibile via da percorrere (White e Epston, 1990). March (vedere il Capitolo 17) si basa
sul lavoro di Michael White per aiutare i genitori a spiegare il disturbo ossessivo com-
pulsivo del proprio bambino come qualcosa che è al di fuori del controllo del bambino
stesso o dei genitori e su cui possono lavorare tutti insieme (March e Mulle, 1998).
Suggeriamo che, ogni qual volta è possibile, i clinici dovrebbero intraprendere una
valutazione complessiva del bambino, della famiglia e del contesto scolastico prima di
prendere qualsiasi decisione sulla possibilità di una CBT individuale.
Lo scopo della valutazione della famiglia è quello di analizzare la natura del pro-
blema, chiarire i differenti punti di vista delle persone e aiutarle ad arrivare a una for-
mulazione condivisa delle difficoltà e del piano di trattamento. Non è negli scopi di
questo capitolo suggerire come si possa portare avanti al meglio una valutazione onni-
comprensiva della famiglia; i lettori sono rinviati a Wilkinson (1998) e Carr (1999) per
una rassegna utile sull’argomento. Tuttavia, è forse utile ricordare che una simile valu-
114
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
tazione non serve solo a fornire informazioni al clinico, ma può anche essere utilizzata
nel tentativo di sviluppare una formulazione condivisa del disturbo, su cui possono
concordare tutti i membri della famiglia.
Nella valutazione globale della famiglia, secondo i criteri della CBT, si deve trovare
una risposta a due domande distinte ma collegate: fino a che punto le difficoltà presenti
possono essere collegate a questioni familiari e fino a che punto è indicato l’intervento
diretto sui genitori. Relativamente al legame fra le difficoltà del bambino e le proble-
matiche familiari, è ampiamente noto che per molti disturbi le visioni e i comporta-
menti dei genitori ne influenzano lo sviluppo nei bambini (Carr, 1999). Per esempio, è
più probabile che i bambini ansiosi abbiano genitori con una serie di problemi d’ansia
ed è stato dimostrato che i processi familiari contribuiscono alle risposte di evitamento
(Barrett et al., 1996). Similmente, nel caso dei bambini con disturbo della condotta
e con comportamenti disfunzionali, ci sono numerose prove che mostrano gli effetti
molto potenti dei comportamenti e dei pensieri dei genitori nello sviluppo e nel corso
di simili disturbi (Kazdin, 1995).
In alcuni casi, la valutazione della famiglia potrebbe indicare che le problematiche
familiari sono così significative da escludere la CBT come primo approccio. Se esistono
preoccupazioni serie per la sicurezza del bambino, dovrebbero essere affrontate prima
di ogni intervento. Similmente, la valutazione della famiglia potrebbe rivelare la pre-
senza di importanti problemi di salute mentale nei genitori o problematiche coniugali
che devono diventare il focus primario. Tuttavia, dal punto di vista degli autori, anche
se i fattori familiari sono implicati nel concorrere alle difficoltà presenti, non significa
necessariamente che i genitori dovrebbero essere il focus primario dell’intervento. Po-
trebbe ancora essere appropriata una CBT individuale con il bambino, anche se il clini-
co potrebbe avere bisogno di determinare come affrontare al meglio le problematiche
genitoriali e/o familiari parallelamente al lavoro individuale con il bambino.
Ci sono poche ricerche in questo ambito che possono guidare il clinico nel deter-
minare quando è meglio lavorare direttamente con i genitori da soli, con il bambino
da solo o con tutti e due insieme. Negoziare il coinvolgimento della famiglia è un
compito complesso e molto delicato. Richiedere un coinvolgimento intenso della fa-
miglia, quando questo va contro i desideri e i punti di vista di alcuni membri chiave,
potrebbe generare risentimento e una scarsa compliance con il trattamento. Di contro,
quando la situazione clinica lo richiede, il fallimento nell’affrontare le problematiche
familiari potrebbe limitare seriamente i potenziali benefici della CBT con il singolo
bambino.
Ci sono una serie di possibili configurazioni del coinvolgimento genitoriale nella
terapia fra cui: il bambino viene visto da solo con scarso coinvolgimento dei genitori,
il bambino viene visto insieme ai propri genitori, si vede tutta la famiglia o si offre al
genitore un intervento separato e parallelo. Il ruolo dei genitori in ciascuno di questi
scenari può variare da facilitatore, a co-terapeuta, a quello di cliente/paziente a sua vol-
ta. Chiaramente, esistono molte possibili variazioni e i genitori possono essere coinvolti
nella CBT del proprio bambino in modi differenti nel corso di un singolo intervento.
Alla luce delle poche prove disponibili, gli autori hanno iniziato a costruire un abbozzo
di gerarchia, molto grezzo, del coinvolgimento genitoriale, descritto di seguito, per
facilitare alcune decisioni nella pratica clinica.
115
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
Di solito, il ruolo dei genitori nella CBT è stato concepito come quello di facili-
tatori che sono di aiuto nel trasferimento di alcune competenze dalle sedute terapeu-
tiche all’ambiente familiare. In questo modello, si presume che i genitori avranno un
coinvolgimento limitato nel programma di intervento di per sé. Potrebbero non essere
presenti alle sedute, ma potrebbero incontrarsi ogni tanto con il terapeuta per degli
aggiornamenti, parlare con lui al telefono o frequentare due o tre sedute di training per
sé (Kendall, 1994).Anche all’interno di questo approccio, abbiamo riscontrato alcuni
vantaggi derivanti dal tenere i genitori il più al corrente possibile sui progressi dei pro-
pri figli (Macdonald et al., in stampa).
Secondo l’esperienza degli autori, questa forma minima di coinvolgimento genito-
riale è più adatta per il lavoro con bambini più grandi, che sono fortemente motivati,
nei casi in cui la famiglia è generalmente supportiva e dove non ci sono problematiche
familiari importanti. I vantaggi di questo approccio sono che rafforza il ragazzo e gli
permette di essere il focus del lavoro in maniera molto semplice. Questo modello impli-
ca un’applicazione della CBT nel modo più vicino a quello della CBT per adulti.
116
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
Questo approccio sembra essere particolarmente adatto per i bambini più piccoli,
soprattutto quelli con problemi d’ansia o similari e quelli in cui sono presenti più diffi-
coltà parallele nei genitori e nei bambini (per es. sono entrambi molto ansiosi).
I genitori possono essere a volte visti essi stessi come clienti. I programmi di CBT
che prevedono l’insegnamento di nuove competenze ai genitori, sia che il focus prima-
rio sia la gestione del proprio bambino (per es. gestione comportamentale) o delle pro-
prie emozioni (per es. gestione della propria ansia), potrebbero essere inclusi in questa
categoria. Per il primo gruppo, Friedberg e McClure (2002) presentano un “manuale
di gioco” di interventi che i genitori possono utilizzare per modellare il comportamento
dei propri figli, in cui si descrivono i comportamenti appropriati per il livello evolutivo,
si mostra come incoraggiare aspettative realistiche, rinforzare i comportamenti positi-
vi e a ignorare i comportamenti negativi. Per la seconda categoria, Barrett e colleghi
(1996) descrivono un programma che ha lo scopo di trattare l’ansia genitoriale e i
pensieri fallaci e di fornire ai genitori alcune tecniche per indirizzare il comportamento
del proprio bambino. Questi training potrebbero verificarsi in presenza o meno del
bambino e in sedute individuali o di gruppo.
Forse il più diffuso utilizzo dei genitori come clienti nella prospettiva della CBT
è rappresentato dai numerosi programmi di parent training che si focalizzano sull’ap-
prendimento di nuove modalità di controllo e di gestione del comportamento dei pro-
pri figli – per es. i gruppi di Webster-Stratton e lo Oregon Social Learning Program
(Webster-Stratton e Herbert, 1994; Fonagy et al., 2002). Il training dei genitori senza
alcun lavoro sul bambino ha dato degli esiti molto buoni, soprattutto per i bambini
dai 10 anni in giù. Tuttavia, con bambini più grandi, in situazioni in cui ci sono altri
problemi presenti, quando i problemi sono gravi, quando siamo in presenza di uno
svantaggio socioeconomico e quando c’è una elevata conflittualità fra i genitori o essi
hanno comportamenti antisociali, i risultati sono meno buoni (Fonagy et al., 2002).
Inoltre non è chiaro fino a che punto il parent training sia adeguato a gruppi cultural-
mente differenti (Forehand e Kotchick, 1996).
Per i problemi d’ansia ci sono anche prove empiriche dell’efficacia di interventi
sui genitori. Barrett e colleghi (Barrett et al., 1996) descrivono un modello sistemico
per permettere ai genitori e ai bambini di formare un “team esperto” nella gestione
dell’ansia infantile. Nel corso del Family Anxiety Management (FAM; Gestione fami-
liare dell’ansia), si insegna ai genitori come “premiare i comportamenti di coraggio e
come estinguere l’ansia eccessiva” del bambino, come gestire le proprie preoccupazioni
emotive e come migliorare le proprie competenze comunicative e di problem-solving.
Cobham et al. (1998) descrivono un intervento strutturato per trattare l’ansia, che
include una CBT con il bambino (dieci sedute) e un programma per ridurre l’ansia
genitoriale (quattro sedute per i genitori). Si insegna ai genitori come riconoscere l’ef-
fetto del proprio comportamento sullo sviluppo e sul mantenimento delle difficoltà dei
propri figli e come affrontare la propria ansia.
117
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
118
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
be trovare di fronte al fatto che gruppi differenti hanno diverse preferenze a riguardo
(Forehand e Kotchick, 1996; Friedberg e McClure 2002; Stein et al., 2003). Questa è
chiaramente un’area che richiede ulteriori ricerche.
Gli autori suggeriscono che potrebbe essere utile essere il più espliciti possibile
con i genitori sul loro ruolo nella terapia e cercare di farli sentire parte della soluzione
e non di farli sentire come se fossero loro il problema. È convinzione degli autori che i
genitori e i bambini dovrebbero entrambi essere trattati come collaboratori ogni qual
volta è possibile e dovrebbero avere accesso alla formulazione del caso e certamente
essere invitati a contribuire al processo di riformulazione del problema e delle sue solu-
zioni nel corso del lavoro terapeutico. Inoltre, si suggerisce al terapeuta di essere il più
trasparente possibile nella sua pratica.
Ai genitori e/o al bambino, quando il livello evolutivo lo consente, dovrebbe es-
sere regolarmente fornita copia delle lettere inviate ad altri professionisti, relative alla
famiglia e/o al bambino. Dovrebbero venire registrati gli obiettivi condivisi in un file
accessibile ai componenti della famiglia. Quando i terapeuti valutano regolarmente il
proprio lavoro, dovrebbero rendere gli esiti di questa valutazione il più aperti possibile
a tutti i membri della famiglia, in forme appropriate.
Conclusioni
Lavorare con i genitori per fornire un trattamento di CBT ai loro bambini fa sorge-
re una serie di problematiche da affrontare. Sono stati identificati tre ambiti etici chiave
che devono in qualche modo essere gestiti dai clinici che cercano di utilizzare la CBT
con i bambini. Gli autori riconoscono l’attuale mancanza di ricerche che possono gui-
dare i clinici su come coinvolgere al meglio i genitori e hanno sostenuto la necessità di
condurre ulteriori studi in quest’area così importante. Sulla base delle ricerche esistenti
(e sull’esperienza degli autori quando non erano disponibili prove empiriche), questi
sono stati i punti evidenziati.
Relativamente al bilanciare i differenti punti di vista, i clinici devono riconoscere
che ci potrebbero essere visioni differenti sul perché si richiede una terapia e su quale
sia il risultato a cui deve giungere. Prima di intraprendere una CBT (o qualunque altro
tipo di intervento), il clinico deve avere chiaro chi è che fornisce il consenso per il trat-
tamento. Il clinico deve continuare a fornire informazioni a tutte le parti interessate, in
modalità appropriate, per permettere loro di compiere delle scelte nel corso del tratta-
mento. Suggeriamo che il clinico utilizzi tecniche di terapia familiare come il reframing
per aiutare i membri della famiglia ad arrivare a una visione condivisa delle difficoltà.
Relativamente all’aspetto di affrontare le problematiche familiari, il processo diagno-
stico iniziale per una CBT individuale dovrebbe iniziare con una valutazione completa
della famiglia. Una simile valutazione non ha solo lo scopo di fornire informazioni al
clinico, ma può anche essere utilizzata per sviluppare una formulazione condivisa delle
difficoltà, su cui possono concordare tutti i componenti della famiglia.
Questa formulazione non dovrebbe includere critiche al bambino o a qualche altro
membro della famiglia, ma dovrebbe piuttosto mettere tutti i membri in una posizio-
119
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
Checklist clinica
Piuttosto che presentare casi esemplificativi, la Tabella 7.3 fornisce una checklist
che potrebbe essere utilizzata per ricordare ai clinici alcune delle problematiche solle-
vate in questo capitolo. Non tutte le domande devono necessariamente trovare una
risposta affermativa, ma la lista ha lo scopo di aiutare i professionisti a riflettere sulla
propria pratica alla luce delle questioni qui osservate.
Riconoscimenti
Gli autori desiderano ringraziare Peter Fuggle per i suoi commenti su una versione
precedente di questo capitolo. Desiderano anche riconoscere il contributo di Peter
Fuggle, Chrissie Verduyn e Vicki Curry alle idee alla base di questa trattazione, ottenu-
to attraverso la partecipazione, con il primo autore, a un workshop sul ruolo dei genitori
nella CBT, tenutosi alla conferenza BABCP a Londra nel 2000.
120
Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici
Tabella 7.3 Checklist per aiutare i clinici a valutare come stanno cercando di bilanciare i
differenti punti di vista, di valutare le problematiche familiari e di promuovere
la collaborazione.
Bambino Genitori
• Hai chiesto al bambino il suo punto di vi- • Hai chiesto ai genitori il loro punto di vista
sta sull’invio in terapia e su cosa di aspet- sull’invio in terapia e su cosa si aspettano
ta da essa? da essa?
• Hai fornito informazioni in una modalità • Hai fornito le informazioni in un modo
appropriata allo stadio evolutivo e al con- appropriato alle circostanze e al back-
testo culturale del bambino? ground culturale dei genitori?
• Hai spiegato direttamente al bambino il • Hai spiegato direttamente ai genitori il
procedimento e il contenuto di ogni inter- procedimento e il contenuto di ogni inter-
vento suggerito? vento suggerito?
• Hai offerto delle possibilità di scelta al
bambino e se sì, quali? • Hai offerto delle possibilità di scelta ai
• Quando hai agito contrariamente al pun- genitori e se sì, quali?
to di vista e ai desideri del bambino, che • Quando hai agito contrariamente al pun-
motivazioni avevi per farlo? to di vista e ai desideri dei genitori, che
• Come hai registrato il punto di vista del motivazioni avevi per farlo?
bambino nelle note? • Come hai registrato il punto di vista i ge-
• Ti sei rivolto al bambino in modi da farlo nitori nelle note?
sentire responsabile o criticato per le dif- • Ti sei rivolto ai genitori in modi da farli
ficoltà presenti? sentire responsabili o criticati per le diffi-
• Hai trovato un modo per descrivere il pro- coltà presenti?
blema su cui possano essere d’accordo • Hai trovato un modo per descrivere il pro-
tutti i componenti della famiglia? blema su cui possano essere d’accordo
• Hai discusso con il bambino quale ruolo tutti i componenti della famiglia?
avranno i genitori nella terapia e gli hai • Hai discusso con i genitori quale ruolo
presentato delle motivazioni logiche? avranno nella terapia e gli hai presentato
• Hai dato copia della corrispondenza pro- delle motivazioni logiche?
fessionale al bambino? • Hai dato copia della corrispondenza pro-
• Hai condiviso le valutazioni della terapia fessionale ai genitori?
con il bambino?
• Hai condiviso le valutazioni della terapia
con i genitori?
121
Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe
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123
CAPITOLO 8
Introduzione
La terapia cognitivo comportamentale (CBT) comprende una serie di interventi
psicoterapeutici che hanno lo scopo di migliorare e/o di ridurre lo stress psicologico e i
comportamenti disadattivi modificando i processi cognitivi. La CBT utilizza strategie
cognitive e comportamentali e cerca di “preservare l’efficacia delle tecniche comporta-
mentali all’interno di un contesto meno dottrinario che tiene in considerazione le in-
terpretazioni cognitive e le attribuzioni causali del bambino” (Kendall e Hollon, 1979).
Identificare, mettere in dubbio e apprendere competenze alternative da contrapporre
e da sostituire alle distorsioni e ai deficit cognitivi, che si presume siano alla base dei
problemi emotivi e comportamentali, è il focus primario della CBT.
125
Paul Stallard
cativamente maggiore dalla CBT rispetto ai bambini più piccoli. L’approccio stadiale
sequenziale allo sviluppo cognitivo proposto da Piaget, che ha avuto molta influenza,
dà un ulteriore supporto al punto di vista secondo cui i bambini più grandi sono più
adatti a una CBT. Piaget sosteneva che i processi mentali più complessi, che permetto-
no lo sviluppo del ragionamento logico, non si sviluppano fino allo stadio delle opera-
zioni concrete, che di solito si raggiunge fra i 7 e gli 8 anni. In pratica, anche se la CBT
potrebbe implicare compiti cognitivi sofisticati e complessi, le richieste cognitive della
maggior parte dei programmi di CBT con i bambini sono piuttosto limitate. Molti
compiti richiedono la capacità di ragionare efficacemente su questioni e problematiche
concrete, piuttosto che su pensieri astratti di ordine superiore e concettuali (Harrin-
gton et al., 1998). Questo ha portato qualcuno a suggerire che lo sviluppo cognitivo
dei bambini di 7 anni è sufficiente per la gran parte dei compiti basilari della CBT. Per
l’età di 7 anni, i bambini sono ragionevolmente in grado di riflettere adeguatamente
sui propri processi cognitivi (Salmon e Bryant, 2002).
Mentre c’è un consenso emergente sul fatto che già i bambini di 7 anni possano
intraprendere una CBT, sorge il dubbio se i bambini al di sotto di questa età abbiano
competenze cognitive sufficienti per essere attivamente coinvolti in forme modificate
di CBT. Alcuni punti a sostegno di questo approccio derivano dalle ricerche che han-
no analizzato come i bambini sviluppano una comprensione rappresentazionale della
mente, ossia come comprendono che le persone hanno degli stati mentali interiori,
pensieri, convinzioni e immagini, che possono rappresentare in maniera veritiera o
fallace il mondo (Wellman et al., 1996). In una serie di studi che esaminavano i bam-
bini di età pre-scolare, nella comprensione di vignette relative a pensieri, Wellman et
al. (1996) hanno mostrato che con un training preliminare i bambini di 3 anni erano
in grado di capire che le vignette rappresentavano il pensiero di una persona. Inoltre, i
loro risultati suggeriscono che i bambini di questa età riescono a distinguere fra pensieri
e azioni, riconoscono che i pensieri sono soggettivi e quindi che due persone possono
pensarla in maniera differente sullo stesso evento e che i pensieri possono travisare un
evento. In termini di auto-consapevolezza e di riconoscimento del discorso interiore,
Flavell et al. (2001) suggeriscono che entrambi si acquisiscono nel corso dei primi anni
di scuola. Questo significa che alcuni bambini di 5 o 6 anni sono in grado di verba-
lizzare i propri pensieri e comprendere il concetto di “parlare fra sé e sé” , una delle
strategie più comunemente utilizzate nei programmi di CBT per i bambini.
Ulteriori prove a sostegno della possibilità che i bambini più piccoli possano essere
in grado di intraprendere alcuni compiti previsti dalla CBT derivano da ricerche che si
proponevano di verificare la teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget. È stata confutata
l’assunzione di Piaget secondo cui il fallimento in particolari compiti cognitivi indicava
l’assenza di un particolare insieme di competenze cognitive soggiacenti. La performance
in compiti cognitivi similari può variare a seconda del modo specifico in cui il compito
o le informazioni vengono presentate e non è necessariamente indice dell’assenza o
della presenza di un presunto insieme di abilità cognitive (Thornton 2002). L’interesse
verso un modello più orientato alla comprensione dello sviluppo cognitivo ha portato
a mettere in dubbio un altro caposaldo basilare della teoria di Piaget – propriamente, il
presunto legame fra un insieme di competenze cognitive (processi logici) e il loro uti-
lizzo (ragionamento logico). Thornton (2002) sostiene, per esempio, che le inferenze
126
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
127
Paul Stallard
scoperta guidata, che è alla base della CBT, potrebbe pertanto richiedere un approccio
terapeutico più attivo e diretto con i bambini più piccoli, dove il terapeuta fornisce
informazioni e sviluppa strategie che il bambino può utilizzare e verificare nella pratica.
Il ruolo del clinico con i bambini più grandi potrebbe essere più quello di facilitatore,
dal momento che gli adolescenti possono essere maggiormente in grado di sviluppare
e valutare strategie cognitive da sé. Il lavoro con compiti di secondo odine più astratti
e complessi, come l’identificazione delle convinzioni disfunzionali, la valutazione delle
prove a favore e contro queste convinzioni o la ristrutturazione cognitiva potrebbe non
essere appropriato fino alla media adolescenza (Bailey, 2001).
128
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
prove randomizzate e controllate che hanno incluso bambini al di sotto dei 12 anni
suggeriscono che, se paragonata con un gruppo di controllo in lista d’attesa, la CBT
dava significativi miglioramenti. L’utilizzo della CBT risultava in maggiori guadagni
post trattamento e al follow-up nel trattamento dei disturbi d’ansia generalizzata (Ken-
dall, 1994; Kendall et al., 1997; Silverman et al., 1999a), del rifiuto scolastico (King et
al., 1998) e delle fobie specifiche (Cornwall et al., 1996).
Se paragonata con altri interventi attivi, la superiorità della CBT è meno marcata.
Nel trattamento della depressione con i bambini fra gli 8 e i 17 anni, Vostanis et al.
(1996) non hanno riscontrato differenze significative fra la CBT e un intervento con
un focus non specifico. Similmente, in uno studio con bambini depressi dai 9 ai 17
anni, Wood et al. (1996) hanno trovato che, paragonata con un training di rilassamen-
to, la CBT dava maggiori miglioramenti al post trattamento, anche se le differenze non
erano più significative dopo 6 mesi. In termini di fobie, Last et al. (1998) non hanno
riscontrato differenze significative negli esiti di bambini fra i 6 e i 17 anni con fobia
scolastica trattati con CBT o con un placebo per l’attenzione. Similmente, Silverman
et al. (1999b) hanno riscontrato miglioramenti simili in bambini fra i 6 e i 16 anni
con fobie specifiche che avevano ricevuto una CBT, un trattamento di contingency
management o un supporto educativo. Infine, relativamente all’abuso sessuale, anche
se Cohen e Mannarino (1996) hanno riferito la superiorità della CBT sulla terapia
supportiva non direttiva, Berliner e Saunders (1996) hanno riscontrato che la CBT e il
trattamento tradizionale davano entrambi miglioramenti significativi in bambini fra i
4 e i 13 anni che avevano subito un abuso sessuale.
Anche se alcuni studi hanno evidenziato simili miglioramenti al post trattamento
per la CBT e altre tipologie di interventi attivi, anche se al follow-up sono stati riscon-
trati alcuni benefici addizionali per la CBT. Sanders et al. (1996) hanno trovato che
la CBT e le cure pediatriche standard davano miglioramenti simili al post trattamento
in bambini fra i 7 e i 14 anni che soffrivano di dolori addominali ricorrenti, anche se
al follow-up il gruppo della CBT aveva percentuali più basse di ricaduta e dolori meno
intensi. Similmente, per l’enuresi, Ronen et al. (1995) hanno evidenziato che bambini
fra i 7 e i 12 anni con enuresi rispondevano egualmente bene alla CBT, a un tratta-
mento con sistema “a gettoni” e con un sistema di allarme per l’enuresi costituito da un
sensore nel letto collegato a una campanella, anche se i vantaggi ottenuti con la CBT
erano maggiori a 3 mesi di distanza.
129
Paul Stallard
avevano tassi di frequenza scolastica più elevati alla baseline. Similmente, in uno studio
con bambini depressi fra i 10 e i 17 anni, Jayson et al. (1998) hanno mostrato che i
bambini più piccoli e con un livello più basso di compromissione generale risponde-
vano meglio alla CBT. Non è chiaro se i miglioramenti maggiori evidenziati in questi
studi siano ascrivibili a interventi precedenti, alla minore gravità dei problemi o alla
superiorità degli interventi cognitivo comportamentali.
I risultati sono, tuttavia coerenti, dal momenti che altri ricercatori hanno riscon-
trato che gli esiti della CBT non erano influenzati dall’età del bambino (Vostanis et
al., 1996; Dadds et al., 1997). Durlak et al. (1991) hanno intrapreso l’analisi più
completa che sia mai stata condotta di 64 studi sulla CBT che includevano bambini
al di sotto dei 13 anni. L’età media dei bambini era 9 anni (range 4.5-13) ed è stata
condotta un’analisi sull’efficacia della CBT nelle fasce di età 5-7, 7-11 e 11-13 anni.
La lunghezza media degli interventi negli studi esaminati era di 9.6 ore (12 sedute)
e due terzi erano stati implementati in contesti scolastici e tre quarti avevano utiliz-
zato più di una componente di trattamento (per es. auto-istruzioni, problem-solving
orientato al compito, ecc.). Anche se l’analisi aveva rivelato che la CBT era efficace
con tutti le fasce di età, la grandezza dell’effetto per i bambini allo stadio delle ope-
razioni formali (11-13 anni) era doppia rispetto ai bambini più piccoli. Questo ha
portato gli autori a suggerire che i bambini che intraprendono un trattamento a un
livello più avanzato di funzionamento cognitivo traggono maggiori benefici dalla
CBT rispetto ai bambini più piccoli, che hanno invece livelli meno avanzati. Questi
autori riconoscono i limiti dello studio e sottolineano come il livello di sviluppo del
bambino non fosse stato misurato direttamente, ma fosse stato dedotto sulla base
dell’età. Pertanto, i bambini erano stati classificati in accordo con gli stadi cognitivi
di Piaget, presumendo che i bambini fra i 5 e i 7 anni si trovassero a uno stadio pre-
operatorio, quelli fra i 7 e gli 1 anni allo stadio delle operazioni concrete e quelli
fra gli 11 e i 13 anni allo stadio delle operazioni formali. Similmente, la premessa
secondo cui il livello di maturità cognitiva dei bambini è relazionata all’esito della
terapia suggerisce una relazione lineare con l’età. I risultati non supportano una
simile relazione dal momento che il gruppo 5-7 anni traeva altrettanti benefici di
quello 7-11 anni.
130
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
costruttivo (March et al., 1994). Sostituire un discorso interiore ansioso con uno
di coping è la componente cognitiva principale del programma di trattamento “Co-
ping Cat” per il trattamento dei disturbi d’ansia (Kendall, 1994). L’enfasi principale
di questi programmi è sulle strategie comportamentali fra cui l’identificazione delle
emozioni, la gestione dell’ansia, l’esposizione graduale allo stimolo ansiogeno e il
rinforzo positivo.
Per quanto riguarda la depressione, la ristrutturazione cognitiva è la principale
componente cognitiva dei programmi utilizzati con bambini di età pre-puberale (Vo-
stanis et al., 1996; Wood et al., 1996). Questi programmi riservano due sedute a questa
procedura cognitiva, mentre le altre sei o sette sedute si focalizzano sul riconoscimento
e sulla gestione delle emozioni, sull’auto-rinforzo e sul problem-solving. Dato il focus co-
gnitivo limitato di molti programmi di CBT, sembrerebbe essenziale valutare l’aderen-
za del trattamento alle indicazioni, per assicurarsi che sia stato effettivamente applicato
un intervento cognitivo. Feehan e Vostanis (1996), per esempio, riferiscono che solo il
50% del loro gruppo aveva effettivamente frequentato le sedute sulla ristrutturazione
cognitiva.
L’ampia variabilità nelle componenti del trattamento utilizzate nei programmi
di CBT con i bambini di età pre-puberale è stata sottolineata da Durlak et al. (1991)
– gli autori hanno concluso che “nella pratica attuale, la CBT rappresenta un’espres-
sione “ombrello” per un insieme non standardizzato di differenti tecniche di tratta-
mento che possono essere somministrate in molte diverse sequenze e permutazioni”.
Questa variabilità nelle componenti del trattamento potrebbe in parte spiegare per-
ché la loro analisi ha fallito nel consolidare la predetta associazione fra i cambiamenti
nei processi cognitivi e nel comportamento. Gli autori ipotizzano che sarebbe “scon-
certante trovare che le variabili cognitive enfatizzate nella CBT non siano in qualche
modo relazionate a dei risultati”. Tuttavia, se le componenti cognitive dei programmi
di CBT sono limitate, allora gli effetti sull’esito cognitivo non sono necessariamente
significativi.
A proposito di ciò, è importante riconoscere che le componenti cognitive dei pro-
grammi di trattamento potrebbero non essere state descritte completamente. È an-
che probabile che le sedute di trattamento “non cognitive” che si focalizzavano, per
esempio, sul riconoscimento delle emozioni o sul problem-solving sociale, avessero degli
elementi cognitivi. Ciò non di meno, sembra che i programmi di CBT con i bambi-
ni siano soprattutto di orientamento comportamentale, mentre il focus diretto sugli
aspetti e processi cognitivi è limitato. Questo è in contrasto con la CBT per adulti in
cui l’enfasi principale è sull’identificazione dei pensieri e sulla comprensione di come
vengono giudicati gli eventi su un piano cognitivo (vedere, per esempio, Salkovskis,
1999; Ehlers e Clark, 2000).
La breve rassegna sottolinea che le componenti e il focus “cognitivo” e di molti
programmi di CBT per i bambini è estremamente limitato. Di solito, l’elemento co-
gnitivo implica una strategia, che di solito è lo sviluppo di un discorso interiore come
strumento di coping. Le richieste cognitive di molti programmi di CBT quindi sono
piuttosto limitate e come tali sono all’interno del range di competenze della maggior
parte dei bambini in età pre-puberale.
131
Paul Stallard
132
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
esprimere quali potrebbero essere i pensieri dei giocattoli. Tuttavia, Salmon e Bryant
(2002) ricordano che i bambini in età pre-scolare hanno difficoltà nell’utilizzare una
bambola per rappresentare se stessi. Non riescono a comprendere che una bambola può
essere allo stesso tempo un oggetto (giocattolo) e un simbolo (rappresentazione di sé).
C’è anche la necessità di rendere la CBT per i bambini divertente, interessante e
coinvolgente. L’utilizzo di mezzi visivi come lavagne in bianco e nero, flip-charts e di-
segni può essere d’aiuto. I quiz possono essere un modo utile e divertente di indagare
i pensieri del bambino. Le frasi incompiute possono essere utilizzate per identificare i
pensieri collegati a specifiche situazioni e sentimenti (Friedberg e McClure, 2002). Gli
indovinelli possono essere utilizzati per aiutare i bambini a distinguere fra pensieri, sen-
timenti e azioni (Stallard, 2002). I cartoni e le vignette possono fornire modi divertenti
e utili di avere accesso ai pensieri di un bambino; possono essere utilizzati per generare
modalità alternative di pensiero o per evidenziare che persone differenti potrebbero
avere diversi pensieri su un evento particolare (Kendall, 1994; Stallard, 2002).
In termini di processi, la CBT con bambini di età pre-puberale è meno didattica di
quella con gli adulti; il terapeuta adotta un ruolo più attivo nelle sedute terapeutiche.
Se il bambino è reticente o non disponibile, il terapeuta potrebbe adottare un approccio
retorico, indovinando ad alta voce quelli che potrebbero essere i pensieri del bambino.
Similmente, le domande strutturate e il feedback regolare possono essere utilizzati per
aiutare il bambino a fare collegamenti fra i pensieri e i sentimenti o per scoprire convin-
zioni o assunti fondamentali. Il terapeuta potrebbe fungere da “cacciatore di pensieri”,
identificando i pensieri importanti quando si presentano e portandoli all’attenzione
del bambino (Turk, 1998). Un’ulteriore questione relativa ai processi è evidenziata da
Bailey (2001) che suggerisce la necessità di fare particolare attenzione all’andatura, al
contenuto e alla velocità della terapia. Le sedute di trattamento potrebbero essere più
brevi in funzione dello span di attenzione del bambino.
133
Paul Stallard
134
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
bini che soffrivano di disturbo d’ansia generalizzato. Barrett et al. (1996) hanno para-
gonato la CBT focalizzata sul bambino con una CBT individuale unita a un intervento
per la gestione familiare dell’ansia e hanno riscontrato che il coinvolgimento dei geni-
tori dava maggiori benefici, soprattutto nei bambini pi piccoli. Questi miglioramenti
erano presenti anche dopo 12 mesi, anche se, contrariamente alle previsioni, dopo 6
anni non erano presenti alcune differenze (Barrett et al., 20001). Similmente, Cobham
et al. (1998) hanno trovato che l’impatto della CBT individuale era accresciuto dal-
l’inclusione di un programma di gestione dell’ansia genitoriale, ma solo per i bambini
che avevano almeno un genitore ansioso. Questi miglioramenti, tuttavia, erano meno
evidenti al follow-up a 6 e 12 mesi. I risultati non sono tuttavia coerenti con quelli di
Spence et al. (2000) che non hanno riscontrato alcun effetto significativo, al follow-up
a 12 mesi, in seguito alla partecipazione dei genitori di bambini con fobia sociale a un
programma di CBT.
Conclusione
Questo capitolo ha cercato di evidenziare alcuni degli aspetti principali implicati
nell’intraprendere una CBT con i bambini. C’è un consenso generale sul fatto che i
bambini di 7 anni e più sono in grado di intraprendere una CBT. I bambini più piccoli
possono essere coinvolti in alcuni programmi di CBT, quando le richieste cognitive
dell’intervento vengono accoppiate allo sviluppo cognitivo del bambino. Anche se la
consapevolezza della necessità di adattare e modificare la CBT per un utilizzo con
i bambini in età pre-puberale è sempre maggiore, pochi studi descrivono come sia
possibile raggiungere questo obiettivo. I programmi attualmente coprono un range di
età piuttosto vasto e ci sono pochi resoconti di un applicazione della CBT a bambini
al di sotto dei 7 anni. Poche sono le prove controllate e randomizzate e ancora non si
sa se la CBT sia più o meno efficace con i bambini più piccoli. Le ricerche che valuta
le componenti attive del trattamento e l’equilibrio fra gli elementi cognitivi e com-
portamentali spesso non sono state analizzate. Come evidenziato da Bailey (2001), la
CBT con i bambini più piccoli probabilmente avrà una maggioranza di componenti
comportamentali rispetto alle strategie cognitive; e questo fa sorgere una domanda
importante: quando una terapia comportamentale diventa una CBT?.
In termini di sviluppo teorico, non ci sono modelli cognitivi per spiegare l’insor-
genza e il mantenimento dei problemi psicologici nei bambini. I modelli derivati dalla
ricerca con gli adulti sono stati applicati ai bambini (Barrett et al., 2000). Sono stati
ampiamente sviluppati modelli evolutivamente appropriati che prendono in conside-
razione l’età del bambino e il ruolo della famiglia. A oggi non ci sono prove consistenti
che il coinvolgimento dei genitori nei programmi di CBT, in particolare con i bam-
bini piccoli, aumenti l’efficacia del trattamento. È necessario un ulteriore lavoro per
sviluppare modelli, con una certa consistenza teorica, che spieghino lo sviluppo e il
mantenimento dell’elaborazione cognitiva disfunzionale nei bambini; e questi modelli,
a loro volta, daranno informazioni sulla modalità più efficace di coinvolgere i genitori
nei programmi di CBT con i propri bambini.
135
Paul Stallard
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136
Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale
137
Paul Stallard
138
CAPITOLO 9
Introduzione
I bambini e gli adolescenti trattati in unità di ricovero psichiatrico costituiscono
una popolazione eterogenea in termini di età, difficoltà funzionali e diagnosi. L’adat-
tamento della terapia cognitivo comportamentale (CBT), pertanto, deve prendere in
considerazione tutti questi aspetti. Deve anche considerare le caratteristiche partico-
lari di un reparto di ricovero come ambiente di trattamento. Di conseguenza, questo
capitolo inizierà ad analizzare ciascuna di queste due aree – il gruppo dei pazienti e il
contesto di trattamento – prima di procedere nel parlare del ruolo della CBT come
trattamento per contesti di ricovero ospedaliero.
Recenti dati statistici del Regno Unito (ÒHerlihy et al., 2001) hanno fornito un
quadro esaustivo trasversale dell’attuale composizione diagnostica dei reparti psichia-
trici nel Regno Unito (Tabella 9.1). Ricerche provenienti da altri paesi hanno mostrato
simili pattern di morbidità (Sourander e Turunen, 1999). Il censimento riflette alcuni
pattern diagnostici chiave nella popolazione ricoverata:
139
Jonathan Green
Tabella 9.1 Diagnosi riferite dai clinici al censimento dei pazienti di 71 reparti di ricovero
per bambini e adolescenti nel Regno Unito (Sett. 2000). I gruppi sono
indicati per genere ed età – i risultati sotto forma di percentuali all’interno di
ciascun gruppo
140
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
Compromissione funzionale
I bisogni di salute
I “bisogni di salute” sono presenti in situazioni in cui: (1) esiste una sintomatologia
che, in un’area specifica, supera una soglia prefissata; (2) colui che soffre desidera riceve-
re un aiuto e (3) esiste un trattamento appropriato che però non viene somministrato.
Attraverso l’analisi dei bisogni di salute si valutano tutte queste necessità da pro-
spettive multiple, enfatizzando i punti di vista di chi eroga e di chi usufruisce del ser-
vizio, in ambiti più ampi di quello psicopatologico, fra cui il tempo libero, il progresso
educativo, l’amicizia, la cura di sé e le relazioni familiari (Kroll et al., 1999).
Alcuni dati preliminari sui bisogni di salute dei pazienti ricoverati, tratti da un sotto
campione dell’attuale UK Children and Young Persons Inpatient Evaluation (CHYPIE)
Study, sono riassunti nella Tabella 9.2.
Questa analisi ci ha permesso di ampliare il quadro visivo di questo gruppo di
clienti. I reparti infantili presentano livelli particolarmente elevati di bisogni non sod-
disfatti nelle seguenti aree:
1. Relazioni sociali e familiari – più del 50% dei ricoveri presentano problematiche in
questi ambiti: una rottura familiare imminente è un fattore comune nelle richieste
di ricovero (vedere sotto).
2. Comportamenti esteriorizzati – circa il 90% dei ricoverati mostrano ostilità e
comportamenti oppositivi disfunzionali e il 70% sono iperattivi. Queste difficoltà
comportamentali (che sono anche indice di una preponderanza di individui ma-
schi nei reparti infantili) potrebbero essere il motivo principale della richiesta di
ricovero o possono essere in comorbidità con altri disturbi.
141
Jonathan Green
Tabella 9.2 Percentuale di pazienti con bisogni di salute non soddisfatti o persistenti,
nonostante l’intervento o il ricovero in reparti per bambini e adolescenti
% di bisogni % di bisogni
reparti per bambini reparti per adole-
Unità (n = 76) scenti
Ambito Unità (n = 74)
Cura di sé 29 34
Frequenza scolastica 32 71
Performance scolastica 71 70
Relazioni sociale 79 51
Relazioni familiari 63 40
Comportamenti distruttivi 67 24
Comportamenti ostili 84 36
Comportamenti oppositivi/disfunzionali 85 31
Autolesionismo intenzionale 28 51
Problemi d’umore 47 75
Allucinazioni/Deliri 7 33
Iperattività 68 13
Ansia/DPTS 57 65
Disturbi dell’alimentazione 11 24
Disturbi dell’evacuazione 27 5
Identità culturale/Razziale 28 0
142
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
Comorbidità
L’analisi dei bisogni suggerisce che una compromissione generale del funziona-
mento sociale è un’importante caratteristica dei ragazzi ricoverati. Altri due studi sup-
portano questo punto di vista. In 58 ricoveri consecutivi in Nuova Zelanda, sono state
riscontrate numerose difficoltà sociali, combinate con un handicap linguistico, mode-
rato e grave, nel 40% dei casi (Paterson et al., 1997). Uno studio americano su 126
bambini e adolescenti ospedalizzati (Luthar et al., 1995) ha trovato compromissioni
simili nei punteggi di competenza sociale della scala Vineland in pazienti ricoverati per
disturbo esteriorizzato e disturbo misto interiorizzato/esteriorizzato, associati specifica-
mente a un ridotto ritardo specifico della lettura. I trattamenti che affrontano queste
compromissioni sociali sono una priorità da considerare.
Rottura familiare
Come indicano i dati sui bisogni, la rottura funzionale nella cura familiare è una
ragione comune di richiesta di ricovero. Questo non implica necessariamente che la
famiglia sia un fattore eziologico primario del disturbo. Certamente, nei casi in cui
il fallimento familiare è l’elemento primario, come quelli di abuso e trascuratezza, è
143
Jonathan Green
spesso necessaria una presa in carico sociale piuttosto che un ricovero in un reparto
psichiatrico. Tuttavia, ci sono molti altri casi in cui l’impatto della malattia mentale del
bambino sulla famiglia ne schiaccia le risorse e, l’interazione fra processi familiari e l’in-
sorgenza della malattia mentale del bambino assume una escalation negativa. È di solito
in queste condizioni che è utile un ricovero psichiatrico. Questo fatto influenza le scelte
di trattamento nel corso del ricovero: il lavoro focalizzato sulla famiglia è essenziale se si
vogliono mantenere i progressi fatti dopo la dimissione (Green, 1994).
Una rassegna condotta nel Regno Unito sui servizi di salute mentale per l’infanzia
(National Health Service Health Advisory Service, 1995), evidenzia come, mano a mano
che i pazienti passano attraverso diversi “scaglioni” di cure specializzate, hanno sempre
maggiore probabilità di essere presi in carico da molteplici agenzie, oltre a quella della
salute, fra cui in particolare i servizi sociali e l’educazione. Alcuni studi epidemiologici
basati sulla popolazione (Kurtz, 1994) raggiungono la stessa conclusione. Pertanto,
per avere successo, i piani di trattamento per i ricoverati devono essere multimodali e
prevedere collegamenti con altre agenzie.
Il trattamento con ricovero viene di solito considerato dalle famiglie o dai profes-
sionisti che non sono hanno ottenuto successi con il trattamento ambulatoriale come
“l’ultima spiaggia” – ma spesso il paziente lo considera un rifiuto o una “punizione”.
Alcune ricerche suggeriscono che i bambini raramente si sentono coinvolti o sono
d’accordo con la decisione del ricovero. Tuttavia, l’alleanza terapeutica con il bambino
– indicata dall’adattamento positivo all’ambiente del reparto e dall’attiva partecipazio-
ne al programma di trattamento – si è mostrata uno dei migliori predittori della modi-
ficazione dei sintomi nel corso del ricovero (Green et al., 2001); al contrario, l’alleanza
con i genitori non era predittrice di nulla. Questo enfatizza la grande importanza della
preparazione pre-ricovero e del lavoro intensivo focalizzato sul bambino/adolescen-
te. Questi non sono casi facili e il compito iniziale è spesso quello di promuovere la
motivazione e la speranza. Qualunque trattamento individuale deve essere visto nel
contesto dell’alleanza complessiva del bambino con il reparto, del suo consenso e della
motivazione individuale.
144
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
potrebbe essere parte del un campus di un ospedale pediatrico (reparti infantili) o parte
di un servizio di salute mentale per adulti. Il personale di solito include team multipro-
fessionali costituiti dal personale del reparto (di solito infermiere pediatriche o specia-
listi di salute mentale e clown dottori), dagli psichiatri e da una serie variabile di altri
professionisti fra cui psicologi clinici, assistenti sociali, terapeuti occupazionali, tera-
peuti familiari, psicoterapeuti e terapisti del discorso e del linguaggio. Nel Regno Unito
e negli Stati Uniti, esistono delle guide su quanti e chi dovrebbero essere i professionisti
parte di un team di divisione psichiatrica (American Academy of Child and Adolescent
Psychiatry, 1990; Royal College of Psychiatrists, 1999. Nella pratica, la composizione dei
team spesso è molto lontana da questi standard (Green e Jacobs, 1998a) e l’applicazione
della CBT deve tenere in considerazione questa realtà.
I pazienti di solito restano per 5 – 7 giorni. La giornata è spesso strutturata con
un’attività scolastica classica che si svolge in una scuola speciale vicino al reparto o nel
territorio. Il tempo che i bambini non passano a scuola sarà strutturato in parte per
l’erogazione di cure basilari (così, ci sarà l’ora dei pasti, del gioco, del tempo libero,
ecc.) e anche dalla fornitura di attività terapeutiche strutturate.
145
Jonathan Green
équipe con protocolli condivisi. Quando si utilizzano invece trattamenti di tipo ambu-
latoriale, resta comunque il problema di integrare questi trattamenti con il programma
del reparto. Il lavoro che si fa in reparto e quello individuale potrebbero essere in con-
flitto fra loro – per esempio, il gruppo di pazienti che si rende conto che una persona
riceve un determinato trattamento, mentre gli altri ne ricevono un altro. Simili pro-
blemi sono stati discussi in relazione ai trattamenti psicoterapeutici psicodinamici che
di solito sono stati quelli predominanti in contesti di ricovero (Leibenluft et al., 1993;
Magagna, 1998). L’utilizzo della CBT nei reparti dovrà prendere in considerazione le
stesse problematiche sistemiche.
La natura del contesto di reparto influenza anche le misure dell’esito e del progres-
so. Dal momento che il trattamento all’interno del contesto di ricovero è multimodale,
è spesso difficile individuare quali elementi influenzino particolari sintomi e quindi
modificare l’intervento di conseguenza. La progettazione di programmi di trattamento
e il loro monitoraggio deve tenere conto di questo fatto.
Sono per lo più con le infermiere e altri membri del reparto ad avere un contatto
giornaliero con i pazienti. Quindi le componenti comportamentali della CBT, fra cui i
programmi per la riduzione dei comportamenti aggressivi, la prevenzione della risposta
nei disturbi ossessivi compulsivi e i programmi per modificare i comportamenti ali-
mentari, devono essere tutte mediate dal personale del reparto. Anche le componenti
cognitive possono essere applicate dai membri del reparto o da altri membri dell’équipe
multidisciplinare. La sfida principale, caratteristica della pratica clinica all’interno di
reparti di degenza, è coordinare un team così ampio e diverso, al fine di applicare con
efficacia trattamenti coerenti. I trattamenti complessi devono essere operazionalizzati
per uno staff che sta in prima linea e i programmi terapeutici devono essere definiti con
chiarezza e sufficientemente flessibili per adattarsi a questo contesto di team. La CBT
risponde a queste richieste grazie a una serie di proprie caratteristiche:
146
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
L’approccio della CBT è coerente con lo stile di vita della maggior parte dei mo-
derni servizi per la salute mentale dei bambini e degli adolescenti e si adatta bene con
molti contesti di trattamento in unità di ricovero; caratterizzati da ricoveri brevi, da
un orientamento alla valutazione e alla misurazione, da piani di intervento costruiti
per scopi specifici e da trattamenti oggettivi. Wever (1998) fa un esempio eccellente
di questo approccio. È cruciale che lo stile di vita del reparto sia compatibile con la
metodologia della CBT – altrimenti, le tensioni avranno inevitabilmente un impatto
sulla coerenza del reparto e su una buona presa in carico del paziente (Green e Burke,
1998).
Molte unità di degenza e il personale all’interno, hanno una tendenza a idee e
trattamenti psicodinamici e, per salvaguardare una certa coerenza, spesso è necessario
integrare degli approcci. Gli approcci psicodinamici presentano una serie di caratte-
ristiche che restano di valore inconfutabile per la valutazione e la formulazione del
caso: l’enfasi sull’ascolto attento e sull’osservazione; la risposta al “paziente nel suo
complesso” e la convinzione che i problemi emotivi e comportamentali possono avere
alla base cause importanti che, anche se non manifeste, devono essere affrontate prima
di poter promuovere un qualunque progresso. Questi valori danno forma a una buona
valutazione approfondita e sono importanti precursori dell’applicazione di una CBT,
che, come indicano prove recenti, ha maggiori probabilità, rispetto alla psicoterapia
psicodinamica di modificare i comportamenti in molte situazioni.
Similmente, il contesto terapeutico standard del reparto deve esse sufficientemente
strutturato per portare un senso di ordine nelle vite dei bambini, che a casa sono spesso
caotiche, ma anche sufficientemente flessibile e permissivo da incoraggiare l’espressio-
ne delle emozioni e delle difficoltà che potrebbero far venire alla luce la psicopatologia,
nei casi in cui questa non sia già manifesta. Questo rappresenta un compito impegnati-
vo, ma non impossibile per lo staff delle unità di ricovero, soprattutto quello coinvolto
nelle interazioni giornaliere con i bambini.
147
Jonathan Green
148
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
Competenze sociali
149
Jonathan Green
Uno svantaggio reciproco del contesto di ricovero è invece che di solito tutto il
gruppo di pari è altrettanto disturbato e non fornisce né partner facili per lo scambio
sociale, né modelli positivi di comportamento normale. Questa concentrazione di di-
sturbi vene spesso indicata come fonte di preoccupazione per le unità di ricovero. È
vero che un gruppo di pari con un livello di funzionamento piuttosto basso può essere
al meglio inutile e al peggio distruttivo. Tuttavia, il contesto di gruppo offre un’oppor-
tunità di interazione con bambini con problemi simili, crea un senso di condivisione
della difficoltà e offre occasioni per la promozione dell’autostima. I bambini che al di
fuori falliscono possono qui invece avere successo. Facendo attenzione a come accop-
piare i ragazzi con disturbi diversi, è di solito possibile massimizzare i potenziali bene-
fici del trattamento e minimizzarne i deficit. Come minimo, il ricovero può chiarire
i problemi ed essere un punto di partenza per questi miglioramenti – collegandosi ad
agenzie esterne per promuovere una collocazione appropriata e futuri cambiamenti
dopo la dimissione.
L’unità di ricovero può essere un luogo molto potente per le tecniche di desensibi-
lizzazione progressiva e di prevenzione della risposta. Queste tecniche di solito vengo-
no utilizzate per l’ansia e il disturbo ossessivo compulsivo (vedere il Capitolo 18). La
graduale esposizione a una gerarchia crescente di situazioni temute, precedentemente
scelte con il bambino, è un trattamento molto potente per diverse forme di ansia speci-
fica. Similmente, i programmi di prevenzione della risposta per i bambini con compor-
tamenti compulsivi gravi possono, a volte, essere più efficaci se applicati in reparto, dal
momento che si ha una maggiore possibilità di controllo. Wever (1998) ne ha discusso
le indicazioni.
L’alleanza terapeutica fra il bambino e il reparto come un tutt’uno, è uno dei mi-
gliori predittori di progressi nella salute, nel corso di trattamenti in regime di ricovero
(Green et al. 2001). L’intervista motivazionale (vedere il Capitolo 5) collegata all’ap-
plicazione della CBT è particolarmente adatta a promuovere un’alleanza terapeutica in
situazioni complesse, in cui il bambino potrebbe non aver preso parte principale nella
decisione del ricovero.
Disturbi specifici
150
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
dal momento che possono essere disfunzionali per il contesto e perché spesso si otten-
gono risultati piuttosto scarsi (anche se questa è la visione generale sugli esiti di questo
disturbo in qualunque contesto). Tuttavia, ci sono delle indicazioni a favore del ricovero.
In uno studio (Green et al., 2001) i pazienti con disturbo della condotta, che avevano
sviluppato un’alleanza terapeutica positiva, sembravano avere esiti uguali agli altri casi
– suggerendo che il fattore chiave non è la diagnosi di per sé, ma il coinvolgimento in
un trattamento efficace. Questo risultato era indipendente dalla gravità complessiva dei
sintomi. (La regola tuttavia erano una cattiva alleanza e un esito negativo, soprattutto
se associati a un’elevata aggressività). Il ricovero può permettere l’analisi dettagliata dei
fattori eziologici e di comorbidità nei casi resistenti al trattamento e l’opportunità di
condurre un lavoro di gruppo intensivo (Jacobs, 1998b). L’uso efficace delle tecniche di
CBT con il disturbo della condotta e oppositivo nel contesto ambulatoriale è descritto
nei capitoli 13 e 25; gli stessi principi possono essere applicati anche in reparto. Un
contesto di ricovero che combina aspettative comportamentali positive ed esplicite, elo-
gi manifesti con un’enfasi sulle attività prosociali nel gruppo, può essere un’esperienza
di apprendimento correttiva molto forte per il bambino. Le tecniche di gestione della
rabbia possono essere applicate individualmente in modalità ambulatoriale e nell’unità
di ricovero. I gruppi terapeutici delle unità di ricovero in cui si combinano tecniche del
problem-solving sociale, consapevolezza delle emozioni sociali e gestione della rabbia,
sono importanti e possono essere arricchiti da componenti ambulatoriali come la scuola
del dinosauro di Webster-Stratton (Webster-Stratton e Hammond, 1997). La forza del
trattamento all’interno di una unità di ricovero è che i “compiti a casa”, che i bambini
dovrebbero fare a casa fra una seduta e l’altra, vengono svolti all’interno del reparto,
come parte di un programma di gestione del comportamento. Quando in reparto si
combinano efficacemente i programmi di gestione comportamentale applicati a scuola
con i gruppi terapeutici, e la gestione da parte del personale riesce a rimanere costante ed
efficace nel tempo, il bambino può beneficiare di un ambiente complessivo di apprendi-
mento molto potente. Cotton (1993) dà un’indicazione eccellente di queste possibilità.
Disturbi dell’umore
151
Jonathan Green
re degli adolescenti (Harrington et al., 1998; vedere anche il Capitolo 16). La CBT
in contesti di reparto verrebbe condotta in maniera simile al contesto ambulatoriale.
Alcuni elementi aggiuntivi importanti sono rappresentati da altre procedure compor-
tamentali fra cui la strutturazione del tempo e dei gruppi di terapia per promuovere il
contatto interpersonale.
Disturbi dell’alimentazione
Psicosi
Disturbi di personalità
152
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
sono, per esempio, le difficoltà di adattamento sociale. L’analisi dei bisogni nei reparti
per adolescenti (Tabella 9.2) mostra proprio quanto siano presenti queste difficoltà so-
ciali. Dopo una valutazione approfondita, la CBT può essere utile per affrontare queste
difficoltà attraverso il training delle competenze sociali, il focus specifico sul disturbo
dell’umore o sul trattamento di ricordi traumatici.
Caso esemplificativo
153
Jonathan Green
Infermiera: “Va bene Sarah, vedo che sei molto arrabbiata. Ora raccontami cosa è
successo. Cosa è successo prima di tutto? Cosa hai visto? Cosa hai sentito? Cosa hai pensato?
Poi cosa hai fatto? E in seguito cosa è successo? Facciamo un disegno di tutto …
Utilizzando stimoli visivi disegnati, stando seduti accanto a lei (piuttosto che sce-
gliere una presentazione frontale viso a viso per rendere minore il carico emotivo sul
piano sociale) e scrivendo cosa era successo nello schema ABC, si è cercato di ridurre il
livello di arousal e di proporre comportamenti alternativi. Quello che la bambina aveva
scritto e disegnato poteva essere utilizzato per aiutarla nell’orientamento e per rinforza-
re le strategie cognitive nelle nuove situazioni. Sono state introdotte anche metodologie
cognitive per “esternare” e padroneggiare i pensieri deliranti e allucinatori.
La terapia occupazionale regolare si era focalizzata su tecniche di integrazione sen-
soriale che avevano dato benefici similari sull’organizzazione comportamentale. Il per-
sonale era sempre più in grado di promuovere capacità più normali di comportamento
e pensiero. Al momento delle dimissioni, aveva fatto progressi immensi, su un piano
sociale e scolastico, anche se restavano le problematiche pervasive dello sviluppo. È
stato intrapreso un lavoro intensivo con la famiglia per aiutarla nella comprensione
e per ridurre l’espressione delle emozioni. Era stata messa in una scuola residenziale
settimanale, il suo comportamento era stabile e il livello di funzionamento generale era
buono, l’assunzione di neurolettici a basso dosaggio continuava per molti anni dopo il
ricovero. I tentativi successivi di diminuire il farmaco avevano portato a peggioramenti
acuti.
154
La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
Alcune sono già state menzionate. Ci sono ambiti in cui la CBT potrebbe non
essere appropriata a un ambiente da unità di ricovero o in cui bisogna compiere degli
adattamenti prima che possa rivelarsi utile:
L’utilizzo efficace della CBT nelle unità di ricovero è possibile solo se la leadership
è affidata a professionisti esperti di questo trattamento. Come minimo, devono essere
disponibili uno psicologo clinico esperto, uno psichiatra o un’infermiera senior che ha
ricevuto un training nelle metodologie della CBT, per rivedere il piano di trattamento
e la sua implementazione in un ambiente così complesso. Il loro ruolo comprenderà
interazioni faccia a faccia con i pazienti, consulenza e supervisione agli altri membri del
personale del reparto. Il personale delle unità di ricovero moderne dovrebbe includere
simili figure professionali (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 1990;
Royal College of Psychiatrists, 1999).
Un altro grande vantaggio si avrebbe se gli altri componenti dello staff, fra cui ti-
rocinanti laureati in psicologia, avessero ricevuto un training specifico nella CBT , per
dare incisività alle competenze miste del team.
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La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero
157
QUARTA PARTE
APPLICAZIONI IN
PROBLEMATICHE PSICOSOCIALI
CAPITOLO 10
Trattamento cognitivo
comportamentale delle conseguenze emoti-
ve e comportamentali dell’abuso sessuale
Bruce Tonge
Centre for Developmental Psychiatry, Clayton, Victoria, Australia
Neville King
Monash University, Clayton, Victoria, Australia
L’abuso sessuale infantile può essere definito come “il coinvolgimento di bambini e
adolescenti, dipendenti ed evolutivamente immaturi, in attività sessuali che non sono in
grado di comprendere del tutto, a cui non possono dare un consenso consapevole e che
violano i tabù sociali dei ruoli familiari” (Schechter e Roberge, 1976). Recenti ricerche in
diversi paesi hanno mostrato più volte un’elevata prevalenza di abuso sessuale nei bam-
bini. Per esempio, utilizzando un campione casuale di donne adulte di San Francisco,
Russell (1983) ha mostrato che il 12% delle donne ricordava almeno un’esperienza di
abuso extrafamiliare prima dei 14 anni e un 28% ricordava un abuso intra o extrafami-
liare prima dei 14 anni. Il ventotto per cento ricordava di aver subito un abuso intra o
extrafamiliare prima di quell’età. Un indagine del Regno Unito ha riscontrato che il 12%
delle donne e lo 8% dei maschi riferiva di aver subito un abuso sessuale prima dei 16
anni (Baker e Duncan, 1985), mentre uno studio australiano su circa 1000 studenti uni-
versitari ha trovato che il 13% ricordava di aver avuto esperienze sessuali con un adulto
prima dei 12 anni (Goldman e Goldman, 1986). In un’indagine condotta in Nuova Ze-
landa su 3000 donne, Anderson et al. (1993) hanno riscontrato che quasi una donna su
tre riferiva di aver avuto una o più esperienze sessuali non desiderate prima dei 16 anni.
Anche se in questi studi sono state riscontrate problematiche metodologiche e alcune
incongruenze, è chiaro che l’abuso sessuale infantile ha un’incidenza molto elevata.
L’abuso sessuale infantile può avere un effetto devastante sullo sviluppo di un bam-
bino. Le risposte immediate e a breve termine all’esperienza di abuso possono includere
161
Bruce Tonge e Neville King
162
Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale
aver subito un abuso più intrusivo e persistente nel tempo, il fatto che il perpetratore
fosse conosciuto e che il bambino si fidasse di lui, avere genitori iperprotettivi o con
una psicopatologia (Browne e Finkelhor, 1986; Mennen, 1993).Pertanto, la prevalenza
di disturbi psicopatologici collegati all’ansia unita alla probabile presenza di pensieri
auto-colpevolizzanti giustifica la scelta di un trattamento cognitivo comportamentale.
Un’altra motivazione teorica è l’impatto importante dell’esposizione allo stimolo ansio-
geno, procedura in cui i bambini vengono aiutati a confrontarsi con i pensieri relativi
all’abuso per riuscire a superare l’ansia, la vergogna e il senso di colpa a essi collegati
(Marks, 1987). Altri aspetti della CBT che possono contribuire all’efficacia terapeuti-
ca sono: fattori aspecifici della relazione terapeuta-bambino, la formazione sull’abuso
sessuale e il training nelle competenze sociali e comunicative (Barlow, 1988; Heyne et
al., 2002).
Quali sono le prove dell’efficacia della CBT nel trattamento delle conseguenze
sulla salute mentale dei bambini che hanno subito un abuso sessuale? Una serie di studi
controllati hanno mostrato una maggiore efficacia della CBT (Berliner e Saunders,
1996; Cohen e Mannarino, 1996; Deblinger e Heflin, 1996; Cohen e Mannarino,
1997; Farrell et al., 1998; King et al., 2000). Per esempio, uno studio sul trattamento
dei disturbi emotivi e comportamentali in bambini sessualmente abusati di età presco-
lare ha riscontrato che la CBT era più efficace della terapia supportiva non direttiva
(Cohen e Mannarino, 1996). A oggi, le prove dell’efficacia della CBT per la psicopa-
tologia associata all’abuso sessuale infantile sono focalizzate sul trattamento di singoli
bambini e famiglie. Devono essere condotti studi comparativi sulla CBT individuale
versus quella di gruppo.
La necessità di coinvolgere i genitori nel trattamento psicologico dei bambini è
già stata enfatizzata (Kendall et al., 1992). Questo potrebbe essere particolarmente
importante nel caso del trattamento di bambini sessualmente abusati, dove spesso i
genitori reagiscono proteggendo il bambino da qualunque discussione o esperienza che
potrebbe ricordargli l’abuso. Questa risposta iperprotettiva dei genitori, per quanto
comprensibile, può ostacolare il recupero emotivo (Mennen, 1993).
L’efficacia di includere i genitori nella CBT per i bambini sessualmente abusati
è stata esaminata in diversi studi. Deblinger et al. (1996), in uno studio sull’efficacia
della CBT nel trattamento del DPTS associato all’abuso sessuale infantile, avevano as-
segnato casualmente le famiglie a differenti condizioni sperimentali: trattamento solo
del bambino, intervento non invasivo solo sulla madre, trattamento combinato della
madre e del bambino e gruppo di controllo di cura presso servizi territoriali. La terapia
del bambino era costituita da training su competenze educative, esposizione graduale
allo stimolo ansiogeno, insegnamento di strategie di coping e di prevenzione. Le madri
ricevevano un training educativo e un training sulle competenze comunicative e di ge-
stione dei comportamenti. Tutti gli interventi avevano avuto un beneficio terapeutico
rispetto al gruppo di controllo. C’erano anche degli esiti differenziali fra le diverse con-
dizioni sperimentali. La terapia con focus individuale sul bambino, con o senza il ge-
nitore, era associata a un recupero significativamente maggiore dai sintomi del DPTS.
Il coinvolgimento della madre nella terapia, con o senza il bambino, era associato a un
miglioramento nelle competenze genitoriali e a una maggiore riduzione nel livello di
comportamenti esteriorizzati del bambino.
163
Bruce Tonge e Neville King
In uno studio condotto dagli autori e da altri colleghi (King et al., 2000), 36 bam-
bini e ragazzi abusati fra i 5 e i 17 anni erano stati casualmente assegnati alle seguenti
condizioni sperimentali: CBT per il bambino, CBT per la famiglia o gruppo di control-
lo in lista d’attesa. Le 20 sedute di CBT focalizzate sul bambino si basavano sul manua-
le del protocollo di trattamento utilizzato da Deblinger e colleghi (Deblinger e Heflin,
1996; Deblinger et al., 1996) che comprendeva un lavoro educativo, la fissazione degli
obiettivi, il training in competenze di coping e di rilassamento, la ristrutturazione co-
gnitiva, l’esposizione graduale, la prevenzione della ricaduta e l’insegnamento di com-
portamenti sicuri. La CBT per la famiglia utilizzava lo stesso programma di 20 sedute.
Inoltre, quando la madre, il padre e il padrino non erano i soggetti abusanti ed erano
attivamente coinvolti nella cura del bambino, ricevevano un intervento non invasivo di
20 sedute educative e di training in competenze genitoriali. Le sedute prevedevano una
formazione sull’abuso sessuale infantile, sulle competenze comunicative, di problem-
solving e di gestione del comportamento e un training nel monitoraggio della propria
ansia e del proprio stress emotivo. Se paragonati ai bambini del gruppo di controllo in
lista d’attesa, coloro che erano stati sottoposti al trattamento, presentavano un miglio-
ramento significativo nella sintomatologia del DPTS, avevano meno paura ed erano
meno ansiosi. Anche se i terapeuti in questo studio riferivano di aver trovato la CBT
per la famiglia più soddisfacente sul piano clinico e ben accetta ai genitori, non c’erano
state prove che dimostrassero l’apporto di un miglioramento significativo all’esito te-
rapeutico ascrivibile al coinvolgimento dei genitori. L’unica differenza significativa con
il trattamento individuale era nel senso di paura sperimentato dal bambino, che dimi-
nuiva nella condizione sperimentale della CBT applicata alla famiglia. La numerosità
relativamente piccola del campione (n = 36) potrebbe rendere conto dell’impossibilità
di questo studio di dimostrare un effetto differenziale a seguito del coinvolgimento
dei genitori simile a quello trovato da Deblinger et al. (1996) con 90 partecipanti. Il
coinvolgimento dei genitori in entrambi questi studi è focalizzato sulla comprensione
e sulla gestione del bambino.
Tuttavia, nello studio degli autori (King et al., 2000), i genitori, soprattutto le
mamme, riferivano con frequenza di sperimentare esse stesse un forte stress e una serie
di problemi emotivi fra cui ansia e depressione. Circa la metà delle madri riferiva di
aver subito a sua volta un abuso sessuale nell’infanzia, anche se la maggior parte non
aveva mai ricevuto un aiuto professionale per le conseguenze emotive negative. Pertan-
to, è possibile che l’aggiunta di sedute specifiche di CBT focalizzate sul trattamento
delle problematiche di salute mentale dei genitori, migliorasse ulteriormente gli esiti sia
per il bambino sia per i genitori stessi. Chiaramente, sono necessarie ulteriori ricerche
sui benefici relativi del coinvolgimento dei genitori nel trattamento e su quale potrebbe
essere il protocollo di trattamento più efficace.
I manuali di trattamento aiutano i terapeuti in molti modi importanti perché for-
niscono un piano di intervento che ha solide fondamenta teoriche, sedute strutturate
e fogli di lavoro da utilizzare con i clienti. Inoltre, favoriscono la valutazione oggetti-
va, in prove controllate, “dell’aderenza” al trattamento da parte dei terapeuti (King e
Ollendick, 1998, 2000). Nello studio degli autori (King et al., 2000), un terzo delle
sedute terapeutiche sono state videoregistrate e sottoposte alla verifica di un clinico in-
dipendente. Questa verifica aveva rivelato una concordanza del 95% fra il manuale di
164
Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale
trattamento e il contenuto delle sedute. Tuttavia si deve evidenziare come sia proprio il
manuale a contenere una varietà di attività appropriate all’età e di risorse che assicurano
l’adeguatezza della seduta al livello di sviluppo del bambino. Nella pratica clinica, l’uti-
lizzo di un programma di CBT basato su un manuale dà una struttura alla terapia, ma
permette anche una flessibilità per rispondere a problematiche individuali e contestuali
proprie del bambino e della famiglia (Deblinger e Heflin, 1996).
La struttura, l’importanza e le caratteristiche delle componenti degli attuali ap-
procci di CBT per il trattamento delle psicopatologie associate all’abuso sessuale in-
fantile potrebbero variare, ma sono tutte piuttosto simili nel contenuto. Gli autori di
seguito presentano una descrizione accurata, insieme alle prove empiriche, di un tipico
programma di CBT per ragazzi che soffrono le conseguenze emotive e comportamen-
tali dell’abuso sessuale (King et al., 2000). Questo programma è costituito da moduli
il cui contenuto si può proporre in ordine differente da quello sotto indicato e alcuni
potrebbero prevedere un numero maggiore o minore di sedute a seconda dei bisogni
individuali e del livello evolutivo del bambino.
• Il terapeuta fornisce rinforzi positivi al ragazzo per aver deciso di iniziare la terapia
e cerca di stabilire un’alleanza terapeutica.
• L’assegnazione di compiti a casa è essenziale e fornisce l’opportunità di sviluppare
delle competenze.
• I compiti a casa vengono rivisti insieme all’inizio di ogni seduta. Gli impedimenti
allo svolgimento dei compiti costituiscono la base di successive attività di comuni-
cazione e problem-solving, mentre il successo viene premiato con dei rinforzi.
• Il terapeuta fornisce un modello di sicurezza e calma quando discute il materiale
relativo all’abuso.
• Il focus è sui punti di forza del bambino e sul cercare di modellare competenze di
coping comportamentali e cognitive.
Finalità
Stabilire una relazione e fare sì che il bambino si senta sicuro. Si descrive tutto
il piano di trattamento. Si forniscono informazioni sull’abuso sessuale e si utilizzano
espressioni sessuate in modo da desensibilizzare il bambino nei confronti dell’imbaraz-
zo o dell’incertezza nel trattare l’argomento. Il bambino stabilirà gli obiettivi terapeuti-
ci e inizierà a costruire la speranza di un esito positivo.
165
Bruce Tonge e Neville King
Attività
Finalità
Attività
166
Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale
Finalità
Attività
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Bruce Tonge e Neville King
Finalità
Attività
168
Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale
potrebbe richiedere l’uso di note scritte, giochi con delle bambole, disegni, canzoni,
poesie scritte o un audiocassetta. Queste sono tutte tecniche immaginative che di solito
prevedono la costruzione di una gerarchia di eventi che va da quelli meno stressanti a
quelli più stressanti. Questo approccio per immagini alla desensibilizzazione sistemati-
ca è collegato a un’applicazione progressiva delle strategie di rilassamento e di ripasso.
Alcune volte, in presenza di un evitamento non realistico e di risposte ansiose di fronte
ad aspetti della vita quotidiana, potrebbe essere necessario utilizzare una desensibilizza-
zione sistematica in vivo nei confronti di una gerarchia di situazioni, come per esempio
avvicinarsi a un parco, entrare nel parco, prendere la strada per il palco dove suona la
banda e così via.
Il bambino di solito ha bisogno di lavorare sui ricordi del proprio abuso in nume-
rose occasioni.
Finalità
Attività
Si chiede al bambino di identificare gli eventi che, dall’abuso in poi, potrebbero es-
sere stati causa di angoscia, fra cui essere sottoposti a un esame medico o parlare con la
polizia e, se possibile, di scrivere una storia o disegnare una figura dell’evento. Si spiega
come anche queste situazioni possano generare sentimenti, pensieri e comportamenti
negativi. Si utilizzano la ristrutturazione cognitiva o la desensibilizzazione sistematica e
per superare le emozioni negative associate al ricordo di queste esperienze si applicano
le strategie di coping.
Queste sedute potrebbero anche portare a identificare i sentimenti verso l’aggres-
sore che spesso complessi e ambivalenti. Potrebbe essere utile per il bambino creare
un elenco, disegnare una figura, scrivere una lettera o parlare di tutti i sentimenti che
prova verso l’aggressore. Si spiega al bambino che i sentimenti di paura sono lasciti
normali dell’esperienza di abuso, ma non significano necessariamente che ci si trovi
attualmente in una situazione di pericolo reale. Si evidenzia l’importanza di saper di-
stinguere fra un pericolo reale e i ricordi dell’esperienza passata di abuso. Si generano
esempi di situazioni di pericolo reale, restare da soli con l’aggressore, in opposizione a
un ricordo dell’abuso, vedere qualcuno che assomiglia all’aggressore. Si aiuta il bam-
bino a identificare i fattori di sicurezza nella propria casa, a scuola e nel vicinato come
insegnanti di guardia, l’utilizzo di un telefono cellulare o l’esistenza di norme restrittive
per l’aggressore. I compiti a casa potrebbero includere l’applicazione delle strategie di
coping, l’utilizzo di affermazioni calmanti e di esercizi di rilassamento, quando si pre-
sentano i pensieri sull’aggressore.
169
Bruce Tonge e Neville King
Finalità
Attività
Finalità
Attività
170
Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale
Conclusioni
Un programma di CBT standardizzato per i ragazzi che soffrono le conseguenze
emotive e comportamentali dell’abuso sessuale infantile, li incoraggia a confrontarsi
con la propria esperienza e fornisce loro una serie di strategie di coping per gestire le pro-
prie emozioni disturbate. I follow-up di bambini sessualmente abusati trattati con una
CBT indicano che i risultati terapeutici si mantengono nel tempo, anche se gli studi a
lungo-termine devono ancora determinare se le conseguenze negative a lungo termine
dell’abuso, possano essere prevenute del tutto (King et al., 2000). Tuttavia, le prove at-
tuali suggeriscono che la CBT dovrebbe essere il primo trattamento offerto ai bambini
che presentano i disturbi psicologici associati a un’esperienza di abuso sessuale.
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173
CAPITOLO 11
Introduzione
Le espressioni “adattamento”, “separazione” e “divorzio” non sono così chiare come
potrebbero sembrare a prima vista. L’adattamento è un concetto multidimensionale
e richiede definizioni concettuali e operative che abbiano un’utilità clinica. I divorzi
sono uno diverso dall’altro nelle proprie manifestazioni e sono multifattoriali nella pro-
pria eziologia, nei percorsi che seguono e negli esiti che generano. L’adattamento degli
adulti, dei bambini e degli adolescenti all’impatto del divorzio e della separazione può
essere misurato in molti modi (per es. Munsinger e Kaslow, 1996), come nel caso della
valutazione del rancore in seguito a una rottura (per es. Kurdek, 1987; Emery, 1992).
L’adattamento potrebbe avere a che fare con la rielaborazione di un trauma in qualcuno
o tutti questi ambiti: emotivo, comportamentale, cognitivo e sociale. Queste reazioni
possono essere concomitanti, di breve durata, a lungo termine e/o ritardate (“effetti
dell’informazione dormiente”). L’adattamento richiesto potrebbe non necessariamente
riguardare un evento percepito come traumatico, ma piuttosto come una felice libera-
zione dal maltrattamento (Browne e Herbert, 1997).
Sempre di più, non è il matrimonio che finisce in una separazione, ma un relazione
di coabitazione che fallisce. Nei primi anni sessanta, il 90% dei bambini e adolescenti
venivano cresciuti in casa dalla nascita con due genitori sposati; oggi la percentuale è
del 59% nel Regno Unito e del 40% negli USA. Questa marcata riduzione nei numeri
è dovuta al drammatico aumento dei divorzi e delle separazioni. Questa affermazio-
ne è difficilmente contestabile, data l’elevata percentuale statistica dei divorzi, circa il
40%, che rappresenta un evento assurdo e o inevitabilmente stigmatizzante nelle vite
attuali dei bambini. Anche se in Occidente è spesso un’esperienza comune, come per
l’attesa dal dentista, questo non lo rende meno doloroso. Il divorzio è una sentenza che
175
Martin Herbert
influenza tutti i membri della famiglia, non solo i coniugi. È considerato il secondo
evento di vita più stressante delle 43 circostanze potenzialmente traumatiche elencate
nella Social Readjustment Scale (Holmes e Rahe, 1967). Tutte le statistiche indicano che
un numero sempre maggiore di bambini, circa il 40%, passa una parte della propria
infanzia e adolescenza in casa con genitori divorziati, risposati, single, con matrigne,
patrigni, sorellastre o fratellastri.
Famiglie ricostituite
176
L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori
personali del bambino e dei genitori, alle caratteristiche dinamiche dello stile di vita
e della storia della famiglia.
Se le conseguenze siano benigne (per alcuni, il divorzio rappresenta una fuga da
un partner abusante verso i figli, dalla violenza domestica, da forme di dipendenza da
droghe o da attività criminali) o maligne dipende da una serie di influenze che media-
no l’effetto: variabili predisponenti, precipitanti o di mantenimento (per es. Amato e
Booth, 1997). Fra i cambiamenti importanti che impegnano i genitori affidatari (di
solito le madri) possiamo trovare:
Transizioni
Una “transizione” rappresenta una discontinuità nel flusso di vita di una persona.
Un aspetto cruciale delle transizioni è che indipendentemente dalla crisi che un indivi-
duo si trova ad affrontare (la disintegrazione della famiglia, la vita in una nuova fami-
glia o cambiamenti sostanziali nelle relazioni di attaccamento), l’adattamento riuscito
dipende dalla scoperta di nuovi comportamenti adattivi (differenti tattiche e risposte
strategiche) che il bambino e/o l’adulto utilizzano per andare incontro alle circostanze
mutate e in continuo cambiamento. La comprensione e il chiarimento da parte del
terapeuta delle reazioni tipiche dei bambini di età differenti agli eventi di transizione
dovrebbero aiutare questi bambini a creare nuove “storie” (reframing/ ristrutturazio-
ne cognitiva) di sé e delle proprie vite e dei processi di cambiamento che li “hanno
sommersi”. Un trattamento riuscito si basa sulla scelta di interventi che siano congrui
rispetto al livello di sviluppo del bambino e sull’impegno della famiglia a fornire un
supporto. Negli studi di Wallerstein e Kelly degli anni ’70 e dei primi anni ’80, era
chiaro che i bambini rispondevano al divorzio in maniere differenti, a seconda dell’età
(Wallerstein e Kelly, 1975, 1980). Un’analisi delle reazioni caratteristiche e dei cambia-
177
Martin Herbert
Inoltre, Wallerstein e Kelly (1980) hanno trovato che i bambini fra i 9 e i 12 anni
riferivano sintomi somatici, come mal di testa e di stomaco, e i bambini affetti da asma
cronica riferivano attacchi più frequenti e intensi.
Gli adolescenti chiaramente non sono immuni alla sofferenza quando i genitori si
separano. I risultati di uno studio di 2 anni di Sun (2001) su più di 10000 adolescenti
americani (798 figli di divorziati) ha rivelato che gli effetti negativi su ciascuno degli
indicatori di funzionamento psicologico analizzati – benessere, frequenza scolastica,
disturbo comportamentale, droga e abuso di alcol – erano evidenti almeno 1 anno pri-
ma della fine del matrimonio. Queste conseguenze erano accompagnate da un declino
nell’interesse genitoriale e nell’impegno verso la propria prole.
Uno studio longitudinale di 20 anni su 2000 coppie e 200 bambini figli di queste
coppie che avevano raggiunto i 19 anni (Amato, 1993) ha rivelato che il 40% aveva di-
vorziato l’anno precedente. Una piccola maggioranza sembrava invece avere dei “matri-
moni molto buoni”. I bambini erano maggiormente feriti da genitori che discutevano
di rado e poi divorziavano all’improvviso, che da quelli che si confrontavano aspramen-
te e molto di frequente prima di separarsi. Il quaranta per cento dei divorzi includeva
matrimoni in cui i genitori dei bambini erano in un conflitto violento e costante, ma
non si separavano. Questa era la situazione peggiore di tutte.
Come nel caso di altri studi, c’erano prove che i bambini traessero sollievo dalla
fine di una relazione violenta e disarmonica, anche se soffrivano gravi danni derivanti
dall’attuale situazione di rottura in se stessa. I bambini riferivano un senso di sollievo
quando finiva il conflitto fra i genitori. Ciò non di meno, un probabile esito della se-
parazione genitoriale era la revisione della relazione del bambino con i propri genitori
e, certamente, la messa in discussione di tutte le relazioni sociali e intime. In particolare
per i bambini più piccoli, c’è la presa di coscienza dolorosa che alcune relazioni fami-
liari potrebbero non durare per sempre. Mole reazioni infantili a volte sono espressione
della paura di essere abbandonati da uno o entrambi i genitori. Simili paure saranno
probabilmente più acute se si è perso il contatto con uno dei due genitori. Se le rela-
178
L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori
zioni fra i genitori e il bambino restano intatte, e supportive, queste paure sono meno
gravi (Neugebauer, 1988/89).
I bambini considerati più svantaggiati sono (vedere Walczak, 1984); (1) quelli con
cui i genitori non sono in grado di parlare del divorzio (a parte accusare l’ex partner); (2)
quelli che dopo la separazione non si trovano bene almeno con un genitore; (3) quelli
che non sono soddisfatti delle soluzioni di affidamento e di visita. Nella popolazione
femminile adolescente e adulta, il divorzio è stato associato con minore autostima, atti-
vità sessuale precoce, comportamento delinquenziale e maggiori difficoltà nello stabilire
relazioni adulte eterosessuali gratificanti e durevoli (per es. Capaldi e Patterson, 1991;
Hetherington et al., 1998; Hetherington e Stanley-Hagen, 1999). Dopo un divorzio, il
destino di molti bambini di tutte le classi sociali è costituito da risorse finanziarie ridot-
te. Tuttavia, i bambini che provengono da famiglie con reddito basso hanno maggiori
probabilità di vivere situazioni di vera povertà, soprattutto se le mamme non lavorano.
I bambini che provengono da famiglie con redditi più alti potrebbero sperimentare una
riduzione nelle risorse e nello stile di vita (Furstenberg e Cherlin, 1991).
I genitori affidatari sono di solito mamme divorziate e sole che si trovano a con-
frontarsi non solo con difficoltà finanziarie ma anche con problemi di lavoro e di
carriera, oltre che con le richieste costanti di accudimento. I bambini piccoli hanno
bisogno di attenzioni speciali e di accudimento, ma il genitore potrebbe non avere
altra scelta che cercare lavoro. Trovare dei caregiver sostitutivi e soddisfacenti può essere
difficile e molto costoso. Anche trovare una casa è un problema piuttosto costoso da
risolvere. Molte difficoltà non risolte potrebbero esaurire le ultime risorse emotive della
madre o del padre lasciati soli a fare fronte alle necessità di una famiglia.
Interventi
Quando le famiglie si presentano con difficoltà di adattamento post-separazione
è necessario intraprendere un intervento sistemico e multimodale basato su una valu-
tazione approfondita e su un piano di trattamento. Un intervento potrebbe non im-
plicare solo la terapia. L’uomo o la donna soli avranno bisogno di un aiuto finanziario,
pratico e personale. Un’altra necessità è quella di ricevere informazioni giuste e accurate
sullo sviluppo dei propri figli, date queste circostanze stressanti.
Un programma multimodale potrebbe prevedere un lavoro con i sistemi familiari
precedenti e nuovi, la famiglia originale e quella ricostituita, i nuovi partner e i loro bam-
bini. Potrebbe anche includere interventi su una varietà di sottosistemi, che compren-
dono membri individuali della famiglia. Esistono numerosi programmi terapeutici che i
clinici possono scegliere fra cui: psicoterapia psicodinamica, terapia narrativa e orientata
alla soluzione, terapia no-talk, terapia ludica cognitiva e non cognitiva, approcci alla
risoluzione dei conflitti e la terapia cognitivo comportamentale (CBT) (vedere Stuart e
Abt, 1981; Rossiter, 1988; Webster-Stratton, 1999). Poche ricerche valutano la maggior
parte di questi modelli di trattamento. Ciò non di meno, una revisione degli interventi
per adulti, per i bambini o i gruppi suggerisce che alcuni di questi, soprattutto la CBT,
permettano di conseguire miglioramenti significativi nell’adattamento personale e fa-
179
Martin Herbert
miliare. Le rassegne di Lee et al., 1994 e di Fonagy et al., 2002 sono particolarmente
importanti dal momento che suggeriscono quali terapie sono efficaci e per cosa, quali
non funzionano e quali non siano state ancora convalidate.
Gli interventi che si basano sulla famiglia (per es. terapia familiare comportamen-
tale e non comportamentale, training nelle competenze genitoriali e counseling) sono
stati fortemente suggeriti come mezzi per aiutare i membri delle famiglie ad adattarsi ai
loro nuovi ruoli, alla gestione delle difficoltà del bambino e ad altri problemi del tipo
precedentemente elencato.
I problemi di adattamento più comuni collegati al divorzio sono: disturbi del-
la condotta nella prima infanzia (vedere il Capitolo 13), problemi d’ansia (vedere il
Capitolo 18); reazioni depressive (vedere il Capitolo 16) e attività delinquenziali in
adolescenza (vedere il Capitolo 25).
Tutti gli altri problemi di adattamento derivanti da esperienze di separazione e
divorzio, possono essere trattati con la CBT, la terapia familiare comportamentale o il
parent training (vedere Herbert, 2002). Fra questi problemi ci sono:
180
L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori
Una volta che è stata presa la decisione di divorziare, questi mezzi sono stati con-
siderati importanti per aiutare i bambini:
181
Martin Herbert
Wallerstein e Blakeslee (1989) hanno concluso che i compiti psicologici per i bam-
bini sono:
1. comprendere il divorzio;
2. ritirarsi in se stessi – i bambini e gli adolescenti, dopo il divorzio, hanno bisogno
di tornare alle proprie vite di sempre il prima possibile. È importante che rico-
mincino le solite attività a scuola e nel tempo libero, e ritornare fisicamente ed
emotivamente ai normali compiti della crescita.
3. Gestione della perdita.
4. Gestione della rabbia.
5. Elaborare e risolvere il proprio senso di colpa.
6. Accettare l’irreversibilità del divorzio.
7. Evitare di sentirsi non degni di amore o in colpa a causa del divorzio. Dovrebbero
essere incoraggiati ad accettare realisticamente che sono capaci di amare ed essere
amati e convinti di non avere alcuna responsabilità della rottura di una relazione
fra due adulti.
182
L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori
Orientamento
Questa sezione si focalizza sui modi in cui i genitori possono rassicurare i propri
bambini. Vengono illustrate nel dettaglio le attribuzioni e le reazioni dei bambini negli
spasimi e negli strascichi del divorzio, i principali meccanismi di difesa, come la ne-
gazione, i comportamenti di acting out e di aggressività che i bambini utilizzano per
allontanare il dolore e il risentimento che provano. Si condividono, discutono e con-
frontano i comportamenti di acting out e i modi per gestire l’elaborazione dell’evento
che i bambini mostrano di frequente dopo un trauma da divorzio.
Questa sezione si focalizza sul fornire rassicurazione agli stessi partecipanti. Inclu-
de la descrizione delle reazioni più comuni (immediate e ritardate) alla rottura di una
relazione ed enfatizza che simili reazioni sono normali, anche se potrebbero sembrare
“anormali”. Si riconosce anche la necessità, a volte e in alcuni casi, di “piangere” su
un matrimonio perduto. Vengono forniti consigli su come fare fronte alla solitudine
che segue un divorzio e sui modi di gestire l’insicurezza di sé. Questa parte sottolinea
l’importanza di contrastare il risentimento e l’amarezza che derivano da un matrimonio
spezzato e delinea (con l’aiuto del brainstorming e delle discussioni) modalità costrutti-
ve con cui i partecipanti possono aiutarsi a fronteggiare il futuro da soli.
183
Martin Herbert
184
L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori
“Punti oscuri”
Vengono dati ulteriori suggerimenti per gestire comportamenti difficili dei bam-
bini, insieme ad alcune idee per la gestione delle conseguenze più ritardate del divorzio
(vedere Webster-Stratton e Herbert, 1994). In aggiunta, si illustrano e si discutono
modalità efficaci di utilizzare ricompense e punizioni e di incoraggiare i comportamen-
ti attesi e prosociali. Di solito, viene data la possibilità di fare domande e di sollevare
possibili dubbi per un dibattito.
Saluti/Seduta finale
Si invitano i partecipanti a fare commenti sugli aspetti del Corso che hanno tro-
vato utili o inutili. Si fa un riassunto generale del corso e vengono ricordate tutte le
strategie e i principi suggeriti dai partecipanti e dai facilitatori che poi vengono scritti
su una flip chart. Si fanno gli ultimi saluti e ci si accorda per tenersi in contatto, se
necessario, e per le successive sedute di “ripasso/supporto”.
Conclusioni
Apprendiamo dalla testimonianza di alcuni adulti che sono passati attraverso
l’esperienza del divorzio da bambini, che sono cresciuti, si sono sposati e hanno co-
struito le proprie famiglie, che, contrariamente all’opinione diffusa, il divorzio può
avere un impatto che dura tutta la vita. Il divorzio non abbandona facilmente i ricordi
dei bambini quando questi fanno il loro ingresso nella vita adulta (Hetherington et
al., 1998). Wallerstein e Blakeslee (1989) riferiscono che il divorzio continua a occu-
pare un posizione emotiva centrale nelle vite di molti adulti, anche 10-15 anni dopo
l’evento. Sia uomini che donne avevano raccontato che lo stress di essere un genitore
single non li abbandonava mai e che non cessava mai nemmeno la pura di restare da
soli. Wallerstein e Blakeslee (1989, p.60) concludono la loro rassegna sulla letteratura
come segue:
Volevamo credere che il tempo avrebbe lenito i sentimenti di dolore e rabbia, che il tempo in
se stesso curasse tutte le ferite e che le persone per natura avessero delle capacità di recupero.
Ma non esistono prove che il tempo faccia automaticamente diminuire i sentimenti o i ricordi,
che il dolore e la depressione possano essere superati, che la gelosia, la rabbia e il risentimento
svaniscano. Alcune esperienze provocano lo stesso dolore, anche dieci anni dopo; alcuni ricordi
ci perseguitano per tutta la vita.
E gli effetti continuativi del divorzio non erano ristretti solo agli adulti. Wallerstein
e Blakeslee (1989) hanno trovato che dopo 10 anni i bambini appartenenti a famiglie
divise asserivano che la crescita per loro, figli di divorziati, era stata più dura di quella
dei bambini figli di famiglie unite. Sentivano che le proprie vite erano state oscurate dal
185
Martin Herbert
divorzio dei genitori e si sentivano deprivati di una vasta gamma di sostegni economici
e psicologici. Molti dei bambini erano arrivati all’adolescenza e ai primi anni dell’età
adulta con numerosi sentimenti non risolti, soprattutto rabbia verso il comportamento
dei genitori durante il matrimonio. Anche l’amarezza era un altro sentimento tipica-
mente presente. Non erano state identificate reazioni all’inizio dell’evento fattori che
fossero predittori degli effetti a lungo termine del divorzio sui bambini (o sugli adulti.
Anche Herthington e Stanley-Hagen (1999) concludono, alla fine di un’impor-
tante rassegna della letteratura, che il divorzio può avere un impatto che dura per tutta
la vita. Aggiungono inoltre che le conseguenze non sono sempre di tipo negativo o
regressivo. Molti bambini quando crescono negli strascichi di un divorzio superano il
trauma e arrivano a contribuire alla società, invece che a ribellarsi contro di essa. Anche
se i bambini nelle famiglie divorziate, rispetto a quelli di famiglie unite, presentano
maggiori rischi di sviluppare problemi sociali, emotivi, comportamentali e scolastici,
nella maggioranza sono invece individui competenti, che hanno un buon livello di fun-
zionamento complessivo. Inevitabilmente, ci saranno quelli soddisfatti delle proprie
vite e senza rimpianti relativi al divorzio. Questo valeva per circa la metà degli uomini e
delle donne nel campione di Wallerstein e Kelly (1980) intervistati circa 10 anni dopo
da Wallerstein e Blakeslee (1989). Come sempre, è necessario tenere in considerazione
le differenze individuali. Nel cercare di spiegare le origini e la natura di un “cattivo
adattamento” di un bambino, in seguito a un divorzio, i clinici ignorano a proprio
rischio e pericolo alcune variabili che possono fungere da moderatori. Le formula-
zioni che ipotizzano una relazione lineare fra un singolo precursore eterogeneo come
la “divisione di una famiglia” e il successivo sviluppo di reazioni negative, potrebbero
trascurare l’impatto di altre esperienze sullo sviluppo del bambino che ne determinano
la vulnerabilità o la resistenza agli eventi stressanti della vita.
Nel 1996, è stato approvato nel Regno Unito il Family Law Act, che obbliga tutti
coloro che chiedono il divorzio a presenziare a un incontro informativo in cui vengono
illustrate le conseguenze del divorzio, fra cui l’impatto che questo ha sui bambini, i
costi probabili dei servizi legali e dei servizi sociali (di solito mediazione/conciliazione)
disponibili (Fisher, 1990). Viene stipulato un periodo obbligatorio di riflessione e di
valutazione prima di concludere formalmente che il matrimonio è irrimediabilmente
rotto (James, 2002). Superato questo punto, come è già stato visto, esistono varie for-
me di aiuto disponibili (preventive e reattive), in cui la CBT da sola, o in combinazione
con altre metodologie, all’interno di programmi multimodali di gruppo, si è rivelata
uno degli interventi più efficaci.
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QUINTA PARTE
APPLICAZIONI E DISTURBI
SPECIFiCI DELL’INFANZIA E
DELL’ADOLESCENZA
CAPITOLO 12
Quando si lavora con bambini piccoli che hanno disturbi dell’alimentazione o del
sonno, ci sono una serie di approcci terapeutici che vengono utilizzati per adattare il
trattamento alle necessità particolari del bambino e dei genitori. La terapia cognitivo
comportamentale (CBT) fa parte di questo insieme e, nell’età prescolare, è spesso di-
retta più ai genitori che al bambino. Il fatto che la CBT sia stata spostata dal contesto
adulto al complesso insieme di relazioni bambini-famiglie indica l’orizzonte di trat-
tamento deve ampliarsi ulteriormente per includere non solo il lavoro “individuale”
con i bambini, ma anche quello con i genitori e con chi si prende cura di loro (Bar-
rett, 2000). In particolare, le problematiche emotive e comportamentali dei bambini
piccoli, fanno riflettere su quale sia effettivamente il focus del trattamento e su come
sia possibile lavorare al meglio per conseguire gli obiettivi stabiliti. Aiutare i genitori a
cambiare i comportamenti nei confronti del proprio bambino può avere un impatto
positivo sulle difficoltà. Questo processo implicherà spesso che i genitori debbano mo-
dificare i propri pensieri e sentimenti verso il bambino e il suo comportamento.
I programmi di CBT diretti ai genitori sono forme valide di trattamento per i bam-
bini (Bugental e Johnston, 2000; Rapee, 2001), ma fanno effettivamente sorgere la do-
manda “qual è l’obiettivo del trattamento?” Si presume che il cambiamento nei pensieri
dei genitori sia mediatore di una modifica del comportamento e questo, a sua volta,
influenza il comportamento del bambino. Invece non è chiaro se, in queste circostanze,
il cambiamento nei pensieri del bambino si verifichi prima di quello nel comportamen-
to. Si è posta scarsa attenzione alla misurazione delle capacità cognitive dei bambini
come indicatore dell’esito della terapia e questa area di ricerca richiede lo sviluppo di
metodologie di valutazione appropriate e metodologicamente solide (vedere il Capitolo
191
Jo Douglas
192
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
mangia possono produrre livelli intensi di ansia e paura. Questo dà come risultato un
evitamento condizionato del cibo sulla base di un’esperienza avversiva.
Una cattiva gestione del bambino può generare differenti quadri alimentari: bam-
bini che bevono quantità eccessive di latte o di succo di frutta invece di mangiare, che
mangiucchiano per tutto il giorno merendine invece di mangiare pasti completi alle
ore stabilite, irregolarità e caos negli orari dei pasti e aspettative inadeguate sulla quan-
tità di cibo che un bambino riesce a mangiare (Douglas e Bryon, 1996). Non riuscire
porre dei limiti e dei confini al comportamento del bambino può generare una serie di
difficoltà alimentari (Frank e Drotar, 1994).
193
Jo Douglas
I genitori potrebbero pensare che il rifiuto del proprio bambino sia per disobbe-
dienza e negligenza, quando in realtà il bambino sta male o non può mangiare per ra-
gioni fisiche (Harris et al., 2000). Questo può indurre a esercitare pressione sul bambi-
no, a forzarlo ad alimentarsi, a scoppi d’ira e a punizioni che provocano solo maggiore
evitamento e stress emotivo.
Alcuni genitori non sono consapevoli della necessità di chiedere aiuto o perché
sono preoccupati dalle proprie difficoltà emotive o perché non hanno una conoscenza
sufficiente dello sviluppo del bambino. Potrebbero offrirgli cibi inadeguati per carat-
teristiche, quantità o varietà e sembrare inavvertitamente o ingiustamente indifferenti
(Drotar, 1995). Se non forniscono al bambino un aiuto fisico per accedere al cibo e
un supporto al momento dei pasti, potrebbero portare il bambino a una grave denu-
trizione (Bachelor, 1999). I genitori con difficoltà di attaccamento ai propri bambini
mostrano spesso scarsa attenzione ai pattern comunicativi relativi al cibo (Chatoor et
al., 1998).
L’ansia relativa a igiene, disordine e pulizia può essere trasmessa al bambino che
diventa riluttante a toccare il cibo e che chiede continuamente di pulirsi le mani e
il viso mente mangia. I bambini più grandi possono mostrare preoccupazioni sulla
pulizia delle posate e delle stoviglie, mentre i bambini in età prescolare possono avere
fantasie di contaminazione fra cibi differenti che si toccano dentro allo stesso piatto e
potrebbero mangiare solo nel proprio piatto a casa propria.
194
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
Una bassa autostima può essere causa di depressione e può influenzare la capacità
di alcune madri di fare fronte alle richieste nutritive dei propri figli. La madre potrebbe
fare attribuzioni negative sul bambino, sperimentare un senso di incapacità nell’affron-
tare la situazione insieme all’idea di essere una cattiva madre. Più il bambino rifiuta
il cibo, più l’assunto cognitivo fondamentale, quello di non essere una brava madre,
viene rinforzato e la depressione aumenta. Una mamma depressa non riconosce le
necessità del bambino e non può rispondere o rinforzare i suoi tentativi di mangiare
(Batchelor, 1999).
195
Jo Douglas
Alcuni bambini piccoli affermano chiaramente di non poter mangiare cibi di una
determinata consistenza anche quando è palese che riescono a ingoiarli. Non sanno
perché e non hanno chiara la differenza fra “non potere” e “non volere”. Non hanno
motivo di cambiare e questo di solito succede perché non sanno pensare a come cam-
biare. Se vengono forzati a magiare cibi nuovi, hanno sforzi di vomito e rigurgitano
anche senza aver avuto precedenti esperienze avverse con quel cibo; semplicemente
credono di non poterlo mangiare (Douglas, 2000b).
L’intervento
Il trattamento di problemi dell’alimentazione in bambini piccoli richiede un inter-
vento integrato che includa procedure cognitive e comportamentali che sono in grado
di rispondere alle necessità di ogni caso.
In molti casi, la terapia cognitiva con i genitori è il primo passo. In seguito appren-
dono nuove strategie comportamentali per gestire il bambino.
196
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
sulla base di linee guida chiare su come gestire il problema a piccoli passi, può aiutare
i genitori a sentirsi più efficaci. Un parent training strutturato con esercizi ripetuti e
riusciti è uno degli antidoti più efficaci contro la depressione. Può anche essere di aiuto
fornire un approccio cognitivo alla gestione della propria ansia e depressione. Aiutare i
genitori volubili a riconoscere che il bambino non si sta comportando male volontaria-
mente per farli preoccupare può neutralizzare la rabbia e l’irritazione. Questi genitori
hanno anche bisogno di imparare a stabilire dei limiti senza perdere la calma.
I genitori potrebbero aver bisogno di feedback positivi per gli sforzi che stanno fa-
cendo in direzione del cambiamento e per come cercano di gestire il bambino. Criticare
o sottolineare gli errori è demotivante e mina la fiducia nel poter cambiare (Dadds e
Barrett, 2001). Un supporto empatico e una guida precisa su come gestire la situazione
li faranno sentire più sicuri ed efficaci. Una partnership fra il terapeuta e i genitori garan-
tisce un clima positivo e costruttivo in cui il genitore può iniziare a identificare i piccoli
passi del cambiamento. Qualunque risultato dovrebbe essere attribuito ai loro sforzi.
Mano a mano che i genitori acquistano sicurezza e iniziano a vedere alcuni ri-
sultati, possono essere incoraggiati a generare da soli delle soluzioni ai problemi del
bambino. Questo processo di generalizzazione prevede un pensiero creativo e flessibile,
possibile solo dopo che i problemi emotivi dei genitori e la loro autostima hanno subito
un miglioramento.
Anche se gran parte del comportamento del bambino dipende dalle nuove reazioni
che i genitori manifestano verso i suoi pattern alimentari, ci sono alcuni casi in cui può
essere utile un lavoro diretto sui pensieri del bambino.
197
Jo Douglas
Le autoaffermazioni positive – per es. “Io posso mangiare …” e “Se il mio amico
può mangiarlo posso farlo anch’io” – aiutano a costruire un atteggiamento positivo. Un
programma con rinforzi in seguito alla manifestazione del comportamento atteso, pur-
ché capito e accettato dal bambino, lo aiuta nel tentativo di assaggiare nuove tipologie
di cibo o di mangiare maggiori quantità.
Per accrescere la visione di sé come “persona che mangia”, il bambino potrebbe te-
nere un album in cui attaccare tutti i cibi che riesce a mangiare, aggiungendone sempre
di nuovi una volta che ne ha mangiata una certa quantità. L’album rinforza la memoria
del bambino ed è anche una registrazione dei successi. Una star chart può avere lo stes-
so effetto e aiutare i bambini a essere più positivi sui propri sforzi perché permette di
registrare i successi ottenuti.
Quando gli adulti iniziano a parlare di cambiamento, molti bambini sono convin-
ti che si chiederà loro di mangiare un piattone di cibo non gradito o nuovo. Devono ca-
pire ciò che ci aspetta da loro e devono essere rassicurati sul fatto che saranno in grado
di affrontare ogni piccolo passo del cambiamento. Mantenere il bambino calmo è una
componente essenziale del trattamento; l’autostima migliorerà una volta sperimentato
anche un piccolo successo.
Desensibilizzazione
198
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
I genitori riferiscono spesso di non sapere come poter modificare ciò che sta
accadendo e di non capire perché ciò che fanno dà risultati. Potrebbero dubitare del-
l’utilizzo di una maggiore assertività per paura che il bambino creda che perderanno
la calma. Imparare a stabilire obiettivi di cambiamento chiari, realistici e graduali,
utilizzando rinforzi positivi, accrescerà la capacità dei genitori di gestire con maggio-
re efficacia l’alimentazione dei propri figli. Gli approcci che prevedono il modelling,
lo shaping e i rinforzi sono tutti utili nella gestione del bambino (Douglas e Harris,
2001; Douglas, 2002a, b). I genitori possono essere modello della gioia di toccare e
mangiare il cibo e lodare i propri figli per piccoli cambiamenti. Utilizzare ricompense
e star charts per aver provato ad assaggiare un nuovo cibo, o per aver mangiato una
certa quantità, può aiutare il bambino e i genitori a riconoscere che è stato fatto un
piccolo progresso. Ignorare i comportamenti non appropriati ai pasti e attenersi a
quelli appropriati è una tecnica efficace di gestione del cambiamento (Hampton,
1996). Incoraggiare un’indipendenza adeguata all’età può essere un passo importante
per ridurre l’ansia dei genitori e un loro eccessivo coinvolgimento nelle ore dei pasti
(Douglas, 2000a).
Caso esemplificativo
Suzie, 5 anni, aveva molta paura dei cibi che contenevano noci, aveva ristretto gra-
vemente la propria dieta e chiedeva continuamente rassicurazioni alla propria madre.
L’ansia era diventata sempre più generalizzata: non voleva che il proprio cibo venisse
cucinato nelle stesse pentole utilizzate per il resto della famiglia, perché non doveva
venire a contatto con quello degli altri, e si preoccupava della pulizia delle posate. Non
mangiava a casa di amici, alle feste o nei ristoranti. La famiglia non poteva andare in
vacanza a causa del suo rifiuto per il cibo.
Un anno prima, Suzie aveva avuto una lieve reazione anafilattica dopo aver
mangiato delle noci e alla madre era stata data una siringa per l’autosomministra-
zione dell’adrenalina in caso di emergenza. La madre era membro di un gruppo
di supporto per genitori per bambini con allergia alle noci ed era diventata molto
informata. Dopo aver osservato come veniva utilizzata sulla sorella maggiore, in
seguito a un’inaspettata reazione anafilattica nel corso di un test allergico alle noci
in ospedale, Suzie era terrorizzata dalla siringa per l’autosomministrazione e non
riusciva nemmeno a tenerla in mano. Suzie aveva sentito la penna fare un clic e
aveva visto la sorella piangere e boccheggiare e si era spaventata. L’ansia di Suzie era
fortemente aumentata dopo questo episodio e anche le sue restrizioni sul cibo dato
che era terrorizzata dalla siringa e non la considerava assolutamente un mezzo per
tranquillizzarsi.
Il piano di trattamento prevedeva: (1) aiutare Suzie a controllare la propria ansia
insegnandole tecniche di respirazione e rilassamento; (2) ridurre qualunque tipo di rin-
forzo di affermazioni di preoccupazione, chiedendo alla madre di non rispondere alle
continue richieste di rassicurazione ma di concedere a Suzie un “momento di preoc-
199
Jo Douglas
cupazione”, ogni giorno alle 6 del pomeriggio, in cui poteva chiedere tutto ciò che
desiderava sapere; (3) eliminare i rinforzi dell’ansia della bambina non permettendole
di scegliere le stoviglie e (4) rinforzare Suzie, attraverso una star chart, per aver accettato
e creduto che la mamma le preparasse cibo privo di noci. Lei fu d’accordo e iniziò con
un bambolotto. La madre aveva bisogno di aiuto per imparare a non rispondere alle
preoccupazioni di Suzie, per essere più ferma e non permettere a Suzie di assumere il
controllo nel corso dei pasti e per evitare di rispondere alle richieste dei bambini piut-
tosto che stabilire confini chiari. Ammetteva di dover essere più chiara e più ferma con
tutti loro.
Una volta raggiunti i primi stadi di cambiamento, il passo successivo era ridurre
l’ansia di Suzie collegata alla siringa. Questo risultato è stato ottenuto attraverso un
programma di desensibilizzazione: Suzie doveva iniziare riuscendo a tenere in mano la
siringa e, alla fine, doveva riuscire a utilizzarla su una bambola. Questo le aveva per-
messo di sentirsi più sicura; alla fine era riuscita a portarsela a casa di un’amica all’ora
del tè. Una volta che era riuscita a fare questo, divenne possibile aumentare la varietà di
cibi di Suzie includendo quelli che prima rifiutava senza alcuna buona ragione. La ma-
dre si prese carico completamente dei pasti e decideva lei cosa cucinare, senza chiedere a
Suzie cosa desiderasse mangiare. La sicurezza nel decidere quali cibi dare a Suzie doveva
aumentare e in seguito era possibile iniziare a utilizzare cibi che “potevano contenere
tracce di noci” sull’etichetta.
Lo scopo era spostarsi in direzione di una situazione in cui Suzie poteva essere
ricoverata all’ospedale per una prova allergica senza entrare nel panico, dal momento
che le sue analisi del sangue erano risultate tutte normali. La madre si era resa conto di
quanto fosse diventata insicura in seguito alle richieste e alle preoccupazioni di Suzie
e di aver permesso a Suzie di smettere di fidarsi di lei e di averle permesso di assumere
il controllo a casa. Mano a mano che la madre aveva guadagnato maggiore sicurezza e
controllo, Suzie si era rilassata e aveva nuovamente permesso alla madre di prendersi
carico di lei.
200
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
I genitori che sono molto ansiosi con i propri figli possono stabilire pattern di
consolazione strettamente dipendenti dalla loro presenza. Queste madri tengono spes-
so in braccio il proprio bambino tutto il giorno, hanno difficoltà nell’incoraggiarlo a
dormire da solo e hanno problemi a sospendere l’allattamento al seno a meno che non
sia il bambino a decidere di smettere. Associare l’addormentamento del bambino o il
fatto che questo si calmi con l’utilizzo di determinati comportamenti può creare un pa-
radigma di apprendimento molto potente che i genitori fanno difficoltà a cambiare. I
genitori ansiosi rispondono molto rapidamente al pianto del proprio bambino e spesso
interferiscono o impediscono al bambino di imparare ad auto-consolarsi (Burnham et
al., 2002).
201
Jo Douglas
I genitori cercano di capire le ragioni per cui il proprio bambino piange di notte e
fanno molte supposizioni, alcune delle quali sono inadeguate e altre che sono collegate
più allo stato emotivo del genitore o alla sua autostima che all’osservazione accurata del
comportamento del bambino.
Il pianto dei bambini può evocare uno stress intenso in alcuni genitori il cui stato
emotivo potrebbe portarli a interpretare il pianto come una forma di attacco perso-
nale verso di loro e quindi ad arrabbiarsi; o potrebbero pensare che il bambino sta
sperimentando un’angoscia molto forte e non riconoscono che il pianto è un mezzo
per ottenere ciò che desidera. Questo fraintendimento delle ragioni del pianto rin-
forza l’ansia o la depressione ed essi spesso reagiscono in modi che contribuiscono a
perpetuare il ciclo.
Questi pensieri potrebbero portare i genitori a credere che i propri figli non sono
in grado di passare la notte senza mangiare, o che il bambino si sentirà rifiutato o
abbandonato se dorme nel proprio letto (Wolfson, 1998). Alcune madri credono di
dover essere sempre disponibili per il proprio bambino 24 ore su 24 e quindi non sono
in grado di creare uno spazio personale per se stesse. Alcuni genitori ritengono di non
dover dire “no” al proprio bambino e che il bambino arriverà da sé alla decisione mi-
gliore. I genitori potrebbero avere aspettative inadeguate su quanto dovrebbe dormire
un bambino.
202
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
Non essere capaci di prendere decisioni sui pattern di sonno del bambino è un’even-
tualità che può verificarsi quando un bambino è stato malato o il genitore è stato mi-
nato nella propria fiducia da un altro membro della famiglia o da informazioni di altri
ritenute “autorevoli”. Il padre potrebbe volere che il bambino stia calmo di notte per-
ché egli lavora. I nonni potrebbero criticare il comportamento della madre e i giornali,
le riviste e i libri hanno tutti informazioni differenti da dare.
Una depressione dei genitori potrebbe essere stata causata da una bassa autostima
in seguito alle proprie esperienze precoci nell’infanzia o alla rottura di relazioni adulte.
Un disturbo dell’umore può rendere alcuni genitori incapaci di fronteggiare le richieste
notturne dei propri figli. Un pattern caotico di risposta, in cui non vengono definiti
confini chiari e in cui i segnali dati sono non sono precisi, può confondere il bambino.
I genitori potrebbero avere scoppi di ira incontrollati o arrendersi senza previsione.
L’esasperazione e la mancanza di routine porta a un ciclo di comportamenti irritabili
di richiesta da parte del bambino, che si associano a risposte incostanti o passive dei
genitori (Wolfson et al., 1992).
L’intervento
La combinazione di approcci cognitivi e comportamentali aiuta i genitori a pren-
dere decisioni chiare su come gestire meglio il problema del sonno. Molti professionisti
della salute trovano che la semplice formazione dei genitori non funziona fino a che
questi non lavorano sui propri sentimenti e non si impegnano esplicitamente con il
clinico sugli obiettivi da raggiungere.
203
Jo Douglas
Alcuni genitori hanno bisogno di aiuto per riconoscere che il pianto del proprio
bambino spesso non è dovuto ad angoscia ma al desiderio di compagnia e a ottenere
ciò che desidera. Un’occasione in cui discutere i bisogni di tutti i membri della famiglia
può aiutare i genitori a riconoscere che anche loro, per fornire una cura continuativa e
attenzione ai propri figli durante il giorno, hanno bisogno di sonno e di pace. Elencare
il numero di scuse che un bambino può avere per chiamare i genitori nella propria
stanza può spesso aiutare i genitori a riconoscere il lato ironico di ciò che succede. È
un’aspettativa ragionevole stabilire dei limiti e insegnare al bambino che ci sono dei
confini rispetto alle richieste notturne, una volta che i genitori sono stanchi. I genitori
possono essere aiutati a comprendere questo in relazione ad altri limiti che hanno già
stabilito – per es. indossare la cintura di sicurezza o non mangiare tre barrette di cioc-
colata prima dei pasti. Permettere loro di essere più fermi di notte sui pattern di sonno
spesso gli fornirà la sicurezza per modificare il modo di gestire il problema e questo
può avere un effetto positivo anche sul comportamento che il bambino ha di giorno
(Minde et al., 1994). Burnham et al. (2002) hanno riscontrato che i figli di genitori
che aspettavano di più prima di rispondere ai risvegli dei propri figli a 3 mesi di vita
avevano maggiori probabilità di incoraggiare comportamenti di auto-consolazione in
bambini di 12 mesi. Essere capaci di aspettare e di vedere se il bambino riesce a calmarsi
da solo richiede una sicurezza e una calma derivanti dalla convinzione che non ci sia
alcun problema.
Alcune madri hanno bisogno di aiuto per riconoscere che i propri figli non hanno
bisogno di alimentarsi di notte, una volta che assunto pasti regolari nel corso della
giornata. Nutrire continuamente i bambini di notte al seno o con il biberon non è
necessario ai fini del nutrimento, ma è di solito un’abitudine consolatoria che aiuta il
bambino a dormire. Le attività di nutrizione e del sonno si sono confuse e il genitore
deve capire che il bambino può imparare ad addormentarsi senza succhiare. Se i geni-
tori sono preoccupati del fatto che il bambino abbia bisogno di bere, allora possono
essere incoraggiati a lasciare fuori un biberon o un bicchierino che il bambino riesce a
raggiungere. Una volta che si sono resi conto che il loro bambino non accetterà l’ac-
qua, comprenderanno che in realtà non ha sete. Si utilizzano dunque delle strategie
comportamentali per aiutare i genitori a decidere se vogliono utilizzare un approccio
che prevede l’estinzione del comportamento oppure un approccio più graduale alla
gestione della richiesta di bere di notte. I genitori molto ansiosi, sempre preoccupati e
iperprotettivi, potrebbero nutrire paure notturne irrazionali sul proprio bambino– per
es. che il bambino si senta rifiutato, paura di una morte in culla e preoccupazioni sul
controllo della temperatura. Una ferma rassicurazione e l’opportunità di esprimere le
204
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
proprie preoccupazioni, e così rendersi conto che sono irrazionali, possono aiutare i
genitori a sentirsi più sicuri e più decisi.
I genitori dovrebbero prendere coscienza del modo in cui il loro stato emotivo
influenza come reagiscono al proprio bambino. Finalizzati alla gestione dei pattern di
addormentamento e sonno, si possono insegnare l’autoregolazione, il contenimento
della rabbia, la coerenza della risposta e la fermezza della decisione. Riconoscere in
che modo l’esasperazione, dovuta alla mancanza di sonno, possa esacerbare le reazioni
emotive volubili dei genitori, li può aiutare a comprendere quanto sia importante ri-
solvere questo problema. Imparare a restare calmi e a ignorare le richieste del bambino
senza avere scatti d’ira è una competenza importante. Comprendere che arrendersi
alla decima richiesta del bambino, o dopo un’ora, rende il problema ancora peggiore e
insegna al bambino a insistere ancora di più, è una lezione dura da imparare. Minde et
al. (1993) hanno riscontrato che la metà del campione di cattivi dormitori aveva madri
ansiose e depresse.
Queste madri erano straordinariamente sensibili a ogni minimo segnale del pro-
prio bambino e lo portavano in giro in braccio fino a che non si addormentava; con
205
Jo Douglas
Minde et al. (1993) hanno verificato che tutti i bambini piccoli si svegliano nel
corso della notte, ma quelli definiti “cattivi dormitori” fanno difficoltà a calmarsi sen-
za la presenza dei genitori e quindi li svegliano. Il compito del trattamento, quindi, è
quello di insegnare ai bambini come riuscire ad addormentarsi da soli quando è ora di
andare a letto e dopo i risvegli notturni, in modo da non disturbare i genitori.
Estinzione
206
Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli
strategia adeguata. Molti genitori considerano la brevità del tempo necessario al cam-
biamento un fattore altamente motivante. La caratteristica più importante di questo
approccio è che i genitori permettano ai bambini di addormentarsi da soli dopo che
hanno pianto e che non si arrendano. L’estinzione può essere utilizzata per eliminare la
richiesta notturna del biberon, del seno o di pupazzi, se questi sono diventati un pro-
blema e se il bambino deve succhiare prima di riuscire ad addormentarsi. Impareranno
rapidamente a dormire senza questo conforto se non gli viene più dato.
Shaping
Rinforzo
È utile fornire incentivi al bambino per assecondare una nuova routine. Le star
charts possono essere utilizzate con successo con i bambini al di sopra dei 3 anni. Que-
ste sono particolarmente utili quando si cerca di far smettere che il bambino vada nel
letto dei genitori di notte. Incentivi alla cooperazione, se paragonati con un program-
ma di estinzione, possono avere molto successo. I bambini si sentono felici anche se
non dormono con i propri genitori.
Caso esemplificativo
David, un bambino di 2 anni e ½, aveva gravi difficoltà nel sonno e la madre aveva
cercato una soluzione andando in trattamento da numerosi professionisti. Il bambino
era sotto sedativi che però non davano risultati affidabili. Da sempre si svegliava quasi
tutte le notti e, di recente, da quando era stato tolto dalla culla, aveva iniziato a uscire
dal letto, girando per la casa e andando nel letto della mamma o della tata, e gli serviva
comunque un pò di tempo per riaddormentarsi.
Era stato adottato all’età di 3 mesi dopo essere stato in una casa famiglia. Era il
mediano di tre maschietti, ma i fratelli non erano stati adottati. Aveva una buona rou-
tine di addormentamento e si addormentava da solo alle 7.30 di sera. Era un bambino
molto ostinato, molto attivo e impegnativo nel corso del giorno. La madre ammetteva
207
Jo Douglas
di aver avuto alcune difficoltà nel gestire il suo comportamento di giorno, così come
quello del fratello più grande. I fratelli litigavano e lottavano e questa spirale negativa
spesso faceva arrabbiare la madre. La tata era molto indulgente e aveva con lui una
relazione molto stretta. La madre era esausta e i risvegli di David la stavano logorando
Aveva precedentemente provato a riportarlo a letto e a sedersi vicino a lui finché non
si riaddormentava, ma ci volevano almeno 2 ore e lei non ce la faceva a stare lì per così
tanto tempo. Era anche preoccupata di lasciarlo piangere perché sarebbe sceso dal letto
e se ne sarebbe andato in giro. Una volta, quando era più piccolo aveva pianto per 3 ore
nella culla. La mamma non era sicura di come gestirlo e si chiedeva se fosse dovuto al
fatto di averlo adottato.
Venne interrotta la somministrazione regolare di sedativi, dal momento che chia-
ramente ormai non gli facevano più effetto e che si era assuefatto. È stato concordato
un piano d’azione fra la madre e la tata ed entrambe hanno deciso di non farlo entrare
nei loro letti, ma di riportarlo indietro nel suo. La madre era preoccupata della sicu-
rezza quando girava per la casa senza assistenza, dal momento che poteva salire su una
cancelletto a gradini attraverso la sua porta. Poteva anche aprire una porta chiusa, così
decise di chiudere la porta se fosse uscito. Se fosse rimasto nella stanza, non l’avrebbe
chiusa. Era molto preoccupata dall’idea di chiudere la porta, ma aveva capito che si
trattava solo di una sua opinione. Era necessario un apprendimento rapido e le antici-
pammo che la porta avrebbe dovuto essere chiusa solo per poche volte, fino all’appren-
dimento del nuovo pattern.
Nel corso della prima settimana era stato riportato nella sua stanza e chiuso quat-
tro volte nel corso della notte, ma nel mese successivo era stato chiuso solo quattro vol-
te. Aveva imparato più rapidamente di quello che la madre si sarebbe aspettata e anche
se piangeva fino a 1 ora e ½ le prime notti, aveva imparato subito a calmarsi. Mano a
amano che la madre prendeva confidenza nel gestirlo la notte, era in grado di essere più
chiara nella fissazione di limiti nel corso della giornata e il suo comportamento aveva
iniziato complessivamente a migliorare. Ella non sentiva più che il bambino aveva
qualcosa di diverso.
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CAPITOLO 13
211
Veira Bailey
212
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
I bambini con disturbo della condotta presentano una serie di deficit e distorsioni
cognitive (Crick e Dodge, 1994). Ricordano un numero maggiore di input ostili nelle
situazioni sociali, fanno attenzione a pochi stimoli quando devono interpretare il si-
gnificato del comportamento altrui e, in situazioni ambigue, attribuiscono agli altri
intenzioni ostili (Dodge e Newman, 1981; Dodge, 1986; Dodge et al., 1990). Quando
sono in conflitto, i bambini con disturbo della condotta sottostimano il proprio livello
di aggressività e di responsabilità nel dare inizio a uno scontro (Lochman, 1987). In
situazioni di problem-solving interpersonale, i bambini con disturbo della condotta ge-
nerano un numero minore di soluzioni verbali assertive e molte più soluzioni orientate
all’azione e aggressive (Dodge e Newman, 1981).
Quando sono preoccupati, o in situazioni che potrebbero generare ansia, mostra-
no pattern anomali di identificazione delle emozioni e hanno più difficoltà ad antici-
pare sentimenti di paura e tristezza. Quando sono molto eccitati, confondono questa
sensazione con la rabbia e, come risultato, danno risposte maggiormente orientate al-
l’azione. Tuttavia, quando vengono incoraggiati a utilizzare risposte volontarie al posto
di quelle automatiche, mostrano maggiori soluzioni competenti e assertive (Lochman
et al., 1991). I bambini con disturbo della condotta/disturbo oppositivo provocatorio,
da soli o in comorbidità, selezionano le più frequentemente risposte aggressive rispetto
ai bambini affetti solo da DDAI (Matthys et al., 1999).
I bambini con disturbo della condotta sembrano avere una visione positiva dell’ag-
gressività e del suo utilizzo nella risoluzione di problematiche sociali; si aspettano che
le proprie azioni aggressive riducano le conseguenze negative, credono che il compor-
tamento aggressivo possa accrescere l’autostima e considerano il potere e la vendetta
sociale più importanti dell’affiliazione (Slaby e Guerra, 1988).
I deficit cognitivi dei bambini con disturbo della condotta possono essere affron-
tati con percorsi di educazione emotiva, di autorinforzo, di addestramento ad assumere
la prospettiva dell’altro e di problem-solving sociale. Queste sono componenti della
maggior parte dei training sulle competenze di problem-solving e hanno lo scopo di
insegnare ai bambini come utilizzare il problem-solving interpersonale secondo un ap-
proccio step-by-step (Kazdin et al., 1987)
Anche i pensieri distorti possono essere trattati in concomitanza attraverso il trai-
ning nella competenze di problem-solving, attraverso un costante riferimento a concetti
di veridicità, sicurezza e a ciò che le persona sente. In questo capitolo, descriviamo un
approccio cognitivo comportamentale al disturbo della condotta per bambini fra i 6 e
gli 11 anni. Il trattamento di questi problemi in adolescenza è discussa da Lochman et
al. nel Capitolo 25.
213
Veira Bailey
Il processo diagnostico
Il processo diagnostico dovrebbe essere ampio e non dovrebbe includere solamente
la diagnosi del disturbo, ma anche una valutazione della competenza genitoriale. Biso-
gnerebbe prendere in considerazione l’eventualità di un abuso infantile, di una malattia
mentale nei genitori e la presenza o l’assenza di sistemi di supporto all’interno del ter-
ritorio. Si deve anche analizzare il funzionamento sociale del bambino a scuola, con gli
adulti e con i coetanei, e la natura e il grado delle sue difficoltà scolastiche. Si dovrebbe
condurre una misurazione psicometrica di eventuali deficit cognitivi.
È importante individuare eventuali comorbidità con il disturbo ipercinetico; che
spesso presenta un quadro dominante caratterizzato da gravi sintomi antisociali, asso-
ciati a competenze genitoriali palesemente scarse e a un possibile abuso. Questa situa-
zione potrebbe essere un classico tranello diagnostico, dal momento che il disturbo
ipercinetico, se non trattato, è associato a un elevato rischio di comportamenti antiso-
ciali persistenti (Moffitt, 1990a, b). Gli approcci cognitivo comportamentali al distur-
bo ipercinetico vengono descritti nel Capitolo 14.
Un’altra difficoltà diagnostica è costituita da un bambino che è già coinvolto in
un lavoro con un clinico esperto e che, anche se asintomatico al momento dell’intervi-
sta, è impulsivo e distraibile in altre situazioni. L’utilizzo di questionari standardizzati
(Conners, 1969; Behar e Springfield, 1974; Routh, 1978; Barkley, 1990; Goodman,
1997; Goodman et al., 1998) potrebbe essere d’aiuto nella diagnosi. Un problema
differente si verifica si è in presenza di una diagnosi corretta di disturbo ipercinetico
– caratterizzato da disattenzione, iperattività e impulsività – ma poiché non è stata
condotta una valutazione approfondita, non ci si accorge della presenza di un disturbo
della condotta.
Si dovrebbe considerare anche la presenza di sintomi depressivi o ansiosi. Il com-
portamento presuntuoso e antiautoritario di molti bambini con disturbo della con-
dotta potrebbe mascherare la presenza di problemi emotivi. Questo atteggiamento si
verifica anche con bambini che hanno un QI al di sotto della media. In questo caso
la non collaborazione nei test potrebbe essere erroneamente attribuita a un disturbo
della condotta poiché i deficit cognitivi diventano evidenti solo quando vengono fuori
gravi difficoltà nel problem-solving. La mancanza di competenze sociali potrebbe essere
collegata non solo a scarse competenze genitoriali ma anche a un intrinseco deficit
nell’empatia.
In alcuni casi potrebbe rendersi necessaria una valutazione del contesto sociale,
non solo per verificare la presenza di eventuali rischi per la sicurezza del bambino, ma
anche per valutare la necessità di concedere aiuti sul piano finanziario e per la casa.
214
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
evitare conflitti e confusioni, una coordinazione molto attenta dei vari elementi impli-
cati e una regolare rapporto di consulenza con altre agenzie, fra cui la scuola e i servizi
sociali. Occasionalmente, i bambini potrebbero necessitare di un ricovero in unità di
cura territoriali o in reparti specializzati. Il numero di studi sufficientemente controllati
che confrontano fra loro queste due modalità è piuttosto limitato. Uno di questi con-
fronti, per quanto viziato, ha mostrato che la collocazione in un’unità territoriale dava
risultati quantomeno uguali a quelli dell’unità di ricovero (Wimsberg et al., 1980).
Ci sono prove sostanziali a favore dell’efficacia di un trattamento multisistemico
con gli adolescenti. Tuttavia, l’efficacia dell’intervento in bambini fra i 6 e 12 anni non
è stata ancora testata con rigore (Farmer et al., 2002). In questo gruppo più giovane, il
training gestionale per i genitori è essenziale per modificare l’effetto molto potente del
modelling che avviene a casa e del rinforzo dei comportamenti antisociali che altrimenti
avrebbero ottime probabilità di persistere. Per aiutare i genitori con pensieri disfunzio-
nali o pensieri automatici negativi, come “Non posso lasciargli avere l’ultima parola” o
“il medico pietoso fa la piaga purulenta”, che interferiscono con l’efficacia della propria
genitorialità, si può includere una componente cognitiva.
215
Veira Bailey
bino di determinati privilegi per un breve tempo – per es. non si vede per 1 ora la
televisione o non si utilizza la bicicletta.
4. Si insegna ai genitori a “monitorare” (o supervisionare) i bambini in tutti i momen-
ti, anche quando sono lontani da casa. Questo vuol dire sapere dove sono i propri
figli in ogni momento, cosa stanno facendo e quando saranno di ritorno a casa.
5. Infine, si insegnano ai genitori strategie di problem-solving e di negoziazione. Di-
ventano anche sempre più responsabili della progettazione dei propri programmi.
Questo programma di solito prevede 20 ore di contatto diretto con le singole fa-
miglie e include visite a casa per migliorare la generalizzazione delle strategie apprese
dai genitori.
Forehand e McMahon (1981) hanno sviluppato un altro programma individuale
di parent training (Helping the Non-Compliant Child) per trattare i comportamenti
ribelli dei bambini piccoli fra i 3 e gli 8 anni. Questo programma prevede l’utilizzo di
comandi alfa e beta. Gli autori avevano osservato che i genitori di bambini obbedienti
danno un numero decisamente maggiore di comandi alfa, mentre quelli di bambini
con disturbo della condotta danno molti più comandi beta. I comandi alfa sono carat-
terizzati da chiarezza, specificità e direttività; vengono dati uno per volta e sono seguiti
da un intervallo di 5 secondi in attesa del comportamento richiesto. I comandi beta,
invece, sono flussi inutili e assillanti di parole, concatenazioni verbali di istruzioni e
commenti vaghi, spesso posti sotto forma di domanda e seguiti da razionalizzazione.
Un esempio di comando beta è: “Quante volte ti ho detto, se non esci di lì, Tony …
non so come riuscirò a non metterti le mani addosso … Tony, cosa ti ho detto … sai
che ho avuto una brutta giornata, con quella lettera dai funzionari assistenziali e adesso
la TV è rotta!” Si insegna ai genitori a dare comandi alfa utilizzando istruzioni chiare,
specifiche e dirette e aspettando 5 secondi affinché il bambino obbedisca al comando.
Il bambino inoltre viene chiamato per nome e il genitore stabilisce con lui un contatto
oculare diretto. Si incoraggiano i genitori a utilizzare una voce ferma, ma non fredda, e
a trattenersi dal dire ai propri bambini cosa smettere di fare.
Il Parent-Child Interaction Training (PCIT) prevede due fasi di training: un’inte-
razione diretta dal bambino in cui i genitori mettono in pratica competenze di gioco
non direttivo per modificare la qualità della relazione e un’interazione diretta dal
genitore che si focalizza sul miglioramento delle competenze genitoriali che imparano
a dare istruzioni chiare, elogi in seguito a comportamenti appropriati e procedure di
time-out per comportamenti disobbedienti. Si porta avanti il trattamento in una stan-
za di gioco clinica, equipaggiata con uno specchio unidirezionale e si comunicano ai
genitori le strategie appropriate attraverso una “ricetrasmittente da orecchio”. Questo
si chiama il Parent-Child Game. Poiché il gioco avviene in un contesto naturalistico
questa procedura è massimamente utile con i bambini piccoli. Scott (2002) riassume
le caratteristiche di un programma di parent training efficace per singole famiglie o
gruppi.
Contenuto
• Sequenza strutturata degli argomenti, introdotti raggruppandoli per tematiche e
secondo un ordine preciso, per un periodo che va da 8 a 12 settimane. Gli argo-
216
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
menti possono riguardare il gioco, gli elogi, gli incentivi, la disciplina e la fissa-
zione di limiti, la promozione di comportamenti socievoli autodeterminati dal
bambino e la calma dei genitori.
• Riferimento costante all’esperienza dei genitori e alle loro difficoltà.
• Basi teoriche esplicite e fondate su ricerche empiriche.
• Disponibilità di un manuale dettagliato per permettere la replicabilità.
Applicazione
• Approccio collaborativo che riconosce i sentimenti e le convinzioni dei genitori.
• Normalizzazione delle difficoltà e incoraggiamento dell’umorismo e del diverti-
mento.
• Supporto ai genitori nel mettere in pratica i nuovi approcci durante le sedute e nei
compiti a casa.
• Il genitore e il bambino vengono si incontrano insieme in un lavoro familiare – e
i genitori soli in alcuni programmi di gruppo.
• Si fornisce, se necessario, un servizio di baby-parking, mensa di buona qualità e
servizio trasporto.
• I terapeuti vengono regolarmente supervisionati per assicurare l’aderenza al tratta-
mento e per sviluppare competenze nuove.
217
Veira Bailey
A. sta per eventi Antecedenti – ciò che succede immediatamente prima del compor-
tamento target.
B. sta per il comportamento target
C. sta per le Conseguenze – ciò che succede subito dopo il comportamento target.
Fare attenzione agli antecedenti e alle conseguenze dei comportamenti target per-
mette di applicare interventi per accrescere i comportamenti prosociali che hanno istru-
zioni più chiare e rinforzi positivi (“beccare il bambino mentre fa qualcosa di buono”)
in seguito alla manifestazione di comportamenti desiderabili.
Il comportamento antisociale può essere ridotto attraverso una serie di tecni-
che fra cui l’estinzione, l’ipercorrezione, l’allontanamento da un rinforzo positivo,
l’insegnamento e il rinforzo di comportamenti prosociali incompatibili con quelli
antisociali.
218
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
Gli approcci di training sulle competenze sociali (vedere il Capitolo 23) sono sem-
pre più utilizzati con bambini piccoli affetti da disturbo della condotta. All’inizio, era-
no state sviluppate delle procedure di condizionamento operante, che ricompensavano i
comportamenti prosociali e scoraggiavano quelli antisociali. Sono state utilizzate anche
strategie di modelling, in cui l’insegnamento avviene attraverso l’osservazione di adulti
o bambini che mettono in atto il comportamento sociale appropriato. La procedura
di coping modeling, con il terapeuta o un altro adulto che accompagna il bambino per
tutta la durata del compito, anche nella gestione di eventuali ricadute e del senso di
frustrazione, si è rivelato più efficace del mastery modelling in cui si mostrava semplice-
mente il comportamento ideale o perfetto (Meichenbaum e Goodman, 1971). È stato
utilizzato anche il coaching per trasmettere i principi di comportamenti socialmente
competenti, spesso attraverso l’utilizzo del role-play di situazioni problematiche, per
esempio come comportarsi se si viene colpiti da un altro bambino o punititi ingiusta-
mente da un insegnante.
Un approccio utilizzato dagli Hahnemann Programmes (Spivack et al., 1976) en-
fatizza la presenza di deficit nel pensiero alternativo, ossia nella capacità di generare
soluzioni multiple ai problemi interpersonali; nel pensiero consequenziale, la capacità
di prevedere le conseguenze immediate e a lungo termine della soluzione e nel pensiero
finalizzato, la capacità di pianificare una serie di azioni per conseguire l’obiettivo, pro-
grammando le modalità per superare gli ostacoli all’interno di una cornice temporale
realistica. Per iniziare con il problem-solving, si utilizzano concetti verbali molto sem-
plici– per esempio oppure e diverso per aiutare a generare alternative “Io posso colpirlo
oppure possono dirgli che sono spaventato” – “colpire è diverso da dire”.
Il training nel problem-solving cognitivo interpersonale enfatizza l’importanza pri-
maria delle comunicazioni interpersonali e delle capacità di negoziazione, consideran-
do il punto di vista dell’altra persona e raggiungendo un compromesso nelle situazioni
sociali. Il training permette di sviluppare processi di pensiero: come pensare piuttosto
che cosa pensare.
Lo scopo della terapia per i bambini con disturbo della condotta è di porre rimedio
ai deficit e alle distorsioni nel comportamento e nelle cognizioni. Sono stati sviluppati
numerosi programmi e metodologie per il PSST e la maggior parte condividono nu-
merosi elementi. L’educazione emotiva permette al bambino di identificare e dare un
nome alle differenti emozioni e alle situazioni in cui queste si verificano. Il terapeuta
potrebbe fungere da modello per l’espressione di sentimenti e per la manifestazione di
empatia con gli altri utilizzando anche immagini e giochi per aumentare il repertorio
di emozioni analizzate. L’automonitoraggio del comportamento e dei sentimenti di cui
si può valutare l’intensità permette ai bambini di acquisire maggiore controllo di sé e
di gestire i propri comportamenti e sentimenti. L’autoistruzione potrebbe prevedere
l’utilizzo di un approccio “Fermati! Pensa! Cosa posso fare?” per inibire o rallentare le
risposte automatiche, mentre le tecniche di autorinforzo insegnano ai bambini a utiliz-
zare un discorso interiore positivo – per es. “Ben fatto, non ho risposto” – per aumentare
219
Veira Bailey
220
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
221
Veira Bailey
Risultati
Le strategie di training gestionale per i genitori sono piuttosto note per essere fra le
tecniche più efficaci nel trattamento dei disturbi da comportamenti disfunzionali, dal
momento che portano a miglioramenti sostanziali e clinicamente significativi per al-
meno due terzi dei bambini trattati (Brestan e Eyberg, 1998). Tuttavia, i miglioramenti
a casa non sono necessariamente accompagnati da miglioramenti a scuola. Inoltre,
alcuni genitori non vogliono partecipare a questi programmi e altri hanno difficoltà
nel mettere in pratica o nel mantenere le competenze apprese. I bambini con un di-
sturbo della condotta presentano attribuzioni più negative e ostili, deficit nelle proprie
competenze sociali, abilità di problem-solving compromesse e un ridotto autocontrollo,
222
I disturbi della condotta nei bambini piccoli
223
Veira Bailey
Dal momento che l’ansia generale relativa alla delinquenza e alla violenza è ele-
vata, è importante sottolineare il bilancio costi-benefici e i potenziali guadagni di un
intervento precoce su questi bambini (Offord, 1989; Light e Bailey, 1993), come le
opportunità concesse ai terapeuti di applicare interventi creativi.
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CAPITOLO 14
229
William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
tano adolescenti e adulti. Per queste e altre ragioni, il trattamento efficace del DDAI
nell’infanzia rappresenta un problema serio per i genitori, gli insegnanti, i medici e i
professionisti della salute mentale.
I bambini con DDAI vengono di solito identificati e inviati al trattamento dai
genitori o dalla scuola. Gli insegnanti potrebbero essere i primi a riconoscere i problemi
comportamentali dei bambini con DDAI, forse perché sono maggiormente in grado,
rispetto ai genitori, di confrontare il comportamento di questi bambini con quello de-
gli altri bambini normali, o perché le richieste di attenzione e di controllo degli impulsi
sono maggiori in un contesto scolastico che a casa (per esempio stare seduti al banco
tutto il giorno, portare a termine compiti che richiedono attenzione sostenuta). Una
volta identificato a scuola, l’invio più comune è ai medici di base e poi ai professionisti
della salute mentale per una diagnosi e un trattamento.
Una formulazione del caso per un DDAI, non diversa da quella presentata per altri
disturbi in altri capitoli di questo volume, implica un approccio integrato e uniforme
alla valutazione, al trattamento e al follow-up: Con questo intendiamo: (1) selezione
accurata degli strumenti di misura e diagnostici che possono individuare gli obiettivi
del trattamento e essere anche misure di follow-up e (2) analisi funzionale globale nel
corso della valutazione per arrivare a un piano di intervento che si focalizza sul trat-
tamento del bambino proprio in quei contesti e in quegli ambiti in cui mostra delle
compromissioni funzionali. In un’epoca in cui i professionisti sono costretti mantenere
al minimo il numero delle sedute, l’importanza di snellire l’intero processo terapeutico
non può essere sottostimata. Il nostro approccio minimizza il processo iniziale della
diagnosi ed enfatizza invece la parte del trattamento. Secondo questa visione, è meglio
che la valutazione sia condotta dai clinici che hanno l’occhio rivolto al successivo piano
di intervento e che possono applicare trattamenti individuali empiricamente fondati
adattandoli alle difficoltà che il singolo bambino presenta.
Processo diagnostico
Una valutazione appropriata di un DDAI inizia con la diagnosi, ma non finisce
lì. Come può testimoniare qualunque clinico o professionista esperto, bambini con gli
stessi sintomi di disattenzione, impulsività e iperattività, segnalati da insegnanti e geni-
tori, potrebbero presentarsi completamente diversi di fronte al clinico. In parte, questo è
dovuto al fatto che solo un sottoinsieme di sintomi sono necessari alla diagnosi. Questa
variabilità è in parte dovuta anche alle differenti compromissioni funzionali e ai con-
testi in cui queste sono più salienti. Certamente, non sono di solito i sintomi indicati
nel DSM-IV a spingere i genitori o gli insegnanti a richiedere un trattamento (Angold
et al., 1999), ma è più spesso, la compromissione funzionale che essi sperimentano in
ambito relazionale e scolastico. Tenendo questo a mente, è cruciale che il professionista
valuti tutte le compromissioni che ogni singolo bambino si trova a vivere.
Una diagnosi di un DDAI nell’infanzia si dovrebbe basare sulla concordanza delle
indicazioni fornite dai genitori e dagli insegnanti con i criteri del Associazione Ame-
ricana di Psichiatria, 1994). Sulla base del raggruppamento dei sintomi si possono
230
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
231
William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
e come misura dell’esito dell’intervento, oggi si è sempre più convinti che i target del
trattamento debbano essere le compromissioni funzionali della vita quotidiana e non
solo i sintomi (Scotti et al., 1996). Il ruolo centrale che la compromissione gioca nella
diagnosi e nel trattamento del DDAI può essere confermato dal fatto che (1) è proprio
la compromissione, ossia i problemi nel funzionamento quotidiano causati dai sintomi,
a indurre la richiesta di trattamento (Angold et al., 1999) e che (2) la compromissione
in ambiti chiave del funzionamento (per es. relazioni con i pari, competenze genitoriali,
successo scolastico) – e non i sintomi in quanto tali – media gli esisti a lungo termine dei
bambini che hanno disturbi da comportamento disfunzionale (Hinshaw, 1992; Cham-
berlain e Patterson, 1995; Coie e Dodge, 1998). Pertanto, la valutazione della compro-
missione nel funzionamento quotidiano diventa l’elemento più importante della valu-
tazione iniziale e pone la basi di un trattamento efficace. Le principali ragioni dell’invio
possono essere trasformate in target individualizzati efficaci e socialmente rilevanti.
Così, la compromissione dovrebbe essere il focus del trattamento e della valutazione
in itinere dei problemi quotidiani del bambino, per verificare se sia necessario calibrare
e /o modificare il trattamento. Lo sviluppo di un piano di intervento e l’adattamento di
questo all’individuo può essere possibile solo attraverso un’analisi funzionale approfon-
dita. L’analisi funzionale si basa sul modello A-B-C – approccio che descrive la relazione
funzionale fra gli antecedenti del comportamento (A; ossia, contesto, persone, ora del
giorno), il comportamento stesso (B) e le conseguenze del comportamento (C; ossia
quello che il bambino ottiene dal comportamento – attenzione, rimozione delle richie-
ste) (vedere Mash e Terdal 1997, per una discussione approfondita di come condurre
un’analisi funzionale nelle fasi iniziali del piano di trattamento). È importante notare
che la valutazione e la formulazione del trattamento sono processi costanti, dal mo-
mento che i problemi del bambino cambiano nel tempo e richiedono un monitoraggio
e una modifica costanti.
Trattamento comportamentale
All’interno di questo volume che fornisce una rassegna completa delle terapie co-
gnitivo comportamentali, questo capitolo potrebbe differire significativamente dagli
altri. Nello specifico, anche se la CBT si è rivelata efficace per molti altri disturbi, non
si è mostrata tale per il DDAI. Anche se i sintomi principali del DDAI (disattenzione,
impulsività e iperattività) potrebbero far ritenere il disturbo un buon candidato per la
CBT, 15 anni di interventi cognitivo comportamentali applicati a bambini disattenti
e impulsivi mostrano che questi sono piuttosto refrattari a simili interventi. Sono state
applicate numerose forme di CBT ai bambini con DDAI, fra cui le auto-istruzioni
verbali, le strategie di problem-solving, il modelling cognitivo, l’automonitoraggio, l’au-
tovalutazione, l’autorinforzo e altre ancora. Una rassegna di questi studi ha consisten-
temente documentato la scarsa efficacia degli approcci di mediazione cognitiva nei
bambini con DDAI (Abikoff, 1987; Hinshaw, 2000; Pelham, 2002). Pertanto, recenti
prove cliniche per il DDAI hanno riguardato principalmente interventi comportamen-
tali e non cognitivi (per es. MTA Cooperative Group, 1999).
232
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
Poiché i trattamenti con mediazione cognitiva non hanno ricevuto supporto empi-
rico (Pelham et al., 1998), quelli riassunti qui hanno per lo più uno stampo comporta-
mentale. Tuttavia, gli approcci con mediazione cognitiva verranno discussi nel caso di
esempi contraddittori. Anche se i dati disponibili non sono del tutto definitivi, sembra
che la CBT, associata a interventi di condizionamento operante, possa dare risultati
positivi che saranno descritti in seguito insieme ai relativi trattamenti multimodali per
il DDAI. Gli interventi cognitivi sono stati originariamente sviluppati negli anni ’70
per accrescere la generalizzazione di trattamenti comportamentali molto diffusi con i
bambini – soprattutto quelli con problemi di impulsività.
Parent training
Approccio comportamentale; il terapeuta insegna ai genitori tecniche di contingency
management da utilizzare con il bambino
Focus su specifici comportamenti target che riflettono il grado di compromissione in
ambiti multipli di funzionamento (per es. relazioni con gli adulti e i coetanei, rela-
zioni con i fratelli, compiti a casa, funzionamento scolastico e familiare)
Il modello tipico è di gruppo, con sedute settimanali all’inizio e con il terapeuta che
progressivamente è sempre meno presente
Si verifica regolarmente l’aderenza alle componenti del trattamento e gli obiettivi ven-
gono continuamente ampliati, cancellati o modificati sulla base di una costante
analisi funzionale del comportamento
Si forniscono supporto e contatto fino a quando necessario (anni versus mesi o set-
timane)
cont...
233
William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
Esistono programmi di mantenimento o prevenzione delle ricadute (per es. sono pre-
visti piani per la gestione delle ricadute – ossia sedute di ripasso – o problemi
ciclici dei genitori – ossia sedute per la gestione dello stress).
Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. l’adole-
scenza)
Intervento a scuola
Approccio comportamentale; il terapeuta insegna delle tecniche di contingency ma-
nagement agli insegnanti e l’insegnante le applica in classe
Focus su specifici comportamenti target che riflettono il grado di compromissione
in ambiti multipli di funzionamento (per es. relazioni con gli adulti e i coetanei,
progresso accademico, funzionamento in classe)
Lavoro di consulenza con gli insegnanti – all’inizio faccia-a-faccia settimanale o sedu-
te telefoniche, poi il contatto diminuisce
Si verifica regolarmente l’aderenza alle componenti del trattamento e gli obiettivi ven-
gono continuamente ampliati, cancellati o modificati sulla base di una costante
analisi funzionale del comportamento
Si fornisce sostegno scolastico per numerosi anni di scuola dopo la fine della consu-
lenza (fino a quando necessario)
Esiste un programma di mantenimento e di prevenzione delle ricadute (per es. pro-
grammi per tutta la scuola, training in servizio per tutto il personale scolastico,
inclusi gli amministratori, addestramento dei genitori a lavorare con gli insegnanti
per monitorare/modificare i programmi applicati in classe)
Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. passaggio
dalla scuola primaria (elementare) a quelle secondarie (medie) (superiori))
cont...
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Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. passaggio
dalla scuola primaria (elementare) a quelle secondarie (medie) (superiori))
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William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
Seduta Contenuto
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Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
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William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
Seduta Contenuto
238
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
Come con i genitori, il primo passo per la maggior parte degli interventi in classe è
quello di fornire informazioni sul DDAI e collaborare con gli insegnanti per mettere in
atto le strategie comportamentali. Queste tecniche, che di solito sono ben note agli in-
segnanti, includono semplici interventi che possono essere incorporati nella classe– per
esempio sviluppare e applicare un buon insieme di regole di classe. Le regole di classe,
che gli autori hanno sviluppato per il proprio Summer Treatment Program sono: “avere
rispetto degli altri”, “obbedire agli adulti”, “lavorare in silenzio”, “stare fermi nell’area/
nella sedia assegnata”, “utilizzare adeguatamente i materiali e le proprietà”, “alzare la
mano per parlare o per chiedere aiuto” e “attenersi al compito assegnato/portare a ter-
mine le assegnazioni” (Pelham et al., 1997). Queste regole sono state stilate dopo molti
anni di lavoro nelle scuole e dopo aver amalgamato fra loro le regole più comuni utiliz-
zate dagli insegnanti. I bambini con DDAI devono essere immediatamente informati
delle violazioni di una regola e devono subire delle conseguenze sistematiche per aver
rispettato o violato le regole della classe.
Gli insegnanti vanno incoraggiati a elogiare sempre i comportamenti appropriati,
a ignorare i comportamenti non adeguati e a cercare di assicurarsi che questi non ven-
gano rafforzati dall’attenzione dei coetanei. Gli studi sulla gestione della classe, fino
dagli anni ’70, hanno mostrato che gli insegnanti fanno con commenti negativi con
una frequenza tre volte maggiore di quelli positivi. Gli insegnanti vanno spronati a in-
vertire questo dato, con gli elogi che superano i rimproveri/comandi con un rapporto
di 3 a 1. Gli insegnanti possono anche essere incoraggiati modalità simili a quelle dei
genitori per dare i comandi, al fine di massimizzare la possibilità di compliance (Walker
e Walker, 1991).
La componente più importante dell’intervento a scuola per un bambino con
DDAI è l’utilizzo di una Nota di Report Giornaliera Individualizzata. Questa nota è
uno strumento di comunicazione giornaliera casa-scuola che: (1) permette al bambino
di conoscere quali sono i suoi obiettivi giornalieri a scuola e cosa ha fatto per raggiun-
gerli e (2) permette una comunicazione casa-scuola attraverso la quale l’insegnante può
informare i genitori sulla performance del bambino. Questa nota può essere un docu-
mento separato o può essere inserito nel folder dei compiti a casa del bambino. Gli in-
segnanti scelgono i target comportamentali che il bambino deve soddisfare, forniscono
un feedback regolare e ricompense giornaliere, a scuola e a casa, per il conseguimento
degli obiettivi. Un simile sistema permette ai genitori e agli insegnanti di essere sulla
stessa lunghezza d’onda nel trattare il bambino. Un modello didattico di 10 pagine
per creare una nota casa-scuola può essere scaricato gratuitamente dal sito http://wings.
buffalo.edu/adhd. Può essere facilmente integrata con la nota di casa sopra indicata.
Le regole della scuola, apprendere i comandi corretti, gli elogi e le note sono com-
ponenti necessarie degli interventi scolastici per il DDAI, ma spesso non sono suffi-
cienti a trattare il comportamento in contesti scolastici. Quando le note sono utili,
ma esistono ancora possibilità di miglioramento, esistono interventi comportamentali
più complessi che possono essere utilizzati in classe, fra cui i sistemi a punti/gettoni, il
time out, il contingency management per la classe e il gruppo. Questi sono interventi più
potenti delle note, ma sono anche più complessi e difficoltosi per un insegnante che
deve portarli avanti senza aiuto. Se la nota non è sufficiente, la scelta, per un insegnante
o un genitore, è o passare a interventi comportamentali più intensivi o aggiungere un
239
William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
basso dosaggio di stimolanti a un regime di note. Le preferenze dei genitori e degli inse-
gnanti e le risorse/condizionamenti sono fattori chiave in una simile decisione (vedere
la discussione seguente).
240
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
informazioni su come condurre un campo estivo possono essere ottenute sul sito http://
www.summertreatmentprogram.com. Il campo estivo è un esempio di trattamento sul
bambino con DDAI che si focalizza sulle relazioni con i pari. Ha un impatto importan-
te sul funzionamento dei bambini, ma non può essere facilmente applicato negli attuali
contesti di salute mentale. I clinici che vogliono utilizzare alcune componenti del cam-
po estivo, possono incorporarne degli aspetti nei gruppi di training sulle competenze
sociali che conducono settimanalmente in integrazione con il parent-training. Anche se
questi interventi sono meno intensi, si sono rivelati utili nell’ambito delle relazioni fra
i pari, quando associati al parent-training (Pfiffner e McBurnett, 1997).
Farmaci stimolanti
Molti studi nell’area del trattamento del DDAI hanno mostrato che i farmaci
da soli sono un trattamento a breve termine efficace e che combinati con il tratta-
mento comportamentale mostrano effetti incrementali rispetto a quelli dei trattamenti
comportamentali isolati (Swanson et al., 1995; Pelham e Waschbusch, 1999). Perché
allora suggeriamo i farmaci solo come alternativa secondaria di trattamento? La ragio-
ne principale può essere spiegata con l’affermazione “non fare danni”. I trattamenti
comportamentali non hanno effetti collaterali riconosciuti, mentre i farmaci stimo-
lanti del sistema nervoso centrale hanno numerosi potenziali effetti collaterali. Se è
disponibile un trattamento meno pericoloso e meno invasivo, questo dovrebbe essere
sempre provato prima di uno più invasivo. Secondo, come già evidenziato, studi re-
centi hanno mostrato che circa i due terzi dei bambini con DDAI, trattati con inter-
venti comportamentali globali, staranno così bene che i farmaci non saranno necessari
(MTA Cooperative Group, in stampa). L’unico modo che i genitori hanno di sapere
se i propri figli possono essere trattati efficacemente senza i farmaci è fare una prova
prima della modifica comportamentale. Alcuni clinici credono che ci siano casi in cui è
giustificabile utilizzare i farmaci come prima linea di trattamento, soprattutto quando
la condizione è pervasiva e severa. Questa visione è controversa e gli autori di questo
capitolo non sono d’accordo.
I farmaci, come trattamento isolato, hanno numerosi limiti, di cui i clinici e i ge-
nitori dovrebbero essere consapevoli. Anche quando utili, i farmaci stimolanti spesso
falliscono nel “normalizzare” i bambini con DDAI. In uno studio recente, da un quarto
alla metà dei bambini con DDAI mostravano una normalizzazione ascrivibile solo ai
farmaci (Swanson et al., 2001). Inoltre, nessuno studio ha dimostrato effetti positivi a
lungo termine del trattamento farmacologico in ambiti di funzionamento importanti.
Anche dopo dieci anni di trattamento, i farmaci non influenzano positivamente nessu-
na delle gravi compromissioni potenziali all’ingresso nell’adolescenza o nell’età adulta
(Swanson et al., 1995). Secondo, i farmaci funzionano solo all’interno di un sistema,
che per la maggior parte dei bambini trattati è la giornata scolastica. Questo permette-
rebbe un miglioramento nella relazione insegnante-bambino e con coetanei, ma lascia
l’ambiente familiare per lo più inalterato. Anche i bambini che ricevono dosaggi a
lento rilascio o frequenti, non sono sotto l’effetto dei al momento di andare a letto e
241
William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker
alla mattina presto. Qualunque clinico che ha lavorato con le famiglie di bambini con
DDAI può concordare che le routine del mattino (prepararsi per andare a scuola) e
quelle serali (prepararsi per andare a letto) sono molto spesso problematiche e il solo
affidamento sui farmaci lascerebbe un gap nel trattamento di questi periodi. Anche
quando i farmaci sono attivi, alcune aree di compromissione non vengono influenzate,
fra cui le strategie di problem-solving, le relazioni genitore-bambino, le competenze ge-
nitoriali, la conoscenza dei bambini o il profitto nello sport, il successo scolastico e le
competenze sociali. I trattamenti psicosociali sono necessari per generare cambiamenti
in questi ambiti.
Un altro limite degli stimolanti è la ormai nota discontinuità degli adolescenti
con DDAI nell’assunzione dei farmaci, mettendone in discussione l’efficacia su questa
popolazione. Se i genitori si basano unicamente sui farmaci per controllare il compor-
tamento dei propri bambini, potrebbero essere demotivati ad apprendere e applicare
con costanza buone pratiche genitoriali. Al contrario insegnare ai genitori e agli inse-
gnanti competenze fondamentali di gestione del comportamento, genera cambiamenti
a lungo termine nel bambino e permette la generalizzazione ad altri bambini presenti
nella vita dei genitori e degli insegnanti. Infine, i farmaci potrebbero avere potenziali
effetti collaterali a lungo termine molto gravi, che ancora non sono stati ben compresi.
Per esempio, dati recenti suggeriscono che l’interruzione della crescita sia un problema
molto più vasto di quello che si pensava prima (MTA Cooperative Group, in stampa).
Per queste e altre ragioni, è nostra convinzione che i farmaci dovrebbero essere
aggiunti alla terapia comportamentale solo dopo che le strategie comportamentali sono
state adattate al bambino e applicate e che, dopo tutto ciò, i problemi continuano a per-
sistere. Per i casi più gravi di DDAI – forse un terzo – un trattamento farmacologico ag-
giuntivo può sostanzialmente migliorare il livello di funzionamento. Gli psicostimolanti
sono i farmaci più comunemente prescritti per il DDAI, fra cui il metilfenidato (Rita-
lina) e i composti amfetaminici (Dexedrina, Adderall). Oggi sono sempre più popolari
forme a lento rilascio, fra cui lo Adderall XR, il Concerta, la Ritalina LA e il Metadato.
Fra i trattamenti di seconda linea, nessuno dei quali è stato approvato dalla Federal Drug
Administration, sono inclusi gli antidepressivi (triciclici, inibitori selettivi del reuptake
della serotonina, Wellbutrin), la clonidina, i principali tranquillanti, il litio e altri (per
es. ansiolitici). Questi farmaci di seconda linea vengono a volte combinati con gli sti-
molanti, ma ci sono scarse prove che siano efficaci per il DDAI e poche prove della loro
sicurezza. Si dovrebbero discutere approfonditamente con i genitori i costi-benefici di
un eventuale utilizzo di farmaci di seconda elezione prima che i medici li prescrivano.
Un’ultima questione relativa ai farmaci è rappresentata dalla frequenza di assun-
zione e dalla quantità di farmaco che dovrebbero assumere. Alcuni esperti suggeriscono
che tutti i bambini dovrebbero ricevere tre dosi al giorno, 7 giorni a settimana, 52
settimane all’anno. Gli autori dissentono con questo approccio. Come per ogni altro
trattamento, gli stimolanti vengono utilizzati per ridurre il grado di compromissione e
per migliorare il livello di funzionamento in ambiti chiave. Pertanto, il regimen farma-
cologico si dovrebbe basare strettamente sul grado di compromissione. Un bambino
dovrebbe ricevere farmaci solo nei contesti e nei momenti in cui è presente la com-
promissione e quando altri trattamenti non apportano benefici. Per alcuni bambini,
questo potrebbe significare solo a scuola, mentre per altri potrebbe significare assumere
242
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
i farmaci a casa nella sera o nei fine settimana. Relativamente al dosaggio, recenti linee
guida indicano che le dosi dovrebbero essere ottimizzate o massimizzate – aumentar-
le fino a che non si verifica un plateau nei miglioramenti (Accademia Americana di
Pediatria, 2001). Una simile strategia ignora che ci sono dei ritorni sintomatologici
mano a mano che la dose degli stimolanti cresce oltre un certo livello moderato (ossia
0.3 mg/kg o 10 mg metilfenidato per dose); che gli effetti collaterali aumentano e che i
benefici diminuiscono. Considerate tutte queste cose, minimizzare la dose di un bam-
bino è un obiettivo importante. Quando invece i farmaci vengono somministrati sulla
base del grado di compromissione e utilizzando il dosaggio più basso possibile, si può
raggiungere questo risultato.
Se si utilizzano i farmaci, è ovviamente importante farlo insieme agli psicologi che
sono coinvolti nell’applicazione dei programmi comportamentali e degli insegnanti.
Le decisioni sulla frequenza e sul dosaggio dei farmaci non possono essere prese con
efficacia senza un feedback da questi professionisti.
Discussione
Il trattamento del DDAI richiede un approccio globale e individualizzato all’in-
tervento. Il trattamento deve essere veramente globale se si vogliono alleviare le com-
promissioni associate al DDAI. La valutazione, condotta idealmente attraverso una Im-
pairment Rating Scale, deve essere continua e costante, con note casa-scuola giornaliere
che vengono costantemente monitorate e adattate. Il parent-training, il training degli
insegnanti con report regolari, l’intervento sul bambino per le difficoltà relazionali con
i pari e, a volte, i farmaci sono le pietre angolari di un trattamento di successo.
Tutte queste componenti di intervento hanno prove empiriche. Poiché sappiamo
che il DDAI è un disturbo cronico, un trattamento multimodale e continuato nel tem-
po dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Per la maggior parte dei bambini con
DDAI, questo significherà anni, piuttosto che settimane o mesi di trattamento.
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244
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
245
CAPITOLO 15
247
Jeremy Turk
Definizione
La psicoterapia cognitivo comportamentale applicata alle famiglie con un bambi-
no con difficoltà di sviluppo può essere così definita:
qualunque approccio terapeutico che interviene direttamente sul comportamento e/o sui pensieri
dell’individuo o dei caregiver, come mezzo per indurre un cambiamento nel funzionamento del
bambino con difficoltà di sviluppo, dei genitori o dei fratelli come individui o come gruppo.
Questa definizione sottolinea che esistono una serie di tecniche applicabili a que-
sto contesto di lavoro. Inoltre, il focus della psicoterapia e gli esiti desiderati variano
a seconda della famiglia, dei problemi presenti e dello psicoterapeuta. Sono proprio
alcuni principi fondamentali degli approcci cognitivi a essere particolarmente adatti.
248
I bambini con disturbi dello sviluppo
Questi si basano su un fondamento della CBT, in cui il terapeuta non agisce per per-
suadere il cliente o la famiglia che il loro punto di vista non è logico o coerente con la
realtà. La competenza dello psicoterapeuta è quella di assistere il cliente e la famiglia
nel fare questa scoperta da sé.
249
Jeremy Turk
250
I bambini con disturbi dello sviluppo
appropriata della sindrome di Asperger è: “una grave forma di disturbo dello spettro
autistico, complicata dalla frequente associazione con un’intelligenza almeno nella me-
dia e con un’insight piuttosto intricata delle proprie disabilità di sviluppo”.
• Psicoeducativi Ristrutturazione
• Considerazione di prospettive differenti cognitiva
• Focus sull’apprendere dall’esperienza
• Approccio di Problem-Solving
251
Jeremy Turk
La triade cognitiva
Le convinzioni disadattive nelle famiglie che hanno un bambino con disabilità
dello sviluppo, proprio come nel caso di altri gruppi di clienti, possono essere raggrup-
pate in tre aree comunemente indicate come la “triade cognitiva” (Beck, 1976). Questa
triade cognitiva è costituita da assunti cognitivi fondamentali che si riferiscono al sé, al
futuro e al proprio ambiente circostante. Questi assunti sono quelli alla base di tutte le
altre asserzioni e attribuzioni (“costrutti fondamentali”). Pertanto la bassa autostima di
un individuo con disabilità evolutive, e di altri membri della famiglia, è un’evenienza
piuttosto frequente, come evidenziato da affermazioni quali “Sono un fallimento. Sono
ottuso, stupido e brutto”. È presente con altrettanta frequenza una visione negativa del
futuro in affermazioni come: “Andrà di male in peggio, lo so. Non puoi imbrogliarmi,
dottore” e in molte visioni negative delle persone e degli eventi circostanti. Un esempio
252
I bambini con disturbi dello sviluppo
potrebbe essere : “Le persone hanno buone intenzioni ma davvero non capiscono cosa
stiamo passando e davvero non possono essere d’aiuto”. Alcuni aspetti psicologici po-
trebbero essere appropriati e certamente potrebbero rappresentare l’obiettivo della tera-
pia. Per esempio, potrebbe essere necessaria una piena consapevolezza e comprensione
della natura e del grado dei limiti di sviluppo del bambino e delle loro implicazioni, al
fine di prevenire azioni e interventi potenzialmente disadattivi e nocivi da parte dei ca-
regiver. Questi potrebbero derivare da tendenze depressive familiari ascrivibili alla disa-
bilità di un membro della famiglia e a problematiche di lutto e dolore cronico (vedere
di seguito). Spesso è necessario anche prendere in considerazione alcuni aspetti molto
pratici, come la continua ricerca da parte della famiglia della causa della disabilità del
bambino, in assenza di eziologie identificabili. A questo riguardo, il terapeuta non
deve suggerire di smettere in questa ricerca (questo comportamento infatti di solito
incoraggia la ricerca ed è inutile per la famiglia che potrebbe addirittura intensificare i
comportamenti disadattivi). In simili circostanze è più adeguato coinvolgere la famiglia
in una discussione sulle analisi condotte, sui risultati ottenuti e sui relativi significati,
e sul potenziale valore di ulteriori indagini. Per esempio, ci possono essere le ragio-
ni psicologiche sufficienti per intraprendere analisi genetiche e indagini su immagini
neurologiche, se questo darà alla famiglia la convinzione di aver esaurito tutte le vie
possibili. È inoltre possibile che queste indagini siano state recentemente revisionate e
abbiano fatto emergere dati nuovi, eziologicamente importanti, che possono essere uti-
lizzati non solo nel processo dell’elaborazione definitiva del lutto della famiglia e nella
costruzione di una progettualità per il futuro, ma anche nel counseling genetico e in
interventi multidisciplinari più appropriati (vedere Turk e Sales, 1996 per una discus-
sione completa dell’importanza della diagnosi). Per la maggior parte degli individui
con autismo, non è possibile individuare una causa specifica, anche se è ben noto che
la base genetica è molto forte. Tuttavia, in una minoranza significativa, si può identi-
ficare un’eziologia specifica – per es. sindrome dell’X fragile (Turk e Graham, 1997),
sclerosi tuberosa (Harrison e Bolton, 1997), sindrome di Smith-Magenis (Vostanis et
al., 1994) e fenilchetonuria non trattata (Hackney et al., 1968).
Data la natura evolutiva delle difficoltà intellettive, sociali e comunicative e i fre-
quenti e radicati assunti familiari che le accompagnano, la combinazione di approcci
comportamentali e cognitivi diventa particolarmente utile. Per una famiglia depressa, fi-
sicamente e psicologicamente inerte, le strategie comportamentali, come l’assegnazione
graduale di compiti, sono ben applicabili e utili. Per esempio, una famiglia socialmente
isolata e introspettiva può essere incoraggiata a uscire e a svolgere attività di svago, an-
che se questo potrebbe essere contrario alla propria natura e inclinazione e contrario
all’umore prevalente (“Non importa se non ve la sentite. Fatelo e basta. Fate quello che
fareste se vi sentiste più felici – o quello che eravate soliti fare quando eravate felici”).
Sono anche importanti le rassicurazioni verso il diffuso convincimento di essere egoisti
(“Devi occuparti del tuo benessere e della tua salute psicologica se vuoi essere in grado di
fare il meglio per il tuo bambino che ha dei problemi”). Anche riflettere sull’impatto di
questo evento sugli altri membri della famiglia (“Come se la cavano i fratelli e le sorelle?
Credi che siano stati influenzati dalla sua disabilità e dai comportamenti fastidiosi?”)
è un’azione che deve essere fortemente incoraggiata. Una volta chiarito il problema, si
possono introdurre gli approcci cognitivi, spostando quindi l’enfasi da interventi ba-
253
Jeremy Turk
sati sulle attività a quelli che trattano pensieri e assunti. Mentre la pianificazione delle
attività è efficace nel produrre cambiamenti, il lavoro di revisione dei pensieri radicati,
delle attribuzioni e degli assunti è importante per mantenere questi benefici nel tempo
per tutti i membri della famiglia, prevenendo delle ricadute. Gli approcci cognitivi e
quelli comportamentali sono complementari e vengono di solito utilizzati contempora-
neamente (in proporzione variabile), indipendentemente dalla gravità e dalla natura del
problema del bambino e dalla gravità e dal profilo delle difficoltà evolutive.
L’applicabilità degli approcci cognitivo comportamentali al lavoro diretto sugli
individui con disabilità intellettive è stata dimostrata scientificamente. Per esempio,
Bramston e Sence (1985) hanno confrontato gli approcci cognitivo comportamentali
con i training nelle competenze sociali in un campione di individui istituzionalizzati
con ritardo mentale moderato. Gli autori hanno trovato che il pacchetto comportamen-
tale aveva prodotto un miglioramento significativo nella performance delle competenze
sociali di base. Tuttavia, il pacchetto cognitivo era associato a un numero significati-
vamente maggiore di soluzioni alternative proposte. Quindi, entrambi gli approcci,
hanno un ruolo in aspetti differenti del cambiamento. Tristemente, ma forse prevedi-
bilmente, gli autori hanno anche riscontrato che gli approcci di training non produ-
cevano benefici durevoli e che i miglioramenti nelle competenze non erano associati a
cambiamenti nelle valutazioni di competenza sociale complessiva da parte dello staff.
L’analisi funzionale
Gran parte del tempo dedicato alle famiglie che hanno un bambino con una di-
sabilità dello sviluppo si focalizza sull’analisi funzionale dei attuali comportamenti
problematici. Questi comportamenti spesso non sono un derivato obbligatorio della
disabilità. Possono e devono essere trattati e modificati, anche se l’estinzione totale è
improbabile. I comportamenti problematici gravi, disfunzionali e distruttivi sono una
delle ragioni più comuni di invio a trattamento. Alcuni quadri frequenti includono
gravi forme di autolesionismo, di aggressività, di comportamenti caotici, disorganizza-
ti e iperattivi e inadeguatezza sociale. Il diario dettagliato della natura, della frequenza
e della gravità di questi comportamenti deve essere accompagnato dalle informazioni
sugli antecedenti (dove, quando, con chi, cosa stava succedendo?). Si devono anche
raccogliere dati sulle conseguenze de comportamento (Come risultato, ha ottenuto più
attenzione? Quel comportamento gli ha permesso di sfuggire qualcosa? È riuscito ad as-
sicurarsi la solitudine e la libertà dalle pressioni a interagire con altri? Il comportamento
sembra avere una funzione autostimolante?) Questo approccio include la nota tecnica
ABC per identificare i possibili rinforzi dei comportamento inadeguati, responsabili
della sua insorgenza e mantenimento fino all a scomparsa delle tendenze più adattive
(vedere Oliver, 1995 per una discussione dettagliata del ruolo dell’analisi funzionale nel
valutare le tendenze autolesionistiche in bambini con difficoltà dello sviluppo).
L’equivalente cognitivo della metodologia ABC è simile. In queste situazioni, un
evento Attivante innesca un assunto cognitivo basato sulle esperienze passate e tendenze
attributive che hanno come risultato un Comportamento e dei sentimenti conseguenti.
254
I bambini con disturbi dello sviluppo
La sequenza potrebbe iniziare molto presto in una famiglia con un bambino disabile.
Per esempio, la nascita di un bambino con un disturbo dello sviluppo conclamato,
potrebbe far credere che tutte le attività della famiglia saranno negative, stressanti e
insoddisfacenti e portare a sentimenti depressivi e a ritiro dalle attività sociali e di diver-
timento. L’insorgenza di pensieri disadattivi potrebbe, per esempio, verificarsi quando
un bambino più piccolo supera a scuola il bambino con disabilità dello sviluppo, crean-
do nei genitori la convinzione che non ci sarà nessun ulteriore sviluppo intellettuale.
Questo può portare a sentimenti depressivi associati a comportamenti che rinforzano
ulteriormente la convinzione familiare secondo cui tutta la vita dovrebbe girare intorno
al bambino con disabilità dello sviluppo.
Fornire nelle sedute terapeutiche degli esempi di molteplici analisi funzionali com-
portamentali e cognitive, anche come parte degli esercizi a casa, aiuta a comprendere
come particolari comportamenti e convinzioni vengano innescati e rinforzati, e come
questi comportamenti e convinzioni possano a loro volta incoraggiare stati d’umore e
comportamenti adattivi o disadattivi.
Errori logici
L’ingenuità umana sembra non conoscere confini nella ricostruzione di eventi in
modo da rafforzare la visione di sé, delle cose circostanti e del futuro che si sta svilup-
pando. Tuttavia, ci sono una serie di errori logici che ricorrono nelle valutazioni di
queste famiglie. Se il terapeuta riesce a individuarli, può intervenire strategicamente
per forzare la discussione su sistemi di assunti cognitivi spesso profondi, innescando
così un cambiamento cognitivo, e quindi emotivo e comportamentale.
L’interferenza arbitraria descrive la tendenza a trarre conclusioni negative sulla base
di impressioni soggettive, anche in assenza di prove concrete a supporto di queste vi-
sioni. Per esempio: “Le famiglie sono felici solo con un bambino che ha successo su un
piano scolastico e sociale. Noi non saremo mai felici”.
L’astrazione selettiva consiste nel giudicare ripetutamente una situazione sulla base
di un frammento di informazione disponibile, focalizzandosi solo su determinati aspetti
negativi e ignorando i fattori contraddittori. Per esempio: “Dici che dobbiamo assume-
re una visione a lungo termine del suo sviluppo, stando alla larga da terapie passeggere
non verificate. Bene, non ha fatto progressi per due anni, ma ora grazie all’approccio
alternativo che abbiamo iniziato 2 mesi fa sta iniziando a camminare e a parlare dopo
tutto questo tempo”.
L’ingrandimento o l’esagerazione catastrofica consistono nell’esagerare l’intensità,
l’impatto o il significato degli eventi e nel dare alle situazioni ulteriori significati non
supportati dall’evidenza oggettiva. Per esempio: “Non voleva andare a dormire la scorsa
notte. Non c’è speranza per noi”.
La personalizzazione o l’autoreferenzialità è la tendenza a collegare in relazioni cau-
sali eventi esterni a se stessi. Per esempio: “Le sue caratteristiche autistiche sono di-
ventate manifeste quando sono tornata part-time al lavoro. Sono responsabile del suo
peggioramento”.
255
Jeremy Turk
Tecniche cognitive
La varietà delle tecniche cognitive disponibili vogliono tutte incoraggiare una va-
lutazione più razionale delle prove a favore e contro specifici assunti cognitivi fonda-
mentali. Gli studi confermano che queste possono essere utilizzate con successo con
ragazzi con disabilità dello sviluppo che soffrono di depressione (Lindsay et al., 1993),
con incubi stereotipati ricorrenti (Bradshaw, 1991) e anche in casi di abuso sessuale.
Inoltre, le tecniche cognitivo comportamentali di contingency management, le procedu-
re decelerative, l’istruzione verbale, i programmi di autogestione e le istruzioni visive e
di immaginative sono state considerate particolarmente proficue (Whitman, 1994).
Nel thought catching il terapeuta interviene attivamente interrompendo il flusso di
conversazione della famiglia o dell’individuo per focalizzarsi su un particolare pensiero
o su una attribuzione per valutarne la validità – per es. “Fermalo proprio lì …trattieni-
lo … hai appena detto che la cosa che ti deprime di più sono i problemi di tuo figlio
nell’esprimere i propri sentimenti. Cos’è? Il tuo partner/tuo figlio/ gli altri figli ne sono
a conoscenza? Questo lo/li deprime? Succede sempre? Questa tecnica si collega effica-
cemente con le strategie psicoeducative. La conoscenza trasmessa in momenti strategici
della terapia può essere particolarmente efficace nell’orientare il bambino e la famiglia
verso la realtà. Inoltre, la consapevolezza di fatti appena appresi potrebbe avere un im-
patto diretto sullo stato emotivo e, di conseguenza, sul comportamento. Per esempio,
riconoscere un deterioramento comportamentale negli adolescenti con autismo (cam-
biamenti normali dell’adolescenza, fluttuazioni ormonali, cambiamenti nella routine,
maggiore consapevolezza delle limitazioni e della dipendenza personale, crescenti ansie
della famiglia sul futuro) può aiutare ad alleviare i sensi di colpa e a orientare nuova-
mente i membri della famiglia verso un maggiore supporto reciproco e una gestione
più appropriata che include strategie di sopravvivenza.
La verifica delle ipotesi e la generazione di alternative sono tecniche centrali dell’ap-
proccio del problem-solving cognitivo. Sono la prova della natura condivisa, interattiva
e collaborativa delle psicoterapie cognitivo comportamentali e dell’importanza di dota-
re tutti i punti di vista di prove certe.
La ristrutturazione cognitiva è facilitata dall’analisi funzionale (vedere sopra). Può
essere favorita dal terapeuta che incoraggia la riformulazione delle frasi per eliminare
le espressioni assolute (“mai dire mai”) – per es. “Deve frequentare una scuola tradizio-
nale. Non possiamo farci una ragione di mandarlo in una scuola speciale”. I genitori
possono essere incoraggiati a riformulare simili espressioni per esempio così: “Preferi-
remmo davvero che frequentasse una scuola normale. Abbiamo delle difficoltà a farci
256
I bambini con disturbi dello sviluppo
una ragione della prospettiva di educazione speciale”. Questi spostamenti non sono
certamente semplici, ma rendersi conto che le situazioni possono essere viste sotto una
luce diversa, e con maggiore flessibilità, può dare notevoli benefici.
L’automonitoraggio deriva da questi approcci. Una volta che il bambino e la fami-
glia sono consapevoli dell’importanza dei processi cognitivi e di come questi possano
essere analizzati e modificati, dovrebbero essere incoraggiati a sviluppare la tendenza
automatica al monitoraggio dei propri pensieri e a diventare essi stessi terapeuti cogni-
tivi, contribuendo così a ridurre la durata della terapia e a minimizzare la dipendenza
dal terapeuta. Le tecniche di depersonalizzazione aiutano a combattere la convinzione
che tutto giri intorno a sé (egocentrismo). È molto comune per le famiglie con un
membro disabile avere standard doppi, sulla base dei quali si giudicano più duramente
degli altri (“Dovremmo essere in grado di fare fronte, è solo colpa nostra se non ce la
facciamo. Ci sono altre famiglie che stanno molto peggio”). Spiegare alla famiglia la
logica alla base di a simili affermazioni può innescare un discorso terapeutico e co-
struttivo. Le riattribuzioni possono essere importanti per i professionisti così come
per le famiglie. Un individuo che ha parlato a un meeting scientifico, sulle necessità
delle famiglie con figli affetti da un disturbo dello sviluppo, la definiva la “famiglia
con disturbo dello sviluppo ”. Certamente, intendeva un famiglia con un membro con
disturbo dello sviluppo. Tuttavia, c’era una verità importante nella percezione di questo
interlocutore, e cioè come la famiglia percepisce se stessa come risultato dell’avere un
bambino con disturbo dello sviluppo, e anche questo è un buon terreno per un lavoro
cognitivo.
Lo stile attributivo
Proprio come i comportamenti hanno una base situazionale determinata dal tem-
po, dal luogo e dalla compagnia, lo stesso vale per gli atti cognitivi. Tuttavia, è stata
riscontrata un’ampia variabilità individuale nel grado in cui le persone vengono in-
fluenzate dagli eventi (“Non sono le cose in se stesse a influenzare il modo in cui le ve-
diamo ”). Esistono tre dimensioni di stile attributivo che Seligman et al. (1984) hanno
identificato e che contribuiscono a quello che essi definiscono “the word in your heart”.
La dimensione interno-esterno è affine alla vecchia nozione di locus of control. Alcuni
individui si sentono responsabili degli eventi che gli accadono, mentre altri credono
che questi siano la conseguenza di coincidenze fortunate o meno. Più un individuo cre-
de di avere un controllo sugli eventi, più si sentirà in grado di poter modificare le cose
positivamente. Similmente, meno uno si sente responsabile degli eventi negativi, mag-
giore sarà l’autostima. Pertanto, molti individui sembrano essere in grado dall’inizio di
rendersi conto che “il cambiamento deve venire da dentro” e che la loro valutazione de-
gli eventi e il conseguente adattamento sono cruciali. Altri invece si sentono alla deriva
in un mare di correnti imprevedibili che li sospingono casualmente in varie direzioni.
Quest’ultimo punto di vista è comune negli adolescenti con difficoltà di sviluppo e le
loro famiglie, che si devono confrontare con la lotta apparentemente insolubile di una
dipendenza continua versus l’apparente impossibilità di una vera autonomia (Kymissis
257
Jeremy Turk
e Leven, 1994). Il lavoro individuale può essere intrapreso per mettere in dubbio le
valutazioni del tipo tutto-o-nulla e per lavorare su ambiti di vita in cui il sviluppare il
controllo personale e l’influenza sugli eventi.
La dimensione globale-specifico riguarda la contingenza dei propri stati mentali.
Sentirsi depressi o disperati potrebbe essere collegato a particolari circostanze o situa-
zioni (su cui per deduzione si può lavorare) o essere percepito come una tendenza
pervasiva non collegata a eventi specifici. La visione a un estremo potrebbe essere che
la propria intera vita è una rovina ed è insoddisfacente, contro un’altra prospettiva
secondo cui determinate situazioni o eventi producono o riaccendono sentimenti pro-
fondi di dolore e perdita, mentre altri promuovono un ragionevole senso di benessere,
anche se la felicità resta qualcosa di elusivo. La dimensione stabile-instabile è il corolla-
rio temporale della precedente. Gli eventi saranno sempre destinati a essere negativi o
lo sono soltanto in un determinato momento (o per ragioni particolari?) Sulla base di
queste tre dimensioni, Seligman et al. (1984) hanno costruito una scala di ottimismo.
Seligman e colleghi ipotizzano che coloro che hanno un punteggio alto su questa scala
tendono a: avere più successo, stare più in salute, dare migliori risultati sotto pressio-
ne, sopportare meglio lo stress e, addirittura, vivere più a lungo. Simili dichiarazioni
ottimistiche sono estreme ma lo stile attributivo predominante, valutato sulla base di
queste tre dimensioni, è un fenomeno utile da prendere in considerazione e ha anche
un valore predittivo su come vengono ricostruiti gli eventi e quindi su quali sono i
comportamenti e le emozioni più probabili. Queste concetti hanno una validità di
facciata molto consistente.
Più di recente la ricerca ha confermato l’importanza dei pattern abituali sulle con-
vinzioni soggettive che le persone si costruiscono in relazione alle cause degli eventi
(“Quando le cose che vanno male la causa è sempre il disturbo dello sviluppo”) (Se-
ligman et al., 1990). Sembra che questo stile esplicativo possa predire non solo lo state
mentale prevalente ma anche la situazione fisica – per es. l’attività atletica. Seligman et
al. (1990) hanno applicato con successo l’analogia di un’abitudine o una dipendenza a
simili pattern attributivi, usuali in famiglie con un bambino con disturbo dello svilup-
po. La maggior parte delle persone riesce a rendersi contro di come i modi di pensare
siano radicati e di come spesso l’allontanamento da queste modalità sia un processo do-
loroso e caratterizzato, a volte, dal desiderio incontrollabile di ritornare alle precedenti
modalità di pensiero patologico. Non è chiaro perché si dovrebbe verificare questa
urgenza di riadottare pattern attributivi cognitivi disadattivi, ma ci potrebbe essere un
collegamento con una modesta, ma convincente, letteratura che suggerisce una base
genetica ai modi di pensare (Schulman et al., 1993).
258
I bambini con disturbi dello sviluppo
dolore per la perdita del bambino idealizzato e per l’arrivo invece di un bambino con
disabilità (Bicknell, 1983). La negazione della realtà è molto comune e varia da una
momentanea incapacità di comprendere o riconoscere la novità (“shock”) fino al rifiu-
to a lungo termine della disabilità e dei bisogni del bambino. In seguito, la protesta
e la rabbia vengono spesso dirette a chi porta le cattive notizie, ma potrebbero anche
essere dirette a se stessi sotto forma di senso di colpa e depressione, accompagnati da
un’autocolpevolizzazione irrazionale per gli eventi ritenuti responsabili del problema.
Il comportamento di ricerca può essere interiore (“indagine dell’anima”) o in termini
più concreti – per es. andare a cercare molteplici opinioni professionali o provare molte
terapie di moda di dubbio beneficio. Di solito, queste fasi vengono sostituite da una
nuova identità individuale e familiare (“adattamento”).
Proprio come nel caso del lutto, è stato riscontrato un fenomeno di “dolore cro-
nico”. In questo caso, i problemi ciclici del ragazzo disabile e le differenze con gli altri
sollecitano il genitore e riaccendono sentimenti di dolore e alcuni dei processi sopra
citati (Wikler et al. 1981). Sono i tempi, di solito, a enfatizzare le differenze del bambi-
no rispetto agli altri – per es. rimanere indietro sul piano dello sviluppo rispetto a un
fratello più giovane, avere bisogno dell’assegnazione a classi di educazione speciale, non
essere in grado di praticare uno sport o di socializzare come altri bambini o ritornare a
una vita di dipendenza a casa dopo essere stato a scuola. Wikler e colleghi (1981) hanno
trovato che solo il 25% dei genitori aveva sperimentato una sofferenza legata ai tempi.
La maggior parte dei genitori sperimentava una successione di stati positivi e negativi
senza un trend generale verso l’alto. Sembrava anche che i professionisti avessero sovra-
stimato quanto fossero state preoccupanti le esperienze precoci, e sottostimato quanto
lo fossero le più recenti. Il dolore cronico rispetto all’adattamento a tempi differenti
sembrava caratterizzare le esperienze dei genitori di bambini con disturbi dello svilup-
po. Questo dolore era più periodico che continuo. Il messaggio cognitivo importante
per i terapeuti e le famiglie è che il dolore cronico non è una risposta anormale. È una
reazione normale a situazioni anomale. Molte delle tecniche sopra descritte saranno
utili nell’affrontare questo cambiamento cruciale di prospettiva. Mentre il dolore cro-
nico è una risposta normale, le tecniche cognitive possono facilitarne il progresso grazie
alla comprensione e allo sviluppo di utili strategie di coping.
259
Jeremy Turk
Ricerche future
C’è la necessità di ulteriori indagini strutturate sugli approcci cognitivo compor-
tamentali per persone giovani con difficoltà dello sviluppo e le loro famiglie. Le tecni-
che devono essere chiaramente definite – per es. approcci di problem-solving, approcci
psicoeducativi e di verifica delle ipotesi. Questo vale anche per le difficoltà presenti
– per es. lutto familiare patologico, dolore cronico e depressione. Un buon esempio del
grado di dettaglio richiesto in questo settore è fornito da Willner et al. (2002) nella loro
prova randomizzata e controllata dell’efficacia del gruppo cognitivo comportamentale
di gestione della rabbia per clienti con disturbi dello sviluppo. Il trattamento consisteva
260
I bambini con disturbi dello sviluppo
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CAPITOLO 16
I disturbi depressivi
Richard Harrington
Royal Manchester Children’s Hospital, Manchester, Regno Unito
Che esista un disturbo depressivo maggiore proprio della tarda infanzia e del-
l’adolescenza è un’evidenza non discutibile. L’incidenza riferita per l’adolescenza varia
dall’1% al 6% della popolazione generale, con un recente studio inglese in cui il 2%
degli adolescenti aveva avuto un episodio recente di depressione maggiore (Meltzer
et al., 2000). Le percentuali nei bambini sono decisamente minori, probabilmente
nell’ordine di 1 su cento. C’è una notevole possibilità di comorbidità con altri disturbi
emotivi e anche con il disturbo della condotta. Studi di follow-up hanno dimostrato che
le persone giovani con depressione hanno un rischio maggiore di avere episodi succes-
sivi rispetto a quelle con altri disturbi psichiatrici. Esiste anche un maggiore rischio di
tentato suicidio e suicidio portato a termine.
Ora sono disponibili una serie di trattamenti per la depressione maggiore nelle
persone giovani. Per esempio, risultati recenti suggeriscono che gli inibitori del reup-
take specifico della serotonina possono essere efficaci (Emslie et al., 1997; Keller et
al., 2001; Emslie et al., 2002). Tuttavia, in molti casi, i trattamenti psicologici sono
attualmente la prima linea d trattamento. Sono stati analizzati una serie di differenti
trattamenti psicologici per bambini e adolescenti depressi. Probabilmente quelli meglio
valutati sono le terapie cognitivo comportamentali (CBT).
Questo capitolo fornisce un resoconto pratico della CBT per la depressione nella
tarda infanzia e nell’adolescenza. Il capitolo inizia con una breve rassegna della teoria alla
base della CBT e di alcuni principi generali di trattamento. Poi si descrivono le tecniche
basilari della CBT. Il capitolo si conclude con una breve rassegna sulle prove empiriche.
Basi teoriche
Il modello cognitivo della depressione
La CBT per la depressione include tecniche basate su una varietà di differenti mo-
delli teorici della depressione che, essenzialmente, si hanno come focus primario, aspetti
differenti della sintomatologia.
265
Richard Harrington
Esperienza precoce
Incidenti critici
Sintomi di depressione
Comportamentali Fisici
Cognitivi Emotivi
Motivazionali
266
I disturbi depressivi
Il disturbo depressivo è molto meno comune nei bambini che negli adolescenti
(Angold et al., 1998). Questa evidenza ci porta a domandarci quale età devono avere
i bambini prima di poter sperimentare tutta la gamma dei sintomi propri del disturbo
depressivo adulto. I bambini sono in grado di riconoscere i propri stati emotivi dal-
l’età di 2 ani, e, in età prescolare, iniziano a differenziare le emozioni fondamentali e
a comprenderne il significato (Kovacs, 1986). Tuttavia, anche se sperimentano falli-
menti ripetuti, i bambini di età prescolare non si scoraggiano facilmente e mostrano
solo raramente indizi di impotenza appresa (Rholes et al., 1980). Nello stadio delle
operazioni concrete (fra i 7 e gli 11 anni), il bambino inizia a capire che ci sono alcuni
aspetti che restano costanti quando avvengono delle trasformazioni (Piaget, 1970).
L’egocentrismo decresce e il bambino inizia a sviluppare l’autoconsapevolezza e a valu-
tare la propria competenza attraverso il confronto con gli altri (Dweck e Elliot, 1983).
Il sé viene percepito in termini più psicologici che fisici e compaiono concetti di colpa
e vergogna. Pertanto sono possibili attribuzioni negative sul sé, costanti e relativamente
stabili. Inoltre, i bambini iniziano a comprendere le implicazioni di determinati tipi di
eventi avversi. È all’incirca a questa età, per esempio, che la maggior parte dei bambini
riesce a capire che la morte è un evento permanente (Lansdown, 1992). Allo stesso
tempo, il vocabolario emotivo del bambino si espande, e i bambini iniziano a fare di-
stinzioni di natura sottile fra la tristezza e la rabbia. In altre parole, all’incirca fra gli 8 e
gli 11 anni, la maggior parte dei bambini può sperimentare e riferire molti dei pensieri
che si riscontrano nella depressione adulta.
I bambini depressi mostrano un insieme di deficit e distorsioni cognitive simili a
quelli riscontrati negli adulti. Spesso hanno una bassa autostima e distorsioni cogniti-
ve, come l’attenzione selettiva alle caratteristiche negative di un evento (Kendall et al.,
1990). Inoltre, i bambini depressi hanno maggiori probabilità, rispetto a quelli non
depressi, di sviluppare attribuzioni negative (Kaslow et al., 1988). Per esempio, Curry
e Craighead (1990) hanno riscontrato che gli adolescenti più depressi attribuivano le
cause degli eventi positivi a cause esterne instabili.
267
Richard Harrington
268
I disturbi depressivi
Dopo un invio per una CBT, bisognerebbe condurre una valutazione approfon-
dita, attraverso interviste e questionari, per chiarire nel dettaglio la sintomatologia
presente e fissare una baseline in base alla quale misurare il cambiamento. Questionari
utili sono, per i bambini, il Children’s Depression Inventory (Kovacs, 1981) e, per gli
adolescenti, il Mood and Feelings Questionnaire (Angold et al., 1987). Potrebbero essere
utilizzate anche misure dell’ansia, delle competenze sociali e dell’autostima.
Poi si discutono gli obiettivi della terapia che dovrebbero essere il più specifici
possibile. Un obiettivo potrebbe essere quello di sentirsi meno depressi, ma anche la
risoluzione di altri problemi correlati, segnalati dal bambino o dal ragazzo. Si spiega il
processo terapeutico e si sottolinea l’importanza dei compiti a casa.
Durante le prime sedute, il lavoro si focalizza sul chiarimento di quali sono, al mo-
mento, le attività giornaliere del bambino e sull’imparare a tenere un diario. In seguito
alla comparsa di un umore depresso, i ragazzi spesso hanno riducono le proprie attività e
un diario giornaliero può essere utile per stabilire il grado di questa riduzione. I bambini
e i genitori potrebbero essere incoraggiati ad accrescere il proprio livello di attività.
Si controlla il vocabolario utilizzato dal bambino per descrivere i propri sentimen-
ti (educazione emotiva) e poi si fanno dei collegamenti fra le attività e i sentimenti. A
269
Richard Harrington
270
I disturbi depressivi
Livello evolutivo
Supponiamo che Ben e Simon si siano appena trasferiti in un’altra città e stiano
per andare alla loro prima festa. La mamma di Ben, quando lo accompagna alla festa,
gli dice: “cerca di ricordare i nomi di tutti gli altri bambini così dopo mi racconterai
di ognuno di loro”. Il padre di Simon dice: “ci vediamo qui dopo”. Quale bambino
ricorderà il numero maggiore di nomi? Se i bambini hanno meno di 7 o 8 anni,
ricorderanno lo stesso numero di nomi. Se hanno 11 anni o più, Ben ricorderà più
nomi di Simon. Quando i bambini rispondono a simili istruzioni, in base alle quali
viene chiesto loro di ricordare, stanno utilizzando la metacognizione. L’espressione
“metacognizione” si riferisce alla consapevolezza che il bambino ha dei propri proces-
si cognitivi. Viene anche utilizzata per descrivere funzioni esecutive come la pianifica-
zione, l’attivazione di regole, il monitoraggio dell’apprendimento e la valutazione di
un prodotto cognitivo.
Alcune delle tecniche utilizzate nella CBT prevedono la consapevolezza dei propri
atti cognitivi o la capacità di utilizzare processi esecutivi, o entrambe queste compe-
tenze. Per esempio, molti programmi richiedono di portare a termine alcuni compiti
a casa che potrebbero implicare un certo grado di pianificazione (per es. telefonare
a un amico per vedere se è realmente arrabbiato). I bambini piccoli potrebbero ave-
re delle difficoltà, perché è improbabile che pianifichino le azioni prima di metterle
in atto. Similmente, un’attività chiave di alcuni programmi cognitivi è l’analisi delle
prove a favore e contrarie a determinate convinzioni, tipo “i miei amici non vogliono
frequentarmi”. Tuttavia la capacità di confrontare, su un piano puramente mentale,
assunti teorici e prove pratiche, emerge solo gradualmente nel corso dell’adolescenza. I
bambini con meno di 10 anni tendono a ignorare le prove che vanno contro le proprie
convinzioni. È solo con la media adolescenza che la maggior parte degli individui svi-
luppa la competenza di separare la teoria dalla pratica (vedere Capitoli 2 e 8).
L’adolescenza, quindi, è un periodo di transizione nello sviluppo cognitivo. Lo
stadio evolutivo è pertanto, una determinante importante nella scelta della tecnica
più adatta a quel bambino specifico. Come regola generale, i bambini più grandi e
gli adolescenti rispondono meglio ai trattamenti cognitivi dei bambini più piccoli. Si
potrebbero così utilizzare tecniche differenti con bambini di differenti età.
È ormai comprovato che i casi più gravi rispondono meno bene alla CBT rispetto
a quelli di media gravità. Per esempio, Jayson e colleghi (Jayson et al., 1998) hanno
riferito che una maggiore compromissione sociale è associata a una risposta ridotta alla
271
Richard Harrington
CBT, in adolescenti con depressione maggiore. Come regola generale, gli adolescenti la
cui depressione è così invalidante da non permettergli di avere un buon funzionamen-
to, almeno in un ambito sociale (per es. non riuscire a frequentare la scuola), hanno
minori probabilità di rispondere bene alla CBT rispetto a quelli con una compromis-
sione media o moderata.
Contesto sociale
Tecniche fondamentali
Valutazione, fissazione degli obiettivi e formulazione iniziale
272
I disturbi depressivi
Tutte le forme di CBT dovrebbero iniziare con una spiegazione della diagnosi e del
modello di trattamento. La natura di questa spiegazione dipende dal livello di sviluppo
cognitivo del bambino. I ragazzi che hanno sviluppato quelle che Piaget (Piaget, 1970)
definiva “competenze di pensiero formale” possono di solito comprendere la stessa
concettualizzazione della CBT che verrebbe data a un adulto. Per esempio si potrebbe
spiegare la relazione fra i pensieri di una persona, su di sé e sul proprio ambiente, i
comportamenti e le emozioni. Molti bambini e giovani adolescenti hanno tuttavia
difficoltà a “pensare al pensiero” e hanno bisogno di spiegazioni più appropriate al
livello di sviluppo. Il terapeuta potrebbe raccontare al bambino una storia su una situa-
zione sociale (per es. un estraneo che bussa alla porta) a cui si possono dare numerose
differenti interpretazioni e analizzare con lui i vari diversi pensieri e sentimenti che si
presentano alla mente. Per esempio, come si potrebbe sentire il bambino, se pensasse
che l’estraneo ha il volto dell’assassino mostrato al telegiornale della sera? Alcune fiabe,
come I vestiti nuovi dell’imperatore, potrebbero essere uno strumento utile per indagare
che idea ha il bambino sul potere del pensiero e sulla convinzione di poter determinare
il proprio comportamento (Wilkes et al., 1994).
Anche se le CBT è di solito considerata un trattamento individuale o di gruppo,
si tende sempre di più a incoraggiare i genitori a giocare un ruolo nella terapia. Il
coinvolgimento dei genitori è importante per diverse ragioni. Primo, i genitori o al-
tri significativi possono essere spesso molto utili per mettere in pratica il programma
terapeutico – per es. possono aiutare a rinforzare l’assegnazione dei compiti a casa.
Inoltre, possono fornire informazioni sullo stress presente nella vita del ragazzo e sulla
persistenza di determinati sintomi che il bambino potrebbe non voler raccontare (per
es. relazioni con i coetanei e comportamento antisociale). Secondo, speso sono proprio
i genitori a richiedere una terapia. Terzo, i comportamenti e gli atteggiamenti dei ge-
nitori potrebbero essere importanti nel predisporre o mantenere fattori rilevanti nella
problematica del bambino.
Il Problem-Solving
273
Richard Harrington
risolvibile e poi a generare quante più soluzioni possibili. Si sceglie la migliore e poi
si identificano i passi per portarla avanti e il bambino la prova nella pratica. Infine, si
valuta tutto il processo.
274
I disturbi depressivi
Uno degli errori più comuni che commettono i professionisti, è quello di prendere
pazienti non adatti alla CBT. La maggior parte degli studi di ricerca sulla terapia cogni-
tiva sono basati su casi selezionati. La pratica clinica dovrebbe essere di solito confinata
ai casi indicati in questi studi. Pertanto, per esempio, l’efficacia della terapia con gli
adolescenti depressi è stata dimostrata quasi sempre in campioni che non presentavano
condizioni significative di comorbidità (Harrington et al., 1998b). Pertanto non si
può presumere che adolescenti con una depressione e un grave disturbo della condotta
risponderanno al trattamento nella stessa maniera di quelli “solo” depressi. Un altro
problema comune è il fallimento nella costruzione di un’adeguata formulazione cogni-
tivo comportamentale. Questo può portare all’applicazione di tecniche “manualizzate”
non adatte alle necessità dell’individuo.
Anche l’atteggiamento del terapeuta potrebbe causare dei problemi. Per esempio,
molti bambini che vengono inviati per una terapia si trovano in situazioni di vita diffi-
cili e credono che le proprie difficoltà non possano essere risolte. In questi casi, il tera-
peuta potrebbe cadere nella convinzione che “tutti si sentirebbero così” in quella stessa
situazione. Questo punto di vista di solito non è corretto. È importante che il terapeuta
abbia un approccio ottimistico al problem-solving e che non contribuisca a una visione
catastrofica del problema.
Anche le convinzioni del paziente possono portare a difficoltà nel corso della tera-
pia. Alcuni ragazzi arrivano in trattamento convinti che tutti i propri problemi saranno
curati dalla terapia psicologica. È importante che comprendano i limiti di una terapia
cognitiva. Il terapeuta deve assicurarsi che vengano fissati obiettivi specifici e realistici
all’inizio della terapia. Altri ragazzi denigrano la terapia con affermazioni come “Ho
275
Richard Harrington
già fatto cinque sedute e non è cambiato nulla”. In questi casi, il terapeuta dovrebbe
spiegare che il trattamento spesso segue un corso variabile, con alti e bassi.
Possono sorgere molti problemi tecnici in una CBT con persone giovani. Uno dei
più comuni è il fallimento nel portare a termine i compiti assegnati per casa. In questi
casi, il terapeuta dovrebbe prima di tutto fare un ripasso della seduta precedente e assi-
curarsi di revisionare adeguatamente i compiti a casa.
È importante per i esempio che i pazienti più giovani ripetano l’assegnazione per
assicurarsi di aver capito. I problemi con i compiti a casa possono essere spesso pre-
venuti. Il terapeuta dovrebbe inoltre rivedere i compiti a casa nel corso della seduta.
Deve essere costante e non smettere fino a che i compiti non sono stati fatti. Un altro
problema comune è il silenzio dell’adolescente nel corso della seduta. In questi casi, il
terapeuta dovrebbe allentare un pò la pressione dicendo, per esempio, “Sarò io a parlare
per un pò” Una volta che l’adolescente inizia a parlare, il terapeuta può cercare di capire
la fonte del problema.
Gli atteggiamenti dei genitori possono essere una determinante molto potente
dell’esito di un trattamento. Alcuni genitori credono che il loro bambino stia semplice-
mente “inventando tutto” e che non abbia davvero un problema, “Ne uscirà crescen-
do.” Alcuni hanno invece la visione opposta e credono che i problemi del bambino
siano così gravi e così parte della sua personalità che non si possa fare niente con la
terapia. Un’analisi attenta di queste convinzioni da parte del terapeuta, seguita da una
spiegazione adeguata, può aiutare a modificare questi atteggiamenti.
276
I disturbi depressivi
Le prove empiriche
Sono almeno sei gli studi randomizzati e controllati sulla CBT in campioni sco-
lastici di bambini con sintomi depressivi (Reynolds e Coats, 1986; Stark et al., 1987;
Kahn et al., 1990; Liddle e Spence, 1990; Marcotte e Baron, 1993; Weisz et al., 1997).
Di solito si iniziava con uno screening sulla depressione attraverso un questionario e poi
si inserivano i ragazzi che avevano avuto punteggi elevati in un intervento di CBT di
gruppo. In tre prove, la CBT era superiore all’assenza di trattamento. Anche se questi
risultati sono promettenti, potrebbero non necessariamente essere applicabili a casi di
effettivo disturbo depressivo. Tuttavia, una meta-analisi (Harrington et al., 1998a) su
sei prove randomizzate su casi con diagnosi clinica di disturbo depressivo (Lewinsohn
et al., 1990; Reed, 1994; Vostanis et al., 1996b; Wood et al., 1996; Brent et al., 1997;
Clarke et al., 1999 ha riscontrato che la CBT era significativamente superiore a condi-
zioni di controllo, come essere inseriti in lista d’attesa o fare un training di rilassamento
(pooled odds ratio di 2.2).
La CBT è pertanto un trattamento promettente per la depressione negli adolescen-
ti. Ciò non di meno, ha delle limitazioni. La prima è che quelli con disturbo depressivo
grave rispondono meno bene di quelli in condizioni medie o moderate (Clarke et al.,
1992; Brent et al., 1998; Jayson et al., 1998; Brent et al., 1999). Secondo, anche se chi
propone i trattamenti psicosociali spesso reclama benefici a lungo termine per lo svi-
luppo psicologico degli adolescenti, questo deve ancora essere pienamente dimostrato.
Poche prove hanno fornito dati di follow-up superiori a pochi mesi e quelli che lo han-
no fatto non hanno di solito riscontrato effetti a lungo termine (Vostanis et al., 1996a;
Wood et al., 1996; Birmaher et al., 2000). Terzo, non è chiaro quali siano i processi
psicologici che correlano con un esito migliore. La base del cambiamento terapeutico
è pertanto incerta.
Infine, anche se la CBT è stata descritta in manuali dettagliati (Clarke et al., 1990),
pochi centri offrono un training ai terapeuti che vogliono lavorare con questo gruppo
di età.
Conclusioni
Nel complesso, questo capitolo ha suggerito che la CBT è efficace per disturbi de-
pressivi medi e moderatamente gravi. Non è, tuttavia, un “cura tutto”. La ricerca futura
dovrà stabilire se è altrettanto efficace in forme gravi del disturbo depressivo e come
possa essere meglio combinata con altri trattamenti, per esempio i farmaci. Un’altra
questione chiave è come utilizzare i risultati della ricerca nella pratica clinica.
16.13 Riconoscimenti
Ringraziamo il National Coordinating Centre for Health Technology Assessment e la
PPP Foundation che finanziano le prove sulla CBT condotte dall’autore di questo ca-
pitolo. I punti di vista e le opinioni espresse qui non riflettono necessariamente quelle
di queste istituzioni.
277
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CAPITOLO 17
John S. March
Duke University Medical Center, Durham, North Carolina, Stati Uniti
Introduzione
Da sempre, una percentuale fra lo 0,5% e lo 1% dei bambini e degli adolescenti
soffre di un disturbo ossessivo compulsivo clinicamente significativo (Flament et al.,
1988). Fra gli adulti con disturbo ossessivo compulsivo, una percentuale che va da un
terzo alla metà sviluppa il disturbo nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza (Rasmus-
sen e Eisen, 1990). Anche se alcuni bambini riescono comunque ad avere una vita
normale, questo è un disturbo che tipicamente compromette il funzionamento scola-
stico, sociale e professionale. Quindi, oltre a ridurre la morbidità associata al disturbo
ossessivo compulsivo in età pediatrica, i progressi nel trattamento precoce hanno la
potenzialità di ridurre la morbidità adulta.
Negli ultimi 15 anni, la terapia cognitivo comportamentale (CBT) si è dimostrata
il trattamento di elezione per il disturbo ossessivo compulsivo per tutto l’arco della
vita (Marche et al., 1997). Diversamente da altre psicoterapie, applicate di solito senza
risultati (March e Leonard, 1996), c’è una relazione logica coerente e convincente fra
la CBT, il disturbo e l’esito specifico (Foa e Kozak, 1991). Nonostante il consenso di
esperti sul fatto che la CBT sia di gran lunga il miglior trattamento psicosociale, i clinici
lamentano che i propri pazienti non aderiscono ai trattamenti comportamentali e i ge-
nitori lamentano che i clinici hanno un addestramento scarso nella CBT. Oltre al fatto
che non ci sono clinici addestrati nella CBT, molti bambini e adolescenti, se non la
maggior parte, non ha accesso alla CBT. Questa sfortunata contingenza potrebbe essere
evitabile se si comprendesse appieno l’efficacia della CBT per bambini e adolescenti
con disturbo ossessivo compulsivo.
281
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
Dopo una discussione sul processo diagnostico in età pediatrica, questo capitolo
andrà avanti analizzando lo stato attuale della CBT per il disturbo ossessivo compul-
sivo nei bambini e negli adolescenti. Vengono descritti i principi alla base del tratta-
mento e si presenta brevemente il protocollo di CBT applicato dagli autori in contesti
clinici e di ricerca (Marche Mulle, 1998). Di seguito si presentano gli studi empirici
a favore dell’utilizzo della CBT e le future direzioni per la ricerca. Si conclude con un
insieme di suggerimenti clinici. Il lettore che desidera seguire il protocollo dovrebbe
comprare e utilizzare la versione pubblicata del manuale di trattamento (March e
Mulle, 1998).
Valutazione
Una valutazione adeguata del disturbo ossessivo compulsivo in età pediatrica
dovrebbe includere un’analisi approfondita dei sintomi attuali e passati del distur-
bo, della gravità dei sintomi e delle compromissioni funzionali a questi associate e
un’analisi di eventuali comorbidità. Inoltre, si dovrebbero valutare i punti di forza
del bambino e della famiglia così come la conoscenza che hanno del disturbo stesso
e di come trattarlo. Ci sono numerosi strumenti di self-report o somministrati dal
clinico che possono essere utilizzati per guidare questo tipo di valutazione. Gli au-
tori di solito inviano una serie di importanti questionari di self-report alla famiglia,
da completare prima della prima visita, e poi rivedono questo materiale prima di
incontrare il bambino. Se risulta evidente da questi questionari che ci sono, in ag-
giunta al disturbo ossessivo compulsivo, anche sintomi di depressione o problemi
d’ansia, il focus della terapia includerà anche questi. La Anxiety Disorders Interview
Schedule for Children (ADIS-C) è un’intervista semistrutturata che può essere utiliz-
zata per indagare eventuali comorbidità con grande accuratezza; gli autori utilizzano
la ADIS nell’attuale studio collaborativo che esamina l’efficacia ascrivibile alla CBT,
alla sertralina, al trattamento combinato con queste due e a un placebo (Franklin et
al., 2003). Per una rassegna sui sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e per la
valutazione della gravità di quelli attuali, utilizziamo la checklist della scala di gravità
Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (CY-BOCS) (Scahill et al., 1997).
Prima di somministrare questa scala, è importante determinare se l’intervista al bam-
bino dovrebbe avvenire o meno in presenza di un genitore. Nella prova randomizzata
controllata degli autori, si conduce un’intervista congiunta; ponendo le domande
al bambino, ma sollecitando allo stesso tempo anche un feedback dal genitore. In
contesti che non sono di ricerca, c’è maggiore flessibilità e la decisione di intervistare
il bambino da solo o con un genitore può essere presa discutendone prima con il
genitore, osservando il comportamento nella sala d’attesa del bambino e della fami-
glia e anche nel corso dell’intervista se necessario. Per esempio, se è evidente che un
paziente è riluttante a discutere determinati sintomi con un genitore presente (per
es. ossessioni sessuali), il terapeuta può tralasciare l’item della checklist CY-BOCS e
lasciarsi un pò di tempo alla fine dell’intervista per ritornare su queste questioni, po-
tenzialmente sensibili, da solo con il paziente. Il nostro mantra nella clinica è “cogli
282
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
l’informazione”, il che significa che se la presenza del genitore accresce la validità del
processo valutativo allora bisognerebbe coinvolgerlo nell’intervista – altrimenti, il
bambino va intervistato da solo.
Prima di somministrare la CY-BOCS, il terapeuta dovrebbe spiegare cosa sono
le ossessioni e le compulsioni, utilizzando degli esempi se il bambino e/o i genitori
hanno difficoltà a comprenderli. In questa occasione si può anche parlare al bambino
o all’adolescente dell’incidenza, della natura e del trattamento del disturbo ossessivo
compulsivo, cosa che potrebbe accrescere il desiderio di rivelare i propri sintomi
specifici. I bambini potrebbero sentirsi gli unici sulla terra ad avere paure ossessive di
fare male a una persona amata; in questo caso, introdurre esempi tipo “una volta ho
incontrato un bambino che...”, fa crollare questo mito e minimizza il senso di isola-
mento che di solito lo accompagna. Nel corso della prima visita è anche importante
osservare il comportamento del bambino e indagare se certi comportamenti (per
es. movimenti e vocalizzazioni insolite) siano compulsioni designate a neutralizzare
le ossessioni o a ridurre lo stress. I tic presentano una frequente comorbidità con il
disturbo ossessivo compulsivo ed è importante cercare di fare una diagnosi diffe-
renziale, dal momento che le compulsioni e i tic verranno affrontati con differenti
tecniche di trattamento. Inoltre, come già menzionato, alcuni bambini consapevoli
delle proprie ossessioni potrebbero avere timore di raccontare le paure ad alta voce.
In questo problema può essere d’aiuto indagare le ossessioni comuni attraverso una
checklist, piuttosto che chiedere al bambino di rivelare le proprie paure e esprimer-
gli la propria comprensione (per es. “molti bambini che incontro fanno difficoltà a
parlare di questo tipo di paure”).Gli autori hanno riscontrato che si deve garantire
flessibilità nel modo in cui viene portata avanti questa rivelazione. Così, per esempio,
gli autori permettono al bambino di scrivere le paure o di fare un cenno con la testa
quando il terapeuta descrive paure simili. In questo modo, possiamo comunicare al
bambino e alla famiglia che riconosciamo la difficoltà della rivelazione. Gli autori
utilizzano anche esempi tratti da diagnosi precedenti (per es. “Ricordo che pochi
mesi fa un bambino della tua età mi disse che aveva paura di toccare il proprio cane
perché aveva paura di perdere il controllo e di fargli male”), anche se, quando citano
simili esempi, trasmettono chiaramente ai bambini e alle famiglie la propria atten-
zione nel non violare la confidenzialità. Segue una breve descrizione dei principali
strumenti valutativi.
La CY-BOCS
283
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
La ADIS
La versione per i genitori della ODC Impact Scale, da utilizzare nell’analisi della
compromissione funzionale ascrivibile al disturbo, è ancora in fase di validazione, ma
allo stato attuale dell’arte, mostra già alcuni indizi preliminari di adeguatezza psico-
metrica e sensibilità al cambiamento (Piacentini et al., 2001). Questo strumento ci
permette d stimare se i miglioramenti nella CY-BOCS siano il risultato di una reale
normalizzazione riscontrabile dall’analisi della compromissione funzionale. Di recente,
è stata sviluppata una versione nuova e più breve di questa scala, le cui proprietà psico-
metriche sembrano favorevoli (Piacentini et al., 2001)
Il CDI è una scala di self-report a 27 item che misura i sintomi cognitivi, emo-
tivi, comportamentali e interpersonali della depressione (Kovacs, 1996). Ogni item
è costituito da tre affermazioni, fra cui il bambino deve scegliere quella che meglio
descrive il suo attuale funzionamento. Gli item ricevono un punteggio fra 0 e 2; e
i punteggi totali vano da 0 a 54. La CDI mostra un’adeguata affidabilità e validità.
Questa scala è utile per la valutazione dei sintomi depressivi al fine di ideare un in-
tervento personalizzato.
284
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
Anamnesi medica
Si dovrebbero analizzare anche le anamnesi mediche dei pazienti con disturbo os-
sessivo compulsivo pediatrico, facendo particolare attenzione alla presenza di ricorrenti
infezioni da streptococco. I bambini con un disturbo ossessivo compulsivo causato dallo
streptococco (Paediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorder Associated with Sterpto-
coccal Infection o PANDAS) potrebbero richiedere un trattamento in qualche modo dif-
ferente; inoltre la percentuale di questi che sviluppa successivamente un disturbo ossessi-
vo compulsivo è attualmente sconosciuta e pertanto gli esperti concordano tutti sul fatto
che non si possa fare una diagnosi di questo disturbo dopo aver riscontrato, a posteriori,
la presenza di un PANDAS (Swedo et al., 1998), anche se questa è un’evenienza piuttosto
comune (Giulino et al., 2002). I criteri diagnostici attuali per considerare il PANDAS un
fattore eziologico rilevante, prevedono la presenza di almeno due episodi possibilmente
documentati di degenerazione in disturbo ossessivo compulsivo in associazione a tic, in
presenza di un’infezione da streptococco. Sfortunatamente, fare una diagnosi retrospet-
tiva incontrovertibile di PANDAS è praticamente impossibile in una popolazione clinica
di individui con disturbo ossessivo compulsivo (Giulino et al., 2002). A livello clinico,
i bambini che mostrano indizi inconfutabili di PANDAS dovrebbero essere inviati a
qualcuno per un appropriato trattamento dell’infezione da streptococco del gruppo A
β-emolitico (GABSH). Dopo essere stati trattati per questa infezione, il clinico dovrebbe
poi prendere in considerazione una CBT e/o un’eventuale farmacoterapia con inibitori
selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) presentati di seguito.
In sintesi, le scale, le interviste e i questionari precedentemente menzionati, po-
trebbero essere d’aiuto nella raccolta pre-trattamento di informazioni cliniche rilevanti
e nella valutazione dei progressi al post-trattamento. Nella ricerca condotta dagli autori,
questa è la pratica clinica di routine. Speriamo che lo sviluppo di una modalità efficace
per la valutazione degli esiti potrebbe stimolare ricerche sull’efficacia in contesti clinici
reali. Tuttavia, fino a che le misure utilizzate nella nostra ricerca non vengono snellite
e ridotte alle componenti essenziali, le limitazioni economiche, di tempo e personali
potrebbero restringerne l’applicabilità ad altri contesti.
285
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
Strumenti
EX/RP
286
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
La terapia cognitiva
Sono stati utilizzati numerosi interventi cognitivi per fornire al bambino un “kit”
che faciliti la compliance con le procedure di EX/RP (Soechting e March, 2002).Gli
obiettivi della terapia cognitiva, che potrebbero essere più o meno utili a seconda del
bambino e della natura del disturbo ossessivo compulsivo, di solito includono l’accre-
scimento del senso di autoefficacia, della percezione di prevedibilità e controllabilità
delle situazioni e della probabilità di esisto positivo attribuibile a se stessi nelle prove
EX/RP. Gli interventi specifici includono: (1) il discorso interiore costruttivo; (2) la
ristrutturazione cognitiva e (3) il non attaccamento o, per dirla diversamente, mini-
mizzare gli aspetti ossessivi della soppressione del pensiero. Ognuno di questi aspetti
va personalizzato a seconda degli specifici sintomi del disturbo e deve armonizzarsi
con le competenze cognitive del bambino, con il livello di sviluppo e con le differenze
individuali di preferenza fra le tre tecniche. Simili metodi sono spesso incorporati nei
programmi EX/RP, dove le procedure cognitive vengono utilizzate per supportare e
completare la tecnica EX/RP piuttosto che per sostituirsi a essa.
Estinzione
Il modelling e lo shaping
Il modelling – diretto (il bambino capisce che il terapeuta gli sta mostrando com-
portamenti di coping più adeguati o adattivi) o indiretto (il terapeuta è modello infor-
male di un comportamento) – può aiutare ad accrescere la compliance con le procedure
EX/RP e la generalizzazione dei risultati ai compiti a casa. Mirato ad accrescere la mo-
tivazione ad assecondare le procedure di EX/RP, lo shaping implica il rinforzo positivo
di approssimazioni graduali a un comportamento target desiderato. Il modeling e lo
287
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
Il protocollo utilizzato da March et al. nel proprio studio del NIMH (discusso in
seguito), è un esempio alquanto tipico di un regime di esposizione graduale (Marche
Mulle, 1998) ed è costituito da 14 sedute, per un periodo di 12 settimane, che si dipa-
nano in cinque fasi: (1) fase psicoeducativa, (2) training cognitivo, (3) mappatura del
disturbo ossessivo compulsivo, (4) esposizione e prevenzione del rituale e (5) preven-
zione delle ricadute e training di generalizzazione. Come mostrato nella Tabella 17.1,
288
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
eccetto per la settimana 1 e 2, in cui i pazienti vengono due volte a settimana, tutte le
visite hanno cadenza settimanale, durano 1 ora e prevedono un contatto telefonico di
10 minuti fra una visita e l’altra pianificato nel corso delle settimane 3-12.
289
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
notevole della famiglia nei rituali e/o il livello evolutivo del bambino richiedono che i
membri della famiglia assumano un ruolo più centrale nel trattamento. È importante
notare che i protocolli di CBT permettono una sufficiente flessibilità per apportare
adattamenti sulla base del quadro sintomatologico.
Cruciale per il successo di qualunque protocollo di CBT è la capacità di applicare
trattamenti guidati da protocolli strutturati in una maniera appropriata su un piano
evolutivo (Clarke, 1995). Nell’ottica degli autori, la CBT si è mostrata efficace nei
bambini fino dall’età di 5 anni. L’adeguatezza evolutiva viene garantita permettendo
una flessibilità nel protocollo di trattamento e rispettando i vincoli degli obiettivi fis-
sati nella seduta. Più specificamente, il terapeuta adatta il livello del discorso al fun-
zionamento cognitivo, alla maturità sociale e alla capacità di attenzione sostenuta di
ciascun paziente. I pazienti più giovani richiedono hanno maggiormente bisogno di
essere ridirezionati e di essere coinvolti in diverse attività per mantenere elevato il livello
di attenzione e di motivazione. Gli adolescenti sono di solito più sensibili agli effetti del
disturbo sulle interazioni con i pari, che richiedono una discussione più approfondita.
Gli interventi cognitivi in particolare, richiedono un adattamento al livello di sviluppo
del paziente, così, per esempio, agli adolescenti non piacerebbe assegnare al disturbo
ossessivo compulsivo un soprannome sgradevole, mentre ai bambini sì. Si utilizzano
anche metafore evolutivamente adeguate, rilevanti per le aree di interesse e di cono-
scenza del bambino, per promuovere un coinvolgimento attivo nel processo di tratta-
mento. Per esempio, un adolescente che giocava a calcio riusciva a comprendere meglio
concetti formulati con una terminologia di strategie offensive e difensive, come quella
che si utilizza nel gioco (per es. bloccare le incursioni). Quando ci sono pazienti con
sintomi che coinvolgono alcuni membri della famiglia, il coinvolgimento della famiglia
stessa nel piano di trattamento dovrà essere curato con attenzione. Tuttavia, anche se il
manuale (Marche e Mulle, 1998) include una sezione sugli adattamenti particolari per
il livello di sviluppo, specifici per ciascuna seduta di trattamento, il format generale e
gli obiettivi delle sedute di trattamento sono gli stessi per tutti i bambini.
290
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
291
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
Efficacia
Analisi non controllate pubblicate a oggi (Franklin et al., 1998; March, 1998a;
Franklin et al., 2001; March et al., 2001) hanno dato risultati decisamente simili: al
post trattamento, la maggioranza dei pazienti aveva risposto, con una riduzione media
alla CY-BOCS fra il 50% e il 67%. Anche se per trarre delle conclusioni sono necessari
studi controllati e randomizzati, queste riduzioni nella CY-BOCS, associate alla CBT,
sono notevoli. Tuttavia, a complicare l’interpretazione dei risultati c’è il fatto che molti,
se non la maggior parte, dei pazienti assumevano farmaci inibitori selettivi del reuptake
della serotonina, prima o durante il corso della CBT e pertanto non è stato possibile
separare gli effetti della sola CBT.
La maggior parte degli studi pubblicati sugli esiti della CBT nei casi di disturbo
ossessivo compulsivo pediatrico hanno utilizzato un regime terapeutico a frequenza
settimanale. Al contrario, Wever e Rey (1997) hanno utilizzato un protocollo intensivo
di CBT che includeva due sedute per la raccolta delle informazioni, seguite da dieci se-
dute giornaliere di CBT per 2 settimane. Franklin et al. (1998) non hanno riscontrato
alcuna differenza fra 14 sedute settimanali per 12 settimane o 18 sedute in 4 settimane,
ma l’interpretazione di questi risultati è ostacolata dall’assenza dell’assegnazione ca-
suale. Presi insieme, gli studi disponibili suggeriscono che i pazienti rispondono bene
alla CBT applicata su base settimanale o intensiva. Data la maggiore accettabilità del
trattamento settimanale per i pazienti e per chi lo eroga, la maggior parte dei terapeuti
utilizzerà probabilmente il protocollo da 14 sedute per 12 settimane (March e Mulle,
1998) che gli autori hanno analizzato nel proprio studio collaborativo del NIMH.
Durata
292
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
solito favorevoli. Foa e Kozak (1996) hanno concluso che i benefici raggiunti con
la terapia comportamentale persistono senza continuare il trattamento, mentre quelli
raggiunti solo con i farmaci richiedono la persistenza del trattamento per restare tali.
Come nei pazienti adulti, anche nei bambini e negli adolescenti il disturbo ossessivo
compulsivo è una malattia mentale cronica. Per esempio, nel primo studio di follow-up
del NIMH, il 68% dei pazienti presentava una diagnosi clinica di disturbo ossessivo
compulsivo al follow-up (Flament et al., 1990). In un seguente studio di follow-up più
sistematico a 2 e 7 anni (Leonard et al., 1993), il 43% soddisfaceva ancora i criteri
per un disturbo ossessivo compulsivo; solo l’11% era completamente asintomatico. Il
settanta per cento continuava ad assumere i farmaci al momento del follow-up e questa
è la prova manifesta dei limiti del trattamento ricevuto da questi pazienti. I tre studi
pilota sul disturbo ossessivo compulsivo pediatrico che hanno incluso una valutazio-
ne al follow-up (March et al., 1994; Wever, 1994; Franklin et al., 1998) supportano
la durata dei risultati ottenuti con la CBT, con benefici terapeutici presenti fino a 9
mesi dopo il trattamento. Inoltre, dal momento che di solito la ricaduta segue l’inter-
ruzione del trattamento farmacologico, i risultati di March et al. (1994), secondo cui
il miglioramento era presente in sei pazienti su nove dopo l’interruzione dei farmaci,
fornisce un supporto limitato all’ipotesi secondo cui la CBT inibisce la ricaduta quando
si interrompono i farmaci.
Gli esperti hanno proposto la CBT, ponendo l’enfasi sulla tecnica EX/RP, come
il trattamento di elezione per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini e negli
adolescenti (March et al., 1997), ma numerose barriere potrebbero limitarne l’utilizzo
diffuso. Primo, pochi terapeuti hanno un’esperienza notevole nella CBT per il disturbo
293
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
294
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
Direzioni future
Rassegna
Gli sforzi della ricerca sono ora focalizzati (o lo saranno a breve) su otto aree: (1)
eseguire prove comparative fra farmaci, CBT e combinazione fra due, per determinare
se l’azione dei farmaci e della CBT nel ridurre i sintomi sia sinergica o sommativa; (2)
eseguire studi di follow-up per analizzare le percentuali di ricaduta e l’utilità di sedute
di ripasso nel ridurre il rischio di ricaduta; (3) analizzare le componenti, il confronto,
per esempio, fra la tecnica EX/RP, la terapia cognitiva e la loro combinazione, per va-
lutare il contributo relativo nella riduzione dei sintomi e nel grado di accettabilità del
trattamento; (4) confrontare i trattamenti individuali con quelli familiari per determi-
nare quale sia il più efficace con i bambini; (5) sviluppare trattamenti innovativi per
295
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
Nonostante nella prassi attuale, come trattamento elettivo per il disturbo ossessivo
compulsivo pediatrico, si suggerisca l’applicazione della CBT da sola o la combinazio-
ne di questa con un farmaco inibitore selettivo del reuptake della serotonina (Marche t
al., 1997), l’efficacia relativa della CBT e dei farmaci, da soli o in combinazione, resta
incerta. Pertanto, sono necessari studi comparativi ben disegnati che indaghino gli esiti
del trattamento sia negli adulti sia nei bambini. Quindi è di particolare importanza lo
studio comparativo sugli esiti del trattamento che gli autori concluderanno a breve,
finanziato dal NIMH, sui trattamenti del disturbo ossessivo compulsivo (Franklin et
al., 2003). Questo studio mette a confronto l’entità e la durata dei miglioramenti ot-
tenuti, con un trattamento di 5 anni, su un campione di 120 ragazzi volontari (60 per
area), fra gli 8 e i 16 anni, con una diagnosi clinica, secondo il DSM-IV, di disturbo
ossessivo compulsivo, in quattro condizioni di trattamento: trattamento con sertralina
(MED), CBT specifica per il disturbo ossessivo compulsivo (CBT), combinazione dei
due (COMB) e due condizioni di controllo (placebo (PBO) e supporto educativo
(ES)). Il disegno sperimentale prevede due fasi.
La fase I confronta gli esiti delle condizioni sperimentali, MED, CBT, COMB,
con le condizioni di controllo. Nella Fase II, i pazienti che avevano risposto al trat-
tamento progredivano a un trattamento discontinuo di 16 settimane per valutare la
durata degli effetti del trattamento. La misura principale dell’esito sono stati i valori
della Y-BOCS. Sono state anche condotte valutazioni insensibili al trattamento ai se-
guenti stadi: settimana 0 (pre-trattamento); settimane 1, 4, 8 e 12 (fase I) e settimane
16, 20, 24 e 28 (fase II). Oltre a confrontare la relativa efficacia e durata dei trattamenti
specifici, questo studio analizza anche gli effetti tempo-azione; gli effetti differenziali
dei trattamenti su aspetti specifici del disturbo ossessivo compulsivo, fra cui la com-
promissione funzionale; e i predittori della risposta al trattamento. Una volta concluso,
questo studio sarà seguito da una prova comparativa della CBT versus un trattamento
con un neurolettico atipico in pazienti che non rispondono bene al farmaco inibitore
selettivo del reuptake della serotonina.
296
Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi
Sintesi
Nonostante i limiti nella letteratura di ricerca, la psicoterapia cognitivo compor-
tamentale da sola o in combinazione alla farmacoterapia attualmente si conferma il
trattamento d’elezione per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini e negli adole-
scenti. Idealmente, le persone giovani con un disturbo ossessivo compulsivo dovreb-
bero prima essere sottoposte a una CBT ottimizzata per disturbo ossessivo compulsivo
a insorgenza nell’infanzia e, se non si ha una risposta immediata, passare a una CBT
intensiva o all’aggiunta di una farmacoterapia parallela con un farmaco inibitore se-
lettivo del reuptake della serotonina. Inoltre, dal momento che la psicoterapia cogni-
tivo comportamentale, comprese alcune sedute di ripasso nelle fasi di sospensione del
farmaco, potrebbe migliorare gli esiti a breve e lungo termine nei pazienti trattati con
i farmaci; tutti i pazienti che assumono farmaci potrebbero anche ricevere una CBT
parallela. A questo proposito, le tesi avanzate a sfavore della CBT per il disturbo osses-
sivo compulsivo, che semplicemente sostituisca i sintomi, il pericolo dell’interrompere
i rituali, l’uniformità dei sintomi appresi e l’incompatibilità con la farmacoterapia, si
sono tutte rivelate infondati. Forse il mito più insidioso è che la CBT sia un trattamen-
to semplicistico che ignora i “problemi reali”. Gli autori credono che sia vero l’oppo-
sto. Aiutare i pazienti a fare un cambiamento rapido e difficile, in un lasso di tempo
breve, richiede competenza clinica e un trattamento con focus specifico. Attualmente,
si ritiene che i trattamenti per il disturbo ossessivo compulsivo pediatrico dovrebbero
essere solitamente condotti da un team multidisciplinare localizzato in un contesto
clinico simil-specialistico. Tradurre la pratica specialistica per l’applicazione nei servizi
territoriali è essenziale se si vuole rendere questi trattamenti efficaci, come la CBT per
il disturbo ossessivo compulsivo, disponibili su vasta scala ai bambini e agli adolescenti
che soffrono di questo disturbo.
Riconoscimenti
Questo manoscritto, adattato da March et al. (2001), è stato supportato in parte
dal NIMH Grants 1 R10MH55121 (Drs March e Foa) e 1 K24MHO1557 (Dr Mar-
ch) e dalla famiglia di Robert e Sarah Gorrell.
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299
John S. March, Martin Franklin e Edna Foa
300
CAPITOLO 18
I disturbi d’ansia
Diagnosi
La quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali
(DSM-IV; Associazione Americana di Psichiatria, 1994) include le seguenti catego-
rie di disturbi d’ansia, che possono essere riscontrati anche nei bambini: disturbo
d’ansia da separazione, disturbo da attacchi di panico, agorafobia, disturbo ossessivo
compulsivo, disturbo post-traumatico da stress, disturbo acuto da stress, fobia speci-
fica, fobia sociale e disturbo d’ansia generalizzato. Anche se non esistono categorie
specifiche per i disturbi d’ansia nell’infanzia, il DSM-IV tiene in considerazione le
differenze nella manifestazione dell’ansia nei bambini conseguenti alle differenze co-
gnitive ed evolutive. Per esempio, i criteri evidenziano che, diversamente dagli adulti,
i bambini e gli adolescenti potrebbero non necessariamente considerare le proprie
paure o i comportamenti ansiosi come qualcosa di eccessivo o non ragionevole. Inol-
tre, i sintomi come il pianto, i capricci e restare attaccati ai genitori sono ritenuti in-
301
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
dicatori comportamentali dell’ansia nei bambini. Dato che l’ansia è una caratteristica
comune e spesso transitoria dell’infanzia, il DSM-IV asserisce inoltre che i sintomi
del disturbo devono essere presenti per almeno 6 mesi prima che possa essere effet-
tuata una diagnosi.
302
I disturbi d’ansia
a Chorpita e Barlow (1998), Hudson e Rapee (in stampa), Manassis e Bradley (1994)
e Rapee (2001).
Ci sono prove convincenti a sostegno di una base genetica dell’ansia: i geni spie-
gherebbero circa il 30-40% della varianza (Andrews et al., 1990). Hudson e Rapee
(in stampa) hanno suggerito che questa vulnerabilità genetica si manifesta attraverso
il temperamento del bambino. Il temperamento è lo stile comportamentale innato
del bambino, in parte mediato dai geni, che si esprime attraverso la reattività e la re-
golazione del sistema nervoso (Prior et al., 2000). Anche se il temperamento sembra
giocare un ruolo nello sviluppo dell’ansia, non tutti i bambini che possiedono questa
vulnerabilità temperamentale sviluppano un disturbo. Pertanto, ci sono altri fattori,
oltre alla genetica e ai suoi correlati temperamentali, che contribuiscono allo sviluppo
dell’ansia.
Gli studi sui gemelli hanno mostrato che i fattori ambientali danno un grande
contributo allo sviluppo di sintomi e di disturbi d’ansia (per es. Topolski et al., 1997;
Eley e Stevenson, 2000). Numerose ricerche hanno indagato i modi in cui l’ambiente
familiare può influenzare lo sviluppo e il mantenimento dell’ansia. I fattori implicati
nello sviluppo dell’ansia infantile, relativi all’ambiente familiare, includono lo stile ge-
nitoriale, l’atteggiamento dei genitori nei confronti dell’evitamento e l’apprendimento
per osservazione.
Una rassegna della letteratura sullo stile genitoriale e sull’ansia ha rivelato una con-
sistente relazione fra questa e uno stile più invischiato e controllante (Rapee, 1997). La
ricerca indica che i genitori potrebbero giocare un ruolo nella promozione dei compor-
tamenti ansiosi del proprio figlio. Barrett e colleghi (1996b) hanno chiesto ai bambini
ansiosi e a un gruppo di controllo di interpretare e suggerire piani di azione per situa-
zioni ambigue. I bambini ansiosi interpretavano più facilmente le situazioni come mi-
nacciose e selezionavano piani di azione di evitamento, rispetto a quelli del gruppo di
controllo. Dopo una discussione con i propri genitori sulla situazione, la probabilità di
selezionare un’interpretazione minacciosa e un piano di azione di evitamento aumenta-
va drammaticamente. L’esame del contenuto delle discussioni familiari ha rivelato che
i genitori dei bambini ansiosi appoggiavano il comportamento evitante del bambino,
essendo essi stessi modelli di evitamento, verbalizzando i propri dubbi sulle capacità
del bambino e fornendo accettazione e conforto quando il bambino mostrava un com-
portamento evitante (Dadds et al., 1996). Resta da determinare se sia l’atteggiamento
dei genitori a promuovere l’evitamento o il comportamento ansioso del bambino a
innescare risposte iperprotettive. È possibile che entrambi questi fattori contribuiscano
allo sviluppo dell’ansia (Rapee, 2001). Anche altre figure nell’ambiente del bambino
(per es. insegnanti, coetanei e fratelli) potrebbero rinforzare i comportamenti ansiosi o
di evitamento.
L’insorgenza di un disturbo d’ansia può essere collegata anche alla presenza di
stressor esterni ambientali. Il disturbi post-traumatico da stress è un esempio estremo di
come l’esposizione a un evento esterno possa causare ansia. Infine, è stato riscontrato
che i bambini ansiosi avevano vissuto un gran numero di eventi stressanti nei 12 mesi
che precedenti l’insorgenza dei problemi, se paragonati con bambini non ansiosi (Goo-
dyer e Altham, 1991).
303
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
Figura 18.1 Modello per lo sviluppo dell’ansia (Rapee, 2001; Hudson e Rapee, in stampa)
Fattori Ansia
genetici Genitoriale
Effetti
Alterazioni della
Evitamento dell’ambiente
elaborazione
sociale
Effetti
ambientali
esterni
Disturbo
d’ansia
304
I disturbi d’ansia
305
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
nei sintomi d’ansia riferiti dai genitori e dal bambino stesso e nelle strategie di coping.
Flannery-Schroeder e Kendall (2000) hanno concluso che non c’era complessivamente
differenza fra i bambini assegnati alle due condizioni di trattamento, dal momento che
i benefici dell’intervento individuale e di gruppo erano simili. Pertanto, sembra che sia
possibile adottare trattamenti di gruppo efficaci ma meno costosi, assicurandosi allo
stesso tempo che i bambini ricevano un trattamento ottimale.
Sulla base della teoria e dei risultati empirici che attribuiscono un ruolo fonda-
mentale all’ansia genitoriale e all’apprendimento per osservazione, nel mantenimento
e nello sviluppo dell’ansia nei bambini, numerosi studi hanno cercato di determinare
se fosse possibile ottenere risultati ancora migliori includendo i genitori nel trattamen-
to. Il coinvolgimento dei genitori è progressivamente aumentato dal contatto minimo
previsto nel “Coping Cat “ di Kendall (Kendall, 1994; Kendall et al., 1997) per arrivare
alle attuali sedute di trattamento per genitori e bambini insieme (per es. Rapee, 2000).
Dadds et al. (1992) hanno condotto il primo studio sull’inclusione di una compo-
nente significativa per i genitori (Family Anxiety Management; FAM) e hanno effet-
tuato un confronto con un programma parallelo di CBT focalizzato solo sul bambino.
Questa componente insegnava ai genitori tecniche per gestire meglio il bambino, per
esempio premiare i comportamenti coraggiosi e tenere sotto controllo quelli ansiosi.
Ai genitori veniva anche insegnato come gestire le proprie preoccupazioni emotive,
come identificare i propri comportamenti ansiosi e come diventare essi stessi modelli
di l’applicazione pratica del problem-solving e di risposte proattive a situazioni temute.
Al post-trattamento, il 70% del gruppo CBT + FAM non aveva più una diagnosi di
ansia. Anche i bambini mostravano un miglioramento su misure compilate dai genitori
e di self-report.
Barrett et al. (1996a) hanno ampliato questo studio confrontando fra loro tre con-
dizioni: CBT individuale (n=28), CBT con aggiunta della componente familiare (CBT
+ FAM; n = 25) e gruppo di controllo in lista d’attesa (n= 26). Anche se, in una serie
di misure completate dal bambino e dai genitori, i bambini nelle condizioni CBT e
CBT + FAM avevano performance migliori del gruppo di controllo, per il gruppo CBT
+ FAM questo miglioramento era più consistente rispetto al gruppo della CBT indivi-
duale. Le indagini al follow-up hanno mostrato che i benefici aggiuntivi ottenuti con
la FAM erano maggiori per i bambini rispetto agli adolescenti. Anche Mendlowitz e
colleghi (1999) hanno confrontato una CBT di gruppo per genitori e bambini (n=18),
una CBT individuale (n=23) e una CBT di gruppo solo per i genitori (n=21). Tutti i
gruppi mostravano un certo miglioramento dal pre al post trattamento, in confronto al
gruppo di controllo in lista d’attesa, ma i bambini nel gruppo di trattamento genitore-
bambino mostravano miglioramenti più consistenti nelle misure di ansia e depressione
e nell’utilizzo di strategie di coping adattive. Pertanto, sembrerebbe che includere i
genitori nel trattamento, possa accrescere l’efficacia della CBT per i bambini ansiosi
più piccoli. Inoltre, anche l’inclusione di una componente di gestione dell’ansia per i
genitori potrebbe amplificare gli effetti (Cobham et al., 1998).
306
I disturbi d’ansia
Numerosi studi hanno dimostrato che interventi di CBT relativamente brevi man-
tengono la propria efficacia nel lungo termine. Kendall e Southam-Gerow (1996) han-
no condotto un follow-up a 2 e 5 anni con i bambini che avevano partecipato allo studio
di Kendall nel 1994. I risultati indicavano che i benefici erano ancora presenti sia in
termini di status diagnostico, sia di punteggi alle misure compilate dai genitori e di self-
report. Un follow-up a 6 anni dello studio originale di Barrett et al. (1996a), sulla CBT
individuale e sulla CBT + FAM, ha trovato che l’85.7% dei bambini non soddisfaceva
più i criteri diagnostici per il disturbo d’ansia (Barrett et al., 2001). I miglioramenti,
, valutati attraverso misure completate dal clinico, dai genitori e di self-report, erano
ancora presenti al follow-up a 12 mesi. Inoltre, la CBT e la CBT + FAM di gruppo era-
no egualmente efficaci. Un follow-up a lungo termine di una CBT breve per gruppi di
famiglie ha riscontrato che i bambini continuavano a mostrare un miglioramento nel
307
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
tempo, con il 91% dei partecipanti che al follow-up dopo 3 anni non aveva più alcuna
diagnosi, rispetto al 71% del post-trattamento (Toren et al., 2000).
Conclusione
In sintesi, le prove suggeriscono che la maggior parte dei bambini può essere trat-
tata, con un buon grado di successo, con interventi di CBT individuali o di gruppo
relativamente brevi. Il successo potrebbe essere maggiore includendo i genitori nel trat-
tamento, soprattutto con i bambini più piccoli. Gli effetti del trattamento sono più
significativi per i bambini con genitori ansiosi, se anch’essi ricevono un trattamento di
gestione dell’ansia. Cosa importante, i benefici avuti nel corso del trattamento sembra-
no essere presenti a lungo termine. I risultarti degli studi sull’efficacia della CBT per
l’ansia infantile applicata con differenti modalità (per es. biblioterapia e programmi
via e-mail), forniscono ulteriori opportunità a coloro che lavorano con i bambini e che
vivono in aree rurali isolate, o a coloro che non possono intraprendere una terapia a
causa di motivi economici o personali.
Trattamento
Questa sezione fornirà una rassegna del programma di trattamento attualmente
in uso alla Macquarie University Child and Adolescent Anxiety Clinic, Sydney, Australia.
Il programma ha dato ottimi risultati su bambini con disturbo d’ansia generalizzato
(vedere Rapee, 2000). Le componenti vengono descritte nel dettaglio da Rapee et al.
(2000). Una copia del manuale di trattamento e del libro di esercizi “Cool Kids” è di-
sponibile sul sito della clinica www.psy.mq.edu.au/MUARU.
Il programma “Cool Kids”, utilizzato presso la clinica in cui lavorano gli autori, si
basa sul modello cognitivo comportamentale del “Coping Cat” di Kendall e del “Coping
Koala” di Barrett et al. (1996a). Il programma degli autori è indirizzato alle famiglie e
utilizza piccoli gruppi, ma sono stati raggiunti buoni risultati anche con il trattamento
di singole famiglie, di bambini e di adolescenti. Pertanto, i terapeuti che non possono
tenere un gruppo, possono adattare il programma a singole famiglie. I gruppi di “Cool
Kids” sono costituiti da 5-7 famiglie: il bambino e, se possibile, entrambi i genitori. Il
programma prevede dieci sedute di 2 ore per 16 settimane. Le prime sette sedute sono
settimanali, mentre le ultime tre sedute sono scaglionate a intervalli. Questa progressi-
va riduzione del contatto dà alle famiglie il tempo di esercitare le competenze e di abi-
tuarsi al distacco dal terapeuta. Nel programma, si assegno anche i compiti a casa, che i
bambini e i genitori devono completare ogni settimana. Questi compiti permettono di
consolidare il materiale appreso nella seduta e di esercitare le competenze apprese. Cia-
308
I disturbi d’ansia
scuna seduta inizia con benvenuto ai membri del gruppo e con la revisione dei compiti
a casa. In seguito, il terapeuta passa del tempo solo con i ragazzi (40-60 minuti), segue
un periodo in cui sta solo con i genitori (40-60 minuti). Alla fine di ciascuna seduta, il
gruppo intero si riunisce per un riassunto della seduta e per l’assegnazione dei compiti
pratici (10-25 minuti).
Gli obiettivi principali del programma sono: (1) apprendere nuove competenze
per la gestione dell’ansia; (2) ridurre l’evitamento delle situazioni temute e (3), alla fine,
affrancarsi dai genitori e dal terapeuta utilizzando le competenze e la conoscenza acqui-
siti attraverso la terapia. Le procedure specifiche includono tecniche psicoeducative, la
ristrutturazione cognitiva (pensiero “realistico” o “detective thinking”), l’esposizione gra-
duale agli stimoli ansiogeni (“la scaletta”) e tecniche di gestione per i genitori. Ci sono
anche moduli opzionali che trattano altre problematiche spesso rilevanti nei bambini
ansiosi, fra cui le competenze sociali, l’assertività e le prese in giro. Questo permette al
terapeuta di modificare il programma sulla base delle necessità del singolo cliente o del
gruppo. La sezione seguente discute le componente principali del Cool Kids.
Componente psicoeducativa
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Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
310
I disturbi d’ansia
311
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
bambini numerosi esercizi per incoraggiarli a elogiare se stessi dopo aver affrontato le
proprie paure. Anche i genitori vengono educati sull’importanza di fornire elogi chiari
e specifici relativi a un comportamento. Le ricompense dovrebbero essere utilizzate per
rinforzare i tentativi del bambino di affrontare le proprie paure e possono assumere la
forma di attività, elogi, oggetti materiali o punti da scambiare con delle ricompense,
superata una certa quantità. Si fa notare ai genitori che le ricompense devono essere
proporzionate all’obiettivo raggiunto. Se un bambino ha fatto un tentativo serio di
affrontare la propria paura, dovrebbe essere ricompensato; tuttavia, dovrebbe ricevere
una ricompensa maggiore se ha portato a termine il proprio compito con successo. È
anche importante che la ricompensa e gli elogi vengano dati subito dopo l’esposizione,
soprattutto nel caso dei bambini più piccoli.
Nel corso del trattamento, i terapeuti devono affrontare tutte le difficoltà che si
possono presentare nell’esposizione e cercare di trovare una soluzione con i membri
del gruppo, sviscerando tutti gli aspetti del problema. Spesso un compito non viene
portato a termine perché esageratemente ansiogeno. In questo caso, il bambino dovrà
fare uno o due passi indietro, scegliere un gradino più basso della propria scaletta, per
acquisire sicurezza prima di ritentare. È anche vitale far capire alle famiglie che i bam-
bini hanno bisogno di trovarsi nella situazione temuta abbastanza a lungo per verificare
la falsità della propria convinzione e per far scendere il livello dell’ansia e rendere così
efficace l’esposizione. Se un bambino si allontana dal compito prima di aver constatato
la falsità della propria convinzione, l’ansia non si ridurrà e potrebbe addirittura aumen-
tare. I terapeuti avranno anche bisogno di controllare che vengano date le ricompense
in modo coerente con l’accordo preso con i genitori e il bambino.
312
I disturbi d’ansia
punizioni. I genitori devono tener fede alle decisioni prese a riguardo e devono anche
fare attenzione a non ricompensare accidentalmente il comportamento ansioso o ca-
priccioso del bambino cedendo alle sue richieste (per es. quando piange o si lamenta).
Entrambi i genitori devono accordarsi sui comportamenti che considerano appropriati
affinché il loro atteggiamento sia coerente. Non si dovrebbero dare ai bambini rassicu-
razioni eccessive, poiché devono verificare che la situazione temuta è sicura, piuttosto
che credere soltanto che sia sicura, e devono sperimentare di essere in grado di affron-
tarla davvero e non solo perché i genitori li hanno rassicurati a riguardo. Tuttavia, la
rassicurazione è utile quando riguarda le capacità del bambino di gestire la situazione.
Si discutono anche le tecniche per controllare le emozioni, dal momento che l’atteggia-
mento genitoriale tende a essere meno coerente quando i genitori sono emotivamente
carichi. In occasioni come questa, è una buona idea che il genitore si allontani dalla
situazione e chieda al proprio partner, a un nonno, a un amico o ad altre persone che
possono fornire un supporto sociale, di passare del tempo con il proprio figlio.
Casi esemplificativi
Le seguenti storie si basano su casi trattati da Jennifer Allen presso la Macquarie
University Child and Adolescent Anxiety Clinic.
Alison, una bambina di 9 anni, è stata portata in terapia dalla madre e dal counselor
della scuola. La mamma di Alison, Kathy, riferiva che Alison, al mattino prima di an-
dare a scuola, si sentiva spesso male, faceva i capricci o piangeva. Molte volte nel corso
dell’anno, Alison era stata in infermeria, lamentando dolori di stomaco, così Kathy era
stata chiamata a scuola per riportarla a casa. Alison diceva di temere che succedesse
qualcosa di male alla mamma quando non erano insieme, per esempio che la mamma
avesse un incidente d’auto. Alison dormiva spesso con i genitori di notte perché aveva
paura dei ladri. Spesso rifiutava anche gli inviti dei coetanei a giocare o a partecipare
ai pigiama party a causa di queste paure. La sua ansia da separazione aveva anche un
impatto sui genitori, dal momento che la mamma era molto stressata dal dover gestire
i capricci di Alison e che i genitori non potevano uscire da soli. Alison soddisfaceva i
criteri di una diagnosi primaria di disturbo d’ansia da separazione e di una diagnosi
aggiuntiva di fobia specifica in relazione alla paura del buio.
Le sedute iniziali si sono focalizzate sull’identificazione dei sintomi fisici dell’ansia
e dei pensieri ansiosi e sulla comprensione del collegamento fra situazioni, pensieri e
sentimenti. Quando iniziava a sentirsi ansiosa, Alison doveva ricordare a se stessa “del-
l’evidenza” che non era mai successo niente di male alla madre quando non stavano
insieme e, pertanto, era improbabile che questo succedesse nel futuro. Alison scelse
Jennifer Lopez (J-Lo) come supereroe per aiutarla a trovare gli indizi o le prove contro i
propri pensieri ansiosi. Uno dei pensieri calmanti di Alison era la canzone di J-Lo “I’m
gonna be alright”.
313
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
Tabella 18.1 Scaletta di esposizione per Alison e valutazione delle situazioni su una
scala di paura
(1) Mentre si trova a casa di amici, la mamma si allontana per 10 minuti (3)
(2) Mentre si trova a casa di amici, la mamma si allontana per 30 minuti (4)
(3) Kathy lascia Alison a casa di Annette a giocare per 1 ora e se ne va (5)
(4) Ripetere il compito precedente a casa di un’altra amica (5)
(5) Kathy lascia Alison a casa di Annette a giocare per 2 ore (6)
(6) Andare a casa di un’altra amica per cena (6)
(7) Dormire dalla nonna una notte (7)
(8) Dormire da Annette una notte (7)
(9) Andare al pigiama party di Annette (8)
Il programma degli autori utilizza anche l’esposizione nel corso delle sedute. Nella
seduta, Alison e altri membri del gruppo giocavano al buio; un modo divertente di
esporsi a questa situazione temuta. Alison e la famiglia dovevano fare lo stesso anche a
casa, come compito di esercizio. Nella sesta seduta, il gruppo aveva organizzato una gita
a un centro commerciale locale. Nella seduta precedente i genitori e i bambini avevano
generato un elenco di situazioni da utilizzare nell’esposizione in vivo. I genitori doveva-
no assistere i propri figli nel detective thinking prima e dopo ciascun compito. Questo
dava ai terapeuti la possibilità di osservare come i genitori assistevano il bambino nella
ristrutturazione cognitiva e come gli fornivano un feedback. Il compito di Alison era
quello di andare dall’altra parte del centro commerciale senza i genitori. Il terapeuta
aveva notato che Alison “correva” per portare a termine il compito. Quindi, le ha chie-
sto Alison di ripetere il compito camminando più lentamente, fermandosi a giocare
con il gioco elettronico nel negozio di informatica per 5 minuti prima di tornare dai
genitori. Prima di affrontare questi compiti intra seduta, il terapeuta aveva discusso con
Kathy le ansie relative alla sicurezza di Alison quando non si trovava con lei nel centro
commerciale e la aveva aiutata a compilare la propria registrazione di detective thinking
relativo a queste preoccupazioni.
I genitori di Alison avevano trovato utile la componente gestionale, soprattutto in
relazione ai capricci e alla frequenza scolastica. I genitori non le avevano più permesso
314
I disturbi d’ansia
di stare a casa e non l’andavano a prendere quando era ansiosa. Era stata utilizzata una
star chart con cui assegnare ad Alison una stella quando andava a scuola o dormiva
da sola senza fare capricci. Alison scambiava questi punti con ricompense negoziate
con i genitori. Il counselor e l’insegnante della scuola erano stati coinvolti anch’essi in
qualità di “addestratori”, istituendo un sistema di ricompense sociali per la frequenza
scolastica.
Alla fine della terapia, Alison trascorreva felicemente il proprio tempo a casa di
amici e i genitori riuscivano a uscire insieme a cena senza che lei si preoccupasse. Faceva
ancora qualche capriccio prima di andare a scuola, ma questi si erano ridotti conside-
revolmente dall’inizio del trattamento di gruppo. Gli obiettivi di Alison per il futuro
erano riuscire ad affrontare la lontananza dei genitori per un week-end ed essere in
grado di partecipare a un campo scuola di 1 settimana l’anno successivo. Alison e i ge-
nitori prepararono una scaletta graduale per affrontare questi obiettivi su cui volevano
lavorare dopo la fine del trattamento.
Michael, un adolescente di 16 anni, era stato inviato dai suoi genitori, che lo
avevano descritto come una “persona che si preoccupa sempre di cose non importanti”.
Michael si preoccupava dei voti scolastici, “di cacciarsi nei guai” con gli insegnanti e
i genitori, di eventi che succedevano nel mondo (per es. guerre e terrorismo), di farsi
degli amici, del proprio futuro (per es. affrontare la scuola superiore e il lavoro) e di
essere “perfetto” (per es. arrivare puntuale e commettere errori nei compiti scolastici).
Come risultato di queste ansie, Michael non dormiva bene, aveva spesso mal di testa
e si sentiva spesso irritabile. Oltre a queste preoccupazioni più generiche, Michael era
ansioso in numerose situazioni sociali (per es. parlare in pubblico, feste e situazioni
che richiedevano assertività) e quindi le evitava. Michael soddisfaceva i criteri per una
diagnosi primaria di disturbo d’ansia generalizzato e una diagnosi aggiuntiva di fobia
sociale. Michael riferiva anche alcuni sintomi di depressione, come una bassa auto-
stima, ma questi non avevano la frequenza e la gravità previste dalla diagnosi. Nella
valutazione, il padre di Michael, Stan, aveva rivelato di essere ancora in trattamento da
uno psichiatra per la propria depressione.
All’inizio della terapia, i moduli di auto-monitoraggio del pensiero di Michael
rivelavano una lista molto estesa di preoccupazioni che innescavano l’ansia. Michael
aveva difficoltà con la ristrutturazione cognitiva, soprattutto quando valutava i “costi”
delle proprie previsioni negative. Per esempio, per Michael, il costo di fallire un test a
scuola era catastrofico e i tentativi fatti dal terapeuta o da altri membri del gruppo per
incoraggiarlo a considerare altri punti di vista avevano avuto un impatto quasi nullo
sulla valutazione che egli faceva delle conseguenze. Il padre di Michael rinforzava le
paure sulla scuola: sottolineava ripetutamente l’importanza di ottenere buoni voti e
l’impatto che avrebbe potuto avere sul futuro di Michael un fallimento nell’ottenere i
voti previsti. Il terapeuta aveva lavorato con Michael e i genitori integrando nella sca-
letta aspetti relativi al perfezionismo (Tabella 18.2) L’obiettivo di Michael era quello
di non preoccuparsi se commetteva degli errori a scuola. I tentativi del terapeuta di
315
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
incoraggiare Stan ad applicare il pensiero realistico alle proprie paure sulla performance
accademica del figlio non avevano dato risultati.
Anche se nella seduta Michael aveva generato una scaletta, era piuttosto eviden-
te che incontrava delle difficoltà a portare a termine i passi previsti. È possibile che
Michael avesse generato questa scaletta e si fosse impegnato a seguirla per “sembrare
bravo” agli occhi dei genitori e del terapeuta, soprattutto a causa del perfezionismo e
della paura delle figure di autorità. Quindi la scaletta era stata nuovamente redatta per
includere gradini con un punteggi di preoccupazione inferiori e ogni stadio è stato
ripetuto più volte prima di passare a quello successivo.
Anche i genitori di Michael incontravano difficoltà con la componente gestionale
del programma, dal momento che il padre sembrava molto sulla difensiva e considera-
va qualunque informazione sulle strategie da utilizzare per promuovere comportamenti
coraggiosi nei propri bambini come un attacco alle proprie capacità personali di padre.
Ogni strategia suggerita dal terapeuta o da altri genitori del gruppo per ridurre l’ansia
di Michael veniva rifiutata. Stan faceva ripetutamente commenti per tutto il corso della
terapia del tipo “non ha senso perdere tempo” e “abbiamo provato tutto, non funziona
niente”. La difficoltà di Michael a completare i gradini della propria scaletta alimentava
ulteriormente queste convinzioni.
L’esposizione durante la seduta prevedeva che alcuni membri del gruppo dovessero
tenere un discorso improvvisato mentre venivano videoregistrati. Prima del discorso,
era stato chiesto a Michael quali sintomi d’ansia gli altri avrebbero notato (per es.
arrossire, tremare e evitare il contatto oculare) e quanto fosse distinguibile ciascun sin-
tomo su una scala da 0 a 10. Gli altri adolescenti del gruppo erano concordi sul dare
un feedback onesto su questi sintomi, utilizzando la stessa scala di valutazione. Il feed-
back del gruppo indicava che Michael sovrastimava l’ovvietà di questi sintomi d’ansia.
Questo feedback era stato incluso nel pensiero realistico come ulteriore prova contro i
316
I disturbi d’ansia
pensieri ansiosi. Anche Michael aveva scelto di completare numerosi compiti nel corso
dell’escursione al centro commerciale per affrontare la propria paura dell’assertività, per
esempio comprare un CD e poi chiedere di cambiarlo con un altro.
Anche se Michael aveva fatto qualche progresso in relazione alle paure sociali, le
preoccupazioni, soprattutto quella relativa alla scuola e al perfezionismo, non avevano
subito cambiamenti significativi nel corso del trattamento. Michael e la famiglia sono
l’esempio di una situazione in cui la terapia individuale potrebbe essere un approccio
più indicato, perché offre più tempo per stabilire un rapporto terapeutico e per gestire
alcune problematiche familiari come la depressione del padre.
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317
Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee
318
I disturbi d’ansia
319
CAPITOLO 19
Il rifiuto scolastico
David Heyne
Leiden University, Leiden, Olanda
Neville King
Monash University, Clayton, Victoria, Australia
Thomas H. Ollendick
Virginia Polytechnic University, Blacksbury, Virginia, Stati Uniti
Introduzione
Il rifiuto scolastico è un problema persistente relativo alla frequenza scolastica che
mette a rischio lo sviluppo sociale, ambientale, scolastico e professionale di un ragazzo;
contribuisce allo stress dei genitori preoccupati e del personale scolastico e rappresenta
spesso una sfida reale per l’educazione e per i professionisti della salute mentale (Kahn
et al., 1996). Alcuni autori (per es. Kearney e Silverman, 1996) utilizzano l’espressio-
ne comportamento di rifiuto scolastico per indicare una serie di problemi relativi alla
frequenza, fra cui ripetute assenze ingiustificate. Altri che, operando una distinzione,
considerano il rifiuto scolastico un problema di frequenza e le assenze ingiustificate
un altro tipo di problema, utilizzano l’espressione rifiuto scolastico per indicare quei
casi in cui il problema della frequenza è associato a uno stress emotivo (per es. King e
Bernstein, 2001), ma non a comportamento antisociale (per es. Honjo et al. 2001) e
in cui di solito il bambino resta a casa e non bighellona in giro (per es. Kameguchi e
Murphy-Shigematsu, 2001). Come questi autori, anche gli autori di questo capitolo
preferiscono distinguere il rifiuto scolastico dalle assenze ingiustificate, dal momento
che richiedono spesso differenti approcci di intervento (Berg, 2002).
Dopo il lavoro di Berg e colleghi (Berg et al., 1969; Bools et al., 1990; Berg, 2002),
il rifiuto scolastico presenta queste caratteristiche: (1) riluttanza o rifiuto di andare a
scuola; (2) il bambino di solito resta a casa nelle ore di scuola e non lo nasconde ai geni-
tori; (3) preoccupazione emotiva al pensiero di dover andare a scuola, che potrebbe riflet-
321
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
tersi in una paura eccessiva, scoppi d’ira, tristezza o possibili e inspiegabili malesseri fisici;
(4) assenza di gravi tendenze antisociali, oltre alla resistenza del bambino verso i tentativi
dei genitori e (5) ragionevoli sforzi da parte dei genitori per di assicurarsi della frequen-
za scolastica. Così come per la distinzione fra rifiuto scolastico e assenze ingiustificate,
questi criteri aiutano a distinguere fra il rifiuto e il ritiro, associato a uno scarso supporto,
diretto o indiretto, da parte dei genitori (cf. Blagg, 1987; Kahn e Nursten, 1962).
Fenomenologia
Il rifiuto scolastico può presentarsi all’improvviso (per es. immediatamente dopo
un’assenza giustificata per malattia) oppure può svilupparsi lentamente (per es. da
piccole lamentele di non gradire la scuola, a una lentezza nel preparasi fino al secco
rifiuto di andare). L’assenteismo potrebbe essere lungo (per es. mesi o anni a volte) o
sporadico(ossia in giorni in cui sono determinate materie) o non presente (angoscia
molto forte all’idea di andare a scuola senza alterazioni della frequenza). Lo stress emo-
tivo associato al rifiuto scolastico potrebbe manifestarsi in molti modi, con vari livelli
di gravità, in tempi e contesti differenti.
Sul piano comportamentale, potrebbero verificarsi scoppi d’ira e di pianto quando
si cerca di forzare il bambino ad andare a scuola. Per evitare l’angoscia associata con la
frequenza, il bambino potrebbe rifiutarsi di uscire dal letto o di salire in macchina o
sull’autobus che lo porta a scuola. Alcuni minacciano di scappare di casa o di farsi male
(Coulter, 19965; Berg, 2002). Altri si dirigono a scuola e poi corrono a casa in stato di
ansia ancora prima di essere arrivati, oppure, dopo essere arrivati ed essersi adattati, speri-
mentano nuovamente il giorno dopo la stessa angoscia e la stessa resistenza alla frequenza
(Berg, 2002). Molti sintomi somatici si associano di frequente con il rifiuto scolastico.
Le lamentele più comuni includono sintomi gastrointestinali (per es. diarrea, nau-
sea e vomito), dolore (per es. mal di testa e dolori alla schiena), sintomi cardiopolmo-
nari (per es. palpitazioni e fiato corto) e altri sintomi del sistema nervoso autonomo
(per es. febbre e vertigini) (Honjo et al., 2001). La componente cognitiva del rifiuto
scolastico implica la presenza di un pensiero distorto associato alla frequenza scolastica.
I bambini potrebbero, per esempio, sovrastimare la probabilità di situazioni che pro-
vocano ansia a scuola o che accada qualcosa di male ai propri genitori, sottostimare la
propria capacità di affrontare le situazioni, ingigantire o fare esclusivamente attenzione
agli aspetti spiacevoli delle frequenza o fraintendere i pensieri e le azioni degli altri a
scuola (per es. King et al., 1998a; Kearney, 2001).
Con il tempo, il bambino potrebbe ritirarsi progressivamente, non farsi più coin-
volgere dalle attività usuali e rifiutare qualunque contatto con i coetanei. Ci potrebbe
essere anche un’intensificazione di problemi dell’umore e l’ansia potrebbe generalizzarsi
ad altre situazioni (Torma e Halsti, 1975; Berg 2002). Il senso del proprio valore po-
trebbe deteriorare poiché si giudica diverso dai coetanei e non in grado di stare al passo
con gli altri a scuola. In tutto ciò, la tensione familiare e lo stress dei genitori tendono
ad aumentare.
Anche se questo non è vero per tutti i casi di rifiuto scolastico (per es. Berg et al.,
1993; Bernstein e Borchardt, 1996,) molti di questi ragazzi soddisfano i criteri diagno-
322
Il rifiuto della scuola
stici per i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore o entrambi (per es. Last e Strauss, 1990;
Bernstein 1991). Anche nel caso in cui questi criteri non vengono soddisfatti, questi
bambini hanno comunque maggiori probabilità di avere sintomi problematici d’ansia
(cf. Bools et al., 1990) e/o o depressivi (cf. Kearney, 1993). Una diagnosi di comorbi-
dità è piuttosto comune (vedere Bernstein e Garfinkel, 1986; Last et al., 1987; Kast
e Strauss, 1990) e si osservano trend prevedibili, nella diagnosi e nei sintomi, collegati
all’età. Per esempio, nei bambini piccoli con rifiuto scolastico è più comune l’associa-
zione con il disturbo d’ansia da separazione (vedere Lass e Strauss, 1990), mentre gli
adolescenti hanno maggiori probabilità di soffrire di una fobia sociale o disturbo da
attacchi di panico (vedere Last e Strauss, 1990; Bernstein e Borchardt, 1991) e di avere
sintomi depressivi (vedere Baker e Wills, 1978).
Il rifiuto scolastico si associa anche a comportamenti esteriorizzati. I ragazzi con
questo problema potrebbero diventare testardi, polemici e mostrare comportamenti
aggressivi quando i genitori cercano di portarli a scuola (Berg, 2002), anche se di solito
non sono presenti comportamenti marcatamente antisociali, come rubare e compiere
atti distruttivi (Berg, 2002). I ragazzi che rifiutano la scuola e hanno continui e mol-
teplici comportamenti esteriorizzati, nel tempo potrebbero ricevere una diagnosi di
disturbo oppositivo provocatorio.
Eziologia
L’eziologia del rifiuto scolastico è spesso complessa e un modo utile per organizzare
tutti i fattori potenzialmente rilevanti è quello di suddividerli in fattori predisponenti,
precipitanti e di mantenimento. In ciascuno di questi tre gruppi, è probabile riscon-
trare una confluenza di fattori individuali, familiari, scolastici e relativi al territorio. La
Tabella 19.1 presenta alcuni fattori che potrebbero essere implicati nello sviluppo e nel
mantenimento del rifiuto scolastico.
Valutazione
La natura eterogenea del rifiuto scolastico, con varie presentazioni e numerosi
fattori eziologici, evidenzia l’importanza di una valutazione multimodale. Di seguito
presentiamo una serie di metodologie valutative che riflettono la terorizzazione cogni-
tivo comportamentale del rifiuto scolastico. I dati tratti da queste misurazioni vengono
utilizzati per formulare e verificare delle ipotesi sullo sviluppo e sul mantenimento del
rifiuto scolastico. Alcuni dati saranno particolarmente utili per valutare l’efficacia di
specifici interventi.
Nel corso del processo diagnostico, si dovrebbe prima di tutto condurre un esame
medico per escludere cause di ordine fisico, dato che il rifiuto scolastico è spesso asso-
ciato a lamentele somatiche e a volte segue una reale malattia. Si dovrebbero consultare
anche i professionisti già coinvolti nel caso (per es. medico di base, pediatra e funzio-
nario scolastico). Oltre a raccogliere informazioni rilevanti ai fini della valutazione,
questa prassi facilita in definitiva l’applicazione coerente del piano di trattamento.
323
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
324
Il rifiuto della scuola
Interviste diagnostiche
325
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
ministrare e richiede una buona competenza diagnostica del clinico (vedere Grills e
Ollendick, 2002).
326
Il rifiuto della scuola
risposte dei genitori al comportamento del ragazzo e il grado di stress vissuto dalla fami-
glia (cf. Kearney e Albano, 2000 a, b).
La valutazione del funzionamento genitoriale e familiare è importante per com-
prendere il contesto in cui si verifica il rifiuto scolastico (cf. Kearney, 2001). Quando le
interviste cliniche forniscono alcune prime indicazioni, gli autori chiedono ai genitori
di completare il Beck Depression Inventory (Beck et al., 1996), il Brief Symptom Inven-
tory (Derogatis, 1993) e la Abbreviated Dyadic Adjustment Scale (Sharpley e Rogers,
1984). I genitori e gli adolescenti che rifiutano la scuola di solito vengono invitati a
completare la sottoscala di funzionamento generale del McMaster Family Assessment
Device (Epstein et al., 1983). (Vedere Kearney (2001) per una rassegna su altre misure
per i genitori e la famiglia che potrebbero essere utilizzate nella valutazione del rifiuto
scolastico).
327
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
Trattamento
Di tutti gli approcci di trattamento utilizzati (per es. ludoterapia, psicoterapia
psicodinamica, terapia familiare e terapia cognitivo comportamentale (CBT)), solo la
CBT è stata sottoposta a valutazioni rigorose in prove cliniche randomizzate ed è quello
che a oggi ha il supporto empirico più incoraggiante. (King e Bernstein, 2001). La
CBT si è rivelata superiore al gruppo di controllo in lista di attesa (King et al., 1998b)
e altrettanto efficace a una terapia educativa di supporto (Last et al., 1998). Uno studio
sui rispettivi benefici di una CBT individuale sul bambino e una sui genitori (Heyne
et al., 2002) ne comprova ulteriormente l’efficacia con il rifiuto scolastico. Anche una
prova clinica precedente (Kennedy, 1965) e uno studio comparativo non randomizzato
(Blagg e Yule, 1984) presentano gli stessi risultati (sebbene di minore entità) per ap-
procci più strettamente comportamentali nel trattamento del rifiuto scolastico.
I trattamenti cognitivo comportamentali sottolineano lo scopo di un precoce rien-
tro a scuola (Blagg, 1987; Mansdorf e Lukens, 1987; King et al., 1995; Heyne et al.,
2002), proprio come negli approcci focalizzati sulla famiglia (Place et al., 2000) o
nell’approccio psicodinamico (vedere la rassegna di Want, 1983). Pertanto, l’istruzione
privata a casa è di solito sconsigliata (King e Bernstein, 2001). Un ritorno precoce ha
lo scopo di contenere una eventuale escalation dei problemi associati alla perdita di ul-
teriori lezioni, al progressivo isolamento sociale, alla diminuzione della sicurezza in sé e
del proprio valore e all’intensificazione dei comportamenti di evitamento.
Di seguito si descrive il programma di CBT applicato dagli autori con il rifiuto
scolastico: la terapia focalizzata sul bambino e il lavoro con i genitori (King et al.,
328
Il rifiuto della scuola
La fase iniziale
329
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
la sottoscala fisiologica della RCMAS e quella delle lamentele somatiche della CBCL e
della TRF) e in presenza di frequenti lamentele somatiche nel corso dell’intervista cli-
nica e diagnostica. Il training di rilassamento è anche una tecnica di gestione dello stress
nei casi di disturbo d’ansia generalizzato, o nella fase di preparazione a procedure di
desensibilizzazione (vedere di seguito). Per aiutare l’adolescente a rilassarsi al momento
giusto, il clinico dovrebbe identificare una procedura accettabile e allo stesso tempo
efficace (vedere la Tabella 19.2).
Il training nelle competenze sociali viene utilizzato principalmente in due situa-
zioni. Primo, quando il ragazzo riferisce incertezza e ansia nel rispondere alle domande
dei coetanei e degli insegnanti relative all’assenza prolungata. Queste autorivelazioni
vengono facilitate dall’utilizzo del SEQ-SS, oppure compaiono nel corso dell’intervista
clinico comportamentale.
cont..
330
Il rifiuto della scuola
331
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
pensieri, sentimenti e azioni e per coinvolgerli nel processo di individuazione dei propri
pensieri disadattivi e di scoperta di altri più adattivi (per es. Kendall et al., 1992; Bar-
rett et al., 2000). In altre sedi sono presentate procedure argomentative più adatte alle
capacità cognitive degli adolescenti (per es. Zarb, 1992; Beck, 1995).
Fase applicativa
Concludere le sedute
Per prevenire eventuali ricadute, alla fine del trattamento, il ragazzo potrebbe
partecipare ad attività tipo il “Secrets to Success” (cf. “My Commercial”, Kendall et al.,
1992). In questi programmi è possibile condividere le proprie idee su come affrontare
efficacemente il rifiuto scolastico, sotto forma di poster, assumendo il ruolo “di esper-
to” del settore nel corso di una finta intervista audioregistrata o videoregistrata oppure
conducendo “una chiacchierata motivazionale” per un altro clinico o per i membri
della famiglia. Questa attività permette di rinforzare le abilità apprese, di celebrare i
risultati ottenuti e costruire un modello di coping (Kendall et al., 1992) e di autostima
332
Il rifiuto della scuola
(Kearney e Hugelshofer, 2000). Nel futuro, il poster o il nastro potrebbero servire come
stimolo nella gestione positiva di ricadute.
La fase iniziale
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David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
Fase applicativa
Concludere le sedute
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Il rifiuto della scuola
cont..
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Commenti conclusivi
La CBT per il rifiuto scolastico è un intervento breve, considerato accettabile dalle
famiglie e dal personale scolastico (King et al., 1998b; Heyne, 1999). Anche se questa
è spesso determinante nel ridurre lo stress emotivo dei ragazzi e nell’aiutarli a rientrare
a scuola regolarmente e volontariamente, potrebbero essere necessarie altre forme di
trattamento, soprattutto per gli adolescenti oltre i 14 anni (Heyne, 1999). Sulla base
di un modello di fasi del trattamento (cf. Heyne et al., in stampa), l’intervento potrebbe
iniziare con la CBT e, se la risposta è solo parziale, questa potrebbe essere portata avanti
in forma modificata (per es. facendo maggiore attenzione a eventuali psicopatologie
nei genitori e a ulteriori adattamenti in funzione di una depressione nel ragazzo) o
si potrebbe aggiungere un intervento farmacologico. La combinazione fra la CBT e
l’intervento farmacologico, anche se non sempre efficace in questi casi, potrebbe essere
336
Il rifiuto della scuola
utile all’inizio del trattamento, per alcuni bambini che presentano una comorbidità
con gravi disturbi depressivi e d’ansia (vedere Bernstein et al., 2001).
Se dopo una serie di prove (nel dosaggio, nell’erogazione e nella durata) di CBT
o di CBT associata all’intervento farmacologico non si hanno comunque dei risultati,
si devono prendere in considerazione altri interventi, come la terapia familiare (cf.
Kearney e Albano, 2000b), farmaci alternativi (cf. Heyne et al., in stampa) e contesti
educativi differenti (cf. Place et al., 2000). Potrebbe essere necessario coinvolgere mag-
giormente sistemi che vanno oltre la famiglia, soprattutto quando questa si allea con
il bambino fino al punto che la gestione genitoriale della frequenza è del tutto inibita
(vedere Coulter, 1995).
Riconoscimenti
Gli autori riconoscono il sostegno di Ms Wendy Bristow, bibliotecaria del Victo-
rian Child Psychiatry Training Department, per l’entusiastico aiuto fornito nel facilitare
l’accesso alla letteratura rilevante.
Questo capitolo è un adattamento da Heyne e King (in stampa).
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Il rifiuto della scuola
339
David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick
340
CAPITOLO 20
La ricerca negli ultimi tre decenni ha mostrato che i bambini e gli adolescenti
esposti a situazioni di stress estremo manifestano una serie di reazioni a breve e lungo
termine, fra cui ansia, paura e depressione, ossia un disturbo post-traumatico da stress
(DPTS). La diagnosi era inizialmente controversa, soprattutto nel caso dei bambini,
ma si è rivelata una cornice utile per descrivere e comprendere le reazioni a una serie
di esperienze che minacciano la vita. Questo a sua volta ha portato al raffinamento
degli interventi per i bambini: le terapie cognitivo comportamentali (CBT) ad ampio
spettro, all’interno di un approccio multimodale che coinvolge la famiglia, sono il
trattamento di elezione.
341
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin
342
Il disturbo post-traumatico da stress
il DPTS nei bambini piccoli (con meno di 4 anni). Anche se ancora sotto verifica e
non utilizzate su larga scala, potrebbero rivelarsi utili nel guidare il lettore verso alcuni
aspetti evolutivi importanti nei bambini traumatizzati (vedere anche Vernberg e Varela,
2001).Un’ulteriore considerazione degli aspetti evolutivi del DPTS può essere trovata
in Salmon e Bryant (2002) e in Meiser-Stedman (2002).
343
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin
344
Il disturbo post-traumatico da stress
345
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin
incoraggiati a riferire l’accaduto e vengono aiutati non solo a riempire gli eventuali
vuoti, ma, cosa più importante, anche a inserire il ricordo in una cornice temporale (fra
le altre cose ripetere a se stessi che è successo nel passato e che non è più una minaccia
presente). Si mettono in discussione le valutazioni erronee dei bambini e questi ven-
gono aiutati a capire (quando è vero) che non hanno nulla da rimproverarsi. Vengono
chiaramente identificati i sintomi, gli viene dato un nome, vengono normalizzati e
spiegati. Vengono identificate le strategie di coping disfunzionali, come l’evitamento
cognitivo e comportamentale, e ne vengono sviluppate delle altre. Infine, è importan-
te aiutare i genitori a ricostruire le proprie convinzioni sull’evento traumatico e sulle
eventuali conseguenze. Quando è possibile, i genitori dovrebbero essere coinvolti come
co-terapeuti nel trattamento.
346
Il disturbo post-traumatico da stress
cesso diagnostico. La Clinician Administered PTSD Scale for Children (CAPS-C; Nader
et al., 1994), la Diagnostic Interview Schedule for Children (DISC; Shaffer et al., 1996),
la Diagnostic Interview for Children and Adolescent Revised (DICA; Reich et al., 1991) e
la Anxiety Disorders Interview Schedule (ADIS-C; Silverman e Albano, 1996) richiedono
tutte che l’intervistatore sia allenato nella somministrazione delle scale ed è stato dimo-
strato che possiedono una validità e un’affidabilità adeguate. Sfortunatamente, c’è una
scarsità di approcci standardizzati per la valutazione delle reazioni di stress in bambini al
di sotto degli 8 anni. Anche se i bambini fra i 3 e gli 8 anni riescono spesso a dare rispo-
ste verbali adeguate alle domande di misure standardizzate utilizzate con i più grandi,
c’è la necessità di sviluppare misure adatte soprattutto ai bambini più piccoli.
Dato che sia negli adulti (Ehlers e Steil, 1995) sia nei bambini (Ehlers et al., 2003)
le misure della distorsione cognitiva spiegano un’ampia proporzione di varianza nella
previsione di chi svilupperà un DPTS, allora la versione per i bambini del Post-Trau-
matic Cognitions Inventory (PCTI) (Foa et al., 1999) dovrebbe diventare una misura di
processo molto utile, ma che in questo momento è ancora in fase di sviluppo. Il test di
Stroop modificato (Moradi et al., 1999; Ribchester, 2001) è notevolmente promettente
come mezzo per monitorare l’elaborazione cognitiva e per prevedere le risposte al trat-
tamento, ma è ancora eccessivamente specializzata per l’utilizzo clinico di routine.
È necessario condurre un’intervista approfondita con i genitori del bambino se la
formulazione e il piano di trattamento vogliono ottenere successo. La maggior parte
delle interviste semistrutturate prevede una versione per il bambino e una peri genitori
e questo permette all’intervistatore di coprire tutti i sintomi in maniera sistematica.
Questo è particolarmente importante quando i sintomi sono di natura particolarmente
imbarazzante o quando il bambino non è consapevole del proprio comportamento.
Oltre a includere tutti i sintomi attuali, la storia complessiva del pre-trauma aiuterà
capire le reazioni usuali del bambino allo stress e le modalità di coping e, se la sintoma-
tologia presente è in parte una funzione del temperamento precedente, quali cambia-
menti nel comportamento sono stati indotti dall’evento traumatico e quali sono gli
obiettivi di trattamento più appropriati. Tenere in considerazione il livello di sviluppo
del bambino permetterà di valutare se alcune delle lamentele attuali, se ce ne sono,
sono appropriate per l’età (per esempio ansia da separazione) e deve anche guidare la
scelta del trattamento. Dato l’importante ruolo mediatore delle reazioni e delle paure
dei genitori (vedere McFarlane, 1987) di solito è necessaria una valutazione di tutta la
famiglia per determinare se anche gli adulti o i fratelli necessitino di un intervento e per
dare consigli sulla gestione del bambino.
Infine, un intervento efficace dipenderà anche da una valutazione globale della
situazione di vita del bambino o della famiglia. Nei casi in cui l’evento traumatico è
relativamente grave e la famiglia resta intatta (come in alcuni incidenti d’auto), alcune
risorse familiari cruciali restano a disposizione del bambino. Nei casi in cui nell’evento
traumatico sono stati coinvolti altri membri della famiglia, sarà probabilmente neces-
sario lavorare con loro per essere d’aiuto al proprio bambino con maggiore efficacia. In
altri casi invece – per es. quando il bambino ha perso uno dei genitori – sorgeranno pro-
blematiche molto pratiche relative all’aspetto sociale. In situazioni di violenza collettiva
costante o di conflitto armato, tenere in considerazione il contesto in cui il bambino
vive permetterà di giudicare se, quando e quale tipo di intervento è più appropriato.
347
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin
Trattamento
Sulla base dei modelli cognitivi e comportamentali del DPTS, il focus della CBT
sono le tecniche di esposizione per immagini e in vivo all’interno di un contesto tera-
peutico sicuro (Keane et al., 1985), per permettere un’adeguata elaborazione emotiva
dei ricordi traumatici (Rachman, 1980). Il problema per il clinico è quello di aiutare chi
è sopravvissuto a ricordare e a rivivere l’evento e le relative emozioni, in un modo che
permetta di dominare l’angoscia piuttosto che amplificarla. Questo dipenderà per lo più
dallo stabilire un ambiente sicuro e affidabile in cui l’evento traumatico può essere ri-
cordato e discusso. I terapeuti devono essere preparati a porre ai bambini domande sugli
aspetti più difficili dell’evento traumatico, ma allo stesso tempo devono assicurarsi che
l’esposizione ai ricordi traumatici sia proposta in modo che il bambino non sia schiaccia-
to dall’ansia. Per molti di loro, rivivere su un piano immaginario l’esperienza traumatica
potrebbe essere troppo difficile e si devono trovare altri modi per accedere ai ricordi trau-
matici. Chiedere ai bambini di disegnare la propria esperienza spesso facilita il richiamo
alla memoria dell’evento e delle relative emozioni (Pynoos e Eth, 1986) e, con i bambini
più piccoli, il gioco potrebbe avere la stessa funzione (Misch et al., 1993).
L’esposizione per immagini e in vivo resta una componente chiave della CBT. Si
chiede ai bambini di raccontare l’accaduto e di indicare quanto fossero preoccupati.
I terapeuti osservano il bambino da vicino per notare quando si blocca su particolari
“momenti caldi” della narrazione, per poi ritornare su queste parti del ricordo. Saigh
(1987a) è stato il primo a mostrare che, come Rachman(1980) aveva previsto, sono
necessarie sedute di esposizione più lunghe del normale se si deve verificare una desen-
sibilizzazione e una riduzione dei sintomi. Saigh (1992) ha di conseguenza sintetizzato
un processo di intervento a cinque fasi che prevede una componente informativa, una
di training immaginativo, una di training di rilassamento, l’esposizione a stimoli an-
siogeni e il debriefing e Saigh et al. (1996) hanno discusso nel dettaglio l’utilizzo del
flooding per il DPTS nei bambini.
Gli sviluppi più recenti hanno trattato l’elaborazione emotiva, sulla base dei risul-
tati della psicologia cognitiva sperimentale nel campo della memoria e delle emozioni.
P. Smith e colleghi (dati non pubblicati) hanno sviluppato un manuale di trattamento
di dieci sedute per i bambini e gli adolescenti con DPTS. Questo manuale è attualmen-
te ancora sotto valutazione come parte di una prova controllata randomizzata da parte
degli autori e si basa per gran parte sul modello cognitivo comportamentale del DPTS
di Ehlers e Clark (2000). Il trattamento ha cinque obiettivi principali: (1) i ricordi del
trauma devono essere elaborati e integrati nella memoria autobiografica in modo che
si riduca l’esperienza di rivivere i sintomi; (2) devono essere modificate le valutazioni
erronee del trauma e/o dei sintomi del DPTS in modo da ridurre il senso di minaccia
imminente; (3) devono essere eliminate le strategie di coping disfunzionali che im-
pediscono l’elaborazione dei ricordi, che esasperano i sintomi o che ostacolano una
riconsiderazione dei giudizi problematici; (4) devono essere identificate e modificate le
convinzioni disadattive dei genitori relative al trauma e alle sue sequele e (5) i genitori
devono collaborare in qualità di co-terapeuti.
Molto spesso, come parte della reazione traumatica e dell’evitamento degli stimoli
che ricordano l’evento, i bambini avranno ristretto le attività precedenti. Nel corso del
348
Il disturbo post-traumatico da stress
349
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin
bigui. Nel primo studio con 68 bambini abusati di età prescolare, un intervento di CBT
focalizzato sul bambino e un genitore dava risultati migliori di una terapia supportiva
non direttiva condotta solo con il bambino e questi risultati erano ancora presenti a 6
e 12 mesi di follow-up (Cohen e Mannarino, 1997). In una prova controllata rando-
mizzata successiva con 49 bambini fra i 7 e i 14 anni, mentre la CBT era superiore alla
terapia supportiva non direttiva nel ridurre la depressione e nel migliorare la competen-
za sociale, non sono state riscontrate differenze di gruppo in misure del DPTS (Cohen
e Mannarino, 1998). Similmente, Caleano et al. (1996) hanno assegnato casualmente
32 bambini abusati di età scolare a un trattamento di CBT di gruppo di otto sedute e
non hanno riscontrato differenze nei sintomi del DPTS. King et al. (2000) hanno trat-
tato 36 bambini abusati fra i 5 e i 17 anni: CBT individuale solo con il bambino; CBT
con la famiglia; controllo in lista d’attesa. Il trattamento attivo si era rivelato migliore
del gruppo di controllo e questi miglioramenti erano presenti anche a 12 settimane,
ma il coinvolgimento dei genitori non accresceva l’efficacia del trattamento. Per una
rassegna di studi meno controllati, vedere King et al. (1999).
Goenjian et al. (1997) hanno paragonato la CBT con l’assenza di trattamento, in
bambini traumatizzati dopo un terremoto in Armenia. Gli interventi a scuola include-
vano la discussione di gruppo sul trauma, il rilassamento e la desensibilizzazione, l’ela-
borazione del lutto e la normalizzazione delle risposte e questi si erano rivelati superiori
all’assenza di trattamento sulla base di misure di self-report del DPTS e dello stress. L’in-
tervento non aveva ridotto la depressione nel gruppo, ma i bambini nella condizione di
nessun trattamento, diventavano più depressi nel corso dello studio.
March et al. (1998) hanno verificato l’efficacia di una CBT di gruppo di 18 set-
timane per il DPTS in 17 bambini e adolescenti che avevano avuto un solo incidente
traumatico. Otto dei 14 soggetti che avevano portato a termine il trattamento (57%)
non mostravano più alcun segno di DPTS alla fine del trattamento e altri quattro non
presentavano più il DPTS a 6 mesi di follow-up (percentuale complessiva di recupero
del 86%). Saigh (1987 a, b, 1989) ha descritto una serie di casi singoli a baseline multi-
pla dimostrando l’efficacia di una prolungata esposizione per immagini, per i bambini
con DPTS derivante da violenza interpersonale e guerra.
Sulla premessa che la prevenzione è meglio della cura, ci sono stati una serie di
studi su adulti esposti a eventi traumatici, in cui venivano prima utilizzati interventi
per la gestione della crisi. L’intervento descritto con maggiore chiarezza è stato il Cri-
tical Incident Stress Debriefing di Mitchell, ma c’è stato un considerevole dibattito sulla
sua efficacia complessiva e di altri interventi precedenti che hanno utilizzato modelli
radicalmente differenti, ma comunque definiti come “debriefing” (vedere Raphael e
Wilson, 2000; Dyregrov 2001) per una discussione di queste problematiche). Pochi
studi sui risultati di interventi precoci sono stati condotti con i bambini. Yule (1992)
ha osservato che i bambini che frequentavano incontri di debriefing dopo un incidente
navale avevano punteggi migliori a una serie di misure, rispetto ai bambini che non
avevano ricevuto un simile aiuto. Tuttavia le inferenze fatte sulla base di questo studio
non controllato devono essere minime, dal momento che anche il gruppo di debrie-
fing aveva ricevuto ulteriori trattamenti. Prove più consistenti derivano dalla prova sul
debriefing non controllata di Stallard e Law (1993) che indicava miglioramenti signi-
ficativi in misure standardizzate di self-report in un piccolo gruppo di bambini piccoli
350
Il disturbo post-traumatico da stress
Ricerca futura
Sono necessarie ulteriori ricerche in una serie di ambiti. Si deve affinare la com-
prensione della fenomenologia e del corso a lungo termine delle reazioni post-trau-
matiche da stress per età e tipologia di trauma, al momento ostacolate dalla mancanza
di misure standardizzate appropriate all’età dei bambini. Analizzare in che modo i
bambini spiegano e danno un significato agli eventi traumatici, come descrivono i
propri atteggiamenti post-traumatici, quelli a verso il mondo e se stessi e analizzare i
cambiamenti nell’elaborazione dell’informazione (preconscia) contribuirà a una piena
comprensione delle reazioni traumatiche da stress. Cosa più importante, c’è necessità
di ricerche sugli esiti del trattamento sul DPTS nei bambini e negli adolescenti. Sono
necessari studi su bambini con DPTS, segnalati e non, e su gruppi di controllo atten-
tamente selezionati prima che possano essere raggiunte delle conclusioni nette sulla
cronicità dei sintomi e sull’efficacia degli attuali trattamenti.
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CAPITOLO 21
I disturbi dell’alimentazione
Anne Stewart
Warneford Hospital, Oxford, Regno Unito
Introduzione
I disturbi dell’alimentazione sono comuni nelle adolescenti, con tassi di prevalenza
per l’anoressia e per la bulimia nervosa che sono rispettivamente dello 0.3%-0.6% e del
1% (Fairburn e Beglin, 1990; Whitaker et al., 1990; Rathner e Messner, 1993; Van Hoe-
ken et al., 1998). I problemi nell’alimentazione che non raggiungono i criteri diagnostici
sono molto più comuni (Childress et al., 1993). Molte adolescenti hanno pensieri nega-
tivi relativi alla propria forma fisica e al proprio peso e questo spesso le porta a fare delle
diete per migliorare l’immagine di sé (Killen et al., 1994; Smolak e Levine, 1994).
La dieta è un ben noto fattore di rischio per i disturbi dell’alimentazione (Pat-
ton et al., 1990) e, nelle adolescenti che sviluppano un disturbo dell’alimentazione, si
possono identificare alcuni pensieri negativi. Anche quelle che riacquistano il proprio
peso possono continuare ad avere pensieri negativi sul proprio corpo e, quindi, sono
vulnerabili a un’ulteriore perdita di peso (Fairburn et al., 1993a). Nelle adolescenti
che sviluppano queste difficoltà è spesso presente una bassa autostima (Button et al.,
1996). La terapia cognitivo comportamentale (CBT) può essere un approccio tera-
peutico utile per affrontare i pensieri negativi, sulla forma fisica e sul peso; gli assunti
cognitivi fondamentali e per promuovere il cambiamento comportamentale (Garner et
al., 1997; Wilson et al., 1997). Tuttavia, i modelli sviluppati per gli adulti richiedono
un adattamento per essere utilizzati con le adolescenti (Lock, 2002).
Questo capitolo si occupa della CBT negli adolescenti con disturbi dell’alimen-
tazione, focalizzandosi sull’anoressia nervosa e sulla bulimia nervosa. Primo, vengono
descritte le caratteristiche diagnostiche e cliniche di questi disturbi, e di seguito si indi-
cano le basi per l’applicazione della CBT. Infine, si presenta il modello cognitivo dello
sviluppo e del mantenimento dei disturbi dell’alimentazione e si descrive nel dettaglio
la CBT basata su questo modello.
357
Anne Stewart
Bulimia nervosa
358
I distirbi dell’alimentazione
L’anoressia nervosa
La CBT sta iniziando a essere sempre più utilizzata con l’anoressia nervosa, anche
se non ci sono ancora prove convincenti della sua efficacia. Un caso riferito da Cooper
e Fairburn (1984) ha dato indicazioni di effetti positivi. Tuttavia, sono stati intrapresi
pochi studi controllati sulla psicoterapia in genere. Channon et al. (1989) hanno pa-
ragonato la CBT con il trattamento comportamentale e con “i trattamenti comuni” e
hanno riscontrato presentavano miglioramenti significativi al follow-up a 6 mesi, anche
se la CBT sembrava il trattamento più accettato. Tuttavia, questo studio aveva dei limiti
metodologici. Serfaty et al. (1999) hanno condotto una prova randomizzata controllata
che paragonava le indicazioni sulla dieta alimentare da tenere con una CBT ambulatoria-
le per l’anoressia nervosa. Al follow-up a 6 mesi, 23 pazienti su 25 nel gruppo della CBT
frequentavano ancora le sedute di trattamento, mentre tutto il gruppo delle indicazioni
dietologiche aveva abbandonato. Il gruppo della CBT mostrava cambiamenti significativi
nel BMI (indice di massa corporea) e nei punteggi all’Eating Disorder Inventory (EDI).
A oggi, non sono state condotte prove controllate su adolescenti con anoressia
nervosa. Tuttavia, l’approccio familiare sembra essere efficace con questa popolazione
(Russell et al., 1992; Dare et al., 1995; Robin et al., 1999; Eisler et al., 2000), anche
se nessuno di questi studi ha utilizzato un gruppo di controllo in condizione di “non
trattamento”.
Il modello di lavoro con le adolescenti con bulimia e anoressia nervosa descritto in
questo capitolo si basa sulle ricerche esistenti. Tuttavia, le prove empiriche per la CBT
non sufficienti e c’è un urgente bisogno di prove controllate e ben progettate.
359
Anne Stewart
360
I distirbi dell’alimentazione
Convinzioni
Evitamento Per es. Non valgo nulla Lavoro eccessivo
del piacere Non sono segno d’amore
Non sono attraente
Assunti Cognitivi
Per es. Devo avere il controllo
Devo essere magra per
essere felice
Mi devo punire
Dieta
361
Anne Stewart
Bassa autostima
Iperpreoccupazione
Fattori della forma fisica e
comportamentali Ansia Elevata
del peso e necessità di
Controllo del peso Umore basso
controllo
Stato di inedia
Restrizione degli Binge eating
interessi Eccessive restrizioni
Rigidità nella dieta
Pienezza di stomaco
Perdita di indizi di fame
Purghe
Umore basso
Scarsa concentrazione
Fattori emotivi
Maggiore senso di
controllo e padronanza
Sentirsi speciali
Maggiore autostima
Perfezionismo
Evitamento Fattori Familiari Fattori sociali Ansia elevata /umore
Incertezza Approvazione Competizione basso
Complessità Attenzione con i coetanei
Sentimenti Controllo
Problemi Dipendenza
362
I distirbi dell’alimentazione
Al centro di questo modello ci sono i pensieri disadattivi sulla forma fisica e sul
peso e la necessità di controllare tutto. Questa preoccupazione potrebbe indurre restri-
zioni eccessive nella dieta, che possono portare o a uno stato di inedia (come nel caso
dell’anoressia nervosa) o al binge eating seguito da purghe (come nel caso della bulimia
nervosa). Una serie di fattori contribuiscono al mantenimento di questo processo.
Fattori comportamentali
Fattori familiari
363
Anne Stewart
dalla propria famiglia ed evitare i problemi della crescita. Infine, nel momento in cui
la figlia sviluppa un’anoressia, i genitori potrebbero attraversare le proprie difficoltà di
mezza età e questo li rende più distratti e meno consapevoli del problema.
Fattori sociali
Evitamento
Inedia
Binge eating
In alcune ragazze, una dieta eccessiva innesca il binge eating, seguito da metodolo-
gie compensative di controllo del peso come il vomito. Il circolo vizioso aiuta a mante-
nere costante questo processo (vedere Fairburn et al., 1986a).
Fattori di recupero
364
I distirbi dell’alimentazione
Valutazione
La valutazione globale è il primo passo essenziale nella gestione dei disturbi del-
l’alimentazione. La Tabella 21.1 sintetizza le componenti della valutazione iniziale. È
importante coinvolgere la ragazza e la famiglia nel trattamento. Le adolescenti con un
disturbo dell’alimentazione, in particolare quelle con anoressia nervosa, sono spessi
ambivalenti nei confronti del trattamento ed è importante avere a disposizione un
tempo sufficiente per individuare le conseguenze positive e negative del disturbo e i
sentimenti relativi al trattamento. È essenziale un approccio collaborativo fin dall’ini-
zio. (Per idee utili su come motivare i pazienti vedere il Capitolo 5; Schmidt e Treasure,
1993; Treasure e Schmidt, 1997; Treasure e Ward, 1997).
• Attuali abitudini alimentari (inclusi pattern di alimentazione, binge eating, vomito, altri
metodi di controllo del peso)
• Problematiche associate (depressione, ansia, autolesionismo intenzionale, abuso di
droga e alcol)
• Storia clinica (oscillazioni del peso, regolarità delle mestruazioni, storia psichiatrica
precedente)
• Storia evolutiva precoce (fra cui eventuali abusi infantili)
• Background familiare (fra cui disturbi dell’alimentazione)
• Valutazione fisica (altezza e peso, lo stato cardiovascolare, la forza muscolare, esami
del sangue)
• Questionari standardizzati (EDE-Q, EAT, BDI, BAI)
• Valutazione della famiglia (livello di supporto alla famiglia, atteggiamento verso i pro-
blemi della figlia, relazione coniugale)
• Valutazione individuale (atteggiamento verso i problemi dell’alimentazione, motiva-
zione, obiettivi)
La CBT
Le fasi del trattamento e il ruolo della famiglia
L’approccio qui descritto si basa sulla letteratura di ricerca disponibile nel campo
della CBT e degli approcci familiari ai disturbi dell’alimentazione nell’adolescenza e sul
modello cognitivo precedentemente descritto.
365
Anne Stewart
Come per gli adulti, la CBT per l’anoressia e la bulimia nervosa prevede tre fasi.
Anche se queste si sovrappongono, il focus specifico è differente. La prima fase si occupa
principalmente di ristabilire pattern normali di alimentazione e, nel caso dell’anoressia
nervosa, di ripristinare un certo peso. Le strategie saranno per lo più comportamentali.
La seconda fase si focalizza sui fattori di mantenimento del disturbo, fra cui la preoc-
cupazione eccessiva per peso e la forma fisica, i pensieri disadattivi e la necessità di
controllo. La ragazza viene aiutata a sviluppare una visione di sé più realistica e positiva
e ad assumersi le proprie responsabilità. La fase finale si occupa della prevenzione delle
ricadute, aiutando la ragazza e la famiglia a sviluppare strategie di coping per il futuro.
Nell’anoressia nervosa, è essenziale coinvolgere la famiglia per tutto il corso del
trattamento, soprattutto con le adolescenti più giovani. Questo intervento segue lo
stesso pattern del modello di trattamento familiare sviluppato dal gruppo di Maudsley
(Dare et al., 1995), con l’aggiunta di una terapia cognitiva individuale. Nella prima
fase, il trattamento è per lo più comportamentale su base familiare ed è un adattamento
della prima fase del Maudsley. La seconda fase prevede un lavoro cognitivo individuale
con la ragazza, che si va ad aggiungere al lavoro comportamentale. Anche il lavoro con
i genitori (e i fratelli, se è il caso) continua in parallelo e si incoraggia la ragazza ad
assumersi sempre di più la responsabilità della propria alimentazione e a considerare i
propri genitori come alleati. Il lavoro sulla famiglia nella fase finale potrebbe includere
problematiche tipiche dell’adolescenza, come l’indipendenza e la separazione, e la pre-
venzione delle ricadute. Anche questa fase è simile a quella finale del Maudsley.
Gli approcci familiari con la bulimia non hanno prove sufficienti, tuttavia l’espe-
rienza clinica suggerisce che potrebbero essere utilizzati anche in questo caso. Una
CBT familiare per adolescenti con bulimia nervosa è stata descritta da Lock (2002). Le
pazienti sono di solito più grandi e più motivate a intraprendere dei cambiamenti. Per-
tanto, con alcune all’inizio si potrebbe lavorare su un piano individuale, considerando
i membri della famiglia come alleati in questo lavoro.
L’anoressia nervosa
Fase 1
La prima fase di trattamento prevede un lavoro sulla famiglia per permettere alla
ragazza di ristabilire pattern normali di alimentazione e di riprendere peso. Di solito,
in questa fase, la ragazza è riluttante a frequentare il trattamento e potrebbe addirittu-
ra non essere consapevole del proprio problema. Pertanto, il sostegno familiare è un
fattore cruciale nella promozione del cambiamento. Il lavoro con la famiglia prevede
una serie di componenti, fra cui dare informazioni alla famiglia sulle conseguenze
nocive del disturbo, separare l’identità della ragazza dal disturbo alimentare e incorag-
giare i genitori a prendersi carico dell’alimentazione della propria figlia. Il terapeuta
mira a rafforzare e sostenere i genitori nel loro compito. Il focus è sulle problematiche
presenti piuttosto che sulle cause.
I genitori, all’inizio, potrebbero avere difficoltà nell’equilibrare empatia e fermez-
za, e avranno bisogno di incoraggiamento per imparare a relazionarsi con la propria
366
I distirbi dell’alimentazione
Fase 2
Per alcune adolescenti, i pensieri iniziano a cambiare nella fase 1 con il lavoro sulla
famiglia, e così non è necessario un lavoro cognitivo specifico. In questo caso, il lavoro
con la famiglia continua spostando sempre di più le responsabilità sulla ragazza e fis-
sando il focus su aspetti differenti dal disturbo alimentare. Tuttavia, in altre adolescenti,
soprattutto più grandi o con un disturbo di lunga data, i pensieri negativi restano e si
deve condurre un lavoro più specificamente cognitivo. Anche se al momento non ci
sono prove empiriche, l’esperienza clinica suggerisce che alcune adolescenti traggono
beneficio da un approccio cognitivo comportamentale individuale.
La temporizzazione è cruciale in questa fase. La ragazza deve essere pronta e moti-
vata a intraprendere una CBT individuale. Di solito, la perdita di peso sarà del 15% o
meno, anche se alcune adolescenti sono pronte per un lavoro cognitivo a pesi più bassi
di questo, mentre altre non lo sono nemmeno con un peso più elevato. Per valutare
l’idoneità al lavoro cognitivo, si utilizzano i seguenti criteri:
All’inizio del trattamento, si può co-costruire una formulazione relativa sui fattori
cognitivi di mantenimento (basata sulla Figura 21.2). Nella fase 1, saranno stati affron-
tati i fattori di mantenimento relativi all’inedia.
367
Anne Stewart
368
I distirbi dell’alimentazione
369
Anne Stewart
Nel corso della terapia, diventa evidente che il comportamento o gli eventi come
la perdita di peso o l’eliminazione di pasti possono all’inizio indurre pensieri positivi,
come:
Questi pensieri possono essere messi in discussione nello stesso modo di quelli
automatici negativi. Potrebbe essere necessario a questo punto ricordare alla ragazza
l’equilibrio decisionale fra i pro e i contro e gli obiettivi della terapia. Anche se all’inizio
potrebbe essere orgogliosa di essere riuscita a perdere peso, capirà che questo non la
aiuterà a raggiungere gli obiettivi formulati all’inizio del trattamento.
Molti pensieri automatici negativi nell’anoressia nervosa sono collegati alla preoc-
cupazione per la forma fisica e il peso. Il lavoro sistematico su questi pensieri è essen-
ziale. Le adolescenti con anoressia nervosa hanno emozioni molto forti in relazione al
proprio corpo e si convincono di essere veramente brutte come credono. L’insoddisfa-
zione relativa alla propria immagine corporea potrebbe rimanere quando ci si focalizza
esclusivamente sugli aspetti negativi del corpo e ci si disinteressa delle caratteristiche
positive. Il perfezionismo può contribuire all’insoddisfazione. Attribuire la “percezione
di grassezza” ad altri sentimenti, fra cui l’umore depresso, permette alla ragazza di ge-
stire questi altri sentimenti.
Gli esperimenti comportamentali possono essere un modo eccezionale per mettere
in discussione i pensieri negativi. Per esempio, guardarsi spesso allo specchio o pesarsi
spesso sono comportamenti che fanno aumentare la preoccupazione relativa al peso e
alla forma fisica. Ridurre questi comportamenti può aiutare la ragazza a capire questo
collegamento. Può essere utile tenere traccia degli esperimenti comportamentali, con
previsioni e risultati, (vedere la tabella 21.4 per il foglio di monitoraggio).
Con il procedere della terapia, la ragazza potrebbe divenire più consapevole di qua-
li pensieri non sono collegati al peso, alla forma fisica o alle preoccupazioni alimentari,
ma ad altre ansie sul sé o sugli altri. Esempi di pensieri negativi sono:
370
I distirbi dell’alimentazione
vita. Tuttavia, in altre, soprattutto quelle con assunti cognitivi fondamentali negative
antecedenti al disturbo dell’alimentazione, le convinzioni negative sul sé persistono,
nonostante l’aumento di peso e la normalizzazione dell’alimentazione; il focus deve
allora spostarsi su questi assunti fondamentali. Di solito in questa fase della terapia, si
analizzano i seguenti aspetti collegati agli obiettivi originari identificati all’inizio della
terapia o a nuove problematiche emerse nella terapia.
• Perfezionismo
Convinzione disfunzionale: devo fare tutto alla perfezione altrimenti gli altri non
mi accetteranno
• Mancanza di sicurezza/assertività
Convinzione disfunzionale: nessuno mi ascolterà, i miei punti di vista sono inutili.
Se dico qualcosa di sbagliato, le persone mi derideranno.
• Bassa autostima, scarso senso di identità
Assunto cognitivo fondamentale: sono inutile
• Problemi con le relazioni (familiari e con i coetanei)
Assunto cognitivo fondamentale: non piaccio a nessuno.
Convinzione disfunzionale: se mi riprendo, nessuno si prenderà cura di me.
Devo stare male perché le persone si accorgano di me.
• Difficoltà di espressione o di gestione dei sentimenti
Convinzione disfunzionale: se ammetto le mie emozioni, non ho il controllo della
situazione
• Difficoltà con la sessualità/con la crescita
Convinzione disfunzionale: crescere è una cosa troppo difficile da fronteggiare
Essere adulti significa essere infelici
In questa fase può essere utile co-costruire una formulazione, che include le espe-
rienze precoci e lo sviluppo degli assunti cognitivi fondamentali e delle convinzioni.
Ci sono una serie di modi in cui affrontare questi assunti o convinzioni fondamen-
tali.
Potrebbe essere utile rappresentare le convinzioni lungo un continuum, per es.,
sono inutile… valgo molto. Si lavora sull’identificazione del significato di ciascuno
dei due estremi del continuum – per es. chiedersi cosa significa davvero essere una
persona che vale. Si chiede alla ragazza di posizionarsi lungo il continuum, ma anche
di posizionarsi dove la sua migliore amica o i suoi genitori la metterebbero. In questo
modo, diventa presto evidente che il posto lungo il continuum può variare e può di-
pendere dall’umore e dal contesto. Potrebbe essere utile pensare ad altre persone che si
conoscono e posizionarle lungo il continuum. Su quali basi la ragazza posiziona queste
persone lungo il continuum? Diventa evidente anche che la ragazza potrebbe applicare
standard differenti a sé e agli altri. A questo punto, è utile, discutere il modello del
pregiudizio (Padesky, 1991). Questo modello suggerisce che le persone con bassa auto-
stima hanno dei pregiudizi nei propri confronti, ingigantendo i propri aspetti negativi
e minimizzando quelli positivi. Si può fare un lavoro per sviluppare una visione di sé
più realistica.
I grafici a torta possono essere un mezzo utile per affrontare gli assunti fondamen-
tali sul sé e il problema dell’identità. La Figura 21.3 mostra prima il grafico di una
371
Anne Stewart
ragazza con anoressia nervosa in cui risulta evidente l’importanza di questo disturbo
nella propria vita. Si può fare un lavoro per identificare gli aspetti che si desidererebbe
aggiungere (come nel secondo grafico a torta), incoraggiandola a sviluppare idee spe-
cifiche su come agire.
Danza Musica
Famiglia
Arte
Anoressia Nervosa
Me Tennis Amici
Scuola
Insegnare competenze di assertività può essere una parte importante di questo pro-
cesso. Una volta che queste sono state apprese, allora l’esperimento comportamentale
può aiutare a verificare la validità degli assunti cognitivi fondamentali e a rafforzare
convinzioni più positive.
Il lavoro con i genitori e la famiglia dovrebbe continuare nel corso della terapia
cognitiva, anche se la frequenza potrebbe diminuire. La famiglia deve imparare a di-
minuire il sostegno/la supervisione intensiva dell’inizio del trattamento e devono per-
mettere alla ragazza di assumersi le proprie responsabilità. Questo può rendere ansiosi i
genitori, dal momento che si sono abituati a un’interazione più dipendente. In questo
stadio possono emergere altre problematiche relative alle relazioni familiari e la ragazza
potrebbe imparare a esprimere i propri sentimenti con maggiore assertività.
372
I distirbi dell’alimentazione
A questo punto, la ragazza avrà raggiunto i propri obiettivi relativi al peso e sarà in-
tegrata nelle attività normali delle adolescenti (scuola, socializzazione, ecc.).Il disturbo
alimentare adesso sarà meno predominante. Il lavoro con la famiglia potrebbe avere a
che fare con tematiche relative alla separazione e all’indipendenza dal momento che la
ragazza è alle prese con il processo di crescita. In questa fase è utile considerare i segnali
di avvertimento di una probabile ricaduta e utilizzare queste ricadute come occasioni
di apprendimento e di progresso. Prima di lasciare la terapia, è utile rivedere con la
ragazza quello che ha imparato nel corso del trattamento e come può utilizzare questi
apprendimenti per il proprio futuro. Questo lavoro può assumere la forma di un piano
d’azione, che la ragazza può tenere in una cartellina per ricordarsi del lavoro fatto du-
rante la terapia (Tabella 21.5).
La bulimia nervosa
La CBT per la bulimia nervosa nelle adolescenti segue lo stesso pattern di quel-
la descritta da Fairburn e Wilson (1993), anche se con un maggiore coinvolgimento
della famiglia. Fino a che punto la famiglia deve essere coinvolta dipende dai bisogni
evolutivi dell’adolescente e dalla relazione che la ragazza ha con i genitori. I genitori
potrebbero spesso essere considerati una risorsa utile per l’adolescente.
Fase 1
La prima fase del trattamento è focalizzata su due scopi principali. Il primo è quello
di co-costruire con la ragazza una formulazione cognitivo comportamentale basata sul
modello di Fairburn (Fairburn et al., 1986b, 1999b) e incorporare altri fattori rilevanti
nella vita della ragazza – in particolare, la famiglia, i coetanei, la scuola ecc. – come
precedentemente descritto nel modello di mantenimento (è importante prendersi del
tempo per discutere questo modello approfonditamente). Il secondo scopo è quello di
introdurre le strategie comportamentali mirate a far diminuire il vomito volontario e
il binge eating.
Si chiede alla ragazza di monitorare la propria alimentazione (vedere la tabella 21.6
per un esempio di foglio di auto-monitoraggio).
373
Anne Stewart
Fase 2
374
I distirbi dell’alimentazione
375
Anne Stewart
Caso esemplificativo
Jane, di 15 anni, è stata inviata al servizio per adolescenti a causa della perdita di
peso accompagnata da umore depresso, da una diminuzione di energia, da una scarsa
motivazione, da minore capacità di concentrazione e da sbalzi d’umore. Le mestruazio-
ni non erano presenti da 8 mesi. Al momento dell’invio, evitava cibi grassi e zuccherati
e si esercitava per perdere peso. Non era soddisfatta della propria forma fisica, perché
credeva di essere grassa e sproporzionata, nonostante fosse sottopeso.
Il fratello si era diplomato con il massimo dei voti e aveva ottenuto un posto al-
l’università per studiare medicina. Jane aveva una sorella più piccola che era bravissima
a scuola. Entrambi i genitori erano professori universitari con aspettative molto alte su
di lei. Diceva di essere ingrassata al momento della pubertà e di non sentirsi a proprio
agio. Allo stesso tempo, aveva subito delle perdite a suola, con due amiche che si era-
no trasferite. Era diventata molto insoddisfatta della propria apparenza fisica e aveva
iniziato la dieta. Aveva iniziato a perdere peso ed era felice dei commenti positivi dei
nuovi amici a scuola.
La fase iniziale del trattamento aveva implicato un lavoro ravvicinato con la fami-
glia. I suoi genitori erano stati incoraggiati a supervisionarla e supportarla al momento
dei pasti; essi avevano trovato molte difficoltà, dal momento che credevano che i propri
figli dovessero essere autonomi e indipendenti. Erano stati spronati a considerare seri
i problemi di Jane e la madre prese un’aspettativa dal lavoro per poterle stare vicino al
momento dei pasti. Jane stessa non voleva cambiare, così venne iniziato un lavoro mo-
tivazionale per aiutarla a identificare i benefici derivanti dal riacquistare peso. Gradual-
mente, il peso iniziò ad aumentare e il suo stato fisico migliorò. I suoi livelli di energia
erano tornati normali. Tuttavia, continuava a essere insoddisfatta della propria forma
fisica e del proprio peso, e aveva una bassa autostima. Risultò idonea a una valutazione
per una CBT individuale che venne portata avanti per 6 mesi.
All’inizio, questo aveva implicato un lavoro per identificare degli obiettivi; alcuni
relativi all’alimentazione e altri più generali relativi all’autostima e alla sicurezza. Aveva
deciso di affrontare prima quelli relativi all’alimentazione. Un esempio era quello di
riuscire a mangiare davanti ai propri amici. Era in grado di identificare i pensieri ne-
gativi quali: penseranno che sono golosa, mi prenderanno in giro. Aveva affrontato questo
obiettivo progettando l’esperimento comportamentale di mangiare un sandwich all’ora
376
I distirbi dell’alimentazione
di ricreazione con i propri amici. Aveva pianificato l’esperimento con attenzione e aveva
prima fatto delle previsioni. Quando aveva portato a termine l’esperimento, era sorpresa
che gli amici non l’avessero nemmeno notata. Non c’erano prove per la previsione se-
condo cui l’avrebbero considerata golosa. Un altro obiettivo era quello di piacersi di più
e all’inizio lo affrontò identificando i pensieri automatici negativi su di sé. Aveva iniziato
a mettere in dubbio questi pensieri (vedere la Tabella 21.3 per l’auto-monitoraggio dei
pensieri e le alternative) e aveva iniziato a sviluppare una visione più equilibrata di sé.
Durante la terapia, divenne evidente che la sua identità era legata all’anoressia
nervosa e a poche altre cose. Questo si associava alla convinzione fondamentale di non
avere valore. Attraverso la terapia, aveva lavorato duro per identificare altri aspetti della
propria vita che voleva riguadagnare e aveva iniziato a muoversi in questa direzione.
Un obiettivo importante era quello di sentirsi più sicura; con l’auto-monitoraggio si era
resa conto di fare più attenzione a situazioni in cui non era sicura. Trovò utile registrare
le situazioni a favore della sua sicurezza e fu in grado, sulla base di queste situazioni, di
costruire ulteriore sicurezza.
Verso la fine della terapia, sono stati utili altri incontri con la famiglia. I genitori
erano diventati ansiosi in relazione al suo desiderio di indipendenza, essendosi abituati
a supportarla da vicino. È stato importante discutere il bisogno di indipendenza di Jane
e la sua assertività.
Nella fase finale, Jane aveva lavorato sull’identificazione degli indici di ricaduta.
Avvicinandosi agli esami aveva notato che si focalizzava di più sull’alimentazione e che
manifestava ansia verso determinati cibi. Aveva compreso che questo avrebbe potuto
portarla a pattern alimentari disfunzionali e aveva sviluppato modi per fronteggiare la
propria ansia piuttosto che controllare il cibo. Alla fine della terapia, aveva creato un
piano d’azione, indicando le competenze apprese nel corso della terapia e cosa costruire
per il futuro.
Predittori di risultato
La ricerca sugli esiti nel caso della bulimia nervosa annovera fra i segni prognostici
negativi un indice di massa corporea più basso all’inizio del trattamento (Turnbull et
al., 1996), una precedente obesità (Fairburn et al., 1995), una bassa autostima (Fair-
burn et al., 1993b) e una comorbidità con disturbi di personalità (Wonderlich et al.,
1994). A oggi non ci sono studi che indicano i predittori dell’esito della CBT nell’ano-
ressia nervosa.
377
Anne Stewart
ancora essere indagati ulteriormente. La pratica clinica suggerisce che gli elementi co-
gnitivi si possono introdurre quando il funzionamento cognitivo migliora.
Il lavoro sugli assunti cognitivi fondamentali di questo gruppo è un’area che ne-
cessita di indagini. Molte adolescenti con disturbi dell’alimentazione hanno assunti
fondamentali negativi, ma non è chiaro fino a che punto queste debbano essere affron-
tate direttamente. Le problematiche familiari sono molto importanti in questo gruppo
di pazienti. La ricerca ha già stabilito la necessità di coinvolgere la famiglia. Tuttavia,
un’area che necessita di indagini ulteriori è quella della trasmissione intergenerazionale
delle convinzioni e l’utilità di trattare le convinzioni dei genitori che vengono attivate
dalla malattia della figlia.
C’è la necessità di lavorare insieme con i professionisti che lavorano con gli adul-
ti per sviluppare e verificare modelli teorici per età diverse. Infine, c’è una necessità
urgente di prove randomizzate controllate sul confronto fra la CBT e altri approcci
individuali, insieme ala terapia familiare.
Riconoscimenti
L’autore desidera riconoscere i commenti utili di Zafra Cooper e di Linette Whi-
tehead nella prima stesura di questo capitolo.
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381
CAPITOLO 22
Trudie Chalder
Guy’s King’s and St. Thomas’ School of Medicine, Londra, Regno Unito
Introduzione
La Sindrome da Affaticamento Cronico, a volte conosciuta come encefalomieli-
te mialgica, è una condizione caratterizzata da un affaticamento fisico e mentale che
peggiora con l’esercizio e che è associato a una profonda disabilità (Sharpe et al., 1991;
Fukuda et al., 1994). Il documento di consenso pubblicato dai tre UK Royal Colleges
riteneva i criteri diagnostici sviluppati per gli adulti applicabili anche ai bambini, ad ec-
cezione del criterio relativo ai 6 mesi di sintomatologia, considerati un periodo troppo
lungo per i bambini (Anon, 1996). Il dolore muscolare, il mal di testa, la gola secca e
una maggiore sonnolenza sono tutti sintomi tipici nei bambini (Marshall et al., 1991;
Smith et al., 1991; Feder et al., 1994; Carter et al., 1995) e la disabilità può essere
molto seria. I bambini inviati ai centri specialistici spesso presentano periodi di assenza
prolungata da scuola associati a una compromissione delle attività sociali e ludiche. È
frequente la perdita delle relazioni con i coetanei (Smith et al., 1991; Feder et al., 1994;
Carter et al., 1995). Nonostante la gravità di questa condizione, una rassegna siste-
matica ha riscontrato che il 54-94% dei bambini aveva buone percentuali di recupero
(Joyce et al., 1997). I fattori prognostici positivi includevano specifici attivatori fisici
della malattia, un’insorgenza nel periodo scolastico autunnale e uno status socioecono-
mico più elevato (Rangel et al., 2000a); mentre la prognosi infausta era associata con
attribuzioni somatiche (de Jong et al., 1997) o biologiche (Garralda e Rangel, 2001)
e con una malattia che esasperava i pensieri e i comportamenti dei genitori così come
l’inattività fisica (de Jong et al., 1997).
Come per la maggior parte dei disturbi, le prove a oggi raccolte indicano che la
sindrome da affaticamento cronico è una condizione eterogenea che deriva da un’in-
terazione complessa di fattori fisiologici, cognitivi, comportamentali ed emotivi nel
bambino e negli altri membri della famiglia.
Lo scopo di questo capitolo è quello di descrivere un approccio cognitivo compor-
tamentale orientato alla famiglia per questo disturbo nell’adolescenza, approccio che
l’autrice e i colleghi stanno attualmente sottoponendo a verifica presso il King’s College
383
Trudie Chalder
Hospital a Londra. Questo approccio si può definire psicoeducativo dal momento che
si basa sull’idea che tutte le malattie sono influenzate da processi fisiologici, cognitivi,
comportamentali, emotivi, familiari e sociali e che buona parte del lavoro iniziale con
le famiglie prevede una percorso informativo e formativo.
Epidemiologia
L’affaticamento come sintomo in sé viene difficilmente riferito dai bambini prima
dell’adolescenza (Morrell, 1972; OPCS, 1985; Essen-Moller, 1956). Tuttavia, dopo la
pubertà, l’incidenza inizia ad aumentare (Eminson et al., 1996). A un estremo, alcuni
titoli di giornali del tipo “La scuola investita dalla piaga della encefalite mialgica” (Bo-
seley, 1997), sembrerebbero suggerire che la sindrome da affaticamento cronico nei
bambini assuma proporzioni epidemiche, mentre, all’altro estremo, si rifiuta l’esistenza
di un simile disturbo (Plioplys, 1997). Uno studio recente sulla popolazione indica
che il tesso di prevalenza nei bambini è paragonabile a quello di disturbi meno comu-
ni nell’infanzia, come quelli dell’alimentazione o i tic gravi (Chalder et al., 2003). In
questo studio, lo 0.19% dei bambini fra gli 11 e i 15 anni soddisfaceva i criteri per la
sindrome da affaticamento cronico, mentre solo lo 0.04% dei genitori riferiva che il
proprio bambino (5-15 anni) avesse una encefalite mialgica. Non c’era sovrapposizio-
ne fra i sintomi riferiti dai bambini e l’etichetta diagnostica utilizzata dai genitori, per
cui i genitori e il bambino avevano percezioni differenti dei sintomi. La mancanza di
accordo era già stata precedentemente riscontrata in uno studio collettivo che indagava
le esperienze corporee e le preoccupazioni relative alla salute negli adolescenti (Taylor
et al., 1996), in cui i genitori e i ragazzi non erano concordi sulla presenza o assenza di
sintomi somatici individuali.
Descrizione clinica
Gli adolescenti colpiti da questo disturbo lamentano di sentirsi stremati. Riferi-
scono una sensazione è strana e diversa dalla stanchezza che sentivano quando stavano
bene. L’affaticamento è di solito esasperato dall’attività e anche il minimo esercizio può
lasciare il paziente spossato per diversi giorni. Molti ragazzi lamentano inoltre sintomi
simili a quelli del raffreddore, mal di testa e dolore. La disabilità associata al disturbo
varia considerevolmente. All’estremità più grave dello spettro, è comune trovare pa-
zienti che non vanno più a scuola o confinati su una sedia a rotelle o a letto. La maggior
parte dei riferisce di avere pattern di sonno anomali, in particolare insonnia iniziale e
centrale; ipersonnia e sonnolenza diurna. Di particolare interesse sono le convinzioni
dei pazienti sulla causa del proprio disturbo. Anche se alcuni sono fortemente convinti
che la malattia abbia cause fisiche, la maggioranza fornisce resoconti piuttosto com-
plessi sui fattori associati all’insorgenza del disturbo. Cosa più importante, quasi tutti
non credono di riuscire a gestire la malattia e sono confusi su come procedere.
384
La sindrome da affaticamento cronico
Comorbidità
La sovrapposizione fra il disturbo psichiatrico e la sindrome da affaticamento
cronico nei bambini è stata indagata da una serie di autori che lavorano in servizi
di assistenza di seconda linea, con l’ausilio di una serie di questionari (Smith et al.,
1991; Vereker, 1992; Walford et al., 1993; Carter et al., 1996). Più recentemente,
tuttavia, in uno studio controllato e molto accurato, Garralda et al. (1999) hanno
utilizzato come strumenti di ricerca interviste psichiatriche a e scale di self-report per
verificare la situazione psichiatrica nei ragazzi affetti da questa sindrome, alcuni dei
quali erano riusciti a riprendersi. Il cinquanta per cento degli adolescenti con sindro-
me da affaticamento cronico aveva un disturbo psichiatrico (di solito d’ansia o de-
pressivo) al momento della valutazione. I pazienti che si erano ripresi dalla sindrome,
avevano maggiori probabilità di soffrire di un disturbo d’ansia rispetto ai ragazzi che
ancora malati.
Diagnosi medica
Per assicurarsi che i pazienti non presentino una comorbidità con altri disturbi fi-
sici o una malattia il cui sintomo principale è l’affaticamento, si possono eseguire degli
esami di screening, fra cui emocromo completo, tasso di sedimentazione degli eritrociti
o analisi della proteina C reattiva, test di funzionamento del fegato, esame delle urine
e degli elettroliti, test di funzionamento della tiroide, ormone stimolatore della tiroi-
de, e creatinina-fosfochinasi. Tuttavia, di solito sono sufficienti un’anamnesi accurata
e un esame medico. Questi potrebbero essere fatti dal medico di base o dal pediatra
a cui ci si potrebbe essere rivolti per un consulto. In generale, i pazienti rispondono
meglio a una diagnosi di sindrome da affaticamento cronico. Deale e Wessely (2001)
hanno indagato le percezioni dell’aspetto medico sindrome da affaticamento cronico
in pazienti adulti. I due terzi erano insoddisfatti, soprattutto dell’incoerenza e della
confusione relative alla diagnosi. I dottori sembravano scettici o non informati e i
consigli che davano erano stati considerati non adeguati o conflittuali. Pertanto, se
così fosse, la conferma di una diagnosi di sindrome da affaticamento cronico può
spianare la strada a una relazione più fruttuosa, se accompagnata a consigli specifici
su come gestire il problema.
385
Trudie Chalder
Ci sono una serie di fattori, nei genitori e nel bambino, che possono renderlo
più vulnerabile allo sviluppo di una sindrome da affaticamento cronico. Negli adul-
ti, prove tratte da un piccolo studio cross-sezionale indicano che i pazienti affetti da
una sindrome da affaticamento cronico, rispetto al gruppo di controllo, avevano ma-
dri iperprotettive (Fisher e Chalder, 2003). Questo aspetto è pienamente in linea con
l’esperienza clinica dell’autrice, anche se la direzione della causalità è sempre difficile da
accertare. Ci sono casi nella letteratura medica in cui la malattia del bambino sembra
essere collegata alle convinzioni e ai comportamenti dei genitori (Harris e Taitz, 1989;
Marcovitch, 1997).
Una possibile causa dell’iperprotettività potrebbe essere il livello di stress vissuto
dalla madre. In un ampio studio cross-sezionale sulla comunità, lo stress psicologico
della madre, valutato con questionari di salute generale (GHQ), era associato ad affati-
camento nel bambino (Chalder et al., in stampa). Per altri disturbi psichiatrici, le prove
cross-sezionali indicano che lo stress delle madri può avere un impatto negativo sulla
salute dei propri figli (Meltzer et al., 2000). È possibile che genitori ansiosi possono
focalizzarsi maggiormente sui sintomi dei propri bambini, influenzando la quantità di
disagi riferiti e la manifestazione di comportamenti di richiesta d’aiuto. Questo è stato
confermato in uno studio su una coorte nazionale di neonati, in cui il “nervosismo”
paterno era associato a inspiegabili ricoveri in ospedale e la nevrosi materna a un mag-
giore rischio di ricoveri ospedalieri inspiegabili nei maschi (Hotopf et al., 2000). Anche
se il comportamento materno o paterno hanno senza dubbio un’influenza, la risposta
del bambino dipende in qualche modo anche dalla propria personalità. Rangel et al.
(2000b) di recente hanno riscontrato problemi di personalità nella metà degli adole-
scenti con sindrome da affaticamento cronico, risultati già precedentemente ottenuti
da questo gruppo di ricerca. Gli adolescenti con sindrome da affaticamento cronico
erano sensibili, vulnerabili e inclini a conformarsi, con una tendenza alla rigidità, alla
coscienziosità e alla sollecitudine. Come sottolinea Rangel, anche se queste caratteristi-
che possono sembrare desiderabili, spesso compromettono la capacità di adattamento
a stress comuni, come un’infezione, e a pressioni scolastiche, spesso associati con l’in-
sorgenza di una sindrome da affaticamento cronico.
Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, gli stimoli che generano preoccupazione
e paura cambiano. Questi cambiamenti sono paralleli agli sviluppi nelle competenze
cognitive e sociali (Ollendick et al., 1994). Nella tarda infanzia, un fallimento scolasti-
co o nella performance atletica a scuola diventano fonte di preoccupazione così come
la paura del rifiuto dei coetanei. Queste problematiche sono spesso aspetti importanti
per gli adolescenti con sindrome da affaticamento cronico, in particolare una volta che
il livello di attività è di nuovo alto e che si programma il rientro a scuola. In uno studio
recente ancora non pubblicato, anche se gli adolescenti con sindrome da affaticamento
cronico e i ragazzi normali del gruppo di controllo avevano QI similari, le aspettative
dei genitori e del bambino sul proprio QI erano maggiori nel gruppo con sindrome
da affaticamento cronico (Coddington e Chalder, 2003). Pertanto, questa pressione
alla perfezione della performance, tratto che sembra essere piuttosto comune in questa
popolazione, potrebbe avere l’effetto di comprometterla. Altri due studi indipendenti,
386
La sindrome da affaticamento cronico
hanno trovato risultati simili. In uno, gli adolescenti con sindrome da affaticamento
cronico e i loro genitori sottostimavano il livello di attività e, inoltre, i ragazzi avrebbero
voluto accrescere le proprie attività nel futuro più di quanto si aspettavano sarebbe na-
turalmente accaduto. Anche i genitori avevano queste aspettative (Fry e Martin, 1996).
Questi dati suggeriscono che, se gli obiettivi individuali sono fuori portata rispetto a
ciò che si realisticamente può conseguire, si può finire con l’evitare i futuri tentativi. Si-
mili risultati e l’osservazione clinica indicano una tendenza generale al perfezionismo,
in molti ambiti di vita, con conseguenti criteri di performance del tipo “tutto o nulla”.
Due studi hanno evidenziato uno stretto collegamento fra l’esacerbazione dei sin-
tomi e l’inizio di un nuovo periodo scolastico (Wilson et al., 1989; Vereker, 1992). Tut-
tavia, nel caso di un individuo già vulnerabile a causa dei fattori predisponenti appena
descritti, l’esperienza clinica suggerisce che una serie di eventi precipitanti contem-
poranei, quali lo stress, l’iperattività e una malattia virale possono dare come risultato
l’insorgenza di un grave affaticamento.
Fattori di mantenimento
Una volta che l’affaticamento è già presente, la riduzione dell’attività dovuta alla
preoccupazione di peggiorare i sintomi e i consigli inadeguati di alcuni professionisti,
possono involontariamente perpetuare l’affaticamento e altri sintomi, portando a una
sostanziale disabilità. Negli adulti sono comuni le paure sulla natura della malattia, il
significato dei sintomi, le conseguenze dell’attività e il timore che l’attività o l’esercizio
peggiorino i sintomi (Deale et al., 1998). I bambini hanno tutte queste paure e anche al-
tre: si preoccupano della performance scolastica e temono di essere rifiutati dagli amici.
Studi longitudinali hanno dimostrato che attribuire l’affaticamento a una malattia
fisica, negli adulti è predittore del grado di disabilità indotta dalla sindrome (Sharpe et
al., 1992; Chalder et al., 1996). Nel tentativo di controllare e ridurre i sintomi, i pa-
zienti diventano ipervigili e ipersensibili alle sensazioni corporee. Questa focalizzazione
sui sintomi potrebbe esasperare le sensazioni spiacevoli ed è stata riscontrata un’associa-
zione con l’affaticamento (Ray et al., 1995).
Un riposo prolungato e l’evitamento dell’attività sono centrali nel ciclo di mante-
nimento dei sintomi e della disabilità. Sharpe et al. (1992) hanno trovato un’associa-
zione fra la compromissione funzionale e l’adattamento alla malattia in pazienti con
sindrome da affaticamento cronico. La maggior parte dei pazienti e delle loro famiglie,
ritengono il riposo una strategia di coping efficace perché, a breve termine, riduce i sin-
tomi. Tuttavia, a lungo termine la sintomatologia aumenta con esercizi sempre meno
impegnativi. In realtà, i pazienti spesso si accostano all’attività con un approccio “boom
and bust”, caratterizzato da periodi di riposo prolungato intervallati da esplosioni im-
provvisi di attività. Questo pattern è spesso guidato dalla noia, dalle aspettative perso-
nali o dalle pressioni sociali. In sostanza, l’attività è diventata dipendente dai sintomi e,
con il passare del tempo, questi prendono sempre più il sopravvento.
Le conseguenze fisiologiche a lungo termine dell’inattività sono deleterie. Molto
rapidamente, l’individuo non è più in forma e iniziare un’attività o un esercizio di-
venta sempre più difficile. Molti adolescenti sono coinvolti in pochissime attività e
387
Trudie Chalder
molti sviluppano routine di sonno disadattive, che li portano a stare svegli di notte e
dormire di giorno. Più a lungo persiste questo stato, più sicurezza si perde e il ritorno a
scuola full-time diventa sempre più scoraggiante. Nonostante le prove contrarie, molti
professionisti continuano a prescrivere il riposo. Il danno iatrogeno causato da questo
suggerimento è molto grave. Molte famiglie si confondono e si preoccupano a causa dei
suggerimenti contraddittori che ricevono. Gli interventi cognitivo comportamentali si
basano sul modello descritto. All’inizio vengono affrontate le risposte cognitive e com-
portamentali più ovvie, come la paura e l’evitamento. Una volta che è stata costruita
un’alleanza terapeutica e che si è sviluppata una certa fiducia, si possono trattare pro-
blematiche più complesse come il perfezionismo e il pensiero “bianco o nero”.
Valutazione
La valutazione dovrebbe includere non solo una descrizione dettagliata dei sin-
tomi ma anche, cosa più importante, un’analisi comportamentale dettagliata di ciò
che l’adolescente è in grado di fare a scuola, a casa, negli ambiti privati e sociali della
propria vita. La qualità e la quantità del sonno dovrebbero essere indagate. Si dovreb-
388
La sindrome da affaticamento cronico
Coinvolgimento
Coinvolgere il paziente e la famiglia nel trattamento e formare un’alleanza tera-
peutica è un processo continuo. Dall’inizio, si invita l’intera famiglia a presenziare, ma
è l’adolescente il focus principale. Il ragazzo deve arrivare ad assumersi la responsabilità
del proprio progresso facendo chiarezza sui legami per facilitare l’individuazione di
tutti i membri della famiglia.
Nel corso della valutazione, diversi membri della famiglia, che temono di non
essere creduti, sono convinti che il terapeuta ritenga che il problema è “tutto menta-
le”. Nelle prime fasi del trattamento, il terapeuta deve comunicare esplicitamente di
credere nella natura fisica e reale dei sintomi. Si dovrebbe fare attenzione al linguaggio
che si utilizza. Probabilmente è meglio evitare il termine “psicologico” – primo, perché
è un termine vago che può significare cose differenti per persone diverse e, secondo,
perché potrebbe creare una situazione di disaccordo inutile fra la famiglia e il terapeuta.
I sintomi del paziente sono reali e può essere di aiuto affermarlo più volte. Piuttosto
che discutere sulla natura fisica o psicologica del problema – una scissione mente/corpo
inutile in qualunque forma di malattia – è molto più proficuo dirigere la discussione
su come gestire al meglio il problema, tenendo conto dei fattori fisiologici, comporta-
mentali e cognitivi.
389
Trudie Chalder
per far venire alla luce le problematiche. Queste vengono utilizzate per fissare gli obiet-
tivi, cercando di stabilire un livello di attività costante ogni giorno, indipendentemente
dai sintomi. Mano a mano che il paziente acquista maggiore sicurezza, la quantità di
attività aumenta gradualmente, mentre diminuisce il tempo dedicato al riposo. Potreb-
be essere utile evidenziare che il riposo è utile nei casi di malattia acuta, ma alla lunga,
l’effetto ristoratore finisce. Si cerca inoltre di ristabilire il prima possibile una corretta
routine del sonno.
Queste motivazioni logiche possono essere nuovamente discusse molte volte nel
corso del trattamento. Si può chiedere al paziente di descrivere, con parole proprie, i
meccanismi d’azione dell’intervento, per verificare se sono stati compresi i potenziali
benefici del trattamento e per discutere qualunque dubbio o preoccupazione. Prima
di iniziare, è importante che l’intera famiglia abbia chiaro cosa la aspetta. Lo scopo
del trattamento dovrebbe essere concordato e negoziato esplicitamente. Questi bene-
fici vengono meglio definiti in termini di traguardi specifici e realistici, oppure come
obiettivi su cui si lavora gradualmente e che dipendono dai bisogni individuali del
bambino.
Struttura
Le famiglie si incontrano due volte al mese per un totale di 15 sedute di tratta-
mento uno-a-uno. I follow-up vengono condotti a 3 e 6 mesi e poi dopo 1 anno,.per
monitorare il progresso e gestire qualunque problematica residua. Si offrono materiali
scritti e testi di auto-aiuto (Chalder, 1995; Chalder e Hussain, 2002) per integrare
l’interazione verbale. Si somministrano dei questionari per valutare il grado di affati-
camento e di disabilità prima e dopo il trattamento e al follow-up. All’inizio del trat-
tamento, si stabiliscono degli obiettivi a lungo termine affinché tutti abbiano chiaro
che si lavorerà su obiettivi condivisi. In ogni seduta successiva, si definiscono invece
gli obiettivi a breve termine. I pazienti registrano le attività e la tipologia e i momenti
di riposo per tutto il corso del trattamento in modo da poter controllare il progresso e
discutere i problemi.
A volte, sia il ragazzo sia altri membri della famiglia devono eseguire dei compiti a
casa. Per esempio, la mamma potrebbe svegliare il figlio a una determinata e fargli una
tazza di tè una volta che si è vestito ed è pronto per la colazione, mentre il ragazzo po-
trebbe assumersi la responsabilità di mettere la sveglia e di alzarsi all’orario prestabilito.
Le madri potrebbero decidere di non parlare dei sintomi dei propri figli per più di 5
minuti al giorno.
Si anticipano i problemi e si utilizzano strategie di problem-solving per promuovere
un coping efficace. Le discussioni nel corso delle sedute spesso si concentrano sull’ana-
lisi delle problematiche della famiglia che potrebbero ostacolare il cambiamento del
paziente. Si utilizzano una serie di tecniche per facilitare il cambiamento. Attraverso
l’interrogazione socratica si indagano specifiche preoccupazioni o difficoltà. Il terapeu-
ta potrebbe avere la necessità di rallentare l’aspettativa di successo. Una minore pressio-
ne verso il risultato, da parte del paziente e del terapeuta, spesso genera un progresso
390
La sindrome da affaticamento cronico
più veloce. È utile premiare il ragazzo quando raggiunge degli obiettivi. I genitori
dovrebbero essere incoraggiati a elogiare il proprio bambino o a stabilire ricompense
specifiche nel corso della terapia per i risultati conseguiti.
391
Trudie Chalder
bero aver ricevuto informazioni scorrette o ingannevoli sulla propria malattia. Le spie-
gazioni sugli effetti fisiologici dell’inattività possono aiutare i pazienti a capire la logica
della pianificazione delle attività, mentre dimostrare l’effetto del focus sui sintomi può
aiutare i pazienti a utilizzare attività divertenti per distrarsi.
Dare informazioni per l’auto-aiuto può essere utile in vari stadi del trattamento. In
realtà, le convinzioni disadattive relative agli effetti dannosi dell’esercizio diminuiranno
mano a mano che il paziente diventa più attivo e sicuro. Tuttavia, alcuni avranno biso-
gno di una terapia cognitiva più strutturata e tradizionale (vedere Beck et al., 1979). I
pensieri negativi specifici, per esempio “mi danneggerò i muscoli se li esercito troppo”,
dovrebbero essere registrati in un diario. I pazienti dovrebbero essere incoraggiati dare
interpretazioni alternative e meno catastrofiche degli eventi. Anche queste dovrebbero
essere registrate nel diario e discusse nelle sedute. In alcuni pazienti, gli assunti cogni-
tivi fondamentali e le convinzioni disfunzionali relative al perfezionismo o al valore
individuale possono essere trattate nella maniera tradizionale, utilizzando la terapia co-
gnitiva di Beck (Beck et al., 1979). Ora sono disponibili eccellenti manuali per pazienti
e terapeuti (Greenberger e Padesky, 1996).
392
La sindrome da affaticamento cronico
non sempre coincide con quello dei genitori. Riconoscere questo cambiamento può
essere utile.
La scuola
Negoziare il rientro a scuola può essere difficile. Realisticamente, molti adole-
scenti si presentano al trattamento solo quando mancano pochi mesi ala fine della
scuola a 16 anni. Comprensibilmente, il paziente potrebbe avere delle riserve sul
tornare a scuola alla fine di un anno accademico. Non esiste nessuna regola sulla
negoziazione di questo aspetto del trattamento. Da una prospettiva terapeutica, si
devono considerare numerosi fattori: il livello di paura del paziente, il grado di disa-
bilità; l’età; il periodo dell’anno; i piani per il futuro; la visione che si ha della scuola e
il grado di supporto disponibile. Gli obiettivi a lungo termine di solito implicano un
ritorno a scuola o al lavoro, se l’età è appropriata. Alcuni adolescenti frequenteranno
la scuola part-time, alcuni avranno un insegnante privato, altri lavoreranno a casa
indipendentemente e in collegamento con la scuola, mentre altri non riceveranno
alcuna forma di educazione. Tutti questi fattori devono essere attentamente consi-
derati. Di solito è utile un accordo fra la scuola e l’insegnante privato per assicurarsi
che tutti i personaggi coinvolti siano supportivi e che lavorino per gli stessi obiettivi.
Il bambino potrebbe avere bisogno di un notevole incoraggiamento, soprattutto agli
stadi iniziali del cambiamento.
Anche se il ritorno alla scuola full-time potrebbe richiedere diversi mesi, è impor-
tante considerare le conseguenze educative e sociali della mancata frequenza. Chia-
ramente, più un bambino non frequenta, più perde sicurezza e resta indietro con il
lavoro, più scoraggiante sarà il rientro. Può essere utile indagare la possibilità di ridurre
il numero di esami e verifiche. L’analisi del perfezionismo e del pensiero tutto o nulla
può essere particolarmente utile in relazione a problematiche scolastiche.
393
Trudie Chalder
ventare giocoso ed espansivo; in una famiglia con uno stile restrittivo, le comunicazioni
saranno più rade (Minuchin, 1974).
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, non è necessario mettere in discus-
sione direttamente le convinzioni “individuali” o “familiari” sull’eziologia della malat-
tia (Deale et al., 1998).Piuttosto, si possono esaminare i pensieri specifici di preoccu-
pazione relativa all’attività e all’esercizio e, se è il caso, modificarli. Associarsi e adattarsi
alle convinzioni della famiglia è molto più vantaggioso ai fini del cambiamento. Tutti
i membri della famiglia devono essere supportati dal trattamento e può essere utile
discutere i differenti modi di affrontare la malattia, senza biasimare nessuno.
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Trudie Chalder
396
La sindrome da affaticamento cronico
397
CAPITOLO 23
I bambini e gli adolescenti spesso si presentano in terapia per una serie di diffi-
coltà cognitive, comportamentali ed emotive. Di frequente, tutte queste si associano o
derivano o contribuiscono a problemi nelle relazioni interpersonali. Di conseguenza,
il miglioramento delle interazioni sociali è spesso un obiettivo degli interventi psicolo-
gici per i bambini e gli adolescenti. La competenza sociale viene qui definita come la
capacità di ottenere risultati positivi dalle relazioni con gli altri. Ci sono molte ragioni
del perché un bambino potrebbe mostrare deficit nelle competenze sociali e, pertanto,
sperimentare problemi interpersonali. La sezione iniziale di delinea alcuni fattori cau-
sali e di mantenimento ed esamina vari approcci per migliorare la competenza sociale
nei bambini. Poi si analizzano l’efficacia i punti di forza e limiti del training sulle com-
petenze sociali. Infine, si discutono gli strumenti per la misurazione delle competenze
sociali e gli aspetti pratici del training.
399
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
L’elenco nella Tabella 23.1 non è esaustivo, ma evidenzia alcuni dei fattori causali e
di mantenimento più comunemente associati all’inadeguatezza sociale nei bambini.
Deficit di performance
1. Modelli di comportamento non appropriato da parte di altri significativi (per es. genito-
ri, coetanei, ecc.)
2. Rinforzo di comportamenti sociali non adeguati o non appropriati
3. Punizione o mancanza di rinforzo di comportamenti sociali appropriati
4. Assenza di opportunità per acquisire e praticare le competenze sociali
400
I problemi interpersonali nei bambini
401
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
Il tipo di misura utilizzata per valutare il risultato sembra avere effetti differenziali
sui dati di efficacia del SST. Per esempio, Schneider (1992) ha riscontrato che gli studi
che utilizzano valutazioni attraverso il role-play mostrano una grandezza dell’effetto
significativamente maggiore rispetto agli studi che utilizzano questionari compilati dai
bambini o dai coetanei, e che le misure compilate dagli insegnanti mostravano una
grandezza dell’effetto più bassa rispetto a tutti gli altri strumenti. Beelman et al. (1994)
hanno trovato una grandezza dell’effetto maggiore per misure osservative, di base so-
cio-cognitiva e comportamentale, rispetto a misure sociometriche, compilate dai coe-
tanei, dai genitori o dagli insegnanti. Kavale et al. (1997) hanno verificato che i report
degli insegnanti producevano una grandezza dell’effetto maggiore rispetto a quelli dei
coetanei e del bambino, che a loro volta producevano una grandezza dell’effetto mag-
giore delle misure sperimentali o dei genitori. Nel caso di disegni su singoli soggetti, il
SST sembra essere più efficace quando si utilizzano misure interazionali e meno effi-
cace quando si utilizzano misure comunicative (Kavale et al., 1997). In sintesi, mentre
le varie meta-analisi suggeriscono effetti differenziali sulla base delle misure utilizzate,
non si sa ancora bene quali siano precisamente questi effetti.
L’efficacia del SST varia inoltre in funzione della tipologia di programma utiliz-
zato. Schneider (1992) ha riscontrato che gli studi che utilizzano il modelling e il
coaching mostravano una grandezza dell’effetto significativamente più alta degli studi
che utilizzavano programmi socio-cognitivi o “con tecniche multiple”. Similmente, in
una precedente rassegna qualitativa degli studi sul SST cognitivo comportamentale,
Gresham (1985) ha concluso che, mentre il coaching e il modelling erano strategie ef-
ficaci, le auto-istruzioni e le strategie di problem-solving sociale avevano effetti meno
significativi.
Tuttavia, sembrerebbe che ci sia un’interazione fra le misure di risultato, il conte-
nuto del programma e l’efficacia del SST. Beelman et al. (1994) hanno trovato che tut-
402
I problemi interpersonali nei bambini
Età
Tipologia di problematiche
La natura delle problematiche del bambino sembra influenzare gli esiti delle pro-
cedure di SST. Schneider (1992) ha trovato che il SST era più efficace con i bambini
che presentavano ritiro sociale che con quelli antipatici, aggressivi, “atipici” o “diversi”.
Similmente, Kavale et al. (1997) hanno trovato che il SST era più utile per i bambini
ansiosi e meno per quelli aggressivi. Beelman et al. (1994) hanno trovato che per i
bambini a rischio (ossia quelli che presentano deprivazione sociale e/o che si confron-
tano con eventi di vita critici) i vantaggi sono massimi, mentre i bambini con distur-
bi esteriorizzati e interiorizzati ne beneficiavano moderatamente, mentre i bambini
“normali” e quelli con ritardo mentale meno di tutti. Similmente, Kavale et al. (1997)
hanno riscontrato che il SST era più efficace con i delinquenti, moderatamente efficace
con i bambini con disturbi emotivi e comportamentali e praticamente inefficace con i
bambini autistici.
Deficit e distorsioni nelle competenze sociali si presentano frequentemente in tutti
i disturbi emotivi e comportamentali, così come nelle difficoltà di apprendimento. Gli
interventi per migliorare le competenze sociali in altri disturbi (e i punti a favore che
ne supportano l’utilizzo), quello della condotta, depressivo e da deficit dell’attenzione
403
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
e iperattività, vengono discussi nei rispettivi capitoli di questo volume. Qui, la discus-
sione è limitata all’applicazione del SST con i bambini rifiutati e con quelli con fobia
sociale, condizioni in cui i deficit e le distorsioni sociali sono centrali e possono non
essere accompagnate da altri disturbi.
I bambini rifiutati
I bambini che vengono rifiutati dai propri coetanei mostrano livelli più bassi di
competenze sociali e un numero maggiore di comportamenti problematici se paragonati
con i bambini della popolazione normale (Frentz et al., 1991; Stuart et al., 1991). Sem-
brerebbe logico, quindi, che addestrare i bambini rifiutati nelle competenze sociali do-
vrebbe migliorare questa condizione di rifiuto. Uno studio precedente di Tiffen e Spence
(1986) ha suggerito che il SST non era efficace nel produrre benefici a lungo termine
con bambini di 7-11 anni rifiutati o isolati. Tuttavia, studi più recenti sembrano sup-
portare l’efficacia del SST con questa popolazione. Per esempio, Gumpel e Frank (1999)
hanno trovato che un programma di SST condotto con due bambini del sesto anno e
due bambini dell’asilo accresceva il numero di interazioni sociali positive mostrate da
questi bambini dopo il trattamento e a 3 settimane di follow-up. Similmente, uno studio
condotto da Berner et al. (2001) con ragazze del quinto e sesto anno con pochi amici
ha trovato che, dopo il SST, le ragazze passavano meno tempo da sole, più tempo nelle
conversazioni e più tempo nelle interazioni con gli altri rispetto al gruppo di controllo.
Cosa forse non sorprendente, i bambini con comportamenti esteriorizzati sono
anche quelli che spesso vengono rifiutati. Uno studio interessante di Lochman et al.
(1993) ha cercato di distinguere fra questi due gruppi indagando l’efficacia relativa
di un programma di SST su bambini aggressivi rifiutati e su bambini non aggressivi
rifiutati. I risultati dello studio suggeriscono che il SST nei bambini aggressivi miglio-
rava i comportamenti prosociali e riduceva sia il livello di aggressività sia la situazione
di rifiuto, ma non apportava miglioramenti al gruppo dei bambini non aggressivi.
Anche se i risultati di questo studio devono essere replicati, potrebbe essere importante
verificare la presenza/assenza di aggressività nei bambini rifiutati prima di applicare un
SST. I bambini non aggressivi potrebbero richiedere un approccio alternativo e questo
sottolinea la necessità di ricerche ulteriori sui fattori causali del rifiuto fra coetanei.
Fobia sociale
Per definizione, la fobia sociale implica deficit nel funzionamento sociale. Tuttavia,
è sempre presente una controversia nella letteratura sui bambini e sugli adulti e cioè,
se le aspettative e le valutazioni negative sulla performance sociale siano conseguenza di
una storia di scarsa performance (ossia deficit di competenze sociali) e di esisti negativi
in situazioni sociali. oppure se rappresentino una focalizzazione su e un’esagerazione
delle caratteristiche del proprio comportamento. Nella rassegna sulla letteratura sul-
l’ansia sociale negli adulti, Rapee e Heimberg (1997) hanno concluso che affermare
con certezza che gli adulti con fobia sociale mostrassero deficit di competenze sociali.
404
I problemi interpersonali nei bambini
Tuttavia pochissimi studi hanno indagato questa problematica nei bambini con fobia
sociale.
Spence et al. (1999) hanno fornito prove a sostegno dell’ipotesi secondo cui i bam-
bini con fobia sociale certamente hanno deficit di competenze sociali. Se paragonati
con bambini non ansiosi, quelli con fobia sociale si giudicavano meno competenti e
abili in misure di self-report e lo stesso giudizio era presente nei report dei genitori. I ra-
gazzi inoltre sceglievano risposte meno assertive. Ancora più convincenti sono le prove
delle osservazioni comportamentali in contesti naturali o di role-play. Nello specifico,
se paragonati ai bambini non ansiosi, i bambini con fobia sociale davano inizio e par-
tecipavano a un numero minore di interazioni sociali nel contesto scolastico e mostra-
vano una lunghezza di risposta minore in compiti di role-play. Inoltre, le osservazioni
naturalistiche suggeriscono anche che i bambini con fobia sociale avevano significati-
vamente minori probabilità rispetto ai coetanei non ansiosi di ricevere risposte positive
dai coetanei.
Le implicazioni di questo studio sono importanti per il trattamento della fobia
sociale nei bambini. Le tecniche di esposizione e di “sfida cognitiva” vengono utiliz-
zate frequentemente con efficacia per molti tipi di ansia nei bambini e negli adulti.
Tuttavia, non avrebbe alcun beneficio terapeutico incoraggiare i bambini a partecipare
a situazioni sociali (esposizione) o mettere in discussione i pensieri relativi all’abilità
sociale se in realtà essi presentano dei deficit di competenze cognitive come Spence et
al. (1999) suggeriscono nel proprio studio. Infatti, l’esposizione e il conseguente falli-
mento in situazioni sociali probabilmente esaspera l’ansia relativa alle interazioni con
l’altro. Pertanto sembrerebbe che il SST sia indicato come componente del trattamento
della fobia sociale.
A oggi sono stati condotti pochi studi sul SST con bambini con fobia sociale. Bei-
del et al. (2000) hanno paragonato l’utilità della Social Effectiveness Therapy for Children
(SET-C) con un intervento aspecifico attivo, su 67 bambini con fobia sociale fra gli 8
e i 12 anni. La SET-C prevedeva una formazione dei genitori e del bambino, il SST,
una generalizzazione di quanto appreso ai coetanei e procedure di esposizione in vivo.
I risultati indicavano che in confronto ai bambini a cui veniva applicato un intervento
non specifico, quelli nella condizione SET-C miglioravano significativamente nelle abi-
lità e nelle interazioni sociali e mostravano una riduzione della paura sociale, dell’ansia
e della psicopatologia. Cosa più importante, forse, in confronto al 5% del gruppo di
trattamento aspecifico, il 67% dei partecipanti al gruppo SET-C, dopo il trattamento,
non soddisfaceva più i criteri per una diagnosi di fobia sociale.
Spence et al. (2000) hanno anche esaminato i benefici del SST nel trattamento di
50 bambini con fobia sociale fra i 7 e i 14 anni, utilizzando il programma di SST di
Spence (1995) presentato nei dettagli in seguito. I risultati indicano riduzioni significa-
tive nell’ansia sociale e miglioramenti nelle competenze sociali. La riduzione nell’ansia
sociale e generale era statisticamente e clinicamente significativa, con una media del
66% di bambini nella condizione di trattamento che non avevano più una diagnosi
clinica in seguito all’applicazione del programma. Complessivamente, la ricerca limi-
tata a oggi suggerisce non solo che i bambini con fobia sociale mostrano deficit di
competenze sociali, ma anche che il SST è efficace nel ridurre l’ansia sociale per molti
di questi bambini.
405
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
Sintesi
In risposta alla domanda “il SST è efficace?”, la ricerca ha prodotto risultati mol-
to discordanti. Complessivamente, le meta-analisi indicano effetti da lievi a moderati
che variano, senza coerenza, in funzione delle misure utilizzate, della tipologia di
programma e dell’età. Tuttavia una altro fattore che si è rivelato causa di variazioni
nell’efficacia del SST sono i problemi che il bambino presenta. Nel complesso, si
potrebbe concludere che, anche se il SST si è rivelato efficace in molti studi, i dati
sono conflittuali. In particolare, i risultati non sono consistenti a lungo termine su
indicatori di efficacia sociale, fra cui il miglioramento nelle relazioni sociali. La sezio-
ne seguente esamina alcune possibili ragioni del perché il SST non è stato all’altezza
delle aspettative.
Sembrerebbe, quindi, che i tentativi da parte dei ricercatori clinici di lavorare al-
l’interno dei confini delle procedure sperimentali, fornendo ai bambini programmi
standardizzati non adattati ai bisogni individuali, abbia diminuito l’efficacia del SST.
406
I problemi interpersonali nei bambini
407
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
petenze comportamentali, nei pensieri, nei modelli, nella gestione della quotidianità
o nel problem-solving. È stato anche suggerito che queste difficoltà possono essere di
acquisizione o di performance. Il ruolo iniziale del terapeuta, quindi, è condurre una
valutazione approfondita che indaghi ciascuno di questi ambiti per determinare pre-
cisamente quali siano le difficoltà del bambino. In questo modo, si può sviluppare un
piano di trattamento personalizzato.
Percezione sociale
Le competenze sociali relative alla percezione sociale sono forse quelle più basilari,
da cui le altre più complesse. Per esempio, se un bambino non capisce i segnali sociali
e fraintende spesso le informazioni, probabilmente non sarà in grado di dare inizio, di
mantenere e di porre fine a una conversazione in modo adeguato. Ci sono pochissi-
mi strumenti di misura specifici per la percezione sociale. Spence (1995) utilizza una
serie di fotografie che ritraggono differenti espressioni facciali e posture, di bambini e
adulti, per verificare l’interpretazione che il bambino dà di questi segnali sociali. Anche
la Child and Adolescent Social Perception Measure (CASP; Magill Evans et al., 1995), la
Social Perspective-Taking Task (Chandler, 1973), lo Affective Situation Test for Empathy
(Feshbach e Roe, 1968) e il Borke Test (Borke, 1971) potrebbero essere strumenti nella
valutazione della percezione sociale.
Le osservazioni naturali sono una delle forme più valide di valutazione delle com-
petenze di comportamento sociale (Merrell, 2001). I metodi osservativi pubblicati sono
pochi, anche se il sistema di osservazione dei comportamenti PLAY (Farmer, Dougan
e Kaszuba, 1999), il Peer Social Behaviour Code (PSBC) del Systematic Screening for
Behaviour Disorders (SSBD; Walker e Severson, 1992) e il sistema Furman e Masters
(1980) sono tutti esempi a cui il lettore potrebbe fare riferimento. Anche Spence et al.
(1999) hanno presentato un metodo per l’osservazione naturale dei bambini a scuola.
Per alcuni dei sistemi su menzionati, le osservazioni vengono codificate “in diretta”,
mentre altri sistemi hanno utilizzato videoregistrazioni che vengono codificate nello
studio o in laboratorio.
Nell’esperienza degli autori, anche se forniscono un insieme di informazioni im-
portantissime, le osservazioni naturali richiedono molto tempo e sono estremamente
408
I problemi interpersonali nei bambini
Le interviste
Le interviste non dovrebbero essere utilizzate da sole nella valutazione delle com-
petenze sociali. Tuttavia, permettono al terapeuta di ottenere informazioni importanti
dai genitori, dal bambino o dagli insegnati, relative a diversi aspetti dell’ambiente socia-
le del bambino. Quando si intervistano i genitori, i clinici dovrebbero porre sulle rela-
zioni che il bambino ha con altri membri della famiglia e con i coetanei al di fuori della
scuola, sulle relazioni amorose (in adolescenza), sul tipo di vita sociale che i genitori e
i membri della famiglia conducono, sulla relazione con i compagni e gli insegnanti a
scuola e sulle generali abilità di conversazione.
Le interviste dovrebbero dare anche informazioni di background relative alla scuo-
la, fra cui il successo accademico e la partecipazione alle attività scolastiche. Infine, l’in-
tervista con il bambino, dovrebbe essere centrata sulla discussione delle relazioni con
la famiglia, con gli amici o il partner, sul contatto con i coetanei dentro e fuori scuola,
sulle relazioni con gli insegnanti e su altre problematiche generali come la solitudine,
409
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
Test sociometrici
Pensieri
410
I problemi interpersonali nei bambini
Problem-Solving sociale
Sintesi
Il terapeuta deve valutare tutti i fattori che potenzialmente concorrono alle dif-
ficoltà interpersonali del bambino, fra cui la percezione sociale, le competenze di
comportamento sociale, i pensieri, il modelling e il contingency management e il pro-
blem-solving interpersonale. Anche i comportamenti alternativi e le problematiche
contestuali devono essere esaminati attentamente. Solo quando tutte queste variabi-
li vengono indagate con attenzione si può costruire una formulazione accurata del
caso.
411
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
Informazione e discussione
412
I problemi interpersonali nei bambini
Modelling
Ripasso comportamentale
413
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
Come già indicato, un adattamento degli interventi al singolo richiede che la lun-
ghezza e l’intensità del programma vengano adattati ai bisogni particolari del bambino.
Per assicurare che il programma non sia né troppo corto né troppo lungo, è necessario
un monitoraggio frequente dei progressi del bambino. A questo scopo, Gresham (1997,
1998) evidenzia la necessità di utilizzare misure di cambiamento significative per assicu-
rare la validità sociale – ossia, il grado di cambiamento evidente non dovrebbe essere solo
statisticamente significativo, ma dovrebbe anche fare la differenza nella vita personale
del bambino ed essere evidente per i genitori, gli insegnanti e i coetanei (Sechrest et al.,
1996).Se questi cambiamenti non sono evidenti, l’utilità del programma è discutibile.
414
I problemi interpersonali nei bambini
Con i bambini più piccoli, si potrebbe utilizzare una versione semplificata della
“sfida cognitiva”. Si chiede semplicemente al bambino di identificare i pensieri più
costruttivi e “adattivi” che potrebbero sostituire quelli disadattivi in una particolare
situazione. I pensieri adattivi, in questo contesto, vengono definiti come quei pensieri
che hanno maggiori probabilità di portare a esiti più positivi in termini di emozioni
e comportamenti che riducono la difficoltà di una situazione. Pertanto, si insegna ai
bambini a sostituire i propri pensieri disadattivi con altri più adattivi che hanno più
probabilità di portare a esisti positivi in una situazione critica. I bambini più grandi
sono in grado di comprendere un approccio più complesso alla ristrutturazione co-
415
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
gnitiva in linea con il lavoro di Beck (1967). Si possono fare esempi di forme comuni
di pensieri disadattivi, fra cui la tendenza a catastrofizzare, a personalizzare e a iper-
generalizzare. Si possono anche tentare degli esperimenti per mostrare la razionalità e
l’evidenza di specifici pensieri e attribuzioni in una particolare situazione.
Fase 1: Individuazione
Nel corso della prima fase, si insegna ai bambini a: (1) fermarsi prima di agire per
ridurre le risposte impulsive ed emotive e (2) identificare il problema sociale.
Fase 2: Investigare
Nel corso della seconda fase, si insegna ai bambini a: (1) rilassarsi per ridurre l’an-
sia, la rabbia, l’impulsività, che frequentemente gli impediscono di utilizzare le proprie
competenze sociali; (2) sviscerare tutte le soluzioni possibili, indipendentemente dal-
l’utilità o dalla valenza; (3) valutare su un piano logico le conseguenze positive e negati-
ve di ciascuna soluzione; (4) scegliere la soluzione migliore sulla base delle conseguenze
e (5) cercare e sostituire i pensieri disadattivi (solo gli adolescenti).
Fase 3: Risolvere
Sintesi
Una volta che si è condotta la valutazione, ci sono una serie di procedure utili per
trattare le difficoltà del bambino. I deficit di percezione sociale dovrebbero essere af-
416
I problemi interpersonali nei bambini
frontati per primi, dal momento che rappresentano il livello più basilare di competenze
sociali. Le difficoltà di comportamento sociale, in particolare i deficit nelle microcom-
petenze, dovrebbero essere affrontati subito dopo, dal momento che rappresentano il
secondo livello della scala di abilità sociale. Per assicurarsi che il SST sia ottimale, si
dovrebbero includere nel programma tecniche come la discussione delle abilità sociali,
il modelling, il ripasso comportamentale, il rinforzo, il feedback, il training al di fuori del
contesto terapeutico e il monitoraggio dei progressi del bambino. I problemi associati
alla presenza di pensieri disadattivi dovrebbero essere corretti utilizzando approcci di
ristrutturazione cognitiva. Infine, esistono una serie di programmi efficaci per le com-
petenze di problem-solving sociale che insegnano modalità costruttive di affrontare le
sfide della vita.
Conclusioni
Una serie di fattori causali e di mantenimento potrebbero contribuire alle dif-
ficoltà di interazione sociale di un bambino. I deficit nella percezione sociale, nelle
competenze di comportamento sociale, nel problem-solving, i pensieri disadattivi, le
influenze di modelli inadeguati e una cattiva gestione della quotidianità potrebbe-
ro tutti contribuire alle difficoltà di interazione. Le visioni contemporanee del SST
adottano un approccio onnicomprensivo, suggerendo che l’intervento deve integrare
una serie di strategie se vuole modificare un ampio spettro di fattori causali e di man-
tenimento.
Le numerose rassegne sull’efficacia del SST con i bambini hanno indicato una
grandezza dell’effetto da minima a moderata. Tuttavia, queste rassegne sono spesso
incoerenti nelle proprie conclusioni, che sembrano variare in funzione della misura di
risultato utilizzata, del tipo di programma applicato, dell’età del bambino e del tipo di
difficoltà presenti. Su istigazione dei risultati certamente non ottimali mostrati dagli
studi sul SST, alcuni autori hanno ipotizzato alcune possibili ragioni di questa scarsa
efficacia. Gli errori nell’adattamento degli interventi al singolo bambino in termini di
contenuto del programma, lunghezza e intensità, rappresentano una possibile ragione
dell’inefficacia del SST. Una seconda ragione è che gli studi sul SST falliscono nella
generalizzazione topografica e funzionale.
Il primo passo per contrastare queste difficoltà e per migliorare l’efficacia del SST
è condurre una valutazione approfondita. Il terapeuta dovrebbe condurre un proces-
so diagnostico molto accurato per determinare il possibile contributo di deficit nella
percezione sociale, nelle competenze di comportamento sociale e di problem-solving
sociale, in aggiunta ai pensieri disadattivi e agli effetti di un modelling negativo e di un
contingency management disfunzionale. Il contenuto degli interventi quindi è guidato
dalle informazioni derivate dalla valutazione. Si può costruire una strategia di tratta-
mento per le generalizzazione delle competenze e adattata ai bisogni del singolo indivi-
duo includendo una serie di tecniche disponibili.
417
Caroline L. Donovan e Susan H. Spence
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CAPITOLO 24
Patrick McGrath
Dalhousie University, Halifax, Nova Scotia, Canada
Julie Goodman
Hotel Dieu Hospital, Kingston, Ontario, Canada
Introduzione
L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore ha adottato una definizione
standard del dolore: “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata con un
danno reale o potenziale ai tessuti o vissuta in relazione a questo danno” (Merskey e
Bogduk, 1994, p. 210). La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è stata utilizzata
per influenzare la presunta causa del dolore (di solito quando è collegata allo stress) e
per migliorare gli aspetti sensoriali ed emotivi del dolore stesso. In questo capitolo, si
valuteranno le potenzialità della CBT in relazione a entrambi questi elementi in speci-
fiche esperienze dolorose.
Numerosi vissuti di dolore, nei bambini e negli adolescenti, possono essere affron-
tati con la CBT. Tuttavia, la discussione si focalizzerà su quelli che sono i problemi più
comuni e per i quali esiste il maggior numero di ricerche e di esperienze cliniche. Que-
sti sono: il dolore dovuto a procedure mediche, il mal di testa, il dolore addominale
ricorrente e la fibromialgia. Le strategie che si utilizzano per trattare questi problemi
possono anche essere applicate a neuropatie, anemia falciforme, sindrome da intestino
irritabile e neoplasie. Tuttavia, le ricerche sul dolore derivante da specifiche malattie
sono poche.
421
Patrick McGrath e Julie Goodman
La distrazione
La teoria alla base dell’utilizzo della distrazione è che questa riduce l’attenzione
del bambino allo stimolo doloroso. Ossia resta una disponibilità attentiva limitata
per la sensazione dolorosa: se l’attenzione si focalizza altrove, il dolore si sente meno.
Per essere efficaci, le tecniche di distrazione devono essere accattivanti.
Caso esemplificativo
James è un bambino di 3 anni con diabete che deve fare ripetute punture sulle
dita, fino a quattro volte al giorno, per analizzare il tasso di zucchero nel sangue e
422
Il dolore fisico nell’infanzia
Questo programma è stato efficace nel ridurre i problemi che si verificavano dopo
il prelievo sul dito, ma servivano ancora 10 minuti a puntura. Gradualmente, per le
2 settimane seguenti, le punture sul dito divennero per James sempre più prevedibili,
quasi una routine. Non aveva più paura degli “attacchi improvvisi” e il tutto divenne
meno oneroso. La madre a volte dimenticava la ricompensa o la distrazione del video.
Due mesi dopo, il problema si ripresentò di nuovo e si applicò nuovamente il program-
ma per altre due settimane.
Come suggerisce questa storia, la distrazione spesso viene incorporata in altri
metodi comportamentali. Per esempio, lasciar presagire a James ciò che sta per suc-
cedere e quando, riduceva l’ansia anticipatoria. Inoltre, la distrazione si combinava
con una ricompensa positiva immediata e tangibile (il gelato) e con un feedback
verbale positivo indipendentemente dal fatto che James piangesse. I pianti venivano
ignorati, non generavano rimproveri né eccessiva compassione. Cohen et al. (1999)
hanno trovato che la distrazione era più efficace dell’assenza di trattamento o di una
crema anestetica locale, in una serie di tre iniezioni di vaccinazione per un periodo di
6 mesi. Per procedure più lunghe e più invasive, la distrazione può essere combinata
con la crema anestetica locale che contiene lidocaina e prilocaina (Halperin et al.,
1989).
La ricerca che esamina l’utilizzo della distrazione ha mostrato una grandezza del-
l’effetto variabile. Per esempio, Fowler-Kerry e Lander (1987) hanno trovato una gran-
dezza dell’effetto bassa (d = 0.39), quando si utilizzava la musica per ridurre il dolore
riferito in 200 bambini di 4.5-6.5 anni che ricevevano un vaccino intramuscolo. Altri
studi hanno valutato l’utilizzo della distrazione nel corso di un’endovena. Vessey et al.
423
Patrick McGrath e Julie Goodman
(1994) hanno trovato una grandezza dell’effetto media (d = 0.65), quando si utilizzava
un caleidoscopio per ridurre il dolore in 100 bambini fra i 3 e gli 11 anni che facevano
un’endovena. Arts et al. (1994) non hanno trovato una grandezza dell’effetto significa-
tiva, quando si utilizzava la musica per ridurre il dolore in 180 ragazzi fra i 4-16 anni
che affrontavano un’endovena.
Insegnare ai bambini di 3-7 anni alcune strategie di coping, senza l’addestramento
di un adulto, sembra essere una metodologia insufficiente a ridurre lo stress (Cohen et
al., 2002). Potrebbe essere più efficace combinare l’insegnamento di strategie di coping
e l’addestramento.
Alcuni suggerimenti per assicurarsi una distrazione efficace sono:
Ipnosi
424
Il dolore fisico nell’infanzia
Caso esemplificativo
Mal di testa
I due tipi più comuni di mal di testa che i bambini e gli adolescenti mostrano sono
l’emicrania e la cefalea tensiva. La cefalea tensiva si presenta tipicamente con un dolore
sordo e insistente, spesso bilaterale, non aggravato dall’attività fisica, non accompagna-
to da vomito o nausea grave e generalmente meno forte dell’emicrania (Olesen et al.,
1988). L’emicrania è di diversi tipi, ma le più frequenti sono quella con l’aura e quella
senza aura, precedentemente note, come emicrania classica e emicrania comune. L’emi-
crania si presenta di solito con attacchi di dolore forte e pulsante, di solito unilaterale.
Sono frequenti nausea e vomito e il dolore peggiora con l’attività fisica. L’aura dell’emi-
crania è di solito di tipo visivo e si verifica circa una mezz’ora prima del mal di testa.
L’incidenza dei mal di testa, riscontrata in un campione di bambini di età scolare, è
la seguente: il 23-51% dei bambini riferiva episodi una volta al mese o più (Egermark-
Eriksson, 1982; Sillanpaa, 1983; Krisjansdottir e Wahlberg, 1993); il 7-22% riferiva
mal di testa non specifici più frequenti una volta a settimana o più (Egermark-Eriks-
son, 1982; Sillanpaa, 1983; Larsson, 1988; Krisjansdottir e Wahlberg, 1993); Una
proporzione più piccola, 2.5-6% riferisce mal di testa quasi giornalieri e circa lo 0.3-
1.2% ha mal di testa giornalmente (Egermark-Eriksson, 1982; Sillanpaa, 1983). Si
può notare un aumento molto marcato dei mal di testa con l’aumentare dell’età. Nei
bambini al di sotto dei 10 anni, il mal di testa è solitamente equidistribuito in entrambi
i sessi. Tuttavia, nell’adolescenza, la prevalenza del mal di testa aumenta nei maschi e
nelle femmine, ma generalmente di più nelle femmine, fino a che la preponderanza
425
Patrick McGrath e Julie Goodman
delle donne è molto marcata. Questa tendenza si mantiene nell’età adulta. Le impres-
sioni cliniche suggeriscono che c’è una tendenza secolare nell’aumento del mal di testa.
Questo è stato confermato da Sillanpaa e Anttila, che hanno condotto un’indagine di
follow-up a 20 anni in cui esaminavano i bambini nelle stesse scuole utilizzando gli
stessi strumenti (Sillanpaa e Anttila, 1996). Hanno riscontrato un aumento impressio-
nante nella prevalenza dell’emicrania, così come di mal di testa non ben specificati, in
un periodo di 20 anni. L’aumento maggiore è stato osservato in aree con elevata insta-
bilità scolastica. Gli autori suggeriscono che i cambiamenti nell’ambiente psicosociale
potrebbero spiegare questa tendenza.
Le motivazioni teoriche a sostegno della CBT per i bambini con mal di testa
ricorrenti sono la riduzione dello stress psicosociale che spesso innesca l’emicrania e la
riduzione o la prevenzione dello stato di disabilità causato dal mal di testa. Sono state
utilizzate tre tecniche principali: l’ipnosi, il rilassamento muscolare progressivo muscoli
e la ristrutturazione cognitiva. Tuttavia, anche se i mal di testa con cause patologiche
sono rari, prima di iniziare una CBT, un medico dovrebbe condurre un’anamnesi at-
tenta e un esame fisico accurato. I mal di testa bilaterali e i mal di testa che fanno
svegliare il bambino nella notte richiedono una valutazione particolarmente accurata
per escludere cause fisiche.
L’ipnosi
Esistono molte forme differenti di ipnosi. Tutte prevedono una focalizzazione del-
l’attenzione e di solito suggeriscono anche un rilassamento e una riduzione del dolore.
L’ipnosi a volte non è distinguibile da forme di training di rilassamento.
426
Il dolore fisico nell’infanzia
Caso esemplificativo
Kerry ha 15 anni e ha mal di testa ricorrenti che si verificano circa due volte a set-
timana da 2 anni. Sono iniziati subito dopo la comparsa del ciclo mestruale. Riferisce
di avere due tipi di mal di testa: uno “regolare” e l’altro “killer”. Il suo mal di testa “re-
golare” si verifica circa l’80% delle volte ed è una cefalea tensiva, mentre il mal di testa
“killer” è di tipo emicranico senza aura. Kerry di solito va a scuola quando ha il mal di
testa regolare, ma spesso torna a casa quando compare l’emicrania. La cefalea tensiva
di solito le causa difficoltà di concentrazione. Cerca di stare al passo con la scuola, ma
sente che potrebbe fare meglio se avesse meno mal di testa. Anche la madre ha sofferto
di cefalea tensiva e di emicrania alla stessa età. Kerry utilizza con moderazione il para-
cetamolo perché ha paura di diventare dipendente. Quando il dottore le ha suggerito di
andare da uno psicologo presso l’ospedale locale per il trattamento dei mal di testa, lei e
la famiglia erano riluttanti, dal momento che non credevano si trattasse di un problema
psicologico. Tuttavia, Kerry ha deciso di provare per poche sedute.
Il trattamento ha utilizzato una combinazione di procedure psicoeducative, trai-
ning di rilassamento, ipnosi e ristrutturazione cognitiva. Per Kerry la parte migliore del
trattamento era stato l’incontro con altre cinque ragazze che avevano lo stesso proble-
ma. Avevano appreso tutto sui mal di testa ed erano molto supportive e incoraggianti
l’una con l’altra nel fare gli esercizi e nella gestione dei propri mal di testa. Kerry imparò
a riconoscere le fonti di stress che innescavano con maggiore facilità il mal di testa. Que-
427
Patrick McGrath e Julie Goodman
sti erano: saltare i pasti (ossia non mangiare) e preoccuparsi per la scuola. Le piacevano
molto gli esercizi di rilassamento e trovò l’ipnosi e gli esercizi di immaginazione, diretti
dall’audioregistrazione, molto utili. Imparò anche a utilizzare una dose intera di para-
cetamolo o di ibuprofene non appena il mal di testa iniziava, piuttosto che aspettare il
momento in cui sarebbe diventato insopportabile. Dopo 12 settimane di programma,
le emicranie di Kerry si erano dimezzate in gravità e frequenza. Aveva eliminato quasi
del tutto la cefalea tensiva. Ha frequentato sedute di ripasso ogni 3 mesi per 1 anno.
Da sola, si era tenuta in contatto con altre tre ragazze del gruppo di trattamento. De-
scriveva il trattamento di gruppo un’esperienza molto positiva e utile.
La CBT dovrebbe essere combinata con incontri formativi sul mal di testa e, quan-
do è il caso, sull’utilizzo appropriato degli analgesici senza obbligo di prescrizione me-
dica (di solito paracetamolo/acetamminofenolo). Molti genitori sono cauti sull’utilizzo
del paracetamolo per il dolore nei bambini; il 15% teme l’abuso farmaci o la dipenden-
za e circa il 30% che lo sviluppo di una tolleranza al farmaco (Forward et al., 1996).
Di conseguenza, i genitori spesso ritardano la somministrazione del farmaco almeno a
un’ora dopo l’inizio del mal di testa (Forward et al., 1996). L’utilizzo precoce e aggres-
sivo degli analgesici da banco potrebbe ridurre il dolore del mal di testa grave.
Numerose prove controllate e randomizzate sono state condotte per valutare l’ef-
fetto della CBT sull’emicrania e la cefalea tensiva. Per esempio, Larsson e colleghi (ve-
dere Larsson e Melin, 1986; Larsson et al., 1987a, b; Larsson e Melin, 1988, 1989;
Larsson e Melin, 1990) hanno mostrato che il rilassamento insegnato a scuola, per
bambini con cefalea tensiva, era significativamente più efficace di una condizione di
controllo. Similmente, Richter et al. (1986) hanno dimostrato che un trattamento con
contatti ridotti con il terapeuta, in cui gli adolescenti utilizzavano un manuale e una
cassetta in combinazione con due appuntamenti e con le telefonate, era almeno altret-
tanto efficace dello stesso trattamento condotto dal terapeuta.
L’aggiunta di un breve modulo di parent-training, che si focalizza sull’insegnare ai
genitori a premiare i comportamenti di coping e a ignorare quelli da malato, potrebbe
accrescere l’efficacia della CBT diretta al bambino che soffre di mal di testa (Allen e
Shriver, 1998).
428
Il dolore fisico nell’infanzia
Caso esemplificativo
Fibromialgia
La fibromialgia è un disturbo reumatico non infiammatorio del tessuto molle, con
eziologia sconosciuta, caratterizzato da un fastidio insistente e diffuso, dolore e indolen-
zimento. Si nota solitamente la presenza di un numero elevato di tender points, identifi-
cati da un dolorimetro a pressione o dalla pressione del pollice. La fibromialgia si verifica
429
Patrick McGrath e Julie Goodman
sia da sola sia in congiunzione con altri disturbi reumatici. Coloro che ne soffrono hanno
anche riferito di avere disturbi del sonno, mal di testa, sindrome da intestino irritabile,
senso di intorpidimento e sensazioni soggettive di gonfiore. I criteri diagnostici standard
per la fibromialgia sono stati sviluppati dal Collegio Americano di Reumatologia (Re-
port of the Multicenter Criteria Committee, 1990) e dall’Associazione Internazionale
per lo Studio del Dolore (Merskey e Bogduk, 1994). La fibromialgia è un disturbo da
dolore cronico e la maggior parte degli adulti incontrati nelle cliniche di reumatologia,
che soffrono di fibromialgia, presentano un grado di disabilità significativo.
Sono state condotte pochissime ricerche sulla prevalenza, il corso naturale e il
trattamento della fibromialgia nei bambini e negli adolescenti. Malleson et al. (1992)
hanno riportato un grafico riassuntivo retrospettivo di bambini con dolore idiopatico,
muscolo-scheletrico che si presentavano a cliniche reumatologiche di terzo livello per
l’infanzia. La maggior parte dei bambini (35/40) con dolore diffuso soddisfaceva i cri-
teri diagnostici di Yunus e Masi (1989) per fibromialgia. Questi hanno riscontrato che
i bambini presentavano episodi ricorrenti e molti di loro avevano comorbidità con di-
sturbi psicologici. Un recente studio epidemiologico (Buskila et al., 1993) ha studiato
338 bambini sani d’Israele in una sola scuola, fra i 9 e i 15 anni, e hanno trovato che il
6.2% soffriva di fibromialgia sulla base dei criteri del Collegio Americano di Reumato-
logia (Report of Multicenter Criteria Committee, 1990). Non c’erano differenze di età
o di genere sessuale. I bambini con fibromialgia avevano soglie più basse di sensibilità
rispetto ai bambini sani sia nei tender points sia nei punti di transizione fra muscolo
e tendine. Sette bambini avevano soglie più basse di sensibilità al dolore pressorio nei
tender points ma non riferivano dolore diffuso e quindi non avevano avuto una diagnosi
di fibromialgia. Un follow-up a 30 mesi (Buskila et al., 1995) aveva riscontrato che il
73% dei bambini originariamente diagnosticati con fibromialgia non soddisfaceva più
i criteri diagnostici. Nessuno dei bambini con basse soglie di dolore aveva sviluppato
una fibromialgia. Gli autori hanno concluso che l’incidenza della fibromialgia in un
campione collettivo di adolescenti era dello 1.7%.
Le cause della fibromialgia sono tuttora sconosciute. Ne sono state suggerite mol-
te, ma nessuna è stata definitivamente accertata. La depressione e i problemi di sonno
sono piuttosto comuni, ma non è chiaro se siano una causa o un risultato del disturbo.
Studi su casi malati, confrontati con casi di controllo in campioni clinici hanno trovato
risultati contrastanti sulle concomitanti psicologiche della fibromialgia negli adole-
scenti. Yunus e Masi (1985) hanno paragonato 33 pazienti con fibromialgia e altri in
un gruppo di controllo e hanno trovato che i bambini con fibromialgia avevano tassi
più elevati di disturbi del sonno, di affaticamento, di depressione, di ansia, di mal di
testa cronici, di intorpidimento e di sintomi da intestino irritabile rispetto a quelli del
gruppo di controllo. Tuttavia, utilizzavano misure psicometricamente deboli dell’ansia,
della depressione e dei disturbi del sonno. Reid et al. (1996) non hanno riscontrato
differenze fra gli adolescenti con fibromialgia e le loro famiglie e due gruppi di control-
lo, rispettivamente con artrite reumatoide e sani, in una serie di misure validate per la
presenza di psicopatologie cliniche.
L’unica prova di trattamento con CBT per la fibromialgia negli adolescenti è una
serie clinica con sette pazienti (Walco e Illowite, 1992). Gli autori hanno trovato che
quattro dei cinque pazienti che avevano portato a termine più di quattro sedute di trat-
430
Il dolore fisico nell’infanzia
tamento non avevano più dolore e quelli che avevano concluso il trattamento presen-
tavano una consistente riduzione del dolore. Il programma di trattamento prevedeva
nove sedute, di cui quattro educative che si focalizzavano sul rilassamento muscolare
progressivo e sull’immaginazione guidata, o su tecniche di autoregolazione mirate alla
riduzione del dolore e al miglioramento dei disturbi del sonno e dell’umore. Gli autori
hanno concluso che un approccio cognitivo comportamentale potrebbe essere utile
nel trattamento del dolore e di altri sintomi, fra cui i disturbi del sonno e/o quelli del-
l’umore associati alla fibromialgia nei bambini.
La CBT potrebbe essere efficace nella fibromialgia perché fa aumentare il sonno
ristoratore, diminuisce la sensibilità al dolore e accresce la prestanza fisica. Le strategie
di CBT utilizzate con la fibromialgia includono la ristrutturazione cognitiva, il miglio-
ramento dell’igiene del sonno e un aumento delle attività.
Caso esemplificativo
Jill era una ragazza di 14 anni che soffriva di un dolore diffuso, di affaticamento
e di disturbi del sonno da 2 anni. Gradualmente era diventata sempre meno attiva
fisicamente, aveva lasciato la piscina e presentava un ritiro sociale, che limitava drasti-
camente i contatti con il gruppo dei coetanei. Il medico di famiglia aveva pensato che
i sintomi sarebbero scomparsi o che sarebbero migliorati sensibilmente dal momento
che non aveva riscontrato alcuna causa organica per le lamentele di Jill. Inoltre, anche
se Jill era un pò infelice, non era depressa. Dopo un anno senza alcun miglioramento, i
genitori chiesero il consulto di uno specialista. Il dottore propose ai genitori di scegliere
fra uno psichiatra e un reumatologo ed essi scelsero il reumatologo. Un esame fisico
approfondito mostrò che la tolleranza alla pressione dolorosa di Jill era più bassa del
normale e che presentava sensibilità in 12 dei 18 tender points. Una serie di analisi del
sangue non avevano riscontrato nulla di anomalo. Jill ebbe una diagnosi di fibromial-
gia e venne inviata a uno psicologo per il trattamento.
Il pacchetto di trattamento consisteva di un trattamento breve di 10 settimane che
includeva:
1 una descrizione della fibromialgia come un disturbo reumatico non articolare che
è influenzato negativamente da un sonno non ristoratore, dalla mancanza di eser-
cizio fisico e da un maggiore stress psicosociale.
2 Registrazione quotidiana del dolore, dell’umore e dell’affaticamento attraverso un
diario dettagliato.
3 Training di rilassamento con respirazione diaframmatica
4 Identificazione dei pensieri negativi.
5 Sostituzione dei pensieri negativi e controproducenti in pensieri più positivi e
realistici.
6 Istruzioni per un’adeguata igiene del sonno.
7 Aumento progressivo del livello di attività e sviluppo di un programma di attività
moderato per accrescere la forma fisica, la resistenza e la tolleranza alla fatica.
8 Training di immaginazione guidata e di distrazione dal dolore.
431
Patrick McGrath e Julie Goodman
Jill aveva sedute individuali con uno psicologo, che incontrava anche i genitori tre
volte. Jill aveva fatto dei buoni progressi nelle sedute individuali e riuscì a diminuire
il dolore e l’affaticamento. Iniziò un programma di attività fisica leggero e aumentò
il numero e la frequenza dei contatti sociali. Presentava ancora alcuni tender points
necessari per una diagnosi di fibromialgia, ma sentiva molto meno il dolore diffuso e
l’affaticamento. Venne seguita per 1 anno attraverso delle telefonate e le sue condizioni
rimasero relativamente buone.
A 16 anni, subì un incidente d’auto ed ebbe il colpo di frusta. Il dottore le disse
che il dolore sarebbe andato via con il tempo. Quando questo non successe, Jill si ritirò
socialmente e divenne più depressa. Il sono era peggiorato e il dolore era ritornato. Ri-
fiutò un ulteriore trattamento, dicendo che non l’avrebbe aiutata. La famiglia si trasferì
e non fu più in grado di essere reperita per i follow-up.
La CBT per la fibromialgia è spesso combinata con un basso dosaggio di amitrip-
tilina e con una fisioterapia. Non ci sono dati per stabilire l’efficacia di questa combi-
nazione nei bambini e negli adolescenti.
Prove di efficacia
Gli approcci cognitivo comportamentali hanno contribuito a grandi progressi nel
trattamento del dolore cronico e acuto nei neonati, nei bambini e negli adolescenti.
Il Journal of Pediatric Psychology ha pubblicato una serie di articoli su trattamenti em-
piricamente supportati o su “trattamenti che funzionano” nella psicologia pediatrica.
Quattro delle revisioni iniziali si focalizzavano sul dolore. Nella sua rassegna, Powers
(1999) ha concluso che le strategie cognitivo comportamentali erano “note” per allevia-
re il dolore acuto derivante da procedure mediche. Holden et al. (1999) hanno riferito
che i trattamenti cognitivo comportamentali erano efficaci nel trattamento della cefa-
lea tensiva e dell’emicrania. Walco et al. (1999) hanno rivisto i dati sul dolore nella ma-
lattia cronica. Anche se hanno riscontrato che i trattamenti cognitivo comportamen-
tali erano promettenti, hanno concluso che le ricerche condotte fossero insufficienti a
determinare se il dolore nella malattia cronica potesse essere efficacemente contrastato
utilizzando interventi cognitivo comportamentali. Similmente, a causa della mancanza
di ricerche sufficienti, Janicke e Finney (1999) hanno definito solo “probabile” l’effi-
cacia dei trattamenti cognitivo comportamentali nel dolore addominale ricorrente.
Conclusioni
la CBT è stata applicata in molti ambiti della salute dei bambini. La gestione del
dolore è un esempio eccellente di applicazione della CBT a problemi medici. La sfida
principale per il futuro è quella di integrare la CBT nella pratica medica. Anche se
gli approcci cognitivo comportamentali sono ampiamente accettati dai professionisti
della salute mentale, ci sono ancora barriere significative all’applicazione in contesti
medici. Questa barriere includono, prima di tutto, il fatto che i medici e le infermiere
sono spesso ignari degli approcci cognitivo comportamentali e quindi è difficile che la
432
Il dolore fisico nell’infanzia
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Patrick McGrath e Julie Goodman
434
Il dolore fisico nell’infanzia
435
CAPITOLO 25
Dustin A. Pardini
University of Pittsburgh Medical Center, Pennsylvania, Stati Uniti
437
John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
Comorbidità
Fra il 65% e il 90% dei bambini con disturbo della condotta presentano una
comorbidità con un disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (DDAI) (Frick,
1998), con i sintomi di iperattività/impulsività che sono più strettamente relazione
con il disturbo della condotta rispetto ai sintomi attentivi. I bambini con problemi di
condotta significativi e con sintomi di DDAI sono a rischio maggiore di forme gravi
e croniche di comportamento antisociale rispetto ai bambini che presentano solo uno
dei due disturbi isolato. Dato che i farmaci stimolanti sono noti per ridurre i compor-
438
Il distrubo della condotta in adolescenza
tamenti propri del disturbo della condotta nei ragazzi con entrambi i disturbi, gli in-
terventi clinici per i bambini con problemi della condotta dovrebbero prima verificare
la presenza di un DDAI.
Sono comuni anche sintomi interiorizzati nei bambini con disturbo della condot-
ta (Angold e Costello, 2001). La ricerca suggerisce che i bambini con disturbo della
condotta e gravi sintomi depressivi rischiano specificamente di sviluppare un abuso di
sostanze e gravi forme di depressive con comportamenti suicidari. I sintomi depressivi
possono anche accrescere la probabilità che gli adolescenti maschi con disturbo della
condotta sviluppino, da adulti, un disturbo antisociale di personalità (Loeber et al.,
2002). Come risultato, sono stati proposti modelli di trattamento integrato ideati per
affrontare i bisogni speciali dei bambini con comorbidità fra disturbo della condotta
e depressione. Al contrario, la comorbidità con i disturbi d’ansia è associata a forme
meno gravi di comportamento antisociale, mentre, in adolescenti delinquenti, livelli
più bassi di preoccupazione sono associati a livelli più alti di indifferenza e insensibilità
(Pardini et al., 2003).
I sintomi associati con il disturbo della condotta nell’infanzia, soprattutto l’aggres-
sività, sono da sempre associati a un successivo abuso di sostanze (Angold e Costello,
2001). Gli adolescenti con disturbo della condotta che abusano di sostanze sono an-
che a maggiore rischio di sviluppare un disturbo antisociale di personalità (Loeber et
al., 2002), anche dopo aver ricevuto un trattamento intensivo per l’abuso di sostanze
(Myers et al., 1998).
Eziologia
Sono stati identificati una serie di fattori e percorsi specifici che mettono un ra-
gazzo a rischio di disturbo della condotta e di comportamenti antisociali, fra cui fattori
relativi al bambino, alla famiglia, ai coetanei e alla comunità (Lochman et al., 2001;
vedere anche il Capitolo 27). Gli adolescenti con disturbo della condotta, abuso di so-
stanze e comportamenti delinquenziali possono essere inseriti in una cornice evolutiva
che è il risultato di un insieme di fattori familiari e personali, in cui il comportamento
aggressivo spesso è parte di quel percorso evolutivo. Questo corso evolutivo è stabilito
all’interno dell’ecologia sociale del bambino, ed è necessaria una cornice ecologica per
guidare gli sforzi preventivi e di trattamento (Lochman e Wells, 2002a).
L’evidenza indica che i bambini con problemi della condotta esibiscono distorsioni
socio-cognitive e deficit in stadi differenti dell’elaborazione dell’informazione (Dodge
et al., 1996). I bambini e gli adolescenti che manifestano comportamenti antisocia-
li fanno maggiore attenzione e ricordano di più, rispetto ai bambini normali, indizi
aggressivi e irrilevanti e attribuiscono agli altri intenzioni ostili, sono maggiormente
orientati all’azione e quando pensano a soluzioni per problemi sociali sono meno ver-
439
John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
Sono numerosi i fattori familiari che possono influenzare l’aggressività del bam-
bino, fra cui gli atteggiamenti genitoriali, le condizioni generali di stress e il disaccor-
do all’interno della famiglia. Quando insorge in età prescolare, il conflitto coniugale
genera un accudimento disfunzionale e questo contribuisce a livelli elevati di stress
nei bambini e alla conseguente aggressività (Dadds e Powell, 1992). I ragazzi e le
ragazze che vivono in famiglie in cui c’è un’elevata conflittualità coniugale sono parti-
colarmente vulnerabili a problemi esteriorizzati come l’aggressività e il disturbo della
condotta, anche dopo aver escluso gli effetti dell’età e dello status socioeconomico
(Dadds e Powell, 1992).
L’aggressività fisica dei genitori, come schiaffi e stili disciplinari punitivi, sono as-
sociati a bambini oppositivi e aggressivi, maschi e femmine. Uno scarso calore umano e
un basso coinvolgimento dei genitori contribuiscono all’uso di pratiche punitive fisiche
aggressive. Weiss et al. (1992) hanno riscontrato che la severità della disciplina geni-
toriale era positivamente correlata con le valutazioni degli insegnanti di aggressività e
problemi di comportamento. In aggiunta a maggiori tassi di aggressività, i bambini che
subivano pratiche disciplinari rigide mostravano un’elaborazione dell’informazione so-
ciale più scarsa, anche quando si tenevano sotto controllo i possibili effetti dello status
socioeconomico e del temperamento del bambino. È importante notare che, anche se
questi fattori relativi alla genitorialità sono associati con l’aggressività nei bambini, è
anche il temperamento e il comportamento del bambino a influenzare i comportamen-
ti dei genitori. Simili prove indicano una relazione bidirezionale fra comportamenti del
bambino e dei genitori.
Anche la scarsa supervisione genitoriale è associata con l’aggressività infantile.
Haapasalo e Tremblay (1994) hanno trovato che i ragazzi che lottavano più spesso con
440
Il distrubo della condotta in adolescenza
i propri coetanei riferivano di avere una minore supervisione e di ricevere maggiori pu-
nizioni dei ragazzi che non venivano coinvolti in risse. Cosa interessante, i ragazzi che
lottavano riferivano l’imposizione di un maggior numero di regole di quelli che non
lottavano; questo indica che i genitori dei ragazzi potrebbero avere regole più rigide che
sono difficili da seguire.
Gli stili attributivi dei genitori, o il modo in cui attribuiscono delle cause ai com-
portamenti dei propri figli, e l’efficacia degli atteggiamenti genitoriali sono collegati
con l’aggressività nei bambini (Baden e Howe, 1992).Per esempio, le madri dei bambi-
ni con disturbo della condotta hanno maggiori probabilità di interpretare come inten-
zionale il cattivo comportamento del bambino e attribuire le cause a fattori stabili in-
terni al di fuori del controllo del bambino stesso. La ricerca suggerisce anche che scarse
competenze di problem-solving sociale dei genitori verso i propri figli sono collegate con
l’aggressività nei bambini e con problemi di comportamento (Pakasiahti et al., 1996).
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John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
disorganizzati e con uno status socioeconomico basso non sono ben controllati e ven-
gono maggiormente coinvolti in comportamenti a rischio. Lo status socioeconomico
basso fin dall’età prescolare è predittore di problemi di comportamento segnalati dagli
insegnanti e dai coetanei a scuola. La scuola può esasperare ulteriormente i problemi
di condotta dei bambini attraverso la frustrazione delle richieste accademiche e dell’in-
fluenza dei pari. La densità di bambini aggressivi in contesti di classe può far aumentare
la quantità di comportamenti manifestati dai singoli studenti (Kellam et al., 1998).
Questo programma è stato ideato per bambini con comportamento antisociale tra
i 7 e i 13 anni. I bambini frequentano 25 sedute settimanali che durano circa 50 minuti
ognuna (Kazdin et al., 1992).Il PSST enfatizza le situazioni interpersonali quotidiane
che i bambini si trovano ad affrontare e si focalizza specificamente sui deficit interper-
sonali individuali. I leader insegnano competenze di problem-solving fra cui la genera-
zione di soluzioni multiple a un problema e il pensare a tutte le conseguenze. Inoltre,
le competenze di problem-solving vengono applicate a situazioni interpersonali con gli
insegnanti, i coetanei, i fratelli e i genitori. Vengono utilizzate tecniche come il role-
play, il rinforzo, il modelling e il feedback per insegnare e ricompensare abilità adeguate
di problem-solving. I bambini ricevono anche dei compiti a casa, i super-solvers, che li
aiutano a esercitarsi su particolari tecniche al di fuori della seduta e con altre persone.
La partecipazione dei genitori è anch’essa un’importante componente del training e i
genitori osservano le sedute e fungono da co-leader, oltre a supervisionare l’utilizzo delle
nuove competenze a casa (Kazdin et al., 1992).
Gli studi sui risultati suggeriscono che il PSST riduce significativamente i compor-
tamenti antisociali fino a 1 anno di follow-up. Inoltre, la combinazione del PSST con
un intervento più focalizzato sui genitori garantisce i miglioramenti più rilevanti per
442
Il distrubo della condotta in adolescenza
Il Coping Power Programme è una versione modificata del precedente Anger Coping
Programme (Lochman, 1992), e la componente per i bambini prevede 33 sedute. Il Co-
ping Power Programme è un programma di prevenzione da applicare a scuola ideato per
il passaggio dalla scuola media, nel momento in cui si approssima l’aumento dei com-
portamenti antisociali all’ingresso dell’adolescenza, e dura per 15-18 mesi. Le sedute di
gruppo si focalizzano sulla consapevolezza delle emozioni, sul training di gestione della
rabbia, sul cambiamento delle attribuzioni e sulla capacità di assumere la prospettiva
dell’altro, sul problem-solving sociale, sul training sulle competenze sociali, sulla fissa-
zione degli obiettivi comportamentali e personali e sulla capacità di gestire le pressioni
dei coetanei. I bambini frequentano anche sedute individuali ogni 4-6 settimane per
assicurarsi che le competenze socio-cognitive dell’intervento vengano personalizzate. La
componente per il genitore copre lo stesso periodo di quella per il bambino. I genitori
si incontrano per 16 sedute in cui si affrontano l’utilizzo del rinforzo e dell’attenzione
positiva, la fissazione di regole e aspettative chiare, un uso corretto ed efficace delle
punizioni, la comunicazione familiare, l’esperienza scolastica positiva per il bambino e
la gestione dello stress. Si insegna ai genitori cosa il proprio bambino sta apprendendo
in ciascuna seduta in modo che possano facilitare e ricompensare l’utilizzo delle nuove
competenze a casa.
All’inizio, le ricerche sul programma Anger Coping, che è un intervento per il bam-
bino della durata di 18 sedute, indicavano che l’intervento, produceva sui bambini,
se paragonati a bambini assegnati casualmente a gruppi di controllo, riduzioni nelle
percentuali di comportamenti disfunzionali e non attinenti al compito all’interno della
classe valutati da osservatori indipendenti e nelle valutazioni da parte dei genitori dei
comportamenti aggressivi a casa (vedere Lochman et al., 1984) e riduceva l’abuso di so-
stanze a 3 anni di follow-up (Lochman, 1992). In seguito, due studi hanno indicato gli
effetti preventivi del programma multicomponente Coping Power, che era stato ideato
per potenziare gli effetti dell’Anger Coping sui comportamenti esteriorizzati. Lochman
e Wells (2002a) hanno assegnato casualmente 183 ragazzi indicati dagli insegnanti
come aggressivi solo alla componente per i bambini del Coping Power, al programma
completo Coping Power che includeva entrambe le componenti, per il Bambino e per il
Genitore o a un gruppo di controllo senza trattamento e hanno trovato che l’intervento
Coping Power aveva prodotto riduzioni nella delinquenza auto-riferita, nell’abuso di
sostanze riferito dai genitori e aveva indotto miglioramenti nei giudizi che gli inse-
gnanti davano del comportamento a 1 anno di follow-up, in contrasto con il gruppo di
controllo casuale. Nella path analysys si era trovato che questi effetti al follow-up erano
mediati da miglioramenti nelle distorsioni attributive ostili dei bambini, nelle aspetta-
tive che i comportamenti aggressivi portino a conseguenze negative, nel locus of control
interno, nella percezione della persona e nella coerenza della disciplina da parte dei
genitori (Lochman Wells, 2002a).
443
John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
In un secondo studio, con 243 ragazzi e ragazze del quinto anno scolastico che
presentavano livelli di aggressività da moderati a elevati, il programma Coping Power
aveva prodotto una riduzione nelle percentuali di abuso di sostanze e un migliora-
mento della competenza sociale, dell’autoregolazione e del coinvolgimento genitoriale
al post-intervento (Lochman e Wells, 2002b) e aveva replicato i risultati dello studio
precedente a 1 anno di follow-up, rilevando, per i bambini che avevano frequentato il
Coping Power rispetto ai bambini inseriti nel gruppo di controllo, minori percentuali
di delinquenza auto-riferita, di abuso di sostanze auto-riferito e di valutazioni degli
insegnanti sull’aggressività fisica a scuola. In uno studio sulla diffusione, i bambini con
disturbo della condotta e con disturbo oppositivo provocatorio presentavano livelli
ridotti di comportamenti apertamente aggressivi dopo un intervento di Coping Power
in una clinica ambulatoriale olandese (Matthys et al., 2001). In tutti questi studi, gli
interventi cognitivo comportamentali del programma Coping Power per i pre-adole-
scenti e i loro genitori hanno mostrato di avere effetti preventivi sui problemi gravi di
abuso di sostanze e delinquenza.
Multisystemic Therapy
444
Il distrubo della condotta in adolescenza
La Terapia Familiare Funzionale (FFT) combina principi della teoria dei sistemi
familiari e degli approcci cognitivo comportamentali per intervenire con gli adolescenti
antisociali e le loro famiglie. La pratica clinica della FFT si è evoluta negli ultimi 30 anni
e la versione più recente prevede tre fasi di intervento: (1) coinvolgimento e motivazione,
(2) modifica del comportamento e (3) generalizzazione. Nel corso della fase di coinvol-
gimento e motivazione, il terapeuta affronta le convinzioni disadattive del sistema fami-
liare per accrescere le aspettative di cambiamento, ridurre la negatività e le recriminazio-
ni, costruire il rispetto per le differenze individuali e sviluppare una forte alleanza fra la
famiglia e il terapeuta. La fase di modifica del comportamento viene poi utilizzata per
applicare interventi comportamentali concreti, designati a migliorare il funzionamento
familiare costruendo competenze relazionali, accrescendo gli atteggiamenti genitoriali
positivi, migliorando le competenze di gestione dei conflitti e riducendo le caratteristi-
che disadattive dei pattern interattivi. Questi interventi comportamentali vengono per-
sonalizzati per adattarsi alle caratteristiche di ciascun membro della famiglia e al sistema
relazionale famiglia come un tutt’uno. Infine, la fase di generalizzazione dell’intervento
viene utilizzata per migliorare la capacità della famiglia di influenzare con competenza i
sistemi in cui è inserita (per es. la scuola, la collettività e il sistema di giustizia minorile)
e per collaborare nel mantenimento dei cambiamenti positivi.
Una versione precedente della FFT è stata valutata utilizzando un campione di 86
adolescenti accusati di reato e le loro famiglie. Le famiglie venivano casualmente asse-
gnate alla condizione di trattamento con la FFT, alla terapia centrata-sul-cliente, alla
terapia psicodinamica o a nessun trattamento. Dopo l’intervento, le famiglie che ave-
vano ricevuto una FFT mostravano pattern comunicativi migliori rispetto alle famiglie
nelle altre tre condizioni. Inoltre, i registri del tribunale indicavano che gli adolescenti
assegnati alla FFT presentavano percentuali più basse di recidiva a 2.5-3.5 anni dal
trattamento, in confronto a tutti gli altri gruppi (Klein et al., 1977). Un’analisi succes-
siva con ragazzi delinquenti recidivi ha riscontrato che quelli che avevano partecipato
alla FFT mostravano minori recidive e un minor numero di nuovi reati al follow-up a
15 mesi se paragonati con i ragazzi assegnati a un gruppo di controllo che stava a casa
(Barton et al., 1985). Altri studi hanno mostrato che i giovani delinquenti recidivi che
avevano ricevuto una FFT avevano livelli più bassi di recidiva fino a 5.5 anni dopo
(Gordon et al., 1995) se paragonati con un gruppo in prova costituito da delinquenti
a basso rischio.
445
John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
446
Il distrubo della condotta in adolescenza
gono allontanati dai genitori o dai tutori. Il MTFC colloca temporaneamente i ragazzi
antisociali in una famiglia affidataria del territorio in cui le contingenze che guidano
il comportamento dei ragazzi vengono modificate sistematicamente attraverso la con-
sulenza di un team di trattamento multiprofessionale (Fisher e Chamberlain, 2000).
Non appena il comportamento dei ragazzi migliora, si fa una transizione graduale dal
contesto del MTFC alla casa dei propri genitori o tutori. Ciascuna famiglia affidataria
viene assegnata, per supporto, a un terapeuta comportamentale, a uno dell’adolescen-
za, a uno familiare, a uno psichiatra, a un responsabile del contatto giornaliero con i
genitori e a un responsabile dell’équipe, che funge anche da case manager, che sostie-
ne l’applicazione del programma. I genitori affidatari, che vengono sottoposti a uno
screening informale prima della partecipazione al programma, vengono coinvolti in un
training preliminare di 20 sedute che fornisce una rassegna del modello di trattamento
e che insegna tecniche per il monitoraggio e la modifica del comportamento degli
adolescenti. Gli adolescenti possono guadagnarsi dei privilegi nella famiglia affidata-
ria seguendo un programma giornaliero di attività programmate e soddisfacendo le
aspettative di comportamento adeguato. I genitori biologici dei ragazzi o i loro tutori
sono di supporto al piano di trattamento, vengono coinvolti nella terapia familiare per
apprendere competenze genitoriali efficaci e iniziano ad applicare settimanalmente le
nuove competenze apprese durante le brevi visite che i ragazzi fanno a casa. Quando il
funzionamento familiare migliora, le visite vengono estese fino alla riunificazione com-
pleta. Il terapeuta familiare continua a seguire il caso per 1-3 mesi dopo la riunificazio-
ne per sostenere una risoluzione positiva delle problematiche che dovessero sorgere.
La ricerca iniziale sull’efficacia dello MTFC ha fornito dei risultati incoraggianti.
Una versione precedente è stata paragonata con la collocazione in gruppi di cura ter-
ritoriali per adolescenti delinquenti, utilizzando un disegno con gruppi di controllo
accoppiati. I risultati di questa indagine indicano che i ragazzi nella condizione MTFC
avevano maggiori probabilità di portare a termine il proprio programma e mostrava-
no meno giorni di carcere nei 2 anni dopo il trattamento rispetto ai ragazzi inseriti
nei gruppi di terapia usuali. Un altro disegno con gruppi di controllo accoppiati che
coinvolgeva ragazzi piccoli maltrattati inseriti nel sistema di giustizia minorile rivela-
va che i ragazzi nella condizione MTFC presentavano un numero significativamente
minore di arresti, minori attività criminali auto-riferite e minori giorni di carcerazione
a 1 anno dopo il trattamento se paragonati con il gruppo di controllo dei trattamenti
usuali (Fisher e Chamberlain, 2000). A 2 anni dalla fine del trattamento, i ragazzi del-
lo MTFC riferivano un minore abuso di droghe rispetto al gruppo di controllo. Una
seguente prova randomizzata paragonava lo MTFC con il posizionamento in gruppi
di trattamento territoriali di 79 maschi adolescenti, molti di cui erano stati preceden-
temente incarcerati per una serie di reati e avevano una storia di fughe da precedenti
gruppi di terapia (Eddy e Chamberlain, 2000). In confronto al gruppo territoriale, i
maschi nella condizione MTFC avevano maggiori probabilità di portare a termine il
proprio programma e passavano il 60% in meno di giorni in carcere un anno dopo
l’invio al programma. I ragazzi della condizione MTFC presentavano anche un nume-
ro minore di denunce criminali e riferivano livelli più bassi di crimini violenti gravi se
paragonati con i ragazzi del gruppo di terapia territoriale 1 anno dopo il termine del
programma.
447
John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini
Sintesi e implicazioni
È evidente che, anche se il disturbo della condotta rappresenta un problema cro-
nico per i ragazzi e può essere difficile modificarlo, certe forme di interventi cognitivo
comportamentali hanno avuto risultati molto promettenti nella prevenzione e nel trat-
tamento dei comportamenti ad esso associati. Questi interventi empiricamente suppor-
tati affrontano una serie di fattori di rischio dei ragazzi stessi, della famiglia, del gruppo
dei pari e del territorio. È importante notare che questi interventi trattano questi mol-
teplici fattori di rischio attraverso componenti multiple. Questo insieme di interventi
efficaci per i bambini a-rischio, con o senza disturbo della condotta, sono caratterizzati
da un forte focus sulla famiglia e sul gruppo dei pari che forniscono modelli disfun-
zionali e che rinforzano i comportamenti antisociali. I fattori evolutivi potrebbero in-
fluenzare le componenti da includere nell’intervento. Con i pre-adolescenti e i ragazzi
della prima adolescenza, gli interventi efficaci trattano i processi genitoriali deficitari
e i processi socio-cognitivi compromessi o distorti. Tuttavia, quando si interviene con
ragazzi gravemente antisociali negli ultimi anni dell’adolescenza, il focus è più sui trai-
ning comportamentali con i genitori e altri caregiver. Dalla media adolescenza, ci sono
prove sempre maggiori, rispetto ai periodi precedenti, che gli interventi individuali e
di gruppo con i bambini possono avere effetti significativi preventivi e terapeutici nel
ridurre il comportamento antisociale, la delinquenza e l’abuso di sostanze nei ragazzi.
Le ricerche future sugli interventi cognitivo comportamentali con i ragazzi antiso-
ciali dovrebbero occuparsi di quattro aspetti fondamentali. Primo, anche se i cambia-
menti nei comportamenti, alla fine dell’intervento e al follow-up, sono ormai sempre
più evidenti, la ricerca in generale non ha esaminato i processi che fungono da media-
tori. Pertanto, non è chiaro se gli effetti positivi si verifichino a causa del focus dell’in-
tervento su processi mediatori chiave, che supporterebbero i modelli evolutivi alla base
all’intervento, o per altre ragioni. Secondo, la ricerca sugli interventi dovrebbe inclu-
dere l’attenzione a fattori che moderano o predicono la risposta al trattamento. Queste
variabili moderatrici possono includere caratteristiche dei bambini così come della fa-
miglia e del territorio. Nonostante le prove che consentirebbero l’applicazione di un in-
tervento a gruppi eterogenei di ragazzi antisociali, è essenziale che comprendiamo con
maggiore chiarezza quali ragazzi traggono maggior beneficio e quali meno dall’inter-
vento stesso. Terzo, poiché i comportamenti aggressivi nei bambini e negli adolescenti
sono estremamente stabili nel tempo, le componenti dell’intervento specificamente
ideate per promuovere una prevenzione delle ricadute dovrebbero essere indagate su un
piano empirico. Quarto, anche se certi interventi cognitivo comportamentali si sono
rivelati efficaci in prove cliniche controllate, questi trattamenti empiricamente suppor-
tati potrebbero non essere così efficaci in alcuni contesti di vita reale e potrebbero avere
un impatto relativamente scarso sul lavoro preventivo e clinico in molte comunità. Le
agenzie dovranno destinare delle risorse per applicare questi trattamenti validati empi-
ricamente e per fornire adeguate opportunità di training. Anche se questi programmi
si basano su strategie cognitivo comportamentali e comportamentali ben consolidate
(per es. focalizzarsi sugli antecedenti e sulle conseguenze, enfatizzare il rinforzo sociale,
training sulle competenze di problem-solving sociale e nell’assumere la prospettiva del-
l’altro) e i professionisti che non hanno accesso alle risorse per applicare formalmente
448
Il distrubo della condotta in adolescenza
i programmi devono basarsi sulla propria esperienza generale in questi ambiti, l’ap-
plicazione ottimale dei programmi richiede un training e una supervisione specifici.
La ricerca sugli interventi deve esaminare i fattori nel processo di addestramento e nei
sistemi coinvolti (agenzie territoriali e scuole) che ne influenzano la divulgazione.
Riconoscimenti
Il completamento di questo capitolo è stato supportato dalle gentili concessioni al
primo autore da parte del National Institute for Drug Abuse (DA 08453; DA 16135),
del Center for Substance Abuse Prevention (UR6 5907956; KD1 SP08633), dei Centers
for Disease Control and Prevention (R49/CCR 418569) e del US Department of Justice
(2000CKWX0091) e grazie a un National Research Service Award da parte del National
Institute for Drug Abuse al secondo autore. La corrispondenza relativa a questo articolo
può essere spedita a John E. Lochman.
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450
Il distrubo della condotta in adolescenza
451
CAPITOLO 26
Renuka Arjundas
Newcastle Cognitive and Behavioural Therapies Centre, Newcastle upon Tyne,
Regno Unito
Eilish Gilvarry
Centre for Alcohol and Drug Studies, Newcastle upon Tyne, Regno Unito
Introduzione
C’è stato un interesse crescente sul problema dell’uso e abuso di sostanze negli ado-
lescenti nell’ultimo decennio. Questo perché sono cambiati i pattern di utilizzo, perché
c’è un maggiore riconoscimento del problema, per la complessità ed eterogeneità di
queste giovani popolazioni, per il maggiore rischio di comorbidità con altri disturbi
e per le compromissioni associate in numerosi ambiti di funzionamento. L’uso/abuso
significativo di sostanze è associato con un numero maggiore di incidenti, di suicidio e
di violenza, di problemi di salute mentale e di comportamento, di fallimento formativo
e di abbandono della scuola, di delinquenza giovanile, di problemi alla guida, di pro-
miscuità sessuale e di difficoltà familiari (Gilvarry, 2000). I bambini e gli adolescenti
presentano non solo problemi di droga ma spesso problemi multipli e complessi, pre-
cedenti o concomitanti, di salute mentale, sociali ed emotivi. Spesso, questi possono
essere presenti dall’età prescolare, si possono verificare in quei bambini con vulnera-
bilità evolutive e potrebbero essere fortemente intrecciati. Di conseguenza, qualunque
trattamento di successo deve essere in grado di riconoscere e affrontare adeguatamente
una potenziale vasta gamma di difficoltà e vulnerabilità. È pertanto importante che i
servizi per gli adolescenti che fanno uso di droga e alcol siano integrati con i sistemi per
i bambini per permettere delle risposte multicomponente (Gilvarry et al., 2001).
La definizione dell’uso di sostanze negli adolescenti è stata oggetto di intenso di-
battito e questo riflette la presenza di differenti culture e convinzioni, la tolleranza
della società per l’uso di droghe, l’applicazione di classificazione per adulti e l’illegalità.
Espressioni comuni come sperimentazione, utilizzo regolare o caotico vengono utiliz-
zate per discussioni normali, ma non sono necessariamente supportate da definizioni
accettate. Alcuni clinici, preoccupati della stigmatizzazione derivante dall’utilizzo di
453
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
454
Abuso di droga e alcool
455
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
456
Abuso di droga e alcool
Valutazione
L’American Academy of Child e Adolescent Psychiatrists (Bukstein et al., 1997) ha
delineato gli aspetti chiave della valutazione di un adolescente con disturbo da uso di
sostanze: la natura e il pattern dell’uso delle droghe, la presenza di abuso/dipendenza,
la comorbidità con problemi mentali e fisici, il successo accademico, il funzionamento
sociale, le relazioni con i pari, il conflitto familiare e l’abuso di sostanze nei genitori.
La presenza di comorbidità è importante nella valutazione complessiva e nella prepa-
razione di un piano di cura. Altri problemi che devono essere valutati sono la capacità
del ragazzo di dare il consenso all’intervento, il coinvolgimento dei genitori e gli aspetti
relativi alla confidenzialità. Per indagare il livello di motivazione, si utilizza lo Stage of
Change (Prochaska e DiClemente, 1984) che assiste e guida i terapeuti nella selezione e
scelta degli interventi appropriati (vedere il Capitolo 5 per una discussione più appro-
fondita sugli aspetti motivazionali).
Ci sono numerosi strumenti di valutazione utilizzati per verificare i criteri di una
diagnosi di disturbo da uso di sostanze. Alcuni sono stati adattati per gli adolescenti
– per es. la Structured Clinical Interview for the DSM (SCID; Martin et al., 2000).
Non esiste nessuno strumento specifico di screening valido per valutare se un ado-
lescente sia o meno adatto alla CBT. Nel trattamento cognitivo comportamentale dei
disturbi da uso di sostanze negli adolescenti, la valutazione prevede un’analisi detta-
gliata del comportamento di uso delle sostanze con un’enfasi sugli antecedenti e sulle
conseguenze – ossia un’analisi funzionale. L’analisi funzionale porta alla formulazione
individualizzata in base a cui scegliere gli interventi appropriati.
Gli antecedenti dell’uso di sostanze in un adolescente possono essere fattori am-
bientali e individuali. Fra i fattori ambientali, l’atteggiamento e il comportamento dei
genitori e dei coetanei, fra cui l’uso di sostanze, sono forti predittori dell’uso di sostanze
negli adolescenti (Kandel et al., 1978). Il ruolo dei genitori come modello, la qualità
della comunicazione e la gestione del comportamento sono fattori familiari che posso-
no predire la risposta dell’adolescente al trattamento e il mantenimento dei benefici de-
rivanti dal trattamento (Kaminer e Burkstein, 1992). Similmente, la valutazione delle
relazioni con i coetanei e della loro influenza sull’uso/abuso di sostanze nell’adolescente
è importante ai fini del piano di trattamento.
Più specifici di una valutazione cognitivo comportamentale sono i fattori indi-
viduali, le convinzioni e gli atteggiamenti relativi all’uso di sostanze e l’anticipazione
che l’adolescente fa delle conseguenze di questo comportamento (le aspettative di ri-
sultato). Le aspettative positive possono predire un futuro utilizzo e devono essere un
target del trattamento. Per esempio, gli adolescenti bevitori problematici, se paragonati
con quelli che non lo sono, si aspettavano che l’alcol potesse migliorare il proprio fun-
zionamento cognitivo e motorio (Kaminer e Burkstein, 1992). L’Alcohol Expectancy
Questionnaire (Brown et al., 1987) è un misura di self-report che misura le aspettative
degli adolescenti, positive e negative, relative al consumo di alcol. Un confronto fra i
punteggi pre e post trattamento potrebbe indicare se la CBT è stata efficace nel modi-
ficare i pensieri relativi all’utilizzo di sostanze.
È importante valutare la frequenza effettiva degli episodi di intossicazione, dei
precedenti periodi di astinenza, delle abilità di coping e delle risorse che l’adolescente ha
457
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
Risposte di
coping Maggiore auto-efficacia Minore
probabilità di
Rifiutare la “Posso farcela” ricadute
cannabis
Situazione ad Effetto di
alto rischio violazione
dell’astinenza
Gli amici offrono Minore
la cannabis auto-efficacia Conflitto di
dissonanza
Aspettative e auto-
di esiti positivi attribuzioni
(degli effetti Uso iniziale (colpa e
iniziali delle di sostanze perdita di
Nessuna Maggiore
risposta di sostanze) controllo)
Fumare la probabilità
coping di ricadute
“La cannabis cannabis “Mi sento
mi rilassa” debole”
“Mi farà “Non posso
sembrare smettere di
tranquillo” fumare”
458
Abuso di droga e alcool
Caso esemplificativo
Michael, 17 anni, è stato segnalato per abuso di cannabis. Fuma cannabis dall’età
di 14 anni con un gruppo di amici. Come risultato dell’utilizzo eccessivo, non ha
frequentato regolarmente la scuola e non è stato in grado di sostenere gli esami. Ha
lasciato la scuola a 15 anni e ha avuto un breve episodio psicotico trattato farmacolo-
gicamente dopo il quale gli era stato suggerito di stare lontano dalla cannabis. Michael
era rimasto piuttosto scioccato dall’episodio psicotico e temeva che succedesse nuova-
mente. Per un breve periodo si era astenuto dal consumo di cannabis, ma nonostante i
migliori tentativi nei periodi di astinenza, aveva avuto numerose ricadute.
Alla valutazione, era stato rilevato che le situazioni ad alto rischio per Michael
erano la pressione dei coetanei e la noia. Il gruppo di amici di Michael fumava can-
nabis e dal momento che Michael passava molto tempo con loro aveva difficoltà a
rifiutare.. Temeva di perdere i suoi unici amici se non avesse fumato con loro. Michael
non sapeva come affrontare la situazione in un modo diverso dal di fumare (assenza di
risposte di coping adattive). Non credeva nella propria capacità di gestire la situazione
(bassa auto-efficacia) e credeva anche che fumare la cannabis lo facesse sembrare “un
fico” (aspettative di esito positivo).Questo faceva persistere il consumo di cannabis, che
faceva decrescere ulteriormente l’auto-efficacia.
Il progresso dall’errore occasionale all’utilizzo continuo ai livelli della pre-astinenza
– ossia una ricaduta – dipende dalle cause che l’individuo attribuisce all’errore occasio-
nale e da come fronteggia le conseguenti risposte affettive e cognitive. Un errore occa-
459
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
Interventi
460
Abuso di droga e alcool
uso di sostanze, ci sono alcuni compiti critici essenziali per un trattamento efficace
(Rousaville e Carroll, 1992). Questi sono:
In quali si- Cosa di- Quindi come Cosa ho fatto? Quali effetti Quali effetti
tuazioni è più cevo a me mi sentivo? positivi si negativi si
probabile che stesso in sono verifi- sono verifi-
io faccia uso quel mo- cati? cati?
di cannabis? mento?
Cosa mi
passava
per la te-
sta?
Quando non La “canna” Mi sentivo Farsi una “can- Sballare Senso di col-
ho altro da mi farà annoiato na” con gli amici Sentirsi pa per esser-
fare passare il parte del mi di nuovo
tempo gruppo fatto una
“canna”
Mi preoccupo
che ritorni
l’episodio psi-
cotico
461
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
462
Abuso di droga e alcool
Gli adolescenti possono fare uso di sostanze per facilitare l’interazione sociale. L’an-
sia nelle situazioni sociali può agire da antecedente. Gli adolescenti con ansia sociale
potrebbero avere bisogno di una terapia che ne migliori il funzionamento sociale.
Caso esemplificativo
463
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
che la madre e il fratello non lo capissero o non tenessero a lui, in un’altra differente
e cioè che la madre e il fratello tenevano a lui ma non capivano l’uso della droga e
avevano difficoltà a gestirlo. A questo stadio la madre e il fratello di Michael sono stati
coinvolti nella terapia allo scopo di migliorare la comunicazione. Questo è stato fatto
educandoli sulla natura dell’uso di sostanze di Michael e sui modi per gestirlo. Il coin-
volgimento supportava la convinzione modificata che essi tenessero a lui.
Sono state prese in considerazione altre vie di supporto come i vecchi amici di
Michael. Michael aveva perso contatto con loro da quando aveva iniziato a frequentare
l’altro gruppo di amici fumatori. È stato incoraggiato a ricontattarli, dopo aver esplo-
rato i vantaggi e gli svantaggi. I vantaggi erano che Michael poteva essere coinvolto
da attività lontane dalla droga e così passare meno tempo con gli altri amici fumatori,
riducendo il rischio di usare la cannabis e accrescendo la capacità di rifiuto. Questo lo
ha portato a ristabilire il contatto con un amico che non usava droghe. Michael iniziò
ad andare a bowling con questo amico, e si divertiva. Venne gradualmente coinvolto in
attività sempre più lontane dalla droga e passava meno tempo con gli amici che usava-
no le sostanze.
Venne verificata la validità della convinzione che gli amici che fumavano cannabis
non lo avrebbero accettato se avesse rifiutato di fumare. Esperienze passate e amici che
lo deridevano quando aveva cercato di restare in astinenza, rafforzavano fortemente
questa convinzione. Anche a Michael piaceva fumare la cannabis con loro. Quindi, fa-
ceva difficoltà a rifiutare. L’analisi dei vantaggi e degli svantaggi di continuare a fumare
la cannabis o smettere portò Michael a riconoscere che le conseguenze negative a lungo
termine della cannabis superavano quelle positive.
Appena iniziò a passare più tempo lontano dagli amici che fumavano cannabis,
riusciva a immaginarsi mentre rifiutava la cannabis quando era con loro e affrontava le
conseguenze. Riuscì a rifiutare in molte occasioni rispetto a quanto aveva fatto prima
della terapia. Ridusse gradualmente il suo uso di cannabis.
Gestione degli stati emotivi negativi, del bisogno fisico e del desiderio
464
Abuso di droga e alcool
Gli interventi che si basano sul modello cognitivo comportamentale della preven-
zione delle ricadute di Marlatt precedentemente descritto rientrano in due categorie:
Una volta che si è verificata una ricaduta occasionale, si utilizzano interventi con
l’intenzione di modificare le attribuzioni disadattive e gli atteggiamenti collegati alla
ricaduta. Marlatt e Gordon (1985), sulla base di tecniche sviluppate da Beck et al.
(1979) per modificare gli errori cognitivi e le convinzioni disadattive associate alla de-
pressione, hanno formulato delle strategie generali per contrastare le assunzioni erronee
e gli errori cognitivi associati alla prima ricaduta.
Queste strategie aiutano i clienti a considerare la propria ricaduta come un errore
isolato piuttosto che un fallimento ascrivibile alla propria debolezza. Si modificano le
distorsioni cognitive comuni associate alla ricaduta come il pensiero “bianco o nero”,
la tendenza a catastrofizzare e ipergeneralizzare. Le ricadute vengono riconcettualizzate
come occasioni importanti di correzione piuttosto che fallimenti.
Caso esemplificativo
465
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
Gli interventi cognitivo comportamentali utilizzati con gli adolescenti sono spesso
simili a quelli con gli adulti. Tuttavia, potrebbero non essere sempre adeguati ai bisogni
evolutivi.
I fattori evolutivi tipici dell’adolescenza influenzano in maniera importante l’uso
di sostanze in questo gruppo (Botvin e Botvin, 1992).L’influenza determinante del
gruppo dei pari e il bisogno degli adolescenti di appartenere a un gruppo generano
maggiore conformismo e dipendenza, e questo può rendere i ragazzi vulnerabili a fare
uso di sostanze sotto pressione degli amici. Quindi, questi fattori dovrebbero essere
tenuti in considerazione nella formulazione dei problemi e nella programmazione del-
l’intervento.
I fattori collegati allo sviluppo cognitivo possono influenzare l’uso di sostanze
(Wagner e Kassel, 1995). Dal momento che gli adolescenti sono in grado di eseguire
operazioni formali, sono consapevoli dei lati tristi e delle contraddizioni nelle azioni
degli adulti, su cui prima non si erano mai interrogati. Questi cambiamenti mettono in
discussione alcune convinzioni che potrebbero aver appreso dagli adulti, per esempio
gli effetti negativi dell’uso di sostanze. Questo potrebbe influenzare la motivazione a
ridurre o a smettere l’utilizzo di sostanze.. Quindi, il terapeuta, consapevole di questo,
potrebbe utilizzare le tecniche della MET per accrescere la motivazione.
Le capacità di pensiero astratto, sottili problemi di eloquio e di linguaggio, la me-
moria a breve termine e altri aspetti evolutivi sono importanti nell’applicazione della
CBT a questo gruppo. Le persone giovani potrebbero non avere sviluppato un linguag-
gio complesso, sono inclini all’esagerazione e potrebbero riferire un utilizzo eccessivo di
droga e alcol. Pertanto, è essenziale che il terapeuta utilizzi un linguaggio che può essere
466
Abuso di droga e alcool
467
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
468
Abuso di droga e alcool
Una volta che sono in grado di riconoscere che i pensieri possono influenzare i
sentimenti, possono poi usare questi stessi sentimenti come finestra sui propri pensie-
ri. Esercitare l’identificazione e il monitoraggio dei pensieri nelle sedute terapeutiche,
utilizzando le proprie esperienze, aiuterà gli adolescenti a supervisionare i processi co-
gnitivi al di fuori delle sedute.
Le tecniche su menzionate sono simili a quelle utilizzate con gli adulti. Tuttavia,
per gli adolescenti, le scenette utilizzate devono essere di loro interesse e appropriate
per l’età. Usare esempi di film conosciuti o di programmi televisivi per illustrare questi
concetti possono essere utili.
Conclusioni e suggerimenti
C’è un interesse crescente e prove empiriche a sostegno dell’applicazione della
CBT nelle dipendenze in generale e con gli adolescenti che hanno disturbi da uso di
sostanze. La CBT nel disturbo da uso di sostanze è per lo più derivata dal modello di
Marlatt, che è essenzialmente un modello di prevenzione delle ricadute. Gli interventi
utilizzati nel disturbo da uso di sostanze negli adolescenti sono adattate da quelle uti-
lizzate con gli adulti e includono tecniche comportamentali e cognitive e trattamenti
guidati da una formulazione. L’enfasi della maggior parte degli interventi è comporta-
mentale e le componenti cognitive sono limitate. Questo riflette la scarsità di modelli
di CBT specifici che siano stati validati empiricamente per i disturbi da uso di sostanze.
C’è la necessità di sviluppare modelli teorici, empiricamente testati e possibilmente più
efficaci, da applicare all’abuso di sostanze in questo gruppo di età.
Sono necessarie ancora ulteriori ricerche per valutare con maggiore rigore l’effi-
cacia degli interventi cognitivo comportamentali esistenti. Questi poi possono essere
introdotti nella pratica clinica. Le terapie manualizzate possono aiutare l’applicazione
e la diffusione di interventi efficaci e verificabili. La personalizzazione degli approcci
manualizzati, selezionando gli interventi personalmente rilevanti per il cliente e adat-
tandoli di conseguenza, potrebbe essere una soluzione pratica ed efficace nella pratica
clinica.
Tuttavia, si deve essere consapevoli delle complessità e della comorbidità che spes-
so si presentano in questi adolescenti, e così la CBT è solo parte di un piano di cura
globale. Il problema delle unità di trattamento è la necessità di essere multimodali, trat-
tando non solo l’abuso/dipendenza ma anche rispondendo ai bisogni evolutivi. Questo
richiede un approccio multicomponente alle molteplici problematiche.
Bibliografia
Abrams, D. B. and Niaura, R. S. (1987). Social learning theory. In H. T. Blane and K. E. Leonard
(eds.), Psychological Theories of Drinking and Alcoholism. New York: Guilford Press, pp. 131-78.
American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th
469
Renuka Arjundas e Elish Gilvarry
470
Abuso di droga e alcool
471
SESTA PARTE
I problemi della condotta nei bambini fanno parte dell’ampio spettro dei compor-
tamenti di “acting out”, che va da comportamenti oppositivi relativamente meno gravi,
come gridare e avere scoppi d’ira, fino a forme serie di comportamento antisociale,
come l’aggressività, la distruttività fisica e il furto. Questi comportamenti di solito
co-occorrono e ci sono prove consistenti che indicano che i comportamenti oppositivi
(per es. non compliance) sono i precursori evolutivi di comportamenti antisociali più
gravi. In questo capitolo, l’espressione “problemi della condotta” viene utilizzata per
indicare questa costellazione di comportamenti. La concettualizzazione degli autori dei
problemi della condotta è coerente, ma non isomorfica, con le categorie diagnostiche
del DSM-IV (Associazione Americana di Psichiatria, 2000) di disturbo oppositivo pro-
vocatorio e disturbo della condotta.
475
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
476
La prevenzione dei problemi della condotta
Identificazione e screening
Uno dei primi passi nella ricerca preventiva prevede l’identificazione e la selezio-
ne dei partecipanti. La natura di questo processo dipende dall’applicazione universale
dell’intervento o, piuttosto, dedicata a una popolazione specifica. In generale, gli in-
terventi meno costosi con un minore potenziale di effetti collaterali involontari hanno
maggiori possibilità di venire applicati su base universale. Tuttavia, quando i costi e i
rischi aumentano, gli interventi dedicati vengono spesso utilizzati per dirigere i servizi
verso i ragazzi maggiormente a rischio. Nella prevenzione universale, la prima deci-
sione che bisogna prendere riguarda la particolare collocazione geografica, il territorio
o la scuola, che riceveranno l’intervento. Le informazioni demografiche e scolastiche
(reddito medio, percentuale che ha la riduzione sulla mensa, punteggi ai test, ecc.) e le
statistiche della criminalità vengono spesso utilizzati per selezionare le scuole e/o i ter-
ritori con i livelli più alti di rischio e con minori risorse, che potrebbero trarre maggiori
benefici dai servizi.
Gli interventi dedicati offrono numerosi vantaggi, fra cui una maggiore copertura
dei bambini a –rischio, se paragonati con gli interventi clinici e un’allocazione più ef-
477
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
ficace delle risorse. Tuttavia, il successo degli interventi dedicati dipende dalla capacità
di identificare accuratamente i bambini ad alto rischio (Bennett et al., 1998). Il primo
passo nell’applicazione prevede l’identificazione di variabili marker e lo sviluppo di un
metodo di screening per identificare i bambini ad alto rischio. La presenza di precoci
comportamenti esteriorizzati è stata ampiamente utilizzata a scopo di screening e viene
considerata da molti il migliore e unico predittore di rischio per futuri problemi di
comportamento (Loeber, 1990; Yoshikawa, 1994). È stato suggerito che i bambini
ad alto rischio possono essere identificati fin dalla scuola elementare (per es. CPPRG,
1992). Pertanto, l’asilo o il primo anno elementare potrebbero essere periodi ottimali
per uno screening precoce, dato che l’ingresso a scuola evidenzia un momento stressante
nello sviluppo e dà la prima opportunità per valutare i bambini ad alto rischio parago-
nandoli con la maggior parte dei coetanei (Lochman e CPPRG, 1995; L. G. Hill et al.,
dati non pubblicati).
Fino a poco tempo fa, la maggior parte dei metodi di selezione hanno utilizzato
l’unico criterio di sintomi esteriorizzati in numero maggiore di un cut-off arbitrario.
Tuttavia, Bennett e colleghi (1998, 1999) hanno dimostrato che la classificazione di
rischio basata sulla valutazione dei problemi esteriorizzati da soli, non garantisce un’ac-
curatezza adeguata, dal momento che la sensibilità e il valore predittivo positivo sono
al di sotto dei criteri prestabiliti di >50%, particolarmente al di sotto della condizione
di bassa prevalenza delle popolazioni normali. La metodologia a “ingressi multipli”,
un approccio alternativo stepwise che utilizza misure di valutazione multiple, potrebbe
offrire una maggiore accuratezza di classificazione e potrebbe rivelarsi efficace anche su
un piano di costi (Feil et al., 1995). In questo approccio, una procedura di valutazione
meno costosa viene utilizzata con una specifica popolazione, generando un insieme di
bambini a potenziale alto rischio (primo ingresso). Poi si conduce una seconda valu-
tazione all’interno di questo gruppo, utilizzando speso una misura di screening più co-
stosa o ampia (secondo ingresso). I bambini che soddisfano i criteri a ciascun ingresso
faranno poi parte del gruppo ad alto rischio. Idealmente, ci dovrebbero essere valutato-
ri differenti a ciascun livello per diminuire le distorsioni e gli errori di valutazione e per
selezionare bambini che mostrano problemi di comportamento in contesti differenti
e che quindi hanno maggiore probabilità di andare incontro a esiti negativi (Loeber,
1990).
Un possibile approccio a due ingressi utilizza le valutazioni del comportamento
del bambini da parte degli insegnanti come strumento di screening ampio e iniziale e
quelle dei genitori al secondo livello. Applicato e testato su 382 bambini maschi del-
l’asilo, questa metodologia di screening si è mostrata efficace come mezzo di previsione
di futuri problemi di comportamento al primo anno delle elementari a scuola e a casa
(Lochman e CPPRG; 1995). Inoltre, l’aggiunta del secondo livello (le valutazioni dei
genitori) accresceva l’accuratezza predittiva delle valutazioni degli insegnanti, e le ana-
lisi a lungo termine hanno rivelato la validità della procedura di screening nell’identifi-
care i bambini a rischio di esiti problematici (Jones et al., 2002). Sfortunatamente, gli
approcci a ingressi multipli mostrano ancora i limiti intrinseci di accuratezza predittiva
che hanno tutte le metodologie di screening comportamentale precoce (Offord, 1997).
Lo screening per eventuali disturbi successivi a volte implica dei disallineamenti fra la
sensibilità e il valore predittivo positivo (VPP) della misura di screening. Pertanto, il
478
La prevenzione dei problemi della condotta
Ci sono sempre più prove a sostegno del fatto che interventi precoci possano avere
effetti a lungo termine sulla riduzione dei problemi della condotta nell’adolescenza e
nell’età adulta (vedere Yoshikawa, 1994).Questo è di particolare importanza, perché
questi programmi non sono esplicitamente dedicati alla prevenzione dei problemi della
condotta. Yoshikawa (1994) ha evidenziato quattro elementi comuni ai programmi di
intervento precoci descritti in questa rassegna che hanno dimostrato effetti preventi-
vi a lungo termine relativamente ai problemi della condotta: (1) ciascun intervento
includeva il supporto della famiglia e una componente educativa per il bambino; (2)
l’intervento veniva applicato nei primi 5 anni di vita del bambini: (3) l’intervento è
479
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
durato per almeno 2 anni e (4) il trattamento aveva effetti a breve e medio termine sui
fattori di rischio associati ai problemi della condotta. Di seguito forniamo una breve
descrizione di un efficace programma preventivo ad ampio spettro.
480
La prevenzione dei problemi della condotta
481
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
Sono stati applicati numerose tipologie di interventi preventivi agli anni della
scuola elementare. Gli interventi universali per la prevenzione dei problemi della con-
dotta a scuola vengono di solito applicati dagli insegnanti a tutti gli studenti in classe.
Di seguito scriviamo uno di questi programmi: il PATHS (Kusche e Greenberg, 1994).
Inoltre nei primi anni delle elementari sono stati applicati una serie di interventi mul-
ticomponente che affrontano direttamente popolazioni a-rischio e universali. Gli in-
terventi di “prima generazione” applicati negli anni ’80 hanno mostrato effetti a lungo
termine, mentre gli interventi di “seconda generazione” applicati negli anni ’90 hanno
mostrato esiti a breve e medio termine almeno fino a oggi. Di seguito presenteremo
un esempio di entrambe le tipologie di programmi. In aggiunta, viene descritto un
programma per la riduzione del bullismo nelle scuole.
PATHS
Uno dei programmi di prevenzione più conosciuti è il curricolo per le classi Pro-
moting Alternative Thinking Strategies (PATHS) (Kusche e Greenberg, 1994), che può
482
La prevenzione dei problemi della condotta
essere applicato dall’asilo fino al sesto anno. Formulato all’origine per i bambini sor-
di, è stata ampiamente applicato e sottoposto a verifica. Il programma per la classe è
costituito da lezioni sistematiche, adeguate al livello di sviluppo, per promuovere un
maggiore sviluppo della comprensione emotiva, dell’autocontrollo, dell’autostima po-
sitiva, delle relazioni prosociali e delle competenze di problem-solving interpersonale. Si
addestrano gli insegnanti ad applicare il curricolo, che viene presentato agli studenti
circa tre volte alla settimana. Le lezioni utilizzano la presentazione didattica, la discus-
sione, il modelling e le competenze di role-play. Il programma include anche tecniche
che promuovono l’autocontrollo, la regolazione delle emozioni e le competenze di pro-
blem-solving in condizioni di vita reale, così come aggiornamenti per i genitori e attività
da fare a casa per coinvolgere i genitori e promuovere la generalizzazione. Infine, si
insegnano agli insegnanti strategie per gestire i comportamenti disfunzionali in classe
con efficacia (vedere Bierman et al., 1996 per un maggiore dettaglio).
Molteplici valutazioni del programma hanno dimostrato effetti positivi, fra cui
il miglioramento nel funzionamento adattivo (misure compilate dagli insegnanti e di
self-report), nelle competenze emotive e cognitive, nell’autocontrollo, nella risoluzione
dei conflitti, nei problemi di condotta e nel problem-solving, che erano presenti anche
ai follow-up di 1 e 2 anni (vedere Greenberg et al., 1998). Il curricolo PATHS è stato
anche valutato in qualità di componente di un intervento più complesso, il Fast Track
(CPPRG, 1992, 2000) (vedere di seguito). Le analisi iniziali dopo il primo grado han-
no rivelato un effetto significativo del curricolo sull’atmosfera osservabile in classe e
sulle nomination dei coetanei a causa di comportamenti aggressivi e iperattivi, ma non
cambiamenti nelle valutazioni degli insegnanti (CPPRG, 1999b).
Interventi multicomponente
Le prove preventive Montreal e Seattle sono state condotte negli anni ’80 e sono
rappresentative degli interventi preventivi di prima generazione.
483
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
484
La prevenzione dei problemi della condotta
Il Progetto LIFT (Reid et al., 1999; Reid e Eddy, 2002) è un programma di pre-
venzione universale da applicare a scuola che si focalizza sulla transizione dalla scuo-
la elementare alla media. In questo momento evolutivo così delicato, il programma
fornisce un programma di training sulle competenze interpersonali e un programma
comportamentale per i momenti di gioco, per ragazzi del primo e del quinto anno e un
programma di parent-training per i genitori. Il programma di parent-training insegna
prassi disciplinari adeguate e strategie di supervisione e promuove una maggiore co-
municazione fra gli insegnanti e i genitori. Il programma da applicare a scuola include
lezioni in classe su competenze sociali e problem-solving e un’applicazione nei momenti
di gioco in cortile del Good Behavior Game (Kellam et al., 1994) che è una strategia di
gestione del comportamento basata sul gruppo.
In una prova di intervento randomizzata condotta in 12 scuole elementari, valuta-
tori differenti (insegnanti, genitori e osservatori) indicavano effetti positivi immediati
fra cui una diminuzione dell’aggressività fisica in cortile e di comportamenti avversivi
a casa, così come un miglioramento del comportamento in classe (Reid et al., 1999).
Inoltre, questi effetti sembravano maggiori per i bambini che erano più a-rischio al-
l’inizio dell’intervento (Stoolmiller et al., 2000). Le analisi al follow-up hanno indicato
che, rispetto al gruppo di controllo, i bambini del LIFT mostravano minori sintomi da
deficit di attenzione, minore affiliazione con coetanei devianti, minore uso di alcol e
un numero minore di arresti 30 mesi dopo (Eddy et al., 2000).
485
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
Interventi per gli ultimi anni della scuola elementare e i primi anni
della scuola media
In aggiunta al LIFT, ci sono una serie di altri programmi preventivi che sono stati
applicati con successo ai bambini a-rischio degli ultimi anni delle elementari: l’Anger
Coping/Coping Power Program (Lochman et al., 1987) e il suo adattamento più recente
il Coping Power Program (Lochman e Wells, 1996) e, nella scuola media, l’Adolescent
Transition Program (Dishion e Kavanagh, 2000). Questi interventi possono essere ap-
propriati per i ragazzi che mostrano pattern di problemi di condotta a esordio precoce o
nell’adolescenza (Moffitt, 1993), anche se, sulla base della conoscenza degli autori, non
hanno un’ottica empirica. Entrambi gli interventi sono descritti nel Capitolo 25.
486
La prevenzione dei problemi della condotta
di 10 anni, relative alle transizioni evolutive più importanti: l’ingresso alle elementari,
alla scuola media e alla scuola superiore. Includeva interventi universali e dedicati. Gli
ultimi erano diretti alla metà dei bambini del campione ad alto rischio (identificati nel-
l’asilo come quelli che esibivano i comportamenti più disfunzionali a casa e a scuola).
L’intervento iniziava il primo anno di scuola e continuava fino al decimo. Tuttavia, due
erano i periodi di trattamento più intenso: l’ingresso a scuola (primo e secondo anno)
e la transizione alla scuola media (quinto e sesto grado).Gli interventi all’inizio della
scuola erano mirati a cambiamenti prossimali in sei ambiti: (1) comportamenti disfun-
zionali a casa; (2) comportamenti disfunzionali e non attinenti al compito a scuola; (3)
competenze socio-cognitive relative alla regolazione delle emozioni e al problem-solving
sociale; (4) relazioni con i coetanei; (5) abilità scolastiche e (6) rapporti casa-scuola.
Le componenti integrate dell’intervento includevano il parent-training, le visite a casa,
il training sulle competenze sociali, un tutoring scolastico e un intervento universale
applicato dagli insegnanti allo scopo di accrescere la competenza sociale e accademica
nella classe (PATHS; vedere sopra). L’intervento all’inizio della scuola e ai livelli 5 e 6
(fino al decimo anno) includeva trattamenti che avevano un’enfasi maggiore sul mo-
nitoraggio dei genitori/degli adulti e sul coinvolgimento positivo, sull’affiliazione con
i coetanei e sulla loro influenza, sul successo formativo e sull’orientamento scolastico,
sulla cognizione sociale e sullo sviluppo dell’identità.
I primi risultati dell’intervento Fast Track hanno indicato effetti positivi signifi-
cativi per i bambini ad alto rischio e le loro famiglie, così come effetti dell’intervento
universale sulla classe (PATHS) (CPPRG, 1999a, b, 2002a, b). Alla fine del primo
anno, se paragonati con i bambini del gruppo di controllo, c’erano effetti consistenti
ma moderati, per i bambini nella condizione di intervento, nei seguenti ambiti: sociale,
competenze emotive e scolastiche, interazione con i coetanei e status sociale, problemi
di condotta e utilizzo di risorse di educazione speciale. I genitori nella condizione inter-
vento riferivano un utilizzo minore di punizioni fisiche e una maggiore soddisfazione
nell’essere genitori e dimostravano pratiche disciplinari più appropriate/coerenti e un
coinvolgimento positivo e caloroso nell’interazione con i propri figli. Gli insegnanti
riferivano che i genitori avevano un coinvolgimento più positivo con la scuola. Gli ef-
fetti dell’intervento sul comportamento dei genitori e del bambino erano generalmente
mantenuti alla fine del terzo e del quarto anno.
Problematiche
In questa sezione, discuteremo brevemente cinque importanti problematiche che
i professionisti e anche i ricercatori devono affrontare in relazione a interventi per la
prevenzione dei problemi di condotta nei bambini e negli adolescenti: (1) la necessità
di valutare e spiegare i meccanismi di efficacia (ossia mediazione e moderazione degli
effetti); (2) la possibilità di effetti iatrogeni in funzione dello screening, dell’intervento o
entrambi; (3) la necessità di una maggiore sensibilità culturale nello sviluppo, applica-
zione e valutazione degli interventi preventivi; e (5) la necessità di fare attenzione a que-
stioni relative alla diffusione efficace di questi interventi empiricamente supportati.
487
Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
Meccanismi di efficacia
Dal momento che l’efficacia di molti interventi per la prevenzione dei proble-
mi di condotta è diventata ben nota, si fa sempre più attenzione ad analizzare fino a
che punto questi effetti possano essere limitati a particolari gruppi di individui (ossia
moderazione dell’effetto, vedere per esempio i maschi versus le femmine e bambini
europei-americani versus bambini di colore) e a individuare i processi che potrebbero
rendere conto degli esiti dell’intervento (ossia mediazione). Lo spazio disponibile ci im-
pedisce una rassegna approfondita sulla moderazione e la mediazione dell’effetto nella
prevenzione dei problemi di condotta. Tuttavia, forniremo pochi esempi per illustrare
la diversità dei risultati a oggi. Relativamente alla moderazione, una recente meta-ana-
lisi di programmi applicati a scuola per la prevenzione dei comportamenti aggressivi ha
trovato che, mentre il genere sessuale del bambino e l’etnia non moderavano gli effetti
dell’intervento, questi programmi tendevano a dimostrare una grandezza dell’effetto
maggiore nei bambini ad alto rischio, nei bambini in età prescolare e negli adolescenti
e in programmi con elevata qualità di implementazione (Wilson et al., 2003).Relativa-
mente alla mediazione, gli obiettivi prossimali dell’intervento Fast Track al terzo anno
(distorsioni attributive ostili, competenze di problem-solving, pratiche disciplinari rigide
e comportamenti aggressivi e prosociali a casa e a scuola) mediavano parzialmente gli
esiti a 1 anno di distanza (CPPRG, 2002b). Di particolare importanza, era il fatto che
i risultati fossero ampiamente coerenti con il modello dei marker precoci dei problemi
di condotta; inoltre, i pattern di mediazione erano specifici per ogni ambito (per es. i
comportamenti genitoriali mediavano gli effetti dell’intervento sul comportamento del
bambino a casa ma non a scuola ) piuttosto che sequenziali.
Effetti iatrogeni
Gli effetti iatrogeni (ossia effetti negativi causati dall’intervento) potrebbero po-
tenzialmente manifestarsi in due aspetti della prevenzione: nello screening e durante
l’intervento stesso. Relativamente allo screening, il principale aspetto critico della pre-
venzione dedicata è la stigmatizzazione (Kerns e Prinz, 2002. Questo potrebbe essere
particolarmente importante quando l’intervento si verifica nel contesto scolastico e la
partecipazione del bambino all’intervento è manifesta ai compagni e all’insegnante. A
parere degli autori, questo timore non ha fondamenti empirici. Inoltre, l’esperienza
degli autori nel lavorare con i bambini a-rischio e le famiglie nel progetto Fast Track
(CPPRG, 1992, 2000) è stata che, se l’intervento viene presentato come uno strumento
per accrescere le competenze e le abilità, allora è meno probabile che si verifichi una
stigmatizzazione.
Al contrario, ci sono chiare prove empiriche a supporto almeno di una tipologia
di effetti iatrogeni in un particolare tipo di intervento e in uno specifico periodo evo-
lutivo. Dishion e colleghi (Dishion et al., 1999) hanno passato in rassegna le prove che
indicano come posizionare gli adolescenti ad alto rischio in almeno un intervento di
gruppo di coetanei poteva aumentare i problemi di condotta e gli esiti negativi di vita.
Per esempio, Poulin et al. (2001) hanno mostrato che gli aumenti nelle percentuali di
488
La prevenzione dei problemi della condotta
delinquenza indicate dagli insegnanti e i self-report di fumo erano associati alla parte-
cipazione, 3 anni prima, a gruppi di prevenzione per ragazzi ad alto rischio. Il proba-
bile meccanismo di influenza viene definito “training della devianza”, in cui i ragazzi
ricevono l’attenzione del gruppo quando vengono coinvolti in problemi di comporta-
mento. Questi risultati hanno portato allo sviluppo e alla promozione di interventi che
minimizzano l’influenza dei gruppi di adolescenti ad alto rischio e che coinvolgono i
ragazzi in attività convenzionali con i coetanei (per es. squadre sportive e club scolastici)
a basso rischio. A questo punto, non si sa se tali effetti iatrogeni si verificano anche con
gruppi di bambini più piccoli a rischio di problemi di condotta, o fino a che punto
questo fenomeno si verifichi in altri interventi con adolescenti a-rischio. Ciò non di
meno, questi risultati mandano un chiaro messaggio a chi applica gli interventi e cioè
di considerare delle alternative agli interventi di gruppo quando si lavora con adole-
scenti a rischio di problemi di condotta.
Sensibilità culturale
È ben noto che la maggior parte degli interventi per la prevenzione dei problemi di
condotta sono stati primariamente basati sulla ricerca con famiglie europee-americane
e di classe media (Kerns e Prinz, 2002; Kumpfer et al., 2002). Ci sono alcune domande
importanti che devono essere affrontate: fino a che punto questi programmi generici
funzionano in altri gruppi culturali, se c’è la necessità di adattare questi interventi o se
debbano essere sviluppati interventi specifici in relazione alla cultura. Sfortunatamen-
te, ci sono pochi dati disponibili per rispondere a queste domande e la letteratura si
divide (Kumpfer et al., 2002). Le cose stanno così: molti degli interventi descritti in
questo capitolo hanno incluso altri gruppi etnici nelle proprie valutazioni del program-
ma, e alcuni hanno notato effetti di generalizzazione nei gruppi (ossia una mancanza
di moderazione; vedere CPPRG, 1999a). Tuttavia, questo non vuol dire che versioni
adattate culturalmente non potrebbero essere più efficaci.
Analisi economiche
Secondo un’analisi condotta da Cohen (1998), una carriera criminale, negli Stati
Uniti, costa alla società approssimativamente circa 1.3 milioni di dollari (1997 dollari,
scontati del 2%). Nel Regno Unito, il costo medio era di 15 382 sterline in un singolo
anno per un campione di bambini fra i 4 e i 10 anni con problemi di condotta (Knapp
et al., 1999). Dati questi dati sconcertanti, è evidente che i programmi di prevenzione
efficaci potrebbero dare benefici non solo su un piano di servizi umani ma anche su
un piano economico, se riescono a modificare la traiettoria di questi bambini. A oggi,
sono state condotte relativamente poche analisi economiche con interventi preventivi
empiricamente validati, anche se l’orizzonte sta cambiando (per esempio Greenwood
et al., 1996; Chatterji et al., 2001). Queste analisi hanno discrete probabilità di guada-
gnarsi supporto sociale e politico per interventi che potrebbero, a un primo sguardo,
sembrare piuttosto costosi.
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Robert J. McMahon e Dana M. Rhule
Applicazione dell’intervento
È chiaro dalla rassegna presentata in questo capitolo che ci sono una serie di in-
terventi che sembrano decisamente promettenti nella prevenzione dei problemi della
condotta. Tuttavia, la sfida principale in questo campo è la diffusione e divulgazione di
questi interventi empiricamente validati nei territori. Pochi programmi, come il Triple-P
(Sanders, 1999) hanno previsto le strategie di diffusione e divulgazione nel proprio mo-
dello. Una procedura molto promettente per affrontare questa sfida è il sistema operati-
vo Communities That Care per la selezione e l’applicazione di una serie di programmi di
intervento efficaci (Hawkins et al., 2002). Le comunità raccolgono i dati locali sui fattori
di rischio e protettivi, che vengono poi utilizzati per selezionare gli interventi preventivi
più appropriati per ridurre i fattori di rischio e per aumentare quelli protettivi. C’è una
forte enfasi sulla mobilitazione comunitaria e sull’educazione, che si presuppone porti
a un impegno e a un senso di appartenenza fra molti membri della comunità. Questo
approccio bottom-up alla prevenzione è stato anche utilizzato nel Better Beginnings, Bet-
ter Futures Project (Peters et al., 2003) che è un progetto universale, su base territoriale,
designato a promuovere uno sviluppo positivo e a prevenire il disadattamento emotivo
e comportamentale nei bambini piccoli. Enfatizzando il coinvolgimento del territorio
nello sviluppo e nell’applicazione, il progetto si focalizza sul rafforzare le famiglie e i
vicini e sullo stabilire partnership coordinate con servizi nuovi ed pre-esistenti. La na-
tura individualizzata del progetto è unica e assegna ai membri della comunità un ruolo
fondamentale nel determinare il tipo e la struttura dei servizi e/o dei programmi che
potrebbero rispondere meglio ai bisogni individuali e, quindi, ricevere fondi.
Conclusioni
In questo capitolo, sono stati presentati e descritti una serie di interventi sviluppati
e valutati per la prevenzione dei problemi di condotta. Questi programmi di intervento
variano rispetto all’età dei bambini a cui sono diretti, al livello di prevenzione (univer-
sale, particolare e dedicato) e al tipo di interventi utilizzati. Sono anche state descritte
una serie di problematiche importanti nella prevenzione dei problemi di condotta, fra
cui l’identificazione e lo screening dei bambini, i meccanismi di efficacia, la possibilità
di effetti iatrogeni, la sensibilità culturale, le analisi economiche e l’applicazione del-
l’intervento. Si spera che le informazioni presentate in questo capitolo saranno utili ai
clinici e ad altri professionisti quando prendono in considerazione la prevenzione dei
problemi di condotta nei bambini e negli adolescenti.
Riconoscimenti
La preparazione di questo manoscritto è stata in parte supportata su concessione
R18 MH50951 dell’Istituto Nazionale Di Salute Mentale.
490
La prevenzione dei problemi della condotta
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