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Diritto del lavoro

Il diritto del lavoro appone norme per sostenere la parte sbilanciata dei lavoratori nei
rapporti con il mercato del lavoro. Il mercato del lavoro è sbilanciato in quanto c’è un eccesso
di offerta di lavoro.

La gerarchia delle fonti del diritto del lavoro è essenzialmente questa:


- Legge
- Contratti collettivi
- giurisprudenza (sentenza dei giudici).

Per quanto riguarda l’ultimo; la giurisprudenza, in Italia non è fonte di diritto, ma nel diritto
del lavoro essa assume forma di diritto sostanziale. Prendiamo per esempio il licenziamento;
la legge ne da un’unica interpretazione, quella dell’impossibilità di continuare l’attività
produttiva, tuttavia per la giurisprudenza sono invece previsti molteplici casi di
licenziamento.

Per quanto riguarda la legge italiana, essa ha sopra di sé l’ordinamento sovranazionale


europeo. L’UE ha dichiarato che la tutela sul lavoro in Italia era arretrata, perciò ha introdotto
alcune figure, come per esempio il concetto di contratto a termine, andando a modificare le
norme sulla tutela dell’ordinamento nazionale.
Alla nascita di tale direttiva europea, si è stabilito che era necessario evitare l’abuso di tale
tipo di contratto. Si è perciò stabilito un tetto temporale di tre anni, il cui superamento è
considerato applicazione di contratto a tempo indeterminato.
In caso di contrasto tra norme europee ed italiane, prevale il principio europeo. Alcuni giudici
hanno posto il problema di stabilire se sia possibile e coerente la disapplicazione delle norme
italiane.

Le fonti interne del diritto del lavoro sono:


- Costituzione
- Legge ordinaria
- Contratti collettivi
- Prassi aziendale

Costituzione
Art. 4 Cost. Comma 1: ogni cittadino ha diritto al lavoro.
Esso non è un diritto soggettivo, ma vi deve essere l’impegno della Repubblica a consentire la
piena occupazione dei cittadini.
Art. 4 Cost. Comma 2: il lavoro è anche un dovere.
Tuttavia, affinché possa esserci il progresso spirituale della società , il lavoratore deve avere la
libertà di scelta della mansione che meglio ottemperi le sue potenzialità .
Art. 3 Cost. Comma 1: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge (principio di uguaglianza)
Art. 3 Cost. Comma 2: (uguaglianza sostanziale) la Repubblica deve eliminare gli ostacoli che
si frappongono alla vita sociale di ogni cittadino (sforzo socialistico).
Art. 35 Cost.: tutela dei rapporti economici.
Tutti i tipi di lavoro devono essere in tutelati allo stesso modo. Nella realtà si tutela
maggiormente il lavoro subordinato.
Art. 36 Cost.: il lavoratore deve avere una retribuzione tale da garantire a se stesso e alla sua
famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Il datore di lavoro si deve quindi far carico di questa
obbligazione sociale.
Il lavoratore ha diritto al riposo giornaliero, al giorno di riposo settimanale e alle ferie
settimanali. (per il lavoro subordinato si è stabilito che le ore giornaliere devono essere
massimo 13, e quindi minimo 11 di riposo).
Art. 37 Cost.: (principio di parità ) si deve avere la stessa retribuzione indipendentemente dal
sesso.
Art. 38 Cost.: sull’assistenza e la previdenza sociale.
- Le risorse pubbliche premiano i lavoratori mediante la pensione.
- la Repubblica provvede al mantenimento e all’assistenza sociale dei cittadini inabili al lavoro.
(es. gli anziani).
Art. 39 Cost.: l’organizzazione sindacale è libera.

Inderogabilità .
I privati non possono porre in essere norme che sono in contrasto con la legge o comunque al
di sotto della tutela minima dei lavoratori.
Se la norma è peggiorativa viene considerata nulla secondo il principio della “nullità parziale”
secondo cui il resto del contratto rimane “in vita” e la regola nulla viene sostituita con la
regola di legge. Il consenso del lavoratore è irrilevante, essendo la parte debole del contratto
di lavoro egli viene protetto comunque. Per la prima volta, con il Jobs Act (2015), una parte
delle regole del diritto del lavoro diventano derogabili da parte dei privati. Perciò , in apposite
sedi che garantiscono il consenso del lavoratore, si possono stabilire norme che tutelano il
lavoratore stesso in modo minore rispetto a quanto stabilito per legge.

Contratti di lavoro collettivi e individuali

CONTRATTO COLLETTIVO DI LAVORO è un accordo stipulato tra i sindacati dei datori di


lavoro e quelli dei lavoratori di un settore sul quale si devono basare i
singoli contratti individuali di quel settore. È composto da 2 parti: una economica che
stabilisce la retribuzione, rinnovata ogni 2 anni e un’altra normativa, che stabilisce delle
regole per il comportamento dei lavoratori e dei datori di lavoro, rinnovata ogni 4 anni.
CONTRATTO INDIVIDUALE è un accordo stipulato tra il datore di lavoro e il lavoratore (che
si obbliga a prestare lavoro per conto o sotto direzione del suo datore in cambio di una
retribuzione), non può essere contrario alle disposizioni del contratto collettivo, a meno che
non preveda condizioni più favorevoli per il lavoratore, e da origine ad un rapporto di lavoro
subordinato.

La prassi aziendale

Il più comune esempio di prassi è il bonus natalizio, che da comportamento spontaneo è


divenuto comportamento obbligato del datore di lavoro. Per liberarsi dalla prassi il datore di
lavoro deve modificare la fonte, che secondo alcuni sarebbe il contratto collettivo mentre
secondo altri quello individuale. Un datore di lavoro benevolo quindi deve essere attento con
la sua benevolenza, perché per toglierla deve per forza fare un accordo con il lavoratore e in
alcuni casi anche con il sindacato.
Il diritto sindacale

La legislazione del lavoro è nata agli inizi del 900’ ed è cresciuta progressivamente, gli anni
d’oro del diritto del lavoro sono stati dai 60’ ai 70’ in cui si sono stabilite alcune delle
discipline più importanti; tale sviluppo fu dovuto da una parte al legislatore e dall’altra ai
sindacati, che in alcuni contratti collettivi hanno addirittura anticipato il legislatore.
Nel 1970 il diritto sindacale raggiunge il culmine attraverso la legge n.300 del 70 che pone
una grande forza nelle mani del sindacato, limitando il potere imprenditoriale.
Il sindacato è l’unico diritto senza norme; si dice infatti che i sindacati agiscano in “anomia”,
esso si basa solo su pochi principi, come la libertà sindacale, in base alla quale abbiamo il
pluralismo sindacale. Storicamente i grandi sindacati sono la CGL, la CISL e la UIL con le
ultime due nate come costole della prima.
Questi tre sindacati si riconoscevano in tre idee diverse:
CISL= Democristiani
UIL= Socialisti repubblicani
CGL= Comunisti

A partire dagli anni 2000 abbiamo avuto una scissione di idee tra la CGL e gli altri due, con la
prima ferma sulla difesa dei diritti dei lavoratori e le altre 2 più disposte al dialogo con le
aziende. Questo ha portato la nascita di trattative separate con la CGL rispetto a quelle con gli
altri. La divisione tra i sindacati ha messo in crisi l’anomia e quindi le regole non scritte tra
datore di lavoro e sindacati. Al giorno d’oggi si reclamano delle regole per i sindacati.

Già dagli anni 80-90 il diritto del lavoro ha iniziato ad essere regolato da deroghe.
I rapporti di lavoro si sono costituiti più in base a queste deroghe che ai principi istituiti negli
anni 60 e 70. Si è quindi creato una sorta di mondo parallelo, di contratti “di serie B” fatti ai
giovani e basati sulle deroghe (e quindi contratti da precari), e poi contratti “di serie A” cioè
quelli fatti ai vecchi, intoccabili e basati sulle regole degli anni 70. Il governo Renzi ha deciso
di riformare il diritto del lavoro per eliminare il vecchio contratto degli anni 70 e stabilirne
uno nuovo. La tutela dell’articolo 18 sul licenziamento illegittimo è stata cancellata per tutti i
nuovi lavoratori del 2015, inoltre per la prima volta c’è una serie di norme a favore dei
lavoratori disoccupati e non solo per quelli con un’occupazione.
Quindi, l’alto tasso di tutele del rapporto di lavoro è stato barattato con delle tutele a favore
della disoccupazione, questo rende il lavoro più mobile e precario, tuttavia il lavoratore viene
tutelato non più nel suo posto di lavoro, ma nella sua occupabilità , ovvero nella sua capacità di
trovare un lavoro.
ART. 39: L'organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici
locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento
interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria
per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

“l’organizzazione sindacale è libera”.


-Organizzazione: si riferisce anche i gruppi non organizzati in associazioni (manifestazioni)
-Libera: nessun limite all’organizzazione sindacale ne al numero di sindacati
-Sindacale: è tutto ciò che può essere strumento dei lavoratori di rivendicazione dei propri
diritti. I limiti opponibili a questo principio devono rispettare i diritti costituzionali.
Si parla di libertà sindacale anche negativa, nel senso che questa protegge anche chi si rifiuta
di iscriversi a qualsiasi sindacato.
Il secondo, il terzo e il quarto comma non sono mai stati applicati, soprattutto perché i
sindacati hanno visto con diffidenza l’eventuale registrazione, temendo che questa avrebbe
comportato dei controlli e dei limiti legali. Di conseguenza i contratti collettivi in Italia non
hanno efficacia generale per tutti lavoratori. I sindacati sono associazioni non riconosciute,
che si muovono nell’ambito del diritto privato e seguono le regole generali sul contratto.
I contratti collettivi dovrebbero essere quindi rappresentati unitariamente in base ai loro
iscritti, cosa non applicata dei sindacati, in quanto il conteggio degli iscritti (con la
conseguente rappresentazione del sindacato in base ad essi) significa dare un peso diverso a
seconda del sindacato; se si attuasse, si metterebbe in evidenza la superiorità della CGL,
ledendo l’autonomia dei sindacati.
I contratti collettivi per avere efficacia giuridica, devono seguire quanto stabilito dall’art. 39.

In Italia abbiamo avuto il metodo concentrativo, chi ha reso i sindacati dei soggetti politici a
tutti gli effetti; cosicché prima di fare una legge bisognava chiederne l’approvazione al
sindacato. Questo processo ha subito un declino a partire dei primi governi Berlusconi. Le
successive leggi, non sono nemmeno state comunicate in anticipo alle parti sociali. Negli
ultimi anni i sindacati hanno quindi subito un processo di emarginazione dalla scena politica.
Esiste anche un modello partecipativo”, tradizionale della Germania, in cui il sindacato
partecipa alla gestione dell’impresa. In Italia è sempre stato applicato il modello conflittuale,
in cui in sostanza il datore di lavoro decide le sue regole e poi il sindacato si lamenta,
protestando per cambiare queste regole e per far valere i diritti dei lavoratori. Tale protesta
culmina generalmente nello sciopero. In realtà il modello partecipativo potrebbe essere
effettuato anche in Italia, grazie in particolar modo all’articolo 46 della costituzione che parla
della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, norma che fino ad ora è sempre
stata disapplicata.
Ultimamente è molto usato il metodo ente bilaterale, in cui un soggetto rappresenta sia il
sindacato che il datore di lavoro. Questi enti gestiscono i fondi che le aziende stanziano per la
formazione dei lavoratori. In questa forma degli enti bilaterali abbiamo una sorta di
partecipazione del sindacato alla gestione dell’impresa.
Vi sono dei soggetti di rappresentanza dei lavoratori anche all’interno dei luoghi di lavoro,
cioè le rappresentanze aziendali, figure previste dall’articolo 14 dello statuto dei lavoratori.
Dopo il referendum del 95 i contributi sindacali sono volontari, e ormai pochi lavoratori
hanno la tessera sindacale perché pochi lavoratori si riconoscono nel sindacato.
Bisogna distinguere la rappresentanza dalla rappresentatività sindacale; il sindacato non cura
l’interesse del singolo, bensí quello di una collettività .
La rappresentatività del sindacato si basa sulla sua capacità di mobilitazione dei lavoratori.

Le caratteristiche del sindacato sono:


- la numerosità degli iscritti
- la presenza del sindacato in almeno quattro regioni
- la presenza in più settori
- la capacità negoziale con continuità

I sindacati presenti in azienda sono le RSA che si distinguono dai sindacati individuati
dall’articolo 14 perché possono nascere solo nelle aziende con più di 15 dipendenti, e possono
essere costituite solamente da alcuni sindacati. L’unico requisito che deve avere una RSA per
rappresentare una certa unità produttiva è quello di aver sottoscritto un contratto collettivo a
qualsiasi livello d’impresa. I diritti della RSA sono:
- Diritto di assemblea
- Referendum
- Diritto di affissione
- Diritto ad avere spazi riservati
Inoltre, i dirigenti delle RSA hanno il diritto di astenersi dall’attività lavorativa per svolgere
l’attività sindacale, alcuni con retribuzione altri senza, l’uso che il dirigente fa del permesso è
insindacabile dal datore di lavoro. Un’altra tutela è contro il licenziamento, infatti ancor prima
di conoscere le cause il sindacato può richiedere l’immediata reintegrazione del dirigente.
A causa del gran numero di RSA presenti in un’azienda si è pensato di passare ad una
rappresentanza unitaria conferita alla figura di “RSU”.
Nasce quindi questo nuovo organismo che ha al suo interno diversi sindacati. Invece di
tutelare solo i lavoratori di un certo sindacato, la RSU tutela tutti i lavoratori appartenenti a
quell’unità produttiva. La RSU si forma attraverso votazione dei lavoratori con contratto a
tempo indeterminato, per esempio in un’azienda con 200 dipendenti vengono assegnati tre
seggi.
Il caso FIAT

Nel 2009 viene stipulato un Accordo Interconfederale sulla riforma degli assetti
contrattuali, definito “quadro” in quanto dettava in via sperimentale, i principi
del nuovo modello contrattuale. La CGIL però non lo sottoscrisse a causa della
possibilità, prevista nello stesso, di introdurre nel successivo contratto
nazionale di categoria delle clausole che permettono di derogare anche in
pejus alla disciplina dei singoli istituti economici o normativi previsti nel
contratto nazionale, qualora ciò sia funzionale al governo in situazioni di crisi o
a favorire l’occupazione o lo sviluppo economico di un territorio o di
un’azienda.
Di conseguenza, alla CISL e alla UIL, nonché alle relative organizzazioni di
settore, si applicavano le regole previste dall’Accordo del 2009 mentre le stesse
non si applicavano alla CGIL e alle relative organizzazioni di settore, tra cui la
FIOM, che rimanevo ancorate alle regole introdotte con il precedente Accordo
(Protocollo Ciampi-Giugni del 1993).

Nel 2010 FIAT annuncia la nascita del progetto “Fabbrica Italia”,  il suddetto
progetto prevede di investire un’ingente quantità di danaro (si parla di circa 20
miliardi) negli stabilimenti italiani per raddoppiare la produzione, con
l’alternativa di trasferire la stessa all’estero, dov’è possibile abbattere i costi e
godere di una legislazione lavoristica meno vincolante. Non volendo rinnegare
il suo retaggio l’azienda manifesta l’intenzione di proseguire la produzione in
Italia, ma a condizione che sia possibile derogare alle stringenti regole dei
contratti nazionali di categoria, nel caso al contratto dei Metalmeccanici, al fine
di introdurre regole di maggiore flessibilità per gli stabilimenti locali: l’accusa di
FIAT è che dietro alle garanzie che il contratto di categoria pone a favore dei
lavoratori si nascondano comportamenti di scarsa efficienza da parte degli
stessi, cosa che incide negativamente sulla produttività.
Tale situazione si manifesta soprattutto nello stabilimento di Pomigliano d’Arco
(NA), dove si registra un tasso di assenteismo per malattia di molto superiore
alla media.
che si incrementa ulteriormente in prossimità del weekend (famosa è la
risposta dell’AD Marchionne alla domanda sul giorno di maggior assenteismo:
“Dipende da che partita c’è”).

il 15 giugno 2010 viene siglato un accordo tra FIM, UILM, UGL, cioè i sindacati
del settore metalmeccanico facenti capo alle confederazioni, e FIAT per la
costituzione della “Fabbrica Italia Pomigliano – FIP” , nella quale vengono
riversati tutti i lavoratori della ex fabbrica FIAT di Pomigliano. Formalmente FIP
è una nuova azienda, controllata soltanto dal gruppo FIAT e non aderente al
contratto nazionale dei Metalmeccanici: in questo modo è possibile estendere
ai lavoratori le deroghe al contratto dei Metalmeccanici che la FIAT ha ottenuto
dai sindacati firmatari dell’accordo del 2009.
A tale modifica contrattuale non aderisce però la FIOM-CGIL, che anzi si oppone
fermamente alla stessa: viene quindi proposto un referendum sul contratto in
questione, che vede l’approvazione del 63% dei lavoratori.

Si giunge cosi ad una svolta fondamentale; FIAT disdice il contratto nazionale


dei Metalmeccanici stipulato nel 2008 con CGIL, CISL e UIL.
Il 23 dicembre 2010 viene siglato a Torino, presso lo storico stabilimento di
Mirafiori, un contratto (“CCSL”=Contratto Collettivo Specifico di lavoro di primo
livello) a cui partecipano tutte le principali sigle del settore metalmeccanico, ma
non la FIOM.

CGIL torna parzialmente sui suoi passi e accetta che i contratti decentrati, in
particolare quelli aziendali, possano derogare in pejus al contratto collettivo
nazionale, ma solo nei limiti di quanto previsto dallo stesso contratto nazionale.
La partecipazione della CGIL, a fianco di CISL e UIL, nella stipula del contratto
con Confindustria (quindi vincolante anche per FIAT in quanto aderente a
Confindustria) determina dunque un alleggerimento della difficile situazione
che si era venuta a creare tra parti sindacali e parti datoriali a seguito dei fatti
precedentemente esposti.

Il 13 agosto 2011, viene emanato il decreto legge 138/2011, poi convertito in


legge 148/2011 con l’apposizione della questione di fiducia.
l’articolo 8 prevede che i contratti territoriali non meglio definiti, possano
derogare in pejus non solo al contratto nazionale ma anche alla legge, pur
rimettendo all’autonomia delle parti la discrezionalità sull’esercizio di queste
deroghe; tutto ciò nel solo rispetto di criteri generalissimi (scopo e oggetto
dell’accordo) che sarebbero comunque inviolabili. Particolarmente critico e
criticato risulta il comma 3, detto “salva-FIAT” in quanto prevede che “le
disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e
sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti
sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui
il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con
votazione a maggioranza dei lavoratori”: si tratta evidentemente di una
disposizione espressamente volta a garantire l’applicabilità del CCSL FIAT e
degli accordi di Pomigliano, ratificati dalla maggioranza dei lavoratori tramite
referendum.
Con tale espediente il Governo è sicuro di risolvere definitivamente la
controversia a favore di FIAT (vista anche la “scarsa simpatia” dei governi
Berlusconi per le organizzazioni sindacali); senonché il 21 settembre 2011, in
occasione della ratifica definitiva dell’AI del 28 giugno, Confindustria, CGIL, CISL
e UIL aggiungono al testo dello stesso una postilla nel quale si afferma che le
organizzazioni aderenti a tale accordo si sarebbero impegnate ad applicare
solamente le norme dello stesso, con l’intenzione dunque di lasciare in disparte
la normativa prevista dall’articolo 8 (in particolare il comma 3 “salva Fiat”).
Questa ulteriore presa di posizione dei sindacati e soprattutto di Confindustria
spinge FIAT a fare “il grande passo”: l’impresa torinese decide di uscire
dall’associazione degli industriali con decorrenza dal 1 gennaio 2012. In questo
modo essa è svincolata da tutti gli accordi conclusi da Confindustria con i
sindacati, con il risultato che l’unica disciplina applicabile ai dipendenti del
gruppo risulta quella prevista dal CCSL siglato il 23 dicembre 2010.

Cosí FIOM, che rivendica la maggior rappresentatività in tutto il settore


metalmeccanico, non può rappresentare i propri lavoratori nelle unità
produttive del gruppo in quanto non firmataria del CCSL.
seguono ricorsi giudiziari da parte di FIOM, che lamenta una lesione dei diritti
dei lavoratori a essere rappresentati e l’antisindacalità del comportamento di
FIAT. Alcuni giudici sollevano la questione alla Corte Costituzionale che emette
una sentenza di incostituzionalità. L’effetto della sentenza nella vicenda è
quello di vanificare gli sforzi effettuati da FIAT per superare la contrapposizione
di FIOM: quest’ultima è infatti nuovamente ammessa a costituire RSA perché,
pur non firmandolo, aveva “preso parte alle trattative” relative al CCSL del 2010.

Quindi nel 2013 il requisito per costituire RSA diventa semplicemente aver partecipato alle
trattative, anche se non si è firmato nessun contratto.
La corte motiva questa decisione con la regola di rispettare il pluralismo perché non si può
essere discriminati per aver dissentito alla firmato di un contratto.
La corte costituzionale non ha però risolto il problema, si è limitata a risolvere il caso Fiat, non
ha dato dei principi generici su cosa si intenda “sedersi al tavolo delle trattative”. In futuro il
datore di lavoro potrebbe limitarsi a non invitare a partecipare alle trattative i sindacati a lui
avversi. In questa sentenza la corte costituzionale ammonisce il legislatore a risolvere il
problema della rappresentanza sindacale.
Se in unità produttiva manca un contratto collettivo, il che è molto comune, le RSA possono
essere costituite da chi ha partecipato alle trattative.

Art. 28 dello statuto dei lavoratori: condotta-antisindacale del datore di lavoro.


Da questo articolo si instaura un procedimento veloce e sommario con il quale si chiede al
giudice se il comportamento del datore di lavoro abbia violato dei diritti legati alla libertà
all’associazione sindacale. Può rivolgersi al giudice l’organismo locale delle associazioni
nazionali, ma non le RSA, poiché sono direttamente coinvolte.
Nel dicembre del 2014, i lavoratori indissero un’assemblea, il datore di lavoro mise a
disposizione i locali della mensa, e quando i lavoratori si rifiutarono egli disse che se non
avrebbero fatto l’assemblea nei locali da lui designati, allora non avrebbero avuto diritto al
rimborso delle ore. Scatto quindi il procedimento ex-art. 28 e I giudici della corte di
cassazione parteggiano per i lavoratori, sostenendo che questi hanno il diritto e non anche il
dovere di riunirsi nei locali messi a disposizione dal datore di lavoro.

Il contratto collettivo

La regola prodotta dal contratto collettivo influisce sul contratto individuale, che può
modificare il contratto collettivo solo se si vanno a migliorare i trattamenti nei confronti dei
lavoratori. Il contratto collettivo può essere di diversi livelli:
1) CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro). Fonte che regola i rapporti di lavoro a
livello nazionale; all’interno di essi si trovano delle regole generali, che non possono tener
conto di tutti gli aspetti, soprattutto per quanto riguarda la piccola impresa.
2) Contratto di secondo livello (o integrativo). Si stipula livello a aziendale e riguarda la
singola azienda o il gruppo di aziende.
Sul piano giuridico delle fonti i due contratti sono di pari valore, nel piano pratico però quello
aziendale deve sottostare a quello nazionale.

Il contratto nazionale del 1993 fa un’operazione di recupero della retribuzione, considerando


cioè l’inflazione intervenuta. L’aumento di retribuzione vero e proprio spetta invece al
secondo livello: la retribuzione è legata alla performance aziendale. Molte aziende (con meno
di 15 dipendenti) non hanno la contrattazione di secondo livello, e i lavoratori hanno una
retribuzione “fissa” cioé basata solamente sul contratto collettivo nazionale.
Dal 2009, se manca il secondo livello scatta un trattamento economico sostitutivo della
contrattazione aziendale che si chiama “elemento di garanzia retributiva” che consiste in una
parte di salario fissa che va ad aggiungersi a quella stabilita dal contratto nazionale e varia a
seconda della dimensione aziendale e del tipo di mansione che ricopre il singolo lavoratore.
Questo indebolisce però la contrattazione aziendale: il lavoratore che ha l’elemento di
garanzia in busta paga non ha voglia di contrattare, e il sindacato risulta quindi indebolito.
Dietro il contratto collettivo ci sono normalmente due tipi di clausole, normative e
obbligatorie. Le clausole obbligatorie attengono ai rapporti tra i sindacati e i datori di lavoro,
mentre quelle normative attengono ai singoli lavoratori.

Per quanto riguarda gli effetti, il contratto collettivo ha efficacia soggettiva.


Anche se l’articolo 39 parla di un’efficacia erga omnes, questi presuppone la registrazione del
sindacato, che non è mai avvenuta, per cui l’articolo non è mai stato attuato.
Gli unici contratti con efficacia erga omnes solo quelli che hanno origine dal diritto civile, e
pertanto dal diritto comune. I sindacati si muovono invece nel diritto privato.
Di conseguenza l’efficacia del contratto collettivo è limitata alle parti che l’hanno stipulato.

Se l’impresa fa parte di un’associazione che ha stipulato un contratto collettivo, allora è


costretta a rispettare quel contratto. Ma se un’impresa non è iscritta a nessun’associazione
stipulante, non è obbligata ad applicare alcun contratto collettivo.
Nella prassi il contratto collettivo trova un’applicazione molto ampia, normalmente
l’applicazione avviene o in modo esplicito o con un comportamento concludente.
Sulla base della libertà sindacale, il datore di lavoro può non applicare un contratto collettivo
specifico; può scegliere qualsiasi fonte, anche iscrivendosi ad associazioni di datori di lavoro
non attinenti al suo settore. Si pensi per esempio, ad una banca che usa il contratto collettivo
del settore tessile. Ovviamente il datore di lavoro cerca quelli più convenienti da applicare.
Quindi il datore di lavoro può trattare diversamente due tipi di dipendenti, attraverso due tipi
di contratti. Il principio di uguaglianza tra lavoratori contenuto nella Costituzione (Art. 3) non
può essere invocato nei rapporti tra privati, tuttavia il datore di lavoro non può discriminare i
lavoratori sulla base di qualità soggettive.
Se il datore di lavoro applica un contratto collettivo in modo silenzioso attraverso un
comportamento concludente, questi non si può svincolare, nella pratica succede spesso con i
contratti scaduti.
Per quanto riguarda la retribuzione minima invece, il contratto collettivo ha efficacia erga
omnes. Secondo le interpretazioni dei giudici infatti, quando il contratto collettivo stabilisce la
retribuzione minima sta attuando l’articolo 36 della costituzione, articolo che trova la sua
attuazione nei rapporti tra privati.
Quindi il datore di lavoro può scegliere il contratto collettivo che vuole ma non può andare
sotto i minimi tabellari del contratto collettivo di categoria.
Un datore di lavoro non iscritto ad alcuna associazione può non applicare nessun contratto
collettivo a patto che rispetti i minimi di categoria.

Nel 2011 è stato raggiunto un accordo, inserito poi nel testo unico del 2014. Questo accordo
non è norma di legge ma ha solo efficacia contrattuale e l’unico gruppo a sottoscrivere il testo
unico è stato Confindustria.
Si è trovato un sistema per misurare la rappresentatività dei sindacati, questo sistema
consente di arrivare ad un contratto quando è d’accordo la maggior parte dei sindacati;
raggiunto il consenso della maggioranza il contratto acquisisce efficacia erga omnes, ovvero
vincola anche quelli che non l’hanno sottoscritto.
Il minimo per un sindacato per partecipare alle trattative è di avere l’indice di almeno il 5%.

Un sistema analogo si ha nel settore pubblico, in cui la legge sindacale approvata agli inizi del
2000 introduce anch’essa il calcolo della rappresentatività di quei sindacati che hanno un
indice maggiore del 5%.
Per quanto riguarda il settore pubblico invece, il contratto collettivo aziendale, ha efficacia
erga omnes. Nel caso in cui si crei un conflitto tra le due fonti, il contratto nazionale e quello
aziendale, si tende a dare più importanza al livello di contratto più vicino all’interesse
regolato, tendenzialmente quindi “vince” sempre il contratto aziendale. Ultimamente le
iniziative del legislatore tendono a dare sempre più importanza alla contrattazione aziendale,
indebolendo il contratto nazionale. Si parla infatti di conflitto tra il legislatore e le parti sociali.
Nel 2011 è stata introdotta una legge che consente di derogare in peius i contratti collettivi; si
tratta dei contratti di prossimità . Tali contratti, previsti dall’art. 8 della legge n. 148/2011,
consentono, in presenza di obiettivi di scopo (salvaguardia dell’occupazione, incremento della
produttività e del salario, avvio di nuove attività , emersione dal lavoro irregolare, ecc.), di
prevedere norme derogatorie alla disciplina della legge o dei contratti collettivi.

Efficacia temporale del contratto collettivo

La durata del contratto collettivo è determinata o indeterminata. Quando è fissata è


determinata ed è triennale, se invece manca il termine allora il contratto indeterminato.
Vi sono due metodi di estinzione del contratto:
- risoluzione consensuale dell’accordo
- disdetta del contratto
Nel caso di contratto a termine la disdetta unilaterale non è possibile; è necessaria una giusta
causa di recesso (es. eccessiva onerosità ), altrimenti il recesso è illegittimo, e chi pone in
essere un atto illegittimo è esposto ad un’azione risarcitoria.
Il rinnovo del contratto è un processo piuttosto lento è complicato, per cui esistono dei
periodi a volte anche molto lunghi, in cui si verifica la “vacanza contrattuale”.
In questi casi esiste una “clausola di ultrattività ” che prolunga gli effetti del contratto dopo la
sua scadenza. Durante la vacanza contrattuale il lavoratore ha diritto all’indennità di vacanza
contrattuale, erogata dal datore di lavoro.

Lo sciopero

Lo sciopero è un diritto fondamentale dei lavoratori.


L’articolo 40 della costituzione dice che il diritto di sciopero si utilizza nei limiti delle leggi che
lo regolano. Benché l’articolo 40 rinvii alla legge ordinaria, questa non è mai intervenuta
poiché una legge costituzionale non può essere limitata da una legge ordinaria. L’unica legge
che è intervenuta è quella del 1990 che riguarda lo sciopero che incide sui servizi pubblici
essenziali, ovvero quei servizi che incidono sui diritti fondamentali dei cittadini protetti dalla
Costituzione. L’art.40 non definisce che cosa sia lo sciopero, di conseguenza ci si basa
sull’interpretazione della dottrina e dei giudici:
“lo sciopero è una forma di lotta sindacale e consiste nell’astensione concentrata dal lavoro
per la tutela e la difesa dell’interesse collettivo dei lavoratori”.
La prestazione non eseguita non viene retribuita perciò per il gruppo di lavoratori lo sciopero
è un sacrificio. Lo sciopero può bloccare la produzione per periodi prolungati, quindi può
creare pressione al fine di ottenere qualcosa.
Lo sciopero è un diritto soggettivo pubblico di libertà .
Non è una mera libertà , ma un diritto soggettivo, il che significa che il lavoratore che si astiene
dal lavoro per lo sciopero sta esercitando un diritto rispetto al contratto, quindi non sta
realizzando un inadempimento.
Lo sciopero è un diritto pubblico, perché i suoi effetti non incidono solamente nei rapporti tra
privati, ma ricadono sull’intera collettività e sullo Stato.
Lo “sciopero selvaggio” è uno sciopero proclamato all’ultimo e non annunciato, è anch’esso un
diritto dei lavoratori poiché non c’è bisogno della mediazione e della proclamazione sindacale.
Il sindacato si può impegnare a non scioperare attraverso le “clausole di tregua sindacale” che
consistono in impegni contrattuali a non fare azioni di lotta. Il sindacato in questo caso deve
impegnarsi a influenzare lavoratori a non scioperare, ma non può arrivare a impedire ai
lavoratori di scioperare, in quanto starebbero esercitando il proprio diritto.
I datori di lavoro non possono scioperare, l’omologo dello sciopero per loro sarebbe la
“serrata” con la quale chiudono l’azienda e impediscono ai lavoratori di lavorare, questa
azione non è un diritto ed è incostituzionale, il datore di lavoro non ha bisogno di tutele.
La serrata viene utilizzata dal datore di lavoro per protestare contro lo sciopero da lui
considerato illegittimo, essa viene concepita come reazione contro il singolo lavoratore e non
contro la collettività come l’azione sindacale.
Il datore di lavoro può tuttavia configurare la serrata nel caso in cui il lavoratore svolga il suo
lavoro “a metà ” perché reputa quella parte di lavoro inutile e perciò c’è un “rifiuto della
prestazione”
Anni fa, si era annunciato uno sciopero dei controllori di volo per cui tutti si erano organizzati
diversamente e nessuno aveva preso l’aereo. Quando i controllori hanno revocato lo sciopero
e volevano partire con un aereo vuoto, il datore di lavoro ha applicato la serrata.
Questo tipo di serrata è illegittima, non si può ribaltare il rischio di impresa sul lavoratore.
Si può decidere di non far partire l’aereo ma si devono comunque retribuire i dipendenti,
magari assegnando loro mansioni di terra.
Considerando il contratto di lavoro, i controllori sono debitori di una prestazione al datore di
lavoro (creditore). Se il debitore non riesce ad adempiere per colpa del creditore, quest’ultimo
deve risarcire il danno e quindi pagare lo stipendio.
Spesso la serrata viene fatta comunque e vengono poi risarciti i lavoratori, è uno strumento di
lotta simbolica.
Se il lavoratore offre una prestazione parziale ed inutilizzabile, può essere rifiutata dal datore
di lavoro, e al lavoratore non spetta la retribuzione; è il caso degli scioperi a singhiozzo.

Per esercitare lo sciopero ci vuole l’astensione totale, quindi anche dalla retribuzione.
Vi sono delle forme di lotta sindacale che non rientrano nella nozione di sciopero.
Un classico esempio è lo “sciopero dalle mansioni” che consiste nel rifiuto da parte del
lavoratore di svolgere alcune delle sue mansioni; sul piano contrattuale si configura come un
inadempimento. Un’altra forma di lotta è lo “sciopero pignolo” in cui la prestazione è resa, ma
al solo scopo di arrecare disturbo alla produzione, applicando ogni forma di regola in modo
“pignolo”. Si pensi per esempio al doganiere che controlla ogni singola valigia che passa la
dogana nei minimi dettagli. È puro ostruzionismo.
È invece una forma di sciopero legittima lo “sciopero bianco” in cui il lavoratore si reca sul
posto di lavoro e non lavora, non percependo neanche lo stipendio.
Altre due forme di sciopero (dette anomale) sono quello “a scacchiera” e quello “a singhiozzo”
esse sono pensate per minimizzare il danno per il lavoratore massimizzando quello del datore
di lavoro. Lo sciopero a scacchiera si ha quando ad esempio in una catena di montaggio
scioperano a turno le varie squadre, il risultato è un blocco totale della produzione con una
perdita di stipendio parziale, da parte solamente di alcuni lavoratori. Lo sciopero a singhiozzo
consiste invece nell’alternare momenti di lavoro a momenti di non lavoro, ad esempio la
mattina si e il pomeriggio no. Si pensava che questo tipo di sciopero fosse illegittimo, ma una
sentenza della Corte di cassazione del 1980 ha stabilito che dipende dal tipo di danno.
Se il danno provocato dal lavoratore va a colpire dei diritti costituzionali di pari livello del
diritto di sciopero, allora quella forma di sciopero è illegittima.
(Domanda d’esame: limiti allo sciopero.)
Viene considerato legittimo lo sciopero che provoca un danno alla produzione, mentre è
illegittimo quello sciopero che provoca un danno alla produttività ; ovvero quel tipo di danno
che pregiudica la ripresa dell’attività produttiva.
Se per esempio a causa di uno sciopero si ferma un altoforno, che normalmente non si può
fermare, questo si danneggia, ledendo la capacità di produrre agli stessi livelli: il danno si
proietta nel futuro.
In questo caso verrebbe leso l’articolo 41 della costituzione (iniziativa economica).
Inoltre secondo la cassazione questo tipo di danno va anche contro lo stesso articolo 4, perché
i lavoratori potrebbero perdere il lavoro a causa della diminuzione di produttività .
Altra componente importante dello sciopero è la finalità . Quella più classica è il miglioramento
delle condizioni di trattamento, questo tipo di sciopero è sicuramente legittimo per l’art. 40. Vi
sono forme di sciopero in cui il datore di lavoro, pur subendo lo sciopero, non ha la possibilità
di difendere i lavoratori e concedere ciò che è stato richiesto. Questa forma di sciopero si
chiama “sciopero economico-politico”; questo, come anche lo “sciopero politico puro” pur
essendo vietati dal codice penale, non sono perseguibili penalmente grazie ad una sentenza
della Corte Costituzionale. Tuttavia queste due fattispecie non rientrano nell’articolo 40, il
lavoratore non sta esercitando un diritto ma una mera libertà , quindi si espone
all’inadempimento contrattuale. Inoltre lo sciopero politico continua ad essere un reato nel
caso in cui sia diretto a sovvertire l’ordine costituzionale.
Lo sciopero “di solidarietà ” è invece un tipo di sciopero in cui, anche se non si è colpiti in
prima persona, si solidarizza con i lavoratori di un altro settore; questo tipo di sciopero è
considerato legittimo.
Ultimamente è nato lo sciopero virtuale, che è stato inventato dei medici. Siccome lo
scioperante si rende conto del danno che apporterebbe al paziente, egli decide di lavorare
normalmente ma invece di percepire la retribuzione, decide di corrisponderla in beneficenza.

Lo sciopero potrebbe colpire i servizi pubblici essenziali, ovvero quei servizi che incidono su
dei beni costituzionalmente tutelati: la vita, la salute, la sicurezza, la libera circolazione, la
comunicazione, l’istruzione universitaria, la previdenza e l’assistenza sociale. (Tali servizi
pubblici essenziali possono essere resi anche dall’industria privata.)
Una legge del 1990 ha stabilito che durante lo sciopero bisogna garantire dei servizi minimi
indispensabili. La commissione di garanzia è il soggetto terzo di nomina parlamentare che
verifica l’attuazione dei servizi minimi essenziali durante gli scioperi. Dal 2000 questa
commissione ha anche il potere di regolare le prestazioni da garantire, nel caso in cui manchi
(o sia incongruo) un accordo tra le parti. La sollecitazione della commissione di garanzia
spetta alle parti.
I limiti allo sciopero introdotti nella legge del 1990 sono di tre tipi, uno di questi è la garanzia
delle prestazioni indispensabili. Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali va per forza
annunciato, con un preavviso minimo di 10 giorni, ai datori di lavoro e alla commissione di
garanzia. Con la legge del 2000 si è vietato revocare lo sciopero dopo l’informativa data,
questo per impedire l’effetto-annuncio che veniva sfruttato per avere il massimo risultato con
il minimo danno. Un altro punto della legge è l’obbligo di spiegazione dei motivi della protesta,
poiché si deve cercare in tutti modi di trovare una soluzione al conflitto, per questo motivo le
parti sono obbligate ad un tentativo di mediazione prima di proclamare lo sciopero. Sempre
nel 2000 è stata introdotta un’altra limitazione, quella della rarefazione dello sciopero. Questo
perché tutti i sindacati proclamavano lo sciopero di vari servizi in contemporanea (es. aerei,
treni, ecc..) Si è quindi introdotto il principio della rarefazione oggettiva e soggettiva. La
rarefazione soggettiva dice dello stesso sindacato deve lasciar passare un certo lasso di tempo
tra uno sciopero e l’altro anche se in settori diversi, quella oggettiva invece dice che non si
possono concentrare tutti gli scioperi dei diversi sindacati nello stesso settore di servizi
pubblici essenziali.
La commissione di garanzia ha anche una funzione sanzionatoria, in particolare sulle
organizzazioni sindacali pendono la perdita dei contributi sindacali e l’esclusione dalle
trattative. Nonostante tutti questi limiti è possibile che lo sciopero possa provocare un grave
danno all’utenza, in questo caso esiste un “potere di precettazione” che consiste nella
possibilità che ha il prefetto, su impulso della commissione di garanzia, di impartire ai
lavoratori e ai sindacati le modalità dello sciopero.

Chiusura del colosseo (Luglio) e degli scavi archeologici di Pompei (Settembre).


Ci si è chiesti se questi servizi rientrassero nei servizi pubblici essenziali. Il governo Renzi con
un decreto-legge, ritenendo quindi che sussistessero i presupposti per l’urgenza, stabilì che
rientravano nei servizi pubblici essenziali anche la fruizione del patrimonio storico del paese.
Molti parlano di una forzatura della legge del 1990.

Sentenza Trenitalia del 2013.


Quando fu indetto uno sciopero Trenitalia stabilí che non potesse incidere sui treni che da
Roma vanno a Milano passando per Firenze, e che quindi lo sciopero valesse solo sui treni
interni alla regione. La cassazione però diede ragione al sindacato.

Caso 2007 2015 dell’Esselunga


I sindacati hanno affisso un cartello con scritto “sciopero da oggi ad oltranza per l’intera
giornata, all’interno del quale ogni lavoratore aderirà come e quanto riterrà opportuno”. La
cassazione stabilì che delegando ad ogni individuo la scelta del luogo e del tempo dello
sciopero non c’era nulla di collettivo, inoltre vi era un danno alla produttività , quindi lo
sciopero era illegittimo.
Caso delle poste.
In Sicilia venne indetto uno sciopero e alcuni addetti al recapito postale si assentarono,
bisogna sapere che poste italiane ha sottoscritto un accordo in cui si dice che ogni singolo
lavoratore ha il dovere di effettuare delle ore di sostituzione dei colleghi assenti. Un
dipendente si rifiutò di effettuare questa prestazione e Poste italiane lo sospese per quattro
giorni lavorativi, per inadempimento contrattuale. Il sindacato fece partire un procedimento
per condotta antisindacale e la corte di cassazione concluse che le sanzioni al dipendente sono
illegittime, tuttavia non sussiste un comportamento antisindacale. Questo però solo nel 2016,
mentre nel 2009 c’era stata una sentenza con esito completamente differente.

Caso coop.
I capireparto si rendono disponibili a stare al banco dei salumi. Il sindacato disse che era stato
violato il limite di lasciar fare al lavoratore le mansioni per cui era stato assunto. La cassazione
decise che quello dei capireparto era un comportamento illegittimo, perché a danno della
professionalità dei lavoratori.

“la tutela applicata ai lavoratori si misura sulla base delle sanzioni che sono al presidio del
rispetto delle norme”.

Art. 28 dello Statuto dei Lavoratori: la repressione della condotta antisindacale.


La condotta antisindacale è la condotta volta a limitare la libertà sindacale.
Il sindacato può riferire al giudice e ottenere un procedimento di urgenza, ovvero un decreto
entro due giorni, che è immediatamente esecutivo. Il giudice può quindi ordinare di cessare
una certa condotta e rimuoverne gli effetti. Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza
incorre in sanzioni penali e alla cattiva pubblicità sui quotidiani principali.
Spesso però il sindacato non ricorre al giudice, ma scende a compromessi con il datore.
“L’intenzionalità ” del danno è irrilevante, la cassazione stabilì che l’articolo 28 è applicabile in
ogni caso in cui è oggettivamente lesa l’azione sindacale. Se per esempio un datore di lavoro
effettua un licenziamento collettivo di lavoratori, tra cui alcuni sindacalisti, tale azione
sarebbe una condotta antisindacale.

Lavoro autonomo e lavoro subordinato

Il diritto del lavoro si occupa principalmente del lavoro subordinato, quello autonomo ha
poche regole poiché non ha bisogno di particolari tutele. Queste norme riguardano diritti e
obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore, ma soprattutto riguardano il trattamento
previdenziale; il lavoratore subordinato ha diritto a dei contributi, che il datore di lavoro deve
obbligatoriamente versare all’Inps. (33% della retribuzione)
Per questo motivo c’è un altissimo tasso di contenzioso per quanto riguarda l’inquadramento
del rapporto, che se viene qualificato come subordinato è soggetto all’applicazione dell’intero
statuto.

Il lavoratore autonomo a differenza di quello subordinato, non è sottoposto al vincolo di


subordinazione. Inoltre il lavoratore autonomo si assume il rischio di realizzare un risultato
(opera o servizio), mentre il lavoratore subordinato adempie semplicemente con la sua
prestazione di lavoro. Il lavoratore può fornire al giudice delle micro-prove per dimostrare
che non è autonomo, e il giudice sulla base di alcuni indici può qualificare il lavoro come
subordinato. Tali indici che fanno emergere la subordinazione sono:
- Il lavoratore è sottoposto agli ordini del datore di lavoro circa le modalità di raggiungimento
di un risultato; il potere direttivo a capo del lavoratore è un elemento discriminante.
-Il lavoratore è inserito stabilmente nell’organizzazione dell’impresa
-il lavoratore ha un orario che deve osservare e rispettare
-distinzione tra potere direttivo o organizzativo da parte del datore di lavoro (quello direttivo
stabilisce le attività , i compiti e le finalità ; mentre quello organizzativo coincide con il potere
di organizzare tempi luoghi).
-Modalità di retribuzione a cadenza fissa mensile (elemento indiziario)
-Esecuzione della prestazione lavorativa

Esistono varie categorie di lavoro autonomo:


- lavoro autonomo dei professionisti
- Collaborazioni coordinate continuative (Co. co. co.)

La differenza tra le due figure sta nel fatto che mentre il lavoro autonomo dei professionisti ha
per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, quella delle Co. co. co. è invece una
prestazione di lavoro personale, senza vincolo di subordinazione, caratterizzata dalla
continuità e dalla collaborazione con il committente.
Le Co. co. co. sono forme di lavoro “parasubordinato” cioè autonomo, ma svolto con modalità
analoghe a quelle rintracciabili nel lavoro subordinato.
La riforma del 1973 ha reso la normativa sul processo del lavoro più semplice, snella e veloce.
Dopo questa riforma abbiamo avuto una grandissima diffusione dei Co. co. co.
Specialmente dopo la riforma previdenziale del 1995, si fece largo uso di questi contratti, che
però nascondevano, molto spesso, dei contratti di lavoro sostanzialmente subordinati.
Un primo tentativo di appianare le cose, fu il Decreto Biagi del 2003, che riportò i Co. co. co. ad
un utilizzo a progetto (co. co. pro.) stabilendo una durata limitata per questi rapporti, tuttavia
al datore di lavoro bastava rinnovare i contratti co. co. pro per anni, senza violare alcuna
legge. I diritti riconosciuti a questi lavoratori erano minimali, come quello di non essere
licenziato per maternità o malattia. Nel 2012 la Legge Fornero cominciò a prevedere norme
molto più restrittive, ma decisamente più complicate.
Nel 2015 il decreto 81 cancellò le normative del 2003 e del 2012, ristabilendo la vecchia
normativa del 1973. Le Co. co. co tornano ad essere senza progetto e senza forma scritta.
I lavoratori autonomi che prestano una modalità di lavoro personale e continuativa, possono
verine “etero organizzati” dal committente, tale regime sarebbe simile a quello del lavoro
subordinato. In tal caso i lavoratori non hanno una propria organizzazione, ma subiscono
l’organizzazione da parte del committente.
Altra forma di lavoro subordinato mascherato è il “contratto sociale” in cui abbiamo una
sorgente e un associato. L’associato conferisce all’associante o capitale o lavoro. Quindi la
prestazione di lavoro viene resa non come obbligazione di un contratto di lavoro ma piuttosto
come conferimento alla società . In questo modo prestazioni di lavoro subordinate erano
completamente estranee al diritto del lavoro. Questo tipo di contratto non aveva alcuna
norma, così la legge Fornero stabilì che gli associati di partecipazione potevano essere
massimo tre. In seguito il Jobs Act ha completamente cancellato il contratto di associazione
con oggetto il lavoro, stabilendo che si potesse conferire solo capitale.

Il potere direttivo si sostanzia nell’obbligo di impartire ordini, ma sul lavoratore subordinato


non incombe solamente l’obbligo di obbedienza. Oltre a questo, per capire le obbligazioni a
carico del lavoratore, bisogna considerare le figure della diligenza e della fedeltà .
Esiste anche l’obbligo di non concorrenza con il datore di lavoro, che si basa sull’obbligo di
fedeltà . Il lavoratore subordinato non può ne aprire un’attività concorrente con quella del
datore di lavoro, ne andare a lavorare per un concorrente.
Altro obbligo legato a quello di fedeltà è quello della riservatezza. Esistono a questo proposito
i patti concorrenziali, attraverso cui il lavoratore si impegna a non fare concorrenza al datore
di lavoro anche dopo la cessazione del rapporto, questi patti hanno valore se limitati
nell’oggetto, nel luogo e nel tempo, e ci deve essere una congrua retribuzione per la mancanza
di concorrenza. La giurisprudenza ritiene che faccia parte dell’obbligo di fedeltà anche
mantenersi in buona salute, ciò vuol dire che durante periodi di malattia il lavoratore deve
fare di tutto per guarire il prima possibile.
La legge stabilisce che il lavoratore deve svolgere la mansione per la quale viene assunto, ma
la stessa legge dice subito dopo che il lavoratore può essere assegnato anche ad altre
mansioni. La designazione delle mansioni è detta “ius variandi”; normalmente nei contratti
collettivi vengono inquadrati i lavoratori e vengono designate le mansioni tipiche di un certo
tipo di inquadramento, talvolta anche molto diverse. Con il Jobs Act lo ius variandi può
portare a chiedere al lavoratore tutte le mansioni comprese nello stesso livello di
inquadramento. Con il Jobs Act viene aumentata la flessibilità del rapporto contrattuale, ora il
lavoratore può essere adibito a mansioni per le quali è stato già assunto, ma anche a mansioni
maggiori; a patto che queste mansioni siano comprese nel livello di inquadramento e nella
categoria legale. Nel caso il lavoratore passi a mansioni inferiori, il trattamento retributivo
deve rimanere lo stesso; è previsto il patto individuale in deroga, in cui si prospetta al
lavoratore l’alternativa del licenziamento e pur di non essere licenziato il lavoratore può
accettare mansioni inferiori. Questi patti però devono essere motivati da un interesse del
lavoratore.
Il datore di lavoro deve comunicare 24 ore prima dell’inizio del rapporto di lavoro ai servizi
all’impiego, altrimenti si verifica il lavoro in nero, quindi evasione contributiva e fiscale che va
ad aggravare il fenomeno dell’economia sommersa.
Il lavoro accessorio, o “lavoro a voucher”, è un tipo di lavoro in cui non si stipula nessun
contratto. Riguarda prestazioni marginali e può essere fatto nel limite di € 2000 annui, lo
stesso lavoratore può intrattenere più rapporti di lavoro con vari datori ma non può superare
il tetto massimo di € 7000 annui in voucher.
Il lavoratore ha un contributo previdenziale sul voucher ma non ci paga le tasse, per cui
quando va a riscuotere i buoni non percepisce l’intera cifra nominale.

Per quanto riguarda il luogo in cui la prestazione deve essere adempiuta, questo tende ad
essere fisso (sede) e deve essere stabilito nel momento dell’assunzione. Il luogo può cambiare
solo a fronte di motivazioni specifiche; a parità di mansione, il datore ha il potere di trasferire
il lavoratore senza il suo assenso a fronte di comprovate ragioni tecniche-organizzative o
produttive. Ovviamente il trasferimento è ben diverso dalla trasferta, in cui il lavoratore va a
prestare lavoro in un’altra sede per un tempo limitato e viene pagato di più per il disagio e per
il rimborso spese. Si deve dimostrare che c’è un’esigenza oggettiva, in questo modo si
protegge il lavoratore da utilizzi impropri del trasferimento. Il lavoratore deve presentare il
suo dissenso entro 60 giorni, inviando una lettera al datore e nei successivi 180 giorni deve
presentare una domanda al giudice per contestare il trasferimento. Non è possibile trasferire
il procuratore per una punizione disciplinare, a causa di inadempimento. Tuttavia si può
trasferire il lavoratore quando ostacoli la produzione, in questo caso vi sarebbe un’esigenza
oggettiva. Nel caso si tratti di un dirigente sindacale, i lavoratori che hanno un rapporto di
fiducia con il dirigente sindacale possono opporsi al datore di lavoro. Infatti il datore deve
chiedere approvazione all’organizzazione sindacale a cui appartiene il dirigente per poterlo
trasferire.
Per quanto riguarda il tempo, il legislatore fissa 40 ore settimanali. La prassi è di cinque
giorni per otto ore lavorative, tuttavia nella settimana si può lavorare di più , ma sarebbe il
caso di lavoro straordinario. Bisogna assicurarsi che vi siano pause e che il lavoratore si
riposi. Egli ha diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite.
Il lavoratore ha diritto ad avere almeno 11 ore di riposo tra una giornata lavorativa e l’altra, se
il lavoro dura più di sei ore, ha diritto ad almeno 10 minuti di pausa. Ogni settimana il
lavoratore ha diritto ad almeno 24 ore consecutive di riposo. Le ferie costituiscono un diritto
del lavoratore a cui egli non può rinunziare e consistono minimo in quattro settimane annuali.
Il periodo di ferie è deciso dal datore di lavoro, che però è obbligato ad agire secondo buona
fede e correttezza, tenendo conto dell’interesse manifestato dal lavoratore su un periodo che
lo soddisfa di più .
Per quanto riguarda il lavoro notturno, esso viene definito come quel lavoro che dura sette
ore consecutive collocate tra le 24.00 e le 5.00. Alcune categorie non possono essere adibite al
lavoro notturno, il lavoratore deve essere sottoposto a delle visite mediche periodiche, per
accertare che il lavoro non metta a repentaglio la sua salute. In caso contrario il lavoratore
deve essere rimosso da quell’orario.

Controllo.
Il datore di lavoro può impiegare le guardie giurate solo per scopi che riguardano la tutela del
patrimonio dell’impresa, non per vigilare sui lavoratori, che devono inoltre essere informati
circa i nominativi del personale di vigilanza. Se il datore di lavoro ha necessità di controllare
per difendersi da condotte illecite delle lavoratore, pur senza ledere l’articolo 3 dello statuto
dei lavoratori (vigilanza sull’attività lavorativa) può effettuare un controllo difensivo anche in
modo occulto, per esempio usando degli investigatori privati.
Il Jobs Act ha modificato l’articolo 4, che parla di controllo a distanza (impianti audiovisivi),
queste apparecchiature possono essere adesso installate esclusivamente per esigenze
organizzative e produttive o di sicurezza sul lavoro, l’istallazione deve essere autorizzata con
accordo sindacale, in mancanza del quale si deve chiedere un’autorizzazione all’ispettorato
del lavoro. Anche se prima della riforma questa norma veniva regolarmente disapplicata e le
apparecchiature venivano installate, i filmati incriminanti non potevano essere utilizzati per
fini legali, in quanto ogni lavoratore poteva sostenere che il datore di lavoro aveva ottenuto il
dato in modo illegittimo.

Sentenze:

Per controllare un lavoratore il responsabile risorse umane crea un profilo finto su Facebook
per dimostrare che perdeva tempo chattando on-line.
Il lavoratore viene licenziato. In sede legale gli viene data ragione ma in secondo grado i
giudici diedero ragione all’azienda. La corte di cassazione stabilì che l’azienda non aveva
violato ne l’art. 3 ne l’art. 4. Inoltre non era necessario alcun accordo sindacale poiché il bene
tutelato era il patrimonio aziendale eperciò si rientrava nell’ambito dei controlli difensivi.

Lavoratore rumeno contro Romania.


Il lavoratore era stato licenziato dopo aver letto una sua email. La corte europea dei diritti
dell’uomo ha stabilito che era lecito, perché nel momento in cui il datore di lavoro mette a
disposizione un pc e una mail aziendale, è lecita la possibilità di controllo.
Tuttavia secondo il garante della privacy italiano l’account aziendale del lavoratore deve
essere utilizzato solo per faccende lavorative, e di conseguenza è controllabile. il datore di
lavoro però dovrebbe fornire anche un account personale, che non è controllabile.
Coordinatore dei servizi di nettezza urbana.
Il lavoratore in questione deve lavorare dalle sei alle 12.30 con un’unica pausa dalle 9 alle
nove 9.15. Viene accertato da un’agenzia investigativa che il lavoratore andava in giro per bar
dalle 8 alle 9.30 e dalle 10.30 alle 11.30, tramite un localizzatore GPS installato sulla vettura di
servizio. Viene licenziato. Nei primi 2 gradi gli viene data ragione poiché in teoria il controllo
della corretta esecuzione della prestazione lavorativa non è cosa fattibile per l’articolo 3.
La cassazione stabilisce invece che ha ragione il datore di lavoro, poiché il bene tutelato è il
patrimonio aziendale, che è stato intaccato da un danno all’immagine: il fatto che il lavoratore
con la divisa e con l’auto dell’azienda si fermasse ai bar per giocare alle slot-machine rovinava
l’immagine della società .

Raccolta dei dati.


La legge sulla privacy del 2003 introduce in Italia delle regole stringenti sulla raccolta dei dati
personali. Il dato deve essere completo, conservato per un periodo di tempo limitato e non
eccedente rispetto alle finalità d’uso. Il lavoratore può sempre chiedere la cancellazione del
dato. L’articolo 4, limita molto il datore che raccoglie i dati.
La correttezza di tale processo di raccolta, viene giudicata qualora risulti necessario, dal
giudice ordinario, dal giudice del lavoro e infine dal garante della privacy.
I dati della persona sono: identificativi, giudiziari e sensibili. I dati sensibili, riguardano la
sfera individuale; idee politiche, filosofia del soggetto, religione, orientamento sessuale..) Il
datore ha bisogno di sapere se il lavoratore sposato, se è malato, pregiudicato ecc..
Il fine della raccolta e del controllo dei dati è l’adempimento della finalità lavorativa.
Quindi il datore si accerta che il lavoratore adempia agli obblighi stabiliti nel contratto.

Potere disciplinare

In forza di quanto previsto dall’articolo 2106 del codice civile, quando il lavoratore viola il
dovere di diligenza, di obbedienza e l’obbligo di fedeltà , il datore di lavoro può irrogare nei
suoi confronti delle sanzioni disciplinari. Tale potere disciplinare è orientato a garantire il
buon funzionamento dell’organizzazione e il regolare svolgimento dell’attività d’impresa.
Tale potere è facoltativo, di fronte ad un inadempimento di un lavoratore, il datore decide
liberamente se sanzionarlo o meno. Fanno eccezione però quei casi in cui il lavoratore violi i
doveri di sicurezza sul luogo di lavoro, o quando provochi un illecito ai danni degli altri
dipendenti. In tali casi, gli interessi che vengono tutelati non sono solo quelli del datore di
lavoro, ma anche degli altri lavoratori. Risulterà quindi doveroso per il datore di lavoro
irrogare la sanzione, pena l’aggravamento della sua personale responsabilità per l’accaduto.

L’articolo 2106 trova dei limiti nel principio di proporzionalità e nell’articolo 7 dello statuto
dei lavoratori. Questo vieta anzitutto di adottare sanzioni che comportino il mutamento
definitivo del rapporto di lavoro (fatta eccezione per il licenziamento disciplinare), limita a
due anni l’efficacia nel tempo della recidiva, stabilisce che la multa non puó essere maggiore di
4 ore di retribuzione, e prevede che la sospensione dal servizio e dalla retribuzione non puó
estendersi per piu di 10 giorni.
Tale norma inoltre, impone dal datore di lavoro la creazione di un codice disciplinare,
stabilendo le norme disciplinari e le relative sanzioni. Il codice disciplinare deve essere
portato a conoscenza di tutti i lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti.
L’articolo 7 dello statuto dei lavoratori impone al datore di non adottare nessun
provvedimento disciplinare prima di aver contestato verbalmente l’illecito e aver sentito le
argomentazioni del lavoratore in sua difesa; a tal riguardo si sottolinea che il lavoratore,
prima che gli sia contestata un’infrazione, può farsi assistere da un rappresentate
dell’associazione sindacale a cui aderisce o conferisce mandato.
Qualora non si tratti di un semplice rimprovero verbale, la contestazione deve essere fatta per
iscritto; dopodiché il lavoratore ha cinque giorni di tempo per difendersi dalla specifica
contestazione, verbalmente, per iscritto oppure facendosi assistere da un rappresentante
sindacale. Superati i cinque giorni il datore può applicare la sanzione. Detto questo, il
lavoratore può impugnare tale sanzione; rivolgendosi un giudice o al collegio arbitrale.

Le cause di licenziamento disciplinare sono molte; si può licenziare un dipendente perché


abbia utilizzato il telefono o il pc aziendale per motivi personali, quando non espressamente
consentito. Inoltre si può licenziare nei casi in cui il comportamento del lavoratore sia
contrario alla raggiungimento degli obiettivi posti dai suoi superiori; per cui se non è richiesto
un parere è meglio non contestare gli ordini che gli vengono impartiti.
Causa di licenziamento legittimo è anche la distruzione o il danneggiamento di materiale
aziendale, la sottrazione di informazioni, l’utilizzo di parolacce, il furto, la truffa ecc..

La retribuzione

Art. 36 Costituzione: il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità


del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza
libera e dignitosa.

La retribuzione quindi è un’ obbligazione sociale a carico del datore di lavoro. La misura della
retribuzione segue due fonti:
- Contratto collettivo: la principale fonte di retribuzione. Viene fissata una retribuzione
minima a seconda dell’inquadramento di livello. Incide inoltre sulla misura della retribuzione
il tempo di applicazione al lavoro; per questo motivo i lavori part-time hanno retribuzione
ridotta.
- Contratto individuale: questo secondo livello di contrattazione può non essere presente in
alcune aziende; presupposti sono la presenza di un sindacato e più di 15 dipendenti. Il
contratto aziendale, introdotto negli anni 90, permette di premiare i lavoratori in base ai
risultati dell’impresa. Stabilisce degli obiettivi e dei criteri per misurare il grado di
raggiungimento. Attraverso ciò si incentiva la partecipazione e l’impegno di lavoratori; è un
incentivo alla produttività . Inoltre il costo del lavoro sarebbe direttamente proporzionale ai
risultati raggiunti dall’impresa, per cui tale criterio va a vantaggio sia dei dipendenti che dei
datori di lavoro. Tuttavia la tassazione fiscale non va a favore di ciò ; fin dal 1993 il governo ha
promesso delle riforme che applichino a questa quota di retribuzione delle aliquote fiscali e
contributive più basse, ma ciò non è mai stato fatto.

L’articolo 2099 c.c. Fa riferimento a diversi tipi di retribuzione:


- La retribuzione a tempo è quella rapportata alla durata della prestazione lavorativa, può
assumere due forme: il salario (dato agli operai, in rapporto alle ore) e lo stipendio (dato agli
impiegati, in rapporto al mese).
-La retribuzione a cottimo è quella rapportata al rendimento dell’attività lavorativa, può
essere “pura” o a “cottimo misto” (se un minimo della paga è calcolato sul tempo).
-La retribuzione in natura, i cui esempi più diffusi sono il vitto, l’alloggio e i benefit aziendali.
-la provvigione, che viene rapportata al volume d’affari che il lavoratore ha concluso.
-La partecipazione agli utili o ai prodotti, a cui generalmente si affianca un ammontare fisso.

Dalla busta paga viene direttamente trattenuto, a fronte di tasse e contributi, il 33% dello
stipendio a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore.

Il lavoratore può lamentare un’insufficiente retribuzione appellandosi al giudice, che può


determinare la retribuzione sufficiente ispirandosi ai minimi tabellari dei C.C.N.L.

Una forma di retribuzione differita è il TFR, maturata nel corso del rapporto ma disponibile
solo alla fine. Il TFR è a carico del datore di lavoro.
Eccezionalmente si può chiedere, per cause gravi (interventi chirurgici o acquisto prima casa
per se o figli), l’anticipazione della liquidazione, che però non può superare il 70%.
Se il lavoratore non lo dichiara espressamente il TFR esce dalle tasche dell’impresa e va a
confluire nella previdenza privata, a quel punto il lavoratore avrà diritto a ricevere il TFR
mensilmente insieme alla pensione pubblica. Se lo mantiene in azienda, questo rimane
veramente in azienda se vi sono meno di 50 dipendenti, altrimenti si deposita in un fondo
Inps.

La sicurezza del lavoratore

Sul datore di lavoro grava l’obbligo di protezione del lavoratore, che riguarda sia la sua
integrità fisica che la sua personalità morale. Il datore deve fare l’impossibile per tutelare
l’integrità psicofisica e la dignità del lavoratore.
Art 2087 c.c. : il datore deve aggiornarsi per tendere al miglioramento continuo delle
condizioni di sicurezza. Deve fare tutto ciò che è tecnologicamente possibile; per cui se c’è
un’innovazione che avrebbe potuto evitare un danno al lavoratore, allora il datore avrebbe
dovuto adottarla. (fatta eccezione per gli sforzi eccessivi).
Il datore ha una responsabilità enorme. Dalla violazione del 2087 deriva una responsabilità
contrattuale e un responsabilità soggettiva per fatto illecito. Non è richiesto un grosso onere
probatorio per il lavoratore, che ha diritto ad essere risarcito del danno.
A fronte di questa norma c’è stato un grande sviluppo normativo, a partire dagli anni 50 si è
avvertita l’esigenza di emanare leggi di tutela della sicurezza che avessero un contenuto
tecnico e specifico. Una direttiva madre del 1989, recepita in Italia solo nel 1984, impone al
datore di lavoro di valutare i rischi della sua impresa per adottare tutte le misure possibili al
fine di evitarli.
Oggi, qualsiasi impresa deve adottare in 30 giorni dalla sua apertura il D.V.R. (Documento di
valutazione dei rischi) in cui si valutano analiticamente i rischi dell’ambiente di lavoro e per
ogni rischio si indicano i provvedimenti di sicurezza. Il DVR deve essere aggiornato
costantemente, a fronte di ogni mutamento delle condizioni ambientali. Se qualcosa non
funziona, il datore di lavoro risponde anche penalmente. Le uniche ipotesi che escludono la
responsabilità del datore di lavoro sono le catastrofi e le cause di forza maggiore o, talvolta il
comportamento abnorme del lavoratore, che trasgredisce le norme in modo imprevedibile e
incontrollabile. (es. il lavoratore scavalca e si fa male, oppure non indossa la tuta di sicurezza).
Tuttavia in sede di giudizio si tende a dare ragione al lavoratore.

Colui che stipula il contratto è il datore, non in senso formale (come in passato) ma
sostanziale. Viene definito “datore di lavoro” colui che ha il potere di gestione dei lavoratori e
di spesa. Oltre a lui vi sono i dirigenti, che hanno dei compiti in materia di sicurezza. Inoltre c’è
un medico competente, nominato dal datore ed esterno all’azienda, che fa verifiche mediche
sui lavoratori e sulla loro idoneità alla mansione. Qualora non risultassero idonei vengono
spostati a mansioni inferiori. Inoltre viene nominato un “RLS” rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza, con la funzione di interloquire con i datori e i lavoratori. L’RLS Deve essere
consultato dal datore nella stesura del DVR. Nelle imprese con massimo 15 dipendenti, nelle
imprese più grandi invece viene nominato dalle rappresentanze sindacali, inutile dire che
l’RSL dovrebbe essere scelto per le sue competenze tecniche.
L’azienda si deve dotare di sistemi organizzativi e gestionali che consentano di individuare i
ruoli, i compiti e le responsabilità di ciascun lavoratore, e di sistemi di controllo finalizzati a
prevenire reati e a garantire l’osservanza della legge.
Se il reato è commesso dall’azienda, la sanzione colpisce la persona giuridica, gli impianti
possono venire confiscati e l’attività può essere chiusa. In più c’è la responsabilità penale che
grava sul datore di lavoro. Questi, deve obbligatoriamente assicurarsi (con l’Inail) contro gli
infortuni. L’Inail interviene quando è esclusa la responsabilità del datore, risarcendo il danno
biologico e il danno patrimoniale.

Il “mobbing” è un fenomeno molto particolare, di cui non abbiamo specifiche leggi in materia,
deriva dalla scienza del comportamento animale, “to mobe” significa emarginare un animale
dal branco. In ambito lavorativo, ci si riferisce a una condotta persecutoria del datore verso un
dipendente. A tal senso, la tutela trova riscontro nell’articolo 2087 c.c. che tutela la moralità
del lavoratore. Il mobbing può realizzarsi attraverso atti apparentemente legittimi ma
globalmente finalizzati a danneggiare il lavoratore.
Potrebbe assumere la forma di una modifica delle mansioni lavorative, che pur rispettosa
dell’articolo 2103 c.c., porta uno svuotamento delle responsabilità del lavoratore o
all’allontanamento dai progetti. Un altro esempio di mobbing è levare al dipendente un certo
benefit aziendale che prima gli veniva riconosciuto, chiamare sempre il medico per un
controllo qualora questi si ammalasse.
Per identificare questa condotta scorretta, ci sono state varie sentenze, si può dire che questa
categoria è stata creata dai giudici.
I requisiti per accertare il mobbing sono:
- il pregiudizio effettivo per il lavoratore, che comporta una lesione biologica sotto forma di
depressione (accertabile dal medico) e una lesione alla dignità .
- il nesso causale tra i comportamenti del datore e la lesione
- la prova dell’intento di vessare il lavoratore, che il giudice deve accertare.
Il “mobbing verticale” è quando le vessazioni sono mosse da un collega. Anche di questo è
responsabile il datore di lavoro, che deve tutelare i suoi dipendenti mettendo in atto delle
politiche di vigilanza, previa “culpa in vigilando”.
Vi sono inoltre delle tutele più generali, in materia di discriminazione, questa normativa ha
ascendenze costituzionali, art. 3 (i cittadini sono uguali..) art. 28 (parità di trattamento
economico, tra uomo e donna). Tali norme costituzionali tuttavia non hanno un carattere
precettivo, per cui non possono essere invocate tra privati, ma solo dal legislatore. (Si dice
infatti che hanno un carattere programmatico). A parità di mansione e inquadramento, due
lavoratori vanno trattati ugualmente, anche se uno ha un contratto a tempo determinato e un
altro a tempo indeterminato. È difficile tutelarsi contro la discriminazione; per cui per
difendere i propri diritti i lavoratori hanno convenienza a dimostrare la diversità di
trattamento. L’ordine della prova attualmente spetta al datore di lavoro, chi lamenta la lesione
si limiterà a fornire prove presuntive e statistiche (es. pagano di meno i lavoratori
musulmani) o un termine di comparazione astratto; ossia deve provare che il lavoratore è
trattato diversamente rispetto a come sarebbe stato trattato un altro. Le sentenze sulla
discriminazione sono poche, quindi probabilmente le discriminazioni arrivano difficilmente a
tutela. Questo perché la discriminazione molto spesso non è diretta, è piu sottile, è un
comportamento di per se lecito ma che sostanzialmente pregiudica una certa persona.
Pensiamo per esempio alle donne a cui troppo spesso rifilano contratti part time.
I motivi di discriminazione sono molti: relativi al sesso, alle opinioni politiche, razza, fede
religiosa, età , handicap e orientamento sessuale. A volte questi fattori hanno rilievo sulla
prestazione lavorativa e in un certo senso la “discriminazione viene legittimata”.
Ad esempio nelle testate giornalistiche che hanno un orientamento politico, le idee politiche,
sindacali e religiose del lavoratore ricoprono un’importanza predominante.
O magari quando una scuola cattolica deve assumere un’insegnante; sicuramente la fede
religiosa ricopre un’importanza fondamentale.
Questa attenuante viene estesa a tutti i motivi discriminatori sopra elencati.

La malattia

Tra i vari diritti del lavoratore, c’è anche quello di astenersi dal lavoro a fronte di situazioni
che ne impediscano la prestazione. A questo proposito l’articolo 2110 c.c. Prevede che il
lavoratore malato abbia diritto alla conservazione il posto di lavoro, alla retribuzione e al
conteggio del giorno di malattia ai fini dell’anzianità . Esiste però un “periodo di confronto” di
sei mesi dopo i quali il lavoratore può essere licenziato. Talvolta il conteggio non è secco, ma è
“a sommatoria” ciò vuol dire che il lavoratore per non perdere il posto di lavoro non può
totalizzare piú di sei mesi di malattia in tre anni. La malattia non è intesa in senso medico,
essa è qualsiasi alterazione della salute che determini l’incapacità al lavoro. L’analisi del
sangue per esempio, rientra nella nozione di malattia.
In sede di assunzione, il lavoratore non è tenuto a riferire eventuali malattie. Al limite, il
datore di lavoro può fare delle visite pre-assuntive, in particolare nel caso il dipendete debba
intrattenere dei contatti con il pubblico.

In caso di malattia sopraggiunta, il lavoratore deve comunicare la sua assenza; si reca dal
medico curante che invia il certificato medico all’Inps, che a sua volta lo invia al datore di
lavoro. In questa triangolazione però c’è un oscuramento della malattia; il dottore comunica la
diagnosi (malattia) e la prognosi (quando torna al lavoro), l’Inps invece comunica al datore
solo la prognosi. In sostanza, è compito del medico, non del datore, stabilire se la malattia
incida o meno sulla capacità lavorativa. Il datore si avvale del controllo dello stato di malattia
solo attraverso il medico della usl, che si reca nel domicilio del lavoratore entro le fasce orarie
prestabilite (10-12, 16-18). In quegli orari il lavoratore può uscire solo per fare visite
mediche, a meno che non sia depresso, in quel caso può uscire liberamente.
Se il lavoratore non è reperibile in quelle fasce orarie, la sanzione è la caduta della
retribuzione o dell’indennità inps, dove prevista.
Se la malattia sopraggiunge durante le ferie, queste sono sospese fino alla fine della malattia.
Se c’è un preavviso di licenziamento, il lavoratore ha la facoltà a dichiararsi malato e ad essere
retribuito per tutto il periodo di comporto.

Nel pubblico impiego la malattia é dotata di una disciplina stringente.


A seguito della “Riforma Brunetta” durante i periodi di malattia il lavoratore pubblico ha
diritto solo alla retribuzione base, non anche a quella accessoria. Dopo l’entrata in vigore di
questa legge, l’assenteismo nel settore pubblico è crollato drasticamente.

In caso di nascita di un figlio, c’è il diritto di congedo che sospende l’attività lavorativa.
Il congedo vuoi essere di due tipi:
- Congedo per maternità / paternità : almeno 5 mesi per le madri (due prima del parto e tre
dopo) e due giorni per i padri, in concomitanza con la nascita del figlio. Prima del 2012 i padri
non avevano diritto neanche ad un giorno.
- Congedo parentale facoltativo: spetta sia alla madre che al padre e insieme non possono
cumulare più di 10 mesi. Se il padre arriva a prendere 7 mesi di congedo, i mesi totali però
diventano 11. Si può usufluire di questo congedo finchè il bimbo non compia 12 anni. Nei
primi tre anni c’è il diritto alla retribuzione, poi dopo decade.
Per malattie insorte al bambino fino agli 8 anni è possibile prendersi un permesso.
Fino a un anno dopo la gravidanza o il matrimonio, non è possibile licenziare.

La fine del rapporto lavorativo

Il licenziamento può essere:


- esercitato dal lavoratore (dimissioni)
- esercitato dal datore di lavoro
- per mutuo consenso
- decesso

Il pensionamento non causa la fine del rapporto lavorativo; il dipendente può continuare a
lavorare pur avendo maturato la pensione. Ci vuole l’atto estintivo del rapporto.
Per quanto riguarda le dimissioni, esse sono una forma di recesso libera, esercitabile dal
lavoratore senza alcun vincolo o giustificazione.
Il licenziamento invece non è libero; deve essere sorretto da un motivo legittimo, tranne in
alcuni casi specifici:
- durante il periodo di prova
(attenzione: differente è il caso dell’apprendista. Egli non può essere licenziato senza giusta
causa prima che finisca il periodo di formazione.)
- in caso il lavoratore sia un dirigente
- lavoratori domestici
- sportivi professionisti
- chi ha maturato la pensione di vecchiaia (67 anni e 20 anni di contributi all’Inps).

Il licenziamento può essere:


- per giusta causa
- per giustificato motivo
Il licenziamento per giusta causa presuppone un motivo grave, esterno o interno. Interno è
una forte violazione degli obblighi contrattuali che lede la fiducia del datore di lavoro, esterno
invece è una causa di forza maggiore, come un terremoto o un incendio.
Il licenziamento per giustificato motivo può essere di due tipi; soggettivo e oggettivo. È
soggettivo a fronte di un grave inadempimento contrattuale (non è sempre facile per la
giurisprudenza distinguere questa figura dal licenziamento per giusta causa) quello oggettivo
invece riguarda esigenze dell’organizzazione e dell’attività produttiva.
A titolo esemplificativo, si rientra nella giusta causa qualora il dipendente si rifiuti di eseguire
le mansioni assegnate dal datore, mentre si rientra nell’ipotesi di giustificato motivo
soggettivo quando il dipendente viola piu volte il codice disciplinare.
Nella pratica in realtà la legittimità del licenziamento è materia incerta, particolarmente
complessa e relativa alla valutazione del giudice.
In particolare, il giustificato motivo oggettivo, che come già detto attiene ed esigenze
dell’organizzazione, è una disciplina che se da una parte è stata notevolmente ristretta dalla
giurisprudenza, stabilendo che debba sussistere una situazione di criticità dell’impresa
dimostrata da per esempio una perdita attuale (e non anche attesa), è però vero anche che per
l’articolo 41 della Costituzione (libertà di iniziativa economica) le scelte imprenditoriali sono
insindacabili.
Il giustificato motivo soggettivo è disciplinato nei contratti collettivi, ma per quanto riguarda
quello oggettivo l’imprenditore è sottoposto esclusivamente al giudizio della corte.
Affinché il giustificato motivo oggettivo (GDO) sussista, il datore deve provare:
- effettiva esigenza tecnico-amministrativa
-nesso causale tra il motivo oggettivo e il licenziamento del lavoratore
- ripescaggio del lavoratore (è stato fatto tutto il possibile per non licenziarlo, offrendogli altre
mansioni, anche inferiori, nell’impresa o nel gruppo a cui appartiene).
Il licenziamento è un atto bilaterale recettizio, che deve essere effettuato necessariamente per
iscritto. Per questo molto spesso viene consegnata al lavoratore quando non se l’aspetta.
Il licenziamento deve essere motivato. Se nella lettera di licenziamento manca la motivazione,
il licenziamento è inefficace, a meno che il datore di lavoro non riesca a provare che esista un
motivo reale, pur non espresso nella lettera di licenziamento. Ma comunque al lavoratore
spetta il risarcimento del danno.
Dal momento in cui lettera, che rispetta i requisiti formali, è arrivata a conoscenza del
lavoratore, egli ha 60 giorni per impugnare il licenziamento, dichiarando per iscritto di voler
andare in giudizio. Dopodiché ha 180 giorni per effettuare ricorso da un giudice. Di fronte al
giudice il lavoratore puó provare che non siano rispettati i requisiti della forma scritta
(licenziamento nullo), che vi siano dei vizi procedurali o sostanziali (assenza di giusta causa o
giustificato motivo (licenziamento illegittimo) dopodiché il giudice decide le sanzioni e i
provvedimenti.
Dal 1966 al 1970 in caso di licenziamento illegittimo o per carenza di motivazione, il datore
era condannato a riassumere il lavoratore, o a pagargli un indennizzo tra le 2 e le 10 mensilità .
Nel 1970 lo statuto dei lavoratori cambia, il datore non se la cava più con il solo risarcimento;
il lavoratore può decidere di monetizzare la sua reintegrazione con il pagamento di fino a 15
mensilità . Quest’articolo, unito all’assenza di prescrizione, all’aleatorietà della decisione del
giudice e alla durata dei processi, poteva portare grandi rischi per l’impresa, che poteva
vedersi costretta a pagare anni e anni di retribuzione e contribuzione a quel lavoratore, oltre a
doverlo riassumere. Piu il processo era lungo e piu il lavoratore poteva sperare di guadagnare
di piu. Con questo sistema, l’articolo 18 ha creato stabilità del posto di lavoro in Italia, che
veniva applicato di fronte a qualsiasi vizio del licenziamento.
Nel 2012 la Legge Fornero ha previsto che per le ipotesi meno gravi venissero applicate solo
delle sanzioni, modificando l’articolo 18. Con questa norma è stato ribaltato l’onere della
lunghezza del processo, poiché a prescindere da questa il lavoratore percepisce massimo un
anno di retribuzione (e talvolta anche la reintegrazione).
Con il Jobs Act è stato introdotto il “contratto a tutele crescenti” in cui l’indennità risarcitoria è
pari a due mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24. Per cui
c’è un appiattimento dei costi dell’impresa, che in ogni caso non superano le 24 mensilità .
Entro 60 giorni dal licenziamento l’azienda può offrire al lavoratore un’indennità di servizio
per evitare la causa. Sarebbe una mensilità per ogni anno di servizio svolto, minimo 2
massimo 18.
Tali provvedimenti sono stati fatti nell’idea di aumentare le possibilitá occupazionali dei
giovani ed eliminare la paura dei datori di lavoro di assumere a tempo indeterminato.
l’idea di base è che il diritto del lavoro non deve più tutelare il posto di lavoro, ma
l’occupabilità . Il Jobs Act cambia lo scenario del diritto del lavoro: si cerca di tutelare il
mercato del lavoro, che attualmente è gravemente sbilanciato.
Il lavoratore che perde il lavoro conta sugli ammortizzatori sociali, erogati da enti
previdenziali:
- NASPI: l’indennità di disoccupazione (18 mesi max)
- cassa integrazione
- contribuzione sulla pensione accumulata
- politche di ricollocazione.
Il disoccupato ha ora diritto ad una sorta di voucher a carico dell’azienda licenziante, che
riscuote l’azienda che lo assumerà in futuro.

Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, prima di poterli effettuare il datore di lavoro
deve confrontarsi con i sindacati. Se in 45 giorni non viene raggiunto nessun accordo, scattano
altri 30 giorni in cui si tenta una mediazione davanti al ministero del lavoro. Se anche questa
fase non da risultati, il datore di lavoro licenzia i propri dipendenti attraverso lettere
individuali. Prima della legge Fornero questi avrebbero avuto diritto ad un’indennità di
mobilità abbastanza alta a fronte di questi licenziamenti, ma è stata sostituita dalla classica
indennità di disoccupazione di massimo 18 mesi la cosiddetta “naspi”.
Quando c’è un esubero strutturale, prima del licenziamento collettivo si passa alla cassa
integrazione, che prima del Jobs act poteva durare anche 4-5 anni, adesso invece massimo 2.
Anche in questo caso, i vizi dei licenziamenti collettivi vengono puniti con sanzioni.
I vizi possono essere di forma o riguardare il criterio di scelta. Rispetto ai criteri di scelta
questi vengono stabiliti con il sindacato (es. carichi di famiglia, anzianità ..)
Per un imprenditore paradossalmente è piu facile licenziare collettivamente che
individualmente.

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