SBOBINE
CdLM in
MEDICINA E
CHIRURGIA
a.a. 2017-2018
1° Anno
INDICE
LE PROTEINE ....................................................................................................................................................... 1
STRUTTURE DELLE PROTEINE ..........................................................................................................................15
LE PROTEINE E L’EVOLUZIONE .........................................................................................................................29
PROTEINE FIBROSE E LA LORO OMEOSTASI....................................................................................................42
FOLDING PROTEICO .........................................................................................................................................54
PROTEIN BREATHING .......................................................................................................................................71
OMEOSTASI DELLE PROTEINE ..........................................................................................................................87
MISFOLDING PROTEICO E STATO AMILOIDE ................................................................................................103
ENZIMI DIGESTIVI...........................................................................................................................................192
PRINCIPI GENERALI ALLA BASE DEL FLUSSO DI ENERGIA NEGLI ORGANISMI VIVENTI ...............................202
LE VITAMINE...................................................................................................................................................255
VITAMINA D ...................................................................................................................................................264
LE PROTEINE
Perché le proteine?
Perché ci si può trovare a dover lavorare con le proteine: per chi è abituato ad avere a che fare
con esse in laboratorio, quindi fuori dai contesti fisiologici, molto spesso rappresentano un
argomento ostico, in quanto non si comportano mai come ci si auspicherebbe. Un ricercatore che
vuole indagare le proprietà delle proteine spesso si accorge che queste hanno un comportamento
che si discosta dalle proprie attese e sono sufficienti piccole variazioni fisico-chimiche per
sconvolgere le proprietà delle proteine che sono così strettamente legate al loro ripiegamento
tridimensionale.
Struttura delle proteine: il legame peptidico
Per capire le proprietà delle proteine e la loro strutturazione è necessario partire dal legame
peptidico, ovvero dal legame covalente che nasce dalla condensazione di una molecola di acqua
tra due amminoacidi (in questo caso sono due amminoacidi generici).
È giusto rappresentare la reazione in modo
reversibile (freccia con doppia direzione),
sebbene la reazione di idrolisi del legame
peptidico sia un evento estremamente raro,
poiché la formazione del legame peptidico porta
alla formazione di un prodotto stabile, più
stabile rispetto ai suoi reagenti. La grafica
impone sempre che ossigeno e idrogeno si
trovino in configurazione TRANS (in posizione
opposta rispetto al neoformato legame Carbonio-
Azoto).
Ai fini della nomenclatura, il legame peptidico è
proprio quello tra Carbonio e Azoto, che ha delle
proprietà tutte sue. Il piano peptidico è, invece,
un concetto più ampio (include infatti Ossigeno,
Azoto, Carbonio e Idrogeno).
Il legame peptidico è planare, stabilizzato per Risonanza e ha delle caratteristiche di Polarità.
Polarità non vuol dire avere due cariche distinte, una positiva e una negativa, bensì avere delle
cariche parziali, che in chimica vengono indicate sempre con delta (δ), che non è sempre una
carica positiva o negativa, un elettrone in più o in meno, ma è una frazione di una carica, che sia
essa positiva o negativa.
La risonanza impone che il doppietto dell’azoto possa spostarsi tra carbonio e azoto, rimuovendo i
due elettroni condivisi nel legame con l’ossigeno e spostandoli interamente sull’ossigeno, così che
quest’ultimo si trova ad avere un elettrone in più, oltre al suo elettrone precedentemente condiviso.
L’ossigeno ha ora una carica negativa e l’azoto che rimane con un solo elettrone, e quindi
presenta la lacuna di un elettrone, ha carica positiva. La realtà (per il concetto di Risonanza) è un
ibrido, la via di mezzo tra le due situazioni.
Essa si rappresenta tracciando una seconda linea di legame tratteggiata, che va dall’azoto al
carbonio e dal carbonio all’ossigeno, ad indicare che questi legami non sono proprio dei legami
semplici o doppi, ma una situazione intermedia. Si scrive quindi - delta sull’ossigeno e + delta
sull’azoto (cariche parziali localizzate su questi due atomi che sono i più elettronegativi).
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Lezione n° 01 del 26.03.2018
Sbobinatori: Ivana Chietera, Michele Iacca
Controllore: Cristian Pio Coccia
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura delle proteine
N.B. per elettronegatività si intende la tendenza che ha un atomo ad attirare verso di sé elettroni, in un
legame chimico.
Sembra strano che sull’Azoto si concentri una carica parziale positiva, visto che è un elemento così
elettronegativo (intorno a 3 nella scala di Pauling), quindi in realtà succede qualcosa di diverso.
Questo parziale doppio legame tra C ed N ha una particolare distanza. La distanza di legame è di
1.32 Ȧ, un punto intermedio della distanza che si avrebbe tra legame semplice (1.49) e il legame
doppio C=N che è 1.27. Vediamo di analizzare il problema della polarità, in quanto non
è giusto attribuire una carica parzialmente positiva all’azoto coinvolto nella formazione del legame
peptidico. Considerando gli atomi coinvolti nel legame peptidico, lasciando stare gli atomi che
appartengono alle catene laterali (R), le cariche parziali più intense si sviluppano tra l’ossigeno e
carbonio. C’è una grande differenza di elettronegatività perché l’ossigeno presenta un valore di 3.5 e il
carbonio di 2.1, quindi c’è una discreta separazione di carica. L’ossigeno avrà una carica negativa di -
0.57 e il carbonio un +0,60 (non sono uguali, perché bisogna tener conto di tutti i legami che vengono
formati). A livello dell’azoto, dove la formazione del legame peptidico ci faceva ipotizzare una carica
parziale positiva, si sviluppa in realtà una carica parziale negativa, proprio perché esso è molto più
elettronegativo rispetto all’idrogeno (H=1 e N=3). Sull’azoto avremo – 0.42 di carica e sull’idrogeno un
+0.27. Di fatto le cariche parziali sono così distribuite, indipendentemente da tutto il resto della catena
polipeptidica.
Le cariche parziali sono molto importanti al livello del legame peptidico: la formazione di queste
cariche parziali sull’azoto, sull’idrogeno, sull’ossigeno e sul carbonio coinvolto nel legame peptidico
sono essenziali per la formazione di ponti a idrogeno. Infatti sono presenti tutti gli elementi del ponte a
Idrogeno, ovvero: un elemento molto elettronegativo (N), un altro elemento molto elettronegativo (O) e
un H covalentemente legato a N, che sviluppa questa carica parziale positiva, la quale consente
l’interazione con l’ossigeno di un altro gruppo peptidico, a sua volta caricato in maniera parzialmente
negativa. Questi atomi del gruppo peptidico sono coinvolti in ponti idrogeno, che saranno responsabili
sia dello strutturarsi 3D della proteina, sia della formazione di particolari strutture: le strutture
secondarie. Se non avessimo questa polarità, non avremmo i ponti idrogeno necessari per la
formazione della struttura secondaria e terziaria.
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Argomenti: Struttura delle proteine
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Qui possiamo vedere due amminoacidi legati e, in evidenza, i due piani peptidici a cui appartengono
tutti gli atomi del gruppo peptidico. Tra un piano peptidico di un amminoacido e il piano peptidico
dell’amminoacido seguente c’è il carbonio alfa, legato alla sua catena laterale e al suo idrogeno.
Questo carbonio forma legami con l’azoto del legame che lo precede e il carbonio del legame
peptidico successivo. È chiaro che questo carbonio alfa aveva originariamente il suo gruppo amminico
e il suo gruppo carbossilico, i quali hanno reagito per formare il legame peptidico. C’è però intorno a
questi legami C alfa - N e C alfa - C una certa libertà di rotazione. Proprio questa libertà consente alle
proteine di ripiegarsi, di girare dei tratti rispetto ad altri tratti e, quindi, di assumere un numero n di
conformazioni, delle strutture differenti, ottenute solo mediante rotazione attorno a questi due legami.
Vengono quindi definiti due angoli, angoli di torsione o angoli di rotazione o ancora angoli diedri.
Questi sono degli angoli tra due piani e dunque è come vedere un angolo da un punto di vista
tridimensionale. Le rotazioni che avvengono intorno a questi due legami sono descritte da questi due
valori: Φ per il legame con l’azoto e Ψ per il legame col carbonio. La rotazione sarà di +180 o -180 a
seconda che avvenga in senso orario (positivo) oppure antiorario (negativo). In linea teorica questo
numero può essere molto variabile ma, in realtà, esistono delle combinazioni “proibite”, dovute al fatto
che vi sono i soliti impedimenti sterici. Ogni carbonio alfa è un vero e proprio perno che unisce due
piani peptidici, grazie al quale questi potranno ruotare, salvo impedimenti sterici. In condizioni
fisiologiche, un polipeptide ruota intorno a questi angoli e assume dei ripiegamenti, creando delle
conformazioni. Ma a una proteina, nelle sue condizioni fisiologiche, corrispondono generalmente solo
un numero limitato di conformazioni, che sono però sufficienti affinchè, ad esempio, un enzima
riconosca il suo substrato e lo converta in un prodotto o perchè avvenga una qualunque reazione
mediata da una proteina.
A questa libertà conformazionale poniamo quindi due limiti, che sono:
- la rigidità del piano peptidico
- il numero limitato di valori di Φ e Ψ che possono realizzarsi
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Questi fattori limitano il numero delle conformazioni, ovvero delle strutture accessibili per la proteina,
ma le permettono di realizzare il folding proteico, cioè le consentono di assumere la sua struttura
nativa corrispondente, in un determinato intorno fisiologico alla sua funzione. L’obbiettivo di tutto è
raggiungere la struttura tridimensionale. I chimici hanno voluto tradurre la struttura 3D in qualcosa di
grafico, in maniera da avere le coordinate di ogni atomo della proteina.
I biochimici hanno generato queste strutture, oggi presenti nelle banche dati, mediante le quali è
possibile effettuare una raffigurazione. Sono stati messi a punto dei programmi che rappresentano le
proteine, come linee spezzate, il back-bond, oppure con dei modelli a palle e bastoncini (palle atomi e
bastoncini legami covalenti). Un’alternativa sono i modelli space-filling, dove ogni sfera piena
rappresenta un atomo, rispettando il volume atomico. La raffigurazione più frequente è, però, il ribbon-
diagram (ribbon=nastro), anche detto cartoon. Questo consente di vedere la struttura secondaria delle
proteine in cui il nastro avvolto su sé stesso è l’α-elica e la struttura β, raffigurata da delle frecce
orientate verso il C terminale.
Andiamo a definire queste strutture secondarie: α-eliche, foglietti β, β-turn ecc.
Prima, però, un accenno ai peptidi: ovviamente non esistono esclusivamente le proteine, ma anche i
peptidi (sintetici, artificiali o fisiologici).
Oligopeptide: sequenza amminoacidica breve (1-4 amminoacidi)
Polipeptidi: quando abbiamo più amminoacidi. Possiamo parlare anche di proteine.
Esempi di proteine
Il Glutatione è un oligopeptide, perché composto da un numero limitato di amminoacidi, più
precisamente: acido glutammico, cisteina e glicina. Cisteina e glicina sono legate da un normale
legame peptidico, realizzato tra il gruppo carbossilico della cisteina ed il gruppo amminico della
glicina. L’acido glutammico, invece, si lega al gruppo carbossilico della catena laterale del
glutammato. È un tripeptide molto importante, perché ha un forte potere antiossidante (è in forma
ridotta e può andare a ridurre un altro soggetto). In condizioni ossidanti due molecole di glutatione
reagiscono tra loro, formando il classico legame covalente ponte disolfuro, generando una molecola,
che, in realtà, è un dimero del glutatione con un ponte disolfuro. Tutto questo è avvenuto in condizioni
ossidanti (sui libri viene indicato come GSSG). Incontreremo le proteine in reazioni di ossido-
riduzione.
Aspartame: un altro peptide modificato, che tuttavia non appartiene alla nostra fisiologia, come il
glutatione, bensì è una molecola dolcificante. Aspartil-Fenilalanina (acido aspartico e fenilalanina
legati con il legame peptidico) modificato, perché è un dimetil-estere.
Quando si scrive una formula schematizzata di un peptide, la convenzione è porre sempre l’inizio
della molecola con il gruppo amminico terminale a sinistra, rispettando l’ordine della sintesi delle
proteine. Le varie catene laterali di questi amminoacidi sono alternate (una sopra e una sotto), a
causa della configurazione TRANS del legame peptidico.
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LA STRUTTURA SECONDARIA
La struttura secondaria è caratterizzata da dei vincoli strutturali molto caratteristici, definiti regolari e
ripetitivi dello scheletro peptidico. Con la formazione della struttura secondaria viene ad essere
modificata la disposizione dei piani degli atomi che definiscono il legame peptidico. È necessario,
quindi, trovare un modo per arrangiare i piani peptici in funzione delle formazioni di unità strutturali
regolari: α-elica e β-foglietto.
Nell’ambiente cellulare la catena polipeptidica assume strutture regolari
e ripetitive, ovvero Φ e Ψ rimangono costanti in determinate regioni
proteiche, assumendo dei valori fissi e determinando particolari
geometrie tridimensionali, in quanto, ovviamente, NON sono lineari. La
struttura secondaria, inoltre, assicura una maggiore stabilità, dovuta
all’espressione della massima possibilità di formazione di ponti ad
idrogeno e la minima repulsione sterica (o ingombro) tra le catene
laterali degli aminoacidi.
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Ad esempio, il residuo n°9 si trova circa nella stessa situazione del residuo 6 e sono quindi passati
quasi 4 residui. Tutto ciò impone una crescita di 1,5 Å per 100° di
rotazione, ovvero un po’ meno di 1/3 di un angolo giro.
(è possibile osservare il C=O e l’N-H al termine della catena
che non partecipano alla formazione dei legami peptidici
oltre che il ponte ad idrogeno tra l’aminoacido 9 e il 5)
A livello dell’α-elica si esprime la polarità vista per il legame
peptidico, che prevedeva la presenza di una carica parziale
positiva sull’ idrogeno dell’N-H ed una parziale carica
negativa sull’ O del C=O. Tutto ciò espresso a livello di
un’elica intera attribuisce una carica parziale negativa
sull'estremo C=O e una
carica parziale positiva sull’altro estremo, N-H. Ciò
è l’espressione del dipolo del legame covalente
peptidico.
Non tutti gli aminoacidi, però, consentono la formazione
dell’α- elica. Ci sono delle sequenze particolari che lo
consentono (quindi si forma l’α-elica) e ci sono dei residui che assolutamente non lo
consentono.
Per esempio: Valina-Treonina-Isoleucina hanno dei carboni che ramificano al libello del Cβ che
destabilizzano la struttura dell’elica, in quanto queste ramificazioni creano troppo ingombro sterico e
quindi queste sequenze, in genere, non sono presenti nell’α-elica. Serina-Asparagna-Aspartato,
invece, sono noti come aminoacidi che interrompono l’elica, in quanto la loro catena laterale può
essere donatore o accettare di ponte ad idrogeno. La formazione di questo legame ad idrogeno
avviene però molto vicino ad N-H e C=O del backbone, quindi in un certo senso competono per la
formazione dei regolari ponti idrogeno dell’α-elica. Saranno in genere esclusi dalla formazione
dell’α-elica. Vi è anche la Prolina, che interrompe l’elica, in quanto non ha idrogeni da poter
utilizzare per la formazione dell’α-elica, proprio perché la struttura ad anello non permette il
raggiungimento di un particolare angolo di torsione Φ. In genere la Prolina è presente nell’elica
ed indica proprio lo stop di quest’ultima.
Ci sono delle proteine che sono formate solamente da α-eliche, intervallate da alcune regioni,
graficamente rappresentate da fili o tubi, che non hanno struttura α-elica.
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Oltre a queste ci sono, come già detto, le proteine che devono attraversare la membrana, che
costituiscono una categoria a parte. Si contrappongono nettamente alle proteine globulari quelle
fibrose, dove le catene sono disposte lungo un asse. Esse sono insolubili in acqua, dunque si
raccolgono e formano dei filamenti insolubili; in genere, inoltre, presentano un solo tipo di struttura
secondaria. Hanno, in aggiunta, una funzione strutturale, come quella di protezione e di sostegno e
possono essere abbinate a resistenza ed elasticità. (Si approfondiranno in particolare quelle presenti
in pelli, capelli e unghie e quelle legate più al sostegno, quindi collagene, per cartilagini, tendini e ossa
ed anche di elastina.)
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Questa proteina è prodotta dai cheratinociti e appartiene ovviamente allo strato epidermico corneo
esterno della pelle, del quale forma anche le appendici: i peli, i capelli, le unghie... L'uomo esprime
molte varianti di questa proteina, a seconda della sequenza che le caratterizza. L’α-cheratina è una
proteina particolarmente ricca di residui di cisteina, che sono coinvolti nella formazioni di ponti
disolfuro e che sono responsabili dell'ancoraggio delle due eliche che si avvolgono l'una sull'altra. A
questo proposito distinguiamo delle cheratine dure, caratterizzate da sequenze aminoacidiche in cui
sono frequenti le cisteine e quindi molto frequenti i ponti disolfuro. Le strutture che generano,
ovviamente, sono strutture più dure e meno flessibili come nell'uomo può essere un'unghia.
Mentre le cheratine morbide hanno un basso
contenuto di cisteine, quindi pochi ponti
disolfuro e sono tipici di quei contesti dove la
flessibilità e la morbidezza sono importanti,
come nella cute. Per comprendere bene la
struttura dei ponti disolfuro nei capelli
è interessante analizzare il processo della
permanente. Quando si fa la permanente
,infatti, si rompono i naturali ponti disolfuro che
appartengono alla struttura del capello e lo si fa
con un agente riducente, creando
dei terminali sulfidrilici SH. Successivamente si
vanno a creare delle condizioni nuovamente
ossidanti, che vanno a ricostruire i ponti
disolfuro. Ovviamente, dopo aver dato la forma
desiderata al capello. Quindi nell’α-cheratina la
cosa più rimarchevole è che ci sono queste due
α-eliche lievemente ripiegate l'una rispetta
all’altra, che generano questo avvolgimento
sinistrorso.
Naturalmente questa struttura coiled coil è consentita dalla struttura primaria delle proteine. Il
segmento centrale delle catene polipetidiche di α-cheratina è dato da circa 300 residui organizzati in
sequenze di 7, che vengono indicati come amminoacidi A B C D E F G.
Queste sequenze di 7 residui iniziano a ripetersi, ma, poiché l'elica ha circa 3,6 aminoacidi per giro, gli
aminoacidi in posizione 1 ed in posizione 4, a seguito di un giro quasi completo, si trovano vicini e
potranno ovviamente affacciarsi ed entrare in interazione con i residui 1 e 4 dell'altra α-elica. Spesso i
residui A e D sono residui fortemente idrofobici e ciò consente l’avvicinamento e l’interazione e genera
l'associazione del cuore più interno di questo coiled coil, che si estende per tutta la lunghezza della
cheratina. Questo coiled coil poi si organizza ulteriormente in sovrastrutture. Per fare ciò, due di
queste strutture si devono avvolgere con il coiled coil e generare il dimero. Il dimero poi si associa ad
altri dimeri, organizzati in due file testa contro coda antiparallele e prende il nome di protofilamento.
Due protofilamenti sono associati in una protofibrilla e quattro protofibrille danno origine ad una
struttura più grande, che prende il nome di microfibrilla. Già a livello delle protofibrille, tutte queste
associazioni di coiled coil devono essere stabilizzate non solo da ponti disolfuro, ma anche da ponti
idrogeno e ponti salini. Un capello, quindi, non è un insieme di proteine che escono dal cuoio
capelluto: in sezione un capello è formato da strati di cellule morte, che nella loro struttura hanno l’α-
cheratina condensata, sotto forma di microfibrille parallele, partendo dai dimeri di coiled coil fino alle
sovrastrutture sempre più lunghe e complesse.
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- l’antiparallela, che procede dal l’N terminale verso il C terminale, poi fa un giro, (una piega o un
loop), per poi rigirarsi nella direzione opposta. Se gli aminoacidi lo consentono, qui si formano delle
regioni di ponti ad idrogeno e non tutte le sequenze che si trovano appaiate sono in grado di
formarli. Infatti, bisogna tener conto anche delle loro catene laterali. Graficamente un β-sheet viene
rappresentato sempre con una freccia piatta. prendendo come esempio una struttura formata da
tre filamenti, si può notare l'interruzione da parte di un loop, che consente l'inversione della
direzione e quindi la formazione di un foglietto, formato da tre β-strands tutti antiparalleli l'uno
all’altro.
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- la parallela, in cui un filamento parte dall'N terminale, fa un giro, ritorna verso il basso, si riorienta
come quello iniziale e poi procede in maniera parallela verso C terminale. Anche in questo caso, se
gli aminoacidi lo consentono si formano i ponti idrogeno, responsabili del mantenimento della
struttura β. La struttura β non nasce solo tra due filamenti: ci possono essere anche sequenze della
stessa catena che formano ponti idrogeno tra di loro, che vanno a costituire il cosiddetto β-sheet
formato da più strands (filamenti o tratti) lineari. Graficamente si può notare come dal C terminale di
un β-strand parta una lunga sequenza libera senza ponti che mi riporta nella situazione parallela a
quella iniziale, fino a formare 3 β-strands tutti paralleli.
I singoli segmenti, nel contesto di un polipeptide molto lungo, sono ovviamente vicini e distanziati da
pochi aminoacidi. Ci possono essere delle regioni molto lontane nella sequenza, che per motivi di
strutturazione si avvicinano e si organizzano a formare delle sequenze di foglietto-β, i due filamenti
che formano i legami idrogeno sempre con gli stessi atomi del legame peptidico, solo che uno dei
partner del legame appartiene ad un filamento e l'altro partner ad un altro filamento.
L'aspetto è pieghettato perché i piani peptidici, che contengono i legami peptidici, sono piegati l'uno
rispetto all'altro. Anche in questo caso Φ e Ψ hanno dei valori definiti e costanti nei tratti in cui si
formano i filamenti strutturati in foglietto-β. Un’α-elica che si avvolge su se stessa è ben diversa dal β-
sheet, quest’ultimo definito struttura estesa. Il backbone della catena polipeptidica si estende quindi
in una struttura a zig zag, con piani peptidici che creano letteralmente un'alternanza “sopra-sotto".
Tutto ciò è visibile soprattutto nella visione laterale, dove due β-strands interagiscono attraverso
numerosi ponti ad idrogeno, gli R sono tutti fuori da questo foglietto pieghettato e sono alternati una
volta sopra e successivamente sotto. Questo crea le condizioni di massima formazione di ponti
idrogeno e minimo ingombro tra le catene R. Nell’esempio sopra riportato si possono notare due β-
strands che procedono in modo antiparallello: s’ipotizza che ci sia un giro, che, ovviamente, non è
visibile e si forma la struttura β solo se gli aminoacidi consentono la formazione di legami. Non si ha
struttura β se non si hanno almeno due strands. Τecnicamente, le cose cambiano tra la formazione di
un foglietto parallelo ed uno antiparallelo. La situazione del foglietto antiparallelo vede contrapposti
due aminoacidi che formano con il loro N-H e C=O due ponti ad idrogeno, quindi in una sequenza di 5
aminoacidi che si susseguono, si avranno 6 ponti ad idrogeno. Nella struttura parallela, invece, nello
spazio degli stessi Cα, si formano solo 4 ponti idrogeno, quindi minore stabilizzazione.
Ciò però non esclude la loro esistenza, essendo in natura presenti anche gli andamenti paralleli. Di
fatto l’N-H ed il C=O di un aminoacido formano il loro ponte idrogeno con aminoacidi separati da due
posizioni, quindi non uno di fronte all'altro.
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Sono molto comuni le situazioni miste, ad esempio due strands con andamento parallelo ed uno
antiparallelo. Nella grafica a cartoon, questi foglietti-β vengono rappresentati come tante frecce,
non proprio piatte, lievemente curve, mosse o avvolte. Formano tra di loro i ponti ad idrogeno
necessari per stabilizzare questa struttura pieghettata. Ovviamente tutto ciò non può essere
apprezzato con una grafica a nastro, ma andando a vedere a livello degli atomi, i piani peptidici
cambiano la loro direzione in sequenza, creando questa pieghettatura nella struttura β. Inoltre i
valori di Φ e Ψ sono fissi anche per i β-sheets parallelo ed antiparallelo.
Le strutture β, così come le α-eliche,
vengono utilizzate dalle proteine integrali di
membrana per attraversare il doppio strato
fosfolipidico:
- I β-barrel che spesso sono dei
trasportatori o delle proteine canale. Si
chiamano barrel perchè il primo e l'ultimo
dei filamenti del β-strands formano ponte
idrogeno tra di loro, chiudendo la struttura
e generando un vero e proprio barile (o
canale), che può aiutare la cellula a
trasportare qualcosa sia dentro che fuori.
Come esempio si può prendere in
considerazione il β-barrel localizzato nella
membrana mitocondriale esterna, che
crea un vero e proprio canale. L'interno è
quasi completamente pieno, eccezion
fatta per una piccola parte vuota che
viene utilizzata come trasportatore
selettivo, in quanto i canali non sono
completamenti indipendenti da ciò che
trasportano e infatti presentano delle
affinità specifiche.
All'interno di questa struttura vi è anche una piccola α- elica che spesso esercita un controllo
selettivo sulle sostanze che devono essere spostate da un lato all'altro della membrana.
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LA STRUTTURA TERZIARIA
Con la struttura terziaria si fa riferimento alla disposizione di tutti gli atomi di una proteina in uno
spazio tridimensionale e naturalmente il generarsi di questa struttura dipende dalla sequenza
aminoacidica. Se la struttra
secondaria si riferisce alla
disposizione dei residui
adiacenti il segmento
polipeptidico, la terziaria tiene
conto di interazioni a lungo
raggio. Nell’α-elica le interazioni
sono molto più concentrate e
localizzate,
mentre nella struttura
terziaria le interazioni possono
coinvolgere due porzione
polipeptidiche molto lontane,
ovviamente queste sequenze si
avvicinano
durante il processo di folding della proteina stessa. La struttura terziaria delle proteine è una struttura
normalmente compatta e i residui idrofobici si dice che "collassano" verso l'interno della molecola
proprio per effetto idrofobico, mentre quelli idrofilici rimangono esposti alla superficie, all'esterno,
quando la proteina è immersa in un contesto idrofilico (tipico esempio, l'ambiente acquoso del
citoplasma cellulare).
Esistono delle strutture simili ai β-barrel, le porine, che attraversano una membrana generando un
poro, un canale. Esternamente presentano residui idrofobici che creano interazioni con catene apolari
degli acidi grassi del doppio strato fosfolipidico della membrana. All’interno, invece, ci sono
aminoacidi polari e carichi che tappezzano la cavità del canale che in genere è contenitivo di acqua.
Quest'acqua è in interazione con gli aminoacidi polari e carichi della faccia interna del barile e viene
utilizzata per lo scambio e il trasporto di sostanze. Come esempio esplicativo si può notare il
trasportatore di saccarosio e si riesce a comprendere benissimo come uno zucchero necessiti di
acqua per essere trasportato.
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Lezione n°02 del 27.03.2018
Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore: Luca Rubrichi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
STRUTTURA TERZIARIA
La disposizione nello spazio di tutti gli atomi di una proteina viene definita struttura terziaria:
naturalmente, dipende dalla sequenza amminoacidica; mentre l’espressione “struttura secondaria”
si riferisce alla disposizione spaziale di residui amminoacidici adiacenti in un segmento di un
polipeptide, la struttura terziaria tiene conto delle relazioni a lungo raggio nella sequenza
amminoacidica.
Gli amminoacidi che si trovano lontani in una sequenza polipeptidica, e quindi fanno parte di tipi
differenti di segmenti proteici, possono interagire fra loro nella forma completamente avvolta della
proteina.
La struttura terziaria di una proteina globulare (cioè a struttura raccolta e compatta), può essere
assimilata, ad esempio, ad una proteina che vive nell’ambiente acquoso del citosol; in simili
proteine la compattazione avviene grazie ai residui idrofobici che vengono internalizzati nelcore
idrofobico della proteina stessa, mentre quelli polari o carichi vengono esposti verso l’esterno più a
contatto con l’ambiente acquoso.
In generale, questo costituisce il folding (ripiegamento molecolare attraverso il quale le proteine
ottengono la loro struttura tridimensionale) della proteina.
Tuttavia, questo processo di costituzione della struttura terziaria non vale per tutte le proteine. Un
esempio può essere una porina immersa nel doppio strato fosfolipidico della membrana cellulare.
Dato che la porina è costituita soprattutto dai beta strands (sequenza peptidica di 5/10
amminoacidi disposti linearmente), ci sono residui idrofobici che sono esposti verso l’esterno e che
interagiscono con le catene alchiliche idrofobiche degli acidi grassi, che compongono i fosfolipidi e
che entrano nella costituzione della membrana. Gli amminoacidi polari e carichi invece saranno
rivolti all’interno del canale, e saranno solvatati dall’acqua che vi passa attraverso.
Inoltre, le strutture beta e alfa elica hanno le caratteristiche di poter essere anfipatiche, quindi
possono possedere caratteristiche idrofobiche e contemporaneamente idrofile.
Un esempio è l’alfa elica che espone da un lato tutte catene laterali di tipo idrofobico e dall’altro
catene idrofile, cioè carichi o polari a seconda della sua esposizione: la faccia dell’elica esposta
verso la membrana sarà di tipo apolare, mentre la faccia esposta verso l’ambiente acquoso
esporrà le catene laterali polari e cariche.
In generale per una proteina (un esempio è la mioglobina di capodoglio, che è all-alfa – ossia
costituita da otto sequenze in alfa elica), si osserva che in superfice vengono esposti residui
carichi e polari, ma non evita in toto di esporre anche residui idrofobici. Tuttavia, in sezione
trasversale la prevalenza è quella dei residui di tipo idrofobico, e ciò sottolinea come questi residui
non vengono esclusi i residui idrofobici completamente della superficie, ma sono comunque
spesso contornati da regione di amminoacidi carichi e polari.
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
Affinché si realizzi una struttura terziaria, deve svilupparsi un impacchettamento dei residui. Tale
impacchettamento deve essere stabilizzato da:
• Legami a Idrogeno
I legami H sono un tipo di interazione che si forma tra quei residui e catene laterali che
hanno gruppi favorevoli per la formazione di ponte a idrogeno, detti donatore di ponte
idrogeno. Questi gruppi possono essere gli -OH (ad esempio di serina e tirosina) che
hanno gruppo oh per la formazione di ponti idrogeni. Ci sono anche gruppi peptidici, ossia -
NH e -CO, che non sono coinvolti nella struttura secondaria, ma che sono comunque punti
di disponibilità alla formazione dei ponti idrogeno che verrà realizzato da un'altra catena
laterale di un AA. [vedi Nel dettaglio...]
• Ponti Disolfuro
I ponti disolfuro contribuiscono alla formazione della struttura terziaria dando anche un
effetto stabilizzante alla struttura; mentre gli altri legami sono interazione elettrostatiche tra
dipoli tra cariche intere (legami ionici) o tra cariche parziali (ponti a idrogeno), i punti di
solfuro sono legami covalenti che si realizzeranno tra i residui di cisteina. Quando si
realizza il ponte, questo viene appunto detto ponte di cisteina. [vedi Nel dettaglio...]
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
Nel dettaglio...
Nel legame ionico si devono considerare i residui che sono ionizzati a pH cellulare (come lisina,
arginina, istidina), ma si includono anche il gruppo amminoterminale, che è carico positivamente.
Questi residui possono interagire con le catene laterali che portano cariche negative.
La capacità di formare ponti a Idrogeno dipende dallo stato di ionizzazione dei gruppi e, quindi, dal
pH. I gruppi ammini hanno un pk intorno a 9, il gruppo carbossilico intorno a 2, poi ci sono quelle
catene laterali vedi glutammato e aspartato che hanno pk intorno a 3/4 e quelli dei gruppi delle
lisine argenina hanno pk uguale a 11/12.
È quindi il ph che decide la condizione e lo stato di ionizzazione di questi amminoacidi, quindi le
loro potenzialità di formare legame ionico e ponte idrogeno.
Invece, il ponte disolfuro si forma quando due residui di cisteina espongono il loro gruppo solfidrico
(-SH) e, naturalmente, per formare il ponte disolfuro questi residui devono trovarsi in prossimità.
Per esempio, se in una catena polipeptidica il residuo 5 forma un ponte disolfuro con il residuo 100
è evidente che viste le posizioni in condizioni di completa denaturazione sarà un evento raro la
formazione del ponte. Se vediamo la formazione del solforo contestualizzata nel meccanismo del
folding ecco che queste regioni distanti del polipeptide all’atto del ripiegamento della proteina
possono trovarsi in posizione contigua e quindi in posizioni tali per cui è consentita la formazione
del ponte disolfuro.
Quindi, quando la proteina inizia a strutturarsi e i residui di cisteine si trovano tra loro in prossimità,
formano il ponte disolfuro nelle condizioni ossidanti, perdendo due elettroni e due protoni. Nell’altra
direzione si ha la reazione di riduzione in cui gli zolfi acquistano protoni e elettroni ed il ponte viene
aperto.
Il ponte di solfuro può essere visto nella molecola del glutatione: in condizione ossidata due
molecola di glutatione hanno perso due protone e elettroni, e hanno realizzato un ponte di solfur o
generando la forma ossidata del glutatione (vedi biochimica metabolica e biochimica generale).
Anche la molecola di insulina ha vari ponti di solfuro (precisamente 3): è formata da due catene A
e B legati da due ponti di solfuro e infine un latro ponte dentro la catena A.
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Infine, esistono delle raffigurazioni che indicano la superfice della molecola. Ad esempio, la
molecola della mioglobina è riconoscibile dal fatto che all’interno ha un elemento “strano”, ossia un
gruppo organo metallico detto eme (il quale è responsabile del legame con l’ossigeno); in genere
queste molecole, diverse dagli amminoacidi, sono proprio disegnate e strutturate nella
raffigurazione della proteina, in modo da capire che non si tratta semplicemente di residui
amminoacidici. Nel caso in esempio, il gruppo eme approfitta di una piccola nicchia idrofobica,
dato che eme è idrofobico, per infilarsi all’interno e proteggere dall’ambiente acquoso il suo sito del
legame per l’ossigeno.
Esistono dei programmi per vedere i singoli residui delle catene laterali e per analizzare una
struttura terziaria depositata nei database strutturali. In sostanza, con misure spettroscopiche
molto raffinate e complesse, sono state analizzate completamente migliaia di proteine e risolte le
loro strutture terziarie e – in alcuni casi – anche quaternarie.
Molte proteine sono state depositate nel protein-database. È molto importante avere a
disposizione tutte queste strutture perché è proprio dalla conoscenza e dall’analisi della struttura
tridimensionale che è possibile interpretare la funzione e prevedere cosa succerebbe se quel
determinato residuo non ci fosse o fosse variato, o come si comporta in riferimento a un'altra
proteina omologa. Infatti esiste una stretta correlazione tra la struttura della proteina e la funzione
biologica, poiché la funzione viene esplicata proprio nel momento in cui la proteina ha assunto la
sua struttura terziaria nativa.
Naturalmente, ci sono delle strutture che si ripetono e ci sono delle vere e proprie famiglie di
proteine che condividono la loro struttura terziaria ecco quindi anche la conoscenza di queste
omologia aiuta a risolvere strutture di proteine ancora non identificate. Le dimensioni sono molte
molto varie.
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STRUTTURA QUATERNARIA
Moltissime proteine hanno struttura quaternaria. Le proteine che sono costituite da una sola
catena polipeptidica sono chiamate monomeriche, mentre quando sono costituite da un certo
numero di catene polipeptidiche, chiamate subunità, sono dette molecole multimeriche; le subunità
si associano in modo specifico e la caratteristica molecola multimerica che si ottiene è dotata di
struttura quaternaria.
Le subunità possono essere uguali o differenti e sono tenute insieme dalle stesse interazioni
responsabili della struttura terziaria (ponti Idrogeno, forze di Van der Waals, ponti salini e ponti
disolfuro) anche tra catene differenti.
Inoltre, possono funzionare in modo indipendente una dall’altra oppure in modo cooperativo,
cosicché la funzione di una subunità sia dipendente dallo stato funzionale delle altre subunità.
Conoscere la struttura quaternaria di una proteina significa conoscere l’arrangiamento spaziale tra
le varie subunità che la compongono e la natura dell’interazione che determina questa
associazione tra le proteine stesse.
Quelli che nella raffigurazione tridimensionale sembrano spazi vuoti in realtà sono tutti spazi pieni,
con regioni di contatto tra gli atomi che lo compongono.
L’emoglobina è formata da quattro catene polipeptidiche uguali due a due (due catene uguali dette
catene di tipo alfa e due catene uguali dette catene di tipo beta) associate in modo caratteristico.
Viene per questo definita come un tetramero di due subunità alfa e due subunità beta. Le subunità
sono associati in modo che abbiano un dimero alfa-beta in associazione con un altro dimero alfa-
beta. Tutti i residui carichi e polari sono esposti verso l’esterno di queste superficie.
Molte delle interazioni tra le subunità sono di tipo idrofobico, infatti i dimeri alfa e beta sono
associati in maniera stabile. Invece l’interazione tra i due dimeri è caratterizzata non solo da
interazione di tipo idrofobico, ma anche di tipo elettrostatico ed è questa interfaccia che cambia
maggiormente quando la proteina lega ossigeno.
La caratteristica dell’emoglobina è di potersi muovere tra due conformazione: tra una
conformazione affine all’ossigeno ed una conformazione non affine con l’ossigeno. Le interazioni
disposte in modo strategico, per permettere la corretta funzione della proteina – ossia riuscire a
legare l’ossigeno e rilasciarlo nei tessuti periferici.
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Un’altra proteina è chinasi-A: si tratta proteina intracellulare super espressa (detta ubiquitaria),
molto importante e presente nelle cellule epatiche nel tessuto muscolare, nervoso ed endocrino.
Fa parte della famiglia delle chinasi, proteine enzimatiche la cui funzione è quella di attaccare
gruppi fosfato PO42-. Questo gruppo fosfato viene attribuito a substrati specifici, che – una volta –
fosforilato subisce importanti variazioni sia a livello strutturale sia a livello funzionale.
La proteina “pka” ha un ruolo regolatore importante in quanto decide la funzionalità di un substrato
rispetto ad un altro.
Ed è costituito da:
• Subunità Catalitica (in foto a pagina 7 rosa), realizza la reazione di aggiunta del fosfato;
• Subunità Regolatrice (in foto a pagina 7 blu), è sensibile ai livelli di AMP ciclico ed
accende/spegne la subunità catalitica di conseguenza
• Elemento Extra
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
La disponibilità del genoma di geni codificanti consente all'organismo di esprimere in vari tessuti e
organi differenti il tipo di subunità più adatto: crea quindi enzimi dalla medesima funzione, svolta
tuttavia in modo diverso. Si avranno assemblaggi di struttura quaternaria lievemente diversi che
modulano l'azione di quell’enzima in quel particolare distretto, tessuto o organo. Questi oligomeri
vengono chiamati isoenzimi.
Motivi e domini strutturali sono sistemi che stanno al di sopra di strutture secondarie e terziarie e
sono coinvolti nella classificazione strutturale delle proteine.
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MOTIVI
Motivo Alfa
HTH HelixTurnHelix
Due α eliche, che si avvicinano tra loro per interazioni idrofobiche, congiunte
da un turn, ovvero una curva che separa le due eliche; tra le due eliche, se
ne distingue sempre una detta elica di riconoscimento, che si colloca in un
punto particolare dell’elica del DNA. I residui su un lato particolare dell’α
elica sono in grado di formare ponti a idrogeno con le basi del solco
maggiore del DNA. È stato il primo dei motivi leganti il DNA ad essere stato
scoperto e, in
genere, si tratta di
proteine
repressori.
EF-Hand
Due α eliche separate da un loop: tale loop crea un motivo di amminoacidi
specifici, leganti il Calcio (catene laterali di aspartato, arginina, glutammato).
Quindi si trova spesso in proteine che legano il Calcio.
Esempio: la troponina C è formata da quattro motivi EF-Hand, di cui solo
due sono separate da loop che legano il Calcio. Inoltre, l’allineamento degli
amminoacidi delle regioni leganti il calcio ha dimostrato che esistono
posizioni specifiche molto conservate (sia elica E, sia elica F, sia loop)
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Motivo Beta
β Hairpin
Formato da un elemento di struttura secondaria, la cosiddetta “forcina beta”,
ovvero un complesso separato con due filamenti β antiparalleli separati
da un loop (un segmento di due/cinque residui di amminoacidi, di cui di
solito una glicina e una prolina).
Motivo Alfa-Beta
β-α-β
Due foglietti in direzione N-C affiancati e separati in sequenza da un breve
loop e da un’elica. In ordine si ha: beta-loop-alfa-loop-beta; il loop che
collega il terminale carbossilico di un beta con il terminale amminico dell’α
elica che segue, spesso è impiegato nella formazione di un sito funzionale
(catalitico o di riconoscimento di un partner di legame). Di solito l’α elica si
posiziona al di sopra del piano che trova adiacenti i due beta strands.
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DOMINI
Dominio Alfa
Coiled-coil
Si tratta di una struttura superavvolta, sinistrorsa e formata da due α eliche
destrorse; questo tipo di avvitamento riduce il numero di residui per giro in
ognuna delle due eliche (per un giro completo ci sono 3,5 residui rispetto ai
3,6 canonici) in modo che le interazioni tra le catene laterali delle due eliche
che svolgono l’avvolgimento vengano a ripetersi ogni 7 residui.
Esempio 1: se in due posizioni vicine ci sono sempre rispettivamente valina
e leucina, quando le due eliche si avvolgono, le leucine e le
valine interagiscono idrofobicamente e stabilizzano questo
avvitamento delle due α eliche;
Esempio 2: leucine zipper, omodimero parallelo con leucine che si trovano
sulla faccia delle due eliche che si avvolgono e che con un
meccanismo a cerniera possono interagire.
Fold-globinico
Così chiamato perché caratterizza la famiglia
delle globine; sono presenti 8 alfa eliche
nominate con lettere dalla A alla H e interrotte
con proline o loop, in genere i loop sono molto
piccoli e raccolti; tali alfa eliche si compattano e
generano la tasca idrofobica dove entra il
gruppo Eme. Questo dominio caratterizza la
molecola della mioglobina e della emoglobina.
Fascio a 4 eliche
Quattro α eliche disposte in modo tale che gli assi siano quasi paralleli
(quasi a cilindro); all’interno non vi è spazio vuoto, ma sono presenti catene
laterali di residui idrofobici, che si legano tra loro e stabilizzano la struttura.
Esempio 1: Citocromo B, le α eliche procedono antiparallele e questo
conferisce stabilità: il terminale δ+ e quello δ- delle due eliche si
annullano a vicenda;
Esempio 2: Ormone della crescita, composto da alfa elica – lungo loop –
alfa elica – lungo loop – alfa elica; le quattro eliche sono
parallele e i due dipoli non si annullano.
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
Dominio Beta
Up and Down
Topologia più semplice con organizzazione antiparallela,
i β si susseguono l’uno dopo l’altro intervallati da corti
loop; spesso l’ultimo β è collegato al primo, creando
strutture a barile “beta barrels” con otto filamenti β; i
filamenti β formano due piani che si appoggiano l’uno
contro l’altro e al centro si trova una cavità idrofobica.
Esempio: Retin binding protein umana, costituita da due
foglietti da quattro β strands ciascuno
appoggiati l’uno contro l’altro, al centro si crea
una cavità molto piccola in cui viene ospitato il
retinolo da trasportare; sono proteine
extracellulari di trasporto.
Dominio Alfa-Beta
Alfa-Beta barrel
Otto filamenti β paralleli (in quanto hanno tutte le punte rivolte verso l’alto);
l’ottavo β forma ponti idrogeno con il primo β, chiudendo la struttura a barile.
Tra un β e l’altro è interposta un’α elica, la cui posizione varia sempre da
proteina a proteina; l’ α elica è esterna al barile che si genera. È una
struttura di almeno 200 amminoacidi ed è tipico degli enzimi. È anche
chiamato TIM-barrel, perché il primo dominio risolto è stato quello della
triosofosfatoidrogenasi. Queste proteine, pur avendo medesimo dominio,
hanno tutte sequenze diverse.
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Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore: Luca Rubrichi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi
Alfa-Beta aperto
Ci possono essere da 4 a 10 filamenti beta e le eliche sono separate con un
piccolo loop dall’estremità c-terminale dei beta; le alfa eliche si possono
trovare in posizione variabile. Anche in questo caso si genera un sito attivo,
grazie alla presenza dei loop.
Esempio: esochinasi (riconosce il glucosio e attacca il fosfato nella glicolisi)
e fosfoglicerato mutasi (beta strand paralleli e antiparalleli con alfa
eliche posizionate avanti o dietro rispetto ai beta)
DOMINI MULTIPLI
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Lezione n°00 del 27.03.2018
Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
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Materia: Biochimica
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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose
LE PROTEINE E L’EVOLUZIONE
Omologia delle proteine, evoluzione e metodi per l’allineamento delle sequenze
amminoacidiche col fine di confrontarle e determinarne la funzione.
Parlando di motivi e domini strutturali intuiamo che le proteine possono essere organizzate
all’interno di famiglie; ammettiamo quindi che nel corso dell’evoluzione si siano generate centinaia
di famiglie di proteine, le proteine raccolte all’interno di queste famiglie vengono definite omologhe.
Molte di queste famiglie sono state identificate grazie al fatto che molte proteine sono state
sequenziate, e la loro sequenza amminoacidica (struttura primaria) è stata acquisita all’interno di
database di struttura.
La familiarità, ovvero l’aspetto che accomuna queste proteine si rispecchia soprattutto a livello di
struttura terziaria, proprio perché questa è strettamente legata alla funzionalità. Spesso, infatti, la
famiglia proteica rispecchia una particolare funzione, ad esempio le strutture tridimensionali di
ribonucleasi bovina e umana, che hanno la medesima funzione di scindere i legami tra i nucleotidi
di RNA ottenendo frammenti di dimensioni inferiori, hanno la stessa struttura. Se a questa coppia
aggiungo un’altra proteina umana che prende il nome di angiogenina, dal punto di vista funzionale
la somiglianza diventa sorprendente, si tratta di una proteina che stimola lo sviluppo di nuovi vasi e
appartiene alla stessa famiglia della ribonucleasi bovina e umana. Parlando in termini evolutivi
possiamo dire che queste proteine condividono un antenato comune: una proteina progenitrice.
Le somiglianze non sono così rimarchevoli solo a livello di struttura 3D, ma anche a livello di
sequenza amminoacidica, in quanto ribonucleasi bovina e angiogenina presentano almeno il 35%
di residui identici in posizioni corrispondenti, si ha quindi una forte omologia e una forte identità
della sequenza amminoacidica.
Nella biochimica moderna possiamo fare uso di database che raccolgono sequenze
amminoacidiche e hanno inoltre algoritmi che consentono il confronto tra le sequenze proteiche.
Le informazioni che si possono desumere da un allineamento sequenziale hanno importanti
ricadute da un punto di vista funzionale: se non è nota la funzione di una proteina appena
sequenziata l’allineamento di sequenza può darci un’indicazione della sua funzione. Mentre le
sequenze amminoacidiche e le strutture primarie sono conosciute, non tutte le strutture 3D sono
note, sono infatti molto più difficili da risolvere. Delle proteine con strutture 3D note si possono fare
allineamenti non solo di sequenza, ma anche tridimensionali, e anche questo tipo di somiglianza
può dare indicazioni sulla funzione che una proteina ha, e sulla sua somiglianza con un’ altra
famiglia di proteine. Oggi quindi si procede non solo allineando le sequenza, ma anche la struttura
tridimesionale, poiché conoscere la struttura vuol dire conoscere le posizioni nello spazio x,y,z di
ogni atomo che costituisce la proteina, e anche le distanze fra i singoli atomi sono ricavate in uno
spazio tridimensionale.
Quando le proteine hanno un antenato comune si definiscono omologhe e si parla di omologia.
ES: La ribonucleasi bovina e la ribonucleasi umana sono proteine omologhe di tipo ortologo,
l’angiogenina e la ribonuclasi umana sono definite proteine omologhe paraloghe.
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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose
L’allineamento di sequenza eseguito tra queste 2 sequenze primarie presenta un allineamento con
amminoacidi uguali, in un caso si hanno 22 sovrapposizioni all’inizio della proteina, nell’altro caso
23 identità verso la fine della proteina. Si spostano queste sequenze l’una contro l’altra per trovare
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Lezione n°17 del 16.04.2018
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Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose
gli esatti match. Sulle ascisse si trovano tutti gli allineamenti possibili, e in ordinata il numero di
sovrapposizioni. Le 2 situazioni migliori in questo caso sono indicate da 2 blocchi che
rappresentano 22 amminoacidi uguali e 23 amminoacidi uguali, e sono quindi 2 allineamenti molto
significativi.allineamenti:
Saranno avvenute sostituzioni di amminoacidi, inserzioni o delezioni che sono alla base di una
evoluzione divergente a partire da un antenato comune. Alla base si ha quindi l’intuizione che
mioglobina ed emoglobina alpha sono proteine omologhe e che in un antico passato si sono
allontanate per divergenza, con un evoluzione che le ha portate a divergere e ad avere 2 catene
simili, ma non uguali. Notiamo che nell’allineamento tra emoglobina e mioglobina possono
avvantaggiarmi dell’introduzione di un interruzione: introducendo un gap di 6 posizioni di alpha
emoglobina rispetto a mioglobina risultano rappresentate tutte le 22 o 23 identità che erano state
trovate con entrambi gli allineamenti. Si ottimizza quindi l’allineamento semplicemente
introducendo un gap di 6 amminoacidi e con questa ottengo un allineamento ottimale che
evidenzia tutti gli amminoacidi che sono effettivamente uguali. Gli strumenti informatici che
consentono allineamenti creano dei punteggi per stabilire chi allinea meglio o peggio e chi è
omologo, o ha identità. In questo caso la somma sono 38 identità, e se vengono attribuiti 10 punti
per ognuno di questi amminoacidi identici per le 2 proteine, viene un punteggio di 380, il gap viene
considerato come un aspetto negativo, un rischio, e perciò gli viene attribuito un numero negativo
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Lezione n°17 del 16.04.2018
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose
che è per convenzione 25. Quindi 380-25= 355 ovvero il punteggio indicativo di questa situazione
di sovrapposizione e di identità.
Bisogna chiedersi se l’allineamento è forzato e l’introduzione del gap sia troppo arbitraria, e porti
ad una casualità di allineamento, quindi si ricorre alla statistica per verificarne la significatività. Si
utilizza il metodo dello shuffle: ovvero una modifica casuale e randomica. Si esegue un
riarrangiamento casuale di una delle sequenze, si rifà poi l’allineamento e si ricalcola il punteggio.
Si crea un grafico: sull’asse delle ascisse viene posto il punteggio ottenuto facendo lo shuffle e
riallineando, mentre sulle ordinate viene posto il numero degli allineamenti. Con queste sequenze
casuali e randomiche si riesce comunque ad allineare, in realtà il punteggio di 355 calcolato in
precedenza si posiziona molto al di là della campana di distribuzione dei punteggi ricavati col
metodo dello shuffle, ciò ad indicazione del fatto che la sequenza di emoglobina alpha e di
mioglobina sono effettivamente omologhe e discendono per divergenza da un antenato comune.
Le matrici di sostituzione: valutazione che tiene conto non solo dell’identità degli amminoacidi,
ma anche del grado di somiglianza. (ad esempio un glutammato sarà più simile ad un aspartato
che ad una glicina.)
Le sostituzioni di amminoacidi che possono essere intervenute durante un’ evoluzione divergente,
possono essere conservative, e in questo caso l’amminoacido che subentrerà avrà dimensioni
confrontabili e simili proprietà chimiche all’amminoacido di partenza. Spesso la sostituzione in
questo caso è tollerata, e a seguito della sostituzione la funzione è molto spesso mantenuta.
Esistono anche sostituzioni di tipo non conservativo, che possono introdurre variazioni più
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Materia: Biochimica
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significative che si apprezzano a livello di struttura e dunque della funzione. Le più comuni sono le
sostituzioni conservative, e quelle che coinvolgono un solo nucleotide.
Per analizzare la gravità della sostituzione che è intervenuta durante l’evoluzione sono state create
matrici di sostituzione: sono un sistema di calcolo numerico che attribuisce un punteggio ad ogni
tipo di sostituzione che è intervenuta. Il punteggio sarà positivo se le sostituzioni sono più comuni
e conservative, al contrario il punteggio sarà negativo se le sostituzioni sono state di tipo non
conservativo. Uno dei metodi utilizzati per la messa a punto della matrice di sostituzione è blosum
62. Questa matrice è basata sulla frequenza delle sostituzioni con gruppi di proteine omologhe.
Per fare un blosum servono tante sequenze amminoacidiche in un database di sequenze
proteiche e bisogna analizzare la frequenza con la quale un determinato amminoacido è stato
sostituito con un altro in modo più o meno conservativo. Per attribuire dei valori è necessario avere
tante sequenze perfettamente allineate e vedere con cosa è stato sostituito un dato amminoacido
nell’ambito di una famiglia di proteine omologhe.
La matrice mostra:
– In alto gli amminoacidi effettivi di una sequenza (divisi per catena laterale con proprietà
simile)
– Sulle ordinate ci sono i punteggi stabiliti arbitrariamente in blosum 62 e variano da
+11 a -4.
Le sostituzioni che apportano un valore negativo saranno quelle più distruttive, poiché avvengono
con amminoacidi troppo diversi da quello di partenza. Cisteina e triptofano sono rari e in genere
non cambiano. La loro conferma nell’evoluzione ha un valore molto positivo.
Sostituzioni conservative, come arginina con lisina, hanno un punteggio positivo. Le sostituzioni
meno conservative, come triptofano con lisina, che hanno diverse proprietà, hanno punteggio
negativo.
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Come si applicano le matrici? Quando due sequenze sono confrontate, il punteggio è attribuito
sulla base delle matrici ad ogni coppia, e si considera anche in questo caso la penalità del gap
(delezioni o inserzioni). La matrice di sostituzione consente di trovare omologia tra le sequenze
con una maggiore sensibilità rispetto al metodo precedente, anche applicando il metodo dello
shuffle. Se si applica la matrice all’allineamento di alfa emoglobina e mioglobina, compaiono nuovi
amminoacidi simili rispetto al metodo precedente. Applicando questo metodo, le proteine
acquisiscono nuovi punti di somiglianza, è perciò più facile cercare omologie di proteine
sconosciute.
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ANALISI DI STRUTTURA 3D
Qui c’è il confronto di queste tre molecole. Se vado a confrontare le sequenze amminoacidiche, ho
che emoglobina ha un grado di identità del 15% con legemoglobina e mioglobina con
legemoglobina è pressoché nullo. Se confronto però le strutture terziarie vedo che sono
esattemente la stessa cose. Sono quel tipo di fold che precedentemente abbiamo definito fold
globinico, sequenza di otto sequenze in alpha eliche, distanziate da corti β turn o loop. La cosa
che conta è che in queste molecole ho sempre uno stesso elemento, il gruppo eme, un gruppo
organometallico che ancora un Fe2+, che è quello in grado di legare l’ossigeno.
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diverse la struttura secondaria è uguale→ hanno le stesse eliche circa nelle stesse posizioni e gli
stessi foglietti β in posizioni corrispondenti. Hanno una struttura simile e riuscirei a sovrapporre le
strutture con un certo margine di differenza, anche se il grado d’identità è basso (15% circa). Il
grado d’identità non è sufficiente per dire che le proteine sono omologhe ma se analizzo la
struttura tridimensionale posso dirlo senza incertezza. Nonostante il loro differente ruolo biologico
le due proteine hanno un antenato comune e sono omologhe e paraloghe (perché provengono
dalla stessa specie). In questo tipo di proteine (omologhe e paraloghe) viene conservata molto la
sequenza terziaria ma la funzione è differente; qui infatti hanno una funzione completamente
diversa.
EVOLUZIONE CONVERGENTE
Non esiste solo l’evoluzione divergente, dove si va a sommare delle modificazioni della sequenza
delle proteine e specifico proteine differenti. Esistono delle proteine simili che NON derivano da un
antenato comune e sostituito. Si evolvono indipendentemente e piuttosto convergono verso
una struttura simile per svolgere una funzione simile. In questo caso un punto in comune di
sequenza e di struttura diventa più l’obbiettivo, non un momento di allontanamento. Si raggiunge
una funzione simile da geni diversi. La ricerca di un’evoluzione convergente mi offre la possibilità
di risolvere un problema biochimico.
Esempio: ci sono due serina proteasi, che
sono degli enzimi che idrolizzano il legame
peptidico in determinate sequenze
consenso e hanno un sito attivo simile. Qui
viene riportato solo il sito attivo
responsabile del taglio proteolitico, non
tutta la struttura. Il sito è generato da una
triade di residui con una determinata
posizione nello spazio. Sono una serina,
un aspartato e un’istidina. Una è una
chimotripsina, enzima proteolitico del
nostro sistema digerente e l’altra è la
subtilisina, proteasi derivata da bacillus
subtilis, ben lontano da noi. Nonostante
tutto hanno un sito attivo con un arrangiamento simile. Se però guardo la struttura interamente mi
accorgo che le strutture sono completamente diverse. Non sono proteine omologhe, hanno solo
trovato un punto di convergenza.
ALBERO FILOGENETICO
Sulla base degli allineamenti di sequenza posso costruire degli alberi filogenetici. Assumo che
l’entità delle differenze delle sequenze dipenda dall’epoca della divergenza. Le ramificazioni sono
dedotte dal confronto delle sequenze degli aa, mentre il risultato degli studi molecolari del DNA dei
fossili mi da una datazione della divergenza. Il dato temporale, storico, me lo danno i dati
molecolari che faccio con DNA che recupero dai reperti, l’analisi della sequenza invece la faccio
esaminando le sequenze stesse.
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La struttura primaria di una proteina subisce già modifiche nella stessa specie. Nella specie umana
la sequenza di una specifica proteina funzionale può variare tra individui, tra tessuti dello stesso
individuo e nello stadio dello sviluppo. Le variazioni nelle proteine sono tollerate nelle regioni
varianti, se sono conservative e se danno un vantaggio funzionale. Se una regione tollera diversi
aa viene definita ipervariabile. Se una regione amminoacidica è legata alla formazione di un
punto critico come un punto particolarmente cruciale per il folding della proteina in genere questa
regione è invariante. La variazione è introdotta da una mutazione. Per molti alleli questa comporta
conseguenze di natura fenotipica, che fanno sì che le caratteristiche di un individuo siano diverse
da quelle di un altro individuo, oppure una disfunzione (una malattia congenita o ereditaria),
oppure aumenta la predisposizione a una determinata malattia. Se una sostituzione non
conservativa si realizza in una regione che non è soggetta comunemente a variazione (invariante)
allora in quel caso la sostituzione danneggia la funzione, può impedire la corretta localizzazione
della proteina o può addirittura destinare quella proteina alla degradazione.
POLIMORFISMI
Le variazioni di un allele che si presentano con una certa frequenza nella popolazione si chiamano
polimorfismi. Quando un polimorfismo aumenta in maniera particolarmente stabile con una
proporzione maggiore all’1% viene definito stabile. Un esempio è l’allele dell’anemia falciforme:
quando è presente su una sola forma allelica porta a una specie di vantaggio in determinate
popolazioni dove la malaria è endemica. La malaria è trasmessa dal plasmodio della malaria, che
vive nel globulo rosso per un grande numero di giorni per completare il ciclo biologico. Quando ho
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questa situazione il globulo rosso vive di meno e il plasmodio non fa in tempo a completare il ciclo
vitale. C’è una “pressione selettiva positiva” dunque nei confronti di questa mutazione.
ISOFORME
Veniamo al concetto di isoforma e vediamola nello stadio dello sviluppo. Può accadere infatti che
nello stesso individuo possano essere sintetizzate diverse proteine dello stesso tipo, che si
chiamano isoforme. Esempio canonico è quello dell’emoglobina. Essa non è sempre α2β2 perché
nella vita embrionale e fetale ho altre emoglobine. Quella che si trova per quasi tutta la gravidanza
è la F che ha 2 catene α e 2 γ. Nei primi stadi di vita embrionale ne ho una ancora diversa che si
chiama ζ2ε2. Le forme embrionale e fetale dell’emoglobina hanno maggiore affinità per l’ossigeno
rispetto a quella adulta (che si chiama A). Il feto infatti è esposto a una pressione parziale e
tensione di ossigeno inferiore rispetto a un individuo adulto.
1. Subunità M
2. Subunità B
N.B. hanno un elevato grado di omologia (60-70%), hanno cioè aa uguali e simili.
3. MB: tipo del cuore (dove ho anche MM e BB). Questo eterodimero ha un’importanza
rilevante nella diagnosi di un infarto o comunque di un danno a carico delle cellule del
cuore. Dopo qualche ora dall’evento necrotico cellulare questo eterodimero compare in
quantità troppo elevate. Questa quantità aumenta e raggiunge un picco nelle 12-24 ore e
poi cala e riscendi a valori basali entro 2-3 giorni.
Un altro esempio è l’adenilato ciclasi, che è immersa nella membrana citoplasmatica delle
cellule. Collabora col recettore di specifici ormoni tramite un intermedio, la proteina G. Quando
l’attacco dell’ormone sul recettore attiva le proteine G si attiva anche l’adenilato, responsabile della
creazione di un segnale dentro la cellula, anche se l’ormone è rimasto fuori. L’adenilato nei tessuti
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umani esiste in almeno 9 isoforme con una elevata omologia. Le differenze permettono una
risposta allo stesso ormone modulata al tipo di tessuto. C’è qualcosa di invariante anche
nell’adelinato ciclasi e sono le zone deputate all’azione enzimatica, che è quella di sintetizzare
cAMP utilizzando come substrato l’ATP. Queste regioni hanno un consenso altissimo (identità del
93% circa). L’adenalito presenta alpha eliche che passano attraverso la membrana ma ha il core
catalitico, rivolto verso il citosol, che non varia (come detto prima trasforma ATP in cAMP).
SPECIE-SPECIFITA’
Consideriamo per es. insulina. La sua sequenza è conservata anche tra specie differenti. Le
sostituzioni inoltre che sono avvenute con l’evoluzione non hanno modificato l’attività della
proteina. Essa è una proteina in cui il ripiegamento (assunzione fold tridimensionale funzionale)
dipende dalla presenza di 6 residui di cisteina che si organizzano nella formazione di 3 ponti
disolfuro. In questo contesto dunque le cisteine sono invarianti, essenziali per il fold
dell’insulina, insieme a quei residui che definiscono la superficie di impatto col recettore
cellulare dell’insulina. L’insulina ha 51 residui e solo 5 sono gli aa coinvolti nelle sostituizioni,
che NON modificano l’attività della proteina. Siamo molto vicini dunque in termini di insulina a un
bovino o a un suino tanto che le loro insuline, in particolare quella suina, sono state utilizzate in
passato per il trattamento del diabete mellito. Alcuni pazienti però sviluppavano una risposta
immunitaria a queste proteine→ sono sostituzioni importanti, bastano pochi residui per scatenare
una riposta allergica. Oggi si usano insuline ricombinanti, cioè create da un organismo diverso in
vitro. Le purifico e posso usarle senza problemi di risposta immunitaria.
La cheratina è stata spiegata nelle lezioni precedenti perché era un esempio di proteina fibrosa in
cui 2 alpha elica si avvolgevano una sull’altra in maniera sinistrosa generando un dominio coiled
coil. La sequenza amminoacidica aveva dei punti appiccicosi che consentivano alle due aplha
eliche di rimanere unite. Si forma prima un dimero, che si uniscono in protofilamenti, protofibrille,
microfibrille dando origine a queste lunghe fibrille di alpha cheratina.
Le proteine globulari sono formate da una struttura compattata. Nelle fibrose invece le catene sono
disposte secondo un asse di lunghezza. Le globulari sono solubili in acqua mentre le fibrose non
sono solubili in acqua. Le globulari hanno più tipi di struttura secondaria e una terziaria, mentre le
fibrose presentano in genere un solo tipo di secondaria (tipo la cheratina, per collageno e elastina
non posso parlare di una vera e propria struttura secondaria). Le globulari inoltre hanno una
funzione dinamica→ sono importanti nella catalisi enzimatica, nelle reazioni immunitaria, possono
essere ormoni, proteine di trasporto (vedi emoglobina), proteine di deposito come la mioglobina.
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COLLAGENO
Quando si parla di collageno si dice fibre di collageno. La fibrilla di collageno ha uno spessore
elevato (50 nm) ma è essa stessa l’insieme di tante molecole di collageno, tutte affiancate in modo
parallelo una di fianco all’altra con uno spessore di 1.5 nm. In 1.5 nm di spessore sono contenute
3 unità. Si dice che il collageno ha una struttura a tripla elica. Non ho alpha eliche però (è una
situazione diversa dalla cheratina) → ho tre catene polipeptidiche che tendono ad avvolgersi una
sull’altra. È una situazione coiled coil ma non ha struttura di tipo secondaria. È una proteina
fondamentale per noi perché costituisce 1/3 di tutte le proteine corporee. Le sue fibre che sono
insolubili, resistenti alla trazione, costituiscono la parte fibrosa dei connettivi (lo trovo nella pelle,
nei denti, nei tendini, nei legamenti, nella cartilagine, nell’osso, nella cornea, nel cristallo, nella
parete dei vasi sanguigni). La molecola di collagene consiste di tre catene polipeptidiche avvolte
una sull’altra per formare la tripla elica del collagene. Le singole catene polipeptidiche tendono ad
avvolgersi in un’elica sinistrorsa e tre di queste si organizzano l’una sull’altra per formare una
struttura superelicoidale di tipo destrorso. Si chiama struttura superelicoidale destrosa.
Sono delle famiglie di glicoproteine extracellulare. Molto spesso le proteine glicosilate sono
extracellulari. Il collagene è caratterizzato da due amminoacidi molto importanti che sono
amminoacidi modificati: idrossiprolina, idrossilisina. Sono due amminoacidi molto importanti,
soprattutto l’idrossilisina, perché sono un sito di legame per una componente di carboidrato. I
carboidrati che si legano all’ossigeno dei due aa sono: glucosio, galattosio, glucosilgalattosio. Le
proprietà dei singoli tessuti connettivi sono differenti: per es. saranno caratterizzati da flessibilità a
livello della pelle, da rigidità se parlo di osso, da elasticità se parlo delle arterie e da forza se parlo
di tendini. Questa proteina è secreta da fibroblasti del tessuto connettivo ma anche da cellule
muscolari lisce, epiteliali, endoteliali.
Sono stati indentificati tanti tipi di collagene, ognuno con una particolare collocazione. Ho vari tipi
di miscele di collagene per generare proprietà tipiche di tessuti specifici. Alcuni collageni danno
fibre, altri strutture reticolari, altri saranno di supporto alle fibre. Il collagene di tipo I forma la fibrilla
ed è presente in quasi tutti i connettivi, altri sono più specializzati come il II che sta nella cartilagine
e umor vitreo e il III, che si trova nei tessuti caratterizzati da una maggiore estensibilità (quelli della
pelle e dei polmoni).
Nel collagene di tipo I sono presenti catene di collagene che vengono identificate come α1α2 ma è
una tripla elica. Potrò avere dunque o una composizione di tre catene peptidiche di tipo α1 oppure
due catene di tipo α1 e una di tipo α2. Anche qui ho combinazioni differenti di due catene.
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose
Associato al collagene di tipo I esistono anche delle patologie→ le collagenopatie. Tra quelle che
citiamo compaiono l’osteogenesi imperfetta e la sindrome Ehlers-Danlos. Ho anche collagenopatie
associate ad altri tipi di collagene.
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
COLLAGENO
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
riuscire a realizzare questa idrossilazione servono ossigeno, perchè la cellula deve andare a
incorporare ossigeno nella prolina, α-chetoglutarato e prolinidrossilasi, l’enzima che catalizza la
reazione. L’ossigeno viene incorporato sotto forma di gruppo -OH e l’α-chetoglutarato è
trasformato in altri sottoprodotti. Da notare il fatto che la richiesta di questa catalisi enzimatica è
dovuta alla presenza di ascorbato, la vitamina C. Quindi solo in presenza di vitamina C è possibile
la catalisi della prolinidrossilasi e quindi la formazione di idrossiprolina con il corretto assemblaggio
della tripla elica del collagene.
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
è quelo a bande: queste fibre di collageno alternano zone chiare a zone scure. Le zone scure sono
quelle in cui si ha la completa sovrapposizione di tutte le molecole in sezione della fibra. Le zone
chiare sono dovute a questo piccolo sfalsamento nell’allineamento, si creano perciò come dei
buchi, delle regioni dove manca la molecola del tropocollagene.
I legami crociati sono i responsabili della formazione delle fibrille di tropocollageno, insieme alla
partecipazione degli amminoacidi in posizione X e Y, e determinano la resistenza alla trazione che
offre la molecola del collageno, siccome sono coinvolte soprattutto le lisine e le idrossilisine, che
impediscono lo spostamento delle fibre le une sulle altre. Tuttavia, con il tempo questi legami
crociati si rinsaldano, la densità dei legami aumenta e le fibre del collageno tendono a diventare
più rigide, quindi più fragili.
L’orientamento delle fibre di collagene dipende dai tipi di tessuti in cui il collagene è localizzato: è
più casuale, distribuito in tutte le direzioni, nell’osso e nella pelle, più a foglietto nei vasi e in
maniera più regolare, parallela e ordinata nei tendini.
COLLAGENOPATIE
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
una mutazione non così grave. È una malattia che porta una grave disabilità, nel senso che
comporta una notevole fragilità ossea, è anche associata a perdita dell’udito e colorazione blu
delle sclere. È una malattia genetica con trasmissione autosomica dominante con spiccata
tendenza alle fratture.
ELASTINA
L’elastina è una proteina fibrosa a struttura allungabile che appartiene al tessuto connettivo.
Viene spesso accompagnato dal collagene ed è responsabile dell’elasticità bidimensionale di
organi e tessuti.
Le fibre elastiche, presenti nel derma, nei polmoni, nelle pareti delle arterie, nei legamenti e in tutte
quelle strutture che possono estendersi e ritrarsi al cessare dello stimolo meccanico.
È insolubile e extracellulare, di dimensione notevole, circa 700 aa (l’insulina ha 50 aa), e gli
amminoacidi che la compongono spesso sono apolari e piccoli, perciò sono molto frequenti
alanina, valina e prolina, mentre sono praticamente assenti idrossiprolina e idrossilisina.
In ambiente extracellulare anche l’elastina è in grado di formare legami crociati: viene sintetizzata
all’interno della cellula, viene secreta e forma molti legami crociati che congiungono varie catene
polipeptidiche e sono proprio tutte queste catene congiunte tra di loro dai legami crociati che
formano un reticolo elastico che può estendersi e che poi ritornerà nelle condizioni di riposo al
cessare della forza di trazione, recupera la sua struttura originaria.
L’elastina ha un turnover molto lento: tutte le proteine sono soggette a un turnover, ovvero
vengono continuamente prodotte e degradate secondo una tempistica ben precisa. Non vi sono
proteine di deposito e non vi è un tessuto proteico in cui sono depositate sotto forma di riserva le
proteine; esse sono tutte attive e funzionali, quindi devono essere continuamente prodotte e
degradate a seconda di ciò che serve.
L’elastina è molto più presente in una pelle giovane e il suo nemico principale è l’invecchiamento,
oltre ai raggi UV, e nelle condizioni dell’invecchiamento, l’elastina viene sintetizzata molto meno,
cioè col tempo cala la capacità di produrre elastina e, anzi, vengono attivati, in seguito a stimoli
anche esterni, degli enzimi che accelerano la sua degradazione.
Inoltre, nel derma l’elastina è anche associata al collageno, ovvero ci sono delle fibre di elastina
connesse con fibre di collageno e il collageno, vista la sua resistenza alla trazione, limita un po’ le
capacità di estensione nel derma che ha l’elastina e, quindi, pone un limite nel tirare la pelle.
Perciò anche l’elastina che viene secreta all’esterno delle cellule del connettivo, si deve
organizzare. Ad aiutarla nella sua organizzazione in fibre elastiche partecipa una struttura di
microfibrille di tipo tubulare: queste microfibrille, anche loro proteiche, creano all’interno una cavità
dove andrà a sistemarsi la proteina elastina, già tutta organizzata e interconnessa con legami
crociati. Le microfibirille tubulari sono formate da una glicoproteina molto importante, chiamata
fibrillina, una proteina extracellulare che partecipa all’organizzazione delle fibre elastiche. La fibra
elastica è data da questa struttura esterna di microfibrille di fibrillina che trattiene un nucleo di
elastina. La fibrillina è una proteina importante, perché esistono delle mutazioni a carico del gene
che codifica per la fibrillina:
- Sindrome di Marfan: le fibrilline non si organizzano, perciò non si organizzano neanche le
fibre elastiche, quindi la matrice extracellulare non è ben corretta e organizzata. Il sintomo più
rilevante è l’eccessiva lunghezza delle estremità (braccia, dita). Ma, oltre ad aspetti muscolo-
scheletrici e oculari, c’è il rischio di una complessità anche a livello cardiovascolare.
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
PROCESSI POST-TRADUZIONALI
Ogni proteina, dopo la traduzione, deve necessariamente assumere la sua conformazione nativa,
quindi passare dall’informazione sequenziale della proteina alla struttura terziaria se non
quaternaria della proteina.
Per alcune proteine, però, non basta questo e, per raggiungere lo stato biologicamente attivo,
devono subire delle modifiche a carico di specifici amminoacidi. Quindi, solo a seguito di questo,
raggiungeranno il folding corretto, magari assumeranno una capacità regolatrice, enzimatica o
verranno dirette verso particolari distretti inta o extracellulari o incrementeranno la loro capacità di
binding, cioè di trovare un partner di legame che gli consente di esprimere una determinata
funzione, oppure, addirittura, esistono modifiche post-traduzionali che fanno sì che una proteina
sia destinata alla degradazione, cioè contiene un messaggio nella modifica che dice alla cellula di
eliminare la proteina stessa.
Modifiche post-traduzionali
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Controllore: Niccolò Di Scioscio
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
Acetilazione e metilazione a livello istonico diventano quindi importantissime per definire il codice
istonico: esprimo/non esprimo i geni.
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Lezione n°04 del 17.04.2018
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
La o-glicosilazione presa in considerazione utilizza una serina, il cui -oh della catena laterale lega
con l’n-acetilgalattosammina (riconsco che è un galattosio dell’-h rivolto verso l’alto), che è la
componente zuccherina
La n-glicosilazione presa in considerazione utilizza un’asparagina, il cui –nh della catena laterale
lega la n-acetilglucosammina
Tra le glicoproteine ci sono: anticorpi, la fibrillina che compone le fibre elastiche, il collagene, le
sue glicosilazioni soprattutto di glucosio e galattosio sulla idrossilisina, proteine di membrana con
funzione recettoriale
L’acilazione consiste nell’aggiunta di un gruppo acile: un gruppo acido-grasso della famiglia che
va verso i grassi e i lipidi. Il braccio idrocarburico apolare consente l’ancoraggio alla membrana
della proteina: la componente lipidica riesce a inserirsi nella membrana ed entrare in interazione
idrofobica con le catene apolari degli acidi grassi e dei fosfolipidi di membrana.
Esempi sono il gruppo palmitoile (a 16 atomi di carbonio) e il gruppo miristoile (a 14 atomi di
carbonio).
Il taglio proteolitico è una modifica post-traduzionale diversa rispetto a quelle analizzate fin’ora,
che erano aggiunte di qualche elemento, anche rimuovibili in alcuni casi. Esso è invece una
modifica irreversibile, in quanto consiste nel taglio di una porzione di una sequenza
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Controllore: Niccolò Di Scioscio
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali
amminoacidica da parte di una proteasi o endopeptidasi. Pertanto, deve essere regolato, così che
non ci sia il rischio di effettuare una modifica irreversibile laddove non debba essere apportata.
Il taglio proteolitico consiste nell’eliminazione di un segmento di un precursore di una proteina che
diventa attiva solo a seguito di questa modifica.
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Lezione n°04 del 17.04.2018
Sbobinatore: Giulia Zheng, Gian Marco Marani
Controllore: Niccolò Di Scioscio
Materia: Biochimica
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La traduzione avviene per tutte le proteine a livello dei ribosomi, siano essi liberi nel citoplasma o
adesi alle membrane del RE, determinandone la rugosità. I vari polipeptidi hanno però diverse
destinazioni, devono essere indirizzati ai vari organi cellulari; è pertanto necessario un loro
differenziamento, un loro smistamento.
Quando la proteina è diretta verso il
RE, il ribosoma è attaccato ad esso,
provocandone la rugosità. A livello del
reticolo avvengono poi le varie
modifiche post-traduzionali, seguite
dalla gemmazione di vescicole che
migrano verso il Golgi, da cui le proteine
possono prendere due vie:l’esocitosi,
che porta sia alla secrezione del
contenuto proteico delle vescicole del
Golgi all’esterno della cellula, sia
all’esposizione di particolari proteine sulla membrana cellulare o nucleare, oppure andare nei
lisosomi.
Sono i primi 15-30 aminoacidi n-terminali che indirizzano la proteina. Veranno poi tagliati
appena essa reggiunge la propria destinazione. Differente è invece la localizzazione nucleare:
essa è infatti composta di 6-20 aminoacidi, generalmente all’n-terminale, che non verranno
rimossi. Questi sono carichi positivamente, così da facilitare il riconoscimento della proteina da
parte del complesso del poro. C’è anche un segnale di esportazione dal nucleo, che è molto più
idrofobico.
Le proteine che sono espresse dentro al citosol invece non hanno nessun segnale di
indirizzamento.
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processato, liberando con un evento di proteolisi un particolare prodotto proteico nello spazio
intermembrana.
Per le proteine dirette alla membrana mitocondriale interna o alla matrice, devo essere utilizzati
entrambi i trasportatori, detti anche trasloconi. Queste proteine presentano delle sequenze di
localizzazione particolari, che spesso sono miscele di aminoacidi idrofobici (metionina, leucina,
isoleucina, fenilalanina…) alternati a dei residui carichi positivamente (arginina,lisina…), così da
permettere la formazione di un elemento di struttura secondario:un’alfa elica anfipatica, che
presenta una faccia polare e idrofila ed una faccia apolare i idrofobica. L’elica è posta
superficialmente, con la parte dei residui positivi esposta verso
l’ambiente acquoso, e viene utilizzata per il passaggio all’interno
del mitocondrio.
Il trasporto delle proteine avviene prima che queste siano
completamente foldate, poiché per attraversare i trasloconi Tom
e Tim devono essere in struttura un po’ svolta. Per mantenere
una struttura abbastanza lassa entra in gioco lo chaperon
molecolare hps70, che è in interazione con la proteina in
ingresso nel mitocondrio. Normalmente gli chaperoni sono
proteine che assistono il folding, quindi contribuiscono alla
formazione della struttura terziaria, ma in questo caso
intervengono per mantenere una struttura meno compatta, che
aiuta il passaggio attraverso i traslo coni.
Quando una proteina attraversa il complesso Tim, si associa ad altri chaperon, che però sono di
natura mitocondriale e non citosolica come quello precedente. Si innesca così una peptidasi che
taglia il segnale di indirizzo e la proteina si folda nella sua struttura nativa. Questo processo
richiede una spesa energetica: ATP idrolizzato ad ADP+P.
Secrezione
I ribosomi si attaccano alla faccia esterna, citosolica del RE, conferendo l’aspetto rugoso. Le
proteine vengono incanalate dentro al reticolo, ma poi si muoveranno grazie a delle vescicole che
gemmano da esso e si dirigono verso il Golgi, dove si creano altre vescicole di passaggio da una
cisterna all’altra, finchè il lato Trans emette quelle destinate poi a fondersi con la membrana
cellulare e liberare per esocitosi un particolare contenuto proteico destinato all’extracellulare.
Spesso sono proteine glicosilate: la glicosilazione, infatti, spesso coinvolge polipeptidi o di
membrana o destinati alla
secrezione.
Come avviene lo smistamento a
livello del RE?
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individua il proprio recettore sulle membrane del RE e si relaziona con esso, ancorando alla
superficie del reticolo il ribosoma. Anch’esso si associa ad una sua regione recettoriale, quindi si
apre un canale in cui può continuare la traduzione.
La SRP si stacca dal complesso ribosoma-RNA messaggero e il polipeptide nascente viene spinto
dentro al RE. Verrà poi completamente tradotto e inviato dentro al reticolo, dove una peptidasi
taglierà il segnale tradotto all’inizio, che serviva per l’attacco con SRP e per fare quindi attaccare il
ribosoma alle pareti del RE.
In seguito nel reticolo la protiena deve foldarsi e subire le modifiche conformazionali (le
glicosilazioni, le ossidrilazioni, i ponti disolfuro…), prima di passare al Golgi.
Non esiste soltanto il segnale di indirizzamento verso il RE, ma possiamo trovare anche un
segnale di ritorno verso il RE: ci sono proteine che sono nate nel reticolo endoplasmatico, passano
al Golgi, ma poi devono ritornare nel RE: anch’esso infatti ha proteine funzionali al suo interno.
Queste proteine sono caratterizzate da una sequenza al carbossi-terminale, detta sequenza
KDEL (poiché costituita da:lisinia-k-, aspartato-d-, glutammato-e- e leucina-l-).
Le proteine arrivate al RE, quindi, vengono trasportate in vescicole che si fondono con le cisterne
della parte Cis del Golgi, quella rivolta verso il reticolo. Da questa i prodotti proteici si muovono
attraverso le cisterne, subendo ulteriori modifiche (ad esempio la o-glicosilazione), tramite altre
vescicole, così da arrivare alla parte Trans del Golgi: quella rivolta verso la membrana cellulare.
Da qui le proteine prendono direzioni differenti, infatti possono: tornare al reticolo, andare nei
lisosomi, essere esposte sulla membrana cellulare oppure essere secrete.
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Quella controllata, definita regolata, consiste in vescicole che vengono secrete solo a seguito di
uno specifico stimolo: un recettore esposto sulla cellula capta il proprio ligando e, senza farlo
entrare all’interno, converte questa
interazione in un segnale dentro la
cellula. Questo processo è detto
trasduzione del segnale. L’insulina, ad
esempio, non viene prodotta
continuamente: le cellule beta del
pancreas la secernono solo dopo che si è
riscontrato un innalzamento della
glicemia.
Le proteine destinate ai lisosomi, organi cellulari che presentano al loro interno un set di
enzimi idrolitici degradativi, necessitano di una sequenza segnale che li guidi al RE e,
successivamente, al Golgi, dove devono acquisire una marcatura che le distingua dagli altri
polipeptidi con diverso indirizzamento.Questa consiste nel legare il mannosio-6-fosfato
all’asparagina. Questo comporta il differenziamento del loro percorso attraverso il Golgi, in quanto
questa modifica fa sì che queste proteine vengano inglobate in vescicole che presentano dei
recettori che legano le proteine con mannosio-6-fosfato. Il recettore rimane inserito in queste
vescicole, che si fondono con altre a formare vescicole di dimensioni maggiori, dove l’ambiente
acido è diverso, cosa che causa la rottura del legame proteina-recettore. A questo punto la
marcatura di mannosio-6-fosfato viene rimossa e le vescicole vanno a fondersi con la membrana
del lisosoma, riversandoci all’interno gli enzimi idrolitici.
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Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
FOLDING PROTEICO
Paragrafo Introduttivo: come le proteine acquisiscono la loro struttura terziaria nativa. L’importanza della
struttura correlata alla funzione. Unfolding e denaturazione proteica. Esperimento di Anfinsen e ipotesi sulla
spontaneità del ripiegamento nativo, Paradosso di Levinthal, cooperatività del folding e selezione
cumulativa, elenco dei diversi modelli di folding e spiegazione del meccanismo del ripiegamento delle
proteine con il modello Energy Landscape.
La struttura di una proteina determina considerevolmente la sua funzione, dunque le sue proprietà
dipendono dalla conformazione, quindi dalla sua struttura terziaria. Il three-dimentional fold di una
proteina deriva da tanti tipi di interazioni non covalenti simultanee, sia tra le varie regioni della proteina, sia
tra la proteina e il solvente nel quale è immersa (l’ambiente).
Esempio: una proteina globulare immersa nella matrice del citosol espone verso l’esterno i residui polari,
mentre nasconde verso l’interno i suoi residui idrofobici. Una proteina di membrana invece deve invece
stabilizzare la sua posizione nel doppio strato fosfolipidico anche utilizzando delle porzioni idrofobiche.
Tuttavia, la struttura nativa, molto importante per quanto riguarda la funzione della proteina stessa, è
relativamente stabile nelle condizioni fisiologiche (le proteine non sono delle entità estremamente stabili): la
sua stabilità è il prodotto di un delicato bilancio di tantissime interazioni. Nonostante ciò l’equilibrio è labile.
Per il folding di una proteina idrosolubile globulare immersa in un ambiente acquoso servono due fattori
fondamentali:
• La massimizzazione della formazione di ponti ad H, sia quelli rivolti verso l’interno della proteina
(buried) e responsabili della struttura secondaria e terziaria (backbone), sia quelli che la proteina
contrae con l’acqua che la circonda – i residui più superficiali formano questo tipo di ponti a H.
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Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
Se questi sono i livelli energetici della proteina unfoldata e della proteina nativa, avremo che l’energia seguirà
un determinato percorso passando attraverso uno stato di transizione, ad energia più alta, anche se in realtà
esistono più stadi intermedi. Il ΔG della reazione è rappresentato dalla differenza tra la G-foldata e la G-
unfoldata, mentre questo valore, cioè la differenza tra l’energia massima dello stato di transizione e l’energia
della proteina non foldata, costituisce l’energia di attivazione della reazione che procede verso il folding.
L’ultima energia rappresentata è l’energia libera di attivazione della reazione che procede per l’unfolding.
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Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
Il ΔG che è in considerazione, come visibile dal grafico, è sempre negativo. L’energia libera dello stato
nativo ha una energia inferiore rispetto a quella della proteina unfoldata. Nel caso del folding proteico:
• ΔH = variazione di entalpia fra stato finale ed iniziale (NB entalpia diminuisce man mano che si
formano i ponti H, legami ionici, forze van der Waals) sarà sempre negativo, l’entalpia finale avrà
sempre un valore inferiore rispetto all’entalpia iniziale, perché man mano che si formano tutte quelle
interazioni non covalenti che sono responsabili dello strutturarsi di una proteina, l’entalpia
diminuisce. Il contenuto termico delle molecole considerate quindi diminuisce.
• T = temperatura assoluta
• ΔS = variazione di entropia (disordine del sistema) fra stato finale ed iniziale. La proteina foldata,
allo stato finale avrà uno stato di entropia molto inferiore rispetto allo stato iniziale della proteina
denaturata.
ΔGFOLDING= ΔH –TΔS <0
ΔGFOLDING DERIVA DA UN BILANCIO DI EFFETTI ENTALPICI ED ENTROPICI
Se ΔG deve essere negativo vediamo che valori devono avere ΔH e TΔS nello strutturarsi di una proteina.
ΔH < 0 in quanto quando si formano legami non-covalenti (ponti H, legami ionici, forze van der Waals) il
contributo entalpico cala. Gli effetti principali derivano dalle molteplici forze di van der Waals che si
instaurano, dalle interazioni tra i dipoli, responsabili del compattamento della proteina e quindi danno il loro
maggiore contributo al negativizzarsi della variazione di entalpia.
Per quanto riguarda il contributo del fattore TΔS bisogna considerare due aspetti, sia quello di tipo
conformazionale, che quello di tipo idrofobico, dovuto all’effetto idrofobico, cioè quell’effetto per il quale i
residui idrofobici vengono collassati verso l’interno della struttura e vengono esposti quelli di tipo idrofilico,
polari e carichi. Analizziamo ora questi due contributi opposti.
Nel grafico a lato si vede come il ΔGFOLDING viene sempre
raffigurato come un valore negativo, poiché la reazione deve
essere spontanea, esoergonica. Quali sono i contributi a
questo aspetto negativo? Sicuramente la ΔH e un tipo di TΔS,
che anch’esso dà un contributo negativo, entrambi però
fortemente controbilanciati da un altro fattore TΔS che dà
invece un contributo positivo, andando contro la spontaneità
della reazione del folding. Pensiamo a una proteina che
gradualmente si struttura, si folda: è evidente che l’entropia di
questa proteina è in calo; se l’entropia è in calo, ΔS diventa un
valore negativo, che con un meno davanti positivizza
l’espressione TΔS. Si oppone al ΔH, sempre negativo,
contrastando algebricamente il valore del ΔH.
Però vi è un altro TΔS che dà un contributo favorevole.
Questo è dovuto all’effetto idrofobico. Tuttavia, non è presa in
considerazione nella valutazione di questo fattore una
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
variabile legata alla proteina, quanto piuttosto all’ambiente in cui si trova la proteina, ovvero al solvente
acqua.
Cosa accade? Se la proteina è destrutturata, espone le sue catene idrofobiche verso l’ambiente acquoso.
Tutto ciò comporta la formazione di “buchi” nell’acqua che circondano la proteina destrutturata, poiché
l’acqua tende a respinge il contatto con queste regioni che non sono polari e si viene a costituire una rete di
ponti a H, chiamata clatrato, una specie di “gabbia” di molecole d’acqua che vuole escludere ogni tipo di
rapporto con le catene laterali idrofobiche esposte verso l’acqua. L’effetto idrofobico invece fa sì che le
componenti idrofobiche tendano a rientrare verso il core idrofobico della proteina. Il processo di
spostamento di queste catene laterali idrofobiche verso il core, libera delle molecole di acqua che prima
erano bloccate nella loro libertà di formare ponti a H dalle porzioni non polari esposte verso l’acqua. A
seguito di questo evento l’acqua si libera attorno a questi punti che prima erano occupati dai
residui idrofobici, riuscendo così a creare molti più ponti a H rispetto a quanti ne poteva formare con la
proteina destrutturata, ottenendo così un guadagno in termini di disordine, di entropia. Anche se il ΔS
idrofobico in questione diventa positivo, è quello dell’acqua che solvata, che idrata e tiene in soluzione la
proteina.
Quindi il ΔG risulta essere negativo, perché la somma del ΔH e di questo fattore -TΔS idrofobico supera
leggermente il TΔS conformazionale. C’è una piccola prevalenza di questa frazione sopra alla variazione di
entropia conformazionale e la risultante rimane un numero negativo.
Riassumendo:
- TΔSconformazionale: L’evoluzione da disordine a una conformazione (o poche) comporta ΔSconformazionale
<0. L’Entropia della proteina diminuisce nel folding, poiché la libertà conformazionale viene ridotta
sensibilmente.
- TΔSidrofobico: L’effetto idrofobico comporta ΔSidrofobico >0. L’Entropia del solvente acqua aumenta
quando le catene laterali idrofobiche vengono sottratte al rapporto con il solvente e rivolte verso
l’interno delle proteine globulari.
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UFOLDING/DENATURAZIONE PROTEINE
Esiste un unfolding di tipo fisiologico, perché anche fisiologicamente si possono creare delle situazioni che
portano all’unfolding delle proteine, ma esistono anche delle tecniche sperimentali, che sono state utilizzate
per interpretare la stabilità di una proteina e poterla così confrontare con la stabilità di un’altra proteina. Ad
esempio, oggi molte proteine sono create per via ricombinante, inserite, in seguito a purificazione, in un
organismo completamente diverso da quello che normalmente le esprime (insulina). Quando si ha la
proteina nativa e la proteina ricombinante la prima cosa che bisogna fare è assicurarsi che queste
proteine abbiano una stabilità e una struttura tridimensionale confrontabile.
Queste strutture della proteina possono essere indagate per determinare la loro stabilità utilizzando vari tipi
di approcci. Il processo che viene ad essere seguito all’equilibrio è chiamato denaturazione. Non vengono
compromessi i legami peptidici, ma solo i legami non covalenti, relativi alla struttura terziaria. La struttura
primaria non viene modificata. I seguenti modi di denaturazione non intaccano i legami peptidici:
• Variazioni di pH sono molto importanti perché il pH dell’ambiente nella quale la proteina è immersa
incide sullo stato di ionizzazione delle catene laterali dei residui amminoacidici che, appunto,
possono essere ionizzati (es. GLU, ASP, LYS, ARG, HIS). Ecco perché le variazioni di pH, potendo
incidere sullo stato di ionizzazione, possono intervenire anche nella rottura di legami ionici o ponti
salini e la proteina perde la sua corretta configurazione. Anche nel caso degli enzimi, il pH di una
reazione enzimatica è importantissimo, perché alla base di tutto vi è la struttura terziaria di una
proteina, ovvero l’enzima in questo caso. Se questo non si trova nelle condizioni ideali di pH
perderà la sua struttura terziaria e di conseguenza la sua funzione.
• Sostanze chimiche riducenti che, talvolta, sono utilizzate per rompere i ponti disolfuro. Per
denaturare completamente una proteina bisogna rompere almeno un tipo di legame covante. Una di
queste particolari sostanze è il β-mercaptoetanolo che rompe i ponti disolfuro e li riconverte nei
residui di cisteina, con il gruppo -SH tiolico libero.
• Denaturanti chimici come urea e cloruro di guanidinio. Sono due molecole che si somigliano tra
loro e hanno la presenza di atomi molto elettronegativi e H che formano ponti a H. Quindi la
capacità denaturante, ad esempio dell’urea, è dovuta al fatto che riesca ad interagire, anche se in
modo transiente, con la proteina formando legami deboli, destabilizzandola. Queste sostanze si
chiamano caotropici (generano disordine), in opposizione ai cosmotropi (generano ordine), perché
vanno a sostituirsi alle molecole d’acqua e riescono a creare legami a H con i residui amminoacidici
che compongono la proteina. Quest’ultima, perde i contatti sia interni sia esterni con l’acqua, proprio
perché privilegia l’interazione con l’urea o il cloruro di guanidinio e gradualmente la struttura si
svolge.
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ESPERIMENTO DI ANFINSEN
Premio Nobel per la chimica nel 1972 per il suo lavoro sulla Ribonucleasi bovina, a riguardo della
connessione tra sequenza amminoacidica e conformazione biologicamente attiva.
Ai tempi, non si conosceva la struttura della proteina, bensì si sapeva solo che essa aveva 8 residui di
cisteina che presumibilmente formavano 4 ponti disolfuro, i quali stabilizzavano la struttura terziaria della
proteina conferendole la sua capacità ribonucleasica.
Anfinsen vuole capire perché e come le proteine si ripiegano. Egli prova quindi a denaturare la proteina
utilizzando il β-mercaptoetanolo che riduce i ponti disolfuro rigenerando le cisteine; mentre, il β-
mercaptoetanolo compie la reazione opposta: si ossida e forma un ponte disolfuro tra due β-
mercaptoetanolo.
Con l’urea, invece, distrugge le interazioni non covalenti che stabilizzano la struttura secondaria e terziaria,
eliminando le forze di Van der Waals responsabili della coesione delle singole parti della proteina.
Alla fine, le concentrazioni sono: 8 M di urea e β-mercaptoetanolo. Esse consentono di ottenere la
struttura completamente randomica. I ponti disolfuro sono rotti, le cisteine sono tutte ridotte e manca
completamente la struttura. Anfinsen non può vedere la struttura, dunque utilizza dell’RNA e nota che la
ribonucleasi non lo frammenta, quindi deduce che essa abbia perso la sua funzione e di conseguenza
anche la sua struttura.
Allora inizia a rimuovere gli elementi che aveva aggiunto, urea e β-mercaptoetanolo, attraverso la
dialisi. Mette la soluzione che contiene urea e β-mercaptoetanolo in un tubo soggetto a dialisi, ovvero
immerso in una soluzione uguale a quella in cui c’è la ribonucleasi, ma senza urea e senza β-
mercaptoetanolo. A causa del gradiente di concentrazione urea e β-mercaptoetanolo escono dal tubo
che contiene la proteina, che perciò dovrebbe tornare alle condizioni native.
In più la espone all’ossigeno perché si devono riformare i ponti disolfuro, ossidandoli di nuovo e
ovviamente a pH nativo. La proteina si ristruttura completamente; la proteina attiva è attiva al 100% e
fisicamente indistinguibile dalla sua forma nativa iniziale. Evidentemente, siccome ha recuperato tutta
la sua attività, è auspicabile che abbia riassunto anche la sua conformazione nativa.
La probabilità di riformare quattro punti disolfuro, quindi di unire otto cisteine facendo 4 match corretti è
veramente bassissima (< 1%). Quindi evidentemente in questa RNAsi che deve rifoldarsi i punti non si
formano in modo casuale, perché se così fosse solamente circa l’1% della proteina sarebbe cataliticamente
attiva, cioè degraderebbe l’RNA.
Invece Anfinsen trova che il recupero di attività è di 100%, vuole dire che non c’è stato un recupero casuale
della struttura.
Il lavoro di Anfinsen dimostra che le proteine si ripiegano spontaneamente in condizioni
fisiologiche e dunque la struttura primaria è in grado di dettare le condizioni chimiche e strutturali
per guidare il folding verso lo stato nativo. Quindi la sequenza specifica assolutamente la struttura
e da questa dipende la funzione della proteina.
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
Dogma di Anfinsen: “In condizioni fisiologiche, le proteine possono ripiegarsi spontaneamente nella
loro conformazione nativa che corrisponde ad un unico minimo di energia libera, stabile e
cineticamente accessibile. Ciò implica che la struttura primaria di una proteina, costituita da una
specifica sequenza di amminoacidi, determina univocamente la sua struttura tridimensionale”.
Quindi la primaria decide la terziaria, e la terziaria è responsabile della funzione proteica.
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Tuttavia:
• Non tutte le proteine possono riacquisire spontaneamente la loro struttura nativa, possono generare
aggregati, formando delle sostanze che possono avere citotossicità per i tessuti.
• All’interno della cellula il processo di folding è coadiuvato da chaperones molecolari in primo luogo,
che favoriscono l’instaurarsi d’interazioni native le quali sono responsabili della tridimensionalità
della proteina.
• Altre proteine raggiungono la loro struttura funzionale solo a seguito del legame con specifici
partner proteici. Altre, per raggiungere il folding nativo, hanno bisogno di modifiche post-traduzionali
(anche questo fa parte del folding, come aggiunta di un fosfato, acetilazione, … perché incide sul
raggiungimento del folding della proteina).
PARADOSSO DI LEVINTHAL
• Per ogni residuo amminoacidico avrò 2 angoli Φ e Ψ (2 gradi di libertà sui quali posso girare). Se
una proteina ha n residui, avremo 2n angoli di torsione → numero notevole.
• Se per ogni angolo di torsione ci fossero 3 possibili conformazioni (già un’ipotesi riduttiva), avremo
32n → circa 10n conformazioni possibili per la proteina.
• Se la proteina ha 100 residui, potremo ipotizzare 10100 conformazioni possibili. Come fa la proteina
a discriminare tra queste 10100 conformazioni possibili? Un dato temporale è questo: una proteina
può esplorare e raggiungere una conformazione ogni 10 -13 secondi (molto piccolo, mi da una idea di
come si riorienti il singolo legame).
• Il tempo per esplorarle tutte e trovare la giusta diventa 10n x 10-13 sec, che diventa 1087 secondi per
catena di 100 residui, quindi impossibile → le proteine non si ripiegano saggiando casualmente
tutte le possibili conformazioni che mi consentono una determinata catena polipeptidica.
Evidentemente le proteine devono trovare la loro conformazione nativa in tempi dell’ordine del secondo se
non del millisecondo. Quindi deve esistere un preciso percorso di ripiegamento che la proteina deve
trovare da sola. Quindi no al caso, sì al fatto che la proteina trovi gli elementi di strutturazione secondaria e
terziaria che caratterizzano la sua terziaria.
L’evoluzione è anche questo: le proteine hanno cercato vie di ripiegamento efficienti per raggiungere le loro
conformazioni native e funzionali in tempi brevi.
“Le proteine si sono evolute in modo da possedere vie di ripiegamento efficienti per raggiungere
conformazioni native stabili.” Di più devono fare questo processo in modo irreversibile. Nel momento in cui
formano una struttura terziaria non la perdi.
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Di fatto, molte proteine si ripiegano nella loro conformazione nativa in pochi secondi, dunque deve esistere
un percorso di ripiegamento, non una scelta casuale.
Durante l’avvolgimento, la stabilità della struttura aumenta e l’energia libera diminuisce rendendo il
processo irreversibile.
IL FOLDING È COOPERATIVO
Il folding ha anche un’altra importante caratteristica, che ci aiuta a distruggere l’ipotesi di Anfinsen: il folding
è cooperativo. Questo concetto di cooperatività è importante: vuole dire che nel tutto c’è una parte che
collabora con un’altra, aiutando un’altra parte e così via… Questo crea una sorte di “percorso facilitato”.
Quando le proteine sono messe a contatto con un agente denaturante, i grafici che si ottengono sono fatti
così: c’è una percentuale di proteina unfoldata espressa in funzione della concentrazione di un
denaturante. Per lo più, si individuano generalmente due stadi: uno (A) con lo 0% di proteina unfoldata e il
secondo (B) con il 100% di proteina unfoldata.
C’è una zona ripida, tra questi due stadi (C), che è la zona di transizione. Quindi in molti casi si passa da
tutto ok a tutto male (proteina foldata → completamente unfoldata). Si dice che è un processo del tipo
“tutto o niente”: se una regione della proteina è destabilizzata termodinamicamente, le interazioni con il
resto della proteina sono compromesse (se destabilizzo un punto della struttura, è facile che a cascata
andrò a destabilizzare altre porzioni della struttura).
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Lezione n°05 del 20.04.2018
Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
Tuttavia, dovremo pensare che la proteina esiste in stato foldato o in stato unfoldato, e il punto di mezzo
della transizione, quella che corrisponde al 50% di proteina distrutta dovrebbe corrispondere ad una
situazione di questo tipo: ho lo stesso numero di molecole foldate e lo stesso numero di molecole
randomiche/unfoldate. Questa approssimazione non ci sta al livello molecolare. Le proteine non sono degli
interruttori che si spostano da on a off. Si deve necessariamente ipotizzare l’esistenza di intermedi che
saranno ovviamente instabili con gradi di instabilità diversi (si formano e puoi si distruggono).
Oggi lo studio di questi intermedi è molto importante nel settore di ricerca perché ci aiuta a capire come le
strutture vengono stabilizzate in maniera nativa e quali sono i punti particolarmente critici per il folding e in
secondo luogo ma sempre valido per la funzione di ogni proteina.
Si deve ipotizzare l’esistenza di intermedi che saranno instabili a diversi stadi, tra stati foldato e unfoldato.
Ci aiuta a capire come le strutture vengono stabilizzate ed i momenti critici.
SELEZIONE CUMULATIVA
Ipotesi fatta da uno studioso che aveva affermato: vediamo che valore ha questa selezione cumulativa,
cioè parte da una frase di Shakespeare dell’Amleto e dice quanti click casuali sui tasti di una tastiera devo
fare per scrivere una frase non solo di senso compiuto, ma che siano anche delle parole di Shakespeare?
Ovviamente è un numero impossibile anche in questo caso. Ma questo numero così immenso si riduce se
conserviamo le battiture che sono corrette. Se io inizio a salvare di tentativo in tentativo le lettere che ho
indovinato, questo numero si riduce. Ho una vera e propria selezione cumulativa. Nel campo delle proteine,
per analogia, se queste che stanno eseguendo il loro ripiegamento riuscissero a conservare quello
che di giusto c’è nelle strutture intermedie, allora capiremo come possono raggiungere il folding
nativo corretto in una tempistica molto rapida, dell’ordine del secondo.
Quindi le proteine nella loro via di ripiegamento e di folding possono conservare le cose giuste che
riescono a fare da sole (per esempio i match giusti dei punti dei ponti disolfuro, per formare le alfa eliche,
per formare pezzetti di strutture beta, ecc…). L’essenza del folding è proprio questa: consiste nella
tendenza a conservare gli intermedi parzialmente strutturati che non sono la forma finale corretta, ma che
aiutano e generano quella struttura gerarchica che faciliterà un’altra struttura, che sarà ancora meglio di
quella prima, fino ad arrivare a quella finale.
Ovviamente la finale deve avere il minimo dell’energia libera, e non è facile. Il ΔG FOLDING tra stato
disordinato e foldato può essere approssimato a circa -10 kcal/mol.
Per 100 residui diventa 0,1 kcal/mol. È più basso rispetto all’energia termica che avremo a temperatura
ambiente. Per questo bisogna trovare il punto minimo di questa energia libera pur sapendo che non si
assiste ad un grande cambiamento tra lo stato unfoldato e lo stato foldato.
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Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
Questo minimo grado di stabilizzazione suggerisce che gli intermedi corretti devono essere
gradualmente persi per dare spazio ad altri che sono più corretti. Le interazioni corrette del folding possono
stabilizzare gli intermedi che via via si formano nel ripiegamento delle proteine. Le regioni che hanno una
preferenza strutturale per esempio per un’alfa-elica le adotteranno gradualmente, riusciranno a formarle,
interagiranno tra di loro e determineranno dei particolari intermedi di folding, secondo il modello di
nucleazione/condensazione che andiamo a vedere.
MODELLI DI FOLDING
Esistono pathways preferiti, ma ad ognuno degli intermedi corrisponde un insieme di strutture simili –
generando un pathway generale e non specifico.
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Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
Ci sono 3 teorie:
• Framework, che parte dalla formazione di elementi di struttura secondaria. Secondo questo
modello, negli stadi iniziali del folding si formano i primi elementi di struttura secondaria stabili che
poi si “impacchettano” in uno stadio più lento generando la struttura terziaria. Questo è un modello
però non maggiormente accreditato.
• Collasso idrofobico, che porta alla formazione di molten globule (globulo fuso) a causa di un
collasso della struttura su sè stessa, guidato dall’effetto idrofobico, quindi dalle interazioni
idrofobiche che attirano i residui idrofobici verso il core interno della proteina. Ci sono gli abbozzi
della struttura secondaria ma non è ancora la struttura secondaria definitiva. Questo molten globule
è soggetto a dei rapidi cambiamenti conformazionali, ma presenta ancora una conformazione
estremamente fluttuante. Non ha una conformazione 3D compatta e definitiva, ma è comunque una
struttura dalla quale alla fine emergerà la struttura terziaria finale. Nel caso delle grandi proteine
possono esistere dei sotto-domini, ovvero delle porzioni più piccole in vie di ripiegamento e
dall’unione di queste nasce la struttura terziaria finale. Sono, comunque, dei tempi dell’ordine del
millisecondo/secondo.
• Condensazione/nucleazione, basato su “unità ripieganti autonome” o nuclei di folding (unità che si
ripiegano autonomamente) che possono formarsi a prescindere dal collasso idrofobico (che
giustifica di più il molten globule) e portare alla formazione della struttura finale stabile. Il folding
presenta un’ iniziale fase lenta di nucleazione (formazione dei nuclei di folding) che indirizzerà la
proteina verso degli intermedi gerarchici di folding in numero limitato (uno indurrà l’evoluzione del
folding verso un altro intermedio di struttura e via di seguito fino a raggiungere il folding nativo
finale). È il meccanismo più frequente.
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
Una proteina la immaginiamo come un’entità che si trova ad avere un’elevatissima energia ma che deve
scendere a un minimo di energia libera. Come sceglie il suo cammino fino a raggiungere l’energia libera più
bassa? Utilizza un possibile percorso cinetico di ripiegamento, ovvero usa vari intermedi di struttura fino a
raggiungere la struttura che è termodinamicamente la più stabile. Quindi aumenta in questo processo
di generazione di intermedi di struttura la possibilità di formare interazioni native tra i residui fino a che non
si arriva allo stato foldato, al minimo di energia libera, e il massimo delle interazioni native consentite tra i
residui che danno origine alla struttura della proteina.
Dal punto di vista termodinamico il percorso di folding è visualizzabile con un grafico di energia libera a
imbuto/superfice di energia potenziale.
Questo modello (primo grafico) descrive una superficie di energia. In questa superficie, all’imboccatura del
punto più alto di questa superficie di energia corrispondono le strutture completamente randomiche le quali
sono infinite. Inizia, dunque, un percorso spontaneo verso il folding che è facilitato dal raggiungimento di
intermedi strutturali. Si osservano piccoli avvallamenti, in cui si localizza la struttura intermedia, uno degli
stati intermedi di struttura della proteina. Poichè in questo spostamento sono aumentati, procedendo da
destra verso sinistra, i contatti tra gli amminoacidi, sono aumentate le interazioni native da dietro verso
avanti e poi è dimuita l’energia libera, quindi ci spostiamo verso la direzione del folding corretto. Poi,
naturalmente, questo stato intermedio evolverà verso altri stati intermedi in maniera gerarchica spostandosi
e raggiungendo il punto finale che è quello della struttura nativa.
In realtà l’idea dell’Energy Landscape fa più riferimento a una superficie complessa a imbuto. Il processo
termodinamico del folding è visualizzabile come una superficie a imbuto nella quale il punto alto dell’imbuto
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
ha energia massima (energia libera come entropia massima) e il più basso quello con energia libera
minima è quello del fold nativo.
Procedendo negli spostamenti sulla superficie, da sinistra verso il centro o da destra verso il centro,
diminuisce la libertà conformazionale. Quindi iniziano a formarsi le interazioni native che si bloccano in
alcuni punti. Il fatto che ci sia un’imboccatura molto grande a 360° dell’imbuto sta a indicare che c’è un
numero infinito di strutture randomiche che possono avere accesso alla possibilità del folding.
Alcuni intermedi, però, si formano e i punti in cui questi si generano sono le vere e proprie depressioni, le
tasche di questo imbuto di energia. Ad ognuna di queste depressioni di punti di minimi relativi di questa
superficie corrisponde un intermedio strutturale che ha un grado di struttura che non è ancora quello
corretto ma che può guidare la struttura stessa ad assumere un altro più vicino allo stato nativo finale.
Quando una proteina assume una di queste strutture intermedie, per poter procedere verso il mimino
dell’energia libera, è necessario destrutturare l’intermedio. Per farlo bisogna vincere una piccola
barriera energetica, e quindi il sistema deve poter acquisire un minimo di energia.
Questa energia è normalmente acquisita in termini di calore, variazioni normali della temperatura del
sistema danno la possibilità a questi intermedi di fare un piccolo salto di energia per potere riprecipitare
verso il fondo, verso un intermedio differente, ma più vicino al minimo di questo imbuto di energia. Quindi la
proteina dallo stato destrutturato procede in queste tasche che riducono a un numero limitato i possibili
intermedi di struttura. Non è che questi intermedi di struttura si formano in maniera assolutamente casuale,
è la struttura stessa, la sequenza stessa della proteina che è detta la probabilità di ricadere in uno di questi
intermedi strutturali.
Solamente sul fondo al minimo dell’energia libera la proteina raggiungerà il suo stato finale foldato.
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
Il modello evidenzia l’eterogeneità del panorama energetico e spiega come sia possibile il folding da un
punto di vista termodinamico e cinetico. Le fenditure e le gole rappresentano conformazioni acquisite
temporaneamente. La struttura nativa è quella termodinamicamente più stabile tra quelle cineticamente
accessibili.
Questo grafico è un’altra visione dello stesso principio: imbuto tagliato in mezzo per vedere la complessità,
l’eterogeneità di questo panorama energetico e ci fa vedere come quante siano le vie possibili per
raggiungere il punto di minima energia libera. Ci sono dei punti che sono accessibili da varie vie. Vari sono
gli intermedi strutturali che conducono a un intermedio particolarmente stabile, dove il passo successivo è
quello che mi porta a un folding definitivo.
A destra c’è ancora un’altra versione classica che si trova sui libri.
Anche qui le molecole a più alta entropia e più alta energia libera
affondano nelle tasche e, in genere, la metà rappresenta il punto
medio di questo processo di folding, e coincide con la formazione
del molten globule. Procedendo verso il centro e il minimo
dell’imbuto, aumenta la percentuale di struttura finale della
proteina. Intermedi escono da queste tasche sfruttando quel
minimo di energia termica (oppure con l’aiuto di altre
proteine) che offre alla proteina la possibilità di superare
quel buco di energia nel quale si trova. La proteina viene
lievemente energizzata, destruttura quel punto minimo di energia
che aveva e acquista l’energia sufficiente per scendere in un
minimo relativo più basso. Seguono le fasi finali della transizione,
quando si procede verso il basso, le possibilità sono poche e alla
fine una è l’opzione con l’energia libera minore.
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Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
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Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
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Selezione cumulativa, Modelli di folding
MECCANISMO DI FOLDING
Le proteine si sono evolute in modo da possedere vie di ripiegamento efficienti per raggiungere
conformazioni native stabili.
Molte proteine, in assenza di aiuto da parte di altre proteine, potrebbero entrare in altri tipi di minimi.
Esistono dei minimi ancora più bassi di questo. Sono delle situazioni particolari in cui le proteine sono
assolutamente non native: “mis-folded proteins”, spesse volte sono aggregate e rappresentano per noi un
elemento di proteotossicità. Lo stato nativo può non essere la forma più stabile. Certe forme aggregate
tossiche di proteina hanno un valore di energia libera ancora inferiore. In altri casi la stabilizzazione
dipende anche dalla formazione dalla struttura quaternaria o dalla formazione di fibre (nel collageno o nella
cheratina per esempio).
1. Millisecondi: formazione di segmenti di struttura secondaria, tipici del molten globule. La driving
force che guida il processo di folding è il collasso idrofobico.
2. 5-1000 millisecondi: stabilizzazione della struttura secondaria (finché sono nel molten globule, non
ho la struttura terziaria definitiva), in un tempo successivo inizia la formazione di alcuni elementi di
struttura terziaria nativa.
3. ≤ secondi: stabilizzazione della struttura terziaria finale. Si formano tutte le interazioni, sia nel core
sia fuori e vengono espulse le molecole d’acqua che erano rimaste intrappolate nelle regioni interne
della struttura intermedia della proteina. Nascono tutte le interazioni di tipo covalente e si stabilizza
il fold nativo.
Nel complesso possiamo dire che il tempo varia da proteina a proteina. Ci sono le proteine ultrarapide
sull’ordine di 10-6 secondi, le rapide (10-3 secondi) che sono la maggior parte, con tempi più lunghi (100,5
fino a centinaia di secondi, in casi rari 1000 secondi).
Per ottenere le forme misfoldate che portano alla stabilizzazione di strutture aggregate (oligomeri), ci
vogliono tempi superiori. Ci sono anche le unfolded dinamics: sono i tempi secondo i quali si muove e
fluttua una struttura disordinata.
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Lezione n°05 del 20.04.2018
Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
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Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding
FOLDING E DOMINI
Quando parliamo di proteine che sono caratterizzate da un solo dominio, si dice che c’è un folding
gerarchico. C’è come un sistema che guida.
Se invece sono presenti più domini, allora il folding iniziale del dominio deve essere seguito
dall’associazione dei domini: prima è importante che si foldi il dominio, i domini esporranno i residui poi
responsabili della interazione dei singoli domini. L’associazione tra domini è più rapida.
Se ho più subunità polipeptidiche, invece queste devono prima strutturarsi e esporre i residui utili
all’associazione dunque alla formazione della struttura quaternaria. La conformazione foldata è richiesta
affinché siano esposti i siti di interazione.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
PROTEIN BREATHING
Paragrafo introduttivo:
Protein breathing, controllo di qualità del folding (supporto alla formazione e correzione dei ponti
disolfuro e chaperoni molecolari)
Il termine protein breathing (respirazione delle proteine) sta ad indicare che le strutture non sono
statiche. Il minimo di energia libera per il folding delle proteine fa pensare che esista una sola ed
unica conformazione, in realtà per le proteine nel loro stato nativo e foldato esistono vari microstati
conformazionali, una popolazione di conformeri che a temperatura ambiente hanno l’energia
sufficiente per convertirsi l’uno nell’altro e che consentono la funzione della proteina. Queste
fluttuazioni sono a carico di catene laterali aminoacidiche, di loop (zone che non presentano
elementi di struttura secondaria), di intere subunità e domini proteici. Tutto questo costituisce un
insieme di strutture che rappresenta l’effettiva struttura nativa, quella che abbiamo definito come
caratterizzata dal minimo di energia libera. Queste fluttuazioni saranno diverse nell’interno affollato
di una cellula o in una soluzione in vitro(normalmente molto più diluita). Nonostante ciò, l’entità di
queste fluttuazioni è molto critica per lo svolgimento della funzione della proteina. Si pensi alla
mioglobina: la mioglobina è caratterizzata da un fold molto simile a quello di una catena di
emoglobina, conserva il legame con l’eme ed è quindi in grado di fissare l’ossigeno.
Differentemente dall’emoglobina si trova localizzata nelle cellule muscolari. È proprio grazie a
questi microstati conformazionali e a questi lievi movimenti e fluttuazioni che l’ossigeno riesce ad
entrare in una tasca specifica di mioglobina e a farsi strada approfittando dei tunnel e degli spazi
che si formano mentre la proteina si sposta da un microstato all’altro.
Il controllo qualità del folding delle proteine è molto importante perché controllarne il folding vuol
dire controllarne la funzione. L’omeostasi delle proteine, e quindi la sua regolazione, si esprime a
diversi livelli:
• sintesi: trascrizione e traduzione;
• regolazione a livello dei processi post-traduzionali: modifiche post-traduzionali e smistamento
delle proteine nei diversi distretti cellulari;
• folding: controllo qualità;
• degradazione: si esprime in funzione della garanzia dell’omeostasi delle proteine.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
CONTROLLO DI QUALITÀ DEL FOLDING:
Le proteine presentano una determinata conformazione nel loro ambiente nativo, risultante da un
insieme di tantissime interazioni di tipo non covalente tra varie porzioni della catena polipeptidica o
fra i residui esterni della proteina globulare e l’ambiente che le circonda costituito da acqua. Nelle
loro condizioni native, in assenza di qualunque tipo di stress, le proteine sono relativamente stabili
ed hanno un ∆G di folding fra i 10 e i -20kcal/mol. Controllare, regolare e gestire questo tipo di
interazioni di tipo non covalente significa fare un supporto e una correzione al folding delle
proteine. Le proteine più piccole, da 50-100residui aminoacidici, nel loro ambiente fisiologico si
foldano in maniera autonoma. Molecole più grandi hanno bisogno invece di un aiuto nel folding.
Riconosciamo due elementi molto importanti:
1)l’enzima disolfuro isomerasi delle proteine: enzima che isomerizza e modifica senza alterare
pesantemente i ponti disolfuro(li corregge e/o sostiene la formazione di nuovi ponti);
2)gli chaperoni molecolari.
2. L’enzima PDI catalizza la formazione di ponti nativi ed entra in formato ossidato.I suoi residui
di cisteina reagiscono formando un ponte disolfuro.A questo punto la catena polipeptidica è
ancora meno foldata perché non ha formato ancora ponti disolfuro.Saranno quindi le sue
cisteine ridotte ad interagire con il ponte disolfuro della proteina disolfuro isomerasi.L’enzima
PDI si lega,nasce il ponte disolfuro fra la catena polipetidica e l’enzima e quindi l’altro o gli altri
sh che rappresentano il match corretto intervengono e sono reattivi nei confronti di questo
ponte disolfuro.Garantisce quindi la formazione del ponte disolfuro corretto nella catena
polipeptidica. La PDI entra in formato ossidato ed esce in formato ridotto. L’elemento che le c
Lleconsente di intervenire è il gruppo tiolico reattivo presente nell’enzima o presente nella
proteina non foldata come nel secondo caso.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Chaperoni molecolari
Sono elementi che intervengono nella correzione e aiuto al folding. Gli chaperoni molecolari sono
un ampio set di famiglie che assiste il folding e l’unfolding.
- Contribuiscono a mantenere l’omeostasi delle proteine con lo scopo di mantenere un proteoma
completamente bilanciato
- promuovono il folding nelle proteine mentre si stanno traducendo
- promuovono il mantenimento della conformazione nell’ambiente dove la proteina opera
- attuano la prevenzione nei confronti di un problema che contrasta l’omeostasi della
proteine,l’aggregazione.Ci sono particolari proteine che sono definite prone all’aggregazione
perché presentano una notevole tendenza a formare aggregati proteici e che rappresentano in
genere la perdita di funzione se non l’acquisizione di una funzione tossica.
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Controllore: Francesca Corghi
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Come agiscono gli chaperoni molecolari?
Dal ribosoma viene liberata la proteina che viene tradotta.La proteina tradotta può prendere due
strade:
• Proteina foldata correttamente: generalmente sono proteine piccole, facili da foldare che non
hanno difficoltà a raggiungere quel minimo dell’energia libera che caratterizza la struttura
tridimensionale della proteina
• Stato di misfolding metastabile: rappresenta uno stato critico che fa presto ad evolvere
positivamente o a degenerare. La degenerazione è la potenzialità di aggregare. Può aggregare
in maniera:
1. Amorfa: n molecole misfolded che aggregano tra di loro in maniera assolutamente
aspecifica
2. Oligomerica: aggregazione più ordinata in quanto costituita da poche proteine unfoldate
3. Fibrillare: aggregazione ultra ordinata
La deviazione dal folding nativo è quindi rappresentata dalla evoluzione verso lo stato amorfo,
misfolding, oligomerico e fibrillare. Gli chaperon non solo aiutano la proteina appena tradotta ad
assumere il suo folding finale, ma aiutano anche gli stati metastabili a convertirsi nel folding finale
nativo. Agiscono sugli aggregati oligomerici e amorfi tentando di ricondurli allo stato misfolded ,
disaggregando e spingendo verso la forma foldata.
La forma fibrillare, invece, non può essere convertita nello stato misfolding in quanto una volta che
si sono formati gli aggregati fibrillari non esiste più la possibilità di revertire questo processo. Lo
chaperon, allora, agisce nei confronti degli aggregati fibrillari, oligomerici e amorfi particolarmente
intricati e intrecciati destinandoli alla degradazione. Collabora con i due importanti sistemi di
degradazione proteica cellulare rappresentati dal proteasoma (o UPS) e dall’ autofagia (legata a
dei particolari organuli detti lisosomi).
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Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Lo chaperon è quindi una proteina che interagisce, stabilizza e guida una proteina, che non si
trova nel suo stato funzionale nativo, ad acquisire la sua conformazione nativa, ma che non
risulterà presente nella struttura funzionale finale della proteina. Questa definizione ricorda molto
la definizione di enzima. In realtà gli chaperon non sono enzimi perché si limitano ad ottimizzare
l’efficienza del folding (spingono quante più molecole possibili ad assumere un folding corretto)
con un contributo che non è di accelerazione del folding. Gli enzimi accelerano le reazioni mentre
gli chaperon non accelerano il meccanismo del folding, ma contrastano e tendono a distruggere le
interazioni non native che hanno portato alla formazione di stati unfolded, metastabili, aggregati
amorfi e oligomerici.
Agiscono sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress cellulare e si trovano in ogni
compartimento cellulare (citosol, reticolo endoplasmico, matrice mitocondriale). L’esigenza di
contrastare il folding si sente a livello di qualunque distretto.
Gli chaperoni:
• Intervengono nel de novo folding: folding al ribosoma. Mentre la proteina è ancora in traduzione
devono aiutare la proteina a trovare la via giusta in quell’imbuto di energia che la porta al punto
di energia libera minore;
• Dirigono l’assemblaggio dei complessi multienzimatici: molti enzimi e proteine di trasporto o di
legame sono multimerici ed hanno quindi struttura quaternaria. Gli chaperon molecolari
collaborano nell’assemblaggio di complessi multisubunità;
• Collaborano nella traslocazione in comparti cellulari: nello smistamento delle proteine nei vari
distretti è presente il mitocondrio. Per entrare nei trasloconi del mitocondrio, che prendono il
nome di TOM e TIM, le proteine globulari devono essere lievemente destrutturate per renderle
più flessibili e adattabili al riconoscimento e al passaggio attraverso TOM e TIM. Sono proprio
gli chaperoni hsp70 i responsabili del mantenimento di questa struttura lassa. Le proteine
destrutturate entrano quindi nella matrice mitocondriale dove l’hsp70 citosolico è sostituto
dall’hsp70 mitocondriale. Ogni comparto ha quindi i suoi chaperon molecolari;
• Aiutano nel refolding di proteine misfolded;
• Danno assistenza al proteasoma e all’autofagia.
Le proteine iniziano il loro folding già a livello di ribosoma in un ambiente dove c’è un forte
affollamento molecolare (detto crowding molecolare) dato da molte altre proteine. L’ambiente
citosolico è molto concentrato per cui raggiungere il folding specifico e funzionale, mentre altre
proteine generano urti o possibili interazioni non corrette, è di estrema difficoltà.
Gli chaperon si legano ai polipeptidi destrutturati o in via di strutturazione per prevenire
l’associazione di regioni idrofobiche che sono esposte in modo sbagliato e potrebbero generare
aggregazioni. Le regioni idrofobiche sono come dei patch adesivi che cercano delle altre regioni
idrofobiche per creare degli aggregati di tipo aspecifico con proteine simili a se stesse o con
proteine differenti. Sono fondamentali se la proteina è lunga e complessa, ovvero se si tratta di
una proteina multidominio o se presenta più subunità. I domini prima si foldano, poi si associano e
successivamente interagiscono fra di loro. Hanno un comportamento molto dinamico, sono in uno
stato di rapida fluttuazione
La catena polipeptidica può essere subito catturata da uno chaperon che trova un patch idrofobico
al quale può aderire. In porzioni differenti della catena appena tradotta si attaccano vari chaperon
molecolari. Alla fine la proteina si libera dal ribosoma e viene rilasciata nel suo stato foldato. In
alcuni casi gli chaperon si legano alle regioni unfolded consentendo alle altre di trovare i contatti
giusti della struttura terziaria, in altri casi si legano e stabilizzano le strutture che già sono sulla via
del folding e consentono alle altre di partire da zero nel folding.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
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Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
1. La proteina unfoldata subisce un collasso molto rapido e l’equilibrio è molto spostato verso la
forma parzialmente foldata. Gli stati metastabili sono buoni perché portano al folding, ma
anche rischiosi perché possono portare alla aggregazione.
2. segue una reazione di folding. La Kfold è la costante cinetica della conversione dello stato
metastabile parzialmente foldato in proteina nativa. Il problema è che sia lo stato unfolded (se
presente)che lo stato parzialmente foldato avranno una loro cinetica di formazione degli
aggregati oligomerici o aggregati più grossi e complessi che si oppongono a delle cinetiche
caratterizzate da una costante cinetica Kon (cinetica di una reazione secondo cui lo chaperon
cattura un patch idrofobico della struttura unfoldata o della struttura parzialmente foldata). A
seguito del legame di ATP al complesso chaperon-proteina da foldare, si libera la proteina già
meglio foldata e lo chaperone.
• Kfold > Kon che regola il legame dello stato unfoldato o parzialmente foldato con lo chaperone.
• Kfold > Kagg(costante della cinetica di aggregazione)
Quando Kon (legame verso lo chaperon)è > di Kfold, lo chaperone tende prevalentemente a
legare la proteina trasferendola ad altri partner detti co-chaperon molecolari oppure portandola alla
degradazione.
In condizioni di stress le costanti cinetiche di aggregazione (Kagg) sono nettamente superiori
rispetto alle costanti cinetiche che garantiscono la interazione con lo chaperon (Kon) .Prevale
quindi l’aggregazione se la cellula non produce una risposta di upregulation. La cellula, infatti, può
fare un upregulation del sistema degli chaperon imponendo al suo nucleo di trascrivere e poi
produrre molti altri chaperon oppure aiutare il folding o la degradazione.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
I compartimenti cellulari come nucleo, citosol, reticolo endoplasmico, ecc. hanno il proprio set di
chaperones molecolari.
Hsp70
E’ la famiglia più importante, presenta un altissimo grado di conservazione, esiste omologia tra
specie diverse, si può parlare quindi di batteri come di cellule eucariotiche, esiste in fondamentali
forme paraloghe nei vari compartimenti cellulari della stessa specie. Esistono delle forme
costitutivamente espresse, ossia sempre espresse poiché ho sempre bisogno di aiuto per il
folding, oppure esistono quelle stress indotte, ad esempio indotte da uno stress di calore, da
radicali dell’ossigeno, ecc,.
Cosa fa?
• Trattiene la catena appena tradotta in uno stato competente per il folding, inoltre consente
anche il recupero del fold delle proteine che sono parzialmente o completamente unfoldate;
• Favorisce l’assemblaggio dei complessi multimerici, quindi delle proteine composte da più
subunità;
• Assiste la traslocazione attraverso le membrane;
• Ha un dominio ATPasico, oltre ad un dominio per il legame con una sua proteina cliente;
• Collabora con co-chaperones (Hsp40 e NEFs nucleotide exchange factors, che sono dei
fattori che partecipano all’attività di Hsp70 facilitando questo scambio di nucleotidi, ATP,
ADP: è infatti a seguito di questo scambio ATP-ADP che si ha l’attacco e il rilascio ciclico
delle proteine in via di folding).
Il dominio ATPasico è fondamentale perché ci sono delle Hsp come la Hsp70 che sono delle
ATPasi, cioè idrolizzano ATP mentre realizzano questo aiuto al folding.
Hsp40
Hsp90
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Materia: Biochimica
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
CHAPERONINE
Sono da considerare insieme agli chaperones molecolari, però sono una cosa diversa, ma anche
loro aiutano il folding delle proteine. Sono dei grandi complessi a forma di gabbia, molto più grande
di uno chaperon molecolare di 70 kilodalton come massa. Hanno la caratteristica di inglobare
proteine che hanno assunto un folding sbagliato e indurle a ripetere il folding all’interno della
propria cavità: hanno infatti una cavità che facilita il refold della proteina, che è stata foldata in
maniera non corretta. Come gli chaperones molecolari, funzionano a cicli: la proteina meglio
rifoldata che esce da una chaperonina viene di nuovo catturata dalla chaperonina per ripetere un
altro ciclo di folding, fino a che non si arriva al folding corretto della proteina.
Sono due complessi abbastanza simili in procarioti ed eucarioti; è molto studiato quello dei
procarioti, GroEL- GroES e TRIC negli eucarioti.
Cosa fa?
Opera un isolamento della catena in via di folding da tutto il resto dell’ambiente cellulare, contrasta
tutto quell’affollamento molecolare che può disturbare e creare delle interazioni sbagliate in una
catena in via di folding.
Hsp70 si attacca subito alla catena polipeptidica nascente (in realtà se ne attaccano diversi), ma
non basta per ottenere il folding della proteina: mediante idrolisi di ATP, quindi altri costi energetici,
Hsp70 la trasferisce nel blocco interno della chaperonina e di nuovo con consumo energetico, con
cicli di legame e rilascio, viene consentito alla proteina di foldare in maniera nativa.
Ci si aspetta una sequenza di interazioni di questo tipo: ribosomi agganciati a un messaggero che
lo stanno traducendo; la catena polipeptidica nascente (quando è ancora attaccata al ribosoma) è
subito attaccata da Hsp70 e dal suo co-chaperones Hsp40. Talvolta interviene anche un altro
membro che si chiama prefoldina: anch’essa interviene nel facilitare il folding o nel trasferimento
della catena che si è liberata dal ribosoma alla chaperonina TRIC nelle cellule eucariotiche. Sarà
poi la chaperonina che restituirà la proteina completamente foldata.
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
In una visione un po’ più complessa si può vedere come tutti questi elementi intervengano nei
batteri e negli eucarioti; i colori uguali nei due tipi di cellula rappresentano lo stesso tipo di
chaperon (perché sono estremamente conservati anche tra specie diverse). A livello del ribosoma
esiste il folding assistito al ribosoma, esiste un Ribosoma Associated Complex (RAC) e NAC,
elementi proteici i quali iniziano a legare le estese regioni idrofobiche mantenendo una struttura
rilassata fino a ché non ci sia sufficiente proteina tradotta per generare un folding nativo.
Per circa il 70% del proteoma questo basta: queste attività presenti a livello ribosomiale sono
sufficienti per indurre folding in una catena proteica.
Chaperonina eucariotica
Hsp70 interviene insieme a Hsp40 quando ancora la catena polipeptidica è legata al ribosoma, poi
questa unità può staccarsi e con il consumo di energia e i Nucleotide Exchange Factors anche il
20% del proteoma può raggiungere il folding definitivo. L’alternativa, a questo stadio, è il
trasferimento alla Hsp90, un’altra chaperon molecolare ATPasica che consente il raggiungimento
della struttura nativa. Poi la prefoldina insieme a Hsp70 e Hsp40 compiono un trasferimento post-
traduzionale o co-traduzionale eventualmente a TRIC (chaperonina tipica degli eucarioti). Questo
consente a un 10% del proteoma il raggiungimento del folding definitivo.
Notare che c’è molto impiego di ATP, quindi consumo energetico per sostenere il folding delle
proteine e che solamente un 10% del proteoma raggiunge il folding attraverso la chaperonina,
normalmente sono sufficienti gli elementi associati al ribosoma o l’aggiunta di Hsp70, Hsp40 e la
prefoldina.
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Chaperonina batterica
Si immagina come un contenitore con uno spazio interno formato da due blocchi: il blocco
superiore cis, il blocco inferiore trans: i due blocchi corrispondono all’elemento Gro-EL, mentre il
cappuccio si chiama Gro-ES.
Quando la proteina prende rapporti con la subunità di Gro-EL si legano ben 7 molecole di ATP in
una subunità che sta lavorando, si lega il cappuccio di Gro-ES mentre si stacca l’ATP legato
nell’altra metà simmetrica. L’ATP viene idrolizzato, si liberano le molecole di fosfato e i nucleotidi di
ADP e in questa condizione non c’è più l’associazione con il cappuccio Gro-ES e la proteina,
obbligata a svolgere il suo folding dentro l’unità di Gro-EL, viene liberata: magari non sarà nella
conformazione nativa, ma gli si avvicina. Contemporaneamente alla liberazione di ADP dalla
subunità superiore si fissa l’ATP nella subunità inferiore, iniziando un ciclo anche nella sezione
inferiore.
Le sezioni cis e trans di GroEL, quindi quella superiore e quella inferiore, subiscono delle
modifiche conformazionali che aiutano la proteina a raggiungere il suo folding, ma operano in
modo reciproco e gli eventi in una sezione influenzano quelli dell’altra sezione.
Gro-EL è composto da 14 subunità e ciascuna contiene un sito di legame per catene
polipeptidiche ed un sito per l’idrolisi e il legame di ATP. Il sito di legame con la catena
polipeptidica è una superficie idrofobica alla quale le catene ancora non ripiegate e correttamente
collassate possono ancora aderire.
Una catena parzialmente ripiegata quindi entra nell’apertura che si chiama poro di Gro-EL poi su
quel lato si lega il cappuccio, ossia Gro-ES e contemporaneamente 7 molecole di ATP, ognuna
per ogni subunità che forma l’anello di questa struttura contenitiva. Questo comporta una
transizione conformazionale in Gro-EL che fa allargare il poro e questo tipo di espansione
determina la completa destrutturazione della catena polipeptidica che è entrata nella chaperonina.
La catena polipeptidica viene poi rilasciata nella cavità interna ora che è completamente
destrutturata e qui le sarà consentito di ripiegarsi in un ambiente protetto da qualunque altra
molecola proteica e non presente esternamente alla chaperonina.
La transizione conformazionale ha anche l’effetto di innescare l’attività idrolasica, quindi l’idrolisi di
ATP a ADP che poi verrà rilasciato; questo comporta il rilascio del cappuccio, cioè di Gro-ES,
l’apertura del poro e il rilascio della proteina un po’ più foldata a seguito di questo ciclo all’interno
della chaperonina.
Il rilascio da un lato di Gro-EL di una proteina foldata è in rapporto con l’introduzione di un’altra
catena proteica dall’altro lato e il legame di ATP alle sue subunità: quindi il rilascio di una subunità
più foldata è legata all’introduzione di un’altra catena in via di folding nell’altro elemento della
chaperonina.
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Ci saranno dei momenti in cui l’effetto delle proteine unfolded si fa maggiormente sentire. Questa
reazione di allarme viene espressa attraverso dei meccanismi molto conservati dal lievito all’uomo
che sono indotti da stress ambientale e fisiologico.
Quando le proteine misfolded si accumulano e il fenomeno di unfolded si intensifica (per stress
termico, per stress dovuto a radicali dell’ossigeno, ecc.) bisogna ricorrere a delle operazioni
correttive: una di queste consiste nell’aumentare l’espressione degli chaperones molecolari.
Uno di questi pathways di attivazione a seguito di un’eccessiva presenza di unfolded risponde
all’accumulo di proteine unfolded nel citosol (ci sono i ribosomi liberi che sintetizzano le proteine
destinate al citosol e poi convogliate verso il nucleo e verso altri organelli citoplasmatici). Se c’è
troppo accumulo nel citosol di proteine unfolded viene attivato un Heat Shock Factor One: questo
viene attivato con una reazione di fosforilazione, ossia un attacco di gruppo fosfato, entra a livello
nucleare e lega gli Heat Shock Elements che stimolano la trascrizione dei geni che codificano per
le Heat Shock Proteins. Questi geni sono tradotti in proteine delle varie famiglie di HSP e
persisteranno il misfolded oppure condurranno alla degradazione.
Il problema diventa più articolato a livello del Reticolo Endoplasmico: non ci sono solo i ribosomi
liberi nel citosol, ma ci sono tutti quei ribosomi adesi al RE che lo rendono rugoso e che proiettano
catene polipeptidiche all’interno del RE, tanto che almeno un terzo del proteoma umano è
sintetizzato nel RE, passa attraverso i suoi comparti ed è destinato alla membrana o alla
secrezione mediante esocitosi o al lisosoma (via secretiva).
Il RE partecipa intervenendo nel folding: contiene infatti non solo la proteina disolfuro isomerasi,
ma anche molti chaperones molecolari; le proteine quindi entrano nel RE come polipeptidi nascenti
ad una velocità che dipende ovviamente dalle richieste metaboliche della cellula. Quando il
sistema è in sovraccarico e quindi ci sono molte proteine che richiedono assistenza per il loro
folding, si crea una condizione di stress, con conseguenza di questo accumulo di proteine non
completamente foldate, se non addirittura foldate in maniera sbagliata. Quindi l’effetto primo è
quello di stimolare l’espressione di nuovi chaperones del RE e altri enzimi catalizzatori del folding.
Viene inoltre attivato un altro processo chiamato ERAD cioè Degradazione Associata al Reticolo
Endoplasmico: tutto questo eccesso di proteine misfolded viene restituito al citosol, quindi retro
traslocato al citosol e sottoposto a una importante degradazione che è mediata dal proteasoma.
Il proteasoma è una struttura formata da un tronco contenitivo e due cappucci (come forma può
ricordare la chaperonina ma svolge un compito completamente diverso): non aiuta il processo del
folding, bensì solo la degradazione che viene attuata solo se i suoi substrati, cioè le proteine da
degradare, hanno subito l’attacco e quindi la marcatura di piccole proteine dette ubiquitina; anche
in questo caso c’è la degradazione e la liberazione di piccole proteine.
Quindi in ERAD l’eccesso di proteine misfolded viene retro traslocato verso il citosol e destinato
alla degradazione nel proteasoma.
UPR è in grado di influire sul recupero della omeostasi quindi dell’assistenza al folding regolando
la trascrizione e la traduzione di proteine per ridurre il carico di queste proteine che cercano il loro
folding e incrementando al tempo stesso delle capacità di folding all’interno del reticolo
endoplasmico. Questo si esprime mediante tre importanti sensori del RE:
• PERK ovvero una kinasi del RE;
• IRE1 ovvero enzima richiedente inositolo;
• ATF6 che è un fattore di attivazione di trascrizione.
Con questi tre modulatori si deve entrare nel nucleo per facilitare l’espressione di quei geni che
possono sostenermi nel folding (proprio perché sono in una emergenza di unfolded protein).
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
ATF6
Come PERK e IRE1 è una proteina integrale della membrana del RE e contiene un piccolo
dominio che è un fattore di trascrizione (TF= fattore di trascrizione).
A seguito dell’accumulo di proteine unfolded nel RE, ATF6 esce dal RE perché è inglobato nelle
vescicole di Golgi, quando è immerso nelle vescicole del Golgi è attaccato da due proteasi che
rimuovono due porzioni di questa proteina e rimane solamente il frammento che ha esposto verso
il citosol. Poi entra nel nucleo e attiva i geni target, i cui prodotti serviranno per far esprimere più
chaperones molecolari del RE o altri catalizzatori di folding come la proteina disolfuro isomerasi e
proteine legate al processo di ERAD cioè di questa retro traslocazione verso il citosol e
degradazione.
In figura si vede ATF6 che esce dalla membrana del RE, viene inglobato da una vescicola del
Golgi dove subisce l’attacco di due proteasi, una che taglia all’interno della vescicola del Golgi e
una che taglia al confine con la membrana. Viene poi liberato il segmento esposto verso il citosol
che entra a livello nucleare e attiva i geni target, ossia quelli di sostegno per il folding, che aiutano
a intensificare la produzione degli chaperones molecolari e altri catalizzatori di folding o a
condurne di nuovi.
IRE1
E’ una proteina che è una kinasi ma è anche una endoribonucleasi: una kinasi attacca gruppi
fosfato su particolari substrati specifici mentre un’endoribonucleasi taglia RNA
(endo=internamente). Anch’essa è immersa nella membrana del Reticolo Endoplasmico e la
presenza di molte proteine unfolded genera il legame, induce un cambio conformazionale degli
elementi di IRE1, la quale si associa lateralmente anche con le proteine unfoldate: questo fa
convertire la sua funzione da kinasi a endoribonucleasi, quindi diventa endoribonucleasi, media lo
splicing di un messaggero di un fattore specifico che si chiama XB+1, che è un fattore di
trascrizione di geni legati all’espressione di chaperones, catalizzatori di folding e proteine legate al
processo di ERAD.
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
IRE1 è immerso nella membrana: il rapporto con il RE e con le proteine unfoldate provoca
l’associazione laterale degli elementi di IRE1, attiva la funzione endoribonucleasica e media lo
splicing di questo messaggero: viene eliminata una regione intronica, si genera il prodotto XB+1
che entrerà nel nucleo e aiuterà l’espressione di quei geni target che codificano per chaperoni o
per proteine appartenenti al sistema ERAD.
IRE1 è fosforilato e quando è attivato media questo splicing, produce XB+1 che entra nel nucleo e
sostiene il folding e altri sistemi di controllo qualità delle proteine.
PERK
E’ immersa nella membrana del RE e oltre a fosforilare se stessa, fosforila un altro elemento,
EIF2𝛼, che è una subunità del complesso di inizio traduzione ubiquitario. Quando lo fosforila,
inattiva il fattore di inizio traduzione, quindi non si inizia la traduzione. L’effetto complessivo è
quindi quello della riduzione della traduzione in senso globale, quindi della sintesi proteica,
andando a diminuire il carico delle proteine potenzialmente unfoldate.
Rimane tuttavia un’espressione possibile: si esprime ATF4, ossia un fattore di trascrizione che
regola l’espressione di un cluster di geni che sono legati non solo al sostegno del folding, ma
anche alle reazioni di autofagia, che è una strategia di eliminazione e di degradazione, apoptosi
(morte cellulare programmata) e alla creazione di un prodotto che frena l’effetto PERK, che andrà
quindi a defosforilare EIF2𝛼 e lo farà a seguito di un prolungato stress del RE, garantendo un
regolazione a feedback.
PERK fosforila se stesso e anche EIF2𝛼: questa subunità fosforilata blocca il fattore di inizio
traduzione, quindi non si può tradurre. Una sola cosa viene tradotta ossia un fattore di
trascrizione ATF4 che entra nel nucleo e induce alla autofagia, all’apoptosi, al sostegno del folding
ed è in grado anche di stimolare la produzione di un fattore, GAP34, che va a inibire l’effetto di
PERK, quindi consentirà la defosforilazione di EIF2𝛼 che tornato non fosforilato risulterà attivo e
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Lezione n°06 del 23.04.2018
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Le condizioni di stress attenuano non solo ciò che abbiamo visto, ma anche la traslocazione di
proteine secretorie e di membrana, quindi allo scopo di ridurre il sovraccarico di proteine unfoldate
a livello del RE mediando la loro degradazione a livello traduzionale nel citosol.
Nel complesso UPR induce una risposta positiva, protettiva, adattiva; comporta quindi una up-
regulation nell’espressione degli chaperones molecolari, un’attenuazione della traduzione (vedi
PERK) e una degradazione di proteine misfolded mediante proteasoma, con il processo di
retrotraslocazione nel citosol. Lo stress prolungato però conduce a una inibizione di questa
risposta positiva ed adattiva e porta la cellula ad apoptosi, quindi a una morte cellulare. Quindi si
può resistere fino ad un certo stress di RE, oltre no.
Pensiamo alla degradazione delle proteine difettose e alla loro compartimentalizzazione. Gli
chaperones molecolari e le chaperonine possono agire fino a un certo punto, ma poi bisogna
indirizzare ciò che non si riesce più a rifoldare verso la degradazione o la compartimentalizzazione
(compartimentalizzare= ridurre … completamente isolato e con una posizione ben specifica).
PROTEIN TURNOVER
La tabella riporta il rapporto tra il tempo di emivita di determinate proteine e l’aa posizionato all’N
terminale. E’ stata trovata una relazione tra il tempo di vita e l’aa N-terminale. Si vede che ci sono
degli aa ammino-terminali molto stabilizzanti come la metionina, glicina, serina, alanina, treonina e
valina a cui sono associate dei tempi di emivita maggiori di 20 ore. Altri invece sono fortemente
destabilizzanti e fanno scendere il tempo di emivita da 30 minuti a 2 minuti nel caso di arginina;
quindi un’arginina all’N terminale è predittiva di un tempo di emivita molto limitato.
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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
In più altri ricercatori hanno fatto un’altra osservazione: esistono le PEST proteins: PEST sono le
sigle degli aa Prolina, Glutammato, Serina e Treonina, quindi le proteine che sono ricche di questi
particolari aa sono degradate più rapidamente di altre proteine attraverso il sistema del
proteasoma.
Quindi l’emivita delle proteine è estremamente soggettiva, dipende dal tipo della proteina e può
variare da minuti a molti giorni. Quindi proteine strutturali ad esempio che entrano nella
composizione della membrana o emoglobina per il trasporto di ossigeno saranno delle proteine
con un tempo di emivita molto lungo, maggiore di 200 ore, si parla di giorni (globulo rosso che
contiene l’emoglobina ha un tempo di vita di 120 giorni, la proteina deve essere funzionante).
Invece enzimi, ormoni e anticorpi sono proteine con tempi di vita mediamente più bassi, sull’ordine
delle 2 ore perché hanno un ruolo regolativo ossia che necessita un’interazione, quindi è logico
che posseggano un tempo di vita più breve.
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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
PATHWAYS DEGRADATIVI
Il proteasoma è una via degradativa atp-dipendente (non solo gli chaperones per garantire il
folding consumano energia, al pari delle chaperonine, ma anche il sistema ubiquitina-proteasoma
consuma molecole di ATP).
Ups è un sistema citosolico e nucleare, selettivo per proteine che risiedono dentro la cellula come:
-proteine a vita breve con ruolo regolativo (proteine con rapido turnover)
-proteine difettose
Il proteasoma è una via regolativa particolarmente rilevante nella degradazione di tutte quelle
proteine legate alla regolazione del ciclo cellulare, la trasduzione del segnale, il controllo e la
regolazione della traduzione.
Di cosa si compone il sistema ups? Si compone di molecole di ubiquitina che formano code di
poliubiquitazione sulle proteine da degradare. Quest’operazione è consentita grazie a una catalisi
combinata di tre enzimi (E1, E2, E3). La coda di poliubiquitina viene indirizzata al proteasoma
(struttura che può assomigliare a GroEL, GroES o a tric) in cui ci sono delle proteasi, ossia
elementi catalitici e degradativi. La proteina è degradata in peptidi che, grazie a delle altre proteasi
citosoliche, verranno trasformati in amminoacidi. Questi amminoacidi sono riciclati per costruire
altre proteine o per la produzione di altri composti derivati da amminoacidi. Nel complesso è un
processo evolutivamente conservato. Così come ubiquitina è conservata, tutto il processo della
degradazione mediata da proteasoma è un evento estremamente conservato.
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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Processo di ubiquitazione:
• E1→ enzima che attiva l’ubiquitina catalizzando il legame dell’ubiquitina stessa su di sé→ è
un evento che idrolizza ATP. L’ubiquitina è trasferita a un residuo di cisteina dell’enzima
attivatore dell’ubiquitina. Il legame viene realizzato con il gruppo carbossile, ossia con il
carbonio terminale della glicina terminale dell’ubiquitina.
Riassumendo: il prodotto della reazione consiste nel legame del carbossile dell’ubiquitina
con un residuo di cisteina dell’enzima E1, impiegando energia.
• E2→ enzima coniugante→ catalizza il trasferimento di ubiquitina da E1 a E2. E2 molto
semplicemente sposta su di sé l’ubiquitina. Il prodotto di questa reazione consiste nello
spostamento della coda dell’ubiquitina su una cisteina specifica dell’enzima coniugante.
• E3→ ubiquitina-ligasi→enzima responsabile dell’ubiquitazione di una proteina da
destinare alla degradazione→ tale enzima deve avere una proteina target che subisce la
catalisi di E3. L’effetto catalitico di E3 è quello di spostare l’ubiquitina legata a E2 su una
lisina specifica della proteina target.
Riassumendo sono intervenute il carbossi terminale dell’ubiquitina e i residui di cisteina di E1 e E2,
e alla fine, per legare ubiquitina alla proteina target, una lisina specifica della stessa. Questo
rappresenta solo il primo ciclo del legame dell’ubiquitina. Seguono infatti cicli ulteriori che
producono una coda di poliubiquitina (il carbonio terminale di un’altra molecola di ubiquitina viene
congiunto alla lisina48 di un’ubiquitina già legata). In sostanza alla lisina 48 dell’ubiquitina, che è
già legata alla proteina target, viene legato il carbossi terminale di un’altra ubiquitina ed è proprio
questo legame sulla lisina 48 che identifica quelle proteine destinate alla degradazione del
proteasoma.
Ricorda!! → l’ubiquitina ha altre lisine e quando sono impegnate altre lisine nelle reazioni
dell’ubiquitinazione, la via che le proteine coinvolte poi prendono non è quella degradativa
(ubiquitina interviene in tanti sistemi).
Sono necessarie almeno 4 ubiquitine legate alla proteina target per indirizzarla alla degradazione.
Il proteasoma ricorda GroEL e GroES perché ha un blocco centrale (unità degradativa) e una
parte più esterna costituita da due cappucci/coperchi posizionati alle estremità.
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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Proteasoma è dotato di un coperchio, attraverso il quale la proteina da degradare entra per essere
riconosciuta dal sistema proteasoma attraverso la coda di poliubiquitine. Dopodiché la proteina
deve essere deubiquitinata, cioè deve essere rimossa la coda di poliubiquitina (le ubiquitine
verranno poi riciclate). Successivamente la proteina deve essere unfoldata, cioè completamente
svolta e denaturata e indirizzata all’interno della struttura catalitica del proteasoma dove si
realizzerà il clivage, cioè il taglio proteolitico.
La parte catalitica del proteasoma è la subunità 20S (subunità di sedimentazione), dove viene
effettuato il taglio catalitico. Sulla subunità catalitica si appoggiano due subunità che vengono
definite regolative o coperchio e base. Il proteasoma26 si compone quindi, nel complesso, dei
seguenti elementi: subunità catalitica, due subunità regolative e ATP, necessario per la sua
funzionalità.
La struttura centrale, la 20S, è fatta da molte subunità: vi sono 4 complessi formati ciascuno da 7
subunità disposte ad anello che creano una camera contenitiva all’interno della quale viene
realizzata la funzione proteolitica. È molto conservata negli eucarioti. Dà origine a frammenti
peptidici che verranno trasformati in amminoacidi da altre proteasi citosoliche.
Ha inizio a questo punto l’ingresso nel canale di entrata del proteasoma da parte della piccola
regione unfoldata. Ne segue l’unfolding, la completa traslocazione del polipeptide
destrutturalizzato dentro il proteasoma e infine la proteolisi.
Il sistema ubiquitina-proteasoma, vista la sua portata rilevante nella vita della cellula, deve essere
finemente regolato attraverso numerosi meccanismi in crosstalk, cioè meccanismi si interfacciano
con altri sistemi degradativi. Tutte queste vie degradative devono poter comunicare tra di loro,
interfacciarsi e regolarsi a vicenda.
Tanti sono i settori in cui il proteasoma26 esprime la sua capacità degradativa, da aspetti legati al
sistema immunitario, alla risposta da stress, allo sviluppo e all’apoptosi, alla regolazione del ciclo
cellulare, la trascrizione, il metabolismo e la trasduzione del segnale.
Vi è poi tutta una sezione in cui intervengono aspetti patologici; possono esistere infatti delle
proteine non correttamente unfoldate o comunque danneggiate, che sono nate con delle mutazioni
o danneggiate da specie radicaliche dell’ossigeno particolarmente reattive, se non addirittura
coinvolte in una denaturazione termica per un rialzo della temperatura. Tutte queste proteine
prendono la via del proteasoma.
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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
ma vuol dire formare aggregati insolubili che non hanno funzione e che rappresentano solo un
punto finale della denaturazione della proteina; sono strutture particolarmente ordinate che non
hanno nulla a che vedere con le proteine fibrose tipo il collagene, la cheratina, l’elastina, ecc…
La via di degradazione proteasoma, oltre alle patologie sopra citate, è implicata anche in certe
forme di cancro.
Il lisosoma è in grado di fondersi. Possiede infatti un contenuto degradativo e si fonde con gli
elementi che deve degradare (per esempio proteine che sono state ricavate dall’ambiente
extracellulare generano una vescicola di endocitosi che si fonde con il lisosoma, il quale attua
l’idrolisi della proteina contenuta nella vescicola).
Il lisosoma interviene nella degradazione di diverse proteine, fra cui proteine extracellulari
internalizzate per endocitosi proteine di membrana o ancora proteine con un tempo di vita
particolarmente prolungato.
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Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Il lisosoma contiene molti enzimi capaci di degradare proteine e corpuscoli interi, come per
esempio le idrolasi acide, che idrolizzano vari tipi di legame. Le idrolasi acide lavorano a pH 5,
generato e garantito da una pompa ATPasica che spinge protoni all’interno del lisosoma
(trasferisce HCl all’interno del lisosoma e garantisce un’ambiente ad un pH taleda consentire
l’idrolisi ad opera delle idrolasi acide). Quello lisosomiale è un ambiente a pH diverso da quello
citosolico, che è più neutrale, proprio al fine di contraddistinguere e marcare un ambiente
potenzialmente pericoloso per la cellula poiché ricco di idrolasi (se le idrolasi fossero libere
nell’ambiente cellulare e lavorassero a pH 7, non funzionerebbe niente). Quindi in ambiente
lisosomiale il distretto è diverso, il pH è più basso e sono presenti delle idrolasi che possono
lavorare in maniera compartimeralizzata. Tra le idrolasi vi sono delle proteasi, come le catepsine,
attive a pH 5 e non selettive (cioè in grado di degradare in maniera non specifica qualunque
proteina che si trova all’interno del lisosoma).
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
poi con la membrana lisosomiale e si realizza quindi la vescicola di fusione detta autolisosoma.
L’autofagosoma è lo step che precede la fusione con il lisosoma e forma l’autolisosoma. La
fusione con il contenuto idrolitico dei lisosomi consente la degradazione di tutto il materiale
internalizzato nell’autofagosoma, destinato poi al riciclo.
Esiste una funzione compensatoria dell’autofagia nei confronti del sistema ups, cioè del sistema
ubiquitina-proteasoma, nel senso che, quando il proteasoma subisce una qualche restrizione nella
sua espressione e attività, dovuta ad un’inibizione, ad un sovraccarico del lavoro proteolitico, il
sistema autofagia si attiva per sopperire alle mancanze del proteosoma. In ogni caso questi due
sistemi comunicano tra di loro a vari livelli e quindi coordinano l’azione degradativa, mirata al
mantenimento della proteostasi cellulare degli organelli, ma anche delle proteine.
Le proteine che tendono ad un misfold o che sono parzialmente unfoldate subiscono l’interazione
con gli chaperones molecolari, che può essere fortunata e risolutiva nel senso che permette di
rifoldare la proteina oppure no. Se il refolding non risulta funzionale grazie allo chaperon,
interviene l’ubiquitazione mediata dalla lisina48 nella forma della coda delle poliubiquitine, che
viene riconosciuta e degradata a livello del proteasoma 26.Non sempre tuttavia si assiste a questo
percorso. Se il proteasoma non funziona correttamente per motivi di invecchiamento, sovraccarico
di lavoro degradativo, per stress ossidativo o per l’introduzione di sostanze tossiche come farmaci
ecc… può accadere che queste proteine, impossibilitate ad essere degradate dal proteasoma,
possano essere degradate dalla via autofagica mediata da lisosoma. In tal caso si formeranno
grossi aggregati e si avrà l’ubiquitazione legata ad un’altra lisina dell’ubiquitina; anche una piccola
modifica a carico di questi legami influisce sul destino degli aggregati.
Al macroaggregato proteico partecipa anche il proteasoma, riconosciuto da membrane parziali
dette fagofori. Il riconoscimento avviene tramite l’esposizione di particolari proteine recettoriali,
dopodiché il macroaggregato viene completamente raccolto, guidato al lisosoma, fuso con esso a
formare il corpo dell’autolisosoma in grado di degradare tutto il contenuto. Questo è quanto
accade alle proteine misfolding in una visione un po’ più integrata di ups e lisosoma mediante
autofagia.
Se non è possibile difendersi dagli aggregati proteici seguendo le vie degradative, si può optare
per un altro meccanismo di difesa : la compartimentalizzazione. Nel momento in cui non ci si
può difendere dall’aggregato proteico con i sistemi proteolitici degradativi, l’aggregato verrà inviato
ai una determinata regione della cellula. Le proteine misfolded tendono ad essere confinate in
specifiche compartimentalizzazioni. Tutto questo processo limita la loro citotossicità ed evita la
nucleazione di altri aggregati, impedendo anche che essi espongano dei punti reattivi che vadano
a danneggiare altre proteine e altri tipi di macromolecole cellulari.
Se il controllo qualità è in sofferenza, cioè se il proteasoma è in sovraccarico, se c’è
invecchiamento e se ci sono tanti fattori potenzialmente danneggianti la cellula (com e sostanze
chimiche o farmaci), le proteine ubiquitinate possono essere sequestrate in compartimenti prossimi
al nucleo detti JUNQ (JUxta Nuclear Quality control compartment); qui sono depositate proteine
ancora solubili, in interscambio con il citosol, che possono essere recuperate riacquistando il
folding o degradate. Infatti diversi chaperones e proteasomi sono localizzati vicino al comparto
JUNQ e possono aumentare la capacità di refolding delle proteine che sono accumulate. Se
questo non dovesse avvenire, c’è sempre e comunque il proteasoma.
Supponiamo che sia stata prodotta una proteina ancora solubile, misfoldata (cioè che ha preso
una via del folding sbagliata), e già ubiquitinata, ma che il proteasoma per un qualche motivo non
riesca a degradarla completamente. Essa viene quindi guidata verso il comparto JUNQ, comparto
in cui le proteine sono misfoldate ma non ancora completamente aggregate, e in cui è pertanto
ancora possibile il recupero del folding grazie a chaperones molecolari, ma in cui al contempo è
possibile indirizzare una proteina verso la degradazione.(questo spiega la presenza del
proteasoma nelle vicinanze del comparto JUNQ).
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Il proteasoma è posto anche nelle vicinanze delle vescicole del reticolo endoplasmico (quando ho
uno stress da accumulo di proteine unfoldate o misfoldate all’interno del RE, queste vengono
retrotraslocate nel citosol ed eliminate dal proteasoma).
Vi sono poi aggregati insolubili che nella loro forma più stabile, da un punto di vista strutturale, si
definiscono fibre amiloidi e che sono sequestrati in compartimento finali detti IPODs (depositi di
proteine insolubili che non possono essere riconvertite in un folding nativo). Si segue lo stesso
processo della compartimentalizzazione: un controllo di tipo protettivo che impedisce interazioni
che possono essere patologiche con tutto il proteoma cellulare.
Sequestrare significa proteggersi dalla proteotossicità insita in questi aggregati. Gli IPODs
possono essere più di uno, mentre JUNQ è uno soltanto. Negli IPODs le proteine non sono
ubiquitinate e non sono in interscambio con il citosol, perché non possono più riacquisire il loro
folding nativo. Quando i misfolded riescono ad aggregare e a formare degli intrecci insolubili,
vengono compartimeralizzati in IPODs (qui non possiedono alcuna coda di ubiquitina).
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Vi è poi un altro comparto detto aggresoma, che, come suggerisce il nome, consta di un
accumulo di aggregati, posto vicino al nucleo e al centro di organizzazione dei microtubuli. Si
ritiene che il continuo accumulo di proteine aggregate e misfoldate porti nel tempo all’evoluzione di
JUNQ in aggresoma.
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amiloide
PROTEIN MISFOLDING
Abbiamo già parlato del misfolding proteico nelle lezioni precedenti, ora però entriamo nei dettagli
strutturali del fenomeno: misfonding proteico e la sua forma di aggregazione più stabile
rappresentata dallo stato amiloide o fibra amiloide. Dunque ci sposteremo verso quelle malattie
che sono caratterizzate dalla fibra amiloide, cioè Parkinson, Alzheimer, SLA e Huntington e molte
altre.
Per riassumere un po’ tutto il sistema di protezione del nostro proteasoma, diciamo che la cellula
mette in atto un network di proteostasi.
La proteina viene sintetizzata, nel migliore dei casi, da sola o grazie agli chaperoni che sono già
presenti a livello ribosomiale, ed acquista la sua struttura nativa. Oppure non lo fa (e alcune
proteine sono particolarmente prone a ciò), e si formerà uno stato metastabile (stato di proteina
parzialmente foldata), che può dare origine a dei danni a livello proteico. Quindi si possono
originare degli aggregati che vengono eliminati per autofagia.
Se tali aggregati sono insolubili vengono anche compartimentalizzati in IPOD.
Se non risponde il proteasoma le proteine ubiquitinate vengono accumulate in JUNQ e in
aggresoma.
Inoltre troviamo anche un altro percorso: il sistema ERAD.
Tutto ciò rappresenta il quadro del nostro protein quality control.
E poi non dimentichiamoci che un effetto regolativo sul proteasoma lo esprime anche il sistema
che si occupa di applicare le modifiche post-traduzionali e le vie di smistamento e di localizzazione
delle proteine all’interno della cellula.
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MISFOLDING E AGGREGAZIONE
Gli studi di biofisica teorico-sperimentali hanno dimostrato che ogni proteina, quindi ogni specifica
sequenza di amminoacidi di una catena polipeptidica, risponde ad un determinato comportamento
di folding dettato da una superficie di energia libera che conduce ad un minimo di energia.
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La differenza è che nella parte dell’imbuto verde prevalgono i contatti intramolecolari (il numero
dei contatti e il numero dei contatti nativi, cioè i contatti giusti che genereranno il folding nativo
tridimensionale della proteina), ma per alcune proteine devo anche prendere in considerazione
l’espressione di contatti intermolecolari, nella parte dell’imbuto rosso. Nell’ultimo caso, quindi
prevalgono le forze attrattive intermolecolari che portano alla stabilizzazione di vari tipi di
aggregati.
Le regioni irregolari della superficie energetica della parte verde, consentono l’accumulo di
particolari conformazioni in intermedi del folding che sono temporaneamente intrappolate in quello
stato energetico. Ad esempio un intermedio che appartiene a quel minimo relativo, deve essere
aiutato a superare la barriera energetica e procedere verso un ulteriore minimo relativo. E chi lo
aiuta? Per superare questa barriera energetica ci sono o gli chaperoni o la stessa energia termica
dell’ambiente in cui si trova la proteina, la quale è molto spesso sufficiente per mettere in moto la
dinamica di questo intermedio del folding e consentirgli di fatto di procedere verso altri minimi che
si avvicinano allo stato nativo. Quindi in questo caso tutti questi step o avvengono da soli o sono
favoriti dagli chaperoni.
Oltretutto la superficie verde si deve anche sovrapporre a quella rossa che caratterizza
l’aggregazione; la formazione di queste fibrille avviene per nucleazione, quindi anche qui ci
saranno dei punti di nucleazione, esattamente come nel folding, il quale può nascere da nuclei di
folding e da quelli espandersi in modo gerarchico; allo stesso modo anche nel caso
dell’aggregazione può avvenire una nucleazione che porta all’aggregazione, la quale parte da
degli intermedi (intermedi metastabili), o comunque da uno stato parzialmente foldato, e procede
verso dei minimi relativi.
Nel complesso quindi le proteine native assumono vari stati conformazionali, cioè tanti di questi
minimi relativi, e lo fanno anche in conseguenza delle fluttuazioni dinamiche della struttura che si
sta formando. È chiaro che parto da una situazione molto dinamica in alto, all’imboccatura
dell’imbuto energetico, e poi questo grado di dinamicità deve calare. Come conseguenza abbiamo
che questi stati di folding intermedio particolarmente dinamici sono vulnerabili al misfolding,
tuttavia, in certi casi sono legati al funzionamento di una proteina, o meglio sono richiesti per
ragioni funzionali. Avevamo fatto l’esempio delle membrane in cui l’assunzione di una struttura più
collassata, vibrante e fluttuante, facilita il passaggio attraverso i trasloconi, e quindi facilita le
traslocazioni attraverso membrane.
Quindi, per concludere, il misfolding non è altro che un aspetto particolare del panorama
energetico totale di una proteina che si folda e che è particolarmente prona all’aggregazione.
Per alcune proteine sarà quasi impossibile tendere verso queste situazioni di intermedi metastabili,
mentre per altre è possibile.
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Ricordiamo ora che per una proteina esiste la possibilità di avere diversi stati: c’è lo stato
unfoldato, l’intermedio del folding, gli oligomeri e gli stati più stabili dell’aggregazione, ossia le
fibrille amiloidi. E naturalmente la possibilità di evolvere verso lo stato nativo.
L’entità dell’incidenza di ciascuno di questi stati (la popolazione dei possibili differenti stati e del
loro ritmo di interconversione), dipende da vari fattori:
- Dalle loro relative stabilità termodinamiche, quindi dalle piccole barriere di energia che sono
associate alle transizioni, come abbiamo visto nel panorama energetico;
- Dal loro tasso di turnover, cioè dal tasso che impone la loro sintesi e degradazione;
- Dalla loro propensione ad associarsi e subire l’effetto foldante degli chaperones.
Abbiamo capito che questi aggregati possono essere tossici. Lo sono perché perlopiù
rappresentano la perdita di una funzione, e perdere una proteina con una funzione specifica è
grave; oppure perché si acquisisce una funzione tossica, in quanto l’aggregato è comunque
ancora un elemento che interagisce, quindi la cellula può accumulare oltre a queste fibre insolubili,
anche degli oligomeri, non stabili, e che espongono delle superfici adesive, ovvero caratterizzate
da residui idrofobici, e questi aspetti di esposizione di carattere idrofobico, possono generare delle
interazioni aberranti con altre proteine o comunque con altre macromolecole cellulari.
Inoltre la formazione degli aggregati può anche essere lesiva nei confronti del sistema di
degradazione, cioè della sua espressione e della sua attività, sia del proteasoma che
dell’autofagia. Può quindi anche sequestrare dei componenti molto importanti del network di
proteostasi rappresentati dagli chaperones o co-chaperones (es.Hsp40). Perciò se anche questi
componenti vengono aggrediti dagli intermedi oligomerici, sono neutralizzati e non sono più
disponibili per la loro azione foldante. Quindi il fatto di formare oligomeri è un punto estremamente
critico, perché generano interazioni e danneggiano il sistema di degradazione e possono
addirittura mettere fuori gioco gli chaperoni. L’aggregazione quindi interferisce con il network di
proteostasi, ed è sia sintomo che causa del declino, e si genera così un circolo vizioso che
esprime in sé tutta la sua citotossicità. Però durante la loro evoluzione, le proteine si sono
ottimizzate/evolute per mantenere al massimo la loro solubilità relativa alle concentrazioni
fisiologiche. Infatti, un incremento quantitativo causato per esempio da uno sbilanciamento del
proteoma, determinato dall’invecchiamento, è associato ad una perdita di solubilità. Il nostro
organismo può però proteggersi dagli aggregati formati o con il sistema JUNQ o con IPOD: in
JUNQ gli aggregati sono ancora solubili, mentre in IPOD no.
Una disfunzione dovuta a misfolding generato da una mutazione, per esempio, rende la proteina
particolarmente metastabile, quindi passibile di aggregazione, ed è causa di molte patologie. Un
network di proteostasi con tutti gli elementi funzionanti può tamponare questo errore, questa
destabilizzazione, ma quando la sua capacità di rispondere al problema è superata (cioè non è più
in grado di farlo), ci sono delle proteine mutanti metastabili che tendono ad aggregare. Ciò è
caratteristico dell’invecchiamento.
Infatti, con l’invecchiamento è difficile mantenere un proteoma bilanciato. Gli aggregati sono quindi
di per sé citotossici e possono dare origine ad interazioni aberranti, generando una condizione
generalizzata di proteotossicità, la quale gioca un ruolo chiave nelle malattie conformazionali:
Parkinson, Alzheimer, Huntington.
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
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Il declino del network di proteostasi correlato con l’età facilita l’aggregazione di particolari proteine
che sono legate alle malattie neurodegenerative. (Da ricordare che in alcuni casi sono proteine
mutate mentre in altri no)
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Chiaramente non esistono solo malattie neurodegenerative, come per esempio l’Alzheimer,
l’encefalopatia spongiforme, la Parkinson, la SLA, l’Huntington, che hanno le loro proteine
(l’amiloide β, il pione, l’α-sinucleina, la superossido dismutasi nella SLA, l’huntingtonina, ecc) che
tendono ad assumere determinate strutture.
Esistono anche malattie che coinvolgono il nostro organismo da un punto di vista sistemico:
l’amiloidosi dovuta a delle catene leggere di immunoglobulina o suoi frammenti, la transtiletina
nell’amiloidosi sistemica, ecc, persino il lisozima può esser coinvolto in questa struttura.
Inoltre, come è stato già precedentemente accennato, tutte queste proteine tendono ad una
struttura generica, ovvero, per successiva apposizione di una proteina sopra l’altra, per un effetto
di nucleazione, una si appoggia all’altra e si generano dei foglietti β. Quindi queste proteine sono
accomunate dal formare degli aggregati che condividono questo archetipo strutturale che si
chiama fold amiloide, caratterizzato proprio da questa prevalenza di struttura β.
Ora vediamo com’è l’organizzazione precisa di questa struttura β, perché è piuttosto particolare.
Per potersi formare, questi complessi foglietti β devono dominare le interazioni intermolecolari, e
naturalmente, l’energia libera associata allo stato amiloide deve essere inferiore rispetto all’energia
libera dello stato nativo, e la stabilità di questo stato amiloide dipende comunque dalla
concentrazione al quale si trova la cellula e ci sarà una concentrazione critica nella quale la
proteina diventa stabile nello stato amiloide. Inoltre in questa situazione potrà ancora sopravvivere
lo stato nativo se esiste una sufficiente barriera energetica che separa l’intermedio prono
all’aggregazione dalle forme aggregate e anche dall’amiloide.
Quindi tutto dipende da queste barriere energetiche e dall’effetto degli chaperones.
La caratteristica della fibra amiloide è che è molto resistente in vitro a denaturanti e proteasi, così
anche nella cellula è molto refrattaria all’attacco delle proteasi, ma è un’alternativa estremamente
strutturata che risulta cineticamente inaccessibile, cioè improbabile, solo nelle condizioni
biologiche normali.
L’analisi delle fibrille in vitro dimostra che la struttura diventa uno stato instabile solo per polipeptidi
molto grandi. Cioè, se un polipeptide ha più di 150 aa, è improbabile che riesca a stabilizzarsi in
una fibra amiloide, quindi si potrebbe indirettamente dire che l’evoluzione ha portato a delle
sequenze amminoacidiche molto lunghe (di 300-500 aa) anche per minimizzare il rischio della fibra
amiloide. Infatti non è un caso che in molte di queste malattie conformazionali le proteine implicate
sono molto piccole, se non addirittura sono un frammento di una proteina, come nel caso della
proteina β dell’amiloide: il peptide β-amiloide è un frammento di una proteina.
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Infine, ci difendono dall’amiloide anche gli chaperoni, soprattutto a livello di folding, e i famosi
processi di degradazione visti in precedenza (ossia il proteasoma e l’autofagia mediata da
lisosoma).
Dall’immagine nella pagina successiva, infatti possiamo vedere una catena polipeptidica che si è
organizzata formando una protofibrilla. Quindi immaginiamo una struttura di polipeptide fatta ad U,
in cui due sequenze formano legami ad H con altre due sequenze per apposizione di altre
proteine, quindi si forma un altro foglietto β appiattito, perché altri peptidi si avvicinano ed
alimentano la lunghezza della protofibrilla.
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Lezione n°07 del 24.04.2018
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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide
Questo è un modello (quindi non esiste), e quelli che vediamo sono 4 protofilamenti associati, e
ognuno di essi, associati ed intrecciati tra loro, è fatto da un doppio foglietto β.
I tipi di aggregati possono essere diversi, e ci sono patologie in cui si osservano anche aggregati
amorfi, ma la caratteristica che accomuna il Parkinson, l’Huntington ecc, è l’esistenza di una
proteina prona alla formazione della fibra amiloide. Inoltre vengono prodotti sia aggregati
intracellulari che placche extracellulare (es placche amiloidi dell’Alzheimer). Soprattutto a livello
delle placche abbiamo un’organizzazione in struttura cross-beta, nonostante le differenze in
sequenze amminoacidiche e in funzioni delle proteine associate a queste malattie
neurodegenerative.
Quindi le malattie sono diverse, la struttura della fibrilla è la stessa, sia che parlo di malattie
prioniche, sia che parlo di Alzheimer che di sinucleina ecc
Però lo stato amiloide è uno stato generico, quindi in vitro posso trovare delle condizioni che
facilitano la formazione dello stato amiloide e queste condizioni sono in genere:
- Un abbassamento del pH, quindi un ambiente fortemente acido;
- L’innalzamento della temperatura;
- L’innalzamento della pressione.
Quindi evidentemente le proteine native esistono in equilibrio con le loro strutture parzialmente
foldate, e se sono particolarmente destabilizzate da delle condizioni anomali, o da delle mutazioni,
si può spostare l’equilibrio verso quegli aggregati che genereranno la struttura amiloide.
Esistono dei programmi che sono in grado di analizzare le sequenze amminoacidiche e predire la
presenza di regioni prone alla formazione o dell’amiloide o dell’aggregato amorfo, sempre
stabilizzato con β-sheets.
Alcune proteine, pur in condizioni fisiologiche di non aggregazione, sono però vicine al limite della
solubilità, sono il cosiddetto stato metastabile, e a questo punto è sufficiente una minima
perturbazione dell’omeostasi per produrre l’aggregazioni. I fattori che intervengono nel processo
sono i seguenti:
- le mutazioni
- le modifiche post-traduzionali
- alterazioni del sistema controllo qualità delle proteine (cioè alterazioni del proteostasis network
dovute ad età, malattia e stress)
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Lezione n°8 del 27.04.2018
Sbobinatore: Michele Berdini, Hajar Belaidi
Controllore: Alex Leso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine
MISFOLDING DISEASES
Cause di misfolding:
● Molte proteine coinvolte in patologie dovute a misfold contengono una o più
mutazioni che destabilizzano il fold corretto e stabilizzano lo stato misfolded;
● In aggiunta, in vivo il processo di folding è complicato dall’ambiente cellulare
«sovraffollato» di molecole: le proteine in ripiegamento sono bombardate da
collisioni altamente energetiche con altre proteine vicine (alterazioni del folding).
Difesa da misfolding:
● Chaperones: sono espressi costitutivamente e ulteriormente indotti in risposta
all’accumulo di proteine unfolded;
● Ubiquitina-Proteasoma;
● Autofagia;
● Degradazione associata a ER;
● Compartimentalizzazione.
Per le malattie da misfolding hanno particolare rilievo gli chaperoni e l'autofagia. Si parla in
particolare di autofagia mediata da chaperoni: le proteine espongono una sequenza
specifica KFERQ normalmente presente all'interno che viene riconosciuta da uno specifico
chaperone molecolare che destina le proteine al lisosoma dove vengono degradate ad
opera di enzimi idrolitici. Inoltre esiste anche la macroautofagia: forme misfolded e grossi
aggregati che sfuggono al sistema di proteasoma o autofagia vengono segregati in
autofagosomi delimitati da membrana, la quale andrà a fondersi con quella dei lisosomi
generando degradazione di questi macroaggregati.
Il processo di aggregazione parte dagli stati nativi e passa agli stati misfolded, che danno
origine ai semi di amiloide (amyloid seeds), che sono ancora dei piccoli aggregati
oligomerici. Quest'ultimi, per ulteriore apposizione di altre molecole solubili misfolded,
allungano la struttura generando le protofibrille e infine le fibre sempre più complesse. La
velocità di questo processo è molto critica: può dipendere dalla propensione della proteina
a formare struttura β, dalla propensione ad avere un certo grado di idrofobicità e dalla
lunghezza della catena polipeptidica.
Le patologie hanno un'ultrastruttura degli aggregati simile, ovvero un network centrale di
fibrille amiloidi.
MORBO DI ALZHEIMER
Malattia neurologica progressiva caratterizzata clinicamente dalla perdita della memoria,
deterioramento cognitivo fino alla demenza e, morfologicamente, dalla presenza nel
tessuto cerebrale di depositi amiloidi (placche) circondati da neuroni morti.
Il peptide β-amiloide è il maggior costituente delle placche amiloidi. Esiste in due versioni
Aβ1-42, Aβ1-40 ed ha origine dalla proteina APP (Amyloid Precursor Protein).
A seguito dell'azione di queste proteasi viene liberato il peptide che segue il suo percorso
di aggregazione nell'ambiente extracellulare.
Il taglio produce sia il peptide A1-40 sia A1-42 in un rapporto circa di 10 a 1 ed è molto più
amiloidogenico quello costituito da 42 residui amminoacidici.
I grovigli dipendono dalla proteina TAU. In una cellula nervosa sana questa proteina
interviene associandosi alle strutture che determinano i microtubuli partecipando alla
costituzione di questi sistemi di trasporto di elementi da un punto all'altro della cellula. In
situazioni di patologia di Alzheimer la proteina TAU è alterata per mutazione, per cambio di
espressione o per eccesso di fosforilazione e i microtubuli si disintegrano. Anche la
proteina TAU aggrega e tende a formare strutture fibrillari intercellulari.
MALATTIE DA PRIONI
Le malattie prioniche sono trasmissibili, progressive, fatali e sono associate a misfolding
della proteina prionica PrP e alla sua aggregazione.
PRION: proteinaceus Infective ONly particle.
L'aspetto infettivo è rappresentato dalla proteina stessa, ovvero dalla situazione di folding
in cui si trova. Il contagio è mediato dalla conformazione, ovvero non entra il dna nell'
individuo ma la proteina che poi causa la patologia. Nel complesso l'agente infettivo è
responsabile di encefalopatie spongiformi:
● SCRAPIE (ovini);
● ENCEFALOPATIA SPONGIFORME BOVINA (BSE);
● KURU (cannibalismo funerario in Papua Nuova Guinea);
● MALATTIA DI KREUTZFELDT-JAKOB (uomo).
La normale funzione della proteina non è nota; topi privati (‘Knock out‘) del gene che la
codifica risultano resistenti alla malattia da prioni, il che indica che è necessaria la
presenza della proteina normale per il determinarsi della malattia.
La trasmissione della malattia è orizzontale: viene trasmessa da un organismo all’altro
mediante il trasferimento di un nucleo di aggregazione che a contatto con la proteina
nativa induce la trasformazione nella direzione dell'aggregazione e della deposizione delle
fibrille, come accadde nel 1993 nel Regno Unito con la malattia della mucca pazza.
In un certo senso stiamo andando a smentire ciò che abbiamo detto finora, perché ci siamo
sempre basati sull'idea che un gene codifichi per una proteina (ossia per la sua sequenza
amminoacidica e indirettamente anche per la sua struttura tridimensionale, e dunque per la sua
funzione). In realtà non è sempre così: esistono proteine disordinate o, come vedremo, delle
regioni disordinate all'interno di sequenze proteiche più ordinate. Diviene qui critico il termine
“intrinsecamente”. Esso ci suggerisce che è proprio una determinata sequenza amminoacidica a
comportare il disordine, il quale è indice di flessibilità e di mobilità e di conseguenza di elevata
energia libera ed entropia.
Presentando questa famiglia di proteine introduciamo il concetto che una sequenza specifica
codifica per il disordine, a cui corrisponde una funzione specifica che di solito è una funzione di
legame, di interazione. Quindi stiamo introducendo un nuovo paradigma che associa anche al
disordine una possibile funzione.
Dal punto di vista dell'imbuto di energia libera nell'ipotesi dell'energy landscape, dobbiamo
allargare la nostra visione. Per una proteina normalmente foldata esiste una superficie di energia
potenziale caratterizzata da delle tasche di energia, corrispondenti agli intermedi del folding.
Questi riescono a superare delle piccole barriere energetiche e ad evolvere verso un piccolo
insieme di minimi di energia libera, corrispondente alla proteina strutturata. Nelle proteine poco
disordinate, dove il disordine non è competo, questa superficie ad imbuto perde la sua porzione
finale, quindi non esiste uno stato strutturato nativo con un minimo di energia libera. Esiste una
superficie molto più ampia di conformeri possibili con energia che cade all'interno di questi valori.
Quando la proteina è fortemente disordinata, essa rimane nella porzione più alta dell'imbuto,
corrispondente ai valori più alti di entropia ed energia libera. Tenterà di addentrarsi in qualche
minimo, ma in realtà tutto questo non la porterà mai ad un folding completo.
Nonostante il fatto che non assumano una forma specifica, queste proteine hanno una loro attività
biologica e sono caratterizzate da flessibilità massima dinamica e da instabilità strutturale,
codificate nella sequenza amminoacidica. Si parla, quindi, di strutture completamente
randomiche, ovvero di un numero n di conformeri completamente casuali, di molten globules o di
strutture di dominio dove il linker tra un dominio e l'altro è costituito da una regione destrutturata.
Ricordiamo che i molten globules sono delle strutture proteiche dove inizia ad agire l'effetto
idrofobico. Le regioni idrofobiche sono proiettate verso l'interno, la proteina acquista una
dimensione più compatta, anche se non compatta come quella di una globulare nativa, ed inizia ad
accennare elementi di una struttura secondaria.
Possiamo pensare al concetto di struttura delle proteine come un continuum di strutture. Esistono,
quindi:
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[PROF: “naturalmente non avrò molte pretese su questa parte delle proteine destrutturate. Non
sono entrata nel dettaglio, ho solamente accennato ad alcune funzioni che possono essere
mediate da esse”.]
LE VITAMINE
Sono dei micronutrienti organici, quindi piccole molecole organiche che entrano della
composizione della nostra nutrizione. Naturalmente, la quantità che ci serve di questi composti
varia dal milligrammo ai microgrammi. Per la maggior parte sono introdotte con la dieta e ce ne
sono alcune che possono essere sintetizzate in parte dall'organismo e da microrganismi ospiti del
nostro intestino. Non vengono utilizzate per produrre energia o per ruoli strutturali, ma fanno parte
di co-enzimi.
VITAMINA C
La storia della vitamina C è molto antica. Tra il 1600 e il 1800 ci sono stati i viaggi dei grandi
esploratori e nelle navi da trasporto che venivano usate 1 milione di navigatori circa moriva di
scorbuto. Questo perché evidentemente non era disponibile l'accesso a quei nutrienti che
contenevano la vitamina in trattazione. Nel 1536 ci sono state molte perdite tra gli equipaggi, ma ci
si accorse che i nativi americani curavano lo scorbuto con il tè al cedro (prime osservazioni
sperimentali). E' solo intorno al 1930 che si trova la soluzione allo scorbuto: la vitamina C (o acido
ascorbico, nome chimico formale della molecola), che iniziò ad essere isolata come acido
esuronico dal surrene di bue, dalla paprika e dal succo di arancia. In molti alimenti confezionati si
trova spesso l'addizione di acido ascorbico, perché esso è un potente agente conservante
antiossidante.
Dov'è contenuta è oggi ben risaputo: negli agrumi, nei pomodori, nei vegetali a foglia verde, ecc...
E' da notare che in soluzione acquosa si altera molto rapidamente, sopratutto in presenza di
ossigeno, il che già ci fa presagire il suo potere antiossidante.
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SCORBUTO
La vitamina C è indispensabile nella reazione di ossidrilazione della prolina e della lisina nel
collagene. Quindi è evidente che la malattia colpirà il tessuto connettivo. I sintomi principali sono:
• Stomatite emorragica
• Emorragie muscolari e cutanee
• Perdita dei denti
• Insufficiente cicatrizzazione delle ferite e apertura delle ferite più vecchie
• Dolore
• Degenerazione delle ossa
Anche il consumo di alcolici ed il fumo sono fattori compromettenti della quota di vitamina C che
introduciamo e i primi sintomi si manifestano quando la dose che assumiamo si riduce ad un
decimo di quella raccomandata (a partire da circa 10 mg al giorno). Essi rimangono latenti per due
o tre mesi e compaiono quando il valore plasmatico della vitamina C scende al di sotto delle 11
micromoli.
Le principali molecole che coinvolgono lo stress ossidativo sono l'anione superossido, che non è
altro che una molecola di ossigeno con un elettrone extra disaccoppiato, l'idroperossido e lo ione
idrossilico. Questi radicali interagiscono con i componenti della cellula strappando loro elettroni. In
questo modo diventano in forma ridotta, si stabilizzano, ma generano un moto radicale nella
molecola alla quale hanno sottratto elettroni. Questa tendenza a strappare elettroni da parte del
radicale ossidante, quindi, è il meccanismo alla base dello stress ossidativo.
Come si oppone la vitamina C a ciò? Quando cede un protone ed un elettrone (quindi perde un
idrogeno e si ossida) da origine ad un intermedio detto acido semideidroascorbico. In realtà ha
anche la capacità di perdere un altro elettrone e un altro protone, dando origine al'acidol
deidroascorbico, che è la formula con i gruppi alcolici trasformati in gruppi chetonici.
Quindi, nella trasformazione da specie ridotta a specie completamente ossidata essa può perdere
due elettroni e due protoni, operazione atta a favorire la neutralizzazione delle specie responsabili
del danno radicalico.
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Gli intermedi che si formano grazie all'interazione della vitamina C con gli enzimi coinvolti in queste
biosintesi possono essere schematizzati nel caso della prolina idrossilasi. La prolina idrossilasi
ha come substrato la prolina e in presenza di alfa-chetoglutarato, di ossigeno e di Fe2+ consente
l'introduzione di un atomo di ossigeno sulla prolina, generando la idrossiprolina. Il problema è che
in questa conversione il Fe2+ viene ossidato e si trasforma in Fe3+. Il compito di vitamina C,
dunque, è quello di contrastare o revertire l'ossidazione del ferro e di fornirgli gli elettroni sufficienti
per poter ritornare al suo stato ridotto. Infatti, se il ferro viene mantenuto nel suo stato ridotto può
continuare a partecipare alla catalisi dell'idrossilazione della prolina.
TRASPORTO DELL’OSSIGENO
Il continuo rifornimento di ossigeno è fondamentale per la vita degli esseri viventi aerobi. Questo
processo è differente nei vari organismi, in particolare dipende dalle dimensioni, infatti una cellula
singola non ha bisogno di sistemi di cattura e di trasporto di ossigeno poiché può riceverlo
semplicemente attraverso la sua superficie. Questo è dovuto a una legge della fisica la quale dice
che “più un oggetto è di dimensioni ridotte maggiore è il rapporto tra la sua superficie e volume
interno”. Questo significa che vi è minore distanza tra la superficie e l’interno della cellula, di
conseguenza l’ossigeno può penetrare per diffusione in funzione del gradiente di concentrazione
riuscendo a raggiungere qualunque punto dell’oggetto. Tutto ciò non può avvenire negli organismi
pluricellulari che superano determinate dimensioni, come ad esempio l’uomo, considerato un
organismo pluricellulare grande. Esso ha bisogno di dotarsi di meccanismi di cattura e trasporto di
O2 poiché altrimenti le parti più interne non verranno mai raggiunte da una quantità adeguata di
ossigeno.
L’uomo ha una temperatura corporea di circa 37° che è considerata abbastanza elevata e di fatto la
concentrazione di ossigeno disciolto nell’acqua del nostro impianto vascolare è 2,3 ml di O2 per litro
di plasma.
All’interno del sangue invece l’ossigeno è trasportato grazie a una proteina chiamata emoglobina
la quale non è libera nel flusso vascolare ma è contenuta all’interno degli eritrociti, cellule a termine
prive di qualsiasi ulteriore organo come nucleo e mitocondri ma ricchi di essa.
Dati:
Considerando complessivamente l’ematocrito (quota di elementi corpuscolati nel sangue) è
possibile riscontrare che in 1L di sangue vi sono 150 g di emoglobina corrispondenti a circa il 15%
del totale. 1 g di Hb è in grado di legare 1,34 mL di ossigeno. Di conseguenza la presenza
dell’emoglobina nel sangue fa sì che il livello trasportato diventi 200 mL/L poiché:
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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
Di conseguenza l’emoglobina aumenta di circa 100 volte la capacità di trasportare ossigeno nel
sangue e inoltre, considerando che 200 mL/L corrispondono al 20% e che la percentuale di ossigeno
nell’aria è circa 21%, possiamo riscontrare che l’emoglobina ha un’enorme capacità di cattura tanto
da trasformare il sangue in aria.
Il 98% dell’ossigeno nel sangue circola in forma legata attraverso un’interazione reversibile poiché
l’emoglobina grazie alla sua intelligenza biochimica è in grado di catturare l’ossigeno nei polmoni
ma anche di cederlo nelle zone periferiche.
Output cardiaco
Il cuore di un uomo adulto a riposo di dimensioni corporee normali pompa circa 5 litri di sangue al
minuto. Considerando che l’uomo ne possiede circa 5 litri ciò significa che in 1 minuto tutto il sangue
dell’individuo preso in considerazione passa attraverso il cuore verso la periferia e viceversa. Quindi
quanto ossigeno ho trasportato?
L’intelligenza biochimica quindi si adatta anche all’attività, in base allo stato fisico della persona, che
sia a riposo o in movimento. Infatti, durante l’attività fisica è necessario un maggiore ricambio di
ossigeno perché i muscoli ne consumano una quantità maggiore rispetto a quando sono a riposo.
La tabella distingue la divisione tra sangue arterioso e venoso calcolando la pressione parziale dei
gas al loro interno secondo l’unità di misura dei millimetri di mercurio (mm Hg) e distingue la quantità
di gas libero e disciolto. I gas a cui fa riferimento sono:
• Ossigeno O2
• Anidride carbonica CO2
• Azoto N2
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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
1. Analisi ossigeno
Come detto in precedenza, l’ossigeno nel sangue è circa 20 mL/dL, di cui una minima parte libera e
una parte maggiore legata all’emoglobina. Quando il sangue arriva in periferia avviene lo scambio
dei gas, però quello che è possibile notare è che la quantità di ossigeno all’interno del sangue venoso
non è nulla come ci aspetteremmo, ma è solo diminuita. La quota di sangue disciolto si riduce da
0,29 a 0,12 e la quota legata si abbassa da 19,5 a 15,1, ovvero solo un quarto dell’ossigeno viene
ceduto in periferia, non tutto. Per comprendere bene il concetto immaginiamo il flusso sanguineo
come un nastro trasportatore che parte dai polmoni con un carico di ossigeno di 19,5 e che una volta
arrivato in periferia perde un quarto del suo totale arrivando a 15,1. Una volta completato questo
primo tragitto il sangue ritorna agli alveoli polmonari dove viene nuovamente saturato al fine di
riottenere un valore di 19,5. Quello che conta è la quota che viene continuamente ceduta e
successivamente ricaricata, non è necessario che si scarichi tutto ma l’importante è che vi sia una
cessione costante e continua.
Quesito: Rifacendoti ai valori dell’output cardiaco quanto tempo si riesce a stare in apnea
considerando che ogni minuto si perde un quarto dell’ossigeno? (In condizioni fisiche normali di
apnea a riposo).
Dato che ¼ corrisponde al 25% significa che ogni minuto perdo il 25% del mio ossigeno disponibile
in partenza. Considerando l’assenza di ricarica dell’ossigeno dovuta all’apnea, al termine del
secondo ricircolo vascolare avrò perso la metà del mio ossigeno disponibile, al terzo ¾ e al quarto
l’ossigeno totale, quindi in 4 min.
L’anidride carbonica è un gas che può essere trasportato sia liberamente nella componente acquosa
del sangue sia legato. La differenza tra sangue venoso e arterioso della componente libera è minima,
2,98 e 2,62, invece quella della componente legata è più rilevante, 49,7 e 46,4. Il legame tra CO 2 ed
emoglobina è reversibile e permette di cederla a livello polmonare e acquistarla a livello periferico,
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esattamente il contrario di quello che avviene per quanto riguarda il nastro trasportatore
dell’ossigeno.
3. Analisi azoto
È il gas più presente nell’atmosfera (oltre il 70%), ed è classificato come gas nobile. Nel sangue
viene trasportato unicamente sotto forma di componente libera e i suoi valori non differiscono tra
circolazione venosa e arteriosa poiché non viene coinvolto in meccanismi di metabolismo, non viene
modificato o estratto. Essendo un gas nobile, di conseguenza poco reattivo, non viene coinvolto nel
legame con l’emoglobina.
La presenza di questi gas all’interno della circolazione sanguinea può dare delle patologie, anche
mortali, in alcune situazioni quali le attività subacquee.
Come riportato in precedenza, uno dei parametri che condizionano la capacità di sciogliere gas
nell’acqua è la pressione, la quale è direttamente proporzionale alla solubilità dei gas.
Al fine di comprendere meglio questi concetti analizziamo l’esempio della bottiglietta d’acqua.
Osservando una bottiglietta di acqua gasata, a temperatura ambiente, appena comprata e chiusa,
noto che non vi sono movimenti di bollicine e la plastica al tatto risulta particolarmente rigida e
difficilmente deformabile. Quindi, in questa situazione vedo unicamente acqua trasparente e non
gas (anidride carbonica) poiché quest’ultimo è interamente disciolto nel liquido. Nel momento in cui
apro la bottiglietta noto delle bollicine salire verso l’alto e l’acqua schizzare. Questo avviene perché
quando il tappo è chiuso la CO2 è interamente disciolta dentro l’acqua poiché all’interno vi è una
pressione superiore rispetto a quella atmosferica, ma tolto il tappo la pressione cala
precipitosamente rendendo la CO2 insolubile e liberandola sotto forma di bollicine.
Questo fenomeno avviene anche nel nostro sangue quando la pressione aumenta, come ad
esempio sott’acqua, infatti ogni 10 m di profondità la pressione aumenta di 1 atm. Durante il periodo
di permanenza a una pressione maggiore rispetto a quella atmosferica tutti i gas si sciolgono nel
sangue, anche quelli che in condizioni normali sarebbero liberi come l’azoto. Al fine di non creare
danni, la risalita in superficie deve avvenire ad una velocità molto bassa facendo delle tappe di
ricompressione per eliminare bollicine. La troppa velocità in questa operazione causa la
trasformazione di tutti i gas in bollicine che scorrendo all’interno del flusso sanguineo possono
ostruire arteriole, soprattutto del sistema nervoso centrale, causando un blocco del trasporto del
sangue al cervello.
Se il danno è molto grave si ha la morte immediata. Quando invece si hanno i sintomi dell’embolia,
ma non ancora avvenuta, è possibile riassestare la propria pressione corporea all’interno delle
camere iperbariche, nelle quali l’individuo viene riportato alla pressione in cui era sott’acqua, in modo
tale da far risciogliere i gas nel sangue e successivamente tornare alla pressione atmosferica
lentamente. Il processo può durare anche 24-48 ore.
MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA
All’arrivo dell’ossigeno in periferia c’è bisogno di una molecola che sia in grado di strapparlo
all’emoglobina e di conservarlo localmente e temporaneamente in modo da costruire il deposito
periferico, fondamentale per le attività metaboliche delle cellule. Quindi, riassumendo, vi è bisogno
di una molecola motile (emoglobina), di una residente (mioglobina), che l’ossigeno passi dalla prima
alla seconda e che da quest’ultima possa essere tolto per partecipare ai processi cellulari.
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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
L’eme, gruppo eme o ematina, è un complesso chimico membro di una famiglia di composti
chiamati porfirine contenente un atomo di ferro. L’eme costituisce il gruppo prostetico, cioè la parte
non proteica della molecola. Esso non è esposto sulla superficie della mioglobina ma è inserito in
una fessura molto stretta. Dato che questo gruppo è in grado di catturare e legarsi all’ossigeno ci
aspetteremmo che sia esposto, invece è nascosto all’interno e le due pareti dell’incavo sono
tappezzate da amminoacidi idrofobici, in modo tale da non farlo venire a contatto con l’acqua.
Paragonandola alla struttura dell’emoglobina notiamo che quest’ultima è più complessa. Infatti la
mioglobina è costituita da un unico monomero e possiede una struttura terziaria globulare
compatta, l’emoglobina invece è costituita da quattro catene proteiche legate a vicenda,
apparentemente uguali, che formano la struttura quaternaria. 2 catene sono tra loro identiche, alfa
1 e alfa 2, le altre due sono uguali tra loro ma non alle prime due, beta 1 e beta 2.
La catena globinica, quella alfa emoglobinica e quella beta emoglobinica sono tutte differenti tra loro,
ovvero ci vogliono geni diversi per codificarle. Hanno una struttura terziaria che è quasi identica ma
non la struttura amminoacidica.
Mioglobina (balena): una catena polipeptidica di 153 residui amminoacidici (massa = 17,2 kD)
possiede un eme (massa = 652 D) e può legare un O2.
Emoglobina (umana): quattro catene polipeptidiche, due di 141 residui (α) e due di 146 residui (β);
massa molecolare = 64,45 kD. Ciascun polipeptide possiede un eme; il tetramero Hb può legare
quattro O2.
Come detto in precedenza l’emoglobina è costituita da 4 catene ognuna delle quali contiene un
gruppo prostetico, ognuno dei quali può catturare una molecola di ossigeno, quindi, quando la
proteina ne è completamente satura (a livello polmonare), ha legato 4 molecole di O2. Andando in
periferia e cedendo circa il 25% dell’ossigeno si può determinare che si sia persa una sola molecola
di O2. Di conseguenza, riprendendo l’esempio dell’apnea, possiamo capire perché al quarto minuto
vi sia una desaturazione completa di ossigeno.
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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
Si può notare che dentro questa struttura sono presenti 8 segmenti ad alpha elica, rappresentati da
“tubi” uniti tra loro e nominati con le lettere dell’alfabeto (A B C D E F G H). Tra un’alpha elica e l’altra
vi sono dei punti di giunzione, detti “gomiti”, che prendono il nome dalle lettere di giunzione (come,
per esempio, il gomito A-B). Si avvolgono a formare una struttura compatta.
All’interno delle catene di alpha elica vi è il gruppo Eme, al quale si avvicinano due amminoacidi
importanti (di cui si vede il gruppo R).
Gli esseri umani sono in grado di sintetizzare il gruppo Eme (non si tratta di una vitamina) a partire
dalla porfirina IX, che diventa protoporfirina IX quando lega il gruppo Eme. La porfirina IX è
chiamata anche “anello tetrapirrolico”: questo perché si tratta di un anello a 5 atomi di cui un azoto.
queste 4 strutture cicliche, che andranno a formare la protoporfirina IX, sono collegate tra loro da
dei ponti in modo da presentare il gruppo N verso l’interno di uno stesso piano rivolto verso il centro.
La protoporfirina IX ha la capacità di alloggiare al centro un atomo di ferro (che non sarebbe
sintetizzabile: infatti va mangiato!). All’interno del corpo umano, il ferro viene contenuto
principalmente nella emoglobina, nella mioglobina e nei citocromi.
Il ferro è in valenza 2+; in questa valenza è in grado di fare 6 legami covalenti di coordinazione: di
cui quattro perpendicolari su un piano e due (uno verso l’alto e uno verso il basso) perpendicolari a
tale piano. I primi quattro consistono nel legame tra ciascuno degli atomi di azoto dell’anello
tetapirrolico della porfirina ed il ferro, stabilizzando così quest’ ultimo al centro. Il quinto legame lega
l’atomo di azoto di un anello a 5 atomi, che è gruppo R di un residuo di istidina detto “istidina
prossimale” (“prossimale” perché è vicino) che permette di saldare covalentemente il gruppo Eme
alla catena proteica. Il sesto legame, infine, è quello che il ferro può fare con la molecola di ossigeno.
Tuttavia al sesto legame accade una cosa strana: il ferro, che presenta una valenza di 2+, legandosi
con un'altra molecola, dovrebbe donare un elettrone e passare ad una valenza di 3+; tuttavia, questo
non si verifica. Infatti, se il ferro passasse dalla valenza 2+ a quella 3+ (come quando viene a contatto
con l’acqua) si formerebbe un legame irreversibile e l’ossigeno non si staccherebbe più.
In questo caso, però, l’ossigeno non strappa un elettrone al ferro e il legame resta in questo modo
reversibile; la mioglobina è quindi in grado di slegare l’ossigeno quando necessario. Tale legame
deve sempre mantenere valenza 2+ ed è per questo che il gruppo eme va sempre “tenuto lontano”
dall’acqua nella “tasca”: perché altrimenti “arrugginirebbe” e non sarebbe più in grado di legare
l’ossigeno reversibilmente ma solo irreversibilmente.
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Lezione n°09 del 04.05.2018
Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
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Materia: Biochimica
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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
Questo è il motivo per il quale non si possono mettere gruppi Eme artificiali, ossia non protetti dalla
catena polipeptidica, nel sangue: perché non funzionerebbero.
L’ossigeno si riesce a bloccare in quell’area perché all’operazione non è concorre solo dal ferro, ma
vi sono anche altri amminoacidi che contribuiscono.
Il residuo di Istidina prossimale è detto anche Istidina F8, poiché l’ottavo amminoacido si presenta
sull’alpha elica F. L’Istidina F8 viene avvicinata e forma il quinto legame che ancora il sistema. Il
legame tra Fe e O2 non è un legame covalente perfetto (perché altrimenti il ferro diventerebbe 3+),
è una sorta di “mezzo legame”, ossia un’interazione molto debole.
La catena F8, arrotolandosi, avvicina altri tre amminoacidi al ferro che sono:
• una seconda Istidina E7, molto importante, che avvicina un gruppo H e forma un ponte
idrogeno con l’ossigeno. Quest’ultimo viene ulteriormente saldato da altre due interazioni
deboli con gli altri due amminoacidi, ossia:
• la Valina E11
• la Fenilalanina C-D1
Il ferro ed i tre amminoacidi bloccano in questo modo l’ossigeno, nonostante il ferro sia rimasto con
valenza 2+. Se si allontanano i tre amminoacidi, l’ossigeno rompe rapidamente il legame con il ferro
e viene rilasciato.
A legare e rilasciare l’ossigeno è il cambiamento conformazionale della catena proteica: “è
l’emoglobina a respirare, non siamo noi”; perché si chiude o si apre lasciando andare via l’ossigeno.
Senza la catena proteica non si riuscirebbe a respirare poiché il ferro si ossiderebbe.
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Lezione n°09 del 04.05.2018
Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
Controllore: Chiara Ciampi
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
Alcuni amminoacidi devono assolutamente essere gli stessi, come le Istidine (altrimenti non si
legherebbe il ferro) o quelli che determinano le curvature in modo da compattare la catena proteica
o quelle che legano l’ossigeno, mentre possono cambiare anche tutti gli amminoacidi di una alpha
elica, basta che non si cambi la struttura terziaria. Tutto ciò dimostra quanto sia importante la
struttura di una proteina.
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Lezione n°09 del 04.05.2018
Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
Controllore: Chiara Ciampi
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina
Si possono usare algoritmi che permettono di allineare le sequenze e contare quanti amminoacidi
sono diversi. Lo score è un valore di similitudine: il valore massimo è 1 (due molecole identiche).
Si può quindi calcolare la similitudine o l’omologia e classificare le molecole in grado di parentela o
similitudine. Sono moto più simile le catene alpha di un umano e di un cavallo che due catene alpha
globuliniche umane.
Si possono ricostruire in questo modo gli alberi filogenetici. Se io prendo una proteina e studio le
differenze tra tutti questi tipi di proteine di diverse specie, posso ottenere una retta che mostra i
cambiamenti della struttura amminoacidica nelle diverse ere. Possiamo capire anche la velocità di
mutazione intermedia: il citocromo C muta più lentamente. Dipende anche dalla funzione e
dall’l'importanza (il citocromo è molto più importante del fibrinogeno). Facendo questi studi si sono
riusciti a prevedere dei fossili, identificando i periodi di speciazione. Inoltre, sem pre grazie a questi
studi, si è riuscita a giustificare l’inesistenza delle razze umane: infatti “possono essere più vicini tra
loro un individuo caucasico e un negroide che due caucasici”.
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Lezione n°10 del 07.05.2018
Sbobinatore: Elena Roccon, Francesco Cannito
Controllore: Edoardo Farnè
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Saverio Bettuzzi
Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)
• La scoperta dell’albero filogenetico del Citocromo C, una proteina utilizzata per gli studi
evolutivi comparati in quanto presente nella catena di trasporto degli elettroni nei mitocondri
in tutti gli organismi viventi;
• La possibilità di prevedere in quale periodo si è verificata la biforcazione evolutiva ed
eventualmente ipotizzare l’esistenza di fossili risalenti a quel determinato periodo.
• Importanti aspetti strutturali e funzionali delle proteine: comparando le catene polipeptidiche
della mioglobina e dell’emoglobina si scopre che soltanto alcuni amminoacidi sono identici
e che la sostituzione degli altri non è casuale ma un residuo amminoacidico viene sempre
sostituito da un residuo amminoacidico con caratteristiche chimiche equivalenti in modo da
mantenere conservata la struttura terziaria.
• Il fatto che determinate sequenze rimangano conservate più di altre dipende dal fatto che
certe mutazioni (che avvengono sempre in maniera casuale interessando qualunque
nucleotide) non sono compatibili con la sopravvivenza. Le mutazioni avvengono ma
rimangono radicate nel genoma solo se l’individuo mutato sopravvive e si riproduce.
Il ruolo giocato dall’emoglobina e dalla mioglobina è diverso: l’Hb è una molecola di periferia che
deve saper prelevare ossigeno dai polmoni e portarlo ad un'altra proteina residente nelle cellule
che è la mioglobina (Mb); Hb e Mb pur essendo simili in termini presentano una differenza
radicale: Hb è un tetramero (quindi ha una struttura quaternaria) con quattro gruppi prostetici in
grado di legare ossigeno , Mb è un monomero (quindi ha una struttura terziaria) con un solo
gruppo prostetico in grado di legare ossigeno.
L’emoglobina in realtà nasce come dimero per poi divenire tetramero determinando uno ‘shifting’
da struttura terziaria a quaternaria che comporta un aumento delle capacita funzionali adatte allo
svolgimento del suo compito.
Per affrontare il nuovo argomento è opportuno riprendere alcune nozioni di matematica sulle
funzioni:
1) Una funzione è una legge che associa ad ogni valore di x un valore a y. Quindi ad un
valore di x deve corrispondere uno e uno solo valore di y (nel caso di una curva sigmoide).
2) La curva associata alla funzione viene rappresentata su un sistema di assi cartesiani.
(figura 1)
In questo caso sull’asse delle ascisse pongo la quantità di ossigeno che somministro (in mmHg
essendo un gas) mentre sull’asse delle ordinate la percentuale di saturazione dell’emoglobina
(in %).
SPIEGAZIONE CURVA SIGMOIDE EMOGLOBINA
Come è stata determinata la curva? Prendo una serie di provette (possibilmente un numero
elevato essendo ciascuna di queste un punto di determinazione) e inserisco all’interno la stessa
quantità di emoglobina (affinché siano identiche è necessario che il campione di sangue sia del
medesimo individuo e che ogni provetta contenga la stessa quantità del fluido); tutte le provette
devono essere sotto azoto in modo che l’atmosfera interna sia priva di ossigeno.
Considero la prima provetta e le do un valore di mmHg di ossigeno pari a zero perché l’atmosfera
interna contiene solo azoto: PaO2= 0 di conseguenza anche SaO2%=0 perché nessun sito di
legame dell’emoglobina è saturato dall’ossigeno (essendo assente nella provetta). Quindi la curva
parte dall’origine perché l’Hb è tutta deossi, tutti e 4 i siti di legame sono liberi e non impegnati
dall’ossigeno.
Considero le altre provette e immetto quantità progressivamente crescenti di O2: ad un valore di
PaO2 pari a 120mmHg ho immesso la quantità massima di ossigeno possibile ovvero la provetta
ha una quantità di ossigeno interno pari a quello atmosferico a quota 0 di altitudine. Quindi il valore
massimo di PaO2= 120mmHg mentre SaO2 tende ad infinito perché l’emoglobina teoricamente
dovrebbe avere un grado si saturazione pari al 100% (tutti e 4 i siti di legame dell’ossigeno sono
saturi) ma sperimentalmente l’Hb non sarà mai satura al 100% perché sono legami reversibili.
PaO2= 120mmHg è un valore limite.
Infine calcolando il valore di SaO2% associato alle altre provette ottengo una curva del genere
(figura 1).
Che forma ha la curva e quali sono le sue caratteristiche? È una curva Sigmoide derivante dalla
fusione di due rami di iperbole con differente concavità: il primo ha concavità verso l’alto, il
secondo verso il basso; i due rami si fondono in un punto di flesso (punto a tangente verticale)
cambiando concavità. Il punto di flesso si trova nella regione più ripida dell’innalzamento della
curva (con valore di PaO2 leggermente superiore a 40mmHg).
Quali sono i valori fisiologici? Dato il comportamento sperimentale dell’emoglobina nel nostro
sistema cerchiamo di rapportare questo alla condizione reale del soggetto. Noi inspiriamo, entra
l’aria nei polmoni, qui incontra una quantità di aria già presente perché i polmoni non si svuotano
mai del tutto; è inoltre molto umida e questa umidita incide sul valore di PaO2 perché mangia una
quota di pressione. L’aria inspirata quindi non ha un valore di 120mmHg ma all’incirca tra 100 e
90mmHg ed è il valore del sangue arterioso.
Quando il sangue viene pompato dal cuore fino al polmone e va a permeare l’alveolo la SaO2% è
sostanzialmente vicino al 100%; tempestivamente il sangue abbandona l’alveolo polmonare e
viene spinto verso la periferia dove qui viene prelevato e utilizzato ossigeno dal metabolismo
cellulare. Per questo motivo la quantità del gas presente nella periferia non è la stessa di quella
che io trovo nel cuore.
Nel sangue venoso il valore è circa 40mmHg a cui corrisponde un valore di SaO2%=75% ovvero
significa che in periferia l’emoglobina ha perso 25% del suo carico di ossigeno. Il ciclo poi si ripete:
il sangue torna all’alveolo polmonare, si ricarica di ossigeno e decorre nuovamente verso la
periferia cedendo un 25%. Attraverso questo gioco Hb convoglia pacchetti di ossigeno di circa il
25% della sua quantità massima ogni volta che fa questo giro.
Tutto questo vale quando il soggetto è a riposo.
In attività fisica intensa i muscoli scheletrici e il cuore aumentano il loro metabolismo e catturano
più ossigeno; catturando piu ossigeno il valore di PaO2 in periferia diminuisce. Nel sangue venoso
di un soggetto a riposo io ho un valore di PaO2 in periferia di circa 40mmHg mentre nel sangue
venoso di un soggetto sottoposto ad un esercizio fisico intenso il valore può scendere a 15-
20mmHg (ovviamente il tutto dipende dal tipo e dalla quantità di sforzo fisico a cui si è sottoposti).
A 40mmHg SaO2%= 75% mentre con PaO2= 12-20mmHg SaO2%= 25%, cosa sta succedendo?
L’emoglobina quando va al polmone si carica uguale ma quando va in periferia invece di scaricare
un pacchetto di 25% scarica un pacchetto di 75% che è la differenza tra la saturazione polmonare
e la saturazione del tessuto di un soggetto che fa attività fisica. Questo è dovuto alla saturazione
della curva perché nella zona tra sangue periferico a riposo e sangue periferico sottoposto a sforzo
fisico c’è la massima impennata della curva, le massime differenze. In questo range piccole
differenze di ossigeno fanno rilasciare grandi quantità di ossigeno dall’emoglobina. Dunque esiste
un meccanismo molecolare che consente all’emoglobina di percepire quanto ossigeno c’è
nell’ambiente e se ce n’è tanto si satura, se ce n’è meno ne cede e se ce n’è ancora meno ne cede
ancora di più.
La capacita che ha Hb di legare O2 si chiama affinità (affinità verso il ligando naturale che è O2)
ed è variabile:-
- È molto affine nel polmone cioè quando di ossigeno ce n’è molto.
- È meno affine nel sangue periferico a riposo cioè quando di ossigeno ce n’è poco e lo
cede.
- È ancora meno affine nel sangue periferico di un soggetto sotto sforzo fisico e ne cede
ancora di più.
L’affinità dell’Hb dipende quindi dalla quantità di ossigeno presente nel sistema.
In questo modo può espletare al meglio la sua funzione e soddisfare le richieste dell’organismo.
Durante un esercizio fisico intenso aumentano altri valori fisiologici (attività respiratorio, gittata
cardiaca, volume di scambio respiratorio) ma se l’Hb non avesse questa proprietà non riusciremmo
a compiere uno sforzo fisico perché da sola triplica la quantità di ossigeno da cedere alla periferia.
La forma della curva che è Sigmoide e che ha questa particolare inclinazione molto accentuata
nella fascia 40-15 mmHg (fascia tra ossigeno di un soggetto a riposo e ossigeno di un soggetto
sottoposto a sforzo fisico) mi dimostra che l’affinità è variabile ed è inversamente proporzionale
alla quantità di ossigeno (+ ossigeno c’è e – è affine, - ossigeno c’è e + è affine).
Per valori più bassi ovvero per valori non più fisiologici ma patologici il soggetto sta andando
incontro a cianosi, ischemia, anossia.
Per questo motivo escludiamo valori sotto al 15mmHg e sopra al 100mmHg quando studiamo Hb
per ragioni fisiologiche.
CONFRONTO EMOGLOBINA E MIOGLOBINA
(Figura 2)
comportamento delle due molecole nel range del sangue periferico quando il soggetto è a riposo
oppure è sotto sforzo (in figura2 è rappresentato rispettivamente dalla colonna rossa e dalla
colonna blu)
L’Hb abbiamo già visto che nel primo caso cede il 25% di O2 (SaO2%=75%) , nel secondo il 75%
(SaO2%= 25%) mentre Mb nel primo caso ha un valore di SaO2% all’incirca vicino al 100%, nel
secondo SaO2% è ancora uguale al 100%.
La Mioglobina ha una curva Iperbolica, un ramo di iperbole molto schiacciato verso l’asse delle
ordinate.
La curva di Mb è sempre sopra quella di Hb e ciò significa che per qualunque valore di PaO2 la
mioglobina è sempre più satura dell’emoglobina.
Quindi nel range di valori fisiologici l’affinità della Mb per l’O2 è costante e sempre maggiore
dell’Hb.
Chi ha preso l’ossigeno ceduto dall’emoglobina? Abbiamo detto che l’Hb nei polmoni si ricarica al
100% mentre in periferia cede un 25% in condizioni di riposo o un 75% in condizioni di stress
fisico. L’accettore di quel 25 o 75% è la Mioglobina per questo questo motivo Mb deve avere un’
affinità sempre maggiore perché deve catturare l’O2 rilasciato da Hb.
Questo permette un passaggio di O2 dall’alveolo ad Hb, da Hb a Mb che si satura al 100% anche
quando siamo sotto sforzo fisico. Il passaggio dunque è unidirezionale: Hb→Mb e mai viceversa
perché l’affinità di quest’ultima è costante e sempre superiore a quella di Hb nel range fisiologico.
Anche il legame dell’Mb è reversibile che si sposta verso destra o verso sinistra a seconda
dell’azione di massa: se c’è molto ossigeno viene portato via, se rubo ossigeno l’equilibrio si
sposta verso destra.
Chi ruba l’ossigeno all’Mb? I mitocondri. Dentro alle cellule c’è un PaO2= 5-3mmHg e osservando
il grafico notiamo un notevole ripidità della curva in questo range; a questi valori l’Mb si scarica
parecchio e scendendo si scarica totalmente (ischemia). Quindi per valori più bassi di 5mmHg il
crollo della curva dimostra che l’Mb a questi valori cede O2 al mitocondrio che lo utilizzerà per la
fosforilazione ossidativa.
Potremmo infatti paragonare la figura del medico a quella di un meccanico: un’auto danneggiata
necessita di una o più specifiche riparazioni al pezzo non più funzionante, sia esso un ingranaggio,
l’impianto elettrico, il motore o qualsiasi altro dispositivo. E’ fondamentale una perfetta conoscenza
della meccanica per poter aggiustare l’automobile, altriementi si rischia solo di danneggiarla. In tutto
ciò, esattamente come avviene per il mestiere del medico, non esiste alcuna componente di
creatività o di estro artistico: il paziente che presenta un disturbo dovrebbe ricevere da qualsiasi
specialista egli consulti la stessa diagnosi e la stessa terapia.
Dunque è importante dedicare del tempo a capire come funziona la macchina umana, di
conseguenza il meccanismo che si è inceppato e gli strumenti necessari a coglierne il
malfunzionamento (le analisi sono fondamentali per formulare ipotesi diagnostiche e in seguito una
corretta diagnosi). Naturalmente a ciò deve seguire la prescrizione della terapia più adatta, sia essa
individualizzata o anche molto complessa, e un adeguato controllo del suo corretto funzionamento.
Si ricorda che l’emoglobina ha un’affinità variabile per l’ossigeno, la quale dipende dalla sua
presenza e che ha come conseguenza una curva di saturazione sigmoide: maggiore è il quantitativo
di ossigeno disponibile, maggiore è l’affinità dell’emoglobina per esso.
Osservando la curva di saturazione iperbolica della mioglobina, che corrisponde ad un’affinità
costante per l’ossigeno, notiamo che essa si mantiene sempre a valori più alti rispetti a quella
dell’emoglobina (infatti le molecole di ossigeno rilasciate dall’emoglobina sono catturate della
mioglobina nel tessuto periferico, dove la pressione parziale di questo gas è circa 40mmHg).
Elemento fondamentale che contraddistingue queste due proteine è il loro essere rispettivamente
un monomero ed un tetramero, ossia l’avere l’una struttura terziaria e l’altra quaternaria. Proprio da
ciò deriva il loro differente comportamento molecolare. La plasticità e la duttilità dell’emoglobina alle
richieste dell’organismo non dipendono da altro se non da questo, e così il comportamento più
“rigido” della mioglobina che mantiene la stessa elevata affinità per l’ossigeno durante tutto il
processo.
STRUTTURA DELL’EMOGLOBINA
Osservando una rappresentazione simbolica delle quattro subunità dell’emoglobina, che le
conferiscono una struttura quaternaria (essa è correlata non al numero di subunità, quanto al fatto
che ce ne siano più di due legate fra di loro), ci si accorge che sono uguali due a due: ci sono due
subunità α e due subunità β.
Soffermandosi ora sul modo in cui sono legate bisogna ricordare che sono possibili varie diverse
disposizioni, tuttavia quella comunemente presente (e funzionante) è pressappoco glomerulare, ed
ogni subunità contiene il gruppo eme che porta il ferro centralmente, con il sito di legame per
l’ossigeno. In mezzo a questa struttura è presente uno spazio, più o meno ampio in base al fatto che
l’ossigeno sia o meno legato, che riveste un ruolo fondamentale (verrà analizzato in seguito).
Ogni singola subunità presenta una struttura terziaria con le caratteristiche descritte
precedentemente, ad esempio la presenza dell'istidina prossimale e di quella distale.
Si immagini di aprire le quattro catene proteiche dall'estremità amminoterminale a quella
carbossiterminale, allo scopo di comprendere ciò che tiene unite queste quattro subunità convolute.
Ordinati secondo la forza di legame (escludendo i legami covalenti, che “fonderebbero” più subunità
in una unica), si trovano legami ionici, ponti idrogeno e interazioni idrofobiche o forze di Van del
Waals. Tutti questi concorrono a tenere unite le quattro subunità, ma il ruolo più rilevante è costituiti
dai ponti salini o legami ionici fra molecole con cariche elettriche opposte che si attraggono.
In particolare si osservano:
• un legame ionico fra il carbossiterminale (COO -) della catena β2 e la carica positiva di un
residuo di lisina nella regione amminoterminale della catena α1;
• due ponti salini interni fra vari residui fra la α1 e la α2, oltre a quelli che si possono stabilire
fra un terminale amminico ed uno carbossilico di catene diverse.
Le subunità α1 e α2 sono legate più strettamente da quattro ponti salini, con le altre solo da due.
E’ facile comprendere che se si interviene su una subunità cambiando la sua conformazione tutte le
altre sono influenzate da ciò, essendo legate.
Intorno agli anni ‘70 venne fatto un esperimento semplice, tuttavia illuminante. Metodi di purificazione
e cristallizzazione delle proteine (studiati nelle lezioni precedenti, in particolare la purificazione si
svolge in condizioni difficili da ottenere, ad esempio per precipitazione delle proteine in cristalli in
provette in presenza di azoto) sono stati applicati all’emoglobina.
Si è visto che se i cristalli sono sottoposti all’ossigeno si spezzano e ciò ha messo in luce il fatto che,
durante questo processo, una modificazione conformazionale doveva necessariamente essere
avvenuta, in quanto l’emoglobina in cristalli non è compatibile con la presenza di ossigeno legato ad
essa.
Osservando dei modelli rappresentanti la molecola di emoglobina con e senza ossigeno legato si
nota che le due proteine sono simili, ma non uguali. Lo spazio interno si apre creando un varco più
ampio (stato T teso, con deossiemoglobina) o si restringe (stato R rilassato, in presenza di
ossiemoglobina) in base alla presenza del legame.
Il gruppo eme ha una struttura planare, al centro del quale è contenuto il ferro. In assenza di ossigeno
esso risulta leggermente concavo e il ferro non è perfettamente equatoriale, ma è leggermente
spostato verso sinistra, determinando due emisferi di dimensioni diverse. Ciò è dovuto al fatto che
la catena α che contiene l’istidina prossimale aggancia il quinto legame del ferro e lo tira creando
tensione nella struttura terziaria della catena globinica. Il gruppo eme viene di conseguenza piegato
ed attratto, mentre il sito per il sesto legame del ferro viene allontanato, rendendosi meno disponibile.
L’ossiemoglobina, grazie al legame con l’ossigeno, equilibra la struttura: l’istidina dell’α-elica 7 in
posizione 8 e l’ossigeno “tirano” da posizioni opposte e portano il gruppo eme diritto con il ferro
perfettamente centrale, che si sposta esternamente rispetto a quello della deossiemoglobina. Quindi
viene indotto un cambiamento conformazionale a partire dall’α-elica 7 che si estende all’intera
molecola.
Ciò accade anche nella mioglobina? Quando la molecola di ossigeno si lega al ferro, esso si sposta
centralmente e determina una variazione conformazionale nella molecola della mioglobina. Quindi
la risposta è sì, dato che la struttura terziaria è la stessa.
La differenza è che questo cambiamento non si trasmette ad altre subunità, dato che si tratta di
monomeri, né alle altre molecole. Il tempo impiegato da ogni molecola di ossigeno per legarsi a
qualsiasi molecola di miogobina è dunque lo stesso.
Tale numero è denominato coefficiente di Hill. Esso corrisponde al numero di siti di legame
dell'emoglobina per l'ossigeno.
Perché 3,4? Ciò è dovuto al fatto che mediamente l'emoglobina non satura il 100% dell'ossigeno
che è a sua disposizione: alcune molecole di emoglobina trasportano 4 molecole di ossigeno, mentre
altre solo tre, pertanto si fa una media.
Tale numero corrisponde perciò alla capacità reale di legame e al numero di siti di legame realmente
impegnati dai ligandi. Il grafico di Hill dimostra di nuovo la cooperatività positiva, data dalla fusione
di due rette a diverso coefficiente angolare. L'effetto cooperativo positivo si dice anche omotropo od
omotropico ad indicare che il cambiamento conformazionale determinato dallo stesso ligando.
Allo stesso modo esistono anche effetti eterotropi fondamentali per l'adattamento alle varie funzioni
dell'organismo: ci sono molecole diverse dal ligando che cambiano la conformazione
dell'emoglobina.
Considerando dei campioni di sangue contenenti tutti la stessa quantità di emoglobina: sappiamo
che quando arriva l'ossigeno varia la conformazione delle subunità. Ogni molecola è un cerchietto
diviso in quattro subunità, con un vuoto centrale: quando la subunità lega O2 viene rappresentata
con un colore diverso e da una struttura meno definita, che ci ricorda la conformazione nativa
glomerulare dell’emoglobina. È possibile sovrapporre tali rappresentazioni alla curva di saturazione
dell'emoglobina: il processo progressivamente aumenta la velocità, passando dallo Stato T teso allo
stato R rilassato fino a saturazione, come abbiamo detto non sempre completa (il tempo impegato
dipende dalla quantità di ossigeno nella miscela). Questa immagine è significativa dal momento che
mette in luce un elemento fondamentale nel processo di legame dell’ossigeno: lo spazio vuoto
compreso all'interno della molecola di emoglobina. Questo varco è maggiore allo stato teso, con la
deossiemoglobina, minore allo stato rilassato, con la ossiemoglobina. Analizzeremo questo aspetto
successivamente.
L’emoglobina non è un enzima, dal momento che lega la molecola di ossigeno e la restituisce nella
forma originaria, non provocando alcuna variazione chimica ma semplicemente legandola
reversibilmente e poi rilasciandola. Si dice quindi che l'ossigeno per l'emoglobina è un ligando,
mentre gli enzimi modificano dei substrati (costituiti da una o più molecole) catalizzando delle
reazioni chimiche nel sito attivo.
Il modello dell'emoglobina, che non è un enzima, si applica tuttavia agli enzimi per quanto riguarda
le modificazioni allosteriche. Esse sono tipiche di enzimi che hanno, oltre al sito attivo di legame per
il substrato, altri siti di legame diversi per altre molecole che danno interazioni allosteriche specifiche,
modulando l'attività (rendendola quindi più o meno efficiente nello svolgimento della sua funzione).
Ciò avviene grazie ad un ad un legame reversibile. Esse sono dette effettori o modulatori allosterici,
e agiscono sempre allo stesso modo, variando la conformazione della proteina per indurre o inibire
l’attività. Per l’emoglobina abbiamo il 2,3-bisfosfoglicerato (BGP), la CO2 e i protoni; queste molecole
hanno siti di legame specifici, diversi da quello contenente ferro per il legame con l’ossigeno. Ciò
caratterizza tutti gli enzimi con più subunità, che sono regolati in maniera allosterica.
maggiore rilascio di ossigeno. Dal punto di vista conformazionale lo spostamento verso destra
implica una maggiore stabilità della forma tesa(T) rispetto a quella rilassata(R). Se lo shift è invece
verso sinistra la stessa quantità di ossigeno provoca una maggiore saturazione, in questo caso il
modulatore ha provocato un aumento di affinità per O 2. Lo spostamento verso sinistra causa la
transizione di conformazione dell’emoglobina verso la forma rilassata in cui tende a legare e
trattenere meglio l’ossigeno. Questi spostamenti sono importanti perché adattano l’affinità
dell’emoglobina alla quantità di ossigeno.
L’aumento di temperatura, che non è un modulatore ma un fenomeno fisico, sposta la curva verso
destra, ha quindi un effetto inibitore, anche se non si tratta di inibizione allosterica. 2,3-
bisfosfoglicerato (BPG) e anidride carbonica sono invece modulatori e hanno lo stesso effetto
inibitore.
Un altro effetto importante è la variazione di pH. Se il pH diminuisce aumenta la concentrazione
dello ione H+, anche questo possiede proprietà di inibitore allosterico e dunque sposta la curva
verso destra. Tenendo presente che il pH fisiologico di una cellula è 7.4 e che vengono tollerate
variazioni dell’ordine di decimi di pH, considerando un intervallo 7.38<pH< 7.43 si avranno notevoli
variazioni della curva.
Complessivamente un aumento di ioni H + (diminuzione pH), CO₂ e BPG, spostano la curva
sigmoide di emoglobina verso destra, ovvero sono inibitori allosterici.
Come da grafico osserviamo che a livello polmonare l’emoglobina satura completamente anche se
shiftata a destra senza troppa differenza. A livello tissutale periferico invece lo shift a destra
permette una migliore cessione dell’ossigeno. L’obiettivo è rendere l’emoglobina nei tessuti
periferici efficiente a cedere l’ossigeno e ad adattare la cessione alle condizioni dell’organismo.
Questi modulatori negativi hanno questo tipo di effetto perché spostando la curva verso destra
inducono una maggiore cessione di ossigeno da parte dell’emoglobina e quindi una migliore
ossigenazione periferica.
EFFETTO BOHR
Come mai quando il pH diminuisce e aumenta la concentrazione di CO₂, l’emoglobina cede più
ossigeno?
CO₂ è un gas poco solubile a temperatura fisiologica (37°C). Bohr scopre che all’interno degli
eritrociti c’è un enzima, l’anidrasi carbonica, che è fondamentale, perché catalizza una reazione,
di per sé è spontanea, ma che non avviene con un’efficienza sufficiente. La reazione è CO₂ + H₂O
→ H2CO3.
H2CO3 è un acido che dissocia in H+ e HCO3-, in questa forma l’organismo risolve il problema della
bassa solubilità dell’anidride carbonica. La dissociazione dell’acido carbonico libera un protone H+,
per questo motivo l’acqua contenente più CO₂ è più acida. La reazione catalizzata dall’anidrasi
carbonica è una reazione reversibile il cui equilibrio viene spostato verso sinistra o destra a
Le proteine sono composte da molti amminoacidi che si distinguono tra di loro per il gruppo R e ci
sono dei gruppi R capaci di agire come acido o base e capaci quindi di accettare o donare protoni.
Quello che si è visto è che quando la CO₂ viene trasformata in acido carbonico questo si dissocia
e libera protoni che vanno a interagire con i gruppi R dell’emoglobina. Ad esempio un gruppo R
con un gruppo carbossilico, a pH fisiologico in forma ionizzata, COO-, legherà un protone libero,
annullando così la sua carica negativa. Analogamente un NH2 reagisce con un protone, diventa un
NH3+ generando una carica positiva. Legare protoni significa quindi modificare le cariche elettriche
dei gruppi R degli amminoacidi chiave. Il legame dei protoni alterando le cariche elettriche proprie
dell’emoglobina, altera la sua conformazione, che assume la conformazione T (tesa), quella
meno affine per l’ossigeno. Il legame dei protoni provoca un aumento del rilascio di O2.
C’è dunque una stretta correlazione tra il pH e la CO₂. L’aumento CO₂ comporta l’abbassamento
del pH, quindi la transizione nella forma T dell’emoglobina e quindi il rilascio di più ossigeno. La
CO₂ viene prodotta in periferia nell’attività metabolica. Proprio in periferia dove generiamo CO₂ il
sangue ha un pH leggermente più basso e questo comporta una maggiore cessione di ossigeno.
In questo modo emoglobina diventa più efficiente nel cedere ossigeno in periferia e questo è molto
vantaggioso. Viceversa quando si arriva al polmone l’equilibrio si sposta dall’altra parte, quindi i
protoni vengono sottratti all’emoglobina per generare H2CO3 che poi l’anidrasi carbonica scinde in
CO2 ed H₂O. La CO2 (gas) viene rilasciata nel polmone. La sottrazione dei protoni fa aumentare il
quindi il sangue nel polmone è un pochino più alcalino, in queste condizioni l’emoglobina cambia
conformazione e non è più T ma R e quindi più affine verso l’ossigeno satura più velocemente.
L’effetto Bohr rende l’emoglobina meno affine per l’ossigeno in periferia e più affine nel polmone,
dove ne cattura di più.
Si aggiunge poi un altro fenomeno: la CO₂ non viaggia libera, o almeno la maggior parte. Una
parte, dopo essere stata trasformata in acido carbonico dissociato viaggia legata all’emoglobina. Il
gruppo amino terminale delle catene globiniche NH3+ reagisce con l’HCO3- formando un legame
tra l’azoto ed il carbonio, il legame carbaminico. Queste specie chimiche vengono chiamate
“carbaminati”. Da notare che la formazione dei carbaminati altera le cariche elettriche nelle
catene globiniche con il risultato che quando si formano i carbaminati l’emoglobina si trova nella
forma T, cioè rilascia ossigeno. L’emoglobina o lega l’ossigeno o lega CO₂, ma mai entrambi.
Quando in periferia lega la CO₂, libera ossigeno, quando nel polmone lega l’ossigeno libera la
CO₂. I due fenomeni si influenzano a vicenda perché passano attraverso cambiamenti
conformazionali dell’emoglobina. Tutto questo sistema comporta una maggiore efficienza del
trasporto dell’ossigeno dal polmone alla periferia e della CO₂ dalla periferia al polmone. La CO₂
sciolta come gas è circa il 9%. La maggior parte della CO₂ prodotta dalle cellule, che si trova in
forma di HCO3- disciolto, il 13% sotto forma di carbaminati.
EFFETTO TAMPONE DELL’EMOGLOBINA
L’emoglobina lega e rilascia protoni e quindi fa parte del sistema tampone del sangue, in
particolare è la più importante proteina con effetto tampone. Il sangue ha una capacità di
tampone molto forte, è molto difficile alterare il pH del sangue. Si è visto che la capacità tampone
del sangue dipende direttamente dall’emoglobina, che è presente in grande quantità nel sangue
(circa 150g/L). Grazie alla capacità di cedere e legare protoni il 50% del potere tamponante del
sangue deriva direttamente dall’emoglobina. A questo si aggiunge il meccanismo isoidrico in cui
l’emoglobina è coinvolta in maniera indiretta che copre un altro 40%. Il restante 10% del sistema
tampone è ad opera degli altri meccanismi (tra cui quello operato dai fosfati).
Il sangue ha potere tamponante che è di tipo biologico, legato in particolare all’opera di
emoglobina e di anidrasi carbonica. L’emoglobina è composta da due catene 𝛼 e da due catene 𝛽,
la formazione dei carbaminati riguarda il gruppo amino terminale sia delle catene 𝛼 che delle
catene 𝛽. Quindi una molecola di emoglobina può legare fino a quattro ioni bicarbonato, formando
i carbaminati in tutte e quattro le estremità aminoterminali. Il legame dell'H +, coinvolge solo i gruppi
amino terminali delle catene beta, non tutti i gruppi amino terminali sono coinvolti nel legame di
questi protoni, mentre possono essere coinvolti gruppi R presenti sulla catena globinica. anche il
2,3-bisfosfoglicerato, come vedremo, viene legato dalle estremità aminoterminali delle catene beta
e non delle catene alfa.
RELAZIONE TRASPORTO DI O2 E CO2
Si vede che esiste una relazione inversa tra il legame con emoglobina di ossigeno e di CO₂.
A seguito dell’inspirazione, nell’alveolo polmonare si forma un gradiente di ossigeno in cui c’è più
ossigeno nell’aria alveolare ed ovviamente ce n’è meno nel sangue giunto lì dalla periferia. Per
gradiente, l’ossigeno è capace di attraversare le membrane biologiche sottili, come la parete
dell’alveolo ed il vaso capillare, e quindi passare nel sangue. Possiamo assumere che la quantità
di ossigeno presente nell’alveolo polmonare e quella presente nel sangue come gas sia la stessa.
Nell’alveolo, l'ossigeno appena inspirato incontra l’emoglobina insatura Hb. Quest’emoglobina lega
l’ossigeno formando l’ossiemoglobina HbO2. L’alta concentrazione di ossigeno influenza
positivamente l’affinità per O2 di emoglobina che satura più velocemente.
L’emoglobina satura viene trasportata dal sangue verso i tessuti in periferia. In quest'ambiente ci
si trova di fronte ad una concentrazione di ossigeno più bassa, cosa che ne favorisce il rilascio. Nel
tessuto periferico inoltre l'emoglobina entra in contatto con la mioglobina, abbondante nelle
cellule periferiche. L’ossigeno viene ceduto alla mioglobina, più affine rispetto ad Hb, che diventa
ossimioglobina, dalla ossimioglobina poi a sua volta l’ossigeno verrà strappato dai mitocondri per
compiere la respirazione cellulare. La cessione di ossigeno porta ossiemoglobina alla forma
deossiemoglobina. Contemporaneamente avviene l’attività di respirazione che consuma l’ossigeno
strappato alla mioglobina e produce CO₂ ed H₂O. Questa CO₂, per gradiente di concentrazione
(più concentrata all’interno della cellula che all’esterno), riesce a passare attraverso le membrane
biologiche e entra negli eritrociti, qui trova l’emoglobina deossi e anche l’anidrasi carbonica.
L’anidrasi carbonica catalizza la reazione CO₂ + H₂O → H2CO3, spostata in verso la formazione
dello ione carbonato per la legge dell’equilibrio di massa (tanta CO₂ e tanta acqua dato che
l’ambiente della cellula è acquoso). La reazione porta alla formazione H2CO3 che dissocia in H+ e
HCO3-. Questa reazione libera un protone che viene legato dall’emoglobina che diventa HHb+,
emoglobina protonata. Contemporaneamente avvengono due fenomeni: rilascio dell’ossigeno e
cattura dei protoni. L’emoglobina protonata adesso torna al cuore e viene pompata ai polmoni.
Della CO₂ in forma di ione carbonato, una percentuale attorno al 14-15% si lega all’emoglobina
mentre il resto rimane come ione disciolto nel sangue.
Quando arriva al polmone queste reazioni si rovesciano perché i gradienti di concentrazione si
invertono, al polmone ho meno CO₂ nell’aria esterna che nel sangue. La stessa anidrasi carbonica
catalizza quindi la reazione nel verso opposto HCO3- +H+→ CO2+H2O. I protoni vengono presi
dall’emoglobina. Perdendo i protoni l’emoglobina passa dalla forma T alla forma R e quindi cattura
più ossigeno. La CO₂ di nuovo in forma gassosa esce poi mediante l’espirazione poiché più
concentrata nel sangue che nell’aria alveolare. Il gradiente in entrata dell’ossigeno ed il gradiente
in uscita della CO₂ si influenzano a vicenda. L’entrata dell’ossigeno favorisce la fuoriuscita della
CO₂ o che l’uscita della CO₂ favorisce l’ingresso dell’ossigeno. I due fenomeni avvengono
contemporaneamente.
Si sottolinea ancora una volta il ruolo dell’anidrasi carbonica all’interno dell’eritrocita. Questa è
un'altra ragione per cui gli eritrociti devono essere intatti per poter funzionare perché è proprio
questa integrità che consente l’attività dell’anidrasi carbonica e permette la solubilizzazione della
CO₂ che diventa ione carbonato. Il legame degli H+ e la formazione dei carbaminati avvengono
contemporaneamente ed entrambi favoriscono la forma tesa dell’emoglobina e quindi il rilascio di
ossigeno, i due fenomeni si potenziano a vicenda.
Questo spostamento di cariche fa parte del trasporto isoidrico. Noi abbiamo spostato delle
cariche elettriche e generato ioni H+. Se io cambio le cariche elettriche all’interno dell’eritrocita,
dovrebbe cambia il suo potere osmotico. Un aumento delle cariche elettriche richiama acqua e la
cellula si gonfia, se io tolgo cariche elettriche invece l’acqua esce e quindi le cellule rischiano di
raggrinzire. In realtà questo trasporto è isoidrico, ed anche isoprotico. Ciò vuol dire che avviene
con variazione di potere osmotico minime. È stato misurato che c’è una minima differenza nelle
dimensioni degli eritrociti quando sono in periferia e quando sono nei polmoni, ma sono differenze
minime, per cui le cellule sono capaci di tollerare.
Adesso rivediamo ciò che accade all’interno dell’eritrocita e come influenza ciò che accade
all’esterno dell’eritrocita. Nel tessuto periferico si forma la CO₂ per effetto della respirazione
mitocondriale. La CO₂ per gradiente di diffusione entra, attraverso la membrana plasmatica
dell’eritrocita. Qui l’anidrasi carbonica catalizza la reazione CO₂ + H₂O, si forma H2CO3 il quale
dissocia in H+ e HCO3-. A questo punto l’H+ deve essere catturato dall’emoglobina che però è
satura di ossigeno in questo momento perché è giunta la periferia dal polmone. L’HbO2
contemporaneamente deve legare il protone e liberare l’ossigeno. Si ottiene HHb+. Poiché ho più
ossigeno dentro il sangue che nel tessuto, perché sono in periferia, questo esce e viene catturato
dalla mioglobina. Lo ione carbonato in parte viene legato per formare il carbaminato, il restante
78% esce dagli eritrociti, per bilanciare la cessione dello ione HCO3- viene acquisito dell’eritrocita
uno ione Cl-. In questo modo viene mantenuto l’equilibrio delle cariche. Adesso questo stesso
eritrocita arriva al polmone. Nel polmone, essendoci molto ossigeno nell’aria alveolare, per
gradiente di diffusione l’ossigeno entra nell’eritrocita ed incontra l’emoglobina protonata in forma T.
l’emoglobina protonata cede il protone all’anidrasi carbonica. La cessione del protone da parte di
Hb permette di far reagire HCO3- + H + → H2CO3 → CO₂ + H₂O, CO₂(gas) esce. Nel fare questo ho
strappato protoni all’emoglobina e quindi l’emoglobina passa dallo stato T (teso) allo stato R
(rilassato) e quindi cattura l’ossigeno. Lo ione carbonato che prima era stato pompato fuori
dall’eritrocita, ora viene richiamato all’interno e viene espulso lo ione cloruro. Questo equilibrio di
carica impedisce le variazioni osmotiche all’interno dell’eritrocita, che quindi ne esplode né
raggrinzisce.
2,3-BISFOSFOGLICERATO
Svolge un’importante funzione nell’adattamento fisiologico alla bassa pressione di ossigeno che si
ha ad esempio a quote elevate, quindi viene prodotto quando si va in alta quota. Più si va in alto
più vi sono problemi di adattamento dal momento che l’aria contiene meno ossigeno e gli scambi
diventano più difficili. Chi abita oltre ai 6000m è stato soggetto a mutazioni genetiche che gli hanno
permesso di adattarsi.
A livello del mare il BPG è circa 5mM, mentre a 2000m circa diventa 8mM.
In quota gli eritrociti aumentano la produzione di BPG causando lo spostamento della curva
sigmoide verso destra. Nel polmone fa poca differenza l’aumento di BPG, anche se in quota c’è
meno ossigeno l’emoglobina si satura comunque. Lo spostamento della curva tuttavia è rilevante
nei tessuti periferici dove implica che, con un aumento della concentrazione del BPG, l’emoglobina
cede più ossigeno. Per questo motivo in quota inizialmente ci si sente affaticati, ma una volta
aumentato il BPG (tempo circa 2/3 giorni) l’emoglobina ricomincia a cedere O 2 in periferia come a
livello del mare.
Il BPG adatta l’organismo all’altitudine, ma è
coinvolto anche in altri fenomeni. Aumenta
nei fumatori come adattamento perché il
fumo di sigaretta contrasta la capacità di
scambio polmonare.
Se il BPG è 0 la curva somiglia a quella della
mioglobina, bisogna avere almeno un 5mM
per una curva sigmoide.
Nel feto l’emoglobina fetale non lega il BPG
e per questo è molto più affine a O2 rispetto
all’emoglobina adulta materna a cui riesce a
sottrarre l’ossigeno.
la quantità di ossigeno è quella polmonare (pO 2>70 mmHg), quindi non influiscono sulla capacità
dell’emoglobina di saturarsi, mentre influiscono sulla sua capacità di cedere l’ossigeno nei tessuti
periferici. Dato un valore di O2 periferico, la curva dimostra che una maggiore concentrazione di
BPG favorisce la cessione dell’ossigeno da parte di emoglobina. Il BPG infatti favorisce
cambiamenti conformazionali che rendono Hb meno affine a O 2. Questi fenomeni concorrono a
definire l’emoglobina nel suo stato fisiologico.
SPECIE MOLECOLARI FISIOLOGICHE DELL’EMOGLOBINA
Le specie fisiologiche sono:
- Ossiemoglobina o deossiemoglobina, in relazione al suo legame o meno con l’ossigeno.
DeossiHb O2 HbO2
- Carbaminemoglobina, emoglobina lega fisiologicamente lo ione carbonato. La
carbaminemoglobina è quella che ha formato i carbaminati.
Hb CO2 carbaminoHb
- emoglobina protonata, emoglobina fisiologicamente può legare e rilasciare i protoni.
Hb H+ HHb+
Queste forme coesistono nell’organismo: l’emoglobina protonata è anche carbaminata e deossi,
mentre l’emoglobina ossi non ha i carbaminati e non ha legato protoni.
FORME ALTERNATIVE DI Hb
Ci sono forme fisiologiche alternative dell’emoglobina adulta, HbA formata da due catene α e due
β (α1α2β1β2), ad esempio la forma embrionale α1α2ε1ε2 corrispondente alle fasi iniziali dello
sviluppo e successivamente la forma fetale α1α2γ1γ2. L’emoglobina fetale è più affine all’ossigeno
rispetto a quella dell’adulto, essa infatti ha due catene γ al posto delle β e quindi non lega il BPG.
La bassissima affinità per il BPG rende la sua curva di saturazione spostata verso sinistra
permettendo di strappare O2 all’emoglobina materna.
Ci sono anche altre emoglobine, con una struttura quaternaria e catene globiniche differenti.
Hb−𝐶𝑂 cianometaemoglobina(HbCN-)
Lo ione cianuro si può trovare nelle acque inquinate in concentrazioni molto basse. Ha il sapore
delle mandorle amare da cui viene estratto. Il cianuro uccide perché blocca i mitocondri impedendo
loro l’uso dell’ossigeno. Anch’esso si lega al ferro del gruppo eme con un legame irreversibile
formando la cianometaemoglobina che non è più in grado di trasportare ossigeno.
Hb−𝐶𝑂 metaemoglobina(Fe3+)
Il gruppo eme è inserito in una tasca della catena globinica tappezzata da amminoacidi idrofobici
perché non vi deve entrare l’acqua. Il ferro deve rimanere con numero di ossidazione +2. Se
invece viene aggredito da un radicale dell’ossigeno cede un elettrone e si ossida a +3, si forma la
metaemoglobina che non è più funzionale perché lega ossigeno, ma non lo rilascia. A differenza
delle prime due, questa reazione è reversibile e il ferro +3 può essere ridotto a +2.
Una piccola quota di metaemoglobina c’è sempre nell’organismo, ma in percentuali molto basse
(0.5%). L’eritrocita ha un sistema di difesa che permette di rovesciare l’ossidazione, quindi ridurre il
ferro +3 a +2 consumando potere riducente. Questa è la seconda ragione di consumo del glucosio
nell’eritrocita. Il globulo rosso deve consumare ossigeno in una via metabolica, lo shunt del
glucosiofosfato in cui viene prodotto il potere riducente che permette di riportare la
metaemoglobina a emoglobina. Questo mette il fenomeno sotto controllo, tranne nei fumatori i
quali ne hanno di più perché ossidano l’emoglobina facendo saltare questo meccanismo.
Altre specie di interesse clinico sono le EMOGLOBINOPATIE.
Lo studio dell’emoglobina ha permesso di esprime il concetto di patologia molecolare: c’era una
malattia nota e ben caratterizzata per sintomi, progressione e prognosi della quale non si sapeva
esattamente la causa fino a quando non si è capito che si trattava del cambiamento di un singolo
amminoacido in una catena globinica. Quindi questa è stata la spiegazione chiave che ha
permesso di capire chiarificare le cause di queste patologie.
Esempio di patologia molecolare applicato all’emoglobina è l’anemia falciforme causata da una
forma alterata dell’emoglobina detta HbS.
Vi sono varie forme di anemia, ad oggi sono state individuate oltre 300 varianti genetiche delle
catene globiniche. Centinaia di mutazioni individuate che possono essere asintomatiche oppure
alterare la forma degli eritrociti.
Talassemia
Si distinguono α-talassemie e β-talassemie. Sono malattie nelle quali o la catena alfa o quella beta
non sono prodotte in maniera sufficiente. Nell’α-talassemia vi è poca catena alfa, mentre nella β-
talassemia vi è poca catena beta
Le α-talassemie sono letali perché la catena alfa è indispensabile. Senza questa il soggetto
sopravvive pochissimo.
Le β-talassemie sono più frequenti (perché il soggetto sopravvive). Può essere presente in forma
omozigote o eterozigote, è più frequente in eterozigosi in quanto meno debilitante.
Nel grafico possiamo vedere come queste catene variano dalla fecondazione alla fase adulta, dopo la nascita.
All’inizio quando si hanno poche cellule, nei primi stadi embrionali, ci sono 2 catene globiniche, epsilon (ε) e zeta
(ζ) che iniziano a comparire. Simultaneamente c’è anche la catena alfa: è presente fin dall’ inizio, da quando è
necessaria una molecola che ricordi la funzione dell’emoglobina, occorre quindi che ci sia sempre presente la
subunità alfa. Questa si origina subito e continua ad essere espressa ad alti livelli e mantiene la sua espressione
durante tutta la nostra vita.
La parte variante è la seconda
catena, che all’ inizio è la
catena zeta che crolla in un
tempo molto rapido perché
poi la sua espressione viene
quasi direttamente sostituita
dalla epsilon. Dopo un po’ di
tempo, in corrispondenza
della caduta della zeta e della
epsilon, inizia a salire la curva
corrispondente a gamma (γ)
(riga blu).
Ad esempio a meno sei mesi
dalla nascita la maggior parte
delle emoglobine è di tipo α1,
α2 e γ1, γ2 che sono quelle che prevalgono. Le prime catene zeta ed epsilon sono chiamate catene
emoglobiniche embrionali, della fase più precoce. La gamma poi è quella fetale perchè è quella che caratterizza
il feto. La subunità beta che è tipica dell’emoglobina dell’adulto comincia la sua espressione molto bassa circa
nove mesi prima della nascita, quindi in tempi precoci, però si mantiene a livelli di espressione molto bassi. La
grande differenza si ha alla nascita dove per l’alfa non cambia niente ma c’è una notevole inversione tra la
gamma e la beta. Ciò in termini di espressione genica significa che lo stress della nascita comporta lo
spegnimento dell’espressione della catena gamma che viene espressa sempre meno (dopo un anno ce n’è
ancora qualcosa), aumenta invece l’ espressione della beta. Se io ho un eritrocita che contiene al suo interno
catene alfa e gamma, questo non può più cambiare le sue catene perché è un elemento differenziato ma ha una
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vita determinata (dura all’ incirca 120gg) in quanto poi viene eliminato per eritrocateresi, soprattutto nella
milza, e poi sostituito.
Lo stimolo della nascita porta ad un’intensa distruzione di eritrociti di tipo fetale con l’ emoglobina alfa e gamma
e alla loro sostituzione con nuovi eritrociti (prodotti dal midollo) che invece hanno una diversa configurazione
con catene alfa e beta.
Il feto, prima di nascere, preleva l’ossigeno dal sangue materno attraverso la placenta. L’emoglobina fetale (α e
γ) ha scarsa affinità per il BPG cioè lo lega poco e ciò vuol dire che questa emoglobina ha maggior affinità nei
confronti dell’ossigeno rispetto all’ emoglobina materna (α e β) che invece lega il BPG risentendo così
dell’effetto di rilascio di ossigeno. In questo modo durante la vita del feto è possibile il passaggio dell’ossigeno
dall’emoglobina della madre a quella del feto. Quando il bambino nasce (prima le sue vie aeree non avevano
alcuna funzionalità) inizia a ricavare ossigeno dall’aria e ha quindi bisogno che la sua emoglobina sia adatta ad
attuare il ciclo polmonare, e la sostituzione delle catene globiniche degli eritrociti deve avvenire quindi molto
velocemente.
Questa intensa eritrocateresi provoca l’ittero del neonato: nei primi giorni dalla nascita la sua pelle assume una
colorazione giallastra perché il metabolismo del gruppo eme e delle proteine comporta la produzione di
birilubina che rilasciata in tempi molto rapidi va in circolo ad alta concentrazione e quindi provoca questa
particolare condizione tipica dell’ittero. I neonati proprio per questo sono particolarmente resistenti alla
tossicità della birilubina. Questi pigmenti biliari sono neurotossici e se si verificasse nell’adulto la stessa
concentrazione in circolo delle stesse molecole l’adulto avrebbe gravi conseguenze (coma). Questo nel bambino
non succede, questo viene chiamato infatti anche ittero fisiologico.
Nei mesi seguenti avverrà la completa sostituzione degli eritrociti fetali con quelli adulti (sei mesi circa), e in
questo periodo poi inizierà a comparire un’altra catena globinica, la delta (δ), che compare dopo la nascita ed ha
un livello di espressione molto bassa.
La talassemia è una malattia genetica in cui avviene una mutazione che impedisce l’espressione di determinati
geni con casi sia di eterozigosi che omozigosi (più gravi) che porta ad una carenza nella produzione di una catena
globinica.
Le alfa talassemie sono letali perché la subunità alfa non può essere sostituita ed è sempre necessaria, in special
modo lo è nell’omozigote che permette una sopravvivenza limitatissima del soggetto ma al tempo stesso è
anche molto rara. Anche la forma eterozigote è piuttosto grave.
Sono più frequenti invece nella popolazione le beta talassemie che implicano la difficoltà a produrre la subunità
beta, dove sempre l’omozigote è più grave mentre l’ eterozigote lo è meno. La beta talassemia è comunque
meno grave dell’alfa perché esiste una risposta adattativa da parte dei soggetti affetti. Anche se producono
meno subunità beta compensano o mantenendo la produzione della gamma o incrementando la produzione
della delta, cioè altre subunità vanno a sostituire in gran parte quella beta, ma sempre parzialmente perché
comunque questi soggetti hanno sintomi e sono portatori di malattia genetica in grado di trasmetterla alla
prole. Quindi la subunità beta può essere sostituita almeno parzialmente da altre subunità, e quindi si ha una
risposta adattativa e nel sangue degli adulti permane una certa quantità di emoglobina fetale.
L’anemia falciforme (HbS) è stato il primo caso di patologia molecolare descritto. Qui la mutazione è una
mutazione puntiforme che si trasmette geneticamente e che colpisce una sequenza emoglobinica dove nel caso
dell’RNA messaggero il codone
GAA viene sostituito da GUA
oppure GAG viene sostituito da
GUG (in entrambi i casi
un’adenina viene sostituita con
un uracile); ciò avviene in
particolare nel gene che codifica
per la subunità beta, quindi
nella subunità beta nella
posizione 6 (6° amminoacido)
un acido glutammico viene
sostituito da una valina. Questa
mutazione comporta una modifica di significato del codice, ma questo cambiamento di amminoacido non è
conservativo, in quanto l’acido glutammico è un amminoacido con carica elettrica negativa, la valina invece ha
un gruppo residuo idrofobico; quindi io vado ad abolire una carica elettrica e la vado a sostituire invece con un
gruppo R che può dare interazioni idrofobiche. Se io ho due molecole di emoglobina ognuna delle quali espone
verso l’esterno una carica elettrica negativa le cariche elettriche uguali si respingono e se io abolisco una di
queste cariche negative e ci metto invece un amminoacido di tipo idrofobico vado a stabilire una superficie di
interazione perché fra di loro questi interagiscono. Il risultato è che quando l’emoglobina trasporta l’ossigeno,
cioè è ossiemoglobina, la cosa non ha grande influenza, assume la conformazione rilassata e questa differenza
non si nota granchè, quando però l’emoglobina perde l’ossigeno, cioè è deossiemoglobina, e quindi assume la
conformazione tesa, espone questo
residuo verso l’esterno. Questo provoca
un cambiamento conformazionale e ciò
permette che un tetramero di emoglobina
e un altro tetramero di emoglobina se si
incontrano, si leghino assieme,
polimerizzino e precipitino e non siano più
solubili all’ interno del citoplasma degli
eritrociti. Quindi si formano delle catene
ingranate dove questa emoglobina deossi
che è diventata insolubile è precipitata
sotto forma di fibrille, è infatti diventata
sostanzialmente un’amiloide (la catena
proteica ha cambiato conformazione ed è
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denaturata e polimerizzando ha generato delle formazioni a forma di fibrilla e quando queste fibrille si
depositano all’ interno delle cellule o all’esterno di esse vengono chiamate amiloidi: fenomeno che è associato
anche a malattie neurodegenerative).
In questo caso è un’amiloide che colpisce gli eritrociti, il cambiamento conformazionale porta ad un’emoglobina
S; se si parla di omozigoti tutte le subunità beta avranno questa modifica, nel caso di eterozigoti sarà una sì e
una no. In questo caso la sostituzione di un singolo amminoacido ha un significato molto importante.
L’eritrocita ha forma falciforme perché ci
sono degli aghetti che hanno bucato la
membrana dell’eritrocita rompendola
(emolisi), questi aghetti dentro all’eritrocita
ne provocano la morte (si ha un’anemia) e
la forma falciforme è proprio data dalla
precipitazione di questi aghetti. Quindi o gli
aghetti rompono l’eritrocita e esso muore
oppure la milza quando vede passare
l’eritrocita deformato lo uccide perché lo
interpreta come difettoso. Quindi anche la
semplice modificazione morfologica di un
eritrocita è già sufficiente perché questo sia
esposto ad un’intensa eritrocateresi (invece di durare 120 gg viene ucciso nell’arco di poche ore) e quindi la
sintomatologia è di tipo anemico. Questa malattia genetica ha anche una diffusione geografica legata a come si
diffonde un gene all’interno di una popolazione in diverse aeree. La diffusione della HbS è notevole in
compresenza di un’altra malattia che è la malaria, diffusa da una particolare specie di zanzare che è l’anofele in
cui al suo interno può albergare un protozoo, il parassita plasmode della malaria; questo parassita fa un ciclo
riproduttivo in parte dentro al mammifero che è stato punto e in parte dentro al vettore (zanzara) in particolare
nelle sue ghiandole salivari. Quando la femmina di zanzara punge per risucchiare il sangue, necessario per far
maturare le uova, inietta la saliva che contiene un anticoagulante (ciò che irrita la pelle) che impedisce al sangue
una volta uscito dai vasi di coagulare. Iniettando la saliva contaminata dal plasmode lo trasferisce all’interno del
mammifero.
Ci sono vari tipi di parassiti. Sono note malattie malariche terzane e quaternane. Questo parassita una volta che
è stato iniettato nel sangue del soggetto la prima cosa che fa è entrare nell’eritrocita. Entra nella sua membrana
(è un parassita interno degli eritrociti) e ci sta dentro esattamente tre o quattro giorni che sono rispettivamente
la terzana e la quaternana. La terzana maligna è la più grave in assoluto, in quanto il plasmode sta dentro
l’eritrocita e si riproduce, terminati i tre giorni, esce dall’eritrocita facendolo esplodere, provocando l’emolisi di
quella cellula eritrocitaria, e poi infetta altri eritrociti, passano tre giorni e succede la stessa cosa, gli eritrociti
infettati esplodono e ne vengono infettati altri; è quindi una malattia che cresce in maniera esponenziale: ad
ogni ciclo aumenta sempre di più il numero dei parassiti. Dopo un po’ di tempo che è quello di incubazione il
soggetto inizia ad accusare un sintomo caratteristico perché quando gli eritrociti si rompono e il parassita esce
c’è una risposta febbrile, un’intensa crisi febbrile che si associa alla crisi emolitica. Questa crisi va in crescendo
esponenzialmente fino a che la crisi febbrile e emolitica sono talmente intense che uccidono il soggetto.
Potenzialmente in assenza di una cura o in assenza di strategie di controllo del vettore ha la potenzialità di
sterminare un’intera popolazione; per questo viene chiamata terzana maligna.
Esiste in questo caso una difesa umana che consiste nella HbS eterozigote, perché un soggetto portatore di
anemia falciforme in forma eterozigote ha una buona parte di eritrociti inadatta ad ospitare il parassita e quindi
si protegge. Di fatto quindi un soggetto sano colpito da terzana maligna muore per malaria, un soggetto Hbs
omozigote sopravvive alla malaria ma muore per anemia, il soggetto Hbs eterozigote con sintomatologia blanda
diventa adulto, può avere figli e trasmettere la malattia ed è sostanzialmente protetto dalla malaria; per questo
c’è sovrapposizione geografica tra le zone dove c’è l’HbS e dove c’è la malaria e viceversa.
Questo è un evento di evoluzione umana in atto dove la pressione selettiva dell’ambiente seleziona il genoma
adatto. Il genoma adatto dipende dall’ambiente perché nelle zone di malaria l’ HbS è considerato un vantaggio
evolutivo, cosa che non è invece in altre zone del mondo.
{Eugenetica: l’idea che esista un patrimonio genetico migliore non esiste scientificamente, non è una teoria
scientifica.}
{Conferenza di Asilomar: sono state messe in appunto le prime tecniche di clonazione ma si decide di
sospendere la sperimentazione e darsi delle regole e introducono il concetto di sicurezza intrinseca, cioè
l’applicazione di metodi e tecnologie che sono intrinsecamente sicuri.}
Alcune delle malattie geniche associate all’emoglobina non danno sintomi perché magari sono mutazioni che
non hanno alterato il meccanismo di funzionamento della catena emoglobinica e non hanno conseguenze gravi
e di solito prendono il nome delle località in cui è stato identificato e studiato per la prima volta il paziente.
Le anemie posso essere classificate in diverso modo. Per avere l’ emoglobina infatti devo combinare quella che
è una parte biologica, cioè la catena proteica globinica, con la parte che è in parte biologica e in parte no cioè il
gruppo eme, che è il prodotto di più sintesi, ed il ferro, che deve essere ottenuto dall’alimentazione.
Quindi si hanno le talassemie e la falcizzazione che agendo al livello dell’alterazione di produrre la catena
proteica colpiscono l’ emoglobina.
Ce ne sono invece altre che colpiscono il gruppo eme. Da una parte c’è l’anemia sinderoblastica, dove siccome il
gruppo eme viene prodotto per biosintesi ci possono essere delle carenze enzimatiche che colpiscono questa via
biosintetica e che danno difficoltà nella produzione del gruppo eme.
Dall’altra parte troviamo tutte quelle carenze chiamate ferri prive che sono legate al fatto che non c’è
abbastanza ferro. Noi assorbiamo il ferro (Fe2+) tramite l’apparato digerente e se noi abbiamo problemi a questo
apparato come infiammazioni croniche o neoplasie abbiamo problemi nell’assumerlo. Oppure a causa di
carenza di ferro nell’alimentazione perché il ferro che noi assorbiamo meglio è presente nel gruppo eme degli
alimenti cioè nella carne.
Tutte le funzioni della materia vivente (pensiero, digestione, attività motoria…) sono dovute agli enzimi e quindi
lo studio di tali molecole significa studiare le funzioni dei viventi.
All’interno di un essere vivente avvengono delle trasformazioni molecolari, esso è infatti composto da
biomolecole complesse ed ha bisogno di modificarle (ovvero costruirle e smontarle) tramite trasformazioni
molecolari. Queste trasformazioni possono avvenire anche spontaneamente, anzi alcune avvengono senza
bisogno di alcun intervento, il problema è però la velocità: non è infatti possibile impiegare mesi per la
digestione di una singola proteina o per l’attuazione di una determinata reazione chimica come avverrebbe in
assenza di enzimi. Quindi la prima funzione degli enzimi è quella di consentire all’essere vivente di poter
effettuare una trasformazione in tempi che siano compatibili con le sue esigenze, ovvero rimanere vivo.
Essi inoltre sono utili all’organismo per via della loro funzione di regolazione delle attività vitali per il
mantenimento dell’omeostasi (STRUTTURALE, ENERGETICA, METABOLICA…).
Il repertorio di enzimi posseduto da un vivente in un momento della sua vita corrisponde alla struttura che ha
ed alle funzioni che necessita di esplicare, noi siamo un sacchetto pieno di enzimi!
Dentro una cellula c’è il genoma che contiene le informazioni riguardo alle modalità con cui fabbricare le
proteine: struttura primaria→ struttura secondaria →struttura terziaria → ecc..
Esso può essere attivato o rimanere inattivo, secondo le modalità di espressione genica che variano a seconda
del tipo di cellula. Quindi ci immaginiamo il genoma come un fattore fisso all’interno delle cellule perché
(generalizzando e sintetizzando) ogni cellula di un individuo ha lo stesso dna. Tuttavia le cellule di uno stesso
individuo non presentano le stesse proteine e gli stessi enzimi a causa del controllo dell’espressione genica (che
fa sì che in uno stesso individuo vi siano neuroni, epatociti ecc..) che si basa sulla scelta dei geni da esprimere.
Quindi se il genoma (ovvero i geni di un individuo) sarà fisso nelle cellule, il proteoma sarà molto variabile.
Il proteoma può inoltre cambiare in una stessa cellula in funzione degli stimoli esterni (es. farmaci) che questa
cellula può subire durante la sua vita e a seconda del programma di differenziamento che porterà la cellula a
specializzarsi in una determinata funzione.
‘700: Spallanzani affermò che la carne è digerita da “secreti” dello stomaco: egli prelevava questo liquido
dallo stomaco, lo metteva sulla carne e vedeva che aveva degli effetti;
1850: Pasteur scopre che la “fermentazione” dello zucchero in alcol è catalizzata da fermenti;
1897: Buchner isola i fermenti funzionanti in vitro; Kuhne usa per primo il termine ENZIMA;
1926: Sumner purifica il primo enzima fino a farlo diventare cristallo. Questo enzima è stato l’ureasi (prodotto
nei batteri e utilizzato in medicina per capire se un paziente ha l’ H. Pilori). Egli così facendo capisce che gli
enzimi sono proteine;
1966: Dixon e Webb danno questa affermazione che oggi è ancora valida: “Gli enzimi sono proteine con attività
catalitica specifica”
• Essi quindi sono dei catalizzatori, cioè aumentano la velocità di una reazione e sono specifici cioè vi è un
enzima per ogni reazione. In una cellula quindi esistono tanti enzimi quante le reazioni che quella cellula
deve effettuare.
• Sono materiale biologico prodotto dalla cellula stessa in cui operano.
DEFINIZIONI
Gli enzimi sono catalizzatori biologici e sono proteine ad eccezione dei ribozimi (che sono composti da RNA). Essi
possono essere:
1. SEMPLICI, cioè composti da una sola catena proteica (ad esempio il lisozima)
2. COMPLESSI costituiti da più catene proteiche (la maggior parte degli enzimi)
Essi sono costituiti da una parte proteica e da una parte non proteica che generalmente sono legate
covalentemente. Tale parte non proteica corrisponde spesso alle vitamine che noi mangiamo e poi viene
assemblata alla parte proteica per formare gli enzimi. Gli enzimi inoltre possono necessitare della presenza di
cofattori, ovvero ioni inorganici e coenzimi.
Un oloenzima è una proteina nella sua forma attiva, prodotta dall'unione dell'apoenzima (proteina senza
cofattori) con tutti i suoi cofattori, ovvero il cosiddetto gruppo prostetico.
Gli enzimi sono classificati sulla base del tipo di reazione catalizzata:
Nello svolgere la sua attività l’enzima interagisce con il SUBSTRATO in una zona dell’enzima chiamata SITO
CATALITICO (O ATTIVO).
Dire substrato e prodotto in una reazione enzimatica è l’equivalente di dire reagente e prodotto in una reazione
non enzimatica!
Gli enzimi posso essere soggetti a fenomeni di INIBIZIONE ENZIMATICA cioè la loro attività può essere bloccata
(ad esempio legando CO, monossido di carbonio all’emoglobina, essa cesserà di legare ossigeno) o di
REGOLAZIONE ENZIMATICA.
In questo caso l’attività dell’enzima può essere ridotta o aumentata per necessità fisiologica o patologica.
Non tutti gli enzimi sono soggetti a regolazione, la maggior parte di essi dipende dalla legge di azione di massa:
Altri invece scelti accuratamente dall’evoluzione possono essere soggetti a regolazione specifica ad esempio il
2,3-BPG o 2,3-DPG che in alta quota “convince” l’emoglobina a cedere di più l’ossigeno.
Vedremo il fenomeno dell’allosterismo ovvero enzimi che oltre al sito catalitico hanno un sito allosterico che
lega altre molecole che ne alterano la funzione. Altri metodi di regolazione specifica sono:
• Modificazioni covalenti
• Attivazione per protelisi
• Isoenzimi
Gli enzimi nella maggior parte dei casi sono delle proteine e alcune di queste sono in grado di
svolgere la propria azione come proteine semplici cioè come delle semplici catene proteiche.
Ma la maggior parte degli enzimi che svolge la propria funzione ha bisogno di altri componenti ad
esempio i minerali o ioni inorganici. Nella costituzione del corpo umano rientrano più o meno i 2\3
degli elementi della tavola periodica ma si ha anche la presenza di quelli che vengono definiti
minerali e ioni in tralce.
I coenzimi sono delle molecole organiche complesse che vengono associate agli enzimi, delle volte,
tramite dei legami covalenti in altri casi no, in quanto dipende dal meccanismo d’azione, dal tipo di
1
enzima e sono proprio questi a determinare il funzionamento degli enzimi in quanto il loro compito è
quello di fare da trasportatori transitori di radicali, di forme attive di molecole.
Solitamente i coenzimi si trovano nel sito attivo degli enzimi. Il sito attivo è quella parte dell’enzima
dentro cui entra il substrato o i substrati, dove avviene la reazione chimica e dove viene catalizzata,
accelerata e questo aumento di velocità e di efficienza è solitamente dovuto alla presenza del
coenzima.
- Pepsina, tripsina ecc: sono nomi che riguardano enzimi digestivi dell’apparato digerente ma
non hanno nessuna relazione con il substrato, con il prodotto, con la reazione catalizzata
- Suffisso -ASI
Ad esempio, UREASI è l’enzima che agisce sull’urea quindi il substrato di questo enzima
sarà l’urea, la DNA POLIMERASI un enzima che è capace partendo da un filamento di DNA
di fabbricare un substrato quindi è in grado di polimerizzare, di allungare la catena del DNA.
Quindi il termine DNA POLIMERASI è un termine moderno ma fa ancora un uso arcaico della
nomenclatura che consiste nella semplice aggiunta del suffisso –asi.
È la prima reazione della via glicolitica e riguarda la fosforilazione del glucosio in posizione
6 ed è una reazione con due substrati e due prodotti.
I substrati inziali sono l’ATP e il glucosio e il risultato di questa trasformazione molecolare è
che l’ATP perde un fosfato e diventa ADP mentre il glucosio ne acquisisce uno e diventa
glucosio 6-fosfato in quanto il fosfato è stato agganciato al carbonio in posizione 6. Questa
reazione è stata catalizzata da un enzima:
ATP glucosio 6-fosfotransferasi
la funzione dell’enzima è quella di trasferire un fosfato dall’ATP al glucosio e fra tutti gli atomi di
carbonio del glucosio viene fosforilato il carbonio in posizione 6.
Inoltre il seguente enzima viene anche chiamato ESOCINASI (le cinasi sono enzimi che fosforilano
ed eso significa che fosforilano degli esosi).
La commissione internazionale degli enzimi, alcuni anni fa, ha stabilito un criterio di classificazione
che si basa sulle sei azioni catalitiche che gli enzimi sono in grado svolgere ed è il seguente:
Le ligasi poiché generano dei legami hanno bisogno di energia per poter procedere.
E come ben sappiamo avvengono sia reazioni di tipo catabolico cioè che rompono un legame e sia
di tipo anabolico cioè che generano un legame. Quando avviene la rottura di un legame si ha il
rilascio di energia, quando viene generato un legame è necessario immettere energia.
EC 2.7.3.2
-Il primo numero indica che si tratta di una transferasi
-il secondo numero indica che è un sottoinsieme delle transferasi e quindi fosfotransferasi (ovvero
trasferiscono gruppi fosfati)
-il terzo numero indica che il gruppo fosfato viene legato ad un atomo di azoto
-il quarto numero è individuale cioè è il numero di quello specifico enzima cioè questo numero indica
che si tratta di una creatina cinasi
TRIGLICERIDE LIPASI (lipasi che aggrediscono i lipidi) è un enzima in grado di idrolizzare i legami
esteri che tengono uniti al glicerolo i tre acidi grassi. Quindi attacca un legame estere, libera un acido
grasso che diventerà acido grasso libero che avrà un suo destino metabolico.
La TRIGLICERIDE LIPASI è anche definita nel seguente modo EC 3.1.1.3 dove:
-il primo numero indica che si tratta di un idrolasi perché rompe il legame sfruttando una molecola
di acqua
-il secondo numero indica che agisce su legami esteri che legano il gruppo –OH del glicerolo al
gruppo –COOH dell’acido grasso
-il terzo numero indica che sono degli esteri carbossilici
-il quarto numero indica che si tratta proprio della trigliceride lipasi
CINETICA ENZIMATICA
Un parametro molto importante in biochimica è il ΔG0’ che indica in quale direzione si muove una
reazione biologica catalizzata da un enzima.
Per arrivare a definire il seguente parametro immaginiamo un substrato che diventa un prodotto in
una reazione all’equilibrio e come ben sappiamo per ogni reazione esiste una costante di equilibrio
K che è definita come [P] / [S].
Se questa reazione indica che al raggiungimento dell’equilibrio la [P] e la [S] sono uguali allora [P]/[S]
è uguale ad 1 e quando la costante di equilibrio è uguale ad 1 significa che la reazione è
perfettamente in equilibrio.
Nel caso in cui aumenta P, S diminuisce e la costante di equilibrio è maggiore di 1 quindi la reazione
è spostata verso destra, mentre se S aumenta e P diminuisce, la costante di equilibrio è minore di 1
quindi la reazione è spostata verso sinistra.
In presenza di un reazione, anche in assenza di un enzima, è possibile evidenziare delle modifiche
energetiche quindi cambia l’energia associata.
Quindi partiamo da quello che viene definito lo stato basale che è il contributo di energia libera data
da una molecola (S o P) in determinate condizioni.
L’energia posseduta da queste molecole dipende dalla:
- TEMPERATURA che in condizioni standard deve essere 298K o 25°C
- PRESSIONE PARZIALE DEI GAS che in condizioni standard deve essere 1atm o 101,3 KPa
- CONCENTRAZIONE SOLUTI 1M
Nel momento in cui mi trovo in queste tre condizioni standard la variazione di energia che si verifica
quando S diventa P viene definita VARIAZIONE DI ENERGIA LIBERA STANDARD, ΔG0.
Ma in termini biologici la concentrazione dei soluti 1M non è possibile quindi la [H+] è molto diversa
da 1M e anche la temperatura è di 37°C.
Quindi in condizioni biologiche, cioè a concentrazione reale dei soluti e in condizioni di temperatura
reale di quel vivente, la variazione di energia libera viene definita VARIAZIONE DI ENERGIA
LIBERA STANDARD BIOCHIMICA, ΔG0’.
Un altro parametro espresso da ΔG# che indica sempre una variazione di energia che in questo caso
viene definita ENERGIA DI ATTIVAZIONE.
Tornando alla reazione che S diventa P, la costante di equilibrio è data da [P]/[S], se la [P] e la [S]
sono uguali allora [P]/[S] è uguale ad 1 e quando la costante di equilibrio è uguale ad 1 significa che
la reazione è perfettamente in equilibrio.
Nel caso in cui aumenta P, S diminuisce e la costante di equilibrio è maggiore di 1 quindi la reazione
è spostata verso destra, mentre se
S aumenta e P diminuisce, la
costante di equilibrio è minore di 1
quindi la reazione è spostata
verso sinistra.
ΔG0’ è definibile dall’equazione
–R T ln Keq, dove R e T sono due
parametri non variabili ma sono
delle costanti, R è la costante dei
gas e T è la temperatura assoluta.
In questa equazione l’unico
parametro che varia è la costante
di equilibrio e quindi ΔG0’ dipende
dalla costante di equilibrio che
risulta essere direttamente
proporzionale al ΔG0’.
Quest’ultimo viene calcolato per
determinare da che parte si sposta
l’equilibrio della reazione, perché
in una reazione nella quale
prevale ampiamente l’equilibrio
verso destra (verso P), si ha una
costante di equilibrio che risulta
essere molto maggiore di 1 e
quindi sostituendo questi valori
nell’equazione precedente, il ΔG0’
risulta essere negativo. Quindi
l’energia posseduta da P è minore
di quella posseduta da S e
pertanto facendo l’energia di P
meno l’energia di S otteniamo un
numero negativo.
Esistono anche reazioni di 2° ordine in cui ho substrato uno più substrato due che mi forniscono
prodotto uno, prodotto due. Quindi anche in presenza di due o più substrati è possibile fare le
seguenti considerazioni in maniera analoga facendo delle correzioni.
Entropia e probabilità
Immaginiamo di avere due vasi comunicanti, due contenitori con un rubinetto in mezzo.
Il contenitore di sinistra risulta essere pieno di un gas mentre il contenitore di destra è vuoto.
bruciato sul fornello o dentro le cellule sta nel fatto che dentro al corpo umano non brucia
niente, la reazione che coinvolge il glucosio avviene a 37 °C.
Nelle reazioni esoergoniche S ha più energia di P, mentre in una reazione endoergonica S ha meno
energia di P. Gli enzimi funzionano con lo stesso metodo anche nelle reazioni endoergoniche, la
differenza sta nel fatto che nelle reazioni esoergoniche all’equilibrio si ha un rilascio netto di energia,
mentre in quelle endoergoniche avviene un assorbimento di energia e quindi ΔG0’ è positivo.
Un enzima
semplice, cioè
costituito da una
sola catena
proteica, ha di solito
forma globulare,
quindi assume
conformazione
secondaria e
terziaria. La catena
proteica si arrotola
formando un
alloggiamento,
detto sito attivo. Questo alloggiamento deve avere dimensioni fisiche adatte ad ospitare il/i
substrato/i. Il substrato si colloca con un certo orientamento per cui prende diversi rapporti con vari
amminoacidi della catena proteica. L’enzima quindi “tappezza” la parete del sito attivo con vari gruppi
-R che on sono casuali, ma interagiscono con la molecola substrato e sono necessari per lo
svolgimento della reazione.
• Es. —> nella emoglobina, l’istidina distale forma un ponte ad idrogeno che trattiene la
molecola di ossigeno. Quindi nel sito attivo della catena globinica non è presente solo il ferro
ma la catena si ripiega e pone 3 amminoacidi, tra i quali l’istidina distale è il più importante,
che interagiscono con O2 e hanno un ruolo funzionale molto importante, nel momento infatti
in cui si allontanano l’ossigeno viene rilasciato
[EXTRA: per valutare il ruolo funzionale del sito attivo si possono effettuare studi di mutagenesi, che
consistono nel prendere la sequenza codificante per l’enzima, causare una mutazione che determini
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un cambiamento nella sequenza di vari amminoacidi esposti nel sito attivo, generare la proteina con
la tecnica del DNA ricombinante e valutare se l’enzima funziona ancora o diviene incapace di
catalizzare la reazione.]
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Equazione di Michaelis-Menten
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CINETICA ENZIMATICA
Studio della cinetica enzimatica, specificità dell’enzima. Equazione dei doppi reciproci. Descrizione
dei fattori che influenzano l’attività dell’enzima. Unità di misura e numero di turnover.Differenze tra
attivatori, inibitori e modulatori.
Nello studiare l’attività di un enzima in vitro si parte da più campioni in provetta con uguale
dose di enzima, si aggiunge in ogni campione una quantità sempre crescente si substrato,
partendo dal primo a concentrazione zero e si misura la velocità di reazione. Si costruisce
poi un grafico in cui sull’asse delle ascisse si posiziona la concentrazione di substrato e
sulle ordinate la velocità. La velocità viene misurata in quantità di prodotto rilasciato o
quantità di substrato reagito nell’unità di tempo. Il risultato è un’iperbole che risponde alla
legge di Michaelis-Menten. Dall’analisi matematica del grafico si risale alla funzione che lo
determina:
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Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
ordine del tipo A+B → C+D si vede come le velocità siano indicative per la coppia
enzima/substrato. Inoltre si nota come al diminuire della km la curva si impenni.
La pendenza della curva è indice di affinità, più è pendente, più l’enzima in esame è affine
al suo substrato. Perciò km è indice dell’affinità dell’enzima per un substrato, minore è km,
più pendente è la curva e più affine è l’enzima. Un esempio è l’esocinasi dell’ATP-
glucosio-6-fosfotransferasi, che fosforila un glucosio in posizione 6. L’enzima, in presenza
di ATP può fosforilare anche altri monosaccaridi, ma studiando la velocità in entrambi i
casi si vede come l’enzima abbia più affinità per il glucosio rispetto agli altri monosaccaridi.
Si può inoltre prevedere il tipo di substrato che verrà più probabilmente trasformato
dall’enzima in base alla sua affinità, particolarità rilevante all’interno delle cellule.
SPECIFICITÀ
L’effetto catalitico di un enzima è specifico. Catalizzano solo le reazioni a cui sono stati
destinati. Esistono enzimi più o meno specifici. La specificità e organizzata secondo
diversi livelli:
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
Il valore asintotico della Vmax è scomodo per lavorare, è difficile da calcolare con
precisione ed è difficile da interpretare. Lineweaver e Burk trasformano l’equazione di
Michaelis-Menten nell’equazione dei doppi reciproci, semplicemente calcolando l’inverso
di ogni termine:
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
L’equazione è una retta dove 1/[S] è la x e 1/Vmax il termine noto, e che incrocia sia l’asse
delle ascisse che quello delle ordinate senza passare per l’origine.
Le varie intercette e la pendenza danno informazioni riguardo alla Vmax e km. L’incrocio
con l’asse y corrisponde a 1/Vmax. L’incrocio con l’asse x corrisponde a -1/km. Il
coefficiente angolare corrisponde a km/Vmax.
Lo studio della cinetica per i vari enzimi si studia utilizzando questo tipo di grafico. Si
tracciano inoltre grafici che riportano contemporaneamente la comparsa del prodotto e la
scomparsa del substrato relazionati alla formazione del complesso enzima-substrato in
intervalli di tempo ridottissimi.
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
Altre specie hanno gli stessi enzimi che lavorano anche a temperature diverse. Ci sono
anche enzimi che hanno valori ottimale di pH in un range, da un valore in avanti, come
l’acetilcolinaesterasi che funziona da pH≅9 fino a 14.
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
UNITÀ DI MISURA
Nel 1972 l’unità enzimatica(U) viene definita come la quantità di misura di enzima che
trasforma una micromole di substrato al minuto a 25° C. Questa definizione non è più
attuale, perché non conforme al sistema di misura MKS(metro, kilogrammo
,secondo),tuttavia in alcune analisi la troviamo ancora, i dosaggi enzimatici nelle analisi
del sangue per esempio sono forniti in unità enzimatiche.
Oggi si utilizza il catal (CAT) che è la quantità di misura di enzima che trasforma una mole
di substrato al secondo a 25° C.
Le due grandezze sono convertibili in quanto si tratta sempre dell’unità di enzima nell’unità
di tempo a temperatura standard :
1 CAT=6*107 U
1 U= 16,67 nCAT
Un altro valore importante che si applica agli enzimi è il numero di turnover che
corrisponde al numero di molecole di substrato trasformate in un secondo da una singola
molecola enzimatica. Si tratta quindi di un valore che riguarda anche la saturazione
perché un enzima che lavora molto velocemente al secondo per essere saturato ha
bisogno di quantità di substrati al secondo maggiori, mentre un enzima più lento viene
saturato prima.
Di solito i valori di turnover sono compresi tra 10 3 e 10 9 s -1, ovvero l’enzima catalizza in
un secondo una reazione da mille volte a un miliardo di volte.
In questa tabella si confronta la Km e il numero di turnover di alcuni enzimi
ENZIMA SUBSTRATO Km
o-glucosio 0.05
o-fruttosio 1.5
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
• l’esocinasi per fosforilare ha bisogno di ATP che è uno dei substrati e può anche
fosforilare il glucosio e il fruttosio.
• l’Anidrasi carbonica (un enzima che permette la formazione dello ione bicarbonato)
ha un turnover di 400000 ovvero in un secondo l’anidrasi carbonica è capace di
convertire 400000 molecole di CO2 in 400000 molecole di HCO-3. In assenza
dell’attività di questo enzima avremmo uno sviluppo si gas talmente elevato che
comporterebbe la formazione di bolle e quindi di un’embolia.
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
dalla presenza di gruppi R che attirano il substrato per esempio per interazione di cariche
elettriche ad entrare con un certo orientamento. Per cui dati due substrati A e B questi si
orientano e mettono vicini i gruppi reattivi l’enzima si carica per il fenomeno
dell’adattamento indotto e in seguito si scarica facendo collidere A e B con forza e quindi
si forma il prodotto. L’azione catalitica dell’enzima cioè la capacità di formare un sito attivo
adatto agisce quindi sul concetto di vicinanza e di orientamento: l’enzima avvicina i due
substrati, li orienta correttamente e l’adattamento indotto ne determina la collisione. Per
esempio l’esocinasi che consente la collisione tra ATP e glucosio, fa sì che la collisione
avvenga nella posizione giusta in modo tale che il fosfato si traferisca sul gruppo OH del
carbonio 6 del glucosio. Quando la reazione è avvenuta i prodotti, cioè l’ADP e il glucosio
fosforilato, non sono più affini al substrato ed escono liberando il sito attivo. L’adattamento
indotto è quindi fondamentale per l’azione catalitica.
Dentro il sito attivo ci sono amminoacidi con gruppi R che possono donare o accettare
protoni, gli enzimi quindi sfruttano anche questo meccanismo catalitico che è la catalisi
acido-basica per svolgere la loro attività. Un’altra modalità di catalisi è la catalisi covalente,
per la quale si formano temporaneamente dei legami covalenti anche con l’enzima stesso.
Si tratta tuttavia di legami instabili che si rompono rapidamente rilasciando il prodotto. Si
posso per esempio formare temporaneamente dei fosfo-enzimi o degli acil -enzimi cioè
enzimi che catturano un pezzo di substrato rilasciando il prodotto poi questo pezzo di
substrato viene rilasciato ad un altro substrato per fare un altro prodotto, questo
meccanismo si basa sulla formazione di legami covalenti instabili per cui reversibili che
consentono il riutilizzo dell’enzima.
Riassumendo i fattori che influenzano l’attività enzimatica sono:
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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
Ci possono essere anche attivatori che possono indurre l’attività dell’enzima, possono
essere artificiali o naturali e anche questi possono avere effetti negativi.
Esistono anche i modulatori positivi o negativi e in questi casi si tratta sempre di un
fenomeno fisiologico in quanto sono molecole prodotte dalla cellula in seguito a stimoli
esterni (per esempio il 2-3 bpg dell’emoglobina, quando vado in alta quota e poi scendi ne
produci di meno) .
INIBIZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA
Gli inibitori possono agire in maniera reversibile e irreversibile. In genere quelli che
agiscono in modo reversibile sono dei modulatori e quindi esercitano delle azioni di tipo
fisiologico. Quando agiscono in maniera reversibile possono avere sostanzialmente due
meccanismi(in realtà la classificazione è un po’ più complessa) :
• ci possono essere molecole non competitive che non si inseriscono nel sito attivo
quindi non competono con il substrato, tuttavia modificano la struttura dell’enzima in
maniera da ridurne l’efficienza catalitica.
Abbiamo anche inibitori di tipo irreversibile cioè che sono in grado di interagire con
l’enzima provocando una modificazione strutturale irreversibile. Gli inibitori reversibili
possono avere un’azione tossica o fisiologica, mentre quelli irreversibili sono quasi sempre
dei veleni perché per la cellula non è economicamente vantaggioso distruggere un
enzima.
Nell’ inibizione non competitiva la molecola o si lega da un’altra parte e quindi non
impedisce a substrato di entrare o si lega anche nel sito attivo, ma di nuovo non impedisce
al substrato di entrare, però quando questo accade c’è inibizione dell’attività enzimatica.
(Per esempio il 2-3 bpg si lega in una posizione diversa però ostacola la formazione del
prodotto, ostacola ossigenazione di emoglobina).
Nell’inibizione competitiva l’inibitore non modifica la struttura dell’enzima però entra al
posto del substrato riducendo così l’efficienza catalitica. Questo tipo di inibizione può
essere rimossa aumentando la concentrazione di un altro substrato a cui è affine. A volte
questi sono antidoti, ad un soggetto avvelenato si somministrano alte concentrazioni del
substrato naturale e in questo modo eliminando la molecola che blocca l’enzima si
ripristina l’attività enzimatica.
• L’inibizione incompetitiva che prevede che l’inibitore non competa con il legame del
substrato però c’è stato un cambiamento conformazionale per cui l’enzima non
produce il prodotto.
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Lezione n°14 del 15.05.2018
Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica
• Inibizione mista in cui sia l’inibitore che il substrato si legano al sito attivo per cui c’è
una parziale inibizione e in funzione di ciò non si forma il prodotto.
Queste inibizioni vengono studiate con grafici dei doppi reciproci. Facendo l’analisi
dell’attività enzimatica otteniamo una retta che determina la Vmax e la Km; in questo
saggio aggiungiamo un inibitore. Osserviamo che aumentando la concentrazione
dell’inibitore ottengo un fascio di rette che passa per lo stesso punto quindi la Vmax
rimane uguale, mentre la km aumenta, ciò implica che l’aggiunta dell’inibitore riduce
l’attività enzimatica. Si parla in questo caso di inibitore competitivo in quanto l’enzima
manifesta un’affinità verso il substrato che va diminuendo in funzione dell’aggiunta
dell’inibitore. In conclusione: quando la Vmax rimane costante e la Km aumenta mi trovo di
fronte ad una inibizione competitiva e che puoi rimuovere aumentando la concentrazione
del substrato.
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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi
INIBITORI COMPETITIVI
Riferendoci al grafico possiamo notare che l’aggiunta dell’inibitore sposta la retta nel grafico. La retta
si sposta perché l’inibizione è competitiva, ovvero l’inibitore ha una similitudine strutturale con il
substrato, quindi è in grado di entrare nel sito attivo e occupandolo impedisce l’ingresso dell’ormone.
Così facendo agisce sul parametro dell’attività, è come se l’enzima fosse meno attivo per il substrato.
Questo tipo di inibizione di solito non prevende la formazione di legami covalenti, ma abbiamo la
formazione di legami deboli come pompe a idrogeno, e quindi l’inibizione competitiva può essere
annullata rompendo i legami tra enzima e substrato. Per annullare la situazione dell’inibizione
competitiva si può variare la concentrazione del substrato e dell’inibitore, variando la concentrazione di
uno o dell’altro, sia aumentandola che diminuendola, possiamo andare a rompere il legame e di
conseguenza l’inibizione svanisce.
[riferendoci al grafico] Notiamo che le rette cambiamo davanti a inibizioni non competitive o miste. Le
rette cambiamo a sinistra e si forma un fascio di rette parallele man mano che aggiungo inibitore e
cambia anche la Vmax. Per quanto riguarda inibizioni miste invece aumenteranno sia la Vmax che la
Km e cambieranno così anche le rette.
Quando c’è un’inibizione non competitiva un fascio di rette non parallelo passa per il punto che non
intercetta nessuno dei due assi e quindi di nuovo si modifica sia la km che la Vmax. Si instaura così
una relazione inversa tra le due grandezze. Queste tecnica di misura viene usata perché ci informa sul
tipo di inibizione e di conseguenza anche sul meccanismo di azione.
In alto forma attiva di una vitamina, acido folico, molecola complessa fatta da una parte iniziale che è
sostanzialmente una base azotata, 6-metilpterina, acido p-aminobenzoico (PABA) ed acido
glutammico. Noi lo introduciamo grazie all’alimentazione. Dopo che è stato introdotto nelle cellule, le
cellule usano il potere di un enzima, il folato riduttasi, per modificare l’acido folico e trasformarlo in un
coenzima. Il folato riduttasi infatti rompe i due doppi legami e aggiunge un atomo di H. L’acido che si
forma si chiama poi acido tetraidrofolico che è la forma attiva della vitamina ed è un coenzima.
Questo coenzima è indispensabili per alcuni enzimi, come ad esempio quelli che sono collocati sulla
via di biosintesi delle purine.Le purine e pirimidine non sono vitamine ma le possiamo biosintetizzare e
possono essere degradate, dal nostro corpo . La richiesta di basi azotate aumenta in una cellula quando
questa subisce una stimolazione particolare, che risulta essere la stimolazione per l’attività proliferativa.
Quando una cellula deve duplicare, una delle prime cose che fa soprattutto in fase G1, senza cambiare
morfologicamente, è l’attivazione delle vie metaboliche per la biosintesi delle basi azotate e le vie
metaboliche. Grazie a queste vie metaboliche la cellula si prepara a quella che sarà la fase successiva
che è la fase S, ovvero quella in cui avviene la duplicazione del DNA, ma se io non ho raddoppiato la
quantità di nucleotidi all’interno della cellula precedentemente, la fase S non può avvenire con
successo. In G1 nelle cellule che proliferano in seguito a stimolo proliferativo c’è un’induzione di queste
vie metaboliche ma contemporaneamente c’è una maggior richiesta di tetraidrofolato perché è
necessario come coenzima affinché funzionino poi gli enzimi.
I folati sono molecole molto facili da introdurre con l’alimentazione perché presente in tutte le verdure
a foglia verde ed è quindi molto difficile incorrere ad una carenza da folati. Quando però si sviluppa una
di folati esse è associata ad una patologia che colpisce i neonati che è la spina bifida.
Quindi oggi è pratica standard somministrare folati alle donne in gravidanza. Dato che i folati in eccesso
non sono tossici, vengono allora somministrati alle donne in gravidanza per ridurre la probabilità di
questa patologia, molto grave, che può colpire il feto.
Questo molecola rappresenta il methotrexate che è un inibitore competitivo della folato riduttasi, questa
molecola compete con la folato riduttasi perché assomiglia al substrato. Questa è una molecola che è
stata prodotta artificialmente in laboratorio, serve per ostacolare il passaggio da folato a tetraidrofolato.
Serve quindi a inibire la proliferazione cellulare, questo farmaco fu infatti uno dei primi farmaci anti
proliferativi utilizzato contro i tumori. Molti tumori sono infatti malattie proliferative, queste malattie
hanno un tasso di proliferazione molto più elevato dei tessuti normali, quindi ci sono protocolli
terapeutici che prevedono l’utilizzo di questa molecola anti proliferativa. Somministrando questa
molecola in un momento particolare della vita del paziente si blocca la proliferazione della malattia
tumorale.
Questa somministrazione non è però specifica per le cellule tumorali, questo spiega molti dei tipici effetti
collaterali associati alla chemioterapia. Infatti bloccando la folatoriduttasi si riduce la biodisponibilità di
tetraidrofolato e quindi blocco la biosintesi delle basi azotate anche in altri tessuti altamente proliferativi.
Tessuti come ad esempio la cute, gli epiteli, i bulbi piliferi e le mucose sono tessuti che hanno un tasso
proliferativo molto alto, quindi la somministrazione di questa sostanza anti proliferativa provocava la
caduta dei capelli, anemia, vomito e diarrea causate dal mal assorbimento a livelle delle mucose,
poiché sia quella gastrica che quella intestinale erano state compromesse. Attualmente questi sintomi
esistono ancora ma possono essere controllati e sono reversibili.
Oggi infatti gli effetti collaterali sono notevolmente ridotti e aumentano invece gli effetti positivi portati
da questo farmaco anti proliferativo. Effetti positivi che derivano anche dalla combinazione con altri
farmaci, al modo di somministrazione e al dosaggio. Più dell’80% bambini malati di leucemia guarisce
perché sopporta la chemioterapia, i bambini la sopportano meglio degli adulti, perché gli adulti rendono
meno nei confronti dei dosaggio chemioterapici.
ANTIBIOTICI
L’acido amminobenzoico è una molecola necessaria anche per i batteri ,come
ad esempio quelli delle vie respiratorie. I batteri si riproducono e per replicarsi
usano la folato riduttasi, ma loro usano solo l’acido paramminobenzocio.
La resistenza alle terapie antibiotiche si sta sviluppando ultimamente perché le molecole che uccidono
i batteri sono antibiotici, non sono antivirali, le molecole che uccidono microorganismi procariotici come
i batteri vanno usate con molta competenza, una delle ragioni della resistenza è agli antibiotici è l’uso
sbagliato da parte dei medici di antibiotici. Se la patologia è virale non serve l’antibiotico perché non
serve con il metabolismo virale, se uso gli antibiotici in maniera smodata induco resistenza, perché i
microrganismi sviluppano resistenza agli antibiotici.
INIBITORI IRREVERSIBILI
Inibitori irreversibili sono molecole che sono in grado dio legarsi in maniera covalente all’enzima
inibendone l’attività in modo permanente. Un esempio è il monossido di carbonio. Questo infatti si lega
covalente mente al ferro dell’emoglobina, ferro che rappresenta il sito attivo dell’emoglobina, e la
molecola di emoglobina cerche possa tornare a funzionare va distrutta e ricostruita, non può più essere
utilizzata ormai.
Il diisopropilfluorurofosfato può essere prodotto per sintesi e quando si trova all’interno di una cellula
può ionizzare, e cioè sganciare il fluoro che se ne va prende un protone diventa acido fluoridrico e il
sito che rimane che è il diisopropile . il diisopropile reagisce con gruppi OH di amminoacidi che hanno
un gruppo R. Un caso particolare c’è quando un enzima nel sito attivo presenta serina, la serina è
indispensabile infatti per l’attività catalitica dell’enzima. Per inibire la serina c’è bisogno di un DIPF che
si leghi alla serina, inibendola e non permettendo quindi l’attività catalitica dell’enzima.
Viene definito inibitore suicida una volta che si lega al sito attivo dell’enzima non può più agire su nulla,
ha terminato le sue azioni. Questo tipo di inibitore è quello presente nelle molecole che costituiscono
gli insetticidi, che servono per sterminare gli insetti. Questo tipo di insetticidi che uccide all’istante gli
insetti è basato su queste molecole, inibitori suicidi, che sono state studiate affinché appena entrano
nelle cellule degli insetti vengono on contatto con cellule che contengono enzimi che attivano gli inibitori
suicidi così si suicidano. Per gli esseri umani non risultano essere così nocivi perché le nostre cellule
non contengono gli enzimi per attivarli. Nel nostro organismo quindi a piccoli dosaggi non hanno
conseguenze possono però avere conseguenze, ad alti dosaggi perché causano il blocco delle fibre
muscolari.
Nella figura si vede la differenza tra la cinetica di un enzima che è monomerico, non allosterico (es.
mioglobina), e un enzima allosterico che ha una struttura quaternaria (es. emoglobina). vi è una curva
che è spiegata da Michaelis-Menten da cui deriva l’equazione di Michaelis-Menten. La curva sigmoide
richiede un’ulteriore elaborazione matematica. La n corrisponde ai siti di legame. Gli effettori spostano
questa curva: un effettore negativo provoca lo spostamento verso destra, un effettore positivo verso
sinistra. Di solito non c’è un impatto importante sulla v massima. L’effetto immediato è sulla Km. Se mi
sposto verso destra, aumento la Km e quindi riduco l’affinità nei confronti del substrato. Se invece mi
sposto verso sinistra, allora aumento l’affinità perché diminuisce la Km.
Prendiamo come esempio un enzima formato da 2 subunità. Una unità viene chiamata catalitica, una
regolatoria. La subunità catalitica è quella che possiede il sito attivo. La subunità regolatoria, invece,
possiede il sito allosterico, che lega il modulatore. Questo enzima, in assenza del modulatore, ha una
sua struttura. Quando arriva un modulatore positivo, il modulatore si lega nel sito allosterico. Questo
sito allosterico, che corrisponde alla subunità regolatoria, interagisce con la catalitica. Quindi il
cambiamento conformazionale della subunità regolatoria si tramette alla subunità catalitica. In questo
caso il sito attivo è più adatto al substrato e avviene l’azione catalitica. Se il modulatore fosse stato
negativo, avrebbe reso il sito attivo meno adatto al substrato. L’aspetto interessante di questa
regolazione è che l’enzima sente questa molecola nell’ambiente e quindi reagisce adattandosi. In
secondo luogo, questa interazione non è mai equivalente. Quindi questa molecola può essere rimossa.
È una modifica reversibile.
In questa figura vediamo l’effetto dovuto ai modulatori: la curva iniziale è quella in mezzo. Se aggiungo
un modulatore negativo, la curva si schiaccia verso destra, se ne aggiungo uno positivo si schiaccia
verso sinistra e cambiano le K05, mentre la velocità massima non cambia. Di fianco vediamo 3 curve
in cui la Km non cambia mai.
Questi diversi meccanismi di regolazione degli enzimi non si escludono a vicenda,tra di loro sono tutti
compatibili. È possibile che un enzima sia un isoenzima,venga prodotto per maturazione proteolitico,sia
allosterico e venga anche regolato covalentemente.
ENZIMI DIGESTIVI
Enzimi digestivi. Cascata di attivazione di enzimi proteolitici. Assorbimento del glucosio, Trasportatori del
glucosio. Via metabolica.
Nel tratto terminale dell'intestino si arriva alla completa degradazione e poi assorbimento.
Possiamo alimentarci anche di disaccaridi come il saccarosio (zucchero da cucina), che richiede
l'enzima saccarasi, in grado di rompere il legame tra una molecola di glucosio e una di fruttosio.
La rottura da parte della saccarasi permette di liberare due monosaccaridi che vengono assorbiti.
Tutti noi siamo in grado di produrre questo enzima.
Se noi ci alimentiamo con il latte, nel latte e nei derivati (soprattutto nei formaggi freschi) c'è il
disaccaride glucide tipico del latte, il lattosio; questo per essere digerito e assorbito richiede
l'enzima lattasi, in grado di rompere il legame liberando una molecola di glucosio e una di
galattosio.
Esiste una patologia rara che è l’incapacità di produrre la lattasi: l'enzima viene prodotto in quantità
insufficienti nel tratto terminale dell'intestino. Perciò:
Attenzione a non confondere l'intolleranza (deficit enzimatico) con l'allergia (che contempla che si
attivi il sistema immunitario).
L'intolleranza al lattosio è una malattia che non ha nessuno alla nascita. Infatti, un neonato
intollerante al lattosio non potrebbe alimentarsi con il latte materno.
Poi, succede che per ragioni genetiche, ossia per predisposizione a questo fatto, in alcune
popolazioni viene persa la capacità di produrre l'enzima a una certa età, quando il soggetto diventa
adulto. Questo soprattutto avviene in Africa e in Medio Oriente, dove spesso il latte è trasformato
in yoghurt, venendo quindi fermentato. Durante la fermentazione del latte, il lattosio viene
degradato, operazione ad attività dei microrganismi come i lattobacilli. Chi ha l'intolleranza al
lattosio può consumare derivati del latte come lo yoghurt e anche i formaggi stagionati. Invece, il
latte e i formaggi freschi contengono chiaramente ancora lattosio e possono creare problemi.
In altre popolazioni, come in quelle del nord Europa, la capacità di produrre l’enzima non si perde
mai.
Poi ci sono popolazioni intermedie come la nostra, in cui la genetica è un po' più complessa: l’80%
della popolazione italiana mantiene la tolleranza al lattosio e circa il 20% la può perdere.
Gli enzimi sono soggetti a un fenomeno che è il controllo dell’espressione genica. Se viene
somministrato il substrato, continua l’espressione dell’enzima; se si smette di dare substrato,
questa viene bloccata.
Molte di queste intolleranze al lattosio sono state causate dai genitori che hanno smesso di fare
bere latte ai bambini. Se avessero continuato anche solo in piccola quantità avrebbero mantenuto
la tolleranza al lattosio. Una buona metà degli intolleranti se ricomincia bevendo un cucchiaio di
latte alla mattina per una settimana di fila, poi 2 cucchiai per la settimana successiva, 3 quella
dopo, alla fine arriva a berne un bicchiere senza avere problemi seri perché riattiva il sistema di
espressione genica.
Quindi l’intolleranza al lattosio non è un’allergia e può essere recuperata sapendo come
funzionano i geni.
C'è un’altra malattia genetica diversa per l’intolleranza al galattosio che si può manifestare solo
se ha già agito la lattasi.
Un’altra ancora è l’intolleranza alla caseina (proteina), forma di allergia alimentare. La caseina è
la proteina del latte presente sotto forma di fosfocaseinato di calcio; apporta acidi grassi essenziali
e anche calcio e fosforo per la mineralizzazione dell’osso.
Tutte queste intolleranze non vanno confuse tra di loro perché hanno una eziopatogenesi
completamente diversa, richiedono approcci terapeutici diversi e devono essere diagnosticati da
medici competenti.
Tornando alla digestione fisiologica, una volta che hanno agito le disaccaridasi, nell’intestino sono
presenti solo dei monosaccaridi; prevale il glucosio, ma posso trovare anche il fruttosio e il
galattosio. Questi vengono assorbiti con alcuni meccanismi, passano in circolo e vengono utilizzati
dall’organismo.
I trasportatori del glucosio sono diversi. Il glucosio non può attraversare liberamente la membrana
biologica perché è una molecola idrofilica, polare. Per entrare e uscire da una cellula necessita di
un trasportatore che ne regoli il passaggio.
I trasportatori per il glucosio sono proteine posizionate sulla membrana plasmatica e che
funzionano come delle porte girevoli, sono specifici e si chiamano GLUT. Hanno tutti la stessa
caratteristica tranne il primo descritto: non consumano mai ATP e funzionano per diffusione
passiva, secondo gradiente.
Riconoscono solo il glucosio come tale: se la molecola viene modificata, ad esempio fosforilata
(esocinasi fosforila il glucosio in posizione 6), non è riconosciuta dai GLUT e non può più passare
attraverso di essi.
Parliamo sempre quindi, di glucosio libero, libero di passare attraverso i trasportatori perché non
ha subito modifiche chimiche.
I trasportatori del glucosio sono isoenzimi e sono espressi in maniera tessuto specifica.
Un trasportatore insulino dipendente come il GLUT 4, si trova sulla membrana biologica della
cellula solo quando è stata liberata insulina in circolo. Quando invece non c’è insulina, non c’è quel
trasportatore perché viene rimosso dalle membrane.
Questo è un fenomeno importante ed è tipico di quelle cellule, quei tessuti e quegli organi che
durante il digiuno non possono usare il glucosio. Alcune cellule, alcuni tessuti, alcuni organi
possono usare quel poco glucosio in circolo, altri no.
Le cellule con GLUT 4 durante il digiuno prolungato non possono usare glucosio per il loro
metabolismo. E’ un meccanismo di risparmio metabolico che ci permette di utilizzare meglio il
glucosio in condizioni di carenza. Al posto del glucosio, le cellule usano fonti alternative e
consumano altri substrati energetici, come gli acidi grassi che producono tanto ATP.
Viceversa, ad esempio il GLUT 1 è insulino indipendente, è sempre sulla membrana dei neuroni
sia in presenza sia in assenza di insulina. Il cervello quindi, non risente della presenza dell'insulina
per la capacità di captare glucosio, perché i neuroni dipendono dal glucosio e non possono
utilizzare fonti alternative. La presenza di trasportatori come il GLUT 1, insulino indipendente nella
superficie sulla membrana di cellule neuronali fa sì che il sistema nevoso centrale e il sistema
nervoso periferico possano continuare a usare glucosio anche durante il digiuno prolungato.
Gli enzimi non agiscono mai da soli, all’interno della cellula costituiscono le vie metaboliche.
VIA METABOLICA
Un substrato diventa un prodotto che si chiama A, che può essere substrato e diventare B. B può
essere trasformato in C, C in D, D in un prodotto finale che chiamiamo P.
Sono avvenute 5 trasformazioni molecolari e ognuna di esse può essere catalizzata da un enzima.
L’enzima 1 catalizza la prima trasformazione, l’enzima 2 la seconda e via di seguito.
Questi cinque enzimi costituiscono una via metabolica perché il prodotto dell’attività di un enzima è
substrato dell’attività dell’enzima successivo. A è il prodotto di E1, ma anche substrato di E2. B è il
prodotto di E2, ma è anche il
substrato di E3 e via di seguito.
Significa che i cinque enzimi
lavorano in successione: il primo
enzima prepara il substrato per il
secondo, il secondo per il terzo, il
terzo per il quarto e il quarto per il
quinto; e poi c'è P che è il prodotto
finale (potrebbe essere un ormone,
un neurotrasmettitore, una
biomolecola importante).
covalenti, si legano insieme e formano una super associazione di enzimi che rende molto più
efficiente la via.
Immaginiamo che dobbiamo regolare questa via metabolica fatta di 5 enzimi e dobbiamo scegliere
uno di questi per farlo diventare enzima di regolazione, quale scegliamo?
Di solito, la regola di default della biochimica è che il rubinetto sta in cima e il primo enzima è di
regolazione. Questo perché se chiudo il rubinetto E1 e non ci serve P (vogliamo spegnere la via),
P non si produce.
Se invece, il rubinetto lo metto più in fondo, gli enzimi precedenti funzionano e producono ad
esempio B che non serve a niente perché non diventerà P. Quindi, se permetto alla via di andare
avanti fino a metà o addirittura fino quasi alla fine, allora consumo energia metabolica e posso
produrre degli intermedi che non sono necessari.
La logica molecolare dice che è meglio mettere il rubinetto sopra.
Ci sono molti enzimi che si associano fisicamente tra di loro per generare i complessi
multienzimatici.
Un tipico esempio è il complesso multienzimatico che serve per la biosintesi degli acidi grassi.
L’acido grasso sintasi richiede per funzionare 6 attività enzimatiche ed è una specie di macchina
fatta di tanti ingranaggi, ognuno dei quali ha un compito preciso.
I sistemi multienzimatici aumentano di molto l’efficienza di una via metabolica perché l’enzima
prende il precursore, lo fa diventare prodotto e substrato per l’enzima successivo, e così via.
Questo meccanismo impedisce la diffusione degli intermedi, catturati dagli enzimi e
immediatamente trasformati da S a P.
Non si vedono gli intermedi, ci sono ma non sono isolabili; sembra che ci sia un'unica reazione che
trasforma S in P perché è talmente efficiente il passaggio degli intermedi che questi spariscono e
diventano il prodotto finale. Gli enzimi potrebbero essere associati sulla membrana.
La catena di trasporto degli elettroni all’interno dei mitocondri è dovuta a 4 complessi enzimatici
che sono fisicamente associati sulla membrana interna mitocondriale; si toccano fra di loro e si
passano substrati.
O ancora, il metabolismo degli aminoacidi è interconnesso perché lo scopo della cellula è avere
venti aminoacidi differenti in quantità simili che servono per fabbricare le proteine. Quindi, la via di
biosintesi di un aminoacido influenza la via di biosintesi degli altri aminoacidi. Tra di loro si
muovono in modo equilibrato per dare tutti gli intermedi che servono.
Gli enzimi possono anche non essere proteine, come ad esempio l’RNA. L’RNA è un acido
nucleico che può avere attività enzimatica. Questa scoperta è stata osservata durante il processo
di splicing, dove si è visto che alcuni passaggi di maturazione dei trascritti primari possono essere
catalizzati dallo stesso RNA. Poi si è visto che gli RNA con capacità catalitiche sono molto più
diffusi di quello che si pensa. Anche all’interno dei ribosomi, è presente attività enzimatica, in parte
dovuta a proteine (enzimi classici), in parte all’RNA ribosomiale.
Questo è molto importante perché ha dato luogo a sviluppi notevoli. Gli RNA possono essere
prodotti per sintesi ed utilizzati come regolatori dell’attività dell’espressione genica, come farmaci.
Il DNA contiene le informazioni che servono per codificare le proteine e gli enzimi. Gli enzimi a loro
volta, possono modificare il DNA, alterando l’espressione genica.
Recentemente, si è aperto un altro sviluppo importante di ricerca che è la regolazione epigenetica
dell’espressione epigenica. La successione di basi azotate detta la successione degli aminoacidi,
normale modo con cui funziona il DNA. Il DNA funziona o non funziona in dipendenza dalla sua
struttura; se è strettamente avvolto attorno agli istoni, non può essere letto, se è parzialmente
srotolato può essere letto.
Ci sono una serie di modifiche covalenti, che possono riguardare sia le proteine istoniche, ma
anche il DNA stesso e sono soprattutto la metilazione e l’acetilazione.
Queste modifiche covalenti operate da enzimi poi hanno un impatto sull’espressione genica e
questa parte di regolazione dell’espressioni genica è chiamata epigenetica.
BIOENERGETICA
Come si presenta e come si trasforma l’energia dei viventi?
Argomenti: bioenergetica, tre principi della dinamica, forme di energia, sistemi e flusso di energia,
ordine e disordine in un sistema e reazioni endoergoniche ed esoergoniche.
[Il prof consiglia di riguardare ciò che abbiamo già studiato relativamente alla termodinamica e allo
scambio di energia attraverso le reazioni]. La bioenergetica è una branca della biochimica che studia il
trasferimento e l’utilizzo dell’energia durante le trasformazioni metaboliche. I viventi per funzionare
hanno bisogno di energia e sottostanno a tutte le leggi della fisica e della chimica a riguardo, pertanto
valgono le prime tre leggi della termodinamica. Gli organismi viventi per soddisfare il loro bisogno di
energia la prelevano dall’ambiente, sotto forma di luce solare o di nutrienti (biomolecole). Questa
energia prelevata viene trasformata da energia chimica ad un altro tipo di energia (per esempio
meccanica) per essere così sfruttata dall’organismo. Nel compiere questa trasformazione parte
dell’energia viene restituita all’ambiente, perché l’energia non si blocca, si trasforma. Viene, perciò,
restituita all'ambiente come calore e aumento di entropia. Il primo principio della termodinamica
riassume tutto ciò.
L’enunciato del primo principio della termodinamica dice che “La variazione dell'energia interna di un
sistema termodinamico chiuso è uguale alla differenza tra il calore fornito al sistema e il lavoro
compiuto dal sistema sull'ambiente.” In altre parole è il principio di conservazione dell’energia. In pratica
esso sancisce che non esiste il moto perpetuo: non si può immaginare un sistema in cui un oggetto
messo in moto, continui all’infinito a compiere la propria azione. Il secondo principio è quello più
importante: l’enunciato di Clausius dice che “è impossibile realizzare una macchina ciclica che abbia
come unico risultato il trasferimento di calore da un corpo freddo a uno caldo”. Inserisce il concetto
dell’entropia che parte da un’osservazione banale: il calore passa da un corpo più caldo a uno più
freddo. L’entropia è la grandezza che misura il grado di disordine di un sistema. Il calore rappresenta il
movimento delle molecole che si urtano ed è la forma di energia più degradata e disordinata. Pertanto il
secondo principio della termodinamica afferma che l’entropia in un sistema isolato tende ad aumentare
nel tempo finché non raggiunge l’equilibrio. Perciò tende sempre ad aumentare, e l’universo, quindi,
sarà sempre più disordinato in termini di energia. Il terzo principio della termodinamica dice che è
impossibile raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni. Si basa sulla
conservazione dell’energia e della massa. Nulla viene creato, né tantomeno distrutto. [il prof dice che in
sede d’esame non vuole sentire né leggere le parole “creare” nel contesto delle reazioni, per esempio
“qui si crea la molecola…”]. La quantità totale di energia rimane invariata all’inizio e alla fine di una
reazione, essa può essere convertita da una forma all’altra. Gli atomi si riorganizzano, non
scompaiono, la massa, difatti, rimane la stessa all’inizio e alla fine della reazione. Si può avere al
massimo energia di un tipo diverso e molecole di un tipo diverso alla fine di una reazione.
L’energia esiste sotto diverse forme: viene classificata in cinetica (quella di un corpo in movimento) e
potenziale (forma di energia conservata, non legata al moto). Il cibo, essendo costituito da biomolecole,
fornisce energia quando viene metabolizzato: infatti l'energia chimica è una forma di energia potenziale.
Quindi la bioenergetica è l’insieme dei principi fondamentali che sono alla base delle trasformazioni e
degli scambi di energia che avvengono negli organismi. Le cellule sono trasduttori di energia, si
occupano di trasformare l’energia chimica del cibo in energia meccanica o elettrica o osmotica. Tutte
queste trasformazioni seguono le leggi della termodinamica.
I sistemi possono essere isolati, chiusi o aperti. Vengono definiti isolati quando non scambiano né
materia, né energia con l’ambiente esterno, per esempio l’universo, poiché al di fuori dell’universo non
c’è niente. Il sistema è chiuso quando scambia energia, ma non materia, è il caso di un frigorifero
chiuso, il quale funziona buttando fuori il calore. Un sistema è definito aperto quando scambia materia
ed energia, un esempio è un frigorifero in cui posso prendere del cibo e riporlo all’interno. Ogni essere
vivente è un sistema aperto che scambia energia e materia con l’ambiente. A tal proposito lo scienziato
Prigogine (premio Nobel ’77) scrisse un libro “La nuova alleanza” in cui spiega come queste scoperte
cambiano il modo di vedere il mondo e gli esseri viventi. Nel libro definisce il vivente come macchina
da entropia e spiega il suo esperimento che è basato su un’osservazione fondamentalmente banale.
Infatti, Prigogine pose in una capsula un liquido più denso dell’acqua mischiato a colorante, notando
come il colorante si distribuisse maggiormente nelle zone in cui il liquido era più dilatato, poi scaldò la
miscela e riosservò il tutto. Di solito le molecole di acqua se scaldate si muovono, formando celle
convettive. In pratica le molecole più in basso si scaldano, si urtano, diventano meno dense e si
portano verso l’alto, dove si raffreddano, ritornano ad essere più dense e cedono il calore all’ambiente.
Prigogine, riscaldando il composto, scoprì che guardando dall’alto il colorante, quando esso giungeva
vicino alla temperatura di ebollizione, si disponeva in celle esagonali perfette. Ognuno di questi esagoni
è una cella convettiva che risale dai lati e ricade al centro. Si forma così un reticolo cristallino ben
ordinato nel quale il liquido sale e cade in continuazione. Fece così questo ragionamento: il sistema è
aperto e fa da tramite con l’ambiente esterno, il calore viene spostato dal basso verso l’alto per mezzo
dei moti convettivi. Quando l’energia all’inizio è bassa, perché la temperatura è bassa, le particelle si
muovono liberamente; quando la temperatura è alta, il movimento di trasporto di energia è più efficiente
se le molecole si dispongono in maniera ordinata. È un movimento regolare che genera una struttura
ordinata. La struttura viene definita macchina da energia. Quando la quantità di energia da veicolare è
molta, c’è bisogno che si formi una struttura organizzata che è pertanto più efficiente. Dato un certo
livello di flusso di energia tutte le molecole tendono a costituire una struttura ordinata per veicolare il
calore all'ambiente esterno obbedendo alle leggi della termodinamica. Più aumenta il flusso di energia,
più un vivente evolve in maniera più complessa ed ordinata. Così viene dimostrato che l’ordine degli
esseri viventi è una conseguenza dell’evoluzione. Apparentemente va contro le leggi della
termodinamica, che sanciscono come tutto l’universo tende a una condizione di disordine, ma in realtà
l’ordine in un sistema è obbligatorio quando il flusso di energia è presente a un livello alto perché
servono adeguate strutture dissipative necessarie a veicolare il calore e a creare più caos nell'
ambiente esterno.
Per questo Prigogine definisce il vivente come macchina di entropia.
L’ ordine esiste fino a quando è presente il flusso energetico: difatti
spegnendo il fuoco sotto la capsula Petri dell’esperimento di
Prigogine gli esagoni scompaiono. Scompare anche la macchina da
entropia, e quindi l'essere vivente, senza flusso energetico. Il vivente
conserva il proprio ordine interno per non essere in equilibrio con
l'ambiente esterno e per garantire il flusso di energia. L’ordine,
quindi, rientra nelle leggi della termodinamica. Le macchine da
entropia generano più ordine dentro e più disordine fuori. È un
concetto molto importante.
L’entropia misura il disordine. Un esempio per spiegare il rapporto
ordine e disordine si ottiene mettendo un gas in una stanza collegata
con un'altra ma chiusa da un vincolo. Il sistema così fatto è in ordine
perché le molecole sono solo da una parte, il livello di entropia è basso. Se tolgo il vincolo, le molecole
tendono a spostarsi liberamente e una parte passa nell’altra stanza. Viene raggiunto uno stato di
equilibrio dinamico a energia massima, non se ne può ottenere di più.
Perciò per un vivente il raggiungimento dell’equilibrio con l’ambiente esterno significa la morte ed è per
questo che la nostra temperatura corporea è maggiore di quella esterna. L’omeostasi lavora proprio per
tenere un certo grado di disequilibrio con l’esterno e lo fa prelevando energia dall’ambiente perchè il
sistema spontaneamente tende a essere in disordine e quindi in equilibrio con l’ambiente. D'altronde, si
potrebbe riportare il gas alle condizioni iniziali? Sì, se prendo un pistone e spingo, in tal maniera
aggiungo però energia e l'azione non avviene spontaneamente. Si tratta di una reazione endoergonica.
Una reazione endoergonica ha un ΔG>0, diversamente
da una reazione spontanea esoergonica con ΔG<0. Ogni
reazione comporta una variazione di energia e tutte le
reazioni sono rigorosamente coordinate. La cellula ordina
e regola le reazioni. Le vie metaboliche stesse sono
regolate. Perdendo il coordinamento si ha uno stato
patologico. Ogni reazione ha un proprio ΔG°’ [sarebbe
“delta G zero primo] e due reazioni concatenate hanno
come ΔG°’ la somma dei ΔG°’ di ciascuna reazione. Le
energie libere di reazioni di successione sono additive.
Le reazioni chimiche sono accoppiate e catalizzate come
già detto. L’energia prodotta da processi esoergonici
viene utilizzata per processi endoergonici.
Un esempio di reazioni di successione è la fosforilazione
del glucosio:
L’ATP sposta la reazione verso destra, rilascia energia e permette reazioni endoergoniche,
generalmente di tipo biosintetico. I viventi richiedono un continuo apporto di energia per produrre lavoro
meccanico, trasporto attivo e sintesi di macromolecole partendo da molecole più semplici. Gli organismi
sono, infatti, classificati in base a come ricevono l’energia dall’esterno: esistono i fototrofi e chemiotrofi.
I fototrofi sfruttano l’energia intrappolando la luce solare, è il caso delle piante. I chemiotrofi ottengono
energia ossidando combustibili carboniosi, come per esempio gli animali.
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L’anabolismo comprende invece tutte le reazioni di sintesi. Si tratta di processi in cui i monomeri
(precursori) si uniscono tra loro con reazioni di condensazione, per formare polimeri o
macromolecole. Si tratta di reazioni endoergoniche, che per avvenire necessitano energia in quanto
i prodotti hanno un livello energetico più alto di quello dei reagenti.
Le vie degradative e le vie biosintetiche, perché il processo avvenga in modo continuo e corretto,
devono essere accoppiate. Per accoppiamento si intende il passaggio di energia da reazioni di
degradazione che, essendo esoergoniche liberano energia nell’ambiente, a quelle di biosintesi, che
essendo, invece, endoergoniche, richiedono energia per avvenire. Il ruolo di tramite tra i due
processi è svolto dall’ATP. Le due vie metaboliche devono essere regolate e dotate di dinamismo.
ATP
L’ATP è un nucleotide costituito da:
• un’unità monosaccaridica centrale (ribosio);
• una base azotata (adenina);
• tre gruppi fosfato.
La fosforilazione ossidativa è la modalità più frequente con cui avviene la produzione di ATP: il 90%
dell’ATP è prodotta così. Il termine “ossidativa” indica che il processo necessita di ossigeno. Avviene
nei mitocondri, che possono essere considerati come la centralina energetica della cellula.
La fosforilazione a livello del substrato, responsabile della produzione del 10% dell’ATP totale,
prevede la fosforilazione diretta dell’ADP utilizzando l’energia liberata dalla rottura di legami di
alcune particolari molecole fosforilate, molto più energetiche dell’ATP (molecole ad altissima
energia). Questo tipo di fosforilazione non necessita di ossigeno ed avviene nel citoplasma delle
cellule.
Il legame della fosfocreatina vale, quindi, -30.5 + 10.3 = -40.8 kJ/mol. Dunque, quando io chiedo
un’attività di potenza al muscolo, questo presenta un ulteriore serbatoio di legami ad alta energia
che sono stati contenuti nella fosfocreatina.
Fosoenolpiruvato, 1,3 bisfosfoglicerato e fosfocreatina sono gli unici tre composti in grado di
effettuare la fosforilazione diretta dell’ATP poiché sono gli unici a contenere un legame fosfato più
energetico di quello dell’ATP. Esiste, in realtà, un quarto ed ultimo esempio di fosforilazione a livello
del substrato e avviene nel mitocondrio.
4) COENZIMA Q: è un chinone
solubile nei lipidi che trasporta
elettroni e protoni nelle membrane.
Ha una struttura di tipo idrofobico, è
capace di ossidarsi e ridursi, anche in
maniera parziale, ma dato che è
idrofobica è una molecola che
funziona benissimo dentro le
membrane. Nella sua struttura
notiamo: una parte ad anello che sarà
il centro di reazione e un’unità a 5
atomi di carbonio che si ripete,
chiamata isoprenoide, la quale è
reattiva e permette tramite l’attacco di
altre molecole la formazione di
strutture sempre più complesse
importanti poi per svolgere
determinate funzioni. Comunque la
coda idrofobica costituita dalle
ripetitive unità di isoprenoidi permette
al coenzima Q di rimanere all’interno
della membrana, mentre la testa, che
è il centro di reazione, può, in un primo passaggio, legare un H e un elettrone diventando
COENZIMA QH● (il punto nero indica che è un radicale e si chiama semichinoide), poi, in
un momento successivo, può entrare un secondo elettrone o un secondo protone e verrà
chiamato COENZIMA QH2, esso è completamente ridotto e viene denominato ubichinolo.
Anche il coenzima Q non è legato in maniera covalente dagli enzimi che lo utilizzano, quindi
possiamo considerarla anch’essa una molecola libera, però con il vincolo di essere libera
all’interno della membrana, non può essere libero nel citoplasma in quanto è una molecola
idrofobica. Il coenzima Q è talmente importante nel nostro organismo che lo produciamo per
biosintesi tramite una via metabolica molto efficiente, non dobbiamo assumerlo tramite
l’alimentazione.
MISURA DELL’ENERGIA
Questo è lo schema generale dei flussi metabolici che avvengono in una cellula, ed è
estremamente semplificato, al di sopra ci sono i nutrienti, essi vengono degradati attraverso vie
metaboliche, lo scopo della loro degradazione è strappare potere riducente. Il potere riducente
viene caricato sulle navette di trasporto di elettroni NAD+ e FAD che lo portano alla catena di
trasporto degli elettroni. Attraverso questa catena, gli elettroni vengono portati all'ossigeno che
diventa acqua. Questo flusso produce l'ATP che viene consumato dalle funzioni biologiche e
riformato con queste reazioni, in modo che la carica energetica cellulare si mantenga uguale. Se la
carica scende tutti i meccanismi vengono accelerati in modo che l'ATP venga ricaricato più
velocemente. L'obiettivo è l'omeostasi energetica, quando la cellula la mantiene ha abbastanza
energia per svolgere tutte le funzioni di tipo anabolico: la sintesi proteica, la sintesi delle
membrane, il movimento, la contrazione e la duplicazione, per fare qualche esempio. Tutte queste
attività vengono mantenute se la cellula mantiene costante la carica energetica cellulare. Se la
carica energetica scende questi processi accelerano, se la carica energetica sale, questi processi
rallentano [n.d.s. dovrebbe trattarsi di un feedback negativo, se così stanno le cose].
Questo è solo un richiamo per collegarci al trasporto dell'ossigeno.
Il trasporto dell'ossigeno
Il trasporto dell'ossigeno
dipende, tra i tanti fattori,
specialmente dall'ematocrito.
L'ematocrito è la quantità degli
elementi corpuscolati presenti nel
sangue. La componente più
importante dell'ematocrito sono gli
eritrociti, che ne costituiscono la
più grande parte. Di conseguenza
quando l'ematocrito subisce
variazioni, queste riguardando
soprattutto gli eritrociti. Se
l'ematocrito scende al di sotto ad
un determinato valore si parla di
anemia. Ma può anche superare
questo valore, in questo caso diminuisce la fluidità del sangue e si rischiano fenomeni di
coagulazione intravascolare. Se la produzione di eritrociti viene stimolata in maniera anomala,
l'organismo rischia la morte per infarto. Questo succede quando alcuni sportivi come i ciclisti,
utilizzano ormoni, come l'eritropoietina, che stimolano la produzione di eritrociti nel midollo.
Analizzare l'ematocrito è utile quindi sia per diagnosticare l'anemia sia per fare controlli anti-doping
nelle gare sportive.
Dall'ematocrito dipende anche il gradiente di concentrazione dell'ossigeno. Questo permette la
diffusione dell'ossigeno dall'aria alveolare fino all'interno dei capillari. Una volta che l'ossigeno è
entrato viene portato attraverso dei meccanismi molecolari ai tessuti periferici. Il consumo di
ossigeno produce CO2; grazie all'enzima anidrasi carbonica si forma lo ione bicarbonato; il PH
cambia; l'emoglobina diventa più propensa al rilascio di ossigeno. Se non arriva abbastanza
ossigeno ai tessuti periferici, noi possiamo sopravvivere grazie ad un meccanismo anaerobio che
permette la formazione del lattato.
Una volta che l'ossigeno è arrivato nella cellula, arriva per diffusione nel mitocondrio ed avviene la
respirazione cellulare.
Glicolisi: il glucosio, a 6 atomi di carbonio, viene scisso, in due molecole di piruvato, a 3 atomi di
carbonio. Il processo richiede 10 tappe e produce 2 ATP in maniera diretta, grazie alla
fosforilazione a livello del substrato.
Ogni piruvato, molecola a 3 atomi di carbonio, nella decarbossilazione ossidativa, una tappa
intermedia in cui si libera una molecola di CO2, diventa un acetile, a 2 atomi di carbonio, a cui si
aggiunge il CoA formando l'acetil-CoA. Per ogni piruvato si forma anche un NADH + H+ a partire
dal NAD+.
Ciclo di Krebs: avviene nei mitocondri, si liberano due CO2 per acetil-CoA. Il mitocondrio, quindi,
è il principale produttore di anidride carbonica, questa sarà in seguito catturata dall'anidrasi
carbonica. Viene inoltre prodotto ATP ancora tramite la fosforilazione a livello del substrato. Grazie
a questo ciclo si ha la maggiore formazione di NADH + H+, se ne formano 6, e si formano anche 2
FADH2.
Fosforilazione ossidativa: il NADH e il FADH2 hanno il compito di portare gli elettroni alla catena
di trasporto degli elettroni. Questa catena è formata da una serie di complessi proteici ordinati
secondo un potenziale redox che va dal – al +, gli elettroni saltano su ciascuno di questi elementi
fino a raggiungere l'accettore finale, l'ossigeno. Questo flusso è esoergonico e l'energia che
rilascia è usata per formare dalle 32 alle 34 molecole di ATP. Il trasporto degli elettroni è l'unico
meccanismo aerobio, i precedenti non richiedevano ossigeno e producevano, nel complesso, solo
4 ATP. La possibilità di sfruttare un meccanismo aerobio da parte delle cellule le ha portate ad
evolversi verso un livello di complessità maggiore: grazie a più energia le cellule possono fare più
operazioni.
Il movimento degli elettroni secondo un gradiente elettrochimico è esoergonico e rilascia -52,6 kcal
molto di più di quanta serve per fare una molecola di ATP ovvero -31kcal circa
I mitocondri
La cellula dà al mitocondrio il piruvato e l'ossigeno, il mitocondrio restituisce l' ATP che la cellula
sfrutta per le sue attività metaboliche. Il mitocondrio produce molta più energia di quanta ne
consuma.
Vengono definiti “complessi” perché fatti da diverse proteine e altri elementi organi-
ci.
Sul coenzima Q può quindi essere scaricato il potere riducente proveniente dai
complessi I e II. Il coenzima Q può accogliere due elettroni e due protoni per diven-
tare completamente ridotto in QH2. Quando è ridotto, muovendosi dentro alla mem-
brana interna, può trasferire il potere riducente al complesso III. Il quale complesso
III è detto anche Q-citocromoC ossidoreduttasi: è un complesso enzimatico fermo e
incastonato nella membrana interna che trasferisce il potere riducente dal coenzi-
ma Q al citocromo C.
dox tale che nel cedere gli elettroni all’ossigeno non venga rilasciata una energia
sufficiente a danneggiare la cellula.
Se infatti avessi fatto reagire gli idrogeni del NAD e del FAD e gli elettroni con l’os-
sigeno avrei avuto una reazione esplosiva, per questo gli elettroni non passano di-
rettamente dal complesso I o II all’ossigeno ma vengono trasferiti attraverso diverse
tappe. Tappe in cui l’energia rilasciata è piccola e quindi maneggiabile dalla cellula.
Gli elettroni del FAD ridotto entrano dal complesso 2. Dal complesso II vanno nel Q
riducendolo a QH2. Avendo ridotto il Q gli elettroni proseguono nel complesso 3 e
poi 4.
La strada ora è diventata complesso 2,3,4, poi ossigeno.
Il complesso V viene detto anche detto anche “ATPasi mitocondriale”. Questo com-
plesso è quello che produce l’ATP. Per fosforilare l’ATP servono almeno 31 kJ/mole,
per questo è necessario che il complesso V debba essere sempre rifornito di ener-
È necessario che ci sia anche l’ossigeno. Il flusso di elettroni infatti rilascia l’energia
necessaria per per la fosforilazione di ATP: se si ferma il flusso di elettroni non c’è
più energia per fosforilare l’ATP, per questo si parla di accoppiamento.
Pur essendo processi diversi, senza l’uno l’altro non può avvenire.
Purificando i complessi enzimatici della membrana interna non solo non si vedono
le attività che questi svolgono dal vivo, ma addirittura si vedono attività contrarie:
questa è una manifestazione concreta dell’importanza dell’integrità biologica del mi-
tocondrio.
I complessi sono intrinseci nella membrana, molti hanno porzioni sporgenti dalla
membrana verso l’interno o verso l’esterno.
Il diverso numero di protoni spostati contro gradiente nei due flussi spiega perché
avremmo più ATP dal NAD che dal FAD.
Complesso 1.
Il complesso 1 contiene un FMN (flavina mononucleotide) a cui si lega covalente-
mente. FMN può accettare due elettroni e due protoni diventando FMNH2.
Oltre a contenere l’FMN contiene anche vari atomi di ferro, alcuni dei quali non
sono legati ai citocromi, ma ai centri ferro-zolfo. I centri ferro-zolfo sfruttano la capa-
cità del ferro di cambiare valenza per trasferire elettroni al coenzima Q.
Complesso Q.
Il Q può accettare atomi di idrogeno ed elettroni sia dall’FMNH2 del complesso 1,
sia dal FADH2 del complesso 2.
Altri substrati possono trasferire elettroni e protoni al Q tramite flavoproteine.
I citocromi.
Sono dei componenti importanti di questa catena di trasporto di potere riducente.
Sono proteine coniugate appartenenti alle emoproteine (mioglobina, emoglobine e
citocromi). Si classificano nelle classi A, B, C che differiscono per i sostituenti late-
rali dell’anello porfirinico e per le sequenze delle catene proteiche dato che sono
trascritte da geni diversi.
In loro il ferro può ridursi e ossidarsi in continuazione permettendo cosi il trasporto
di elettroni.
Le forme ridotte non vengono ossidate dall’ossigeno, ma soltanto da un altro cito-
cromo secondo il potenziale crescente di ossidoriduzione: i citocromi funzionano in
scala.
Il complesso 4.
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Molte ossidoreduttasi che invece di utilizzare il ferro usano il rame perché anche
esso può accettare e cedere elettroni.
Veleni.
I complessi della membrana mitocondriale interna possono essere bloccati da mo-
lecole. Lo ione cianuro può legarsi all’emoglobina trasformandola in una forma pa-
tologica, ma il cianuro blocca anche il complesso 4 (il motivo per cui le persone av-
velenate da cianuro muoiono). Se si blocca il 4 si blocca tutto il flusso di elettroni e
quindi anche la fosforilazione ossidativa. Lo ione CN- blocca l’attività mitocondriale
quando si trova in concentrazioni sufficienti.
Tutte le molecole che bloccano i complessi sono veleni e sono utilizzate in ricerca
per bloccare selettivamente un complesso e studiare cosa avviene nel flusso degli
elettroni e nella produzione di ATP, ma anche per studiare le interazioni tra i com-
plessi.
ROS
Il passaggio da un metabolismo anaerobio ad uno aerobio ha permesso una maggiore efficienza
energetica e il passaggio a forme di vita pluricellulari. L'utilizzo di ossigeno, però, comporta anche
dei rischi per la cellula rappresentati dai ROS.
Il complesso IV è costruito in modo tale da non lasciar sfuggire i ROS (reactive oxygen species).
Quando la stechiometria della reazione è perfetta, cioè 4H + + 4e- + O2 → 2H2O, si forma solamente
acqua, ma quando la stechiometria non è perfetta si possono formare dei ROS (H 2O2, ●O2, ●OH,
etc...) [n.d.s. Il pallino indica un elettrone spaiato, cioè un radicale]. Queste specie chimiche sono
altamente reattive nei confronti di tutte le biomolecole, quindi possono danneggiare punti critici
della cellula come DNA, proteine e membrane. La cellula cerca di ridurre al minimo la produzione
di ROS, ma è chiaramente impossibile portare a zero la possibilità che vengano prodotti, perciò i
mitocondri per definizione producono anche ROS, e ne producono sempre di più quanto più
sono attivi. Di conseguenza le cellule si sono attrezzate per limitare i danni creati da questi
ROS in vari modi, uno di questi è legato alla struttura del complesso IV, un altro all'enzima
superossido dismutasi, presente sia nel mitocondrio che nel citosol, che usa il potere riducente
della cellula (principalmente il glutatione, che è un tripeptide) per per bloccare lo ione superossido.
Altre sostanze che possono essere usate per bloccare i ROS sono gli antiossidanti (ad es. la
vitamina c e i tocoferoli). Allo stesso tempo, però, i ROS sono anche utilizzati dal nostro
organismo per alcune funzioni, ad esempio i linfociti NK usano la citotossicità dei ROS per
eliminare le cellule estranee e/o patogene.
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enzimi, che sono disciolti nella matrice mitocondriale, questo è ancorato alla membrana
mitocondriale interna. Questo enzima produce e usa il FADH2. A differenza degli altri complessi
non è una pompa protonica, quindi non crea gradiente elettrochimico, per questo motivo si
ricava meno energia dal FADH2 che dal NADH. Come il complesso I scarica gli elettroni sul
coenzima Q.
Ciclo del Q
Il complesso III permette al coenzima Q di ridurre due molecole di citocromo c tramite il ciclo del
Q. Il passaggio da Q a citocromo c presenta un problema: il coenzima Q trasporta due elettroni,
mentre il citocromo c può accettarne uno solo. Questo viene risolto tramite il ciclo del Q: una
molecola di QH2, proveniente o dal complesso I o dal complesso II, entra nel complesso III, qui
cede un elettrone a un citocromo c, l'altro a un'altra molecola di coenzima Q, che passa in forma
semichinonica, e i protoni del QH2 vengono pompati nello spazio intermembrana.
Entra poi un altra molecola di QH2, che cede un elettrone a un citrocomo c, i suoi protoni vengono
pompati nello spazio intermembrana, e l'altro elettrone passa alla molecola semichinonica Q che si
è formata nel passaggio precedente, questa prende poi 2H+ dalla matrice e si riduce a QH2.
QH2 + citocromo coss + Q● + 2H+ (dalla matrice) → Q + citocromo crid + 2H+ (nello spazio
intermembrana) + QH2
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quindi i due elettroni vengono ceduti ai due citocromi in due diverse reazioni.
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COMPLESSO IV
Il complesso IV è la citocromo ossidasi che si occupa di ossidare il citocromo c, trasferisce quindi
elettroni dal citocromo c all’ossigeno e permette la formazione dell’acqua. Quei protoni che erano
stati spostati durante i passaggi precedenti tornano utili per la formazione della molecola d’acqua.
L’ossigeno è l’accettore terminale degli elettroni nella catena protonica.
Il complesso IV contiene due gruppi eme (eme A ed eme A 3) e due centri rame chiamati A e B. il
centro A presenta due ioni Cu legati mediante due residui di cisteina a ponte, il centro b ha un solo
residuo di rame coordinato da tre residui di istidina. La struttura è quella di un complesso proteico
che buca la membrana infatti è presente sia sulla faccia esterna che sulla faccia interna della
membrana.
I complessi della catena respiratoria si possono associare a formare dei “super” complessi
enzimatici e questo avviene grazie alla formazione di interazioni deboli tra i complessi. Un esempio
di questo fenomeno è il respirasoma che è come un vero e proprio organo cellulare formato dal
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
complesso III e dal IV che si incastrano l’uno con l’altro e facilitano il passaggio dell’intermedio cioè
del citocromo c.
Schema degli eventi con i principali trasportatori
Qui sono mostrati i potenziali redox, si passa dal valore dell’ idrogeno -0,4 al valore dell’ossigeno
che è +0,8. Il complesso IV pur essendo quello con il valore che più si avvicina all’ossigeno compie
il salto di potenziale più elevato. Di solito in corrispondenza dei salti più alti si trovano le pompe
protoniche perché il trasferimento di energia consente lo spostamento dei protoni. Durante la
catena respiratoria gli elettroni seguono un flusso e perdono gran parte della loro energia libera,
sono infatti tutte reazioni esoergoniche. Una grande parte di questa energia (per la II legge della
termodinamica una parte deve essere dissipata sotto forma di calore, infatti i mitocondri sono
produttori di calore) viene convertita in energia chimica cioè nell’ATP.
Questo processo di formazione dell’ATP avviene durante la fosforilazione ossidativa.
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
LA FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA
È questo che genererà ATP, cioè è questa energia potenziale che verrà sfruttata per
fosforilare la molecola dell’ATP. È paragonabile ad una centrale idroelettrica: faccio una diga
(potrebbe essere la membrana mitocondriale), aspetto che si colmi il bacino (quindi che si
formi il gradiente retrochimico intermembrana) e adesso posso sfruttare questa energia
potenziale che è dovuta all’accumulo di acqua, per far passare un flusso di acqua che arriva
ad una turbina la quale produce energia elettrica. Il principio è esattamente questo. Il sistema
genera un gradiente di protoni che viene accoppiato per un contro-flusso all’ossidazione
ovvero la fosforilazione dell’ATP.
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
genera l’ATP, sfruttando il flusso di protoni. Attenzione però: finché sussiste il flusso di elettroni, i
protoni passano per il complesso V, fanno ruotare questa “turbina molecolare” producendo
l’energia necessaria alla formazione di ATP; non appena il flusso di protoni si blocca, questi non
passano più attraverso l’enzima, non c’è produzione di energia e la rotazione avviene in senso
opposto: l’ATP viene degradato ad ADP e fosfato inorganico. Ecco perché questo complesso può
essere chiamato sia ATP sintasi che ATPasi.
Affinché l’organismo possa produrre energia e funzionare in modo appropriato dev’esserci sempre
un continuo passaggio di protoni, derivato da un flusso di elettroni, che a sua volta deriva dalla
presenza di ossigeno. Quindi il gradiente protonico è il concetto di accoppiamento che accoppia
la catena di trasporto degli elettroni (che tende a produrre continuamente il gradiente protonico) e
la fosforilazione ossidativa (che tende continuamente a dissipare energia per produrre molecole di
ATP). L’ATP formato poi deve uscire con un trasportatore: esso si forma all’interno della
membrana mitocondriale (nel matrigel), questa è estremamente selettiva, non lascia passare nulla
praticamente a meno che non ci sia un trasportatore e dunque devono esistere dei trasportatori
che permettono l’entrata di ADP e fosfato inorganico e l’uscita di ATP al di fuori del mitocondrio. In
questo modo i mitocondri ricaricano costantemente l’ATP consentendo i processi endoergonici
della cellula, mantenendo inoltre costante il livello di ATP a 0,8 che è il valore ottimale di carica
energetica cellulare. Fino a quando questo sistema estremamente dinamico è attraversato da
questo flusso di energia, la cellula funziona e la carica energetica rimane alta, la cellula è attiva.
Ma se si interrompono questi flussi la cellula va incontro a morte perché perde la sua attività.
All’inizio, quando hanno iniziato a fare studi su questo argomento si commetteva un errore che poi
si è capito dopo: quello di purificare gli enzimi. Una proteina incastonata nella membrana dispone
di aminoacidi idrofobici all’interno della membrana e idrofilici rivolti verso l’esterno, cioè il fatto che
sia immersa in una membrana influenza la sua struttura (terziaria e quaternaria). Se estraggo
questa proteina dall’ambiente (membrana plasmica) dove è situata naturalmente, la denaturo,
perde la sua struttura. In più tutto questo sistema sta in piedi se la membrana interna mitocondriale
e la membrana esterna mitocondriale sono intatte. Questo presuppone l’integrità del mitocondrio.
Se dunque prelevo un enzima, come il complesso V, e lo studio al di fuori della membrana, lo
purifico e lo metto in una provetta e do dell’ATP lo idrolizza perché questa è la reazione spontanea
(esoergonica): ATP → ADP + Pi
L’assemblaggio dell’ATP è invece una reazione endoergonica, che avviene solo se do energia
(flusso di protoni). Quindi il V complesso quando è presente in un mitocondrio funzionante,
possiamo chiamarlo ATP sintasi perché effettivamente compone ATP; quando, invece, è isolato o
in un mitocondrio inattivo allora prende il nome di ATPasi perché spontaneamente fosforila l’ATP
in ADP più fosfato. E questo avviene quando il flusso protonico si interrompe.
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
Il movimento di elettroni generato dal NAD ridotto prevede l’azione di tre pompe protoniche e
quindi alla formazione di più ATP, in quanto vengono portati più protoni all’interno del gradiente
protonico. Il flusso elettronico generato dal FAD ridotto prevede invece l’azione di due sole pompe
protoniche, generando così un gradiente protonico più basso. Di conseguenza il NAD ridotto
(NADH-H+) permetterà la formazione di più ATP,rispetto al FAD ridotto (FADH₂), in quanto i
protoni spostati dal suo potere riducente sono di meno.
La resa energetica del NAD ridotto è di 2,5 ATP, il valore ad oggi più attendibile, mentre il potere
riducente del FAD permette di generare 1,5 ATP. In precedenza i valori utilizzati per la resa
energetica erano diversi: la resa del NAD ridotto era di 3 ATP, mentre quella del FAD ridotto era di
2 ATP. Le due rese energetiche sono differenti in quanto il potenziale elettrochimico del NAD e del
FAD sono diversi.
Il flusso degli elettroni genererà a sua volta un flusso di protoni. I protoni verranno trasferiti
all’interno del complesso V, grazie a un canale presente nella porzione incastonata all’interno della
parete della membrana interna del mitocondrio. Il passaggio dei protoni permetterà lo svolgimento
della catalisi rotazionale, che si svolgerà nella porzione del complesso V, che protrude verso la
matrice mitocondriale. Questa porzione viene considerata la vera ATP-sintasi, in cui viene
catalizzata la reazione delle molecole di ADP e Pi, ovvero fosfato inorganico, per la produzione di
ATP.
ACCOPPIAMENTO E DISACCOPPIANTE
L’energia potenziale chimica presente negli alimenti, viene strappata sottoforma di potere
riducente. Il potere riducente viene utilizzato per spostare protoni, generando il gradiente
elettrochimico (ipotesi chemiosmotica). Il gradiente elettrochimico è un’energia potenziale che
viene sfruttata per far procedere in avanti una reazione fortemente endoergonica, per la
produzione di ATP. Se il flusso si interrompe il processo funziona al contrario, quindi non vi è più la
produzione di ATP, ma il suo consumo.
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gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
L’ATP-sintasi è costituita da una porzione situata nella membrana interna mitocondriale (F₀) e una
porzione che protrude nella matrice mitocondriale (F₁). Le
subunità legate alla membrana presentano lettere dell’alfabeto
latino, mentre quelle che non sono direttamente legate alla
membrana presentano delle lettere dell’alfabeto greco.
La porzione legata alla membrana presenta almeno 12
subunità di tipo c, una subunità di tipo a e due subunità di tipo
b.
La porzione non legata alla membrana presenta, invece, una
subunità ε, γ, che rappresenta una sorta di perno, tre subunità
β, tre subunità α e una subunità δ.
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
Le tre subunità β, che possono essere considerate le vere e proprie ATP-sintasi, lavorano
contemporaneamente permettendo un lavoro su tre ATP. Ogni subunità lavora in maniera
indipendente, ma in relazione alla rotazione cattura i suoi substrati, genera ATP e poi lo libera. Si
tratta, quindi, di un lavoro, simultaneo, a catena di montaggio su tre ATP.
Come già in precedenza descritto ad ogni rotazione cambia la conformazione delle subunità β, che
attraversano così tre fasi: entrata del substrato, formazione del prodotto e liberazione di esso.
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
Nelle cellule che presentano mitocondri la mancanza di ossigeno causa l’arresto (il blocco) dei
mitocondri. La mancanza di ossigeno, attrattore di elettroni della catena respiratori, blocca la
respirazione cellulare, il flusso elettronico, la formazione di un gradiente protonico, inoltre il
gradiente protonico presente viene dissipato per formare le ultime molecole di ATP e infine la
carica energetica all’interno della cellula crolla; la domanda che sorge spontanea è: “Perché la
cellula muore?”
Lo shock osmotico e il blocco delle pompe Na/K ATP-asi si verifica ovviamente in tutte le cellule
(eritrociti, cellula muscolare striata ecc.) ma ovviamente le cellule presentano una diversa
resistenza. La cellula con resistenza più critica è la cellula nervosa. Infatti il battito cardiaco, la
respirazione possono essere ripristinati mentre la morte cerebrale no. (Un soggetto può presentare
un battito cardiaco, ma può essere cerebralmente morto).
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V
BILANCIO ENERGETICO
Le vie metaboliche presentano dei bilanci energetici. Nel bilancio energetico vengono considerati o
i nucleotidi ridotti e i coenzimi ridotti o le molecole di ATP che possono essere prodotte da una
determinata via metabolica.
Una via metabolica può ad esempio produrre un FAD ridotto e un NAD ridotto e di conseguenza
può produrre un determinato numero di molecole di ATP. Il bilancio energetico espresso attraverso
il numero di coenzimi ridotti è molto chiaro, mentre quando si parla di molecole di ATP bisogna
dichiarare sempre il criterio di conversione.
Nel primo criterio di conversione, considerato sperimentalmente il più realistico, un NAD ridotto
corrisponde a 2,5 ATP, mentre un FAD ridotto corrisponde a 1,5 ATP.
Nel secondo criterio di conversione, un NAD ridotto corrisponde a 3 ATP, mentre un FAD ridotto
corrisponde a 2 ATP.
Questa differenza è dovuta al fatto che il potere riducente del NAD scaricato sull’ossigeno
permette di trasferire 10 protoni, mentre il potere riducente del FAD permette di trasferirne
solamente 6.
È stata calcolata anche la stechiometria del gradiente protonico ed è stato studiato che per la
fosforilazione di un ATP è sufficiente il gradiente protonico di quattro protoni,di questi, tre protoni
sono necessari per la rotazione del complesso F₀, mentre un protone viene utilizzato per l’ingresso
del fosfato, che si verifica contro gradiente. Il fosfato entra all’interno della matrice mitocondriale
grazie al suo trasportatore, spendendo un protone in uscita.
1ATP = 4 H+
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Lezione n°21 del 30.05.2018
Sbobinatore: Cecilia Baraldi, Giulia Perina
Controllore: Carolina Tessitore
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Regolazione della fosforilazione ossidativa, accoppiamento, disaccoppiamento, inibitori del flusso
di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale
In condizioni di riposo e conseguente carica energetica cellulare relativamente alta, intorno a 0,75- 0,8,
viene trasportata una quantità sufficiente di ossigeno ai tessuti periferici in modo da garantirne il
metabolismo ossidativo, si produce potere riducente e nucleotidi ridotti, NADH e FADH2, in stato di
equilibrio sufficiente per garantire questi processi. Inoltre, sono presenti fosfato inorganico e ADP (non
sempre l’ATP è disponibile al 100%, questo poiché interviene in processi quali le pompe sodio-potassio
ATPasi. A tal proposito, una piccola quantità di ADP e fosfato inorganico viene costantemente ricaricata dal
processo, come condizione di partenza)
Tramite una serie di processi, il glucosio viene degradato fino ad arrivare a piruvato tramite la glicolisi,
successivamente il piruvato subisce una decarbossilazione ossidativa all’interno del mitocondrio
diventando acetilcoenzima A, molecola che alimenta il ciclo di Krebs. Attraverso questo processo si
generano gli equivalenti riducenti, poi sfruttati nella catena respiratoria con consumo di ossigeno, per
produrre infine ATP.
(Le frecce rosse indicano un fenomeno di tipo inibitorio, mentre le frecce verdi significano segnale
d’induzione.)
(Non tutti i passaggi sono riportati, solo i fenomeni di regolazione più importanti riguardanti più vie
metaboliche e più meccanismi.)
Il fatto che i passaggi siano regolati è determinato da una logica molecolare, tramite regolazioni
automatiche che però obbediscono alle leggi dell’omeostasi energetica e molecolare. La cellula esegue le
azioni minime al proprio sostentamento e non spreca, altrimenti se consumasse ATP inutilmente non
sarebbe avvantaggiata dal punto di vista evolutivo, verrebbe soppiantata da una cellula più efficiente e in
grado di sfruttare meglio l’energia. Questi processi rispondono dunque ad una logica molecolare che risulta
un prodotto dell’evoluzione.
È necessario che questi siano rispettati, e ciò è sottolineato dal fatto che anche organismi molto diversi tra
loro dal punto di vista filogenetico possono avere gli stessi meccanismi di regolazione, ogni passaggio
pertanto deve essere eseguito in un solo modo.
Una tra le più tipiche condizioni tendenti ad abbassare la carica energetica cellulare è ovviamente l’attività
fisica. Ad esempio, una fibra muscolare contiene cellule adibite alla contrazione le quali si accorciano
consumando ATP, e ciò comporta l’attivazione di meccanismi di omeostasi energetica per mantenere la
carica energetica cellulare a livelli adeguati.
Nelle condizioni di sforzo fisico intenso, l’ATP diminuisce, mentre cresce la quantità di ADP e fosfato
inorganico, e in casi estremi anche quella di AMP. La carica energetica cellulare è un regolatore molto
importante, affiancato dal sensore MPcinasi in grado di misurare in tempo reale il contenuto energetico
della cellula e rispondere immediatamente; l’abbassamento induce subito la glicolisi, il ciclo di Krebs e la
fosforilazione ossidativa, processi che puntano alla degradazione di nutrienti per avere potere riducente e
per produrre infine ATP. Durante l’esercizio fisico, al fine di soddisfare la richiesta di più ossigeno poiché ne
aumenta anche il consumo, si alza la gittata cardiaca, la pressione e la frequenza respiratoria.
Vi sono differenze rilevanti tra soggetti allenati e soggetti sedentari; in questo ultimo caso si riscontrano
maggiori difficoltà nell’affrontare la prestazione fisica a causa di una soglia aerobica bassa, quindi si
produce lattato molto rapidamente, ed altrettanto rapidamente la sua glicolisi passa da essere aerobica ad
anaerobica e la fosforilazione a livello substrato viene utilizzata, questo poiché l’ATP viene prodotta anche
senza l’attività mitocondriale. Una caratteristica dei soggetti allenati è al contrario la produzione di lattato
posticipata. Generalmente, dalla potenza dell’attività dipende la formazione di lattato. Nel soggetto
allenato, la soglia aerobica si alza ed egli riesce a sostenere lo sforzo fisico di potenza in condizioni
aerobiche per un tempo maggiore, e ciò ha delle ricadute perché il soggetto si stanca meno e performa
meglio, per tempo più lungo e produce infine meno lattato, recuperandolo in tempi brevi. In conclusione,
sente meno la fatica durante la prestazione e una volta terminata, necessita di meno recupero.
L’allenamento impone dunque una serie di modifiche dell’organismo a favore dell’aerobiosi; aumenta il
numero di mitocondri e la vascolarizzazione dei tessuti muscolari periferici, il cuore diventa più potente ed
il ventricolo sinistro si irrobustisce (“cuore d’atleta”) per essere più capace di pompare sangue a volumi
maggiori con un ritmo maggiore, e anche se non è in montagna il soggetto ha un 2,3-BPG (2,3-
bifosfoglicerato) leggermente aumentato (È un modulatore allosterico che provoca un cambiamento
conformazionale dell’emoglobina. Se il BPG è inserito ostacola la transizione nella forma R dell’emoglobina,
ovvero stabilizza la forma T che rilascia più ossigeno. Nei tessuti periferici con un aumento della
concentrazione del BPG, l’emoglobina di conseguenza cede più ossigeno). Pertanto, l’allenamento risulta in
una serie di modifiche a favore della capacità di trasporto dell’ossigeno ed al fine di mantenere una soglia
aerobica più alta. Inoltre, anche il gesto tecnico deve essere eseguito in maniera corretta.
ACCOPPIAMENTO
Il trasporto di elettroni fornisce energia per spostare i protoni e questo permette la fosforilazione ossidativa
ed avviene in tutti i tessuti che contengono mitocondri. Ci sono tuttavia eccezioni; gli eritrociti ad esempio
non li possiedono. I globuli rossi, essendo cellule terminali, prodotte originalmente dal midollo osseo, poi
maturate in una serie di fasi e conservanti nucleo e mitocondri fino ad un certo stadio ma una volta maturi
li espellono, perdendo anche la capacità di replicare. Essi hanno una vita determinata, di circa 120 giorni,
poi vengono distrutti da un meccanismo attivo nella milza e nel fegato. Gli eritrociti non compiono la
fosforilazione ossidativa anche perché hanno scarse esigenze energetiche, e richiedono meno ATP a seguito
delle poche funzioni attive, quali le pompe sodio potassio ATPasi per l’omeostasi. Questi sono esempi
importanti di cellule con metabolismo anaerobio ed un’interessante applicazione della “legge del conflitto
di interessi”, poiché l’eritrocita è molto efficiente nel trasporto di ossigeno ma non lo può usare perché non
ha mitocondri. Vi sono inoltre altre cellule che non presentano un metabolismo ossidativo.
Il flusso di elettroni consente la fosforilazione ossidativa ma anche quest’ultima consente il flusso di
elettroni; sono infatti sono accoppiati, hanno pari rilevanza e devono avvenire contemporaneamente. Se il
gradiente protonico non è sufficiente, la catena respiratoria cessa. Se in una cellula il quinto complesso non
trova il substrato, ADP e fosfato inorganico, si blocca e così facendo non lascia passare protoni, e se il
gradiente protonico è alla quota massima, la catena respiratoria cessa perché non è possibile muovere altri
protoni, poiché il gradiente è talmente alto che non può crescere, e l’energia rilasciata dal flusso elettronico
non è sufficiente. Fino ad un certo livello è permessa una di differenza tra le cariche elettriche, il gradiente,
ma se arrivati al limite, l’aumento termodinamico del gradiente di protoni deve essere dissipato,
consumato, al fine di riprendere il flusso elettronico. Se la catena respiratoria cessa, la fosforilazione
consuma il gradiente protonico fino a che questo non è più sufficiente a produrre ATP. Se non vengono
spostati altri protoni, quelli presenti ad un certo punto passano al complesso quinto e una volta giunti ad
una uguale concentrazione da entrambe le parti, non si può formare ATP (“ad esempio in una diga, se il
bacino è pieno fino a livello, non può più entrare acqua”).
DISACCOPPIAMENTO
Quando l’accoppiamento viene messo in crisi si parla di disaccoppiamento ed è causato da composti che
aumentano la permeabilità della membrana mitocondriale interna ai protoni. Se questi riescono a
transitare per il complesso quinto, vengono utilizzati per produrre ATP, ma se trovano un passaggio
alternativo, come una proteina o un canale per protoni, il loro transito si conclude senza produzione finale
di ATP e dunque senza formare energia chimica. Il disaccoppiante non riduce il consumo di ossigeno, bensì
lo aumenta perché il sistema risulta meno efficiente. Gli agenti disaccoppianti, permettendo un transito
alternativo ai protoni, dissipano il gradiente elettrochimico accumulato con il flusso di elettroni, e nel
rispetto del secondo principio termodinamica, questo diventa calore. Di conseguenza aumenta il consumo
di substrato, la respirazione e con effetto termogenetico.
Esiste una patologia genetica gravissima, spesso latente fino ad un eventuale intervento richiedente
anestesia, poiché alcuni farmaci anestetizzanti provocano in soggetti affetti un effetto disaccoppiante
letale; in pochi minuti dissipa tutti i gradienti protonici e questa termogenesi maligna può uccidere il
paziente. A tal proposito, prima di un intervento viene iniettata una piccola quantità di anestetizzante nel
soggetto e si verifica se provoca effetti nel soggetto.
Un altro esempio di disaccoppiante è l’aspirina, se assunta in dosi molto elevate, provoca termogenesi
maligna. Si sono verificati casi molto rari in cui bambini hanno assunto dosi eccessive e questo ha provocato
conseguenze gravi. Di norma l’aspirina è un antinfiammatorio e antifebbrile ma pirogenica a dosi elevate a
causa del calore disperso per effetto termogenetico.
Inoltre, anche il 2,4-dinitrofenolo, di sintesi chimica, ha un effetto disaccoppiante.
In ambito fisiologico, l’effetto termogenetico è presente a livello molecolare per decidere quanta energia
utilizzare per produzione ATP e quanta per il calore, ed il regolatore di questo fenomeno è l’ormone
tiroideo T4 tiroxina, entrambi (t3 e t4) sono infatti regolatori del metabolismo basale (ovvero l’efficienza
metabolica, quanta energia di questo gradiente protonico finisce in ATP e quanta in calore). Il soggetto
ipertiroideo è in genere iperattivo, magro, con una temperatura corporea elevata e mangia molto, mentre
l’ipotiroideo ingrassa facilmente, è più sedentario ed ha una temperatura corporea minore.
Si tratta di due casi estremi, ma anche in un soggetto qualunque il metabolismo basale e le modifiche a
livello degli ormoni tiroidei dipendono dal sesso, dall’età e anche dal clima; se fuori c’è freddo, per
mantenere la temperatura corporea di 37° è necessaria una liberazione maggiore di calore, se fuori invece
c’è caldo, il calore non deve essere prodotto. Si tratta in questo caso di un effetto fisiologico, nel caso
dell’aspirina di un effetto collaterale, mentre il 2,3-dinitrofenolo è un veleno.
In questo schema è rappresentato il complesso quinto ed il gradiente protonico formato da tre pompe che
andranno a rifornire il serbatoio protonico, i protoni transitano nel complesso quinto e poi saranno
utilizzati per produrre ATP.
Nel caso in cui ci sia una proteina canale per i protoni, non viene accoppiato il flusso protonico per formare
ATP poiché permette il passaggio di protoni al suo interno e nel fare questo viene dissipato calore. Il nome
della proteina è termogenina, poiché disaccoppia e consuma parte del gradiente protonico per produrre
calore nelle membrane mitocondriali e la sua espressione dipende da ormoni tiroidei, questi ne inducono
quindi un’espressione minore o maggiore. Se sono presenti più termogenine nella membrana interna
mitocondriale vi sarà un maggior disaccoppiamento che risulterà in una minore efficienza del mitocondrio,
il quale per mantenere un’uguale carica energetica cellulare deve consumare più alimenti e ossigeno e
viceversa. Se le persone ingrassano facilmente, significa che il metabolismo basale è basso ed hanno
mitocondri più efficienti. Ha bisogno di minor energia e minor quantità di alimenti e consuma poco. Le
differenze individuali tra metabolismi e consumo energetico tra persone sono dovute a questo fatto, e
possono essere molto grandi, anche il doppio.
Vi sono mitocondri specializzati in un particolare tessuto lipidico, il tessuto adiposo bruno (colorazione
quasi ocra, perché presenta adipociti ricchi di mitocondri che rendono la cellula più scura), tipico di tutti i
mammiferi che vanno in letargo e nei neonati. Viene prodotto prima del letargo; tali animali mangiano
molto, aumentano il loro peso e grazie alle calorie accumulate nel tessuto bruno, in letargo vengono
consumate per produrre calore. In tali condizioni infatti non è richiesta tanta ATP perché non vi è
contrazione muscolare, calano la gittata e la frequenza cardiaca, ma vi è l’esigenza di produrre calore per
far fronte alle gelide temperature esterne. Il tessuto adiposo è in grado di produrre calore grazie ai
mitocondri ricchi di termogenina.
Nei neonati, questo è presente tra le scapole e la nuca ed è di vitale importanza per fare superare al
bambino lo shock termico della nascita. Egli era infatti abituato ad una temperatura di 37° all’interno della
placenta materna, mentre quella ambientale è molto minore di tale valore. Oltre allo shock respiratorio per
liberare le vie aeree ed iniziare a respirare con i polmoni, subisce dunque anche uno shock termico. Si tratta
di un passaggio critico; sono state messe a punto culle termiche in grado di emettere radiazioni infrarossa
per rendere lo shock minore, soprattutto nei bambini pretermine nati al sesto/settimo mese e non aventi
ancora il tessuto adiposo bruno. In conclusione, il tessuto adiposo bruno causa la dissipazione del gradiente
protonico tramite molta termogenina e altre proteine disaccoppianti, liberando calore. Rispetto all’altro
tessuto adiposo, ovvero il bianco, il tessuto adiposo bruno disperde il 90% di energia in più per
termogenesi.
Esempi di disaccoppianti sono il 2,4-nitrofenolo, una molecola relativamente semplice, ed il FCCP, molecola
più complessa. Sono entrambe molecole di sintesi con effetti tossici.
Oltre a questo fenomeno di disaccoppiamento all’interno della membrana mitocondriale vi sono inibitori.
Si tratta di complessi che inibiscono in maniera specifica uno dei passaggi. Ad esempio, il NAD ridotto
attraverso il complesso 1 diventa Q, poi citocromo ecc. Il composto rotenone inibisce il complesso 1 e ne
impedisce l’uso del NAD e del suo potere riducente, che non può essere scaricato rimanendo così bloccato
per azione tossica. Si può usare in alternativa il FAD perché non è bloccato il complesso 2, così non viene
completamente interrotto il flusso elettroni, ma parzialmente.
L’antimicina A blocca il complesso 2, impedisce dunque l’uso del FAD ridotto ma è possibile utilizzare il
NAD. Tramite l’uso di queste molecole si è capita l’esistenza di due porte d’ingresso.
Il cianuro o il monossido carbonio bloccano invece il quarto complesso ed in tal caso non si può usare
ossigeno, tutte le molecole rimangono ridotte, nessuna si ossida, non viene fatto uso né di FAD né di NAD
ridotto. Viene bloccata completamente la respirazione mitocondriale.
Il rotenone è una sostanza naturale, una molecola presente nelle piante e nota in antichità come veleno ed
è simile al colesterolo come conformazione. L’antimicina A è un antibiotico e inibisce l’ATPsintasi, mentre il
cianuro e il monossido di carbonio inibiscono il complesso quarto legandosi al ferro.
Il complesso quinto è costituito due parti, una aderente alla membrana ed una testa che ruota, dette
regione FO e F1 rispettivamente. F1 è la testa che ruota e genera ATP, mentre la parte incastrata nella
membrana viene detta FO perché lì agisce l’oligomicina. Blocca così questa parte del complesso ed il flusso
protonico ma non blocca quello di elettroni, non ha azione disaccoppiante ma agisce direttamente
sull’attività del complesso enzimatico e quindi sulla fosforilazione ossidativa.
CONTROLLO
RESPIRATORIO
Il processo della fosforilazione ossidativa da
cosa è controllato? Cosa induce questo
processo e come posso misurare un’induzione
di questo processo?
La misura del processo è il consumo di
ossigeno: più intensa è la fosforilazione
ossidativa, più ossigeno si consuma. La
fosforilazione ossidativa, però, può avvenire
solo ed esclusivamente se c’è substrato
respiratorio e ADP. Il substrato respiratorio è la
Nella tabella qui a fianco è stata utilizzata la conversione 1 NADH à 2,5 ATP e 1 FADH2 à 1,5
ATP, che è più realistica, e la resa totale ammonta a 30-32 ATP.
Osservando questa tabella si può vedere che NADH può valere 3 o 5 ATP; per spiegare il motivo è
necessario riprendere il concetto di impermeabilità della membrana interna mitocondriale. Tutte le
molecole polari o con una carica netta a pH fisiologico non possono attraversare la membrana,
che conseguentemente ha moltissime proteine di trasporto che permettono il passaggio di
molecole specifiche. C’è un trasportatore specifico dei nucleotidi adeninici che trasferisce una
molecola di ADP dal citosol all’interno dei mitocondri esportando al contempo una molecola di
ATP; il Pi, invece, ha un suo trasportatore specifico che richiede una piccola quantità di energia,
ovvero un protone. La maggior parte dei NADH vengono prodotti nel mitocondrio ma alcuni sono
anche prodotti nel citoplasma e
l’origine di produzione fa la
differenza perché non esistono
trasportatori per NADH e FADH2
nella membrana interna
mitocondriale. Il potere riducente
ottenuto dal NADH nel citoplasma,
però, viene comunque sfruttato dal
mitocondrio in maniera indiretta: il
potere riducente viene trasferito a
una molecola, per il quale c’è il
trasportatore, che entra nel
mitocondrio, cede il potere
riducente ossidandosi e poi torna
fuori sfruttando lo stesso
trasportatore. Questo viene denominato sistema di Shuttle (=navetta). Ci sono almeno due sistemi
a navetta, shuttle, che rendono possibile il trasferimento degli equivalenti potenziali riducenti che
hanno efficienza variabile, cioè che possono trasferire tutto il potere riducente o solo una parte: ad
esempio, lo shuttle del glicerofosfato è meno efficiente dello shuttle del malato-aspartato.
Prendiamo come esempio il glicerofosfato: nel citoplasma si è generato del NADH dalla glicolisi,
che non può oltrepassare la membrana mitocondriale. Il NADH allora si ossida e trasferisce il suo
potere riducente a una molecola, il diidrossiacetone fosfato, che diventa glicerolo-3-fosfato (il
doppio legame O è diventato CHOH, quindi il doppio legame si è caricato di potere riducente).
Nella membrana mitocondriale interna c’è un complesso enzimatico, la glicerolo-3-fosfato
deidrogenasi che riossida il glicerolo-3-fosfato, strappandogli potere riducente, e generando un
FADH2. Quindi il potere riducente di un NADH fuori dal mitocondrio è diventato il potere riducente
di un FADH2 dentro al mitocondrio, che verrà ceduto al Q e poi al complesso III. Questo potere
riducente non ha reso 2,5 ATP, ma 1,5 ATP, quindi questo meccanismo di trasferimento è meno
efficiente.
Il meccanismo di trasporto del malato-aspartato, invece, funziona diversamente: il potere riducente
di NADH viene scaricato su una molecola di ossalacetato che si riduce a malato. Per questa
molecola è previsto un trasportatore, e una volta oltrepassata la membrana mitocondriale interna
avviene una reazione diversa; il malato viene ossidato di nuovo in ossalacetato che consente di
scaricare il potere riducente di un NADH. C’è stata, dunque, una perfetta conservazione del potere
riducente, che rende appunto 2,5 ATP.
Per concludere, i NADH prodotti
dalla glicolisi nel citoplasma valgono
o 2,5 o 1,5 ATP in base al sistema
navetta utilizzato. Questi sistemi
shuttle, però, sono entrambi presenti
e attivi nelle stesse quantità ed è per
questo motivo che la tabella sopra
riportata indica che si generano da 3
a 5 molecole di ATP dalla glicolisi.
ANFIBOLISMO
Fino ad ora si è parlato di vie
metaboliche di tipo catabolico, ma il
metabolismo comprende sempre
due componenti: quella catabolica,
che demolisce e ossida; e quella
anabolica, che costruisce e riduce.
L’insieme di queste due componenti si chiama anfibolismo, infatti il nostro metabolismo dovrebbe
essere più propriamente chiamato anfibolismo, perché prevede sia la parte degradativa che la
parte biosintetica. La biosintesi, per definizione, è la costruzione di molecole più complesse a
partire da precursori più semplici utilizzando enzimi, quindi in modo biologico: ecco perché si parla
di biosintesi. Le biosintesi sono reazioni di tipo endoergonico e riduttivo perché prevedono la
formazione di legami. L’anabolismo è tanto importante quanto il catabolismo, perché permette la
sintesi proteica, la formazione dei fosfolipidi di membrana, la formazione del glicogeno, la
produzione dei neurotrasmettitori, e necessita substrati ossidabili da cui estrarre il potere riducente
che mette a disposizione l’energia chimica necessaria per spostare l’equilibrio di reazioni
endoergoniche verso destra. Alcune di queste reazioni possono essere di tipo riduttivo e dunque
hanno bisogno potere riducente direttamente spendibile, che può essere ottenuto da NADPH.
Questa molecola è presente in gran parte nel citoplasma, dove è presente la maggior parte delle
vie biosintetiche, a differenza del mitocondrio dove si trovano gran parte delle vie degradative, e
dona direttamente il suo potere riducente ad una molecola “A” che si riduce per diventare una
molecola “B”.
LA DIFESA DEI MITOCONDRI DAI ROS
La membrana interna mitocondriale deve avere una superficie molto ampia, e maggiore è il
numero di creste, più il mitocondrio è metabolicamente attivo.
Il mitocondrio produce anche ROS, ovvero radicali dell’ossigeno e conseguentemente è attrezzato
a difendersi da questo processo fisiologico. Nella membrana mitocondriale interna, per effetto
anche di un’ossidoriduzione parziale del Coenzima Q si possono produrre radicali come ad
esempio O2•, OH•, H2O2. Ad esempio, l’acqua ossigenata con l’enzima ossido riduttasi, che è
molto abbondante nel mitocondrio, e poi viene catturata dall’enzima gluatatione perossidasi che è
in grado di riconvertirla in acqua, bloccando gli effetti deleteri, ma per funzionare questo enzima ha
bisogno di potere riducente. Il potere riducente viene conferito da un nucleotide che si chiama
glutatione (GSH) che è formato da tre amminoacidi, e quello centrale presenta il gruppo SH (in
forma ridotta). Quando la glutatione perossidasi smonta l’acqua ossigenata, consuma il potere
riducente del glutatione, il quale si ossida: due glutationi con il gruppo tiolico ridotto quando si
ossidano si legano assieme dando origine a un ponte disolfuro (GSSG). Il GSH è dunque ciò che
serve per tamponare i ROS, ma quando il glutatione è tutto ossidato non c’è più potere riducente
disponibile per bloccare l’attività ossidante dei ROS. Nella cellula allora è presente la glutatione
ossidasi che può prendere la forma ossidata e rigenerarla in forma ridotta, ma per fare questa
operazione serve potere riducente che deriva da NADPH. Questa molecola viene prodotta dentro
e fuori dal mitocondrio e il suo potere riducente può essere direttamente ceduto alla glutatione
perossidasi per mantenere ridotto il glutatione che così è in grado di tamponare i ROS in qualsiasi
momento. Il NADPH viene
prodotto da una via
metabolica che è
alimentata dal glucosio; il
glucosio è infatti una delle
sostanze più antiossidanti
che noi possediamo. I
carboidrati, infatti,
permettono di alimentare
una via metabolica, la
Shunt del pentoso fosfato,
che funziona a glucosio e
che produce NADPH: i
carboidrati sono, dunque,
fondamentali per difendersi
dallo stress ossidativo che
provoca danni molto gravi.
Infatti se un enzima con
gruppi SH viene colpito dallo stress ossidativo, si formano ponti disolfuro in posizioni errate,
alterando completamente la struttura dell’enzima e rendendolo inattivo, come si può vedere
nell’immagine qui a fianco. Lo stress ossidativo può colpire proteine nella formazione dei ponti
disolfuro; può colpire i fosfolipidi di membrana staccando l’acido grasso del fosfolipide; può
attaccare il DNA alterando la sua struttura.
10
IPOSSIA
L’ipossia è un altro grave danno che si verifica nei tessuti quando scarseggia l’ossigeno. I danni
non sono soltanto causati dalla scarsa produzione di ATP, però. I tessuti sono in grado di rilevare
la quantità di ossigeno periferica, che quando si riduce, e aumenta l’ipossia, viene indotto HIF-1,
come si vede nell’immagine sottostante.
Quest’ultimo è un fattore di trascrizione che aumenta l’espressione di altri geni tra cui i trasportatori
del glucosio, gli enzimi della via glicolitica, la lattato deidrogenasi ecc… grazie alla presenza di un
promotore in grado di sentire l’aumento di ipossia. Tutti questi enzimi vengono indotti e il risultato
finale è il potenziamento del ciclo di Krebs. Inoltre HIF-1 provoca uno scambio, una modifica
all’interno del complesso IV. In questo complesso c’è una sub unità proteica chiamata COX4-1 che
per effetto dell’HIf-1 viene degradata da una proteasi e sostituita a COX4-2, cambiando la struttura
del processo. L’ipossia provoca questo cambiamento del complesso IV che si adatta al suo
funzionamento a basse concentrazioni di ossigeno.
È anche importante notare che la velocità della catena respiratoria si adatta alla quantità di
ossigeno; se calasse la quantità di ossigeno e la catena continuasse a lavorare alla stessa
velocità, inesorabilmente non tornerebbe la stechiometria e si produrrebbero più ROS. Bisogna
dunque ridurre la velocità della catena respiratoria, adattandola alla quantità di ossigeno
effettivamente presente, per ridurre la produzione dei ROS.
Da non confondere con HIF-1, è presente anche IF-1, ovvero l’inibitore di F1, la testa del
complesso V. Se non arriva più ossigeno il complesso V diventa un’ATP-asi che degrada l’ATP; in
queste condizioni viene prodotta IF-1, una proteina che impedisce alle de teste F1 di ruotare, che
impedisce la degradazione l’ATP presente per evitare che ci sia un azzeramento immediato della
quantità di ATP a causa dell’ipossia.
11
DNA MITOCONDRIALE
Il mitocondrio possiede un proprio DNA, mtDNA, che ha una forma simile al DNA batterico, è un
plasmide perché è circolare. Nella figura sottostante si osserva la rappresentazione del mtDNA,
dove oltre alla struttura sono presenti colori diversi che si riferiscono alla mappatura di geni diversi.
Il mitocondrio ha dunque i suoi geni, i suoi ribosomi procariotici, la sua sintesi proteica, e alcune
proteine possono essere dei
trasportatori di membrana o possono far
parte dei complessi della catena
respiratoria. Anche questo DNA sono
soggetti a mutazioni, come la neuropatia
ottica ereditaria di Leber (LOHN) e
l’epilessia miotonica (MERRF) che
vengono provocate da mutazioni sul
mtDNA, e che però non si trasmettono
per regole mendeliane, ma per via
materna perché i mitocondri vengono
donati dall’oocita. I mitocondri di soggetti
affetti da queste mutazioni sono
anomali, completamente alterati e non
funzionano, generando grossi problemi
all’interno dell’organismo.
Per dimostrare la dipendenza del mitocondrio dalla cellula, e viceversa, osserviamo da quale DNA
sono codificate le proteine che compongono i vari complessi.
Il complesso I è costituito da circa 30 proteine, di cui 7 sono codificate dall’mtDNA e le altre dal
DNA nucleare. Quindi per fare il complesso I mi servono entrambi i DNA, e questo vale anche per
tutti gli altri complessi ad eccezione del secondo.
Il complesso II, infatti, ha soltanto 4 sub unità che sono codificate dal nucleo; ma il complesso III
ne ha una fatta dal mitocondrio e 9 dal nucleo, il complesso IV ne ha 3 dal mitocondrio e 13 dal
nucleo e il complesso V ne ha 2 dal mitocondrio e 12 dal nucleo. In conclusione, nessuno di questi
complessi può essere prodotto
esclusivamente dal mitocondrio, e
neanche dal nucleo: il mitocondrio
dipende dal nucleo cellulare e diverse
anche per ragioni genetiche. Il
mitocondrio e il nucleo della cellula non
possono vivere l’uno
indipendentemente dall’altro perché
non sarebbe possibile la ricostruzione
delle strutture per formare i vari
complessi. Questo vale anche per i
trasportatori di membrana: alcuni
trasportatori sono prodotti dal
mitocondrio, o alcune catene proteiche; altre invece dal nucleo cellulare. C’è dunque una stretta
dipendenza tra il DNA nucleare e l’mtDNA (DNA mitocondriale), perché i due patrimoni genetici si
integrano.
12
LE VITAMINE
Le vitamine sono sostanze azotate necessarie alla vita. Sono fattori nutrizionali, composti che
introduciamo nell’organismo tramite la dieta.
Si dividono in due grossi blocchi:
• Vitamine idrosolubili: associate alla frazione idrofilica degli alimenti (da cui si possono
estrarre tramite l’utilizzo di solventi polari). Sono caratterizzate da una formula di struttura
che presenta molti atomi polari che ne consentono l’iterazione con le molecole d’acqua.
Esiste un’enorme differenza tra queste due classi di vitamine: le vitamine idrosolubili presentano
caratteristiche molto simili tra loro, svolgono prevalentemente attività di cofattori e coenzimi e
devono essere introdotte nell’organismo necessariamente con la dieta.
Le vitamine liposolubili per le loro funzioni a livello del metabolismo umano possono essere
paragonate agli ormoni, la loro introduzione nell’organismo può avvenire con la dieta ma anche
tramite innumerevoli vie biosintetiche, infatti rappresentano un sottogruppo molto particolare delle
vitamine. Fondamentalmente sono sostanze grasse accomunate dalle stesse modalità di
assorbimento e di veicolazione ai vari organi. Hanno la caratteristica di poter essere accumulate
nel nostro organismo e talvolta il loro iperconsumo risulta correlato a diversi eventi di tossicità.
Essendo sostanze di natura lipidica, per il loro utilizzo è necessaria l’attività dei sali biliari che le
emulsionano rendendole assorbibili da parte dell’intestino. Da qua raggiungono il sangue, dove
vengono legate a proteine di trasporto generiche, come ad esempio l’albumina (la principale
proteina presente nel siero) che veicola in modo specifico molte sostanze tra cui i lipidi, oppure
possono essere legate dai carrier, trasportatori solubili altamente specifici per ogni singola
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Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA
vitamina. Ad esempio la vitamina D in parte si lega all’albumina, ma si lega con una più elevata
specificità alla vitamin D binding protein, il trasportatore naturale della vitamina D.
È a livello del fegato che le vitamine liposolubili vengono smistate e indirizzate verso i vari distretti
cellulari:
alcune resteranno a livello della frazione grassa del fegato, altre costituiranno una miniriserva del
tessuto adiposo o delle membrane cellulari. Gli eccessi che non potranno essere assorbiti
verranno espulsi con le feci in seguito al transito intestinale.
Questa capacità di essere immagazzinate le distingue molto dalle vitamine idrosolubili, i quali
eccessi invece vengono espulsi a livello renale tramite la secrezione di urine.
LE VITAMINE LIPOSOLUBILI:
Le vitamine liposolubili sono tutte caratterizzate da una struttura lipidica. Si generano a partire da
precursori molto semplici. Uno di questi precursori è rappresentato dall’ Acetil-coenzima A, un
intermedio del metabolismo energetico che viene trasformato attraverso reazioni metaboliche in
molecole più complesse come ad esempio l’isoprene, formato dalla condensazione di più molecole
di Acetil-CoA, a sua volta precursore del ∆-3-isopentenil pirofosfato, intermedio della sintesi
endogena del colesterolo da cui possono derivare: gli ormoni steroidei, la vitamina D e gli acidi
biliari.
Quindi molte di queste vitamine liposolubili sono molecole che si trovano sulla stessa via delle
sintesi che portano alla produzione di steroidi e isoprenoidi.
Dal ∆-3-isopentenil pirofosfato possiamo ottenere anche la vitamina E e la vitamina K.
• Vitamina D: implicata nei processi di mineralizzazione ossea e in tutti quei meccanismi che
portano all’omeostasi del Calcio e del Fosfato.
LA VITAMINA A:
Un derivato della vitamina A è Il retinale, derivato aldeidico ottenuto dall’ossidazione del retinolo
(un’ alcolvitamina).
Il retinale partecipa all’insieme di reazioni che portano alla trasduzione del segnale fotonico in
segnale elettrico che è in grado di viaggiare lungo il nervo ottico che arriva ai centri di
organizzazione superiori per la rielaborazione delle immagini.
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Un’ulteriore ossidazione del retinale porta alla formazione dell’acido retinoico, che non è una
vitamina ma è dotato di attività biologica.
Retinolo e deidroretinolo si trovano, tra gli alimenti che consumiamo più frequentemente, nel
tuorlo, nel latte intero, nel burro e in altri derivati del latte molto grassi.
Però, la fonte più ricca di questa vitamina è rappresentata dal fegato di animali marini che vivono
in mari freddi, che non fa parte dell’alimentazione tradizionale italiana.
Per quanto riguarda il fabbisogno giornaliero è possibile trovarlo nelle tabelle LARN, stilate
dall’associazione italiana di nutrizione umana, che periodicamente vengono aggiornate. I livelli di
assunzione si basano sul fabbisogno della popolazione, tenendo conto delle abitudini alimentari
caratteristiche di questa.
Il fabbisogno per un adulto italiano è di 600/700 µg/die. Per la popolazione italiana diventa
particolarmente importante l’apporto di questa vitamina nella dieta attraverso dei precursori
chiamati carotenoidi (di cui il precursore più nobile è rappresentato dal β-carotene), pigmenti
vegetali contenuti nelle verdure e nella frutta, alimenti tradizionali dell’alimentazione mediterranea.
Il β-carotene essendo un pigmento giallo/rosso si trova in alimenti come:
carote,pomodori,albicocche,melone giallo ecc…
Essendo un precursore signfica che dev’essere metabolizzato nel nostro organismo in retinolo.
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Il β-carotene è una molecola simmetrica da cui deriviamo il retinolo (alcol) per ossidazione, un
ulteriore ossidazione porta alla formazione del retinale (aldeide) e un’ultima ossidazione porta alla
formazione dell’acido retinoico, importante per il differenziamento delle cellule epiteliali. Invece il
retinale è importante per la trasduzione del segnale portato dal fotone.
Questo significa che se assumiamo qualche grammo del fegato di pesce di mare troveremo molto
retinolo quindi basteranno pochi grammi di quell’alimento. Se mangiamo una carota, non troviamo
il retinolo ma i β-carotenoidi quindi ne dovremmo mangiare almeno 6 volte di più (data
l’equivalenza) rispetto al fegato di pesce.
Se l’alimento contiene carotenoidi meno noti (quali α e γ-carotenoidi) ne dovremmo mangiare
ancora di più per avere l’equivalenza del livello di assunzione.
Una volta introdotto e digerito l’alimento, le diverse forme vitaminiche o provitaminiche vengono
assorbite, trasformate tutte in retinolo e esterificate a livello della mucosa intestinale, soprattutto
come esteri del palmitato. Questi poi passano dall’intestino al torrente circolatorio che le trasporta
al fegato dove possono essere immagazzinate (nel caso in cui non ci sia la necessità di utilizzarle)
o reimmesse in circolo (mettendole a disposizione delle cellule).
Nel sangue il retinolo viene trasportato legato alla sua proteina di trasporto chiamata Retinol
Binding Protein, un carrier che porta la vitamina alle cellule. In prossimità delle cellule il retinolo si
dissocia dal carrier e aggancia la cellula nella quale deve svolgere la sua attività e viene a questo
punto rilasciata. Nel citoplasma i livelli di retinolo sono regolati e mantenuti a livelli costanti
maggiori di 20 µg/dl di sangue. Quando si raggiungono livelli inferiori ai di 20 µg/dl significa che
abbiamo esaurito le scorte e che la nostra alimentazione non ci consente di arrivare al corretto
livello di assunzione giornaliero di questa vitamina e di conseguenza siamo a rischio di carenza.
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Facendo le proporzioni con i RAE, un adulto necessita al giorno di 600/700 RAE, i bambini invece
necessitano di 350 RAE. Il primo anno di vita molti organismi della sanità raccomandano
l’alimentazione al seno, per cui questi 350 RAE passano dalla madre al bambino attraverso il latte
materno, vuol dire che è altrettanto raccomandato che la mamma che allatta aumenti il fabbisogno
giornaliero dei 350 RAE, questo non dev’essere fatto con un’integrazione farmacologica ma
semplicemente curando l’alimentazione e aumentando il consumo di frutta e verdura.
Può essere raccomandato un aumento di 100 RAE nella gestante in quanto questa li passa
attraverso la placenta, sempre tramite un aumento della quota di frutta e verdura.
Meccanismi funzionali:
Parliamo adesso del retinale, il derivato ossidato del retinolo, implicato nella percezione della luce
intesa come fotone che colpisce la retina.
Ci dobbiamo riferire a una struttura altamente specializzata dell’occhio in cui si ritrovano ad essere
interconnessi tipi di cellule molto diversi. Tra questi ci sono le cellule fotosensibili, cellule in grado
di percepire il fotone e reagire a questo attraverso una variazione del potenziale di membrana.
Queste cellule sono i bastoncelli e i coni, che prendono contatto sinaptico con i neuroni
interconnessi che a loro volta sono interconnessi con i neuroni gangliari e del nervo ottico.
Quindi il segnale luminoso, attraverso l’interposizione di cellule fotosensibili, viene trasformato in
una variazione di potenziale di membrana (segnale elettrico) che viaggia attraverso i neuroni
interconnessi fino ai neuroni gangliari e del nervo ottico che raggiungono i centri di organizzazione
superiori
Coni e Bastoncelli da un punto di vista morfologico sono cellule molto diverse tra loro, il cui nome è
legato alla loro morfologia. I bastoncelli sono allungati, i coni hanno invece una forma coniforme.
In entrambe le cellule possiamo distinguere un segmento esterno costituito da sezioni nelle quali
troviamo formazioni particolari della membrana cellulare. Nel caso del cono sono plurinvaginazioni
della membrana plasmatica, nel caso del bastoncello hanno dato origine a dischi flottanti, frazioni
di membrana all’interno del citoplasma che si impilano uno sull’altro nel segmento esterno; per cui
tra i dischi (con una composizione analoga a quella della membrana e quindi formati da un doppio
strato fosfolipidico) si interpone il citosol. Oltre al segmento esterno, presentano un segmento
interno in gran parte occupato dal nucleo e dai mitocondri, necessari per la produzione di ATP
necessario per tenere in perfetto funzionamento delle pompe di scambio ionico presenti sulla
membrana, che servono per mantenere la polarità della membrana e per farla eventualmente
tornare al suo stato di polarizzazione dopo le reazioni di depolarizzazione. Un’altra struttura
comune a coni e bastoncelli è rappresentata dal terminale sinaptico, che le accomuna molto alle
cellule nervose e le consente di comunicare con esse.
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I coni sono coinvolti nel meccanismo di percezione della luce ad alta intensità, che è quella che ci
permette di vedere a colori.
I bastoncelli sono coinvolti nel meccanismo di percezione della luce a basse intensità (proprie della
luce corpuscolare) e nella formazione di immagini in bianco e nero. Contengono un solo pigmento
chiamato rodopsina che ci permette di vedere in bianco e nero, presente in elevata quantità,
permette di catturare molti fotoni e di amplificare il segnale luminoso di bassa intensità. Poiché li
amplificano, vengono definiti un sistema convergente, specializzato a percepire piccole intensità
luminose ma con una bassa capacità di risoluzione delle immagini e di risoluzione temporale, ciò
significa che per amplificare il segnale fotonico si comportano come un fotomoltiplicatore,
accumulando il segnale proveniente da vari fotoni e di conseguenza rallentando la risposta.
Pertanto sommano l’effetto di fotoni che arrivano alla retina nell’ambito di circa 100 millisecondi.
Ci sono diversi milioni di bastoncelli nella retina. I coni invece non sono distribuiti in tutta la retina
come i bastoncelli, ma si trovano localizzati all’interno della fovea che è un punto localizzato nella
retina nella quale si forma l’immagine ad alta risoluzione, qui c’è la minima distorsione spaziale
dell’immagine. Sono in grado di percepire 3 diversi colori fondamentali quali il blu, rosso e verde
perché possiedono 3 diversi pigmenti. Anche se il verde in realtà non è un colore fondamentale
(ottenuto da giallo + blu) l’ottica di classificazione dei colori per la formazione dell’immagine dell a
nostra retina è di tipo RGB (red, green, blue) come quello dei monitor. Questa percezione di tre
diversi colori è dovuta al fatto che i coni possiedono 3 diversi pigmenti visivi (opsine), al contrario
dei bastoncelli che invece possiedono solo la rodopsina.
Il sistema dei coni ci permette di percepire immagini quando abbiamo intensità luminose elevate,
abbiamo un’ottima risoluzione spaziale e una migliore risoluzione temporale dell’immagine, questo
vuol dire che la risposta elettrica somma meno fotoni per generarsi, quindi meno dei 100
millisecondi dei bastoncelli. Abbiamo circa 3 milioni di coni nella retina.
Il retinale, che ci può essere in forma cis e lo chiamiamo cis-retinale o in forma trans e lo
chiamiamo trans-retinale, sarà la nostra leva molecolare che ci permetterà di trasferire il segnale
del fotone facendolo diventare un segnale di depolarizzazione della membrana.
Il cis-retinale è legato alla rodopsina nei bastoncelli costituendo il sistema dei fotorecettori per la
percezione delle immagini in bianco e nero. Il cis-retinale sarà legato a 3 opsine: la porfiropsina, la
iodospina la cianopsina per la percezione dell’immagine a colori attraverso il sistema dei coni.
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Il retinale in forma cis si lega alle opsine, che sono contenute nelle cellule fotosensibili; le opsine
sono in tutto 4: 1 per la percezione in bianco e nero tre per la percezione a colori. Perché le opsine
ci permettono di discriminare la luce, e luci di particolari lunghezze d’onda?
La luce che noi percepiamo e uno spettro elettromagnetico continuo, nel quale, al variare della
lunghezza d’onda che noi prendiamo in considerazione, abbiamo uno specifico colore. Nel suo
insieme tutto lo spettro luminoso ci dà una luce bianca. Quando questa luce viene ad interfacciarsi
con sostanze in grado di assorbire una parte dello spettro, percepiamo un colore in particolare
(quello che non è stato assorbito dalla sostanza che ha interagito con la luce).
Vediamo il rosso perché quella sostanza ha assorbito il suo complementare, che è il blu.
Le opsine sono filtri molecolari, sono proteine che grazie alla loro struttura, ovvero alla loro
composizione amminoacidica, ci permettono di assorbire componenti specifiche dello spettro della
radiazione elettromagnetica.
Ci sono patologie del rosso e del verde, ossia daltonismi, legate a mutazioni delle opsine. Ci sono
soggetti che nascono senza l’opsina che percepisce il verde, altri senza quella che percepisce il
rosso. Non c’è un unico daltonismo, quindi, ma ce ne sono di diversi tipi, a seconda delle opsine
che subiscono la mutazione.
L’enzima che converte il retinolo in retinale è la retinolo deidrogenasi, che troviamo nel fegato e
nella retina. Questo enzima catalizza una reazione di ossidoriduzione: abbiamo il retinolo che
viene ossidato a retinale grazie a un trasportatore di elettroni, il NAD (derivato dalla vitamina
niacina), che estrae elettroni e protoni dal retinolo per ossidarlo a retinale, mentre lo stesso NAD
passa dalla forma NAD ossidata alla forma ridotta: NADH + H+, che ha caricato su di sé gli
elettroni che prima erano sul retinolo.
Un altro enzima importante di cui dobbiamo parlare è quello che si occupa della isomerizzazione
del retinale.
L’enzima che piò convertire il tutto trans retinale in 11 cis è la retinale isomerasi.
Quando un fotone colpisce la retina, viene percepita da questa molecola che risponde all'incontro
del fotone, che è una particella carica di energia, isomerizzandosi in retinale tutto trans; quel
legame viene rotto e si forma un’isomeria diversa. È un processo che richiede tanta energia,
presente nei fotoni della luce. Dal punto di vista sterico è una reazione estremamente impattante,
perché cambia molto l’ingombro della molecola da quando è 11 cis, ripiegata su sé stessa, rispetto
a quando è tutta stesa. Questa variazione di conformazione può essere percepita dalle molecole
che prendono contatto col retinale, e che quindi a loro volta cambieranno conformazione, andando
a portare il messaggio del fotone via via alle altre strutture, implicate in questo complesso
processo di trasduzione del segnale.
L’isomerizzazione δ 11 cis/tutto trans retinale è un processo molecolare che permette di
amplificare l’effetto del fotone, e per questo lo chiamiamo leva (le leve permettono di amplificare la
forza pe effetto del braccio); in questo caso la nostra leva è questa piccola molecola δ 11 cis
retinale, che è un derivato del tutto trans retinale, che deriva a sua volta dalla vitamina A una volta
raggiunto trasformazione retinale tutto trans la percezione luminosa viene innescata e potremo
ritornare da retinale tutto trans a δ 11 cis, di nuovo, attraverso una reazione caratterizzata dalla
retinale isomerasi. Quindi possiamo costituire un ciclo tra tutto trans e δ 11 cis, permettendo di
ritornare a una situazione eccitabile dal fotone.
In forma δ 11cis il retinale è legato ad un’opsina; l’opsina è una proteina che contiene lisine nella
sua struttura. Le lisine terminano con un NH2, il quale reagisce col CHO, terminale aldeidico del
retinale, per formare un legame aldo-imminico, legame covalente molto forte, con l 11 cis retinale.
In una situazione di riposo nel cono o nel bastoncello troviamo le opsine legate al retinale δ11 cis.
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Quando arriva il fotone, esso scatena delle reazioni velocissime, altamente energetiche (reazioni
foto-innescate di rapida interconversione); questa energia è tale da rompe il legame tra opsina e
retinale e rompere e riformare in forma tutto trans il legame delta 11. L’elettrone, quando arriva
trasforma l’opsina, da, legata all’1 cis, a opsina libera, che chiamiamo opsina sbiancata e il retinale
in tutto trans retinale. Tutto ciò avviene nei dischi intermembranosi.
Nel bilayer fosfolipidico troviamo la rodopsina (proteina integrale di membrana) saldamente legata
all’ δ 11 cis retinale (disposto circa parallelamente alle teste dei fosfolipidi). Nel lato citosolico è
presente un’altra proteina voluminosa, trimerica, costituita da tre subunità, α, β, γ: la trasducina.
Essa prende contato sia con la membrana che con la rodopsina.
La trasducina e una proteina g trimerica che serve per trasdurrre il segnale all’ interno della cellula.
È una proteina g (in grado di legare i nucleotidi della guaina); la subunità alfa è catalitica e può
legare GDP o GTP. Quando lega GDP si trova in uno stato non energizzato di riposo; quando
arriva il fotone il cambio di conformazione della rodopsina genera un cambio di conformazione
della subunità α, la quale rilascia GDP e lega il GTP energizzandosi. Questo è reso possibile
anche dal cambio di conformazione del retinale, che fa cambiare conformazione alla rodopsina e
di conseguenza anche alla trasducina.
La subunità alfa energizzata scorre lungo membrana del disco e va agganciare un a proteina
inibitrice della fosfodiesterasi. Essa va a catalizzare la reazione di scissione della guanisina
monofosfato ciclico, in guanosina monofosfotato.
Questa attività enzimatica andrà a ridurre la quantità di GMP ciclico nella cellula fotosensibile.
Esso e il secondo messaggero nonché molecola che mantiene aperti canali di membrana sodio
calci attraverso i quali nel cono o nel bastoncello entra sodio e calcio secondo gradiente. Il sodio
viene poi buttato fuori attraverso una pompa. Quando la concentrazione di GMP ciclico viene ad
essere ridotta, il canale dipendente da GMP ciclico si chiude e genera quindi una riduzione della
concentrazione di calcio cellulare, poiché il calcio, continuerà ad essere buttato fuori, mentre il
sodio entra. Tutto ciò genera una variazione del potenziale di membrana il quale diventerà un
segnale elettrico, un potenziale d’azione che sarà trasmesso alle cellule nervose. Tutta questa
fase prende il nome di fase di eccitazione della fotocellula cono o bastoncello. Essa inizia con la
percezione di un fotone, e termina con una variazione di potenziale di membrana.
Oltre alla fase di eccitazione esiste anche la fase di recupero o adattamento, necessaria per far sì
che la cellula fotosensibile ritorni capace di percepire un secondo segnale luminoso. Se non si
compie questa fase, la cellula rimarrà in uno stato refrattario. Nel recupero possiamo instaurare dei
percorsi molecolari che ci portano a riottenere l’associazione dell’opsina al δ 11-cis retinale.
Cosa innesca la fase di recupero? Lo stesso segnale che ha innescato la depolarizzazione della
membrana, ovvero il calcio, innesca fase di recupero. Ci siamo lasciati con una fosfodiesterasi
attiva che scindendo l’GMP ciclico chiude il canale del calcio causando una riduzione di calcio
intracellulare, la quale attiva la depolarizzazione della membrana. Questa concentrazione di calcio
continuerà a scendere fino a raggiungere un livello soglia minimo che porterà ad attivare la fase di
recupero. La fase di recupero parte con l’attivazione di un enzima, la guanilato ciclasi, la quale
prende GTP e lo trasforma in GMP ciclico, riportando i valori intracellulari di GMP ciclico alla
normalità; i canali del calcio verranno aperti, le concentrazioni di ioni e i potenziali di membrana
torneranno ai loro valori normali.
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Lezione n°22 del 31.05.2018
Sbobinatori: Madau Michela, Razzoli Nadine
Controllori: Zangue Maxwell
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA
nuovamente una nuova fase di eccitazione. Questa fase chiude il ciclo delle funzioni di eccitazione
e recupero all’interno di una cellula fotosensibile.
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Lezione n°23 del 01.06.2018
Sbobinatore: Elena Giuffredi, Laura Lippi
Controllore: Riccardo Mazzoli
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: vitamine D, E, K
VITAMINA D
La vitamina D è un’altra delle vitamine liposolubili.
In realtà, con il nome di “vitamina D” si identificano due forme: la vitamina D3 che è il colecalciferolo, e
la vitamina D2 che è l’ergocalciferolo. Le due vitamine differiscono per una piccola variazione nella
struttura, la quale però è irrilevante per la loro attività; la grande differenza è riposta nella distribuzione
negli alimenti: il colecalciferolo è, infatti, un derivato del colesterolo, in particolare del 7-deidrocolesterolo,
e come tale la si ritrova solo negli alimenti di origine animale. L’ergocalciferolo è l’analogo che si ritrova
negli alimenti di origine vegetale, essendo un derivato dei fitosteroli.
Le forme vitaminiche che si ritrovano negli alimenti sono di per sé prive di attività biologica e vengono
attivate attraverso una doppia reazione di idrossilazione nelle posizioni 1 e 25 dello scheletro
carbonioso.
La struttura delle vitamine è rigida, caratterizzata da degli anelli che la rendono planare; questa struttura
di anelli (vedi figura) è quanto rimane della struttura del colesterolo, la quale fa capo alla struttura generale
dei ciclopentanoperidrofenantrene. Nella struttura delle vitamine manca il fenantrene: la struttura
triciclica degli anelli A, B e C è in realtà rotta in un punto, ma originariamente – nel colesterolo – questi
anelli sono chiusi e derivano dal fenantrene. Quindi, avviene un processo biologico che parte da un
derivato del fitosterolo e del colesterolo, attua le modifiche sulla catena laterale, rompe l’anello B e, per
ottenere le forme attive di queste vitamine, mette in atto una doppia idrossilazione sul carbonio 1 e sul
carbonio 25.
La vitamina D, essendo una molecola liposolubile, viene assorbita nel tratto dell’intestino tenue e
l’assorbimento necessita di un corretto funzionamento biliare (difetti nella produzione di bile possono
portare ad un ridotto assorbimento di tale vitamina). Una volta assorbita, la vitamina D lega un suo
trasportatore specifico, la DBP (vitamin D-binding-protein).
Il recettore della vitamina D è chiamato VDR (vitamin D-receptor) ed è un recettore perlopiù intracellulare,
il quale media molti, ma non tutti, degli effetti biologici attribuibili alla vitamina D.
La 1,25-diidrossivitamina D assomiglia molto ad un ormone steroideo, nella struttura e nel modo di attivare
particolari funzioni; infatti, come un ormone steroideo, attraversa la membrana plasmatica delle cellule
bersaglio, incontrando il recettore VDR in ambiente intracellulare. Una volta avvenuto il riconoscimento tra
la vitamina D attiva e il suo recettore, viene promossa una eterodimerizzazione del VDR con RXR,
recettore dell’acido retinoico (quindi recettore della forma ossidante della vitamina A).
Pertanto, si forma un complesso ternario costituito dalla vitamina D attiva, da VDR e da RXR, che è
trascrizionalmente attivo e che migra nel nucleo delle cellule per agganciare dei target specifici di VDR,
quindi elementi responsivi alla vitamina D. Tale complesso funziona come un attivatore trascrizionale,
promuovendo la trascrizione di tutti quei geni che posseggono un elemento di risposta alla vitamina D. La
maggior parte dei meccanismi con cui si attuano le funzioni della vitamina D passa attraverso il
riconoscimento di un recettore, la sua attivazione, la sua traslocazione al nucleo e l’attivazione
trascrizionale di particolari geni; questo complesso attua, sostanzialmente, un controllo dell’espressione
genica.
Nonostante ciò, però, ci sono delle evidenze sperimentali e cliniche che suggeriscono che non tutte le
azioni ascrivibili alla vitamina D siano ottenute per mezzo di questo meccanismo, il quale necessita
dell’attivazione della trascrizione, per portare alla produzione di nuove proteine; ci sono anche meccanismi
rapidi di risposta alla vitamina D, che fanno a meno del passaggio attraverso questa via di controllo
dell’espressione genica (questi altri meccanismi potrebbero essere, per esempio, la diretta comunicazione
tra la vitamina D e target cellulari specifici, siano essi enzimi o strutture cellulari).
Quindi, la maggior parte dei processi sono risposte lente e mediate dalla trascrizione, ma avvengono
anche risposte rapide, indipendenti dalla trascrizione.
Se si considera il regno animale, si parte dal precursore 7-deidrocolesterolo e, per azione della
radiazione ultravioletta, si avvia una reazione fotochimica che porta alla rottura dell’anello B e, quindi, al
riarrangiamento della struttura in colecalciferolo (o vitamina D3), composto ancora non biologicamente
attivo. Analoga via è osservabile nel regno vegetale partendo dall’ergosterolo, un fitosterolo analogo al
7-deidrocolesterolo. Quindi, gli animali e le piante producono endogenamente la vitamina D, partendo da
precursori, attraverso una sintesi la quale richiede l’esposizione alla luce solare.
Prendendo in considerazione solo l’uomo: l’uomo non dipende esclusivamente dall’apporto di vitamina D
ottenibile con la dieta, ma dipende anche dalla vitamina D che riesce a sintetizzare endogenamente;
questa sintesi dipende da:
• qualità ed intensità della radiazione alla quale l’uomo si espone;
• da quanto è scoperto il corpo;
• dalla pigmentazione e dallo spessore della pelle;
• dalla durata dell’esposizione.
Un corpo scoperto, esposto alle radiazioni solari nel periodo estivo, per un tempo sufficiente, sicuramente
attiverà una sintesi efficace di vitamina D. La vitamina D che è prodotta nei mesi estivi, attraverso
l’esposizione al sole, può costituire delle riserve che l’organismo mantiene per i periodi scarsamente
assolati. È quindi possibile accumulare vitamina D, contribuendo in questo modo, ed insieme alla quota
introdotta con la dieta, al mantenimento dei livelli plasmatici circolanti adeguati di 1,25-diidrossivitamina D
anche nei mesi invernali.
Di norma, nelle popolazioni mediterranee, non è necessario attuare un apporto di vitamina D attraverso
dei supplementi, purché non vi siano patologie che condizionano l’assorbimento di vitamina D e purché ci
sia un’alimentazione variata e bilanciata ed una corretta esposizione alla luce del sole. In alcuni casi, però,
può essere necessario rivedere questo concetto per categorie a rischio, come quella degli anziani, i quali
riducono l’esposizione ai raggi solari nei mesi estivi; in questi casi può essere indicata una
supplementazione. Un’altra categoria che potrebbe essere indicata per una supplementazion è quella dei
bambini, i quali in età di sviluppo crescono rapidamente e necessitano di un maggiore apporto di vitamina
D per beneficiare del contributo che essa dà al mantenimento della mineralizzazione ossea.
Una volta sintetizzate con i meccanismi osservati, le vitamine D necessitano di essere attivate. Fanno
questo attraverso due reazioni di idrossilazione, che portano alla formazione dell’1,25-diidrossivitamina D,
anche detta calcitriolo.
1) La vitamina D – prodotta endogenamente o assorbita con la dieta – è immessa nella
circolazione.
2) Una volta nel circolo sanguigno, raggiunge il fegato: l’organo nel quale si realizza la
prima idrossilazione, quella in posizione 25 (quindi sulla catena la