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UMANESIMO E RINASCIMENTO

Le dispute religiose appassionarono i filosofi per tutto il Medioevo, ma a partire dal XV secolo vennero gradualmente
affermandosi alcuni grandi movimenti che contrassegnarono il periodo di transizione che va dal declino delle
concezioni medievali alla nascita della filosofia moderna.

Con l’Umanesimo prima, e col Rinascimento poi, si verificò infatti un risveglio dell’interesse per la cultura laica degli
antichi: mentre la scena medievale era stata dominata da preoccupazioni riguardanti il problema di Dio, i nuovi
pensatori posero nuovamente al centro degli studi l’uomo. E questo atteggiamento consentì grandi progressi nelle
scienze fisiche e matematiche che, promuovendo un grande sviluppo tecnico, assicurarono alla civiltà occidentale
una posizione dominante, quale ancor oggi possiamo riscontrare, nonostante da più parti, e proprio e soprattutto tra
i filosofi, si parli di «tramonto dell’Occidente».

Della massima importanza fu la scoperta della teoria eliocentrica (ch’era stata formulata per la prima volta da
Aristarco di Samo nel III secolo a.C.) da parte di Copernico (1473-1543). La matematica e la fisica fecero poi grandi
passi in avanti con Keplero (1571-1630), il nostro Galileo (1564-1642) e Newton (1642-1727).
Sul piano strettamente filosofico, la nuova era si apre con la rinascita del platonismo, anche se filtrato da un’ottica
neoplatonica, per cui l’atteggiamento mistico prevale su quello razionale.

Il massimo esponente del platonismo quattrocentesco fu Cusano (1401-1464) dal luogo di nascita (Cusa, presso
Treviri, in Germania), ma accanto a lui bisogna almeno ricordare i nomi di Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della
Mirandola (1463-1494).

Dopo secoli di ambiziosi tentativi volti ad afferrare tutto ciò che esiste o di cui si può ipotizzare l’esistenza (dal filo
d’erba all’anima, dall’uomo a Dio), Cusano si riporta direttamente al celebre motto socratico («so di non sapere»),
riducendo tutta la sapienza umana a una dotta ignoranza, soprattutto se paragonata con l’essenza del divino. In
effetti, secondo Cusano, soltanto in Dio le differenze che sussistono nella realtà finita si annullano: in Lui i contrari si
conciliano e si regisra la coincidentia oppositorum. Perciò Cusano definisce Dio la implicatio dell’universo, mentre
l’universo nella sua molteplcità è l’explicatio dell’unità divina. Notiamo per inciso che quest’ultima affermazione
prelude al panteismo di Bruno, di cui diremo tra poco.

Prima, infatti, occorre dire che se il Quattrocento viene associato alla rinascita del platonismo, il Cinquecento vede

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l’affermarsi del naturalismo, cioè dell’interesse centrato sul mondo naturale. In quest’ambito la prima personalità di
spicco è quella di Bernardino Telesio (1509-1588), che può essere considerato il vero precursore della scienza
moderna. La sua considerazione della natura iuxta propria principia liberò infatti la ricerca sperimentale da ogni
presupposto teologico o metafisico. la La base della conoscenza è pertanto la sensibilità: essa può avvenire non
ratione, sed sensu (cioè, non razionalmente ma attraverso i sensi).

A questa concezione si rifà Tommaso Campanella (1568-1639). Anche per lui, infatti, la sensibilità rappresenta il tipo
fondamentale di conoscenza. Ma qui si arresta l’accordo fra Campanella e Telesio, poiché Campanella pone a base di
ogni altra forma di conoscenza l’autocoscienza, cioè la conoscenza innata che l’anima ha di se stessa: quindi il sentire
è prima di tutto coscienza di ciò che noi siamo. Affiora in tal modo quel soggettivismo che caratterizzerà gran parte
del pensiero moderno, soprattutto a partire da Cartesio. Tuttavia questo innato senso di se stessi Campanella non lo
attribuisce soltanto all’uomo, ma ad ogni altro ente naturale: per cui si parla di pampsichismo campanelliano.

Ma pochi anni prima di Campanella, la filosofia rinascimentale aveva toccato il suo vertice con Giordano Bruno
(1548-1600), il cui pensiero, oltre che dai motivi neoplatonici di Cusano, dipende in gran parte dall’adesione
entusiastica alla teoria eliocentrica elaborata da Copernico (1473-1543).

Identificando Dio col mondo, Bruno sostiene che tutta la realtà, e non soltanto l’uomo, è vivo e animato ; insomma
che il mondo è un unico grande animale (proprio nel senso che è dotato di un’anima). La rottura con l’ortodossia
cristiana non poteva essere più drastica. E la sua drasticità si conferma con l’ammissione dell’infinità dell’universo. La
nozione di finitezza, infatti, era sempe apparsa l’unica plausibile al fine di giustificare l’universo come creazione di
Dio: nemmeno Copernico, che pur aveva avuto il merito di distruggere completamente la cosmologia aristotelica,
aveva osato infrangere tale concezione. Bruno compie invece questo passo, proclamando che nell’universo tutto è
centro e periferia, appunto perché esso è infinito. In tal modo egli applica all’universo quella coincidentia
oppositorum che Cusano aveva attribuito soltanto a Dio. È pur vero che Bruno distingue in Dio due nature: una
trascendente (mens super omnia) e una immanente (mens insita omnibus); ma è anche vero che egli afferma che
causa, principio e mondo sono uno, nel senso che Dio è inseparabile dai suoi effetti. E perciò si parla di panteismo.
Per tutte queste idee Bruno venne dichiarato eretico dall’Inquisizione e il 17 febbraio del 1600 - avendo
esplicitamente affermato «di non volersi pentire, di non avere niente di che pentirsi, e di non sapere di cosa
pentirsi» - venne arso sul rogo in Campo dei Fiori, a Roma.

L’età del Rinascimento fu anche il luogo di un’aspra battaglia per il rinnovamento della Chiesa. Questo

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atteggiamento è presente innanzi tutto nell’opera di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), il quale, nel celeberrimo
Elogio della follia, criticò il formalismo logico della scolastica esaltando invece la forza vitale della passione e
dell’amore, senza lesinare critiche alla corruzione del clero.

Forse fu questo suo atteggiamento ad indurre Martin Lutero (1483-1546), nel 1519, a chiedere ad Erasmo
un’esplicita dichiarazione a favore della Riforma protestante, ma il filosofo olandese, che rifiutava il concetto
luterano di grazia (secondo cui solo Dio può salvare l’uomo, e non le buone azioni che questi può mettere in atto),
oppose un secco rifiuto ed anzi pubblicò proprio contro Lutero lo scritto De libero arbitrio, in cui appunto si espresse
a favore del libero arbitrio. Lutero replicò immediatamente col De servo arbitrio, riaffermando (secondo un’antica
tesi agostiniana) che è Dio soltanto a predestinare l’uomo alla salvezza o alla dannazione. E a Lutero fecero eco
Ulrich Zwingli e Giovanni Calvino nella vicina Svizzera. E il protestantesimo trovò gran diffusione in gran parte
dell’Europa del nord.

Sempre in questa età assunse un particolare rilievo la concezione dello Stato, visto però come fine a se stesso e non
più (come avveniva nel Medioevo) quale semplice mezzo per realizzare uno scopo trascendente. I maggiori teorici di
questa nuova visione dello stato furono Machiavelli, Moro e Grozio.

Niccolò Machiavelli (1467-1527), famoso o famigerato autore del Principe, sostenne che, per il bene collettivo (!)
dello stato, il principe, costretto a lottare contro gli egoismi individuali dei sudditi, deve cercare di armonizzarli,
diciamo pure con le buone o con le cattive. In questo duro compito, egli si troverà a lottare contro la "fortuna", che
per Machiavelli è padrona della metà delle azioni umane, mentre l’altra metà dipende dalla "virtù" (cioè dall’astuzia
e dalla ferocia) dello stesso principe. In una simile concezione Dio non trova ovviamente alcun posto, in quanto
sostituito (proprio come una divinità) dallo Stato e il singolo individuo non conta nulla. Inoltre, per trovare concreta
applicazione, tale concezione prevede una netta separazione della politica dalla morale. Qualcuno ha cercato di
riscattare Machiavelli mediante un’interpretazione storicistica del suo libello: sottolineando cioè le pessime
condizioni in cui versava l’Italia dell’epoca. Ma io mi permetto di osservare che secoli dopo, in condizioni analoghe,
Giuseppe Mazzini si appellava bene o male al popolo, e non a un principe, un re, un presidente, o un tiranno... Non è
infatti un caso se il machiavellismo incontrò posizioni antitetiche ad esso contemporanee. Si tratta di teorie che
rientrano nella corrente definita giusnaturalismo, che poneva il diritto naturale quale fondamento del diritto positivo
o statale.

Un primo avviamento di questo indirizzo lo troviamo in Tommaso Moro (1478-1535), che nel suo celebre libro

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Utopia delineò uno stato ideale i cui punti essenziali sono l’abolizione della proprietà privata e il pluralismo religioso.

         
Fu però l’olandese Ugo Grozio (1583-1645) a dare sistematicità al giusnaturalismo. Egli, ponendo come essenza della
natura umana la ragione, identificò ciò che è naturale con ciò che è razionale: in tal modo il diritto naturale non è
altro che l’espressione della ragione. Grozio sostenne dunque che, anteriormente ad ogni stato politico, è lecito
supporre uno stato di natura, nel quale gli uomini sono associati sulla base delle semplici leggi naturali . Pertanto uno
stato politico, se vuole essere legittimo, deve ispirarsi al modello naturale e rispettarne le leggi fondamentali.

Ultimo rappresentante della cultura umanistico-rinascimentale è considerato Michel de Montaigne (1533-1592),


autore dei celeberrimi Saggi, apparsi in tre volumi fra il 1580 e il 1588. Nonostante il tono modesto e dimesso con
cui egli presenta la sua opera, il libro di Montaigne abbraccia e analizza un’infinità di argomenti, trattandoli con uno
sguardo finemente e pacatamente scettico. Nessuna sintesi può nemmeno avvicinarsi a delineare la bellezza e la
profonda chiarezza dei Saggi, sulla quale basteranno due notevoli testimonianze: un fatto e una dichiarazione. Il
fatto è che il grande scrittore francese Marcel Proust teneva perennemente il libro di Montaigne sul proprio
comodino, leggendone qualche passo ogni sera. La dichiarazione è di Nietzsche: «Veramente per il fatto che un tal
uomo abbia scritto, il piacere di vivere su questa terra è aumentato».

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CARTESIO E L’ETÀ DELLA SCIENZA
Il Rinascimento aveva portato in primo piano l’interesse per la matematica. Una seconda
grossa questione che interessò i pensatori post-rinascimentali fu l’importanza del metodo.

Francesco Bacone (1561-1626) sottopose a critica serrata la teoria sillogistica di Aristotele,


sostenendo che una vera conoscenza deve basarsi sull’esperienza e sull’osservazione.
Proprio per questo intitolò la sua opera fondamentale Novum organum, in contrapposizione
all’Organon (cioè agli scritti logici) di Aristotele.

Secondo Bacone si può giungere alla conoscenza della natura attraverso la formulazione di
ipotesi da sottoporre poi al vaglio sperimentale. Ma prima di far questo occorre sgombrare il
campo dagli errori o pregiudizi più comuni, che impediscono all’uomo di osservare la natura
con mente pura e libera, e che Bacone chiama idola. In questo lavoro di demolizione consiste
la prima parte (pars destruens) del metodo baconiano. Nella seconda parte (pars costruens)
del libro viene enunciata la teoria dell’induzione, che differisce da quella aristotelica perché
al posto del ragionamento Bacone sostituisce appunto l’esperimento.

Inoltre Bacone previde con largo anticipo che la scienza sarebbe stata un potente fattore di
trasformazione sociale. Nell’altro suo capolavoro, Nuova Atlantide, immaginò una società
pacifica e giusta, liberata dai pregiudizi e dall’ignoranza; ma al tempo stesso intuì che la
conoscenza costituisce un potenziale pericolo se non è guidata e sorretta da saldi princìpi
morali.

Come Bacone, anche Galileo Galilei (1564-1642) intese eliminare ogni pregiudizio derivante
dall’influsso di Aristotele, o meglio dal principio d’autorità (ipse dixit) che gli aristotelici
proclamavano in ossequio al maestro. Con Aristotele, infatti, Galilei ammette che
l’esperienza va considerata come la fonte di ogni conoscenza, ma l’induzione galileiana si
differenzia da quella aristotelica poiché, per eliminare ogni interferenza del soggetto, Galilei
distingue tra qualità oggettive o primarie (figura, grandezza, movimento) e qualità soggettive
o secondarie (colore, sapore, odore, ecc.). Solo le prime ineriscono realmente agli oggetti; le
seconde sono dovute a modificazioni dei nostri sensi e pertanto non riguardano i corpi.

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Questa distinzione porta Galilei a concludere che solo le qualità oggettive sono accessibili a
una conoscenza scientifica, mentre l’essenza metafisica delle cose, restando al di là
dell’esperienza, resta anche al di là della conoscenza scientifica. Proprio in virtù del metodo
sperimentale Galilei è considerato il vero fondatore della scienza moderna.

Matematica e metodo si fusero nel pensiero di René Descartes, latinizzato in Cartesio (1596-
1650), che viene considerato il fondatore della filosofia moderna ed uno dei massimi filosofi
di sempre.

A Cartesio premeva innanzitutto stabilire che cosa siamo in grado di sapere; quindi per lui fu
fondamentale la domanda sulla certezza della conoscenza, che egli pensò di risolvere per via
razionalistica, basandosi sul concetto di evidenza. Così, dopo aver sistematicamente messo in
dubbio ogni cosa, rintracciò quella che a lui parve la prima evidenza o certezza assoluta: vale
a dire il pensiero, il cogito, l’io-pensante.. In ciò fu probabilmente influenzato da Agostino:
difatti egli si accorse che poteva dubitare dell’esistenza di tutto, ma non della realtà dei
propri pensieri. E riassunse questo fatto con uno degli slogan filosofici più celebri di ogni
tempo: «Cogito ergo sum».

Da questa incrollabile certezza, attraverso la dimostrazione dell’esistenza di Dio (per la quale


si servì del sostegno di Anselmo), giunse a stimare vera anche la realtà esterna, lasciando alla
fine le cose esattamente come le aveva trovate.

Anche in Cartesio, come in Platone, ritroviamo però un dualismo profondo tra spirito e
materia, o (per usare i suoi termini) tra res cogitans (sostanza pensante) e res extensa
(sostanza estesa). Questi due aspetti contrapposti, secondo Cartesio, trovano la loro sintesi
nell’uomo, in quanto composto di anima e di corpo (dunque di spirito e materia): e ciò grazie
alla ghiandola pineale, organo posto pressappoco al centro del cervello. È ovvio che questa
spiegazione, posto che sia accettabile e dimostrabile, non spiega il come dei rapporti fra le
due sostanze. Comunque è superfluo sottolineare che, essendo Cartesio un razionalista, tra
le due sostanze la prima è per lui superiore alla seconda: il pensiero è superiore alla realtà,
l’anima ha più valore del corpo.

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Alla soluzione di tale problema si dedicarono alcuni pensatori successivi, come Arnold
Geulincx (1623-1669) e Nicolas Malebranche (1638-1715), per i quali si parla di
occasionalismo.

Accettando il dualismo cartesiano, e partendo dal presupposto che le due sostanze (in
quanto di natura diversa) non possono interagire, gli occasionalisti videro in Dio la vera
origine di ogni azione e di ogni conoscenza: sarebbe Dio, insomma, che in occasione di una
modificazione corporea produce in noi una sensazione, e in occasione di una nostra volizione
produce nelle cose materiali il movimento corporeo. In tal modo, però, l’uomo vede
clamorosamente ridotto il suo libero arbitrio. E ciò, tanto più se fosse dimostrabile, rattrista
non poco, anche se assolve la nostra coscienza (se potessimo parlare ancora di coscienza) da
ogni rimorso o senso di colpa.

A differenza di Cartesio (e degli occasionalisti), Thomas Hobbes (1588-1679) non distingueva


fra spirito e materia: per lui tutta la realtà è materiale, e come tale comporta l’estensione. Il
meccanicismo riservato da Cartesio alla res extensa viene dunque da Hobbes esteso a tutta la
realtà, per la quale vige in maniera assoluta il principio di causalità.

Ma Hobbes è noto soprattutto per la teoria politica espressa nel Leviatano. Partendo dal
presupposto del fondamentale egoismo umano, egli si fa propugnatore di uno stato
assolutistico, che abbia come scopo quello di mantenere l’ordine e la tranquillità fra i sudditi,
altrimenti destinati alla reciproca aggressione (Homo homini lupus).

RAZIONALISMO E EMPIRISMO

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A partire da questo momento la filosofia iniziò a dividersi in due tradizioni: quella europea e quella anglosassone. La
prima tendenzialmente razionalista, la seconda prettamente empirista.

Ricordiamo che il termine razionalismo designa la persuasione che la realtà sia conoscibile e interpretabile mediante
la ragione, al di là di ogni esperienza. Il termine empirismo indica invece ogni dottrina che considera l’esperienza
come condizione essenziale della conoscenza.

L’impostazione strettamente razionalista e matematica di Cartesio fu criticata da Blaise Pascal (1623-1662), per il
quale la ragione, da lui detta esprit de géométrie, non ha valore assoluto nemmeno in capo matematico e scientifico:
nella matematica, in quanto processo deduttivo, essa è infatti costretta a partire da postulati; e nella scienza, essa è
da un lato preceduta e guidata dall’esperienza, dall’altro non può rendere conto di concetti fondamentali per la
scienza stessa, lo spazio e il tempo. Tanto meno, allora, la ragione sarà in grado di indagare e spiegare quel
microcosmo complesso, multiforme, contraddittorio e sfuggente, che è l’uomo.

Alla ragione geometrica occorre dunque affiancare l’esprit de finesse (la ragione del cuore, la finezza intuitva),
indispensabile per affrontare i problemi e cogliere il senso dell’esistenza. E proprio in questo campo, più ancora dei
limiti della ragione, lo spirito di finezza costringe l’uomo ad assumere consapevolezza della propria miseria: ma
appunto in questa consapevolezza, secondo Pascal, consiste la grandezza dell’uomo, dotato di pensiero, rispetto al
resto dell’universo, che non è in grado di pensare. Ovviamente non tutti trovano consolante questa concezione, ed
allora c’è chi (oggi più di allora) si dà alla pazza gioia, illudendosi in tal modo di smorzare l’angoscia per la propria
nullità. Ma Pascal ammonisce severamente che non bisogna distrarsi sollazzandosi e sbellicandosi dalle risate,
perché compito dell’uomo è tendere a Dio, sulla cui esistenza si può scommettere senza indugi: infatti, chi ha fede
nell’esistenza di Dio ha tutto da guadagnare e nulla da perdere perché, se Dio non c’è, non si perde nulla, ma se c’è si
conquista la vita ultraterrena. Penso che i giocatori d’azzardo non abbiano mai trovato un gioco più sicuro!

Dalla speculazione di Cartesio prese le mosse il filosofo olandese Baruch Spinoza (1632-1677), il quale, pur essendo
un convinto razionalista (tanto che pensò di analizzare l’etica entro una struttura strettamente logica), rifiutò la
distinzione cartesiana tra pensiero (spirito) ed estensione (materia), affermando che tutto ciò che esiste può essere
ricondotto a una sola sostanza, che egli chiamò anche Dio o Natura. Spinoza insomma non ebbe una concezione
dualistica della realtà come l’ebbe Cartesio, bensì una visione monistica.

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Si può affermare che Spinoza è un panteista: per lui infatti, come già per Bruno, Dio non è colui che ha creato il
mondo e che sta al di sopra o al di là del mondo: Dio è il mondo stesso, o (che è lo stesso) la natura è Dio. E il
pensiero e l’estensione, che Cartesio indicava come due entità contrapposte (anche se entrambe derivate da Dio),
non sono in realtà che due aspetti dell’unica sostanza. Spinoza chiama questi due aspetti attributi di Dio, e chiama
modi di tali attributi i singoli fenomeni sia materiali che spirituali: per esempio un colle e una poesia rappresentano
diversi modi degli attributi "estensione" e "pensiero". La sostanza, o Dio, o la Natura, si manifesta dunque in modi
diversi: un colle è un modo dell’attributo "estensione", mentre una poesia che riguarda lo stesso colle è un modo
dell’attributo "pensiero". Entrambi però sono in definitiva espressione della stessa sostanza.

Il panteismo di Spinoza non riconosce all’uomo la libertà come possibilità di scelta: ogni momento è infatti
determinato dal momento precedente; ogni atteggiamento umano deriva necessariamente dai suoi antecedenti. La
libertà è dunque una mera illusione: l’uomo crede di scegliere, ma non è così. Egli crede libere le sue azioni perché
non ne conosce completamente le cause. E come l’uomo, persino Dio viene privato di quei caratteri che
tradizionalmente gli vengono attribuiti: libertà, bontà, intelligenza, conoscenza, volizione.

Un altro importante razionalista fu il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), noto anche a molti che non
conoscono la filosofia per la caricatura che ne ha fatto Voltaire, ma vediamo la solita discussione sul dualismo
cartesiano... A questo proposito Leibniz si concentra soprattutto sulla concezione della res extensa, o meglio
sull’estensione intesa come sostanza.

Egli critica tale concezione adducendo due argomenti fondamentali:


1° poiché l’estensione è omogenea e uniforme, come può differenziarsi in figure e grandezze distinte?
2° l’estensione, in quanto divisibile all’infinito, non può essere sostanza, poiché la sostanza ha come sua essenza
l’unità.
Da ciò Leibniz conclude che la vera sostanza è inestesa, semplice e indivisibile, e ad essa assegna il nome di monade.
Ma questo concetto non va inteso come sinonimo della sostanza spinoziana, la quale viene anzi dissolta da Leibniz in
singole sostanze (o monadi) infinitamene numerose, ciascuna delle quali impenetrabile all’azione delle altre ("la
monade è senza finestre", dice il filosofo) ma tutte armonizzate tra loro dalla Monade Suprema che è Dio, secondo
un’armonia prestabilita. Questa espressione significa che Dio, al momento della creazione, ha stabilito un accordo
fra le varie monadi di modo che le intime modificazioni di ogni monade corrisponda a quelle delle altre monadi,
senza che esse si influenzino direttamente. Questa concezione spiega l’ottimismo racchiuso nella citazione prima

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riportata: Dio è Dio, non un orefice o un calzolaio, e dunque fra gli infiniti mondi possibili non può che aver dato
forma e vita e quello migliore.

Si potrebbe obiettare: ma se Dio ha creato il migliore dei mondi, come si spiega l’esistenza del male? Si deve forse
dubitare della perfezione di Dio? Per risolvere tale questione Leibniz ricorre alla triplice divisione del male in male
metafisico (o finitezza, imperfezione), fisico (o dolore) e morale (o peccato), sostenendo che gli ultimi due originano
dal primo. Ma consoliamoci pensando che un mondo diverso sarebbe peggiore di questo, che in modo
diametralmente opposto il poeta Giovanni Pascoli ebbe a definire come un "atomo opaco del Male" [Forse ignorava
Leibniz, o forse non ne condivideva per niente il pensiero]...

L’atteggiamento razionalista, che risale a Parmenide, Socrate e soprattutto Platone, fu il più diffuso nella filosofia del
Seicento, ma esso fu contrastato già nello stesso secolo da John Locke (1632-1704), il quale affermò che la nostra
mente è una tabula rasa, cioè che essa è completamente priva di contenuto, se prima non abbiamo avuto
esperienze sensoriali.

Questo modo di vedere (come abbiamo ripetuto più volte) viene appunto chiamato empirismo, ed "empirista" è,
perciò, chi vuole derivare la conoscenza del mondo partendo dai sensi. Anche questa concezione ha antecedenti
illustri: infatti la sua formulazione risale già ad Eraclito e più consapevolmente ad Aristotele, il quale disse che "non
c’è niente nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi". Questa affermazione conteneva una puntuale critica
all’innatismo di Platone, e Locke riprese la stessa obiezione contro Cartesio.

Su tale base Locke sostenne che quando usiamo parole come Dio o anima o sostanza, la ragione funziona a vuoto,
perché nessuno ha mai avuto esperienza di Dio, dell’anima e di ciò che i filosofi chiamano sostanza. Queste idee non
sono dunque che costruzioni della mente, prive di fondamento...

Il punto di vista empirista è assai più diffuso di quello razionalista, a livello di senso comune: ma è opportuno far
notare che esso comporta non pochi problemi, come ad esempio quello di spiegare concetti astratti come i numeri e
l’infinito.

L’irlandese George Berkeley (1685-1753) fu ancora più radicale, tanto che la sua bizzarra teoria filosofica può essere
compendiata in quella che è la sua formula più nota: Esse est percepi, che in sostanza vuole dire che il mondo
esterno alla mente esiste solo quando è percepito da quest’ultima. Questo modo di vedere si chiama idealismo

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soggettivo e, se portato alle estreme conseguenze, rischia di sprofondare nel solipsismo, cioè nella patologica
convinzione che esisto solo io (con i miei stati mentali)... Si tratta di una visione davvero malinconica, e per fortuna
non sono in molti a sostenerla. Anche perché il mio "io" si scontrerebbe col tuo. Cosicché, se io la pensassi così, e tu
la pensassi come me, come stabilire chi esiste davvero di noi due? Si finirebbe per assomigliare ai protagonisti della
seguente storiella. In un manicomio (parola desueta, ma efficace) si incontrano due tizi; uno dice all’altro: "Piacere,
Napoleone", e l’altro sdegnato: "Cosa dice? Napoleone sono io!". Al che il primo replica: "Allora uno di noi due è
matto"...

Conseguenza naturale di simili concezioni è una sorta di scetticismo: quello a cui appunto approdò David Hume
(1711-1776): per comprendere lo scetticismo humiano dobbiamo ricordare che per Locke, quando usiamo parole
come Dio o eternità o sostanza, la ragione funziona a vuoto, perché nessuno ha mai avuto esperienza di Dio,
dell’eternità e di ciò che i filosofi chiamano "sostanza". Queste idee non sono dunque che costruzioni della mente,
prive di fondamento. Ecco: possiamo ora osservare che Hume, pur negando la possibilità di dimostrare l’immortalità
dell’anima o l’esistenza di Dio, non escludeva però le due cose: riteneva soltanto che la pretesa di dimostrare la fede
religiosa con la ragione umana fosse un non-senso razionalista. Dunque Hume non era cristiano, ma neppure era un
ateo convinto: era un agnostico.

L’agnosticismo (religioso, non gnoseologico) detiene una posizione scomoda, perché può essere avversato tanto dal
credente quanto dall’ateo; tuttavia, sembra la posizione più moderata e razionale. Non è infatti un caso che Hume
abbia svolto per Kant, a dire dello stesso interessato, una funzione di "risveglio" dai "sogni dogmatici" della
metafisica. La metafisica, infatti, intende stabilire se vi sia un’anima e se essa sia immortale, se il mondo nella sua
totalità sia finito o infinito, se Dio esista e come possiamo dimostrarlo e pensarlo. Ma, come vedremo, proprio i
concetti dei Dio, anima e mondo, a giudizio di Kant, sono razionalmente inconoscibili.

Però di Hume dobbiamo ancora ricordare la celebre critica al concetto di causa e al connesso principio di causalità.
Hume nega che vi sia una connessione di fatto tra causa ed effetto, e sostiene che tale rapporto è soltanto frutto
dell’abitudine. Per fare un esempio, noi diciamo che la pioggia (causa) bagna la terra (effetto), ma in realtà questo
rapporto non è dimostrabile né a priori né a posteriori. Nel sostenere che la pioggia è la causa delle terra bagnata
noi in realtà associamo due fenomeni distinti: e in generale si può dire che la causa è un fenomeno che precede un
altro fenomeno; e che la certezza delle nostre verità si dissolve nella semplice abitudine.

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