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Storia della filosofia antica

1. Gli albori della civiltà greca

Civiltà micenea in declino nel XIII secolo a. C.


I Greci adottano l’alfabeto dei Fenici.
Assenza di autorità centrale, pluralismo culturale e spirito di avventura.
Religione politeista e antropomorfa.
contrapposta alla) e .
Culto di Apollo, dio luminoso e culto di Dioniso, dio ctonio.
Afrodite ed Eros esprimono il principio vitale che presiede alla generazione di tutti i viventi.

2. L’origine della filosofia

Nascita della filosofia: per Aristotele dal fiorire dei commerci, per Tucidide dalla democrazia.

Filosofia greca classica (perché non invecchia), secondo l’interpretazione di Friedrich Hegel (1770-
1831): l’intero mondo greco è espressione della giovinezza (Achille e Alessandro).

meraviglia intrisa di paura), da cui nasce la domanda di una spiegazione, che viene dal-
l’esperienza, dall’osservazione di un oggetto, di un evento o di un’azione, di cui si vuol conoscere il
perché; l’esercizio della meraviglia si mette in atto nei confronti della tradizione mitologica, che
costituisce il fondamento religioso, morale, politico della civiltà greca; l’epica di Omero ha in
comune con la filosofia greca, secondo l’interpretazione di Werner Jaeger (1888-1961), la
rappresentazione della realtà nella sua totalità: la prima in forma mitica e la seconda in forma
razionale, per superare la paura del dolore e della morte. Anche altri popoli hanno avuto grandi
culture (Cinesi, Indiani, Persiani, Egiziani), ma difficilmente queste potrebbero essere considerate
filosofia, perché non nascono dalla meraviglia, ma da altri bisogni, desideri, atteggiamenti, come
sostiene Enrico Berti.

Per filosofare occorre un atteggiamento adeguato e coerente, che possieda i seguenti requisiti: la
radicalità della domanda, che riguarda il senso dell’esistenza come tale nella globalità del suo
significato e valore; la ricerca della risposta mediante il ragionamento e non attraverso altre vie
(come la fede in un’autorità o nella tradizione); la giustificazione razionale è imprescindibile anche
nel caso di un’eventuale adesione ad una fede religiosa; la disponibilità ad un’analisi lucida ed
equilibrata dei problemi e l’apertura al confronto che sono l’opposto del fanatismo, del
fondamentalismo e del-l’accettazione passiva delle opinioni correnti.

La metafisica, è la ricerca che ha per oggetto il principio, la causa prima della realtà nella totalità
delle sue manifestazioni ed il termine significa la realtà che è al di là della realtà fisica delle cose;
la gnoseologia è la ricerca che si occupa dell’uomo dal punto di vista dell’attività conoscitiva;
l’etica si occupa del fondamento dell’agire bene o agire morale; la politica, secondo Aristotele, si
occupa dell’amministrazione della città per il bene di tutti.

La filosofia presocratica è la filosofia della natura e la scuola ionica riteneva che la materia fosse
dotata di vita e animata: ilozoismo.
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Talete (640/625-547 circa a. C.):  è l’acqua, perché il nutrimento di tutte le cose è umido e i
semi di tute le cose hanno un natura umida; «tutto è pieno di Dei», perché l’ è principio divino
ed è sostanza di tutto; l’anima, principio vitale di ogni cosa, è immortale, essendo il divino in noi.

Anassimandro (610 circa-546 circa a. C.):  è l’cioè l’infinito (il divino che compe-netra
tutte le cose), poiché solo l’infinito, e non un elemento della realtà, può essere concepito come
principio ingenerato e generante in cui gli elementi contrari (caldo e freddo, secco e umido, per
esempio) sono confusi tra di loro e si distinguono a causa del movimento che genera, per il loro
tramite, nuovi mondi; il distacco dal principio originario è visto come un atto di ingiustizia e il
tempo fa in modo che l’ingiustizia sia riparata; la vicenda cosmica è quella di un equilibrio infranto
e ripristinato in modo ciclico e la vicenda mondana è letta in termini di ingiustizia e di colpa da
espiarsi, come nell’orfismo (questa dottrina insegna che l’uomo è un miscuglio di bene e di male, che l’anima è un
raggio di luce divina nelle tenebre della materia e che tutto il dovere dell’uomo consiste nel procurarsi la gnosi, la vera
dottrina che gli insegna la realtà di questa sua situazione e gli indica la via della liberazione) .

Anassimene (586 circa-528 a. C.):  è l’aria (perché è infinita e infinitamente mobile, presente
ovunque), dalla quale per rarefazione deriva il fuoco e per condensazione derivano acqua e terra,
principio originario, anche per il fatto di essere il soffio vitale che dà vita ai corpi.

Pitagora (570 circa-495 circa a. C.): i numeri (unità = dispari = principio di misura e armonia tra i
numeri, al contrario del pari) sono intesi da Pitagora in modo geometrico, così 1 corrisponde al
punto, il 2 alla retta, il 3 alla superficie ed il 4 ad un solido; nella visione di Pitagora l’universo non
è caotico, ma un ordinato cosmo, guidato da costanti matematiche; gli adepti credevano nella
metempsicosi (trasmigrazione delle anime = reincarnazione), che portava ad una graduale purifica-
zione, anche attraverso la conoscenza della verità; la vita pitagorica contempla pratiche di
purificazione del corpo attraverso l’ascesi e l’astinenza e dell’anima attraverso la musica, l’ascolto
silenzioso dell’insegnamento del maestro e lo studio del cosmo.

Eraclìto (535-475 a. C.): membro di un’importante famiglia aristocratica di Efeso, difende


strenuamente i suoi privilegi opponendosi all’avvento della democrazia; Eraclito ebbe fama di
filosofo oscuro; a noi sono arrivati solo un centinaio di frammenti; la verità è nascosta ai sensi, che
possono ingannare l’uomo; la ragione () governa l’universo e l’uomo, mentre il conflitto
() è il padre di tutte le cose e nello stesso tempo è il principio della loro riconciliazione ed è
segno di incessante mutazione dell’essere, del divenire di tutte le cose, cioè del puro fluire
ininterrotto (), armonia e sintesi dei contrari, come avviene ad es. per il caldo che diventa
freddo.

3. Senofane di Colofone e Parmenide di Elea

Senofane (570 circa–475 circa a. C): sviluppa a fondo la critica alla visione mitologica in campo
teologico, denunciando il ridicolo antropomorfismo della religione olimpica e affermando che l’uo-
mo crea Dio a sua immagine e somiglianza, una sorta di Ludwig Feuerbach (1804-1872) ante
litteram; identifica Dio con il Cosmo e afferma la sua unicità. Difende gli insegnamenti di
Parmenide.

Parmenide (515-450 a. C.): due sono le vie di conoscenza contrapposte: il sentiero del giorno
(, cioè della verità, o meglio di ciò che non è nascosto) e il sentiero della notte ( , cioè
dell’opinione), il primo fa riferimento alla ragione, il secondo attiene ai sensi; «l’essere è e non può
non essere, mentre il non-essere non è e non può essere»; Parmenide condanna la pura apparenza
del discorso di opinione, cui egli contrappone la vera scienza e questa ci svela che non può esistere
alcuna verità che non sia fondata sul riconoscimento del concetto di essere, che è immobile,
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ingenerato, eterno, omogeneo, indivisibile e infinito. Negando la realtà del mutamento, Parmenide
ha posto una sfida affascinante a tutti i filosofi venuti dopo di lui.

Zenone (489-431 a. C.): è conosciuto soprattutto per i suoi paradossi formulati in relazione alla tesi
della impossibilità del moto; oggi sono conosciuti con il nome di paradossi di Zenone; tre di essi, in
particolare, sono noti come paradosso dello stadio, paradosso di Achille e la tartaruga, paradosso
della freccia; in tutti il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella
realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale,
rifiutare l’esperienza sensibile ed affermare che la realtà è immobile; questi paradossi implicano
anche il concetto di infinita divisibilità dello spazio ed è questa la ragione per cui hanno ricevuto
una notevole attenzione da parte dei matematici, infatti il filosofo sosteneva che per raggiungere un
punto preciso, bisogna prima raggiungerne il punto medio, per giungere ad esso si deve arrivare a
sua volta al suo punto medio, e ancora al punto medio del punto medio, fino a che non ci si ritrova
nello stesso identico punto in cui siamo al momento della partenza, e quindi il movimento non
esiste, ma è soltanto un concetto che noi percepiamo.

4. I fisici pluralisti

I pluralisti cercano di conciliare i principi eleatici e l’esperienza del molteplice diveniente.

Empedocle (490-430 a. C.) ritiene che l’essere non può nascere e non può morire, ma a differenza
di Parmenide, ritiene che nascita e morte altro non siano che processi di unione e separazione tra gli
elementi, che il filosofo chiama radici (eterne e incorruttibili) e che individua nel fuoco, nell’aria,
nell’acqua e nella terra; Empedocle elabora un’originale teoria della conoscenza, secondo la quale,
l’uomo può conoscere il mondo che lo circonda solo perché in lui ci sono i quattro elementi presenti
in natura; l’uomo è quindi un microcosmo.

Anassagora (496-428 a. C.) fu il primo ad introdurre la filosofia ad Atene; egli definì semi gli
elementi che si uniscono e si separano (con la caratteristica di essere infinitamente divisibili) e
ritenne che la realtà fosse irriducibile ai quattro elementi di Empedocle, infatti, secondo
Anassagora, in ogni cosa sono presenti i semi di tutte le altre, ma ciascuna cosa si differenzia dalle
altre per il prevalere in essa dei semi a lei specifici; Anassagora, per la prima volta nella storia della
filosofia, ha postulato l’esistenza di un principio razionale intelligente alla base del cosmo.

Democrito (460-400 circa a. C.): mentre Empedocle e Anassagora osservano il mondo da un punto
di vista qualitativo, Democrito invece attribuisce a principi infiniti di numero le caratteristiche
dell’essere eleatico, e in particolare l’immutabilità, l’omogeneità e l’indivisibilità; questi infiniti
principi sono chiamati atomi, dotati di movimento; gli atomi, per muoversi e aggregarsi, necessitano
di uno spazio chiamato vuoto, e differiscono tra di loro non per qualità, appunto, ma solamente per
quantità; Democrito è ritenuto il fondatore del materialismo, in quanto evita di ricorrere a principi di
natura non materiale o divina e in quanto spiega il divenire solo per mezzo di cause materiali-
meccaniche, come disse Dante «il mondo a caso pone», sostenendo una genesi del mondo del tutto
casuale; epigoni di Democrito furono Epicuro e Lucrezio.

5. I sofisti e Socrate

Premesse e contesto dei sofisti: guerra del Peloponneso vinta da Sparta contro Atene; decadenza dei
costumi; crisi del potere e dell’autorità dello Stato; individualismo; demagogia.
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I sofisti sono docenti itineranti a pagamento che propagano una mentalità dissacratoria e cercano di
dimostrare l’inutilità del ricorso alle antiche tradizioni. Caratteristiche della sofistica: insegnamenti
tecnici e specialistici; metodologia empirico-induttiva; rivoluzione culturale per la quale le virtù si
possono insegnare a tutti; relativismo storico, per il quale le diverse visioni del mondo e i vari
sistemi di conoscenza sono il frutto di convenzioni culturali e sociali, variabili storicamente. Per i
sofisti, gli uomini conoscono il mondo attraverso i loro sensi, quindi possono avere soltanto delle
opinioni variabili e soggettive, ma come si può passare da queste opinioni ad un sapere certo
()? I sofisti ritengono questo passaggio impossibile.

Protagora (486-411 a. C.): «l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e
di quelle che non sono in quanto non sono» (scienza e verità vanno considerate come puro prodotto
del soggetto che le elabora); le opinioni si differenziano dal punto di vista dell’utile e del dannoso,
per esempio, l’essere sani è meglio dell’essere ammalati, quindi si tenderà a stare in quello stato, c’è
quindi un principio in base a cui giudicare, il criterio dell’utilità. La sapienza, per Protagora, sta nel
saper rendere più forte il discorso che appare più debole, qualunque ne sia il contenuto. Non
esistono valori morali assoluti; il discorso teologico-religioso è insignificante: non si può sapere se
gli dei esistano o meno, sia per la brevità della vita, sia per l’oscurità della questione.

Gorgia (485-375 a. C.) espone un preciso nichilismo, ribaltando l’ottica eleatica: «nulla esiste, se
anche esistesse non sarebbe conoscibile, se anche esistesse e fosse conoscibile non sarebbe
comunicabile»; Gorgia dimostra che nulla può esistere a partire dalla constatazione che se l’essere,
in quanto principio, si manifesta nelle forme antitetiche elaborate dai filosofi precedenti, significa
che non esiste. La non conoscibilità dell’essere si prova semplicemente mostrando che si possono
pensare cose non esistenti. La non esprimibilità dell’essere si regge sul fatto che, per Gorgia, la
parola non ha la capacità di significare qualcosa che sia altro da sé. Da queste posizioni derivano le
seguenti conseguenze: non c’è possibilità di fondare un’etica assoluta, e dunque ci si deve
accontentare di un’etica relativistica, in cui le norme e i doveri variano secondo le condizioni sociali
e cronologiche.

Socrate (470-399 a. C.) sulla scia delle contestazioni sofistiche, propone un superamento della
filosofia precedente, a favore di un orientamento antropologico del filosofare; venne accusato di
negare la religione tradizionale e di corrompere i giovani: il filosofo accettò la morte serenamente,
pur potendo convertire la condanna in esilio, per rispettare le leggi della sua città; secondo Platone
non era un sofista, mentre Aristofane, ne Le nuvole, descrive il filosofo che, aggrappandosi ad ogni
sofisma, insegnava come prevalere in ogni scontro dialettico, anche se in posizione di evidente
torto. Socrate non teneva lunghi discorsi e non usava l’eristica (l’arte di saper sostenere
contemporaneamente una tesi e il suo contrario) se non in modo ironico, inoltre la sua tecnica era
basata sull’interrogazione (ad esempio: «che cos’è la sapienza?»), che implicava un fitto dialogo
con l’interlocutore, allo scopo di far uscire con il ragionamento le verità incontrovertibili
(maieutica) e utilizzando l’ironia per far cadere in contraddizione l’interlocutore e smascherare così
le sue convinzioni erronee. Il filosofo era solito affermare di «sapere di non sapere» e di essere in
costante ricerca della verità: la professione socratica di ignoranza diventa spinta alla parola di verità
(); Socrate, facendo suo l’antico motto attribuito all’oracolo di Delfi ( ),
intraprende ad Atene una intensa azione culturale per liberare i cittadini dai pregiudizi e dalle false
credenze. La sapienza socratica ha come fine specifico la cura dell’anima, che si realizza
compiutamente con l’ consistente nell’autonomia e caratterizzata dal dominio delle
pulsioni. Il demone socratico è quella voce interiore che gli suggerisce tutto ciò che va evitato per
realizzare la propria missione (teoria della mente bicamerale, secondo la quale fino a circa il 1000
a. C., l’uomo non possedeva una mente cosciente nel senso moderno del termine, ma era guidato da
voci interiori che venivano attribuite agli dei). Aristotele sostiene che Socrate, tramite la scoperta di
concetti dotati di significato universale, ha sconfitto il relativismo della tradizione sofistica e aperto
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la strada alla possibilità di indagare in modo razionale l’essenza della realtà, ma proprio questa
possibilità sarà messa in discussione da Nietzsche, che considera la ricerca dell’universale come il
primo atto di un vero e proprio tradimento messo in atto dalla filosofia ai danni della vita concreta.

6. Platone

Per comprendere le caratteristiche del pensiero platonico e le ragioni della sua enorme influenza sul
pensiero occidentale non si può prescindere dalla crisi politico-culturale che ne determinò la genesi:
il tramonto del periodo di splendore della Grecia di Pericle e i residui della guerra del Peloponneso;
il fallimento dell’esperienza aristocratica dei Trenta Tiranni (404-403 a. C.); il tortuoso ritorno alla
democrazia molto diversa da quella precedente, drammaticamente macchiatasi della morte di
Socrate. Si delinea un quadro di decadenza civile e politica che permea anche l’ambito culturale: si
esaspera il ricorso alle pratiche retoriche dei sofisti e il grande insegnamento socratico si dissolve in
una serie di scuole minori.

Platone (428-348 a. C.) non si accontenta delle domande socratiche, vuole delle risposte, avverte,
infatti, la necessità di una radicale riforma dell’esistenza umana, una rivoluzione culturale, etica,
filosofica, politica e pedagogica. Platone cerca quindi un fondamento oggettivo, una conoscenza
certa e indubitabile per la scienza e per la vita politica, per raggiunger la quale occorre portare alla
luce l’ordine universale. Questo fondamento e questo ordine potranno essere raggiunti praticando
una conoscenza, nel senso specifico di reminiscenza, cioè di ricordo dei contenuti universali
presenti nell’anima (secondo Platone, infatti, l’anima, prima di cadere nel corpo ha avuto la
possibilità di contemplare le essenze eterne della realtà, definite idee). Oggetto della scienza,
secondo Platone, sono soltanto le idee, entità immutabili e perfette, che costituiscono una zona
d’essere diversa dalla nostra, l’iperuranio, mentre i sensi, essendo affidati all’opinione, sono
mutevoli e imperfetti. Ne deriva che: le idee (o forme) sono gli archetipi (o modelli) delle molteplici
cose sensibili; il mondo quotidiano (legato ai sensi e alla corporeità) è una semplice copia di quello
iperuranio; l’oggetto della filosofia è la contemplazione di tale dimensione superiore che coincide
con il Bene; Platone, quindi è il primo filosofo che costruisce una metafisica, dividendo la realtà in
due dimensioni, la metafisica, appunto, (mondo delle idee) e il mondo sensibile.

Il mito della caverna, significati:


la caverna oscura, il nostro mondo;
gli schiavi incatenati, gli uomini;
le catene, l’ignoranza e le passioni della vita;
le ombre delle statuette, l’immagine superficiale delle cose;
le statuette, le cose del mondo sensibile;
il fuoco, con cui i primi filosofi spiegarono le cose;
la liberazione dello schiavo, l’azione della filosofia;
il mondo fuori della caverna, le idee;
le immagini delle cose riflesse nell’acqua, le idee matematiche che preparano alla filosofia;
il sole, l’idea del Bene che tutto rende possibile e conoscibile;
la contemplazione assorta delle cose e del sole, la filosofia ai suoi massimi livelli;
lo schiavo che vorrebbe starsene «sempre là», la tentazione del filosofo di chiudersi in una torre d’avorio;
lο schiavo che ritorna nella caverna, il dovere del filosofo di far partecipi gli altri delle proprie conoscenze;
l’ex-schiavo che non riesce più a vedere le ombre, il filosofo troppo concentrato sulle idee che si è disabituato alle cose;
lo schiavo deriso, la sorte dell’uomo di pensiero che viene scambiato per pazzo da chi è attaccato ai pregiudizi;
i grandi onori attribuiti a coloro che sanno vedere le ombre, il premio offerto dalla società ai falsi sapienti;
l’uccisione del filosofo, la sorte toccata a Socrate.

Platone nel Convivio, spiega il mito dell’androgino, cioè dell’essere primordiale composto di uomo
e donna (diviso dagli dei per punizione in due metà, da allora in perenne ricerca dell’unità perduta)
che manifesta il carattere principale dell’amore: l’insufficienza, la mancanza, l’anelito; il filosofo
sostiene che amare (a tutti i livelli) consiste nel «fare, da due, uno»; dato che ci sono vari livelli di
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unità (fisica, spirituale, assoluta), Platone instaura una scala di amore, corrispondente a una
progressiva ascesa verso l’idea del Bello che coincide con il Bene: Eros è desiderio e aspirazione
eterna alla bellezza come immagine del Bene supremo. L’amore platonico è l’amore ideale, rivolto
al di là dell’aspetto sensibile; sempre nel Convivio, per bocca di Socrate, definisce l’amore come
ente intermedio tra dio e uomo, figlio di Povertà (da cui deriva la sua costitutiva mancanza) e
Abbondanza (da cui deriva la tendenza a superare quello stato), l’amore è quindi intuizione del
bello e del buono, che non si possiede e quindi si desidera.

Platone introduce la teoria del demiurgo, l’artefice divino che ha dato origine all’universo e che non
crea le cose dal nulla (a differenza dell’ebraismo e del cristianesimo); il demiurgo si limita ad
organizzare la realtà, contemplando la realtà ideale, che tiene come modello in base al quale
plasmare la realtà sensibile. Il mondo, dato il modello a cui fa riferimento, risulta una realtà bella e
buona in sé e di cui è testimonianza l’ordine matematico, tuttavia, il mondo non è perfetto perché
esiste una seconda causa che è impedimento al demiurgo: la , concetto negativo, non-essere.
Platone propone una visione finalistica del cosmo, governato da un’intelligenza e dotato di uno
scopo. Il demiurgo ha creato il tempo, che, quindi, non è una realtà assoluta, ma connessa al mondo.

Platone accoglie la teoria della trasmigrazione delle anime (metempsicosi): l’anima umana
dapprima può gettare uno sguardo nella regione iperurania delle idee, poi «riempiendosi d’oblio e di
malvagità si appesantisce» e cade in un corpo dando origine ad un uomo; l’anima è immortale, sia
perché è principio autonomo di vita e di movimento, sia perché, essendo in grado di conoscere le
idee, è partecipe alla loro natura immateriale e immortale. Platone afferma che l’anima individuale
conta di tre parti: l’anima razionale, che ragiona e mantiene il dominio sugli impulsi; l’anima
irascibile, che si adira e lotta con la forza della volontà, l’anima concupiscibile, che è il principio
degli impulsi corporei, l’attaccamento ai sensi. L’anima che ha usato bene la ragione, torna dopo il
periodo terreno, allo stato originario, che è di felicità; invece quella che ha fatto cattivo uso della
ragione è condannata a passare di corpo in corpo. Al termine di un ciclo di esistenze e all’inizio di
un altro, tutte le anime si riuniscono in un luogo per scegliere il tipo di vita umana al quale unirsi.
L’ordine di precedenza si stabilisce per sorteggio: esistono così anime più o meno fortunate.

Platone si considerava erede di Parmenide (l’idea è principio ontologico, modello su cui sono
formati i fenomeni particolari, come si evidenzia nel Fedone; l’idea è la realtà di ciascuna cosa,
privata delle caratteristiche accidentali-particolari, per esempio, l’idea universale di cane, rispetto a
cui sono costituiti i cani concreti con le loro qualità individuali), anche se nei suoi confronti
compirà una sorta di parricidio in merito alla questione dell’essere, infatti, Platone introduce il non-
essere come concetto relativo = è differenza. L’essere, secondo Platone, è strutturato in forma
gerarchica: a un massimo di essere corrisponde un massimo di valore morale, rappresentato dal-
l’idea del Bene. A mano a mano che ci si allontana dal Bene si giunge a contatto col non-essere.
L’uomo, secondo Platone, si trova a metà strada tra essere e non-essere. Per spiegare la situazione
paradossale in cui si trova l’uomo, egli introduce una differenza tra essere ed esistere: mentre
l’essere è qualcosa di assoluto che è in sé e per sé, l’esistenza non ha l’essere in proprio, l’essere le
viene donato. Così l’uomo non sussiste autonomamente, ma esiste in quanto ha ricevuto l’essere da
qualcos’altro. Utilizzando una metafora, Platone concepisce l’esistenza come un ponte sospeso tra
essere e non-essere.

La comunità nella quale l’individuo singolo trova la sua perfetta formazione può essere ricercata
solo con il contributo decisivo della filosofia, come si evince dalla lettura della Repubblica, in cui è
descritto uno Stato ideale, non reale, ma a cui riferirsi sempre. Senza la giustizia non può nascere ed
esistere lo Stato i cui cittadini vengono necessariamente divisi in tre classi: i governanti (i filosofi,
in quanto posseggono la conoscenza del mondo ideale e dell’idea del bene), i guerrieri (che
difendono lo Stato e devono avere donne e beni in comune = comunismo platonico) e gli artigiani
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(coloro che lavorano per la sussistenza materiale). La giustizia nello Stato richiede due condizioni:
la prima è l’eliminazione della ricchezza e della povertà che rendono entrambe impossibile
all’uomo di attendere al proprio compito e la seconda è l’abolizione della vita familiare al fine di
consentire alle donne la partecipazione alla vita dello Stato in perfetta parità con gli uomini. Le
unioni tra uomo e donna saranno stabilite dallo Stato al fine della procreazione di figli sani che
saranno allevati ed educati dallo Stato concepito come una sola grande famiglia.

Dato che le cose già di per sé sono simulacri imperfetti della realtà delle idee, le immagini artistiche
risultano essere copia di una copia, quindi, l’arte per Platone è diseducativa e distruttrice; essa
sollecita la sfera dei sensi, la parte meno nobile dell’uomo e nel contempo ne offusca le capacità
razionali facendo appello alla fantasia e all’emozione; ne risulta che l’arte non può essere una forma
di conoscenza, ma di confusione, il cui effetto è quello di nascondere la distinzione tra vero e falso;
le conseguenze politiche di un tale pensiero sarebbero per Platone di una violenza senza precedenti:
l’espulsione di tutti gli artisti quale primo provvedimento dell’insediamento di uno stato di filosofi.

L’influenza di Platone sulla filosofia successiva è stata immensa, in particolare se consideriamo: la


svalutazione dell’esperienza e della conoscenza scientifica in favore dell’intuizione intellettuale; la
rigorosa distinzione fra mondo intelligibile e mondo sensibile; l’idea che la conoscenza sia connessa
a un processo di ascesi morale.

7. Aristotele

A differenza del maestro Platone, che concentra i propri sforzi speculativi nell’indagine della realtà
soprasensibile, Aristotele (384-322 a. C.) si dimostra più fortemente interessato alla realtà sensibile,
a cui dedica gran parte delle sue ricerche e dei suoi studi. Il punto di partenza della sua riflessione,
infatti, può essere individuato nella critica alla concezione platonica delle idee proprio per il
carattere di astrattezza e di separatezza dal mondo reale di queste ultime: l’obiettivo di Aristotele è
quello di calare il mondo soprasensibile nel mondo sensibile.

La metafisica aristotelica indaga le cause, Dio, l’essere e la sostanza.

Le cause sono riducibili a quattro: la causa materiale, cioè la materia di cui è costituito un
determinato ente (per esempio, la materia dell’uomo è la sua carne e le sue ossa); la causa formale,
cioè la forma, il modello di una cosa (per esempio, l’anima come forma dell’uomo); la causa
efficiente, vale a dire ciò che dà origine a qualcosa (ad esempio, il padre come colui che ha generato
il proprio figlio); la causa finale, lo scopo cui tende il divenire dell’uomo. Né forma, né materia
possono esistere separatamente e il loro connubio è detto sinolo.

Aristotele afferma che tutto ciò che è in moto è necessario che sia mosso da qualcos’altro, non
potendo però il processo essere infinito (poiché in tal caso non si spiegherebbe il movimento
iniziale) è necessario che ci sia un principio primo e immobile, che Aristotele definisce motore
immobile, che funziona come causa iniziale di ogni movimento. Tale principio primo è Dio stesso,
dotato delle seguenti caratteristiche: eterno (se eterno è il movimento, eterna deve essere la sua
causa); immobile (solo l’immobile può essere la causa assoluta del mobile); privo di potenzialità,
cioè atto puro, perfezione senza alcuna possibile trasformazione.

L’essere non ha un’unica forma, ma una molteplicità di aspetti: «l’essere si dice in molti modi»; i
modi dell’essere, secondo Aristotele, sono: l’essere come accidente (quando diciamo, ad esempio,
«l’uomo è un poeta» indichiamo un caso di essere accidentale, infatti, l’essere poeta non esprime
l’essenza dell’uomo, ma solamente ciò che all’uomo può accadere); l’essere come categoria, per
arrivare a ciò, la filosofia deve ridurre tutti i significati dell’essere ad un significato unico e basilare,
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deve cioè considerare l’essere solo in quanto essere; dobbiamo quindi ricorrere al principio di non-
contraddizione, che Aristotele esprime in due modi: «è impossibile che la stessa cosa insieme
inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto» ed ancora: «è
impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia» (Metafisica, IV, 3 IV, 4): non si può dire
contemporaneamente «l’uomo è animale ragionevole» e «l’uomo non è animale ragionevole»,
poiché una di queste due affermazioni è necessariamente vera, mentre l’altra deve essere neces-
sariamente falsa; la seconda asserzione aristotelica indica l’impossibilità ontologica che un
determinato essere sia e insieme non sia quello che è, secondo il principio di non-contraddizione
infatti, ogni essere ha una natura determinata che è impossibile negare, quel che Aristotele chiama
sostanza, vale a dire la natura necessaria di un essere qualsiasi; l’essere come vero (cui si oppone il
non-essere come falso, l’essere come vero indica infatti il giudizio corretto, il ragionamento
autentico); l’essere come atto e potenza (per capire a cosa il filosofo si riferisce, consideriamo un
semplice esempio: se prendiamo una statua già scolpita possiamo dire che essa è in atto una statua;
il blocco di marmo invece, prima di esser lavorato dallo scultore, era solo in potenza, la statua che
poi diverrà effettiva o in atto).

Secondo Aristotele tutti i termini si riconducono a dieci concetti o categorie, che sono: sostanza
(Socrate), quantità (un metro e mezzo), qualità (bianco), relazione (figlio di Sofronisco), luogo (in
carcere), tempo (nel 399 a. C.), stare (in piedi), avere (ha un mantello), fare (bagnare), patire (essere
bagnato). La sostanza indica ciò che è in sé, ossia ciò che sussiste indipendentemente da altro,
mentre le altre categorie indicano ciò che è in altro e sono dette accidenti.

Nel sillogismo classico troviamo tre proposizioni, due delle quali (la premessa maggiore e la
premessa minore) fungono da antecedenti e la terza (la conclusione) da conseguente. L’esempio
classico di sillogismo è: «tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate è uomo» dunque «Socrate è
mortale», il termine medio è uomo; i termini estremi sono Socrate e mortale. Si dice premessa
maggiore quella in cui il medio compare insieme al termine estremo di significato più esteso («tutti
gli uomini sono mortali»); si dice premessa minore l’altra in cui soggetto è il termine estremo meno
esteso («Socrate è uomo»); la conclusione è: «Socrate è mortale».

La filosofia pratica è chiamata da Aristotele scienza politica, in quanto il bene della città comprende
quello del singolo individuo. Essa contiene dunque anche l’etica, che è la parte dedicata al bene del
singolo. Nella sua maggiore opera di etica, l’Etica nicomachea, Aristotele mostra che il bene ultimo
dell’uomo, cioè la felicità, consiste nell’esercizio abituale e perfetto della funzione che gli è propria,
ossia la virtù. Ci sono virtù etiche, che riguardano le funzioni della parte non razionale dell’anima e
consistono nel giusto mezzo tra due vizi opposti (per esempio: il coraggio, giusto mezzo tra viltà e
temerarietà; la generosità, giusto mezzo tra avarizia e prodigalità), e virtù dianoetiche, che
riguardano le funzioni della parte razionale e sono: la saggezza, la sapienza, l’arte, la scienza e
l’intelligenza. La saggezza (o prudenza), è la virtù dianoetica che rende possibili le virtù etiche,
individuando nelle situazioni particolari il giusto mezzo, ossia ciò che si deve fare; la sapienza
invece consiste nell’esercizio della conoscenza come fine a se stessa e in essa è riposta la felicità
suprema.

Nella Politica Aristotele definisce la città come la società perfetta, cioè autosufficiente, nella quale
l’uomo può realizzare il vivere bene, la felicità. La costituzione migliore è quella intermedia fra
aristocrazia (governo dei migliori) e democrazia, in cui la maggior parte dei cittadini sono in una
situazione media, cioè non sono né troppo ricchi, né troppo poveri. Nella democrazia i cittadini
governano a turno, per essere poi liberi di dedicarsi alle attività fini a se stesse in cui consiste la
felicità.
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La retorica o arte del fare discorsi persuasivi, di importanza fondamentale nella vita sociale,
comprende la capacità di ben argomentare (dialettica), la conoscenza delle passioni umane, al fine
di persuadere più efficacemente e la rettitudine del carattere dell’oratore, che lo rende più credibile.

La poetica o arte di fare poesia, è superiore alla storia, perché tratta di casi non particolari ma
universali e perciò si avvicina alla filosofia. La poesia è definita come imitazione della vita e
Aristotele ne distingue i vari generi, indicando il supremo nella tragedia, in grado suscitare pietà e
terrore e, di conseguenza, di operare la catarsi, cioè la purificazione dell’anima dalle passioni.

In antitesi a Platone, per cui l’arte è copia di una copia, per Aristotele l’arte ricrea le cose secondo
una nuova dimensione; l’arte è superiore alla storia per il diverso modo in cui essa tratta i fatti:
mentre la storia è vincolata al particolare, l’arte assurge all’universale.

Con l’inarrestabile avanzata della scienza moderna, il nome di Aristotele finirà inevitabilmente
associato alla metafisica, in quanto dottrina caratterizzata dall’ambizione smisurata di tracciare
contemporaneamente i confini dell’essere e del concepibile, sollevando il pensiero a vertiginose
altezze: un’impresa che David Hume (1711-1776) definirà: «sofisticheria e inganno» e Immanuel
Kant (1724-1804) boccerà come frutto dell’inesauribile tendenza dell’uomo ad applicare la propria
ragione al di là della sua legittima sfera di validità; tuttavia, l’influenza di Aristotele persiste ancora
soprattutto sul terreno etico-politico e teologico, per esempio nella neoscolastica cattolica.

8. La filosofia ellenistica e la filosofia a Roma

L’età ellenistica inizia con la morte di Alessandro Magno (323 a. C.) a cui segue, rapidamente, la
sgretolazione dell’Impero in realtà politiche diverse e caotiche; l’uomo greco perde il senso di
appartenenza alla vita pubblica, apparentemente dominata dal caso e dalla cattiveria degli uomini:
da cittadino, fortemente coinvolto nella gestione del bene pubblico, diventa individuo che, di fronte
a un universo culturale sempre più instabile, si ripiega in se stesso alla ricerca di una felicità non
minacciabile dai rivolgimenti esterni. Le filosofie ellenistiche cercano di dare una risposta a queste
esigenze elaborando speculazioni di carattere pratico, che consentano al saggio di raggiungere la
serenità e l’imperturbabilità in ogni circostanza, abbandonando la grande riflessione metafisica del-
l’età classica, perché troppo lontana dalla vita quotidiana e inefficace dal punto di vista etico.

Epicuro (341-271 a. C.) fonda ad Atene il Giardino. Per Epicuro non c’è un senso all’esistenza:
quello che ci si può proporre è di soffrire il meno possibile; la vita è come una grande, unica,
malattia, per la quale Epicuro propone un tetrafarmaco: non dobbiamo temere gli dei, che si
disinteressano di noi; non dobbiamo temere la morte: quando ci sarà lei, non ci saremo più noi, e
finché ci siamo noi, non c’è lei; non dobbiamo temere il dolore: c’è infatti una proporzionalità
inversa tra durata e intensità del dolore che dura se è leggero e se è intenso smette presto, oppure
conduce alla morte, che, come si è detto, non va temuta; non dobbiamo temere di non disporre del
piacere necessario: il vero piacere di cui abbiamo bisogno non è quello (intenso e breve), che
potremmo anche non trovare in quantità abbondante, ma quello (meno intenso, ma prolungato), che
è piuttosto uno stato d’animo di non-turbamento e di serenità, da ottenersi con una vita equilibrata e
piuttosto sobria.

Per Epicuro lo strumento principale della conoscenza, e nel contempo il criterio della verità è la
sensazione, che è di per sé un processo fisico irrefutabile, sempre vero e oggettivo (gli oggetti
emettono delle immagini, detti simulacri, che sono costituite da effluvi di atomi), falso può essere
solo il giudizio; altri strumenti della conoscenza sono le anticipazioni, consistenti nel ricordo di
sensazioni passate, usate per anticipare sensazioni future e nella sostanza corrispondenti ai concetti.
10

Epicuro professa un’etica edonistica, cioè fondata sul piacere. Ma con ciò egli intende soprattutto
quel genere di piacere in quiete, che trova la sua massima espressione nell’assenza di dolore rispetto
al corpo () e all’anima (). Non nega che anche ogni altro piacere sia un bene, ma fissa
una gerarchia dei piaceri fondata sulla maggiore o minore fatica che si dovrebbe spendere per
realizzarli: la gerarchia dei piaceri pone così al vertice i piaceri naturali e necessari (mangiare
quando si ha fame, bere quando si ha sete), i quali vanno sempre perseguiti perché tolgono il dolore
del corpo; al secondo posto pone i piaceri naturali e non necessari (per esempio, il mangiar bene) i
quali sono concessi solo talvolta; al terzo e ultimo posto si collocano i piaceri non naturali e non
necessari (per esempio, il desiderio di fama, ricchezza e potere), i quali non sono mai leciti per il
fatto che turbano la serenità dell’uomo e, non avendo in sé alcun limite e misura, sono insaziabili e
lasciano l’uomo perennemente insoddisfatto. Su questi presupposti Epicuro sconsiglia l’impegno
politico e invita a una vita nascosta e nella sostanza asociale (fatta eccezione per il vincolo
dell’amicizia): egli considera la giustizia e le istituzioni politiche, infatti, come forme innaturali,
fondate sulla ricerca del terzo tipo di piaceri, in assoluto i più dannosi.

Il principio su cui si basa la morale stoica, fondata da Zenone di Cizio (333-263 a. C.), è l’istinto
di autoconservazione, per cui ogni vivente ricerca ciò che giova alla sua natura e fugge ciò che le
nuoce. Siccome l’uomo è essenzialmente ragione, egli dovrà ricercare quello che incrementa la
propria ragione, cioè la scienza, e fuggire quello che la danneggia, cioè l’ignoranza. Il bene e il
male, la virtù e il vizio vengono pertanto definiti in termini di scienza e ignoranza (intellettualismo
etico), riproponendo così quella che era l’essenza del pensiero di Socrate. Le critiche principali di
Zenone all’epicureismo sono: il perseguire esclusivamente piaceri sensibili e prestare poca
attenzione alla vita sociale e politica.

Gli stoici riducono il piacere a una pura eventuale manifestazione della virtù; condannano senza
appelli la passione, propugnando l’assenza di passioni (); negano valore etico a ogni realtà che
non sia la virtù-scienza, dichiarando vita, salute, bellezza indifferenti dal punto di vista morale (cioè
né beni, né mali) e preferibili solo da un punto di vista fisico e biologico. Tutte le virtù sono ridotte
a una, la scienza dei beni e dei mali, e la virtù viene ritenuta sempre identica in tutti gli esseri
razionali, uomini e dei. Gli stoici rivalutano la legge positiva dello Stato.

L’iniziatore dello scetticismo è Pirrone di Elide (365-275 a. C.): questa filosofia è caratterizzata da
un atteggiamento radicale di sospensione del giudizio (), perché l’uomo non ha la possibilità di
motivare i propri giudizi sia in ambito conoscitivo, sia in ambito etico, al di là delle apparenze;
questo atteggiamento conduce Pirrone sino all’afasia, da intendersi non banalmente come assenza di
parola, bensì nel senso di non attribuire né verità né falsità alle sensazioni e alle opinioni in rapporto
all’autentica natura degli oggetti. Il risultato etico dello scetticismo pirroniano deve ricercarsi
essenzialmente nell’, cioè nella liberazione dai turbamenti dell’animo (passioni) che derivano
soprattutto dall’adesione a opinioni dogmatiche.

L’atteggiamento scettico fu ripreso da Arcesilao di Pitane (315-240 a. C.) e da Carneade (214-129


a. C.) i quali ritenevano che non si potesse esser certi della verità perché le opinioni erano le più
varie e contrastanti.

Dopo una fase di oscuramento, dovuta al predominio delle filosofie dogmatiche (ad esempio, il
cristianesimo) lo scetticismo rinascerà a nuova vita nel pensiero moderno, ad opera di Hume.

Alla fine del I secolo a. C. Roma è la padrona indiscussa di tutto il bacino del Mediterraneo. La
filosofia greca viene apprezzata soprattutto per la sua ricchezza e sensibilità culturale, in grado di
ben preparare e formare i giovani per la carriera politica e forense.
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Il più grande diffusore della cultura greca a Roma è sicuramente Marco Tullio Cicerone (106-43 a.
C.), filosofo, retore e uomo politico. La sua attenzione si appunta sui temi etici assai più che su
quelli cosmologici e ontologici, assumendo una posizione eclettica, che riprende la morale stoica,
ma ne mitiga l’astrattezza e il rigore con una maggior attenzione alla vita pratica e biologica.

Il neostoicismo è l’indirizzo filosofico più diffuso in Roma, perché offre una risposta all’esigenza
di senso e di felicità, molto avvertita dalla società romana. Gli autori neostoici più importanti, che
riducono ai minimi termini i temi logici e fisici a vantaggio di un diffuso senso religioso, sono
Seneca, Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio.

Lucio Anneo Seneca (4 a. C.- 65 d. C.) elabora e distingue il concetto di coscienza (la strutturale
consapevolezza del bene e del male implicita in ogni uomo) da quello di volontà, intesa per la prima
volta, esplicitamente, come una facoltà autonoma, distinta dalla ragione. Ha inoltre un vivo senso
del peccato, non comune nella filosofia greca, uno spiccato senso dell’uguaglianza fra tutti gli
uomini, compresi gli schiavi e addirittura un senso dell’amore scambievole.

Il greco Epitteto (60 circa-138 d. C.) critica la divisione stoica della sfera morale in beni, mali e
cose indifferenti e la riduce alla distinzione fra le cose che sono in nostro potere e le cose che non lo
sono. Ogni vizio, ogni errore e turbamento nasce dalla confusione dei due piani. In tal senso l’a-
zione del saggio che ha di mira solo le cose che sono in suo potere è in sommo grado libera, perché
dipende da un criterio interiore e solo da quello. Nella sua filosofia è presente anche una forte
componente religiosa e solidaristica nei confronti di tutti gli altri uomini come membri di un’unica
società umana, senza distinzioni.

L’imperatore Marco Aurelio (121-180 d. C.) parte da posizioni pessimiste che sottolineano la
precarietà e la monotonia del tutto, ma giunge ad ammettere un riscatto del cosmo, il divenire non
porta al nulla, ma a un’altra forma di essere; nel mondo l’uomo ha una posizione di rilievo, che lo
innalza fino all’altezza degli dei, quando si ritira in sé, nella parte razionale dell’anima, per vivere
un’intensa vita religiosa e praticare l’amore per il prossimo.

9. Plotino

Con Plotino (203-270 d. C.) si giunge ai vertici del pensiero metafisico classico, che per la prima
volta pone la domanda fondamentale: «perché esiste il Principio o Uno-Bene?».

Il neoplatonismo, di cui Plotino è il principale rappresentante, avrà molta fortuna, in particolare,


nella filosofia medievale e rinascimentale, perché si mostrerà in grado di mediare le esigenze
razionali della filosofia con una interpretazione spirituale dell’uomo e della sua vita; Plotino nasce a
Licopoli (Egitto) e nel 244 giunge a Roma, dove fonda una scuola filosofica di notevole successo,
che attira anche nobili e politici. La scuola di Plotino mira a insegnare agli uomini come sciogliersi
spiritualmente dalla vita terrena al fine di riunirsi al divino, per contemplarlo e fruirlo fino a
giungere a una trascendente unione estatica. Plotino compone 54 trattati, che il discepolo Porfirio
(233-305 d. C.) raccoglie e sistema in sei gruppi di nove con il titolo Enneadi.

Plotino compie un’autentica rivoluzione nella storia del platonismo: egli opera una rifondazione
sistematica della metafisica, portando alle estreme conseguenze le dottrine non scritte di Platone.
Ogni cosa, per poter essere, deve avere una unità, se viene privata della quale perisce. L’essere
stesso dipende dall’unità: qualsiasi parola si pronunci sull’Uno presuppone il riferimento ad
alcunché di determinato, che è comunque inadeguato, oppure ha significato solo per analogia e
allusione. Il termine che si attaglia all’Uno in modo preminente, anche se non si può dire
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totalmente, è quello di Bene come potenza e ricchezza infinita, origine di tutte le cose, inconoscibile
e ineffabile.

La rifondazione della metafisica in Plotino tocca vertici mai raggiunti dal pensiero greco: infatti il
primo e supremo problema non è quello tradizionale «come dall’Uno derivano i molti», ma «perché
c’è l’Uno-Bene?»: la risposta di Plotino è che il Bene crea se stesso, dunque il Principio primo e
supremo va inteso come attività autoproduttrice. Il Principio primo inoltre è assoluta libertà, che ha
voluto essere come è. L’Uno è dunque libertà autoproduttrice.

Anche al secondo dei grandi problemi metafisici «perché e come dall’Uno sono derivate le molte
cose che sono?» Plotino dà una risposta che costituisce uno dei guadagni più cospicui del pensiero
antico: Dio ha liberamente voluto sé come necessariamente producente le cose.

L’uomo è essenzialmente la sua anima, da cui dipendono tutte le attività: la conoscenza intellettiva,
le sensazioni, le volizioni, i sentimenti e le passioni. Il destino ultimo dell’anima dell’uomo consiste
nel ricongiungimento all’Uno-Bene, che è possibile anticipare anche su questa terra se si toglie tutto
ciò che da lui ci divide per conseguire la visione dell’Uno stesso.

Tre sono, secondo Plotino, le vie del ritorno all’Uno: l’arte (è il momento in cui le cose ci appaiono
nella sola contemplazione, senza riferimento all’utile), l’amore (inizia con il bello sensibile e porta
sempre più in alto, verso la contemplazione dell’idea) e la dialettica (la capacità di riconoscere le
idee).

Il punto culminate del processo non è più interno al pensiero razionale, ma è costituito, come si è
detto, dall’uscita dell’anima da sé (estasi) nell’unione effettiva con l’Uno.

10. Gli esiti della filosofia greca

Le incongruenze di Talete (l’acqua è una realtà determinata e particolare e quindi non può essere
principio della totalità delle realtà) non tolgono nulla al merito storico del filosofo di avere aperto la
strada alla ricerca filosofica, facendo leva sulla ragione e mettendo in luce due aspetti fondamentali:
l’apertura alla totalità (il principio di tutte le cose) e il procedimento logico (se c’è un ordine nel
mondo, se il mondo non è caos, allora deve esserci un principio che ne spieghi l’origine e ne
assicuri la stabilità e l’armonia).

Platone e Aristotele definiscono un sapere organico, seguendo un procedimento logico rigoroso: la


meraviglia che il mondo suscita nell’uomo-filosofo è inequivocabile indizio dell’insoddisfazione
prodotta da ciò che appare; tutto ciò che appartiene al mondo è soggetto al divenire; l’analisi degli
elementi che costituiscono la struttura del divenire, rivelano la presenza congiunta dell’essere e del
non-essere; il divenire (nascita-crescita-morte=essere/non-essere), a causa della presenza del non-
essere, rende le realtà precarie, esposte sempre al rischio del nulla; la tensione interiore prodotta
dalla minaccia del non-essere genera una condizione esistenziale difficile da sostenere: incertezza,
timore, angoscia. Da qui, l’esigenza di trovare una via d’uscita più sicura ed efficace rispetto alla
prospettiva rappresentata dalla tradizione mitologica. Unico rimedio alla condizione di precarietà
dovuta al divenire può esser dato solamente da un fondamento che sia sottratto all’insidia del non-
essere, che abbia stabilità, permanenza, compiutezza e perfezione, in una sola parola: l’assolutezza.

Principio metafisico: il fondamento è identificato con l’essere, inteso come principio assoluto, la
stella polare della filosofia greca, in grado di soddisfare pienamente le esigenze spirituali e razionali
dell’uomo. Qualunque realtà, in quanto è, è soggetta alle leggi dell’essere.
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Principio teologico: l’essere è Dio, come perfezione assoluta è totalmente privo di non-essere,
quindi non è soggetto al divenire, in quanto completo; per il pensiero greco se esistessero solo realtà
soggette al divenire, si verificherebbe l’assurdo della compresenza di essere e non-essere, con la
conseguenza che il non-essere limiterebbe l’essere e con la contraddizione del nulla che
condizionerebbe l’essere.

Principio gnoseologico: la verità della conoscenza dipende dal suo adeguarsi all’essere delle cose.

Principio etico: il bene è la realizzazione dell’essere dell’uomo; l’essere è la condizione e la norma


del dover essere.

Principio logico: il principio di non contraddizione (l’essere è, il non-essere non è) è la legge


suprema dell’essere, quindi è la legge suprema del pensare, è la condizione della coerenza, della
correttezza e del rigore dei ragionamenti.

Lo schema teorico appena sintetizzato ha un valore paradigmatico fino al XIX secolo, quando sarà
radicalmente contestato a partire da Hegel. Il paradigma è centrato sull’affermazione del primato
dell’essere sul divenire e sul riconoscimento della funzione regolatrice dell’essere assoluto, sia nel
cosmo (principio di ordine e armonia universale), sia nell’uomo (dominio della ragione sugli
impulsi del corpo e ricerca della conoscenza avente valore indubitabile, per tutti e per sempre).

Non sorprende che nel corso dei secoli che hanno visto in filosofia il predominio del paradigma
dell’essere (specialmente nel Medioevo) anche le istituzioni religiose e politiche abbiano condiviso
la logica di cui il paradigma è espressione, così all’interno di ciascuna istituzione, come Impero e
Papato, si avrà l’accentramento di tutti i poteri nella persona del monarca e la sua legittimazione
come manifestazione dell’ordine naturale e inesorabilmente, nei rapporti tra le istituzioni, la
rivendicazione del primato assoluto del Papato sull’Impero, con gli inevitabili conseguenti conflitti;
infine, il lungo processo di erosione del paradigma dell’essere avverrà all’interno di una complessa
trasformazione da cui uscirà l’Europa della Modernità, con esiti radicalmente eversivi.

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