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Il debitore viene considerato inadempiente nei seguenti casi:
in caso di dolo, consistente nella volontà cosciente di tenere
una determinata condotta, da cui deriva l'impossibilità della
prestazione.
La colpa, intesa come sinonimo di negligenza;
e nel caso di caso fortuito, che determina l'estensione delle
obbligazioni senza responsabilità per il debitore.
Nel caso fortuito vi rientrano: gli eventi naturali come terremoti,
inondazioni, eccetera, i fatti giuridici, che abbiano reso impossibile la
prestazione, come ad esempio se la cosa diventa extra commercium; Il
fatto del terzo qui si è rimasto estraneo il debitore, ad asempio: la fuga
dello schiavo dovuto. Se l'adempimento è imputabile a titolo di dolo o
colpa del debitore, si ha un’ipotesi di illecito civile, ovvero un caso di
responsabilità contrattuale, che determina la responsabilità patrimoniale
del debitore. Se il debitore adempie in ritardo rispetto al termine pattuito,
si parla di mora solvendi, la quale determina il risarcimento del danno
provocato da tale ingiustificato ritardo. Ai fini della mora solvendi, si
occorreva che il credito fosse valido, in modo che il debitore potesse
essere convenuto in giudizio, senza poter opporre eccezioni; Che il credito
fosse esigibile per il verificarsi della condizione o la scadenza del termine;
Che il credito fosse certo, cioè determinato nel suo ammontare; Che la
mancata esecuzione della prestazione fosse imputabile al debitore. Se la
prestazione diventava oggettivamente impossibile, bisogna accertare per
quale causa ciò fosse avvenuto. Il debitore rispondeva
dell’inadempimento, se l'impossibilità era lui imputabile, se invece
derivava da un fatto estraneo, l'obbligazione si estingueva. La culpa si
distinse in: colpa lata, cioè negligenza estrema, equiparata al dolo;
Culpa levis, cioè negligenza del debitore che non osservava la diligenza
dell'uomo medio. Il debitore rispondeva anche per il fatto altrui, se si
avvaleva per l'adempimento della prestazione dell’opera di altri. Nei casi
in cui la scelta del terzo era stata imprudente, culpa in eligendo, se il terzo
non era stato adeguatamente sorvegliato. Il patrimonio del debitore
venne considerato come comune garanzia per i creditori, i quali avevano
tutti un uguale diritto su di esso, cosiddetta parcondicio. Infatti, i creditori
concorrevano sul prezzo ricavato dalla vendita dei beni del debitore
proporzionalmente all'importo del credito, a meno che, uno di essi non
fosse stato titolare di un diritto di preferenza come il pegno o l'ipoteca. Il
pretore introdusse alcuni mezzi giuridici, che avevano lo scopo di
revocare gli atti di disposizione del patrimonio compiuti dal debitore allo
scopo di frodare i creditori, producendo l'effetto di far rientrare nel
patrimonio del debitore, quei beni che ne erano usciti per effetto della
fraudolenta alienazione. Nel diritto classico esistevano due mezzi
revocatori: l'Inter dictum fraudatorium, concesso dal pretore contro il
terzo acquirente, consapevole della frode per obbligarlo a restituire
quanto acquistato dal debitore; La restitutio in integrum. Nel diritto
giustinianeo, i due mezzi nel diritto giustinianeo, furono unificati in
un'unica azione, denominata: Actio Paoliana, avente i seguenti requisiti:
un atto di alienazione compiuto con il consiglio un fraudis, cioè con la
coscienza di recar pregiudizio al creditore da parte del debitore
fraudolento. La scienza fraudis, cioè la conoscenza della frode da parte
del terzo acquirente. Il pregiudizio dei creditori, consistente
nell’impossibilità di essere soddisfatti
completamente, eventus damni; l'esperibilità, entro un anno
dall'avvenuta in azione contro l'acquirente.