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L'ADEPTO
(Adept, 2004)
Londra, poco dopo mezzanotte... non ci sono stelle; una coltre di nubi,
come un'umida, vecchia coperta dell'esercito, ricopre la città. Il cielo rove-
scia una luce a vapori di sodio che si riflette dalle migliaia di lampioni,
colorando gli angoli del mondo di arancione e facendo scintillare debol-
mente le nubi notturne, simili a nebbia radioattiva. Quest'alba artificiale e
permanente stana gli uccelli dai nidi e i loro cinguettii campagnoli s'insi-
nuano tra i cigolii e i borbottii della sinfonia urbana. Alla periferia della
città vecchia, una volpe s'allontana saltellando; qualche ubriaco ritardatario
ripercorre d'istinto la strada di casa. Nei labirinti del fuligginoso quartiere
commerciale tutto è quieto. Un paio di guardie sonnecchiano su alcune
riviste, ammazzando il tempo dietro il banco della reception.
Altrove la città non dorme mai, però qui l'attività è di natura commercia-
le; alimentata dal sole, in un certo senso. Di notte i macchinari riposano.
Tutto ciò che si muove fra l'intreccio di strade sono le folate di vento col
loro carico di nebbia e polveri inquinanti.
Ma ecco un cigolio di sospensioni, mentre un furgone Transit bianco
malconcio si ferma davanti a una silenziosa fila di palazzine adibite a uffi-
ci. Il guidatore controlla la strada a destra e a sinistra, scrutando ogni ango-
lo e ingresso. Passa un intero minuto prima che il motore venga spento e le
portiere siano aperte. Ne emergono con fare circospetto tre figure. Sem-
brano gli ultimi tre componenti di una qualche specie minacciata d'estin-
zione.
Il guidatore è massiccio ed energico. Sembra sulla cinquantina, ma è del
genere per cui l'età è una questione meramente estetica.
La seconda figura è più giovane, sulla trentina, alta e dinoccolata. Se il
compagno ha un aspetto energico, lui sembra semplicemente spaventato.
Indossa un berretto da baseball, che continua a tormentare, calandoselo
sugli occhi.
In contrasto con gli altri due, che indossano una tuta, il terzo uomo sem-
bra abbigliato per una tiepida giornata sui pendii montani: giaccone nero di
taglio raffinato chiuso con la zip fino al collo e pantaloni neri di una fibra
di ultima generazione, derivata dal nylon. La testa è riparata da un berretto
di lana nero. La corporatura compatta e i movimenti agili non fanno nulla
per dissipare l'illusione che si trovi qui per perfezionare il suo record di
discesa libera. Gli mancano gli occhiali da sole per completare l'immagine.
La barba ben curata è nera come i capelli tagliati corti, particolari che con-
feriscono un'aria vagamente orientale ai lineamenti che potrebbero appar-
tenere a qualsiasi luogo, da Oslo a Kabul. L'espressione del viso, composta
e imperscrutabile, suggerisce l'idea di un uomo di quarantacinque anni in
perfette condizioni fisiche.
Di fianco al furgone, un viottolo conduce verso l'ala laterale della palaz-
zina, consentendo l'accesso a vari portelli e porte di manutenzione. Il gui-
datore tira fuori dal veicolo una pesante cassetta degli attrezzi e si sistema
davanti a uno dei portelli. Il suo inquieto compagno giocherella col berret-
to e borbotta, rivolto all'uomo tarchiato: «I nostri addetti alle pulizie sono
tutti neri».
Senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro all'interno del portello aper-
to, il guidatore commenta: «Tu potresti essere il supervisore». Il tono can-
tilenante dà l'idea che stia parlando a un bambino.
L'uomo più giovane continua a stuzzicare il berretto; la sua ansia è ine-
quivocabile. Appena sopra la pallida fronte, l'etichetta sul berretto reca la
scritta: T.J. OFFICE SERVICES.
Nel frattempo, l'uomo col completo da sci si è piazzato davanti all'in-
gresso principale dell'edificio. Dalla strada, il vestibolo buio della recep-
tion è appena visibile dietro le doppie porte di vetro e metallo. Lo sciatore
armeggia con la serratura. Alza lo sguardo e lancia un'occhiata alla strada,
prima a sinistra, poi a destra, e infine torna a fissare la serratura. Qualcosa
nella porta si spezza, producendo un rumore secco.
A lato dell'edificio, il guidatore fa indietreggiare di qualche passo il
compagno e, traendo involontariamente un profondo respiro, abbassa una
leva all'interno del portello. Non succede nulla di drammatico, ma un sibi-
lo di sottofondo, appena percettibile, s'interrompe. All'interno della palaz-
zina, le spie luminose sul centralino della reception si spengono. La lam-
pada dell'uscita di emergenza brilla con minore intensità. Una luce rossa
inizia a lampeggiare dietro un pannello con un frontalino di vetro proprio
all'interno del portone.
«Conta fino a cento, poi solleva questa leva», dice il Guidatore. «Dammi
la mano.» Prende Berretto da Baseball per il braccio e gli guida la mano
sulla leva. «Non morde», lo rassicura, anche se il giovane non sembra
convinto.
«Ma non ha senso», protesta Berretto da Baseball, quasi uggiolando. Si
becca un'occhiataccia, ma continua imperterrito: «Perché non la lasciamo
com'è, finché non abbiamo finito?»
L'altro è irritato, però tiene la voce bassa. «Interrompi la corrente per
cinque minuti e vedrai cosa succede. Abbiamo spento le luci, e quella dan-
nata macchina del caffè; il sistema d'allarme non l'abbiamo neanche sfiora-
to. Ha una riserva che basta per una settimana.»
«Allora perché preoccuparsi...» Il giovane non riesce a concludere la
domanda. Una mano gli afferra la tuta proprio sotto la gola, impedendogli
di parlare. L'uomo tarchiato si china, finché i volti dei due non sono che a
pochi centimetri di distanza.
«Se incasini questa roba, sarà l'ultima cosa stupida che farai. Mi hai ca-
pito?» ringhia l'omone, poi controlla l'orologio. «Conta fino a settantacin-
que.» Quindi solleva la cassetta degli attrezzi e si dirige a grandi passi ver-
so il portone.
Una volta raggiunto lo Sciatore, il Guidatore inclina la testa di lato verso
le doppie porte. «Sono aperte?»
Lo Sciatore annuisce e l'altro spinge le porte ed entra nel vestibolo, piaz-
zando la cassetta davanti al pannello del sistema d'allarme col frontalino di
vetro. La spia rossa dell'ALIMENTATORE BATTERIE risplende, lumi-
nosa. L'uomo inserisce un righello d'acciaio nella fessura tra il bordo del
frontalino e l'intelaiatura e, dopo averlo infilato per un tratto, con uno scat-
to apre lo sportello. Lascia cadere il righello nella cassetta e recupera un
paio di pinze tagliafili, infilandone un'estremità nella tasca della tuta, da
cui ciondolano come la Colt di un cowboy. Poi tira fuori un cacciavite e
inizia ad allentare le viti ai quattro angoli del pannello, tenendolo fermo
con la mano sinistra.
Poi aspetta.
Passa un minuto.
Sotto di loro, da un punto indefinito del sotterraneo, proviene un tonfo
sordo, come quello di un'ancora che colpisce il fondo del mare. «Ci sia-
mo», bisbiglia. La spia rossa si spegne.
L'indicatore verde di ALIMENTAZIONE RETE si accende. Accanto, un
altro indicatore verde inizia a lampeggiare. È contrassegnato: ACCEN-
SIONE, AUTODIAGNOSTICA.
«Qui viene il bello», sussurra il Guidatore all'altro. Togliendo la mano
dal pannello, lo sgancia, infilando le unghie sotto il bordo. Il dorso è un
intreccio di fili collegati. «Disattivare la corrente? Potrebbe essere un pro-
blema. Riattivare la corrente? Nessuno al mondo avrebbe da eccepire. Il
momento ideale perché l'impianto avvii una rapida diagnostica. Al proget-
tista non è mai venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto ripristinare
la corrente durante un'intrusione.» Allarga una matassa di fili. Ne sceglie
due. Sollevando il pannello, controlla dove conducono: a un interruttore a
chiave contrassegnato DISATTIVATO. Afferra la pinza che gli pende
dalla tasca e recide i due fili, strappando coi denti la guaina alle estremità e
attorcigliando tra loro i due filamenti di rame. «Anche questa è fatta», an-
nuncia. Rimette la pinza nella cassetta e lascia il pannello contro la parete,
a penzolare dai collegamenti. «È ora che il nostro piccolo lanciatore si
guadagni la sua parte», dice. Esce dalla porta a grandi passi, lasciando lo
Sciatore da solo.
Di lì a poco è di ritorno, preceduto da Berretto da Baseball. Lo Sciatore
parla per la prima volta. «Il tesoro?» chiede con una pronuncia da annun-
ciatore radiofonico. Berretto da Baseball annuisce e comincia a salire le
scale. Gli altri due lo seguono; il Guidatore ha la sua cassetta degli attrezzi.
Al primo piano, attraversano un grande ufficio open space, tra due file di
scrivanie con computer, ciascuna decorata con biglietti adesivi, piante e
fotografie incorniciate. Una fievole luce proveniente dalle finestre illumina
in parte l'ambiente. Sedici piccoli mondi: un cardigan rosa posato sulla
spalliera di una sedia, un diario Weight Watchers, un lieve sentore di O-
pium.
In fondo all'open space, raggiungono una porta chiusa a chiave. Il Gui-
datore tira fuori un piede di porco dalla cassetta e, con due potenti stratto-
ni, spacca lo stipite della porta intorno alla serratura quel tanto che basta
per aprirla. Il rumore è quasi assordante nel salone silenzioso.
L'ufficio privato nel quale entrano ha una scrivania di vero legno, siste-
mata accanto a una grande finestra. La sedia è di pelle nera, con lo schie-
nale alto.
Berretto da Baseball apre un mobiletto basso sotto la finestra a rivelare
una cassaforte. Il Guidatore posa ancora una volta la sua cassetta e inizia a
studiare la cassaforte. Senza pensarci, ruota la stanghetta di plastica delle
veneziane, angolando gradualmente le lame in modo da escludere il pano-
rama. Il cielo nero, l'autoparcheggio a più piani sul lato opposto e i binari
del treno scompaiono.
Vedendo il Guidatore occupato con la cassaforte, lo Sciatore si rivolge a
Berretto da Baseball, dicendo: «L'ufficio del presidente». Ripercorrono il
tragitto fra le scrivanie, con Berretto da Baseball che fa da guida.
Salgono al secondo piano. L'arredamento è molto più costoso e il pavi-
mento è rivestito di moquette. «L'ho visto solo una volta, quando l'ho ac-
compagnato durante il trasloco», sta dicendo Berretto da Baseball. «Sape-
vo che c'era qualcosa lì dentro, ma pensavo si trattasse di un mobile bar.»
Arrivano alla fine di un corridoio. Non ci sono finestre qui; solo luce a
sufficienza a suggerire la presenza di una scrivania. Lo Sciatore accende la
lampada da tavolo, illuminando il triangolo di moquette rosso scuro sul
quale è poggiata la scrivania, posizionata ad angolo rispetto al corridoio.
Al di là ci sono due porte di spesso e lucido legno di betulla. «È quella»,
dice Berretto da Baseball, tirando fuori la mano dalla tasca abbastanza a
lungo da indicare la porta di destra.
Lo Sciatore posa una delle sue mani guantate sopra la maniglia, sag-
giandola. Chiusa a chiave. «L'avevo detto che la chiudono sempre a chia-
ve. Glielo avevo detto», ripete il giovane.
Lo Sciatore fa scorrere la mano sulla serratura, senza dar segno di aver
udito. «Guarda nel primo cassetto della scrivania», suggerisce col suo tono
da annunciatore.
Berretto da Baseball aggira la scrivania, voltando la schiena all'altro e ti-
ra la maniglia del cassetto un paio di volte, trovando l'ostacolo della serra-
tura. Poi prova con l'ultimo cassetto, più grande. «Chiusi. Tutti e due...»
Uno scricchiolio di legno che si scheggia lo interrompe. Gira la testa di
scatto, trasalendo, spaventato dal suono inatteso.
La porta di destra adesso è leggermente aperta, l'area intorno alla serra-
tura e parte dello stipite sono spaccati. Lo Sciatore ha mosso un passo in
avanti. Mentre Berretto da Baseball è ancora pietrificato, accovacciato
dietro la scrivania, lo Sciatore entra nell'ufficio. «Fammi vedere dov'è»,
dice senza girarsi.
Anche questa stanza è priva di finestre. C'è una serie di tre pulsanti a la-
to della porta e lo Sciatore preme il primo in basso. Lampade alogene pro-
tette da riflettori di vetro fumé illuminano una combinazione di scaffalatu-
re che occupa un'intera parete. Ricorda la suite presidenziale di un moder-
no albergo americano. La combinazione di vetro e legno impiallacciato,
lunga sei metri, non manca di nulla: un piccolo televisore, bicchieri, un
minuscolo lavabo nero... E il tutto è rivestito di vetri a specchio.
Una grande scrivania di legno di betulla occupa un altro angolo della
stanza. Nello spazio restante sono disposti un tavolo rotondo e due poltro-
ne. Ci sono numerosi armadietti e cassettiere su rotelle.
Berretto da Baseball si dirige all'estremità della parete e apre un mobile
ad altezza d'uomo. All'interno si accende una luce. Benché la porta sugge-
risca un vestibolo dove appendere gli abiti, dietro c'è un'alcova profonda
un paio di metri. La larghezza è inferiore al metro. C'è una minuscola toe-
letta con uno specchio in fondo. Da un lato, una piccola panca, larga abba-
stanza da appoggiarsi. Su alcune mensole, il necessario per la toeletta. Ap-
pesi a una serie di ganci di fronte alla panca, numerosi completi e camicie
sulle loro grucce. C'è un vago sentore di legno di sandalo.
«Quella volta, quando sono entrato, la porta era aperta e lui era qui. È
proprio così, tranne che non riuscivo a vedere il lavabo. Questa parte del
muro era aperta», spiega Berretto da Baseball, entrando nell'alcova. Solle-
va e rovista tra gli abiti appesi finché non trova un chiavistello. Una sezio-
ne della parete rivestita di pannelli si apre al centro, provvista di cardini
come le antine di un orologio a cucù. Difficile vedere cosa ci sia al di là, se
non stando al centro delle ante. Poiché le sezioni della parete munite di
cardini comprendono le due metà della fila di ganci, gli abiti girano verso
l'esterno quando le ante vengono aperte. «Ora, non sapevo cosa ci fosse
dentro. Pensavo che ci tenesse la roba buona. Ma poi ho parlato con una
delle ragazze, che era qui, una volta in cui la cassaforte era aperta e ha vi-
sto dove si trovava.» E infatti, dietro i pannelli di legno, c'è la porta di ac-
ciaio grigio di una cassaforte, con tanto di disco combinatore e manovella.
Berretto da Baseball è indietreggiato per consentire allo Sciatore di ac-
cedere all'alcova. Questi si tuffa sotto il pannello aperto, scostando gli abi-
ti, e osserva la porta della cassaforte. «Ottimo lavoro, Peter. Trova una
finestra e assicurati che sia tutto a posto, poi vai a vedere se Alan ha biso-
gno di qualcosa. Vi raggiungerò quando avrò finito con questa», annuncia
lo Sciatore. Peter sembra riluttante ad andarsene. «Vai», lo sprona gentil-
mente l'altro.
Il ragazzo torna verso la scala e trova una finestra affacciata sulla via. La
strada svolta bruscamente in entrambe le direzioni e il furgone è l'unico
veicolo visibile su quel tratto. Tutto è come l'hanno lasciato: asfalto umido,
lampioni, notte.
Dopo venti secondi, il respiro di Peter ha appannato troppo il vetro per
consentirgli di vedere bene, perciò lui scende al piano inferiore. Quando
raggiunge il primo piano, sente il ronzio lontano di un trapano, che si fa
più forte via via che attraversa l'open space, diretto verso l'ufficio privato.
Raggiunta la soglia, intravede il Guidatore, Alan, accanto alla finestra
con le veneziane chiuse. Un trapano industriale, che tiene appoggiato al-
l'anca, è puntato contro la cassaforte. Il sudore è visibile tra i capelli radi. Il
trapano è già penetrato di un paio di centimetri nella porta. Il rumore, ben-
ché notevole, non è assordante.
Peter alza la voce per contrastare lo stridore del metallo e grida: «Tutto a
posto...» Alan trasale violentemente, mandando la punta del trapano a
sfregare contro la superficie della cassaforte. Una riga sinuosa di fulgido
metallo s'imprime sulla rifinitura di smalto. «... fuori», conclude debol-
mente Peter. L'acuto ronzio del trapano s'interrompe, mentre il dito di Alan
si stacca dal pulsante.
«Cristo santo. Non ti ha mai detto nessuno di non sbucare all'improvviso
davanti alle persone, soprattutto quando stanno ficcando il naso nelle cas-
seforti altrui?» sbotta rabbioso Alan, alzando la voce sulle ultime parole.
Poi rimette la punta del trapano in posizione e lo riaccende, lo sguardo di
nuovo sulla cassaforte.
«Dovresti usare gli occhiali di protezione», bisbiglia Peter a denti stretti.
Resta a osservare per qualche istante, il volto adombrato, illeggibile. Poi
con noncuranza si dirige verso le finestre che danno sulla strada. Da una
scrivania prende una pinzatrice e si guarda intorno, in cerca di qualcosa da
pinzare. Un movimento all'esterno cattura la sua attenzione. Quattro uomi-
ni vestiti di nero si stanno avvicinando velocemente alla palazzina. Due
sono armati di mitragliette, il calcio appoggiato contro l'incavo della spal-
la. Proprio all'angolo della strada, adesso è visibile una BMW col logo
della polizia.
Mentre si avvicinano, uno dei poliziotti armati alza lo sguardo verso la
finestra dalla quale Peter sta osservando. Il giovane si abbassa di colpo.
Rannicchiato sotto la finestra, si morde un labbro. Il panico è evidente
sul suo volto. Poi, sempre accovacciato per tenersi basso, corre verso Alan,
serpeggiando tra le scrivanie. Va a sbattere contro l'ultima, urtando un an-
golo col fianco. L'impatto sposta la scrivania in avanti di qualche centime-
tro e i piedi strappano un lamento stridente al rivestimento di linoleum
torturato. La collisione manda all'aria la cancelleria e le cianfrusaglie, scal-
zandole dal loro luogo di riposo notturno.
«Merda», annaspa Peter, afferrandosi il fianco. Continua a correre, con
una gamba rigida, e irrompe nell'ufficio dove Alan si sta stirando la schie-
na, il foro ormai finito, il trapano silenzioso.
«La polizia», grida Peter nel silenzio, continuando a massaggiarsi il
fianco. «Fuori in strada. È qui.»
In quel momento, lo Sciatore risale le scale di corsa. Si muove rapido,
ma i suoi passi sono quasi silenziosi. Si ferma sulla soglia che, dal piano in
cui si trovano, conduce verso la scala. La porta è stata montata in modo da
aprirsi verso l'esterno; al loro arrivo l'avevano trovata aperta, bloccata da
un estintore. Lo Sciatore lo afferra e, mentre lo solleva, la porta inizia a
chiudersi. Lui la blocca con un piede. Poi alza il voluminoso estintore fino
alle spalle e lo abbatte diagonalmente sulla maniglia esterna della porta.
Mentre lo risolleva, lampi dorati s'irradiano dal suo polso. Poi risuona un
colpo e la maniglia a forma di anello prende a rimbalzare sulla passatoia
che riveste gli scalini, il metallo che risuona come il campanello di una
bicicletta.
Retrocedendo nell'ufficio, lo Sciatore lascia che la porta si chiuda dietro
di sé. Afferra la parte centrale di un vicino attaccapanni, stacca la stanga
cromata dalla sua base di plastica e la rovescia, gettando la corona di ganci
a terra. Adesso ha una sbarra diritta; la fa roteare una volta, con abilità, poi
la infila nella parte interna della maniglia con un'angolazione di quaranta-
cinque gradi. Non riesce a infilarla tutta; l'estremità della sbarra sfrega
contro il legno della porta quand'è dentro solo per un terzo.
Posando le mani su ciascuna estremità, l'uomo esercita una leggera rota-
zione fino a portare la stanga in posizione orizzontale. Con la sbarra ben
incuneata - un'estremità contro la porta, l'altra contro la parete -, la porta
adesso è bloccata dall'interno.
Benché l'operazione non richieda che pochi secondi, viene conclusa ap-
pena in tempo. Già si sente la polizia che sale le scale. Gli agenti raggiun-
gono la porta bloccata nello stesso istante in cui i tre intrusi completano la
loro ritirata nell'ufficio all'altra estremità del piano.
Il poliziotto che guida il gruppetto batte la mano sulla porta. Senza ma-
niglia, solo l'intelaiatura della finestrella di vetro retinato offre un qualche
appiglio. Ma non è sufficiente per consentire una presa adeguata.
Alan è sulla soglia dell'ufficio privato. Gira la testa per guardare lo Scia-
tore. «Che cosa stava facendo di sotto?» chiede.
Lo Sciatore non risponde.
Peter, nel frattempo, è in preda al panico. «E adesso cosa facciamo?»
Ripete la domanda parecchie volte a bassa voce. Tira con violenza la corda
delle veneziane, a rivelare un salto di dieci metri fino agli scintillanti binari
d'acciaio. Il suo sguardo passa nervosamente dai binari alla porta dell'uffi-
cio per poi tornare sui binari. Inizia a raspare l'intelaiatura della finestra,
alla ricerca di una maniglia, ma invano. La finestra è un blocco unico, si-
gillato.
Lo Sciatore lo supera, flettendo le mani guantate. Si china sulla cassetta
degli attrezzi aperta davanti alla cassaforte e afferra il manico di un cac-
ciavite. Si raddrizza e conficca la punta del cacciavite nel torace di Peter.
Peter si raggela. La sua espressione sbalordita e gli arti contratti gli dan-
no l'aspetto di un uomo che abbia appena afferrato un cavo elettrico sotto
tensione. Nella stanza nessuno si muove.
Poi Peter abbassa lo sguardo. Il corpo nervoso è immobile per la prima
volta dal loro arrivo. Il mento gli cede e lui fissa il manico di plastica gialla
che gli spunta dalla cassa toracica. Strabuzza gli occhi come farebbe qual-
cuno nel vedere uno scorpione attaccato al risvolto della giacca. Alza una
mano come intontito, e non è chiaro se intenda afferrare il manico o dargli
uno strattone. Mentre la mano si solleva, le ginocchia cedono e i suoi occhi
terrorizzati si rovesciano nelle orbite. Si accascia al suolo, ai piedi dello
Sciatore, esanime.
Alan rimane come paralizzato, poi si mette a frugare freneticamente nel-
la tasca della tuta, con un'espressione di panico sul volto.
Lo Sciatore non si muove.
Qualche istante dopo, Alan trova la rivoltella, la estrae dalla tasca e la
punta, esitando, verso lo Sciatore che si staglia contro la finestra.
I loro occhi s'incontrano e Alan fa involontariamente un passo indietro.
Continuando a fissare l'altro con uno sguardo feroce, lo Sciatore dice: «A-
desso tocca a te». Ogni parola è chiara, ma l'accento perfetto, da annuncia-
tore, non c'è più.
Tutto il corpo di Alan si tende, i muscoli sono così contratti che la pisto-
la gli trema leggermente nelle mani sudate. Sta ansimando. I suoi occhi,
fermi, sono fissi sullo Sciatore che restituisce lo sguardo con intensità spie-
tata. Nessuno si muove.
Poi, con uno scatto improvviso, lo Sciatore si lancia verso Alan. Questi
spara istintivamente, ma l'affondo dell'altro è solo una finta, perché all'ul-
timo momento l'uomo si sposta di lato. La pallottola rimbalza su qualcosa
e manda in frantumi la finestra sigillata. Schegge di vetro si rovesciano sui
binari sottostanti.
Abbandonando la posizione accovacciata, lo Sciatore propone: «Vo-
gliamo riprovare?» Il suo accento è di nuovo perfetto.
Sulle scale, un agente sta armeggiando davanti alla porta con un piede di
porco. Una figura vestita di nero, con le mostrine da sergente, è piegato su
un ginocchio, con una mitraglietta appoggiata contro la spalla e puntata
verso la porta. Il dito è posato sul grilletto.
Il poliziotto col piede di porco stacca un altro pezzo di legno dall'intela-
iatura.
«E se la facessimo saltare con un colpo, sergente?» chiede uno degli
uomini.
Il sergente scuote la testa.
Al quarto tentativo, l'estremità piatta del piede di porco s'infila tra la por-
ta e lo stipite quanto basta per non scheggiare il legno. L'agente esercita
una forte pressione finché d'un tratto la sbarra che tiene chiusa la porta si
piega con uno scricchiolio e cade rumorosamente a terra. Così liberata, la
porta si apre di qualche centimetro. Ma, non essendoci nulla a tenerla aper-
ta, si richiude con un colpo secco.
In quel momento, dall'altra parte della porta, si ode il suono inconfondi-
bile di uno sparo.
Il poliziotto col piede di porco si getta di lato, portandosi fuori della tra-
iettoria del fuoco. Il sergente si abbassa ancora di più, spostando rapida-
mente la mitraglietta avanti e indietro, alla ricerca di un obiettivo. Non c'è
nulla da vedere attraverso la finestrella della porta chiusa.
Dopo un paio di secondi, il sergente parla. «Chi ha voglia di tenere aper-
ta questa porta per me?» chiede, continuando a sbirciare dalla finestrella.
Un paio di agenti sbuffano. Vedendo che nessuno si fa avanti, aggiunge:
«Slap, c'è uno spazzolone di sotto, corri a prenderlo. Chris, tu apri un po' la
porta e c'infili dentro lo spazzolone. Fallo scivolare sul pavimento, poi
tienilo fermo col piede quando la porta si apre, in modo che possiamo en-
trare. Dean, sistemati laggiù, così ci copri».
Lo spazzolone viene recuperato e passato all'agente col piede di porco,
che esegue le istruzioni. Mentre la porta si apre, si sente uno schianto pro-
veniente dall'interno e, qualche secondo dopo, un altro sparo. Entrambi i
poliziotti si tendono, le dita ferme sul grilletto. Non riescono a vedere nulla
di ciò che sta accadendo nell'ufficio.
«Dean, a destra e tieni sotto tiro», ordina il sergente.
«Okay, capo», ribatte l'agente e supera con un balzo la porta, spostando-
si a destra. Si piega su un ginocchio e punta l'arma verso l'angolo più lon-
tano del salone.
«Slap, a sinistra e tieni sotto tiro.»
Slap solleva il fucile, toglie la sicura e supera la porta.
«Chris, quando sono dentro, tieni sotto tiro queste scale, sopra e sotto.
Nessuna sorpresa, per favore.»
Chris annuisce.
Il sergente oltrepassa la porta e questa si chiude alle sue spalle, mentre
Chris si posiziona nell'angolo della scala.
Avanzando con passi rapidi, usando le scrivanie come riparo, i tre agenti
armati si avvicinano all'ufficio silenzioso. Il sergente alza una mano e gri-
da: «Polizia. Arrendetevi subito. Ripeto: polizia. Posate le armi, adesso.
Avete capito?»
Silenzio.
Attendono per trenta secondi. Una folata di vento rovescia alcuni fogli
da una scrivania.
Con un cenno della mano, il sergente indica agli altri due uomini di a-
vanzare verso la porta dell'ufficio. Lui rimane immobile, il fucile puntato
verso la porta aperta.
«Vedo un corpo», annuncia Slap.
«Io ne vedo due... non si muovono», aggiunge Dean.
Il sergente fa segno a Dean di avvicinarsi. Questi avanza come uno
schermitore esitante, strisciando i piedi sulla moquette finché non raggiun-
ge la soglia. Si accovaccia, dà una rapida occhiata all'interno, poi torna
indietro, sempre piegato. «Sono spacciati», comunica.
Alzandosi, il sergente fa segno agli altri due di restare fermi. S'incammi-
na lentamente verso l'ufficio. Vede i due corpi: uno è vicino alla porta,
l'altro è sotto la finestra in frantumi. Supera la porta e scivola leggermente
nell'appoggiare il piede su una pozza di sangue. Il corpo vicino alla fine-
stra ha un manico di cacciavite piantato nel torace. Nella mano protesa ha
un revolver.
Il sergente mette con cautela la suola della scarpa sopra il polso, immo-
bilizzandolo, il fucile puntato sul corpo immobile.
«Slap, controlla l'altro», grida. Poi si china, il piede sempre sulla mano
armata, e sente il polso. «Questo è morto.»
«Anche questo», annuncia Slap, chinandosi sull'altro corpo.
Il sergente si sporge dalla finestra andata in frantumi, adocchiando i bi-
nari. Guarda a destra e a sinistra. Non c'è nulla da vedere, eccetto pareti a
strapiombo e rotaie inospitali. Quando riporta lo sguardo sui due cadaveri,
chiede, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Che diavolo è successo
qui dentro?»
2
Lunedì 7 aprile (sera, qualche ora prima)
Qualche ora più tardi, David era a casa, immerso in un sonno profondo,
quando il suo cercapersone cominciò a emettere il suo trillo penetrante.
Lui accese la lampada sul comodino e mise giù i piedi dal letto. Rimase
così, sfregandosi il viso e passandosi le mani tra i capelli. Poi trasse un
profondo respiro, scosse la testa un paio di volte e allungò la mano per
prendere il cercapersone.
Sul display c'era un numero. David si alzò, un po' traballante, e premette
un paio di tasti; raggiunse il salotto e accese la luce. Prese il cordless, e vi
posò accanto un taccuino e una penna. Dopodiché si sedette sul divano di
pelle consunta, si mise il taccuino sulle ginocchia e compose il numero.
Risposero al primo squillo. «David? Reg Cottrell.» Era una voce molto
raffinata e, dal tono, si capiva che apparteneva a un uomo più anziano di
lui.
«Ciao, Reg. Che cos'è successo?» chiese David.
«Scusa per l'ora, ma credo che tu debba essere coinvolto in quello che è
accaduto. Ho appena ricevuto una chiamata dalla centrale operativa. C'è
stata un'intrusione negli uffici della Interfinanzio. Pare che sia un macello.
Sul posto c'è la polizia... C'è stato un incidente, sono arrivate anche delle
ambulanze. Non so altro, tranne che il responsabile è l'ispettore capo
Hammond della Serious Crime Squad; gli è stato annunciato il tuo arrivo.»
David aveva buttato giù degli appunti. «Si tratta degli uffici nell'East
End? Credo che abbiano un ufficio anche in un'altra zona.»
«Uhm», borbottò Reg, consultando le sue note. «Vicino a Bow Road, in
Mile End. È questa la sede. Ce la fai ad andare?»
«Nessun problema, Reg. Ci andrò. Ci sei, domattina?» chiese David.
«Sono le tre e mezzo», borbottò l'altro, pensando ovviamente ad alta vo-
ce. Poi disse: «È probabile che prenda un treno più tardi del solito, ma ci
sarò».
«D'accordo. Allora ti aggiornerò quando ci vediamo», disse David.
«Bene, bene.» Reg fece una pausa. «Sono certo che non ci sia bisogno di
dire...»
«No. Non temere. Questa sarà la mia priorità da adesso in poi», lo rassi-
curò David.
«Fantastico, fantastico. Sono clienti importanti. Allora, a domani», con-
cluse Reg.
David era già in piedi mentre ribatteva: «Certo», dopodiché ripose il
cordless sulla base.
Dieci minuti più tardi era sbarbato e vestito di tutto punto: completo blu
scuro, camicia azzurra, cravatta grigio antracite. Mise il taccuino in una
cartella di pelle, infilò in tasca le chiavi dell'auto e il cellulare, e uscì di
casa.
4
Martedì 8 aprile (prime ore del mattino)
Due ore più tardi era seduto di fronte a Kieran in una bella brasserie del
West End. Molti clienti erano in giacca e cravatta, e la maggior parte ve-
stiva alla moda; Kieran era l'unico a indossare una polo. «Avresti dovuto
avvisarmi prima, ho l'impressione di essere fuori posto col mio abbiglia-
mento», si lamentò.
David sorrise compiaciuto, guardando verso la strada. Bevve un sorso
d'acqua.
«Stai bene, David?» domandò Kieran. «Non mi sembri del tutto a posto.
Mattinata dura nelle miniere di sale?»
«Scusa, Kieran. Ma ho incontrato il più... Hai mai incontrato qualcuno
che ti spaventa a morte e non sai neanche perché?»
«Tutti i giorni. Faccio il bibliotecario. Ma l'idea che in giro ci siano in-
dividui che spaventano te è assai inquietante. Chi sarebbe questo troglodi-
ta?»
«Un cliente. Un uomo d'affari. Deve avere una sessantina d'anni, per
niente corpulento, per niente ostile, anzi piuttosto cortese, ma ho fatto fati-
ca a guardarlo negli occhi.» David continuava a fissare la strada.
«Caspita. Be', chiunque sia, deve avere qualcosa che non va. Non si è re-
so conto che avresti potuto ucciderlo col dito mignolo?» commentò Kie-
ran.
David sbuffò. «Evidentemente no. Comunque, lasciamo perdere. Tu
come stai? Come vanno le cose?»
«Le cose? Intendi Hope? Lo sai che è a Hollywood? Sta girando un film;
una storia sulla fuga di un lupo che è il prodotto di un programma d'inge-
gneria genetica della CIA. Dev'essere una roba piuttosto orrenda, ma pro-
babilmente andrà bene. Non l'abbiamo vista molto da quando voi due vi
siete lasciati. Ogni tanto telefona, parla a raffica di tutta una serie di cose
che noi non capiamo, dopodiché riaggancia perché non ha più tempo. Co-
munque penso che per una volta tanto sia felice.»
«Mi fa piacere che lo sia. È sempre stato importante per lei sentirsi ap-
prezzata. Possibilmente da parecchi milioni di persone alla volta», com-
mentò David, sorridendo.
«Non dovrei permetterti di parlare così di mia sorella. Questo è compito
mio», lo rimbrottò Kieran.
Presero a studiare il menu e poi arrivò il cameriere. Una volta ordinato,
Kieran osservò: «Bevi all'ora di pranzo? Pensavo che tu fossi molto rigido
su queste cose. Non rientra nello stile di vita di un monaco guerriero».
«Non credo che tua sorella esca con dei monaci, Kieran. E poi di tanto in
tanto bevo un bicchiere di vino», precisò, un po' stizzito.
L'altro alzò le mani in segno di resa. «Scusa, non intendevo prenderti in
giro.»
Proprio in quel momento portarono il vino e David ne bevve un sorso.
«A essere sincero, sono ancora un po' scosso per l'incontro di stamattina
con quel pezzo grosso.»
«È questo cliente che ti spinge a elemosinare il mio aiuto?» volle sapere
Kieran.
«A pagarti un pranzo costoso e a chiedere gentilmente il tuo aiuto, sì. Ha
perso qualcosa e io devo ritrovarlo. Devo scoprire chi potrebbe volere que-
sto oggetto, a chi potrebbe rivolgersi il ladro per cercare di venderlo, con
chi parlare...»
«Sembra che tu abbia bisogno di un esperto. Parlami di questo ninnolo
scomparso. Che cos'ha perso il tuo cliente?»
«Be', non ha voluto darmi troppe informazioni, ma so che è antico, pre-
giato, un gioiello particolare dell'artigianato orientale», spiegò David. «Se
si riuscisse a ottenere un centrino dal platino, potrebbe somigliargli. Ha
detto che proveniva da qualche parte della Cina, dove si narrano ancora
delle leggende sui suoi poteri magici.»
Arrivò l'antipasto. Kieran, masticando, alzò la forchetta e l'agitò verso
David. «Sai una cosa? Se ha un qualche significato superstizioso, i ragazzi
della School of Antiquities potrebbero essere in grado di aiutarti. Hanno
appena formato un team che studia tutte le cose mitiche e venerabili. Co-
nosco il tipo che lo coordina, Bernie Lampwick... È stato a casa mia ai
tempi della scuola.»
David annuì, senza mostrarsi sorpreso. «Se non era a casa tua ai tempi
della scuola, sarebbe stato un amico di famiglia, oppure suo padre sarebbe
stato uno dei fittavoli di tuo padre o qualcosa del genere.»
«Bada che mio padre non ti senta parlare in questo modo. Gli impedi-
scono di aumentare gli affitti dei suoi cottage dal 1981. Dice che quelli
vivono meglio di lui», protestò Kieran.
David non fece commenti. «Puoi parlare con questo Bernie, per capire se
è disposto a farci da consulente per un paio di giorni? La compagnia è
piuttosto generosa in questi casi; potrebbe rifarsi il guardaroba di tweed.»
«Penso che Bernie segua più uno stile grange che country, ma lo chia-
merò. E la mia parte?» chiese Kieran.
«Tu avrai salmone affumicato, seguito da boeuf en croûte e da torte ta-
tin, più due bicchieri di vino e un caffè. Non male per dieci secondi di la-
voro», ribatté David.
«Dieci secondi per parlarti e una vita per costruire i contatti e il sapere
enciclopedico che li accompagna. Ti sto dando tutto questo, lo sai?» bor-
bottò Kieran.
«Va bene. Aggiungerò un brandy», concesse David. «Questo Bernie è
disposto a spostarsi? A parlare con qualche mercante d'arte, ammesso che
ne esistano per questo genere di oggetti?»
Kieran rifletté. «Hmm. Bernie non è esattamente un tipo socievole. Gli
viene l'ulcera se gli chiedono di tenere una conferenza. Comunque lascia
fare a me, troverò qualcuno all'altezza, con un po' di buonsenso... e che
abbia un disperato bisogno di denaro.»
La conversazione tornò su Hope e sul tentativo di Kieran di spiegare la
trama del film in cui lei lavorava. Lui propose a David di andare a cena da
loro, quando Hope fosse tornata, in autunno, e David si chiese ad alta voce
se fosse una buona idea. La questione fu lasciata in sospeso, ma si misero
d'accordo per incontrarsi di nuovo di lì a qualche settimana e riparlarne.
Sull'incontro di David con Dass non venne più detto nulla.
Venerdì 11 aprile
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Martedì 15 aprile (la sera seguente)
11
12
Erano le sette di sera e fuori era ancora chiaro. Nei sotterranei della
School of Antiquities, Susan stava finendo di scrivere i suoi appunti.
Aveva le dita posate sulla tastiera dell'iBook, il polpastrello dell'indice
destro che tamburellava delicatamente sulla lettera Il senza premerla... Un
metronomo per i suoi pensieri.
Poi le dita si animarono, RIMANDO A MERCURIO, ECCEZIONE
AGLI ELEMENTI ARISTOTELICI?
Aveva sistemato il portatile leggermente alla sua sinistra; un documento
della collezione era appuntato a un leggio alla sua destra. Girando un poco
la testa poteva digitare e al tempo stesso studiare il foglio ingiallito con la
sua scrittura precisa, minuta. Era seduta in quella posizione da ore.
Staccò le mani dalla tastiera e si premette la spalla destra, ruotandola.
Con la mano sinistra, strinse e rilasciò le fasce muscolari del collo parec-
chie volte. Quindi prese una decisione. «Adesso me ne vado», sentenziò,
salvando e chiudendo il documento sul quale stava lavorando. Spense il
portatile, poi tolse con cautela il foglio di carta dal leggio e lo rimise nella
busta trasparente, che era stata etichettata. Infine prese con sé la busta e
uscì dalla stanza.
L'archivio dove venivano conservati i documenti si trovava in una stanza
diversa da quella in cui c'erano le postazioni di lavoro dei ricercatori. Ti-
rando fuori un portachiavi dalla tasca dei suoi jeans color verdemare, Su-
san aprì la pesante porta antincendio e accese la luce.
Schedari e classificatori erano allineati lungo le pareti, ma alcuni si tro-
vavano proprio al centro della stanza. Benché in apparenza la stanza fosse
immacolata, in essa c'era odore di polvere, una polvere che si bruciacchia-
va se le lampadine venivano lasciate accese per un certo periodo di tempo.
L'archivio situato nell'angolo opposto alla porta era stato messo su una
piattaforma di legno e aveva un aspetto a metà tra una cassaforte e un ca-
sellario. Non aveva un disco a combinazione, solo una serratura coperta e
una grande maniglia cromata.
Susan girò la chiave nella serratura, alzò la maniglia - che produsse un
risucchio metallico - e aprì lo sportello. Su tre scomparti erano sistemate le
buste trasparenti e le cartelle con le etichette gialle. I numeri di codice e le
lettere dell'alfabeto scritte a mano erano posizionati verso l'esterno. La
giovane rimise la busta al suo posto, quindi richiuse lo sportello e prese il
registro sopra l'archivio. Poi, impugnando una biro mezza rotta - attaccata
alla molletta di metallo con una logora cordicella bianca - e dopo aver
guardato l'orologio, Susan riempì un paio di caselle sul modulo, i cui mar-
gini e titoli erano sbiaditi a furia di fotocopiarlo.
Infine uscì dalla stanza, spegnendo la luce e chiudendo a chiave la porta.
Per fare spazio all'archivio, da quella stanza erano state portate via parec-
chie cianfrusaglie, che adesso giacevano abbandonate nel corridoio accan-
to alla porta. Susan notò un vecchio casellario verde, avvolto nel polietile-
ne. Era riverso su un fianco: segno inequivocabile della sua fine imminen-
te. Alcuni schedari e un vecchio otturatore a tendina, rinforzato da una
logora gomma nera, condividevano il catafalco del casellario.
Fermatasi davanti al distributore automatico, vicino all'ascensore, Susan
scelse una zuppa di pomodoro e trasalì leggermente quando la macchina
fece scattare un bicchiere di plastica nel suo contenitore con una rapidità
fulminea, che fece vibrare il pannello anteriore. Il tonfo esplosivo della
macchina, seguito da un gorgoglio crescente, era l'unico rumore di quel
piano.
Si era fatto piuttosto tardi e Susan era l'ultima persona ancora al lavoro.
Gli occasionali rumori dell'attività diurna erano ormai cessati. Un suono
simile a quello di un cuscinetto a sfera che veniva ripetutamente fatto ca-
dere sul pavimento di marmo risuonò alcune volte fino a lei, poi tornò il
silenzio. Persino la nuova guardia non si vedeva.
Tornata nella Sala Alessandrina, Susan si lasciò cadere sulla sedia. Le
strette plafoniere, con la loro luce fioca, e la lampada da tavolo alogena
erano Tunica illuminazione. La ragazza trangugiò qualche atomo di zuppa
bollente, poi iniziò a frugare nella borsa alla ricerca della rubrica. In mezzo
era infilata una scheda telefonica, che posò sul tavolo. Poi compose una
lunga sequenza di numeri.
«Pronto», disse la voce di Dee.
«Dee, sono Susan.»
«Aspetta, Susie...» Dee evidentemente premette una mano sulla cornetta,
ma Susan la sentì comunque gridare: «Portalo fuori del mio ufficio prima
che l'ammazzi, Jack. Fila. E chiudi la porta!» Poi la sua voce tornò norma-
le. «Scusa. E mi dispiace di averti chiamato Susie. Come stai, sorella?»
Quell'affettuosità improvvisa colse Susan di sorpresa. «Ehm, bene. Alla
grande», farfugliò. «E a te come va?»
«A gonfie vele.» Ebbe una vaga esitazione. «Ci hai ripensato?» chiese.
Ma non le diede il tempo di ribattere. «Magari potrei rimandare la mia
visita, se pensi...»
«Dee, l'altro giorno intendevo solo dire che ho un casino di roba da fa-
re», la interruppe Susan in tono gentile. «Mi piacerebbe molto vederti. Mi
dispiace solo che in questo periodo abbia un sacco di lavoro, e non potrò
passare con te tutto il tempo che vorrei. Ecco perché avevo qualche riser-
va.»
«Be', e se io fossi autosufficiente? Mi comprerò una guida e andrò in gi-
ro da sola. Magari posso prenotare un albergo in centro.»
Susan s'illuminò. «Oh, quel posto in cui sto, la casa del mio professore,
non costa niente», esclamò. «Devi venire a stare con me... anche se io non
sarò molto a casa. Immagina che Miss Marple abbia acquistato una resi-
denza in pieno centro. L'arredamento è in stile edoardiano. Tutti pezzi
d'antiquariato... e niente TV. Ti piacerà.»
«Sembra fantastico. Allora ti va bene?» chiese Dee.
«Certo», rispose Susan. Ed era sincera. «Non vedo l'ora.»
«Bene, arriverò martedì. È troppo presto?»
«Il prossimo martedì?» Susan era piuttosto sorpresa.
«Esatto», ribatté timidamente la sorella.
«Stavo solo pensando... Lascia perdere. Va bene. Anzi è fantastico.»
Dee si schiarì la gola, poi disse allegramente: «Allora, che cos'è che ti
tiene tanto occupata? Sono in grado di capirlo, se me lo spieghi?»
«Sai che cos'è la carta, vero?» scherzò Susan. «Be', ne sto esaminando
una quintalata. Un sacco di vecchi documenti che hanno bisogno di essere
letti, analizzati e catalogati. Solo a uno sfigato potrebbe piacere. Per fortu-
na...»
«Allora non vai a fare bisboccia tutte le sere?»
«Una cioccolata e a letto alle undici», le assicurò Susan. «Però mi è suc-
cessa una cosa eccitante; mi hanno chiesto di collaborare a un'indagine.
Una compagnia di assicurazione mi paga per svolgere una ricerca su un
oggetto antico trafugato. Guardie e ladri veri.»
«Uh, una novella Nancy Drew. Allora non esci solo con bibliotecari, ma
anche con assicuratori. Meno male», commentò Dee, divertita.
«Esco con un tipo che non corrisponde al tuo cliché di assicuratore», la
rimbeccò Susan, pentendosi immediatamente.
«Chi? Quale tipo?» chiese Dee.
«Quello della compagnia di assicurazione», rispose Susan con noncu-
ranza. Poi aggiunse: «Si chiama David».
«E se fosse una celebrità, sarebbe...»
«Dio, non lo so. Un Clancy Brown più giovane e coi capelli più scuri»,
ribatté Susan.
«Chi? Ah, quello che faceva il Kurgan in Highlander? E uno così vende-
rebbe polizze assicurative? La mia mente si rifiuta di visualizzare l'imma-
gine», borbottò Dee, vagamente incredula.
«Pessimo paragone, lo ammetto. Non ha un aspetto spaventoso, è solo
massiccio. Comunque, il succo della storia è il lavoro interessante che sto
svolgendo, non il tizio per cui lavoro.»
«Certo, certo», tagliò corto Dee. «È single?»
«Presumo di sì», rispose Susan con indifferenza. «Ma smettila di farmi
domande su di lui. È solo un diversivo.» Si corresse: «È un lavoro extra,
ed è uno dei motivi per cui ho pensato che non avrei avuto molto tempo da
dedicarti». Poi aggiunse enfaticamente: «E comunque non è il mio tipo».
«Okay. Messaggio ricevuto. È un bel figo, è disponibile e a te non inte-
ressa. Ho capito. Non dire altro.» Aveva un tono cospiratorio, come se
avesse intuito quello che stava succedendo. «Allora posso passarti i dati
del volo? Riesci a venire a prendermi? Comunque non ci sono problemi.
Posso arrivare in città da sola.»
Susan sbatté le palpebre, stupita che Dee avesse rinunciato tanto pron-
tamente al suo terzo grado su David. «Ah, sì. Prendo una penna. Okay,
vai.»
Dee sarebbe arrivata all'aeroporto di Heathrow martedì sera e quindi Su-
san poteva andare a prenderla senza interrompere il suo lavoro.
«Sei cambiata? Più alta? Hai tatuaggi?» chiese Dee.
«Non preoccuparti. Mi presenterò con un cartello», ribatté Susan. «Ci
vediamo martedì.»
«Va bene. Ciao, sorella», la salutò Dee e riagganciò.
Susan rimase per qualche istante immobile, col gomito appoggiato sul
tavolo. Poi, mentre abbassava il ricevitore, il clic della plastica contro la
plastica coincise con un tonfo lontano, come se lei avesse riagganciato una
cornetta del peso di una tonnellata.
Sfogliando oziosamente la rubrica, si ritrovò a fissare la pagina sulla
quale era riportato il numero di David. Protese il labbro inferiore, rifletten-
do. Poi inserì il numero nella memoria del suo cellulare, ma involontaria-
mente lo cancellò, quindi dovette ripetere l'operazione daccapo.
Un rumore la distolse bruscamente da quel compito. Sembrava che qual-
cuno stesse battendo due pietre l'una contro l'altra. Il suono proveniva dal-
l'altra parte della parete... dalla stanza in cui erano conservati i documenti.
Susan reclinò il capo, tendendo l'orecchio. Sentì un debole scricchiolio
soffocato, come se qualcosa venisse trascinato sul linoleum. Oppure era lo
stridio distante di un metallo che veniva torto e deformato?
Si guardò intorno, allarmata. Poi alzò il ricevitore e digitò lo zero. Squil-
lò parecchie volte, ma nessuno rispose. Riagganciò.
Con passo felpato si diresse verso la porta, abbassò la maniglia con e-
strema lentezza e socchiuse l'uscio. La porta dell'altra stanza era spalancata
e le luci erano accese.
Sempre con estrema cautela, lasciò andare la maniglia, poi aprì la porta a
sufficienza per sgusciare fuori.
Si soffermò un istante a osservare le cianfrusaglie abbandonate tra il
punto in cui si trovava e la porta dell'altra stanza. I suoi occhi si posarono
su una vecchia asta di legno di quercia: era lunga un metro e sormontata da
una tilde di ferro nero; si usava per agganciare i saliscendi delle alte fine-
stre vittoriane. Susan si avvicinò con estrema lentezza, afferrò l'asta e la
estrasse con cautela dal groviglio in cui era infilata. La catasta di oggetti si
trovava in un angolo del corridoio, tra le due stanze. Chiunque si trovasse
nella stanza dell'archivio non avrebbe potuto vederla.
Uno schiocco riecheggiò nella stanza, come di un cavo d'acciaio che si
spezzi sotto tensione.
Susan afferrò l'asta di legno dalla punta ferrata e avanzò, sempre con
passo felpato, verso la porta aperta.
Una volta lì, sbirciò dentro e vide un uomo, vestito di nero e grigio, pie-
gato su un ginocchio davanti allo sportello aperto dell'archivio. Intorno a
lui erano sparpagliate alcune cartelle, ma lui reggeva un foglio sul quale
era evidente un disegno intricato. Era lo stesso documento che lei aveva
mostrato a David sul suo portatile.
L'intruso teneva il foglio in alto, leggermente inclinato per cogliere la
luce. Benché indossasse un berretto nero - e quindi il suo volto fosse semi-
nascosto -, sembrava in un certo modo affascinato da ciò che stava osser-
vando.
La ragazza avanzò di un passo. S'irrigidì quando lui si girò all'improvvi-
so... ma in direzione dell'archivio. Estrasse un'altra cartella.
Non l'aveva ancora vista, ma Susan fu certa che si trattava dello stesso
uomo da lei intravisto quand'era corsa ad aiutare Mrs Harris. Adesso si era
appena sbarbato, però era impossibile sbagliarsi.
Fece un altro passo. E un altro ancora. Era quasi alle sue spalle.
Dopo un altro passo, ruotò l'asta sopra la spalla destra e l'abbatté pesan-
temente sulla testa dell'uomo; il legno e il metallo lo colpirono di lato, fa-
cendo volare via il berretto e mandando l'uomo al tappeto.
L'impatto generò un rumore curioso, secco e inorganico. Susan non
scorse altro che un lampo metallico, uno scintillio. Il berretto di lana era
volato ai suoi piedi e, all'interno, era visibile una fascia dorata. L'intruso
indossava un cerchio di metallo intorno alle tempie.
Un colpo così forte avrebbe potuto essergli fatale. Invece, benché il san-
gue scorresse da una brutta ferita tra i corti capelli scuri e gli occhi sem-
brassero momentaneamente offuscati, l'uomo era vivo e vegeto. La fascia
di metallo aveva attutito in parte l'impeto del colpo.
Adesso giaceva su un fianco, con un braccio sotto la schiena e l'altra
mano alzata col palmo verso il viso, come se si sforzasse di schiarirsi la
vista.
Avanzando verso di lui, Susan sollevò l'asta per assestargli un altro col-
po.
L'intruso scattò all'indietro, raspando coi piedi, e andò a sbattere contro
il bordo tagliente di un casellario grigio, ma un istante dopo fu in piedi.
Era instabile sulle gambe e il suo sguardo, simile a una falena accecata
dal calore, oscillava in un'orbita intorno alla testa di Susan. Infine l'uomo
mosse un passo in direzione della giovane, le mani alzate in posizione di
difesa, ma col taglio rivolto contro di lei.
Senza staccare gli occhi dal suo avversario, Susan urlò con tutto il fiato
che aveva in corpo. L'eco in quello spazio angusto fu così forte che l'intru-
so si fermò di colpo.
Un istante dopo le fu addosso.
Nel momento in cui l'intruso si mosse, con un movimento che sferzò l'a-
ria, Susan portò l'estremità più grossa dell'asta davanti a sé ed essa andò a
colpire la mascella di lui. Il grugnito che Susan emise a causa dello sforzo
coprì il rumore del legno sull'osso.
L'uomo barcollò, cadde su un ginocchio, ma si rialzò subito, saltando su
come un pupazzo a molla, e strappò l'asta dalle mani di Susan, sbilancian-
dola. Lei appoggiò un piede all'indietro per stabilizzarsi, ma venne colpita
da un rapido sinistro sullo zigomo; le ginocchia le si piegarono e la giova-
ne barcollò all'indietro, andando a sbattere la testa contro lo spigolo dello
sportello contorto dell'archivio. Finì a gambe all'aria, cadendo sopra la
fascia di metallo.
Dal corridoio giunse un clangore di chiavi.
Il lato sinistro del volto dell'uomo era coperto di sangue, che stillava,
una goccia dopo l'altra, dal mento. Sulla guancia destra, invece, era evi-
dente un segno color porpora, l'impronta dell'asta. La bocca era spalancata.
L'intruso mosse un passo verso Susan, che stava arrancando per infilare
una mano sotto la schiena, incapace di rialzarsi.
Due figure in uniforme irruppero nella stanza e si fermarono di colpo. Il
ladro girò la testa nella loro direzione, tenendo il collo rigido ed eseguendo
un movimento innaturale delle spalle. I nuovi arrivati portavano i distintivi
delle guardie di sicurezza.
«La polizia sarà qui a momenti», urlò la giovane guardia di colore all'in-
truso che, sanguinante e senza fiato, li stava fissando. «Si allontani dalla
ragazza», ordinò poi, avanzando verso di loro e afferrando uno sgabello di
metallo appoggiato sopra una cassa, le cui gambe erano abbastanza irrego-
lari da fungere da arma. «Si allontani», ripeté la guardia, in tono fermo ma
persuasivo, senza alzare né lasciare lo sgabello. Il collega, pallido e nervo-
so, era rimasto sulla soglia.
L'intruso fece due passi esitanti verso le guardie, la schiena ricurva, la
testa bassa e il sangue che colava sullo zigomo e gli gocciolava dal naso.
Avanzava come uno storpio.
Ma era una finta. All'improvviso afferrò una manciata di documenti da
terra e corse verso la porta. La prima guardia venne scaraventata di lato
mentre tentava di fermarlo. Il collega, che si era aggrappato alla manica
dell'intruso, si ritrovò a mani vuote, mentre quello lo superava con uno
strattone. Qualcosa intorno al polso dell'uomo scintillò per una frazione di
secondo.
«Ernie, bada alla ragazza», urlò la guardia di colore, rialzandosi in fretta
e inseguendo il fuggiasco che aveva già sbattuto dietro di sé la porta antin-
cendio adiacente all'ascensore e stava risalendo le scale tre gradini alla
volta.
L'altra guardia lanciò uno sguardo ansioso a Susan, poi al collega che
stava correndo fuori.
Susan protese una mano e lui si affrettò a raggiungerla per aiutarla ad al-
zarsi. Era molto instabile e, per restare in piedi, fu costretta a cingere con
un braccio le spalle puntinate di forfora della guardia. «Mi aiuti ad andare
nell'altra stanza, presto», gli disse. Lui la sorresse, mentre Susan raggiun-
geva la sua scrivania. Numerose gocce di sangue caddero da una ciocca dei
suoi capelli biondi e andarono a formare un'ellissi scarlatta sulla T-shirt
bianca. Inciampò e per poco non cadde sulla sedia. La rubrica era ancora
aperta, col cellulare posato al centro, come un segnalibro troppo grande.
Afferrò il cellulare e digitò un numero il più in fretta possibile. Trasalì
quando l'apparecchio le sfiorò la guancia.
Uno squillo... Due squilli... poi una voce rispose.
«David», disse.
13
Giovedì 17 aprile (alcuni minuti dopo)
«Li chiamo io, ma sono vicino, a soli cinque minuti», disse David, il cel-
lulare all'orecchio, l'altra mano sul volante. Ascoltò la voce di Susan
dall'altra parte. «Mio dio, stai bene? Santo cielo!» Rimase ancora in ascol-
to. «Ascolta, sei vicinissima all'ospedale. Ti chiamo sul cellulare quando
sei lì... Va bene, va bene. Li chiamo subito.» S'interruppe per concentrarsi
sul sorpasso di un autobus che lo stava rallentando. «Va' all'ospedale, ti
richiamo subito.» Riagganciò e digitò il numero del pronto intervento.
Dovette dare alcune spiegazioni, ma riuscì a chiarire alla donna che ave-
va risposto al centralino della polizia che un uomo aveva appena commes-
so un crimine violento in una zona di Londra e che probabilmente aveva
un secondo obiettivo. Citò l'ispettore Hammond e diede i suoi dati. Dopo
pochi minuti, ricevette l'assicurazione che una pattuglia era stata allertata e
riagganciò.
Restò momentaneamente bloccato nel traffico, in attesa che scattasse il
verde, sulla strada che da Islington portava a Old Street. Richiamò la ru-
brica del cellulare, trovò il numero di Hammond e premette il tasto di
chiamata.
«Hammond», sbraitò una voce dopo il primo squillo.
«Sono David Braun. Il nostro uomo ha appena aggredito Susan Milton
all'università e ha rubato i documenti di cui lei le ha parlato. Ha qualcuno
all'indirizzo che le ho fornito?»
«Non in questo momento», rispose Hammond.
«Be', ho avvisato la polizia, ma ho pensato anche di comunicarglielo
personalmente. Magari ha una pattuglia in quella zona», disse David. Te-
nendo fermo il volante con le ginocchia, strattonò il nodo della cravatta
finché non si sciolse. La giacca se l'era già tolta, gettandola sul sedile ac-
canto.
«Adesso devo occuparmi di questa faccenda. Arrivederci, Braun», disse
Hammond. Poi aggiunse quasi a denti strettì: «Grazie».
L'indirizzo verso il quale David era diretto a tutta velocità si trovava in
una strada laterale, poco distante da Great Eastern Road, la strada principa-
le che da Old Street portava alla City e alla Torre di Londra. Il quartiere
era un labirinto di laboratori e officine a tre piani, tutte di mattoni rossi.
Molti edifici avevano ancora le porte dei fienili ai piani superiori e vecchie
carrucole di ferro agganciate sotto i tetti: le vestigia di un passato di duro
lavoro superato dall'avvento della borghesia.
Da qualche parte, il sole si stava tuffando sotto l'invisibile orizzonte. La
crescente oscurità faceva sembrare più strette le strade tortuose. Nascosto
nel dedalo di viuzze, David stava percorrendo una via lastricata. Imboccò
un'ultima curva alla luce dei fari. Sul ciglio della strada, a poca distanza da
un ingresso rientrato, c'era una Porsche nera. Un portone di legno a doppi
battenti, dipinto di blu, sbarrava l'accesso al pianoterra di un laboratorio.
Una figura vestita di nero aveva aperto uno dei battenti e stava armeggian-
do col catenaccio dell'altro.
Oltrepassata la curva, David riconobbe l'uomo: era lo stesso che lui ave-
va visto scavalcare un muro di tre metri. E adesso era di fronte a lui, che
armeggiava col catenaccio della porta, incapace di sollevarlo da terra. La
spalla destra, appoggiata a un battente, e il modo in cui la mano sinistra era
posata sulla pesante maniglia di ferro suggerivano che, se non fosse stato
per quel sostegno, le sue gambe non lo avrebbero retto.
Di certo stava aprendo il portone per far entrare l'auto. Una nuda pavi-
mentazione di cemento, appena visibile all'interno, suggeriva la presenza
di un garage.
David iniziò a rallentare solo quando arrivò all'altezza del portone, senza
tuttavia dare nessun preavviso sulla direzione che avrebbe seguito. Mentre
superava la figura in nero, frenò di colpo, puntando il muso della Saab
verso il centro della strada, e fermandosi a pochi centimetri dalla Porsche,
bloccando la strada. Poi saltò fuori della macchina, ma l'altro, invece di
darsi alla fuga, si limitò a rialzarsi dalla posizione reclinata in cui si trova-
va e a raddrizzare le spalle.
Un lato del volto era nero: uno strato di sangue rappreso lo ricopriva dal-
la fronte al mento. Sull'altro lato, il profilo della mascella era orribilmente
gonfio, la pelle tesa sulla guancia distorta. La brutalità dei colpi ricevuti
era impressa nella carne di quell'individuo. «Solo un segugio e senza tribu-
to. Mi sento insultato...» disse, aspirando il sangue tra i denti, le labbra
ritratte dalle gengive insanguinate. L'effetto era quello di un teschio par-
lante. «... forse mortalmente», aggiunse con un lieve sibilo, che forse vole-
va essere una risata.
David si era fermato a pochi passi dall'uomo, che stava immobile sulla
soglia.
La figura malconcia lo studiò. «Com'è stato intelligente il tuo maestro a
inviare un figlio leale. Fra cento anni ti pentirai di non averlo tenuto per
te.»
David continuò a rimanere in silenzio.
«Allora vediamo se hai imparato bene le tue lezioni», lo sfidò l'altro.
L'ultima parola venne accompagnata da una bollicina rosa di sangue che
gli si formò nell'angolo della bocca. L'altro mosse un passo in avanti e,
quando portò davanti a sé la mano sinistra che teneva dietro la schiena, nel
pugno stringeva un coltello.
D'istinto, alla vista dell'arma, David fece un mezzo passo indietro. Spo-
stò il peso sul piede posteriore, dato che la pericolosità di un coltello ren-
deva preferibile un calcio a un pugno. Alzò maggiormente la guardia, in
una posizione più difensiva, con le mani davanti al volto, i gomiti rivolti
verso il nemico.
L'altro spostò il coltello nella mano destra, brandendolo come se volesse
porgerlo a David. La punta formava piccole spirali, mentre l'uomo sferzava
l'aria davanti a sé. Mosse un passo verso David, poi un altro, costringendo-
lo a retrocedere. Lo stava spingendo verso le auto.
Il coltello scattò verso la guardia di David, mirato in alto, al livello degli
occhi e delle dita, ma l'allungo non era stato perfetto e questo permise a
David di schivare la punta lucente.
Per due volte l'arma tracciò un arco nell'aria, costringendo David a indie-
treggiare. Si ritrovò a pochi centimetri dalla sua auto, incastrato tra la fian-
cata e la portiera aperta. Era in trappola. Landò una rapida occhiata di fian-
co, come per valutare la ritirata, e i suoi occhi si staccarono da quelli del-
l'avversario. Nell'istante in cui il contatto visivo s'interruppe, il coltello
sfrecciò verso il suo viso. Mentre abbassava lo sguardo, David scaricò il
peso sul piede sinistro. Poi, quando l'uomo attaccò, David sferrò un calcio
laterale contro il ginocchio dell'altro. Infine si lasciò andare all'indietro,
contro la fiancata dell'auto e fuori dalla traiettoria del coltello.
L'avversario indietreggiò, barcollando, il ginocchio piegato, portando le
braccia in alto e di lato per cercare di ritrovare l'equilibrio.
David si diede una spinta e si slanciò in avanti, assestando un calcio col
piede sinistro sul petto dell'uomo, il quale, scagliato all'indietro, finì a
gambe all'aria. La sua testa rimbalzò sul granito scivoloso del paracarro e
le mani si protesero verso l'alto. Rimase disteso a terra in una posa scom-
posta.
David si avvicinò e gli afferrò il polso con una mano, poi, posandovi so-
pra anche l'altra, tirò, bloccandogli nel frattempo la spalla col piede destro.
Gli tese il braccio completamente e la mano imprigionata faticò a mantene-
re la presa sul coltello. L'uomo ferito ansimò.
David avvolse il palmo intorno al pugno dell'altro, afferrò la base del
pollice e ruotò la mano finché le dita non si aprirono come un fiore e la-
sciarono cadere il coltello sull'acciottolato. Impartendo un'altra torsione,
smise di tirare e lasciò che il braccio teso dell'altro si piegasse; la mano,
ormai priva di coltello, raggiunse l'orecchio. L'uomo alzò leggermente la
spalla da terra nel tentativo di alleviare la tensione. Ma David, tenendo
sempre stretto il pollice e il polso, continuò a ruotare il braccio, costrin-
gendo l'avversario a girarsi completamente. Quando l'uomo fu riverso a
faccia in giù, David gli puntò un ginocchio contro la schiena. Così immo-
bilizzato, quello smise di lottare.
Nessuno dei due parlò o si mosse per un tempo lunghissimo. Quindi le
sirene, il rombo di motori in accelerazione e infine lo scalpiccio di passi
affrettati annunciarono l'arrivo della polizia.
Due agenti si avvicinarono, e un terzo e un quarto si posizionarono ai la-
ti. «C'è un coltello alla mia sinistra», li informò David. «Se uno di voi vuo-
le prenderlo, io starò fermo. Mi chiamo David Braun. L'ispettore Ham-
mond della Serious Crime Squad può garantire per me. Questo è l'uomo
che Hammond sta cercando.» Con la coda dell'occhio, David vide che un
agente aveva mosso qualche passo. Poi sentì un calcio e un tintinnio, e il
coltello scivolò via sull'acciottolato.
«Ditemi quando posso lasciarlo andare», li sollecitò David.
«Rimanga dov'è, signore», ribatté un agente. Poi parlò nel microfono
agganciato al bavero. «Prima che qualcuno si muova, dobbiamo accertare
chi siete.»
Passarono alcuni minuti; David e il suo prigioniero stavano ancora allac-
ciati insieme e immobili, mentre i poliziotti conducevano una conversazio-
ne via radio. Alla fine, l'agente si rivolse di nuovo a lui. «Credo che sia
abbastanza chiaro che lei è Mr Braun, signore. Se mi lascia mettere una
manetta su quel polso che sta stringendo, poi può lasciarlo andare.»
David sollevò prima un polso dell'avversario poi l'altro, in modo che l'a-
gente potesse ammanettarlo. Quindi si alzò e si mise in disparte, spolve-
randosi i pantaloni e controllando di non avere ferite. Aveva ancora il re-
spiro corto, benché non si fosse praticamente mosso per cinque minuti.
Infine mostrò un biglietto da visita e disse: «L'ispettore Hammond ha tutti i
miei dati, ma ve li do ugualmente. Presumo che vorrete fare un verbale...»
L'agente borbottò: «Ci può giurare».
«... chiamatemi, quando avete bisogno.»
Il prigioniero, che adesso era seduto in mezzo alla strada, si rivolse a
David. «I tuoi ordini erano di non uccidermi?»
«Non capisco cosa intendi», ribatté David, tanto al poliziotto quanto al
prigioniero.
«Dovrebbe farsi vedere», suggerì l'agente. «Quando scorre l'adrenalina,
è facile farsi male e non accorgersene.» Poi, rivolgendosi ai colleghi, ordi-
nò: «Voi due... Date un'occhiata in casa, controllate che non ci sia nessuno.
E fate attenzione. Noi ci occupiamo del prigioniero. E portate via quella»,
aggiunse, indicando la Porsche con un cenno del capo.
Una volta che il prigioniero fu caricato sul sedile posteriore di una delle
auto della polizia,, questa ripartì, percorrendo il tratto di strada in retro-
marcia.
«Forse è meglio che la sposti», disse David indicando la sua auto, e ri-
cevendo un cenno d'assenso da parte di uno dei due agenti rimasti.
David si avvicinò alla macchina e vi salì. Le chiavi erano ancora inserite
nel quadro. Alzò una mano che tremava leggermente. Poi avviò il motore e
fece retromarcia finché non ebbe raddrizzato l'auto. Quindi inserì la prima,
superò la Porsche e accostò al marciapiede.
Scese e tornò verso il portone aperto del garage, ma i poliziotti erano già
entrati. Mosse qualche passo all'interno, vedendo solo una nuda gettata di
cemento, macchiata di olio, e una scala di legno che conduceva a un piano
superiore non visibile da quella posizione. Dall'alto giunsero voci molto
risolute.
Si girò per andarsene, ma qualcosa catturò la sua attenzione. Il suo av-
versario non era riuscito ad aprire il secondo battente. Nell'angolo buio tra
il battente chiuso e la parete c'era una borsa.
David si avvicinò per vedere meglio. Una bella borsa da viaggio nera,
quasi nuova, era posata sul sudicio pavimento di cemento. Chiaramente
non era lì da molto. Si trovava proprio nel punto in cui l'avrebbe appoggia-
ta chiunque avesse avuto momentaneamente bisogno di avere le mani libe-
re.
David lanciò un'occhiata verso la scala. Nessun segno dei poliziotti. Ri-
portò lo sguardo sulla borsa. Era quasi invisibile nell'oscurità.
La afferrò e, con passo deciso, risalì in auto. Partì alla massima velocità
possibile. Quando la strada svanì dal suo specchietto retrovisore, non c'era
ancora nessun segno dei poliziotti.
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«Il caffè è pronto», mormorò David, bussando alla porta della camera da
letto.
«Hmmm», fu la flebile risposta.
«Susan?» chiamò lui, appoggiando l'orecchio contro la porta.
«Che diavolo vuoi?» rispose una voce roca, appesantita da un torpore
che accavallava le parole.
«Vuoi un caffè?»
«Voglio dormire», ribatté la voce insonnolita.
David sospirò e bussò di nuovo. «Posso entrare?»
Non ci fu risposta. Lui aprì la porta e sbirciò nella stanza avvolta nella
penombra. All'esterno, il sole stava sorgendo e la luce s'insinuava intorno
alle tende. C'era chiarore a sufficienza per distinguere il letto e qualcosa
del suo occupante. Una massa di capelli biondi e un braccio posato sul
piumone. Non si vedeva altro, al di là di un rigonfiamento al centro delle
dimensioni di una persona. Sembrava la tana di una creatura in letargo.
«Appoggio la tazza qui», disse David, avvicinandosi in punta di piedi
per posare la tazza sul comodino.
Un lamento coincise con un movimento sotto le coperte. Il braccio sco-
perto venne ritirato.
«Susan», ripeté David, posando una mano sulla figura coperta e scuo-
tendola delicatamente. Si bloccò all'improvviso, interrompendo il gesto a
metà.
«Toglimi le mani di dosso», proruppe una voce nitida da sotto le coper-
te, il torpore del sonno completamente svanito.
David ritrasse immediatamente la mano.
Dal nascondiglio spuntò una mano che scostò un angolo del piumone.
Apparvero un paio di occhi azzurri che si fissarono su David.
Susan spostò di un altro poco il piumone, rivelando le spalle coperte dal-
la maglietta. Nel sonno, si era rannicchiata: la schiena arcuata, una spalla
infilata sotto il cuscino, l'altra sollevata verso l'orecchio... il che significava
che David doveva aver posato la mano più o meno sul seno sinistro.
«È come essere tornata al tempo del dormitorio del college», commentò
lei.
«Pensavo che fosse una spalla», si scusò David, impacciato.
«Certo», disse lei, senza convinzione.
David si allontanò dal letto, indietreggiando verso la porta. «Ti lascio il
tempo di svegliarti», mormorò, e fece un cenno indicando la tazza di caffè.
Lui era già vestito; indossava una camicia beige e un paio di pantaloni scu-
ri.
«Che ore sono?» chiese Susan, allungando una mano per prendere la
tazza.
«Le sei. Andrò in ufficio solo in tarda mattinata. Devo riflettere su alcu-
ne cose e apprezzerei il tuo punto di vista...» S'interruppe, come se fosse
infastidito dalle sue stesse parole. «Intendevo dire che mi piacerebbe avere
il tuo aiuto, se te la senti. A proposito, come stai?»
Susan si appoggiò a un gomito e bevve un sorso di caffè. Dopo aver po-
sato la tazza, si sfiorò la guancia. «Sto bene», rispose. «Dammi qualche
minuto e sarò da te. Il bagno è libero?»
«È tutto tuo. I tuoi vestiti dovrebbero essere asciutti», replicò lui e fece
per andarsene.
«Sto morendo di fame», disse lei a voce più alta. «Hai qualcosa da man-
giare?»
«Vestiti, poi andiamo al bar all'angolo.» Diede un'occhiata all'orologio.
«Apre presto.»
Mentre Susan era sotto la doccia, David tirò fuori i vestiti di lei dall'a-
sciugatrice. La maglietta era ancora macchiata di sangue. Benché fosse
sbiadita, la macchia rimaneva molto evidente.
Sgattaiolò nella stanzetta e cominciò a frugare nel guardaroba ai piedi
del letto, dove relegava i capi di abbigliamento fuori moda o smessi. Trovò
una camicetta di seta blu scuro e la sollevò per giudicarne la taglia. Era
ancora inserita nella busta di plastica della lavanderia. Rifece il letto e vi
distese sopra gli abiti di Susan, insieme con la camicetta.
La ferita alla testa aveva lasciato diverse macchioline di sangue sul cu-
scino. David se ne accorse e lo girò.
Era seduto nel salotto da qualche minuto, quando apparve Susan, coi ca-
pelli ancora bagnati. Era vestita e indossava la camicetta. Le andava bene.
«Allora, di chi è questa?» domandò. «Della mamma? Di una sorella? Di
una fidanzata?»
«Di una ex fidanzata», rispose lui. «Non è mai venuta a riprenderla, e
dato che possiede già il quattro per cento del fabbisogno mondiale di abi-
ti...»
Susan si strinse nelle spalle. «Comunque mi va bene. Te la restituirò.
Grazie per il pensiero. Presumo che la mia maglietta...»
David scosse la testa in un gesto di esagerata tristezza. «Non ce l'ha fat-
ta», disse tirando su col naso, e indicando il bracciolo della sedia dove l'a-
veva posata. Susan la esaminò, controllando le macchie, poi la ripose.
David la osservò muoversi per la stanza. «Hai l'aria stanca», commentò.
«È che non mi hai mai visto senza trucco», ribatté lei con un sorrisetto.
«Non è facile apparire smaglianti a trentun anni. Ma presumo che tu sia a
corto di mascara.»
«Non intendevo questo. Non era una critica», replicò gentilmente David.
Lei scrollò le spalle e gli rivolse un altro debole sorriso, stavolta più sin-
cero. «E altre dodici ore di sonno non sarebbero male...»
«Già, siamo nella stessa barca», confessò lui con enfasi. «In quanto a ore
di sonno, intendo. Tuttavia io non mi preoccupo molto del mascara», ag-
giunse.
Sempre sorridendo, Susan prese la tazza del caffè che aveva portato dal-
la camera da letto e la sollevò, agitandola leggermente. «Posso averne del-
l'altro prima di uscire?»
«Certo. Come prima?» chiese David, alzandosi dal divano.
«Senza latte, grazie», rispose lei distrattamente. I suoi occhi si erano in-
fatti posati su una borsa di pelle nera sistemata sul divano. «È quello che
penso?» domandò, indicando la borsa, in tono un po' teso.
David le passò accanto e andò a versare dell'altro caffè. «Sì», rispose da
sopra la spalla.
Susan sembrava nervosa, come se fosse attratta dalla borsa e nel con-
tempo non desiderasse avvicinarsi. «Voglio vederlo», disse.
David tornò e le porse la tazza colma. Si sedette accanto alla borsa e si
girò in modo da essere comodo. Poi aprì la cerniera e ne estrasse un pesan-
te cofanetto di legno.
Susan andò a sedersi accanto a lui, sul bracciolo del divano. Gli mise
una mano sulla spalla, chinandosi per vedere meglio.
Il cofanetto somigliava a uno splendido umidificatore per sigari, benché
fosse un po' troppo grande per quella funzione: aveva più o meno la di-
mensione di una decina di riviste impilate l'una sull'altra. Era fatto di un
legno di rosa così scuro, liscio e con una venatura così fitta da sembrare
quasi cromato, almeno finché non veniva rischiarato dalla luce.
David mise la borsa per terra e appoggiò il cofanetto sul divano. Aveva
un'altezza di circa dieci centimetri e, sul davanti, c'era un piccolo bottone
per far scattare la chiusura.
David premette il bottone e sollevò il coperchio.
All'interno c'era un altro scrigno.
Visto da quella prospettiva, il cofanetto di legno di rosa era ancora più
bello. La cavità interna era stata ricavata da ciò che doveva essere stato un
unico blocco di legno lucido. La parte centrale era stata scalpellata finché
il cofanetto esterno non aveva raggiunto lo spessore uniforme di un paio di
centimetri. Nella cavità, tuttavia, era stato sistemato qualcosa in profondo
contrasto con la magnificenza di quel contenitore.
Lo scrigno era un oggetto strano, dall'aspetto logoro. La parte superiore
era fatta di pelle grigia ormai consunta, la trama simile a un foglio di carta
semilavorato. Lungo i bordi, era visibile lo scheletro della struttura. Rotoli
di pergamena color avorio, ingialliti dal tempo, formavano una cornice
sopra la quale la pelle chiazzata era stata tesa a formare i lati dello scrigno.
Una specie di filo trasparente assicurava la membrana all'ossatura. La cuci-
tura era fine e accurata, ma i punti si erano ormai dissolti. Il rivestimento
rugoso del coperchio, con quella colorazione a macchie, sembrava dan-
neggiato dall'acqua.
«Sembra l'ala di qualche animale morto», commentò David un po' a di-
sagio, mentre osservava il piccolo scrigno.
«Quella di un pipistrello, forse. Un grande, orrendo pipistrello consunto
dalla muffa», convenne Susan.
Dallo scrigno si levò un intenso, strisciante odore di umidità. Era un o-
dore malsano che provocava un pizzicore alla gola ogni volta che s'inspi-
rava, e non era difficile immaginare sgargianti spore gialle che si annida-
vano nel morbido e roseo tessuto polmonare.
«Hai intenzione di aprirlo?» chiese Susan quasi sussurrando.
«Non lo voglio neanche toccare», rispose David. «Sembra che sia morto
di peste.»
Susan saltò giù dal bracciolo, andò al tavolo e prese una matita. La porse
a David, offrendogli l'estremità con la gomma.
«Ti darei dello smidollato, se non fosse che poi chiederesti a me di aprir-
lo», disse, guardando lo scrigno con disgusto.
David prese la matita per la punta e, con la piccola gomma, toccò il co-
perchio dello scrigno.
«Sul serio non l'hai ancora aperto?» fece Susan.
David scosse la testa, fermandosi, e ritraendo la matita. «Ho aperto solo
il cofanetto per vedere che cosa c'era dentro.»
«Grazie per avermi aspettato», ribatté lei, senza distogliere gli occhi dal-
lo scrigno.
David riappoggiò l'estremità della matita contro il coperchio dello scri-
gno.
«Che specie di osso è?» chiese mestamente, iniziando a sollevare il co-
perchio.
«Non so molto di ossa. Somiglia al radio... Non so a quale creatura ap-
partenga.» Alzò la mano, valutando la lunghezza del suo avambraccio.
«Quelle sui lati devono provenire da qualcosa di molto più piccolo di un
uomo.»
«Come un bambino, per esempio», suggerì David con aria torva, solle-
vando completamente il coperchio.
Entrambi trattennero il fiato quando videro il Marker. Era posato su un
cuscinetto ripiegato di velluto nero ed era tenuto fermo da numerosi cer-
chietti di avorio. L'intricato merletto di fili di platino intrecciati aveva tutta
la minuta, ordinata complessità di qualcosa di organico: le venature di una
foglia o le delicate e ramificate barbule di una piuma.
Il Marker aveva all'incirca la stessa larghezza e lunghezza della mano di
David completamente distesa.
«È splendido», disse David.
Entrambi rimasero a osservare il Marker; Susan fece un mezzo giro e si
chinò accanto alla gamba di David, per poter guardare all'interno del cofa-
netto. Gli prese la matita, scostò il coperchio dello scrigno e appoggiò le
mani sul cofanetto di legno di rosa. Lo inclinò leggermente perché vi ca-
desse la luce. Il platino aveva una lucentezza burrosa, come di argento che
inizi a ossidarsi. Trattenendo il fiato, con una mano sopra la bocca, Susan
si avvicinò per studiare la lavorazione.
Era fatto di finissimi fili di platino che si assottigliavano via via che l'in-
treccio si allontanava dal centro. Non era chiaro come fossero tenuti in-
sieme. Il metallo si diramava e convergeva, incrociandosi e congiungendo-
si, come se fosse stato fuso in un singolo pezzo. In tal caso, tuttavia, sareb-
be stato necessario fondere una quantità di metallo sufficiente a formare,
senza interruzioni o bolle, il lunghissimo e finissimo filo, allo scopo di
creare lo schema filigranato. Non erano evidenti neanche segni di strumen-
ti.
David si avvicinò alla libreria e prese un'enciclopedia. «1649 gradi Cel-
sius. Ovvero 3000 gradi Fahrenheit.»
Susan gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«È la temperatura di fusione del platino», spiegò David. «Mi stavo chie-
dendo come si possa creare un oggetto del genere.» Poi continuò a leggere.
«Ehi, senti qui: 'Il platino è un metallo unico nel suo genere, in quanto cor-
rompe gli strumenti di metallo coi quali viene lavorato. Entrando in contat-
to col bordo di uno strumento, il platino indebolisce persino gli utensili da
taglio di carburo di tungsteno'. Questo non lo sapevo.»
«Neanch'io. Non c'è da meravigliarsi se McDonald's usa la plastica per
le posate», fece lei.
Ma David non la stava ascoltando; era assorto nei suoi pensieri. «Non è
possibile che sia un oggetto antico. L'unico modo per fare quelle giunzioni
è saldarle, ma ciò non ha senso», commentò.
«Scusa? Qual è il problema?»
«Ho studiato ingegneria all'università», rispose lui. «Quindi conosco pa-
recchie cose sulla lavorazione dei metalli. L'acciaio di alta qualità è un
prodotto relativamente recente, perché occorrono altiforni potentissimi per
fabbricarlo e lavorarlo. La saldatura è un processo ancora più recente, poi-
ché implica l'uso di temperature elevatissime in un punto preciso. Se si
riuscisse a creare questa filigrana, allora la lavorazione dell'acciaio sarebbe
uno scherzo da ragazzi. Questa è tecnologia moderna. È escluso che un
oggetto simile abbia più di duecento anni. Mi sa che siamo stati presi in
giro.»
«Potrebbe essere un pezzo unico», suggerì Susan. «Pensa al disco di Fe-
sto, i cui simboli sembra siano stati impressi con una specie di punzone...
tremila anni prima che Gutenberg nascesse.»
«Già, mi ero dimenticato del disco di Festo», commentò David con un'e-
spressione di totale smarrimento sul volto.
«E adesso mi dirai che non sei mai stato al museo di Iraklion», ribatté lei
con uno sguardo di finta commiserazione. Poi provò con una tattica diver-
sa. «Prendiamo la biblioteca di Alessandria, allora. Una città-Stato in cui
vigeva la libertà di parola, con una passione per il sapere costruita intorno
a un'enorme e sempre più vasta biblioteca, che fungeva da punto di riferi-
mento. Tuttavia non durò a lungo. Forse la rivoluzione industriale era
pronta a svilupparsi prima della fine del I millennio, ma una singola con-
centrazione di conoscenze non basta a...» Si passò una mano sulla fronte.
«Ascolta, possiamo parlarne mentre facciamo colazione? Sto per svenire
dalla fame.»
«Oddio, certo», esclamò David. Chiuse lo scrigno e il cofanetto, li ripose
nella borsa e si guardò intorno, alla ricerca di un posto dove metterla. «Al-
zati», disse a Susan, ancora inginocchiata accanto al divano. Lei obbedì e
andò verso la porta.
David allora sollevò la parte posteriore del divano, spingendolo in avanti
sulle gambe anteriori. Sotto, il robusto tessuto di protezione era strappato,
mettendo a nudo la cavità interna. Lui sistemò la borsa sul pavimento e
con cautela riabbassò il divano, allineando la borsa allo strappo nel tessuto.
«Non è la prima volta che usi questo trucco», commentò Susan.
David sorrise. «In realtà, sì. Ma ricordo che abbiamo strappato il tessuto
quando lo abbiamo portato di sopra durante il trasloco.» Indietreggiò di
qualche passo ed esaminò il suo lavoro. «Non so perché, ma non potevo
lasciarla in bella vista.»
Susan annuì.
Mentre uscivano di casa, David si ritrovò a guardarsi intorno, a control-
lare l'attività della strada. Un postino stava consegnando alcune lettere.
Una signora di mezza età portava a passeggio il cane. Non sembrava esser-
ci nulla fuori posto.
Tagliarono per un viottolo e sbucarono su una strada dove c'erano alcuni
negozi. Tra l'ufficio postale e un posteggio di taxi, trovarono una caffette-
ria aperta. Tre tavoli erano occupati da giovanotti dall'aspetto sano. A giu-
dicare dall'abbigliamento e dagli strumenti - una borsa degli attrezzi accan-
to a un tavolo, una livella a bolla d'aria su una sedia -, probabilmente lavo-
ravano nell'edilizia.
David suggerì a Susan di andare a sedersi accanto alla porta, mentre lui
si recava al banco. Strada facendo, avevano parlato di cibo, così David fu
in grado di ordinare per entrambi. Tornò al tavolo con due tazze di tè.
In attesa che fosse pronto ciò che avevano ordinato, sorseggiarono la be-
vanda calda. Susan fu la prima a parlare. «Hai idea di che cosa stia succe-
dendo?» chiese.
David sembrò non afferrare esattamente il senso di quella domanda. Sor-
rise e stava per fare una battuta, quando Susan si affrettò ad aggiungere:
«Intendevo il furto, il terzo uomo, l'assurdità di tutta la faccenda».
Lui scosse la testa. «No, non ho proprio la più pallida idea di cosa signi-
fichi tutto ciò.»
«Perché io non capisco come sia riuscito a realizzare il colpo», confessò
Susan. Poi, con crescente irritazione, aggiunse: «Non capisco come abbia
fatto a entrare e uscire dalla casa della vecchietta. Non capisco come abbia
fatto ad aprire quel piccolo baule ai piedi del letto o l'archivio all'universi-
tà». Ormai aveva alzato la voce. «Non capisco come abbia fatto a scaval-
care quel muro. Non capisco come sia riuscito a disarmare due poliziotti. E
non capisco che cos'è quella cosa...» - abbassò il tono - «... che hai nella
borsa a casa.» Riprese fiato e proseguì. «Non solo non capisco queste cose,
ma comincio a fare la somma di tutte le persone che sono state ferite e per-
sino uccise finora. E vedo noi che brancoliamo in mezzo a qualcosa di
pericoloso... di estremamente pericoloso, se vuoi sapere come la penso. E
io voglio uscirne viva.»
David la guardò, consapevole della rabbia sottesa nelle sue parole. «Stai
dando la colpa a me, vero?» disse, con un velo d'irritazione nella voce.
«Ma certo che no. Non sei mica tu, il pazzo che ha architettato tutta que-
sta faccenda... Tuttavia, pur non avendo la minima idea di quello che suc-
cede, non hai la minima intenzione di tirarti indietro.»
«È il mio lavoro essere...»
Ma lei non lo lasciò finire. «Non è il tuo lavoro», disse, con aria quasi
sprezzante. «Ieri sera non dovevi fare altro che lasciare la borsa dov'era
perché la trovasse la polizia. Hammond avrebbe fatto tutti i collegamenti.
Ma tu hai scovato un modo per restare coinvolto e per coinvolgere me.
Non capisci che non è il tuo lavoro? Spetta alla polizia agire, esiste per
questo.» Nonostante la concitazione, Susan aveva tenuto la voce bassa.
«Credi veramente che Hammond sappia più cose di te e che sia più intel-
ligente di te?» replicò David in tono ugualmente concitato, ma quasi sus-
surrando. «Se avessi lasciato la faccenda nelle mani della polizia, adesso io
sarei senza lavoro e la mia società sarebbe fallita.» Alzò una mano e prese
a contare. «Primo: la polizia non avrebbe avuto nessun indizio sul terzo
uomo, anzi non avrebbe neanche saputo che c'era un terzo uomo. Secondo:
non avrebbe saputo dove cercarlo... gli hanno persino lasciato portar via le
sue cose da un'abitazione che avrebbero dovuto tenere sotto controllo. Ter-
zo: se avessero saputo dove cercare, non l'avrebbero preso. Non l'hanno
preso l'ultima volta che ne hanno avuto l'opportunità... un'opportunità che
io ho creato per loro.» Si sporse in avanti. «Mi hanno fatto capire che, se il
cliente avesse chiesto il risarcimento di quell'oggetto...» - fece un gesto
sopra la spalla, come se volesse indicare il Marker - «... io sarei stato li-
cenziato e ciò anche nell'improbabile circostanza che la società fosse so-
pravvissuta.» Prese fiato e proseguì: «Dass vuole indietro quell'oggetto e
ha conoscenze altolocate. Se gli dicessi che Hammond è una seccatura,
scommetto che, nel giro di ventiquattr'ore, il nostro detective verrebbe tra-
sferito. La polizia non ha l'ultima parola in questa faccenda, svolge solo un
servizio pubblico. Sono riuscito a recuperare il tesoro di Dass; mi sono
accertato che il ladro sia dietro le sbarre; ho impedito che la mia società
fallisse e ho conservato il mio posto di lavoro. Nessuna di queste cose sa-
rebbe successa se avessi lasciato il caso nelle mani della polizia. Mi spie-
ghi allora in che modo sei arrivata alla conclusione che questo non è com-
pito mio?» E si riappoggiò allo schienale.
Susan non replicò. Quando una cameriera con indosso un grembiule
sgargiante si avvicinò con la colazione, erano ancora in silenzio.
Mangiarono per un po'.
Dopo qualche minuto, ricominciarono a guardarsi intorno, invece di fis-
sare il volto dell'altro o il vuoto.
Alzando il coltello e puntandolo verso il soffitto, Susan disse con voce
piatta: «Non voglio litigare con te. So che stai cercando di svolgere il
compito che ti hanno affidato, e hai ragione: ci sei riuscito contro ogni
evidenza. Ma non dimenticare che in questa faccenda c'è ben altro. Ci sono
tutti i motivi per credere che ci troviamo tra un killer professionista e un
oggetto che lui desidera più di ogni altra cosa al mondo. Lui sa chi sei tu,
lui sa chi sono io e... per ragioni che credo di conoscere, gli abbiamo rotto
di nuovo le uova nel paniere». Prese fiato. «Hai pensato a che cosa acca-
drebbe se non fosse solo? Gli basterebbe avere un unico complice ancora a
piede libero e noi saremmo nei guai. Non so come, ma ieri sera noi due ce
la siamo cavata solo con qualche escoriazione. Credi che saremmo così
fortunati una seconda volta? Nessuno lo è stato.»
David non fece commenti e Susan proseguì, parlando piano, con calma.
«Lo sanno tutti che non mi fido mai di nessuno», disse con un sorrisetto
ironico. «E voglio credere che, quando ti lanci in queste prodezze, la tua
unica preoccupazione non sia quella di conservare il posto di lavoro. Vo-
glio credere che tu sia consapevole che alcune persone possono morire...
altre sono già morte. Voglio credere che tu ci pensi due volte prima di fare
qualcosa che potrebbe mettere a repentaglio la vita di uno di noi. Voglio
fidarmi di te, però non mi rendi le cose facili.»
Tese la mano e la posò su quella di David. La strinse per qualche istante,
poi la lasciò andare. Si guardarono negli occhi. Non era facile leggere le
loro espressioni, poiché le emozioni controverse e la tensione residua di
quello scambio di battute avevano indurito i loro volti.
Un cellulare squillò.
David si rese conto che era il suo. «Chi diavolo è?» si chiese ad alta vo-
ce, mentre tirava fuori il telefonino dalla tasca posteriore dei jeans. Guardò
il display. «È Hammond.»
«Rispondi.»
David obbedì. Hammond parlò per quasi mezzo minuto prima che David
dicesse: «Cos'è successo?» Il suo volto s'irrigidì. Evidentemente era molto
inquieto, ma non interruppe l'ispettore. Passò un minuto. «Che cosa sugge-
risce di fare?» chiese poi. «In questo momento sono con Susan Milton.
Che cosa...» Ascoltò per un altro minuto. «Oh, non dubiti che la chiame-
rò», dichiarò infine con una punta di sarcasmo. «Per favore, mi faccia sa-
pere se ci sono novità. D'accordo. Arrivederci.» Rimise il cellulare in tasca
e guardò Susan, con un'aria incredula e imbarazzata nel contempo. «Il pri-
gioniero è scappato. Non sono riusciti a prenderlo. Non sanno dove sia.»
Susan impiegò qualche istante per afferrare le implicazioni di quelle pa-
role. La sua unica reazione fu un commento sarcastico: «Grandioso». Poi
disse con decisione: «Usciamo di qui».
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18
Dopo il film e il fish and chips, David e Susan si sedettero al bar dell'al-
bergo. Erano le dieci e mezzo. David aveva un bicchiere di whisky Jame-
son davanti a sé; Susan un bicchiere di Canadian Club.
«Il film è stato buffo, vero? In un modo irrazionale, intendo», commentò
lei.
«Mi è piaciuto tutto, tranne le scene d'azione», ribatté David. «Non ap-
pena si metteva la maschera diventava un cartone animato. Come guardare
una palla che rimbalzava sulla scena. Come fai a immedesimarti con un
pezzo di elastico in pericolo?»
Susan bevve un sorso di whisky e fece spallucce. «Mah, io non l'ho con-
siderato un difetto. Non so se sarei riuscita a sopportare qualcosa di più
realistico. Le scene d'azione di Tom e Jerry mi sarebbero andate bene u-
gualmente.»
Una volta finito il whisky, David ne ordinò un secondo. Di lì a poco la
conversazione languì. Si sentivano entrambi esausti. Alle undici fu chiaro
che dovevano andare a letto e si diressero in camera.
Susan restò in bagno per quasi un quarto d'ora. Quando finalmente ne
uscì, la lampada sul suo comodino era l'unica illuminazione. David si era
già coricato. Era girato dall'altra parte rispetto a lei, e aveva un respiro
tranquillo e regolare.
Non chiese se stava dormendo; si limitò a scivolare silenziosamente nel
letto e a spegnere la luce. Si addormentò di lì a pochi minuti.
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20
Sabato 19 aprile (qualche ora più tardi)
Quando David entrò, Susan era già seduta a uno dei tavolini azzurri di
formica di quel piccolo locale senza pretese. Era arredato in stile anni '50,
in uno schema di bianco e nero, con abbondanti cromature. David diede a
Susan un rapido bacio sulla guancia prima di sedersi. Lei gli strinse il
braccio e gli rivolse un sorriso preoccupato.
«Prima di parlare, ordiniamo. Va bene?» disse David.
Susan increspò le labbra e socchiuse le palpebre, come a dire che lui sta-
va scherzando col fuoco, ma accettò e rivolse l'attenzione al menu. «Sal-
sicce e purè», lesse, pensierosa. «Oppure salsicce e purè.»
Una simpatica cameriera americana prese le ordinazioni. Non appena si
fu allontanata, Susan andò all'attacco. «Cos'è questa storia?» sibilò. «Puoi
dirmi che qualcuno ha cercato di ucciderti, ma non puoi raccontarmi il
resto della vicenda per telefono. Che c'è di peggio di un tentato omicidio?»
David fece per parlare, ma non gli uscì nulla. Scrollò le spalle, come se
non riuscisse a esprimere ciò che aveva in animo di dire. Susan lo osserva-
va con aria esasperata.
Finalmente lui cominciò a parlare con voce ferma, ma con piglio conci-
tato. «So come ha fatto Jan ad aprire la cassaforte, a fare un salto di dieci
metri, a fondere le manette... So come fa. Be', non so come fa, ma so cosa
fa... Voglio dire...»
«David!» scattò Susan, innervosita, decisa a non fargli perdere il filo del
discorso. La sua espressione rivelava che, se lui non fosse arrivato subito
al dunque, lei si sarebbe messa a urlare. «Insomma, cos'è successo?»
David trasse un profondo respiro. «D'accordo.» Poi espirò e ricominciò.
«Dass mi ha inchiodato al muro e mi ha strappato di mano il bastone, e lo
ha fatto senza neanche muoversi. L'ho colpito prima che me lo portasse
via, ed è semplicemente rimbalzato su di lui... O, meglio, è rimbalzato su
qualcosa prima di raggiungerlo. È stato come se avessi tentato di colpirlo
senza accorgermi che c'era un muro di mezzo... tranne che non c'era nes-
sun muro. Mi segui?»
Susan era sbigottita. «Stai dicendo che l'ha fatto col pensiero? Come in
Carne?» ribatté, incredula.
«Come?» chiese David confuso.
Susan agitò una mano. «Lascia perdere.» Lo guardò negli occhi. «Stai
parlando di poteri psichici, di questo genere di cose? Non è possibile che
sia stato qualcos'altro? Sei sicuro che non indossasse una specie di armatu-
ra?»
«Qualcosa mi ha strappato il bastone dalle mani e mi ha inchiodato al
muro e Dass non mi ha nemmeno toccato. Non si è neanche mosso», insi-
stette David a bassa voce, ma con un certo fervore.
Susan lo fissò, cercando una conferma. Poi si lasciò andare sulla sedia.
«Cavolo», esclamò. «Sì, cavolo!» Si sporse di nuovo in avanti. «Sei asso-
lutamente...»
«Sono sicuro», la interruppe lui. «Te lo giuro, è ciò che è accaduto. E
Dass ha parlato di Jan, sa chi è. Ha detto che è una pecorella smarrita e un
esiliato, il che significa che è uguale a Dass. Entrambi possono fare questo
genere di cose. Qualunque cosa siano, non credo che siano umani.»
Il cibo e le bibite arrivarono, ma nessuno dei due si mosse né ringraziò
la cameriera, che se ne andò un po' perplessa.
David prese le posate e cominciò a mangiare meccanicamente, come se
non fosse consapevole di quello che stava facendo.
Susan continuava a fissare un punto oltre le sue spalle. La sua espressio-
ne indicava che era totalmente assorta in qualche pensiero. Quando riportò
l'attenzione al presente, chiese: «Indossava il tributo... Voglio dire: indos-
sava un cerchio d'oro?»
«Non so se fosse d'oro, ma, sì, quando sono arrivato indossava un cer-
chio di metallo sulla fronte», rispose David. «Se l'è tolto prima di presen-
tarsi alla polizia.»
Susan assimilò l'informazione senza fare commenti.
Poi David soggiunse: «In realtà, i due gorilla avevano il capo coperto,
quindi potrebbero averlo avuto pure loro».
Susan sollevò la forchetta e cominciò a mangiare. Dopo qualche secondo
la sua espressione cambiò, come se un peso le fosse stato tolto dalle spalle.
«A che cosa stai pensando?» chiese David, che aveva notato il cambia-
mento.
«È molto buono», commentò lei scherzosamente, indicando il piatto con
la forchetta.
«Nessuna riflessione che non sia collegata al cibo?» chiese David in to-
no stanco.
Susan sembrava quasi euforica e sicura di sé. «Non t'innervosire, ma
vorrei raccontarti una storiella stupida», replicò. Lui sembrava poco con-
vinto, perciò lei lo rintuzzò: «Tu mi hai fatto aspettare un'ora dopo che hai
troncato a metà la telefonata. Adesso capisci come ci si sente?»
David annuì.
«Molto tempo fa, sul giornale lessi di un tipo che faceva l'istruttore di
nuoto», disse Susan. «Aveva un certo talento: bambini impauriti, adulti
nervosi... riusciva ad aiutare tutti. Il giornalista chiudeva l'articolo chie-
dendo all'istruttore se andava spesso a nuotare. E la risposta era: 'Io inse-
gno, non so come si fa'.» E guardò David piena di aspettativa.
Lui la fissò con altrettanta curiosità. «E allora? Mi devi dire qualcosa di
più.»
Susan era entusiasta. «Non capisci? Non sono alieni, ma normali esseri
umani.»
David continuava a essere confuso.
«Che idiota sono stata», esclamò Susan. «Passo tutto il giorno a studiare
pagine su pagine di documenti che descrivono persone in grado di fare
tutte le cose di cui stiamo parlando, poi rimetto i documenti in cassaforte,
esco e ti dico che non ho idea di quel che succede. È come... un cartografo
che non riesca a trovare la strada di casa. O un ornitologo che non riesca a
capire perché il coperchio di una bottiglia del latte ha dei piccoli fori.»
Un barlume di comprensione apparve sul volto di David. «Stai dicendo
che dobbiamo trattare la Collezione Teracus...»
Susan non riuscì ad attendere che David finisse la frase e la completò per
lui: «... come qualcosa di reale e non di fantastico». Alzò le mani in segno
di trionfo. «Forse è così che ci si sente quando, alla fine, si perde il contat-
to con la realtà. Ma lasciamo perdere per ora la sanità mentale. Perché non
smettiamo di cercare la motivazione concreta dietro tutta questa follia, e
prendiamo la questione alla lettera? Jan, Dass e i suoi giullari possono fare
le cose descritte nei documenti. E il Marker può davvero curare le persone;
infatti questo è il motivo per cui lo vogliono. È così semplice.» Adesso
Susan mangiava avidamente, ingoiando piccoli bocconi e parlando con la
bocca piena. «Dio mio, mi chiedo se i testi sulla longevità siano veri. Santo
cielo, ciò spiegherebbe perché l'alchimia è stata così popolare per centinaia
di anni... Devo parlarne col professor Shaw.» Poi si oscurò. «Oh, no. Non
posso.»
«Perché? Ti farebbe rinchiudere in un manicomio?» chiese David.
Susan annuì. «Esatto», convenne, con aria delusa. «Be'...» Scrollò le
spalle. Poi le venne in mente qualcos'altro. «Merda.»
«Che c'è?» volle sapere David.
«Tu hai appena fatto a pezzi la mia tesi di post-dottorato. Non posso fin-
gere che la collezione sia allegorica, tenuto conto di quel che so. Ma non
posso neanche scrivere una tesi su come funziona realmente la magia. So-
no fregata.»
David aveva continuato a osservarla mentre lei sciorinava le sue scoper-
te. Adesso che Susan aveva un'aria abbattuta, prese la palla al balzo per
esprimere le sue elucubrazioni. «Va bene, e io che cosa dovrei fare? Di-
menticarmi di tutto? Avevamo deciso che, qualunque cosa stesse architet-
tando Dass, gli avremmo restituito il Marker, lasciando che se la sbrigasse
con Jan. Ma non posso permettere che lui tenti di uccidermi e dimenticar-
mi della faccenda. Quali altre scelte ci sono? Tenuto conto, soprattutto, che
probabilmente è in grado di farmi fuori con un semplice gesto della ma-
no.» Rimuginò su quelle ultime considerazioni. «Cos'altro pensi che sappia
fare? Volare? Trasformarsi in un pipistrello? Segare in due una donna?»
«Be', per il momento, darò per scontato che Teracus sapesse ciò di cui
parlava», ribatté Susan. «Quindi mi fiderò dei documenti della collezione...
e al diavolo tutte le altre cose che ho letto sulla magia. In tal caso, ho del
lavoro da fare per rispondere a questa domanda. Che tu ci creda o no, stavo
pensando più o meno alle stesse cose quando ho esaminato la collezione
per la prima volta.» Mangiò un altro paio di forchettate. «Hai detto che
Dass ha alzato una specie di scudo intorno a sé e che poi ha spostato qual-
cosa senza toccarlo. Sembra che Jan sia anche in grado di bruciare le cose.
Ho letto un documento che riguarda la guarigione. Penso che questi tizi
guariscano molto in fretta e che non si ammalino.»
David la guardò, sorpreso. «Be', pur ammettendo che queste cose siano
tutte vere... E devo dire che Dass non mi ha lasciato molto margine al ri-
guardo... allora perché preoccuparsi tanto del Marker? Se sono in grado di
guarire se stessi usando un banale filo d'oro, allora perché farsi la guerra
per il Marker?»
«Il tributo comprende un bracciale d'oro su ciascun polso e un cerchio
intorno alla testa», lo corresse Susan. «Ma hai centrato il problema. Credo
che ci siano ancora alcuni misteri da risolvere. Però forse mi sbaglio, e
solo il Marker è in grado di guarire.» Le venne in mente un'altra cosa.
«Prova a immaginare se tu avessi attaccato Jan mentre indossava il cer-
chio. O se io non fossi riuscita a farglielo saltare la prima volta che l'ho
colpito.»
David annuì. «Penso che sia saggio affermare che non saremmo qui a
parlarne. Com'è possibile fermare uno così? Credo che Jan abbia lasciato
che gli sparassero, sapendo che non potevano fargli del male... Santo cielo,
immagina se si scontrassero loro due.»
Susan agitò il coltello. «Apparentemente c'è una regola che glielo impe-
disce. C'è un intero rotolo sul fatto che non si può attaccare la magia con la
magia. Non che si possa credere che gente del genere presti attenzione alle
regole, certo. Forse accade qualcosa di terribile se ci provano.» Sospirò.
«Sai, dovrò assolutamente rileggere ogni singola parola di quei documenti.
La prima volta non ho riflettuto nel modo giusto.» Fece una pausa ed espi-
rò, poi aggiunse: «Che vuoi fare con Dass?»
David si strinse nelle spalle. «Anche mettendo da parte il fatto che è ric-
co, potente e probabilmente indistruttibile e che io non sono nulla di tutto
ciò... non vedo che cosa io possa fare. Anche se fosse un uomo normale,
sarebbe difficile farlo arrestare. E siccome non è normale, la cosa finirebbe
con qualche poliziotto ucciso, ammesso che riesca a convincere la polizia a
provarci. Ci rifletterò, ma non vedo una via d'uscita.»
«E Jan?» chiese Susan. «Pensi che abbia intenzione di metterci a tacere?
Non bisogna essere dei geni per capire che questa gente si affida alla se-
gretezza per sopravvivere. Naturalmente se un po' di gente venisse a cono-
scenza di quello di cui sono capaci, qualcuno troverebbe il modo di elimi-
narli. Verrebbero inviati un centinaio di uomini e un carro armato o qual-
cosa del genere. Il loro potere è di gran lunga più efficace se nessuno sa
che lo possiedono. E, per nostra fortuna, noi conosciamo il segreto. Ma se
loro ci tengono sul serio alla segretezza, non vorranno sbarazzarsi di noi?»
David rifletté. «Dass conosce soltanto me... o almeno così supponiamo.
Magari può pensare che potrei causargli dei problemi sul lavoro. Potrei
persino riferire ai miei superiori che ha cercato di farmi fuori. Ma può ben
immaginare che cosa succederebbe se lo accusassi di avere poteri demo-
niaci senza avere una foto che lo ritrae mentre stringe la mano a Satana per
corroborare la mia accusa. Posso diffondere la voce che è disonesto, ma
non sarò mai in grado di dimostrare le mie affermazioni. Se mi vedono in
giro e poi all'improvviso muoio, questa sì che sarebbe una riprova del fatto
che voleva eliminarmi... ma a quel punto sai a che cosa mi servirebbe!
Farebbe meglio a lasciarmi vivo e a farmi passare per matto.»
«E Jan?» insistette Susan.
«Non credi che ucciderci entrambi sarebbe l'ultima delle sue priorità?»
ribatté David. «Non solo ha la polizia alle calcagna, ma possiamo anche
essere abbastanza sicuri che Dass sguinzaglierà qualcuno per cercarlo.
Dopotutto Dass sa che la polizia non è in grado di fermarlo. In realtà, po-
trebbe esserci un piccolo esercito di Dass sulle tracce di Jan... Non abbia-
mo idea di quali siano le sue risorse. Abbiamo ragione di pensare che sol-
tanto Jan agisca da solo. Aveva il fattore sorpresa dalla sua, quando ha
rubato il Marker, ma adesso tutti lo stanno cercando ed è da solo. Non cre-
do che si possa permettere degli appoggi in questo momento.»
Susan non parve del tutto convinta. «Uhm», borbottò. «Queste sono tutte
supposizioni. Posso anche credere al fatto che Dass farebbe meglio a igno-
rarti... dubito che un 'tizio delle assicurazioni', come direbbe mia sorella,
possa creargli molti problemi.» Rifletté, poi aggiunse: «Ma non ho dimen-
ticato una cosa che hai detto cinque minuti fa. Secondo te, era meglio che
Dass non sapesse del mio coinvolgimento, invece ora sostieni che non c'è
nulla di cui preoccuparsi». David le rivolse un sorriso mesto. «A ogni buon
conto, è Jan che mi dà da pensare. Gli abbiamo veramente sconvolto la
settimana.»
«Potremmo sempre chiedere aiuto a Dass», suggerì David.
«Stai scherzando?» proruppe Susan sbalordita.
David scosse la testa. «Pensaci. Se ci desse una guardia del corpo avreb-
be maggiori possibilità di trovare Jan che non mettendosi a setacciare la
città. Potrebbe lasciare che sia Jan a venire da noi e poi prenderlo. Sarebbe
decisamente nell'interesse di Dass tenerci vivi come esca.»
«Capisco», convenne Susan. «Ma non posso credere che torneresti dal
tipo che stamattina ha tentato di ucciderti per chiedergli protezione!»
«Dolce?» chiese una voce alle spalle di Susan.
«Crostata di mele con crema», disse David, il quale, avendo visto la ca-
meriera avvicinarsi, aveva dato un'occhiata alla pagina dei dessert.
Susan restò sorpresa dall'interruzione, ma si riprese subito. «Anche per
me, ma si può avere il gelato invece della crema?»
La cameriera sorrise. «Certo. Non ci sono problemi.» E se ne andò, por-
tando via i piatti vuoti.
«Ancora non me la sento di passare alla crostata con la crema», ammise
Susan, a disagio. «Comunque, per quanto concerne le prospettive della
nostra esistenza, non ho ancora capito bene a che punto siamo. Dobbiamo
scappare per salvarci la pelle o è tutto finito? E, in quest'ultimo caso, mi
devo considerare licenziata?»
«Be', presumo che questo sia un motivo logico per non essere più paga-
ta. Ma ritengo che si tratti di una faccenda che va oltre il lavoro, non credi?
Spero che continuerai a parlarmi, anche se non fai più parte dell'organico.
Tu continuerai a studiare la collezione, quindi potrai tenermi al corrente di
quello che scopri. Se riuscirai a capire qualcosa di più su questa gente,
magari ci servirà a metterci l'anima in pace o forse a spiegarci come pro-
teggere noi stessi. Comunque sono sempre convinto di ciò che ho detto.
Penso che, per come stanno le cose, a Dass non interessiamo e Jan farebbe
meglio a trasferirsi in Uruguay il più in fretta possibile e a cambiare no-
me.»
Mentre mangiavano il dolce, Susan disse: «Dammi qualche giorno. Lo
sai cosa si dice dei mutamenti di paradigma, vero? In qualche modo, essi
invalidano tutte le cose che pensavi di sapere. Ho circa sette anni di rifles-
sioni da rivalutare». Finì di masticare un altro boccone di crostata, poi ag-
giunse: «Naturalmente ci dovremo vedere se succede qualcosa, altrimenti
ti darò un colpo di telefono...» La sua voce si smorzò. Aveva un occhio
semichiuso, come se il gelato fosse troppo freddo o come se le fosse venu-
to in mente qualcosa di doloroso. «Di tutte le settimane, proprio questa
doveva scegliere mia sorella per venire?»
«Ascolta, non c'è fretta», la rassicurò David. «Credo che nessuno dei due
sia disposto a dimenticare la cosa, ma in realtà non c'è molto che possiamo
fare... a parte il tuo studio della collezione. Perché non ti godi la visita di
tua sorella? Distraiti e concediti una pausa da questa esperienza mozzafia-
to. Continuerò ad aspettare una telefonata, pieno di curiosità, anche se tu
dovessi metterci un mese invece di una settimana.» La guardò negli occhi.
«Tuttavia preferirei vederti prima.» Le posò la mano sul braccio e glielo
strinse leggermente.
«Già, nemmeno io riesco a immaginare di stare un mese senza parlarti»,
ammise lei. «Inoltre, sei l'unico con cui posso discutere di queste cose.»
Sul suo viso apparve una serie di emozioni contrastanti. Gli prese la mano.
«Quand'eravamo in albergo, io...» farfugliò.
«Ah, mi dispiace per quello», si affrettò a giustificarsi David. «Ho frain-
teso... Ecco, non so proprio che cosa mi stesse passando per la testa.»
«Voglio che tu capisca... Voglio dire, non credo di essere riuscita a spie-
gare...» ritentò Susan.
David la interruppe di nuovo. «Davvero, non ti preoccupare. Non mi de-
vi spiegazioni. Se non altro, dopo quello di cui abbiamo discusso...» Ma
non finì la frase.
Susan annuì. «Be', la cosa importante, presumo, è che siamo ancora qui
a parlarci. Una volta o l'altra... Non qui... Sì, una volta o l'altra dovremo
fare una chiacchierata, noi due.» Gli strinse la mano, poi la lasciò andare.
L'espressione di David lasciava intendere che per lui la questione era
chiusa, ma lui chinò la testa e disse: «Va bene».
«Intanto, se non vuoi che passi troppo tempo prima di rivedermi, potresti
venire a cena», aggiunse Susan illuminandosi. «Diciamo venerdì, così ti
faccio conoscere mia sorella.»
David sorrise in modo malizioso. «Perché ho la sensazione che questo
non sia un invito disinteressato?»
«Non hai nulla da temere», ribatté Susan. «Dee è una donna affascinan-
te. Ti piacerà... Race a tutti. È che dopo un paio di giorni cominciamo a
darci reciprocamente sui nervi, quindi un po' di sostegno morale e un cam-
biamento di ritmo mi serviranno per darmi un obiettivo. Vuoi dare una
mano a un'amica e accettare l'invito?»
«Lo farò con molto piacere», dichiarò David.
21
Il sole era basso sull'orizzonte quando David si fermò davanti alla villet-
ta signorile, apparentemente deserta, dove aveva già indugiato alcuni mi-
nuti prima. «Dev'essere questa», mormorò.
Si trovava in una stradina della City, fiancheggiata da due file di villette
tutte uguali. Iniziava come una scorciatoia poco promettente a senso unico
tra la sede di una banca e una società di spedizioni. Una trentina di metri
prima, svoltato un angolo, la stradina si apriva e c'erano alcune case, tre su
ciascun lato, nascoste al mondo. C'era appena spazio a sufficienza per o-
spitare un trasformatore dell'azienda elettrica recintato, prima che la viuzza
finisse col muro posteriore di una chiesa del XVII secolo.
Fermo davanti alla prima casa sulla sinistra, David salì i sei gradini che
conducevano a un portone. Suonò il campanello. All'interno si udì l'eco
dello squillo. Attese.
Indossava giacca e pantaloni blu, e una camicia di cotone rosso scuro,
senza cravatta. In mano reggeva un pacchettino avvolto in carta dorata, col
nome di una famosa pasticceria, rinomata per i suoi cioccolatini, stampato
sul nastro.
Alla destra della porta c'era un bovindo; dietro un'elegante grata in ferro
battuto, le imposte di legno erano chiuse. Sotto il bovindo, il selciato s'in-
terrompeva all'altezza dell'inferriata e David riuscì a intravedere l'interno
da una finestrella che si apriva alla base del muro.
Rialzò lo sguardo quando la porta si aprì. Sull'uscio apparve una donna
magra che prese a studiarlo; era vestita di nero e reggeva in mano un bic-
chiere di vino. Indossava una corta e aderente gonna di lana, che rivelava
lunghe gambe avvolte in collant scuri; un maglioncino di lana merino con
una profonda scollatura a V le aderiva al busto. Il volto era una versione
più. pallida e delicata di quello di Susan; aveva gli stessi occhi azzurri, ma
i serici capelli neri erano più lunghi e ricadevano diritti fino a lambire le
spalle. Sorrise a David con labbra dipinte di rosso scuro e bevve un sorso
di vino.
«Salve», salutò David. «Sei Dee?»
Dee sorrise di nuovo senza rispondere. Teneva il bicchiere vicino alla
bocca con entrambe le mani e fece tintinnare un paio di volte il bordo con-
tro i denti bianchissimi, come se stesse pensando a qualcosa. La luce fece
scintillare lo zaffiro che portava sulla narice destra.
Quando David cominciò ad arrossire, lei sollevò le sopracciglia per una
frazione di secondo e tese la mano. «Oh, scusami. Devi essere David»,
disse. Il suo accento newyorkese era melodioso e un po' roco nel contem-
po.
Si strinsero la mano, poi Dee lo invitò a entrare. «Vieni. Susan è in cuci-
na.» Gli lanciò un'occhiata da sopra la spalla e aggiunse: «Andiamo a
prendere da bere».
Entrarono in un vestibolo avvolto dalla penombra, tutto in legno scuro.
La casa odorava un po' di muffa, ma non era sgradevole... Era un odore di
casa vecchia, però non trascurata. Alla loro sinistra c'era una scala, mentre
alla destra si dipartiva un corridoio che conduceva sul retro. C'era anche
una porta aperta, dalla quale provenivano la luce e le note di una musica
reggae.
Seguirono la musica.
Susan stava cucinando. Quando oltrepassarono la porta, lei stava con-
trollando il contenuto di diversi tegami di alluminio - piuttosto grossi e
dall'aria vecchiotta - che stavano ribollendo su una cucina immacolata di
colore beige, che ricordava gli elettrodomestici degli anni '50. Il volto di
Susan era più colorito del solito e il vapore le aveva incollato alcune cioc-
che di capelli sulla fronte. La camicetta di seta bianca era appiccicata alla
schiena.
Mentre David entrava in cucina, Susan alzò lo sguardo e gli rivolse un
sorriso teso, che venne brutalmente interrotto da un sibilo proveniente dal-
la cucina a gas. Un po' d'acqua era fuoriuscita da un tegame e si era river-
sata sulle fiamme del fornello con uno sfrigolio.
«Mirate, la casalinga del futuro», annunciò Dee con una voce mielosa da
annunciatrice pubblicitaria. David scoppiò a ridere. «Con gli ultimi ritro-
vati dell'era spaziale a sua disposizione, la cena del maritino sarà pronta in
un battibaleno, lasciando alle ragazze più tempo per spettegolare.» Sollevò
una bottiglia di vino rosso. «Merlot?» chiese a David, soggiungendo a bas-
sa voce: «Susan ha le chiavi della cantina. Quanto ad alcolici, siamo mi-
lionari».
«Grazie», rispose David, poi, rivolgendosi a Susan disse: «Posso fare
qualcosa?»
«Non credo...» ribatté lei, ma uno schianto proveniente dal forno la in-
terruppe. Un'espressione di panico le attraversò il viso mentre correva alla
ricerca di una pattina.
Dee gli strizzò l'occhio. «Be', adesso sapremo se il piatto è a prova di
forno o no.»
Imprecando, Susan aprì lo sportello del forno e sbirciò dentro.
Dee bisbigliò a David: «Perché non facciamo un giro della casa?» Poi,
alzando il tono, disse a Susan: «Ti lasciamo alle tue faccende, tesoro».
Quindi porse a David un bicchiere di vino e lo prese sottobraccio. «Vuoi
vedere la cantina?» propose.
22
Venerdì 25 aprile
Molte ore più tardi, dopo il tramonto, un'auto si fermò davanti alla casa
di Dass. Era un'enorme Mercedes nera modello 500SEL.
L'autista rimase al volante, col motore in folle, mentre un secondo uomo
scendeva e attraversava la strada. Diede le spalle al muro della casa e len-
tamente girò la testa di centottanta gradi, prendendo nota di ogni dettaglio
dell'ambiente circostante. Quando ebbe completato la perlustrazione, bussò
due volte alla porta, che si socchiuse.
Dass scese dall'auto e si diresse verso la casa; la pesante porta si aprì
all'ultimo momento per lasciarlo entrare. Solo quando Dass fu all'interno,
l'autista spense il motore e scese dall'auto. Chiuse le portiere, infilandosi in
tasca le chiavi, e lui e l'uomo che sorvegliava la strada scomparvero nella
casa.
Per quindici minuti non ci fu nessun movimento all'esterno.
Poi un uomo che indossava pantaloni scuri, stivali e una giacca sportiva,
chiaramente non della sua taglia, si avvicinò alla casa, preceduto da un
terrier spelacchiato al guinzaglio. Il cane tirò il guinzaglio per annusare i
pneumatici della Mercedes. L'uomo si fermò e tirò una boccata di sigaret-
ta, poi mormorò al cane: «Vieni», e strattonò senza molta convinzione il
guinzaglio. Il cane continuò a esaminare la ruota posteriore dell'auto.
L'uomo mosse un passo verso l'auto, si piegò su un ginocchio e disse al
cane: «Adesso basta, vieni via». Allungò una mano per prendere il collare
e, prima di afferrarlo, con un gesto rapidissimo agganciò qualcosa al cer-
chione interno della ruota posteriore. Infine tornò sui suoi passi, col cane
che lo seguiva senza protestare. Dopo alcuni metri, buttò via la sigaretta,
fumata a metà, e la schiacciò sotto il piede.
Condusse il cane lungo la strada ormai quasi buia, poi svoltò in un vico-
lo. Dopo una cinquantina di metri, si abbassò dietro una siepe. Tra la siepe
e uno scomposto cespuglio d'idrangea, c'era un uomo immobile, in posi-
zione supina. Era senza giacca e aveva le braccia e le gambe aperte. L'uo-
mo col cane infilò l'anello del guinzaglio nel piede dell'altro, sollevando un
poco la gamba per far passare la cinghia sotto il polpaccio. Mentre effet-
tuava queste operazioni, il piede ebbe un tremito.
Accanto all'uomo privo di sensi c'era una giacca a vento nera. L'altro si
tolse la giacca sportiva e, dopo averla lasciata cadere sul volto della figura
supina, s'infilò la giacca a vento. Poi si chinò per estrarre il portafoglio
dalla tasca posteriore della giacca. Infine ritornò sulla strada principale,
allontanandosi sempre di più dalla casa di Dass. Dopo un centinaio di me-
tri, mentre superava un cestino dei rifiuti, vi buttò dentro un pacchetto di
sigarette Dunhill quasi intero, un accendino e il portafoglio.
Il giorno dopo
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Sabato 26 aprile
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Inizia con questo [canto?] e osserva molto bene questo disegno e rifletti
a lungo su che cosa la tua mano invisibile desidera posarsi. È stato detto
da molti che un coltello [per mangiare?] è l'oggetto più adatto col quale
iniziare, ma forse ciò che viene subito alla mente è semplicemente ciò che
viene subito alla mano [idioma corretto?].
Susan smise di scrivere e si passò una mano tra i capelli. Poi assunse u-
n'espressione preoccupata. Continuò a studiare il documento sul quale sta-
va lavorando, alzando periodicamente lo sguardo per digitare una frase sul
computer. Alla fine, aveva scritto:
È in questo, come in tutto il resto, che gli uomini s'impegnano. C'è una
piccola quantità di tesoro/ricchezze ed essa è custodita gelosamente. Non
c'è mai amore tra coloro che sono stati risvegliati, poiché il mondo non è
sufficientemente grande per tutti. In verità, scoprire un proprio simile e-
quivale a scoprire un nemico mortale. L'approssimarsi di un estraneo e-
quivale a una sfida. Ascoltare di nascosto un altro equivale ad ascoltare la
voce del tuo conquistatore. Lo trasformerai invece nella tua preda se sa-
prai riflettere in modo saggio. Contesa senza diplomazia è l'ordine natura-
le delle cose. Per questi motivi, non dormire e non startene mai sdraiato
comodamente. Sii sempre vigile e pronto a combattere duramente anche
nelle ore più quiete della notte.
Susan adesso era accigliata. Si alzò e andò al suo armadietto per prende-
re un secondo dizionario, più piccolo, rilegato in pelle nera ormai consun-
ta, e tornò a sedersi. Iniziò a perfezionare la sua traduzione. Al termine di
un'altra ora aveva apportato pochissimi cambiamenti, ma aveva aggiunto
un paragrafo.
Gli uccellini non restano vivi a lungo lontano dal nido. Solo coloro che
hanno la protezione di un'antica [scuola per re?] sopravvivono. Il primo
cinguettio dell'uccellino è molto probabile che attiri su di sé i falchi. È il
momento migliore per sbarazzarsi dei propri futuri nemici. La vigilanza e
un'azione rapida in questa circostanza sono le cose più importanti. Presta
sempre ascolto alle nuove voci, poi eliminale con decisione e più in fretta
che puoi.
... anche se ho dato solo una rapida occhiata, mi sembra che somigli ad
alcuni passaggi del Principe. Essendo i trattati politici l'unica cosa che
infiammava gli animi a quel tempo, mi chiedo se questo non sia un brano
allegorico dello stesso tenore. Forse tende un po' più verso Savonarola
che non verso Machiavelli e il linguaggio è molto più oscuro (forse l'auto-
re era caduto in disgrazia in quel momento e occultava il vero significa-
to?), ciononostante mi chiedo se qui non abbiamo il lavoro di un «Profeta
della Forza» sconosciuto in passato. Come ho osservato nella mia tesi di
dottorato...
Susan Milton,
una delle voci predefinite da lei inserite - DASS - è stata trovata in un
notiziario recente. Cliccare sul link sottostante per leggere il contenuto.
http:\\www.CustomNews.biz/storyid=1447916
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Dee era furente. E benché la sua rabbia non sembrasse rivolta a nessuno
in particolare, David ne stava subendo le dirette conseguenze, essendo
l'unico obiettivo disponibile.
Frenarono di colpo prima d'imboccare una curva stretta e Dee sbottò:
«Ma sei in grado di guidare? Abbiamo preso due bottiglie di vino, ricor-
di?»
Anche David era di umore nerissimo. «Già! Le hai bevute tu, però. Io mi
sono fatto due bicchieri in due ore. E non mi sono mai sentito così sobrio.»
Superò a tutta velocità un semaforo scattato sul rosso, sorpassando un au-
tobus che si era appena staccato dal marciapiede.
Dee era aggrappata al cruscotto per evitare di essere sballottata. «Potresti
almeno rallentare, per favore?» sibilò in tono glaciale.
«No, che non posso, cazzo!» sbraitò David.
Dee non replicò. Fuori del locale, gli aveva fatto chiaramente capire che
sarebbe rimasta con lui finché non avessero scoperto che cos'era successo
a sua sorella. Perciò avevano preso un taxi per andare a recuperare l'auto.
Poi David aveva spinto Dee dentro la vettura e, prima ancora che lei fosse
riuscita ad allacciare la cintura di sicurezza, stavano già sfrecciando lungo
strade secondarie rese anguste dalle auto parcheggiate. David superava
tutti i veicoli che lo rallentavano, intimando agli automobilisti provenienti
dalla corsia opposta di fargli strada.
Un paio di minuti dopo le parole rabbiose di David, Dee si azzardò a
parlare ancora. In quel momento, stavano attraversando la Euston Road
diretti a sud. «Non ci posso fare niente, va bene? Queste situazioni non le
reggo. Mi fanno impazzire.» Aveva la voce impastata dal vino.
Benché il tono fosse tutt'altro che conciliante, le sue parole sembrarono
colpire David. Il suo viso si addolcì e lui protese una mano per stringere
quella di Dee. «Mi dispiace di averti aggredita», si scusò. «Quando mi
prende il panico, mi concentro al massimo. Le mie buone maniere vanno a
farsi friggere.»
Dee rimase in silenzio.
Passò un altro minuto. Il rombo del motore che andava su di giri per i
repentini cambi di marcia riempiva l'abitacolo. David lanciò un'occhiata in
tralice e vide una lacrima nera di mascara scivolare sulla guancia di Dee.
«Mi dispiace davvero», ripeté, sorpreso e nel contempo imbarazzato.
«Vivo a New York, ricordi? Non è la tua reazione...» Tirò su col naso.
«Piango perché sono preoccupata. Non posso...» L'ultima parola fu soffo-
cata dall'inizio di un gemito, che s'interruppe quando lei serrò le mascelle.
Le spalle sobbalzavano in sincronia col sibilo dei singhiozzi, appena udibi-
li sopra il rombo del motore. Dee emise un lamento, un suono carico di
dolore, poi si schiaffeggiò sulla guancia.
David la guardò, sbigottito. «Ehi, ehi», disse, un po' preoccupato.
Di nuovo, Dee tirò su col naso. «Sto bene. Sto bene... Non posso credere
che io stia piangendo.» Frugò nella borsa, tirandone fuori un pacchetto di
fazzoletti di carta, e si soffiò il naso.
Arrivarono alla School of Antiquities. David si fermò sulle doppie stri-
sce gialle proprio davanti all'ingresso, spalancò la portiera e si precipitò
dentro. Tamponandosi le lacrime, Dee lo seguì.
Quando lo raggiunse, David stava già parlando con la guardia seduta
dietro la scrivania. Ci vollero cinque minuti di domande incrociate prima
che David si accertasse che non c'era stata nessuna irruzione - non durante
quella settimana, almeno - e che desse una spiegazione convincente del
perché gli interessava tanto saperlo. Le sue prime richieste avevano messo
la guardia sulla difensiva. Solo ricominciando daccapo, e costringendosi
alla calma, aveva fatto progressi.
Venne fuori che, quel giorno, l'eccitazione maggiore era stata causata da
un incidente che aveva coinvolto una sezione del pavimento di marmo
dell'atrio. Il disastro era lì da vedere. Un pesante trapano industriale giace-
va in mezzo a una serie di lastre di marmo spaccate, il cavo simile alla
coda rilasciata di un animale. Un'alta scala a pioli era aperta sul «corpo del
reato».
La guardia spiegò che Susan aveva firmato il registro quando lui era ap-
pena entrato in servizio. Poi c'era stata la caduta del trapano... E lei, pochi
minuti dopo, era uscita di corsa, forse perché in ritardo per un appunta-
mento. Reggeva un sacco di carte, e gli aveva lanciato le chiavi sulla scri-
vania. L'aveva a malapena salutato. «Come se non bastasse...» mormorò,
scuotendo la testa e indicando il pavimento rotto. A quanto sembrava, quel
disastro occupava la maggior parte dei suoi pensieri.
Una seconda guardia era apparsa nell'atrio e aveva sentito l'ultima parte
della conversazione. «La dottoressa Milton?» intervenne. «Sono andato ad
avvisarla dopo l'incidente che volevamo togliere la corrente. Era un fascio
di nervi... Non voleva neppure aprire la porta. È sempre così?»
«No, non è sempre così», rispose David.
Si rivolse di nuovo alla prima guardia e la ringraziò, poi aggiunse: «Mi
scusi», mentre tirava fuori il suo cellulare e si girava per fare una chiamata.
Dee aveva provato a chiamare Susan due volte da quando avevano lasciato
il locale, ma David fece comunque un terzo tentativo. Però raggiunse sol-
tanto la segreteria telefonica. Dee aveva lasciato messaggi allarmati alla
fine delle sue chiamate e David evidentemente non riusciva a pensare a
nulla di nuovo da aggiungere; riagganciò prima che la voce registrata di
Susan finisse di parlare.
La guardia si offrì di chiamare David e Dee qualora avesse avuto notizie
o visto Susan. Entrambi lasciarono i loro numeri, ringraziandolo per il di-
sturbo.
Tornarono lentamente verso l'auto che non era ancora stata scoperta da-
gli ultimi vigili in circolazione o dal carro attrezzi.
«Sembra che si sia fatta prendere dal panico per qualche motivo e abbia
reagito in modo esagerato», borbottò David, una volta che furono risaliti in
macchina. «Se noi non sappiamo dove si trova, allora non lo saprà nessun
altro. Se crede di essere in difficoltà, si nasconderà da qualche parte. Tutto
ciò che possiamo fare è aspettare che ci chiami lei. Probabilmente è più
intelligente di noi due messi insieme. Sono sicuro che non le succederà
nulla.»
Dee non aprì bocca per un po'. Aveva un aspetto spaventoso. La preoc-
cupazione, il mascara che si era sciolto a causa del pianto e gli effetti del
vino la facevano apparire molto più vecchia rispetto all'inizio della serata.
«Penso che dovresti dormire in un albergo», suggerì David. «Adesso an-
diamo a casa del professore; io faccio una corsa dentro a prendere le tue
cose, poi cerchiamo un posto dove tu possa trascorrere la notte.»
Dee non oppose resistenza. Sembrava non avere più energia per lottare.
Annuì tristemente e rimase tranquilla mentre David guidava, quasi senza
muoversi e restando zitta.
Ci volle un quarto d'ora per raggiungere la casa. David chiese a Dee le
chiavi e le disse di mettersi al volante col motore acceso. «Se succede
qualcosa, vai via. Io mi arrangerò.»
«Non so guidare le macchine col cambio manuale», confessò lei.
«Va bene. Chiudi le portiere mentre sono in casa e suona il clacson se
hai bisogno di me. Correrò subito fuori.»
Quando scese dalla macchina, andò ad aprire il bagagliaio per prendere
il bastone allungabile che aveva portato con sé quand'era andato da Dass.
Lo infilò nella manica e chiuse il bagagliaio, facendo segno a Dee di bloc-
care le portiere.
Avvicinandosi alla casa, cercò qualche indizio che potesse rivelare la
presenza di qualcuno. Ma l'abitazione sembrava più deserta che mai. Le
finestre al pianoterra erano ancora chiuse e non filtrava nessuna luce dalle
persiane.
Risalì i gradini e osservò la porta d'ingresso. La serratura sembrava intat-
ta, la piastrina d'ottone opaca priva di segni... nessun segno di scasso. Aprì
la porta ed entrò nel vestibolo buio. Con la porta d'ingresso aperta, dalla
strada arrivava abbastanza luce per consentirgli di salire le scale. Silenzio-
samente spostò un vaso di felci in modo che la porta non si chiudesse, poi
risalì in fretta le scale.
Le finestre del piano superiore non erano state chiuse con le persiane e la
notte, come tutte le notti di Londra, era ben lungi dall'essere nera come la
pece. Per due volte, alcuni rumori in lontananza lo costrinsero a immobi-
lizzarsi di colpo e a tendere l'orecchio, ma era impossibile dire se prove-
nissero dall'esterno o che cosa li avesse prodotti.
Si spostò nella camera da letto sul retro. Le tende lunghe fino al pavi-
mento erano aperte e, attraverso la finestra a ghigliottina, si vedevano i
rami di un platano, neri nella flebile luce arancione. Le foglie si muoveva-
no pigramente nella brezza serale, allungando le ombre nella stanza.
David afferrò il beauty-case di Dee e un borsone ancora quasi pieno, po-
sato sull'ottomana ai piedi del letto. Poi tornò sui suoi passi. Dall'interno
dell'auto, Dee lo guardava.
Mise la borsa e il beauty nel bagagliaio, poi fece segno alla donna di ab-
bassare il finestrino. «Visto che siamo qui, posso prendere tutto. C'è del-
l'altro?»
«Due portabiti e tutto quello che trovi sparso per la stanza», rispose lei.
David annuì, le fece richiudere il finestrino e si diresse ancora una volta
verso la casa buia.
Riapparve due minuti dopo, reggendo i due portabiti e una borsa di pla-
stica del duty-free stracolma. Con la punta della scarpa, spinse il vaso
all'interno e lasciò che la pesante porta si richiudesse. Quindi, dopo aver
appoggiato i portabiti sul sedile posteriore, si mise al volante, bloccò le
portiere e ripartì. «Allora, hai qualche idea di dove potresti andare?» chiese
dopo qualche minuto.
«Ho un conto aperto all'Hilton», rispose Dee.
«Bene, allora cominciamo da Park Lane», celiò David.
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«Mi dica, mia cara, c'è qualcosa che posso dire o fare per convincerla
che il suo imbarazzo è assolutamente inutile?» disse il professor Shaw.
Susan continuava a mostrare un certo disagio. «Non sono riuscita a pen-
sare a nessun altro posto...» si scusò.
Il professore la interruppe. «Questo l'ha già detto. E io ribadisco che lei è
la benvenuta. Di questi tempi, il sabato sera mi ricorda molto i piovosi
pomeriggi domenicali di quand'ero ragazzo.» La sua voce assunse un tono
gentile e condiscendente. «Mi costringo ad aspettare il notiziario di mez-
zanotte della BBC prima di farmi una tazza di camomilla. È una routine
che reclama di essere interrotta, non crede?» Lasciò che Susan si sedesse
su un enorme e morbido divano e scomparve in cucina. «Sto anche speri-
mentando una sensazione a lungo dimenticata che potrebbe essere interpre-
tata come cavalleria. Mi dia qualche istante per capire dove la governante
mette le tazze per gli ospiti, poi mi racconterà il motivo delle sue preoccu-
pazioni.»
Alcuni minuti dopo, erano seduti alle estremità opposte del divano a sor-
seggiare un tè caldissimo.
«Allora, ho fatto la più grande scoperta nella storia della nostra area di
studi», esordì Susan con impeto. «E questa si potrebbe definire la bella
notizia. Quella brutta è che ho appena derubato la School of Antiquities, e
quindi avrò bisogno di cercarmi un altro lavoro, sempre che non mi arre-
stino. Penso che qualcuno stia cercando di uccidermi e, se le racconto tutta
la storia, lei penserà che mi ha dato di volta il cervello... e con tutta proba-
bilità deciderà di farmi rinchiudere. Queste, secondo me, sono le notizie
non troppo belle.» Aveva parlato tutto d'un fiato e, quando ebbe finito,
alzò lo sguardo per cogliere la reazione di Shaw.
«Mi dica se il tè è troppo caldo», la sollecitò lui. «Posso aggiungerci un
goccio di acqua fredda. Non è un problema.»
Susan lo fissò con tanto d'occhi, in attesa che dicesse qualcos'altro.
«Sono veramente desolato», si scusò lui. «Presumo che l'aplomb sia di-
ventata una sorta di debolezza per me. Un'ostentazione, in verità... Però mi
piace credere di poter reagire a un annuncio come il suo con freddezza.» Si
portò alle labbra la delicata tazza di porcellana, poi la rimise sul piattino.
«Anzi mi fa molto piacere che a condurla qui non sia stato un problema
sentimentale. Avrei fatto del mio meglio per confortarla, almeno spero, ma
è sempre la solita vecchia storia dacché Adamo era un fanciullo. Comin-
ciavo a temere che mi avrebbe deluso.» Si batté le cosce con entrambe le
mani. «E invece lei mi dice che è rovinata, inseguita, che è stata indotta a
commettere un crimine... Inoltre ha in serbo un racconto che, a suo parere,
metterà a dura prova le mie convinzioni. Trovo che la mia fiducia in lei sia
stata ancora una volta ripagata. E, qualora fosse necessario ripeterlo, l'aiu-
terò in qualsiasi modo.»
E così Susan gli raccontò una storia simile a quella che David aveva nar-
rato a Banjo. Lei si dilungò maggiormente sul ruolo svolto dalla Collezio-
ne Teracus e meno sui vari incontri violenti. Anche la sequenza degli av-
venimenti fu in qualche modo modificata; tuttavia, quando ebbe finito,
aveva esposto approssimativamente gli stessi punti di David: un criminale
con doti inimmaginabili era deciso a sottrarre un oggetto misterioso a un
suo simile.
«Buon dio», aveva esclamato bruscamente e più volte Shaw, durante il
racconto. Quando alla fine Susan si appoggiò allo schienale e bevve il suo
tè ormai freddo, lui commentò: «Sono molto sollevato che lei non sia ri-
masta uccisa durante questi drammatici avvenimenti. È un miracolo che
non si sia fatta neanche un graffio».
«Non è proprio così, professore. Tutto quello che posso dire è che, per
fortuna, il trucco c'è. Mi hanno dato cinque punti...» S'interruppe di colpo.
Si era passata una mano sulla nuca, dividendo i capelli con le dita mentre
parlava, e sul suo volto si era dipinta un'espressione confusa. «Mi scusi,
professore... Mi può dire che cosa vede qui?» Tenne il dito fermo su un
punto del cuoio capelluto. «È qui che sono stata colpita.»
Lui si alzò e andò a controllare. «Un lieve arrossamento, forse il residuo
di una ferita. Quando ha detto di essere stata aggredita?» chiese poi, an-
dando a risedersi.
Susan lasciò ricadere i capelli e alzò gli occhi al cielo. «Sono dieci gior-
ni oggi. In realtà, avrei dovuto andare a farmi togliere i punti qualche gior-
no fa.»
Shaw annuì. «Questo è uno dei problemi quando si viene colpiti alla te-
sta; è il momento meno opportuno per dare un consiglio medico importan-
te. Durante l'ultima guerra, lavoravo in un ospedale londinese. Ho visto
parecchie giovani donne troppo stupide per indossare l'elmetto... Forse lei
può darmi qualche spiegazione, ma io direi che quella ferita risale almeno
a quattro settimane fa, anche se più probabilmente a sei, e non c'è segno
dei punti.»
Il volto di Susan sbiancò. «Ho usato il cerchio che il mio aggressore ha
perso!» Lo fissò. «Questo pomeriggio ho provato a usarlo.» Dilatò le nari-
ci e sollevò il mento, come se le parole le venissero strappate con la forza.
«Non sono sicura, ma credo...» Sembrava che le costasse una fatica enor-
me continuare, eppure ci riuscì. «Credo di essere riuscita a spostare un
tagliacarte con la forza del pensiero. No, dimentichi quello che ho detto.
L'ho fatto. Ne sono sicura.»
«Può...» Shaw esitò. Si umettò le labbra con la punta della lingua. «Può
mostrarmelo?»
Susan assunse un'aria molto imbarazzata. «Non posso», disse, quasi ge-
mendo. «Lo so che cosa sta pensando, ma non oso mostrarglielo. Ho riletto
il riassunto del mio collega e mi sono resa conto che lui ha sbagliato la
traduzione. Da quel che ho capito, è un ordine perentorio tra i... tra questa
gente, chiunque sia, eliminare qualsiasi principiante. È una specie di ap-
prendistato alla rovescia, dove i veterani si assicurano che non entri nessun
nuovo talento. Neutralizzano qualsiasi potenziale rivale prima che lui im-
pari a cavarsela.»
«'Adepti', mia cara. Si stava chiedendo come chiamarli. È questo il ter-
mine che suggerirei. Coloro che sono esperti nell'ars obscura», specificò.
Poi aggiunse sottovoce, come a se stesso: «Che non è il termine latino per
la biancheria intima, come un mio allievo suggerì una volta».
Susan ignorò quella digressione e proseguì: «Be', se pratico una di quelle
arti occulte, apparentemente è come se annunciassi il fatto ai quattro venti.
Non la mia identità, da quanto ho potuto capire, bensì la mia presenza.
Non ho idea del raggio d'azione di cui stiamo parlando o di quanto vicini
loro debbano essere per percepirmi. Ma, dato che oggi pomeriggio ho fatto
qualcosa che equivale ad accendere un faro, ho preferito tagliare la corda».
Rabbrividì. «È un pensiero raccapricciante. Orecchi che si rizzano e teste
che si girano, adepti che, ovunque si trovino, si sintonizzano all'improvvi-
so con quello che sto facendo.» La sua espressione era davvero terrorizza-
ta.
«Ah, forse avrei dovuto incoraggiarla a uscire con indosso solo la bian-
cheria intima, come quella Jenkins che se ne va in giro in body e calzama-
glia», borbottò Shaw. «A quest'ora, si sarebbe abituata all'attenzione uni-
versale.» Stava cercando di distrarla. «E, a proposito, penso che la sua li-
nea d'azione abbia dato i suoi frutti. Il suo Mr Hartman è stato visto parec-
chie volte in compagnia di Ms Jenkins da quando lei è andata a Londra.»
I tentativi di Shaw di cambiare argomento riuscirono a distogliere Susan
dai suoi pensieri macabri. Il suo volto si era rilassato e adesso lei stava
scuotendo la testa con fare incredulo. «Mi sembra che siano passati
cent'anni e che si tratti di un'altra vita. Ricorda quando la mia unica preoc-
cupazione era quella di avere un Don Giovanni da quattro soldi per assi-
stente?»
«Sembra che in questo lasso di tempo si sia data un gran daffare, su que-
sto non c'è dubbio. Ma, per tornare a questa situazione imbarazzante, come
potrei esserle d'aiuto?»
«Be', custodire documenti rubati, dare asilo a una fuggiasca e aiutarmi a
svelare un segreto antico di secoli erano i punti principali della mia lista»,
rispose Susan. Si allungò per stringergli una mano, ricevendo per tutta ri-
sposta un sopracciglio sollevato. «Mi sento molto meglio rispetto a due ore
fa, deve credermi. Il semplice fatto di aver parlato con lei mi rivela che
dopotutto non sono impazzita.»
«Intende in rapporto a quanto io sono pazzo?» chiese Shaw, e Susan
scoppiò a ridere. Poi lui lanciò un'occhiata alla borsa stracolma e alla vali-
getta con cui Susan era arrivata. «Allora, vuole farmi dare un'occhiata alla
refurtiva?» chiese, malizioso.
«Se è pronto a entrare nella malavita...» ribatté lei.
Il salotto comprendeva quella che un tempo doveva essere stata una sala
da pranzo, anche se adesso era un salone unico. I due tolsero una tovaglia
verde dal monumentale tavolo di mogano e iniziarono a tirare fuori i do-
cumenti rubati. Gli originali erano chiusi in cartelline di plastica a portafo-
glio, mentre le riproduzioni erano pinzate all'esterno.
Incapace di resistere, Shaw iniziò a esaminare la pila di documenti più.
vicina a sé e quel lavoro lo assorbì a tal punto che, pochi istanti più tardi,
lui sembrò essersi dimenticato della presenza di Susan.
Lei s'immerse nello studio di un'altra serie di documenti e i due rimasero
seduti in silenzio. L'unico rumore era il sonoro ticchettio dell'orologio sulla
cappa del camino.
Qualche tempo dopo, Susan andò in cucina a preparare un altro tè, sta-
volta un English Breakfast. Shaw prese la sua tazza, sembrò ricordarsi di
dov'era e chiese: «Mi sono estraniato per molto tempo? Mi deve proprio
scusare. Le mie buone maniere sono un disastro. È solo che questi docu-
menti, soprattutto alla luce di quanto mi ha detto, costituiscono una lettura
straordinaria... Lo so che le piace prendermi in giro per la mia passione per
i film polizieschi», aggiunse, fissandola. «Ma devo chiederle se pensa che
in questo momento corriamo qualche pericolo. Non mi preoccupo tanto
per me, ma non voglio che qualcuno faccia del male a lei. Potrei fare una
telefonata, se ritiene che possiamo aver bisogno di... ecco... un paio di go-
rilla. Ho dato lezioni al figlio di un poliziotto del posto. Un ragazzo vera-
mente sfortunato a causa di una serie di malattie, ma che non mi ha mai
dato eccessivi problemi. A parte questo, mi è stato assicurato che avrei
potuto chiamare suo padre, qualora ne avessi avuto bisogno.»
Susan gli assicurò che non era necessario e andò a sedersi accanto a lui.
«Oh, sarebbe stato orgoglioso del mio piano di fuga, professore», disse.
«Sono salita su una carrozza della metropolitana, poi sono scesa poco pri-
ma che le porte si chiudessero. Dopodiché ho fatto una fermata, sono scesa
e mi sono attardata davanti alle barriere dell'uscita, fingendo di cercare il
biglietto, finché tutti quelli che stavano uscendo non mi hanno superato.
Quindi sono corsa giù e ho preso al volo un altro convoglio che andava
nella direzione opposta. A meno che non mi abbiano installato un micro-
fono spia, sono sicura che nessuno sa dove mi trovo.»
«Non ho proprio idea di quali siano le tattiche al riguardo, anche se il
fatto di essere sottoterra sicuramente è un vantaggio», commentò Shaw.
«Ai miei tempi, il fuggiasco di solito lasciava dietro di sé una bustina di
fiammiferi sulla quale, il più delle volte, c'era scritto un importante numero
di telefono. Confido che lei abbia fatto attenzione a non commettere questo
errore.»
Susan annuì con un sorriso.
Shaw indicò le pile di fogli sul tavolo. «Non ha letto nulla in questi do-
cumenti che suggerisca un metodo arcano per individuare le persone
scomparse?»
Lei si strinse nelle spalle. «Alcuni di questi documenti sembrano sugge-
rire che tutto è possibile, ma apparentemente fanno rientrare le abilità in
due categorie: una specie di 'set da lavoro' che David e io abbiamo avuto
modo di vedere, e poi un 'pacchetto premio', una sorta di guru in versione
mistica che solo pochi, vecchi e folli eremiti possono raggiungere. Il modo
in cui funziona pare molto Zen... Sembra che si possano avere questi poteri
extra solo se si è così distaccati dal mondo da non doverli mai usare per il
perseguimento di uno scopo pratico. Non so se un mistico sarebbe in grado
di rintracciarmi, ma non si parla del fatto che un normale adepto possa
farlo... All'inizio, ho pensato che le abilità di livello superiore fossero solo
un'ostentazione priva di fondamento, ma, stando a ciò che ho visto e che
sono giunta ad accettare, probabilmente è meglio avere una mente aperta.
In ogni modo, per rispondere alla sua domanda, non credo di correre un
immediato pericolo. Sono venuta qui con due problemi. Primo: ho avvisato
tutti quelli che ho potuto a Londra che c'è in circolazione un pazzo. Non
sono stata seguita, quindi nessuno può sapere che mi trovo da lei. Secondo:
la collezione. Credo che questo Jan la cercherà, ma dubito che abbia modo
di sapere che l'ho spostata. Mi rendo conto che sto facendo ricadere la cosa
su di lei, ed è una richiesta enorme, ma spero che possa aiutarmi a uscire
da questa faccenda.»
Shaw si era alzato, come se avesse intenzione di andare in cucina. Si
fermò e assunse un'aria circospetta. «Non crede che quel giovanotto vigo-
roso, David, potrebbe essere di maggiore aiuto?»
Susan abbassò lo sguardo sul tavolo. «È complicato», ribatté. «E co-
munque non sono riuscita a rintracciarlo quando ho avuto bisogno di lui,
quando ho pensato che quel pazzo mi avesse in pugno. Ho bisogno di
qualcuno di più affidabile.»
«Ahhh», commentò Shaw, con l'aria di chi la sa lunga. Poi le batté affet-
tuosamente una mano sulla spalla. «Allora i problemi sentimentali ci sono,
dopotutto, e non c'è tempo per sistemarli. Lei ha già un sacco di cose cui
pensare. Eppure i momenti difficili hanno il potere di cementare un rappor-
to come di dividerlo.»
Persa nei suoi pensieri, Susan non ribatté. Poi sbadigliò, coprendosi la
bocca con la mano. Dopo un paio di secondi stava ancora sbadigliando e
agitava l'altra mano a indicare che stava cercando, senza successo, di ter-
minare lo sbadiglio.
Shaw scoppiò a ridere.
«Caspita, mi scusi Accidenti», farfugliò lei.
Shaw si avviò verso la cucina e la scala che stava oltre. «È meglio che ti-
ri fuori le coperte nella camera degli ospiti. Ci sono acqua calda e tutti i
comfort della civiltà moderna. Si ricorda la strada?»
Susan fece per rispondere, ma si ritrovò a sbadigliare di nuovo. Scosse la
testa. «Lei penserà che ormai dovrei essere abituata all'adrenalina. Mi sa
che tra poco avrò un crollo. Mi preoccuperò di queste cose domattina.» E
indicò il tavolo. Quindi seguì Shaw attraverso la cucina e lungo le scale.
Poi, mentre lui sistemava la stanza degli ospiti, s'infilò nel bagno. Quando
uscì, l'uomo era a metà della scala. Si fermò e le disse: «La lascio dormire
un po'... a meno che non preferisca il contrario».
L'orologio di Susan faceva l'una meno un quarto del mattino. «Può
chiamarmi alle nove, se non sono in piedi?» chiese.
«Certo. Mrs Potter arriva verso le otto per dare una rassettata. Vedrò di
convincerla a preparare qualcosa per colazione. Dorma bene, cara ragaz-
za.»
«Grazie, professore», disse Susan. In camera, la lampada sul comodino
era accesa, il copriletto era stato ripiegato e una spia rossa indicava che
una termocoperta stava riscaldando le lenzuola.
Susan si spogliò in fretta, spense la termocoperta e s'infilò tra le lenzuola
con un sospiro. Le palpebre si chiusero prima di riaprirsi quel tanto che
bastava per spegnere la luce.
27
28
David aveva già percorso un buon tratto della M11 ed era a venti minuti
da Cambridge quando il suo cellulare segnalò l'arrivo di un SMS. Il testo,
proveniente dal telefonino di Susan, iniziava con le parole: SONO AN-
DATA A COMPRARE UN NUOVO CARICABATTERIE, seguito da un
indirizzo e dalle istruzioni per raggiungerlo.
Una volta arrivato alla periferia della città, David dovette accostare per
controllare la carta stradale, ma individuare lo splendido cottage di Shaw,
poco distante dal centro cittadino, non fu difficile. Quasi impossibile, in-
vece, fu trovare un parcheggio. Alla fine, David s'infilò nel parcheggio
riservato ai clienti di un grande magazzino, e tornò a piedi verso la strada
dove abitava il professore.
Quando arrivò, fu Susan ad aprire la porta. Indossava un maglioncino
bianco con lo scollo a V, un paio di jeans e degli stivali rossi. Aveva un'a-
ria ansiosa, il labbro inferiore che tremava. Lui la fissò con fare guardingo.
Ma, prima che lui potesse parlare, lei si avvicinò e lo abbracciò. Lui la
strinse tra le braccia.
«David», disse Susan con sollievo, la testa premuta contro la giacca.
«Ciao», ribatté lui con una risata incerta, il nodo di tensione alla gola
improvvisamente scomparso.
Quando si separarono, lei disse: «Mi dispiace di essere stata dura con te
al telefono». Era chiaro che aveva un paio di cose da dire, prima di entrare
in quella bella casa.
Lui chinò la testa di lato. «Stavolta, mi sa che ho cominciato io», si af-
frettò a dire. «Mi sono comportato come un padre ansioso. Ma ero così
preoccupato che la prima reazione, dopo aver capito che stavi bene, è stata
quella di aggredirti.» La guardò negli occhi. «Ero davvero preoccupato. Il
tuo messaggio era così inquietante.»
«E...?» lo incalzò lei, come se lui avesse dimenticato di dire «per favo-
re».
Lui assunse un'aria imbarazzata. Sorrise timidamente e concluse: «E mi
dispiace».
Lei lo strinse di nuovo, poi lo accompagnò nel salone.
«Ah! Avete finito di far uscire tutto il calore. Bene, bene», esclamò con
energia Shaw.
David sorrise, ma Susan parve preoccupata. «Le vado a prendere il ma-
glione, professore», si offrì.
Shaw agitò una mano. «Era sarcasmo, non ipotermia.» Osservò David,
la cui mole risultava esagerata nel giaccone di pelle. L'espressione del pro-
fessore era amabile, ma nel contempo indagatrice.
David sorrise educatamente, avvicinandosi e porgendo la mano. «Salve,
sono David Braun.»
«Una stretta di mano debole... Mi piace, in un uomo», commentò Shaw,
schioccando la lingua.
David lo fissò, perplesso.
«Lei risparmia le mie ossa, invece di dimostrare la forza indubbiamente
formidabile della sua stretta», chiarì l'altro. «Io sono Joseph Shaw, ma mi
chiamano quasi tutti col mio soprannome: 'professore'.» E lanciò un'oc-
chiata eloquente a Susan. «L'uno o l'altro vanno bene.»
«Piacere di conoscerla, Joseph», replicò David, guadagnandosi un altro
sorriso deliziato da parte dello studioso.
«Susan, prenderebbe in considerazione l'idea di preparare un tè, se le
dessi la mia parola che i reumatismi alle ginocchia e non un'idea antiquata
sui ruoli tra i sessi m'induce a farle questa richiesta?» chiese Shaw.
«Ma certo», ribatté con dolcezza Susan, dirigendosi verso la cucina.
«Io, ecco...» farfugliò David, puntando il dito a indicare la sua intenzio-
ne di darle una mano. Raggiunse Susan in cucina, lasciando Shaw seduto
nella sua poltrona, tranquillamente assorto nei suoi pensieri, almeno in
apparenza. «Hai parlato con Dee?» chiese poi a Susan, tenendo la voce
molto bassa, così che il professore non sentisse.
Susan gli lanciò un'occhiata indulgente e nel contempo distaccata. «Ruf-
fiano», borbottò, sistemando le tazze sul vassoio.
David parve confuso. «Intendevo dire se sta bene», precisò.
«Oh», esclamò lei con enfasi esagerata. In realtà, aveva compreso perfet-
tamente il senso della domanda di David, ma non era convinta che fosse
proprio quello il senso che lui le aveva dato. «Non è contenta, ma non ha
ancora deciso con chi prendersela. Per il momento, ha intenzione di starse-
ne rintanata in quell'albergo sciccoso in cui l'hai portata. Ha tutta Londra a
disposizione, se si annoia.»
L'acqua cominciò a bollire.
«Bene», commentò David, ma poi si rese conto che non era proprio una
bella notizia. «Intendo che è un bene che non sia più infelice di prima.»
Susan sembrava divertita dal suo imbarazzo e lo guardò di sottecchi con
tenerezza. «Mi ha spiegato come avete passato il pomeriggio...» E si voltò
verso il bollitore che aveva appena cominciato a fischiare.
«Susan, devi sapere...» esclamò David in tono ansioso. Poi si mise ad
agitare la mano, come per dire che lei aveva frainteso. La mano calò sul
bordo del vassoio che sporgeva leggermente dal piano di lavoro, facendo
tremare le tazze e rovesciandone una.
Susan si girò di scatto e afferrò al volo la tazza prima che andasse a fran-
tumarsi sul pavimento piastrellato. «David!» proruppe, quasi gemendo.
«Te lo dico per l'ennesima volta: ti sto prendendo in giro! Dee mi ha detto
di che cosa avete parlato. Ti ha descritto come nobile e cavalleresco oltre i
limiti della credibilità. Ma ho afferrato il messaggio.»
David era ancora sbalordito dall'incredibile velocità e abilità con cui Su-
san aveva recuperato la tazza. Quando si riscosse, si rese conto di quello
che lei stava dicendo e il suo volto si aprì in un sorriso. «Lo so che non è
ciò che vuoi, ma non posso farci niente...» si giustificò; tuttavia non riuscì
ad aggiungere altro perché Susan gli aveva messo un dito sulle labbra per
zittirlo, dicendo: «Un'altra volta...»
In silenzio, tornarono da Shaw. Susan aveva trovato la provvista di frol-
lini di Mrs Potter e aveva messo i biscotti su un piatto vicino a David.
Quando tutti ebbero avuto la loro tazza di tè, Shaw disse: «Un mio col-
lega mi ha parlato di una nuova e meravigliosa specie di manager chiamata
'facilitatore'». Spostò lo sguardo da Susan a David. «Assaporate l'orrenda
novità di questa parola», aggiunse con autentica gioia, rivolgendosi a en-
trambi. «A quanto pare, una simile figura continua a essere segretamente
in carica, ma senza doversi assumere la responsabilità di eventuali risultati
spiacevoli, e per giunta non ci si aspetta neppure che svolga il suo lavoro.»
Sorrise, soddisfatto, valutando la loro reazione. «Anzi un suo intervento
viene decisamente scoraggiato.»
David era un po' stordito, mentre Susan aveva un'aria divertita ma pa-
ziente. Era sicura che Shaw aveva in mente qualcosa.
«Sembra proprio il ruolo adatto a me. Pensavo di provarci adesso, se voi
due siete d'accordo», proseguì l'anziano professore. Interpretando la loro
assoluta immobilità come un assenso, si fece più serio. «Allora, secondo
me, ciò che dobbiamo fare, prima che passi troppo tempo, è mettere al
sicuro i documenti che riguardano il Marker. E sebbene vada contro lo
spirito della facilitazione, desidero autonominarmi per questo compito.
Bisogna poi fare qualcosa anche in merito al fatto che la collezione è stata
trafugata dalla School of Antiquities. Ben presto, qualcuno punterà il dito
contro Susan, se non altro perché è lei la responsabile.»
David lanciò alla donna uno sguardo allarmato, ma non parlò.
«Ora, vorrei offrirmi per risolvere anche questo problema», continuò
Shaw. «Ho una certa influenza, in quel posto.» Assunse un'aria vagamente
preoccupata. «Oh, cielo, mi sa che sto complicando l'attività del facilitato-
re. Pazienza. Andiamo avanti.» Alzò un dito come se ostentasse uno sten-
dardo. «Come terza cosa, dobbiamo acquisire maggiori informazioni sulla
situazione imbarazzante nella quale ci siamo cacciati. Molte risposte si
trovano nella collezione, almeno credo. Essendo qui la sua dimora tempo-
ranea, mi offro volontario per gestire anche questa faccenda.» Fece una
pausa, quindi, con aria decisamente infastidita, dichiarò: «Anche se ho il
sospetto che questo decreterà la fine della mia carriera come facilitatore...
Comunque, per finire, benché forse sia l'aspetto più importante, bisogna
escogitare qualcosa in merito a Jan, che, ne sono certo, si darà da fare per
trovare la collezione. È chiaro che non possiamo rivolgerci alle autorità
temporali, per lo stesso motivo per cui, imbattendoci in un leopardo ferito,
non ci rivolgeremmo all'ente che protegge i gatti. Ritengo che sia su que-
st'ultimo punto che ci dobbiamo concentrare».
David si schiarì la gola. «Ho qualche domanda. In primo luogo: è sicuro
di voler essere coinvolto in questa faccenda? È già abbastanza difficile
capire perché lo sono io, ma almeno ero pagato per farlo.»
«Forse avrà l'impressione che voglia eludere la sua domanda, ma vorrei
che fosse Susan a metterla al corrente di alcuni fatti illuminanti, una volta
terminata questa conversazione. Nel frattempo, è disposto a credermi sulla
parola, quando le dico che ho i miei motivi e che non ho nessun problema
sia ad accettare i rischi sia a fare la mia parte?»
David annuì.
Shaw lanciò un'occhiata a Susan. «In merito a quanto abbiamo discusso
insieme, potrà raccontare a David ciò che le sembra più opportuno e che
ritiene utile.»
«Va bene, quindi adesso siamo in tre», dichiarò David. «Allora: c'è
qualcosa che voi due sapientoni avete scoperto e che io devo sapere prima
di esporvi le mie proposte?»
Susan e Shaw si scambiarono un'occhiata. Come se si fossero accordati
telepaticamente, Susan iniziò a spiegare che il professore aveva scoperto la
vera funzione del Marker, rivelando così le motivazioni di Jan. Accennò
solo brevemente al suo tentativo - fallito sul nascere - di usare la magia,
aggiungendo che l'intera storia faceva parte di una serie di cose che gli
avrebbe raccontato in seguito. Mentre riassumeva alcuni aspetti degli ar-
gomenti discussi con Shaw, la conversazione si trasformò in un dibattito.
David intervenne nello scambio di battute con una nota di preoccupazio-
ne. «Pensate che Dass sia morto sul serio? Questa gente muore come i co-
muni mortali oppure tornerà a darci la caccia?»
«Credo che abbiamo un'idea piuttosto precisa di ciò che sono in grado di
fare», replicò Susan. «Non conosciamo i dettagli, ma sono abbastanza si-
cura che possediamo le informazioni basilari. E dalla morte non c'è ritorno.
La polizia ha trovato il cadavere di Dass. Nessuna difficoltà per identifi-
carlo: aveva persino il passaporto con sé. Penso che se ne sia andato per
sempre.»
Tranquillizzato, David continuò: «Presumo che sia difficile sentirsi in
pericolo in un posto come questo...» Alzò lo sguardo e allargò le braccia a
indicare il salone. «E ovviamente non serve a nulla cedere al panico. D'al-
tro canto, però, Jan potrebbe scardinare quella porta da un momento all'al-
tro. Quindi, ecco un altro concetto aziendale: affrontiamo subito i problemi
urgenti ed esaminiamo gli altri aspetti importanti più tardi.»
Nessuno proferì parola.
«Primo: la collezione è al sicuro?»
Shaw annuì. «Vuole sapere dove si trova?»
«Non credo di averne bisogno», rispose David. «A meno che...»
«... a meno che non mi succeda qualcosa», concluse Shaw. «Se lei do-
vesse essere privato all'improvviso del mio sostegno, potrebbe dare un'oc-
chiata alla copia della mia tesi di dottorato che attualmente si trova presso
la biblioteca dell'università, una tesi che nessuno consulta dal 1973. Da
pagina 411 in poi ci sono alcune annotazioni a matita... lei sarà in grado di
decifrarle, Susan. Indicano dove custodisco un paio di oggetti di valore...
tra i quali adesso c'è anche la collezione. Senza quella guida, bisognerebbe
smontare questa casa mattone per mattone per scoprire il nascondiglio.»
David stava per dire qualcosa, ma evidentemente il dubbio lo trattenne.
Shaw gli rivolse un debole sorriso. «E terrò la bocca chiusa qualsiasi cosa
accada», aggiunse semplicemente.
«Ci sono altre copie?» chiese David.
«Ho eliminato il file in rete e ho fatto lo stesso coi backup», rispose Su-
san. «Inoltre ho portato con me la copia cartacea e gli originali. C'è anche
una copia su CD...» Indicò la sua borsa. «Sono abbastanza sicura di poter-
ne fare una copia crittografata, dopodiché infilerò il CD originale nel mi-
croonde.»
«Per andare sul sicuro, meglio scriverci sopra: Compilation per la festa
di Dave, e tenerlo in un lettore CD», suggerì David, dando l'impressione di
approvare le mosse di Susan.
«Proprio quello che stavo per dire», mormorò Shaw, non avendo eviden-
temente idea di che cosa stessero parlando.
«Ha presente quando si nascondevano i microfilm tra i negativi delle va-
canze? Ecco, adesso si fa così», spiegò David.
Susan andò a prendere il CD dalla sua borsa. Poi si diresse in cucina e lo
infilò nel lettore portatile appoggiato sul davanzale della finestra. «Giusto
per il momento», spiegò, quando tornò a sedersi.
«Bene. E adesso: come farà Jan a trovarci?» volle sapere David.
Dopo una breve pausa, fu Susan a rispondere. «Attraverso di me. Deve
solo capire che la collezione è sparita e riflettere sulle circostanze, poi sa-
prà chi l'ha presa.» Quindi aggiunse: «A proposito, David, noi riteniamo
che non abbia nessun potere speciale che lo aiuti a trovarmi. Dovrà farlo
nel solito, vecchio modo, insomma».
«Allora penso che tu e io dovremo sparire», dichiarò David.
«Come? Scappare?» esclamò lei.
«Quando abbiamo deciso di andare a Brighton abbiamo messo in pratica
una giusta intuizione», ribatté lui. «Ci dirigeremo verso una località scelta
a caso. Come hai detto tu, a meno che non abbia piazzato un microfono
spia, non vedo in quale modo possa trovarci.»
«E poi?» volle sapere Susan.
«E poi, una volta che tu sarai al sicuro, con tutta calma elaboreremo un
piano adeguato.»
29
Domenica 27 aprile
Un'ora dopo aver deciso di sparire, David e Susan erano già in viaggio.
Avevano concordato che uno dei due avrebbe elaborato un piano iniziale e
che l'altro lo avrebbe modificato leggermente; in tal modo, nessuno avreb-
be potuto seguire i loro movimenti, neanche qualcuno che li conosceva
bene. Entrambi riconobbero che si trattava di un'idea paranoica e un po'
ridicola, ma nessuno dei due aveva intenzione di accantonarla.
«Bene. Io ho alcuni parenti che non vedo mai. Vivono a sud di Dubli-
no», annunciò David. «Se prendiamo il traghetto da Holyhead, ci porterà
fuori del Paese... È la cosa più simile a una via di fuga che abbia la Gran
Bretagna. Il porto e il traghetto sono spazi delimitati dove c'è altra gente,
ma, prima di arrivarci, abbiamo tutto il tempo di verificare che nessuno ci
stia inseguendo.» Poi aggiunse: «Scusa...» rendendosi conto di aver assun-
to un tono cospiratorio.
Susan alzò le spalle. «Va bene. Mi piace l'idea del traghetto. Ma quale
traghetto arriva alla punta meridionale dell'Irlanda?»
«Quello che va da Eishguard a Rosslare», rispose David, dopo averci
pensato su.
«Giusto. Andiamo in quella direzione, poi risaliamo da sud. Inoltre con-
tattiamo i tuoi parenti solo se abbiamo bisogno di qualcosa. Sarà come
avere delle riserve locali sulle quali fare affidamento se spuntasse qualche
problema... E, nel frattempo, non corriamo rischi che rivelino la nostra
posizione.» Sorrise cupamente. «Chi è che sta parlando come una spia,
adesso?»
«Allora è deciso», confermò David.
«Perché non hai cercato di dissuadermi dall'intraprendere questa fuga?»
chiese allora Susan. «Non ti avrei ascoltato, ma avresti sempre potuto pro-
vare.»
«A questo punto non vedo come si possa dimostrare a Jan che tu non sei
coinvolta. Continuerà a pensare che hai un ruolo in questa faccenda, anche
se tu e io la pensiamo diversamente. Se fossi tornata alla tua normale rou-
tine, credo semplicemente che lui... capisci...» Non riuscì a trovare le paro-
le giuste, perciò concluse: «Il professore non sarebbe stato in grado di pro-
teggerti».
«Già», replicò Susan, scoraggiata. «Immaginavo che fosse qualcosa del
genere.»
Rimasero in silenzio per qualche istante.
Poi Susan disse: «Vedo se riesco a crittografare il testo per metterlo su
quel CD Ho scaricato un programma che dice di poter codificare qualsiasi
blocco di dati su un disco, ma non ho ancora capito come funziona». Sol-
levò la borsa dal sedile posteriore e si mise il portatile sulle ginocchia. Per
tutta l'ora successiva non fece che borbottare. Poi, d'un tratto, chiese:
«Vuoi sapere qual è la password?»
«Sì», rispose David.
«È fuzzbundlemilton, tutta una parola, con due 7 al posto delle z, e lo 0
al posto della o.»
«Qualche motivo particolare?» volle sapere David.
«Oh, era il nome del mio gatto», spiegò Susan. «Anche se mia madre si
era rifiutata di far incidere tutte le lettere sulla targhetta. Così lui era diven-
tato semplicemente Fuzz. Per gli estranei.» Susan lasciò vagare lo sguardo
in lontananza.
David si girò e le sorrise dolcemente.
«Che ne facciamo di questo?» chiese Susan, sventolando il vecchio CD.
«Hai una busta di plastica?» fece David.
Susan tirò fuori il sacchetto del negozio dove aveva acquistato una con-
fezione di CD e il caricabatterie. Distogliendo solo per qualche istante gli
occhi dal traffico dell'autostrada, David le prese il CD, infilò la mano nella
busta e piegò il disco in due. Si frantumò con uno schiocco in una dozzina
di pezzi e di frammenti.
«Non so perché, ma pensavo che un CD-ROM si piegasse», commentò
Susan.
«Forse pensavi alle carte di credito», suggerì David.
Susan osservò il CD a pezzi. «Dovresti avere una pazienza da certosino
per rimetterlo insieme.» Sollevò uno dei frammenti più piccoli - sembrava
una scheggia di luce sulla punta del suo dito - e lo agitò sotto il naso di
David. «Troppo complicato», disse, assaporando le parole. Quindi strappò
parte della pellicola metallica dai frammenti più grandi, mettendo in evi-
denza la plastica. Infine si strofinò le mani per togliere i residui della pelli-
cola.
«E adesso guarda», annunciò, mostrandogli il nuovo disco, quello critto-
grafato. Con un pennarello indelebile, ci aveva scritto sopra: Rap
compilation, disegnandovi alcune stelline. «Se c'è una cosa che un tizio di
novant'anni non è in grado di reggere è il rap.»
«Ottima trovata», ribatté David, divertito. «E funzionerà ancora meglio
che se tu ci avessi crittografato un sacco di porcheria scrivendoci sopra
Collezione Teracus, poco ma sicuro. Nei film, i personaggi smettono subi-
to di cercare nell'istante in cui trovano qualcosa che stuzzica la loro imma-
ginazione. Quindi, a meno che Hollywood non sia talmente a corto di bat-
tute da essersi messa a inventare tutto, noi siamo a posto.»
Entrambi sorrisero. Calò di nuovo il silenzio, con David concentrato sul-
la guida e Susan che rifletteva.
«Lo sai perché mi piace l'idea di una traversata?» disse Susan dopo un
po'.
«Perché gli stregoni non possono attraversare le distese d'acqua?» la
canzonò David.
«Be', tu scherzi, ma è proprio quello cui ho pensato. Scommetto che non
gli piace.»
Era chiaro che voleva condividere la sua teoria, perciò David la incitò a
proseguire.
Lei si lanciò. «Allora, sappiamo che sono in grado di creare uno scudo
intorno a sé capace di fermare praticamente qualsiasi cosa, persino i proiet-
tili, e di questo sono abbastanza sicura. Ma che cosa accadrebbe se si ritro-
vassero su una barca che affonda? Non potrebbero fare nulla. Anneghereb-
bero, come chiunque altro. Sulla terraferma, un esercito potrebbe non esse-
re sufficiente a fermarli; in mare, una freccia incendiaria probabilmente
basterebbe.»
David sembrava colpito.
«Comunque non era quello che avevo in mente», proseguì Susan. E in
tono neutro, precisò: «Avevo in mente di usare di nuovo il cerchio». Spie-
gò quindi a David il suo tentativo di spostare il tagliacarte d'argento e il
panico che l'aveva colta quando si era resa conto che poteva agire come
una specie di faro, consentendo a Jan, o a chiunque altro, di percepire la
sua presenza. «Qualche ora in mare è la soluzione perfetta. Voglio dire,
quante possibilità ci sono che la stirpe magica viaggi su un traghetto? È lo
stesso motivo per cui non riesco a immaginare che Dass avesse un cara-
van.» E fece un largo sorriso.
David le lanciò un'occhiata in tralice, cogliendo la sua soddisfazione.
«Sembri quasi contenta di fare questo viaggio», commentò.
«Be', non mi piacciono molto le alternative», brontolò Susan. «Inoltre
sto attraversando uno di quei periodi irreali in cui la morte imminente per
mano di strumenti soprannaturali non mi appare come una cosa entusia-
smante. La vita reale non sembra molto reale in questo momento. Forse
sono solo... famelica.» Girò la testa verso la campagna, che scorreva velo-
ce. «La vuoi sapere una cosa davvero strana? Sono stata benissimo a casa
del professore... nonostante tutto. Avere troppe preoccupazioni è quasi
come non averne affatto.»
Nelle ore seguenti, chiacchierarono del più e del meno. Ogni tanto Susan
illustrava a David qualche brano che aveva letto nella collezione o che
aveva discusso col professore; altre volte parlavano di cose irrilevanti, po-
nendosi domande sulle specie di uccelli che vedevano librarsi in volo e
indugiare sopra le siepi che costeggiavano l'autostrada, pronti a scendere in
picchiata su qualsiasi cosa.
Dopo un po', David perse interesse. Accorgendosene, Susan chiese:
«Che c'è?»
Lui si riscosse dai suoi pensieri. «Come ha fatto Jan a uscire da quella
finestra dell'ufficio?» chiese di rimando, un po' impacciato. «Non è che...
Non è che può volare?»
Susan gli rivolse un sorriso gentile, come a dire che la risposta: «Avreb-
be potuto» non era affatto ridicola come suonava. «Non credo», rispose
tuttavia. «Non si parla di volo. Gli adepti possono sviluppare una specie di
energia frenante che sostiene parte del loro peso. Quindi sono in grado di
spiccare salti più potenti rispetto alle persone normali; un grande salto a
loro sembrerà piccolo. Tale energia, però, non è sufficiente a farli levitare.
A quanto pare, riescono a generare qualcosa di più potente, ma non è una
spinta, è più simile a quando si colpisce un oggetto con un martello. Non è
il genere di cosa che proveresti a usare su te stesso.»
David annuì, sollevato. «Il mio amico Banjo ha detto che i loro poteri
facevano pensare all'ultimo modello di coltellino svizzero.»
«Credo che sia così», approvò Susan. «Oppure si potrebbero paragonare
a un set di pesanti attrezzi sportivi che non sei obbligato a trascinarti in
giro.» Poi, contando sulle dita, elencò: «C'è uno scudo; c'è qualcosa che
sembra riscaldarsi o raffreddarsi; c'è un modo per scendere da una certa
altezza; c'è un kit di pronto soccorso e c'è un martello». Si fece pensierosa.
«Santo cielo, da dove credi che provenga? Pensi che qualcuno abbia mai
cercato di scoprire la fonte di questi poteri? Nella collezione non c'è nulla.
E non credo che sia semplicemente un aspetto naturale della fisica.» Guar-
dò David per avere una conferma o una smentita. «O no?» chiese.
«Non vedo come», replicò lui, incerto. «Non sono le capacità in sé... È
esattamente il tipo di cose che facevamo durante le lezioni di fisica, ma
non credo che il cervello umano si sia evoluto solo per diventare un tele-
comando delle forze della natura.» Si strinse nelle spalle. «Ma è poi possi-
bile applicare la logica a una cosa del genere? La logica 'ordinaria' ti di-
rebbe che tutta la faccenda è impossibile, no? In ogni modo, questo è l'e-
lenco completo dei poteri? Nessuna sgradevole sorpresa?»
«Sono troppi i documenti che concordano», rispose Susan. «Inoltre essi
combaciano con ciò che abbiamo visto. Credo che questo sia l'elenco com-
pleto. Solo i mistici folli possono fare di più e sembra che nessuno sia mai
riuscito a coinvolgere uno di questi personaggi in qualcosa di terreno...
come dare la caccia a noi, per esempio.»
David annuì, ma non replicò, e ancora una volta entrambi si chiusero nel
loro mondo interiore, lasciando che la conversazione scivolasse in un altro
periodo di silenzio finché qualche nuova idea non fosse venuta in mente
all'uno o all'altra.
A un certo punto, però, David lanciò uno sguardo in tralice a Susan e vi-
de che stava piangendo. Non mostrava altri segni di sofferenza e lui non
disse nulla. Dieci minuti dopo, le lacrime erano scomparse e lei sembrò di
nuovo di ottimo umore. Si mise a parlare delle autostrade americane e del-
le prelibatezze che si potevano consumare nei diners.
Si fermarono a fare benzina e a mangiare un panino, poi Susan dormì
per quasi tutto il resto del viaggio attraverso il Galles. Si svegliò poco pri-
ma di raggiungere il porto. David stava cercando un parcheggio per andare
ad acquistare i biglietti. Un edificio basso e lungo, di vetro e cemento, si
trovava proprio davanti a loro.
«Non ci metterò molto», disse David, facendo manovra per entrare in
uno dei posteggi. «Suona se hai bisogno di me», le suggerì allegramente,
indicando il clacson. Poi sganciò la cintura di sicurezza e uscì dall'auto.
Mentre David correva verso il vicino edificio, Susan si guardò intorno. Il
sole era già tramontato e si era alzato il vento. Qualche gabbiano volteg-
giava ancora in cielo, lasciandosi trasportare dalle imprevedibili folate.
Alle loro spalle c'era una vasta area di cemento armato, punteggiata da
segni arcani, pali della luce, transenne accatastate e file serpeggianti di
auto. Apparentemente incongrua, la sagoma mostruosa di una nave spicca-
va dietro tutto ciò, come se qualcuno avesse costruito l'imbarcazione ai
margini di un autoparcheggio considerandola una specie di attrazione turi-
stica. Del mare nessuna traccia.
Quando David fece ritorno, saltò in macchina in fretta e furia. L'aria
fredda irruppe nell'abitacolo per un paio di secondi e lui tirò su col naso.
Susan aveva il bavero del soprabito sollevato e le gambe ripiegate sul sedi-
le. Si raddrizzò.
«Bene. Siamo in perfetto orario», annunciò David. «Le navi sono terri-
bilmente in ritardo. Quella del pomeriggio non è ancora salpata perché il
mare era troppo mosso. Stanno facendo l'imbarco adesso e ho preso una
delle ultime tre cabine.»
Mise in moto la macchina e uscì dal parcheggio per mettersi in coda. Gli
ufficiali, ben coperti per contrastare il clima, agitavano mani e braccia,
come un corpo di ballo eschimese, allineando le auto mentre si avvicina-
vano alla nave e agendo in base a qualche piano tutt'altro che ovvio per
l'osservatore casuale.
Ci volle quasi un'ora prima che David e Susan riuscissero a lasciare la
Saab dietro di loro, tra le file serrate di veicoli che riempivano lo spazio
ristretto della stiva, avvolto in un crepuscolo permanente. Si unirono alla
folla che risaliva le scalette di metallo diretta verso i ponti passeggeri ben
illuminati.
Alcuni minuti dopo essersi lasciati la gente alle spalle, trovarono la loro
cabina, piccola ma graziosa. David chiuse la porta, poi si sedette sulla cuc-
cetta di destra, si sfilò gli stivali e, tutto vestito, si sdraiò.
Rumori in lontananza e la vaga sensazione di un peso che si spostava
suggerirono che erano partiti.
«Sembri esausto», commentò Susan, spegnendo la luce centrale e accen-
dendo un'applique sopra lo specchio.
«Ho solo bisogno di chiudere gli occhi per qualche minuto», borbottò
David nella penombra, le palpebre già abbassate.
«Spostati», gli disse lei, prima d'intrufolarsi accanto a lui nell'angusta
cuccetta. Premette le spalle contro il petto di David e lui la coprì col lembo
del suo pesante giaccone, distendendo il braccio lungo il fianco di Susan,
la mano appoggiata sull'anca. Lei gli prese la mano sinistra, la fece scivo-
lare sotto il giaccone e se la premette sul seno, posandovi sopra la propria.
«Dormi», disse.
Quando David si svegliò, si ritrovò da solo nella cuccetta. Susan era se-
duta a gambe incrociate sul pavimento, e gli dava la schiena. Teneva la
testa china e, nella luce fioca, non si capiva cosa stesse facendo. Indossava
ancora i jeans, ma si era tolta il maglioncino, ed era rimasta in canotta
bianca e reggiseno.
David si girò sulla cuccetta e, contorcendosi un poco, si sporse; la luce
dell'applique colpì il cerchio d'oro che Susan indossava sulla fronte ed evi-
denziò le gocce di sudore che le scendevano sul viso.
Osservando le spalle scoperte, scorse il profilo nitido dei muscoli com-
patti delle braccia e le fasce delineate sotto la pelle che si muovevano men-
tre lei cambiava leggermente postura. Dee aveva le proporzioni aggraziate
di una ballerina, ma Susan ne aveva lo straordinario tono muscolare. E,
sebbene i muscoli ben delineati non le dessero affatto un aspetto massic-
cio, Susan non avrebbe mai dato l'impressione di essere vulnerabile o fra-
gile, come talvolta accadeva con Dee.
Scivolò ancora un poco dalla cuccetta e sbirciò oltre la spalla di Susan.
Sul pavimento, davanti a sé, la giovane aveva posato un cerchio rosso di
plastica, arabescato e largo forse tre dita, protetto da un coperchio traspa-
rente di plastica rigida.
David comprese che si trattava di un giochino da quattro soldi: un minu-
scolo labirinto lungo il quale correva una pallina di metallo, sempre che il
disco venisse inclinato con una certa abilità.
Una goccia di sudore si staccò dal collo di Susan e prese a scivolarle tra
le scapole, seguendo la linea levigata della colonna vertebrale.
Distogliendo gli occhi dalla pelle imperlata di sudore, David riportò lo
sguardo sul giochino.
La pallina d'argento stava avanzando nel labirinto.
La mani di Susan erano ripiegate in grembo e il giochino era appoggiato
sul pavimento della cabina, nel suo piccolo spazio circolare. Eppure la
pallina continuava a percorrere il labirinto di plastica rossa.
David si rese conto altresì che Susan stava respirando a fondo e con un
certo sforzo.
Con la coda dell'occhio, lei si accorse dello sguardo di lui e, nello stesso
istante, la pallina si arrestò. «Ci vuole un sacco di concentrazione», sibilò.
«Accidenti, l'ho persa», esclamò subito dopo, ritornando a respirare nor-
malmente. Distolse lo sguardo dal gioco e lo alzò su David.
«Incredibile», commentò lui, meravigliato.
«Già, tra un paio d'anni spero di sfidare Jan a una partita di biliardino»,
commentò Susan, sarcastica. Svitò il tappo di una bottiglia d'acqua e ne
bevve un lungo sorso. Quindi porse la bottiglia a David.
«Grazie», disse lui, sedendosi sulla cuccetta.
«Ragazzi, è un lavoraccio», sbuffò Susan, asciugandosi la fronte sudata.
Poi si accorse che David stava fissando la Carlotta bagnata che aderiva al
suo corpo. «Ti piace?» scherzò, mettendosi in posa. Alzò un sopracciglio e
sorrise.
David scoppiò a ridere e per poco non si strozzò con l'acqua che stava
bevendo.
Susan si alzò con un movimento aggraziato. Poi si avvicinò alla cuccetta
e gli posò una mano sulla spalla. Prima che David si rendesse conto di ciò
che stava facendo, lei si chinò e premette la bocca, ancora umida, sulla sua.
Lo baciò con passione per un paio di secondi, dischiudendo le labbra e
accarezzandogli delicatamente la nuca con le dita. Quindi si staccò, con
un'aria estremamente soddisfatta. Ansimava leggermente. «Così va meglio,
eh?» disse in tono di sfida, guardandolo negli occhi.
David era sbigottito. «Mi sono perso qualcosa? La magia è forse una
specie di afrodisiaco? Non che abbia qualcosa da ridire. Puoi rifarlo quan-
do vuoi», esclamò, sottolineando le ultime due parole.
Susan sorrise. «Sai, potrebbe anche essere una sorta di eccitazione... Ve-
dremo come mi sento la prossima volta.» Poi lo guardò. «Quello», aggiun-
se, intendendo il bacio, «era per un'altra cosa, comunque. In fondo, domani
potremmo essere morti.» Pronunciò la frase distrattamente, come se fosse
persa in qualche reminiscenza.
«Oh», commentò David, un po' smontato. «Adesso capisco come il pen-
siero ti abbia eccitata...» ironizzò.
«Lo sai che cosa intendo», replicò Susan. «Perché preoccuparsi del futu-
ro? In questo momento sembra un po' accademico. Perché non cogliere
l'attimo fuggente?»
«Presumo che sia così», ribatté David, incerto se prenderlo come un va-
go insulto o no. Si sedette e appoggiò i piedi sul pavimento. Poi allungò
una mano per prendere uno stivale.
Ma quello scivolò via.
David trafisse Susan con lo sguardo. L'intensa concentrazione le aveva
irrigidito i lineamenti, spingendola a socchiudere la bocca. «Volevo solo
vedere se riuscivo a farlo», disse, rilassandosi e in tono di scusa.
«Cominci a spaventarmi», confessò David tra il serio e il faceto. Calzò
gli stivali, mentre lei si stiracchiava e si massaggiava la mascella come se
si fosse resa conto che i denti erano rimasti serrati troppo a lungo.
Ci fu un cambiamento nella direzione della nave. «Mi sa che siamo arri-
vati in porto», annunciò Susan, togliendosi il cerchio. Gli diede un buffetto
sulla guancia e si chiuse nel minuscolo bagno, aprendo la doccia. «Ci met-
to un secondo», gli disse.
David rovistò nelle tasche, tirandone fuori varie carte - che aveva com-
prato insieme coi biglietti -, mentre Susan si muoveva dall'altra parte della
paratia stagna. Il ticchettio smorzato della doccia ricordava il fragore di un
acquazzone su un tetto di lamiera.
Quando uscì dal bagno, indossava gli stessi indumenti, ma i capelli umi-
di erano annodati, gonfi e piuttosto ribelli. «Dovremo andare di nuovo a
comprarci qualche abito», borbottò. «Altrimenti chiunque abbia un olfatto
normale saprà dove sono.» Si sedette sulla cuccetta di fronte a David, che
stava studiando una cartina. «Sarebbe un bel viaggio, se non fosse nel cuo-
re della notte», commentò.
Un trillo catturò la loro attenzione. A Susan ci volle qualche istante per
capire che era il suo cellulare. Lo tirò fuori dalla borsa e vide il simbolo di
un messaggio vocale. «Uhm...» mugugnò, pensierosa, e premette il tasto
per ascoltarlo. Dopo un paio di secondi, però, si staccò il cellulare dall'o-
recchio, premette il tasto per riascoltare il messaggio dall'inizio e si sedette
accanto a David, allungando il telefono in mezzo a loro e alzando il volu-
me del minuscolo altoparlante.
Dopo l'annuncio della voce registrata, si sentì una voce maschile. L'uo-
mo aveva un accento simile a quello di un capitano della RAF in un vec-
chio film di guerra. Sembrava preoccupato dalla piega che la battaglia sta-
va prendendo. «Ritengo che lei sia in grado d'indovinare chi sono», esordì
la voce in tono gradevole, ma senza entusiasmo. Poi, come se riprendesse
una precedente conversazione, continuò: «La gente parla di violenza come
se ci fosse poco da scegliere. Però è come prendersi gioco della vita. Tutti
vogliamo cose diverse, quindi è ovvio che ci si possa opporre a qualcosa;
ed è altrettanto ovvio che tale opposizione può trasformarsi in qualcosa di
sgradevole. Tuttavia a me sembra che ci sia un abisso tra uno scontro one-
sto e l'idea di fare arbitrariamente del male a un prigioniero indifeso». La
sua voce assunse un tono seducente, sulla falsariga di quelle che si sentono
negli spot di assicurazioni sulla vita. «La tortura, invece, è soltanto l'area
di competenza di chiunque abbia uno stomaco forte e l'accesso a una cas-
setta degli attrezzi.» La voce si smorzò, come se l'uomo fosse disorientato.
«No, è un pensiero orribile, sul serio. Non riesco a vedervi nessuna soddi-
sfazione.» Sospirò. «Ma senti un po' cosa dico... Come se non mi fossi
fatto strada attraverso mezzo continente massacrando persone.» Sospirò di
nuovo, divertito, poi si schiarì la gola. «Comunque il motivo per cui ho
chiamato è questo: se non vuole riavere sua sorella pezzo per pezzo, la
soluzione è consegnarmi i documenti che voglio.» Di nuovo la voce sua-
dente. «Mi chiami sul cellulare di sua sorella in qualsiasi momento. Lo
custodirò io per lei.»
Né David né Susan si mossero o parlarono mentre la voce registrata
snocciolava le varie opzioni per memorizzare o cancellare il messaggio. La
voce stava elencando una seconda serie di opzioni - evidentemente riserva-
te a coloro che non si facevano tentare dal menu standard -, quando Susan
si riscosse dai suoi tetri pensieri e premette il tasto di fine chiamata.
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Quando Susan era uscita dal bagno, entrambi avevano riso, ma l'allegria
non durò a lungo. Si avvicinava il momento di chiamare Jan e qualsiasi
tentativo di fare battute scherzose risultò falso.
Il buonumore di Susan si dissolse. La giovane donna era riuscita a na-
scondersi dietro una maschera di allegria quasi sfacciata soltanto sforzan-
dosi di non pensare a Dee e a ciò che probabilmente stava passando. Ormai
incapace di allontanare quel pensiero dalla mente, provò a chiedere a Da-
vid a quali condizioni avrebbero potuto riottenere la sorella... Però scoprì
di non riuscire a formulare la domanda con chiarezza.
Da ciò che riuscì a farfugliare, David indovinò qual era la richiesta ed
espresse la sua opinione. A quel punto - sostenne - a Jan non conveniva far
del male a Dee. Anzi, giacché dovevano spostarsi, era meglio per lui che
Dee fosse in buona salute. Il pericolo ci sarebbe stato soltanto se lui avesse
percepito una mancanza di collaborazione da parte loro. Ma, dal momento
che il loro piano prevedeva una condiscendenza assoluta, l'ipotetico feri-
mento di Dee avrebbe messo a repentaglio quella collaborazione.
Susan non era del tutto convinta, ma le parole di David la confortarono.
Si concesse un paio di minuti per ricomporsi, poi prese il suo cellulare e
digitò il numero.
«Pronto?» rispose la voce raffinata all'altro capo della linea. «Con chi ho
il piacere di parlare?»
«Sono la sorella di Dee», rispose asciutta Susan.
«Ah, la sorella maggiore», replicò l'altro, con voce impostata. «Ma
guarda un po' che ore sono. Deve essersi nascosta proprio bene, se ci ha
messo così tanto a richiamarmi. Mi stavo chiedendo dove fosse finita. Mi
vedevo già costretto ad alzare la posta.»
«Che cos'ha fatto a Dee?» tagliò corto Susan. «Voglio parlare con lei.»
Il buonumore di Jan sembrò smorzarsi. «Sì, a questo ci arriviamo tra po-
co. Sono sicuro che ha visto un numero sufficiente di telefilm per avere
un'idea di come vanno le cose. Prima ci mettiamo d'accordo, poi lei parla
con sua sorella, dopodiché lei concluderà lanciandomi qualche vuota mi-
naccia in merito a quello che mi farà se dovessi sfiorarla. Giusto?»
Susan non replicò.
«Tacito assenso, presumo», continuò allora Jan. «Molto bene. Ecco la
prima domanda: è disposta a consegnarmi i documenti che voglio?»
Susan esitò. «A certe condizioni», rispose infine.
«Ah, senti, senti, senti», la schernì Jan. «Adesso avanziamo anche delle
richieste. Sì o no? Sono sicuro che la nostra Dorothy si augura che lei dia
la risposta giusta.»
«Sì», ribatté Susan a denti stretti.
«È sicura? Splendido. Dorothy mi sembra sollevata. Ha una penna? Le
spiego che cosa faremo.»
«No», fu la risposta recisa di Susan.
«Scusi? No, non ha una penna?»
«No, non voglio sapere qual è il suo piano. Non mi fido di lei.»
Jan parve riflettere. «Suppongo che la fiducia sia un bene raro. Voglia-
mo chiedere a Dorothy che cosa dovrebbe fare, secondo lei?»
A Susan si mozzò il respiro in gola. «Per favore, ascolti ciò che ho da
dirle...»
Ci fu una pausa. «D'accordo. Mi dica», concesse Jan.
«Lei non è stupido. Se le consegno semplicemente la collezione, non ha
motivo di lasciare andare me o Dee. E lei è riuscito a fuggire quand'è stato
arrestato. Dobbiamo incontrarci in un posto dove non possa farci del male;
poi deve garantirmi che lascerà il Paese subito dopo.»
«Capisco», fu il commento di Jan. «Ma lei, che scelta ha? Qui c'è Do-
rothy, una delle creature più fragili che io abbia mai visto. Pensi a ciò che
potrei farle se lei non dovesse collaborare. Provi a pensarci.» E diede l'im-
pressione che avrebbe fatto qualcosa in quel preciso istante.
«No, per favore, non lo faccia», lo supplicò Susan. «Non le faccia del
male. Le chiedo solo di ascoltarmi.» Vedendo che non rispondeva, prose-
guì: «Mi dice che ci lascerà andare, una volta ottenuto ciò che vuole, poi
mi fa intendere quanto sia facile per lei far del male a mia sorella... ed esi-
ge che io le dia fiducia. Mi deve dare un buon motivo per credere che non
ucciderà entrambe. In caso contrario, invece di concedermi la possibilità di
salvarla, mi offre solo l'opportunità di morire con lei». Susan aveva parlato
con voce incrinata, sull'orlo del pianto. Di nuovo, Jan non proferì parola,
ma era ancora in ascolto. «Se lei mi assicura che non le farà del male; se
accetta d'incontrarmi in un posto dove sarò protetta; se accetta di lasciare il
Paese non appena avrà avuto ciò che vuole... allora le consegnerò la colle-
zione. Però non mi chieda di commettere un suicidio che non aiuterebbe di
certo Dee.»
«Qual è la sua proposta?» Il tono lasciava trapelare tutta l'ira di Jan e an-
che la sua pericolosità.
«C'incontriamo in un aeroporto... nella zona partenze», spiegò Susan con
calma. «Lei verrà senza bagaglio a mano e io la osserverò mentre passa
sotto il metal detector. Quindi niente trucchi né armi.» Era una delle cose
su cui Susan e David si erano detti d'accordo. Susan non avrebbe rivelato
che credeva nella magia. Inoltre non avrebbe parlato di David. «Stamperò
una copia della collezione e la terrò pronta per lei. Se cerca di sottrarmela
o se si presenta senza Dee, la distruggerò. Utilizzerò una carta solubile in
acqua, quindi dovrà prestare attenzione a come la maneggia.»
«Vada avanti», la invitò Jan, di nuovo allegro, quasi divertito.
«Una volta che avremo fatto lo scambio, prenderò Dee con me e c'im-
barcheremo su un aereo. Lei partirà sul suo e non tornerà più indietro; ci
lascerà proseguire la nostra esistenza.» Fece una pausa, quindi riprese:
«Dovrà acquistare un biglietto aereo per Dee e avrà bisogno del suo passa-
porto, che lascerò al banco informazioni».
«Molto bene», ridacchiò Jan. «Mi è permesso dare un suggerimento? Ho
capito; se voglio che lei rischi di rompersi l'osso del collo, allora devo ras-
sicurarla in qualche modo. Potrei darle la mia parola che l'unica cosa che
voglio è la collezione, ma, a quanto ho capito, non si lascerebbe convince-
re. Io non mi farò neanche vedere. Manderò una persona innocua: la mia
amichetta Sati. Ha quasi diciannove anni ed è magra come un chiodo. Sarà
alle spalle di Dorothy. Le dirò d'indossare qualcosa di poco pratico per
nascondere armi.»
Susan non riuscì a ribattere.
«Io lascerò comunque il Paese», continuò Jan. «Questo si adatta perfet-
tamente ai miei piani... Tuttavia la piccola Sati deve restare qui. Che ne
pensa di un volo interno? Sarà più semplice per voi tornare a casa. Oppure
potreste scegliere il treno, così da non perdere tempo coi passaporti. La
mia assistente sceglierà una destinazione più lontana, diciamo Aberdeen,
mentre sua sorella e lei ne sceglierete una più vicina. Che ne dice?»
«Io...» Susan era incerta. «Credo che possa andare», rispose infine, scet-
tica.
«È tutto ciò che ha chiesto lei e anche di più. Domani ho un paio di cose
da fare...» Tossì e si schiarì di nuovo la gola. «Però mercoledì sarà perfetto
e avremo tutto il tempo per organizzarci.»
«E lei non si presenterà nemmeno?» chiese Susan.
«Non sarò neppure nei paraggi. Se avesse dei sospetti, lei potrebbe di-
struggere la collezione. Non ci sarò, glielo prometto. Va bene?»
Susan esitò per qualche secondo, poi disse semplicemente: «Sì».
«Bene, facciamo alle due del pomeriggio, al terminal nord di Gatwick?»
suggerì Jan. «Ah, presumo che voglia scambiare due parole con sua sorel-
la. Non si allarmi, ma è meglio per tutti se Dorothy ricorda il meno possi-
bile di questa ordalia. Le ho dato del Valium. Sono sicuro che non avrebbe
voluto sentirla terrorizzata.»
Ci fu una pausa, poi la voce di Dee disse: «Pronto?» Sembrava stordita.
Susan si portò una mano alla bocca. «Dee, sono Susan. Stai tranquilla,
sistemeremo tutto.»
«Susie? Sei proprio tu?» biascicò Dee.
«Sì, sono Susan. Dee, stai bene? Come ti senti?»
«Sì... bene», rispose l'altra, ma la sua confusione era evidente. «Sono un
po' assonnata.»
Jan tornò all'apparecchio. «Mi faccia sapere se c'è qualcos'altro che pos-
so fare per lei.» E riagganciò.
Susan posò il cellulare e si girò verso David con gli occhi pieni di lacri-
me. «Penso che Dee stia bene e che lui abbia intenzione di restituircela»,
disse dopo qualche istante.
David le si avvicinò e la strinse tra le braccia. Restarono abbracciati a
lungo.
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Un'ora e mezzo più tardi erano in volo. Dee era seduta accanto al fine-
strino, ancora insonnolita e poco incline a parlare, ma non più indifferente
e inebetita come prima. Susan aveva preso posto al centro e David di lato.
Quando la spia luminosa della cintura di sicurezza si spense, Susan si ri-
volse a David. «Mi sono persa qualcosa? Ce l'abbiamo fatta? Abbiamo
messo la parola fine?»
«Hai trattenuto il respiro per circa due ore, vero?» ribatté lui.
Lei gli rivolse un sorriso nervoso. «Sì», ammise.
«Bene», disse David. «A quanto sembra, tu, io e Dee siamo tutti interi.
Penso che sia incoraggiante.»
«Credi che non corra pericoli se lascio andare il fiato?»
Lui le prese la mano e annuì.
«Grazie», gli disse Susan. «Voglio che tu sappia una cosa. Mi sono resa
conto che per te non è stato facile lasciarmi organizzare tutto, limitandoti a
seguirmi, e apprezzo veramente il tuo sforzo.»
«Hai pensato a tutto e hai organizzato un buon piano», ribatté David a
mo' di spiegazione. «Un piano buono almeno come quello che avrei potuto
organizzare a mia volta. Io...»
«Cosa?» chiese Susan sorridendo, incoraggiandolo a continuare.
«Ecco, speravo che potessimo parlare di questa cosa», rispose lui.
«Di cosa? Non mi viene in mente nulla da dire, tranne 'grazie'», replicò
lei.
Con estrema cautela, David aggiunse: «Intendevo dire: perché era... così
importante quella faccenda della fiducia?» Fece una pausa. «Lo so che
questo non è il momento più adatto, ma è l'occasione migliore da non so
quanto tempo, e ho bisogno di parlare di questa cosa preferibilmente ades-
so e non dopo.»
Susan era a disagio, ma non lo interruppe.
David trasse un respiro. «Susan, lo sento che provi dei sentimenti per
me, checché tu ne dica. E io, ecco, be', spero che tu sappia ciò che provo
per te, quanto mi stai a cuore.» Sorrise. «Voglio solo... sistemare questa
faccenda... qualunque cosa ci sia... qualunque cosa ci sia tra noi che non va
bene.» Finalmente affrontò il nocciolo della questione. «Spero che tu sia
arrivata al punto in cui senti di poterti fidare di me.»
Il volto di Susan tradiva l'imbarazzo. Lei si agitò sulla poltrona mentre
ponderava quelle parole. «Non è così semplice», disse poi.
«Certo, va bene. Ma è proprio questo il motivo per cui voglio parlarne.»
«Vuoi veramente parlarne adesso?» Non era infastidita, ma si capiva che
avrebbe preferito rimandare.
«Non ti sembra che io abbia fatto abbastanza, che io abbia dimostrato di
essere disposto a rischiare quasi tutto, per meritarmi di saperlo?» Aveva
parlato a voce bassa, con delicatezza, ma nelle sue parole c'era una richie-
sta pressante.
«D'accordo», si arrese lei. «Se sei sicuro di voler fare questa conversa-
zione...» Non avrebbe voluto parlare, ma s'impose di farlo prima che le
forze la abbandonassero. «Non è tanto una questione di fidarmi di te oppu-
re no; il fatto è che sei tu a non fidarti di me... almeno non nel modo in cui
io vorrei.» La sua voce si addolcì. «Non ti biasimo per questo. Sei fatto
così e basta. Non rientra nella tua natura lasciare che qualcun altro ti dica
come prendere le tue decisioni... Secondo te, nessuno capisce veramente
ciò che ti frulla nella testa. Se ti sforzi ce la fai, ma è una faticaccia e, ogni
volta in cui ti senti sotto pressione, torni al tuo vecchio schema: pensi e
agisci a modo tuo... cercando l'aiuto degli altri, ma senza consultarli pri-
ma.» Gli posò una mano sul braccio. «Credo che tu abbia capito che non ti
sto criticando, vero? È semplicemente il modo in cui sei fatto. E, per come
sono fatta io, non riesco a sopportarlo. Scommetto che ci sono decine di
ragazze che vorrebbero che ti prendessi cura di loro, che decidessi per loro,
ma io non sono una di quelle. Non posso.»
David cercò di replicare. «Io non... Veramente non ho...»
«Ecco perché mi sono arrabbiata tanto ogni volta che hai preso l'iniziati-
va senza dirmelo», proseguì Susan. «È vero, in alcune occasioni hai agito
anche in modo irresponsabile, ma più che altro m'innervosivo perché il tuo
comportamento mi ricordava che avevo due scelte, entrambe spregevoli:
lasciare che tu mi conquistassi oppure respingerti. Ciò che non riuscivo ad
avere, e di cui ho bisogno, è una relazione paritaria. Non ho bisogno di
protezione, non se ciò significa arrendermi, rinunciare a me stessa. È ciò
che ha fatto mia madre... e non ha funzionato. Ha lasciato che fosse mio
padre a decidere per lei e questo l'ha resa infelice. Era l'unico modo in cui
poteva stare con lui, ma non era il modo giusto. Quando rifletto su ciò che
le ha fatto, mi rendo conto che preferisco stare da sola.» Era sull'orlo del
pianto.
David si stava sforzando di articolare la sua risposta. Voleva cancellare
ciò che lei aveva detto, voleva dimostrarne la falsità. «Non è vero», escla-
mò. «Cioè... È vero che mi sono comportato così in passato, ma non è un
atteggiamento immutabile. Provo più rispetto per te che per qualsiasi altra
persona e, quando si è trattato di riportare indietro Dee, ti ho lasciato fare a
modo tuo, vero? Non ho espresso neanche una lamentela...»
Susan annuì. «E la cosa ti ha quasi ucciso», commentò. «L'ho visto. Ec-
co perché ti sono così grata di averlo fatto ugualmente.»
«Ti sbagli, Susan», insistette David. «Va bene, la cosa mi ha irritato un
po', e presumo che tu abbia ragione quando dici che mai prima d'ora mi ero
affidato a una persona come in questa occasione. Hai capito perfettamente
come sono fatto: non mi piace che qualcuno sappia cosa penso veramente.
Ma con te è diverso. Io mi fido di te. La prima volta forse è stato difficile,
però lo rifarei. Non hai bisogno di arrenderti a me. Non hai bisogno di
cambiare. Mi piaci così come sei.» All'improvviso parve vulnerabile, im-
pacciato, poi si fece forza e, con un timbro di voce strano, aggiunse: «O,
per essere un po' più preciso, ti amo come sei».
Adesso Susan stava piangendo sommessamente... non perché fosse ad-
dolorata, ma perché era troppo commossa per non piangere. «Voglio cre-
derti. Voglio crederti più di qualsiasi altra cosa. Sto facendo del mio me-
glio, ma tu devi capire chi sono.» Alzò lo sguardo su Dee che si stava sti-
racchiando nel sonno, cambiando posizione. Susan abbassò la voce.
«Quand'eravamo piccole, i miei genitori non facevano che spronarmi. Era-
no contenti solo se ottenevo un risultato. Dee, invece... Ah, lei poteva esse-
re semplicemente se stessa, esistere: era sufficiente. Ovunque andasse,
trovava amici. Non doveva fare nulla di particolare, era semplicemente se
stessa e la gente reagiva positivamente. Io non sono mai stata così. Se non
m'impegno al massimo non sono soddisfatta, non sono soddisfatta di me
stessa, non mi sento... amata. Non sono sicura di essere amabile finché non
mi dedico a qualche attività che so fare bene. Non sono una di quelle per-
sone che la gente adora per come sono. Se sono speciale in qualche modo
è soltanto grazie a ciò che sono in grado di fare. Ecco perché non posso
seguire le orme di mia madre. Spesso vorrei essere come Dee, ma non lo
sono.»
Susan tacque. Poi si rese conto che, dalla poltrona accanto alla sua, pro-
veniva un rumore. Si girò completamente e vide che Dee era sveglia e sta-
va ridendo. Una risata sommessa, eppure profonda... viscerale, che le scuo-
teva tutto il corpo. «Dee?» la chiamò, preoccupata. «Stai bene?»
«Quattro anni e diecimila dollari», esclamò la ragazza. Rise ancora, co-
me se non riuscisse a frenarsi.
David e Susan la fissarono, confusi... Sollevati che si fosse svegliata e
stesse parlando, ma sconcertati dal suo comportamento.
Riacquistando il controllo, Dee cercò di spiegarsi. «Sono andata da uno
psicologo ogni settimana per quattro anni per parlare di quanto mi sentivo
affascinante e amabile. Quante ore fanno? Non lo so. Però mai, neanche
una volta, mi è venuto in mente che quella fortunata fossi io.» Si raddrizzò,
fissando Susan. «Hai ragione. Mamma e papà non mi hanno mai reso la
vita difficile; non si lamentavano dei miei voti, non mi tormentavano se
non imparavo cose nuove, se non venivo scelta nella squadra della scuola.
Anzi non si lamentavano proprio di nulla, qualunque cosa facessi; non
avevano da ridire se stavo fuori fino a tardi o sulla gente che frequentavo.
Verso la fine, poco prima che me ne andassi di casa, avevo deciso di farmi
notare, di distogliere la loro attenzione da te almeno per qualche secondo.
E sai una cosa? Non ci sono riuscita. Così me ne sono andata. Li ho lascia-
ti con la loro figlia perfetta, quella di cui si preoccupavano tanto.» Scoppiò
di nuovo a ridere. «E indovina un po'! Anche tu non ti sei sentita amata.
Quella che ha ricevuto ogni secondo dell'attenzione della mamma ogni
giorno di ogni settimana; anche tu non ti sei sentita amata.»
Susan era sconvolta. «Non l'ho mai saputo...»
Dee si strinse nelle spalle. «Be', presumo che non sia un genere di di-
scorso che si fa tutti i giorni. 'Non ti senti amata? Ehi, nemmeno io, sorel-
lina'.» Fece una pausa, poi proseguì: «Sono andata a parlare di questo con
la mamma, l'anno scorso. Il mio psicologo riteneva che mi avrebbe fatto
bene. E forse è stato così. Non ha modificato il modo in cui mi sento, tut-
tavia non le porto più rancore. Be', sai cosa mi ha detto? Mi ha fatto sede-
re, come se fossi tornata bambina, e mi ha confidato: 'Ma, Dorothy, tesoro,
tuo padre e io abbiamo deciso di non trattarvi nello stesso modo perché
non eravate uguali. Io sono cresciuta cercando di essere una brava figlia,
proprio come tuo padre ha cercato di essere un bravo figlio. Non aveva
importanza chi volevamo essere, ci si aspettava da noi che ci comportas-
simo in una certa maniera e venivamo trattati di conseguenza. Tuo padre e
io ci eravamo ripromessi che tu e Susan sareste state educate in modo di-
verso. Avremmo riconosciuto che eravate due individui, ciascuno con la
propria personalità e qualità, e che vi avremmo incoraggiato a sviluppare
tali qualità e non a soffocarle, obbligandovi a conformarvi col resto del
mondo. Non ti abbiamo mai spronato come Susan perché avevamo capito
che avevi già tutto quello che ti occorreva per farcela nella vita. Invece
eravamo preoccupati che Susan non ce l'avrebbe fatta se non fosse stata
spiata ed eravamo convinti che, se non avesse sfruttato il suo potenziale, si
sarebbe sentita infelice'».
Susan stava tirando su col naso. «Ha detto così?»
«Forse non sono proprio le parole esatte, ma ci siamo vicini. Anche se
non fossi una giornalista, ricorderei comunque quella conversazione.»
«Ho sempre pensato che vivesse attraverso di me, che mi facesse fare
tutte le cose alle quali aveva rinunciato e che rimpiangeva», ammise Su-
san.
«Chissà? Ma ti posso dire ciò in cui crede, perché nei suoi occhi ho letto
la sincerità delle sue parole. Lei è convinta di averti spronato perché sape-
va come ci si sente a non essere stimolati, a non riuscire a realizzarsi, ed
era decisa a risparmiarti questo dolore.»
Ormai Susan stava piangendo senza più remore e Dee si lasciò contagia-
re. Poi le due sorelle si abbracciarono.
«Gesù» sbottò David a quel punto, fingendosi disgustato. «Siamo in
Gran Bretagna. Non siete più nel Paese dei collettivi di autocoscienza.»
«Sta' zitto», singhiozzò Susan e, allungando un braccio, lo tirò a sé in
modo che tutti e tre fossero vicini.
Rimasero così per quasi un minuto, con Dee e Susan che tiravano su col
naso e singhiozzavano sommessamente. Dopo pochi istanti, David cedette.
Si sciolsero dall'abbraccio solo quando una hostess si fermò accanto a loro,
chiedendo se era tutto a posto.
David si liberò dalla stretta e disse: «Una festa di famiglia», indicando le
due donne in lacrime, ancora abbracciate. «Non è che per caso avete una
bottiglia di champagne?»
«Certo, signore. Vado a vedere cosa abbiamo», rispose la hostess, allon-
tanandosi in fretta.
«Non per me», annunciò Dee, lasciando andare Susan e stringendosi la
testa fra le mani. «Mi sento peggio del mattino dopo il mio ventunesimo
compleanno. Voi due festeggiate il mio ritorno anche per me. E magari,
quando avete finito, potete raccontarmi cos'è successo mentre ero impe-
gnata nella mia vacanza farmacologica. Nulla di questi ultimi giorni ha
senso per me e... Oddio!» Susan e David si girarono di scatto per capire
cosa l'avesse allarmata tanto. Dee stava fissando i suoi jeans sudici. «Ma
che diavolo ho indosso?» esclamò.
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a: dee_milton@atlanticmagazines.com
da: zorro_lil_sis@hotmail.com
Cara Dee,
è molto carino da parte tua, ma sono sicura che qualsiasi sorella maggio-
re avrebbe fatto lo stesso. E, naturalmente, continuo a pensare che, in pri-
mo luogo, non saresti mai stata coinvolta in tutto questo se non fosse stato
per colpa mia. Comunque sia, grazie. Anch'io sono orgogliosa di te.
La priorità maggiore è sistemare questa faccenda dei messaggi crittogra-
fati. David c'è riuscito con le sue e-mail, quindi non possiamo permettere
che ci faccia fare brutta figura. Vorrei evitare che i tecnici informatici che
lavorano da te leggano alcune cose. T'invierò un paio di link per aiutarti a
risolvere la cosa.
A parte questo, credo che mamma e papà possano smettere di preoccu-
parsi per noi. Se riusciamo a sopravvivere a questa ordalia, allora la loro
educazione non può essere stata così disastrosa. Penso che li chiamerò tra
qualche giorno, quindi sarà meglio che ci mettiamo d'accordo su cosa rac-
contare... mi sa che non sono pronti per la versione «hard».
E, oddio, non posso credere che esci con Petey. Non che la cosa mi sor-
prenda. È una specie di principe, quando arrivi a conoscerlo... come pre-
sumo tu abbia fatto. Sfortunatamente per te, uscire con lui significa lascia-
re che Lincoln dorma a casa tua e ti saccheggi il frigorifero. Il che è un pò '
come cercare di tenere un rinoceronte come animale domestico. Saranno
dolenti note per i tuoi conti della spesa.
È strano pensare che, con tutta probabilità, non avresti conosciuto Petey
se non fosse accaduto tutto questo. Lo so che non rende positiva l'espe-
rienza - dev'essere stato tremendo per te -, ma io guardo David e mi chiedo
se ci saremmo mai messi insieme in circostanze normali. Dopo quello che
abbiamo passato, non riesco a immaginare di non avere fiducia in lui... o di
perdere tempo a chiedermi se mi ama o no. Intendo dire che era disposto
ad andare sino in fondo pur di salvarmi. Rifiorisce di giorno in giorno.
In altre parole, sto dicendo che ci sono almeno un paio di cose consolan-
ti in questa faccenda. Inoltre Petey può farti veramente conoscere «la stra-
da» (è così che si dice?) come facevi a Chicago. Può farti entrare in locali
di cui non avresti mai sospettato l'esistenza. Bada solo a non indossare le
tue scarpe migliori.
Se credo che papà farà qualche battuta idiota quando scoprirà che hai un
fidanzato di colore? Spero proprio che abbia abbandonato quelle sue idee
antiquate. So che mamma non ci farà neanche caso. E semmai te lo stessi
chiedendo, non ho mai avuto una storia né con lui né con Lincoln. In real-
tà, quando li ho conosciuti, pensavo che filassero insieme. Non dire loro
che te l'ho detto.
In ogni modo, staremo qui per un po'. Né io né David abbiamo fretta di
tornare a casa... ovunque essa si trovi. Tra non molto dovrebbero arrivare
l'amico di David, Banjo (devo scoprire qual è il suo vero nome... presumo
che non sia stato battezzato così) e la sua ragazza. Magari potreste venire
anche tu e Petey. Purtroppo qui non c'è assolutamente nulla da fare, ma per
una volta credo che riuscirai a reggere la cosa. A proposito, i viaggi in ae-
reo sono il mio passatempo... ma ti spiegherò meglio quando useremo la
nostra chiave privata. Mandami presto tue notizie.
Baci,
Susan
P.S. Se tu e Petey decidete di venire, fareste meglio a invitare anche
Lincoln. Se lo lasciate solo, non si darà pace e finirà col fare a pezzi i mo-
bili.
a: worldofbanjo@hotmail.com
da: secretsquirrel@euromail.com
chiave: pgp 8.0.2 freeware for macintosh
Caro Banjo,
sono contento di sapere che Melissa si illude ancora che tu sia un buon
partito (! ) Che possa durare a lungo.
Mi hanno detto che sei venuto a trovarmi quand'ero dall'altra parte, e mi
sa che non sono stato di molta compagnia. Ero ancora nel mondo delle
fate. E, quando ho cominciato a rendermi conto di quel che stava succe-
dendo, Susan ha deciso di rapirmi.
Alla fine ho afferrato il senso di quel tuo piccolo rompicapo Zen in me-
rito a Susan che voleva il mio aiuto. Sembra che io sia riuscito a capirlo
giusto in tempo... anche se ce l'ho fatta per un pelo.
Dopo aver escogitato un piano per soccorrerla - un piano in cui lei dove-
va assumersi la sua parte -, non credo che Susan possa pretendere una pro-
va maggiore della mia disponibilità a condividere con lei le grandi deci-
sioni della vita. Qualcuno lo avrebbe considerato un piano approssimativo,
ma io ho pensato: «Rimettila in piedi, dalle la possibilità di avere una ma-
no libera e troverà il modo di sistemare la faccenda». E, come volevasi
dimostrare, l'ha strapazzato per bene.
Se non fossi svenuto (e vedi di tenertelo per te), credo che sarebbe riu-
scita a ucciderlo. Da una parte, tuttavia, sono contento che non abbia que-
sto peso sulla coscienza. Non che lui non se lo meritasse, ma ho l'impres-
sione che sarebbe stato comunque un trauma.
Quand'è arrivato il momento critico, non è stato poi così difficile fidarmi
di lei come pensavo. Credo che il fatto di trovare la persona giusta aiuti
parecchio. O forse ero pronto. Chi lo sa.
In ogni modo, dopo averle addossato la responsabilità parziale del salva-
taggio, probabilmente Susan inizierà a lamentarsi del fatto che io non mi
assumo le mie responsabilità.
No, sto scherzando. È stata una santa a prendersi cura di me. Mi ha tirato
fuori da quell'ospedale quand'ero ancora in uno stato assai precario. Non
avevano ancora finito di spiegarmi che in pratica la mia mano era spaccia-
ta, anche se l'avevano detto a lei. Probabilmente credevano che fosse uscita
di testa: trascinarmi fuori di lì mentre ero ancora a un passo dalla morte...
Però, col mio consenso, non potevano impedirglielo. E, naturalmente, ave-
va in mente un rimedio più efficace.
L'altro problema era farmi salire su un aereo mentre ero mezzo morto.
Infatti neanche il suo braccio rotto era guarito; ma è stata irremovibile sul
fatto che voleva raggiungere un posto sicuro e tranquillo prima di sotto-
porci a quella strampalata tecnica occulta di guarigione. Il volo per Atene,
in effetti, è stato piuttosto divertente, in senso macabro, intendo dire. I
punti che mi avevano dato hanno cominciato a saltare via a metà viaggio
ed eravamo sicuri che ci avrebbero fermato alla dogana perché lasciavamo
pozze di sangue sul pavimento . A quel punto, avrebbero chiesto spiega-
zioni su quello che Susan portava in giro nella borsa (maggiori particolari
tra poco). Ma ce l'abbiamo fatta.
Devo ammettere che quest'isola è un paradiso. Qui ci vivono circa trenta
persone. Ci sono due bar e due ristoranti, tutti dalle parti del molo. Poi ci
sono una chiesa, ma senza prete, e qualche casa. Noi stiamo in cima alla
collina, da dove si gode una vista spettacolare del mare.
Mentre scrivo questo messaggio vedo Susan dalla finestra. Ha il suo uli-
vo, sotto il quale si siede, e un libro. Purtroppo nessuna capra, ma non la
considero una grande perdita. E questo messaggio lo sto digitando con due
mani dopo soltanto quindici giorni. Avresti dovuto vedere com'era concia-
to il mio polso quando abbiamo tolto le bende. Uno spettacolo sufficiente
per trasformarti in vegetariano avita. Che macello! Adesso ho solo alcuni
bitorzoli intorno alla ferita e mi sta ricrescendo la pelle nuova, tutta rosa.
Ha ancora un aspetto strano, ma funziona e non fa neanche male! Anche il
buco nel fianco sta guarendo.
Abbiamo impiegato un paio di giorni a capire come funzionava la trance
di guarigione. Usando semplicemente la magia si guarisce rapidamente,
ma c'è una tecnica accelerata cui puoi ricorrere se sai quello che fai e hai
fretta.
Secondo Susan, infatti, è proprio quello che ha fatto Jan per tutta la sera
prima che c'incontrassimo per lo scambio. A quanto pare, doveva trascor-
rere ore intere ogni giorno per curarsi, ma la sua è stata ovviamente una
battaglia persa. Forse era molto più vecchio di quanto pensassimo. O ma-
gari si trattava di un fattore genetico... Forse, se avesse condotto un'esi-
stenza normale, sarebbe morto a quarant'anni.
Comunque, se non mi avesse comunicato con un certo anticipo il luogo
dell'appuntamento, sarei stato fregato . Non sarei riuscito a nascondere
nulla laggiù ( anche se dio solo sa quanta fatica ho fatto a convincerli che
non si trattava di una bomba né di droga). Ma lui aveva bisogno di trascor-
rere qualche ora in trance per prepararsi all'incontro, quindi mi ha chiama-
to parecchie ore prima. È sorprendente come i piccoli dettagli possano fare
una grande differenza. Se mi avesse chiamato all'ultimo momento, adesso
forse non sarei qui. (Non ci sarei comunque, ovvio, senza l'intervento del
professore. ) O forse non tutto è dipeso da quella telefonata. Come dice
Susan, magari avremmo trovato un'altra soluzione.
Devo anche scusarmi per averti aizzato contro (si dice così? ) Ham-
mond. Avevo bisogno di un nome e di un indirizzo in Gran Bretagna da
dargli in caso volesse contattarci. Lo so che è una testa dura, ma saremmo
ancora alle prese con un sacco di noie se non lo avessimo coinvolto. È sta-
to di grande aiuto il fatto che Dass fosse italiano, perché Hammond ha
pensato immediatamente alla mafia (esiste ancora? ) e Susan è riuscita a
raccontargli una storia che conteneva un numero sorprendente di fatti reali.
Abbiamo tralasciato il rapimento di Dee perché lui detesta la risoluzione
fai-da-te dei crimini, ma lo abbiamo informato del rapimento di Susan, il
cui riscatto consisteva nella collezione. Inoltre lei ha giustificato il fatto di
non averlo coinvolto dicendo che era stato lui ad avvertirmi di non contat-
tare la polizia. Poi, quando ha cominciato a raccontargli che era sbucato
fuori qualcuno della banda di Jan per farlo fuori, ha detto di aver sentito
Hammond borbottare: «Una resa dei conti in stile malavitoso», come se
fosse quasi eccitato. Sembra che abbia considerato le spade come parte del
riscatto che il «professionista» aveva lasciato indietro per la fretta, e questo
è stato d'aiuto. Non preoccuparti, però, non dovrai ripetere la stessa versio-
ne. Lui sa che non hai assistito a nulla di tutto ciò. Pensavo soltanto che
avresti voluto saperlo. Mi ha persino aiutato a recuperare l'auto da dove
l'avevano ficcata, senza pagare un soldo. Risultato: Susan dice che le chia-
vi sono nel cassetto in anticamera. Quindi serviti pure, se vuoi.
Bene, penso che per oggi sia abbastanza. Però ho minacciato di dirti co-
sa c'era nella borsa di Susan. Non so se Jan avesse creduto alla mia piccola
menzogna in merito al suo stato di salute, o se semplicemente non abbia
ritenuto necessario drogarla; comunque sia, era in condizioni decisamente
migliori di Dee per spiarlo. Ancora non sa dove abbia nascosto il Marker,
ma ha individuato uno dei suoi nascondigli... uno che Karst si è lasciata
sfuggire. Susan, da quella donna coraggiosa (pazza?) che è, è tornata là
mentre io mi divertivo a farmi operare, e si è portata via il tesoro. Ha tro-
vato un notevole gruzzolo in contanti, soprattutto dollari, e una specie di
agenda o diario. Io non riesco a leggerne nemmeno una parola, ma Susan
ci sta lavorando e ritiene che possa esserci ogni genere d'informazione
interessante. Ha persino trovato un brano in cui Jan si lamentava del fatto
che nessuno porta più il cappello. È vero: in effetti non ci fidiamo di quelli
che si coprono la testa. Ha senso.
Per farla breve, se dovessi avere bisogno di un anticipo, puoi contare su
di me. Ciò di sicuro significa che Susan e io non dovremo preoccuparci di
lavorare per vivere per un bel po'. (Ti farà piacere sapere che i miei boss
mi terranno il posto finché non mi sarò ripreso... anche se non mi ci vedo a
riprendere la vita di prima. )
Credo che sia superfluo dirti di fare attenzione con questa e-mail. Da
quanto ho capito, i messaggi crittografati sono difficili da decrittare, ma fa'
in modo che Melissa non legga questo da sopra la tua spalla... Potrebbe
cominciare a preoccuparsi per te.
Bevi alla mia salute.
David
P.S. Sbrigati a prenotare un volo per venire qui. Voglio vedere che effet-
to fa l'implacabile sole greco sulla tua pelle bianchiccia.
A: secretsquirrel@euromail.com
da: jhsll92@cam.ac.uk
chiave: pgp 8.0 freeware for Windows
Joseph Shaw
RINGRAZIAMENTI
FINE