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Relatore: Candidato:
Prof.ssa Emanuela Fornari Flavia Petraccone
Matr. 488888
Capitolo III - Il confronto tra Sartre e Lévinas e la scomparsa dell’Alterità dalla società.. 71
3.1 Sartre e Lévinas a confronto...................................................................................... 71
3.2 La scomparsa della figura dell’alterità nella società ................................................. 79
Bibliografia ......................................................................................................................... 85
3
INTRODUZIONE
L’obiettivo di questo lavoro è porre a confronto Jean Paul Sartre ed Emmanuel Lévinas
Sartre, conflittualità che vedremo manifestarsi nella dinamica dello sguardo e della sua
insuccesso e di sofferenza, ma come presupposto per costituire una relazione autentica che
non tenda a dissolvere l’alterità dell’Altro, ma che, nonostante la sua inconoscibilità, possa
Infine cercherò di evidenziare, attraverso il pensiero del filosofo Byung Chul Han, come
alcuni meccanismi Sartriani, i quali nel loro scenario pessimistico sembrano portare quasi
Alla luce delle varie problematiche esposte attraverso l’analisi degli autori, è dunque
necessario e forse possibile ritornare a riconsiderare la vita a partire dal rapporto con
Nel primo capitolo verrà analizzata la figura dell’Alterità e la relazione con essa secondo il
pensiero di Jean Paul Sartre, passando per alcuni dei concetti chiave della filosofia
sartriana, le caratteristiche costitutive del per-sé e del suo rapporto di intenzionalità con il
sviscerare quali meccanismi ci siano alla base delle relazioni concrete con l’alterità come
4
Nel secondo capitolo verrà trattata in primo luogo la tripartizione del reale condotta da
nuovamente pensare l’Altro nella sua alterità. Infine attraverserò la tematica del volto, e
con essa la relazione etica tra il Medesimo e l’Altro, approfondendo la dinamica dell’eros
Nel terzo capitolo, in seguito al confronto tra Sartre e Lévinas, verrà preso in analisi il
pensiero del filosofo contemporaneo Byung Chul Han con l’intento di riflettere sulle
conseguenze del continuo dileguarsi della figura dell’alterità nella società attuale.
5
1
1
Questo lavoro fotografico è un progetto di Paula Bignardelli.
Esso è una ricerca filosofica e nel contempo una proposta comunicativa.
È il tentativo di registrare alcune particolari segnature, affezioni che si trovano manifeste
innanzitutto e per lo più nel volto, attraverso dei semplici ritratti street life senza molte
pretese artistiche. Immediati e intellegibili ciascuno di questi ritratti rispettano lo stesso
6
format, inquadratura e luce. Si tratta di un lavoro seriale e quantitativo. In tal modo le
persone ritratte saranno rese quasi anonime e ciascuno sarà individuabile solo ed
esclusivamente nel rapporto con il diverso. Tali ritratti sono una sorta di εἶδος, l’idea
mediante la quale ciascuno appare e viene al linguaggio. Solo per le strade si incontra il
soggetto qualunque. Questo qualunque che non avevamo mai visto prima. È un’immagine
nuova che non si riferisce ad alcun modello, non si riferisce ad alcunché all’infuori di sé. Il
quale irrompendo nella scena della nostra vita e presentandosi in modo performativo ci
colpisce e ci cattura.
7
Capitolo I – Jean-Paul Sartre e la figura dell’alterità
Fenomenologica, la quale si affermò in modo preponderante nella prima metà del ’900 in
ambito filosofico. I maggiori esponenti di questa scuola furono Edmund Husserl e Martin
mondo”, egli parte dall’idea che il fenomeno non sia una manifestazione esteriore di una
realtà nascosta e noumenica, ma il manifestarsi stesso dell’essere e che tale fenomeno sia
identificativo di sé stesso, senza rinviare ad alcuna realtà celata. La concezione per cui
fenomenologia. Fin dalle prime pagine dell’opera L’Essere e il nulla Sartre distingue due
tipi di essere: l’essere del fenomeno, o “essere in-sé” e l’essere della coscienza, “l’essere
per-sé”. L’essere del fenomeno, ovvero l’essere in-sé, è presentato come un qualcosa di
rappresenta il suo essere ricolmo di sé stesso, come una densità omogenea dove non vi è un
dentro e neanche un fuori; questo “essere” descritto non è in rapporto a sé, bensì è sé,
«È piena positività. Non conosce dunque l’alterità; non si pone mai come altro rispetto a
un altro essere; non può sopportare alcun rapporto con l’altro. È sé stesso indefinitamente
8
e, nell’esserlo, dà fondo a sé stesso. […] L’essere è. L’essere è in sé. L’essere è ciò che
è.»2
Se nell’essere in-sé non vi è distinzione alcuna e quindi vi è piena coincidenza con sé,
senza alcun vuoto d’essere, nell’essere della coscienza cioè nell’essere per-sé avviene il
contrario.
L’essere per-sé infatti non coincide con sé stesso, vi è uno scarto, una separazione tra sé e
sé, potremmo dire che esso è un modo di non essere la propria coincidenza; questa non
rapporto del soggetto con sé stesso. La “presenza a sé” infatti implica un distacco
dell’essere in rapporto a sé; se il sé è presente a sé stesso, non può esserci una coincidenza
totale ed omogenea del sé, come accadeva nell’in-sé. Tale distacco che avviene in seno
all’essere che è stato denominato precedentemente come “presenza a sé” deve essere
interpretato come una fessura impalpabile che si è infiltrata nell’essere; ma questa fessura
individuarlo, esso svanisce; tale fessura quindi va interpretata come un puro negativo, ciò
potremmo dire che la natura della coscienza è una non natura nel senso che la sua struttura
prerogativa della sua stessa struttura; è l’essere che problematizza sé stesso. La coscienza,
cioè l’essere per-sé, si distingue in due modalità fondamentali facentesi parte della stessa
unità; la prima modalità è la coscienza pre-riflessiva chiamata anche coscienza non tetica,
avesse coscienza di essere una coscienza (di) un qualcosa, sarebbe una coscienza
2
Jean-Paul-Sartre, L’Essere e il nulla, il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 p. 33.
9
incosciente e ciò sarebbe contradditorio; ma allo stesso tempo la coscienza di sé non è
riflessiva, detta anche posizionale, conosce gli oggetti del mondo, può tematizzarli,
ponendosi allo stesso tempo essa stessa come una parte del mondo, come un oggetto, e
virtù di questa distinzione che è all’interno della coscienza, essa è sempre fuori di sé; nel
momento in cui tematizza gli oggetti del mondo (nel momento in cui “intenziona” e
stessa. «Così il nulla è questo vuoto d’essere, questa caduta dell’in-sé verso il sé, per cui si
costituisce il per-sé»3. Sappiamo che il nulla giunge al mondo grazie all’essere umano, non
è un nulla assoluto, non ha una sua realtà d’essere: è semplicemente la separazione della
costituisca come nulla, in quanto “presenza a sé”, esso è contingente; “è”, in quanto è
“buttato là”, abbandonato in una situazione e ciò rappresenta la sua accidentalità. In esso vi
è qualcosa di cui esso non è il fondamento e questo qualcosa è la sua presenza al mondo;
mentre per quanto riguarda la presenza a sé, il per-sé è fondamento del suo nulla e invece
nella sua presenza al mondo esso non ne è responsabile, è lì ma potrebbe essere altrove.
Pur costituendosi come suo fondamento, il per-sé non sceglie la propria posizione; ne è
essere lì, in quella città, in quel paese è un concetto limite che non può essere raggiunto,
purtuttavia sia contenuto all’interno della coscienza come “coscienza di essere là”. Tale
situazione esistenziale è ciò che Sartre chiama “fatticità del per sé”. Tale fatticità è
avvertita da esso e la sua stessa apparizione può essere interpretata come il tentativo del
3
Ivi, p.119.
10
per-sé di fondarsi, di escludere la contingenza dal proprio essere; ma tale tentativo fallisce
causa di questo processo, rimane nel per-sé un ricordo d’essere che sarebbe la sua
ingiustificata presenza al mondo. Tale ricordo d’essere non è che un residuo dell’in-sé nel
per-sé. Di conseguenza il per-sé è cosciente della propria fatticità, percependo che è lì, in
quella posizione, senza alcuna giustificazione, sentendosi come ciò che è di troppo,
coscienza e questa fatticità residua, viene descritta da Sartre come “necessità di fatto”; è
potremmo dire posizionali, come per esempio condizioni storiche, condizioni fisiche e
sociali; ma allo stesso tempo è del tutto contingente che ne assuma una piuttosto che
un’altra. Esso può costituirsi come il fondamento del suo essere coscienza ma non può in
nessun modo fondare la sua presenza; qui il termine “presenza” rinvia a tutte quelle
caratteristiche contingenti che costituiscono la vita dell’uomo, come il fatto che egli nasca
e che ciò avvenga in un determinato ambiente, con determinate strutture culturali e sociali.
È a causa di questa fatticità, di questo residuo dell’in-sé nel per-sé, che l’uomo è sempre
mancanza d’essere. La relazione che intercorre tra il per-sé e l’in-sé infatti, secondo Sartre,
sé, negandolo in quanto fatticità; infatti è proprio in virtù della negazione dell’in-sé che il
per-sé si fonda, ma allo stesso tempo lo desidera poiché avverte in sé una mancanza
d’essere. Il per-sé, dunque l’uomo, è caratterizzato dal progetto di riunire questo intero che
causa dell’incompatibilità naturale di questi due elementi; inoltre è solo l’essere della
l’in-sé non si dirige e non ha bisogno di dirigersi verso il per-sé poiché non è mancante di
11
nulla, è autosufficiente in quanto pienezza d’essere. «Quello che il per sé non raggiunge è
il sé, o sé stesso come in-sé».4 L’intento del per-sé non è quello di annientarsi in quanto
coscienza nell’in-sé, infatti esso non vorrebbe perdere la sua trasparenza necessaria, bensì
desidererebbe conservarla insieme alla totale coincidenza con sé tipica della natura dell’in-
sé: in questo ideale la coincidenza non appare come presenza a sé che implicherebbe un
distacco, ma come identità con sé stesso. Il desiderio del per-sé quindi sarebbe quello di
essere sé stesso fissato in in-sé. Questo essere che si delinea dalla descrizione dell’ideale
del per-sé sarebbe dunque un sé sostanziale e non più evanescente; ma tale situazione
per-sé. Una coscienza che sia anche fondamento del proprio esserci, della sua presenza al
mondo, può essere solo una coscienza divina. Dunque da questa analisi Sartre deduce che
«La realtà-umana è sofferente nel suo essere, perché nasce all’essere ossessionata di
continuo da una totalità che essa è senza poterla essere, proprio perché non potrebbe
raggiungere l’in-sé senza perdersi come per-sé. È dunque per natura coscienza infelice
Nella citazione qui riportata Sartre, affermando che la realtà-umana è in continuo stato di
sofferenza a causa dell’ossessione di raggiungere una totalità che essa è e allo stesso tempo
non può essere, constata che la coscienza è in qualche forma questo essere che essa vuole
raggiungere, ma lo è sotto forma di non poterlo essere. L’essere che essa desidera infatti,
l’in-sé, sorge nel medesimo tempo della coscienza ed è presente in lei e fuori di lei: «La
4
Ivi, p.129.
5
Ivi, p.131.
12
coscienza si mantiene in rapporto con questo essere in modo da essere questo essere perché
Anche se abbiamo visto che l’essere umano non potrà mai raggiungere lo stato di
totalità che Sartre chiama totalità “detotalizzata”. A causa di ciò il per-sé tenta di colmare
sé stessa e alle sue possibilità da attuare nel mondo. È ciò che Sartre chiama il circuito
dell’ipseità; ciò che costituisce questa ipseità è proprio questo essere nel mondo, questo
proprio la libertà che costituisce l’uomo che permette la sua possibilizzazione all’interno
Per inoltrare il discorso sulla “libertà” Sartre parte dall’analisi delle strutture contenute
Sartre è constatare che l’azione in realtà sia per principio intenzionale. Egli all’interno
fatto esplodere una polveriera; per Sartre questa azione effettuata dal fumatore sbadato in
realtà non è un’azione, poiché esso non realizzava intenzionalmente, o potremmo dire con
cose considerato come una (situazione ideale ) che si rappresenta come una proiezione del
per-sé verso ciò che non è. Ciò sta a indicare che nel momento della concezione dell’atto,
la coscienza si è ritirata dal mondo di cui essa stessa è coscienza e ha potuto abbandonare il
terreno del non-essere ponendo il nulla come un possibile; ciò che abbiamo
precedentemente descritto come “proiezione del sé”. Questa descrizione dell’atto non solo
presuppone la capacità del per-sé di porsi a distanza dalla situazione ritenuta negativa ma
anche la capacità di una doppia nullificazione; da un lato il per-sé pone uno stato di cose
ideale che è un nulla nel presente (ciò che noi chiameremmo situazione ideale) e dall’altro
pone la situazione attuale ritenuta mancante (di) un qualcosa come un nulla in rapporto al
nuovo stato di cose concepito, il fine. Ed è proprio questa capacità di trascendimento delle
cose, cioè la capacità di azione, che dipende dalla libertà dell’agente. Sartre in questo
condizione dell’atto. Ma dal momento che ogni azione deve essere intenzionale e in vista
un motivo. Infatti secondo il filosofo francese non si può parlare di atto se non si prende in
attraverso il fine, cioè attraverso il non-esistente che si pone come valore; ed è proprio per
il fatto che il per-sé può sfuggire dall’in-sé nullificandosi verso le sue possibilità che l’in-
per mezzo della quale noi ci mettiamo a distanza dalla situazione, non forma che un tutto
14
unico con l’ek-stasi, mediante la quale noi ci proiettiamo verso una modifica di questa
situazione.»7
Sartre avendo constatato che l’atto sia espressione della libertà e che necessiti di motivi, i
quali sono contenuti all’interno del progetto e quindi del fine come situazione ancora non
esistente cioè nulla d’essere, passa a una descrizione più sistematica della libertà. Egli
afferma che essa non abbia un’essenza bensì, come il Dasein di Heidegger, in essa
un’accennata concezione della sua natura, poiché è proprio attraverso l’atto che la libertà ci
appare come una natura costituita avente un’essenza. Presa in sé la libertà in realtà non è
che problematizzazione del proprio essere, essa non è una qualità o una proprietà
aggiuntiva del per-sé bensì un nulla. Il concetto di libertà in Sartre si unisce al concetto di
nullificazione; infatti dal momento che la negazione viene al mondo grazie alla realtà-
umana in virtù della sua capacità di rottura nullificatrice del mondo e di sé stessa, si può
stabilire che questa capacità di rottura faccia un tutto unico con la libertà. L’uomo essendo
libero ed essendo un nulla, può sempre essere altro da quello che è, in virtù della rottura
che può attuare con sé stesso, poiché esso sfugge a ogni tipo di denominazione.
«L’uomo è libero perché non è sé, ma presenza a sé. L’essere che è ciò che è non potrebbe
essere libero. La libertà è precisamente il nulla che è stato nell’intimo dell’uomo e che
costringe la realtà umana a farsi invece che a essere. Come abbiamo visto, per la realtà-
umana, essere vuol dire scegliersi: niente le viene dal di fuori, né tanto meno dal di dentro,
che essa possa ricevere o accettare. È completamente abbandonata, senza alcun aiuto di
sorta, l’insostenibile necessità di farsi essere fin nel più piccolo dettaglio. Cosi la libertà
7
Ivi, p.504.
8
Ivi, p.506.
15
È per questo motivo che nel momento in cui l’uomo, cioè il per-sé, percepisce lo sguardo
turbato, poiché sente di aver perso la propria libertà e quindi il suo essere costitutivo.
Riprendendo la citazione precedente è chiaro che, secondo Sarte, l’uomo è sempre libero e
non può essere a volte schiavo e a volte libero; con questa affermazione il filosofo intende
criticare una tendenza comune in filosofia che porta a identificare gli atti liberi agli atti
volontari e a ricondurre il determinismo alla sfera delle passioni. Questo pensiero è il punto
di vista di Cartesio; in esso infatti la volontà è libera ma allo steso tempo assediata da
alcune passioni che Cartesio chiama «passioni dell’anima». In virtù di questa concezione
bisognerebbe concepire l’uomo in parte libero grazie alla propria volontà e in parte
determinato a cause della presenza delle passioni. Secondo Sartre questa distinzione è del
tutto erronea in quanto implica una dualità inconcepibile all’interno di un’unita psichica.
Infatti da un lato l’uomo apparirebbe come una serie di fatti determinati e dall’altro come
una spontaneità che si determina da essa stessa ad essere. Questa discussione mostra la
quanto se la coscienza fosse determinata sarebbe una pura esteriorità e cesserebbe di essere
interpretazione della libertà dell’uomo è data da un’analisi erronea del concetto di volontà.
Essa infatti non è la manifestazione unica e privilegiata della libertà, essa non crea i propri
fini nell’azione, è solo un modo di essere in rapporto ad essi, possiede anche essa un potere
nullificante ed è una decisione riflessa in rapporto a certi fini costituiti dalla libertà
intollerabile, alla luce di un fine preposto dalla libertà originaria. L’emozione dunque non è
una tempesta di natura fisiologica bensì un modo di agire aderente all’intenzione della
16
coscienza, la quale mira a raggiungere un fine particolare con mezzi particolari. Per
spiegare tale credenza Sartre utilizza un esempio particolare: nel caso di uno svenimento
nella paura, afferma che si tende a sopprimere il pericolo sopprimendo la coscienza, cioè
all’interno di questo atto vi è l’intenzione di perdere coscienza per annullare il mondo che
In virtù di questa concezione vediamo che sia nel caso della volontà sia nel caso delle
passioni il fine dell’azione non è mai ricevuto né dall’esterno né da una natura interna ma
sempre preposto dalla libertà originaria, poiché il fine è sempre una proiezione della nostra
libertà.
Così essa è il fondamento di ogni fine che verrà raggiunto sia mediante la volontà sia
mediante gli sforzi passionali, poiché sia gli atti volitivi che le passioni sono atteggiamenti
soggettivi con i quali l’uomo tenta di raggiungere i fini posti dalla libertà. Di conseguenza
si può dedurre che tutti i modi d’essere del per-sé sono modi del proprio nulla e quindi
della propria libertà. Sartre inoltre all’interno di questa descrizione effettua una distinzione
fra motivi e moventi: secondo il filosofo si è solito ritenere per “motivo” la ragione
ad agire; diversamente per “movente” si è soliti ritenere l’insieme delle emozioni e delle
passioni che portano il soggetto a compiere una determinata azione. Nell’ottica di tale
distinzione appare che il motivo sia razionale e il movente passionale. Sartre si distacca da
questa tesi, infatti esso ritiene che i due termini “motivo” e “movente” non siano due
sinonimi, bensì siano correlativi: infatti il “motivo” viene interpretato dal filosofo come
una data situazione mancante di un qualcosa in vista di un fine specifico, e questo qualcosa
come la coscienza stessa della situazione come mancante ovvero come ciò che costituisce
il motivo per agire. Ed è grazie a tale distinzione che si possono ritenere entrambi i termini
come una coppia di correlativi e non di sinonimi; essi infatti non si riferiscono a l’insieme
17
dei pro e dei contro di una data situazione ma esprimono con le loro differenti nature l’atto
e quindi la libertà. Ciò che è maggiormente interessante sottolineare è che il per-sé che
nell’ottica di recuperare il proprio essere attraverso la sua stessa azione; è per questo
motivo che egli agisce per poter coronare il suo progetto di essere un «in-sé-per-sé».
Dunque ciò che caratterizza e rende l’essere umano ciò che è, è la sua libertà; esso infatti
“gioca ad essere” sé stesso ed è ciò che è solo nel modo di doverlo essere. Ed è proprio a
causa della natura della coscienza che in realtà è un nulla, è una libertà d’essere che
continuamente si sceglie ed è in virtù di tali scelte, che il fare sostiene il suo essere. Ma le
azioni e gli atti del per-sé non lo esauriscono completamente cioè non lo etichettano in un
essere determinato poiché la coscienza è continuamente oltre ciò che fa, in virtù del suo
auto-trascendimento e questo avviene solo grazie alla libertà. L’essere umano dunque ha
aspetto è la propria libertà che si esplica attraverso la sua possibilità di progettare sé stesso
nel mondo ma anche e soprattutto attraverso la propria fatticità che è il suo essere in
situazione, essere nel mondo come coscienza di essere là. Il per-sé infatti appare impegnato
in un mondo da un punto di vista specifico che è il suo punto di vista, ma tale impegno e lo
stesso rapporto tra coscienza e mondo è inconcepibile senza una dimensione corporale; è il
suo corpo, la sua fatticità che permette alla stessa coscienza in quanto libertà di
«Io non ho mai visto né vedrò mai il mio cervello né le mie ghiandole endocrine.
Ma. Solo per il fatto che ho visto sezionare dei cadaveri umani, poiché ho letto dei
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trattati di fisiologia, ho concluso che il mio corpo è esattamente costituito come
Sartre, avendo constatato che la coscienza deve possedere necessariamente una dimensione
corporale per poter istaurare dei rapporti di intenzionalità con il mondo, parte dall’analisi
del problema del corpo e dei suoi rapporti con la coscienza. Secondo il filosofo l’errore più
cercare di ricondurre essa attraverso degli atti riflessivi a un oggetto vivente che sarebbe il
corpo; ciò comporta delle difficoltà insormontabili. Poiché il corpo che la coscienza tenta
di raggiungere attraverso degli atti riflessi in realtà non è il corpo come è per- me bensì è il
corpo come è per-altri. Infatti secondo Sartre è impossibile la conoscenza del corpo quale è
per me. Esso non mi si rivela nel mondo, bensì è, ed io sono nel mondo attraverso esso.
Sartre attraverso l’analisi di alcuni esempi, come l’esperienza della radioscopia, afferma
che l’immagine che si ha del proprio corpo è una percezione di un oggetto esterno al di
fuori di me che attraverso dei ragionamenti deduco che sia il mio corpo, ma esso rimane
fuori dalla mia portata e dalla mia esperienza come un oggetto nel mondo. Lo stesso del
poter vedere e toccare le mie gambe oppure vedere il mio stesso occhio mentre è nell’atto
di osservare il mondo, cioè mentre effettua la sua funzione; nel ruolo di osservatore sono
sempre altro rispetto al mio organo, esso è diventato un oggetto di osservazione poiché è
impossibile che io possa vedere il mio stesso occhio mentre osserva. L’organo visivo, in
questo caso, è o un oggetto tra gli oggetti del mondo, oppure è ciò in virtù del quale le cose
mie possibilità nel mondo non è possibile alcuna conoscenza di esso poiché è
Ma il corpo come oggetto nel mondo è la rivelazione non del corpo come è per-me bensì
9
Ivi, p. 359.
19
come è per-altri. Sartre dunque attraverso questa analisi cerca di distinguere due piani
ontologici che egli ritiene irriducibili; il corpo come essere per-sé e il corpo come essere
per-altri. Per comprendere maggiormente il corpo come essere per-sé bisogna partire dal
primo rapporto con l’in-sé, cioè dall’essere nel mondo; è noto che non vi è affatto da un
lato un per-sé e dall’altro un mondo, come due totalità costituite e separate, bensì il per-sé
è già nella sua stessa nascita in rapporto al il mondo. Infatti il per-sé è nel mondo non come
univoco in virtù del quale esiste un mondo costituito in un determinato ordine rispetto a
tale prospettiva. Nascere significa proprio dispiegare le proprie distanze nei confronti del
mondo, le quali costituiscono e sono costituite dalla mia prospettiva, dal centro prospettico
come Necessità ontologica, la quale appariva costituita da due contingenze; da una parte
era necessario che il per-sé fosse un orientamento prospettico nei confronti del mondo e
dall’altra era del tutto contingente che esso esistesse in quanto non fondamento del proprio
essere. E allo stesso tempo, nonostante fosse necessario «l’essere là» come punto di
orientamento, era del tutto contingente che il per-sé assumesse questo o quel punto di vista.
Il corpo dunque appare come «la forma contingente che assume la necessità della mia
contingenza»10. Dunque secondo Sartre il corpo non si può distinguere dalla situazione del
per-sé in quanto per quest’ultimo l’esistere e il porsi sono la medesima cosa, ed in virtù
della sua identificazione nel mondo, del suo porsi fisicamente nel mondo non è possibile
conoscere il corpo quale è per-sé poiché esso è nel mondo come ciò che io trascendo e
supero verso le mie possibilità, come ciò che io nullifico. Il corpo è la fuga nullificatrice
del per-sé che si manifesta sotto forma di impegno nel mondo. Il concetto di corpo come
10
Ivi, p.366.
20
dell’atteggiamento naturale egli afferma che ogni io si sa e si conosce come un io che
chiamato da Husserl punto-zero del sistema delle coordinate a partire dal quale ogni io
possiede una certa manifestazione del mondo, la quale è solo una porzione intuita di un
virtù di esso che ogni io può ordinare e conoscere tutte le cose del mondo. Così l’ordine
degli oggetti del mondo rimanda continuamente a un oggetto che inquadra una certa
porzione di mondo in base alla sua prospettiva. Il corpo in questo senso è l’oggetto senza il
quale non ci sarebbe nessun orientamento, nessuna prospettiva sulle cose; «è il sorgere
che da una parte il corpo è ciò che tutto mi indica, dall’altra è altresì ciò che per principio
sfugge alla mia conoscenza; io non posso avere l’intuizione di esso come oggetto poiché è
ciò che io sono. Il corpo in questione è la possibilità del mio essere nel mondo ed affinché
possa realizzarsi tale situazione esso deve necessariamente esistere tra le cose del mondo e
deve essere trasceso continuamente da una coscienza intenzionale. Si potrebbe dire anche
che la dimensione corporea del per-sé non solo è il centro di riferimento in base al quale
anche nel caso della strumentalità del corpo, esso non viene adoperato e conosciuto bensì
vissuto. Nell’atto di scrivere infatti non si coglie la mano in azione bensì la penna che
traccia delle linee specifiche su un foglio; in rapporto alla mano infatti non si è in un
atteggiamento utilizzante, essa è solo il rimando delle mie possibilità, essa è ciò che sono e
ciò che posso fare. Di conseguenza sia nel caso del corpo come centro di riferimento sia
nel caso di strumento-azione il corpo come per-sé è ciò che continuamente viene superato
11
Ivi, p. 375.
21
«io non posso né percepirlo né conoscerlo, perché è ovunque ripreso e superato, utilizzato
condizione, potremmo dire, della libertà del per-sé, in quanto per esso essere significa
scegliersi e dunque trascendersi verso le sue possibilità le quali sono situate nel mondo.
Essendo il corpo un punto di vista sul quale non si possano più prendere altri punti di vista,
ne segue che la relazione che intercorre tra la coscienza e il proprio corpo è di tipo
esistenziale.
L’esperienza privilegiata che ci conduce alla modalità con cui la coscienza esiste la propria
contingenza, cioè il proprio corpo, è quella del dolore fisico. Nel caso di un dolore agli
occhi nel momento in cui si legge, Sartre afferma che il corpo è dato implicitamente: ciò
che si percepisce tematicamente sono le parole che scorrono sotto la vista, il dolore stesso
viene indicato dagli oggetti del mondo, in questo caso specifico dalle parole; il dolore in
esiste, è sullo sfondo della mia corporeità nell’azione stessa di leggere. Differentemente
nel momento in cui si smette di leggere e si dirige l’attenzione verso il dolore propriamente
dato, cioè sulla percezione di esso in sé, la coscienza è di tipo riflessiva in quanto il dolore
stesso viene posto come oggetto di riflessione ed essa stessa tende a fare del dolore un
oggetto psichico; tale oggetto psichico che viene percepito attraverso il dolore è il male.
Esso appare distinto dalla coscienza e si dà come un essere vivente che ha una sua
indipendenza cioè una sua forma e una sua durata, contemporaneamente fuori e dentro la
coscienza. Ma il male stesso che viene tematizzato dalla coscienza riflessiva non è
soffre. Ed è proprio attraverso questa sofferenza che la coscienza viene proiettata nell’in-sé
cioè nella fatticità del suo corpo, di conseguenza si potrebbe concludere che il dolore è una
12
Ivi, p.385.
22
concludere che il corpo per-sé o è il centro di riferimento che indica e viene indicato dagli
oggetti-utensili del mondo, oppure è la contingenza dell’esistenza del per sé. Diversamente
dal corpo per-sé si ha un ulteriore piano ontologico che sarebbe il corpo per-altri; è
importante sottolineare che per Sartre le strutture del mio essere per-altri sono identiche a
quelle dell’essere d’altri per me; infatti analizzare il modo in cui il mio corpo appare ad
dall’analisi del modo in cui il corpo d’altri mi appare si deve constatare immediatamente
che la relazione primaria del mio essere con quello d’altri non è una mera relazione di
esteriorità tra corpi, quest’ultima è solo secondaria; il mio primo legame con altri avviene
che è alla base del rapporto con l’alterità, la quale sviscereremo successivamente, dopo
aver descritto le modalità con la quale si entra in relazione e si coglie altri come corpo. Il
corpo d’altri è radicalmente diverso dal corpo per-me in quanto esso è lo strumento che io
non sono e che utilizzo, esso mi appare originariamente come un punto di vista sul quale
posso prendere un punto di vista, uno strumento che posso utilizzare con altri strumenti.
Nonostante questo, il corpo d’altri rimane ugualmente il centro prospettico del suo mondo
dove gli oggetti non solo sono ordinati in base alla sua orientazione ma essi rimandano
del corpo quale è per me. Il corpo d’altri dunque è presente nelle indicazioni che ne danno
gli oggetti del mondo in quanto essi sono utilizzati e conosciuti da esso, ciò indica la sua
possibilità di trascendimento del mondo, cioè l’esistere nel suo per-sé. Ciò che ci interessa
maggiormente è che nell’incontro con il corpo d’altri ciò che si percepisce è la sua fatticità;
nella sua manifestazione il corpo d’altri ci è dato come un in-sé puro tra degli in-sé del
mondo, esso è un essere là in carne ed ossa. Il termine carne però non deve essere inteso
come un oggetto isolato e inerme, questo significherebbe cogliere il corpo d’altri come un
23
cadavere; diversamente il corpo d’altri come carne quindi come pura presenza mi è dato
immediatamente come centro di riferimento di una situazione. Affermare che esso ci è dato
in situazione vuol dire che all’interno della percezione del corpo d’altri non vi è una
distinzione tra il corpo stesso e l’azione bensì l’uno e l’altra sono coopresenti. Noi non
percepiamo mai il corpo al di fuori delle relazioni che esso ha con il mondo circostante;
esso infatti è il significante, in quanto è la totalità delle relazioni significanti con il mondo.
viene esercitato dal corpo d’altri nel suo mondo. Nell’azione di percepire il corpo d’altri si
va sempre verso ciò che è fuori da esso, vuol dire farsi annunciare quello che esso è dal
mondo. «Il corpo ci appare a partire dalla situazione come totalità sintetica della vita e
dell’azione.13».
Da questo si deve dedurre che il corpo d’altri ci è dato immediatamente come è; nel caso
d’espressioni non ci vengono dati come un qualcosa di nascosto che si riferisce a qualcosa
che va al-dì-là del corpo bensì si danno originariamente alla percezione come
psichismo misterioso, non esprimono la collera, sono la collera. Tali espressioni infatti non
sono concepibili al di fuori della struttura corporea bensì si danno con essa costituendo ciò
che chiamiamo l’oggetto psichico, cioè il corpo. Fin qui Sartre ci ha fatto vedere che la
coscienza esiste il proprio corpo e che tale corpo è visto e tendenzialmente utilizzato da
altri; all’interno di questo scenario egli aggiunge un terzo piano ontologico del corpo che è
caratterizzante per analizzare il rapporto con l’alterità. Potremmo dire che questa terza
dimensione influenza e costituisce nel medesimo tempo la base di tutte le relazioni che
possono istituirsi con l’alterità. La terza dimensione ontologica del corpo consiste nella
consapevolezza da parte della coscienza di essere corpo quindi fatticità conosciuta e vista
13
Ivi, p.406.
24
da altri. L’incontro con altri che Sartre descrive come un urto, conferendogli attraverso
questo termine un’accezione negativa, rivela l’esistenza del mio corpo come un in-sé per
altri: nel momento in cui l’altro mi guarda, il mio corpo è al di fuori di me, non si dà più
come il vissuto puro e semplice che esperisco nella prima dimensione ontologica del
corpo, non è più corpo vissuto bensì corpo visto. E a causa dell’esistenza d’altri di fronte a
me, tale corpo si prolunga al di fuori in una dimensione che sfugge al mio controllo; in
questo scenario il mio corpo è là nel mondo come un in-sé, non più solo come il punto
orientazione di tutte le cose che io sono ma anche come un punto di vista sul quale
vengono presi dei punti di vista che io in quanto corpo per-me non posso prendere. In tal
modo non esisto più la mia fatticità trascendendola verso i miei possibili in virtù della mia
libertà, ma sono questa fatticità che viene esperita da altri. Il mio corpo dunque assume una
dimensione oggettuale, non è più il mio corpo strumento attraverso il quale trascendo gli
oggetti del mondo ma diviene uno strumento tra gli strumenti, apparendo come un organo
percepibile da altri e non più percepito da me in prima persona. «Per altri, sono come
questa tavola o quell’albero sono per me, sono in mezzo a qualche mondo; sono nel fluire
assoluto del mio mondo verso altri.14». Tutto ciò comporta una percezione di alienazione
del mio essere e un continuo svanimento del mio mondo che sfugge verso altri.
che costituisce la timidezza; quest’ultima infatti non è altro che la percezione metafisica
dell’esistenza del mio stesso corpo per altri. È il mio corpo quale è per altri che mi
forma ma esso rimane per principio fuori dalla mia portata; esso diviene il punto di vista
sul quale non posso prendere altri punti di vista, e di conseguenza ogni azione che compio
di fronte ad altri è un’azione cieca che è espropriata dal suo possessore e viene detenuta
dallo sguardo d’altri. L’altro in questo caso è proprio colui che è in grado di compiere un
14
Ivi, p.413.
25
atto di cui noi non siamo capaci, esso è in grado di vederci come siamo; ne consegue che
siamo destinati a vederci con gli occhi degli altri, tentando di conoscere il nostro essere
ontologica del corpo, cioè l’essere per-altri, è necessario analizzare il ruolo dello sguardo
«Quella donna che vedo venire verso di me, quell’uomo che passa nella strada, quel
mendicante che sento cantare dalla finestra sono per me degli oggetti, non c’è dubbio.»15.
Sartre per analizzare l’incontro con l’alterità parte dalla constatazione che nel momento in
cui percepisco una donna venire verso di me oppure vedo un uomo attraversare la strada,
essi mi appaiono come degli oggetti, come degli in-sé del mio mondo. La prima
oggetto che appare nello sfondo del mio mondo come un uomo, la mia modalità di
percezione nei suoi confronti e nei confronti del mio mondo muta notevolmente. Se prima
relazione addizionale. Per esempio l’avrei percepito come un qualcosa che esercita una
certa pressione sul terreno o come un qualcosa che si ubica sotto un albero; tutte questi tipi
sfondo del mio mondo. Se diversamente attribuisco a tale oggetto l’essere un uomo, non lo
colgo più in una relazione additiva con gli altri oggetti del mio mondo secondo
l’organizzazione che dipende dalla mia prospettiva, non fa più parte di un raggruppamento
15
Ivi, p.305.
26
di oggetti che si riferisce a me bensì è un’orientazione che mi sfugge. Da una parte
quell’uomo sulla panchina che io esperisco, si presenta in blocco in quanto è là nel mondo
come un oggetto che posso conoscere e dall’altra parte mi sfugge in blocco in quanto esso
istaura con il mondo circostante, che è il mio mondo, una sua organizzazione prospettica
che io posso osservare solamente a distanza ma non posso conoscere. Tutto questo appare
come una disintegrazione delle relazioni che intercorrono tra me e gli oggetti del mio
«Così l’apparizione, tra gli oggetti del mio universo, di un elemento di disintegrazione di
questo universo, è ciò che io chiamo l’apparizione di un uomo nel mio universo. Altri
dunque è prima di tutto la fuga continua delle cose verso un termine che colgo come
oggetto a una certa distanza da me, e insieme mi sfugge in quanto distende intorno a sé le
proprie distanze.»16.
L’apparizione d’altri, per Sartre dunque rappresenta uno scivolamento di tutto l’universo,
un decentramento del mondo. Se osservo un uomo che sta leggendo, il rapporto che si
instaura tra l’uomo in questione e il libro rappresenta una sorta di incrinatura del mio
universo caratterizzata sia da una forma solida e massiva che è l’uomo che posso vedere,
sia da una fuga e da un vuoto che non appartiene al mio mondo ma è nel mio mondo; tale
vuoto è la relazione tra il libro e l’uomo. In questo caso l’altro mantiene ancora una
con il mondo come l’oggetto che vede ciò che io posso vedere, da ciò si può dedurre che il
legame tra me e l’altro è caratterizzato dalla possibilità continua di essere visto da tale
alterità che è presente nel mondo come un oggetto ma allo stesso tempo possiede una sua
visione del mondo differente dalla mia essendo soggetto del suo mondo. Lo sguardo che
16
Ivi, p.308.
27
l’altro può lanciarmi non si può considerare come una manifestazione del suo essere
«Ciò a cui si riferisce la mia percezione d’altri nel mondo, come ciò che probabilmente è
permanente per un soggetto che mi vede di sostituirsi all’oggetto visto da me. L’«essere-
Se l’altro è colui che mi guarda è necessario analizzare in modo dettagliato il senso dello
sguardo, della dimensione visiva dell’altro su di me. In questa analisi lo sguardo non viene
analizzato come ciò che manifesta la convergenza di due globi oculari, in esso gli occhi
come organi di visione non sono protagonisti: nel momento in cui si avverte uno sguardo
non si percepiscono gli occhi, essi rimangono si presenti nel campo percettivo ma non sono
esperiti in essi; nello sguardo sembra quasi che gli occhi rimangano nascosti. Sartre
compie una distinzione tra percepire, nel senso di guardare, e cogliere uno sguardo; per il
filosofo francese queste due attività sono nettamente distinte e si riferiscono ad ambiti
differenti. Nel caso del percepire ciò che si guarda rinvia a qualcosa di esterno che
trascende la coscienza verso un oggetto nel mondo; diversamente cogliere uno sguardo non
non rinvia a un oggetto esterno ma al soggetto, quindi all’oggetto che coglie lo sguardo su
di sé. È ciò che precedentemente nella descrizione del corpo per-altri descrivevamo come
percepisco su di me non rinvia all’altro che mi sta guardando bensì mi rimanda al mio
essere, all’essere che io sono; tale essere è fuori dalla mia portata, io lo sono nel modo
della coscienza non tetica, cioè irriflessa: non posso coglierlo perché non è per me bensì
esiste per l’altro. Tale essere che io sono senza conoscerlo è quell’essere che
17
Ivi, p.310.
28
precedentemente avevamo analizzato attraverso l’esperienza dell’alienazione, la quale
proprio essere; l’altro guardandomi conosce il mio essere e mi vede come io non potrò mai
vedermi. Questo essere che sono e non posso allo stesso tempo conoscere posso scoprirlo
solo nella vergogna attraverso lo sguardo altrui; attraverso esso non posso conoscere ma
di essere per l’appunto quell’oggetto che l’altro guarda e giudica. Essa è la confessione che
io sono questo essere che viene guardato; tale essere che viene a nascere a causa della
presenza dell’altro non lo sono nel modo del «doverlo essere» come accadeva in virtù della
libertà, non è l’effetto dei miei atti. Questo essere fin qui definito non è originato dalle mie
possibilità bensì costituisce il limite stesso della mia libertà; se l’altro è di fronte a me e
mantiene il suo sguardo su di me, io non posso progettare attraverso la mia libertà di essere
qualcos’altro18.
«Esso mi è dato come un fardello che porto senza mai potermi voltare verso di lui per
conoscerlo, senza poterne neanche sentire il peso.[…] E tutta via si tratta del mio essere
quale si determina in e per mezzo della libertà d’altri.[…] Con la mia vergogna, io
Per l’altro, come avevamo precedentemente affermato, io sono come un qualsiasi oggetto
nel mondo, dunque sono privo della mia trascendenza, non sono più coscienza e tutte le
sguardo che esse non sono più potere di trascendenza ma vengono a loro volta trascese.
All’interno di questo scenario sono il proprietario di questa natura senza poterne essere né
18
Ciò che caratterizza e rende l’essere umano ciò che è, è la sua libertà; esso infatti “gioca ad essere” sé
stesso ed è ciò che è solo nel modo di doverlo essere.
19
Ivi, p.315.
29
trascesa». Così l’essere visto mi costituisce come un essere senza difesa in balia di una
libertà che non è mia ma dell’altro. Da tali meccanismi si può evincere che la relazione con
l’alterità sia pervasa da una dimensione di schiavitù; essa è causata dal fatto che l’essere
che io sono dipende da una libertà esterna, la quale è condizione del mio stesso essere e da
che la prima modalità di presenza dell’altro era l’oggettità, dopo aver delineato il ruolo
dello sguardo e il senso delle reazioni a tale sguardo si può constatare che in nessun modo
l’altro può presentarsi come un oggetto poiché questo significherebbe la distruzione del
suo essere-sguardo. L’altro dunque si presenta come colui «che mi guarda e che io non
guardo ancora, quello che mi dà a me stesso come non-rilevato, ma senza rivelarsi lui
stesso, quello che mi è presente in quanto mi osserva e non in quanto è osservato; è il polo
concreto e fuori portata della mia fuga, dell’alienazione dei miei possibili, e del deflusso
del mondo verso un altro mondo che è il medesimo e purtuttavia incomunicabile con
questo.»20. La sua presenza come sguardo è la testimonianza della sua infinita libertà e
della sua trascendenza; non vi è alcuna distanza reale che mi separa dall’altro ma è la sua
stessa natura di altro che dispiega questa distanza insormontabile e con l’apparizione del
suo sguardo esperisco concretamente un al-di-là del mondo, una trascendenza onnipresente
e impercettibile.
Ed è proprio in virtù del suo essere soggetto puro inconoscibile che l’altro è l’essere per
mezzo del quale io mi sento un oggetto, un puro in-sé che sperimenta attraverso lo sguardo
da una parte la morte delle sue possibilità e dall’altra l’infinita libertà dell’altro.
corpo “per altri” influenza in modo preponderante le relazioni che instauriamo con
20
Ivi, p.323.
30
l’alterità. Siamo partiti dall’analisi delle caratteristiche costitutive del per-sé, della sua
libertà di trascendere continuamente il suo corpo verso il mondo, verso le sue possibilità,
progettandosi ogni volta come un essere diverso che tenta di fondare il proprio essere
attraverso le sue possibilità, nel tentativo costante di afferrare quella parte di sé, cioè l’in-
sé, che è impossibilitato per natura a raggiungere. L’incontro con l’alterità come abbiamo
visto però comporta l’impossibilità per il per-sé di progettarsi come altro, di esplicare la
propria libertà. Come avevamo visto nel paragrafo dedicato allo sguardo, in presenza
dell’altro, il per-sé ha la costante percezione di essere privato del suo essere; l’altro lo
guarda e guardandolo riduce la sua esistenza a pura fatticità, lo possiede vedendolo come
esso non potrà mai vedersi. Se da una parte l’altro è colui che obbliga il per-sé a
riconoscersi come pura fatticità, dall’altra è anche colui che fa sì che vi sia una fatticità, un
che fugge e allo stesso tempo ricerca il proprio in-sé nel tentativo di colmare quella
mancanza d’essere. L’altro diviene colui che fonda l’essere del per-sé senza esserne
propri che costituiscono tutte le nostre relazioni con l’alterità, di riprendersi il proprio
essere e la propria libertà. L’unica dinamica esistente tra il per-sé e l’altro, per Sartre, è
quella di soggetto- oggetto; infatti nel momento in cui l’altro lo guarda, esso (il per-sé) è
ciò è possibile solo attraverso l’accettazione da parte del medesimo di riconoscersi come
oggetto per l’altro; questa rappresenta l’unica via per riacquisire il fondamento del proprio
essere, il quale è posseduto dallo sguardo dell’altro. In questo modo, assimilando l’altro, il
come essere che guarda e in questo modo, identificandosi del tutto con il suo essere
31
guardato e cioè con la sua dimensione oggettuale, può servirsi di ciò come strumento per
questo conflitto, tentando di andare ad intaccare proprio la libertà dell’altro. Questo ideale
è prodotto a causa del fatto che è proprio la libertà d’altri a fondare il nostro essere; di
all’interno dello sguardo altrui: se l’altro è colui che fonda il mio essere, non ho alcuna
riacquisizione del mio essere non potrà realizzarsi se prima di tutto non mi impadronisco di
questa libertà che mi inquieta e non la riduco a libertà sottomessa alla mia libertà. Tale
intenzione risponde alla domanda del perché l’amante vuole essere amato; l’amore infatti
Sartre prende come esempio l’eroe di Proust: Marcel istaura con la sua amante Albertine
un rapporto di totale dipendenza; i due vivono sotto lo stesso tetto e Marcel può
controllarla e possederla ogni giorno. Egli stesso però non ha tregua ed è rassicurato solo
nel momento in cui Albertine riposa, poiché essa è proprio con la sua coscienza che può
sfuggire a Marcel. Questo esempio che Sartre utilizza sottolinea come in realtà nell’amore
si punti a impadronirsi della libertà altrui. Colui che vuole essere amato richiede un tipo
stesso con la propria volontà: la pretesa consiste che la libertà stessa si determini da sé, che
si auto imprigioni per volere e non per impegno preso. In questo modo è evidente come in
realtà nell’amore si pretendi una libertà non libera: l’amante accettando di essere oggetto
per l’amata pretende di essere tutto il mondo per l’amata, l’oggetto limite della sua libertà,
32
Di fatto voler essere amato equivale a costringere l’altro attraverso la sua libertà a fondare
il mio essere come insuperabile e assoluto; in questo modo la mia inquietudine cessa, sono
al sicuro nella libertà altrui, non ho più la percezione di essere un oggetto di giudizio di
valore e non mi colgo più come strumento bensì, se l’altro mi ama, ai suoi occhi appaio
«Così sono al sicuro: lo sguardo di altri non mi fissa più nella mia finitezza; non ferma più
il mio essere in ciò che sono semplicemente; non posso più essere visto come brutto,
limitazione di fatto del mio essere e una percezione della mia finitezza come finitezza.»21.
Secondo il filosofo francese prima di essere amati, eravamo inquieti per la nostra esistenza
chiamata e voluta a una libertà nei sui minimi particolari. Appare chiaro che amare in
realtà sia il progetto di farsi amare, ciò che ogni amante pretende è che l’altro lo ami come
oggetto di valore limite della propria libertà senza pretendere di farsi amare, così ciascuno
nella coppia di amanti aliena la propria libertà solo in quanto esige l’alienazione dell’altro.
fallire, perché nel momento in cui sento che l’altro mi ama, mi sente come soggetto e non
sprofonda nella sua oggettività; il problema dunque rimane senza soluzione e il circolo
soggettività per sbarazzarsi della propria. Qui è la soggettività ad essere considerata come
21
Ivi, p.430.
33
nell’essere oggetto, si rifiuta si essere qualcosa di più. Invece che cercare di esistere per
l’altro come oggetto limite come accade nell’amore, il masochista si fa trattare dall’altro
come un oggetto fra gli oggetti, come uno strumento da utilizzare e, dunque, invece di
imbattersi nel progetto di assimilare la libertà altrui, si riposa nell’alterità e riduce la sua
l’individuo tenterà di gustare la propria oggettività, più sarà sommerso dalla sua
soggettività, fino all’angoscia. Così il masochista finisce per trattare l’altro come oggetto.
pagine precedenti, il secondo atteggiamento adottato dal per-sé per liberarsi dallo sguardo
fatticità.
«In questo caso, guardare lo sguardo dell’altro, è porsi nella propria libertà e tentare dal
È evidente come alla base delle relazioni primordiali con l’alterità vi sia sì da una parte
l’intento di liberarsi dallo sguardo dell’altro e quindi dal possesso, ma dall’altra anche di
raggiungere e possedere tale libertà, ed è proprio ciò che costituisce il conflitto ininterrotto
di tali relazioni. Ciò che maggiormente esprime il tentativo di impossessarmi della libera
possesso fisico; questa considerazione è scatenata dalla concezione che l’atto sessuale
istinto da soddisfare, dai fini strettamente fisiologici. Secondo il filosofo il desiderio non
22
Ivi, p.440.
34
implica primariamente l’atto sessuale, «il desiderio non è desiderio di fare»23, esso
ma il corpo che viene desiderato è sempre un corpo in situazione; ciò che si desidera non è
un corpo materiale dunque, ma un corpo come totalità organica e non solo, come vedremo
a breve. Nel desiderio l’uomo esiste la propria fatticità, la coscienza scivola e desidera
questa fatticità, non la fugge più come un elemento disturbante della propria esistenza
bensì ne è e vuole esserne sopraffatto. Si potrebbe dire prima di tutto che il desiderio sia
consenso al desiderio, ed è proprio ciò che costituisce la sua natura essenziale; attraverso il
desiderio della propria fatticità vi è la rivelazione del proprio corpo, esso non viene più
percepito come qualcosa da trascendere verso qualcos’altro bensì è proprio esso stesso ad
essere desiderato dalla coscienza. Il desiderante dunque è una coscienza che vuole farsi
corpo, che vuole farsi carne al fine di possedere il corpo e quindi, in termini sartriani, la
carne dell’altro. In questo senso il corpo diviene un mezzo per sentire il corpo dell’altro e
per riflesso di questo atto sentire attraverso l’altro il proprio corpo. Come nel caso della
carezza, essa non può essere considerata solo sotto il punto di vista del contatto fisico bensì
attraverso la propria carne. Di conseguenza, come nella carezza, nel desiderio sessuale la
coscienza si fa carne per far sì che la coscienza dell’altro si incarni a sua volta.
«Il desiderio è un comportamento magico. Si tratta, poiché non posso cogliere l’altro se
non nella sua fatticità oggettiva, di far sì che la sua libertà si appiccichi alla sua fatticità
[…] in modo che il per-sé d’altri affiori alla superficie del suo corpo, e dilaghi in tutto il
suo corpo, e che toccando questo corpo, io tocchi infine la libera soggettività dell’altro. È
questo il vero significato della parola possesso. È certo che voglio possedere il corpo
23
Ivi, p.447.
35
coscienza dell’altro vi si identifica. Questo è l’ideale impossibile del desiderio: possedere
la trascendenza dell’altro».24.
Delimitato il campo dell’alterità, essa sarà solo questo: un oggetto, un corpo che potrà
essere accarezzato, toccato e quindi posseduto; ed ora come era nel caso dell’amore, nel
desiderio sessuale ci sentiamo rassicurati dalla minaccia che l’altro come trascendenza
poiché nel momento in cui tento di assaporare attraverso il mio corpo la coscienza che
affiora sulla superficie del corpo dell’altro, nel medesimo tempo essa svanisce e non
rimane che un oggetto; così si ritorna al punto da cui si tentava di fuggire attraverso il
desiderio sessuale. Infatti nel momento in cui tento di possedere l’altro attraverso la
propria oggettività per far sì che con la sua carne io arrivi alla sua coscienza scopro che ciò
che ho davanti è un mero corpo che in quanto esclusivamente oggetto mi sfugge in tutta la
sua trascendenza.
«Prendo e scopro nell’atto di prendere, ma ciò che prendo nelle mie mani, è una cosa
diversa da quello che volevo prendere; lo sento e ne soffro, ma senza essere capace di dire
cosa volevo prendere; perché con il turbamento, mi sfugge la conoscenza stessa del mio
desiderio; sono come un dormiente che, svegliandosi, si sorprenda con le mani contratte
sulla sponda del letto, senza ricordarsi l’incubo che ha provocato il suo gesto».25.
è, contemporaneamente, rifiuto di incarnarsi e quindi fuga dalla fatticità e allo stesso tempo
desiderio di impadronirsi della fatticità dell’altro. Dal momento che il sadico rifiuta la
24
Ivi, p.456.
25
Ivi, p.461.
36
propria fatticità, non vuole realizzare l’incarnazione dell’altro attraverso la propria carne
come accadeva nel desiderio sessuale; rifiutando la propria fatticità il sadico tenta di
incarnare l’altro attraverso degli strumenti tecnici di tortura che fungono da sostituti della
propria carne dal quale esso fugge. Il sadismo infatti gode della non reciprocità, prova
piacere nell’essere potenza libera di fronte a una libertà imprigionata dalla carne. L’intento
del sadico è quello di far scoprire la fatticità alla coscienza dell’altro, rendendola presente
attraverso la sofferenza. Il dolore procurato dalle torture attutate dal sadico sulla vittima è
la rappresentazione della fatticità che invade la coscienza. Dal momento che il sadico
vuole impadronirsi della libertà dell’altro, attraverso il corpo dell’altro usandolo come un
oggetto, egli pretende un tipo specifico di incarnazione che è quello dell’osceno; l’osceno
infatti rappresenta il genere dello sgraziato e quindi della fatticità pura. Nella grazia,
gesto preciso e perfetta imprevedibilità dello psichico, ciò che produce l’inquietudine in
noi; la grazia dunque rappresenta un essere che sarebbe fondamento di sé. Gli atti di un
corpo aggraziato dunque risulterebbero come degli abiti che rivestono la fatticità, di fatti
un corpo aggraziato anche se nudo non mostrerebbe mai l’inerzia della carne, anche se essa
fosse presente agli occhi dell’osservatore. L’osceno a cui ambisce il sadico, diversamente,
appare quando un corpo assume atteggiamenti che rivelano la pura fatticità e lo privano dei
suoi atti. Avevamo visto infatti come fosse fondamentale per il corpo l’azione, poiché nella
nostra esistenza, nel momento in cui ci trovavamo ad osservare un corpo esso non era mai
scisso dal mondo circostante bensì era sempre colto come corpo in situazione, la
dimensione corporale e l’azione erano copresenti. Il fine dell’osceno mira proprio alla
separazione e alla privazione degli atti dello stesso corpo. Nell’ottica di questa intenzione
il sadico cercherà di far assumere all’altro delle posizioni tali che il suo corpo assuma le
sembianze dell’osceno. Il fine del possesso però è simile a quello del desiderio sessuale,
perché anche il sadico non vuole possedere l’altro solo come corpo bensì ciò che desidera è
37
quella libertà imprigionata nella carne. Questo desiderio viene soddisfatto se la vittima per
sfinimento si umilia poiché il sadismo non richiede solo la visione dell’osceno, cioè del
corpo inerme ma anche dell’asservimento dell’altro; ciò che più gli provoca godimento è
vedere la libertà dell’altro identificarsi con la carne torturata. Per questo motivo il culmine
del piacere è rappresentato dalla vittima che si arrende al dolore e si umilia; se ciò non
avviene ed essa resiste e rifiuta di arrendersi, il gioco per il carnefice non è più così
fallire poiché è una flessione impossibile dell’in-sé-per-sé. Esso vorrebbe che l’altro fosse
accessibile e disponibile per la coscienza ma di fatto, dal momento che si mantiene nel
luogo coscienziale, il corpo dell’altro non può essere disponibile al potere altrui. I possibili
esiti del sadismo sono i seguenti: o la vittima si riduce a pura fatticità ma senza
l’incarnazione della coscienza e di conseguenza il fine del sadico non è raggiunto poiché
esso si ritrova semplicemente un corpo, un oggetto che non può nemmeno progettare di
assimilare per riacquisire il suo essere per-altri; o la vittima accetta il progetto del sadico,
risultando desiderabile agli occhi del sadico stesso e sfociando nel desiderio sessuale.
Oppure il sadico percepisce lo sguardo della vittima rendendosi conto che era quella la
essere-guardato.
impossibile dell’apprensione simultanea della sua libertà e della sua oggettività […]» 26
Attraverso questa citazione Sartre vuole affermare l’impossibilità di porsi sul piano
26
Ivi, p.471.
38
cerco e mi possiede quando cerco di sfuggirlo. Non vi è mai il riconoscimento reciproco
della mia libertà e quella dell’altro. Qualunque sia l’atteggiamento adottato, Sartre sostiene
39
Capitolo II - Emmanuel Lévinas “Il medesimo e l’Altro”
diviene uno dei massimi interpreti del pensiero dell’Alterità grazie alla riforma che egli
compie sul concetto di esistenza distaccandosi dai suoi maestri. La sua formazione
individuale è ricca e variegata, il filosofo è al confine tra due mondi e due linguaggi
radicalmente diversi. Da una parte c’è la filosofia di matrice greca, della scienza
dell’essere e del sapere come ricerca della verità, dall’altra la sua identità ebraica sulla
quale egli ha condotto molteplici studi, i quali hanno influenzato radicalmente la sua
visione dell’alterità. La condizione ebraica non viene vissuta dal filosofo come una
dell’ebreo consiste nell’ascolto della parola divina sotto forma di un’attenta sorveglianza
che si esplica nella difesa dell’intera umanità; tale compito a livello filosofico si esplica
attraverso un impegno etico verso gli altri. Nella nuova linea direzionale di Lévinas,
Edmund Husserl. La bipartizione classica relativa all’esistenza del mondo esterno che è
40
presente nella contrapposizione tra idealismo e realismo viene superata dalla originale
proposta Husserliana; essa infatti non si interroga sulla verità dell’oggetto a partire dal
poter ammettere l’esistenza puramente “cosale” degli oggetti senza il loro mostrarsi a
Nonostante le distanze che il filosofo lituano prenderà nei confronti della filosofia
il pensiero comincia dall’avvertimento di ciò che si dà al soggetto. Ciò che farà distaccare
quest’ultimo del primato dell’intenzionalità della coscienza sul mondo. Nella quinta
Meditazione cartesiana Edmund Husserl descrive un’analisi dettagliata sul mondo altrui
come alter-ego; da tale analisi se ne evince che l’esperienza fenomenologica attesta che
l’altro sia una realtà totalmente diversa dal soggetto che è nell’atto di percepirla; l’altro
L’aspetto rilevante della riflessione Husserliana consiste nel ritenere l’altro come una
coscienza e non come un oggetto; l’altro non è più l’oggetto passivo dell’esperienza che
sottostà ai comandi della coscienza che indaga bensì una realtà viva e indipendente. In esso
giunge a scoprire il limite invalicabile dell’approccio all’altro che egli tenterà di affinare
permette di pensare al rapporto tra l’io e l’altro come una corrispondenza tra vissuti,
persiste uno scarto nell’altro che non permette l’accesso diretto e immediato. Questa
dicotomia tra accesso e divieto costituirà la natura dell’altro come il totalmente diverso e
l’incontro con esso come un avvicinamento per separazione. L’unico elemento d’ausilio
sarà l’espressività, quindi la gestualità, la mimica facciale come una traccia fondamentale
41
della coscienza intenzionale dell’altro. Da queste righe descrittive si evince come la
filosofia Husserliana sia stata caratterizzante per lo sviluppo del pensiero di Lévinas
formazione giovanile, dà vita ad una Fenomenologia radicale, la quale prende in analisi più
aspetti del reale. Per inquadrare al meglio il pensiero di Lévinas ho ritenuto opportuno
analizzare la tripartizione che egli compie del reale, per avere un quadro di riferimento
dell’intera tesi Lévinassiana. I tre livelli d’esistenza del reale sono: L’essere o anche
chiamato da Lévinas stesso l’«il y a», l’ipostatico o anche detto «l’io» e «l’Altro». Nelle
seguenti pagine andrò ad analizzare il primo livello del reale, l’essere neutro, e il secondo
livello del reale, l’io come godimento, per riprendere successivamente nel quarto paragrafo
una descrizione il più possibile accurata del terzo livello del reale, cioè l’Altro.
2.2.1 L’Essere
Prendendo in analisi il primo livello del reale si ha: l’«il y a», l’essere in generale che il
filosofo francese indica come l’essere impersonale, il campo delle forze dell’esistere:
«[…] L’assenza di tutte le cose ritorna come una presenza: come il luogo in cui tutto è
sprofondato, come densità d’atmosfera, come una pienezza del vuoto o come il mormorio
del silenzio.[…]» 27
27
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, S. Petrosino La fenomenologia
dell’unico la tesi di Lévinas trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book Milano, 1980, p. xx.
42
Questa esperienza dell’essere in generale non è l’esperienza del nulla; Lévinas afferma
l’impossibilità dell’esperienza del nulla, sia a livello fenomenologico che sul piano logico.
In questa posizione egli si scaglia contro la tesi Heideggeriana secondo cui si possa fare
direttamente esperienza del nulla; ciò che infatti si può considerare come esperienza del
anonimo, «il y a», all’esperienza della notte e alla sofferenza; per quanto riguarda
l’esperienza notturna il filosofo sostiene che nell’oscurità della notte le forme sono
dissolte, l’oscurità stessa non è né un oggetto né una qualità di esso stesso, e nonostante ciò
la notte e con essa l’oscurità, invade come una presenza. In questa esperienza non si ha a
che fare con il nulla, inteso come niente, ma si esperisce una presenza-assenza che appare
«-Emmanuel Lévinas: […] La mia riflessione su questo argomento prende il via da ricordi
dell’infanzia; si dorme da soli, per gli adulti la vita continua; il bambino percepisce il silenzio
-Emmanuel Lévinas: Qualcosa di simile a ciò che si sente quando si avvicina all’orecchio una
conchiglia vuota, come se il vuoto fosse pieno, come se il silenzio fosse rumore. Qualcosa che si
può percepire anche quando si pensa che, persino se non ci fosse nulla, il fatto dell’«il y a» non si
può negare. Non che ci sia questa o quella cosa determinata, ma è aperta la scena stessa
dell’essere; il y a. Nel vuoto assoluto che si può immaginare prima della creazione –il y a.»28
28
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo. Castelvecchi 2012 Lit Edizioni Srl, p.
65.
43
Riguardo alla tematica dell’esperienza notturna, volgendo lo sguardo al testo Emmanuel
Lévinas Eros, Letteratura e Filosofia nella sezione degli scritti di gioventù in lingua russa
La Notte
Eclissati nell’angolo
Di lente frese
Sollevando le insegne?
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Abbiamo taciuto il tuo nome
Il volto freddo
Dalla Poesia si evince che la notte soffoca la realtà costituita di cose, sostituendola con uno
spazio di solo buio e ciò che rimane è un brusio, un rumore ripetitivo privo di senso come
una trottola che gira su sé stessa senza sosta. Il volto freddo è la fine del senso, la morte di
Dio. Non vi è più alcuna possibilità di agire, ciò che rimane è l’impotenza di fronte
Diversamente, per quanto riguarda l’esperienza della sofferenza, Lévinas sostiene che in
l’impossibilità radicale di porsi e nel medesimo tempo l’impossibilità di farla finita con
questa impossibilità; questa situazione non defluisce nel nulla dell’esperienza ma consiste
nel restare senza posizione, nell’impotenza sia dell’assunzione dell’essere sia della sua
negazione. Di conseguenza ciò che si chiama esperienza del nulla, per il filosofo francese è
l’esperienza della neutralità dell’essere che si esprime con il venir meno dell’identità del
qualcosa o del qualcuno, del venir meno che, però, non è nulla. Un ulteriore aspetto della
29
Emmanuel Lévinas, Eros, Letteratura e Filosofia, 2017 Giunti Editore S.P.A / Bompiani, p. 257.
45
«È quasi una vertigine per il pensiero affacciarsi sul vuoto del verbo esistere di cui sembra
non si possa dire nulla e che diventa intellegibile solo nel suo participio -l’esistente-, in ciò
che esiste.»30
La verbalità dell’essere di cui parla Lévinas è la distinzione tra verbo e sostantivo per cui
l’essente, ciò che è, è il soggetto del verbo essere, cioè colui che ha assunto l’essere, il
verbalità, l’immobile fluire dell’esistere, cioè l’esistenza impersonale «il y a»; il quale non
senza l’esistente, senza il soggetto, cioè il livello dell’essere come pura verbalità, come
presenza assenza di un vuoto pieno. Il passaggio dal primo livello del reale “l’essere
neutrale” al secondo livello del reale «l’io» è descritto nella poesia di Lévinas:
Io
E il nulla sussurrò: Io
30
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, S. Petrosino La fenomenologia dell’unico
la tesi di Lévinas trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book Milano, 198, p. XXIX.
46
Ecco la carne, come Pizia nella mistica fiamma
questo secondo livello del reale, si focalizza sul “come” un coagulo identitario si possa
distaccare dal neutro essere identificato come l’«il y a» e non sul perché l’evento accade.
Per il filosofo l’esistente rappresenta una frattura nell’essere, una discontinuità che in realtà
può solo essere descritta e riconosciuta nella sua modalità di attuazione ma non
nella sua causalità. Per Lévinas l’io si distacca dal neutro essere, proprio in forza del
come godimento. In virtù di questo punto di vista, il godimento non è da indentificare come
31
Emmanuel Lévinas, Eros, Letteratura e Filosofia, 2017 Giunti Editore S.P.A / Bompiani, p. 251.
47
un attributo o una facoltà del soggetto, ma come una condizione di possibilità per la
mettendosi in rapporto con il suo esistere. I due termini “posizione” e “separazione” stanno
«Il godimento è appunto la produzione di un essere che nasce, che rompe la tranquilla
eternità della sua esistenza seminale o uterina per rinchiudersi in una persona che,
affermare che il corpo in quanto godimento di… è l’avvento stesso della coscienza. Il corpo
non è un mero oggetto fisico bensì una posizione, una localizzazione. Il termine posizione
va preso etimologicamente nel suo senso proprio di fondamento, base e terreno fermo di
questa ipseità che rimanda a una posizione di potere, il quale è più specificatamente potere
sul mondo: l’io infatti gode e può nel suo mondo. Come vedremo successivamente
all’interno di questo scenario si collega il concetto di dimora come luogo in cui l’io si
neutro si concretizza ad un livello pratico come esistenza in una dimora. L’io dunque esiste
essere a casa propria. Attraverso il godimento l’io è nel mondo; come si manifesta questo?
Fino ad ora si è parlato di come il godimento sia stato l’artefice del distacco di questo
coagulo identitario dal fluire dell’essere. Essendo il godimento l’artefice del distacco
32
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book
Milano, 1980, p. 149-150.
48
dell’esistente dal puro esistere, è possibile solo in quanto bisogno, esso è ciò che
interrompe e che compie una frattura nell’essere: il coagulo infatti che si è distaccato dal
tutto, dall’essere nel quale era immerso senza distinzione nell’omogeneità dell’«il y a»,
dispone ora attraverso questa separazione del proprio essere e di conseguenza il suo
rapporto con il mondo è solo di bisogno. L’essenza del bisogno però non è solo la
l’io e il mondo dal quale esso ormai è in un rapporto di dipendenza. Si potrebbe dire in
altre parole che il bisogno è la conseguenza del distacco dallo stato di omogeneità
dell’essere, in cui si trovava precedentemente l’io; esso infatti nel momento della
separazione, trovandosi in una posizione di distanza, muta il proprio rapporto con il mondo
entrando in uno stato di dipendenza da esso. In realtà il bisogno, per Lévinas, non è la
causa del godimento bensì il contrario. Infatti, secondo il filosofo, il godimento è in realtà
la verità del bisogno: poiché l’essere umano è felice dei suoi bisogni, egli ha bisogno e,
avendo bisogno, gode di…; di conseguenza l’essenza del godimento è un vivere di…, e ciò
quanto gode della vita, il godimento è una sua proprietà, esso gode ed è felice del proprio
«Nel godimento io sono assolutamente per me. Egoista senza riferimenti ad altri - sono
Di conseguenza l’io, situandosi nel mondo, attesta la sua presenza attraverso il godimento
intenzionalità, sostituendo alla “coscienza di” il “vivere di” godimento. Il corpo come
33
Ivi, p.135.
49
godimento appare dunque come la contestazione del primato della coscienza; in questo
senso vi è si la coscienza, ma solo come effetto del dispiegarsi del godimento e della sua
legge. Il primo termine dell’esistenza è il godimento, non la coscienza. Il rapporto tra l’io
mondo sono lì e sono offerti a me in quanto si riferiscono al mio godimento e l’essere della
cosa è il suo essere a portata di mano, a portata di mano del mio godimento. Gli oggetti si
riferiscono al possesso e possono essere portati via e utilizzati. Esistendo l’oggetto, esiste
per qualcuno, gli è destinato e tutte queste possibilità indicano la sua presenza come offerta
modalità, questo atteggiamento dell’io sottolinea che la vita dell’io, del Medesimo come lo
chiama Lévinas, è originariamente e prettamente godimento del mondo, del suo mondo.
L’esistenza è possesso. L’esistenza come possesso può essere messa in luce anche
dell’essere neutro come puro fluire in rapporto essere-verbo. L’essente, ciò che è, è colui
che possiede l’essere, è il soggetto del verbo essere, il quale di conseguenza esercita una
padronanza sull’essere, sul suo essere. L’apparizione del sostantivo dunque del nome
indicherebbe l’evento per il quale l’esistente diviene soggetto, quindi sostantivo del verbo
essere, colui che ha assunto l’essere e per il quale esso è divenuto attributo. Possedere un
godimento è quello della temporalità e del rapporto che intercorre tra l’io e il tempo.
34
Ivi, p. XLI.
50
Il tempo dell’io per Lévinas è il presente. Infatti l’io, costituendosi attraverso il godimento
e per mezzo del suo godimento, pone il suo mondo, il quale è costituito da oggetti
l’esistenza di questo “io” che gode è il presente; l’io è al mondo ed è presente al mondo. Il
presente come tempo è la presenza del godimento, il quale si attua da un istante all’altro;
nell’istante infatti l’io “sta” ed è presente nel senso di “stare” nel suo godimento. In questa
esclusivamente al godimento dell’io. Questa presenza dell’io nel mondo al tempo presente
quale precisamente è una contrazione dell’ego; l’io è solo a distanza separato dalla totalità,
è per sé come «ventre affamato che non ha orecchie»35. Sempre riprendendo l’intervista
condotta da Philippe Nemo si evince come il tema della solitudine dell’essere sia di
successivamente infatti che l’io dovrà uscire da sé stesso, dalla sua dinamica di godimento
per poter incontrare l’alterità ed è solo questo che potrà liberare l’io dalle sue stesse catene.
«-Philippe Nemo: Lei continua affermando: «Io sono totalmente solo, perciò l’essere in
me, il fatto che esisto, il mio esistere costituisce l’elemento assolutamente intransitivo,
qualcosa senza intenzionalità e senza rapporto. Tra esseri ci si può scambiare tutto, tranne
l’esistere, e in questo senso essere significa isolarsi attraverso l’esistere. In quanto sono,
io sono monade. Io sono senza porte ne finestre a causa dell’esistere, e non per qualche
35
Ivi, p. 118.
36
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi, Roma 2012 Lit
Edizioni Srl, p. 72.
51
2.2.3 La dimora
Come affermavamo precedentemente nella descrizione del godimento come fondamento
raccoglimento scaturito dalla dinamica del godimento dell’io si esplica in modo concreto
l’attuazione stessa della separazione dell’io; esso infatti è nel mondo godendo degli oggetti
del mondo, ma lo è in un modo particolare, ovvero a partire dalla sua abitazione. L’io è
concretizza nella dimora, nella quale egli può ritirarsi in qualsiasi momento. Dimorare non
ma tale separazione non annulla il rapporto tra l’io e gli elementi del mondo; la dimora
infatti resta a modo suo aperta nella sua separatezza. Lévinas afferma infatti che essa
possiede porte e finestre che, conferendo una visione del mondo, rappresentano in senso
metaforico l’apertura e, con essa, l’accoglienza che l’io è chiamato a dare. La casa dunque
possiede in sé un’ambivalenza; non è solo l’elemento in virtù del quale l’io è separato e
raccolto in sé stesso ma è anche l’apertura alla socialità, attraverso le sue porte e le sue
finestre è nel mondo e, lo è, nel modo dell’accoglienza. Il presso-sé della casa non sta a
tematica della dimora sia strettamente connesso il tema della femminilità e del suo ruolo
all’interno dell’abitazione. Prima di descrivere il terzo livello del reale, cioè l’alterità, è
importante porre un quesito che è alla base della filosofia di Emmanuel Lévinas: come è
52
possibile pensare all’Altro? Nelle seguenti pagine proverò a giungere a una risposta
analisi su dei concetti chiave della filosofia, compiendo una frattura decisiva con tutto il
pensiero che lo precede. Secondo Lévinas per parlare dell’Altro dobbiamo rinunciare a
molte delle abitudini mentali e concettuali che abbiamo contratto nel corso della storia, e
più precisamente con quella che egli chiama la storia del pensiero occidentale. Per parlare
di Alterità infatti per il filosofo dobbiamo rinunciare a tre concetti fondamentali: l’essere,
la conoscenza e l’amore. Tali concetti nella loro essenzialità non sembrano poi così
sviluppa la sua filosofia ci porterà a cogliere, in questi tre modi di trattare la tematica
dell’Altro, qualche cosa che inevitabilmente distrugge l’Altro nel momento stesso in cui si
tenta di pensarlo. Partendo da quello più filosoficamente carico, cioè “l’essere”, nelle
prime righe dell’opera lévinassiana Altrimenti che essere, il filosofo chiarisce subito che se
si vuole parlare dell’Altro bisogna parlare di un altrimenti che essere e lo giustifica sulla
base di un’idea abbastanza radicale, cioè quella che nella storia del pensiero occidentale
non si è riusciti a pensare all’Altro se non a partire dall’essere. Lévinas all’interno del
testo prende in analisi il Sofista, poiché in questa opera Platone arriva ad un confronto
interno al problema dell’essere con il suo grande predecessore Parmenide, colui che
francese sostiene che nel dialogo Platone, confrontandosi con Parmenide, cerchi
aveva posto), ma nel far questo in realtà non trovi una vera alternativa all’essere, come
53
concetto cardine della filosofia, poiché ai cinque generi del Sofista manca il genere
opposto all’essere. In sostanza il problema cardine dell’essere è che esso è sempre stato
pensare. Platone infatti consegna un termine potentissimo, che però sembra sbarrare la
strada del pensare a qualcosa che vada al di là dell’essere, quello che per Lévinas è l’Altro.
Teeteto: come?
Lo straniero: quando diciamo qualche cosa non grande ti sembra che noi indichiamo con questa
Teeteto: no
contrarietà, ma questo soltanto, che le negazioni “me” e “ou”, poste avanti, indicano una cosa
diversa dalle parole che le seguono o piuttosto dalle cose alle quali si riferiscono le parole che
seguono la negazione.37
Per Lévinas in questo passo si evincono due elementi significativi: il primo è che Platone
tenta di risolvere il problema del non-essere in modo insufficiente; il secondo è che nel
semplicemente al diverso, Platone utilizza parole greche che descrivono l’Altro, rinviando
all’alterità, cioè eteron, allos e xenos. Inoltre è significativo per Lévinas che Platone
all’interno del dialogo faccia sostenere proprio ad uno straniero, “alterità” per eccellenza,
semplicemente a qualcosa di diverso. Con questa mossa Platone afferma l’inutilità del
37
Platone, Sofista, BUR classici greci e latini gennaio 2017, p. 441.
54
ricercare la modalità giusta con cui pensare e definire il non-essere, poiché quando si
lessico dell’essere. Seguendo la via platonica, infatti, i termini come lo straniero, l’eteron e
lo allon, verranno inclusi all’interno di un pensiero unico, cioè del pensiero dell’essere. In
tal modo lo straniero, affermando la risoluzione del problema dell’essere, ricade egli stesso
nell’unità dell’essere, in non-altro; dunque sembra solo in apparenza che si parli di diverso,
di altro, ma in realtà, secondo Lévinas, non solo lo straniero non è più straniero, ma non è
più possibile ormai pensare all’altro. Dunque bisogna trovare un altro modo per parlare
È interessante andare a comprendere quali tipi di strategie concettuali utilizza per re-
includere all’interno del nostro pensiero l’Altro senza tuttavia sfigurarne i tratti. Lévinas
compie un discorso cercando di porre il problema logico di come si possa parlare l’Altro
visibile dal di fuori. La pretesa trascendenza si riassorbirebbe così nell’unità del sistema
che distruggerebbe l’alterità radicale dell’altro.»38. Dal punto di vista logico questo
accade perché siamo abituati a pensare le relazioni costantemente in modo reversibile, cioè
qualche cosa che è solo momentaneamente Altro, ma che sostanzialmente può essere
ricondotto a non-Altro, e a pensare che c’è in fondo un piano comune che, quando
opponiamo due termini, rende possibile passare costantemente dall’uno all’altro. Quando
38
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book
Milano, 1980, p.34.
55
io parlo dell’Altro, presuppongo sempre un linguaggio che è un terreno comune; questo
terreno, questo linguaggio, queste regole comuni rappresentano l’essere che ci spinge a
dire che in fondo, quando parliamo del Medesimo e dell’Altro, stiamo in realtà parlando
della stessa cosa. È in questo modo che per Lévinas abbiamo già distrutto l’alterità
dell’altro, continuando a pensare alle relazioni come se si potesse andare da una parte
all’altra di un muro. Io sono io, sono qui e voi siete voi, siete lì, ma io posso andare da voi
e voi venire da me. Diversamente, per parlare dell’alterità dell’Altro, devo mettermi con
tutte e due i piedi nella mia sola posizione; solo il Medesimo in quanto coscienza di essere
«In caso contrario, il Medesimo e l’altro si troverebbero riuniti sotto uno sguardo comune
rimanere al punto di partenza, nel servire da ingresso alla relazione, nell’ essere il
In una filosofia che pone sul serio ciò, Il Medesimo deve restare il Medesimo, non può
pensare di far finta di poter momentaneamente abbandonare le parti dell’io per poter in
infatti, è una filosofia che assume radicalmente l’idea che il Medesimo parla per sé stesso e
in qualche modo l’Altro resta fuori da esso, ma ciò che può sembrare un gesto di
esclusione vedremo che in realtà è un gesto di inclusione. Il secondo concetto che Lévinas
39
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book
Milano, 1980, p.34.
56
Medesimo è fondamentalmente un modo di appropriarsi del mondo che Lévinas assimila
all’operazione fondamentale del nutrimento; esso non è un Io-penso astratto, non è una
«Certo, nella soddisfazione del bisogno, la estraneità del mondo che mi fonda perde la sua
alterità: nella sazietà, il reale sul quale facevo presa si assimila, le forze che erano
nell’altro diventano mie forze, diventano me stesso […] l’alterità dei nutrimenti entra nel
Medesimo.»40
Lo stesso meccanismo che accade nel livello astratto dell’essere, nel problema platonico
che riassorbe l’Altro, accade anche nella dimensione concreta del nutrimento; il Medesimo
trasformare l’energia che l’altro, cioè il mondo, gli offre, in qualcosa di suo, altrimenti
cessa di vivere. Ebbene per Lévinas l’azione del nutrirsi (gesto tipico del Medesimo), che è
l’assimilazione dell’altro, è identicamente anche alla base del conoscere; quando noi
conosciamo infatti non facciamo altro che mangiare a livello intellettuale. Conoscere
fino a ridurlo ad un concetto tematizzabile. Il terzo elemento che Lévinas sostiene di dover
abbandonare per poter parlare di alterità è l’amore. Secondo il filosofo lituano infatti anche
linguaggio- non si attua come amore. […] L’amore come relazione con altri può ridursi a
questa fondamentale immanenza, privarsi di ogni trascendenza, non cercare altro se non
40
Ivi, p.130.
57
nel Simposio di Platone, in cui l’amore riunisce due metà di un essere unico, interpreta
Per Lévinas ciò che esprime questo mito è un’altra versione del Medesimo. Nel mito infatti
non si cerca l’Altro, bensì si cerca di completare un tutto che per qualche motivo è stato
predominante all’interno del pensiero occidentale. Da tali analisi si evince che l’amore,
come la conoscenza e come l’essere, sono concetti che non portano all’alterità, bensì
diversamente che secondo il filosofo francese l’unica via d’accesso al pensiero dell’Altro
«Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente
altro.»42
nutre del desiderio stesso e della sua invisibilità, come dice Lévinas: «La vera vita è
assente. Ma noi siamo al mondo.»43. L’Altro che viene desiderato è un luogo mai visto che
risiede al di là di tutto ciò che può essere visto, vissuto e contemplato, nessun atto può
alimentato e nutrito dalla sua stessa assenza. Diversamente dal Desiderio il bisogno
41
Ivi, p.261.
42
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book Milano,
1980, p.31.
43
ibidem .
58
pieno e che ora nel momento del bisogno è perduto, vuoto, è essenzialmente nostalgia del
«L’Altro metafisicamente desiderato non è «altro» come il pane che mangio, come il paese
che abito, come il paesaggio che contemplo, come, a volte, io stesso posso apparire ai miei
occhi: questo «io», questo «altro». Con queste realtà, posso «nutrirmi» e, in larghissima
Il bisogno risiede all’interno del mondo, è l’espressione della distanza che vi è tra l’uomo e
le cose del mondo da cui l’uomo dipende, è la rappresentanza del rapporto che intercorre
distinzione tra Desiderio e Bisogno, Lévinas vuole far risaltare come il desiderio sia in
realtà una via per poter pensare all’alterità, all’Altro in quanto Altro, poiché nel desiderio
si va verso qualcosa che sfugge alla mia conoscenza, nel desiderio mi espongo all’ignoto e
«Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale
non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura che non è stato la nostra patria e
nel quale non ci trasferiremo mai. […] Il Desiderio è desiderio dell’assolutamente Altro.
Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei
44
Ibidem.
45
Ivi, p.32.
59
2.4 L’alterità come volto
La trama del reale non è solamente attraversata dal Medesimo, cioè dall’io, ma anche
dall’Altro; non vi è solo l’io con il suo mondo del godimento ma anche l’Altro. «Siamo il
Esso non è un’idea, un concetto ideale, ma è la concreta presenza dell’altro uomo; esso è
una presenza viva, è la franca presenza di un ente. Ciò che è interessante sottolineare fin da
subito è che per il filosofo lituano il carattere incomprensibile della presenza d’altri non si
descrive negativamente bensì positivamente. Il volto infatti non è segno. Esso è ciò che si
rifiuta ad ogni possibile rinvio ad altro da sé; senza alcuna mediazione infatti esso significa
per sé stesso e la sua significazione dipende interamente da sé. Il volto come presenza
dell’Altro consiste nel venire verso di noi, nel fare entrata. Esso non indica solo la presenza
quindi è la modalità attraverso cui si entra in relazione con l’altro. Questa modalità del
volto di presentarsi in quanto Altro, può essere descritta come Autosignificanza per
eccellenza; questo termine designa ciò che precisamente rimane dell’Altro una volta
esauriti tutti i riferimenti al mondo esterno e alla stessa esperienza interiore dell’io. Il
volto è descritto attraverso tre termini chiave, i quali permettono di esprimere al meglio la
quanto, essendo il modo in cui l’Altro si presenta, esso non si manifesta all’io come un
esprime. Per Lévinas il volto è espressione, esso non viene svelato come le cose, da
svelato infatti è sempre in relazione al soggetto che svela, non è kath’autò, non è
espressione indipendente. L’espressione del Volto consiste nell’essere, nel dirsi a noi,
46
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book
Milano, 1980, p. 37.
60
indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti.
Il volto si presenta da sé, esso è presente come colui che dirige la sua stessa
dell’espressione non risiede nel contenuto che fornirebbe su un eventuale celato mondo
interno, ma nella sua stessa autopresentazione. Esprimersi come volto significa presentarsi
e irriducibile.
Per quanto riguarda invece la Nudità del volto essa non è ciò che si offre a me affinché
esso venga svelato, non è una possibilità che si offre al mio potere e alle mie percezioni
fisiche; la nudità del volto consiste propriamente nel suo auto svelarsi, nel suo rivolgersi
personalmente a me. Essa rinvia al suo essere relativo a sé, è la stessa assenza di un
relazione con me solo nella misura in cui è interamente relativo a sé, poiché esso si situa al
ciò che gli è comune con altri esseri. In tal senso la nudità appartiene ad un essere che ha
esaurito tutti i suoi possibili rimandi ad altro senza dissolversi in questo esaurimento, è ciò
che non si esaurisce dell’altro quando non vi è più segno, immagine e forma. È la sua
stessa presenza, come nuda presenza. Si parla di noumenicità del volto poiché esso non
solo non è segno nel senso della cosa che rinvia al contesto, ma neanche nel senso del
fenomeno che rinvia al noumeno. Esso non è un fenomeno sensibile di un’interiorità intesa
come noumeno, è la stessa presenza umana come volto ad essere noumeno. Il fenomeno è
l’essere che appare ma resta assente, è l’essere che si assenta dalla sua stessa apparizione;
la verità dello svelamento è tutt’al più la verità del fenomeno nascosto sotto le apparenze.
Differentemente la verità del volto in sé non si svela, la verità del volto in sé si esprime,
61
volto rappresenta la concreta presenza dell’altro essere umano, ma tale concretezza nel suo
esprimersi resiste alla piena mostrabilità; è come se fosse una manifestazione di una certa
assenza e, nel suo apparire, in qualche modo il volto rivela un’estraneità, un’eccedenza di
senso. La presenza del volto è detta da Lévinas suprema proprio in virtù di questa
iniziativa e dal mio potere, è proprio tale indipendenza che conferisce nudità al volto, il
quale non è ciò che si offre a me perché lo sveli, ma ciò che si rivolge a me: questa è la sua
nudità. Non è l’io a vedere il volto, ma è il volto a sorprendere l’io, la sua presenza
consiste nel venire verso di noi. Di conseguenza il volto si sfigura, esso non si identifica
più con la figura che l’intenzionalità coglie, ma eccede la propria figura, nel senso che
eccede tutte quelle proprietà fisiche che l’intenzionalità può cogliere. Esso non è rinchiuso
nella sua forma fisica e offerto alla mano dell’intenzionalità, bensì come dicevamo
stessa presenza è noumeno. Diversamente dal volto le cose non si presentano mai
personalmente, poiché non hanno un identità, le cose danno presa, sono esseri senza volto.
In questo senso si può dire che il Volto è astratto, è astratto proprio perché resiste al
scaturisce non indica un’assenza di rapporto con l’altro come volto, bensì implica lo stesso
rapporto con ciò che non ci è dato e di cui non c’è idea. Il volto dunque è significazione
senza contesto, solitamente ogni significazione, nel senso usuale del termine, è relativo ad
Diversamente il Volto è soltanto per sé: esso non è un mio oggetto intenzionale, non è
dato, non è un fenomeno capace di essere percepito, rappresentato e pensato; esso non può
divenire un contenuto afferrabile dal pensiero, non può essere tematizzato e quindi
62
all’altrimenti che essere. Sottraendosi al mio possesso nella sua epifania, il volto, che a
livello sensibile è ancora tangibile, muta in resistenza totale alla presa. Da questo punto di
poiché appare concretamente attraverso le sue qualità fisiche, ma in quanto non segno non
dirigersi verso l’io, il fare entrata, l’irrompere, inquietandolo e risvegliandolo dal suo
mondo. Dunque potremmo dire che fermarsi al mondo significa non oltrepassare
l’orizzonte dell’io e del suo godimento, mentre essere sorpreso dal volto dell’Altro
Lévinas riflette sulla categoria filosofica dell’individualità: per il filosofo francese essa,
originaria e assoluta, si mostra solo come volto e appare enigmaticamente come volto; è
resistere alla presa da parte del soggetto, alla piena mostrabilità, risultando in un certo
senso invisibile. Sorprendendo l’io il volto si presenta in quanto “unico”, cioè come colui
che non è mai stato presente, che nessun contesto esprime e ha mai espresso, il quale è
assolutamente assente da ogni possibile contesto poiché è contenuto solo nella sua propria
espressione. È il paese che desidero ma non potrò mai visitare. L’Altro come volto è unico
in quanto è assente da tutto ciò che è altro da sé; egli non è raggiungibile a partire dall’io
unicità può essere evidenziato anche in riferimento alla definizione di volto come
noumeno: tale definizione infatti non sta a significare che il volto è tutto manifestato e
disponibile, piuttosto designa che non vi è altro posto dove il volto dell’unico
63
manifesterebbe la sua verità. È la sua stessa “espressione” ad essere tutta espressa e tutta
d’altro. L’unico si esprime nel mondo come estraneo ad esso e quindi come astratto e
invisibile. Ciò che è interessante domandarsi è se del volto si possa fare esperienza
concreta nonostante la sua estraneità. È certo che, se per esperienza intendiamo il rapporto
che lega il soggetto all’oggetto cioè il rapporto intenzionale che permette all’io di
raggiungere l’altro per tematizzarlo, allora si può dedurre che del volto non vi può essere
alcuna esperienza, poiché esso non può essere ridotto ad oggetto tematizzabile in quanto
inconoscibile per natura; Se invece con il termine esperienza intendiamo l’incontro con ciò
che entra nel mondo, ma non è del mondo, bensì è al di là di esso, allora il rapporto con il
L’inconoscibilità e l’inafferrabilità del volto si ritrovano anche nella figura del femminile
all’interno della dinamica dell’eros; vedremo infatti nelle successive pagine come il
47
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo. Castelvecchi 2012 Lit
Edizioni Srl, p. 64.
64
2.4.1 L’eros come relazione con l’Altro e la femminilità
L’apertura dell’io sull’Altro è descritta da Lévinas come sessualità: secondo il filosofo
infatti essa è una relazione senza avere, è una relazione che non mira al possesso bensì,
nella voluttà e nella carezza, l’io esce da sé, uscendo dunque dal regno del possesso.
Prendendo in analisi la carezza, notiamo che essa non è un semplice contatto, non rientra
semplicemente nella dinamica sensitiva. Nonostante essa abbia a che fare con la carne,
essa non mira alla tenerezza e al calore della carne, non cerca di possedere, bensì cerca,
questo è il suo fine. La ricerca costituisce infatti l’essenza della carezza; essa è una ricerca
che non mira al possesso ma è come un gioco con qualcosa che si sottrae. Per questo
motivo la carezza è una relazione con l’Altro in quanto Altro: il suo fine non è quello di
possedere un oggetto-carne bensì è cercare ciò che si cela, è cercare il nascosto senza
svelarlo.
«[…] come se la carezza si nutrisse della propria fame. La carezza consiste nel non
impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso
un avvenire- mai abbastanza avvenire- nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse
La maniera in cui l’estraneo è toccato nell’eros non è appunto il contatto, bensì è la voluttà
stessa della carezza. Contrariamente a come si pensa, per Lévinas nella voluttà il soggetto,
cioè l’io, si alleggerisce dal suo stesso essere, si alleggerisce da ogni possesso; nella
rappresenta un modo d’essere che consiste nel sottrarsi essenzialmente alla luce,
rappresenta il mistero, è ciò che apre all’infinito. È evidente come l’esperienza della
verginità rinvia alla presa di coscienza da parte dell’io che per entrare in rapporto con
l’Altro si deve accettare una distanza, la quale non è posta dal Medesimo, bensì
dall’alterità dell’Altro. Dunque l’essenza dell’eros consiste nel mistero e, più precisamente,
l’essere del mistero, quello la cui esistenza consiste nel pudore e nella verginità.
Nonostante il tema della femminilità subisce delle metamorfosi all’interno della filosofia di
Lévinas, esso mantiene delle linee comuni in tutto lo sviluppo del pensiero. Comparendo
per la prima volta come alterità assoluta di una trascendenza che distrugge il dominio della
luce (quello che Lévinas definisce come dominio del soggetto conoscente), il concetto di
femminilità muta rappresentando all’interno della tematica della dimora, l’ospitalità per
Nonostante le metamorfosi il tratto caratteristico del tema della femminilità che si evince
anche nell’esperienza erotica è il fatto che la figura femminile rimanga una presenza che al
una continua ripresa della verginità, l’intoccabile persino nel contatto della voluttà, nel
presente-futuro. Non come una libertà in lotta con il suo conquistatore, che rifiuta la sua
reificazione e la sua oggettivazione, ma una fragilità al limite del non-essere; del non-
essere in cui non trova un luogo soltanto ciò che si estingue e non è più, ma ciò che non è
ancora.»49
49
Ivi, p.266.
66
2.5 L’etica come spazio della relazione tra il Medesimo e l’Altro
del Medesimo nell’incontro con l’Altro deve essere inteso come un meccanismo originato
dal volto stesso. È la relazione stessa con il volto ad essere traumatica. Inoltre il volto nel
Lévinas chiama il “faccia a faccia”, il quale non è il semplice trovarsi di fronte all’Altro,
intercorre tra il Medesimo e l’altro; in esso la relazione con l’Altro si presenta in maniera
dell’io e istaurando il discorso, e non il Medesimo a dirigersi per primo verso l’Altro.
«Il fatto che il volto abbia attraverso il discorso una relazione con me, non lo situa nel
Il Medesimo infatti risulta surclassato dalla presenza infinita del volto. Nella dinamica del
“faccia a faccia” esso non ha il potere di tematizzare l’oggetto che ha di fronte bensì ne è
surclassato, ritrovandosi in uno stato di passività estrema, poiché è proprio l’io a dover
«L’infinito si presenta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si
erge dura ed assoluta dal fondo dei suoi occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua
sua miseria e la sua nudità-con la sua fame-senza che io possa restare sordo al suo
appello.»51
50
Ivi, p.200.
51
Ivi, p.205.
67
In questa messa in discussione il Medesimo non ha più scampo, non può ritirarsi nel suo
godimento e nella sua dimora bensì si sente convocato a rispondere. La prima parola del
volto è un imperativo che prescrive l’inviolabilità stessa del volto, il «tu non mi ucciderai».
Uccidere infatti non è il tentativo di dominare bensì di annientare; tale desiderio nasce
proprio dal sentimento di passività che il Medesimo prova di fronte alla trascendenza
dell’altro. Esso infatti non solo è colui che è assolutamente indipendente e quindi al di là
del potere, ma è anche colui che paralizza lo stesso “potere di potere” del Medesimo,
attraverso la propria forza disarmante che in realtà è debolezza. Assistiamo qui a una forte
maestro, sia l’appello del debole che chiede aiuto. In questo senso il Volto rappresenta un
movimento di resistenza alla presa che nega la sfida violenta. La stessa resistenza infatti va
interpretata non come azione dura e violenta bensì pacifica come un’apertura al dialogo,
invito alla relazione; è per questo motivo che Lévinas sostiene che il volto istauri il
discorso. Ma come può l’io, che è essenzialmente chiuso nel suo godimento, entrare in
relazione con l’Altro rispondendo all’appello senza privarlo della sua alterità? La risposta
di fondo a domanda per Lévinas è l’etica. Essa ha origine dalla chiamata, dall’appello che
l’Altro come volto rivolge al Medesimo; nell’incontro con esso infatti riconosco che c’è
un’alterità della quale io sono responsabile. Il verbo francese regarder esplica questo
faccia qualcosa per prenderla in considerazione (significato che rinvia alla visione del
volto), sia riguardare nel senso di qualcosa che mi riguarda, di cui mi devo occupare
(significato che rinvia alla responsabilità che l’io sente nel momento in cui è di fronte
all’Altro). Da ciò si evince il fatto che sia proprio la visione del volto d’Altri a istaurare e a
generare la responsabilità nell’io. Essa, svuotando l’io dal suo egoismo e imperialismo, lo
conferma nella sua ipseità costituendolo come soggetto. La reciprocità della responsabilità
non è affare del Medesimo. La parola «io» in questo caso significa «eccomi»; tale termine
68
esprime la disposizione dell’io all’accoglienza dell’Altro, che rappresenta il movimento
che l’io compie dirigendosi verso l’Altro per spogliarsi della propria identità e lasciarlo
reciprocità della responsabilità infatti non è affare del Medesimo; esso è responsabile a
«Dire «eccomi», fare qualcosa per un altro, donare: essere spirito umano significa questo.
[…]( non riesco ad immaginarmi cosa potrebbero mai donarsi gli angeli o come
potrebbero aiutarsi reciprocamente).»52
etica. Essa, nonostante fondi la prossimità con l’Altro, non tende a dissolvere i due termini
separati in un’unità, poiché la prossimità che istaura la relazione etica non è una prossimità
spaziale in cui la distanza tra il Medesimo e l’Altro viene a ridursi o addirittura a colmarsi,
bensì una prossimità nel senso di responsabilità. Il Medesimo è prossimo all’Altro poiché
Lévinas, poiché essa non solo è basata sull’idea che i due termini di relazione non possano
e non debbano totalizzarsi, ma permette anche il rispetto dell’Altro in quanto Altro, senza
la compromissione della sua alterità. Nella relazione etica l’Altro, nonostante abbia una
natura che non permette la piena comprensione, non sfugge nell’ineffabile, ma nella sua
«Noi chiamiamo etica una relazione tra due termini dove l’uno e l’altro non sono uniti né
per una sintesi dell’intelletto, né per la relazione da soggetto a oggetto, e dove tuttavia
52
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi 2012 Lit
Edizioni Srl, p.94.
69
l’uno giova o importa o è significante all’altro, dove essi sono legati da un intrigo che il
La dimensione etica tuttavia non si struttura come una relazione «intenzionale», come ad
esempio quella conoscitiva, nella quale siamo volontariamente collegati e proiettati verso
Lévinas infatti la trama del reale è costituita dalla dinamica etica; in questo senso essa non
appare più come uno strato secondario astratto, costituito da norme di comportamento del
vivere comune, bensì come un modo d’essere in relazione con l’Altro nel rispetto della sua
trascendenza. È per questo motivo che viene posta l’etica come filosofia prima, poiché è
solo attraverso essa che si può pensare all’Altro distaccandosi da una modalità di pensiero
occidentale, più precisamente l’ontologia, è stata una filosofia che ha posto come termine
primo l’essere, non rispettando l’alterità dell’Altro. Sostanzialmente egli vuole affermare
che nel suo procedimento l’ontologia non accetta realmente la diversità, non né rispetta
«La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al
Medesimo.»54
53
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaka Book
Milano, 1980, p. LXV.
54
Ivi, p. 41.
70
Capitolo III - Il confronto tra Sartre e Lévinas e la scomparsa
dell’Alterità dalla società
Dopo aver analizzato nei seguenti capitoli le rispettive posizioni dei filosofi riguardo al
filosofi seguendo un cammino prestabilito; per primo cercherò di analizzare come i due
filosofi si raffigurino l’alterità, successivamente quale sia la loro reazione di fronte ad essa
e come entrambi ne vivano l’esperienza erotica, per poi concludere con l’analisi di come
Partendo dalla prima tappa di questo cammino, si evince molto presto che entrambi i
che non può essere guardato –intromissione-. Il per-sé infatti scopre la presenza di un altro
uomo nel suo mondo, attraverso la percezione di essere guardato, cioè di avvertire uno
sguardo su di sé. Questo sguardo inquieta il per-sé, perché nel momento in cui è cosciente
di essere guardato avverte di essere in ostaggio; l’altro come sguardo infatti non solo gli
rivela la propria fatticità (dalla quale egli fugge) ma gliela rivela anche in un modo in cui
egli non potrà mai vederla. L’altro per Sartre è colui che mi vede in un modo in cui io non
mi vedrò mai, è colui che mi fissa nella fatticità, rendendomi oggetto del proprio mondo.
turbato poiché per esso, essere, vuol dire scegliersi e percependo la privazione della
propria libertà sente di aver perso il il suo essere costitutivo. Nello sguardo dell’altro infatti
71
non possiedo più la libertà di progettarmi in modo differente da quello che sono attraverso
la mia coscienza, bensì sono incatenato al mio essere, alla mia pura fatticità.
Diversamente per Lévinas la concreta presenza dell’altro uomo si concretizza nel volto; in
trascendenza. Esso, nonostante si presenti in modo personale, è ciò che resiste alla piena
mostrabilità, eccedendo la sua stessa forma fisica. Il volto, cioè l’Altro, sorprende e
rappresenta l’incarnazione sia del bisognoso che mi chiede aiuto, sia del maestro che mi
comanda di rispondere al suo appello. Da queste righe di confronto risulta evidente che per
sguardo rinvia a una dimensione non solo di intromissione nel proprio mondo ma anche di
un’esistenza misteriosa e trascendente, cioè è colui che in qualche modo mi affascina con
la sua vulnerabilità e maestosità, in Sartre avviene l’opposto. In esso vi è quasi una paura
dell’altro poiché è colui che mi rivolge una dichiarazione di guerra, è colui che mi guarda e
progetta di assoggettarmi ed infine è colui che non riesco a possedere in quanto la sua
dell’Altro non si è, e non si può più essere liberi. Diversamente invece, per Lévinas è
proprio l’Altro a liberare l’io dalle sue catene, dal suo mondo del godimento, costituendolo
Ciò che ora, successivamente a quanto detto sopra, è importante chiedersi, è come
proprio essere e della propria libertà e non accettando questa condizione, progetta di
liberarsi dallo sguardo altrui, cercando di oggettivare a sua volta quest’ultimo per rientrare
in possesso sia del proprio essere sia della propria liberta, passando da una posizione di
72
passività a una posizione di attività. Dunque il meccanismo che è alla base dell’incontro
con l’altro e quindi della reazione che esso comporta, è la fuga dalla passività, cioè
fronte a questa totale trascendenza. Questa impossibilità di potere si presenta come una
passività totale di fronte all’appello del volto, poiché il Medesimo si sente convocato a
rispondere; Lévinas insiste molto su questo punto sottolineando il fatto che questa
deriva, però, liberano l’io dalle catene del suo egoismo e lo costituiscono come soggetto
insostituibile: da questo si evince che, ciò che potrebbe sembrare una totale passività, in
realtà designi uno stato di attività da parte del Medesimo. Esso infatti, nel rispondere
all’appello dell’altro, si costituisce come soggetto che aiuta e che è insostituibile in questo
aiuto. Quindi si potrebbe dedurre che la modalità di reazione del Medesimo di fronte
Lévinas sia proprio l’alterità a far uscire l’io dalla sua profonda solitudine; l’io di Lévinas
infatti percepisce il proprio io come una prigione e ha bisogno dell’Altro per potersi
liberare. Se è vero che da una parte l’io si era costituito un’identità proprio attraverso il
godimento distaccandosi dall’«il y a», dall’altra l’io necessita dell’altro per uscire
Ciò in Sartre non accade, poiché il per-sé prima dell’incontro con l’altro era libero,
attraverso la propria coscienza, di intenzionare gli oggetti del mondo e di progettarsi come
essere, in quanto ciò che caratterizza e rende l’essere umano ciò che è, è la sua libertà; esso
infatti “gioca ad essere” sé stesso. In entrambi gli autori è presente sia una parte di
73
passività e sia una parte di attività nei confronti dell’alterità, con la differenza che in
oggettivazione per assoggettare l’altro a sua volta, riacquisendo uno stato di attività. Il
Medesimo accoglie l’Altro nella sua alterità; il per-sé tenta di ridurre l’altro ad oggetto per
dell’erotismo: l’eros infatti rappresenta uno degli l’incontri più intimi che si compie con
l’alterità; anche in questo aspetto i due autori hanno posizioni molto differenti l’uno
dall’altro.
sotto forma di escamotage. Ciò che si desidera nell’eros non è solo la carne del corpo, ma
anche qualcosa di più fondamentale; il per-sé nel desiderio scivolando nella propria carne e
vivendo a pieno la propria fatticità, induce l’altro a farsi carne a sua volta e a far si che la
sua coscienza scivoli anch’essa nella carne. In questo modo è evidente che il per-sé non
mira a possedere solo un corpo bensì il suo fine è di possedere la coscienza dell’altro
attraverso la carne, cioè un corpo già posseduto. Inducendo attraverso il suo corpo l’altro a
del corpo, per far si che nel momento in cui esso possieda il corpo possa possedere anche
la coscienza dell’altro. Nella sessualità di Sartre vediamo proprio l’intento di ridurre l’altro
a pura fatticità per fare in modo che la sua coscienza si identifichi con tale fatticità e si
lasci prendere. Il per-sé vuole asservire l’altro in quanto lo sa libero, non per puro desiderio
di possedere, poiché è la libertà dell’altro che lo inquieta; la violenza infatti nasce proprio
dal desiderio contraddittorio di trattare l’altro come oggetto, sapendolo libero. In questo
74
imprigionarlo e di ridurlo a pura fatticità. In tal senso la sessualità non diviene
Diversamente in Lévinas l’eros viene concepito in maniera del tutto differente, esso
riduzione dell’alterità dell’Altro, bensì in esso si fa piena esperienza del suo mistero. Egli
infatti scrive:
«Bisogna riconoscere il suo posto eccezionale tra le relazioni: è la relazione con l’alterità,
con il mistero, cioè con l’avvenire, con ciò che, in un mondo in cui tutto si trova là, non si
viene descritta non come un possesso bensì come un entrare in contatto con il mistero,
nell’affermazione del Medesimo sull’altro, al contrario designa la debolezza; l’io nell’ eros
non tenta di affermarsi bensì si perde nell’alterità dell’altro. Per confrontare al meglio le
diverse posizioni, è interessante introdurre la tematica della carezza che entrambi i filosofi
carezza (cioè attraverso la sua carne) fa nascere la carne dell’altro e tale atto esprime in
concreto il tentativo di incarnare la coscienza dell’altro, di farla scivolare nella sua stessa
carne. Se si riflette sull’azione in sé, infatti si nota che la carezza svela sia la carne di chi è
55
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi, Roma 2012 Lit
Edizioni Srl, p.77.
75
nell’atto di compierla, sia la carne di chi viene accarezzato; in questo senso è evidente che
il desiderio che è alla base della carezza, è quello di far affiorare la coscienza nella carne
delimitando il campo dell’alterità, l’altro sarà solo questo, un oggetto, un corpo che può
In Lévinas diversamente la carezza non si limita all’aspetto sensitivo della carne; il suo
intento non si esplica nel contatto e nel possesso bensì nella ricerca. L’atto di accarezzare
rappresenta il desiderio di sollecitare ciò che sfugge. È questo il suo nutrimento, la ricerca
stessa di un qualcosa che non verrà mai rivelato; essa consiste nel cercare il nascosto senza
svelarlo. Per questo motivo Lévinas sostiene che la carezza sia una modalità di relazione
con l’Altro in quanto Altro, poiché essa cerca senza svelare, si nutre della distanza e del
mistero dell’Altro.
«La carezza non cerca la morbidezza vellutata o il tepore della mano offerta nel contatto.
L’essenza della carezza è il suo stesso cercare, poiché essa non sa cosa cerca. […]È come
piano, non con ciò che può divenire nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa
Si potrebbe dire che essa è una sconfitta felice poiché si nutre di ciò che in realtà gli sfugge
continuamente. Da questo ulteriore aspetto è evidente che le due concezioni sono molto
lontane poiché il desiderio del primo è quello di immobilizzare l’altro rendendolo oggetto,
mentre il desiderio del secondo consiste nel cercare il nascosto tentando di viverne
In ultima analisi credo sia interessante confrontare come entrambi i filosofi concepiscano
la relazione con l’alterità. Per quanto riguarda Sartre è importante precisare primariamente
56
Ibidem.
76
che è impossibile, secondo il filosofo, porsi su un piano di uguaglianza in relazione
all’alterità. Se l’altro infatti è colui che mi guarda e attraverso tale atto riduce la mia
esistenza a pura fatticità, privandomi della mia libertà, io non posso fare altro che tentare di
ribaltare la mia condizione cercando di riassumere la mia libertà per assoggettare l’altro a
mia volta. Ma da tale meccanismo non vi è assolutamente via d’uscita poiché o sono lo
sguardo che riduce l’altro a pura oggettità, oppure sono l’oggetto posseduto dallo sguardo
dell’altro; qualunque sia l’atteggiamento adottato secondo il filosofo non si può uscire da
questo circolo di mancati riconoscimenti e non si può ambire a uno stato di reciproco
è evidente che per Sartre la relazione con l’altro può concepirsi solo come conflitto
incessante. Giunti fin qui si può affermare che per il filosofo l’unica soluzione al conflitto
sia quella di evitare il più possibile i contatti con l’alterità, in modo da evitare sia la
Nonostante anche per Lévinas la relazione con l’Altro si definisca in modo asimmetrico,
precedentemente è l’Altro che fa irruzione nel Medesimo e che, attraverso il suo appello,
interrompe la tranquillità dell’io. Ma tale appello non si presenta come una dichiarazione
di guerra, né come un attacco, bensì come un invito al dialogo. Ed è proprio nel momento
suoi confronti. Per Lévinas la relazione etica che si istaura tra il Medesimo e l’Altro è
caratterizzata dal rispetto sia della distanza che vi è tra i due soggetti, sia dal rispetto
77
che lo riguarda personalmente. In tal modo nella relazione etica è possibile concepire un
rapporto con qualcosa che, nonostante sfugga alla piena comprensibilità, possa rimanere
comunque significante e non indifferente. È evidente che rispetto a Sartre, Lévinas riesce a
concepire un rapporto con l’alterità che non sia solamente in termini di conflitto e di
Come abbiamo visto in queste pagine, nonostante i due filosofi partano da due prospettive
diverse e arrivano a conclusioni potremmo dire opposte, vi è tra i due un punto di contatto
molto importante. Per entrambi i filosofi l’altro nella sua essenza rimane irriducibile; esso
infatti non si lascia prendere completamente sia che si parli del volto e della sua
trascendenza assoluta, sia che si parli dell’altro riducibile ad oggetto. In entrambe i casi,
l’altro rimane inconoscibile e separato dall’io. Questo punto di contatto tra i due filosofi
però comporta un ulteriore differenza che credo sia fondamentale. Sembrerebbe infatti che
per Sartre questa distanza e inconoscibilità intrinseca dell’altro sia negativa, fonte di
l’espulsione della figura dell’alterità nella nostra società. Giunti quasi alla conclusione di
società, sostenendo che all’interno di essa si sia attuata una vera e propria espulsione
dell’Altro e della sua negatività, e che tale espulsione abbia comportato delle gravi
conseguenze
78
3.2 La scomparsa della figura dell’alterità nella società
«Il tempo in cui c’era l’Altro è passato. L’Altro come mistero, l’Altro come seduzione,
l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore
All’interno del suo testo L’espulsione dell’Altro il filosofo sudcoreano descrive una società
l’aspetto negativo dell’alterità) sono scomparse e con la loro scomparsa si sono verificate
importanti modifiche sia alla struttura della stessa società, sia alla struttura psichica dell’io.
una società priva della figura dell’alterità. La società presentata dal filosofo è una società
paragonabile al quadro Il paese della cuccagna di Bruegel, nel quale viene mostrata una
società satura di positività; all’interno del quadro sono raffigurati degli uomini apatici
sdraiati ovunque, con corpi gonfi e sfiniti dalla sazietà. Tutto ciò che è all’interno del
quadro può essere mangiato e bevuto, tutto è disponibile alla fruizione di questi uomini
spossati ed anche il cactus, l’elemento ostico per eccellenza, è offerto alla fruizione poiché
esso non ha spine ed è fatto di pane. L’eliminazione di ogni negatività e quindi potremmo
società consumistica; in essa gli oggetti non conservano il loro significato originale.
La parola oggetto infatti proviene dal verbo latino obicere che significa tenere davanti,
gettare contro. In tale società gli oggetti di consumo non mantengono la negatività
intrinseca dell’obicere, bensì sono merci che non si oppongono a me ma il cui fine è di
adattarsi al mio piacere, proprio come avviene nel quadro appena descritto. Ne è un
57
Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, 2017 nottetempo srl Milano, p.7.
79
ulteriore segno, spiega il filosofo, l’ordine digitale: in esso vi è una progressiva
eliminazione del corpo del mondo; gli oggetti digitali infatti non sono come gli oggetti
consistenza fisica una loro resistenza, bensì sono privi di peso e quindi privi di ogni forma
di contrasto.
della società; in essa infatti vi è l’abolizione della lontananza. Come abbiamo visto
precedentemente con Lévinas, la distanza come estranietà era un tratto caratteristico della
natura dell’alterità, essa custodiva e salvaguardava l’alterità stessa dell’altro. Nella rete,
diversamente, viene abolita ogni forma di lontananza, ma tale eliminazione non genera
maggiore vicinanza con l’altro bensì la elimina; nell’assenza di lontananza infatti non vi è
più risonanza dell’Altro e tale risonanza esige la distanza, poiché è proprio quest’ultima a
mettere in rilievo l’alterità dell’altro. Al posto della vicinanza emerge l’assenza di distanza,
ma in questo modo non vi può più essere nessun incontro con l’Altro poiché esso esige una
«La comunicazione attuale non permette di dire Tu, di invocare l’Altro. L’invocazione
concepita proprio per annullare ogni distanza. Attraverso i media digitali cerchiamo oggi
di avvicinare l’Altro quanto più possibile. In tal modo non abbiamo più a che fare con
Con la progressiva scomparsa dell’alterità viviamo in una società che diventa sempre più
l’alterità dell’altro (in questo somiglia molto al soggetto Sartiano) per esso ha senso solo
ciò in cui può riconoscere in qualche modo se stesso; in questo modo non solo il mondo gli
58
Ivi, p.84.
80
appare come delle sfumature del suo sé, ma anche l’Altro, privato della sua alterità, si
degrada a specchio del soggetto confermando quest’ultimo nel suo ego. Dunque l’io
sprofonda ovunque in sé stesso. Secondo il filosofo oggi la maggior parte delle energie
libidiche vengono investite tutte nell’io; tale accumulazione narcisistica conduce a una
perdita della libido oggettuale e a un ripiegamento dell’io su sé stesso. Esso annega nel sé.
Ciò accade perché l’Altro, come forma di controparte dell’io, non c’è più; il soggetto
narcisistico non è più in grado di riconoscere i propri limiti e in questo modo si confonde la
soglia che definisce la distanza tra lui e l’Altro. Poiché è proprio la negatività dell’Altro,
negatività fanno ammalare il Medesimo, il quale diviene del tutto incapace di uscire da sé
stesso. Così imprigionato, si ostina in sé stesso e perde ogni tipo di rapporto con l’altro,
contribuendo in questo modo a un’erosione maggiore del sé. Ma solo l’Altro, come
sosteneva Lévinas, è in grado di liberare l’io dalla sua incapacità di uscire da sé stesso. È
l’Altro come enigma, l’Altro come mistero a liberare l’io dalla sua prigione. Tale concetto
viene espresso molto bene nel film di Lars Von Trier Melancholia, in cui la protagonista
Justine, in un cielo notturno, scopre una stella che invia dei bagliori rossi e che più tardi si
scoprirà essere una “cattiva stella”, cioè un evento apocalittico disastroso. Il pianeta
viene raffigurata Justine sulle sponde di un fiume pervasa dalla voluttà, mentre si stiracchia
nel fascio di luce azzurra del pianeta; l’Altro atopico rappresentato dal pianeta scatena
nella protagonista un desiderio erotico. Nella scena infatti parrebbe proprio che Justine
desideri la collisione mortale con tale pianeta. La percezione di morte imminente risveglia
in lei il desiderio dell’Altro e la apre all’Altro; essa, liberata dal suo narcisismo, si dedica
con premura alla sorella Claire e a suo figlio. Dunque con l’arrivo del pianeta, cioè di
81
questa alterità atopica, Justine subisce una metamorfosi totale e da soggetto depresso,
chiuso nel suo narcisismo, essa diviene soggetto amante. Dalla negatività dell’evento
apocalittico ne deriva un effetto catartico e curativo. Tale esperienza può essere paragonata
dalla sua prigione. Come in Lévinas, anche nel film l’eros rappresenta l’incontro con
l’Altro in quanto Altro; esso infatti strappa il soggetto da sé stesso e lo volge verso l’Altro.
Secondo Byung-Chul Han una delle conseguenze più gravi dell’espulsione della alterità
dell’amore in sentimenti piacevoli e privi di rischi. Partendo dall’eros si nota che in tale
società la sessualità diviene anche essa prestazione; l’Altro, privato della sua alterità,
diviene un oggetto di eccitazione, ed essendo divenuto un oggetto sessuale esso può essere
solo consumato e non incontrato. Ridotto a pura oggettità esso non possiede più un volto,
non esprime attraverso sé stesso la propria unicità, bensì diviene una faccia priva di segreti
esposta come una merce. Nella pornografia infatti tutti i corpi si somigliano; il corpo
stesso, essendo stato privato dei suoi segni particolari e dunque di ogni linguaggio, viene
distinto dagli altri corpi solo nella sua differenza di genere. Il corpo pornografico, in questo
senso, sembra essere l’opposto del corpo aggraziato descritto da Sarte; esso infatti
rappresentava la libertà del soggetto, era l’espressione della propria coscienza. Il corpo
pornografico, diversamente, non narra nulla, non è il teatro di sé stesso, bensì è un mero
oggetto di eccitazione, privo di un linguaggio e quindi uguale a tutti gli altri. Esso è nuda
La negatività dell’alterità è estranea alla sessualità, poiché il soggetto sessuale non viene
strappato dal narcisismo, non viene liberato dalla propria prigione, rimane sempre uguale a
sé stesso, poiché egli non incontra veramente un’alterità ma solo un oggetto di consumo
narcisistico.
82
Anche l’Amore, come l’Eros, subisce delle forti trasformazioni in una società che ha
espulso l’alterità dell’Altro. Esso, secondo Byung-Chul Han, viene addomesticato e ridotto
a sentimenti piacevoli privi di rischio, ad una forma di consumo che non ammette
negatività. In questo modo anche l’amore, il quale dovrebbe rappresentare la «scena del
due»59, elimina l’Altro, divenendo un’esperienza solitaria nella quale non si sperimenta più
dramma, bensì è libero da ogni attacco e da ogni negatività del dolore e del rischio.
«In una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso,
soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica […] Quella di
essere vera) di rendere l’«esperienza dell’amore» simile ad altre merci, che attira e seduce
sforzi.»60
Potremmo concludere che in una società priva della figura dell’alterità, dove la crescente
necessario tornare a riconsiderare la vita a partire dall’Altro, dal rapporto con l’Altro.
Secondo il filosofo, di fronte a questo scenario narcisista il migliore esercizio per poter di
nuovo reintegrare l’Altro nella sua alterità, imparando di nuovo il linguaggio della
59
Nel testo l’Elogio dell’amore Alain Badiou sostiene che l’amore sia una scena del due, in quanto
nell’amore si sperimenta la possibilità di esperire il mondo attraverso la differenza, cioè a partire
dalla prospettiva dell’Altro.
60
Zygmunt Bauman, Amore Liquido, Economica Laterza 2006, p.11.
83
caratterizzato da una particolare attività. Ascoltare l’Altro significa primariamente dargli il
benvenuto, accettarlo nella sua alterità; chi ascolta infatti attraverso la propria azione,
invita l’Altro a parlare, apre lo spazio per l’alterità. Se si riflette sull’azione stessa,
che apre lo spazio all’alterità; l’ascolto crea le condizioni per far sì che l’alterità si possa
esprimere, è un’accoglienza silenziosa. Nel terzo volume della sua autobiografia Il gioco
degli occhi Elias Canetti descrive Herman Broch, scrittore drammaturgo austriaco, come
un ascoltatore ideale. Canetti sostiene che Broch, attraverso il suo silenzio ospitale, diviene
dell’Altro. Nella descrizione Canetti posa l’attenzione proprio sul respiro di Broch,
l’esperienza del volto descritta da Lévinas; di fronte al volto e al suo appello, infatti, siamo
esposti senza riserve all’Altro e il nostro ego si svuota, liberandosi dalla sua prigione
«Lasciali dire, tu non dir niente: le tue parole tolgono agli uomini la loro fisionomia. Il tuo
entusiasmo cancella i loro confini; quando parli tu, non sanno più chi sono; diventano
te.»61
61
Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, 2017 nottetempo srl Milano, p.95.
84
Bibliografia
- Emmanuel Lévinas., Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità., Jaca Book, Milano 2016.
- Emmanuel Lévinas., Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo., Castelvecchi, Roma
2012.
- Vincenzo di Marco., Emmanuel Lévinas. L’Epifania del volto., Pazzini Editore, Rimini
2016.
- Emmanuel Lévinas, Franco Riva., L’Epifania del volto., Servitium Editrice, Milano 2010.
- Alain Badiou, L’avventura della Filosofia francese., Derive Approdi, Roma 2013.
2003.
85
- Claudia Dovolich., Amicizia e Ospitalità. Da e per Jacques Derrida., Mimesis, “a” 2006,
n.2.
86