Legal
2019
LR Legal Roots
The International Journal of Roman Law,
Legal History and Comparative Law
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2019
pp. VIII+576; 24 cm
ISBN 978-88-495-3668-3 ISSN 2280-4994
LR – Legal Roots è un’iniziativa del Network ELR – European Legal Roots© – The International
Network of Legal Historians http://europeanlegalroots.weebly.com – email: europeanlegalroots@gmail.com.
Autorizzazione del Tribunale di Catania n. 14 del 13 aprile 2012. La Rivista ha sede presso l’Istituto di
Diritto Romano del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, Via Gallo,
24. Tutti i diritti riservati in tutti i paesi del mondo.
CINECA: Codice rivista: E214880 - Titolo rivista: LR - LEGAL ROOTS - ISSN 2280-4994.
Direttore Responsabile prof. Salvatore Randazzo.
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The International Journal of Roman Law, Legal History and Comparative Law
EXECUTIVE BOARD
COORDINAMENTO
ROBERTO SCEVOLA – SALVATORE MARINO
COMPONENTI
STEFANO BARBATI – STEFANIA BARBERA – TOMMASO BEGGIO – ALICE CHERCHI
SALVATORE A. CRISTALDI – RAFFAELE D’ALESSIO – GIUSEPPE DI DONATO – SARA GALEOTTI
PAOLO LEPORE – PAOLO MARRA – MATTIA MILANI – ANTONINO MILAZZO – ELVIRA QUADRATO
PAOLA SANTINI – FRANCESCO A. SANTULLI – DONATELLA MONTEVERDI – MARCELLO MORELLI
FRANCESCA SCOTTI – ENRICO SCIANDRELLO – ALESSIA SPINA
DIREZIONE
DELEGATO PER IL REFERAGGIO E LA CONSERVAZIONE DEGLI ATTI: ISABELLA PIRO
DELEGATI PER L’OSSERVATORIO ROMANISTICO: MASSIMO MIGLIETTA – FRANCESCO ARCARIA
DELEGATO PER LE “LETTURE ROMANISTICHE”: PAOLA LAMBRINI
CONDIRETTORE DELLA COLLANA «LRC - LEGAL ROOTS COLLECTION»: PATRIZIA GIUNTI
DELEGATO PER IL PROCESSO EDITORIALE: FEDERICA DE IULIIS
FOCUS
Cose e appartenenza. I «beni comuni» nel diritto romano 25
di Alessandro Corbino
SAGGI
Critical Comments on the Ownership of Land and Agricultural Laws
in Ancient Greece 43
di Aikaterini Mandalaki
L’OCCHIELLO
Marchesi «romanista» 225
di Luciano Canfora
LETTURE ROMANISTICHE
I Resoconti delle Letture romanistiche I 229
a cura di Paola Lambrini
Societas e Societates.
Presentazione del progetto di ricerca. 279
di Salvatore Puliatti
AUCTORES 557
I Resoconti
delle
Letture Romanistiche
II ciclo, 2018-2020
I. Le Letture 2018
L’idea delle Letture Romanistiche è nata nel 2015 all’interno del comitato
scientifico della rivista Legal Roots e con la collaborazione di alcune importanti
riviste del settore (Index - JUS - JUS online - Legal Roots - Quaderni Lupiensi -
Rivista di Diritto Romano). L’intenzione era di proporre alla comunità
accademica delle occasioni per fermarsi a riflettere in modo più approfondito
su alcune monografie di giovani studiosi: un’alternativa alla classica recensione
del libro, quasi un commento dialogato, aperto anche agli stimoli provenienti
dal pubblico, in cui fosse offerta all’autore del libro la possibilità di difendere
dal vivo le proprie tesi.
Alla prima lettura romanistica, tenutasi a Padova nel luglio del 2015, ne sono
seguite altre tredici, itineranti tra le sedi di appartenenza dei vari componenti
del comitato scientifico, in cui studiosi di chiara fama hanno “riletto” e testato 229
la validità scientifica di altrettante ricerche di studiosi italiani e stranieri dedicate
a vari temi del diritto privato e pubblico romano.
Considerato l’ottimo successo che ha riscosso l’iniziativa, nel 2018 si è
avviato un secondo ciclo di letture e si è pensato di dare vita a una
sperimentazione diretta a lasciarne una traccia più fedele rispetto alla
tradizionale cronaca, che permetta di trasmettere anche ai lettori la vivacità
del dibattito che anima le Letture. Abbiamo dunque chiesto agli stessi
protagonisti degli incontri, discussant e autore del libro, di scrivere un resoconto
del dialogo intervenuto, riportando poi sinteticamente la successiva discussione
pubblica.
Presentiamo dunque qui, insieme alle cronache delle letture di Foggia, a
firma di Stefano Barbati, e di Padova, opera di Mattia Milani, i resoconti scritti
dagli stessi protagonisti delle letture di Bergamo (Lucio de Giovanni e
Alessandro Cusmà Piccione) e di Palermo (Giovanni Luchetti e Antonino
Milazzo). [PL]
Ciò detto, va precisato che il libro discusso a Foggia è stato quello della
giovane ricercatrice cagliaritana Anna Maria Mandas, Il processo contro Paolo
di Tarso. Una lettura giuridica degli atti degli apostoli (21.27-28.31), Napoli-
Jovene, 2017. «Discussants», presente appunto l’Autrice, sono stati il Professore
Leo Peppe, già ordinario di Diritto romano nella terza Università di Roma, e il
Professor Lorenzo Infante, associato di Storia del cristianesimo antico
nell’Università di Foggia.
Peppe ha ripercorso analiticamente e brillantemente i contenuti –
ovviamente di diritto e procedura penale romani – del libro della Mandas,
mostrandone grande apprezzamento.
Nella sterminata bibliografia accumulatasi in materia, il «discussant» romanista
ha opportunamente scelto di appoggiarsi sui recenti contributi in tema di due
massimi esperti della materia: in particolare, per quel che concerne il diritto e il
processo penale, Bernardo Santalucia, per il diritto pubblico «tout court», in
particolare per quello amministrativo e costituzionale, Valerio Marotta.
Ci si riferisce in particolare a Paul’s Roman Trial: Legal Procedures regarding
Roman Citizens Convicted of Serious Charges in the First Century CE di Santalucia
e a St. Paul’s Death: Roman Citizenship and «summa supplicia» di Marotta, in
The Last Years of Paul, il volume – edito nel 2015 per i prestigiosi tipi della
232 Mohr Siebeck – che contiene gli Atti del Convegno in tema tenuto a Tarragona
nel 2013, a cura di Puig i Tàrrech, Barclay e Frey (Peppe ha peraltro mosso un
appunto critico sulla scelta di pubblicare questi importanti contributi in inglese,
con ciò implicitamente ribadendo l’importanza dell’italiano, quale lingua della
cultura, in generale, e della scienza romanistica, in particolare).
Questi i punti della discussione effettuata da Peppe.
L’indagine di polizia contro Saulo di Tarso comincia con l’accertamento
dell’identità dell’indagato. Paolo sceglie in questa occasione di non dichiararsi
subito cittadino romano, ma di acclarare semplicemente la sua natio giudaica
e la provenienza (che assurgeva a cittadinanza oppure a semplice domicilio?
Su ciò v. oltre) da Tarso, in Cilicia. Peppe accetta la spiegazione tradizionale sul
punto, vale a dire che, volendo parlare a una folla di ebrei, Saulo preferì
sottolineare la comunanza di stirpe con chi risiedeva nei luoghi dove avvenne
il suo arresto. Il possesso della cittadinanza romana fu opposto da Paolo alle
autorità locali quando queste intendevano, nel corso delle indagini preliminari
al processo, sottoporlo a tortura.
L’incriminazione di Paolo e l’autorità competente a giudicarlo è punto assai
delicato.
A proposito dell’autorità competente va subito chiarito che, qualora
l’imputazione comportasse il rischio della sanzione capitale, è da escludere che
Una lettura della monografia della Mandas maggiormente orientata sui suoi
risvolti inerenti alla storia del cristianesimo antico, non senza tuttavia un’incisiva
presa di posizione circa l’esito del processo, è stata poi offerta da Lorenzo
Infante.
Lo storico del cristianesimo dell’Ateneo foggiano avrebbe in primo luogo
auspicato che la monografia della Mandas contenesse un parallelo con il
processo contro Gesù, pur riconoscendo come tale paragone avrebbe portato
lo studio dell’Autrice sarda fuori dai canoni di spazio e di tempo entro cui una
ricerca monografica deve comunque sapersi rinserrare.
Relativamente al contenuto positivo del libro della Mandas, Infante ha
sottolineato come protagonista ne sia in ogni caso la parola di Dio. La salvezza
dei gentili non si surroga al rifiuto ebraico di riconoscere la messianicità di Gesù,
ma è voluta fin dal principio dal Padre. Questo è il nocciolo della predicazione
paolina, che non mira a dividere i gentili dagli Ebrei – sancendo l’irrimediabile
condanna di questi ultimi – bensì tende a riconciliare le due comunità.
Infante ha mosso poi due rilievi critici alla monografia di Anna Maria Mandas
(l’appunto circa l’impiego, quale fonte biblica, della Vulgata di San Gerolamo,
in luogo della Vetus Latina, è stato respinto nella discussione da Cascione).
Ad avviso del «discussant», l’A. erra nell’accordarsi alla communis opinio,
234 secondo cui Luca presenterebbe una buona immagine dell’autorità pubblica
romana. Paolo fu tenuto in custodia cautelare per quasi due anni e se non fu
condannato sbrigativamente a morte, al contrario di Gesù, fu unicamente
perché era, appunto al contrario del Nazareno, cittadino romano.
Relativamente poi all’esito del processo, Infante ritiene che (come in parte
ipotizzato dalla Mandas) sia possibile raggiungere una conclusione in positivo,
alla luce delle fonti, peraltro diversa da quella patrocinata da Santalucia e
Marotta: vale a dire che il procedimento si estinse per assenza di atti di
procedura, per mancanza in particolare della proposizione formale di un’accusa
da parte delle autorità ebraiche (la comunità ebraica di Roma dichiarò infatti
di non avere ricevuto lettere in merito da Gerusalemme), e appunto questa
conclusione con un «nulla di fatto» spiegherebbe il silenzio, altrimenti
incomprensibile, di Luca sul punto.
Nella replica originata dalle recensioni dei «discussants», Anna Mandas è
intervenuta in primo luogo sull’esito del processo.
A questo proposito la giovane Studiosa ha mostrato nella discussione, se
non di propendere, quanto meno di porre l’accento sull’estinzione del
procedimento per desistenza dell’accusatore. A questo proposito l’A. ipotizza –
pur con cautela – che il processo contro Paolo in seguito all’assenza degli
accusatori da Roma per due anni, si sarebbe concluso con una pronuncia a
propendere per la tesi che Saulo di Tarso godesse della cittadinanza romana
in quanto figlio di un liberto, manomesso da un cittadino romano residente a
Tarso. Il padre di Paolo acquisì pertanto la cittadinanza romana, mentre la
Mandas pensa che la relazione con la città della Cilicia non fosse informata ai
canoni della cittadinanza, bensì a quelli della semplice residenza (origo,
domicilio). A questo proposito la giovane Autrice si è dichiarata pienamente
concorde con le tesi espresse nel suo intervento nella discussione da parte di
Valerio Marotta, il quale ha sottolineato come soltanto un terzo dei soggetti
residenti a Tarso godesse anche della cittadinanza dell’agglomerato urbano,
autonomo da Roma.
Secondo la ricercatrice sarda, fra la maiestas e la vis, dovrebbe optarsi per
la tesi che a Paolo fosse stata contestata una seditio rientrante nel crimen vis,
lesiva cioè della lex Iulia de vi publica, anche in ragione di una corrispondenza
lemmatica tra alcuni passi del Digesto in tema di vis e il testo greco degli Atti.
La giovane Studiosa ha dimostrato nella discussione pacatezza e tranquilla
sicurezza, molto apprezzate dal «convenor» Giunio Rizzelli.
La discussione si è poi giovata degli interventi, in ordine alfabetico, di Arcaria,
Botta, Cascione, Lovato e Marotta.
La specifica Lettura del libro della Mandas si è svolta all’insegna della
236 compendiosità, che si è rivelata ancora una volta, per il qualificato pubblico
presente, come la migliore espressione della brevitas romana.
Stefano Barbati
Cusmà Piccione, nelle pagine introduttive del suo lavoro, che egli chiama
Praefatio (pp. VII-XV), affrontando tale grande tema, pone un problema
preliminare, sottolineando la difficoltà di approccio all’indagine, a causa della
disparità e disomogeneità tra leggi imperiali e testi della patristica, mentre le
stesse disposizioni ecclesiastiche prese nei concilii, i canoni, non avrebbero
avuto caratteristica di atti normativi, prevalendo in essi la dimensione etica e
lo stretto legame col territorio cui erano rivolti.
Alle pagine della Praefatio seguono quelle dei Prolegomena (pp. 1-75) nelle
quali l’a. si dedica, con un’analisi molto estesa, da un lato a delineare lo status
quaestionis dell’oggetto specifico della propria ricerca, dall’altro a individuare
nuove prospettive d’indagine.
Il capitolo secondo è dedicato a uno sguardo retrospettivo sul tema dei
matrimoni misti in ambito pagano e a un tentativo di cogliere le differenze che
caratterizzano la disparitas cultus coniugale tra diritto classico e tardoantico
soprattutto nelle conseguenze che ne scaturivano: nell’àmbito del primo, il
principale effetto di un matrimonium iniustum consisteva nella mancata
sottoposizione dei figli alla potestà paterna, nell’àmbito del secondo, gli effetti
erano molto più gravi, non solo l’irrilevanza giuridica del coniugium, ma anche
durissime sanzioni personali ai nubendi, fino alla minaccia della pena di morte
238 (vedi p. 98).
Il capitolo terzo è dedicato a un’ampia analisi del pensiero cristiano sul tema,
che dimostrerebbe diversità di orientamento, con le posizioni più rigoriste di
Ambrogio (pp. 230 ss.) e più in generale dei padri dell’Occidente, mentre toni
più concilianti avrebbero segnato il pensiero dei padri d’Oriente (p. 243).
Diversità potrebbero rintracciarsi anche nelle stesse deliberazioni dei concilii
(pp. 286 ss.). A esempio, il canone 16 del concilio di Elvira, celebrato agli inizi
del IV secolo, avrebbe proibito i matrimoni di ragazze cristiane sia con gli eretici
e con i giudei sia con i pagani, ma la penitenza, oltretutto di natura temporanea,
avrebbe colpito unicamente i parentes, cioè i genitori. Il canone 17 dello stesso
concilio, invece, si sarebbe occupato di un’ulteriore ipotesi, il matrimonio di
una ragazza cristiana con un sacerdote pagano: in tal caso, la pena minacciata
per i genitori era gravissima, poiché si negava loro il perdono anche in punto
di morte. A parere del nostro autore, occorre attendere il concilio d’Orleans
tenutosi nel 533 e il suo canone 19, perché si abbia una prima chiara e generale
condanna dei matrimoni misti.
In sintesi, secondo Cusmà Piccione, le oscillazioni del pensiero cristiano e
della normativa conciliare sul tema dei matrimoni misti impedirebbe di
interpretare in modo unitario, come pure farebbe una parte della dottrina, la
posizione ecclesiastica su questo argomento.
forma di collusione tra gens barbara e provinciales nelle zone di frontiera. L’a.,
tuttavia, volge anche altrove lo sguardo, in particolare al pensiero di Ambrogio,
di qualche anno successivo alla promulgazione della legge, espresso in
particolare in una sua epistola a Vigilio (ep. 62.8), in cui l’unione con una mulier
alienigena viene considerata perniciosa. Orbene tali testimonianze possono
«svelarci punti di tangenza con l’opinione pubblica di fede cristiana, non per
forza di secondo piano rispetto alle contingenti necessità di sicurezza interna»
(pp. 462-63).
La sintesi finale dell’a. è che queste leggi sui matrimonia iniusta, considerate
nel loro complesso, sarebbero unite da un filo conduttore: da un lato la pena
comune minacciata, la condanna a morte, dall’altro un uso calibrato del
conubium, negato nelle unioni di cristiani con ebrei e barbari, ma consentito
in quelle con i pagani, nella convinzione di acquisire costoro, prima o poi, alla
nuova religione, convertiti dalla testimonianza di fede del proprio coniuge.
Delineati almeno alcuni tratti essenziali del volume di Cusmà Piccione, mi
accingo ora a porre in rilievo i punti su cui ho opinioni diverse dall’autore.
In primo luogo, occorre riflettere sul tema dei documenti e della loro
utilizzazione. Non vi è dubbio che, come sostiene Cusmà Piccione, le fonti
cristiane, anche quelle dei canoni conciliari, hanno specifiche caratteristiche e
240 non sono omologabili a quelle giuridiche in senso stretto. Se ciò è vero, non
mi convince l’affermazione che «le testimonianze cristiane … sono fatalmente
destinate ad occupare le retrovie tra le fonti di cognizione dell’esperienza
giuridica coeva» (Praefatio, p. 13). L’età tardoantica appare come un grande
laboratorio, nel quale le carte della storia, già a cominciare dal III secolo, sono
tutte profondamente rimescolate: la società, anche per influsso del
critianesimo, cambia radicalmente, gli imperatori, a cominciare da Costantino,
sono tutti, se si eccettua la breve parentesi di Giuliano, seguaci della nuova
religione. Orbene il diritto non è una sovrastruttura avulsa dal mondo
circostante, ma è espressione di tale mondo; per conoscere la legislazione
tardoantica e la ratio di tanti provvedimenti, occorre indagare a fondo la società
che di tale normativa è espressione, utilizzando tutte le fonti disponibili, in
sintesi, compiere una ‘histoire à part entière’, nella quale le fonti cristiane
hanno un ruolo se non esclusivo certamente di grande importanza per delineare
almeno i tratti salienti della tarda antichità e, quindi, del suo diritto. D’altra
parte, se così non fosse, occorrerebbe chiedersi per quale motivo Cusmà
Piccione dedica quasi duecento pagine della sua ricerca (pp. 113-295) a
confrontarsi con le testimonianze cristiane intorno ai matrimonia iniusta: quale
sarebbe il significato di tanta attenzione, se tali testimonianze fossero davvero
così poco rilevanti per conoscere l’esperienza giuridica coeva?
proprio a motivo della sua religione, poiché, mentre gli altri non veneravano
che le proprie divinità, essa invece le venerava tutte.
Ciò che intendevo portare alla luce, in quel passaggio della trattazione, era,
nondimeno, un risvolto diverso. C’è una tangibile soluzione di continuo tra
l’epoca di cui mi occupo da vicino e quella precedente per quanto attiene alla
rilevanza del fenomeno dei matrimoni religiosamente misti all’interno del
diritto. Dopo la questione dell’attribuzione ai plebei del conubium con i patrizi
e la sua estensione agli abitanti delle città della lega latina, àmbiti risalenti che
esibivano entrambi evidenti interferenze col ius sacrum, dobbiamo attendere
sino all’età c.d. ‘romano-cristiana’ perché il problema della disparitas cultus tra
i coniugi si ripresenti alla cura del legislatore. È questo il senso del mio parlare
di un’accresciuta importanza di tale fattispecie nel Tardoantico, laddove cioè la
si raffronti alla carenza di testimonianze di tenore giuridico risalenti al periodo
passato. Disponiamo, è vero, di talune attestazioni non giuridiche – e neanche
tante, peraltro –, riguardanti alcuni personaggi ‘in vista’ di Roma, nelle quali
sembrerebbe profilarsi un certo rilievo della componente religiosa all’interno
del coniugium, benché su un piano prevalentemente sociale; però, è solo nel
tempo tardoantico che si percepì, per la prima volta, il bisogno di dare una
specifica disciplina giuridica al fenomeno.
243
LUCIO DE GIOVANNI – Andiamo ora all’esame delle leggi. Cusmà Piccione ritiene,
per ciò che concerne CTh. 16.8.6, che questa norma non avrebbe un significato
religioso. A mio parere, non è certamente privo di significato che questa legge
è stata recepita nel libro XVI del Teodosiano, dedicato proprio alle questioni
religiose: ciò, se pure non elemento decisivo, è certamente rivelante della
lettura tutta religiosa che nel tardoantico si ebbe della norma. Come ho già
detto, Cusmà Piccione ritiene invece che il vero obiettivo del legislatore in CTh.
16.8.6 sia quello d’impedire ai Giudei di sottrarre forze di lavoro alle
manifatture tessili imperiali. In realtà, la norma sembra far riferimento sì alle
donne, ma non a tutte le donne che erano nel gineceo (cosa che sarebbe stata
plausibile se accettassimo la tesi del nostro autore): CTh. 16.8.6 si riferisce in
particolare a quelle cristiane, di cui solo si voleva impedire il matrimonio.
È davvero arduo escludere una ratio di natura religiosa a tale legge. L’autore,
tuttavia, riferendosi alla tesi mia e di altri studiosi, afferma: «Approcci di questo
tipo sostanzialmente unidirezionali nella rappresentazione dei rapporti di forza
tra ius e religio … appaiono ai nostri occhi il frutto di una valutazione quanto
meno incompleta» (p. 104).
A me pare, invece, che il limite della ricostruzione di Cusmà Piccione sia
proprio quello di non aver dato un respiro ampio a CTh. 16.8.6 e di non aver
letto questo testo nell’àmbito più generale della rubrica CTh. 16.8, dedicata ai
giudei, cui appartiene la legge di Costanzo. Senza voler entrare, per brevità di
esposizione, nelle citazioni analitiche delle varie costituzioni, cui ho già fatto
riferimento in varie mie occasioni di ricerca, io credo che la legislazione sugli
ebrei nel Teodosiano presenti tre caratterizzazioni: a) il riconoscimento formale
del diritto all’esistenza del culto giudaico, sancito anche in una legge di Teodosio
I del 393, CTh. 16.8.9, culto da cui però il legislatore prende nettamente le
distanze utilizzando verso di esso, in svariate norme, una terminologia
dispregiativa: superstitio, secta feralis et nefaria, perversitas, Iudaeorum nomen
foedum tetrumque; b) riconoscimento della gerarchia sacerdotale che presiede
a questo culto, con la conferma, sia pure variamente modulata a seconda dei
tempi e delle circostanze, degli antichi privilegi; c) il culto giudaico è ridotto in
un ghetto, ogni proselitismo è vietato soprattutto nei confronti dei cristiani.
Una legge di Arcadio del 397, CTh. 16.8.13, afferma: Iudaei sint obstricti
caerimoniis suis. Poco dopo, in Occidente, una legge di Onorio del 409, CTh.
16.8.19, ammonisce che sarà considerato responsabile del crimine di alto
tradimento chi spinge a far propria una perversità che è giudaica e aliena
all’impero cristiano (perversitas Iudaica et aliena Romano imperio).
A mio parere, la costituzione sui matrimoni va inserita in questo quadro e
244 si spiega proprio con l’esigenza più volte affermata dagli imperatori d’isolare il
culto giudaico e d’impedire ogni mescolanza con i seguaci della nuova religione.
dalla Corte di Costanzo. Non è un caso che si adoperi, nel testo della legge, il
termine turpitudo. La sua previsione si spiega non tanto se pensiamo a ciò che
è turpe in sé o che rende turpi, quanto piuttosto all’effetto della turpitudo, che
è la segregatio, ovvero l’emarginazione, l’allontanamento (come esplicitamente
si dice in una legge di Costantino: vd. C. 12.1.2), degli ebrei nella nostra
situazione. Questa traccia che parte dalla ¢pobol» della Demonstratio
eusebiana, e che passa ancora attraverso la reiectio e la turpitudo di CTh. 16.8.6,
conduce poi ad un’altra opera di Eusebio, pubblicata postuma proprio negli
anni della nostra constitutio, la Vita Constantini. Nella biografia del genitore
dell’imperatore Costanzo si rinviene, difatti, un’ulteriore corrispondenza,
laddove (vd. 3.18.3) si fa ricorso, proprio in connessione agli ebrei,
all’espressione a„scr£ sune…dhsij, la quale molto somiglia a consortium
turpitudinis di CTh. 16.8.6.
Ora, non può non vedersi come la politica di Costanzo, relativamente alla
questione ebraica, compia un brusco balzo in avanti, se la si paragona a quella
di Costantino, in direzione di un peggioramento delle condizioni di vita degli
Iudaei. Tanto è vero che qualcuno in dottrina ha parlato di un vero e proprio
furor antigiudaico dei figli di Costantino, e di Costanzo II in modo peculiare.
Possiamo toccare con mano siffatto inasprimento: se l’a„scr£ sune…dhsij cui
246 Eusebio faceva riferimento era contenuta in un documento costantiniano
comunque attinente ad un tema eminentemente religioso quale la fissazione
della data della Pasqua, con Costanzo la parola turpitudo viene viceversa
utilizzata in un àmbito (quello di CTh. 16.8.6) che con la religione ha tuttalpiù
connessioni indirette. È forse ravvisabile, in ciò, un altro fattore di collegamento
con delle problematiche di matrice religiosa, come con la coeva polemica di
Atanasio, campione degli ortodossi contro i seguaci dell’eresia ariana (a cui la
stessa Corte imperiale è accostata in tale momento), descritta come il
Giudaismo di quei tempi; non escluderei, allora, che la voglia di ribattere alle
accuse mosse dal vescovo (esiliato, si faccia caso, per la seconda volta, solo
alcuni mesi prima di CTh. 16.8.6) di Alessandria avesse condotto la Corte a
‘calcare la mano’, come prima veduto, nei riguardi degli ebrei.
LUCIO DE GIOVANNI – Veniamo ora a CTh. 3.7.2, legge che, come si è visto,
vieta i matrimoni tra cristiani e giudei, con la minaccia della pena di morte.
Tale norma va anch’essa inquadrata nel contesto delineato in precedenza e
costituisce un ulteriore ampliamento della legislazione sugli ebrei con la stessa
ratio. Cusmà Piccione esclude invece questa tesi soprattutto per la natura della
pena, la condanna a morte che non rispecchierebbe il pensiero cristiano. In
realtà il legislatore del Teodosiano non lesina, in tanti casi di repressione di
reati, il ricorso alla pena capitale e, anzi, tende a distinguere tra il dovere civile
cui l’impero deve attenersi nel colpire gli autori di gravi crimini e le esigenze
di natura religiosa che hanno soprattutto gli ecclesiastici. È illuminante, sotto
questo aspetto, il contenuto di CTh. 16.2.31, una costituzione promulgata da
Onorio nel 409, che minaccia la pena di morte per coloro che irrompono con
violenza nelle chiese cattoliche, facendo ingiuria ai sacerdoti e agli stessi luoghi
di culto. Ciò che è molto significativo in questa norma è che essa precisa che,
per la punizione dei rei, non bisogna attendere che il vescovo sporga denuncia,
occorre procedere d’ufficio, perché al vescovo sanctitas ignoscendi solam
gloriam dereliquit. Il legislatore, cioè, sancisce, in modo indiretto, la non
omogeneità, sul piano della rilevanza strettamente giuridica, tra precetto
cristiano e legge dello Stato. Egli non vuole che coloro i quali commettano
violenze contro sacerdoti e luoghi di culto siano perdonati, ma ritiene anzi che
bisogna condannarli con la pena più severa, la morte. Ciò che, tuttavia, anche
molto interessa al legislatore (e in ciò è chiara l’influenza cristiana) che il
vescovo non si comprometta in tale condanna venendo meno ai suoi obblighi
di amore e di perdono.
l’opinione caldeggiata all’interno degli ambienti cristiani era nel senso che si
rinunciasse ad esercitare l’azione penale contro gli adùlteri e alla pena materiale
(cioè, la capitale) si sostituisse quella spirituale. L’idea di una collaborazione su
tale punto da parte delle strutture ecclesiali del tempo pone, pertanto, io credo,
delle difficoltà.
È pur vero che una speranza di ravvedimento non è così scontatamente
riferibile agli Iudaei, per i quali – come bene ha mostrato in varie occasioni il
Prof. Lucrezi – una redenzione non era da più parti stimata possibile; d’altra
parte, poniamo il caso che il coniuge di fede ebraica, per merito anche della
vicinanza con il cristiano, si fosse effettivamente convertito alla nova religio: ed
allora si può ragionevolmente ritenere che la Chiesa sollecitasse l’Impero
affinché perseguisse ancora lo scioglimento dell’unione (non più mista, ormai)
e la maxima poena fosse veramente irrogata ai contravventori? Non poteva,
dopo quanto abbiamo detto circa la concezione cristiana della pena capitale,
essere preferita, da parte degli uomini di Chiesa, l’opzione del perdono, già ben
vista nel caso (poc’anzi richiamato) degli adùlteri, come anche degli eretici, (e
non solo di essi in realtà, come si ricava, ad es., da CTh. 16.5.41, a. 407, laddove
lo stesso Onorio, rivolgendosi a tutti gli externi alla catholica fides, per un verso
minaccia di attuare la vindicta, per un altro confida di “emendare” mercé la
248 sola admonitio paenitentiae)? Secondo me, la forte caratterizzazione repressiva
delle misure di cui in CTh. 3.7.2 (per lo meno sulla carta) ben si comprende
collocandosi in una prospettiva differente, ossia se si recupera un’idea, che fu
di Francesco Maria de Robertis, relativamente ad un’intervenuta
‘militarizzazione’ del diritto criminale tardoantico, a fronte, sì come nella nostra
fattispecie, di contingenti motivi di ordine pubblico, che resero non solo
indifferibile ma anche assai energico l’intervento legislativo di Teodosio I.
LUCIO DE GIOVANNI – Non resta che passare a CTh. 3.14.1, la cui analisi mi
trova maggiormente in accordo con Cusmà Piccione sia quando egli propende
per interpretare il testo come un divieto di coniugium tra provinciali e barbari
sia quando si richiama al pensiero di Ambrogio molto contrario alle unioni
miste. Tuttavia mi chiedo: nell’esaminare questa legge, il nostro autore ha
opportunamente delineato il clima culturale intorno alle unioni miste che può
cogliersi nel mondo cristiano, rimarcando l’influenza di esso sulla promulgazione
di tale norma; ma perché questo discorso non può applicarsi anche alle altre
leggi che il nostro autore esamina, intorno alle quali il clima culturale di matrice
cristiana è del tutto simile, ma da cui, in tali norme, Cusmà Piccione sembra
prescindere?
Ambrogio ogni relazione dei cristiani con una mulier alienigena; ma soprattutto
ciò che lega i due testi è il comune riferimento alla proditio. Esso induce, in
Ambrogio, il richiamo alla storia di Dalila, il cui tradimento portò il marito alla
perdita della propria fede. Il che permette di ampliare la natura del pericolo
paventato dal legislatore (e di dare un nuovo significato, più lato, ai termini
suspectum e noxium), che, se anche ebbe dapprincipio un’impronta tipicamente
militare, poté poi essere inteso con riguardo alla difesa della fede cristiana.
Quale contributo può, allora, venire all’interprete moderno, che si ponga
dinanzi alla disposizione di cui in CTh. 3.14.1, dalla epistula di Ambrogio a
Vigilio?
Ancora una volta, secondo quanto ritengo, essa ci consente di entrare in
contatto con quelle discussioni affrontate nell’opinione pubblica di religione
cristiana, le quali ebbero certamente un’incidenza sul legislatore, benché non
fossero la ragione immediata del suo intervento.
GIOVANNI LUCHETTI – Altro aspetto assai discusso è quello della tutela originaria
del comodato. A questo proposito viene anzitutto rigettata l’ipotesi che fu
formulata da Contardo Ferrini secondo cui nel comodato immobiliare lo
strumento processuale anticamente approntato dall’ordinamento a tutela del
comodante al fine di ottenere la restituzione del bene sarebbe stato quello
predisposto nella fiducia cum amico (pp. 32 e ss.). A questo proposito tuttavia
Nino Milazzo evidenzia giustamente come il perimetro causale della fiducia sia
ben diverso rispetto a quello del comodato venendo incontro a esigenze di
custodia e protezione del bene fino a comportarne il trasferimento di proprietà.
Né secondo l’autore potrebbe ritenersi che lo strumento adottato a tutela
del comodato fosse la legis actio per condictionem (pp. 50 e ss.) che avrebbe
trovato applicazione anche nel caso del comodato per il riconoscimento in
antico di un’ampia portata del credere, inclusiva, nell’ampia nozione di res
credita, anche della res commodata. La teoria, autorevolissimamente sostenuta 255
da Bernardo Albanese, è messa in discussione dall’autore sostenendo in
particolare che, trasferita la tutela alla condictio formulare, si sarebbe
comunque reso inutile l’intervento pretorio volto al riconoscimento dell’actio
commodati in factum, resa superflua dalla presunta esistenza di una tutela
civilistica, peraltro non confermata da alcuna fonte.
GIOVANNI LUCHETTI – Dopo aver fatto riferimento alle forme di tutela indiretta
attraverso l’actio furti o la rei vindicatio, Nino Milazzo ipotizza che una forma
di tutela diretta attraverso l’actio commodati in factum risalga a epoca più
antica di quanto comunemente si ritiene (pp. 59 e ss.). Condivido senza
esitazioni l’idea che l’actio commodati in factum fosse nota a Quinto Mucio,
circostanza che alcune fonti, in cui possono individuarsi lemmi muciani,
dimostrano senza possibilità di discussione. Mi riferisco a D. 13.6.5.3 (Ulp. 28
ad ed.) (cfr. Stolfi, nr. 51), a D. 13.6.23 (Pomp. 21 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi,
nr. 52), a D. 13.1.6 (Pomp. 38 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi, nr. 79) e a D. 47.2.77
pr. (Pomp. 38 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi, nr. 80) cui si deve aggiungere la
testimonianza di Gell. noct. att. 6.15.2 (cfr. Stolfi, nr. 78). Tuttavia rilevo nella
256 ricostruzione dell’autore un salto cronologico per me non colmabile, laddove
si tenta di retrodatare l’introduzione dell’actio in factum al III-II secolo a.C. (p.
77). Il fatto che l’actio commodati fosse ben nota a Quinto Mucio che ne
discuteva sotto vari profili (in particolare quanto alla responsabilità del
comodatario e ai limiti in cui poteva trovare applicazione la fattispecie del
furtum usus) dimostra solo che l’azione contrattuale esisteva in un’epoca a
cavallo fra il II e il I secolo e, a tutto concedere, al più intorno alla metà del
II secolo, ma, a mio avviso, ragionevolmente non prima.
diversi secoli, non potendo, per le ragioni evidenziate, trovare succedanei nella
fiducia cum amico o nella condictio.
In definitiva, credo che il significato socialmente rilevante che le fonti
testimoniano già in età piuttosto risalente per il prestito d’uso debba trovare
riscontro, sulla base di una scontata esigenza di tutela, in un riconoscimento
giuridico, riconoscimento che la riflessione di un giurista autorevole quale
Quinto Mucio avvalora, fornendo testimonianza di un interesse senza dubbio
approfondito per un rimedio, quello dell’actio commodati, che già nel III-II
secolo a.C. doveva risultare concesso a tutela delle ragioni del comodante.
GIOVANNI LUCHETTI – L’indagine si sposta poi su Gai 4.47 (pp. 109 e ss.),
partendo dalla collocazione del testo al di fuori della trattazione gaiana delle
nella circostanza che questi due modelli contrattuali, a differenza di tutti gli
altri, hanno ricevuto una tutela differenziata con due distinte azioni: Gaio, in
altre parole, nell’evidenziare l’origine edittale della tutela del deposito e del
comodato, mette in rilievo la singolarità della duplice tutela, ma nel fare ciò
non suggerisce, come si è normalmente ipotizzato, una contestualità dei due
tipi di difesa, limitandosi ad evidenziare il dato di fatto sopra indicato. Ciò può
indurre a riflettere su un dato: Gaio evidenzia la duplice tutela del comodato,
ma non ne afferma il contestuale utilizzo, indicando, in uno all’origine pretoria
delle due azioni, il differente contenuto che esse presentavano. Questo dato
può suggerire una lettura, per così dire, ‘diacronica’ del paragrafo gaiano,
potendo ipotizzarsi – come suggerito dalla circostanza che i giuristi coevi o
successivi commentano la formula in ius – che in origine sarebbe stata concessa
dal pretore la formula in factum, la quale serviva a rimediare a quella situazione
che veniva avvertita come la patologia per eccellenza del prestito d’uso, ossia
l’omessa restituzione del bene concesso in comodato. Solo in prosieguo di
tempo, si sarebbe avvertita la necessità di ampliare la sfera di tutela del
comodante: è infatti all’angolo visuale di quest’ultimo che si guarda, il che rende
necessario un successivo intervento pretorio che – in parallelo con la
modificazione della terminologia, forse già avvenuta, da utendum dare a
260 commodare – affronta la ‘crisi’ della formula in factum, in quanto quest’ultima
ormai divenuta insufficiente a regolamentare le ipotesi che la pratica del
comodato aveva evidenziato come punti di frizione tra il comodante e il
comodatario, quali il ritardo nella riconsegna del bene prestato, il
deterioramento di esso, o l’utilizzo dello stesso fuori dai canoni fissati o normali
per la medesima res commodata.
Tali esigenze pratiche inducono il pretore ad intervenire con la formula in
ius, la quale grazie all’innesto della clausola ex fide bona consente di rispondere
a tutti i problemi sopra evidenziati, oltre a permettere al iudex di valutare
complessivamente l’assetto di interessi posto in essere dalle parti, anche alla
luce di una differenziata valutazione dell’elemento soggettivo in capo ai
contraenti.
Credo che seguendo questa interpretazione risulti chiarificato il rapporto tra
le due formule, le quali vanno viste non su di un piano ‘sincronico’, ma di
successione storica, rispondendo a due diverse esigenze, che troveranno
compiuta definizione grazie al giudizio di buona fede. Quest’ultimo, infatti, nella
sua intentio incerta, facendo riferimento al ‘quidquid ob eam rem’, consentirà
un’estrema duttilità e quindi una completa tutela del comodante, anche
nell’ipotesi di omessa restituzione del bene.
tutelare l’interesse del comodatario all’utilizzo della res fino alla completa
attuazione dello scopo concordato nel programma contrattuale dalle parti. Il
commodatum, una volta perfezionato, fa sorgere obbligazioni a carico di
entrambe le parti: la ragione di ciò, precisa Paolo in D. 13.6.17.3, risiede nella
reciprocità degli interessi che stanno alla base del contratto di comodato e che
pongono su un piano concorrenziale le posizioni delle due parti. La reciprocità
(invicem) degli interessi comporta perciò (ideo) la reciprocità delle azioni, con
l’effetto che il commodatum si caratterizza per la reciprocità delle prestazioni
e delle azioni poste a tutela di esse. Nella giurisprudenza classica, culminata
nell’opera del giurista Paolo, l’opera di sistematizzazione della figura concettuale
del comodato trova la sua chiave di volta nell’avvenuto riconoscimento che sia
il comodante sia il comodatario partecipano al contratto, ciascuno sorretto da
un interesse di natura patrimoniale rilevante sul piano giuridico: questa
bilateralità di interessi crea una bilateralità di obbligazioni che si pongono su
di un piano sinallagmatico. Infatti, l’obbligazione del comodante di mettere a
disposizione della controparte un bene sino al suo completo utilizzo, trova
corrispondenza simmetrica nell’obbligazione del comodatario di restituire tale
bene alla controparte, una volta completato l’utilizzo concordato dalle
medesime parti. In un quadro giuridico così portato a maturazione, e che
262 perdurerà sostanzialmente immutato sino ai giorni nostri, l’actio contraria si
configura come ‘strumento di chiusura’ del sistema: essa, difatti, serve a dare
concreta attuazione processuale alla bilateralità del commodatum,
trasformandolo, sul fondamento del ravvisato elemento della reciprocità degli
interessi delle parti, da contratto primitivamente unilaterale a contratto
sinallagmatico, quale ormai appare nel maturo studio della giurisprudenza della
tarda epoca classica, nel contesto della quale le obbligazioni scaturenti dal
contratto di comodato si pongono, su di un piano paritario, a carico di ambedue
le parti, simmetricamente finalizzate a realizzare gli interessi concorrenziali, e
perciò reciproci, delle parti stesse.
del solo criterio del dolo. Peraltro di norma il comodatario è tenuto semmai a
rispondere per colpa, ossia per omessa diligenza (considerando,
nell’elaborazione prima di Giuliano e poi di Gaio e Ulpiano, la diligenza come
concetto speculare in positivo rispetto alla colpa).
Su questo campo, pur facendo ogni sforzo, non riesco però a seguire
l’autore, la cui ricostruzione da coraggiosa, si volge quasi in temeraria. L’idea
infatti che la responsabilità del comodatario vada parametrata esclusivamente
sulla base di criteri soggettivi e che il contenuto della diligentia consista nella
fedeltà delle parti al programma negoziale (p. 305), la cui violazione darebbe
luogo a colpa, parte dall’idea dell’inesistenza nel diritto romano della custodia
tecnica, intesa quale criterio di imputazione della responsabilità su un piano
oggettivo e quindi senza colpa (pp. 309 e ss.). La custodia indicherebbe quindi
la semplice sorveglianza del bene e non un criterio di responsabilità,
riconnettendosi anzi all’idea di diligenza, intesa a sua volta come attività in
positivo e contraltare della colpa. In quest’ottica l’autore nega che l’idea della
custodia tecnica possa ricavarsi da Gai 3.206. Il discorso sarebbe ovviamente
troppo lungo per affrontarlo qui compiutamente. Pongo tuttavia all’attenzione
dell’autore due passi notissimi, Gai. 3.207 e D. 16.3.1 pr. (Ulp. 30 ad ed.).
Sono due testi che si riferiscono al deposito, ma che si prestano bene al
nostro ragionamento. Il testo di Ulpiano recita: Depositum est, quod 263
custodiendum alicui datum est (qui abbiamo la custodia intesa come
sorveglianza del bene). Gaio dice invece: Sed si apud quem res deposita est,
custodiam non praestat. Ora questa custodia non è certamente la stessa cui si
riferisce il passo ulpianeo. Se così fosse i due testi sarebbero infatti in stridente
contrasto, affermando uno che il depositario riceve la cosa per custodirla, l’altro
negando lo stesso assunto. Evidentemente la custodia del testo gaiano è
dunque una custodia diversa da quella del testo del Digesto e il confronto fra
i due testi conferma l’uso del termine custodia in diverse accezioni nelle fonti
romane. Più precisamente in Gai 3.207 si dice che il depositario custodiam non
prestat per dire proprio che non risponde per custodia tecnica a differenza del
comodatario che in Gai 3.206 custodiam praestat come il fullo e il sarcinator.
A mio avviso dunque la custodia tecnica intesa come responsabilità oggettiva
esiste nelle fonti romane e si applica al comodatario.
ANTONINO MILAZZO – Credo che i dubbi manifestati dal Prof. Luchetti siano
ampiamente leciti. In effetti, l’idea che manifesto in relazione alla custodia si
manifesta abbastanza eterodossa. Tuttavia, vorrei precisare in premessa che
non intendo nella mia ricerca compiere una rimeditazione ab imis del tema
della custodia, atteso che il discorso che io conduco è soltanto in relazione alle
connessioni che tale tema presenta con l’istituto del comodato. Fatta questa
premessa, nel mio libro il tema di chiusura si presenta quello della
responsabilità contrattuale del comodatario. L’esame condotto sulle fonti in
nostro possesso sul comodato induce a ritenere che il regime della
responsabilità posta a carico del comodatario sia di tipo soggettivo, ossia che
nessun evento possa essergli addebitato se non si possa muovere un
rimprovero per la condotta tenuta. Questo rimprovero si fonda su un
comportamento del soggetto che non doveva tenere nel caso di specie, poiché
non conforme al criterio di diligenza che viene a lui imposto e che viene a
concretarsi in quella conformità al regime convenzionale adottato e in
particolare all’utilizzo della res commodata secondo quanto pattuito dalle parti
o secondo quanto può desumersi dalla natura del bene concesso in prestito.
Ciò induce, su un piano di coerenza del sistema, a ritenere – anche alla luce
della circostanza che abbiamo già sottolineato della non imputazione a carico
del comodatario dell’evento danneggiamento ad opera di terzi – che la custodia
della quale parla Gaio in 3.206 non allude ad una forma di responsabilità
oggettiva, ad onta della similitudine con le figure del lavandaio e del
rammendatore, ma serve al giurista antoniniano per evidenziare uno dei
contenuti principali dell’obbligazione posta a carico del comodatario. Il quadro
264 che sin qui è venuto emergendo sembra mostrare un sistema della
responsabilità del comodatario, punctum dolens dell’intera materia del
comodato, che la giurisprudenza, sin dall’età repubblicana, è venuta costruendo
intorno ai due poli fondamentali della diligentia – formula che racchiude gli
obblighi posti a carico del comodatario – e della culpa, quale giudizio di
riprovevolezza che l’ordinamento ricollega ad un evento che il comodatario
avrebbe potuto evitare attenendosi ai suoi obblighi racchiusi nella prima
formula. I giuristi dell’età classica e di quella severiana hanno proseguito su
questa strada, approfondendo e chiarendo diversi aspetti di questa
problematica, ripudiando le forme di responsabilità oggettiva e assegnando alla
custodia la posizione di attività di vigilanza, imposta al comodatario per la
natura stessa del contratto e del suo assetto di interessi, che tuttavia trova
adeguamenti in chiave casistica, come nel caso del servo rispetto al quale non
sempre al comodatario è imposto l’obbligo di custodire. L’idea finale che ne
scaturisce è quella di un sistema di responsabilità particolarmente rigoroso, ma
che guarda casisticamente alle varie ipotesi concrete, concedendo in ogni caso
al comodatario la possibilità di liberarsi da tale responsabilità, laddove dimostri
di aver agito diligentemente, così scongiurando un giudizio di colpevolezza. La
postulata coerenza del sistema costruito dai prudentes induce, perciò, a
conferire ulteriore conforto alla tesi secondo la quale non vi sono ragioni per
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