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L

Legal

The International Journal of Roman Law,


Legal History and Comparative Law

2019
LR Legal Roots
The International Journal of Roman Law,
Legal History and Comparative Law
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2019
pp. VIII+576; 24 cm
ISBN 978-88-495-3668-3 ISSN 2280-4994

© 2019 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.


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LR – Legal Roots è un’iniziativa del Network ELR – European Legal Roots© – The International
Network of Legal Historians http://europeanlegalroots.weebly.com – email: europeanlegalroots@gmail.com.
Autorizzazione del Tribunale di Catania n. 14 del 13 aprile 2012. La Rivista ha sede presso l’Istituto di
Diritto Romano del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, Via Gallo,
24. Tutti i diritti riservati in tutti i paesi del mondo.
CINECA: Codice rivista: E214880 - Titolo rivista: LR - LEGAL ROOTS - ISSN 2280-4994.
Direttore Responsabile prof. Salvatore Randazzo.
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The International Journal of Roman Law, Legal History and Comparative Law

COMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE


ILIAS N. ARNAOUTOGLOU (ATENE) – PATRICIO CARVAJAL (SANTIAGO)
ALESSANDRO CORBINO (CATANIA) – ADAM CZARNOTA (SYDNEY)
FEDERICO R. FERNÁNDEZ DE BUJÁN (MADRID) – JUAN CARLOS GHIRARDI (CÒRDOBA)
PETER GRÖSCHLER (MAINZ) – NADI GÜNAL (ANKARA) – MARIT HALVORSEN (OSLO)
GABOR HÁMZA (BUDAPEST) – EVELYN HÖBENREICH (GRAZ)
MICHAEL H. HOEFLICH (LAWRENCE) – DENNIS KEHOE (NEW ORLEANS) – LEONID KOFANOV (MOSCOW)
MATS KUMLIEN (UPPSALA) – MARJU LUTS-SOOAK (TARTU) – THOMAS A.J. MCGINN (NASHVILLE)
DAG MICHALSEN (OSLO) – MARKO PETRAK (ZAGREB) – DITLEV TAMM (COPENAGHEN)
KONSTANTIN TANEV (SOFIA) – PHILLIP J. THOMAS (PRETORIA) – KAIUS TUORI (HELSINKI)
EDUARDO VERA-CRUZ PINTO (LISBOA) – WITOLD WOšODKIEWICZ (WARSAW)
TAMMO WALLINGA (ROTTERDAM) – DAVID V. WILLIAMS (AUCKLAND)

COMITATO SCIENTIFICO – EDITORIALE


FRANCESCO ARCARIA (CATANIA) – ANTONIO BANFI (BERGAMO) – FILIPPO BRIGUGLIO (BOLOGNA)
TOMMASO DALLA MASSARA (VERONA) – PATRIZIA GIUNTI (FIRENZE) – FRANCESCA LAMBERTI (LECCE)
PAOLA LAMBRINI (PADOVA) – LAURETTA MAGANZANI (MILANO) – CARLA MASI DORIA (NAPOLI)
MASSIMO MIGLIETTA (TRENTO) CAPUCINE NEMO–PEKELMAN (PARIS) – MARIA MICELI (PALERMO)
FRANCESCO MILAZZO (CATANIA) – ISABELLA PIRO (CATANZARO) – SALVATORE PULIATTI (PARMA)
LAURA SOLIDORO (SALERNO) – THOMAS A.J. MCGINN (NASHVILLE)
FREDERIK VERVAET (MELBOURNE) – YI ZHAO (SUZHOU)

EXECUTIVE BOARD
COORDINAMENTO
ROBERTO SCEVOLA – SALVATORE MARINO

COMPONENTI
STEFANO BARBATI – STEFANIA BARBERA – TOMMASO BEGGIO – ALICE CHERCHI
SALVATORE A. CRISTALDI – RAFFAELE D’ALESSIO – GIUSEPPE DI DONATO – SARA GALEOTTI
PAOLO LEPORE – PAOLO MARRA – MATTIA MILANI – ANTONINO MILAZZO – ELVIRA QUADRATO
PAOLA SANTINI – FRANCESCO A. SANTULLI – DONATELLA MONTEVERDI – MARCELLO MORELLI
FRANCESCA SCOTTI – ENRICO SCIANDRELLO – ALESSIA SPINA

DIREZIONE
DELEGATO PER IL REFERAGGIO E LA CONSERVAZIONE DEGLI ATTI: ISABELLA PIRO
DELEGATI PER L’OSSERVATORIO ROMANISTICO: MASSIMO MIGLIETTA – FRANCESCO ARCARIA
DELEGATO PER LE “LETTURE ROMANISTICHE”: PAOLA LAMBRINI
CONDIRETTORE DELLA COLLANA «LRC - LEGAL ROOTS COLLECTION»: PATRIZIA GIUNTI
DELEGATO PER IL PROCESSO EDITORIALE: FEDERICA DE IULIIS

CONDIRETTORI: ERNEST METZGER (GLASGOW) – MICHAEL PEACHIN (NEW YORK)


DIRETTORE RESPONSABILE: SALVATORE RANDAZZO (BARI)
Indice

LE INTERVISTE DI LEGAL ROOTS


Storia antica, storia romana e Tarda Antichità
Francesco Arcaria incontra Mario Mazza 3

FOCUS
Cose e appartenenza. I «beni comuni» nel diritto romano 25
di Alessandro Corbino

SAGGI
Critical Comments on the Ownership of Land and Agricultural Laws
in Ancient Greece 43
di Aikaterini Mandalaki

Una problematica lettura dioclezianea in tema di principio


di utilizzazione negoziale ed interpretazione conservativa
della iusta causa traditionis 95
di Riccardo Fercia

Peculium duplicis iuris.


Sulla responsabilità de peculio del dominus
in D. 15.1.19.1-2 (Ulp. 29 ad ed.) 107
di Aleksander Grebieniow

Diritto romano e studi romanistici, tra storia e dogmatica.


La situazione tedesca vista in una prospettiva europea 159
di Filippo Ranieri
2019 L 8 Indice

Riflessioni intorno al consensus a fondamento


della ‘società’ romana 193
di Vincenzo Mannino

Leggere la quarta trebelliana, ovvero dal diritto romano


agli insulti siciliani, passando dal notaio 217
di Alfio Lanaia

L’OCCHIELLO
Marchesi «romanista» 225
di Luciano Canfora

LETTURE ROMANISTICHE
I Resoconti delle Letture romanistiche I 229
a cura di Paola Lambrini

LR CONFERENCES & EVENTS


Societas e Societates
Indirizzi di saluto 277
di Vincenzo Donativi

Societas e Societates.
Presentazione del progetto di ricerca. 279
di Salvatore Puliatti

Introduzione ai lavori 283


di Pietro Cerami

Preistoria linguistica dei termini latini ‘socius’ e ‘societas’ 291


di Giancarlo Schirru

La flessibilità dello schema societario nell’exercitio negotiationum


nel diritto romano della tarda repubblica e del principato 309
di Aldo Petrucci
Indice L 8 2019

Il ruolo della fides nei fenomeni aggregativi in Roma antica 341


di Paola Lambrini

Nota minima sull’appartenenza a città e impero nel Principato 357


di Tiziana Chiusi

La ‘parte’ del leone: intorno a D. 17.2.29.2 (Ulp. 30 ad Sab.) 369


di Pia Starace

OSSERVATORIO ROMANISTICO 395


a cura di Massimo Miglietta e Francesco Arcaria

AUCTORES 557
I Resoconti
delle
Letture Romanistiche
II ciclo, 2018-2020

I. Le Letture 2018

a cura di Paola Lambrini


con la collaborazione di Mattia Milani
I “Resoconti” delle Letture Romanistiche

L’idea delle Letture Romanistiche è nata nel 2015 all’interno del comitato
scientifico della rivista Legal Roots e con la collaborazione di alcune importanti
riviste del settore (Index - JUS - JUS online - Legal Roots - Quaderni Lupiensi -
Rivista di Diritto Romano). L’intenzione era di proporre alla comunità
accademica delle occasioni per fermarsi a riflettere in modo più approfondito
su alcune monografie di giovani studiosi: un’alternativa alla classica recensione
del libro, quasi un commento dialogato, aperto anche agli stimoli provenienti
dal pubblico, in cui fosse offerta all’autore del libro la possibilità di difendere
dal vivo le proprie tesi.
Alla prima lettura romanistica, tenutasi a Padova nel luglio del 2015, ne sono
seguite altre tredici, itineranti tra le sedi di appartenenza dei vari componenti
del comitato scientifico, in cui studiosi di chiara fama hanno “riletto” e testato 229
la validità scientifica di altrettante ricerche di studiosi italiani e stranieri dedicate
a vari temi del diritto privato e pubblico romano.
Considerato l’ottimo successo che ha riscosso l’iniziativa, nel 2018 si è
avviato un secondo ciclo di letture e si è pensato di dare vita a una
sperimentazione diretta a lasciarne una traccia più fedele rispetto alla
tradizionale cronaca, che permetta di trasmettere anche ai lettori la vivacità
del dibattito che anima le Letture. Abbiamo dunque chiesto agli stessi
protagonisti degli incontri, discussant e autore del libro, di scrivere un resoconto
del dialogo intervenuto, riportando poi sinteticamente la successiva discussione
pubblica.
Presentiamo dunque qui, insieme alle cronache delle letture di Foggia, a
firma di Stefano Barbati, e di Padova, opera di Mattia Milani, i resoconti scritti
dagli stessi protagonisti delle letture di Bergamo (Lucio de Giovanni e
Alessandro Cusmà Piccione) e di Palermo (Giovanni Luchetti e Antonino
Milazzo). [PL]

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Il processo contro Paolo di Tarso. Una lettura giuridica
degli atti degli apostoli (21.27-28.31)

Leo Peppe discute con Anna Maria Mandas

Il secondo ciclo – 2018-2020 – delle Letture Romanistiche promosse dal


network di romanisti, storici del diritto e comparatisti riuniti nell’acronimo ELR
(«European Legal Roots») si è aperto venerdì 2 febbraio 2018 nell’Aula Magna
dell’Università di Foggia, avendo come «convenor» (ospitante) il Professor
Giunio Rizzelli, ordinario di diritto romano nel giovane Ateneo della Daunia.
Giova preliminarmente rammentare come il I ciclo – 2015-2017 – delle
Letture si sia distinto come una delle iniziative di maggior spicco nel panorama
della romanistica italiana. Per il momento, infatti, le Letture sono focalizzate su
monografie afferenti al diritto romano e i «discussants» – termine inglese di
non agevole traduzione in italiano: se si vuole si potrebbe impiegare la parola
«recensori», con la precisazione che si tratta di recensioni caratterizzate
dall’oralità e immediatezza (oltre che dalla concentrazione, per ricordare la 231
triade cara a Chiovenda) –, i «discussants», si diceva, sono professori
appartenenti alla comunità scientifica romanistica cisalpina. Ciò non toglie che
già il I ciclo abbia ospitato discussioni di contributi di studiosi dell’altro maggiore
centro di studi europeo – e quindi mondiale – di diritto romano, vale a dire
della Germania (mi riferisco in particolare alla discussione di Valerio Marotta
del libro di Julia Maria Gokel, Sprachliche Indizien für inneres System bei Q.
Cervidius Scaevola, Berlin-Duncker & Humblot, 2014, ospitata a Trento dal Prof.
Massimo Miglietta). Lo sviluppo dell’iniziativa potrà portare pertanto ad
ampliare vieppiù il novero dei contributi discussi e la schiera dei «discussants»
degli stessi. Rimane fermo che l’assai apprezzabile intento delle Letture è la
discussione di contributi di giovani studiosi – per il momento, di diritto romano
– da parte di colleghi già affermati nel panorama scientifico europeo, fine che
coglie alla perfezione il modo ormai quasi millenario di trasmissione e sviluppo
del sapere in ambito universitario e se possibile ne amplia la portata, proprio
perché – facendo ancora uso della metafora processuale – rende orale
concentrata e immediata, invece che scritta e – qualora si sviluppi un dialogo
fra recensore e recensito – non contestuale, la recensione dei contributi
monografici dei giovani studiosi da parte di chi ha competenze già riconosciute
dalla comunità.

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Ciò detto, va precisato che il libro discusso a Foggia è stato quello della
giovane ricercatrice cagliaritana Anna Maria Mandas, Il processo contro Paolo
di Tarso. Una lettura giuridica degli atti degli apostoli (21.27-28.31), Napoli-
Jovene, 2017. «Discussants», presente appunto l’Autrice, sono stati il Professore
Leo Peppe, già ordinario di Diritto romano nella terza Università di Roma, e il
Professor Lorenzo Infante, associato di Storia del cristianesimo antico
nell’Università di Foggia.
Peppe ha ripercorso analiticamente e brillantemente i contenuti –
ovviamente di diritto e procedura penale romani – del libro della Mandas,
mostrandone grande apprezzamento.
Nella sterminata bibliografia accumulatasi in materia, il «discussant» romanista
ha opportunamente scelto di appoggiarsi sui recenti contributi in tema di due
massimi esperti della materia: in particolare, per quel che concerne il diritto e il
processo penale, Bernardo Santalucia, per il diritto pubblico «tout court», in
particolare per quello amministrativo e costituzionale, Valerio Marotta.
Ci si riferisce in particolare a Paul’s Roman Trial: Legal Procedures regarding
Roman Citizens Convicted of Serious Charges in the First Century CE di Santalucia
e a St. Paul’s Death: Roman Citizenship and «summa supplicia» di Marotta, in
The Last Years of Paul, il volume – edito nel 2015 per i prestigiosi tipi della
232 Mohr Siebeck – che contiene gli Atti del Convegno in tema tenuto a Tarragona
nel 2013, a cura di Puig i Tàrrech, Barclay e Frey (Peppe ha peraltro mosso un
appunto critico sulla scelta di pubblicare questi importanti contributi in inglese,
con ciò implicitamente ribadendo l’importanza dell’italiano, quale lingua della
cultura, in generale, e della scienza romanistica, in particolare).
Questi i punti della discussione effettuata da Peppe.
L’indagine di polizia contro Saulo di Tarso comincia con l’accertamento
dell’identità dell’indagato. Paolo sceglie in questa occasione di non dichiararsi
subito cittadino romano, ma di acclarare semplicemente la sua natio giudaica
e la provenienza (che assurgeva a cittadinanza oppure a semplice domicilio?
Su ciò v. oltre) da Tarso, in Cilicia. Peppe accetta la spiegazione tradizionale sul
punto, vale a dire che, volendo parlare a una folla di ebrei, Saulo preferì
sottolineare la comunanza di stirpe con chi risiedeva nei luoghi dove avvenne
il suo arresto. Il possesso della cittadinanza romana fu opposto da Paolo alle
autorità locali quando queste intendevano, nel corso delle indagini preliminari
al processo, sottoporlo a tortura.
L’incriminazione di Paolo e l’autorità competente a giudicarlo è punto assai
delicato.
A proposito dell’autorità competente va subito chiarito che, qualora
l’imputazione comportasse il rischio della sanzione capitale, è da escludere che

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II ciclo 2018-2020 L 8 2019

le autorità giudaiche potessero svolgere alcuna cognizione in merito, a


prescindere dallo status civitatis dell’imputato, seppure quest’ultimo fosse un
ebreo.
Peppe accetta sul punto la conclusione della Mandas, secondo cui l’unica
eccezione sul punto, per di più ai danni di cittadini stranieri (compresi gli stessi
cives Romani, come attestato in un passo del Bellum Judaicum di Flavio
Giuseppe e confermato dall’iscrizione presente su una stele rinvenuta a
Gerusalemme nell’Ottocento), fosse rappresentata dall’uccisione dello straniero
colto in flagrante ad entrare nel secondo cortile del Tempio, benché tale atto
consistesse nell’esercizio del diritto sostanziale di legittima difesa contro il
comportamento posto in essere dallo straniero piuttosto che nello svolgimento
di una giustizia sommaria che non può ricondursi alle stesse caratteristiche
romane del ius dicere (e, ancor prima, del ius dicare).
L’incriminazione sostanziale, dunque.
Sul punto il «discussant» ha avanzato un rilievo critico all’Autrice: la Mandas
sostiene infatti che la turbativa dell’ordine pubblico posta in essere da Paolo
– seditio – avrebbe potuto essere inquadrata sia come trasgressione della lex
Iulia maiestatis, sia «presumibilmente» della lex Iulia de vi (publica,
ovviamente). Peppe si è chiesto – e ha chiesto alla Studiosa, data come detto
la Sua presenza – ragione dell’impiego dell’avverbio, domandando quanto l’A. 233
in effetti propendesse per la soluzione che vede nell’accusa di seditio
(formalizzata dai Giudei innanzi a Felice) un’ipotesi di crimen vis piuttosto che
di maiestas.
Ad avviso di Peppe l’appello a Cesare fu opposto da Paolo per evitare di
essere giudicato dalle autorità ebraiche, le quali non avrebbero potuto
comunque legalmente condannarlo a morte, come detto.
Il processo contro il cittadino romano Paolo si svolge pertanto a Roma e
secondo Peppe ebbe come esito la condanna, per integrazione del crimen
maiestatis, all’esilio in Spagna – di natura temporanea, occorrerebbe presumere
–, come recentemente postulato da Santalucia, con l’appoggio di Marotta.
In relazione a questo conclusivo punto si è concentrato il secondo rilievo
critico prospettato dal recensore all’Autrice, in quanto la Mandas opta
prudentemente per un non liquet, sottolineando come la tesi recentemente
ripresa dai due autorevoli romanisti italiani possa comunque essere, in ragione
di taluni spunti relativi all’ipotetica assenza degli accusatori a Roma (cui sarebbe
conseguita la liberazione del reus), in parte riconsiderata. Ad avviso di Peppe
la Studiosa mostra per l’appunto eccessiva prudenza: la tesi dell’esilio ha solidi
appoggi nelle fonti (l’epistula di Clemente, in particolare), che inducono a
dirigersi con maggiore sicurezza verso quella direzione.

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Una lettura della monografia della Mandas maggiormente orientata sui suoi
risvolti inerenti alla storia del cristianesimo antico, non senza tuttavia un’incisiva
presa di posizione circa l’esito del processo, è stata poi offerta da Lorenzo
Infante.
Lo storico del cristianesimo dell’Ateneo foggiano avrebbe in primo luogo
auspicato che la monografia della Mandas contenesse un parallelo con il
processo contro Gesù, pur riconoscendo come tale paragone avrebbe portato
lo studio dell’Autrice sarda fuori dai canoni di spazio e di tempo entro cui una
ricerca monografica deve comunque sapersi rinserrare.
Relativamente al contenuto positivo del libro della Mandas, Infante ha
sottolineato come protagonista ne sia in ogni caso la parola di Dio. La salvezza
dei gentili non si surroga al rifiuto ebraico di riconoscere la messianicità di Gesù,
ma è voluta fin dal principio dal Padre. Questo è il nocciolo della predicazione
paolina, che non mira a dividere i gentili dagli Ebrei – sancendo l’irrimediabile
condanna di questi ultimi – bensì tende a riconciliare le due comunità.
Infante ha mosso poi due rilievi critici alla monografia di Anna Maria Mandas
(l’appunto circa l’impiego, quale fonte biblica, della Vulgata di San Gerolamo,
in luogo della Vetus Latina, è stato respinto nella discussione da Cascione).
Ad avviso del «discussant», l’A. erra nell’accordarsi alla communis opinio,
234 secondo cui Luca presenterebbe una buona immagine dell’autorità pubblica
romana. Paolo fu tenuto in custodia cautelare per quasi due anni e se non fu
condannato sbrigativamente a morte, al contrario di Gesù, fu unicamente
perché era, appunto al contrario del Nazareno, cittadino romano.
Relativamente poi all’esito del processo, Infante ritiene che (come in parte
ipotizzato dalla Mandas) sia possibile raggiungere una conclusione in positivo,
alla luce delle fonti, peraltro diversa da quella patrocinata da Santalucia e
Marotta: vale a dire che il procedimento si estinse per assenza di atti di
procedura, per mancanza in particolare della proposizione formale di un’accusa
da parte delle autorità ebraiche (la comunità ebraica di Roma dichiarò infatti
di non avere ricevuto lettere in merito da Gerusalemme), e appunto questa
conclusione con un «nulla di fatto» spiegherebbe il silenzio, altrimenti
incomprensibile, di Luca sul punto.
Nella replica originata dalle recensioni dei «discussants», Anna Mandas è
intervenuta in primo luogo sull’esito del processo.
A questo proposito la giovane Studiosa ha mostrato nella discussione, se
non di propendere, quanto meno di porre l’accento sull’estinzione del
procedimento per desistenza dell’accusatore. A questo proposito l’A. ipotizza –
pur con cautela – che il processo contro Paolo in seguito all’assenza degli
accusatori da Roma per due anni, si sarebbe concluso con una pronuncia a

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II ciclo 2018-2020 L 8 2019

favore dell’imputato. Sebbene sulla base della disciplina dettata da Nerone in


un editto riguardante l’assenza degli accusatori nei processi svolti innanzi al
tribunale imperiale (contenuto in BGU 628 r) – così come recentemente letta
da Santalucia – dovrebbe ritenersi che i Giudei fossero stati coattivamente
accompagnati a Roma al fine di proseguire il processo ingiustificatamente
abbandonato, tuttavia l’A. ha ritenuto opportuno dare rilievo dell’intervenuta
promulgazione del Sc. Turpilliano nel medesimo torno di tempo che ha
verosimilmente visto l’apostolo giungere a Roma. Il Sc., emanato com’è noto
nel 61 d.C., sembrerebbe, infatti, aver ribaltato la logica stessa dell’editto
neroniano in materia di assenza di accusati e accusatori, per riagganciarsi invece
alla disciplina prevista inizialmente da Claudio. In caso di desistenza degli
accusatori, invero, il reus sarebbe stato liberato e il suo nome cancellato dalla
lista delle accuse pendenti. Se è noto che le disposizioni del Sc. hanno trovato
applicazione – in un primo momento – solo nel sistema dei publica iudicia, è
altresì vero che il crimen imputato a Paolo è un crimen publicum e, pertanto,
potrebbe ragionevolmente supporsi che, come per altre formalità proprie del
sistema accusatorio delle quaestiones, pure le disposizioni in tema di desistenza
previste nel Sc. Turpilliano possano essere state ritenute applicabili anche alle
cognitiones imperiali che giudicavano su crimina publica. Per equilibrio di
sistema, cioè, secondo l’A. sarebbe ragionevole non escludere che l’intera 235
materia della desistenza, a seguito dell’emanazione del Turpilliano, potesse
essersi generalmente informata ai principi generali in esso dettati. In questo
quadro, l’A. ha altresì supposto che il biennium di custodia militare di cui alla
narrazione lucana avrebbe anche potuto riferirsi a un limite temporale fissato
discrezionalmente dall’organo giudicante, alla cui scadenza l’accusa avrebbe
dovuto considerarsi abbandonata e si sarebbe potuto procedere – come
disposto dal Sc. – alla cancellazione dal ruolo dei processi pendenti e alla
conseguente liberazione del reus. D’altra parte, sottolinea ancora la Mandas,
non può nemmeno sottacersi che, benché sia vero che la fissazione dei certa
tempora per l’espletamento del giudizio veniva rimessa dal Sc. alla sola
discrezionalità dell’organo giudicante, in un noto, quanto discusso, passo di
Macro (D. 48.16.15.5) si fa tuttavia riferimento a uno specifico limite temporale
che il Turpilliano avrebbe imposto all’accusatore al fine di peragere reum,
identificabile in un anno o, significativamente, in un biennio.
Per quanto concerne poi l’appellatio ad Caesarem, l’A. ha precisato di
stimare essa una provocatio, che instaurava un procedimento di unico grado,
piuttosto che un mezzo di gravame avverso una sentenza sfavorevole, che
peraltro nel caso di Paolo non viene pronunciata.
In maniera strettamente correlata, la Studiosa cagliaritana ha mostrato di

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2019 L 8 LeJure RomanisIche

propendere per la tesi che Saulo di Tarso godesse della cittadinanza romana
in quanto figlio di un liberto, manomesso da un cittadino romano residente a
Tarso. Il padre di Paolo acquisì pertanto la cittadinanza romana, mentre la
Mandas pensa che la relazione con la città della Cilicia non fosse informata ai
canoni della cittadinanza, bensì a quelli della semplice residenza (origo,
domicilio). A questo proposito la giovane Autrice si è dichiarata pienamente
concorde con le tesi espresse nel suo intervento nella discussione da parte di
Valerio Marotta, il quale ha sottolineato come soltanto un terzo dei soggetti
residenti a Tarso godesse anche della cittadinanza dell’agglomerato urbano,
autonomo da Roma.
Secondo la ricercatrice sarda, fra la maiestas e la vis, dovrebbe optarsi per
la tesi che a Paolo fosse stata contestata una seditio rientrante nel crimen vis,
lesiva cioè della lex Iulia de vi publica, anche in ragione di una corrispondenza
lemmatica tra alcuni passi del Digesto in tema di vis e il testo greco degli Atti.
La giovane Studiosa ha dimostrato nella discussione pacatezza e tranquilla
sicurezza, molto apprezzate dal «convenor» Giunio Rizzelli.
La discussione si è poi giovata degli interventi, in ordine alfabetico, di Arcaria,
Botta, Cascione, Lovato e Marotta.
La specifica Lettura del libro della Mandas si è svolta all’insegna della
236 compendiosità, che si è rivelata ancora una volta, per il qualificato pubblico
presente, come la migliore espressione della brevitas romana.
Stefano Barbati

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«Non licet tibi alienigenam accipere».
Studio sulla ‘disparitas cultus’ tra i coniugi
nella riflessione cristiana e nella legislazione tardoantica

Lucio De Giovanni discute con Alessandro Cusmà Piccione

LUCIO DE GIOVANNI – Prima di incominciare il dibattito, un ringraziamento


sincero ai colleghi e amici di Legal Roots, e in particolare a Antonio Banfi, che
ci ospita, a Salvo Randazzo e a Paola Lambrini per l’invito a questo seminario,
che si colloca nell’àmbito della lodevole iniziativa, quella delle Letture
Romanistiche, che intende porre a confronto, in modo sereno e amichevole,
studiosi di varia provenienza per discutere di libri recentemente editi. È appena
il caso di dire che tale ringraziamento va esteso anche all’autore del volume
di cui oggi discutiamo, Alessandro Cusmà Piccione, che presenta un lavoro
caratterizzato da una raccolta molto attenta di fonti anche non giuridiche sia
latine sia greche, cosa non sempre frequente nei lavori di diritto romano, che
ci consente oggi una discussione intorno a argomenti di grande interesse.
Voglio subito dire che, come appare del resto dalle stesse pagine del libro 237
di Cusmà Piccione, ove si fa riferimento a miei scritti a volte nel consenso altre
volte nel dissenso, io e l’autore abbiamo opinioni diverse su varie questioni
dell’argomento di ricerca; ciò, spero, possa servire a rendere ulteriormente
interessante il dibattito, il ché è proprio nello spirito di questi seminari.
Ma procediamo con ordine. In primo luogo, una rapida sintesi del libro di
cui discutiamo, con le scuse che rivolgo fin d’ora al nostro autore se, per essere
breve nell’esposizione, dovessi trascurare qualche punto che egli invece ritenga
importante porre in rilievo; in ogni caso, potrà egli stesso farlo nella sua replica.
Il libro, molto denso, si occupa del tema della proibizione dei matrimoni
caratterizzati da disparitas cultus nella legislazione tardoantica, avendo come
riferimento tre testi del Codice Teodosiano: CTh. 16.8.6, 3.7.2 (= 9.7.5 = C.
1.9.6), 3.14.1. Fa da sfondo a questo argomento un tema ben più ampio, che
è quello dell’influenza cristiana sul diritto della tarda antichità. Tema, è appena
il caso di sottolinearlo, di grande storia giuridica, che ha visto contrapporsi, già
a cominciare dalla seconda metà del secolo XIX e dagli inizi del XX, studiosi di
particolare autorevolezza, quali Raymond Troplong, Guido Padelletti, Salvatore
Riccobono, Giovanni Baviera e, poi, nel corso del Novecento, per restare solo
a alcuni nomi, Marchi, Roberti, Albertario, Biondi, Brasiello, Chiazzese,
Gaudemet.

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2019 L 8 LeJure RomanisIche

Cusmà Piccione, nelle pagine introduttive del suo lavoro, che egli chiama
Praefatio (pp. VII-XV), affrontando tale grande tema, pone un problema
preliminare, sottolineando la difficoltà di approccio all’indagine, a causa della
disparità e disomogeneità tra leggi imperiali e testi della patristica, mentre le
stesse disposizioni ecclesiastiche prese nei concilii, i canoni, non avrebbero
avuto caratteristica di atti normativi, prevalendo in essi la dimensione etica e
lo stretto legame col territorio cui erano rivolti.
Alle pagine della Praefatio seguono quelle dei Prolegomena (pp. 1-75) nelle
quali l’a. si dedica, con un’analisi molto estesa, da un lato a delineare lo status
quaestionis dell’oggetto specifico della propria ricerca, dall’altro a individuare
nuove prospettive d’indagine.
Il capitolo secondo è dedicato a uno sguardo retrospettivo sul tema dei
matrimoni misti in ambito pagano e a un tentativo di cogliere le differenze che
caratterizzano la disparitas cultus coniugale tra diritto classico e tardoantico
soprattutto nelle conseguenze che ne scaturivano: nell’àmbito del primo, il
principale effetto di un matrimonium iniustum consisteva nella mancata
sottoposizione dei figli alla potestà paterna, nell’àmbito del secondo, gli effetti
erano molto più gravi, non solo l’irrilevanza giuridica del coniugium, ma anche
durissime sanzioni personali ai nubendi, fino alla minaccia della pena di morte
238 (vedi p. 98).
Il capitolo terzo è dedicato a un’ampia analisi del pensiero cristiano sul tema,
che dimostrerebbe diversità di orientamento, con le posizioni più rigoriste di
Ambrogio (pp. 230 ss.) e più in generale dei padri dell’Occidente, mentre toni
più concilianti avrebbero segnato il pensiero dei padri d’Oriente (p. 243).
Diversità potrebbero rintracciarsi anche nelle stesse deliberazioni dei concilii
(pp. 286 ss.). A esempio, il canone 16 del concilio di Elvira, celebrato agli inizi
del IV secolo, avrebbe proibito i matrimoni di ragazze cristiane sia con gli eretici
e con i giudei sia con i pagani, ma la penitenza, oltretutto di natura temporanea,
avrebbe colpito unicamente i parentes, cioè i genitori. Il canone 17 dello stesso
concilio, invece, si sarebbe occupato di un’ulteriore ipotesi, il matrimonio di
una ragazza cristiana con un sacerdote pagano: in tal caso, la pena minacciata
per i genitori era gravissima, poiché si negava loro il perdono anche in punto
di morte. A parere del nostro autore, occorre attendere il concilio d’Orleans
tenutosi nel 533 e il suo canone 19, perché si abbia una prima chiara e generale
condanna dei matrimoni misti.
In sintesi, secondo Cusmà Piccione, le oscillazioni del pensiero cristiano e
della normativa conciliare sul tema dei matrimoni misti impedirebbe di
interpretare in modo unitario, come pure farebbe una parte della dottrina, la
posizione ecclesiastica su questo argomento.

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Il capitolo quarto è dedicato alle leggi imperiali.


La prima legge esaminata è CTh. 16.8.6 (a. 339), legge di Costanzo che
stabilisce la restituzione al gineceo imperiale (cioè alle manifatture tessili
imperiali) delle donne a esso appartenenti che i Giudei, prima dell’emanazione
della legge, avevano preso in moglie e, per l’avvenire, la stessa legge minaccia
la pena di morte per i Giudei che si uniscano con donne cristiane. Il testo pone
il problema del collegamento tra la prima e la sua seconda parte: le donne
cristiane sono sempre e solo quelle del gineceo o la costituzione ha una portata
più generale? In ogni caso, l’autore ritiene che la ratio di questa legge non
abbia un movente religioso ma consisterebbe nella preoccupazione del
legislatore di impedire agli ebrei, in caso di matrimoni con donne dei ginecei,
di sottrarre forze di lavoro alle manifatture tessili imperiali, e ciò specie negli
anni immediatamente antecedenti alla guerra che Costanzo si accingeva a
condurre contro i persiani.
La seconda legge è di Teodosio I, CTh. 3.7.2 (a. 388): l’imperatore vieta ai
giudei di prendere in moglie donne cristiane come anche ai cristiani di prendere
in moglie donne giudaiche, il trattamento giuridico riservato ai rei è quello per
gli adulteri, cioè la pena di morte. Secondo l’a. è significativo che la legislazione
di Teodosio si orienti solo sugli ebrei, mentre nella letteratura patristica si
sconsigliano le unioni in quanto tali, non solo con gli ebrei ma anche con pagani 239
e eretici. La minaccia della pena di morte non sarebbe in linea, inoltre, con
quanto sostenevano i Padri, contrari alla condanna al supplizio dei rei e
propensi invece a concedere il perdono. A parere di Cusmà Piccione, anche
questa norma, dunque, non avrebbe una specifica valenza religiosa, ma
andrebbe spiegata con l’intento della corte imperiale di far convivere in modo
pacifico le due comunità, vietando i matrimoni misti, per mantenere la pax
imperii, a volte turbata proprio dai conflitti tra giudei e cristiani (p. 421).
La terza legge, CTh. 3.14.1 (a. 370 o 373) è di Valentiniano I: in essa viene
stabilito che un provinciale, di qualunque ordine o luogo, non ha coniugium
con una donna barbara; né una donna provinciale può essere unita ad alcuno
dei gentiles. La pena minacciata è la morte. Il problema del testo risiede
soprattutto nel significato che si vuole dare al termine gentiles, interpretato da
alcuni come ‘pagani’, il che darebbe una valenza religiosa alla norma.
Opportunamente l’a. respinge questa interpretazione e, sulla scia anche
dell’Interpretatio visigotica alla legge, intende gentili come barbari: in sintesi
sarebbero proibiti i matrimoni tra provinciali romani e barbari. In particolare
l’a. ritiene che il provvedimento di Valentiniano I sia stato fortemente
rimaneggiato all’atto del suo inserimento nel Teodosiano e che in realtà la legge
in origine doveva presentare un’efficacia più ristretta mirando a impedire ogni

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forma di collusione tra gens barbara e provinciales nelle zone di frontiera. L’a.,
tuttavia, volge anche altrove lo sguardo, in particolare al pensiero di Ambrogio,
di qualche anno successivo alla promulgazione della legge, espresso in
particolare in una sua epistola a Vigilio (ep. 62.8), in cui l’unione con una mulier
alienigena viene considerata perniciosa. Orbene tali testimonianze possono
«svelarci punti di tangenza con l’opinione pubblica di fede cristiana, non per
forza di secondo piano rispetto alle contingenti necessità di sicurezza interna»
(pp. 462-63).
La sintesi finale dell’a. è che queste leggi sui matrimonia iniusta, considerate
nel loro complesso, sarebbero unite da un filo conduttore: da un lato la pena
comune minacciata, la condanna a morte, dall’altro un uso calibrato del
conubium, negato nelle unioni di cristiani con ebrei e barbari, ma consentito
in quelle con i pagani, nella convinzione di acquisire costoro, prima o poi, alla
nuova religione, convertiti dalla testimonianza di fede del proprio coniuge.
Delineati almeno alcuni tratti essenziali del volume di Cusmà Piccione, mi
accingo ora a porre in rilievo i punti su cui ho opinioni diverse dall’autore.
In primo luogo, occorre riflettere sul tema dei documenti e della loro
utilizzazione. Non vi è dubbio che, come sostiene Cusmà Piccione, le fonti
cristiane, anche quelle dei canoni conciliari, hanno specifiche caratteristiche e
240 non sono omologabili a quelle giuridiche in senso stretto. Se ciò è vero, non
mi convince l’affermazione che «le testimonianze cristiane … sono fatalmente
destinate ad occupare le retrovie tra le fonti di cognizione dell’esperienza
giuridica coeva» (Praefatio, p. 13). L’età tardoantica appare come un grande
laboratorio, nel quale le carte della storia, già a cominciare dal III secolo, sono
tutte profondamente rimescolate: la società, anche per influsso del
critianesimo, cambia radicalmente, gli imperatori, a cominciare da Costantino,
sono tutti, se si eccettua la breve parentesi di Giuliano, seguaci della nuova
religione. Orbene il diritto non è una sovrastruttura avulsa dal mondo
circostante, ma è espressione di tale mondo; per conoscere la legislazione
tardoantica e la ratio di tanti provvedimenti, occorre indagare a fondo la società
che di tale normativa è espressione, utilizzando tutte le fonti disponibili, in
sintesi, compiere una ‘histoire à part entière’, nella quale le fonti cristiane
hanno un ruolo se non esclusivo certamente di grande importanza per delineare
almeno i tratti salienti della tarda antichità e, quindi, del suo diritto. D’altra
parte, se così non fosse, occorrerebbe chiedersi per quale motivo Cusmà
Piccione dedica quasi duecento pagine della sua ricerca (pp. 113-295) a
confrontarsi con le testimonianze cristiane intorno ai matrimonia iniusta: quale
sarebbe il significato di tanta attenzione, se tali testimonianze fossero davvero
così poco rilevanti per conoscere l’esperienza giuridica coeva?

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ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – Desidero anch’io, prima di rispondere alle


domande che mi sono state poste, fare una piccola premessa gratulatoria, che
è doverosa ma anche parecchio sentita, facendo mie le parole pronunciate già
dal Prof. De Giovanni nei riguardi del Prof. Randazzo e di tutti i componenti
del Comitato Scientifico ed Editoriale della Rivista Legal Roots e delle Letture
Romanistiche, in modo particolare per avermi dato l’opportunità di parlare della
mia ricerca; ed ancora sono grato al Prof. Banfi per l’accogliente ospitalità, al
Prof. De Giovanni per il tempo e la pazienza che ha certo richiesto la lettura
del mio libro, ed un ringraziamento rivolgo inoltre a tutti coloro che sono oggi
qui intervenuti ed assistono a questa discussione. Ciò non vuole affatto essere
una velata forma di captatio benevolentiae, bensì la manifestazione di una
personale emozione nel trovarmi di fronte a così grandi Maestri, che per me
sono stati Insegnanti nel senso più profondo della parola, i cui scritti cioè hanno
veramente ‘lasciato un segno’ nei miei studi.
Passo, a questo punto, alla prima sollecitazione, che mi offre un assist – del
quale molto ringrazio il Prof. De Giovanni – per chiarire preliminarmente il mio
rapporto con le fonti cristiane ed esprimere quale idea io abbia dell’utilità che
esse possono arrecare allo studioso dell’esperienza tardoantica. Mi ritrovo, così,
nella singolare posizione di dovere prendere le loro difese da alcune riserve
che io stesso avrei manifestato in relazione al loro impiego. In verità, la mia 241
opinione, circa il valore di tali testimonianze, non è differente da quella prima
esposta dal Professore. È lungi da me l’intenzione di svilirne l’importanza o di
posizionarle nelle retrovie dei resti documentali. L’affermazione presente nella
Praefatio del mio libro, che poc’anzi è stata citata, intendeva difatti biasimare
una certa maniera di approcciarsi a questo tipo di fonti di cognizione (per lo
più diffusa nella dottrina della prima metà del secolo scorso), animati
specialmente dallo scopo di ricercare al loro interno dei modelli assiologici di
riferimento, dei valori etici, che poi le cancellerie imperiali avrebbero
provveduto diligentemente ad attuare sul versante giuridico. Qualora le si
contenga unicamente dentro una simile, ed angusta, prospettiva, esse rischiano
– a mio modo di vedere – di rivestire un ruolo marginale ed un’utilità relativa.
Anche perché, quali meri indicatori assiologici, esse non saprebbero lambire
che una porzione soltanto delle composite esigenze sottese all’attività
legislativa, in particolare di quella dell’età tardoantica.
Per contro, la proficuità di tali fonti si apprezza ancora di più – stando alla
mia esperienza – allorché si provi ad interrogarle per ricavarvi elementi di
fatto. Nei documenti cristiani si trova (pure laddove non parrebbe probabile,
vista la loro natura: si pensi, per voler fare un esempio, ad una norma
conciliare meramente rivolta a fissare la punizione canonica di un determinato

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peccatum) una miriade di informazioni; essi sono lo specchio di una società,


della quale assumono anzi la veste di osservatori privilegiati, giacché
provenienti da uomini che si sono dati il compito di emendarne i relativi vizi.
Non solo, naturalmente, dati fattuali; vi si possono pure attingere moti del
pensiero, vedute, orientamenti che vanno a comporre l’unica (o, per lo meno,
quella destinata sempre più a prevalere) publica opinio di questi tempi, vale
a dire la cristiana.

LUCIO DE GIOVANNI – Altro punto di dissenso: nelle pagine dedicate all’esame


del tema della disparitas cultus nel mondo precristiano, l’a. ritiene che solo in
relazione al divieto di matrimonio tra patrizi e plebei ci sarebbe stata la
motivazione religiosa, ma che poi, per l’età preclassica e classica, il fattore
religioso sarebbe stato irrilevante come causa del progressivo svilimento della
disparitas cultus quale ostacolo alle nozze. A me sembra, tuttavia, che la natura
stessa della religione politeistica romana, inclusiva di altri culti e di altre divinità,
abbia potuto costituire un elemento molto significativo di aggregazione tra i
popoli e in qualche modo contribuire a rimuovere, almeno in certe circostanze,
gli intralci ai matrimoni misti.

242 ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – Questo secondo rilievo tocca il discorso da me


sviluppato nell’ambito del secondo capitolo del libro. Il mio proponimento era
di tracciare una sorta di ‘ponte’ tra il periodo che sarà poi (nei capitoli
successivi) l’oggetto specifico delle mie attenzioni e la situazione che invece
preesisteva, in relazione (com’è evidente) al tema della disparitas cultus
matrimoniale. Nel parlare di ‘ponte’, non intendo assolutamente alludere
all’esistenza di un trait d’union, ma rappresentare l’apertura di una via di
collegamento che mi permetta di rivolgere uno sguardo retrospettivo, grazie al
quale rintracciare dei punti di contatto come di distacco. Condivido,
pienamente, la considerazione del Prof. De Giovanni a proposito della capacità
della religio Romana, data la natura politeista, di operare come un fattore di
aggregazione tra i popoli e dunque di rimuovere gli ostacoli (ideologici) alle
unioni promiscue a causa della religione. A riprova di questa tendenza dei
Romani al sincretismo – ad attrarre, cioè, nel proprio pantheon le divinità delle
genti con cui essi erano entrati in contatto –, richiamo, qui, tra le diverse
testimonianze che ho addotto nel libro (pp. 85 ss.), una che credo
particolarmente suggestiva (anche per la sua provenienza apologetica): quella
portata dall’Octavius di Minucio Felice, relativa al dialogo (immaginario) tra i
cristiani Ottavio e Minucio Felice ed il pagano Cecilio, là dove a quest’ultimo è
messa in bocca l’asserzione che Roma aveva prevalso su tutti i popoli antichi

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proprio a motivo della sua religione, poiché, mentre gli altri non veneravano
che le proprie divinità, essa invece le venerava tutte.
Ciò che intendevo portare alla luce, in quel passaggio della trattazione, era,
nondimeno, un risvolto diverso. C’è una tangibile soluzione di continuo tra
l’epoca di cui mi occupo da vicino e quella precedente per quanto attiene alla
rilevanza del fenomeno dei matrimoni religiosamente misti all’interno del
diritto. Dopo la questione dell’attribuzione ai plebei del conubium con i patrizi
e la sua estensione agli abitanti delle città della lega latina, àmbiti risalenti che
esibivano entrambi evidenti interferenze col ius sacrum, dobbiamo attendere
sino all’età c.d. ‘romano-cristiana’ perché il problema della disparitas cultus tra
i coniugi si ripresenti alla cura del legislatore. È questo il senso del mio parlare
di un’accresciuta importanza di tale fattispecie nel Tardoantico, laddove cioè la
si raffronti alla carenza di testimonianze di tenore giuridico risalenti al periodo
passato. Disponiamo, è vero, di talune attestazioni non giuridiche – e neanche
tante, peraltro –, riguardanti alcuni personaggi ‘in vista’ di Roma, nelle quali
sembrerebbe profilarsi un certo rilievo della componente religiosa all’interno
del coniugium, benché su un piano prevalentemente sociale; però, è solo nel
tempo tardoantico che si percepì, per la prima volta, il bisogno di dare una
specifica disciplina giuridica al fenomeno.
243
LUCIO DE GIOVANNI – Andiamo ora all’esame delle leggi. Cusmà Piccione ritiene,
per ciò che concerne CTh. 16.8.6, che questa norma non avrebbe un significato
religioso. A mio parere, non è certamente privo di significato che questa legge
è stata recepita nel libro XVI del Teodosiano, dedicato proprio alle questioni
religiose: ciò, se pure non elemento decisivo, è certamente rivelante della
lettura tutta religiosa che nel tardoantico si ebbe della norma. Come ho già
detto, Cusmà Piccione ritiene invece che il vero obiettivo del legislatore in CTh.
16.8.6 sia quello d’impedire ai Giudei di sottrarre forze di lavoro alle
manifatture tessili imperiali. In realtà, la norma sembra far riferimento sì alle
donne, ma non a tutte le donne che erano nel gineceo (cosa che sarebbe stata
plausibile se accettassimo la tesi del nostro autore): CTh. 16.8.6 si riferisce in
particolare a quelle cristiane, di cui solo si voleva impedire il matrimonio.
È davvero arduo escludere una ratio di natura religiosa a tale legge. L’autore,
tuttavia, riferendosi alla tesi mia e di altri studiosi, afferma: «Approcci di questo
tipo sostanzialmente unidirezionali nella rappresentazione dei rapporti di forza
tra ius e religio … appaiono ai nostri occhi il frutto di una valutazione quanto
meno incompleta» (p. 104).
A me pare, invece, che il limite della ricostruzione di Cusmà Piccione sia
proprio quello di non aver dato un respiro ampio a CTh. 16.8.6 e di non aver

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letto questo testo nell’àmbito più generale della rubrica CTh. 16.8, dedicata ai
giudei, cui appartiene la legge di Costanzo. Senza voler entrare, per brevità di
esposizione, nelle citazioni analitiche delle varie costituzioni, cui ho già fatto
riferimento in varie mie occasioni di ricerca, io credo che la legislazione sugli
ebrei nel Teodosiano presenti tre caratterizzazioni: a) il riconoscimento formale
del diritto all’esistenza del culto giudaico, sancito anche in una legge di Teodosio
I del 393, CTh. 16.8.9, culto da cui però il legislatore prende nettamente le
distanze utilizzando verso di esso, in svariate norme, una terminologia
dispregiativa: superstitio, secta feralis et nefaria, perversitas, Iudaeorum nomen
foedum tetrumque; b) riconoscimento della gerarchia sacerdotale che presiede
a questo culto, con la conferma, sia pure variamente modulata a seconda dei
tempi e delle circostanze, degli antichi privilegi; c) il culto giudaico è ridotto in
un ghetto, ogni proselitismo è vietato soprattutto nei confronti dei cristiani.
Una legge di Arcadio del 397, CTh. 16.8.13, afferma: Iudaei sint obstricti
caerimoniis suis. Poco dopo, in Occidente, una legge di Onorio del 409, CTh.
16.8.19, ammonisce che sarà considerato responsabile del crimine di alto
tradimento chi spinge a far propria una perversità che è giudaica e aliena
all’impero cristiano (perversitas Iudaica et aliena Romano imperio).
A mio parere, la costituzione sui matrimoni va inserita in questo quadro e
244 si spiega proprio con l’esigenza più volte affermata dagli imperatori d’isolare il
culto giudaico e d’impedire ogni mescolanza con i seguaci della nuova religione.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – Il Prof. De Giovanni intravvede, nella mia


spiegazione della ratio della legge di Costanzo posta in CTh. 16.8.6, il rischio
della sottovalutazione del valore religioso della norma e dell’appartenenza
all’Ebraismo delle persone in essa coinvolte, a fronte del suo inserimento nel
titolo “De Iudaeis et rell.” (16.8). L’esame di questo punto passa,
evidentemente, dalla soluzione che si dà ad una domanda più ampia, che sta
sullo sfondo di ciascuna delle constitutiones esaminate nel libro, ossia che peso
occorre dare, nella genesi delle disposizioni tardoantiche, alla religio Christiana
ed alla fede professata dai soggetti cui esse si rivolgono. Non nascondo che in
un primo frangente dell’indagine avevo raccolto una cospicua serie di elementi
che, a mio giudizio, potevano mettere in crisi quel modello di relazione tra ius
e religio sovente adottato nella letteratura più risalente, per cui la parte
preponderante sarebbe stata tenuta dalla religione. Salvo, poi, accorgermi che
il quadro che veniva in questo modo a comporsi sotto i miei occhi, proprio per
quanto atteneva alle leggi in tema di matrimoni misti per disparitas cultus,
risultava incompleto. In specie nella fase della loro scrittura, o nell’adozione di
alcune (ed a discapito di altre) modalità per dare attuazione ai fini preposti,

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oppure nella scelta di un certo tipo di sanzione, ecco che le argomentazioni


aventi contenuto religioso ritornavano ad essere influenti.
Ho pensato, allora, ad un modo alternativo, rispetto a quelli solitamente
seguiti dagli interpreti, di guardare a queste norme, tenendo volta per volta
distinto il movente che indusse il legislatore alla loro emanazione dalla forma
predisposta per realizzarlo. Ebbene, almeno per le tre costituzioni che ho avuto
modo di studiare nel dettaglio, il movente mi è sempre parso dettato dalla
contingenza politica; però, allorché esso venne ad essere calato concretamente
nel discorso legislativo, risentì inevitabilmente di un qualche condizionamento
proveniente dalle discussioni che animavano gli ambienti della Chiesa.
Tanto premesso, e ritornando allo specifico dettato di CTh. 16.8.6, sono
convinto anch’io che la fede ebraica ebbe un rilievo di non poco conto
nell’economia della norma. Tuttavia, essa non va inserita tra le cause che
sollecitarono la Corte di Costanzo ad assumere una tale iniziativa legislativa.
Quelle cause – per l’idea che mi sono fatto – dovrebbero essere cercate
altrove, nel contesto temporale e territoriale che fece da cornice alla sua
approvazione, che è quello dell’ormai imminente conflitto con la vicina Persia
(così come si ricaverebbe da alcune fonti pressappoco coeve, su cui mi soffermo
nel libro, le quali mostrano l’urgenza dell’Impero orientale di mettere ordine
nella propria struttura economica, amministrativa, militare, e soprattutto di 245
reperire risorse finanziarie adeguate).
Quale, invece, può essere stata l’importanza dell’appartenenza alla
condizione giudaica dei destinatari delle sue prescrizioni? Per rispondere, mi
rifaccio ad una regola che è attestata appena qualche anno dopo la costituzione
di CTh. 16.8.6 (si vd. CTh. 14.3.2 del 355 d.C.); essa vuole che, in caso di
matrimonio tra un non corporato ed una donna obnoxia functioni (dei pistores,
nel caso di specie), non si produca la liberazione del soggetto vincolato, bensì
l’attrazione di quello libero alla corporazione del coniuge. Costanzo avrebbe,
dunque, avuto a disposizione una via agevole per beneficiare il corpus
gynaeceariarum e salvaguardare l’integrità e l’efficienza degli opifici imperiali:
ammettere al loro interno l’ebreo (ed i figli eventualmente generati dall’unione
con la gynaecearia cristiana). Questo, tuttavia, non si è voluto che accadesse;
l’Imperatore prese, anzi, la scelta contraria, quella della reiectio della
componente Iudaea. Mi sono, allora, interrogato sul perché di tale posizione
intransigente; ed ho riscontrato, a tale proposito, dei punti di contatto con
alcuni scritti di Eusebio di Cesarea. Da qui, l’importanza avuta dalla religione in
questa norma imperiale. Il filo conduttore della Demonstratio Evangelica di
Eusebio sta tutto in una parola, ¢pobol», corrispondente del sostantivo latino
reiectio. Ed ecco che, per suo tramite, inizia a scoprirsi la possibile trama seguita

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dalla Corte di Costanzo. Non è un caso che si adoperi, nel testo della legge, il
termine turpitudo. La sua previsione si spiega non tanto se pensiamo a ciò che
è turpe in sé o che rende turpi, quanto piuttosto all’effetto della turpitudo, che
è la segregatio, ovvero l’emarginazione, l’allontanamento (come esplicitamente
si dice in una legge di Costantino: vd. C. 12.1.2), degli ebrei nella nostra
situazione. Questa traccia che parte dalla ¢pobol» della Demonstratio
eusebiana, e che passa ancora attraverso la reiectio e la turpitudo di CTh. 16.8.6,
conduce poi ad un’altra opera di Eusebio, pubblicata postuma proprio negli
anni della nostra constitutio, la Vita Constantini. Nella biografia del genitore
dell’imperatore Costanzo si rinviene, difatti, un’ulteriore corrispondenza,
laddove (vd. 3.18.3) si fa ricorso, proprio in connessione agli ebrei,
all’espressione a„scr£ sune…dhsij, la quale molto somiglia a consortium
turpitudinis di CTh. 16.8.6.
Ora, non può non vedersi come la politica di Costanzo, relativamente alla
questione ebraica, compia un brusco balzo in avanti, se la si paragona a quella
di Costantino, in direzione di un peggioramento delle condizioni di vita degli
Iudaei. Tanto è vero che qualcuno in dottrina ha parlato di un vero e proprio
furor antigiudaico dei figli di Costantino, e di Costanzo II in modo peculiare.
Possiamo toccare con mano siffatto inasprimento: se l’a„scr£ sune…dhsij cui
246 Eusebio faceva riferimento era contenuta in un documento costantiniano
comunque attinente ad un tema eminentemente religioso quale la fissazione
della data della Pasqua, con Costanzo la parola turpitudo viene viceversa
utilizzata in un àmbito (quello di CTh. 16.8.6) che con la religione ha tuttalpiù
connessioni indirette. È forse ravvisabile, in ciò, un altro fattore di collegamento
con delle problematiche di matrice religiosa, come con la coeva polemica di
Atanasio, campione degli ortodossi contro i seguaci dell’eresia ariana (a cui la
stessa Corte imperiale è accostata in tale momento), descritta come il
Giudaismo di quei tempi; non escluderei, allora, che la voglia di ribattere alle
accuse mosse dal vescovo (esiliato, si faccia caso, per la seconda volta, solo
alcuni mesi prima di CTh. 16.8.6) di Alessandria avesse condotto la Corte a
‘calcare la mano’, come prima veduto, nei riguardi degli ebrei.

LUCIO DE GIOVANNI – Veniamo ora a CTh. 3.7.2, legge che, come si è visto,
vieta i matrimoni tra cristiani e giudei, con la minaccia della pena di morte.
Tale norma va anch’essa inquadrata nel contesto delineato in precedenza e
costituisce un ulteriore ampliamento della legislazione sugli ebrei con la stessa
ratio. Cusmà Piccione esclude invece questa tesi soprattutto per la natura della
pena, la condanna a morte che non rispecchierebbe il pensiero cristiano. In
realtà il legislatore del Teodosiano non lesina, in tanti casi di repressione di

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reati, il ricorso alla pena capitale e, anzi, tende a distinguere tra il dovere civile
cui l’impero deve attenersi nel colpire gli autori di gravi crimini e le esigenze
di natura religiosa che hanno soprattutto gli ecclesiastici. È illuminante, sotto
questo aspetto, il contenuto di CTh. 16.2.31, una costituzione promulgata da
Onorio nel 409, che minaccia la pena di morte per coloro che irrompono con
violenza nelle chiese cattoliche, facendo ingiuria ai sacerdoti e agli stessi luoghi
di culto. Ciò che è molto significativo in questa norma è che essa precisa che,
per la punizione dei rei, non bisogna attendere che il vescovo sporga denuncia,
occorre procedere d’ufficio, perché al vescovo sanctitas ignoscendi solam
gloriam dereliquit. Il legislatore, cioè, sancisce, in modo indiretto, la non
omogeneità, sul piano della rilevanza strettamente giuridica, tra precetto
cristiano e legge dello Stato. Egli non vuole che coloro i quali commettano
violenze contro sacerdoti e luoghi di culto siano perdonati, ma ritiene anzi che
bisogna condannarli con la pena più severa, la morte. Ciò che, tuttavia, anche
molto interessa al legislatore (e in ciò è chiara l’influenza cristiana) che il
vescovo non si comprometta in tale condanna venendo meno ai suoi obblighi
di amore e di perdono.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – In riferimento a CTh. 3.7.2, la questione che mi


si pone ha ad oggetto la pena di morte. Prendo le mosse da un dato di fatto, 247
che è quello per cui – così come rilevo a conclusione del mio libro, provando
ad accostarmi alle norme non più vivisezionate, bensì nel loro insieme – la
pena capitale unisce, come un fil rouge, tutte e tre le leggi varate in subiecta
materia. Ragionando in astratto, a me pare che venga difficile negare che esso
rappresenti un plausibile fattore di criticità per quanti ritengono che dietro
queste determinazioni del legislatore tardoimperiale vi sia, a vario titolo, una
‘mano’ cristiana. Allorché si parla di contrarietà della cultura cristiana alla
maxima poena – c’è abbondante letteratura al riguardo, in specie in
correlazione alla funzione della pena tardoantica –, non si deve soltanto avere
in mente lo sprone a prevedere un trattamento punitivo più temperato; le
ritrosie ad ammetterla sono più profonde e derivano già dalla dottrina della
penitenza. La pena della morte esclude, infatti, la possibilità del ravvedimento;
il percorso della penitenza, che per contro i Padri della Chiesa raccomandano,
è costruito in funzione del pentimento (la me‹£noia), prima ancora che della
sanzione in sé. Le mie riserve in parte qua nascono, appunto, da questa
considerazione.
Per di più, se restringiamo la nostra prospettiva al dettato di CTh. 3.7.2, si
vede come le unioni che esso interdice sono punite vicem adulterii. Ebbene,
proprio in materia di adulterio (di recente se n’è occupato Valerio Neri),

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l’opinione caldeggiata all’interno degli ambienti cristiani era nel senso che si
rinunciasse ad esercitare l’azione penale contro gli adùlteri e alla pena materiale
(cioè, la capitale) si sostituisse quella spirituale. L’idea di una collaborazione su
tale punto da parte delle strutture ecclesiali del tempo pone, pertanto, io credo,
delle difficoltà.
È pur vero che una speranza di ravvedimento non è così scontatamente
riferibile agli Iudaei, per i quali – come bene ha mostrato in varie occasioni il
Prof. Lucrezi – una redenzione non era da più parti stimata possibile; d’altra
parte, poniamo il caso che il coniuge di fede ebraica, per merito anche della
vicinanza con il cristiano, si fosse effettivamente convertito alla nova religio: ed
allora si può ragionevolmente ritenere che la Chiesa sollecitasse l’Impero
affinché perseguisse ancora lo scioglimento dell’unione (non più mista, ormai)
e la maxima poena fosse veramente irrogata ai contravventori? Non poteva,
dopo quanto abbiamo detto circa la concezione cristiana della pena capitale,
essere preferita, da parte degli uomini di Chiesa, l’opzione del perdono, già ben
vista nel caso (poc’anzi richiamato) degli adùlteri, come anche degli eretici, (e
non solo di essi in realtà, come si ricava, ad es., da CTh. 16.5.41, a. 407, laddove
lo stesso Onorio, rivolgendosi a tutti gli externi alla catholica fides, per un verso
minaccia di attuare la vindicta, per un altro confida di “emendare” mercé la
248 sola admonitio paenitentiae)? Secondo me, la forte caratterizzazione repressiva
delle misure di cui in CTh. 3.7.2 (per lo meno sulla carta) ben si comprende
collocandosi in una prospettiva differente, ossia se si recupera un’idea, che fu
di Francesco Maria de Robertis, relativamente ad un’intervenuta
‘militarizzazione’ del diritto criminale tardoantico, a fronte, sì come nella nostra
fattispecie, di contingenti motivi di ordine pubblico, che resero non solo
indifferibile ma anche assai energico l’intervento legislativo di Teodosio I.

LUCIO DE GIOVANNI – Non resta che passare a CTh. 3.14.1, la cui analisi mi
trova maggiormente in accordo con Cusmà Piccione sia quando egli propende
per interpretare il testo come un divieto di coniugium tra provinciali e barbari
sia quando si richiama al pensiero di Ambrogio molto contrario alle unioni
miste. Tuttavia mi chiedo: nell’esaminare questa legge, il nostro autore ha
opportunamente delineato il clima culturale intorno alle unioni miste che può
cogliersi nel mondo cristiano, rimarcando l’influenza di esso sulla promulgazione
di tale norma; ma perché questo discorso non può applicarsi anche alle altre
leggi che il nostro autore esamina, intorno alle quali il clima culturale di matrice
cristiana è del tutto simile, ma da cui, in tali norme, Cusmà Piccione sembra
prescindere?

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ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – Il pensiero di Ambrogio, a cui il Prof. De Giovanni


fa riferimento in ordine a CTh. 3.14.1, è riflesso (in modo particolare) in una
epistula che il Padre milanese destinò all’episcopus di nome Vigilius, appena
insediatosi nella chiesa di Trento – in un contesto di frontiera, dunque –, e che
è però di poco posteriore alla lex di Valentiniano (sia che si collochi quest’ultima
al 370, come a me sembrerebbe da preferire, sia che invece la si posticipi al
373 d.C.). In questa missiva, Ambrogio dà al collega delle istruzioni su come
egli dovrà svolgere il mandato episcopale e ben presto il discorso finisce per
essere assorbito dal problema dei matrimoni misti (addirittura, più di venti
paragrafi sono da lui dedicati all’episodio biblico del tradimento di Sansone
messo in opera dalla Palaestina Dalila). Non è un caso che in una Vita Ambrosii
rimasta senza autore, che è conservata nella Patrologia Latina, ci venga detto
che la grande preoccupazione, che la lettera tradisce in relazione ai matrimoni
misti, dipendeva dalla percezione di una vera e propria emergenza che si aveva
al riguardo in quei territori, in conseguenza del diffondersi di unioni tra cristiani
e barbari in zone prossime alla frontiera, qual era per appunto quella tridentina.
Non può essere dubbio che il documento sia di grande rilevanza ai fini della
valutazione del disposto di CTh. 3.14.1, però – e torno a ribadire quanto già
ho avuto modo di sostenere rispetto alla costituzione di Costanzo – da esso,
a mio avviso, non si può attingere il movente diretto della norma. Dico questo 249
non tanto perché si tratta (come s’è prima visto) di una testimonianza ad essa
successiva (al tempo della constitutio, Ambrogio non era ancora stato eletto
vescovo) – l’epistula e la lex valentiniana potrebbero difatti essere, come anche
a me pare che siano, entrambe l’eco della stessa polemica: quella del
problematico rapporto con le gentes barbarae; quanto invece per la ragione
che la constitutio pare mostrare una dipendenza più forte da una serie di
episodi d’infedeltà posti in essere, proprio a ridosso (temporalmente e
geograficamente parlando) del provvedimento tràdito in CTh. 3.14.1, da milites
d’origine barbara. Il magister equitum Theodosius (senior), destinatario della
legge, nella spedizione in Britannia dell’anno prima aveva dovuto fare fronte a
vari casi di tradimento a vantaggio degli hostes barbari, come Ammiano ci
riporta; da qui, l’emergere di sentimenti di diffidenza verso qualsivoglia forma
di adfinitas tra provinciales e gentiles, che hanno verosimilmente trovato sfogo
nei divieti introdotti da Valentiniano con CTh. 3.14.1.
Tra la scrittura di Ambrogio e questa costituzione sussistono, nondimeno,
degli innegabili punti di contatto. Per esempio, Valentiniano adopera il verbo
‘copulare’ e nella lettera si parla di ‘copula’ per definire le suddette unioni;
ancora: la capitalis poena minacciata da CTh. 3.14.1 è inflitta a condizione che
“quod in his suspectum vel noxium detegitur” e perniciosa è qualificata da

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Ambrogio ogni relazione dei cristiani con una mulier alienigena; ma soprattutto
ciò che lega i due testi è il comune riferimento alla proditio. Esso induce, in
Ambrogio, il richiamo alla storia di Dalila, il cui tradimento portò il marito alla
perdita della propria fede. Il che permette di ampliare la natura del pericolo
paventato dal legislatore (e di dare un nuovo significato, più lato, ai termini
suspectum e noxium), che, se anche ebbe dapprincipio un’impronta tipicamente
militare, poté poi essere inteso con riguardo alla difesa della fede cristiana.
Quale contributo può, allora, venire all’interprete moderno, che si ponga
dinanzi alla disposizione di cui in CTh. 3.14.1, dalla epistula di Ambrogio a
Vigilio?
Ancora una volta, secondo quanto ritengo, essa ci consente di entrare in
contatto con quelle discussioni affrontate nell’opinione pubblica di religione
cristiana, le quali ebbero certamente un’incidenza sul legislatore, benché non
fossero la ragione immediata del suo intervento.

ANTONIO BANFI – Vorrei aprire il dibattito con qualche osservazione circa il


rapporto tra pena capitale e dottrina cristiana. Non mi sento così sicuro di
condividere il punto di vista di Alessandro Cusmà Piccione a riguardo. Non ho in
mente in questo momento attestazioni chiare di un qualche tipo di approvazione
250 dell’utilizzo della pena capitale da parte di fonti cristiane. Ho però in mente
diverse attestazioni dell’utilizzo della violenza fisica, incluse la tortura e la
fustigazione, da parte di alcuni gruppi cristiani. In un caso sicuramente si tratta
di ariani contro ortodossi; altri casi riguardano poi gli atteggiamenti piuttosto
virulenti assunti dai monaci africani. Ma a parte questo, ne approfitto per esporre
un’altra mia sensazione. La tarda antichità, come si è sempre detto, è in realtà
uno dei periodi storici con il più notevole irrigidimento di barriere di status:
barriere di vario tipo, che possono andare dalla limitazione del singolo all’esercizio
di determinate professioni, alla possibilità di ricoprire certe cariche e via dicendo.
Tra queste barriere di status rientra anche quella legata alla fede religiosa. Sicché
non stupisce poi molto che l’autorità imperiale leggesse il caso del matrimonio
interreligioso come una rottura di quest’ordine delle cose, che, in quanto tale,
appariva dunque particolarmente minacciosa. Mi viene in mente un paragone
azzardato: quello con la repressione dei Baccanali, attuata per una ragione molto
simile: impedire la commistione tra liberi e schiavi, uomini e donne.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – È vero che non è univoco l’atteggiamento della


cultura cristiana nei riguardi della violenza in genere. Agli episodi adesso
ricordati dal Prof. Banfi, potrei anch’io aggiungerne di ulteriori; ed in particolare,
senza neanche spostarmi dall’àmbito della mia indagine, mi tornano alla mente

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alcune omelie pronunciate da Giovanni Crisostomo adversus Iudaeos, che


risalgono (se ben ricordo) ad appena l’anno prima di CTh. 3.7.2. In esse, ci si
scaglia non tanto contro gli ebrei, quanto i fideles iudaizantes, cioè quei cristiani
che osservano le pratiche cultuali ebraiche. Siffatti cristiani dal comportamento
ambiguo rappresentavano un grosso problema a quel tempo, o almeno così
erano percepiti; al punto che il vescovo Crisostomo incitò i fedeli della città di
Antiochia ad agire contro di loro, “Ôper oƒ s‹ratiîtai”, È alla stregua di veri
e propri soldati. Ora, sono indubbiamente suggestive queste invettive per
l’analisi della costituzione di Teodosio I, ma – per come ritengo – le sollecitazioni
che da esse poterono venire alla Corte si esplicarono più nel quomodo che nel
cur della legge. Prova ne è che l’Imperatore, con tale disposizione, non sanzionò
solamente la parte ebraica del coniugium, bensì pure quella cristiana. Le
tensioni presenti nelle omelie di Crisostomo (come, del resto, i vari episodi di
violenza registrati in quegli anni da ambo le parti, il più noto nel castrum di
Callinicum) ebbero riflessi, soprattutto, sulla decisione di affrontare la questione
dei rapporti tra Christiani e Iudaei mantenendo il più possibile separate le due
comunità, e non consentendo di conseguenza il matrimonio dei rispettivi
appartenenti.

FRANCESCO ARCARIA – Le riflessioni di questo pomeriggio mi hanno trasmesso 251


una particolare impressione che tocca da vicino la vexata quaestio del rapporto
tra fonti giuridiche e fonti atecniche o letterarie. Ci è stato insegnato che tale
rapporto va impostato, quantomeno tendenzialmente, in questi termini: le fonti
atecniche o letterarie possono fornire un preciso aiuto nell’interpretazione del
significato e della portata dei testi giuridici. E ciò effettivamente vale per l’epoca
classica. Da quello che ho sentito quest’oggi, però, mi sembra invertirsi nell’età
postclassica tale relazione, con le fonti cristiane che paiono quasi confondere
l’interprete moderno nell’interpretazione dei testi giuridici. Si tratta di
un’impressione fondata?

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – La sensazione – penso anch’io – è veritiera. Il


rapporto tra le fonti letterarie (di provenienza cristiana, vieppiù) e quelle
tecniche, in effetti, pare ingarbugliarsi in quest’epoca; ciò è, probabilmente,
un’indiretta conseguenza dell’accresciuta complessità della società. A chiunque
si approcci al mondo tardoantico si oppone una difficoltà ulteriore rispetto allo
studio di altri frangenti, che sorge dal dover cogliere più ‘anime’ all’interno
delle norme giuridiche. L’uomo che viveva in siffatti tempi si trovava, ormai,
ad essere sottomesso non soltanto alle disposizioni impartite dall’organizzazione
statale, ma pure a tutte quelle regole che gli derivavano dall’appartenenza ad

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una certa comunità religiosa (non si pensi unicamente ai cristiani, ma anche,


ad es., agli ebrei). Le indicazioni che è dato ottenere dalle testimonianze
cristiane possono, perciò, dare un apporto alla soluzione di questa o quella
questione giuridica, però quasi mai la esauriscono nella sua interezza. D’altro
canto, l’interprete è chiamato a confrontarsi, per la prima volta nella storia
romana, con un vero e proprio profluvio di testi normativi: ciò può portare al
rischio opposto, quello di svilire il contributo di conoscenza che le fonti
letterarie sono in grado di offrire, che non è tanto quello di colmare delle
lacune, quanto invece di consentirci di prendere contatto con la mentalità ed
i problemi esistenti durante la vigenza delle norme.

SALVO RANDAZZO – Da quanto detto sinora emerge l’immagine di una


compagine statale che, nel periodo tardoantico, è senz’altro più organizzata dal
punto di vista burocratico rispetto al passato, ma che al contempo si
caratterizza per una produzione normativa fluviale e poliedrica. A fronte di ciò,
si può dire che quello tardoantico sia uno Stato più solido, più forte e più
affidabile rispetto al passato? O forse proprio nella sua elefantiasi si nascondono
i germi della sua crisi?

252 ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE – È una domanda assai complicata, che si


congiunge con l’annosa questione delle cause che portarono alla decadenza ed
alla crisi dell’Impero. A me non pare inappropriato descrivere lo Stato dell’epoca
tardoantica nei termini di uno Stato decisionista, desideroso (e capace, al
contempo) di dare risposte rapide alle problematiche che via via gli si
presentavano; e non di rado si trattava di risposte caratterizzate da piglio
autoritario. Sotto tale punto di vista, è fuori di dubbio che l’accentramento
della produzione giuridica ha costituito un elemento di debolezza a confronto
della dialettica di ‘voci’ che si aveva nell’età passata. Certo, ci si dovrebbe porre
la domanda di quale peso gli esponenti più autorevoli della Chiesa, i quali
vantassero una qualche familiarità presso le Corti imperiali, poterono ritagliarsi,
volta per volta, sui processi decisionali; ma esso, almeno nelle leggi che ho
concretamente esaminato ai fini della mia ricerca sulla disparità religiosa, non
mi è mai parso rivestire un ruolo preminente. Può tutto ciò avere contribuito
ad avvicinare la fine di Roma? Non saprei dire in questo momento; lo spunto
è interessante e richiederebbe naturalmente una indagine specifica.

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Il contratto di comodato.
Modelli romani e disciplina moderna

Giovanni Luchetti discute con Antonino Milazzo

GIOVANNI LUCHETTI – Nell’iniziare la nostra mattinata di lavoro, desidero


anzitutto esprimere un ringraziamento sincero agli amici Mariella Miceli e Salvo
Randazzo per avermi voluto qui con voi come discussant nell’ambito della
‘Lettura Romanistica’ dedicata al volume recentemente pubblicato da Antonino
Milazzo sul contratto di comodato, inserito nella collana ‘Il giurista europeo’
diretta da Luigi Garofalo.
Un saluto affettuoso va poi in particolare al Prof. Pietro Cerami, la cui
presenza qui con noi al tavolo dei relatori mi onora e insieme, lo confesso, un
po’ mi preoccupa per la sua conoscenza del tema che affronteremo, certamente
maggiore e più profonda della mia. Infine ancora un ringraziamento al folto
pubblico di colleghi e di studenti presenti oggi in questa sala prestigiosa e un
saluto, che vuole essere anche una rassicurazione, al giovane e valoroso autore 253
del volume che discuteremo, Nino Milazzo.
A questo proposito voglio subito dire, a mo’ di premessa al nostro seminario
odierno, che il libro di Nino Milazzo è un libro interessante, che dimostra un
impegno certamente serio nella ricerca con riferimento a temi difficili e
complessi come quelli dell’origine della tutela del contratto di comodato, della
natura del contratto e della responsabilità del comodatario. Temi dicevo difficili
se affrontati separatamente, ma che diventano ancor più ardui se fatti oggetto
di una ricerca unitaria come avviene nel volume pubblicato dall’autore. Questo
del resto è anche uno dei meriti del libro, quello di riesaminare un tema
centrale dei nostri studi che non è stato oggetto in tempi recenti di particolare
approfondimento a livello monografico se si eccettua la ricerca, edita però quasi
quaranta anni or sono, da Pierluigi Zannini.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché la disciplina ha bisogno che i
giovani si cimentino, e vorrei dire abbiano il coraggio di cimentarsi, su temi
centrali dei nostri studi. Con ciò vi ho anche detto che il libro di Nino Milazzo
è un libro coraggioso, un libro in cui l’autore affronta con ipotesi spesso
eterodosse un tema su cui tutti noi abbiamo le nostre idee, spesso corroborate
da anni di ricerca e soprattutto di didattica. Dico questo perché i risultati della
ricerca, e lo dico soprattutto agli studenti presenti, risulteranno talvolta

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disarmonici rispetto agli insegnamenti ricevuti e cristallizzati nei principali


manuali istituzionali.
Ma cominciamo ad analizzare alcuni aspetti della ricerca. Una conclusione
che mi sembra anzitutto da condividere è quella che riguarda un aspetto
terminologico, propedeutico alla trattazione che segue. Mi riferisco all’idea
sostenuta dall’autore secondo cui il significato del verbo commodare
risulterebbe più ristretto rispetto alla locuzione utendum dare che si porrebbe
rispetto al primo come genus in cui vengono ricompresi sia il prestito d’uso
che quello di consumo (pp. 10 e ss.). Ciò implica la sottolineatura, anche sotto
il profilo terminologico, della distanza dal mutuo, distanza che, a mio avviso
permane netta anche nel diritto dell’epoca tardoantica (ma si tenga comunque
presente la pecunia commodata cui fa riferimento il testo della costituzione
contenuta in CTh. 2.31.1). Sotto questo profilo, mi preme evidenziare che la
testimonianza del grammatico Agrecio (Gramm. 7.124.13), pur dichiarando la
vicinanza fra mutuo e comodato, non dimostra la sovrapposizione delle due
figure, ma continua a differenziarle sotto il profilo della diversità dell’oggetto
che finisce per riflettersi sulle caratteristiche del recipere che in un caso ha per
oggetto l’ipsam rem, nell’altro una res fungibile che si dice mutata perché
appunto l’obbligo del mutuatario concerne piuttosto la restituzione del
254 tantundem.

ANTONINO MILAZZO – Desidero innanzitutto esprimere il mio più sentito


ringraziamento agli organizzatori di questa Lettura, e in particolare alla Prof.ssa
Miceli, che ha organizzato non soltanto con puntuale precisione, ma vorrei dire
con estrema passione questo appuntamento. Venendo all’argomento
prospettato dal Prof. Luchetti, desidero innanzitutto ringraziarlo per le belle
parole spese per il mio libro. Nel merito, credo che occorra partire da una
considerazione già accennata dal Prof. Luchetti: le fonti in nostro possesso,
soprattutto per il periodo più risalente, non sembrano far pensare ad una
commistione concettuale o terminologica tra i due istituti, nonostante un largo
indirizzo dottrinale sia orientato in senso contrario. Invero, l’utilizzo promiscuo
del verbo uti in sé non comporta come corollario una indifferenziazione tra il
comodato e il mutuo, tenendo presente l’ampio spettro di utilizzi che il verbo
suddetto reca con sé e che certamente evidenzia un aspetto che accomuna il
comodatario al mutuatario, così come li accomuna entrambi al precarista o al
locatario o all’usufruttuario o all’usuario, senza che da ciò ne inferisca una
confusione concettuale tra le pur sempre distinte figure giuridiche. L’utilizzo del
bene, sia esso fungibile o infungibile, accomuna da questo angolo visuale il
mutuatario al comodatario, ma la diversità di oggetto, che si associa

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strettamente ad una diversità di causa, credo che non abbia consentito


confusioni concettuali sin dall’età più risalente. Infatti, abbiamo già avuto modo
di rilevare come tale tesi in realtà non trovi riscontro nelle fonti in nostro
possesso, che tendono sempre ad ancorare il prestito alla sua temporaneità,
esprimendola spesso con il verbo commodare.

GIOVANNI LUCHETTI – Altro aspetto assai discusso è quello della tutela originaria
del comodato. A questo proposito viene anzitutto rigettata l’ipotesi che fu
formulata da Contardo Ferrini secondo cui nel comodato immobiliare lo
strumento processuale anticamente approntato dall’ordinamento a tutela del
comodante al fine di ottenere la restituzione del bene sarebbe stato quello
predisposto nella fiducia cum amico (pp. 32 e ss.). A questo proposito tuttavia
Nino Milazzo evidenzia giustamente come il perimetro causale della fiducia sia
ben diverso rispetto a quello del comodato venendo incontro a esigenze di
custodia e protezione del bene fino a comportarne il trasferimento di proprietà.
Né secondo l’autore potrebbe ritenersi che lo strumento adottato a tutela
del comodato fosse la legis actio per condictionem (pp. 50 e ss.) che avrebbe
trovato applicazione anche nel caso del comodato per il riconoscimento in
antico di un’ampia portata del credere, inclusiva, nell’ampia nozione di res
credita, anche della res commodata. La teoria, autorevolissimamente sostenuta 255
da Bernardo Albanese, è messa in discussione dall’autore sostenendo in
particolare che, trasferita la tutela alla condictio formulare, si sarebbe
comunque reso inutile l’intervento pretorio volto al riconoscimento dell’actio
commodati in factum, resa superflua dalla presunta esistenza di una tutela
civilistica, peraltro non confermata da alcuna fonte.

ANTONINO MILAZZO – Ho tentato di dimostrare nella mia ricerca che la prima


tutela, anteriormente all’ingresso edittale dell’actio commodati, non sia stata
affidata alle forme negoziali della fiducia cum amico, ovvero allo strumento
processuale della condictio: tuttavia, occorre a questo punto porsi il quesito di
quale fosse la primigenia forma di tutela del comodato. Credo, tuttavia, che il
quesito sia viziato da un errore di base: quello di ritenere che la tutela prevista
dall’editto sia arrivata in un’età tarda, ossia tra il finire dell’età repubblicana e
l’inizio dell’epoca classica. Si tratta di un assunto, come cercherò di dimostrare,
che in sé non ha solide fondamenta e che poggia sul presupposto fallace di
ritenere verosimile ciò che verosimile non può essere, ovverossia che per diversi
secoli il comodato sarebbe rimasto privo di una forma di tutela diretta e
specifica. Qui importava soltanto rilevare una circostanza: le fonti appaiono
concordare nell’applicazione della disciplina del furto a tutela della posizione e

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quindi dell’interesse del comodante. Ma, a ben vedere, non si tratta di


un’applicazione che fuoriesce dai criteri generali, in quanto tale disciplina si
pone in generale a presidio della posizione proprietaria, quale è appunto
(anche) quella del comodante. Ciò significa che il comodante non viene ad
essere tutelato in quanto tale, ma in quanto dominus del bene dato in prestito,
così come si spiega in generale la protezione che a lui potrebbe essere
riconosciuta con la rei vindicatio.

GIOVANNI LUCHETTI – Dopo aver fatto riferimento alle forme di tutela indiretta
attraverso l’actio furti o la rei vindicatio, Nino Milazzo ipotizza che una forma
di tutela diretta attraverso l’actio commodati in factum risalga a epoca più
antica di quanto comunemente si ritiene (pp. 59 e ss.). Condivido senza
esitazioni l’idea che l’actio commodati in factum fosse nota a Quinto Mucio,
circostanza che alcune fonti, in cui possono individuarsi lemmi muciani,
dimostrano senza possibilità di discussione. Mi riferisco a D. 13.6.5.3 (Ulp. 28
ad ed.) (cfr. Stolfi, nr. 51), a D. 13.6.23 (Pomp. 21 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi,
nr. 52), a D. 13.1.6 (Pomp. 38 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi, nr. 79) e a D. 47.2.77
pr. (Pomp. 38 ad Quint. Muc.) (cfr. Stolfi, nr. 80) cui si deve aggiungere la
testimonianza di Gell. noct. att. 6.15.2 (cfr. Stolfi, nr. 78). Tuttavia rilevo nella
256 ricostruzione dell’autore un salto cronologico per me non colmabile, laddove
si tenta di retrodatare l’introduzione dell’actio in factum al III-II secolo a.C. (p.
77). Il fatto che l’actio commodati fosse ben nota a Quinto Mucio che ne
discuteva sotto vari profili (in particolare quanto alla responsabilità del
comodatario e ai limiti in cui poteva trovare applicazione la fattispecie del
furtum usus) dimostra solo che l’azione contrattuale esisteva in un’epoca a
cavallo fra il II e il I secolo e, a tutto concedere, al più intorno alla metà del
II secolo, ma, a mio avviso, ragionevolmente non prima.

ANTONINO MILAZZO – Rilevo la fondatezza del dubbio sollevato dal Prof.


Luchetti. Tuttavia, osservo che la considerazione che abbiamo visto riservata
da parte delle fonti letterarie alla figura del prestito d’uso, individuato
soprattutto con le locuzioni derivate dal verbo commodare, induce a far
emergere un significato socialmente riconosciuto alla figura, alla quale si
attribuisce una posizione autonoma rispetto ad altre figure, quali il mutuo e il
deposito, che pure già possedevano un riconoscimento giuridico: il significato
socialmente riconosciuto al comodato, che trova fondamentale riscontro nella
particolare e intuitiva diffusione del prestito, soprattutto degli oggetti di uso
quotidiano e nella cerchia dei rapporti parentali o amicali, non può
credibilmente trovare un’assenza di tutela giuridica che si sarebbe protratta per

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diversi secoli, non potendo, per le ragioni evidenziate, trovare succedanei nella
fiducia cum amico o nella condictio.
In definitiva, credo che il significato socialmente rilevante che le fonti
testimoniano già in età piuttosto risalente per il prestito d’uso debba trovare
riscontro, sulla base di una scontata esigenza di tutela, in un riconoscimento
giuridico, riconoscimento che la riflessione di un giurista autorevole quale
Quinto Mucio avvalora, fornendo testimonianza di un interesse senza dubbio
approfondito per un rimedio, quello dell’actio commodati, che già nel III-II
secolo a.C. doveva risultare concesso a tutela delle ragioni del comodante.

GIOVANNI LUCHETTI – Quanto al riconoscimento della tutela edittale del


comodato si propone giustamente anzitutto la testimonianza di D. 13.6.1 pr.
(Ulp. 28 ad ed.) che, come noto, sembra attribuirla a un non meglio identificato
Paconio. Tale tutela edittale avrebbe avuto originariamente per oggetto
l’utendum dare e solo successivamente, ma già prima di Labeone, avrebbe
finalmente contenuto il riferimento al commodare (pp. 99 e ss.). La
ricostruzione appare nel complesso plausibile, tranne che in un punto e cioè
riguardo all’identificazione un po’ acritica di Paconio come praetor, peraltro
spesso condivisa dalla dottrina.
Lo stesso Nino Milazzo propone infatti anche un passo, altrettanto noto, 257
contenuto in D. 37.12.3 (Paul. 8 ad Plaut.) il cui incipit è Paconius ait, il che,
a mio modo di vedere, per un modus citandi consolidato nelle citazioni
giurisprudenziali e non disatteso da Paolo, indica piuttosto un giurista. Su
questo punto, che rimane un nodo storicamente controverso, si potrebbe
dunque auspicare una presa di posizione più articolata dell’autore circa
l’eventuale possibilità di individuare un Paconio giurista che fosse stato anche
pretore o di individuare due diversi Paconii, uno pretore e l’altro giurista.

ANTONINO MILAZZO – Ammetto che nella mia indagine mi sono occupato


maggiormente dell’analisi circa la nascita della tutela giuridica del comodato,
nella quale riscontro l’ampia importanza che ha D. 13.6.1 pr. (Ulp. 28 ad ed.)
nel testimoniarci la primigenia forma edittale di difesa, la quale richiama la
figura, per molti versi ancora oscura e forse di insolubile soluzione di Paconio,
Ma credo che siano molto interessanti gli spunti forniti oggi dal Prof.
Luchetti, circa la possibilità di intravvedere un giurista in Paconio, figura peraltro
nominata soltanto due volte nelle fonti in nostro possesso.

GIOVANNI LUCHETTI – L’indagine si sposta poi su Gai 4.47 (pp. 109 e ss.),
partendo dalla collocazione del testo al di fuori della trattazione gaiana delle

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obligationes re contractae per poi passare all’esame di D. 44.7.2.1 (Gai. 2 aur.)


e al brusco cambiamento di prospettiva ivi documentato circa l’estensione della
categoria. Qui mi permetterei di aggiungere che, nell’individuazione del
contenuto della categoria delle obligationes re contractae, le Institutiones
dipendono evidentemente da modelli precedenti e molto probabilmente dal
modello civilistico di Sabino, mentre l’impostazione più moderna delle res
cottidianae segna un affrancamento di Gaio da tale modello di riferimento. Qui
poi mi viene l’obbligo di porre all’autore un dubbio fin troppo scontato. Ma
poi è proprio Gaio a parlare nel testo delle res cottidianae o non si può pensare
piuttosto a un anonimo redattore epiclassico? Su questo tema, che ha affaticato
e affatica da sempre la dottrina moderna, si sarebbero potute forse spendere
alcune considerazioni (senza particolari ambizioni, ma solo per dar conto di un
problema ben noto, ma importante per questa parte della ricerca).

ANTONINO MILAZZO – Si tratta di una vexata quaestio: in tal senso mi sono


appoggiato, nella mia ricerca, all’orientamento ormai predominante nella
dottrina, secondo il quale, pur con i dubbi che già il Guarino autorevolmente
manifestava e che oggi il Prof. Luchetti ripresenta, l’opera sarebbe ascrivibile a
Gaio. Ma non mi nascondo le perplessità che una simile attribuzione, non
258 fondata su argomenti insuperabili, possa suscitare.

GIOVANNI LUCHETTI – Ma l’indagine si fa ancora più ‘intrigante’ con l’analisi


esegetica di Gai 4.47 (pp. 118 e ss.). Qui Nino Milazzo presenta un’ipotesi
suggestiva, ma destinata ad alimentare, credo, non poche discussioni. Sostiene
infatti che la doppia tutela processuale prospettata da Gaio (in factum e in ius)
andrebbe letta in maniera diacronica, nel senso che, a partire da un certo
tempo, alla tutela in factum si sarebbe sostituita quella in ius.
L’argomentazione parte dall’osservazione che la riflessione dei giuristi
dell’età severiana verte sull’actio in ius ex fide bona che appunto sarebbe stata
l’unica azione preordinata alla loro epoca alla tutela del comodato. L’azione in
ius concepta ex fide bona risalirebbe in questa ricostruzione già all’epoca
ciceroniana e sarebbe nota a Labeone (qui devo osservare una imprecisione
dell’autore che sembra considerare Cicerone e Labeone coevi, benché fra i due
intercorra circa un sessantennio). Che l’actio in ius si sia affermata nell’arco di
tempo che va da Cicerone a Labeone è ipotesi comunque plausibile e anzi mi
pare si possa aggiungere che l’ipotesi formulata nel libro non è smentita dal
fatto che l’editto non si occupasse del comodato nell’ambito dei giudizi di
buona fede (e quindi nel titolo edittale XIX), ma piuttosto nel titolo edittale
XVII (de rebus creditis), appunto sotto la rubrica commodati vel contra. Ciò

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trova evidentemente spiegazione nel fatto che in quel contesto era


originariamente inserita la tutela prevista dall’actio in factum e dimostra solo
che l’introduzione dell’actio in ius non comportò una modifica della struttura
dell’editto.
Le due azioni avrebbero altresì avuto un diverso ambito di applicazione (pp.
140 e ss.). La più antica sarebbe stata essenzialmente rivolta alla restituzione
della res commodata, mentre l’azione in ius, in quanto azione di buona fede,
si sarebbe prestata alla difesa di un più articolato assetto di interessi,
rimettendo all’officium iudicis il complessivo comportamento delle parti. Proprio
questa maggiore ‘comprensività’ dell’actio in ius avrebbe determinato
l’abbandono dell’azione più antica nell’ambito giudiziale.

ANTONINO MILAZZO – Nella mia ricerca evidenzio la centralità della


problematica della tutela del comodante nel diritto classico, specificamente
rivolgendo la riflessione sulla questione della duplicità formulare, actio in factum
e actio in ius, ricordata da Gaio in 4.47. Occorre rilevare, come nessuna
giustificazione possa trovare la coesistenza delle due formule, in ius e in factum,
la quale coesistenza costituisce ancora un dubbio presente nella moderna
riflessione romanistica: esclusa la tesi del conservatorismo romano, non ritenuta
la sussistenza di ragioni tecnico-processuali a fondamento del permanere della 259
formula in factum, occorre dubitare della stessa permanenza di quest’ultima
nel panorama del diritto classico, atteso che lo scrutinio dei frammenti finora
condotto non ha evidenziato nessun commento da parte dei giuristi dell’epoca
classica della formula in factum, essendo viceversa l’attenzione dei prudentes,
soprattutto dell’età severiana, concentrata sull’actio commodati in ius. Il
carattere molto ampio di quest’ultima formula di buona fede conduce a
disattendere la tesi di chi ipotizza che essa sia sorta con un ruolo
complementare, per introdurre forme di tutela ad ipotesi che sfuggivano al
perimetro applicativo della formula in factum, consentendo quindi un
risarcimento del danno: in realtà l’ampiezza del iudicium bonae fidei, lo abbiamo
più volte ripetuto, consentiva anche di sanzionare l’obbligo di restituzione del
comodatario, il che significa che nei fatti l’introduzione dell’actio in ius rese
superflua quella in factum, atteso che quest’ultima presentava un contenuto
molto ridotto ed assorbito comunque nel più ampio contesto del giudizio di
buona fede. Esclusa, in definitiva, alcuna funzione per la formula in factum,
una volta introdotta quella in ius, ed escluso altresì un interesse emergente dai
frammenti della compilazione da parte dei giuristi del periodo classico, si può
ipotizzare l’abbandono della prima nell’ambito giudiziale. Tuttavia, credo sia
possibile tentare un’altra strada interpretativa. La singolarità, perciò, consiste

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nella circostanza che questi due modelli contrattuali, a differenza di tutti gli
altri, hanno ricevuto una tutela differenziata con due distinte azioni: Gaio, in
altre parole, nell’evidenziare l’origine edittale della tutela del deposito e del
comodato, mette in rilievo la singolarità della duplice tutela, ma nel fare ciò
non suggerisce, come si è normalmente ipotizzato, una contestualità dei due
tipi di difesa, limitandosi ad evidenziare il dato di fatto sopra indicato. Ciò può
indurre a riflettere su un dato: Gaio evidenzia la duplice tutela del comodato,
ma non ne afferma il contestuale utilizzo, indicando, in uno all’origine pretoria
delle due azioni, il differente contenuto che esse presentavano. Questo dato
può suggerire una lettura, per così dire, ‘diacronica’ del paragrafo gaiano,
potendo ipotizzarsi – come suggerito dalla circostanza che i giuristi coevi o
successivi commentano la formula in ius – che in origine sarebbe stata concessa
dal pretore la formula in factum, la quale serviva a rimediare a quella situazione
che veniva avvertita come la patologia per eccellenza del prestito d’uso, ossia
l’omessa restituzione del bene concesso in comodato. Solo in prosieguo di
tempo, si sarebbe avvertita la necessità di ampliare la sfera di tutela del
comodante: è infatti all’angolo visuale di quest’ultimo che si guarda, il che rende
necessario un successivo intervento pretorio che – in parallelo con la
modificazione della terminologia, forse già avvenuta, da utendum dare a
260 commodare – affronta la ‘crisi’ della formula in factum, in quanto quest’ultima
ormai divenuta insufficiente a regolamentare le ipotesi che la pratica del
comodato aveva evidenziato come punti di frizione tra il comodante e il
comodatario, quali il ritardo nella riconsegna del bene prestato, il
deterioramento di esso, o l’utilizzo dello stesso fuori dai canoni fissati o normali
per la medesima res commodata.
Tali esigenze pratiche inducono il pretore ad intervenire con la formula in
ius, la quale grazie all’innesto della clausola ex fide bona consente di rispondere
a tutti i problemi sopra evidenziati, oltre a permettere al iudex di valutare
complessivamente l’assetto di interessi posto in essere dalle parti, anche alla
luce di una differenziata valutazione dell’elemento soggettivo in capo ai
contraenti.
Credo che seguendo questa interpretazione risulti chiarificato il rapporto tra
le due formule, le quali vanno viste non su di un piano ‘sincronico’, ma di
successione storica, rispondendo a due diverse esigenze, che troveranno
compiuta definizione grazie al giudizio di buona fede. Quest’ultimo, infatti, nella
sua intentio incerta, facendo riferimento al ‘quidquid ob eam rem’, consentirà
un’estrema duttilità e quindi una completa tutela del comodante, anche
nell’ipotesi di omessa restituzione del bene.

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GIOVANNI LUCHETTI – Un altro aspetto ‘suggestivo’ della ricerca è la messa in


discussione della configurazione tradizionale del comodato come contratto
bilaterale imperfetto (pp. 161 e ss.), ipotizzando di poter considerare piuttosto
il contratto di comodato come pienamente bilaterale. Tale assunto poggia sulla
lettura di D. 13.6.17.3 (Paul. 29 ad ed.), un testo che sembra sottolineare la
reciprocità delle obbligazioni di comodante e comodatario, evidenziando come
fra le obbligazioni del primo rientri anche quella di non richiedere intempestive
la restituzione della cosa data in comodato (e quindi di mantenere a
disposizione del comodatario la cosa fino alla scadenza del termine pattuito).
In particolare la struttura classica del comodato richiederebbe fra i suoi
requisiti la specificazione del termine di durata del contratto (finis) e le modalità
di utilizzo della cosa comodata (modus). Ciò comporterebbe l’ampliamento del
perimetro del iudicium contrarium (pp. 201 e ss.) che si allargherebbe appunto
al di là dell’obbligo di rimborsare le spese straordinarie e di risarcire il danno
nel caso in cui il comodante avesse consapevolezza del carattere inidoneo o
viziato della cosa, fino a ricomprendere anche l’obbligo di garantire l’uso della
res commodata per il tempo pattuito. Insomma alla bilateralità di interessi
corrisponderebbe una bilateralità di obbligazioni nell’ambito di un rapporto
sinallagmatico.
261
ANTONINO MILAZZO – Credo che l’evoluzione sostanziale del rapporto deve aver
condotto ad una parallela evoluzione processuale: emersa la necessità di
tutelare su un piano giuridico anche la posizione del comodatario, a fronte
dell’esistenza già dell’azione diretta – posto che proprio la qualificazione di
‘contraria’ presuppone una contrapposizione, un’opposizione a qualcosa che già
esiste – si fa strada perciò l’introduzione dello strumento processuale del
iudicium contrarium, forse ad opera di Labeone, unico giurista di epoca
maggiormente risalente menzionato in diretta connessione con essa. Ad ogni
modo, il iudicium contrarium assume una forza dirompente sul terreno della
configurazione giuridica del commodatum: da una strutturazione di esso, nella
quale l’unilateralità della tutela modella una unilateralità delle obbligazioni, si
passa ad una bilateralità di tutela, che dal punto di vista del comodatario
assume confini molto ampi. Ciò suggerisce ai giuristi una rimeditazione della
figura negoziale del comodato: la giurisprudenza classica elabora l’intervenuta
bilateralità della tutela processuale e la proietta sul piano sostanziale,
individuando una reciprocità di obbligazioni che ci restituisce una struttura
giuridica del commodatum profondamente modificata. I iuris prudentes della
tarda età classica, come Paolo e Ulpiano, definiscono il perimetro, in sé assai
mobile, dell’actio commodati contraria, facendovi rientrare anche il fine di

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tutelare l’interesse del comodatario all’utilizzo della res fino alla completa
attuazione dello scopo concordato nel programma contrattuale dalle parti. Il
commodatum, una volta perfezionato, fa sorgere obbligazioni a carico di
entrambe le parti: la ragione di ciò, precisa Paolo in D. 13.6.17.3, risiede nella
reciprocità degli interessi che stanno alla base del contratto di comodato e che
pongono su un piano concorrenziale le posizioni delle due parti. La reciprocità
(invicem) degli interessi comporta perciò (ideo) la reciprocità delle azioni, con
l’effetto che il commodatum si caratterizza per la reciprocità delle prestazioni
e delle azioni poste a tutela di esse. Nella giurisprudenza classica, culminata
nell’opera del giurista Paolo, l’opera di sistematizzazione della figura concettuale
del comodato trova la sua chiave di volta nell’avvenuto riconoscimento che sia
il comodante sia il comodatario partecipano al contratto, ciascuno sorretto da
un interesse di natura patrimoniale rilevante sul piano giuridico: questa
bilateralità di interessi crea una bilateralità di obbligazioni che si pongono su
di un piano sinallagmatico. Infatti, l’obbligazione del comodante di mettere a
disposizione della controparte un bene sino al suo completo utilizzo, trova
corrispondenza simmetrica nell’obbligazione del comodatario di restituire tale
bene alla controparte, una volta completato l’utilizzo concordato dalle
medesime parti. In un quadro giuridico così portato a maturazione, e che
262 perdurerà sostanzialmente immutato sino ai giorni nostri, l’actio contraria si
configura come ‘strumento di chiusura’ del sistema: essa, difatti, serve a dare
concreta attuazione processuale alla bilateralità del commodatum,
trasformandolo, sul fondamento del ravvisato elemento della reciprocità degli
interessi delle parti, da contratto primitivamente unilaterale a contratto
sinallagmatico, quale ormai appare nel maturo studio della giurisprudenza della
tarda epoca classica, nel contesto della quale le obbligazioni scaturenti dal
contratto di comodato si pongono, su di un piano paritario, a carico di ambedue
le parti, simmetricamente finalizzate a realizzare gli interessi concorrenziali, e
perciò reciproci, delle parti stesse.

GIOVANNI LUCHETTI – Ultimo aspetto affrontato dall’autore è quello dei limiti


della responsabilità del comodatario (pp. 225 e ss.). Qui, dopo un’ampia e
articolata discussione delle fonti, l’autore mette in discussione l’idea che la
responsabilità del comodatario possa iscriversi, nel diritto classico, nel concetto
tecnico di custodia. Per arrivare a questa conclusione l’autore evidenzia che nel
comodato l’utilitas contrahentium deve essere valutata non in astratto, ma in
base al vantaggio concreto delle parti in relazione agli interessi contrattualizzati,
circostanza che potrebbe portare in via eccezionale (v. D. 13.6.5.10 [Ulp. 28 ad
ed.]), qualora l’interesse del comodante risultasse prevalente, all’applicazione

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del solo criterio del dolo. Peraltro di norma il comodatario è tenuto semmai a
rispondere per colpa, ossia per omessa diligenza (considerando,
nell’elaborazione prima di Giuliano e poi di Gaio e Ulpiano, la diligenza come
concetto speculare in positivo rispetto alla colpa).
Su questo campo, pur facendo ogni sforzo, non riesco però a seguire
l’autore, la cui ricostruzione da coraggiosa, si volge quasi in temeraria. L’idea
infatti che la responsabilità del comodatario vada parametrata esclusivamente
sulla base di criteri soggettivi e che il contenuto della diligentia consista nella
fedeltà delle parti al programma negoziale (p. 305), la cui violazione darebbe
luogo a colpa, parte dall’idea dell’inesistenza nel diritto romano della custodia
tecnica, intesa quale criterio di imputazione della responsabilità su un piano
oggettivo e quindi senza colpa (pp. 309 e ss.). La custodia indicherebbe quindi
la semplice sorveglianza del bene e non un criterio di responsabilità,
riconnettendosi anzi all’idea di diligenza, intesa a sua volta come attività in
positivo e contraltare della colpa. In quest’ottica l’autore nega che l’idea della
custodia tecnica possa ricavarsi da Gai 3.206. Il discorso sarebbe ovviamente
troppo lungo per affrontarlo qui compiutamente. Pongo tuttavia all’attenzione
dell’autore due passi notissimi, Gai. 3.207 e D. 16.3.1 pr. (Ulp. 30 ad ed.).
Sono due testi che si riferiscono al deposito, ma che si prestano bene al
nostro ragionamento. Il testo di Ulpiano recita: Depositum est, quod 263
custodiendum alicui datum est (qui abbiamo la custodia intesa come
sorveglianza del bene). Gaio dice invece: Sed si apud quem res deposita est,
custodiam non praestat. Ora questa custodia non è certamente la stessa cui si
riferisce il passo ulpianeo. Se così fosse i due testi sarebbero infatti in stridente
contrasto, affermando uno che il depositario riceve la cosa per custodirla, l’altro
negando lo stesso assunto. Evidentemente la custodia del testo gaiano è
dunque una custodia diversa da quella del testo del Digesto e il confronto fra
i due testi conferma l’uso del termine custodia in diverse accezioni nelle fonti
romane. Più precisamente in Gai 3.207 si dice che il depositario custodiam non
prestat per dire proprio che non risponde per custodia tecnica a differenza del
comodatario che in Gai 3.206 custodiam praestat come il fullo e il sarcinator.
A mio avviso dunque la custodia tecnica intesa come responsabilità oggettiva
esiste nelle fonti romane e si applica al comodatario.

ANTONINO MILAZZO – Credo che i dubbi manifestati dal Prof. Luchetti siano
ampiamente leciti. In effetti, l’idea che manifesto in relazione alla custodia si
manifesta abbastanza eterodossa. Tuttavia, vorrei precisare in premessa che
non intendo nella mia ricerca compiere una rimeditazione ab imis del tema
della custodia, atteso che il discorso che io conduco è soltanto in relazione alle

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connessioni che tale tema presenta con l’istituto del comodato. Fatta questa
premessa, nel mio libro il tema di chiusura si presenta quello della
responsabilità contrattuale del comodatario. L’esame condotto sulle fonti in
nostro possesso sul comodato induce a ritenere che il regime della
responsabilità posta a carico del comodatario sia di tipo soggettivo, ossia che
nessun evento possa essergli addebitato se non si possa muovere un
rimprovero per la condotta tenuta. Questo rimprovero si fonda su un
comportamento del soggetto che non doveva tenere nel caso di specie, poiché
non conforme al criterio di diligenza che viene a lui imposto e che viene a
concretarsi in quella conformità al regime convenzionale adottato e in
particolare all’utilizzo della res commodata secondo quanto pattuito dalle parti
o secondo quanto può desumersi dalla natura del bene concesso in prestito.
Ciò induce, su un piano di coerenza del sistema, a ritenere – anche alla luce
della circostanza che abbiamo già sottolineato della non imputazione a carico
del comodatario dell’evento danneggiamento ad opera di terzi – che la custodia
della quale parla Gaio in 3.206 non allude ad una forma di responsabilità
oggettiva, ad onta della similitudine con le figure del lavandaio e del
rammendatore, ma serve al giurista antoniniano per evidenziare uno dei
contenuti principali dell’obbligazione posta a carico del comodatario. Il quadro
264 che sin qui è venuto emergendo sembra mostrare un sistema della
responsabilità del comodatario, punctum dolens dell’intera materia del
comodato, che la giurisprudenza, sin dall’età repubblicana, è venuta costruendo
intorno ai due poli fondamentali della diligentia – formula che racchiude gli
obblighi posti a carico del comodatario – e della culpa, quale giudizio di
riprovevolezza che l’ordinamento ricollega ad un evento che il comodatario
avrebbe potuto evitare attenendosi ai suoi obblighi racchiusi nella prima
formula. I giuristi dell’età classica e di quella severiana hanno proseguito su
questa strada, approfondendo e chiarendo diversi aspetti di questa
problematica, ripudiando le forme di responsabilità oggettiva e assegnando alla
custodia la posizione di attività di vigilanza, imposta al comodatario per la
natura stessa del contratto e del suo assetto di interessi, che tuttavia trova
adeguamenti in chiave casistica, come nel caso del servo rispetto al quale non
sempre al comodatario è imposto l’obbligo di custodire. L’idea finale che ne
scaturisce è quella di un sistema di responsabilità particolarmente rigoroso, ma
che guarda casisticamente alle varie ipotesi concrete, concedendo in ogni caso
al comodatario la possibilità di liberarsi da tale responsabilità, laddove dimostri
di aver agito diligentemente, così scongiurando un giudizio di colpevolezza. La
postulata coerenza del sistema costruito dai prudentes induce, perciò, a
conferire ulteriore conforto alla tesi secondo la quale non vi sono ragioni per

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porre un’eccezione nei riguardi di un altro delictum, quale il furto, rispetto al


quale la necessaria presenza della culpa pare trovare una sua esplicita
affermazione nelle parole di Pomponio, il quale ricorda, con una sintesi felice
del criterio soggettivo alla base del teneri contrattuale, come il comodatario
risponda ‘cum in commodati actione non facile ultra culpam’, parole che
sembrano distogliere da ogni tentativo di intravvedere una responsabilità
oggettiva all’interno del contratto di comodato.

GIOVANNI LUCHETTI – Voglio concludere manifestando il mio apprezzamento


per il libro e per la ricerca dell’autore che, se anche talvolta giunge a conclusioni
non condivisibili, si dimostra comunque seria e appassionata. In questo senso
il libro di Nino Milazzo ha certamente il merito di riaprire una discussione su
un tema importante e della discussione si alimenta il progresso della scienza.

ANTONINO MILAZZO – Desidero in conclusione manifestare la mia più profonda


riconoscenza al Prof. Luchetti, per l’attenzione che ha prestato al mio libro e
anche, assieme alle parole di elogio, per le critiche e i suggerimenti, che
sicuramente mi spingeranno a tornare e a rimeditare alcuni dei risultati
raggiunti nella mia ricerca, risultati che, come ammoniva già anni fa Antonio
Guarino, auspicabilmente non possono mai dirsi definitivi. 265

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‘Res communes omnium’.
Dalle necessità economiche alla disciplina giuridica

Antonio Saccoccio discute con Domenico Dursi

Nell’ambito del secondo ciclo di Letture Romanistiche promosso dal network


ELR-European Legal Roots, il 6 dicembre 2018, presso l’Università di Padova,
Antonio Saccoccio (Brescia) ha discusso con Domenico Dursi (Roma ‘La
Sapienza’) dello studio condotto da quest’ultimo in tema di ‘Res communes
omnium’. Dalle necessità economiche alla disciplina giuridica (Napoli-Jovene,
2017).
L’opera – ha notato subito Saccoccio – si inserisce all’interno di un vivace
dibattito, intensificatosi negli ultimi anni, che vede coinvolti studiosi delle più
diverse estrazioni e vocazioni, impegnati a definire cosa debba intendersi oggi
per ‘beni comuni’ e quale regime nell’attuale organizzazione statale sia riservato
(o debba esser riservato) loro.
L’intervento di Saccoccio, che ha aperto il pomeriggio di lavori, si è 267
sviluppato lungo due direttrici principali. Da un lato lo studioso ha delineato gli
orientamenti più significativi emersi in dottrina circa i profili problematici che
la nozione di ‘beni comuni’ solleva; dall’altro lato, si è concentrato sui risultati
delle ricerche che Dursi ha dedicato alla concezione e alla disciplina delle res
communes omnium in Roma antica.
Ad avviso di Saccoccio, molte delle difficoltà con cui tuttora si scontrano i
giuristi che discutono di ‘beni comuni’ sono in varia misura connesse alle gabbie
concettuali elaborate dalla Pandettistica tra la fine dell’Ottocento e i primi del
Novecento. Un sistema, quello dei pandettisti, giunto sino a noi attraverso
mediazioni dottrinali e legislative non di rado intricate, che continua a
condizionare il nostro modo di ragionare in termini giuridici. In particolare, quel
modello risentirebbe di una lettura della realtà polarizzata tra due estremi
opposti, rappresentati dal singolo individuo, con i suoi interessi personalistici,
e dallo Stato, quale incarnazione dell’interesse pubblico. Questo modo di
ragionare in termini dicotomici ha creato problemi di non poco momento in
punto di riconoscimento e di tutela di tutte quelle situazioni giuridiche ‘anfibie’,
perché difficilmente riferibili a uno o all’altro dei due poli in questione e perché
tendenti a soddisfare interessi definibili, in via di prima approssimazione,
‘collettivi’.

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Ebbene, la scienza giuridica moderna si è affaticata non poco nel tentativo


di individuare gli strumenti giuridici più adatti per tutelare questa zona grigia
creatasi tra pubblico e privato. Talvolta li ha inventati ex novo; non di rado ne
ha decostruiti di già esistenti dall’interno. Così ad esempio è stata ‘creata’ la
figura dei ‘diritti adespoti’, frutto di una parziale decostruzione della nozione
di diritto soggettivo.
A ben vedere, le diverse soluzioni prospettate risentono, in varia misura,
della concezione di ‘beni comuni’ di chi se ne è fatto promotore, o del modello
di gestione e di tutela degli stessi beni reputato come il più idoneo a garantire
un loro migliore sfruttamento.
A riguardo, vi è stato chi ha parlato di beni comuni come di beni di nessuno,
tali per cui possono essere occupati e utilizzati da chiunque, purché nel rispetto
del pari diritto altrui (con il rischio di una loro sovra- o sottoutilizzazione). Altri
hanno adottato una prospettiva collettivistica: i beni comuni apparterrebbero
sempre a un gruppo di cittadini, più o meno ampio, che si specificherebbe di
volta in volta in base alla natura, alla posizione e alle caratteristiche di ciascun
bene. Alcune voci hanno inoltre sostenuto che sono ‘beni comuni’ tutti quelli
reputati fondamentali per lo sviluppo della personalità individuale, sicché a
chiunque dovrebbe essere garantita la possibilità di fruirne. Nella prospettiva
268 da ultimo tratteggiata, che si fa risalire a Stefano Rodotà, l’uso dei beni riveste
una rilevanza di prim’ordine, tale da influenzare direttamente la costruzione
della relativa categoria dogmatica.
Secondo Saccoccio, questo dibattito potrebbe notevolmente arricchirsi
attraverso il recupero delle categorie di origine romana, che solo la costruzione
dogmatica successiva – e non invece un radicale mutamento della società, come
avvenuto in altri casi – ha portato a tralasciare. Il tutto, anche per individuare e
sollevare problemi nuovi, sfuggiti magari allo sguardo dei cultori del diritto positivo.
Ed è proprio questo il compito a cui devono mirare oggi i romanisti: un
compito al quale Dursi non si sarebbe affatto sottratto.
Lo studioso da ultimo menzionato, infatti, partendo dalla ben nota summa
divisio rerum di Marciano, contenuta in un testo ora versato nel Digesto,
sarebbe ben riuscito – secondo Saccoccio – a far emergere la centralità rivestita
nel pensiero giurisprudenziale romano dal profilo dell’appartenenza dei beni,
premimente rispetto a quello del loro uso, per l’individuazione del relativo
regime giuridico.
Appartenenza che a Roma però non si limitava a una secca alternativa, tutta
moderna, tra pubblico (ossia statale) e privato, ma si declinava in una pluralità
di dimensioni e di regimi differenti.
Sollecitato dai numerosi spunti di riflessione provenienti dall’intervento di

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Saccoccio, ha preso quindi la parola l’autore del libro protagonista della


giornata, Domenico Dursi.
Questi, dopo aver fatto luce sulle ragioni che l’hanno convinto a studiare il
regime e la disciplina delle res communes omnium in Roma antica, si è
concentrato su alcuni snodi fondamentali della sua indagine.
Ha ribadito in primo luogo la rilevanza dello ius naturale nell’elaborazione
marcianea della categoria in parola, sottolineando la peculiare concezione che
del diritto naturale aveva il giurista severiano. Quanto al profilo
dell’appartenenza, Dursi ha segnalato come uno dei problemi più frequenti che
i giuristi romani dovettero affrontare, nel risolvere questioni attinenti a res
communes omnium, riguardasse la difficoltà di bilanciare gli interessi
contrapposti di chi voleva servirsene liberamente e di chi invece – per aver ad
esempio edificato una struttura su tali beni (tipico l’esempio del capanno
costruito dai pescatori sul lido del mare) – mirava ad arginare in qualche modo
tale libertà. In relazione a questo aspetto, Dursi ha ipotizzato che la situazione
di appartenenza che si veniva a creare in capo a chi sfruttava continuativamente
detti beni fosse di tipo possessorio, senz’altro giuridicamente rilevante. Ciò lo
ha spinto a interrogarsi sui profili di ordine processuale connessi a tale
situazione e dunque a vagliare il regime delle azioni e degli interdetti posti a
tutela delle res communes omnium, specie in punto di legittimazione a 269
servirsene. Confrontatosi con i testi che ne trattano, e con le diverse tesi
emerse in dottrina, lo studioso ha mostrato di ritenere che a tutti fosse
garantito l’accesso a tali forme di tutela, potendosi dunque parlare a tal
proposito di legittimazione popolare.
Dursi ha infine indugiato sulle ragioni che avrebbero spinto i giuristi romani
a sviluppare, attraverso un percorso non sempre lineare, la categoria della res
communes omnium. Egli scorge tale movente nell’esigenza di garantire, nei
termini più ampi possibili, lo sfruttamento delle risorse naturali ricavabili da tali
beni, necessarie per la sopravvivenza umana (come i pesci del mare o gli uccelli
dell’aer). Una prospettiva che, stando a Dursi, emergerebbe già da un passaggio
del Rudens di Plauto.
Dopo qualche ultima osservazione di Saccoccio, ha preso il via tra i presenti
un vivace dibattito, che ha visto intervenire tra gli altri Lauretta Maganzani
(Milano ‘Cattolica’), Tommaso Dalla Massara e Carlo Pelloso (Verona), Lorenzo
Gagliardi (Milano ‘Statale’), Oliviero Diliberto (Roma ‘La Sapienza’), Raffaele
Volante e Marco Falcon (Padova). Le questioni affrontate sono state molteplici.
Si è discusso del significato di ‘publicus’ nelle fonti romane, del carattere
tassativo o meno dell’elencazione marcianea delle res communes omnium,
nonché dei dubbi che circondano l’inserimento in essa del lido del mare. Sono

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stati affrontati anche argomenti legati all’attualità (come l’occupazione del


Teatro Valle), accanto a questioni in un certo qual modo tipiche del dibattito
romanistico novecentesco (ad esempio la concezione di ius naturale nella
riflessione dei prudentes o la rilevanza delle fonti letterarie, ed in particolar
modo plautine, per la ricostruzione di istituti giuridici di Roma antica). Stimolanti
sono state poi le riflessioni legate alla possibile utilizzazione della categoria delle
res communes omnium in ambito aerospaziale, per dar soluzione a problemi
connessi al regime giuridico dei corpi celesti e alla disciplina che dovrebbe
presiedere il loro sfruttamento, ora che l’avanzamento tecnologico ha reso
questa eventualità tutt’altro che remota.
La giornata si è conclusa con le parole di Paola Lambrini (Padova), che nelle
vesti di organizzatrice dell’evento ha ringraziato tutti i presenti e, in particolare,
i due protagonisti di questo incontro patavino.
Mattia Milani

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