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ISBN 978-88-386-9385-4
Indice
Finestre di glossario
Autori
Presentazioni
Prefazione
6 LO “SPETTRO” AUTISTICO
La storia di Michele
Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, disarmonia
evolutiva, disturbo multisistemico dello sviluppo, autismo atipico,
autismo ad alto funzionamento
Disturbo di Asperger: il caso di Luciano
Disturbo disintegrativo dell’infanzia
Altri Disturbi pervasivi dello sviluppo e considerazioni conclusive
15 FOBIA SPECIFICA
La storia di Eleonora
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi
17 DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
La storia di Alberto
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi
18 MUTISMO SELETTIVO
La storia di Marta
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi
Bibliografia
Finestre di glossario
ABC cognitivo
ACT
Abilità adattive – Autonomie personali – Autonomie sociali
Abituazione
Analisi del compito
Analisi funzionale
Apprendimento senza errori
Autoistruzione – Autocontrollo – Autorinforzamento
Autoefficacia
Auto-osservazione – Automonitoraggio
Autostima
Compiti comportamentali
Contratto educativo
Costo della risposta
Desensibilizzazione sistematica – Esposizione
Estinzione
Generalizzazione
Metacognizione
Modellaggio
Modellamento
Parent training
Prevenzione della risposta
Primo colloquio con i genitori
Problem solving
Relazione di aiuto (o approccio rogersiano, o terapia centrata sul cliente)
Rinforzamento – Token economy
Rinforzamento differenziale
Ristrutturazione cognitiva
Role playing
Stile di attribuzione
Terapia razionale emotiva (o Educazione Razionale Emotiva)
Autori
Fabio Celi
Psicologo e psicoterapeuta, Direttore dell’U.O. di Psicologia e del
Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e dell’apprendimento dell’ASL 1
di Massa e Carrara. Docente di Psicologia clinica presso la Facoltà di
Psicologia dell’Università degli Studi di Parma e nelle scuole di
specializzazione in psicoterapia (Psicologia del ciclo di vita dell’Università
degli Studi di Padova, quadriennali di Psicoterapia cognitivo-
comportamentale di Genova, Firenze, Parma e Roma, quadriennali di
psicoterapia cognitiva di Torino e Bologna) e nei master in Psicopatologia
dell’apprendimento nelle Università degli Studi di Padova e Parma.
Membro del comitato di redazione della rivista Difficoltà di apprendimento
e del comitato scientifico delle riviste Handicap grave, Autismo e disturbi
dello sviluppo, AMJR American Journal on Mental Retardation (edizione
italiana). Referee delle riviste Saggi di neuropsicologia infantile,
psicopedagogia e riabilitazione, Life span and disability e Psicologia
clinica dello sviluppo.
Autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche sui temi della psicologia e
della psicopatologia dell’età evolutiva, dell’uso delle nuove tecnologie nella
didattica e nella riabilitazione, dei progetti psicoeducativi nel contesto
scolastico.
Daniela Fontana
Psicologa e psicoterapeuta, specializzata in terapia a indirizzo costruttivista
ed evolutivo, dottore di ricerca in Psicologia dell’Educazione delle
disabilità. Cultore della materia Psicologia clinica e docente nei laboratori
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Parma.
Lavora presso l’ASL 1 di Massa e Carrara, dove si occupa di disturbi
dell’età evolutiva con particolare riferimento ai problemi legati
all’apprendimento. Autrice di libri e articoli applicativi e di ricerca relativi a
progetti psicoeducativi nel contesto scolastico.
Hanno collaborato alla revisione della terza edizione:
Federica Memo
Psicologa, specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale,
borsista presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e
dell’apprendimento dell’ASL 1 di Massa e Carrara
Sara Arrighi
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Giulia Cantareli
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Lucia Frassinato
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Valeria Giuffrida
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Giorgia Mazzacani
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Noemi Vasetti
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Daniela Sartori
Psicologa, Cultore della materia Psicologia clinica e docente nei laboratori
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Parma, borsista
presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e dell’apprendimento
dell’ASL 1 di Massa e Carrara.
Barbara Cecchinelli
Psicologa, borsista presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e
dell’apprendimento dell’ASL 1 di Massa e Carrara.
Laura Ozzola
Laureata in psicologia
Cecilia Toselli
Laureata in psicologia
Elena Davoli
Laureata in psicologia
Giulia Trinelli
Laureata in psicologia
Chiara Barellotti
Studentessa di psicologia
Andrea Ferrari
Studente di psicologia
Elisa Ferrari
Studentessa di psicologia
Elena Fornaciari
Studentessa di psicologia
Presentazioni
Francesco Rovetto
Professore Ordinario
Docente di Psicologia Clinica
e Psicofarmacologia
Università degli Studi di Pavia
Caro lettore, che tu sia uno studente, uno specializzando, un clinico alle
prime armi o un terapeuta “fatto”, un ricercatore o un docente universitario,
sappi che sei decisamente fortunato. Hai tra le mani un volume denso di
esperienza autentica, un volume che ricorderai e che ti lascerà vivide
immagini sensoriali, dialoghi caldi che risuonano nella mente, sensazioni
forti depositate nel tuo corpo, e se avrai voglia di lasciarle scorrere potrai
sentirle e riconoscerle come emozioni intense.
Se hai già letto qualche autorevole manuale di psicopatologia dell’età
evolutiva o di neuropsichiatria infantile, di quelli in cui ritrovi ogni area
psicopatologica perfettamente (e asetticamente) descritta in termini di
criteri diagnostici-descrittivi, epidemiologia, eziopatogenesi, decorso,
prognosi e trattamento, e dove i bambini e le loro famiglie usualmente
scompaiono dietro questa rigida impalcatura teorica e metodologica, allora
immagina che adesso quei bambini, quelle mamme e quei papà hanno avuto
dagli autori il permesso di uscire da dietro le quinte e di entrare in scena;
viene restituito loro un corpo, un volto, un’anima, e finalmente possono
cominciare a rappresentare autenticamente e talvolta drammaticamente le
loro storie.
E tu, cosa rara, potrai vederli. Ma, c’è di più: insieme a loro, dalla
polvere delle quinte, potrai vedere uscire, e stagliarsi in modo chiaro anche
un altro personaggio (il cui agire è di solito avvolto nel più grande mistero):
il clinico, con i suoi dubbi, il suo dialogo interiore, le sue reazioni emotive,
i suoi ragionamenti clinici: e ti sembrerà finalmente e miracolosamente di
capire che cosa fa concretamente un terapeuta, quali sono le sue operazioni
mentali e procedurali. All’interno di quelle storie che si dipanano così vere
e intense, la diagnosi, l’epidemiologia, l’eziopatogenesi, il decorso, la
prognosi e le modalità di trattamento, non scompaiono affatto, prendendo
anzi una forma ancora più chiara, comprensibile e umana.
Caro lettore, con te vorrei essere sincero anche riguardo al mio sentire:
durante la lettura di questo libro una parte del mio dialogo interiore (e
corrispondenti tonalità emotive che a tratti facevano capolino) rimandavano
in qualche misura a quel disdicevole sentimento che è l’invidia. Sì, perché
probabilmente questo è il libro che io avrei voluto scrivere, quello in cui la
psicopatologia dello sviluppo diventa vera e prende la forma di “storie di
bambini”, come recita appunto in modo pertinente il sottotitolo: storie vere,
palpitanti ed emozionanti.
Ma insieme a questo moto d’invidia c’era anche il piacere, all’idea di
partecipare, pur con poche righe, all’opera. Un piacere direi “doppio”, per
l’intrecciarsi in questa occasione di due storie, per me entrambe belle e
ricche. La prima è quella con Fabio Celi, con il quale ho già avuto la
fortuna di collaborare in ambito editoriale e didattico, per il quale nutro una
stima del tutto particolare e del quale sono note le doti umane e relazionali.
La seconda è quella con Daniela Fontana, che nell’apparente ruolo di
allieva, per quattro lunghi anni in realtà mi ha insegnato un sacco di cose,
con la sua curiosità, le sue critiche vibranti, i suoi mirati apprezzamenti. Nei
casi clinici da lei descritti vivo il piacere immenso di osservare una
impeccabile integrazione tra l’ottica cognitivo comportamentale classica e
la prospettiva costruttivista e interpersonale, con una viva e attenta
considerazione della qualità dei legami d’attaccamento dentro i quali i
sintomi prendono forma.
Ti accorgerai, dunque, che questo libro, partendo dai volti e dalle parole
dei bambini, traccia una panoramica davvero ampia ed esaustiva sulle
principali aree psicopatologiche, quelle cioè che costituiscono i motivi più
frequenti e importanti di consultazione in età evolutiva.
A partire dal ritardo mentale, solitamente confinato a spazi angusti e
grigi (il più triste di tutti i capitoli) negli autorevoli manuali di cui sopra, e
che qui invece prende una cinquantina di pagine appassionate e colorate
che, tra le altre cose, ti fanno cogliere in modo efficace il valore empatico e
l’utilizzo relazionale delle procedure cognitivo-comportamentali di base,
come il modellaggio e il rinforzamento. Di ciò abbiamo la più chiara
consapevolezza quando vediamo il bambino che arriva a dire al suo
terapeuta: sei diventato “mio amico”.
Già in questi primi capitoli, caro lettore, ti accorgerai quanto è piacevole
“studiare” le tecniche cognitivo-comportamentali (o magari goderti un bel
ripasso, se hai i capelli grigi) in modo induttivo a partire dal caso,
navigando per “finestre” chiare e strategicamente collocate: il
rinforzamento e la token economy, il rinforzamento differenziale, il
modellaggio, la generalizzazione, l’estinzione, l’apprendimento senza
errori, l’analisi funzionale, l’autosservazione, le autoistruzioni verbali, le
tecniche di colloquio, l’analisi del compito, il role-playing, il parent
training, e così via. La loro descrizione, così dislocata, le rende appetibili e
pronte per essere “divorate” quando servono, piuttosto che subircele con
stanchezza in una lunga elencazione sistematica come solitamente accade.
Nei capitoli successivi ti aspettano la strana danza sulla punta dei piedi e
i movimenti magici dei bambini autistici o dello “spettro” autistico, con
tutto il potenziale di preoccupazione e di dolore che sprigiona, in questi
casi, dall’universo mentale del genitore, del bambino e del terapeuta, nel
profondo rispetto per i vincoli neurobiologici ampiamente accertati in
questo ambito e per la fatica insita nelle diverse forme di intervento
psicoterapeutico-riabilitativo di cui disponiamo attualmente.
I disturbi dell’apprendimento scolastico (lettura, calcolo, espressione
scritta) rappresentano un’altra grande sfida per chi opera nell’ambito
dell’età evolutiva. Sono qui descritti con quella naturale semplicità, unita
tuttavia allo spessore e all’esperienza di chi per anni si è occupato
fattivamente e operativamente di ausili e di strumenti ipermediali per
l’apprendimento e per la riabilitazione cognitiva. Questa area di intervento,
evidenza inoltre, forse meglio di altre, l’importanza, anzi direi il carattere
essenziale, del rapporto col contesto educativo e scolastico di cui il
bambino si nutre per gran parte della sua quotidianità. Lavorare nell’età
evolutiva senza avere la capacità di implicare, coinvolgere emotivamente e
strutturare un costante lavoro di collaborazione con la scuola e con gli
insegnanti, significa lavorare astrattamente immersi in un vuoto: un po’
come curare un disturbo respiratorio (con raffinati strumenti diagnostici e
mezzi farmacologici) senza pre-occuparsi di capire se il paziente trascorre
otto ore al giorno in mezzo ai fumi di una fonderia, magari senza
mascherina. E su questo ambito sia Celi sia Fontana hanno dimostrato sul
campo di essere dei “fuoriclasse”, sia nel creare il clima emotivo giusto, sia
nel costruire un’alleanza di lavoro intensa ed empatica con gli insegnanti,
sia nel declinare le tecniche, ad esempio di token economy, nelle modalità
più stimolanti, divertenti e quindi fruibili sia per il gruppo classe che per gli
operatori scolastici.1
E a seguire, tutto il ricco e complesso repertorio dei disturbi cosiddetti
esternalizzanti (disturbo da deficit d’attenzione/iperattività, disturbi della
condotta) e internalizzanti (disturbi d’ansia e disturbi dell’umore), con una
varietà straordinaria di esemplificazioni cliniche, dove il rilievo di alcuni
importanti sbilanciamenti affettivi, insicurezze, sofferenze familiari si fa via
via più presente e pregnante, sia in termini di inquadramento diagnostico-
esplicativo sia riguardo all’organizzazione del setting clinico e della presa
in carico terapeutica; ma anche e soprattutto riguardo al posizionamento del
terapeuta in seduta, alle sue reazioni emotive e alla sua capacità di costruire
una adeguata relazione terapeutica col bambino e con la sua famiglia.
Tanto si è detto ed è stato scritto sulla cosiddetta alleanza di lavoro in
psicoterapia. Al di là delle metodologie e delle tecniche specifiche
utilizzate, l’analisi e la gestione di tale spazio relazionale costituisce una
delle variabili cruciali nella strutturazione di ogni fase dell’intervento.
Sappiamo che l’alleanza terapeutica, come componente comune ad ogni
approccio terapeutico, si nutre di alcuni elementi fondamentali: a) un
accordo preciso riguardo agli scopi; b) un accordo rispetto ai compiti
specifici; c) la creazione di un legame interpersonale costituito da
sentimenti positivi reciproci. Sui primi due punti l’ottica cognitiva e
cognitivo-comportamentale non hanno niente da imparare da altri approcci,
avendo sempre posto una grande enfasi sulla natura collaborativa del
rapporto terapeutico (empirismo collaborativo), come sollecitazione di una
fiducia di fondo nelle possibilità del trattamento e sulla chiara condivisione,
tra terapeuta e paziente, degli obiettivi da raggiungere e dei compiti
reciproci. Sul terzo punto Celi e Fontana ci insegnano come nell’ambito
dell’età evolutiva la costruzione del legame terapeutico possa prendere la
forma delicata e tenera del “diventare amici” e come “terapia” significhi
anche “interesse per gli interessi e per la vita dell’altro” (ad esempio
impegnandosi con curiosità nell’imparare a giocare a flipper prima della
seduta con quel piccolo paziente che ci offre, appunto, il linguaggio del
flipper come spazio possibile di condivisione cognitiva ed emotiva): “…
interpreto il mio mestiere, ogni volta, come l’inizio di una storia, di un
pezzo di strada da fare insieme”.
Nell’ottica cognitivo-evolutiva i processi interpersonali che si
determinano in terapia vengono considerati come uno degli elementi
centrali della cura. Tanto più nel lavoro clinico con il bambino, il cui Sé
tende in genere ad esprimersi nel setting, in forma emotivamente
immediata, attraverso schemi procedurali vivaci, talora sorprendenti o
addirittura drammatici, piuttosto che sui più pacati e maneggiabili registri
della comunicazione verbale e razionale. Questo libro ci mostra in modo
particolarmente vivido che il bambino, anche quello più compiacente o
inibito, è un paziente assai poco paziente e prevedibile, con il quale tutte le
rassicuranti regole del setting tipiche del lavoro cognitivo con il paziente
adulto, mostrano inesorabilmente i loro limiti, sollecitando costantemente
nel terapeuta risonanze emotive più o meno intense, che richiedono di
essere monitorate, comprese ed adeguatamente gestite. Parallelamente,
anche nella relazione con la coppia genitoriale, il terapeuta si trova
implicato in complesse dinamiche emozionali connotate ora da allarme e
urgenti aspettative di cura e di rassicurazione, ora intrise di sentimenti di
colpa e necessità di impellenti agiti riparativi, sentimenti di inadeguatezza,
incapacità e bisogno di conferma, rabbia e ostilità verso il mondo esterno,
compreso, talvolta, il terapeuta stesso. Per questo diventa essenziale in
primo luogo, facilitare la costruzione di un clima di condivisione emotiva e
di un rapporto collaborativo coi genitori evitando comunicazioni, anche
tacite o contestuali di carattere giudicante, svalutativo o disconfermante nei
loro confronti. Un’arte sottile che traspare lungo tutto il presente lavoro.
Questo è un ambito in cui, come sottolineano gli stessi autori, i confini
tra i diversi approcci psicoterapeutici comunciano a perdere di nettezza: “…
se il lettore avrà voglia di andare avanti con la storia di Matteo si accorgerà
che ben difficilmente il lavoro fatto con lui può essere etichettato come
cognitivo-comportamentale. In realtà, cosa abbiamo fatto insieme? … La
risposta è che non lo so. Vado oltre: la vera risposta è che sono contento di
non saperlo … il sogno è proprio quello di una psicoterapia tanto rispettosa
nei confronti del paziente e delle conoscenze teoriche e tecniche della
ricerca, quanto indifferente alle idiosincrasie e alle ossessioni delle varie
scuole. Non esiste una terapia medica ippocratica, o pasteuriana o
flemingiana. Credo che da un’analoga perdita di aggettivi, anche la
psicoterapia potrebbe avere molto da guadagnare”. Una terapia senza
aggettivi. Parole sante, mi verrebbe da dire.
Il caso di Matteo, di Stefano, ma anche quello di Enrico, sono in effetti
incentrati in modo esplicito, quanto meno in alcune fasi del processo
terapeutico, su aree emozionali critiche non adeguatamente riconosciute,
articolare e condivise dal bambino con le proprie figure di riferimento
affettivo. Un lutto, un dolore e il pianto che sul piano affettivo-motorio
dovrebbe accompagnarlo; oppure aspetti profondi di paura o di vergogna
non condivisibili con le proprie figure d’attaccamento. La teoria
dell’attaccamento, che in buona comunanza integrativa con l’approccio
cognitivista va ponendosi per l’appunto come paradigma integrativo,
significativo crocevia tra diversi approcci psicoterapeutici, attribuisce
grande rilievo a questi aspetti nella determinazione delle diverse uscite
psicopatologiche dell’età evolutiva. In questa prospettiva i sintomi sono
visti come mezzi specifici volti al mantenimento dello stato di relazione col
caregiver, a fronte di sbilanciamenti affettivi percepiti come non più
gestibili sulla scorta degli abituali meccanismi di compenso (schemi
interpersonali). Com’è noto, un’accurata conoscenza e articolazione della
propria esperienza emotiva, costruita all’interno di legami d’attaccamento
sensibili e sicuri, costituisce la base fondamentale per sviluppare
un’adeguata capacità di regolazione degli stessi stati emotivi e quindi un
sufficiente grado di benessere psicologico. In termini clinicamente assai
fruibili, potremmo dire che laddove c’è un sintomo, c’è una particolare area
emotiva scarsamente riconosciuta e articolata nel bambino, ovviamente nel
legame con una figura d’attaccamento che non ha la capacità/possibilità di
lasciarsi attraversare da tali stati. Per Matteo, ad esempio, sembra essere
rappresentata dalla profonda tristezza relativa al lutto del nonno, che in tal
modo diventa “irrisolto”; per Enrico pare che sia il sentimento di vergogna.
Così, caro lettore, potrai osservare che la relazione diventa “terapeutica”
nella misura in cui il clinico (magari supportato da una sensibile tirocinante
che sa commuoversi facendo risuonare in se stessa il dolore del piccolo
paziente) riesce a costituirsi come sponda relazionale capace di aiutare il
bambino a riconoscere e condividere stati affettivi di cui non è mai riuscito
a fare “palestra” nella propria storia di sviluppo, in quanto minaccianti lo
stato di relazione col caregiver: “non posso dirlo a papà sennò succede un
casino!”. Magari con l’ausilio di fumetti, termometri delle emozioni o di un
dinamico e attivante role-playing: quando sono chiari i fini (le strategie), di
mezzi tecnici (le tattiche) ne possiamo costruire e inventare a volontà.
Ma non è solo lui (Matteo, Enrico, Stefano …) a dover far palestra di
stati interni sconosciuti. C’è qualcuno a casa che deve gradualmente e non
senza fatica rendersi disponibile ad accoglierli e farsi attraversare da essi: se
non lo sta facendo non è certo per cattiveria o mancanza di volontà, ma
perché nel suo “dolorante” stato mentale quegli stati suonano come difficili
da comprendere, talvolta disdicevoli, oppure inquietanti o addirittura
spaventanti. È bello allora vedere i nostri terapeuti all’opera mentre si
costituiscono in seduta come sensibili e tenaci mediatori nella
comunicazione tra i piccoli pazienti e le loro figure d’attaccamento.
Questa, caro lettore, è l’ottica cognitivo-comportamentale più intrigante
che io conosca, quella che diventa calda e “profonda”, che fa tesoro di tutto
il patrimonio procedurale che la nostra tradizione scientifica e di ricerca ha
prodotto, per metterlo strategicamente al servizio della relazione e dei
legami affettivi.
Furio Lambruschi
Psicologo e Psicoterapeuta
Direttore Scuola Bolognese
di Psicoterapia Cognitiva
Prefazione
Gli Autori
Nota dell’editore
L’editore ringrazia i docenti che hanno partecipato alla review e che con le
loro preziose indicazioni hanno contribuito alla realizzazione della terza
edizione di Psicolopatologia dello sviluppo. Storie di bambini e
psicoterapia:
Francesca Agostini, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna
Eleonora Cannoni, Sapienza-Università di Roma
Tito de Marinis, Università degli Studi di Salerno
Davide Dèttore, Università degli Studi di Firenze
Irene Mammarella, Università degli Studi di Padova
Pier Luigi Righetti, Università degli Studi di Roma Tre
Magali Jane Rochat, Università Cattolica del Sacro Cuore
Cristina Toso, Università degli Studi di Padova e di Trieste
Giovanni Vecchio, Università degli Studi di Padova
Claudio Vio, Università degli Studi di Padova e di Trieste
1 Vedi nota 3 capitolo 1.
Parte prima
Disturbi dell’intelligenza
LA STORIA DI MARCO
Un pomeriggio di fine gennaio venne nel mio studio una donna di circa
trent’anni, magrissima, tesa, chiaramente in difficoltà. Mi disse che da
qualche mese aveva perso il sonno, che non capiva cosa stesse succedendo
a suo figlio a scuola. Quando ormai tutti gli altri bambini della sua classe
avevano, chi più chi meno, imparato a leggere, lui ancora restava lì, davanti
alla pagina del libro, con l’aria smarrita. A volte avvicinava il volto al
foglio, fino a pochi centimetri dagli occhi, tanto che, prima di Natale, su
consiglio della maestra, era stato portato da un oculista. La visita oculistica,
però, aveva dato esito negativo. Anzi, era stato proprio l’oculista a
consigliare alla madre, sia pure molto cautamente e in maniera non del tutto
esplicita, di condurre il bambino da uno psicologo. D’altra parte, la
maggiore o minore distanza degli occhi dalla pagina scritta non modificava
in alcun modo la prestazione: Marco non leggeva e basta. Racconto queste
prime cose che mi furono dette spontaneamente dalla madre cercando, per
evidenti motivi di chiarezza, di riunirle con un certo ordine. Ciò, comunque,
non rende appieno l’atmosfera emotiva del primo colloquio con i genitori
, la confusione mentale della mamma che, seduta di fronte a me sull’orlo
della sedia, passava da un argomento all’altro come se ciascuno fosse
troppo doloroso per lei e non le fosse possibile riuscire a raccontarlo con un
minimo di completezza.
pag. 49
pag. 563
MODELLAGGIO
Quando un bambino emette una risposta corretta, adeguata, adattiva,
conforme all’obiettivo didattico programmato, dovrebbe ricevere un
rinforzatore, perché in questo modo aumenta la probabilità che
risposte simili si ripresentino in futuro. Sebbene a volte possa essere
difficile ricordarsi di mettere in pratica questa regola fondamentale,
almeno nelle sue linee teoriche si tratta di un principio molto facile da
comprendere.
Ma cosa fare quando il bambino non emette la risposta corretta? Cosa
fare quando il suo comportamento non corrisponde alle nostre
aspettative, quando non rappresenta il comportamento migliore per
uscire da una situazione difficile o per raggiungere un obiettivo
didattico?
Lo puniamo? Ma la punizione produce di solito più danni che
benefici.
Lo rinforziamo ugualmente? Ma rinforzare una risposta non adeguata
significa aumentare la probabilità che risposte non adeguate si
verifichino di nuovo in futuro.
Allora non lo rinforziamo? Per quanto tempo non lo rinforziamo?
Fino a che non emette la risposta corretta? Questo può andare bene se
la risposta corretta viene poi emessa in un tempo ragionevole: il
giorno dopo a scuola, durante la successiva seduta psicoterapeutica, il
prossimo sabato pomeriggio. Ma se la risposta corretta non si
manifesta per giorni, per settimane, per mesi? Quanto tempo un
bambino (ma qualunque essere umano, anzi, probabilmente
qualunque essere vivente) può resistere senza rinforzatori? Che
relazione diventerà mai quella in cui un genitore, un insegnante, uno
psicologo non possono mai dire “bravo!” al bambino, non possono
mai sorridergli, non possono mai manifestare la loro soddisfazione per
qualcosa che il bambino ha fatto e riceverne in cambio una sua
espressione di gioia?
Da questo dilemma (rinforzare i comportamenti inadeguati o non
rinforzare mai?), da questa trappola relazionale si può uscire con le
tecniche di modellaggio (o shaping). Il modellaggio consiste nel
rinforzare quei comportamenti che più si avvicinano all’obiettivo,
anche se ne sono ancora distanti. L’obiettivo per un ragazzo con Fobia
sociale è entrare in classe con i suoi compagni? Allora lo
psicoterapeuta rinforzerà il ragazzo quando per lo meno entra a scuola
(anche se poi rimane da solo in biblioteca, come si può vedere nel
caso di Gabriele nel capitolo 16). L’obiettivo per una bambina con
Disturbo dello spettro dell’autismo che se ne sta in un angolo a
giocare con le sue mani è sedersi alla scrivania dello psicologo per
provare a fare un disegno? Allora lo psicologo la rinforzerà quando si
avvicina alla scrivania (come si può vedere nel caso di Maurizia nel
capitolo 5). L’obiettivo per una bambina depressa è uscire con le
amiche e divertirsi? Allora il terapeuta la rinforzerà quando la
bambina prova, per lo meno, a invitare una compagna di scuola (come
si può vedere nel caso di Silvia nel capitolo 23). In questo senso, e in
questa prima fase, il modellaggio consiste dunque nella capacità, da
parte dello psicologo o dell’educatore, di accontentarsi delle risposte
anche solo parzialmente positive che il bambino sa dare, nel cogliere
la parte buona che c’è nell’altro e intanto rinforzare quella. È chiaro
che poi, a mano a mano che il bambino mostra di migliorare alcuni
comportamenti e alcune abilità, il modellaggio consisterà nel
rinforzare comportamenti sempre più vicini alla meta, fino a
raggiungere alcuni obiettivi prefissati.
Nel testo si trova che in molti casi, come nella Disabilità intellettiva
(per es., nel caso di Marco nel presente capitolo) e nei Disturbi dello
spettro dell’autismo (per es., nel caso di Maurizia nel capitolo 5), il
modellaggio può essere considerato una metodologia di intervento a
sé stante. Ma più spesso, come si può vedere in particolare nelle
sezioni dedicate ai Disturbi d’ansia e Disturbi dell’umore, può
affiancarsi ad altre tecniche, sia comportamentali che cognitive. Se,
per esempio, si decide di assegnare un compito comportamentale a un
bambino, lo si farà in modo graduato, per aumentare le probabilità di
successo e dunque le opportunità di rinforzamento. Se si decide di
lavorare con una metodologia di auto-osservazione, si fisseranno in un
primo tempo obiettivi molto semplici da osservare, che verranno poi
resi gradualmente più complessi.
In tutti i casi, e indipendentemente dagli esempi specifici, il
modellaggio è una metodologia che ha tra i suoi scopi fondamentali
quello di migliorare la relazione. C’è, infatti, una bella differenza tra
una relazione caratterizzata da aspettative irrealistiche, obiettivi
irraggiungibili, rari rinforzatori e tanta frustrazione (reciproca) e una
caratterizzata, invece, dalla possibilità di rinforzare sistematicamente i
piccoli successi e di essere rinforzati da essi. Il rinforzamento, infatti,
è un meccanismo relazionale: è vero che, quando un bambino emette
un comportamento (abbastanza) corretto e lo psicologo gli dice che è
contento di lui, lo psicologo rinforza il bambino, ma è altrettanto vero
che il bambino, emettendo un comportamento (abbastanza) corretto,
rinforza lo psicologo in un circolo virtuoso che è alla base di qualsiasi
relazione terapeutica.
Soltanto nelle sedute successive, e senza fretta, ripresi in mano le PM,
somministrai la WISC,3 proposi a Marco i temi di alcuni disegni (vedi fig.
1, Tavole a colori), in particolare il disegno della figura umana,4 esaminai
con attenzione le sue (carenti) prestazioni scolastiche, il suo linguaggio, la
sua capacità di mettersi in relazione con me e i suoi livelli di autonomia .
pag. 34
Nel frattempo, Marco diventava piano piano “mio amico”. Fu proprio lui
a esprimersi in questi termini dopo un paio di mesi di sedute, ma anche se
non lo avesse detto esplicitamente, si capiva dal suo comportamento che
cominciava a venire volentieri da me, si apriva, provava piacere nel
raccontarmi le sue esperienze (soprattutto scolastiche) e le sue difficoltà. In
un clima così rasserenato, anche il quadro clinico apparve meno
drammatico di quanto, durante la prima seduta con la madre, avrebbe potuto
sembrare. Da un punto di vista intellettivo il bambino era deficitario, ma
non in modo grave: il punteggio totale della WISC era di 69, senza
differenze degne di nota tra i punteggi parziali verbali e di performance,
mentre le PM si collocavano tra il 10° e il 25° percentile. Da un punto di
vista emotivo si notavano delle difficoltà nel controllo dell’ansia e la
personalità appariva lievemente coartata, con una persistente paura di
sbagliare, una consapevolezza marcata di non essere all’altezza, di essere in
qualche modo diverso dagli altri (in particolare dai compagni di classe), ma
anche relativamente armonica,5 con un buon contatto con la realtà. Marco
non mostrava nessun disturbo di comportamento degno di nota, se non
piccole e tipiche manifestazioni di ansia, come qualche tic saltuario o una
lieve balbuzie che tendevano a emergere, in particolare, in situazioni di
stress prestazionale. Il linguaggio appariva povero, ma correttamente
strutturato e senza disturbi specifici, mentre, da un punto di vista scolastico,
il ritardo era già evidente: a metà della prima classe della scuola primaria il
bambino non era in grado di leggere, né di fare la fusione delle sillabe, ma
si limitava a riconoscere le lettere dell’alfabeto; era in grado di scrivere il
suo nome e qualche semplice parola in stampatello maiuscolo e, dal punto
di vista logico-matematico, non padroneggiava neppure la corrispondenza
numero-quantità.
Naturalmente, il fatto di aver instaurato una buona relazione con il
bambino, che ora restava volentieri da solo a lavorare con me, non allentò i
miei contatti con la madre (e, saltuariamente, anche con il padre). Alla fine
di ogni seduta settimanale trovavo il modo di dire qualche parola, per lo più
positiva, su come erano andate le cose e con una frequenza circa mensile
fissavo un appuntamento dedicato ai soli genitori, di solito il sabato mattina,
quando Marco era a scuola e il padre, libero dagli impegni di lavoro, aveva
maggiori probabilità di partecipare. Quando non vi riusciva (era operaio
specializzato), ricevevo la madre (casalinga) da sola. Questi incontri
avevano almeno due funzioni. Prima di tutto, fungevano da rassicurazione,
in particolare per la madre: spiegavo che cosa facevo in seduta con Marco;
illustravo le sue caratteristiche, ma in particolare le sue potenzialità;
mostravo i suoi primi progressi e discutevo, di volta in volta, i nuovi
obiettivi che mi sembrava ragionevole sperare di raggiungere con il
bambino (per una rassegna sulle esperienze del prendersi cura da parte dei
genitori di bambini con Disabilità intellettiva e dell’importanza relativa
all’attenzione allo stress genitoriale, in particolare materno, vedi
Willingham-Storr, 2014). D’altra parte, raccoglievo su Marco ulteriori
informazioni: come si comportava a casa, come commentava le nostre
sedute, quali erano i suoi livelli di autonomia personale (quando l’ho
conosciuto, Marco non si vestiva né si lavava da solo), come andavano le
cose a scuola. Sempre con l’obiettivo di raccogliere informazioni e costruire
un rapporto di collaborazione, andavo a trovare la maestra del bambino con
una frequenza di circa una volta al mese.
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È vero anche, però, che conoscendolo sempre meglio nel corso delle sedute,
entrando in relazione con lui, conquistando la sua fiducia e potendolo così
vedere sempre più motivato e sicuro di sé nello svolgere i compiti che via
via gli proponevo, provavo a volte la sensazione (certamente falsa, ma
significativa) che, se non ci fosse stato il problema della scuola, Marco se la
sarebbe cavata come tanti altri.
Che cosa c’era, in fondo, che non andava in lui? Era magro magro e
sembrava a volte come indifeso di fronte agli stimoli che il mondo esterno
gli presentava. Soprattutto, quando gli stimoli erano nuovi, per esempio
quando passammo dai lavori centrati sulla lettura e scrittura alle prime
prove di aritmetica, sembrava come perdersi, temere che non ce l’avrebbe
mai fatta, chiedere tacitamente aiuto con i suoi grandi occhi in quei
momenti spalancati.
Una volta, all’incirca un anno dopo i nostri primi incontri, fu lui a pormi
proprio questa domanda:
“Cosa c’è in me che non va?”.
Forse non ricorse proprio a queste parole, ma certamente la sua domanda
ne esprimeva chiaramente il senso e dietro c’era tutta l’angoscia di tale
confusa consapevolezza. Quella seduta fu molto importante, dal punto di
vista terapeutico, perché apriva una nuova fase di lavoro col bambino,
centrata sulla relazione di aiuto , piuttosto che limitata agli aspetti
riabilitativi, come avremo modo di vedere meglio più avanti. Ma anche dal
punto di vista diagnostico la domanda mi sembra molto significativa: che
cosa c’è che non va in Marco? È rimasto un po’ indietro, ma non presenta
carenze particolarmente gravi in un ambito specifico dello sviluppo. È
soltanto come se fosse partito più tardi dei suoi compagni nella corsa della
vita. Più tardi ha cominciato a camminare, più tardi a parlare, più tardi a
disegnare una figura umana riconoscibile, più tardi a colorarla restando
dentro i margini; analogamente, più tardi imparerà come si fa amicizia con
un compagno o come lo si invita a una festa, più tardi a leggere, a scrivere,
a usare il denaro e a muoversi autonomamente nella propria città.
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RICERCHE
In questo paragrafo ho riunito, in una veloce panoramica, i cinque filoni di
ricerca sulla Disabilità intellettiva che mi sembrano particolarmente
significativi da un punto di vista pratico, cioè per la messa a punto di
strategie di intervento. Queste ricerche non si riferiscono alla sola Disabilità
intellettiva Lieve, ma anche alle forme più gravi di cui si parlerà nei capitoli
successivi, e il loro significato terapeutico si chiarirà durante la descrizione
degli interventi attuati.
Il primo filone è rappresentato dai lavori che hanno cercato di adattare le
acquisizioni ottenute dalla psicologia dell’apprendimento in laboratorio o
comunque in situazioni molto controllate rispetto alle normali condizioni di
vita del bambino con disabilità. Nel corso di questi ultimi decenni è stato
più volte dimostrato come i risultati delle ricerche di base sul
rinforzamento (vedi riquadro sottostante), l’analisi del compito , il
modellaggio , l’apprendimento senza errori potessero essere
utilizzati per mettere a punto programmi di intervento nei casi di Disabilità
intellettiva (Zeitlin e Williamson, 1994; Caracciolo e Rovetto, 1994; Ianes e
Tortello, 2002; Di Giacomo e Passafiume, 2004; Didden, Korzilius, van
Oorsouw e Sturmey, 1997). Spesso, e anche di recente, è stato inoltre messo
in luce come questi metodi possano essere utilizzati non solo da specialisti
come psicologi o psichiatri. Al contrario, interventi psicosociali svolti da
personale di comunità per bambini con Disabilità intellettiva si rivelano
particolarmente importanti per lo sviluppo di competenze di uso quotidiano
e per favorire la generalizzazione.
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RINFORZAMENTO
(primario e secondario; consumatorio, tangibile,
simbolico, sociale e informativo; continuo e
intermittente; estrinseco e intrinseco; positivo e
negativo)
TOKEN ECONOMY
Non ha molto senso evidenziare parti del testo dove vengono illustrati
o utilizzati i rinforzatori, perché il rinforzamento è uno dei principali
leitmotiv dell’intero libro.
Tecnicamente, il rinforzatore può essere definito come la conseguenza
positiva di una risposta che ha l’effetto di rendere tale risposta più
probabile in futuro. Se un bambino riceve una gratificazione tutte le
volte che legge un brano di un libro, è più probabile che continuerà a
leggere anche nei giorni seguenti. In questo senso, tra l’altro, c’è una
stretta correlazione tra rinforzamento e motivazione.
Qui di seguito vengono brevemente illustrate quattro caratteristiche
fondamentali del rinforzamento, utili per comprendere meglio molti
aspetti teorici ma soprattutto applicativi, che si trovano nella
discussione dei casi riportati nel testo.
1. I rinforzatori sono virtualmente infiniti. Da un punto di vista teorico
possono essere classificati in primari e secondari. I rinforzatori
primari sono legati alla sopravvivenza (per es., il cibo). I
rinforzatori secondari invece sono appresi nel corso della vita (per
es., le figurine dei Pokemon). In pratica, ovviamente, in educazione
e in psicoterapia si usano solo i rinforzatori secondari i quali, a loro
volta, possono essere suddivisi in molte categorie. Ai livelli più
bassi ci sono i rinforzatori molto concreti: per esempio quelli che si
mangiano (ma che non sono legati alla sopravvivenza!) e che
vengono detti consumatori, oppure quelli che si toccano, come un
giocattolo, e che vengono per questo detti tangibili. Ai livelli più
alti ci sono i rinforzatori simbolici (che, come nel caso del denaro o
della token economy, possono essere scambiati con qualcosa
d’altro), sociali (per es., un sorriso, o la vicinanza fisica) e
informativi (l’informazione sul risultato di un’azione), a volte detti
anche feedback. Bisognerebbe cercare di usare i rinforzatori di più
alto livello tra quelli che funzionano. Quando, nei casi più gravi
(per es., in alcune forme di Disabilità intellettiva e di Disturbo dello
spettro dell’autismo), funzionano solo i rinforzatori di basso livello,
bisognerebbe cercare di spostare il controllo del rinforzamento
verso rinforzatori di livello più alto. Una tecnica di passaggio da
rinforzatori più a rinforzatori meno concreti è la token economy,
che consiste nel rinforzare il bambino con gettoni (o con dei punti
sotto qualsiasi forma) che, in seguito, possono essere scambiati con
rinforzatori di livello più alto, come la possibilità di andare a
giocare in giardino.
2. L’attenuazione della concretezza del rinforzamento può (e deve,
ogni volta che è possibile) essere attuata anche rispetto ai
programmi di rinforzamento. I programmi si riferiscono alla
frequenza con la quale un rinforzatore è erogato. Per esempio, un
rinforzatore può essere erogato secondo un programma continuo:
tutte le volte che il bambino emette la risposta corretta riceve la
gratificazione. Oppure può essere erogato secondo un programma
intermittente: la gratificazione arriva solo dopo alcune risposte
corrette. Anche in questo caso bisognerebbe prevedere il graduale
passaggio da programmi continui di rinforzamento a programmi
intermittenti. Questo favorisce il mantenimento e la
generalizzazione delle abilità acquisite e toglie artificiosità
all’intervento educativo o psicoterapeutico.
3. I rinforzatori descritti fin qui vengono chiamati estrinseci. Questo
significa che sono al di fuori dei comportamenti e delle abilità che
vengono rinforzati. Se un bambino riceve un punto su una tessera
tutte le volte che telefona a un amico per invitarlo a casa e poi,
quando ha ottenuto 10 punti, potrà andare al cinema con il papà, il
suo comportamento “telefonare a un amico” è sotto il controllo di
rinforzatori estrinseci. Né il punteggio su una tessera, infatti, né
andare al cinema con il papà hanno a che fare con la telefonata a un
amico. Se invece un bambino telefona a un amico e lo invita a casa
sua per il piacere di giocare con lui, il suo comportamento è
controllato da un rinforzatore intrinseco, perché la gratificazione
(giocare con un amico) è strettamente connessa al comportamento
(telefonare a quell’amico). In moltissime parti del testo è possibile
vedere come lo scopo del lavoro educativo e terapeutico consista,
spesso, nello spostare il controllo dei comportamenti positivi dai
rinforzatori estrinseci a quelli intrinseci. Il rinforzamento
intrinseco, infatti, produce motivazione intrinseca e quando un
comportamento è intrinsecamente motivante non c’è più bisogno di
maestri o psicologi in quanto si riprodurrà da sé.
4. I rinforzatori, infine, possono essere suddivisi in positivi e negativi.
Tutti i rinforzatori esemplificati fin qui sono positivi e la loro
definizione non comporta nessun problema. I problemi possono
nascere quando si devono definire e comprendere i rinforzatori
negativi, che a volte vengono scambiati con le punizioni. I
rinforzatori negativi non sono punizioni. Le punizioni sono
conseguenze negative (per es., uno schiaffo). I rinforzatori, invece,
per definizione, sono sempre conseguenze positive, altrimenti non
sono più rinforzatori. Si chiamano positivi quando la conseguenza
positiva è determinata dall’aggiunta di un elemento positivo (per
es., una caramella); si chiamano negativi quando la conseguenza
positiva è determinata dalla sottrazione di un elemento negativo o
spiacevole. I comportamenti problematici, per esempio, sono
spesso mantenuti da rinforzatori negativi. Un bambino fa il
pagliaccio in classe e la maestra lo manda fuori. Forse la maestra
pensa, in questo modo, di erogare una punizione, ma se il bambino
era stufo di stare seduto e di ascoltare la lezione, in realtà riceve un
premio: smettere di stare seduto e di ascoltare una lezione noiosa è
dunque un rinforzatore, perché rappresenta per il bambino una
conseguenza positiva. Si chiama rinforzatore negativo perché è
determinato dalla cessazione di una situazione sgradita. Anche le
risposte d’ansia sono spesso mantenute da rinforzatori negativi. Se
un bambino prova ansia all’idea di avvicinarsi a un amico e
chiacchierare con lui, può darsi che, quando vede l’amico, se ne
allontani per evitare l’ansia. Il comportamento di allontanamento è
dunque rinforzato: il bambino sta meglio perché, mentre si
allontana dall’amico, l’ansia decresce.
Molto sinteticamente, i risultati più rilevanti sono stati i seguenti:
• è possibile aumentare la probabilità di emissione di risposte corrette se la
risposta è seguita da una gratificazione e diminuire la probabilità di
emissione di risposte indesiderate se queste non sono seguite da
gratificazione: su questo aspetto è interessante rilevare che da decenni la
letteratura di ispirazione comportamentale ha messo in luce l’importanza
della manipolazione delle conseguenze della risposta nel produrre un
incremento di comportamenti adeguati e un decremento di comportamenti
inadeguati in pazienti con Disabilità intellettiva, ma le più recenti rassegne
(vedi, per esempio, Matson et al., 2011; Doehring, Reichow, Palka,
Phillips e Hagopian, 2014;) mostrano come questo modello possa essere
applicato in modo del tutto analogo anche per il Disturbo dello spettro
dell’autismo dei quali parleremo nei capitoli 5 e 6;
• è più facile ottenere risposte corrette se gli stimoli che controllano la
risposta sono manipolati con particolare cura, presentati almeno
inizialmente nel modo più semplice possibile e corredati di una serie di
aiuti: Ledford, Wolrey, Lane e Elan (2012) mostrano a questo proposito
come sia possibile utilizzare stimoli di aiuto anche all’interno di un
piccolo gruppo di pazienti con Disabilità intellettiva, mentre Sy,
Donaldson, Vollmer e Pizarro (2014) evidenziano come l’attenzione a
costruire intorno al bambino disabile un ambiente dove il controllo dello
stimolo sia particolarmente “pulito”, libero da altri stimoli irrilevanti e
distraenti produce risposte più adeguate;
• quando un compito è troppo complesso per poter essere padroneggiato da
un bambino in difficoltà intellettiva, lo si può spezzare nei suoi elementi
semplici e si può così insegnare al bambino non il compito in un’unica
soluzione, ma uno dopo l’altro i singoli passi che lo compongono: in una
rassegna, Wright e Wolery (2014) mostrano per esempio come l’analisi
dei passi necessari per imparare ad attraversare la strada e l’insegnamento
di un passo alla volta migliorano l’autonomia sociale di ragazzi con
Disabilità intellettiva, aumenta l’indipendenza e diminuisce il rischio di
incidenti quando poi i ragazzi provano in situazioni reali a mettere in atto
queste abilità;
• quando un bambino è tanto in difficoltà da non emettere mai una risposta
corretta, è ugualmente possibile e utile gratificarlo scegliendo, tra i suoi
comportamenti, quelli meno distanti dalla risposta che si desidera ottenere
(Perini e Bijou, 1992; Bijou, 1996; Meazzini, 1997; Ianes, 2001); Feeley,
Jones, Blackburn e Bauer, 2011; Furniss e Biswas, 2012).
Queste procedure, nonostante la loro straordinaria efficacia, sono state
talvolta sottoposte a critiche, anche pesanti, per il rischio che possano
produrre apprendimenti molto meccanici o una forma di addestramento
anziché di riabilitazione o di educazione propriamente detta. A tali critiche
si può rispondere che vi sono delle circostanze (tanto più frequenti quanto
più grave è il ritardo) nelle quali l’insegnamento meccanico di abilità è il
massimo che riusciamo a fare. Naturalmente, questa risposta implica che
quanto meno grave è il ritardo, tanto più attenuate dovranno essere le
tecniche usate per la riabilitazione (Meazzini, 1997; Dweck, 2000). In ogni
caso, lo psicologo attento agli aspetti relazionali del suo paziente e di chi gli
sta intorno eviterà di servirsi di queste tecniche in modo rigido come se
fosse in un laboratorio, ma le adatterà alle necessità del bambino e del suo
ambiente (Celi e Fontana, 2007).
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Il terzo filone è quello della ricerca collocata a metà strada tra psicologia e
sociologia, che ha messo in luce, fin dagli anni Settanta, l’importanza
dell’integrazione. Come è noto, per anni (ma forse sarebbe meglio dire per
secoli, o meglio ancora da sempre) le persone con Disabilità intellettiva
sono state isolate dal loro contesto naturale. Di volta in volta questo
isolamento è stato giustificato da ragioni di protezione (del soggetto o della
società) o, nei casi migliori, dalla necessità del disabile di ricevere tutte le
cure specifiche necessarie. Ma, al di là delle giustificazioni, i risultati di
questo isolamento sono stati la diminuzione delle opportunità di apprendere
abilità e abitudini di vita normali e l’aumento di probabilità di sviluppare
comportamenti inadeguati e ulteriori manifestazioni psicopatologiche
(Cornoldi e Vianello, 1990; Zanobini e Usai, 2005). La ricerca in questo
campo ha mostrato come l’integrazione del bambino con Disabilità
intellettiva in un ambiente normale migliori l’apprendimento di abilità
sociali e integranti, favorisca i processi di apprendimento e diminuisca il
rischio di condotte patologiche (Canevaro, Cocever e Weis, 1996; Vianello,
1999; Comitato Tecnico Scientifico Anffas, 2007; Ianes e Canevaro, 2008;
Pavone, 2013; Preger, 2014).
Tutto ciò ha portato grandi vantaggi, ma anche inevitabili problemi.
Quando il bambino con Disabilità intellettiva era isolato nelle scuole
speciali, subiva tutti gli effetti negativi della mancanza di integrazione, ma
non creava difficoltà ai compagni (che erano tutti, più o meno, come lui).
L’ingresso nelle classi normali ha costretto la scuola a un complesso (e
spesso salutare) lavoro di riadattamento. Da questo lavoro e dalle nuove
necessità da parte della scuola che si è assunta l’onere dell’integrazione
nascono le ricerche sull’apprendimento cooperativo. Tali ricerche hanno
mostrato come sia possibile inserire in uno stesso gruppo bambini con
caratteristiche e potenzialità anche molto diverse senza che nessuno perda
tempo od occasioni di apprendimento. Nelle esperienze cooperative, infatti,
tutti i membri del gruppo progrediscono sia sul piano cognitivo che su
quello relazionale (Johnson, Johnson e Holubec, 1996; Comoglio e
Cardoso, 1966; Cohen, 1999; Piercy, Wilton e Townsend, 2003; Lancioni,
O’Reilly, Cognini e Serenelli, 2004; Trubini e Pinelli, 2005 e 2007). In
questi studi l’accento spesso è posto su un costrutto di fondamentale
importanza detto “Qualità della vita”. Cosciarelli e Balboni (2014)
analizzano l’importanza di questo costrutto non solo dal punto di vista
teorico, ma anche come strumento per meglio pianificare interventi rivolti a
persone con Disabilità intellettiva.
Tra le abilità integranti fondamentali c’è quella di mettersi in
comunicazione con gli altri. In alcune forme, di solito nelle più gravi, di
Disabilità intellettiva la comunicazione attraverso il canale tradizionale del
linguaggio verbale è resa molto difficile o del tutto impossibile,
analogamente a quello che vedremo nella sezione dedicata al Disturbi dello
spettro dell’autismo. In questi casi è possibile ricorrere a forme alternative
di comunicazione come il Sistema di comunicazione attraverso lo scambio
di immagini (PECS, acronimo inglese di Picture Exchange Communication
System). Stoner, Beck, Bock, Hichey, Kosuwan e Thompson (2006), per
esempio, hanno mostrato che se si insegna a pazienti con Disabilità
intellettiva a comunicare contenuti elementari (come “sì” o “no”) o alcuni
bisogni fondamentali (come “aiutami” o “ho fame”) attraverso figure che
illustrano il contenuto della comunicazione, le interazioni sociali di questi
pazienti migliorano e molti comportamenti inadeguati si attenuano.
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Col passare degli anni, Marco acquisiva, sia pur lentamente, nuove
abilità, ma questo non può essere l’unico scopo di un lavoro terapeutico.
Quando, per esempio, mi chiese cosa c’era in lui che non andava, dimostrò
di avere una notevole consapevolezza della sua condizione, ma anche che
questa consapevolezza lo faceva soffrire, gli dava insicurezza, ansia,
sensazione continua di non essere all’altezza. Così, dalla fine della scuola
primaria e per tutto il periodo dell’adolescenza abbiamo lavorato insieme a
lungo su questi temi, connessi all’autostima e alla capacità di gestire la
proprie emozioni. Marco, che si era ormai abituato ad aprirsi con me, mi
parlava di questi suoi dubbi e di tante sue incertezze (a mano a mano che
cresceva, rivolte soprattutto verso il futuro). Io lo ascoltavo e cercavo di
aiutarlo a chiarirsi queste paure, secondo una metodologia basata sulla
relazione di aiuto ; a distinguere quelle ragionevoli, che doveva
imparare ad accettare, da quelle irragionevoli, che doveva invece cercare di
abbandonare, secondo una metodologia basata sull’educazione razionale
emotiva ; a usare le sue aumentate abilità cognitive e sociali per superare
almeno in parte queste incertezze che a volte lo facevano stare male.
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PROGNOSI
Nel paragrafo “Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico”
ho usato questa espressione, a proposito di Marco: “Va più lentamente degli
altri”.
La domanda di questo paragrafo è: “Ma arriverà?”.
È una delle prime domande che i genitori mi posero e una delle domande
più ricorrenti e spesso più drammatiche che i genitori si pongono dopo una
diagnosi di Disabilità intellettiva (l’ultima, che a volte non hanno neppure il
coraggio di farsi esplicitamente, è: “che cosa succederà quando noi non ci
saremo più?”). Tra l’altro, il termine più in uso per definire questo disturbo,
prima dell’avvento del DSM-5 (Ritardo mentale), con quella parola
“ritardo”, può contribuire a creare prima aspettative irrealistiche e poi
delusioni cocenti e pericolose. Infatti, se con la domanda si intende chiedere
se, prima o dopo, il bambino raggiungerà i coetanei in tutte le abilità sociali,
cognitive ed emozionali e finirà, da adulto, per vivere una vita
assolutamente uguale a quella degli altri, la risposta è “no”. (Ma a una
domanda formulata in questo modo si potrebbe anche rispondere che non
esistono due vite uguali, come non esistono due fiocchi di neve identici).
Questo “no”, come vedremo meglio nei capitoli 2 e 3 dedicati a situazioni
più gravi di Disabilità intellettiva, può essere più o meno netto e
drammatico, ma neppure Marco raggiungerà in tutto e per tutto i suoi
coetanei.
Tuttavia, nella Disabilità intellettiva Lieve le possibilità di recupero sono
notevolissime e in pratica possono restare esclusi solo i livelli più alti di
astrazione e di autonomia (Van Hasselt e Hersen, 1995). Tutto il resto
(lavoro, relazioni sociali, persino matrimonio) non viene escluso a priori,
purché il bambino sia circondato da cure e fiducia e non presenti altri gravi
disturbi psicopatologici associati al ritardo.
Marco, per esempio, dopo un periodo nero passato senza risultati e con
molte frustrazioni in un istituto tecnico superiore, ha frequentato prima una
scuola edile e poi, attraverso esperienze di inserimento protetto, è arrivato
oggi a svolgere un lavoro autonomo e retribuito; ha una vita sociale e di
relazione accettabile e il bisogno di supervisione da parte dei genitori è in
pratica limitato alla gestione delle questioni domestiche (situazione
condivisa, peraltro, da molti giovani adulti normodotati che continuano a
vivere in famiglia) e dei suoi risparmi in banca, ma non è affatto escluso
che possa in seguito imparare anche queste abilità.
Proprio mentre stavo scrivendo questo capitolo l’ho incontrato, poche
settimane fa, la sera dell’ultimo dell’anno. Andavo a casa di amici e l’ho
visto, solo soletto, nel buio della città quasi deserta, fermo al capolinea
degli autobus. Sono sceso dall’auto per salutarlo. Mi ha fatto, come sempre
quando ci incontriamo, mille feste. Era contento. Ci siamo scambiati gli
auguri. Marco aspettava alcuni compagni di lavoro che dovevano venire a
prenderlo per andare a cena da un’amica che ha la casa in collina e che
aveva invitato tutti per brindare all’anno nuovo. Mi ha detto che sperava
fosse una delle ultime volte che doveva contare sul passaggio di qualcuno,
perché dopo tanti sforzi aveva finalmente superato l’esame scritto di guida.
Pensava che la prova pratica sarebbe stata più facile.
Vorrei dedicare a Marco questo libro. Naturalmente, ho dovuto cambiare
il suo nome e modificare numerosi dettagli nella sua storia, a volte
mescolando anche storie di altri bambini, come ho fatto per tutti i
protagonisti di queste pagine, per non renderli riconoscibili. Un po’ mi
dispiace, come se qualche cosa, insieme al nome e all’unicità della sua vita,
andasse perduto. Questo però mi permette di dedicare il presente lavoro a
lui, il mio primo paziente che, dopo tanti anni, mi è impossibile
dimenticare, ma anche, idealmente, a tutti quei bambini che non avrò modo
di nominare, ma verso i quali conservo una gratitudine irraccontabile per
tutto quello che, mentre io cercavo di aiutare loro, loro hanno insegnato e
dato a me.
1 Il punteggio di Apgar è un metodo di valutazione del neonato subito dopo la nascita. Serve per
identificare i neonati che richiedono la rianimazione e, anche se un basso punteggio non è
necessariamente indicativo di ipossia né predittivo di mortalità neonatale o paralisi cerebrale, denota
comunque una certa sofferenza. Il punteggio di Apgar va da 0 a 10 ed è calcolato al primo e al quinto
minuto dopo il parto sulla base della frequenza cardiaca, dell’attività respiratoria, del tono muscolare,
della risposta a un catetere nella narice, del colorito. Un punteggio da 0 a 3 indica la necessità di
rianimazione immediata. Un punteggio di 10 indica un neonato nelle migliori condizioni possibili.
2 PM è l’acronimo inglese di Matrici Progressive, un test messo a punto da Raven negli anni Trenta
e poi revisionato e sistematizzato nei decenni successivi (Raven, 1962). L’idea alla base della
costruzione di questo reattivo era quella di valutare l’intelligenza cercando, per quanto possibile, di
escludere le influenze culturali, prima fra tutte la lingua. Le Matrici Progressive consistono, infatti, in
una serie di figure astratte legate insieme da una logica a difficoltà crescente che il soggetto deve via
via scoprire per dare la risposta corretta. La risposta può essere data semplicemente indicando la
figura scelta e dunque non è necessario l’uso del linguaggio produttivo. Inoltre, non sono necessarie
conoscenze specifiche, per esempio di tipo scolastico, per rispondere correttamente. In questo senso
le Matrici Progressive sono state considerate un buon indicatore del fattore g di Sperman, cioè della
cosiddetta intelligenza generale (Anastasi, 1975). Sebbene da un punto di vista teorico la pretesa di
misurare l’intelligenza in modo puro, cioè indipendente dalle esperienze e dalla cultura del soggetto,
si sia dimostrata in larga misura irrealistica (Valseschini e Del Ton, 1981), le PM sono ancora oggi
largamente usate nella pratica clinica per la velocità e la semplicità di somministrazione e per l’utilità
dei dati che permettono di ottenere. In età evolutiva, inoltre, il test è quasi sempre molto gradito ai
bambini, che lo fanno talmente volentieri da scambiarlo spesso per un gioco. Questo lo rende utile, a
volte, anche come strumento di primo approccio con soggetti difficili che, per esempio, non siano in
grado, per i più vari motivi, di instaurare una relazione basata sul linguaggio verbale. Nel corso degli
anni sono state elaborate moltissime versioni di Matrici Progressive, diverse per difficoltà e per età di
destinazione. Con Marco venne utilizzata la versione denominata PM 38, la più adatta per bambini
disponibile a quell’epoca. Oggi, per bambini dai 5 agli 11 anni, esistono invece le CPM (acronimo
inglese di Matrici Progressive Colorate), particolarmente belle anche da un punto di vista grafico e
particolarmente utili per la loro validità sia interna che di costrutto (Belacchi e Cornoldi, 2006).
3 Il test WISC è la versione per l’età evolutiva della notissima scala di Wechsler per la misurazione
del QI negli adulti, pubblicata per la prima volta nel 1939 (Wechsler, 1939) e poi più volte riadattata.
In età evolutiva è probabilmente il test più usato per la misurazione dell’intelligenza e per la diagnosi
di disabilità. La caratteristica fondamentale della scala WISC è quella di essere composta di molti
subtest, alcuni dei quali verbali e anche strettamente legati a conoscenze fortemente influenzate dalla
cultura e dalla scolarizzazione; altri, sempre verbali, meno dipendenti dalle esperienze del soggetto
ma più legati, per esempio, a capacità di riflessione o alla memoria di lavoro; altri ancora, non
verbali, costruiti in modo da valutare capacità percettive, di orientamento spazio-temporale, di
coordinamento oculomanuale, di velocità di elaborazione. Il risultato finale, espresso in QI,
rappresenta la misura media dei punteggi ottenuti nei singoli subtest, ma l’analisi e il confronto dei
risultati parziali fornisce indicazioni diagnostiche ulteriori di grandissimo interesse (Ranieri e
Catocci, 1997; Padovani, 1998). A Marco venne somministrata la scala WISC, l’unica allora a
disposizione per l’età evolutiva. In seguito, per soggetti dai 6 ai 16 anni, è uscita una versione
revisionata, detta WISC-R (Wechsler, 1986), che è quella per lo più usata nei casi descritti nei
capitoli, mentre per bambini di età prescolare è disponibile la versione WPPSI (Wechsler, 1973).
Segnalo che, nel tempo intercorso tra il lavoro con i casi raccontati su questo libro e la sua
pubblicazione, è uscita una nuova versione del test anche in italiano: si tratta della WISC-III
(Wechsler, 2006) e, più recentemente, la WISC-IV (Wechsler, 2012) dove, alle due tradizionali scale
verbale e di performance, si sono aggiunte la memoria di lavoro e la velocità di elaborazione, in
modo da fornire un quadro neuropsicologico più ampio e nello stesso tempo più dettagliato delle
caratteristiche cognitive del bambino e del ragazzo. Molti dati già consolidati e alcune ricerche
tuttora in corso sembrano indicare, in particolare, che la velocità di elaborazione rappresenti una
scala molto utile per ottenere indicazioni sulla specificità del disturbo e sui punti di forza e di
debolezza del paziente (Carli e Orsini, 2013).
4 Il disegno della figura umana è una prova che viene svolta molto di frequente nella consultazione
psicologica di bambini di età prescolare e di scuola primaria. Non esiste una procedura unica di
somministrazione, né, tanto meno, di valutazione standardizzata: anzi, la valutazione della figura
umana come test per la misurazione dell’intelligenza e per l’indagine della personalità è stata
sottoposta a critiche molto forti, per lo più convincenti e spesso condotte nei termini rigorosi di
analisi sperimentali che non sembrano corroborare empiricamente l’ipotesi secondo la quale questi
strumenti rappresentano metodi attendibili di valutazione (Lilienfeld, Wood e Garb, 2001). Tuttavia, i
bambini disegnano volentieri, mentre disegnano è più facile entrare in relazione con loro, il disegno
può essere spunto per ulteriori comunicazioni da parte loro e per ulteriori approfondimenti da parte
dello psicologo (Sacchelli, 2001) e il disegno della figura umana in particolare (Goodenough e
Harris, 1977; Royer, 1979; Rea e Picone, 2013) può fornire qualche indicazione sia sulle capacità
intellettive sia su alcuni eventuali aspetti psicopatologici, purché l’interpretazione del disegno sia
fatta con molta cautela e sia sempre messa a confronto con altri dati clinici e con test standardizzati
(Widlocher, 1992). Per una discussione molto sfaccettata, molto accesa e molto stimolante, vedi
Tressoldi, Pedrabissi, Trevisan e Cornoldi, 2010.
5 Quando la personalità non è armonica e ai disturbi dell’intelligenza si sovrappongono altri
disturbi, per esempio d’ansia o dell’umore, ma soprattutto della relazione, la situazione clinica si
complica in modo notevole, come si può vedere, in particolare, nel capitolo 6.
6 Vedi capitolo 2, nota 4
7 Attualmente si calcola che oltre il 20% circa dei soggetti con Disabilità intelletiva sia a causa
organica sconosciuta (Van Hasselt e Hersen, 1995; De Negri, 1999). Questa percentuale è tanto più
alta quanto più lieve è l’entità del ritardo ed è significativamente maggiore nei bambini allevati in
situazioni di disagio ambientale e sociale. Probabilmente si tratta di una percentuale destinata a
scendere con il progredire delle indagini diagnostiche, soprattutto genetiche (State, King e Dykens,
1997; King, State, Shah, Davanzo e Dykens, 1997; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998; Utine et
al., 2014), e comunque molto incerta: si pensi, per esempio, che solo una decina di anni fa, ancora
qualche studioso stimava che nel 75% circa dei casi di Diabilità intellettiva la causa organica non
fosse identificabile (Weisz, 1990).
8 Questa capacità, detta “adattiva”, può essere valutata attraverso l’osservazione delle capacità di
comunicazione, cura di sé, cura domestica, capacità sociali, uso della comunità, capacità di
autogestione, comportamento scolastico, gestione del tempo libero, capacità lavorative. La capacità
adattiva può essere misurata con l’ABI, uno strumento standardizzato che permette di valutare il
comportamento adattivo di un soggetto portatore di handicap rispetto a 5 dimensioni: autonomia,
comunicazione, abilità sociali, abilità scolastiche, abilità lavorative (Brown e Leigh, 1987). Tuttavia
il test oggi più diffuso e accreditato è probabimente rappresentato dalle Vineland Adaptive Beahovior
Scales (Sparrow, Balla e Cicchetti, 1993-1999) che, attraverso un’intervista semistrutturata a genitori
e caregiver, valutano la comunicazione, le abilità quotidiane, la socializzazione e le abilità motorie.
In una discussione sulla concettualizzazione, la misurazione e l’utilizzo del costrutto di
comportamento adattivo, Tassé et al. (2012) mostrano l’importanza della misurazione di questa
abilità per un assessment funzionale non solo a una più corertta diagnosi, ma anche all’impostazione
di un più efficace lavoro abilitativo.
9 Per fare diagnosi di Disabilità intellettiva è necessario che l’esordio avvenga nell’età dello
sviluppo. Esordio non significa diagnosi: dunque, in teoria, la diagnosi può essere fatta per la prima
volta anche su un adulto, se la storia consente di accertare che il ritardo era presente già nei primi
anni di vita. In pratica, tuttavia, anche nel caso dei ritardi più lievi, oggi è difficile che un bambino
non sia diagnosticato per lo meno con il suo ingresso a scuola.
10 Le applicazioni terapeutiche dei principi teorici della metacognizione, e la relativa bibliografia,
saranno meglio analizzate nei capitoli 7 e 8 a proposito del Disturbo specifico dell’apprendimento.
11 Una brevissima analisi di questo argomento è svolta nel capitolo 3, paragrafo “Considerazioni
teoriche”. Vedi anche Cazzullo (1998).
Capitolo 2
LA STORIA DI LUCA
Luca è nato con una sindrome di Down. L’ho conosciuto quando aveva
quasi cinque anni, ma penso che la diagnosi sia stata fatta fin dai primi
giorni di vita. I genitori di Luca appartengono alla classe media, il padre è
un professionista e la madre insegna in una scuola secondaria di secondo
grado. I medici devono aver notato subito che c’era qualcosa che non
andava; la mappa cromosomica, poi, ha tolto ogni dubbio residuo. Quando
ho raccolto la storia, questa prima parte è rimasta sempre un po’ nel vago,
come se facesse parte di un brutto sogno. Ciò che sono riuscito a ricostruire
(senza particolari insistenze, per cercare di rispettare il bisogno dei genitori
di non tornare a soffrire rievocando quei momenti in maniera troppo
precisa) è che, prima di tutto, la notizia fu evidentemente un colpo
gravissimo per entrambi. Avevano già un figlio di circa otto anni, sano,
intelligente e fonte di mille soddisfazioni, e l’attesa del secondo era stata
accompagnata da serenità, gioia e tante aspettative positive. Inoltre, erano
sufficientemente colti per capire fin dal primo momento che cosa questa
diagnosi significasse. Durante il primo colloquio con i genitori
ricostruii sommariamente le loro reazioni in quel periodo: prima il panico
per l’ignoto che li attendeva, poi, da parte della madre, la depressione,
mentre il padre reagiva buttandosi nel lavoro con un accanimento ancora
maggiore di quanto avesse fatto fino a quel momento (Drotar, Baskiewicz,
Irvin, Kennel e Marshall, 1975; Montobbio, 1983). Le diverse reazioni dei
genitori si erano probabilmente potenziate a vicenda, almeno in un primo
periodo: la madre, in un certo senso abbandonata, lasciata sola di fronte ai
problemi di un figlio bisognoso di cure particolari, rischiava ogni momento
di vedere la sua depressione aggravarsi; il padre finiva per allontanarsi
sempre di più dalla famiglia, ritrovando a casa non soltanto un bambino che
lo angosciava, ma anche una moglie depressa.
pag. 49
pag. 56
pag. 41
pag. 562
METACOGNIZIONE
La metacognizione è il pensiero sul pensiero. Un bambino può fare
una capriola su un prato e questo (ammesso che si possa fare qualcosa
senza pensare a nulla) è un comportamento. Oppure può pensare alla
capriola che farà o a quella che ha appena fatto, e questo è un
pensiero. Oppure può riflettere sul fatto che, se prima di fare la
capriola pensa a come farla, la capriola gli riuscirà meglio (o forse
peggio) e questa è una metacognizione: una riflessione sui propri
pensieri. Quando un bambino studia a memoria una poesia mette in
atto un processo cognitivo, o più probabilmente molti processi
cognitivi. Quando un bambino studia un brano di storia mette in atto
altri processi cognitivi. Quando scopre che i processi cognitivi
necessari per imparare una poesia a memoria sono diversi da quelli
necessari per sostenere un’interrogazione di storia, sta facendo una
riflessione metacognitiva. Si dice che il bambino capace di molte
riflessioni di questo genere ha sviluppato una buona sensibilità
metacogniva. Oggi sappiamo, anche se ci vorrebbe un trattato e non
una voce di glossario per discutere questo argomento, che una buona
sensibilità metacognitiva può fare la differenza tra uno studente in
gamba e uno in difficoltà. È infatti chiaro che le capacità di studio e il
rendimento scolastico tendono ad aumentare se lo studente si rende
conto che ci sono modi diversi per studiare materiali diversi, modi
diversi di leggere testi diversi, modi più adeguati per affrontare
un’operazione aritmetica e modi più adeguati per risolvere un
problema, situazioni dove studiare risulta più facile e più produttivo
(solo per citare qualche esempio, tra i tantissimi di questo sterminato
campo di ricerca).
Nel testo non ci si limita a sottolineare l’importanza teorica della
metacognizione, ma si mostra anche come, entro certi limiti, un
miglior atteggiamento metacognitivo possa essere insegnato, sia a
bambini con Disabilità intellettiva (come nel capitolo 1), sia,
soprattutto, a bambini con Disturbo specifico dell’apprendimento
(come nel capitolo 7, dove le abilità di comprensione del testo
aumentano quando Andrea riflette sul fatto che lo scopo principale
della lettura è impadronirsi del significato di quello che si legge).
Nei capitoli sui disturbi della sfera emozionale (ansia e umore)
vedremo come, in un’ottica cognitivo-costruttivista, anche la
psicoterapia fa leva sulla sensibilità metacognitiva del paziente.
LA STORIA DI MICHELA
Michela è nata dopo un parto molto difficile. Ore di travaglio, una lunga
sofferenza perinatale e un periodo asfittico, il punteggio di Apgar1 di 4 al
primo minuto e di 6 al quinto. La storia dello sviluppo di Michela, fin dai
primi mesi di vita, è caratterizzata da un ritardo evidente ed esteso a tutte le
aree. La bambina aveva difficoltà persino a succhiare il latte dal biberon e a
deglutire. Intorno agli otto-nove mesi ancora non riusciva a stare seduta. Ha
imparato a camminare da sola senza sostegno dopo i tre anni e a dire
qualche parola comprensibile connessa ai suoi bisogni primari verso i
cinque.
A complicare il quadro, verso il sesto mese, sono intervenute crisi
epilettiche che i neurologi non erano in grado di controllare
farmacologicamente. Michela ha cambiato nel corso degli anni molte volte
la terapia farmacologica, con risultati alterni. Verso i sette-otto anni le crisi
sono diminuite di frequenza e di intensità senza però scomparire del tutto
(De Negri, 1999; O’Brien e Meisler, 2013).
La bambina ha frequentato la scuola dell’infanzia con un insegnante di
sostegno che si occupava a tempo pieno di lei, dal momento che Michela
non possedeva neppure le semplici autonomie di autoaccudimento. Durante
il periodo della scuola dell’infanzia e anche nei primi anni di scuola
primaria non era capace di andare in bagno da sola, di spogliarsi e di
vestirsi, di mangiare. Manifestava, inoltre, alcuni comportamenti
problematici. A volte, soprattutto quando era lasciata da sola o senza
un’attività ben precisa da svolgere, cominciava a dondolarsi avanti e
indietro, in un movimento stereotipato piuttosto tipico. Occasionalmente,
manifestava altri comportamenti stereotipati, come giocare con le mani
muovendole davanti agli occhi in modo ripetitivo. Inoltre, aveva frequenti
scoppi di aggressività, a volte diretta verso gli oggetti (come lanciare o
rompere) a volte verso le persone, più frequentemente nei confronti della
madre e, qualche volta, di alcuni compagni di classe. Con il passare degli
anni e con il notevole aumento di abilità-autonomia (vedi riquadro
sottostante) e, soprattutto, di comunicazione verbale,2 questi disturbi di
comportamento sono diminuiti in modo significativo. Sono rimasti una
facile irritabilità, qualche scoppio di collera vero e proprio, ma raro e per lo
più, in un certo senso, giustificato dalle circostanze, e un atteggiamento
capriccioso e infantile.
Il grave ritardo psicomotorio si è andato attenuando negli anni, anche
grazie a terapie riabilitative specifiche, ma la goffaggine e l’impaccio,
soprattutto nella motricità fine, non sono mai scomparsi del tutto.
La produzione grafica è sempre stata gravemente in ritardo per l’età.
Intorno agli otto-dieci anni la figura umana3 è diventata riconoscibile e non
si è più significativamente modificata: sembra il disegno di un bambino di
scuola dell’infanzia, con qualche bizzarria, per esempio nell’uso dei colori e
nella forma degli occhi, grandi, quasi perfettamente rotondi e con un
piccolo punto nel centro (vedi fig. 2, Tavole a colori). La produzione
scolastica non è mai andata molto oltre la capacità di scrivere il proprio
nome e di riconoscere globalmente qualche parola. Il test ABI4 mostra gravi
carenze in tutte le aree dell’autonomia. Non è possibile eseguire in modo
corretto un test di intelligenza, per l’incapacità della bambina a collaborare
e a comprendere le consegne.
ABILITÀ ADATTIVE
AUTONOMIE PERSONALI
AUTONOMIE SOCIALI
Si chiamano adattive quelle abilità che permettono a una persona di
adattarsi alle richieste dell’ambiente. Le abilità adattive dipendono,
ovviamente, dall’età del soggetto. Per un bambino sono costituite, per
esempio, dal comunicare adeguatamente i propri bisogni, dal
cominciare a socializzare con i coetanei, dallo svolgere da solo alcune
attività tipiche della vita quotidiana, come lavarsi e vestirsi e, più
tardi, uscire con gli amici.
Nei primi 3 capitoli, dedicati al Disabilità intellettiva, è evidenziato
come la carenza di abilità adattive costituisca uno degli elementi di
diagnosi e, nella nuova visione proposta dal DSM-5, addirittura il
principale. Negli stessi capitoli, oltre che nei capitoli 5 e 6 dedicati ai
Disturbi dello spettro dell’autismo, si vede anche che alcune abilità
adattive sono particolarmente importanti e possono, entro certi limiti,
essere insegnate. Si tratta delle autonomie, che consistono nella
capacità di svolgere da soli alcuni compiti.
Le autonomie si dicono personali quando si riferiscono
all’autoaccudimento (come alimentarsi, usare il bagno, lavarsi,
vestirsi). Si dicono sociali quando si riferiscono ad abilità superiori,
per lo più utili nella relazione con gli altri (per es., usare il telefono e
il denaro, leggere l’orologio per arrivare puntuali a un appuntamento,
muoversi da soli nel quartiere per andare a scuola o da un amico,
prendere un mezzo pubblico).
Possiamo vedere, tra gli altri, esempi di insegnamento di autonomie
nel capitolo 1, quando Marco è stato incoraggiato a uscire da solo e a
fare piccoli acquisti; nel presente capitolo, quando Michela ha
imparato ad apparecchiare la tavola e fare il caffè; nel capitolo 5,
quando Maurizia ha imparato a lavarsi le mani.
CONSIDERAZIONI TEORICHE
Una parte molto rilevante delle ricerche sulla Disabilità intellettiva Grave si
concentra sullo studio delle cause organiche del disturbo e sull’intervento
medico. Infatti, contrariamente a quanto avviene in forme più lievi di
ritardo, qui la causa organica è praticamente sempre presente e
riconoscibile. Capita anzi, spesso, che le cause siano più di una, come
avviene nei casi di cosiddetto plurihandicap, dove alla Disabilità intellettiva
si associano, per esempio, deficit sensoriali a carico della vista o dell’udito.
Sebbene l’analisi di questi studi, di interesse tipicamente medico, esuli dagli
scopi di questo lavoro, sarà per lo meno importante ricordare che più la
ricerca progredisce e più si evidenziano compromissioni organiche
dimostrabili sia nella Disabilità intellettiva sia nei Disturbi dello spettro
dell’autismo (come si può vedere nei capitoli 5 e 6 dedicati a queste
sindromi). Le cause sono molto varie, ma, in estrema sintesi, possono essere
fatte rientrare in alcune grandi categorie (Cazzullo, Lenti, Musetti e
Musetti, 1998; De Negri, 1999): cause prenatali (come errori congeniti del
metabolismo, anomalie di un singolo gene, aberrazioni cromosomiche,
sindromi poligenetiche familiari); alterazioni precoci dello sviluppo
embrionale (come mutazioni cromosomiche, infezioni, fattori teratogeni o
tossici, disfunzioni placentari); cause perinatali per lo più a danno del
sistema nervoso centrale, particolarmente frequenti nelle gravi prematurità
(Fava Vizziello, Calvo e Cadrobbi, 2000); cause postnatali (come infezioni,
traumi, asfissia, disturbi del metabolismo). Ne parlo in questa sede, ma le
stesse cause si possono ritrovare in tutti i gradi di ritardo, anche se nei
ritardi più lievi le influenze ambientali come la malnutrizione,
l’inadeguatezza sociale, culturale e organizzativa della famiglia sembrano
avere un ruolo preminente. È chiaro che, ogni volta che viene messa in luce
un’eziologia organica, acquistano una particolare importanza gli interventi
medici, per lo più di ordine farmacologico, ma a volte anche connessi, per
esempio, a particolari regimi alimentari. Tali interventi possono ridurre
significativamente il disturbo e migliorare la qualità della vita del bambino
e ci fanno riflettere sul fatto che, in questi casi, lo psicologo non deve essere
il referente unico del caso, ma collaborare con gli specialisti che si
occupano di cure mediche e di riabilitazione.
Nella quotidiana pratica professionale dello psicologo rivestono
maggiore interesse quelle ricerche che hanno messo in luce la possibilità di
applicare i principi della psicologia a orientamento comportamentista per
favorire lo sviluppo di abilità specifiche anche in soggetti di notevole
gravità. Si tratta di una mole ormai imponente di ricerche, sperimentali e
cliniche, dalle quali cercherò di enucleare gli aspetti più rilevanti,
soprattutto da un punto di vista delle prospettive di intervento (Moderato,
1984; Caracciolo e Rovetto, 1988; Lancioni, 1992; Perini e Bijou, 1992;
Celi e Ianes, 2001; Cottini, 2003; American Association on Mental
Retardation, 2005; van Oorsouw, Embregts, Bosman e Jahoda, 2009;
Lancioni, Singh, O’Reilly e Sigafoos, 2009; Vereenooghe e Langdon,
2013).
L’educazione speciale, applicazione pratica dei principi della psicologia
del comportamento ai problemi educativi dei bambini con bisogni educativi
speciali, e dunque alla Disabilità intellettiva prima di tutto, ha mostrato
come non esista nessun soggetto completamente non educabile. In passato
questa distinzione tra educabili e non educabili è stata legittimata
teoricamente e applicata praticamente, a volte anche con una certa rigidità.
Poi, dagli anni Settanta in avanti, sono avvenuti due cambiamenti che ci
permettono oggi di dire che questa rigida distinzione non ha fondamento
teorico ed è dannosa in pratica. Il primo cambiamento riguarda il concetto
di educabilità. Certo, se con questo termine si intende la capacità di
impadronirsi di quelle abilità tipicamente scolastiche come la lettura, la
scrittura o il calcolo, è evidente che vi sono soggetti esclusi da questa
possibilità a causa della gravità del disturbo. L’educazione speciale ha però
rivoluzionato questo concetto e ha esteso il significato del termine
“educare” fino a comprendere l’insegnare a una persona ad andare in
bagno, a vestirsi, ad alimentarsi da sola anziché aver bisogno per tutta la
vita di essere imboccata, a muoversi autonomamente per luoghi conosciuti,
a esprimere verbalmente o in altro modo alcuni bisogni fondamentali, a
controllare la propria aggressività sostituendo a comportamenti gravemente
disadattivi comportamenti socialmente più adeguati. Un esempio
particolarmente drammatico di educabilità anche di soggetti con Disabilità
intellettiva Estrema e plurihandicap è costituito dai lavori di Lancioni e del
suo gruppo sui microswitch. Si tratta di ricerche (il lettore interessato può
trovarne un gran numero nelle annate dal 2001 al 2009 della rivista
Handicap Grave chiamata in seguito Disabilità gravi) che mostrano come,
attraverso tecniche molto sofisticate di feedback erogati da strumenti
elettronici sensibili anche ai minimi movimenti volontari, sia possibile
insegnare embrionali comportamenti di autodeterminazione a soggetti in
passato considerati incapaci di qualsiasi apprendimento e quasi di qualsiasi
interazione significativa con l’ambiente. Si vedano a questo proposito il
lavoro di Lancioni et al. (2011) che ha mostrato la possibilità di insegnare a
pazienti molto gravi a riconoscere stimoli ambientali diversi, e quello di
Ramdoss et al. (2012) che ha analizzato una serie di studi basati su
interventi mediati dal computer per insegnare abilità di vita quotidiana.
Se dunque con il termine “educare” intendiamo tutto questo, allora
persone come Michela sono sicuramente educabili, come apparirà ben
chiaro nel prossimo paragrafo. A livello internazionale è ancora aperto il
dibattito su quali siano i luoghi e le strutture più adatti per svolgere questa
particolare educazione: scuole speciali, centri di riabilitazione
specificamente attrezzati, istituti residenziali o semiresidenziali, oppure la
scuola di tutti8 (scelta che invece, in Italia, raccoglie attualmente la quasi
totalità dei consensi). Ma, comunque si imposti il dibattito e si risponda alla
domanda su dove sia più facile mettere in atto programmi di educazione
speciale, nessuno solleva oggi più dubbi sulla educabilità delle persone con
Disabilità intellettiva Grave. Questo radicale cambiamento di punto di vista
è avvenuto non soltanto grazie a una attenta ridefinizione di educabilità, ma
anche grazie alla messa a punto di programmi educativi fortemente
individualizzati che fanno riferimento alla teoria e all’applicazione
dell’approccio comportamentale. Questi programmi si basano su alcuni
punti forti, che ho cercato di sintetizzare qui di seguito.
1. Un’attenta osservazione dell’allievo, dei suoi deficit e delle sue difficoltà,
ma anche delle sue potenzialità. Tutta la programmazione educativa nella
Disabilità intellettiva, tanto più se Grave, dovrebbe partire dalle abilità,
sia pur minime, possedute dall’allievo e, da qui, cominciare a costruire
abilità nuove.
2. Una definizione molto rigorosa degli obiettivi didattici. Un bambino con
un’intelligenza brillante quasi non ha bisogno che si programmino per lui
gli obiettivi da raggiungere. La sensazione che dà a chi vive vicino a lui è
che impari le cose da solo. Si tratta di una sensazione sbagliata, ma che
illustra bene il principio generale secondo il quale i bambini con buone
potenzialità intellettive possono raggiungere risultati importanti anche
con un approccio educativo libero e poco programmato. Nel caso della
Disabilità intellettiva Grave è vero il contrario. Proprio la grave patologia
dell’intelligenza, la scarsissima autonomia di queste persone, il loro
bisogno di essere seguite passo passo in quello che fanno, rendono la
programmazione rigorosa uno strumento indispensabile. Un bambino a
sviluppo tipico impara a lavarsi le mani guardando, in modo più o meno
distratto, il fratello maggiore o la madre che si lavano le mani, e
facendosi aiutare qualche volta da un adulto. Un bambino con Disabilità
intellettiva Grave può imparare a lavarsi le mani a patto che questo
diventi un obiettivo esplicito e che siano messe in atto tutte le procedure
necessarie per raggiungere il risultato.
3. Diretta conseguenza di tutto ciò è la necessità di un controllo molto forte
sull’ambiente (Stasolla, Stella e Damato, 2014). Un bambino
normodotato può imparare a lavarsi le mani in qualsiasi bagno. Al
contrario, per un bambino con Disabilità intellettiva, le variazioni anche
minime che ogni situazione diversa comporta (per es., la forma o il
funzionamento di un rubinetto) rendono indispensabile estendere il rigore
della programmazione anche agli aspetti ambientali. Vedremo nei capitoli
della prossima sezione come questa attenzione estremamente rigorosa
agli aspetti ambientali che possono influenzare la prestazione
comportamentale sia alla base di molti approcci terapeutici (come il
TEACH o l’ABA) specificamente dedicati a bambini con Disturbo dello
spettro dell’autismo.
4. Gli stimoli presentati al bambino (nell’esempio: la porta del bagno, il
lavandino, i rubinetti) devono seguire una successione rigorosa, studiata
in modo tale da rendere l’apprendimento particolarmente facile, cioè
“dolce” e graduale, e favorire così il massimo possibile di occasioni di
successo, tanto più preziose in questi soggetti perché inevitabilmente
rare.
5. Ogni successo deve essere seguito in modo sistematico dal
rinforzamento . Nella Disabilità intellettiva Grave le tecniche rigorose
di rinforzamento hanno mostrato in mille ricerche e in mille occasioni la
loro efficacia. Che un comportamento positivo, che si desideri
consolidare, debba essere seguito da una forma di gratificazione è una
regola generale e valida in qualunque circostanza. Mentre, però, in
situazioni meno gravi anche l’uso del rinforzamento può (e spesso deve)
assumere forme più flessibili, come riportato in molte altre parti di questo
libro, qui è proprio la sistematicità la migliore garanzia di ottenere
risultati utili per il soggetto. Sfortunatamente, nei casi di Disabilità
intellettiva Grave, spesso i soli rinforzatori che funzionano sono quelli
molto concreti (per es., consumatori o tangibili), mentre i rinforzatori
sociali, migliori da ogni altro punto di vista, rischiano di essere inefficaci.
In questi casi è necessario avere il coraggio di adottare anche rinforzatori
concreti, avendo però cura ogni volta di associarli a rinforzatori sociali
con l’obiettivo a lungo termine di spostare il controllo del
comportamento dall’oggetto-premio alla lode verbale. Sempre su questo
punto, la ricerca ha mostrato anche come sia spesso necessario servirsi in
modo sistematico del rinforzatore non soltanto quando il bambino
raggiunge l’obiettivo programmato, ma anche quando emette risposte
che, in qualche modo, si avvicinino all’obiettivo. In questo modo si
riescono a ottenere risultati altrimenti impensabili con soggetti di questa
gravità e si può continuare a lavorare in un rapporto improntato alla
gratificazione anche quando il comportamento del bambino è tutt’altro
che perfetto. Questa tecnica, che prende il nome di modellaggio ,
permette di raffinare la prestazione del soggetto portandola gradualmente
e con molta pazienza ad avvicinarsi a quella desiderata (Martin e Pear,
2000).
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pag. 402
Nel caso poi, come spesso accade, l’analisi funzionale mostrasse che
molti comportamenti inadeguati assumono un significato comunicativo,
si possono insegnare strategie più adeguate di comunicazione: la ricerca
ha mostrato che in questo modo i comportamenti problematici
diminuiscono significativamente e il bambino tende ad acquistare un
maggior equilibrio emotivo (Carr, 1977, 1998; Blair, Umbreit, Dunlap e
Jung, 2007). Attualmente esistono diversi programmi di intervento basati
su strategie di comunicazione aumentativa e alternativa (AAC)9 e
finalizzati a migliorare la comunicazione, sia a livello di espressione che
di comprensione, in soggetti con capacità linguistiche limitate, come il
Sistema di Comunicazione mediante Scambio per Immagini (PECS)10 e
il Training di Comunicazione Funzionale (FCT).11
GENERALIZZAZIONE
Una delle critiche più spesso rivolte agli interventi comportamentali è
che, anche quando funzionano, questi interventi producono risultati
molto circoscritti e limitati. Si dice: sì, è vero, un bambino con
Disabilità intellettiva può imparare, grazie a questi metodi, a lavarsi le
mani nel bagno della terapista della riabilitazione, ma poi non sa farlo
né a casa né a scuola. Oppure: sì, è vero, la bambina depressa è
riuscita con successo a modificare un po’ il suo tono di voce e a
telefonare, dallo studio del terapeuta, a una sua amica per invitarla a
casa a giocare, ma poi durante la settimana, tra una seduta e l’altra,
non telefona mai a nessuno, il suo tono di voce si abbassa di nuovo
fino a ritornare il flebile, triste sussurrare di sempre.
Le critiche sono giuste, ma è sbagliato il bersaglio. Se si verificano
questi fenomeni, la responsabilità non è dei metodi comportamentali,
ma del loro cattivo uso. In particolare, la responsabilità di questi
fallimenti sta nel non aver programmato la generalizzazione, cioè la
capacità di usare anche in contesti differenti le abilità apprese in un
contesto specifico. A volte, soprattutto con i bambini sani e
intellettivamente brillanti, la generalizzazione sembra scattare da sola.
Insegniamo a un bambino a farsi la doccia e lui, poi, va in campeggio,
a casa di un amico, in un albergo dove non è mai stato prima, e si fa la
doccia senza problemi. Insegniamo a un bambino a leggere usando
l’alfabetiere appeso in classe e le pagine del suo libro di scuola e poi
lui leggerà da solo altri libri, i fumetti e la Gazzetta dello Sport.
Purtroppo non sempre è così e con i bambini difficili spesso la
generalizzazione deve essere esplicitamente programmata.
Nel testo, è possibile vedere esempi di generalizzazione tutte le volte
che si parla di parent training e di rapporto con i genitori, perché è
chiaro che, se i genitori riescono a riprodurre a casa le condizioni che
hanno funzionato nello studio dello psicologo, questo aumenta la
probabilità che il bambino metta in atto anche con il papà e la mamma
le nuove abilità delle quali si è impadronito. Un discorso analogo può
essere fatto nei confronti della scuola e del rapporto di collaborazione
tra psicologo e insegnanti. Nel testo è possibile trovare anche molte
situazioni nelle quali la generalizzazione è favorita da un approccio
non strettamente comportamentale, che tenga conto anche dei principi
dell’apprendimento incidentale (per es., nel capitolo 2, dove si spiega
come Luca impari a indossare un maglione da solo); della sensibilità
metacognitiva (per es., nel capitolo 7, a proposito dei processi di
comprensione del testo e delle abilità di studio); dell’autoistruzione
(per es., nel capitolo 8, dove Simona impara a eseguire da sola le
addizioni col riporto). Anche nelle sezioni dedicate ai Disturbi d’ansia
e ai Disturbi depressivi è possibile vedere come molte strategie di
intervento cognitivo siano finalizzate proprio ad aumentare la capacità
del bambino di cavarsela anche da solo, cioè in situazioni diverse da
quelle previste dall’intervento psicoterapeutico.
pag. 34
Spesso, per ottenere alcuni di questi risultati sono state impiegate tecniche
comportamentali sistematiche. Per esempio, l’educatrice ha di recente
insegnato a Michela ad apparecchiare la tavola e a preparare il tè e il caffè
servendosi di analisi del compito molto specifiche e tagliate su misura
per le sue esigenze. Il compito è stato articolato in tanti sotto-obiettivi così
semplici da essere alla sua portata (prendere il pentolino, aprire il rubinetto,
riempire il pentolino di acqua, accendere il fuoco e così via). A volte è stato
necessario rappresentare graficamente i passi del compito, riportare su
cartoncini queste rappresentazioni grafiche e insegnare a Michela a
riordinare i cartoncini prima di passare all’esecuzione del compito vero e
proprio. L’educatrice si è inoltre sempre posta come un modello efficiente
da imitare e ha mostrato più volte a Michela le corrette sequenze da
riprodurre. Alcune ricerche condotte su pazienti con Disabilità intellettiva
Grave ed Estrema hanno messo in luce l’efficacia del Video Modeling
(VM)14 nell’insegnamento di abilità domestiche, come servire un caffè
(Bidwell e Rehfeldt, 2004) o preparare un sandwich (Rehfeldt, Dahman,
Young, Cherry e Davis 2003). Negli ultimi anni, inoltre, sono state condotte
diverse ricerche di meta-analisi che hanno evidenziato come il VM e il
VSM (Video Self-Modeling): siano strategie efficaci per incrementare
abilità socio-comunicative, funzionali e per insegnare comportamenti
adattivi; favoriscano la generalizzazione e il mantenimento delle abilità
acquisite (Bellini e Akullian, 2007); siano più efficaci quando ricorrono a
modelli costituiti da pari o dai pazienti stessi (McCoy e Hermensen, 2007);
siano più efficienti del modellamento in vivo, dal momento che più utenti
contemporaneamente possono trarne beneficio, permettono la
visualizzazione di istruzioni che vengono riprodotte in modo identico e
richiedono poco addestramento per i terapeuti (Charlop-Christy, Le e
Freeman, 2000).
pag. 83
pag. 13
pag. 69
pag. 402
“Non era poi così difficile. Adesso porto Michela al supermercato senza
particolari problemi. Bastava pensarci, lo dice anche il proverbio: patti
chiari, amicizia lunga”.
Mi parve un buon modo per riassumere con semplicità e saggezza i
principi del rinforzamento differenziale e dei contratti educativi. Qualche
volta, tra l’altro, abbiamo avuto anche una specie di prova sperimentale
dell’efficacia del metodo, perché l’educatrice ha dimenticato di mettere in
chiaro le condizioni e definire gli oggetti da comprare prima di uscire di
casa e Michela è tornata a fare il diavolo a quattro appena arrivata al
supermercato.
I comportamenti problematici, tuttavia, spesso avevano per Michela un
significato comunicativo. Quando, da piccola, non era praticamente in
grado di parlare, la cosa era particolarmente evidente. Noi, persone più o
meno “normali” e normodotate intellettivamente, disponiamo del
linguaggio verbale per esprimere i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre
paure, i nostri dolori. Ma che cos’altro poteva fare Michela quando era
stanca, quando a scuola la maestra le proponeva compiti troppo difficili per
lei, quando aveva bisogno di un po’ di attenzione da parte del padre, se non
rotolarsi per terra, piangere, gridare? Una certa riduzione di comportamenti
problematici, infatti, è andata di pari passo con l’acquisizione di capacità
comunicative migliori, proprio come succede nella normale evoluzione di
un bambino, che piange sempre meno a mano a mano che impara a parlare.
A volte le abbiamo insegnato a chiedere esplicitamente ciò che desiderava,
anziché cercare di ottenerlo con un capriccio o con un comportamento
aggressivo.
Oggi, a vent’anni, Michela può essere lasciata sola in casa per brevi
periodi di tempo; si lava e si veste da sola; svolge qualche semplice lavoro
domestico come apparecchiare la tavola o preparare il caffè. Nel centro
socioeducativo dove passa parte della giornata è ben adattata e i
comportamenti problematici sono rari. Ormai sono quasi esclusivamente
connessi alla sfera sessuale o più genericamente affettiva: quando è nel
centro cerca di isolarsi con un compagno o di stringerlo e abbracciarlo e a
volte si tocca, anche quando è in gruppo, in un inizio di masturbazione,
mentre nelle uscite esterne pretende, talvolta con una certa aggressività, di
andare in un bar dove spera di incontrare un ragazzo che le interessa. In
ogni caso, io avrei qualche dubbio, date le circostanze, a continuare a
etichettare questi come comportamenti problematici (Veglia, 1991). Ha
imparato, accompagnata, a fare piccoli acquisti col denaro contato (Celi e
Ianes, 1991; Ianes, Celi, Matassoni e Malagoli, 2011; Malagoli, 2012).
Frequenta una scuola di musica e di teatro: fa quello che può, ma la
frequenta molto volentieri e sembra tornare a casa da queste esperienze più
rilassata e serena. Infine, svolge per alcune ore la settimana un semplice
lavoro in un negozio di alimentari, che consiste nel sistemare negli scaffali
la merce scaricata dai grossisti: qui ha l’occasione di usare le semplicissime
abilità di lettura funzionale imparate ai tempi della scuola, perché riconosce
i prodotti dai colori, dai disegni, ma anche dalle scritte sulla confezione e li
sistema al posto giusto.
Nei casi più fortunati, questa è più o meno la prognosi nella Disabilità
intellettiva Grave: capacità di svolgere compiti semplici in ambienti protetti
e di adattarsi con una certa facilità alla vita in famiglia o in centri
semiresidenziali o in comunità alloggio. Per problemi medico-legali relativi
all’accertamento del suo grado di invalidità, ho dovuto di recente
sottoporla, come avevo fatto senza successo tanti anni fa, a un test per la
valutazione del QI. Le ho somministrato la WAIS15 e il risultato di 33
conferma la diagnosi di Disabilità intellettiva Grave. Però, per lo meno,
questa volta il test siamo riusciti a farlo!
Mi capita di incontrare Michela per strada, accompagnata da
un’educatrice che la segue ormai da un paio d’anni. Le vedo a volte che
attraversano la strada facendo attenzione che il semaforo sia verde oppure
che non passino automobili. Di solito Michela ha l’aria piuttosto attenta
rispetto a quello che fa e anche l’educatrice, durante le supervisioni, mi dice
che succede abbastanza spesso che lei possa tirarsi un po’ indietro e lasciare
che la ragazza prenda l’iniziativa quando deve attraversare la strada, o
raggiungere un luogo conosciuto, o comprare qualcosa in un negozio.
Quando vedo Michela in qualcuna di queste situazioni, mi è difficile
resistere alla tentazione di pensare che la ricerca ci ha insegnato, sulla
prognosi della Disabilità intellettiva Grave, che forse il suo potenziale di
crescita e di autonomia non si sia ancora del tutto esaurito.
1 Vedi capitolo 1, nota 1.
2 Come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, sembra esserci una correlazione tra le difficoltà a
usare il linguaggio verbale e l’emissione di comportamenti problematici, che probabilmente hanno
spesso proprio una funzione sostitutiva del messaggio verbale.
3 Vedi capitolo 1, nota 4.
4 Vedi capitolo 1, nota 8.
5 Vedi capitolo 2, nota 4.
6 Vedi capitolo 4.
7 Vedi capitoli 5, 6, 7 e 8.
8 Con questa espressione si intende la scelta dell’integrazione scolastica: ogni portatore di handicap,
indipendentemente dalla sua gravità, viene inserito in una classe normale, con compagni di pari età
cronologica.
9 L’AAC (Augmentative and Alternative Communication) rappresenta un insieme di metodi e
tecnologie che favoriscono tutte le forme di comunicazione (da qui il concetto di “comunicazione
alternativa”) che permettono al soggetto con gravi difficoltà linguistiche di esprimere pensieri,
bisogni, desideri e idee. L’AAC, tuttavia, non deve sostituire il linguaggio verbale, ma, quando
possibile, deve implementare le competenze linguistiche degli utenti (da qui il concetto di
“comunicazione aumentativa”). A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso le ricerche
in questo campo sono aumentate in modo esponenziale, incoraggiate dagli sviluppi nelle tecnologie
applicate alla clinica e all’educazione (per una rassegna più dettagliata rispetto ai metodi aided e
unaided, con o senza supporto tecnologico, vedi Wilkinson e Hearing, 2007). Tali ricerche hanno
confermato che l’AAC può contribuire a migliorare l’interazione sociale, i risultati scolastici e la
percezione di auto-efficacia. È possibile utilizzare queste tecniche persino in soggetti con
plurihandicap, come Disabilità intellettiva, sordità e cecità (Sigafoos, Green, Didden, Schlosser,
O’Reilly e Lancioni, 2008; Ogletree e Pierce, 2011).
10 Il PECS (Picture Exchange Communication System) rappresenta un’applicazione specifica dei
principi dell’AAC, ideato inizialmente, nell’ambito del Delaware Autistic Program, per bambini in
età prescolare con Disturbo dello spettro dell’autismo (Bondi e Frost, 1994). Il PECS è un percorso
di apprendimento a piccoli passi, costituito da sei diverse fasi, che si pone lo scopo di incoraggiare la
spontaneità e l’iniziativa del bambino nella comunicazione, minimizzando la dipendenza dalle
istruzioni date dall’adulto. Fornisce, inoltre, modelli di linguaggio verbale, utilizzando lo scambio di
immagini per incoraggiare il linguaggio orale (Visconti, Peroni e Ciceri, 2007; Lancioni, O’Reilly,
Cuvo, Singh, Sigafoos e Didden, 2008; Cannella-Malone, Fant e Tullis, 2010).
11 La procedura FCT (Functional Communication Training), descritta per la prima volta da Carr e
Durand (1985), prende avvio con un assessment volto a individuare la funzione del comportamento-
problema in esame (come, per esempio, attirare l’attenzione o eludere richieste). Una volta
identificate le conseguenze responsabili del mantenimento della condotta, si individua e si insegna al
soggetto un nuovo comportamento socialmente accettabile che sostituisca quello esistente. Perché
questa strategia abbia successo: 1) è necessario insegnare una risposta in linea con la funzione svolta
dal comportamento-problema (se, ad esempio, il comportamento è mantenuto dall’attenzione, va
insegnata una risposta che permetta al soggetto di ottenere attenzione); 2) è possibile ricorrere a
diverse forme di comunicazione (la parola, i segni, le immagini, l’uso di apparecchi per linguaggio
digitale), ma l’aspetto fondamentale è che tutte le persone coinvolte capiscano ciò che il soggetto
comunica; 3) la risposta comunicativa deve sempre comportare meno sforzo del comportamento-
problema, ottenere una ricompensa più gratificante, più spesso e più velocemente; 4) è importante
usare solo immagini relative a richieste che il soggetto può realmente avanzare perché disponibili nel
contesto di training (Oliver, Moss, Petty, Arron, Sloneem e Hall, 2005).
12 La lettura funzionale (Snell e Ianes, 1986) è un particolare tipo di lettura, adattata a soggetti con
ritardi importanti, che consiste nell’insegnare non la tecnica di decodifica, ritenuta troppo difficile,
ma una capacità di riconoscimento di alcune parole che svolga una funzione pratica nella vita di tutti
i giorni. Per esempio, non si insegna a riconoscere prima la lettera A, poi la L, poi la T e infine a
metterle insieme: si insegna a fermarsi quando ci si trova di fronte alla parola ALT.
13 Analogamente a quanto illustrato nella nota 12 a proposito della lettura, anche il linguaggio può
essere insegnato in modo funzionale (Kent e Sherman, 1985), cioè in modo da svolgere una funzione
adattiva nella vita di tutti i giorni. Quando, più avanti in questo stesso paragrafo, Michela imparerà a
usare il denaro per fare piccoli acquisti, svolgerà un programma di matematica funzionale.
14 Attraverso il VM si presenta ai pazienti un filmato videoregistrato in cui un modello (quando la
scena è messa in atto dal paziente stesso si parla di Video Self-Modeling) completa una lista
sequenziale di compiti, giungendo a un qualche tipo di risultato. I pazienti visualizzano il filmato
all’inizio di ogni sessione di training, in cui dovranno mettere in pratica quello che hanno visto (per
una rassegna, vedi Walton e Ingersoll, 2013).
15 Vedi capitolo 1, nota 3.
Capitolo 4
Funzionamento intellettivo
borderline
Fabio Celi
LA STORIA DI GABRIELLA
Appena seduta di fronte a me, al suo primo colloquio, la mamma di
Gabriella mi disse:
“Non so neppure io se ho fatto bene a venire. Non so da che parte
cominciare, forse perché alla fine non c’è niente da dire”.
È piuttosto frequente che un genitore apra il primo colloquio (vedi
riquadro sottostante) esprimendo delle difficoltà personali: a volte banali,
come il non sapere da che parte cominciare, altre volte più importanti, come
una separazione o un lutto recente. In questi casi è sempre difficile
distinguere quanto il bisogno sia del genitore e quanto del bambino, e sono
necessarie, a mio parere, pazienza e prudenza nel non lasciarsi influenzare
da interpretazioni o ipotesi troppo precipitose, anche se capita poi piuttosto
spesso di scoprire, dopo aver lasciato parlare l’adulto serenamente, che
forse la richiesta di aiuto riguardava più lui che il figlio.
PRIMO COLLOQUIO CON I GENITORI
Non c’è unanimità, tra gli psicologi e gli psicoterapeuti, sul modo di
condurre il primo colloquio con i genitori di un bambino. Alcuni
sostengono, per esempio, che il primo colloquio andrebbe condotto
alla presenza dei genitori e del bambino, per valutare subito le
modalità di attaccamento. Questo è solo un esempio e ci sono, in
realtà, moltissimi modi diversi per condurre questa delicata fase
iniziale di un lavoro di consulenza.
Nel testo si fa riferimento a un metodo che ha, in linea di massima, e
con tutta la flessibilità necessaria in questi casi, due caratteristiche
fondamentali. La prima caratteristica è che il primo colloquio è
condotto alla presenza dei soli genitori, senza il bambino. Il vantaggio
di questo approccio consiste essenzialmente nella possibilità di poter
parlare in modo libero dei problemi del figlio e anche delle angosce
che il figlio suscita senza dover ricorrere a mezze parole, a frasi
sussurrate, a sottintesi e senza dover dire di fronte al bambino cose
che potrebbero essere per lui traumatiche. Un primo colloquio con i
genitori senza il figlio permette anche di preparare il futuro colloquio
con il bambino cercando di evitare incomprensioni e comunicazioni
sbagliate sul significato degli incontri tra lo psicologo e il bambino
stesso (si veda più avanti, al punto 10).
La seconda caratteristica è che nel primo colloquio con i genitori si
cerca di seguire uno schema di domande che permetta di raccogliere
alcune informazioni utili sostanzialmente standard. Nel testo è poi
messo in luce molte volte che, nella pratica clinica, questo schema
non è rigido, ma sempre adattato in modo flessibile alle necessità del
genitore e del momento. È quindi possibile cambiare la successione
delle domande, soffermarsi più su alcune e meno su altre. Tuttavia,
quando non ci sono particolari motivi per modificare o anche
stravolgere lo schema, è forse utile avere in mente le fasi attraverso le
quali un primo colloquio può svilupparsi.
Riassumendo un po’ la questione, le fasi possono essere ridotte a
dieci.
1. Manovre di apertura e ascolto libero del problema. Lo psicologo
si limita qui a cercare di mettere i genitori a proprio agio e ad
ascoltare quello che hanno da dire, su qualsiasi cosa, ma, di solito,
anche sul loro figlio e sui motivi che li hanno spinti a venire in
consultazione. Può capitare che questa fase sia molto
inconcludente, almeno in apparenza: in ogni caso serve, in realtà,
a costruire una relazione. Può anche capitare, invece, che in questa
fase più libera i genitori forniscano spontaneamente molte delle
informazioni che si sarebbero dovute raccogliere nelle fasi
successive.
2. Focalizzazione del problema. I genitori, all’inizio, parlano del
problema del figlio a modo loro, a volte confusamente, a volte
sottolineando aspetti importanti per loro ma tralasciandone altri
almeno altrettanto importanti. Questa fase serve per mettere un
po’ di ordine, per cercare di capire il problema con un po’ più di
chiarezza.
3. Anamnesi (o storia). Si raccolgono qui le notizie sulla gravidanza,
il parto, le eventuali complicazioni avvenute e le eventuali cure di
cui il bambino ha avuto bisogno, il periodo della degenza in
ospedale, le dimissioni, l’alimentazione e il sonno, le prime tappe
dello sviluppo, la deambulazione autonoma, le prime parole, le
malattie degne di nota e, se ce ne sono state, le cure o le
ospedalizzazioni. Sarebbe bene riservare un momento anche alla
ricostruzione di eventuali disturbi mentali nei due genitori e nelle
loro famiglie.
4. Scuola. Dai tre anni in avanti (a volte anche da prima, ma, al
massimo, dai sei) una parte importante della storia del bambino
coincide con la sua scolarizzazione. Ha frequentato il nido? La
scuola dell’infanzia? Ha avuto problemi di separazione dalle
figure di attaccamento? Ha avuto problemi di inserimento, di
comportamento, o di altro tipo? Come lo descrivevano le maestre?
E, una volta alla primaria, le cose sono cambiate? Andava
volentieri? Legava con gli altri? Apprendeva con facilità o aveva
difficoltà generali o specifiche su alcune materie?
5. Famiglia. Di solito, a questo punto si possono raccogliere notizie
sulla composizione della famiglia, sul lavoro dei genitori, sulla
presenza di fratelli o altri conviventi, sullo stato delle relazioni
all’interno dei vari membri del nucleo.
6. Attività extrascolastiche. La scuola, naturalmente, non è tutto e, in
particolare in questi ultimi anni, è molto frequente che i bambini
svolgano attività anche molto strutturate fuori dalla scuola:
palestre e gruppi sportivi, studio di una lingua o di uno strumento
musicale, corsi di teatro e mille altre cose. Quali attività il
bambino svolge, scelte da chi, con che frequenza, con che
motivazione, con quanto impegno, con quanta sistematicità e con
quali obiettivi possono rappresentare notizie interessanti non solo
dal punto di vista conoscitivo, ma anche per eventuali interventi
futuri. A volte, per esempio, un gruppo sportivo o un gioco di
squadra, se ben organizzato, sono risorse preziose.
7. Socialità e amicizie. La capacità di stare con gli altri, di interagire
in modo costruttivo e soddisfacente, il numero e la qualità delle
relazioni sociali sono elementi diagnostici e prognostici di
notevole importanza che meritano di essere approfonditi prima di
chiudere il primo colloquio.
8. Riassunto. Se c’è il tempo e la possibilità sarebbe bene fare una
semplicissima, provvisoria restituzione di quello che si è capito
del primo colloquio. Questo è importante, perché lo psicologo può
controllare l’accuratezza della sua comprensione e i genitori
possono fare una prima, positiva esperienza di essere stati ascoltati
e compresi. Lo psicologo può riprendere in mano i suoi appunti e
riassumere i punti salienti di ciò che è stato detto, invitando i
genitori a correggerlo nelle parti dove la comprensione non è stata
adeguata e ad aggiungere particolari importanti che lo psicologo
avesse trascurato.
9. Ascolto libero conclusivo. Quest’ultimo aspetto, ovvero la
ricognizione di particolari eventualmente trascurati, si lega alla
possibilità di chiedere esplicitamente ai genitori se hanno
qualcos’altro da aggiungere: qualsiasi cosa, parlando liberamente
come già hanno fatto all’inizio del colloquio. A volte non viene
fuori niente. Altre volte, come nel caso della mamma di Eleonora
nel capitolo 15, possono emergere cose importantissime.
10. Accordi. Prima di congedare i genitori e rischiare che poi questi
portino dallo psicologo il figlio dicendogli che vanno a trovare un
amico o a fare una visita oculistica, è bene prendere accordi il più
precisi possibile. Lo psicologo spiegherà come intende vedere il
bambino, cosa farà con lui, come non sia affatto obbligatorio che
il bambino, fin dal primo momento, resti da solo nello studio: tutto
questo con i modi più tranquillizzanti possibili e con molta
comprensione per le difficoltà che i genitori possono provare
all’idea di consegnare un figlio nelle mani di uno “strizzacervelli”.
I genitori saranno invitati a non raccontare bugie al figlio, ma a
prepararlo adeguatamente a questa consulenza, come si può
vedere in molti casi descritti nel testo.
Un esempio di primo colloquio piuttosto rigoroso e sostanzialmente
standard è riportato nel capitolo 23 con i genitori di Silvia. In molte
altre parti del testo, invece, ci sono esempi che mostrano come il
primo colloquio si modifichi e si adatti alle particolari esigenze dei
genitori che si hanno di fronte: nel capitolo 11, per esempio, le
manovre di apertura sono lunghissime, perché la madre di Lorenzo
non era pronta ad affrontare anche solo l’idea di far vedere il figlio a
uno specialista. Altre volte il primo colloquio è più lungo o più corto a
seconda delle particolari esigenze della situazione: la madre di
Chicco, per esempio, nel capitolo 14, ha bisogno di due sedute,
mentre con la madre di Edo, nel capitolo 24, tutto si svolge molto più
rapidamente.
AUTOSTIMA
L’autostima può essere definita come l’immagine di sé e dipende dal
rapporto tra due fattori. Il primo fattore è il successo personale che
ciascuno, nei più diversi campi, riesce a ottenere. Per questo motivo,
non esiste in realtà una autostima, ma ne esistono molte: in età
evolutiva, per esempio, esiste l’autostima scolastica, interpersonale,
emozionale, famigliare, corporea, di controllo sull’ambiente. Tuttavia,
c’è un secondo fattore, importantissimo, che contribuisce a
determinare l’autostima: si tratta delle aspettative, a loro volta legate
anche alla capacità di accettare un certo tasso di insuccesso. Nel
capitolo 23 è illustrato il rapporto tra successo e aspettative nel
determinare l’autostima: nel senso che essa cresce con l’aumentare
delle esperienze di successo, ma tende a calare se le aspettative sono
troppo alte e irrealistiche. Non è un caso che il capitolo 23 venga
citato per primo, dal momento che si occupa del Disturbo depressivo:
la depressione è infatti strettamente legata a una immagine negativa di
sé.
Tuttavia in moltissimi capitoli è possibile ritrovare questo concetto,
importantissimo in quasi tutta la psicopatologia dello sviluppo. Nella
sezione dedicata alle patologie dell’intelligenza è spesso evidenziato
come un abbassamento dell’autostima sia un rischio sempre in
agguato per questi bambini e come adeguate strategie cognitivo-
comportamentali di intervento possano ridurre questo rischio.
Osservazioni analoghe vengono fatte nella sezione dedicata al
Disturbo specifico dell’apprendimento. Sembra in effetti ormai chiaro
che l’importanza data dalla maggior parte degli interventi cognitivo-
comportamentali agli aspetti positivi del bambino contribuiscono
proprio a prevenire cadute eccessive dell’immagine di sé. Anche nella
sezione dedicata ai Disturbi d’ansia (e al Disturbo d’ansia sociale in
modo particolare) è spesso illustrato come una particolare attenzione
all’autostima possa favorire il processo di cambiamento terapeutico.
pag. 563
Disturbi autistici
Disturbo autistico: v. capitolo 5
DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo dello spettro dell’autismo
(F84.0)
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Autismo infantile (F84.0)
LA STORIA DI MAURIZIA
Sembra una danza: Maurizia, sulle punte dei piedi, ruota su sé stessa e
muove le mani e le dita delle mani davanti agli occhi ritmicamente, e i suoi
movimenti hanno qualcosa di magico.
Ma non è una danza. Bastano purtroppo pochi secondi per capirlo.
Maurizia ha quasi quattro anni, è la prima volta che ci vediamo e invece di
salutarmi, o almeno sorridermi, o anche solo guardarmi, o magari
spaventarsi per la mia presenza o per la novità del luogo in cui si trova, gira
su sé stessa in mezzo alla stanza, tra la mia scrivania e la parete di fronte, lo
sguardo fisso in avanti, come se non vedesse nulla o nulla le interessasse,
forse al di fuori di quelle mani mosse in modo stereotipato, sempre,
ossessivamente uguale, e come se non sentisse nulla: certamente non me
che provo a chiamarla, che la invito ad avvicinarsi o almeno a guardarmi o
a interessarsi a qualcuno degli oggetti che le mostro; ma neppure la madre
che è lì vicino a lei e cerca di interromperla per attirare la sua attenzione e
assume intanto, con il passare dei secondi che sembrano pesantissime ore,
un’espressione sempre più angosciata, mentre alterna occhiate alla bimba e
a quel suo comportamento così strano, e a me, forse per spiare se nel mio
sguardo c’è già riprovazione, fastidio, angoscia, magari già una diagnosi
formulata e non favorevole per la figlia.
La mamma è venuta al primo appuntamento portando per sbaglio anche
la bambina, perché io di solito programmo un primo colloquio alla
presenza dei soli genitori; per sbaglio, oppure perché provava il bisogno
impellente di portarla da me, forse l’ansia di una prima risposta. Mi mostra,
infatti, una cartella gonfia di referti medici e mi dice che l’ultimo
neuropsichiatra che ha interpellato le ha detto che Maurizia è autistica,
mentre il pediatra l’aveva in precedenza tranquillizzata, dicendole che si
trattava soltanto di un ritardo del linguaggio, che la bambina era un po’
indietro ma sarebbe maturata, che avrebbe dovuto seguire una terapia del
linguaggio e piano piano avrebbe cominciato a parlare…
pag. 49
pag. 236
pag. 6
RINFORZAMENTO DIFFERENZIALE
Alla voce estinzione, nel capitolo 11, è chiaramente detto che questa
tecnica non si dovrebbe mai usare da sola. Usare l’estinzione da sola
non è soltanto difficilissimo ma, talvolta, addirittura impossibile. È
cattivo nei confronti del bambino. Estinguere significa eliminare i
rinforzatori, e nessuno può vivere senza rinforzatori. Senza
rinforzatori primari, letteralmente, si muore. Ma non vale l’obiezione
che tanto i rinforzatori primari non sono mai usati né
nell’insegnamento né nella psicoterapia. Il problema è che, anche
senza rinforzatori secondari, muore qualcosa: la motivazione, la
relazione, la fiducia nelle proprie capacità. Per questo l’estinzione è
cattiva: perché sottrae rinforzatori. Per questo andrebbe sempre usata
insieme al rinforzamento differenziale. Perché il rinforzamento
differenziale consiste nel restituire al bambino i rinforzatori che
l’estinzione gli ha tolto.
Naturalmente non si dovranno restituire al bambino i rinforzatori
quando emette comportamenti inadeguati, perché in questo modo si
vanificherebbero i risultati dell’estinzione. Però si potrà rinforzare il
bambino quando si comporta bene (in questo caso si parla di DRA,
acronimo inglese che sta per rinforzamento differenziale dei
comportamenti adeguati); oppure quando non si comporta male (in
questo caso si parla di DRO: rinforzamento differenziale dei
comportamenti alternativi); oppure quando emette comportamenti che
gli impediscono di comportarsi male (in questo caso si parla di DRI:
rinforzamento differenziale dei comportamenti incompatibili).
Nel testo è possibile vedere un esempio di rinforzamento differenziale
dei comportamenti adeguati nel capitolo 3, quando l’educatrice
insegna a Michela ad andare al supermercato senza fare capricci
continui. È possibile vedere un esempio di rinforzamento differenziale
dei comportamenti alternativi nel presente capitolo, quando lo
psicologo rinforza con la sua attenzione Maurizia ogni volta che non
si isola e non fa giochi stereotipati. Infine, è possibile vedere un
esempio di rinforzamento differenziale dei comportamenti
incompatibili nel caso di Lorenzo, nel capitolo 11, quando il bambino
viene rinforzato per ogni comportamento, anche verbale, in cui mostri
di non avere più troppa paura di avvicinarsi al lettino.
I principi del rinforzamento differenziale possono essere insegnati
anche ai genitori: nel capitolo 15, per esempio, il papà e la mamma di
Eleonora imparano che possono aiutare la figlia a superare l’ansia
rinforzando la sua autonomia e i suoi comportamenti orientati ad
affrontare le situazioni.
Sono per lo più flash di qualche secondo e poi subito la fuga, il ritiro dentro
di sé, la saracinesca che si abbassa di nuovo. La durata dell’attenzione, in
queste prime sedute, può essere paragonata a quella di un bambino con
Disabilità intellettiva Grave, ma la qualità è profondamente diversa.
Quando, alla quarta seduta, riesco a farla disegnare, la mia considerazione è
la stessa. Provate a confrontare il disegno della figura umana3 di un
bambino con Disabilità intellettiva (vedi fig. 2, Tavole a colori): sembra
quello di un bambino più piccolo, ci sono meno particolari e più
imperfezioni; è spesso un disegno povero: pochi colori, nessun movimento,
nessuno sfondo; nient’altro. Invece il disegno di Maurizia è del tutto
diverso (vedi fig. 3, Tavole a colori): non è la carenza di particolari, o di
colori, o di precisione del tratto a colpire. È la qualità generale e
complessiva a essere sorprendente, inquietante, angosciosa. L’intero foglio
è riempito. In un angolo, con un po’ di buona volontà, si riesce a
riconoscere una specie di figura umana: una grande testa, due grandi occhi
vuoti e due piccoli stecchi che potrebbero essere le gambe. Poi c’è di tutto.
Tentativi di riempire le forme con colori che escono fuori dai margini, linee
orizzontali e verticali da ogni parte del foglio che finiscono per coprire
anche quella povera figura umana, altre macchie di colore qua e là. È questo
che intendo con qualità diversa: nel bambino deficitario l’attenzione è
breve e il disegno povero. L’attenzione di Maurizia, quando scatta, dà
l’impressione di poter durare chissà quanto e di portare a chissà quali
risultati, poi, improvvisamente, scompare imprevedibile come era arrivata.
Altrettanto imprevedibile è il suo disegno, che in certi momenti potrebbe
anche diventare bello o per lo meno suggestivo se poi Maurizia non
decidesse d’un tratto di prendere una matita nera o rossa e ricoprirlo tutto
con una specie di grande scarabocchio.
Dopo quattro sedute fisso di nuovo un appuntamento con i genitori.
Stavolta viene anche il padre. Ha subito un atteggiamento aggressivo, come
se volesse mettere le mani avanti, avvertirmi che non è disposto a sentire
certe cose su sua figlia. D’altra parte, me lo dice poi anche chiaramente.
L’hanno vista mille medici e non hanno rilevato nulla. Il pediatra (“l’unico
che ci capisce qualcosa”) ha detto che la bambina ha solo un ritardo del
linguaggio, che forse dovrà fare un po’ di logopedia e basta. Cose simili
hanno detto anche alcuni neuropsichiatri infantili, magari aggiungendo che
la bambina ha qualche difficoltà di relazione, e questo forse è vero –
commenta il padre – perché anche quando la portano ai giardini pubblici
tende a giocare da sola, a starsene in disparte, a non cercare gli altri
bambini. Chi, invece, i genitori proprio non hanno mandato giù è stato un
neuropsichiatra che, dopo aver visto la bambina un paio di volte, ha detto
loro, in faccia, che è autistica. Questo è inaccettabile: Maurizia non parla e
qualche volta, soprattutto con chi non la conosce, ha qualche
comportamento strano, ma ha anche molte doti, per esempio ha
un’incredibile memoria (il padre non mi spiega in base a cosa possa dire
questo), è attentissima e interessatissima a molti programmi televisivi e
bravissima nell’esecuzione di puzzle.
Date queste premesse, mi sembra prematura una mia restituzione4 e, a
maggior ragione, una mia diagnosi. Mi limito dunque ad ascoltare, a fare
qualche commento generico. La madre tace per quasi tutta la seduta. Ha
un’espressione dolorosa. Da come guarda il marito sembra combattuta tra la
speranza che quello che dice sia vero e il timore che si spinga troppo in
avanti, fino a suscitare in me una reazione negativa. Penso che poche cose
al mondo le farebbero male come se io interrompessi il marito per dirgli che
non credo a quello che sta raccontando, che il pediatra si è sbagliato, che la
loro figlia ha ben altro che un ritardo del linguaggio…
Io mi aggancio invece a due affermazioni del padre: che la bambina dà il
meglio di sé dopo un po’ che la si conosce e che è molto brava nei puzzle.
Così propongo ai genitori di non affrettare le conclusioni, di vederla ancora,
magari con i puzzle che è abituata a fare, in modo che io possa osservarla
quando gioca con oggetti che le sono abituali.
I genitori accettano e, soprattutto la madre, sembrano sollevati da questa
specie di tregua.
Così, la volta successiva Maurizia arriva con un sacco che contiene i
pezzi di un puzzle molto grande, di plastica, con ogni tessera che misura
una ventina di centimetri. Il suo comportamento, all’inizio, ha qualcosa di
sconvolgente, soprattutto se paragonato con quanto il padre mi aveva detto.
Tira fuori lentamente e meccanicamente tutti i pezzi, che poi sono solo sei,
e li dispone davanti a sé. Quindi si ferma, silenziosa e assente, immersa nel
suo mondo. Infine prende una tessera del puzzle che ha un buco al centro.
Tutto questo avviene con una lentezza indicibile. Guarda la tessera come se
fosse la prima volta che la vede. La mette intorno al collo e ci gioca in
modo stereotipato a lungo, come se fosse una collana, di nuovo con quello
sguardo perso. Emette gridolini e altri vocalizzi sempre in modo ripetitivo e
stereotipato. Non riesco a calcolare né a ricordare quanto tempo passi così
(secondi? minuti?), ma so che mi è più che sufficiente per pensare che
Maurizia è ancora più grave di come avevo ipotizzato e che anche il padre,
se è arrivato a raccontarmi quello che mi ha raccontato e a portarmi la
bambina con quel puzzle sperando di dimostrarmi chissà che cosa, deve
essere ormai un po’ fuori dalla realtà. Poi, all’improvviso, Maurizia mi
guarda, e già questo ha dell’eccezionale perché non credo di aver mai visto
un contatto oculare spontaneo nella bambina. È uno sguardo intenso che
accompagna l’inizio della disposizione di qualche pezzo al punto giusto:
con intervalli infiniti tra l’uno e l’altro. Alla fine, un’ultima sorpresa:
un’accelerazione improvvisa e il puzzle si completa, in un modo che
sembra miracoloso.
RICERCHE
Forse il Disturbo dello spettro dell’autismo è, tra tutti i disturbi mentali in
età evolutiva, il più studiato eppure ancora il più misterioso. Tuttavia, la
ricerca ha cominciato a fare un po’ di luce almeno su alcuni aspetti, che qui
di seguito cercherò di illustrare in forma molto sintetica.
Prima di tutto, il Disturbo dello spettro dell’autismo non è in alcun modo
causato da una distorta relazione madre-bambino. Ho visto troppe volte
papà sconvolti e mamme in lacrime dopo un colloquio con lo “specialista”
di turno, che non trovava niente di meglio da fare che aggiungere al
dramma dei genitori di avere un figlio autistico il dramma di dar loro la
colpa. Per questo esprimo in modo così netto e perentorio questo punto di
vista: i comportamenti dei genitori non sono responsabili della genesi del
Disturbo dello spettro dell’autismo. La ricerca, più cautamente, si esprime,
di solito, sostenendo che non vi sono prove a favore di questa ipotesi della
cosiddetta “madre frigorifero” che, con la sua freddezza relazionale,
sarebbe la responsabile prima del disturbo del bambino. Si tratta di un’idea
inverosimile, bizzarra e crudele, che, tuttavia, ha avuto notevole credito per
decine di anni negli ambiti della psicologia e della neuropsichiatria infantile
e che ancora oggi, nonostante tutto, appare dura a morire.
L’idea è prima di tutto inverosimile: avete mai visto un bambino con
Disturbo dello spettro dell’autismo? Davvero si può pensare che una
devastazione così grave, pervasiva e complessa possa essere determinata da
una modalità di relazione? Poi è bizzarra: come può mai venire in mente
una cosa del genere? Poi è crudele: quanti danni saranno stati causati dal
senso di colpa dei genitori che un pregiudizio di questo genere
necessariamente produce? Infine è falsificata sistematicamente dalla
ricerca, secondo la quale tutte le prove finora accumulate vanno proprio
nella direzione contraria a questa ipotesi (McAdoo e De Myer, 1978; De
Meyer, Hingtgen e Jackson, 1981; Jordan e Powell, 1997; Schopler e
Mesibov, 1998; Surian, 2001) e ormai molti studi si indirizzano verso
analisi sempre più raffinate delle cause genetiche della malattia (Weiss e
Arking, 2009; Rosenberg et al., 2009).
I Disturbi dello spettro dell’autismo sembrano ormai essere determinati
da fattori biologici. Solo a titolo esemplificativo cito a questo proposito i
lavori di: Cannell e Grant (2013) che hanno studiato l’associazione tra
anomalie dell’interazione sociale e bassi livelli di serotonina nel cervello e
di vitamina D, frequenti nei soggetti autistici; Siniscalco, Bradstreet, Cirillo
e Antonucci (2014) che hanno osservato che un enzima, il nagalese, in un
campione di 400 bambini affetti da autismo, presentava nell’80% dei casi
livelli significativamente elevati; Patrick e Ames (2014) che hanno studiato
la correlazione tra disordini autoimmuni e manifestazioni del Disturbo dello
spettro dell’autismo.
Inoltre si osserva spesso nell’anamnesi di questi bambini la presenza di
rosolia materna durante la gravidanza o convulsioni nei primi mesi di vita.
Si riscontrano con frequenza anomalie neurobiologiche come la persistenza
di riflessi primitivi, segni neurologici lievi, positività varie
all’elettroencefalogramma, alla tomografia assiale computerizzata e alla
risonanza magnetica. Con il procedere della ricerca in questi campi, si
scoprono sempre più facilmente problemi legati a generali condizioni
negative neonatali e ostetriche e associazioni con patologie specifiche come
la fenilchetonuria, la sclerosi tuberosa, la sindrome dell’X-fragile
(Courchesne et al., 1994; Bayley et al., 1996; Kau et al., 2001; Surian,
2001; Cannell e Grant, 2013).
Quest’ultimo caso è particolarmente emblematico e clamoroso. La
sindrome dell’X-fragile, infatti, è stata descritta alla fine degli anni Sessanta
del XX secolo, ma solo agli inizi degli anni Ottanta cominciarono a
svilupparsi strumenti adeguati di diagnosi, che impiegarono ancora del
tempo per diventare esami di routine (Wilson, Stackhouse, O’Connor,
Schrfenaker e Hagerman, 1999). Mi è così successo più di una volta, nella
mia pratica professionale, di vedere bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo sui quali specialisti affezionati alle ipotesi eziologiche della
relazione madre-bambino esercitavano tutta la loro “scienza” interpretativa.
Indimenticabile il caso del bambino autistico le cui iniziali del nome erano
O. O. Lo specialista mi fece dottamente notare la “vuota specularità” di
queste iniziali, il profondo senso del nulla che emanavano quelle due lettere
che, “comunque orientate, non davano altro valore che lo zero”. Questo era
chiaramente il segno di un abisso psicotico di cui i genitori, che avevano
scelto il nome del bambino, erano in qualche modo responsabili… Oggi O.
O. ha vent’anni, un’analisi del DNA eseguita un paio di anni fa ha permesso
di porre una diagnosi di X-fragile, ma nessuno potrà risarcire i genitori delle
sofferenze generate da certe interpretazioni (per una discussione su
comorbilità e differenze tra autismo e X-fragile, si veda Abbeduto,
McDuffie e Thurman, 2014).
Se ci fosse ancora bisogno di altre prove, è stato anche dimostrato che la
frequenza di disturbi psicopatologici nei genitori dei bambini autistici è
uguale a quella che si riscontra nelle famiglie di bambini con altri problemi
di sviluppo (Cottini, 2002; Favorini e Bocci, 2008). Appare ormai evidente,
anche alla luce della prospettiva genomica nello studio delle cause del
Disturbo delle spettro dell’autismo (Connolly e Hakonarson, 2014), che la
famosa e famigerata distorsione nella relazione madre-bambino non è la
causa di questo disturbo, ma semmai l’effetto, nel senso che avere un figlio
con i gravi problemi comportamentali tipici dell’autismo può esercitare
un’influenza negativa profonda sulla famiglia.
D’altra parte, a contribuire alla falsificazione di questa ipotesi c’è il fatto
che piuttosto raramente un Disturbo dello spettro dell’autismo si riscontra
in altri fratelli, mentre i gemelli monozigoti hanno maggiori probabilità sia
dei fratelli sia dei gemelli dizigoti di presentare entrambi un Disturbo dello
spettro dell’autismo (Piven e Folstein, 1994). Anche questo dovrebbe farci
riflettere. Sembra davvero difficile ipotizzare che una madre possa essere
“frigorifero” con un figlio e non con un altro, e ancora più difficile pensare
che il suo comportamento possa essere così diverso nei confronti di due
gemelli se sono dizigoti e più simile se invece sono monozigoti! Emerge
qui, una volta di più, la forza dell’ipotesi genetica nell’eziologia del
Disturbo dello spettro dell’autismo. D’altra parte, ricerche molto recenti
sembrano indicare che il disturbo è più frequente tra i figli di ingegneri che
nella popolazione generale. Mettiamo allora subito le mani avanti prima che
a qualcuno venga in mente, appena accantonata l’ipotesi della madre-
frigorifero, di tirare fuori quella del padre-frigorifero. Sembra decisamente
più ragionevole pensare che esistano geni non dominanti che possono, in
alcuni casi, essere causa dell’autismo e in molti altri influenzare
semplicemente alcuni interessi e alcune scelte professionali.6
Credo che si potrebbe mettere una definitiva pietra tombale su questa
discussione con le parole conclusive che, già più di vent’anni fa, si
potevano leggere sul DSM-III (American Psychiatric Association, 1983,
pag. 103) a proposito dell’eziologia del Disturbo Autistico: “Nel passato, si
era ipotizzato che certi fattori familiari e interpersonali potessero
predisporre allo sviluppo di questa sindrome, ma studi più recenti non
accreditano questo punto di vista”. Tordjman et al. (2014) discutono a
questo proposito il ruolo dell’epigenetica e dell’interazione gene-ambiente
nell’eziologia del disturbo.
Sgombrato il campo dalle mistificazioni eziologiche, vale la pena di
soffermarsi su due importanti contributi della ricerca: la prevalenza e la
comorbilità. Sul primo i dati sono per certi aspetti impressionanti: si pensi
che negli anni Ottanta del secolo scorso si parlava di una prevalenza intorno
a 2-5 casi su 10000 soggetti, come si può leggere nelle passate edizioni del
DSM, mentre la stima oggi riportata dal DSM-5 si avvicina all’1% della
popolazione (si veda a questo proposito anche Baird et al., 2006). Non è
chiaro, tuttavia, se questi dati indichino un aumento reale dei disturbi
autistici o dipendano invece da una maggiore attenzione alle procedure di
diagnosi. Per quanto riguarda il secondo contributo, invece, appare sempre
più evidente il ruolo primario dei sintomi cognitivi (Hughes, Russel e
Robbins, 1994; Russell, 1997; Morton e Frith, 1994), ma la ricerca di questi
ultimi anni ha messo in luce anche la comorbilità tra Disturbi dello spettro
dell’autismo e, nell’ordine, Disturbi d’ansia, Disturbi dell’umore e
schizofrenia (Skokauskas e Gallagher, 2009).
Il DSM-5 riporta che circa il 70% di individui con Disturbo dello spettro
dell’autismo è affetto da almeno un disturbo mentale concomitante, in
particolare Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo dello
sviluppo della coordinazione, Disturbi d’ansia, Disturbi depressivi.
Rybakowski et al. (2014) osservano in un’ampia rassegna su epidemiologia,
sintomi, comorbilità e diagnosi come il Disturbo dello spettro dell’autismo,
nell’inquadramento fatto dal DSM-5, ha sostituito e riassunto in sé il
disturbo autistico, la sindrome di Asperger, il disturbo disintegrativo e il
disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato. Le due
dimensioni psicopatologiche fondamentali del Disturbo dello spettro
dell’autismo sono i disturbi di comunicazione e i comportamenti
stereotipati, la cui diagnosi è completata attraverso la valutazione dello
sviluppo del linguaggio e del livello intellettivo. Gli autori riportano che
negli studi epidemiologici successivi a questo tipo di inquadramento
diagnostico la prevalenza del disturbo risulta in aumento, attualmente
stimata attorno all’1% della popolazione generale. Nella maggior parte dei
pazienti si osserva comorbilità. Per la diagnosi rimangono elementi
fondamentali e imprescindibili le interviste strutturate e le liste di
comportamenti da osservare in modo sistematico.
Negli ultimi decenni molte ricerche si sono concentrate sullo studio della
comorbilità tra Disturbo dello spettro dell’autismo e Disturbi d’ansia. I
principali risultati emersi hanno evidenziato come, accanto ai sintomi
caratteristici del Disturbo dello spettro dell’autismo, oltre un 50% dei
bambini soddisfava anche i criteri diagnostici per un Disturbo d’ansia (Van
Steensel et al., 2011). L’ansia può causare in questi bambini un disagio
acuto, può amplificare il nucleo dei sintomi del Disturbo dello spettro
dell’autismo e innescare difficoltà comportamentali, come aggressività e
autolesionismo.
Partendo da questo punto di vista, un gruppo di numerosi studiosi (Hallett et
al., 2013) ha voluto esplorare la frequenza dei sintomi d’ansia nei soggetti
con questo disturbo e il rapporto esistente tra ansia e altri comportamenti
problematici. Lo studio si è concentrato su un campione di 415 bambini con
Disturbo dello spettro dell’autismo, di età compresa tra i 4 e i 17 anni. Per
la raccolta dei dati sono stati usati strumenti come il test per la rilevazione
del QI, insieme ad anamnesi mediche, psichiatriche e questionari per i
genitori. Per la raccolta dei sintomi d’ansia sono stati somministrati il
“Child and Adolescent Symptom Inventory” e il “CASI- Anxiety Scale”,
utilizzato quest’ultimo per differenziare il tipo di ansia (fobia specifica,
fobia sociale, ansia da separazione). I risultati emersi dalla ricerca hanno
mostrato che punteggi più alti della scala CASI sono associati a soggetti
con un QI di 70 o superiore, con elevati livelli di linguaggio e presenza di
irritabilità e iperattività, in accordo con le ipotesi iniziali.
Un altro studio che ha indagato la presenza di comorbilità tra questi due
disturbi è stato svolto da Renno e Wood (2013) su un campione di 88
bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo, in età compresa tra i 7 e
gli 11 anni. Per la raccolta dei dati sono stati somministrati il
“Multidimensional Anxiety Scale for Children-Child and Parent” e
l’“Anxiety Disorders Interview”, un’intervista semistrutturata per i genitori
di questi bambini. I risultati emersi mostrano che i sintomi d’ansia
manifestati dai soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo sono
analoghi a quelli che si verificano nei bambini a sviluppo tipico; questo
conferma quindi che la gravità del disturbo non correla con la gravità e la
manifestazione del Disturbo d’ansia.
Da queste ricerche emerge pertanto che questi bambini sono vulnerabili
nel sviluppare un Disturbo d’ansia. Partendo da questa premessa, Rodgers,
McConachie, Glod e Connolly (2012) hanno ipotizzato che i
comportamenti ripetitivi e stereotipati, caratteristica tipica dei soggetti con
questi disturbi, siano in relazione a esperienze d’ansia vissute dai bambini
stessi. Per sostenere questa ipotesi iniziale, hanno esaminato i
comportamenti ripetitivi e l’ansia in 67 bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo, suddividendoli poi in due gruppi: quelli con elevati livelli di
ansia e quelli con più bassi livelli di ansia. Per la raccolta dei dati sono stati
utilizzati due tipi di strumenti: il “Repetitive Behaviours Questionnaire” per
misurare i comportamenti ripetitivi, e lo “Spence Children’s Anxiety Scale-
Parent Version”
Si deve anche tener conto del fatto che il profilo cognitivo di questi
bambini può essere particolarmente irregolare (House, 1991). A volte, a
fronte di gravi cadute nelle abilità verbali, si hanno sorprendenti abilità di
problem solving. D’altra parte, se è vero che vi sono bambini autistici del
tutto incapaci di usare il linguaggio verbale, o con un linguaggio così
bizzarro, pieno di ecolalie, manierismi e stereotipie, da essere praticamente
inutilizzabile a fini comunicativi, è anche vero che ve ne sono altri con un
linguaggio ben sviluppato, ma incapaci di entrare in relazione con gli altri.
Ha così cominciato a svilupparsi una teoria, oggi nota come teoria della
mente, che tenta di spiegare molte di queste anomalie relazionali a partire
da un’interpretazione cognitiva. L’espressione “teoria della mente” indica la
capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri (Surian e Frith,
1993; Baron-Cohen, 1997; Frith, 2008; Baron-Cohen, Golan e Ashwin,
2009). È grazie a questa capacità che noi siamo in grado di comunicare con
i nostri simili, di provare empatia, di immaginare il punto di vista degli altri,
e pare che sia proprio questa capacità a mancare alle persone autistiche. Un
esempio banale, ma che mi sembra chiarificatore. Se qualcuno seduto a
tavola vicino a me mi chiede: “Ti dispiace passarmi il sale?”, io
probabilmente prenderò il sale e glielo darò. Questo dipende dal fatto che io
ho la capacità di “leggere” nella mente dell’altro le sue presumibili
intenzioni, i suoi bisogni e i suoi desideri. Ovviamente questa capacità non
è completa, ma nell’esempio che ho fatto è sufficiente a farmi capire che la
domanda “Ti dispiace passarmi il sale?” va interpretata alla luce del fatto
che probabilmente l’altro vuole un po’ di sale. Così io vado oltre il
significato letterale della frase e ne comprendo il significato vero. Il
paziente autistico, invece, risponderà “sì”, oppure “no” alla domanda, e a
quel punto si fermerà a causa della sua incapacità di mettersi nei panni
dell’altro. Tutto questo è stato messo alla prova con ricerche rigorose, per
esempio sulla falsa credenza, che sembrano dimostrare, nei pazienti con
Disturbo dello spettro dell’autismo, gravi difficoltà di
metarappresentazione7 (Leslie e Frith, 1990; Frith, 1991; Eales, 1993;
Charman e Baron-Cohen, 1992, 1995; Surian e Leslie, 1999; Bloom, 2000;
Melot e Angeard, 20038). Essi non sanno pensare sui pensieri, e questo li
rende “ciechi” nei confronti dei pensieri degli altri. Di qui le carenze tipiche
dei bambini autistici, per esempio nel gioco simbolico, che presuppone la
capacità di condividere con altri il fare finta che un oggetto sia qualcosa di
diverso (“Facciamo finta che questa scatola sia la nave dei pirati”), le
difficoltà di comunicare, di persuadere, anche di ingannare o semplicemente
di giocare a “indovina in che mano è nascosto un oggetto” (San José
Cáceres, Keren, Booth e Happé, 2014), di fare amicizia con gli altri e di
identificarsi con loro. In breve, le carenze di socializzazione, di
comunicazione e di immaginazione che sono tra i sintomi più tipici del
disturbo. A ulteriore conferma della centralità di tali problematiche nel
Disturbo dello spettro dell’autismo, spesso si riscontra in questi bambini un
deficit nell’attenzione condivisa (joint attention), cioè nella capacità di
stabilire con un’altra persona un comune fuoco attentivo (Adamson e
McArthur, 1995). Una carenza in tale capacità può pregiudicare lo sviluppo
di altre abilità socio-comunicative, come la comprensione delle emozioni,
dei desideri e delle credenze dell’altro e, successivamente, la lettura delle
motivazioni e intenzioni altrui. Emerge qui di nuovo il problema della
“teoria della mente” nell’autismo e il fatto che certe capacità metacognitive
risultino deficitarie in questi pazienti. In linea con questa tesi, interessanti
ricerche (Whalen e Schreibman, 2003; Whalen, Schreibman e Ingersoll,
2006) hanno messo in luce come un training sull’attenzione condivisa, oltre
a produrre effettivi miglioramenti in quest’area, generi cambiamenti
collaterali in altre aree dello sviluppo socio-comunicativo, quali l’iniziativa
sociale, gli affetti positivi, l’imitazione, il gioco e le vocalizzazioni
spontanee. Frank, Baron-Cohen e Ganzel (2014) sostengono che ci sono
prove crescenti che le donne abbiano una “teoria della mente” più
sviluppata (si veda la nota 6 di questo capitolo) e di conseguenza maggiori
capacità empatiche. I loro studi suggeriscono diversità anche neurali del
cosiddetto cervello maschile (meno empatico sia sul piano cognitivo che su
quello affettivo e meno adatto a un ragionamento tipico della “teoria della
mente” che permette di lavorare in modo adeguato sulla falsa credenza).
Sempre secondo questi autori, caratteristiche simili si trovano nei pazienti
con Disturbo dello spettro dell’autismo. Kimhi, Shoam-Kugelmas, Agam
Ben-Artzi, Ben-Moshe e Bauminger-Zviely (2014) mostrano come i
bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo abbiano difficoltà di “teoria
della mente” associate a difficoltà nelle funzioni esecutive in confronto a
bambini con sviluppo tipico, e mettono in evidenza come questo abbia
importanti ricadute negative nei bambini autistici per quanto riguarda le
loro capacità cognitive e sociali.
Accanto a questa carenza, è stata ipotizzata anche una difficoltà a
cogliere gli aspetti generali di una situazione, per fermarsi sempre a livello
di dettaglio. Questa ipotesi prende il nome di teoria della coerenza centrale
e suppone, appunto, che i soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo
abbiano specifiche inadeguatezze cognitive nel dare risposte adatte al
contesto e incontrino difficoltà nell’integrare informazioni a differenti
livelli (Frith e Happè, 1994; 1999; Happè, 1994, 1996; Colombi, Brighenti
e Celi, 2001; Frith, 2008; Frith, 2012; Mammarella, Giofrè, Caviola,
Cornoldi e Hamilton, 2014). Essi tendono ad analizzare dettaglio per
dettaglio invece di cogliere l’impressione generale di una situazione, e
questo può spiegare molte caratteristiche del disturbo, come la presenza di
alcune strane isole di abilità. Talvolta si riscontrano in questi bambini, in
difficoltà in mille campi, una memoria sorprendente o una straordinaria
abilità nella costruzione dei disegni coi cubi; sono gli stessi bambini che
poi, posti di fronte a prove di comprensione o di riordinamento di storie
figurate evidenziano gravi deficit. La “teoria della coerenza centrale” è stata
più volte messa alla prova in ricerche sperimentali che hanno, peraltro, dato
esiti contrastanti. In queste ricerche si misurava l’abilità di riconoscere,
individuare e ricordare figure nascoste all’interno di altre figure più
complesse. I soggetti autistici mostravano spesso un’abilità superiore nello
svolgere questo compito, di solito molto difficile per i soggetti normodotati,
probabilmente proprio perché, per loro, le figure non erano poi così
nascoste come noi crediamo: il contesto che le dovrebbe nascondere, infatti,
viene per lo più ignorato dagli autistici. In altre parole, molti esperimenti
tendono a dimostrare che questi soggetti non si fanno influenzare dal
significato dell’insieme, il che rende alcune loro prestazioni, nelle quali è
necessaria la capacità di prescindere dal contesto e di concentrarsi
sull’analisi del particolare, superiori a quelle di soggetti normali di pari età.
Naturalmente però, nelle situazioni ben più frequenti dove è necessario
usare le indicazioni che provengono dal contesto per prendere decisioni,
comportarsi correttamente e relazionare in modo adeguato, queste persone
mostrano tutte le loro difficoltà e le loro bizzarrie.
“Teoria della mente” e “teoria della coerenza centrale” non sono
necessariamente in antitesi, ma possono anzi convivere (Frith, 2012). È, per
esempio, possibile ipotizzare come determinate carenze nella capacità di
utilizzare il contesto rappresentino un particolare stile cognitivo analitico
(opposto a uno stile globale) che si situa lungo un continuum. A un estremo
c’è anche l’incapacità di tener conto dei pensieri e dei punti di vista degli
altri, mentre nelle zone intermedie si possono collocare soggetti
praticamente normali, ma molto concentrati sui dettagli e poco empatici.9
Vedremo meglio nel prossimo capitolo le conseguenze, sul piano clinico, di
questo punto di vista.
pag. 13
pag. 69
pag. 6
pag. 402
pag. 6
pag. 236
pag. 69
pag. 41
pag. 34
pag. 258
pag. 259
ANALISI DEL COMPITO
Quando un compito è troppo complesso per essere insegnato tutto in
una volta, può essere analizzato e scomposto nelle sue parti semplici.
In questo modo è poi possibile programmare un intervento nel quale
si insegnano al paziente, una dopo l’altra, le singole parti del compito.
Per esempio, l’abilità che vorremmo insegnare a un bambino con
Disabilità intellettiva è quella di lavarsi i denti da solo. Può darsi che
si tratti di un’abilità troppo difficile per il bambino, che infatti non è
mai riuscito a impararla in modo tradizionale, come fanno i coetanei:
cioè osservando un adulto che si lava i denti, ascoltando le sue
istruzioni e provando. In questo caso possiamo usare l’analisi del
compito. Il compito “lavarsi i denti” è scomposto in tanti piccoli passi
(detti anche sotto-obiettivi).
I passi possono essere, per esempio:
• andare in bagno;
• avvicinarsi al lavandino;
• aprire il rubinetto;
• prendere lo spazzolino
Il vantaggio di questa procedura è che è più facile insegnare a un
bambino in difficoltà ad andare in bagno che a lavarsi i denti. È più
facile insegnargli ad avvicinarsi al lavandino che a lavarsi i denti. E
così via.
Un altro vantaggio molto importante è che l’analisi del compito
permette di ottenere subito, anche con bambini difficili, risultati
positivi e questo aumenta la possibilità di usare il rinforzamento e di
aumentare così la motivazione. Possiamo vedere, nel testo, moltissimi
esempi di analisi del compito. Tra questi, cito le tecniche usate
dall’educatrice di Michela nel capitolo 3 per insegnarle a svolgere
semplici mansioni in cucina e quelle che hanno permesso a Maurizia,
nel presente capitolo, di imparare a lavarsi le mani.
Nel presente capitolo c’è un ulteriore esempio di uso dell’analisi del
compito per favorire lo sviluppo della capacità di comprendere gli
stati mentali degli altri. Questo è importante, perché ci mostra che
l’analisi del compito non serve solo per l’insegnamento delle
autonomie nei bambini con Disabilità intellettiva. Può servire anche
per consolidare abilità di lettura o di matematica in bambini con
Disturbo specifico dell’apprendimento, come si può vedere nei
capitoli 7 e 8.
Può servire persino in approcci psicoterapeutici con bambini con
Disturbi d’ansia: nel capitolo 14, per esempio, l’analisi del compito
serve per portare gradualmente Chicco a tornare in classe,
programmando piccoli obiettivi a difficoltà crescente.
pag. 402
pag. 30
pag. 13
pag. 562
pag. 83
pag. 258
pag. 13
PROGNOSI
Oggi Maurizia frequenta la quarta classe della scuola primaria.
Naturalmente ha un insegnante di sostegno dedicato a lei e dubito che,
senza questo aiuto, sarebbe in grado di frequentare regolarmente la scuola.
Ha imparato a usare alcune parole con fini chiaramente comunicativi, per
esprimere bisogni fondamentali come dire di sì o di no, chiedere di alzarsi
dal banco, chiedere da mangiare, chiedere un oggetto, andare in bagno:
anche se non sempre le parole sono pronunciate in modo comprensibile,
soprattutto da chi non è abituato al suo linguaggio. I comportamenti
autolesionistici si sono fatti più rari, sia a casa sia a scuola, e anche le
stereotipie motorie e verbali sono, di solito, limitate ad alcuni momenti
particolari: quando è stanca, quando si annoia, quando vorrebbe fare
dell’altro e non è in grado di comunicarlo chiaramente o di ottenere ciò di
cui avrebbe bisogno.22 Tuttavia, le sue capacità di attenzione sono talmente
limitate per quantità e qualità che è spesso necessario, quando è a scuola,
portarla fuori dall’aula per proporle attività diverse e, quando è a casa,
questo costituisce ancora un grave problema per i genitori, che sovente non
sanno letteralmente cosa farle fare e come tenerla calma. A volte ascolta
musica, quasi sempre le stesse cassette, come incantata. Altre volte si ferma
davanti allo schermo della TV e allora “sta brava” anche per lunghi periodi,
ma, poiché è tutt’altro che certo che segua il programma, i genitori si
rendono conto che questa non può essere una soluzione. L’interazione con i
compagni è ancora molto limitata, ma, anche grazie a un lavoro costante e
attento fatto in questo senso dall’insegnante di sostegno, qualcosa è stato
ottenuto: una certa vicinanza fisica, un contatto oculare più frequente,
qualche scambio di oggetti (come un pennarello o una gomma) durante
momenti di lavoro cooperativo, per esempio di costruzione di un tabellone,
qualche parola. Nelle ore di palestra si produce anche qualche scambio con
la palla in un embrione di gioco di squadra. La mamma porta spesso, nel
pomeriggio, Maurizia al parco, ma qui, in una situazione meno controllata,
le interazioni con i coetanei sono ridotte quasi a zero. La mamma soffre
molto per questo, sembra a volte vergognarsi francamente del
comportamento della figlia così diverso da quello degli altri, e avrebbe
sicuramente bisogno di un sostegno e di una guida psicologica maggiore di
quanto fino a ora siamo riusciti a darle. Le cose vanno un po’ meglio su
piccoli programmi di autonomia personale. Come abbiamo già visto, la
mamma è riuscita a insegnare a Maurizia a lavarsi le mani e, in seguito, a
spogliarsi da sola e anche a indossare qualche indumento con nessuno o
pochissimo aiuto. Maurizia, inoltre, si lava da sola i denti e, a volte,
“quando è in buona”, aiuta la mamma ad apparecchiare la tavola.
È difficile dire fino a che punto potrà arrivare crescendo, ma la
sensazione vedendola oggi è che avrà sempre bisogno di una forte
supervisione da parte di un adulto; che Maurizia non potrà mai essere
lasciata da sola; che i deficit di linguaggio e di interazione sociale
rimarranno motivo di menomazione importante. C’è però da considerare
che la bambina rappresenta un caso per molti aspetti particolarmente
difficile. È molto compromessa sul piano intellettivo e, come abbiamo già
visto, questo è un fattore cruciale per la prognosi. Il secondo fattore
cruciale, anche questo sfavorevole, è la grave compromissione del
linguaggio verbale. Inoltre, Maurizia non ha potuto fare un intervento
riabilitativo precoce e i genitori, purtroppo, non sono seguiti come
avrebbero bisogno (Zeanah, 1996).
La prognosi è molto diversa per i bambini autistici con buone capacità
intellettive e linguistiche (detti anche ad “alto funzionamento”, come
vedremo meglio nel prossimo capitolo) e che hanno la possibilità di
usufruire per sé stessi e per i loro genitori di programmi di intervento
strutturati, precoci e sistematici (Warren et al., 2011; Lai, Lombardo e
Baron-Cohen, 2014). In questi casi è frequente notare una riduzione
significativa dei disturbi di comportamento e dei deficit di interazione
sociale. Il DSM-5 fa notare che i sintomi del disturbo sono di solito più
marcati nella prima infanzia, mentre con la crescita tende a migliorare, per
esempio, l’interesse per le relazioni sociali. In età adulta i pazienti con
Disturbo dello spettro dell’autismo, anche se possono conservare alcune
bizzarrie e una certa ristrettezza di interessi e di attività, spesso
acquisiscono una certa indipendenza e possono in alcuni casi riuscire vivere
e a lavorare in modo quasi completamente autonomo (Howlin e Moss,
2012).
1 Il mornig sickness, cioè la nausea e il vomito gravidico che generalmente insorgono al mattino per
poi attenuarsi durante la giornata, è da considerarsi fisiologicamente e statisticamente normale. Tale
disturbo, infatti, tende a comparire intorno alla 6a settimana di gestazione e a scomparire, in modo
spontaneo, verso la fine del 3° mese: arco di tempo in cui l’HCG (il cosiddetto “ormone della
gravidanza”) è prodotto in grandi quantità. L’iperemesi gravidica, come del resto la totale assenza di
questi disturbi, rappresenta, invece, una situazione di atipicità, caratterizzata da perdita di peso,
disidratazione e chetosi: sintomi che segnalano l’effettiva gravità del vomito. Gli studi realizzati allo
scopo di indagare la relazione tra iperemesi ed esiti perinatali forniscono dati piuttosto rassicuranti.
Pare, infatti, che questa condizione non sia associata né all’aumento del rischio di malformazioni
(ACOG, 2004) né a morte fetale (Dodds, Fell, Joseph, Allen e Butler, 2006). Uno studio retrospettivo
condotto in Nova Scotia (Davis, 2004), inoltre, ha messo in luce come gli esiti perinatali associati a
iperemesi siano limitati a donne con un ridotto accrescimento ponderale durante la gestazione.
2 Con il termine “eutocico” (dal greco eu = bene) si fa riferimento a un parto che avviene senza
complicanze e senza alcuna manovra da parte di ostetrici e medici, se non la normale assistenza
fornita alla madre e al bambino. Il termine “distocico” (dal greco dys = difficile), invece, fa
riferimento a tutti quei casi in cui si verificano complicanze durante il parto.
3 Vedi capitolo 1, nota 4.
4 Il colloquio di restituzione è, in generale, un colloquio nel quale lo psicologo appunto restituisce al
paziente quello che ha capito dei dati, delle informazioni, delle emozioni che ha raccolto fino a quel
momento. Una breve restituzione può a volte avvenire già alla fine del primo colloquio, e in questo
caso svolge una funzione di chiarimento reciproco. A volte può invece rappresentare la chiusura di
un’intervista o anche la conclusione di un rapporto terapeutico. In psicopatologia dello sviluppo, una
restituzione tipica è quella che fa lo psicologo ai genitori dopo aver visto il bambino e aver formulato
alcune ipotesi diagnostiche. Questo tipo di restituzione è molto delicata perché lo psicologo,
soprattutto nei casi di gravi patologie, dovrebbe evitare sia di “mentire” su quello che ha trovato, sia
di produrre nei genitori reazioni di sconforto troppo difficili poi da sopportare. Per questo motivo
molti clinici consigliano, nei casi più difficili, una restituzione fatta non tutta in una volta, ma
costruita con prudenza nel corso di più colloqui in collaborazione con i genitori stessi.
5 Nell’ICD-10 le “Sindromi da alterazione globale dello sviluppo”, inserite nella sezione dei
Disturbi dello sviluppo psicologico, comprendono l’Autismo infantile, l’Autismo atipico, la
Sindrome di Rett, la Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo, la Sindrome di Asperger, la
Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati. Quest’ultimo disturbo si
caratterizza per la presenza, nel bambino, di una marcata iperattività, di stereotipie motorie e di un
grave ritardo mentale. Nonostante tale sindrome sia mal definita e di incerta validità nosologica,
come sottolineato nello stesso ICD-10, la categoria è tuttavia stata inclusa nella classificazione a
fronte dell’evidenza che molti bambini con grave ritardo mentale e gravi problemi di iperattività e di
deficit attentivo presentano spesso anche comportamenti stereotipati.
6 Si tratta di un’ipotesi eziologico-esplicativa del Disturbo dello spettro dell’autismo come di un
estremo cognitivo che si collocherebbe lungo un continuum caratterizzato dalla cosiddetta “mente
maschile” (Baron-Cohen, 1997), come si vedrà meglio più avanti con gli studi sulla cosiddetta
“teoria della mente”.
7 La metarappresentazione, in questo contesto, può essere intesa come la capacità di riflettere sulle
proprie rappresentazioni mentali e di esserne consapevoli. In questo senso, un deficit di
metarappresentazione comporta difficoltà a guardare dentro sé stessi e dunque, a maggior ragione, a
vedere le cose dal punto di vista di un altro.
8 In questo studio, Melot e Angeard (2003) hanno sottoposto 11 bambini di scuola dell’infanzia con
autismo a un trattamento sulle abilità metacognitive della falsa credenza e della distinzione tra
apparenza e realtà. I risultati, oltre a dimostrare un miglioramento delle performance per entrambe le
abilità, hanno messo in luce come un training su uno di questi due aspetti produca miglioramenti
anche nell’altro: il che suggerisce l’esistenza di una possibile interdipendenza tra queste due abilità
metacognitive.
9 Vedi nota 6 del presente capitolo.
10 La comunicazione facilitata è un metodo che consentirebbe a persone con gravi ritardi del
linguaggio o del tutto prive di linguaggio verbale (in particolare, soggetti autistici) di comunicare
scrivendo le parole sulla tastiera di una macchina per scrivere elettrica o su un computer. Questo
sarebbe reso possibile dalla presenza di un assistente, detto facilitatore, che inizialmente sorregge il
polso del soggetto che scrive. Il condizionale è reso necessario dal fatto che su questo metodo, sulla
sua reale efficacia e sul suo status scientifico non ci sono prove e in passato le polemiche sono state
piuttosto roventi (Biklen e Schubert, 1997; Canevaro, 1997; Stork, Golse e Lebovici, 1997; Edelson,
Rimland, Lee Berger e Billings, 1998; Brighenti, 2000). Nel capitolo 6, paragrafo “Disturbo
disintegrativo dell’infanzia”, è riportato brevemente un esempio di comunicazione facilitata attuata
su un ragazzo con una forma gravissima di Disturbo dello spettro dell’autismo.
11 I genitori di bambini autistici spesso necessitano, anche a causa del forte stress associato alla loro
condizione, di un cospicuo supporto esterno alla famiglia per la gestione quotidiana dei loro bambini.
Una recente ricerca (Openden, Symon, Koegel e Koegel, 2006) ha evidenziato come un programma
di selezione dei baby-sitter, effettuata sulla base della motivazione dei candidati e delle specifiche
necessità espresse da ciascuna coppia genitoriale, possa produrre effetti benefici per tutti gli attori
coinvolti. Le famiglie mostrano alti livelli di soddisfazione rispetto alle prestazioni offerte dai baby-
sitter, usufruiscono di prestazioni poco costose e hanno a disposizione più tempo libero. I bambini,
dal canto loro, hanno maggiori opportunità di comunicazione sociale e, interagendo con caregiver
differenti, sono più facilitati nei processi di generalizzazione delle abilità apprese. Gli stessi baby-
sitter, infine, riportano alti livelli di soddisfazione, fanno un’esperienza nell’ambito dell’educazione
speciale e molti di loro esprimono il desiderio di orientare in quest’ambito la loro carriera.
12 La guida fisica è una tecnica comportamentale che si usa solo nei casi di handicap grave e che
consiste nel guidare il movimento del soggetto mentre esegue un certo comportamento. Se, per
esempio, un ragazzo deve insaponarsi le mani, l’educatore prende le sue mani e guida così i gesti
necessari. Quando poi il soggetto ha cominciato ad automatizzare un comportamento corretto,
l’educatore può sostituire la guida fisica con l’aiuto gestuale, che consiste nel mostrare, per esempio
al ragazzo che sta imparando a lavarsi le mani, come deve fare. Alla fine anche l’aiuto gestuale può
essere eliminato e sostituito dall’aiuto verbale (per es., l’educatore che dice: “Benissimo, adesso devi
strofinare le mani una contro l’altra”). In questa attenuazione del suggerimento è possibile vedere
anche un’applicazione dei principi dell’apprendimento senza errori .
pag. 30
Lo “spettro” autistico
Fabio Celi
LA STORIA DI MICHELE
Appena Michele è entrato nel mio studio, ho pensato:
“Ecco, ci siamo”.
Un fantasma stava entrando insieme a lui.
È agitato, in movimento, evita il mio sguardo e mi trasmette una bella
parte dell’ansia che deve avere dentro. Straparla, molto più per sé stesso che
per me, a volte fino alla fabulazione.
“Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”, mi ripete più volte.
Gli faccio cenno di sì, perché mi sembra di capire che ne abbia bisogno,
ma intanto, dentro di me, penso: “Ecco un’altra volta lo spettro”.
Impiego il termine “spettro” nel suo doppio significato. Il primo è quello
che usano gli studiosi per cercare di descrivere il fenomeno complesso e
ancora molto misterioso delle forme mutevoli, spesso ambigue e difficili da
riconoscere, che questi disturbi possono assumere (Wing, 1988). Vi sono
infatti molte forme sfumate, parzialmente diverse per età di insorgenza o
gravità dei sintomi, non sempre facili da riconoscere ed etichettare, spesso
mescolate e confuse con altri disturbi, prima fra tutti la Disabilità
intellettiva, ma anche forme particolarmente gravi di Disturbo da deficit di
attenzione, Disturbi d’ansia e persino, a volte, Disturbi specifici
dell’apprendimento.
Il secondo significato è appunto quello di spettro come sinonimo di
fantasma.
Per l’ennesima volta Michele mi ripete:
“Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”.
Gli rispondo di sì, pensando di placare almeno un poco la sua ansia, e lui
subito aggiunge:
“Il mio papà, invece, mi chiama Michelino, mi chiama Michino, perché
mi chiama Michino? Io ormai sono grande, sono come Marco, è vero che
ormai sono diventato grande come Marco?”.
“Chi è Marco?”.
“Io ormai sono diventato grande come Marco, mio cugino, è vero che sono
diventato grande come Marco? Perché il mio papà mi chiama Michino?
Come ti chiama il tuo papà?”.
Durante il primo colloquio la mamma mi aveva parlato di Michele
come di un bambino difficile, segnalato dalle maestre perché restava
indietro un po’ su tutto, ma specialmente nella scrittura in corsivo, e perché
si distraeva spesso. Ma appena l’ho visto entrare, appena ho sentito le sue
prime parole, ho pensato:
pag. 49
Spek, Van Ham e Nyklíček (2013) hanno posto 42 pazienti con diagnosi di
Disturbo dello spettro autistico ad Alto funzionamento (secondo la
denominazione che nel 2013 hanno usato gli Autori) in due condizioni
sperimentali: una in cui i pazienti si sottoponevano a 9 settimane di terapia
cognitivo-comportamentale, e una di controllo in cui i pazienti erano inseriti
in una lista d’attesa. I risultati hanno mostrato una significativa diminuzione
dei sintomi di depressione, ansia e ruminazione nei pazienti che avevano
partecipato attivamente alla mindfulness rispetto al gruppo di controllo. La
ricerca rappresenta un importante studio controllato a dimostrare che gli
adulti con Disturbo dello spettro dell’autismo possono beneficiare della
terapia cognitivo-comportamentale. I risultati di cui sopra sono stati
replicati anche da Kiep, Spek e Hoeben (2014) che hanno svolto
l’esperimento con 50 pazienti affetti da autismo, andando ad indagare se la
mindfulness fosse utile anche per altri tipi di problematiche psicosomatiche
associate all’autismo. La terapia aveva una durata di 9 settimane e i risultati
non solo hanno confermato la diminuzione dell’ansia e della depressione,
ma hanno mostrato anche significativi miglioramenti dei sintomi
agorafobici, di somatizzazione e di diffidenza. Miglioramenti si sono
riscontrati anche nel modo di pensare e agire, nonché nei disturbi del sonno
e di sensibilità interpersonale. Complessivamente si è visto un
miglioramento generale di benessere psicofisico, sebbene l’ostilità mostrata
prima del trattamento non sia diminuita in maniera significativa. Inoltre tali
miglioramenti si sono mantenuti anche nel follow-up, indicando quindi che
la Mindfulness based therapy risulta essere un buon trattamento per questi
pazienti.
Un altro studio (Bruin, Blom, Smit, Van Steensel e Bogels, 2014) ha
sottoposto 23 adolescenti con Disturbo dello spettro dell’autismo a 9 sedute
settimanali di terapia cognitivo-comportamentale di gruppo e,
parallelamente a esse, anche i loro genitori (18 madri, 11 padri) venivano
sottoposti a Mindful parenting training. I dati, basati su pre-test, post-test e
un follow-up dopo 9 settimane, hanno mostrato una diminuzione della
ruminazione e un sostanziale miglioramento della vita dei ragazzi. Sebbene
i principali sintomi dell’autismo non siano diminuiti, i genitori dei pazienti
hanno osservato un miglioramento delle capacità di risposta sociale, della
comunicazione, cognizione e motivazione sociale. Inoltre, riferito a se
stessi, hanno confermato un’accresciuta consapevolezza e competenza
genitoriale, stili genitoriali meno lassisti e un aumento della qualità della
vita.
Proprio mentre scrivo l’insegnante di matematica ha preso a tartassare
Michele perché lo vorrebbe vedere più pronto nella soluzione di semplici
problemi aritmetici. Michele, all’inizio, ha manifestato il suo disagio
dicendo di non voler andare a scuola nelle mattine in cui era prevista la
lezione di matematica nelle prime ore e ancora adesso è più teso, più
bisognoso di continue rassicurazioni; a volte lamenta mal di testa o di
stomaco il mattino prima di andare a scuola e mostra qualche segno di
depressione. Ciò nonostante, Michele è comunque un bambino con il quale
si può lavorare, che ha già dato buoni risultati e che, a mio parere, ha ancora
ampi spazi di miglioramento. Indimenticabile la sua gioia (e quella dei suoi
genitori) al ritorno da una gita scolastica all’acquario di Genova dove si era
fatto coraggio, era andato da solo, si era comportato benissimo e divertito
tanto. Significativa la seduta in cui aveva cominciato a parlare a più riprese
di Gatto Silvestro suscitando in me una certa angoscia (“Ecco, ci risiamo
con le fabulazioni”), peraltro subito svanita dopo essermi accorto con
sollievo che in realtà stava guardando e commentando un disegno appeso
alla parete alle mie spalle. Significativo anche il suo inserimento in una
piccola squadra di calcio senza pretese di classifica, non particolarmente
competitiva, dove aveva a volte l’occasione di lasciare la panchina anche
durante le partite e di giocare qualche decina di minuti: tutte cose che,
spesso, valgono cento psicoterapie messe insieme.
Mi chiedo, a conclusione di questo quadro, se in alcuni casi sfumati e
incerti come quello di Michele, l’approccio diagnostico migliore, da un
punto di vista psicologico, non sia quello di evidenziare le patologie
deficitarie (per es., Funzionamento intellettivo borderline o Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività) aggiungendo poi una breve descrizione dei
comportamenti patologici come i disturbi della relazione e le stereotipie
verbali e, eventualmente, di una personalità immatura e disarmonica.
Probabilmente, in questi casi, è consigliabile evitare etichette diagnostiche
che somiglino troppo a condanne definitive: solo così si potranno ottenere
benefici evidenti sulla motivazione a lavorare con questi bambini e sulla
speranza di ottenere con loro risultati significativi.
pag. 49
La mamma mi ha appena mostrato i quaderni del bambino, che sono
puliti, ordinatissimi, perfetti, tanto da sembrare stampati. Le faccio notare
tutto questo e lei mi conferma che, da un punto di vista didattico, in effetti,
Luciano non presenta nessun problema, anche se i genitori sono venuti da
me proprio su segnalazione delle maestre che cominciano a preoccuparsi
dell’inserimento del bambino (ora in quarta classe della scuola primaria)
alla scuola secondaria di primo grado. Dunque, nessun problema didattico,
mi ribadisce la madre, al contrario: Luciano è un bambino motivato, attento,
interessatissimo ad alcune materie come le scienze naturali, fino al punto
che spesso le studia da solo, indipendentemente dai compiti che gli sono
assegnati, a volte anche su altri libri.7 Per Natale ha voluto un microscopio
come regalo e passa molto tempo a osservare le foglie, le ali degli insetti, i
fili d’erba. Inoltre usa il computer del padre con grande competenza…
È a questo punto che il padre ci interrompe e aggiunge:
“Sembra un computer lui stesso”.
Questa è la frase che mi colpisce, anche perché il padre era rimasto quasi
sempre in silenzio fino a quel momento, e mi allarma. Ecco di nuovo lo
“spettro” che fa capolino. Fino a poco fa i genitori mi avevano descritto un
bambino timido, un po’ insicuro, più appassionato della TV, dei cartoni
animati, dei videogiochi, delle scienze naturali e dei musei che dei giochi
con i compagni; ma adesso, dopo questo breve intervento del padre, la
situazione mi appare improvvisamente diversa, più inquietante.
Purtroppo non mi sbagliavo.
Nella cartella, subito dopo la data del mio primo colloquio col bimbo,
compare questo mio appunto:
“Sembra un robottino”.
Sembra un robottino quando parla. A un certo punto gli chiedo:
“Hai amici?”.
Mi risponde:
“Sì, a scuola ho un amico. Il suo nome è Mario. Di solito mi aiuta a fare i
disegni. Inoltre è gentile con me. Di solito a scuola sono molto bravo. Mi
impegno”.
Tutto questo d’un fiato e senza intonazione. Poi silenzio fino alla mia
prossima domanda.
Sembra un robottino quando disegna. Concentrato, silenzioso, chiuso nel
suo mondo, mi fa una serie di personaggi dei cartoni animati schematici
come macchine, rigidi, ordinatissimi e perfetti (vedi fig. 4, Tavole a colori).
Alla WISC-R8 rivela 130 di QI con alcuni picchi prodigiosi nelle prove
non verbali come il disegno coi cubi e il cifrario. Le CPM9 sono oltre il 95°
percentile per l’età. Però non vuole farmi altri disegni, neppure durante le
sedute successive, quando dovrebbe aver preso una certa confidenza con me
e con la situazione. Gli chiedo:
“Non hai voglia di disegnare?”.
Mi risponde:
“So fare molti disegni. Inoltre mi interesso di molte altre cose”.
Mi chiedo cosa avrà voluto dirmi. Penso a un particolare aspetto della
“teoria della mente” di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Si tratta
dell’osservazione secondo la quale la comunicazione tra esseri umani è resa
possibile, tra l’altro, dal fatto che, quando uno parla, conosce già molte cose
sul suo interlocutore e usa queste conoscenze per rendere la sua
comunicazione efficace. Per esempio, quando io chiedo a un bambino se ha
voglia di disegnare, mi aspetto che il bambino immagini quello che io
vorrei sapere da lui. Analogamente, se il bambino mi risponde “Dammi un
foglio”, io capisco il significato positivo della sua risposta, anche se non mi
è stato esplicitamente detto “Sì, ho voglia di disegnare”, perché leggo le sue
intenzioni implicite e immagino che voglia un foglio proprio per fare un
disegno. Tutto questo tende a non succedere nel dialogo con Luciano, o, per
lo meno, succede con grande difficoltà. Parlare con lui mi dà una
sensazione strana. Mi ricorda un po’ quello che accade quando si cerca, da
dilettanti, di programmare un computer. Se spiego a un essere umano come
si calcola l’area di un triangolo e poi gli propongo di provare se ha capito e
gli chiedo di calcolare l’area di un triangolo che ha base 3 e altezza 6, mi
aspetto che mi risponda che l’area è 9. Se faccio la stessa cosa con un
computer usando un qualsiasi linguaggio di programmazione, si verifica un
fenomeno strano (almeno per noi esseri umani). Io fornisco al computer la
formula per calcolare l’area del triangolo. Poi gli fornisco i dati di base e
altezza. Poi gli chiedo di calcolare l’area e… il computer non fa niente (o
almeno così sembra). Lo schermo resta vuoto. Come mai? Se sono
abbastanza abile da andare a vedere che cosa c’è nella sua memoria mi
accorgerò che da qualche parte, etichettato come “area del triangolo”, c’è il
dato che gli avevo chiesto di calcolare. Il problema è che il dato resterà lì
perché non ho detto al computer di fornirmelo. Se voglio che il computer
mi mostri sullo schermo il risultato dei suoi calcoli devo chiederglielo
esplicitamente, mentre un essere umano capisce le mie intenzioni, “legge”
nella mia mente e mi dà la risposta 9 anche se gli avevo chiesto di calcolare
l’area, ma non di dirmela.
L’impressione è proprio che con Luciano avvenga qualcosa del genere.
Non ha la flessibilità necessaria per comunicare e interagire in modo fluido
e adeguato. Naturalmente questo non significa che abbia un Disturbo dello
spettro dell’autismo. Basta aver visto anche una sola volta nella vita un
bambino con un autismo “vero” e poi trascorrere qualche minuto con
Luciano per rendersi conto delle differenze che passano tra i due bambini,
se non altro per quanto riguarda la gravità e la pervasività dei sintomi.
Eppure le analogie ci sono. Luciano, come abbiamo visto, ha buone
capacità verbali e un livello intellettivo ottimo, però mostra difficoltà di
comunicazione, introversione, chiusura. Non vuole essere toccato dalla
maestra, nemmeno con una pacca sulle spalle. Preferisce decisamente stare
da solo. Se può scegliere, se viene lasciato in pace e non obbligato dai suoi
genitori ad andare in piscina, preferisce passare la giornata davanti alla TV
o al microscopio. (In una recente seduta, alla mia domanda: “Ma in piscina
ci vai volentieri?”, ha risposto: “La mia mamma ha già pagato per tutto il
mese. Inoltre l’attività fisica fa bene. Io so già nuotare discretamente”.) Si
impressiona e si ritrae, incapace di reagire, se un compagno lo prende in
giro perché è meno sveglio degli altri. Durante la ricreazione sta in classe
perché la confusione gli dà fastidio e per lo stesso motivo non ha mai voluto
festeggiare un suo compleanno. A volte ride in modo eccessivo, non
giustificato dalle circostanze. Quando si trova in una situazione di
particolare stress gli capita di muovere le braccia ritmicamente,
allungandole come se si stesse stiracchiando. È stato difficile, per i genitori,
convincerlo a fare uno sport qualsiasi. Si è finalmente deciso per la piscina,
forse perché nel nuoto i contatti con i compagni sono ridotti al minimo, e
solo con il patto che non avrebbe mai fatto gare. Teme la competizione in
ogni sua forma e si demoralizza facilmente per tutto. Quando racconta di sé,
in quel modo meccanico, rigido, privo di intonazione che abbiamo visto,
tende sempre a dare un’immagine positiva, quasi di perfezione, che non
credo condivida intimamente. Molti di questi sintomi che ho descritto sono
sfumati, tanto che la pediatra era contraria a consultare uno psicologo. Però
le difficoltà e le anomalie ci sono. Si alimenta solo con quattro o cinque
cose, sempre le stesse: penne al pomodoro, sofficini e poco altro. Fino ai
cinque anni ha sofferto di enuresi diurna e notturna. Ha difficoltà a reggere
la relazione non solo con i coetanei: anche la sorellina, che ha poco più di
quattro anni, gli mette i piedi in testa, ha sempre la meglio su di lui. A volte
lo picchia e lo morde senza che Luciano sappia come reagire. Quando
parliamo di questo commenta: “È una cosa normale. È più piccola. Inoltre è
una femmina”.
Cerco di lavorare con lui modellando modalità di comunicazione più
adeguate e fino a un certo punto, almeno con me, la cosa riesce. Dopo
qualche seduta vedo un miglioramento della relazione e una certa apertura
anche ad accettare alcune prescrizioni comportamentali che, molto
cautamente, stabiliamo di comune accordo con la mamma. Ma la mamma
mi riferisce che spesso, ancora adesso, ai giardini pubblici, o in spiaggia,
quando nessun adulto controlla quello che fa, si mette in un angolo, guarda
gli altri bambini giocare (la mamma, per la verità, si esprime in un modo
diverso: “Spia gli altri bambini giocare”) e gioca da solo…
pag. 98
Disturbi dell’apprendimento
Disturbo specifico
dell’apprendimento con
compromissione della lettura
Fabio Celi
LA STORIA DI ANDREA
La prima frase della mamma di Andrea è:
“Più che preoccupata, sono scoraggiata”.
È il nostro primo colloquio e ancora io non so nulla del bambino di
cui la signora è venuta a parlarmi. Mi dice questo con un atteggiamento
almeno in apparenza sereno, certamente molto diverso da quello che spesso
caratterizza i primi colloqui con genitori di bambini difficili. Poi, piano
piano, mi spiega meglio quello che intendeva dire. Andrea è in quarta classe
della scuola primaria e ancora legge malissimo. Le hanno provate un po’
tutte, compreso un day-hospital, qualche mese fa, in un importante Istituto
di Neuropsichiatria Infantile, ma non ne è venuto fuori granché. Peccato, mi
dice la madre, perché è un bambino intelligente, sano, in gamba. Anche
nell’Istituto dove sono stati non hanno diagnosticato nulla di significativo e
hanno consigliato ai genitori di venire da me per questo ritardo della lettura
che per lui è una fonte continua di sofferenza: a scuola le valutazioni
negative e le incomprensioni con le maestre; a casa le ore passate sui libri a
fare i compiti e a studiare… Tutto questo è un problema per lui, ma anche
per la famiglia e per la madre in particolare, che non sa cosa fare, come
prenderlo, se aiutarlo più di quanto non stia già facendo, se punirlo per le
sue cattive prestazioni, se rinunciare del tutto e lasciare che le cose vadano
come devono andare evitando, per lo meno, di farne un dramma quotidiano.
pag. 49
A questo punto pongo alla madre una domanda che mi capita spesso di
fare in situazioni analoghe:
“Ma se la scuola non esistesse, secondo lei Andrea che problemi
avrebbe?”.
Riflette per un po’ in silenzio, forse è perplessa per una domanda che
non si aspettava.
Aggiungo:
“Faccia uno sforzo di fantasia. Immagini un mondo senza scuole. Come
sarebbe Andrea? Oppure pensi all’estate, alle vacanze di Natale… Andrea
ha altri problemi? Per esempio a casa, oppure con gli amici?”.
Mi risponde che pensa proprio di no e la successiva raccolta anamnestica
sembra confermare questo punto di vista. La gravidanza è stata regolare. Il
parto eutocico a termine. Nessun segno di sofferenza (il punteggio di
Apgar1 era di 9,9). Madre e bambino sono stati dimessi dopo quattro giorni
di degenza tranquilla. A casa Andrea si è rivelato subito un bambino facile
da allevare. Mangiava, dormiva e cresceva regolarmente. A dieci mesi ha
cominciato a camminare da solo. In questa storia del primo sviluppo c’è
soltanto un piccolo campanello d’allarme: le prime parole sono comparse
intorno ai due anni e poi, per tutto il periodo della scuola dell’infanzia, è
rimasto un certo ritardo del linguaggio, nel senso che il bambino aveva
qualche difficoltà a pronunciare alcuni suoni e, più avanti, le sue frasi erano
molto semplici, povere, sicuramente meno sviluppate di quelle dei coetanei.
Per il resto, anche alla scuola dell’infanzia l’inserimento è stato ottimo e
nessuno ha dato una particolare importanza al problema del linguaggio, che
d’altra parte dava l’impressione di risolversi piano piano da solo. Andrea
era ben socializzato, pieno di amici, e le maestre erano contente di lui. Per
molti aspetti sembrava, fin dai primi anni di vita, un bambino più grande
della sua età (a parte il linguaggio). Le autonomie personali si erano
sviluppate precocemente e senza difficoltà e attualmente la stessa facilità di
sviluppo si può vedere per le autonomie sociali . Andrea sa usare il
telefono (anche il computer) e il denaro, sa gestire da solo il proprio tempo,
esce di casa e fa piccole commissioni per la madre e, anzi, è proprio la
madre che frena alcune di queste autonomie per paura e perché lo vede
ancora troppo piccolo: se fosse per lui, sicuramente potrebbe anche andare a
scuola da solo con l’autobus e fare molte più cose di quelle che già fa. Ha
ancora molti amici e, al di là delle difficoltà scolastiche, è un bambino
sereno. Non sembrano esserci altri disturbi psicopatologici degni di nota.
pag. 34
pag. 34
pag. 56
Termino il colloquio con una breve restituzione alla madre degli aspetti
salienti emersi fin qui e con gli accordi su come incontrare il bambino. La
madre mi dice che pensa che Andrea non avrà problemi a venire da me, sia
perché è già stato avvertito, sia perché è abituato a visite e colloqui di
questo genere.
La previsione della madre si rivela esatta. Il primo approccio con il
bambino è molto facile. Andrea è subito collaborativo, orientato, empatico,
consapevole dei suoi problemi di lettura. Nella relazione con me è brillante
e la cosa che mi colpisce di più è l’atteggiamento autoironico che assume
rispetto alle sue difficoltà. Ci scherza sopra atteggiandosi un po’ a vecchio
saggio ormai rassegnato. È come se mi dicesse che lui sa bene di essere un
cattivo lettore, però ha altre doti e per questo difetto ha capito che non può
farci nulla e così cerca semplicemente di abituarsi a conviverci. È
sicuramente sfiduciato, come già mi diceva la madre, ma con in più un
atteggiamento cinico, probabilmente difensivo. Sembra quasi che mi voglia
dire: “Sì, sono un cattivo lettore e lo sappiamo tutti e due. Io lo ammetto e
tu lasciami in pace”.
Se invece affronto un qualsiasi argomento extrascolastico sembra
proprio che non ci siano problemi. Andrea è contento di sé, dei suoi amici,
della sua vita in famiglia e fuori, del tennis che lo appassiona e gli dà
qualche soddisfazione anche dal punto di vista agonistico. Forse gliene
darebbe anche di più se potesse dedicare più tempo agli allenamenti. Il suo
maestro gli ripete spesso che non si allena abbastanza, ma sua madre non
vuole sottrarre troppe ore ai compiti e allo studio, e d’altra parte lui stesso
riconosce di essere lento, soprattutto quando c’è di mezzo la lettura.
Questo ci riporta al punto di partenza. La storia delle difficoltà scolastiche,
raccontata dal punto di vista di Andrea, non è molto diversa da quella
raccontata dalla madre durante il nostro primo colloquio. Anche le
emozioni che stanno dietro questa storia sembrano simili: un velo di
tristezza, giustificato dalla consapevolezza di certe difficoltà e
dall’atteggiamento delle insegnanti a volte forse un po’ vessatorio; un senso
di sfiducia, dopo tanta applicazione e tanto tempo consumato in uno studio
che, per quel che riguarda la lettura, non ha certo dato i risultati sperati;
forse, in più, in Andrea, c’è la voglia di lasciar perdere, di non combattere
più su questo fronte: forse quell’ironia che ho sentito fin dal nostro primo
incontro era almeno in parte rivolta anche a me, all’ennesimo esperto che
tanto non gli avrebbe risolto il problema, allo psicologo da cui Andrea
avrebbe fatto volentieri a meno di andare (un’altra ora inutilmente sottratta
al tennis).
Questo non significa che Andrea non venga regolarmente alle sedute,
collaborando con me e permettendomi di conoscerlo sempre meglio. Le sue
capacità intellettive sono normali. La WISC-R2 dà un punteggio totale di
106 (in verità, io prevedevo un risultato anche migliore), senza apprezzabili
differenze tra prove verbali e non verbali e cadute nel disegno con i cubi e
nel cifrario non particolarmente significative. Le CPM3 sono nella norma,
con qualche caduta negli item dove è più coinvolto l’aspetto
dell’organizzazione spaziale. Questa difficoltà è confermata anche dal test
di sviluppo della percezione visiva di Frostig (Frostig, Lefever e Whittlesey,
1966) e dal test visuomotorio di Bender (1992). Per la valutazione delle
capacità visuopercettive e di integrazione visuomotoria si può utilizzare il
test TPV (Developmental Test of Visual Perception) (Hammil, Pearson e
Voress, 2003), che nasce dal perfezionamento del classico test di Frostig,
oppure il test VMI (Developmental Test of Visual-Motor Integration) (Beery
e Buktenica, 2000). I risultati più significativi riguardano, però, le prove
specifiche di lettura. Le prove MT4 mostrano carenze importanti sia a
livello di velocità sia di correttezza e qualche difficoltà anche nella
comprensione del testo. Prove di analisi delle difficoltà specifiche (Sartori,
Job e Tressoldi, 2007) evidenziano cadute soprattutto nella competenza
fonologica (difficoltà di riconoscimento di non parole). La lettura a voce
alta evidenzia omissioni, inversioni, lunghe esitazioni e incertezze con
conseguente lentezza. È invece adeguata la capacità di ricordare le cose
lette, una volta comprese, e di trarre conclusioni o inferenze dal testo
scritto. Le prove metacognitive che, come vedremo meglio nel terzo
paragrafo, servono per valutare la consapevolezza del bambino sugli scopi
della lettura, non mostrano problemi a questo riguardo (Pazzaglia e coll.,
1994). Scrittura e abilità matematiche sono sostanzialmente normali
(Tressoldi, De Beni e Cristante, 1991).
Un questionario che valuta sempre gli aspetti metacognitivi, questa volta
relativi al metodo di studio, è il QMS contenuto nel volume “Imparare a
studiare 2” (Cornoldi, De Beni e Gruppo MT, 2001). Questo questionario ha
lo scopo di chiarire le conoscenze metacognitive prima di iniziare un
percorso didattico ad hoc e viene somministrato di nuovo al termine del
lavoro svolto per monitorare eventuali miglioramenti. Ci si aspetta, di
solito, che a seguito di un lavoro sistematico gli studenti migliorino le
conoscenze metacognitive rispetto allo studio, e che questo miglioramento
possa giocare un ruolo positivo sulle prestazioni di studio stesse. Sempre
per la valutazione delle abilità metacognitive dei ragazzi delle classi terza,
quarta e quinta della scuola primaria esiste il questionario “Io e la mia
mente” contenuto in “Avviamento alla metacognizione” (Friso, Palladino e
Cornoldi 2006) che dispone ora anche dei dati normativi di riferimento
grazie ai quali è possibile avere una stima oggettiva del livello
metacognitivo raggiunto anche a seguito di un percorso specifico
confrontando i dati pre- e post-trattamento (Friso, Drusi e Cornoldi, 2013).
Un altro recente strumento di valutazione degli aspetti metacognitivi, in
questo caso in rapporto alla matematica, è il test MeMa (Caponi, Cornoldi,
Falco, Focchiatti e Lucangeli, 2012) che si compone di quattro diversi
questionari: il primo rivolto ai ragazzi che frequentano dalla terza classe
della scuola primaria alla terza classe della scuola secondaria di primo
grado; il secondo rivolto agli insegnanti di scuola primaria e secondaria di
primo grado; il terzo rivolto ai genitori; e infine il quarto rileva la presenza
di ansia specifica per l’apprendimento della matematica nei ragazzi dai 9 ai
14 anni.
Tuttavia la situazione di Andrea è più semplice per quanto riguarda
l’ansia e più in genarale i disturbi della sfera emozionale, che non sembrano
essere presenti. Il bambino appare infatti equilibrato e sereno (a parte i
problemi direttamente generati dalle difficoltà di lettura); il tono dell’umore
è adeguato e non si evidenziano disturbi di comportamento né deficit
attentivi. Durante un colloquio con una delle insegnanti questo mi verrà
confermato anche relativamente al comportamento in classe. I disegni di
Andrea non sono particolarmente ricchi, ma appaiono disegni normali, con
figure umane5 tracciate in modo tradizionale e colori che non si fanno
notare per nessuna particolare caratteristica. Il suo disegno più bello, tra
quelli che farà durante le nostre sedute, è certamente quello dove
rappresenta sé stesso durante una partita di tennis in un torneo in cui, con
molta fatica e molta soddisfazione, era riuscito ad avere la meglio
sull’avversario. Il TMA, una prova specifica per la misurazione
dell’autostima (Bracken, 2003; edizione in CD-ROM, 2005), mostra una
significativa caduta dell’autostima scolastica, che tuttavia non influenza il
risultato globale. In tutti gli altri settori (come figlio, come amico, come
sportivo) Andrea si sente adeguato e a suo agio. Lo stile di attribuzione ,
invece, che (come vedremo nel quarto paragrafo) è tanto importante in casi
come questi, è decisamente inadeguato. Per la valutazione dello stile di
attribuzione si può usare il “Questionario di Attribuzione” (De Beni e Moè,
1995) che è valido per i ragazzi dagli undici ai venti anni, adattato anche
dalle stesse autrici per i soggetti di età inferiore (1999). Ormai Andrea si è
messo in testa che questa sua caratteristica di essere un cattivo lettore è
immodificabile, fa parte di lui e che non c’è più niente da fare.
pag. 450
RICERCHE
La ricerca psicologica sui Disturbi specifici dell’apprendimento ha una
storia piuttosto recente. Fino a qualche decina di anni fa, soprattutto per
opera degli studiosi di pedagogia speciale, ci si occupava di bambini con
handicap conclamati, fisici, psichici o sensoriali. Per questi bambini
venivano messi a punto percorsi educativi e riabilitativi ed erano previste
anche scuole speciali per la loro accoglienza. Qualche pioniere si occupava
anche di difficoltà molto specifiche, in particolare di lettura, e di tentativi di
educazione personalizzata per questi particolari bambini che avevano alcuni
problemi settoriali di apprendimento, spesso anche gravi, in assenza di altri
disturbi fisici o di handicap evidenti. Queste difficoltà prendevano a volte il
nome generico di “disturbi lacunari”, per intendere che si riferivano a
lacune nelle abilità di apprendimento; oppure, a seconda che la lacuna si
riferisse alla lettura, alla scrittura o al calcolo, venivano usati i termini
specifici di dislessia, disgrafia e discalculia. A questi primi studi
pionieristici corrisponde, almeno in Italia, il periodo delle classi
differenziali, dove si tentava un’educazione fortemente specializzata per
questi bambini, che venivano pertanto tolti dalle classi normali, ma non
inseriti in scuole speciali completamente diverse, come avveniva con gli
handicappati propriamente detti (Quadrio, 1968).
Il più delle volte, però, al di là di questi studi pionieristici,
l’atteggiamento nei confronti di molti di questi bambini era quello di
ritenerli sani e normali da ogni punto di vista, dunque non bisognosi di
particolari cure, e semplicemente etichettabili come allievi svogliati, poco
motivati, poco portati per la scuola, più adatti a essere inseriti il prima
possibile nel mondo del lavoro. Con un’espressione un po’ rude, ma
efficace per illustrare un certo tipo di posizione pedagogica, molti maestri,
fino a qualche decina di anni fa, si riferivano a questi bambini come a
“mani rubate alle zolle”, per intendere che sarebbe stato molto meglio
toglierli dalle aule scolastiche a faticare inutilmente sui libri e mandarli nei
campi dove c’era tanto bisogno di manodopera. L’atteggiamento ha
cominciato a cambiare con gli studi specifici che gli psicologi
dell’educazione hanno avviato sulle cosiddette learning disabilities
(Hammil, 1990; Cornoldi, 1991; Tressoldi, 1991; Adelmann, 1992). Questi
studi hanno evidenziato come esistano profili piuttosto precisi e ricorrenti di
bambini con disturbi spesso limitati alla sfera degli apprendimenti
scolastici, ma non per questo banali o da trascurare. Credo che il
consolidarsi di questa posizione e il progressivo (anche se non ancora
definitivo) abbandono della pedagogia delle “mani rubate alle zolle” sia
dovuto, da una parte, a queste ricerche, ma dall’altra a una radicale
mutazione delle società avanzate, che hanno sempre meno bisogno di
manodopera generica e sempre più sentono la necessità, economica e
sociale, di far studiare tutti i bambini.
Le prime ricerche sulle learning disabilities, che hanno poi preso in
Italia il nome di Disturbi dell’apprendimento, si sono concentrate su due
punti fondamentali: il criterio di discrepanza e i fattori di esclusione
(Mercer e coll., 1985; Rovetto, 1987; Cornoldi, 1991; Rapaport e Ismond,
2000). Il criterio di discrepanza si riferisce al fatto che questi bambini
forniscono prestazioni significativamente inferiori a quelle che ci si
aspetterebbero da bambini di pari età e di condizioni simili. I fattori di
esclusione indicano che possiamo sostenere l’esistenza di un Disturbo
specifico dell’apprendimento dopo aver escluso che una specifica difficoltà
(per es., nella lettura) non sia dovuta a una particolare condizione medica
(per es., un deficit uditivo) o psicologica (per es., un ritardo mentale) o
sociale (per es., un’educazione gravemente inadeguata). Le prime ricerche
nel campo dei Disturbi dell’apprendimento ponevano un’enfasi particolare
su questo aspetto dei fattori di esclusione, peraltro complementare al
criterio di discrepanza. Questo è testimoniato, fra l’altro, dal nome che fino
al DSM-III veniva dato a queste patologie: “Disturbi Specifici dello
Sviluppo”, dove l’aggettivo specifici stava proprio a indicare l’esclusione di
altre patologie (American Psychiatric Association, 1983). Nel DSM IV-TR
l’attenzione ai fattori di esclusione cala: si ritiene, infatti, che un disturbo di
questo genere non debba necessariamente essere specifico, ma possa anche
trovarsi associato ad altre problematiche psicopatologiche o a deficit
sensoriali, purché, come abbiamo già visto nel secondo paragrafo, queste
patologie più gravi non spieghino del tutto il ritardo di apprendimento.
Anche il DSM-5 riconferma, con l’aggettivo “specifico” l’importanza di
questo concetto per quattro fondamentali motivi:
1. il disturbo non è attribuibile a disabilità intellettive;
2. il disturbo non è attribuibile a fattori esterni come lo svantaggio
economico, sociale, culturale o ambientale;
3. il disturbo non è attribuibile a problemi neurologici, o motori, o visivi, o
uditivi;
4. la difficoltà di apprendimento può essere limitata a una sola abilità o a un
solo ambito scolastico (per es., leggere parole singole, ricordare o
calcolare dati numerici).
Così definiti, i Disturbi dell’apprendimento (e in particolare il Disturbo
della lettura che copre da solo circa l’80% dell’intero spettro) risultano
molto rilevanti dal punto di vista epidemiologico. Si parla di una prevalenza
che, secondo alcuni arriverebbe fino al 10% della popolazione scolastica
(Crisfield, 1996; Gabrieli, 2009). Nel DSM-5 la prevalenza dei disturbi
specifici di apprendimento sugli ambiti di lettura, scrittura e calcolo tra
bambini in età scolare trasversalmente a linguaggi e culture diverse è
stimata tra il 5 e il 15%. Rispetto alla prevalenza dei DSA in Italia ci sono
dati oscillanti in relazione al disturbo cercato (lettura, scrittura, calcolo o un
insieme di queste difficoltà), al tipo di strumenti utilizzati (parole, testi,
valutazione QI ecc.) e al range di età considerato. In ogni caso la maggior
parte delle ricerche condotte nella fascia di età 8-13 anni (tra la terza e la
quinta classe primaria e la terza classe della secondaria di primo grado)
mostra che circa il 3,5-4% della popolazione è interessata dal disturbo
(Stella, 2010). Anche Cornoldi (2007), in linea con gli altri autori, riporta la
presenza di percentuali oscillanti dall’1,5 al 5%, con una stima ragionevole
intorno al 4% (dato presente nella proposta di legge “Norme in materia di
difficoltà specifiche di apprendimento” dell’8 maggio 2006), aggiungendo
però che “fino a che non si definiranno i criteri di inclusione facendo
riferimento a strumenti comuni di indagine, queste percentuali rimarranno
delle opinioni”. Infatti la definizione di un criterio predefinisce la
percentuale dei casi che possono essere interessati da un problema, e se si
assume come criterio il 5° percentile e un quoziente intellettivo di almeno
85, e le norme sono state ottenute sull’intera popolazione, la percentuale dei
DSA non potrà mai superare il 5%. Si tratta di dati impressionanti, perché
se si esce dalla fredda visione statistica e si entra in una classe, questo
significa che è difficile non trovare un bambino dislessico e molto facile
trovarne più d’uno. I Disturbi specifici dell’apprendimento sono nettamente
più frequenti nei maschi che nelle femmine. Inoltre, vi è una notevole
concordanza tra i dati dei ricercatori e l’esperienza dei clinici e degli
educatori nel rilevare un significativo aumento di questi disturbi negli
ultimi anni. Non vi è, invece, accordo sul significato da attribuire a questo
aumento (Hallahan, 1992). Alcuni sostengono che vada ricercato in
modalità educative inadeguate e in un sistema scolastico che, prima si è
sforzato di accettare tutti i bambini, poi non è riuscito a mettere a punto
strategie calibrate sulle diverse esigenze di questi allievi. Al contrario, altri
sostengono che, piuttosto che un vero aumento di casi di Disturbi
dell’apprendimento, assistiamo oggi a una maggiore attenzione per queste
difficoltà e quindi, in realtà, a un rilevamento diagnostico più accurato su
bambini che in passato venivano trascurati.
D’altra parte, il problema dell’eziologia dei Disturbi specifici
dell’apprendimento in genere e del Disturbo specifico dell’apprendimento
con compromissione della lettura in particolare, è tutt’altro che chiarito
dalla ricerca (Hooper e Willis, 1989; Adelmann, 1992; Heaton e Winterton,
1996; Pumfrey, 1996; Braga, 2001; Galaburda, Sherman, Rosen, Aboitiz e
Gaschwind, 1985). Dopo un periodo in cui si attribuiva un’importanza oggi
sicuramente considerata eccessiva ai fattori emozionali e alla cattiva
relazione tra il bambino e le figure di accudimento (e questa, come vedremo
più avanti, non è la sola analogia tra i Disturbi specifici dell’apprendimento
e i Disturbi dello spettro dell’autismo!), oggi si tende a sottolineare
l’influenza di fattori diversi, che probabilmente interagiscono tra loro nel
favorire l’insorgenza del disturbo. Tra questi fattori, i più frequentemente
messi in luce sono: condizioni medico-biologiche non ben determinate
come anomalie cromosomiche o comunque fattori genetici predisponenti
(quest’ultima ipotesi è corroborata dall’osservazione della netta prevalenza
dei maschi sulle femmine per questi disturbi), encefaliti, alcune forme di
meningite, prematurità e, in genere, sofferenze prenatali e perinatali e
imperfetto sviluppo neurologico; familiarità; problemi psicologici e sociali
nei genitori; povertà, basso livello sociale e culturale; bassa qualità
dell’accudimento; bassa qualità dell’educazione; problemi motivazionali ed
emotivi del bambino. Tuttavia, è necessario ripetere che questo elenco
rappresenta solo una serie di ipotesi circa possibili fattori predisponenti. Ad
oggi l’eziologia dei DSA non è completamente nota, anche se gli studiosi
sembrano sempre più concordi nel considerare l’influenza dei fattori
genetici e l’importanza dei fattori ambientali nel condizionare l’espressione
di questo disturbo (Peterson, McGrath, Smith e Pennington, 2007). La
ricerca non ha prodotto in questo campo certezze del tipo causa-effetto e,
d’altra parte, sul piano clinico, l’esempio di Andrea è illuminante sul fatto
che spesso si trovano bambini con Disturbi specifici dell’apprendimento
anche piuttosto gravi che non sembrano avere alle spalle nessuno di questi
fattori causali ipotizzati.
Contrariamente a quanto abbiamo notato nel caso di Andrea, che
rappresenta un esempio tipico e relativamente semplice di Disturbo
specifico dell’apprendimento con compromissione della lettura, queste
patologie sono a volte complicate dalla presenza di problemi emozionali e
comportamentali di vario tipo. La ricerca ha più volte messo in luce la
presenza di comorbilità tra i Disturbi specifici dell’apprendimento e i
Disturbi del comportamento (in particolare, il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività,7 ma anche il Disturbo oppositivo provocatorio e il
Disturbo della condotta)8 e depressivo (in particolare, il Disturbo depressivo
maggiore9 e il Disturbo depressivo persistente10), con conseguenti rischi
anche gravi di disadattamento e di abbandono scolastico (Bernabei,
Mazzoncini e Levi, 1991; Lorusso,1991; Henderson, Barnett e Henderson,
1994).
Sono stati, inoltre, evidenziati alcuni interessanti problemi di diagnosi
differenziale (Rapaport e Ismond, 2000).
Prima di tutto, come abbiamo già visto, qualche difficoltà di diagnosi si
può verificare in presenza di patologie più gravi e presumibilmente
responsabili anche delle difficoltà di apprendimento, come la Disabilità
intellettiva o deficit sensoriali.
In secondo luogo, è stata sottolineata la necessità di una particolare
cautela nella diagnosi di questi disturbi in presenza di bambini che si
trovino in condizioni di grave svantaggio ambientale, sociale, culturale ed
educativo. In questi casi, la domanda da porsi è: le difficoltà di
apprendimento sono in qualche modo primarie oppure possono essere
spiegate dal solo fatto che il bambino non è stato educato e seguito in modo
opportuno? Come vedremo nel prossimo paragrafo, questa domanda non ha
solo un valore teorico, perché a seconda della risposta che diamo possono
cambiare le strategie di intervento.
Infine, esiste, almeno in teoria, un problema di diagnosi differenziale con
i Disturbi dello spettro dell’autismo, non solo nel senso che in alcune forme
attenuate di quello che nel capitolo precedente ho chiamato lo “spettro
autistico” può essere necessaria una certa cautela per distinguere la
patologia, ma anche perché alcuni studiosi hanno tentato di tracciare una
linea di continuità tra i Disturbi dello spettro dell’autismo e i Disturbi
specifici dell’apprendimento (Klin, De Antonio, McCracken, Forness e
Ackerland, 1994; Cox e Mesibov, 1998). Infatti, sono state riconosciute
interessanti analogie tra queste categorie di disturbi per quanto riguarda i
deficit cognitivi, di comunicazione, sociali e interpersonali e la discrepanza
fra diverse aree di apprendimento e di abilità specifiche. Inoltre il Disturbo
specifico dell’apprendimento deve essere differenziato dalle scarse
prestazioni scolastiche dovute al Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (DDAI) perché in questo caso i problemi potrebbero
riflettere la generale difficoltà nel mettere in atto le abilità piuttosto che
specifiche difficoltà di apprendimento. Se dovessero risultare soddisfatti i
criteri per entrambi i disturbi è comunque corretto porre entrambe le
diagnosi.
Ma, più analiticamente, che cos’hanno questi bambini che non funziona
e che rende deficitario il loro apprendimento? La prima risposta della
ricerca a questa domanda cruciale è stata: sono carenti nello sviluppo
cognitivo generale. Questo non significava necessariamente “meno
intelligenti”, ma, per esempio in un’ottica piagetiana, poteva significare
“intelligenti in modo diverso”. Questo modello esplicativo è stato talvolta
chiamato, proprio in senso piagetiano, “genetico”, a indicare che i bambini
con difficoltà di apprendimento possono essere fermi a particolari stadi di
sviluppo che dovrebbero invece essere già stati superati (Kirbi e Biggs,
1980; Tressoldi e Cornoldi, 1991).
Lo studio sulle correlazioni tra deficit specifici e difficoltà nei processi di
decodifica ha permesso anche di individuare sottotipi diversi di difficoltà,
secondo il modello di acquisizione della lettura detto “a due vie” (Frith,
1980; Sartori, 1984; Tressoldi e Cornoldi, 2007). Il modello prevede che la
lettura possa essere acquisita attraverso una via fonologica, o percettiva, o
indiretta: si parte con l’analisi fonologica, l’associazione grafema-fonema e
la fusione, si arriva alla decodifica e, infine, all’acquisizione del significato.
Nello sviluppo normale, il bambino utilizza di solito questa via per prima.
Quando l’acquisizione della lettura è deficitaria ed è privilegiata questa via
(tipica dell’emisfero destro), si parla di dislessia P e la si può riconoscere
per la lentezza e il numero di errori relativamente basso e per la difficoltà
specifica con le parole omofone non omografe. La riabilitazione privilegerà
l’emisfero sinistro attraverso la presentazione nell’emicampo destro.
Esistono moltissimi software abilitativi costruiti a questo scopo: solo a
titolo esemplificativo cito Vocabolacquario di Anastasis (www.anastasis.it).
La seconda possibile via di acquisizione della lettura è invece quella
lessicale, detta anche “diretta”: si parte dall’accesso diretto al significato
della parola attraverso un’analisi visiva globale. Nello sviluppo normale, il
bambino utilizza di solito questa via dopo quella fonologica. Quando
l’acquisizione della lettura è deficitaria ed è privilegiata questa via (tipica
dell’emisfero sinistro), si parla di dislessia L e la si può riconoscere per la
relativa velocità di lettura e l’alto numero di errori e per la difficoltà
specifica con le non-parole. In questo secondo caso, i bambini danno spesso
l’impressione di “tirare a indovinare” piuttosto che leggere (Bakker e
Vinke, 1985; Lorusso e Milani, 2008). La riabilitazione privilegerà
l’emisfero sinistro attraverso la presentazione nell’emicampo destro.
Sempre e solo a titolo esemplificativo, tra i moltissimi software (per lo più
editi in Italia da Anastasis) cito Tiro al bersaglio. Esiste anche una dislessia
M (mista) con caratteristiche sia della P che della L.
Si può fare un ragionamento analogo se si considerano le difficoltà
specifiche di sviluppo. In questo caso, possiamo distinguere un Disturbo
della lettura detto “fonologico” (Lundberg, 1994; Solity, 1996),
probabilmente determinato da problemi nello sviluppo dello stadio
alfabetico, dove le maggiori difficoltà sono nella lettura di non-parole, e un
disturbo detto “morfologi-co-lessicale” o “superficiale”, determinato
probabilmente da problemi nello sviluppo dello stadio ortografico e
lessicale, dove le maggiori difficoltà si riscontrano nella lettura di parole
irregolari e di parole omofone. Sono state, infine, evidenziate forme miste
di Disturbo della lettura nelle quali sono presenti entrambe le difficoltà
(Seymour, 1987).
Questa attenzione della ricerca a fattori cognitivi specifici e a specifiche
disabilità ha permesso anche lo sviluppo di un ulteriore filone di studio
basato sulla metacognizione (Cornoldi, 2006; Borkowski e
Muthukrishna, 2011). La metacognizione, che può essere qui definita come
la capacità di riflettere sui propri processi di pensiero, riveste una
particolare importanza nella comprensione del testo (De Beni e Pazzaglia,
1991). È stato, infatti, messo in luce come spesso le difficoltà di
comprensione derivino da una scarsa consapevolezza, da parte di alcuni
bambini, sugli scopi della lettura. Si dice allora che questi bambini hanno
scarsa sensibilità metacognitiva perché non si rendono conto che, quando si
legge, la cosa più importante da fare è quasi sempre capire quello che si sta
leggendo. A un lettore esperto questa osservazione può sembrare banale,
ma non lo è per molti piccoli lettori, e in particolare per lettori con Disturbo
specifico dell’apprendimento. Un aspetto paradossale, che la ricerca ha
evidenziato e che si è rivelato carico di conseguenze a livello terapeutico e
riabilitativo, è che spesso proprio i programmi riabilitativi eccessivamente
centrati sugli aspetti tecnici della decodifica sono responsabili di uno scarso
sviluppo di sensibilità metacognitiva. Proviamo a immaginare cosa succede
a un bambino normodotato senza Disturbi dell’apprendimento. A sei anni
va a scuola. Tra settembre e ottobre impara la corrispondenza grafema-
fonema. A novembre impara la fusione dei fonemi e a Natale sa leggere.
Naturalmente sto semplificando molto, ma il senso del discorso è che
quando il processo di decodifica scatta senza particolari difficoltà, poi il
bambino ha davanti a sé anni di lavoro per impadronirsi del significato dei
testi che via via, a scuola, gli saranno proposti. Non sarà dunque difficile,
per lui, capire qual è il vero scopo della lettura. Se poi quel bambino è stato
tanto fortunato da aver avuto, nei suoi primi anni di vita, una nonna o un
papà che gli leggevano le favole, ha sviluppato una sensibilità
metacognitiva sugli scopi della lettura persino prima di imparare a leggere.
Niente di strano se già a Pasqua della prima classe della scuola primaria è
capace di comprendere qualche testo. Sfortunatamente, il caso del bambino
con un Disturbo specifico dell’apprendimento con compromissione della
lettura può essere molto diverso. Può darsi che quel bambino impieghi un
anno di tempo, fatica e riabilitazione per imparare la corrispondenza
grafema-fonema. Può darsi che un altro anno passi per impratichirsi sulla
fusione dei suoni. A questo punto, tutti gli sforzi degli insegnanti e dei
riabilitatori saranno nella direzione di insegnargli a essere sempre più
veloce e sempre più corretto. Non c’è da meravigliarsi se poi questo
bambino cresce con l’idea che la lettura (oltre a essere un’attività
terribilmente noiosa e difficile) consista essenzialmente in un processo
meccanico di decodifica nel quale tutti gli sforzi sono diretti a cercare di
correre e sbagliare poco. E la comprensione? Quel bambino l’ha persa
lungo la strada. In questo esempio, naturalmente estremo, non solo nessuno
gliel’avrebbe insegnata, ma se anche un po’ di consapevolezza
metacognitiva fosse stata presente, tutti quegli sforzi riabilitativi centrati
sulla decodifica l’avrebbero certamente cancellata dalla sua mente. La
ricerca ha messo, peraltro, in luce che la sensibilità sugli scopi della lettura
non è la sola abilità metacognitiva deficitaria in molti bambini con questi
disturbi. Spesso risulta carente anche la consapevolezza che testi diversi, in
quanto hanno scopi diversi, andrebbero letti in modo diverso (si pensi a un
racconto, o a un elenco del telefono, o a un libro di storia, o a un
vocabolario, o a un problema di matematica), e che la comprensione di
queste differenze potrebbe essere favorita da indizi che si trovano al di fuori
del testo come il titolo, le immagini e le didascalie (De Beni e Pazzaglia,
1991; Meloni et al., 2005). Connessa in qualche modo con questa sensibilità
metacognitiva al testo è la capacità di costruire narrazioni, o racconti, o più
in generale storie con un senso compiuto: sembra evidente che più è
sviluppata nel bambino questa capacità, più gli sarà facile comprendere
molti testi scritti almeno di carattere narrativo (Nathanson, Crank, Saywitz
e Ruegg, 2007). In Italia la sperimentazione controllata con i principali
programmi metacognitivi esistenti – in particolare “Memoria e
metacognizione” (Cornoldi e Caponi, 1991), “Lettura e metacognizione”
(De Beni e Pazzaglia, 1991b), “Matematica e metacognizione” (Cornoldi et
al., 1995) – ha messo in evidenza che si possono ottenere importanti
risultati sul piano della maturazione cognitiva e degli stessi apprendimenti
scolastici.
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Abbiamo ragionato fin qui, a proposito del trattamento del Disturbo della
lettura, in termini di lavoro globale sulla prestazione: il bambino sa leggere,
ma legge male e allora noi cerchiamo, genericamente, di migliorare le sue
abilità. In una direzione diversa si muovono i metodi cosiddetti di “training
centrato sul deficit” (Cornoldi, Miato, Molin e Poli, 1986). Questi metodi
partono dai lavori teorici che cercano di indagare i processi cognitivi
sottostanti alle difficoltà di lettura e che abbiamo visto nel precedente
paragrafo, e lavorano quindi attraverso l’individuazione dei processi carenti
e la riabilitazione specifica di questi processi (Berton, Lorenzi, Lugli e
Valenti, 2006). Per esempio: un bambino ha difficoltà di discriminazione
visiva? La terapia consisterà allora in un addestramento sulle capacità di
discriminazione visiva. In modo analogo si può procedere, quando
l’assessment ci mostra dove sono le particolari carenze, lavorando sulla
corrispondenza grafema-fonema, oppure sulla fusione fonemica, o sulla
ricerca visiva di lettere, o sulla ricerca visiva di sillabe, o sull’analisi e la
sintesi dei fonemi, o sul riconoscimento rapido di parole isolate, o sulla
ricostruzione di una frase. Una recente ricerca ha messo in luce l’efficacia
di un trattamento integrato per la riabilitazione del modulo della lettura che
prevede la stimolazione dello specifico sistema deteriorato e un intervento
sulle componenti attentive. In particolare, si è sottolineato come il
potenziamento delle risorse attentive rinforzi il sistema che diventa più
adeguato a modularizzare il processo di lettura (Benso, Berriolo, Marinelli,
Guidi, Conti e Francescangeli, 2008).
Un lavoro così analitico è facilitato dall’uso di apposite analisi del
compito e curricola, che suddividono la complessa abilità della lettura in
elementi semplici, obiettivi specifici e sotto-obiettivi semplificati
(Ferraboschi e Meini, 1993). In questo modo è possibile ottenere risultati
interessanti anche con bambini particolarmente difficili (Perini, Lo Presti e
Notarbartolo, 1984; Celi, Alberti e Laganà, 1986).
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AUTOISTRUZIONE – AUTOCONTROLLO –
AUTORINFORZAMENTO
Negli approcci comportamentali classici, l’insegnante o il terapeuta
programmano dall’esterno un percorso: forniscono gli stimoli
adeguati, gli aiuti necessari, i rinforzatori e tutto quello che può
servire per raggiungere un obiettivo. Questo modo di lavorare ha
evidentemente dei vantaggi, primo fra tutti il fatto che l’allievo o il
paziente, sostenuto in questo modo attento e rigoroso, ha maggiori
probabilità di ottenere dei risultati di quanto non avverrebbe se fosse
lasciato solo. Tuttavia, anche lo svantaggio è evidente. I risultati
ottenuti sono legati alla presenza di un aiuto esterno.
L’autoistruzione è una metodologia cognitiva che cerca di superare
questo limite. Si insegna al bambino a spostare il controllo del suo
processo di apprendimento dall’esterno verso l’interno. Gli si insegna,
cioè, a fornirsi da solo le istruzioni necessarie per raggiungere un
obiettivo.
Nel capitolo 8 si può vedere all’opera un programma di
autoistruzione quando Simona impara a darsi le istruzioni necessarie
per eseguire correttamente le addizioni con riporto. L’aspetto più
importante dell’autoistruzione è il dialogo interno: il bambino dice a
se stesso cosa deve fare.
Quando il dialogo interno serve al bambino non tanto per regolare un
suo percorso di apprendimento (come nel caso delle addizioni) quanto
per modificare i suoi comportamenti, allora il metodo prende il nome
di autocontrollo. Per esempio, nel capitolo 11 si può vedere come il
dialogo interno serva per favorire lo sviluppo di comportamenti meno
impulsivi e più meditati: il bambino impara ad agire solo dopo aver
detto a se stesso cosa deve fare. Anche le reazioni d’ansia possono
entro certi limiti essere affrontate con tecniche di autocontrollo:
Eleonora, per esempio, nel capitolo 15, impara a dire a se stessa che
non c’è motivo di aver paura che un calamaro gigante entri di notte
nella sua camera e questo le permette di affrontare un po’ meglio le
situazioni temute.
L’autocontrollo prevede, come abbiamo visto, che il paziente, in un
certo senso, si sostituisca al terapeuta, per esempio nell’erogazione
degli stimoli adatti a raggiungere un certo obiettivo. Tuttavia, è noto
che gli stimoli non sono sufficienti e che qualunque programma
comportamentale prevede anche l’uso dei rinforzatori. Se dunque si
desidera modificare in senso cognitivo un programma di intervento e
spostare il controllo da un agente esterno al paziente stesso, sarà
necessario che il paziente impari non solo a darsi gli stimoli adatti, ma
anche i rinforzatori necessari.
Questo particolare aspetto dell’autocontrollo si chiama
autorinforzamento e se ne può vedere un esempio nel capitolo 17,
dove tento di insegnare ad Alberto a gratificarsi da solo anche per i
piccoli progressi che ottiene nel controllo dei suoi rituali ossessivi.
Sempre nello stesso capitolo è possibile vedere gli stretti legami tra
auto-osservazione e autocontrollo. Alessandra impara a controllare
parzialmente le sue compulsioni per il solo fatto che comincia a tenere
un diario di osservazione su di esse. Probabilmente, in questo caso,
l’osservazione svolge una funzione di feedback, o rinforzamento
informativo. Dal momento che si tratta di un’auto-osservazione,
possiamo dunque parlare di nuovo anche di autorinforzamento.
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PROGNOSI
Andrea è in seconda classe della scuola secondaria di primo grado. È ancora
un cattivo lettore, almeno nel senso che è più lento della media dei suoi
compagni, nella lettura a voce alta è in difficoltà e fatica nello studiare testi
troppo lunghi. Tuttavia ha imparato a gestire questa situazione, studia su
appunti preparati insieme a un insegnante che lo segue di pomeriggio sotto
la mia supervisione, cerca di stare molto attento durante le lezioni e questo
gli permette di cavarsela con le interrogazioni orali. È molto bravo in
matematica e sempre sufficiente in italiano, forse anche perché ha trovato
un professore comprensivo e disposto a collaborare con me. Quest’anno ha
lavorato molto con ipertesti specifici: alcuni, come quello della vita nel
castello medioevale e delle grandi scoperte geografiche, preparati
appositamente per lui. Gli ipertesti contenevano prove di comprensione e
verifiche di memorizzazione del materiale studiato concordate con il
professore di lettere. Spesso Andrea ha lavorato con questi materiali
informatici all’interno di un piccolo gruppo di compagni che poi, come lui,
venivano interrogati su questi argomenti. Per quanto riguarda il resto, al di
là dello specifico problema della lettura, va a scuola (ragionevolmente)
volentieri, è un discreto tennista, un buon amico di molti compagni di classe
e di gioco e non ha sviluppato altri problemi psicopatologici.
Questo è un buon esempio di prognosi sostanzialmente favorevole anche
perché ha dalla sua molti elementi che si ritrovano in letteratura come
appunto prognosticamente favorevoli: assenza di segni neurologici; buon
livello intellettivo; storia sostanzialmente negativa per complicazioni
emotive importanti; livello sociale e culturale della famiglia medio-alto
(Rapaport e Ismond, 2000).
Ci sono casi meno fortunati nei quali il Disturbo della lettura si mantiene
grave lungo tutto il periodo della scolarizzazione e anche in età adulta. Un
tempo si tendeva a credere che le difficoltà di apprendimento passassero
con l’età, mentre oggi alcuni dati epidemiologici parlano di una prevalenza
dei Disturbi specifici dell’apprendimento nella scuola secondaria di
secondo grado e nell’università maggiore dal 4 al 5% (Cornoldi, 1991,
2007). In casi ancora meno fortunati, ma fortunatamente piuttosto rari,
questi disturbi evolvono verso problematiche psicopatologiche più
complesse, a volte fino a vere e proprie forme di Disturbo antisociale
(Rutter, 1995). Naturalmente queste evoluzioni negative sono più probabili
in caso di comorbilità con Disturbi del comportamento o depressivi già
presenti nell’infanzia. Inoltre, la situazione è più complessa e
prognosticamente più delicata quando il Disturbo della lettura o, più
genericamente, il Disturbo specifico dell’apprendimento è associato a un
Funzionamento intellettivo borderline. Anche la Consensus Conference sui
Disturbi dell’apprendimento promossa dall’Istituto Superiore della Sanità
nel 2011 si è posta come obiettivo di valutare l’evoluzione in età
adolescenziale e adulta dei DSA (Lambruschi et al., 2014). Viene ribadito
che la precocità e la tempestività degli interventi appaiono sempre più
spesso in letteratura tra i fattori prognostici positivi. La letteratura appare al
momento piuttosto complessa e tutt’altro che conclusiva rispetto
all’evoluzione a distanza dei DSA. Attualmente sono stati identificati tre
profili prognostici:
1. prognosi del disturbo intesa come evoluzione del processo di lettura,
scrittura e calcolo;
2. prognosi psicopatologica intesa come evoluzione a distanza nell’area
della salute mentale riferita in particolare all’insorgenza del Disturbo
della condotta;
3. prognosi scolastica-lavorativa intesa come la possibilità di avanzare nella
carriera scolastica e lavorativa.
L’attenzione sulla ricerca è rivolta principalmente al Disturbo specifico
della lettura e in modo minore a quello del calcolo. Sembrerebbe che le
componenti del disturbo continuino a mostrarsi deficitarie in età adulta
(Swanson et al., 2009; Ruggerini et al., 2014); che il disturbo sia più spesso
associato in adolescenza e in età adulta a sintomi internalizzati quali sintomi
depressivi e ansiosi (Arnold et al., 2005); e che invece non ci siano una
correlazione e una causalità diretta tra Distrubo specifico
dell’apprendimento con compromissione della lettura e Disturbo della
condotta (Trzesniewski et al., 2006). Infine sembra che la possibilità di
proseguire gli studi sia correlata alla gravità del disturbo, al QI e alla
possibilità di accesso a risorse esterne (Miller et al., 1990). Per quanto
riguarda l’accesso al mondo del lavoro sembra che ciò dipenda dalle abilità
matematiche acquisite e dalla partecipazione dei genitori al percorso
formativo.
D’altra parte, anche per concludere con una nota di ottimismo un
capitolo dedicato a una patologia che non deve essere trascurata e che
sembra assumere in questi ultimi anni un’importanza epidemiologicamente
sempre maggiore, ma che non dovrebbe essere considerata come grave, si
pensi ad alcune figure del passato come Leonardo da Vinci, Edison,
probabilmente Alessandro Volta e lo stesso Einstein (Grenci e Zanoni,
2007). Oggi sarebbero diagnosticati per Disturbi della lettura, o della
scrittura o dell’apprendimento, mentre ai loro tempi non risulta che uno
psicologo si sia occupato di loro.
Eppure, alla meglio, sono riusciti a cavarsela ugualmente.
1 Vedi capitolo 1, nota 1.
2 Vedi capitolo 1, nota 3.
3 Vedi capitolo 1, nota 2.
4 Le prove MT sono prove obiettive e standardizzate sulla popolazione italiana per la valutazione
dell’abilità di lettura. In un primo tempo vennero pubblicate per tutte e cinque le classi della scuola
elementare (oggi primaria) (Cornoldi, Colpo e Gruppo MT, 2. ed., 1998). In un secondo tempo sono
uscite anche per la scuola media inferiore (oggi secondaria di primo grado) (Cornoldi e Colpo, 1994)
e nel 2010 sono state pubblicate le prove MT avanzate-2 (Cornoldi, Pra Baldi e Friso, 2010) per la
valutazione dei livelli sia di lettura che di matematica per il biennio della scuola secondaria di
secondo grado. Si tratta di prove piuttosto semplici da somministrare, anche da parte di insegnanti, e
straordinariamente efficaci. Permettono di ottenere una misurazione obiettiva della rapidità di lettura,
della correttezza e della comprensione del testo. In questo modo, l’insegnante e lo psicologo
scolastico acquisiscono un’idea precisa delle abilità del bambino o anche del livello di un’intera
classe. Le prove, per ogni classe, sono strutturate su tre livelli a difficoltà crescente: una prova di
ingresso che può essere somministrata approssimativamente all’inizio dell’anno (e che ovviamente
non esiste per la prima classe della scuola primaria), una prova intermedia e una prova di uscita. In
questo modo educatori e psicologi possono disporre di uno strumento prezioso da un punto di vista
didattico, clinico e di ricerca. Nel 2011 sono state pubblicate le prove di lettura MT-2 (Cornoldi e
Colpo, 2011) per la scuola primaria di primo grado, e nel 2012 sono uscite le nuove prove di lettura
MT per le classi della scuola secondaria di primo grado (Cornoldi e Colpo, 2012). Entrambe le
edizioni aggiornate contengono i riferimenti normativi per la diagnosi di Disturbo specifico di
apprendimento rivisti secondo le linee guida della Consensus Conference e le fasce di prestazione
modificate in modo che la fascia “Richiesta di intervento immediato” corrisponda al 5° percentile,
cut-off raccomandato dalla Consensus Conference.
5 Vedi capitolo 1, nota 4.
6 Con l’espressione “lingue trasparenti” si fa riferimento a tutte quelle lingue, per esempio l’italiano,
caratterizzate da un’ortografia regolare, nelle quali cioè le parole vengono lette così come sono
scritte. Si pensi per contrasto alla lingua inglese. La sua complessità fonemica è lampante anche dalla
semplice constatazione del disaccordo tra studiosi nell’identificare il numero di suoni da essa previsti
(Wells, 2000; Morris, 2000). Tale complessità sembra giocare un ruolo importante nell’incidenza del
disturbo: si pensi al 4-5% dell’Italia contro l’8-10% degli Stati Uniti.
7 Vedi capitolo 11.
8 Vedi capitolo 12.
9 Vedi capitolo 23.
10 Vedi capitolo 24.
11 Il TMA, come abbiamo già avuto modo di vedere nel primo paragrafo, è un questionario
composto da 100 domande con risposta a scelta multipla che permette di valutare l’autostima in
soggetti dagli otto ai diciassette anni di età (Bracken, 1993). È possibile ricavare una misurazione
totale della stima di sé, ma anche valutazioni di scale parziali, come l’autostima scolastica,
interpersonale, familiare, corporea, di controllo sull’ambiente. Nei bambini più piccoli o con
difficoltà di lettura, è possibile tentare una somministrazione del test leggendo le domande a voce alta
e facendo attenzione a non suggerire le risposte con spiegazioni o particolari intonazioni di voce.
12 Quando si desidera conservare il rigore sperimentale tipico delle ricerche con gruppi di controllo,
ma si ha a disposizione un solo soggetto (come capita spesso in ambito clinico), si può ricorrere a un
particolare disegno sperimentale detto “a linee di base multiple” (Lancioni, 1995). Questo disegno
prevede tre fasi. Nella prima fase si misurano contemporaneamente due variabili dipendenti (per es.,
la velocità e la correttezza di lettura). Nella seconda fase si agisce solo su una variabile (per es., si
interviene per migliorare la correttezza), mentre si continua l’osservazione basale sulla seconda.
Nella terza fase si agisce anche sulla seconda variabile (per es., si interviene per aumentare la
velocità di lettura). Se i miglioramenti si verificano prima per la prima variabile e poi per la seconda,
è possibile concludere che questi non sono dovuti al caso, ma all’effetto specifico dei trattamenti
messi in atto.
13 Organizzazione della didattica che prevede che un allievo faccia da insegnante (tutor) a un altro,
all’interno di un contesto cooperativo (Ianes, 2001).
14 Moltissimi lavori nei due campi, il primo più specifico dei processi di abilitazione-riabilitazione
della decodifica, il secondo più generale del lavoro con un bambino con difficoltà di apprendimento
in studio, a casa e a scuola, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie e con metodi di
apprendimento cooperativo, possono essere trovati, rispettivamente, nelle riviste Dislessia e
Difficoltà di apprendimento. Informazioni utili, articoli scientifici, notizie su congressi e iniziative e
circolari ministeriali nel campo dei Disturbi specifici dell’apprendimento sono reperibili su
www.airipa.it.
Capitolo 8
LA STORIA DI SIMONA
Ho conosciuto Simona quando frequentava la quarta classe della scuola
primaria e questa è forse l’unica analogia con il caso di Andrea, che ho
descritto nel capitolo precedente. Se l’avessi conosciuta prima,
probabilmente mi sarei comportato in modo molto diverso.
Simona mi viene inviata da un collega psicologo per vedere se possiamo
fare qualcosa per lei usando strumenti informatici che sembrano
interessarla. Il suo problema è che a scuola va malissimo, praticamente in
tutte le materie. Le maestre hanno chiesto per anni, a volte con particolare
insistenza e quasi con aggressività (soprattutto una maestra), di segnalare la
bambina come handicappata in modo da farle avere un insegnante di
sostegno, ma il mio collega, giustamente, non ha mai risposto positivamente
a questa richiesta.
Forse sbaglio nel dire che la classe frequentata è l’unica analogia tra
Simona e il bambino con Disturbo della lettura di cui ho parlato nel
precedente capitolo. Ora mi viene in mente che ce n’è forse un’altra,
probabilmente ben più significativa. Anche la mamma di Simona, quando la
incontro per la prima volta, mi appare scoraggiata, sfiduciata, stanca. È una
donna semplice, molto modesta nei modi, povera nell’abbigliamento e nel
linguaggio e sembra in difficoltà nel capire che cosa sta succedendo. Perché
il mio collega psicologo ha mandato Simona da me? Perché, nonostante le
richieste delle maestre, non ha mai ceduto sull’insegnante di sostegno? A
mano a mano che il colloquio procede, mi sembra sempre più chiaro che la
sfiducia e la stanchezza si stiano trasformando in aggressività.
Un’aggressività contenuta a stento, che da un momento all’altro potrebbe
sfociare in ostilità aperta, anche se non riesco ancora a capire contro chi.
Ciò che comunque la mamma sta cercando di dirmi è che la sua Simona
è una bambina normale, sana e intelligente, e invece la fanno passare da
stupida e da handicappata. In realtà, è arrabbiata un po’ con tutti e anche un
po’ contraddittoriamente. Per esempio, è arrabbiata con le maestre che
vorrebbero segnalarla come portatrice di handicap per avere l’insegnante di
sostegno, e con lo psicologo che non le fa il certificato e dunque ha lasciato
senza aiuto la bambina. Questo atteggiamento, che a noi può sembrare non
molto coerente, è peraltro giustificato dalla bassa condizione culturale della
madre e dal suo desiderio, perfettamente legittimo, di non danneggiare la
bambina ma di farla aiutare in tutti modi possibili.
Dopo queste mosse di apertura, durante le quali la mamma se la prende
anche un po’ con me che ho tardato tanto a darle l’appuntamento, il primo
colloquio scorre poi lungo binari tutto sommato prevedibili. La bambina
è nata dopo un parto un po’ lungo e un po’ difficoltoso, forse ha avuto un
brevissimo periodo asfittico (“Era un po’ nera”, dice la mamma), ma i
medici l’hanno trovata perfettamente a posto e hanno dimesso madre e
bambina dopo cinque giorni senza altre cure e senza particolari
raccomandazioni. La bambina ha avuto uno sviluppo regolare, era docile e
tranquilla fin dai primi mesi di vita, mangiava, dormiva e non dava nessuna
preoccupazione. Ha cominciato a parlare intorno all’anno e a camminare a
un anno e mezzo. È andata al nido perché il padre e la madre (culturalmente
ed economicamente, come abbiamo visto, molto modesti) lavoravano; poi
alla scuola dell’infanzia, dove non sembra abbia mai avuto problemi
particolari. Anche alla scuola primaria, all’inizio, sembrava che andasse
tutto in modo regolare. Le maestre hanno cominciato a sollevare qualche
dubbio verso la fine della prima. La mamma, a questo punto del colloquio,
ha un altro dei suoi sfoghi:
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Prima di tutto, dunque, viene l’ambiente, come abbiamo già avuto modo
di osservare nel precedente capitolo. Poi vengono, naturalmente, le tecniche
di intervento più specifiche, che non sono molto diverse da quelle illustrate
a proposito del Disturbo della lettura.
Ci serviremo allora del rinforzamento e del modellaggio , usati
sia per aumentare la motivazione a compiti didattici, che di solito in questi
bambini è molto bassa, sia per favorire lo sviluppo graduale di nuove
competenze. Utilizzeremo poi le analisi del compito e i curricula, anche
se, naturalmente, dovranno essere finalizzati agli specifici disturbi del
bambino. Nell’area logico-matematica, per esempio, ci sono appositi
curricula che partono dalla capacità di contare insiemi prima disordinati e
poi ordinati di oggetti e poi, attraverso l’associazione simbolo numerico-
quantità e, inversamente, l’associazione quantità-simbolo numerico,
arrivano alle quattro operazioni e alla soluzione di semplici problemi
aritmetici con strumenti tradizionali come carta e matita (Abbot, 1992;
Bortolato, 1998; Carnine, 1999; Karp e Voltz, 2000; Berausse, 2009; Maso
e Pagani, 2009; De Candia, Cibinel e Lucangeli, 2009) e attraverso software
(Costa e Colombo Bozzolo, 2008; Biancardi, Savelli e Pulga, 2008;
Pericone, 2009).
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Questi curricula, nei quali alcuni obiettivi più complessi sono scomposti
in molti sotto-obiettivi più semplici secondo le tecniche classiche
dell’analisi del compito, si prestano bene a un utilizzo anche massiccio del
modellaggio, perché permettono allo psicologo o all’insegnante di
rinforzare il bambino passo dopo passo. Inoltre, sono spesso corredati da
una serie di aiuti grafici: in un compito di addizione, per esempio, è
possibile disegnare accanto a ogni addendo un numero di palline
corrispondenti e poi cerchiare tutte le palline così ottenute per visualizzare
il risultato; oppure, la soluzione di un problema aritmetico può essere
facilitata da un’immagine che ne rappresenta gli aspetti salienti.3 Questi
aiuti grafici possono poi essere eliminati pian piano secondo le tecniche
dell’apprendimento senza errori .
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AUTO-OSSERVAZIONE – AUTOMONITORAGGIO
Gli approcci comportamentali classici prevedono che l’insegnante o il
terapeuta svolgano spesso delle osservazioni sistematiche sugli
obiettivi didattici e sui comportamenti dei loro allievi o dei loro
pazienti. Le osservazioni sistematiche servono per monitorare gli
eventuali progressi (e poterli così rinforzare) e per rendersi conto delle
difficoltà in modo da porvi rimedio. Quando invece è l’allievo o il
paziente stesso a osservare e valutare il proprio comportamento, si
parla di auto-osservazione o automonitoraggio.
Rispetto ai metodi classici di osservazione eseguita dall’esterno, i
metodi più cognitivi di auto-osservazione e automonitoraggio
presentano il vantaggio di lasciare il bambino almeno parzialmente
protagonista del suo processo di cambiamento.
Nel testo si trovano molti esempi di auto-osservazione e
automonitoraggio come procedure che preparano il terreno
all’autocontrollo. Nel presente capitolo Simona impara a valutare le
sue prestazioni per poi gestire da sola parte del suo processo di
apprendimento. Nel capitolo 11 Lorenzo impara a osservare i suoi
comportamenti inadeguati per poi provare a cambiarli. Nel capitolo
15 Eleonora usa il termometro della paura (che è, evidentemente, una
forma di automonitoraggio) per imparare ad affrontare meglio le
paure che si presenteranno in futuro. Nel capitolo 16 Gabriele impara
a tenere un diario di osservazione e a misurare il suo livello soggettivo
di ansia: e questo gli sarà utile quando dovrà trovare il coraggio di
rientrare in classe. Anche Alberto, nel capitolo 17, tiene un diario di
osservazione del suo comportamento compulsivo per aumentare
l’autocontrollo. Nel capitolo 23, purtroppo, il terapeuta non riesce a
convincere Silvia ad automonitorare i suoi tentativi di incontrare
un’amica, ma purtroppo con i Disturbi depressivi tutto è
particolarmente difficile.
Con Simona, per esempio, abbiamo fatto un’esperienza di autoistruzione
che, in linea generale, consiste nell’insegnare al bambino a darsi da solo le
istruzioni verbali necessarie all’esecuzione di un compito, attraverso l’uso
di un linguaggio interno. Il programma che ho sperimentato con Simona è
composto da quattro fasi. Nella prima fase io svolgo il ruolo di modello
durante l’esecuzione di un compito, per esempio un’addizione con il
riporto. Mi dò a voce alta le istruzioni verbali dicendo:
“Prima di tutto guardo attentamente l’operazione [15 + 8], poi comincio a sommare le unità:
8 + 5 fa 13. Ora mi chiedo: 13 è maggiore di 10? Sì. Dunque scrivo l’unità trovata [3] nella
colonna delle unità e riporto le decine [1] nella colonna delle decine…”.
Simona mi guarda, mi ascolta e per ora il suo unico compito è quello di
osservarmi in modo da essere in grado, quando glielo chiederò, di fare
come me.
La seconda fase consiste proprio nel tentativo, da parte della bambina, di
copiare il mio comportamento. Di fronte alle stessa operazione (e poi, in
seguito, anche di fronte a operazioni diverse) incoraggio Simona a darsi a
voce alta le istruzioni verbali per arrivare alla soluzione corretta.
Secondo i principi dell’apprendimento senza errori che abbiamo avuto
modo di vedere tante volte, la terza fase consiste nell’attenuazione delle
autoistruzioni verbali. Insegno a Simona, ancora ponendomi come modello,
che non è sempre necessario darsi a voce alta tutte le istruzioni complete,
ma che è possibile svolgere correttamente le addizioni con il riporto anche
riducendo queste autoistruzioni all’essenziale, per esempio:
“Sommo le unità… riporto le decine…”.
Tutte le altre istruzioni possono infatti essere dette dentro di sé, cioè
pensate. L’importante, naturalmente, è non dimenticare mai di pensare a
quello che si deve fare per arrivare alla soluzione.
Questa è, appunto, la quarta e ultima fase: imparare a darsi autoistruzioni
interne, inizialmente pronunciandole a bassa voce, poi solo a fior di labbra,
infine trasformandole in pensieri.
A Simona piacevano molto questi esercizi, che trovava così diversi dal
modo consueto di fare i compiti di matematica. Aumentò la sua attenzione,
la sua motivazione, la memoria per le regole e le strategie e la capacità di
usarle al momento giusto. Anche la generalizzazione sarebbe certamente
aumentata se solo le maestre mi avessero dato una mano. Comunque, per lo
meno con me in studio e con una mia collaboratrice che di pomeriggio la
aiutava privatamente e che seguiva le mie indicazioni, fu evidente che nello
svolgere le operazioni aritmetiche e, in seguito, nella soluzione dei
problemi, la bambina divenne meno passiva, più autoregolata e sviluppò
uno stile di attribuzione più adeguato (se mi impegno, se mi do le
istruzioni giuste, se penso prima di fare il calcolo, allora posso ottenere
risultati migliori).
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Capitolo 9
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La risposta a questi dubbi è l’abituazione (vedi riquadro): a parità di
condizioni, l’ansia e in genere il disagio emotivo decrescono con il passare
del tempo. In altre parole, ci si abitua a una situazione inizialmente
percepita come pericolosa perché nuova. Tutto ciò significa, più in generale,
che il tempo che può sembrarci perso è spesso tempo guadagnato: e non
solo per il paziente. Se un bambino è in ansia non gli fa certo bene
percepire che è in ansia anche il suo terapeuta, perché ha fretta di
raggiungere qualche risultato, o di fare qualche test, o di ottenere per lo
meno qualche risposta significativa alle sue domande. Questo può essere
facilmente spiegato al genitore che è entrato con il figlio. Spesso io guardo
l’orologio e chiedo, per esempio:
“Ha fretta, signora?”.
Quasi sempre mi viene risposto di no.
Allora aggiungo:
“Glielo dico perché sto perdendo un po’ di tempo in modo che il
bambino familiarizzi con la situazione…”.
Naturalmente la cosa è più semplice in un setting pubblico, dove la fretta
e l’ansia da prestazione dello psicoterapeuta non sono influenzate dal
pensiero che a fine seduta, indipendentemente da quello che si è riusciti a
fare, sarà necessario chiedere del denaro. Ma non credo che questo possa
modificare sostanzialmente la questione: se un paziente ha bisogno di
tempo, è bene concedergli questo tempo, anche se poi lo dovrà pagare.
Siamo dunque a queste prime caute manovre di abituazione e di
conoscenza reciproca quando, dopo una decina di minuti passati tra silenzi,
imbarazzi e qualche monosillabo, abbiamo un colpo di fortuna.
All’improvviso va via la luce nello studio e Patrizia sorride. Le chiedo se la
cosa la diverte. Mi fa cenno di sì, sempre ridacchiando. Fingo di affannarmi
a rimediare, cercando di rendere il più caricaturale possibile la scena.
Quando finalmente torna la luce le dico che a questo punto, dopo che ho
fatto tanta fatica, potrebbe anche farmi un disegno. Accetta e, con la testa
china sul foglio, risponde a qualche mia domanda. Le dico che mi sta
facendo un disegno bellissimo. Le chiedo che voto ha in disegno. Con un
filo di voce mi dice che non lo sa,3 come non sa il giorno del suo
compleanno; però sa rispondermi che ha otto anni e in ogni modo, anche se
tra mille difficoltà, una relazione verbale tra di noi è cominciata. Piano
piano, sempre a voce bassissima, pronuncia qualche semplice frase in
risposta a qualche mia semplice richiesta. Dopo una mezz’ora circa si
stacca fisicamente dalla madre, nel senso che non ha più bisogno di
toccarla; allora la madre si allontana con la sua sedia di qualche centimetro
dalla scrivania. Racconto questi dettagli perché spero che abbiano un
significato “terapeutico” per lo psicologo clinico che, ancora con poca
esperienza, si stia avvicinando al mondo dell’età evolutiva. Difficoltà come
quelle che ho appena descritto sono piuttosto frequenti nel nostro lavoro e
creano spesso situazioni di imbarazzo e di apparente impasse. Ma tendono,
quando prima quando dopo, a risolversi in questo modo. A volte è
necessaria una manciata di minuti perché il bambino si abitui alla situazione
e la relazione prenda il via. Altre volte, come in questo caso, è necessaria
metà seduta. Ci sono anche casi più difficili nei quali sono necessarie
settimane di lavoro (di apparente non lavoro), ma poi, invariabilmente,
l’abitudine prende il posto dell’ansia, purché il terapeuta sia consapevole di
questo e si comporti (apparentemente, non si comporti) di conseguenza. Il
grande nemico, in queste situazioni, è il bisogno di fare qualcosa, di
guadagnarsi la parcella lavorando attivamente verso chissà quale obiettivo.
La grande alleata, come avviene molto spesso nel nostro mestiere, è una
consapevole pazienza.
ABITUAZIONE
A parità di condizioni, l’ansia tende a decrescere a mano a mano che
rimaniamo immersi nella situazione ansiogena, o in funzione di
quante esperienze simili facciamo di questa situazione. L’ansia che
provo oggi quando devo fare una lezione all’Università è
infinitamente più bassa di quella che ricordo di aver provato il mio
primo giorno di lezione il primo anno. Questo fenomeno prende il
nome di abituazione e può essere sfruttato in psicoterapia offrendo al
paziente occasioni sufficientemente prolungate o frequenti di fare
esperienza delle situazioni che gli creano ansia.
Per esempio, Patrizia nel presente capitolo, ed Enrico nel 21, si sono
tranquillizzati a mano a mano che hanno fatto l’abitudine a situazioni
nuove inizialmente ansiogene per loro.
La mamma mi dice:
“Patrizia faceva il conto alla rovescia di quanti giorni mancavano alla
fine del mio lavoro estivo”.
“Allora lei ha smesso perché glielo chiedeva la bambina”.
“Veramente me lo ha chiesto una volta sola…”.
Mi guarda. Io guardo la bambina che adesso gioca tranquilla con la
tirocinante. Sorrido alla mamma, con una punta di ironia, come a suggerire
che forse il problema non è proprio e solo tutto della bambina.
Sembra comprendere e riflettere. Dopo qualche secondo di silenzio
aggiunge:
“Se sapessi che fa bene alla bimba ci tornerei”.
La seduta ha preso una piega che non avevo programmato. Madre e
figlia sono entrate insieme e poi è stata la madre a rivolgersi a me, come se
in qualche modo io fossi il suo psicologo. Patrizia, nel frattempo, ha
familiarizzato sempre di più con la tirocinante e questo, per ora, ci è utile
per favorire il distaccarsi tra la mamma e la bambina. Tuttavia è anche
giusto riconoscere che la situazione mi sta in un certo senso sfuggendo di
mano, perché non era certo questo che avevo in mente per la seconda
seduta. La cosa si fa ancora più evidente quando la bambina comincia a
giocare con una bambola, la mamma la guarda e dice che anche a casa
gioca spessissimo e a lungo in questo modo. Il papà, quando la vede, si
arrabbia e la sgrida. Trovo un po’ strana la rabbia del papà, dal momento
che Patrizia ha otto anni e mi sembra piuttosto normale che giochi con le
bambole. Allora la mamma mi spiega il motivo delle loro perplessità
aggiungendo che fa così da dopo l’aborto (anche se non usa questo termine,
ma un giro di parole). Mi sembra impossibile non raccogliere questa nuova
comunicazione, non rimandargliela indietro e non arrivare a condividere
che certamente le cose sono collegate e che Patrizia, con questo gioco
insistito, sembra voler dire qualcosa, esprimere un bisogno o un’emozione.
Mi sembra impossibile non raccogliere, ma lo faccio in un modo veloce e
come furtivo, un modo che non mi piace ma che mi è dettato dalla presenza
della bambina. Poi, appena mi è possibile, cerco di coinvolgere la figlia
come protagonista della seduta, piuttosto che continuare a lasciarla in un
angolo mentre parlo con la mamma di cose che lei probabilmente ascolta
come di nascosto.
Prendo dallo scaffale della libreria un libro di animali molto semplice e
dico alla mamma di provare a far leggere la bambina. Temo che se lo
facessi io direttamente potrei mettere Patrizia in maggiore difficoltà. In
questo modo, invece, posso mantenere il coinvolgimento della madre nella
seduta, evitare la marginalizzazione della bambina e osservare le loro
interazioni su un compito preciso. Patrizia prima guarda le figure e sfoglia
velocemente le pagine senza leggere nulla. Contrattano per un tempo
piuttosto lungo la pagina da leggere (“questa è troppo lunga… questa non
mi piace…”). Quando la mamma insiste, Patrizia mostra una certa
oppositività iniziale. Poi comincia a leggere con un filo di voce, appena
percettibile. Mostra gravi esitazioni di fusione di fronte a parole appena più
difficili delle bisillabe piane. La mamma la riprende invitandola a non
guardare i disegni, ma a concentrarsi sulla lettura. Guarda la figlia con aria
preoccupata, come se di nuovo temesse una brutta figura e quindi il
materializzarsi delle sue paure. Non rinforza mai la bambina, neanche
quando legge in modo corretto una parola. Le fornisce qualche timido aiuto,
ma con una voce molto bassa, ai limiti della percettibilità proprio come
quella della figlia. Le corregge spesso gli errori e, mi appunto per la
seconda volta in cartella, non gratifica mai le risposte adeguate.
La lettura di Patrizia è lenta, la bambina appare costantemente in
difficoltà, confonde in particolare la b con la d e la a con la e. Inoltre,
sembra non credere a quello che fa. Non ha fiducia nella possibilità di fare
buona figura, ma, al contrario, appare certa che non leggerà bene.
L’impressione, per usare un termine tecnico, è di una bassa autoefficacia
, con un dialogo interno del tipo: “tanto, qualunque cosa faccia, leggerò
male”.
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IL PAPÀ
Mentre Patrizia prendeva accordi con la tirocinante, ho parlato rapidamente
con la mamma nel corridoio. Le ho detto che, anche alla luce di tutto quello
che stava venendo fuori, avrei avuto piacere di conoscere suo marito e di
poter parlare un po’ tutti e tre insieme. La signora mi ha risposto che vedeva
la cosa come piuttosto difficile: già il marito è molto scettico su questo tipo
di interventi sulla figlia, poi è sempre così occupato per il lavoro… Ho
risposto che naturalmente non era un obbligo, ma una mia idea, una mia
proposta. Ho aggiunto che sullo scetticismo non potevo farci granché, ma
per il problema degli impegni potevo venire loro incontro, per esempio
fissando un appuntamento la sera tardi oppure il sabato. Sono rimasto
d’accordo che lei ne avrebbe parlato con il marito e poi mi avrebbero fatto
sapere.
Il sabato mattina tra la seconda e la terza seduta con Patrizia riesco a
vedere i genitori insieme. Il discorso cade subito sui rapporti difficili tra la
bambina e il padre, il quale mi racconta che la figlia lo rifiuta, lui ci rimane
male, si arrabbia e finisce per farle i dispetti, per ripicca, come farebbe un
coetaneo. Il risultato è che la figlia si allontana ancora di più.
Gli dico che è un provocatore.
Mi rendo conto ora, rivedendo gli appunti, che si è trattato di un azzardo,
dal momento che eravamo nella prima fase del nostro primo colloquio.
Avrebbe potuto non riconoscersi in questa mia definizione, oppure
offendersi. Invece sembra che mi sia andata bene. Mi risponde che è vero:
anche da ragazzo, a scuola, non faceva che prendere note e dare problemi ai
genitori. “Ora”, aggiunge, “attacco Patrizia forse per attirare un po’ la sua
attenzione che altrimenti è tutta per la mamma”.
“Attacca Patrizia…”.
“Sì…”.
“Per esempio, se la prende quando gioca con la sua bambola Beatrice”.
“Sempre con quel bambolotto… sembra un secondo figlio…”.
“Appunto…”.
Riescono entrambi a venirmi dietro su questo tema; a comprendere che
quasi certamente Patrizia sa e adesso avrebbe bisogno di sentirlo raccontare
da loro. Dico:
“Prima non faceva questo gioco”.
“Prima no”.
“Quando ha iniziato?”.
“Da dopo che è successo quello che è successo”.
Ma questa lunga perifrasi per non nominare l’aborto neppure adesso, in
un colloquio protetto alla presenza di un professionista e senza Patrizia, la
dice lunga sul percorso che ancora dovremo fare.
“Non ne avete più parlato?”.
“No”.
“Avete paura”.
“Sì, abbiamo paura”.
Di nuovo lavoriamo su questo, perché sviluppi, sia pure con i tempi che
saranno necessari, la consapevolezza della necessità di superare il silenzio.
Di paura in paura, di non detto in non detto, arrivano insieme a un’altra
grande angoscia familiare, della quale la mamma mi aveva già fatto un
cenno durante la prima seduta. Fanno molta fatica a raccontarmelo e il
racconto è molto incompleto. Ma sul dramma che generano questi pensieri
ci sono pochi dubbi. Torna di nuovo il fantasma del cugino di Patrizia. Il
papà si emoziona a parlare della malattia del nipote e della sua paura che
Patrizia sia o diventi come lui.
La mamma lo ascolta. Ho l’impressione che in casa abbiano parlato ben
poco di tutto questo: la mamma lo ascolta quasi come se fosse la prima
volta. Poi commenta:
“Io non ho paura. Sono terrorizzata”.
Lascio che racconti di nuovo questo suo terrore, senza rassicurarla
rispetto a cose che per ora non posso sapere, ma dicendo a entrambi che
cercherò di conoscere Patrizia in modo da poter rispondere ai loro dubbi.
Questa, tra l’altro, è anche una delle richieste della pedagogista che me l’ha
inviata (la sua relazione parlava esplicitamente di una “valutazione del suo
livello cognitivo e emotivo”) e dunque potrebbe essere il mio primo
obiettivo di lavoro con la bambina.
Discuto con i genitori anche altri obiettivi possibili.
Un secondo potrebbe essere un avvicinamento dei comportamenti del
padre e di quelli della madre nei confronti della figlia. Adesso mi sembrano
così diversi gli uni dagli altri, così distanti da generare poi, inevitabilmente,
comportamenti molto diversi della bambina nei confronti dei genitori. Forse
per questo per Patrizia è tanto difficile, da un lato, staccarsi dalla madre e,
dall’altro, avvicinarsi al padre.
L’ultimo obiettivo è quello di parlare esplicitamente del bambino perso.
Il padre sembra molto colpito dal modo con cui ho formulato il secondo
obiettivo e dal fatto che, secondo me, Patrizia si comporta in modo così
diverso con loro perché loro si comportano in modi così diversi con lei. E
commenta:
“È vero che Patrizia vuol stare solo con la mamma, ma è anche vero che
la mamma non la lascia un momento”.
“Sì, certo, è quello che ho notato anch’io. Ma sei poi la mamma prova ad
andare a lavorare e lei non ce la manda…”.
Sembra colpito7 da questo, come da un piccolo insight. Ci lavoriamo.
Favorire il distacco della bambina dalla madre può essere un lavoro
complesso. Ma padre e madre possono fare insieme piccoli passi in questa
direzione. La mamma per prima può provare ad allontanarsi un po’. Si
possono invitare a casa sua alcune compagne di scuola. Proviamo a fare
altri esempi semplici di distacco e su questo tema concludiamo la seduta.
Nella quinta seduta le somministro le prove MT,10 dalle quali risulta una
prestazione sufficiente per comprensione e anche, sia pure ai limiti inferiori
della norma, per correttezza. È invece deficitaria la velocità. Tutto questo
viene alternato con giochi, disegni e colloqui con la tirocinante, con la quale
evidentemente la bambina si trova molto bene. Il gioco con la bambola
Beatrice va avanti e porta la bambina a parlare ancora brevemente della
sorellina. Racconta che avrebbe voluto una sorellina, ma adesso non la
vuole più. Sapeva che avrebbe dovuto arrivare la cicogna, glielo aveva detto
la mamma, ma ora non ne sa più niente. È molto agitata nel raccontare
quest’ultima cosa e, appena ha finito di dirlo, chiede esplicitamente:
“Giochiamo”, per interrompere questo discorso che le genera
evidentemente un’ansia maggiore di quella che è capace di tollerare.
Per tutte e due le sedute e per tutta l’ora la mamma resta fuori dallo
studio e in alcuni momenti possiamo cominciare a lavorare su come si sente
quando si stacca dalla mamma e su quali emozioni prova.
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Poi, e qui siamo arrivati alle soglie delle vacanze di Natale e sono passati
dunque quasi quattro mesi, andrà a cantare in chiesa e di nuovo, come
vedremo più avanti, sarà rinforzata in un modo molto significativo per
questo. Poi andrà ai Giochi della Gioventù: siamo in primavera e questo
nuovo obiettivo sarà raggiunto attraverso un vero e proprio contratto
educativo (vedi paragrafo successivo). Poi comincerà a invitare le amiche a
casa. Poi le inviterà al mare: inutile sottolineare che questo non potrà
avvenire che in estate e che dunque sarà necessario del tempo per arrivare a
certi risultati. Infine sarà lei ad andare al mare dalle amiche, cioè a
raggiungerle nei loro stabilimenti balneari e perciò molto lontano dalla
madre. A questo punto qualche lettore attento potrebbe pensare che da un
certo momento in avanti abbia dimenticato di rinforzare o di scrivere di
aver rinforzato Patrizia. È vero che non l’ho scritto. È anche vero che ho
smesso di rinforzarla, ma non perché mi sia dimenticato. Un programma di
modellaggio prevede, come è noto, un uso sistematico del rinforzamento
anche quando, nelle prime fasi, i comportamenti messi in atto dal paziente
sono ancora molto lontani dall’obiettivo finale. Ma quando tutto procede
nel migliore dei modi, arriva un momento in cui il successo stesso del
programma genera rinforzatori erogati spontaneamente dall’ambiente
naturale, che in qualche modo diventano così intrinseci. All’inizio è
importantissimo (per non dire indispensabile) far sentire la bambina a suo
agio quando la mamma esce dal mio studio anche per pochi minuti,
comprendere che questo è già un risultato per lei e rimandargli indietro
l’importanza di questo successo. Più avanti sarà ancora importante
sottolineare i suoi successi e la nostra soddisfazione. Ma che bisogno c’è di
una token economy per rinforzarla del fatto che si diverte al mare con le
amiche? Lei si diverte, appunto, e questo è più che sufficiente!
Le cose, naturalmente, non vanno sempre così bene in un lavoro
terapeutico. Ma quando vanno così rappresentano la risposta migliore alle
obiezioni di artificiosità e non generalizzazione di questi interventi. E la
riposta è: noi cominciamo così; e poi vediamo fin dove riusciremo ad
arrivare.
CONTRATTO EDUCATIVO
Nessun psicoterapeuta vuole ricattare i suoi pazienti o desidera che i
genitori lo ricattino. Ma molto spesso, tra persone per bene, prima si
fanno accordi chiari e poi si cerca di rispettarli. Io, per esempio, mi
impegno a lavorare con te su un programma per automatizzare il tuo
processo di lettura la prima mezz’ora della nostra seduta. Tu ti
impegni a dedicarti a questo programma con attenzione per il tempo
che abbiamo concordato. Ci accordiamo infine che, nella seconda
metà della seduta, parleremo di cose che ti stanno a cuore e poi
faremo insieme uno dei tuoi giochi preferiti. Quando tutto questo,
anziché restare un accordo verbale o peggio ancora implicito, viene
riportato su un foglio in modo chiaro e firmato da tutti i soggetti
interessati, si trasforma in un contratto educativo. Abbiamo visto
spesso (capp. 9, 19 e 21) come il contratto educativo possa diventare
uno strumento prezioso soprattutto all’interno di procedure di parent
training, perché permette al terapeuta di dare indicazioni chiare al
bambino e ai suoi genitori, gli fornisce feedaback piuttosto precisi di
quello che è avvenuto a casa tra una seduta e l’altra e favorisce la
generalizzazione.
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Come si può notare dal confronto tra il grafico riportato nella figura 9.6 e
quello riportato nella figura 9.7, le prestazioni di Patrizia migliorano,
passando da 20 risposte corretta su 40 parole a 40 su 43.
Figura 9.6 Il software tachistoscopio fornisce diversi feedback alla fine della seduta. Qui si può
vedere, in alto a sinistra, come la bambina ha risposto: a volte “non so”, a volte in modo corretto (per
es., “bivio”), a volte sbagliando (per es., “volte” anziché “volta”); in basso a sinistra il totale di parole
lette correttamente e il totale di errori; in basso a destra un grafico delle percentuali di risposte
corrette e di errori. Le sigle Sx, Cen e Dx si riferiscono alla modalità di presentazione della parola (a
sinistra, al centro, a destra dello schermo), ma non ci interessano in questo caso.
Figura 9.7 Il software tachistoscopio dopo qualche settimana di training: nella parte alta si vede che
la bambina ha letto correttamente tutte le parole di quella schermata, mentre nella parte bassa si
vedono, a sinistra, i pochi errori commessi e, a destra, il grafico delle percentuali di risposte corrette e
di errori che, paragonato al grafico della figura 9.6, evidenzia un netto miglioramento.
Figura 9.8 Grafico costruito e colorato da Patrizia. Per ogni seduta, la colonna di sinistra indica le
parole lette in modo corretto e quella di destra le parole sbagliate. Nell’istogramma che rappresenta
l’ultima seduta, la colonna delle parole sbagliate è vuota e quindi non è stata disegnata.
AUTOEFFICACIA
L’autoefficacia è un costrutto teorico con molti punti di contatto e
talvolta anche di sovrapposizione con l’autostima , ma non deve
essere confusa con quest’ultima. Se infatti l’autostima può essere
definita come l’immagine di sé, l’autoefficacia rappresenta la fiducia
nella possibilità di influenzare e modificare eventi che ci riguardano.
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… e contemporaneamente il lavoro sulle emozioni
È metà ottobre. Sono le nostre prime sedute. Patrizia sta giocando con la
tirocinante. Ha in mano Beatrice, la sua bambola che ormai porta
regolarmente con sé. Parlano tanto di questa bambola (e nel frattempo la
mamma, come vedremo più avanti, ha cominciato a parlare con la figlia del
fatto che la cicogna non arriverà). A un certo momento racconta che la
cicogna arriva con Beatrice, una bambina vera, ma la porta in un’altra
famiglia, perché la sua mamma non la vuole più.
Questo rappresenta un punto molto delicato del lavoro. Molto più
delicato e molto più complesso del tachistoscopio e della velocità di lettura.
Patrizia ci sta raccontando qualcosa, ma ci sta anche chiedendo qualcosa. Ci
sta raccontando che forse ha capito che la sorellina non arriverà. Ma non sa
bene se le cose stanno proprio così. Forse vorrebbe sentirlo da noi, o per lo
meno poterne parlare.
Ci vuole molta cautela, in momenti come questi. Lo psicoterapeuta
ascolta, ovviamente; raccoglie e sicuramente non nega. Poche cose
sarebbero sbagliate come rassicurare un bambino che finalmente trova il
coraggio di raccontare un fatto o un’emozione negativa dicendogli che le
cose non stanno così. Lo psicoterapeuta ascolta, dunque, ma non può
sostituirsi ai genitori. Quello che può fare è favorire la narrazione di una
storia condivisa. Chiedo allora a Patrizia di portare in studio le foto della
sua storia. Costruiamo insieme, in un file di word, il libro della storia di
Patrizia: il giorno in cui è nata, con le immagini dell’ospedale di Massa
scaricate da Internet; quando l’hanno portata a casa; il suo battesimo… ma
sempre facendo molta attenzione ad affiancarsi e non a precedere le cose
raccontate dai genitori. Seduta dopo seduta, stampiamo queste pagine e
Patrizia le porta a casa per mostrarle a chi desidera. Arriviamo così all’oggi,
attraverso le feste di compleanno, i nonni materni e paterni (e qui la
bambina approfitta per dirmi quanto detesti la nonna paterna, magra magra,
sempre nervosa e invadente!), il primo giorno di scuola, i compagni. Nel
frattempo, come vedremo più avanti, sto lavorando con i genitori, attraverso
una forma di parent training , per favorire questo loro affiancarsi nel
raccontare alla figlia. Di seduta in seduta, dunque, Patrizia arriva al giorno
in cui il papà e la mamma le dissero che sarebbe arrivata la cicogna a
portarle un fratellino o una sorellina. Mi racconta i suoi pensieri e le sue
emozioni di quel periodo. Mi racconta anche che poi la mamma le ha detto
che non era stata molto bene e quando una mamma sta così purtroppo la
cicogna, almeno per ora, non può arrivare.
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Sono le cose non dette quelle che fanno più male. Sono le cose che non
abbiamo il coraggio di raccontare quelle che fanno più paura.
Dall’insegnare a dire no con un gesto all’autistico e prevenire così il suo
bisogno di battere la testa contro il muro, fino all’elaborazione di un lutto e
oltre, una parte grandissima di psicoterapia consiste nel trasformare il non
detto in detto, l’implicito in esplicito, il silenzio in parole: agli altri ma
forse, più profondamente ancora, a se stessi.
Così, piano piano, dopo aver affrontato il problema della cicogna che
non arriverà, Patrizia impara a parlare anche di altro e con altri. Delle sue
amiche, per esempio, delle sue compagne di scuola con le quali c’è per lo
più un rapporto insoddisfacente quando non francamente difficile. Impara
anche, però, che se prova a frequentarle qualcosa può cambiare. Con la
tirocinante hanno costruito un termometro delle emozioni (fig. 9.9)
attraverso il quale dare un nome alla rabbia, alla tristezza e alla felicità, e
valutarne l’intensità nelle varie situazioni.
Figura 9.9 Il termometro della tristezza, della rabbia e della felicità.
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Un contratto strategico
Figura 9.10 Il contratto educativo stilato estemporaneamente per Patrizia sfruttando un momento
favorevole della terapia.
pag. 13
Parent training
Con l’andare avanti della terapia Patrizia mostra sempre più chiaramente di
lavorare volentieri con la specializzanda. Questo mi permette di lasciarle
spesso sole e di fissare contemporaneamente colloqui con i genitori,
soprattutto con la mamma che accompagna la figlia alle sedute e che in
questo modo risparmia anche del tempo, non essendo costretta a prendere
altri appuntamenti con me in orari diversi.
Il lavoro andrà avanti per molti mesi su vari temi.
Il primo riguarda la necessità di parlare a Patrizia della sorellina che non
arriverà, e dunque dell’aborto. Come abbiamo visto, questo non è un
compito che viene scaricato sui genitori, ma non è neppure un lavoro che lo
psicoterapeuta può svolgere da solo. Così, quello che si verifica è una
specie di gioco di sponda. Patrizia, in seduta, ricostruisce la sua storia, e i
genitori (la mamma, soprattutto) durante i colloqui di parent training prima
acquisiscono la consapevolezza della necessità di raccontare certe cose e
poi si fanno coraggio e cominciano a parlarne con la bambina.
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Questo processo proseguirà nel corso dei mesi. Dopo aver affrontato il tema
della cicogna che non potrà più arrivare, la mamma, sebbene molto
faticosamente, si spingerà oltre. Spiegherà alla figlia che, in realtà, non sono
le cicogne a portare i bambini e inizierà così una vera e propria, anche se
molto cauta, educazione sessuale.
Un’altra forma di gioco di sponda è costituita dal lavoro sul distacco.
Penso che spesso i metodi tradizionali di parent training siano come
monchi, o quanto meno sbilanciati. In un parent training tradizionale il
terapeuta avrebbe invitato la madre a favorire l’allontanamento della figlia e
a rinforzarla quando questo allontanamento si verificava. Tutto bene, ma
tutto un po’ freddo, un po’ troppo distante. Preferisco lavorare direttamente
su Patrizia perché cominci a prendere coraggio e a chiacchierare con
un’amica. Nel frattempo, quando questo funziona, ne discuto con i genitori.
Provo a far apprezzare loro questi progressi, e poi a fissare nuovi piccoli
obiettivi. Li invito a incoraggiare la figlia, senza forzarla, ad attività
extrascolastiche. Può darsi che l’attività più adatta venga in mente al papà o
alla mamma. Ma può anche darsi che venga in mente a Patrizia e a me in
seduta. In questo caso, suggerirò ai genitori l’idea: che poi è proprio quello
che è successo in questo caso. La bambina ha scelto un gruppo di
decoupage, dove si è trovata bene probabilmente perché poteva interagire
con delle coetanee senza la forte dose di competitività spesso presente nei
gruppi sportivi o dedicati a un’attività come la danza troppo soggetta al
giudizio. Le nostre sedute di parent training hanno così finito per
incoraggiare il distacco in modo dolce e quasi sempre concordato e
condiviso.
Abbiamo anche lavorato, sia pure con risultati alterni, su una maggiore
omogeneità di comportamenti del padre e della madre che, almeno nei
momenti migliori, si sono resi conto che atteggiamenti educativi troppo
distanti non favorivano l’equilibrio nella figlia.
Un punto importante, toccato subito a gennaio e dunque pochi mesi dopo
l’inizio della nostra terapia, è stata la rielaborazione in studio, con la
mamma, dell’esperienza delle Cronache di Narnia. La mamma mi ha
raccontato della sua ansia prima (aveva sentito il bisogno di farsi
accompagnare dalla nonna perché temeva di non reggere l’attesa di oltre
due ore nei paraggi del cinema!) e la sua incredulità poi. Mi sembra anche
questo un buon esempio di quello che potremmo chiamare parent training
“a caldo”, o condiviso. In una parent training “a freddo”, fatto cioè solo dal
lavoro del terapeuta con i genitori, lo psicologo avrebbe probabilmente
sostenuto l’importanza di mandare Patrizia al cinema con qualcun altro. La
mamma avrebbe detto che credeva che questo sarebbe stato troppo difficile
per la bambina. Forse lo psicologo le avrebbe fatto notare che
probabilmente diceva così perché la cosa era troppo difficile per lei.
Naturalmente non nego che un lavoro di questo genere, ben condotto,
avrebbe potuto portare a un insight nella madre e che l’insight, a sua volta,
avrebbe aiutato i genitori a programmare questa esperienza. Mi limito a
osservare che il lavoro contemporaneo con Patrizia e la mamma è stato più
facile e più naturale.
È stato molto naturale anche passare dal contratto improvvisato in seduta
dalla specializzanda all’uso potrei dire routinario dei contratti in parent
training. Questi contratti, come si vede bene anche in altre parti del libro,
servono prima di tutto per favorire la generalizzazione. Io posso lavorare in
studio perché Patrizia faccia un test o un esercizio di lettura con me senza la
madre vicina, ma non posso portarla a una festa di compleanno o ai Giochi
della Gioventù. Queste attività possono però essere programmate in
colloqui con i genitori, e i contratti educativi rappresentano una importante
guida per loro.
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Con l’avvicinarsi delle vacanze estive, e quindi verso la fine del nostro
lavoro, la mamma impara anche a usare i rinforzatori informativi, o
feedback, per favorire la velocità di lettura e, più in generale, la motivazione
ai compiti. Come abbiamo infatti già visto, la mamma segnala alla figlia, in
modo preciso e immediato, il risultato della sua lettura, incoraggiandola di
giorno in giorno a diminuire il numero di errori, ma soprattutto ad
aumentare la sua velocità. Inoltre, le crocette messe prima all’inizio di un
libro di lettura e poi su quello dei compiti per le vacanze, segnalano a
Patrizia i suoi progressi (rinforzatore positivo) e le danno la soddisfazione
immediata di vedere che i compiti da fare diminuiscono (rinforzatore
negativo).
Infine, ancora durante le vacanze, lavoro con la mamma perché
acquisisca una sempre maggior consapevolezza dell’importanza delle
relazioni della figlia con le amiche. Discuto anche del fatto che la capacità
di Patrizia di frequentare coetanee e divertirsi non è un dato immutabile sul
quale non abbiamo controllo, ma qualcosa sul quale si può lavorare e
ottenere successi anche molto significativi. Durante una seduta di parent
training leggerò alla mamma quello che ha scritto in cartella la tirocinante,
e del quale ho già parlato:
Mi racconta che è andata a casa della Nicoletta. Mi dice:
“Abbiamo mangiato un pezzo di focaccia e un bombolone. Abbiamo cercato le coccinelle. Poi
in piscina dopo aver digerito. Poi l’idromassaggio”.
“Quanto eri contenta da zero a dieci?”.
“Mille!”.
“Perché eri così contenta?”.
“Perché gli altri giorni gioco con le bambole e mi annoio di più”.
Mi piace riportare di nuovo questo brano nella speranza che il lettore si
renda conto di come esperienze ed emozioni di questo genere possano
essere preziose in un parent training per modificare lo stile di attribuzione
di una madre e farle almeno intravedere speranze nuove di cambiamento.
Consulenza ai genitori (piuttosto che niente)
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7 Nel capitolo 26 vengono discusse queste strategie terapeutiche che consistono nel creare una
forma di perturbazione nel paziente per favorire una ristrutturazione, un modo diverso di vedere le
cose.
8 Vedi capitolo 1, nota 3.
9 Vedi nota 6 del presente capitolo.
10 Vedi capitolo 7, nota 4.
11 Vedi capitoli 7, 8, 12, 17 e 18.
12 Questa è una tipica manovra di rinforzamento incondizionato, cioè di una gratificazione che
viene data non per un comportamento più o meno corretto, ma indipendentemente da tutto, senza
nessuna condizione. Si usa di solito nelle prime fasi non solo di un intervento terapeutico, ma di
qualunque tipo di interazione. Nei primi giorni di scuola, la maestra rinforza i suoi piccoli alunni
senza chiedere loro nulla “in cambio” e l’innamorato, all’inizio di una storia, dice al partner “grazie
di esistere”. È interessante notare come questa forma gratuita di rinforzamento non possa durare a
lungo senza perdere di significato e debba più o meno gradualmente essere sostituita da rinforzatori
erogati con maggiore consapevolezza.
pag. 13
13 Il rinforzatore deve essere definito in modo chiaro, proprio come l’obiettivo, per evitare i rischi di
una vaghezza all’interno della quale poi ognuno possa fare quello che vuole, violando di fatto la
reciprocità degli impegni presi. Questo significa che l’impegno di un bambino non dovrebbe essere
“fare il bravo”, perché poi il rischio è che sosterrà di essere stato bravo qualunque cosa abbia fatto.
Analogamente, il rinforzatore non dovrebbe essere “un bel giocattolo”, per evitare che quello che
sembra bello al padre o alla madre sia una delusione per il figlio. Questa regola ha però
un’importante eccezione, rappresentata dal rinforzatore “a sorpresa”. In alcuni casi può essere
corretto, e anche molto efficace, lasciare nel vago il rinforzatore finale per aumentare la curiosità del
bambino e dare un significato speciale a tutto l’accordo.
14 Per informazioni sui software tachistoscopici è possibile consultare i seguenti siti che si
riferiscono, rispettivamente, al tachistoscopio dell’Anastasis di Bologna, a quello dell’Istituto per le
Tecnologie Didattiche del CNR di Genova e a quello della Tecnimedia distribuito da Vannini di
Brescia: http://www.anastasis.it/AMBIENTI/NodoCMS/CaricaPagina.asp?ID=50;
http://sd2.itd.cnr.it/prot/recensioni/tachis.htm; http://www.vanninieditrice.it. Come è più
analiticamente illustrato nei capitoli 7 e 8, oltre alla presentazione tachistoscopica è possibile
utilizzare per l’automatizzazione anche il trattamento sublessicale e diversi strumenti di abilitazione a
distanza messi a punto da Anastasis e Erickson.
15 Vediamo qui, evidente, il nesso tra autoefficacia (vedi riquadro alla pagina seguente) e
motivazione. Si rende conto di essere in grado di migliorare la sua lettura e legge più volentieri.
16 Non resisto alla tentazione di ripetere, di fronte a questo episodio, che il rinforzamento non è un
meccanismo monodirezionale. Il rinforzamento sta dentro una relazione e, ogni volta che lo si usa,
ritorna indietro. Persino i topolini nella gabbia di Skinner rinforzavano il loro sperimentatore e, in
un’indimenticabile vecchia vignetta dicevano, indicando Skinner: “Hai visto? Siamo riusciti a
condizionarlo! Ogni volta che premiamo la leva ci dà un pezzo di formaggio…”. Anche qui succede
qualcosa di simile: chi rinforza chi? La tirocinante rinforza Patrizia perché legge sempre meglio e
Patrizia le dà un bacio.
17 Tipica manovra di ristrutturazione cognitiva , equivalente a chiedere: “Qual è la prova?”.
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Capitolo 10
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Figura 10.7 Osservazione sistematica di sillabe e parole a casa.
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Figura 10.8 Piccolo dettato con SuperQuaderno dopo circa tre mesi di lavoro
Poi ci fu il momento in cui per Ferdinando si rivelò utile usare il
SuperQuaderno a scuola e insieme alle maestre riuscimmo a coinvolgere
tutti i compagni di classe e a incuriosirli sull’uso del computer. Con la
modalità tipica del brainstorming e del circle time, ogni compagno di classe
ha avuto modo di esprimere le proprie idee sul computer: se lo
possedevano, per che cosa lo usavano, se lo consideravano uno strumento
interessante, se secondo loro era più divertente scrivere con la penna o con
il computer. Ferdinando ascoltava i suoi compagni con curiosità e interesse,
e più andava avanti la discussione più lui sembrava contento di vedere che
quello che per lui stava diventando un “amico”, un alleato del suo
apprendimento, era un oggetto che veniva apprezzato anche dai suoi
compagni.
pag. 562
Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività
Fabio Celi
LA STORIA DI LORENZO
Di solito, la raccolta delle informazioni durante il primo colloquio con i
genitori è preceduta da una breve fase costituita da alcune “mosse di
apertura”, che consistono essenzialmente nel cercare di mettere i genitori a
proprio agio, lasciandoli parlare di quello che preferiscono in modo da
iniziare poi il colloquio vero e proprio nella situazione migliore. Le
cosiddette “mosse di apertura” possono durare qualche minuto, durante il
quale lo psicologo può domandare ai genitori, per esempio, se hanno avuto
difficoltà a trovare lo studio, oppure come è nata l’idea di chiedere questa
consulenza. Il discorso si sposta così, gradualmente, verso i bisogni del
figlio e il colloquio vero può prendere il via, con l’ascolto del problema, la
raccolta dell’anamnesi e tutte le sue fasi successive.
pag. 49
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Alla fine, l’obiettivo ultimo e fondamentale del primo colloquio è far sì
che il paziente torni al secondo colloquio.
La mamma di Lorenzo era venuta per dirmi che il suo bambino stava
bene e non aveva bisogno di nulla e che se il problema era delle maestre,
erano le maestre che dovevano cercare di risolverlo. Invece, adesso mi sta
raccontando che anche quando lo accompagnano a scuola ha degli strani
comportamenti. Deve toccare con il piede tre volte un certo gradino, sempre
lo stesso, della scala esterna; deve essere la mamma, o il papà, o chi lo
accompagna ad aprire la porta che immette nell’atrio; ed è in quel preciso
momento che lui deve dare il bacio di commiato. È su questo punto che
interviene il padre per la prima volta, parlando di veri e propri rituali. Per
esempio, per la mensa è necessario portare una volta alla settimana dei
buoni che attestino il pagamento e questo compito è, di solito, del padre.
Bene, in quei giorni Lorenzo “pretende” che il padre entri in classe e
depositi i buoni direttamente dentro una cassettina che la maestra tiene su
uno scaffale della libreria. È impossibile convincerlo a fargli prendere i
buoni perché sia lui a portarli a scuola. Il padre ci ha provato, qualche volta,
ma Lorenzo dà in escandescenze. Comincia a scalciare come un mulo
oppure si butta per terra e si rotola cercando di proposito di sporcarsi. Così
il padre ha deciso di rinunciare e accondiscendere a queste “fissazioni”.
A questo punto mi sembra che i genitori abbiano imparato a parlare
liberamente e che dunque sia possibile cominciare a fare domande
specifiche.
L’anamnesi è sostanzialmente negativa. La mamma ha avuto una
gravidanza regolare, Lorenzo è nato da un parto eutocico2 a termine, non
c’è stata nessuna sofferenza, il punteggio di Apgar3 era 9,9 e in quinta
giornata madre e bambino sono stati dimessi. La cartella che i genitori mi
portano è negativa per ittero e per malformazioni. Lo sviluppo è stato
regolare, senza malattie degne di nota. Come abbiamo già visto, invece, il
sonno è stato sempre gravemente irregolare e ancora adesso è motivo di
problemi e di preoccupazioni. Anche l’alimentazione sembra un po’
anomala, ma è difficile dire quanto pesi in questo una certa arrendevolezza
educativa dei genitori e dei nonni. Lorenzo ha imparato a parlare intorno ai
tredici mesi e la deambulazione autonoma è avvenuta a diciotto mesi: “E si
è subito rotto un braccio”, aggiunge la mamma sconsolatamente.
Il bambino è figlio unico. Padre e madre sono impiegati presso aziende
diverse, ma con orari simili che, in pratica, li impegnano fino a sera dal
lunedì al venerdì. Per questo Lorenzo è stato praticamente allevato dai
nonni paterni. La madre mi ripete il particolare quando affronto il tema
della composizione famigliare, anche se mi aveva già spiegato la situazione
poco fa. Mi sembra di cogliere, questa seconda volta, un sentimento a metà
tra la colpa e la rabbia per questa decisione che probabilmente, se potesse
tornare indietro, non prenderebbe più. Per il resto, la situazione famigliare
mi viene descritta come abbastanza tranquilla e sostanzialmente serena. I
nervosismi e le tensioni ruotano per lo più intorno a Lorenzo, ai problemi
educativi che il bambino pone quotidianamente, ai conflitti che suscita tra
padre e madre, che spesso non sanno come prenderlo e come reagire (con le
buone? Con le cattive? Usando le punizioni, anche corporali?).
Anticipo qui alcune notizie che, in realtà, avrò parecchi mesi dopo
questo primo colloquio, ma che mi sembra utile fornire adesso per
completare il quadro. Il pediatra mi riferisce che, per quello che ha potuto
vedere lui in questi anni, dal punto di vista fisico sembra tutto negativo.
Con il tempo e con la pazienza convinceremo comunque i genitori a
sottoporre Lorenzo a un esame elettroencefalografico sia in stato di veglia
sia durante il sonno. I risultati non saranno chiarissimi. Il tracciato non
evidenzierà episodi critici né chiari segni di lesione focale, ma rileverà un
eccesso di attività rapida di significato clinico incerto. Sulla base di questo
referto, che neppure il pediatra sarà in grado di interpretare con sicurezza,
riusciremo anche a inviare Lorenzo a una consulenza da un neuropsichiatra
infantile, il quale non darà alcuna importanza agli esami
elettroencefalografici, sottoporrà il bambino a osservazione per qualche
seduta e poi farà una diagnosi di instabilità psicomotoria in soggetto con
personalità immatura sul piano affettivo e sviluppo cognitivo adeguato.
Aggiungerà che si nota nel bambino una fluttuazione tra condotte
egocentriche e regressive, mentre è preservato l’esame di realtà.
Tutto questo, comunque, come dicevo, sarebbe avvenuto molto tempo
dopo. Quel giorno conclusi il primo colloquio valutando le intenzioni dei
genitori. Prese di nuovo la parola la madre, che mi disse che avrei potuto
parlare con le insegnanti e, se lo avessi ritenuto necessario, anche vedere il
bambino, ma solo a scuola. Lei non aveva intenzione di portarmelo per due
motivi. Prima di tutto, perché in quest’ultimo periodo Lorenzo era
decisamente migliorato e non le sembrava il caso di sottoporlo a una
consulenza proprio adesso. In secondo luogo, perché lei aveva paura delle
possibili reazioni del figlio che si agitava e spesso vomitava anche solo per
una visita dal pediatra. Emerse qui, di nuovo, l’ambiguità che aveva
caratterizzato il primo colloquio fin dall’inizio, la stessa che aveva fatto dire
alla madre che fino ai tre anni il figlio era stato benissimo, però non
dormiva mai. D’altra parte il tema del miglioramento, forse come tentativo
estremo di non sottoporre il bambino a nessun controllo, caratterizzò tutta
l’ultima parte del colloquio, che si concluse con le parole che il pediatra
aveva detto alla madre qualche mese prima:
“È un bambino molto vivace e un po’ viziato. Lo mandi all’asilo senza
pietà”.
“E in effetti”, aggiunse la madre in netta contraddizione con quanto mi
aveva detto meno di un’ora prima, “andare alla scuola dell’infanzia gli ha
fatto molto bene”.
Fu così che vidi il bambino per la prima volta alla scuola dell’infanzia e
parlai con le insegnanti in modo più approfondito di quanto non avessi
potuto fare per telefono. I sintomi che mi vennero descritti furono,
principalmente, quelli di una grave forma di irrequietezza. Lorenzo non
riusciva mai a stare fermo, non sembrava interessato a nulla di quello che le
insegnanti gli proponevano. O meglio: se anche all’inizio si mostrava
interessato a un gioco o a un’attività, ben presto si stufava, chiedeva di fare
un’altra cosa, bastava un niente per spostare altrove la sua attenzione.
Questa irrequietezza era talmente marcata da sfociare, talvolta, in episodi di
vera e propria aggressività, per lo più verbale, ma qualche volta anche
fisica. Indimenticabile, per le insegnanti, la mattina in cui, durante una
recita, cominciò prima a gironzolare sul palco e poi scese disturbando i
genitori che erano venuti ad assistere. La Dirigente scolastica gli si avvicinò
in modo gentile cercando di riportarlo al suo posto o per lo meno di
convincerlo a stare fermo. Lui la guardò con espressione di forte curiosità
(che sembrava significare: “E questa chi è? Che cosa vuole da me?”) e poi
le disse:
“Oh cretina, ma chi ti ha cercato?!”.
Una delle maestre aggiunse di essere quasi certa che se non fosse
intervenuta lei prontamente a portarlo via di peso, avrebbe dato alla
Dirigente scolastica un calcio nel sedere, perché – lei che lo conosceva bene
poteva dirlo – aveva già preso la mira.
L’aggressività di Lorenzo, purtroppo, già grave in sé, era aggravata dal
fatto che, a volte, era autodiretta. Avveniva raramente, ma quando proprio
perdeva il controllo, quando qualcosa lo contrariava in modo forte oppure
quando arrivava a scuola già agitato da casa, non solo tentava di picchiare i
compagni, avventandoglisi contro o prendendoli a calci, ma, dopo essersi
rotolato per terra, poteva anche arrivare a battere la testa contro il
pavimento. Oltre a questo c’era, come abbiamo già visto nel colloquio con i
genitori, qualche rituale ossessivo e qualche momento in cui si isolava
completamente da tutto e da tutti e, per esempio in cortile, si metteva a
giocare da solo con la sabbia.
Tutte queste notizie sono quasi completamente il frutto dei miei colloqui
con le insegnanti, perché io non ebbi mai modo di vedere, a scuola, niente
di più che un bambino irrequieto, distratto, impulsivo e a volte assente,
come un po’ chiuso in sé stesso.
Fu necessario ancora moltissimo tempo prima che i genitori si
convincessero che valeva la pena di cercare di far aiutare il figlio in modo
più sistematico e decidessero di portarmelo. Il bambino, nel frattempo, era
andato in prima classe alla scuola primaria e, anche qui, le maestre avevano
notato tempi d’attenzione brevissimi (mediamente non superiori ai 5 minuti,
indipendentemente dal compito proposto); difficoltà a rispettare le regole,
anche nel gioco; pessima relazione con i compagni ai quali tendeva a fare
dispetti e con i quali si arrabbiava fino a diventare aggressivo per un
nonnulla; facile eccitabilità: all’improvviso, per qualcosa che gli andava
storto, era capace di lanciare un urlo o di rovesciare una sedia oppure di
mettersi a piangere, soprattutto se non riusciva a ottenere subito quello che
desiderava.
Il primo approccio con me fu drammatico. Lorenzo piangeva, era
terrorizzato all’idea di dover entrare nello studio e di doversi staccare dalla
madre. Cercai di rassicurarlo sul fatto che non era obbligato a venire da me,
se non voleva, e che in ogni modo sarebbe potuto entrare insieme alla
mamma. Impiegò un po’ di tempo, incerto sulla porta, a capire il significato
di quanto gli stavo dicendo, perché inizialmente non mi prestava ascolto,
ma sembrava tutto preso dalla sua angoscia. Quando capì, si fece coraggio
e, per mano alla mamma, provò a entrare. Tuttavia, superato il primo
problema, immediatamente saltò fuori un altro dramma. Guardò il lettino,
che tengo nello studio per fare esercizi di rilassamento con alcuni bambini,
poi guardò me con aria nuovamente terrorizzata, e mi disse:
“Sei un dottore?”.
Sembrava aver paura delle sue stesse parole, che ripeté più volte,
nuovamente angosciato:
“Sei un dottore?”.
“Dimmelo: sei un dottore?”.
Non mi era facile rassicurarlo, perché non volevo dirgli la bugia palese
che non ero un dottore e, d’altra parte, sarebbe stato impossibile spiegargli
la differenza tra psicologo e medico. Mi limitai a dirgli, con voce calma e
mantenendomi a distanza da lui, che ero un dottore ma che non gli avrei
fatto niente: però, se voleva, poteva lui fare qualche gioco oppure un
disegno. Ci vollero nuovamente parecchi minuti perché si convincesse a
entrare, sedersi (sempre rimanendo vicinissimo alla mamma, quasi
attaccato) e instaurare un inizio di relazione con me. Di tanto in tanto,
tuttavia, tornava a guardare il lettino con aria preoccupata, ripeteva
ossessivamente che io non ero un dottore e che lui non era obbligato a salire
sul lettino e, a volte, mi chiedeva di essere nuovamente rassicurato su
questo.
Al di là di questi evidenti sintomi d’ansia, Lorenzo mostrava una forma
grave di irrequietezza motoria e una facilissima distraibililità, non soltanto
in quella prima seduta, ma anche nelle successive, quando cominciò a
familiarizzare con l’ambiente, a collaborare e a entrare senza la madre.
Bastava un niente, un rumore dall’esterno, ma a volte anche un suo pensiero
interno (per es., il lettino che, di tanto in tanto, gli tornava in mente), per
distoglierlo da qualunque attività. A volte non era neppure necessario uno
stimolo specifico, ma il semplice passare del tempo era sufficiente a farlo
stufare di qualsiasi cosa. Allora si alzava, gironzolava per la stanza, tentava
di frugare nell’archivio o sugli scaffali, mi chiedeva di fare un gioco nuovo.
A volte alternava oppositività a mutacismo. Con pazienza, in sette o otto
sedute riuscii a completare l’osservazione, ma ogni singola seduta era
un’incognita. Poteva andar bene, e allora magari finivo un test o riuscivo a
farlo arrivare in fondo a un disegno. Poteva andare male e, allora, era
difficile anche solo parlare di cos’era successo a scuola o a casa.
A volte, all’oppositività si aggiungevano comportamenti bizzarri
particolarmente preoccupanti. Poteva capitare che il suo sguardo vagasse
non so bene dove. Oppure che emettesse qualche risolino incongruo,
apparentemente fuori contesto, come se seguisse chissà quale suo pensiero,
o che pronunciasse qualche verso, o qualche frase che sconfinava con la
fabulazione. Durante una seduta presi un libro di immagini con il quale
volevo fare alcuni esercizi e alcune prove. Me lo tolse di mano,
letteralmente me lo strappò di mano e provò ad annusarlo. Poi cominciò a
sfogliarlo senza fermarsi su nessuna pagina, in apparenza senza guardare
neppure una figura. Cercai a più riprese, senza successo, di riportarlo alla
prima pagina. All’improvviso, prese un timbro che avevo sulla scrivania e
cominciò a timbrare le pagine. Dovetti fermarlo e allora mi chiese, con
un’espressione preoccupatissima, come pentito:
“Sei arrabbiato?”.
“No, ma volevo farti vedere questo libro e chiederti se ti piacciono
queste figure…”.
Ma il “pentimento” durò pochissimo:
“E io ho detto di no!”.
Tentò di nuovo di prendere il timbro, io lo misi nel cassetto e lui allora
prese le chiavi e cominciò a cercare di aprire non solo il cassetto, ma anche
lo schedario e continuò per parecchi minuti a giocare con queste chiavi e a
usarle per non fare nessun’altra delle attività che gli proponevo.
Quando poi si calmava, oppure era in buona, il linguaggio appariva povero
ma non deficitario, la lettura di immagini era adeguata così come i test
intellettivi. I risultati, sul piano quantitativo, furono normali, con un QI
totale di poco inferiore a 100 e senza significative discrepanze tra i vari
subtest. I problemi risiedevano, però, nella discontinuità attentiva, che mi
costringeva spesso a interrompere le prove e a somministrarle solo nei
momenti buoni, e nella fortissima impulsività: Lorenzo tendeva spesso a
dare una risposta prima di averci pensato e addirittura, a volte, prima che io
avessi finito di formulare la domanda.
Nel disegno e nella scrittura si notavano gravi carenze di coordinamento
oculomanuale. A volte, inoltre, i disegni erano talmente tirati via da
apparire come destrutturati e non era raro trovare temi aggressivi, con
sangue, mostri, scheletri di dinosauri, esplosioni e terremoti.
Tutte le prove specifiche per il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (Prova MF di ricerca fra figure simili, Prova CP di
ricerca di sequenze condizionali di lettere, Prova MFCPR di memoria di
figure categorizzabili parzialmente ripetute) risultarono positive oppure non
somministrabili a causa, appunto, dell’incapacità di prestare attenzione alla
prova per un tempo sufficiente. Anche le scale SDAG (per i genitori) e
SDAI (per gli insegnanti) risultarono positive sia per disattenzione sia per
iperattività, con risultati particolarmente gravi nella valutazione degli
insegnanti.4
RICERCHE
Si potrebbe obiettare: perché, se avevi tanti dubbi, non hai parlato piuttosto
di Stefano o di uno dei tanti bambini come lui?
Vi è un filone di ricerca, portato avanti di solito da neuropsichiatri
infantili, spesso di scuola francese e per lo più a orientamento
psicodinamico, che critica, anche in termini aspri, la categoria diagnostica
del Disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Si sostiene che il tentativo
di spiegare nei semplici termini di “deficit” un disturbo in realtà molto
complesso sia troppo riduttivo, perché queste problematiche
comportamentali sono molto spesso associate a “organizzazioni
disarmoniche della personalità” ed è pertanto frequente trovare in bambini
diagnosticati per un Disturbo da deficit di attenzione/iperattività quadri
“prepsicotici” caratterizzati da forte angoscia, bizzarrie, senso di estraneità,
aggressività forte e mal contenuta. In passato questi disturbi hanno avuto i
nomi più diversi e più fantasiosi, come “danno cerebrale minimo”,
“disarmonia evolutiva”, “sindrome borderline”, e la critica che viene fatta
alla categoria diagnostica chiamata oggi Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si spinge, a volte, fino al punto di sostenere che
questo inquadramento “rappresenta una grave regressione nella nostra
pratica della psichiatria infantile” (Marcelli, 1999, p. 393). Inoltre i modelli
neurobiologici e cognitivi che vengono prevalentemente utilizzati per
spiegare l’insorgenza dell’ADHD vengono messi in discussione da approcci
di tipo psicodinamico e relazionale che sottolineano come la possibile causa
di insorgenza del disturbo possa essere rintracciabile nella relazione
primaria tra il bambino e chi si prende cura di lui soprattutto durante il
primo anno di vita (Ladnier e Massanari, 2000; Sugarman, 2006).
A me non sembra davvero che le cose stiano in questo modo. Mi sembra,
al contrario, che i criteri diagnostici del Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività permettano oggi di descrivere bene un disturbo molto
diffuso in età evolutiva e che proprio l’accento messo sul deficit attentivo
piuttosto che sulla sola iperattività, come si tendeva a fare in passato, abbia
contribuito a sviluppare metodologie di intervento molto promettenti, come
vedremo nel corso del capitolo.
Tuttavia, l’osservazione clinica che questo disturbo è spesso complicato
da una serie di problemi emozionali e relazionali resta e spiega, per quello
che mi riguarda, la scelta del caso di Lorenzo. D’altra parte, anche la ricerca
non di ispirazione psicodinamica ha evidenziato come in questo disturbo
siano spesso presenti, oltre ai sintomi classici della difficoltà attentiva,
dell’iperattività e dell’impulsività, anche scarsa tolleranza alla frustrazione,
insicurezza, bassa autostima, ansia, fobie e comportamenti di evitamento,
immaturità emozionale e condotte regressive come l’isolamento e
l’iperdipendenza (Pelham e Millich, 1984; Taylor, Chadwick, Heptinstall e
Dankaerts, 1996; Van der Meere, 1998; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012;
Capodieci e Cornoldi, 2013).
Più specificamente, è stata messa in luce la frequente comorbilità del
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e altri Disturbi da
comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta,
che vedremo meglio nel prossimo capitolo (Diamantopoulou, Verhulst e
van der Ende, 2011; Von Polier, Vloet e Herpertz-Dahlmann, 2012; Burke,
Rowe e Boylan, 2014); Disturbi depressivi, bipolare e correlati; Disturbi
d’ansia; Disturbi dell’evacuazione; Disturbi correlati a sostanze, che
insorgono, per lo più, in adolescenza (Knecht, de Alvaro, Martinez-Raga e
Balanza-Martinez, 2014); Disturbo specifico dell’apprendimento e disturbi
della comunicazione: questi ultimi non soltanto come conseguenza del
deficit attentivo, ma anche perché in questi bambini è facile trovare, per
esempio, goffaggine motoria e, più in generale, segni neurologici minori,
con conseguenti difficoltà nella scrittura e nella lettura (Sandberg, 1996;
Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Genovesi, Grazioli e Palladino, 2010;
Trena e Zoccolotti, 2012; Dovigo e Re, 2013; Capodieci e Cornoldi, 2013;
Kulkarni, 2014). Masi, Millepiedi, Pezzica, Bertini e Berloffa (2005) notano
come studi su campioni clinici e su campioni epidemiologici siano concordi
nell’individuare che almeno il 70% dei soggetti con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività abbia un disturbo associato: del comportamento,
d’ansia, in particolare ossessivo-compulsivo, in questo caso spesso a sua
volta associato a tic e Disturbo di Tourette, dell’umore, in particolare
depressione e Disturbo bipolare (Brus, Solanto e Goldberg, 2014; Knecht,
De Alvaro, Martinez-Raga e Balanza-Martinez, 2014; Armstrong, Lycett,
Hiscock, Care e Sciberras, 2014).
Come spesso succede nella psicopatologia dello sviluppo, l’eziologia del
disturbo è molto incerta. Alcuni segni neurologici minori dei quali ho
appena parlato, presenti spesso in questi bambini, hanno fatto ipotizzare una
causa organica connessa a una sofferenza cerebrale, in particolare a carico
delle aree prefrontali, causata a volte da una sofferenza fetale, da una
asfissia perinatale o da sofferenze cerebrali postnatali come traumi o
convulsioni (Sieg, Gaffney, Preston e Hellings, 1995; Houk e Wise, 1995;
Casey, Castellanos, Giedd e Marsh, 1997; Episcopo e Parena, 2007; Ianes,
Marzocchi e Sanna, 2009). Questo è uno dei motivi per cui in passato ha
avuto tanta fortuna il termine di “danno cerebrale minimo” per la
descrizione del disturbo. In realtà, non è sempre possibile dimostrare un
danno cerebrale in questi bambini e Lorenzo, con i suoi
elettroencefalogrammi di incerta interpretazione, è emblematico da questo
punto di vista. Altri studi che si sono concentrati sulle cause genetiche alla
base del disturbo (Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012; Lotan et al., 2014) e
sullo sviluppo di alcune aree cerebrali (Castellanos e Baroni, 2014; Mous et
al., 2014). Zaccaria e Mammarella (2007) suggeriscono che il Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività sia spesso associato a difficoltà nell’ambito
della memoria di lavoro: l’ipotesi è sostenuta anche da una successiva meta-
analisi di Zaccaria (2008) e da uno studio di Noogle, Thompson e Davis
(2014) relativo al ruolo della memoria di lavoro nelle difficoltà di
comprensione del testo nei bambini con ADHD.
Esiste inoltre, ormai ben documentata dalla ricerca, una familiarità del
disturbo. È molto frequente trovare nei bambini con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività genitori (soprattutto il padre) con una storia di
disturbi simili o, più in generale, di Disturbi del comportamento. È quasi
altrettanto frequente trovare genitori (soprattutto la madre) con disturbi
dell’umore, in particolare Depressione maggiore (Rutter, 1995; Cazzullo,
Lenti, Musetti e Musetti, 1998). La mamma di Lorenzo è in cura da anni
proprio per una forma depressiva.
La prevalenza del disturbo è calcolata tra il 3 e il 5% della popolazione
generale, e le osservazioni cliniche tendono a indicare che il Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività sia una patologia in aumento, anche se non
è chiaro, come spesso avviene anche in disturbi analoghi, che cosa questo
significhi (Episcopo e Parena, 2007; Felt, Biermann, Christner, Kochhar e
Harrison, 2014; Panevska, Zafirova-Ivanovska, Vasileva, Isjanovska e
Kadri, 2014). Significa che ci sono oggi più bambini con Disturbo da deficit
di attenzione/iperattività che in passato, magari a causa
dell’iperstimolazione (per es., da TV o da videogiochi) o
dell’organizzazione sempre più frenetica della vita familiare, sociale e
persino scolastica? Oppure, più banalmente, i ricercatori, i clinici e gli
insegnanti si occupano oggi di questi bambini più di quanto non facessero
una volta? È infatti vero che la vita dei bambini di oggi, rispetto a quanto
accadeva in passato, è più convulsa, più carica di impegni, con minori
occasioni di giocare in modo non strutturato e di organizzarsi da soli un po’
di tempo libero e un po’ di spazio per pensare prima di agire. Tuttavia è
altrettanto vero che fino a qualche decina di anni fa la psichiatria non si
occupava certo di bambini un po’ agitati a scuola o durante il gioco, la
neuropsichiatria infantile era una disciplina agli esordi e la psicologia
dell’età evolutiva quasi non esisteva. Il disturbo, d’altra parte, è circa 10
volte più frequente nei maschi che nelle femmine, e questo sembra
indirizzare verso la presenza di cause genetiche, al di là delle evidenti
influenze ambientali (Gallucci et al., 1995; Camerini, Coccia e Caffo, 1996;
Barkley, 1998; Swanson et al., 1998; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2009;
Arnett, Pennington, Willcutt, De Fries e Olson, 2014).
A questo proposito, il ruolo delle figure educative, pur essendo
controverso, appare molto rilevante (Barkley, 1997; Benedetto, Gagliano,
Ingrassia e La Foresta, 2008; Cussen, Sciberras, Ukoumunne e Efron,
2012). Ciò non significa stabilire una relazione univoca e monodirezionale
di causa-effetto tra modalità educative inadeguate e insorgenza del disturbo.
È tuttavia dimostrato che nei genitori di bambini con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si riscontrano frequentemente modalità educative e
relazionali inadeguate, improntate a eccessivo lassismo o a eccessiva
durezza, o – più spesso – a un passaggio repentino e ingiustificato tra
lassismo e durezza: dunque le caratteristiche più rilevanti di queste modalità
educative e relazionali sembrano essere l’ambiguità e l’incoerenza
(Speranza, 2001a; Gagliardini, Gentile, Lettieri e Ruggiero, 2013; Haack,
Villodas, McBurnett, Hinshaw e Pfiffner, 2014). Ripeto che questo non
significa necessariamente che il modo di educare un bambino determini il
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Al contrario, una simile
affermazione sarebbe quasi certamente falsa e rappresenterebbe un modo
semplicistico e molto pericoloso di affrontare il problema, almeno da un
punto di vista clinico, come abbiamo già avuto modo di osservare a
proposito dei Disturbi dello spettro dell’autismo.
Ricordo ancora un caso di tanti anni fa di un bambino con Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività. Ho bene in mente come la madre soffrisse
quando qualcuno le diceva che suo figlio era viziato. Naturalmente la sua
rabbia e la sua frustrazione aumentavano se a dirglielo non era la commessa
di un negozio che il bambino in pochi minuti era riuscito a buttare all’aria,
ma il pediatra o, peggio, la maestra. La madre tentava, disperatamente, di
replicare che lei aveva insegnato al figlio tutte le regole e che si sforzava in
ogni modo di farle rispettare. Citava anche il caso dei due fratelli maggiori,
che erano stati allevati ed educati nello stesso modo ed erano oggi ragazzi
modello. Ma non serviva a niente. L’impressione che dava suo figlio
all’esterno era effettivamente quella di un bambino abituato e autorizzato a
fare ciò che voleva. Un giorno un’osservazione di questo genere venne
comunicata alla madre da un neuropsichiatra infantile e la conseguenza fu
che, per anni, la madre smise di portare il figlio da neuropsichiatri o
psicologi. Seguo ancora oggi il caso (il ragazzo ha più di vent’anni e stiamo
cercando di aiutarlo a tenere un’occupazione fissa) e la madre, di tanto in
tanto, mi ricorda ancora con angoscia e con rabbia l’episodio di quel dottore
che l’aveva accusata di viziare il bambino con il solo risultato di allontanare
madre e bambino dalla terapia. La realtà, in questi casi, è probabilmente
molto più complessa. In un soggetto che già manifesta sintomi di Disturbo
da deficit di attenzione/iperattività si innestano, con maggiori probabilità di
quanto accada di solito con un bambino normale, modalità interattive ed
educative inadeguate che concorrono ad aggravare il quadro. Le modalità
relazionali inadeguate, e in particolare la rabbia, l’aggressività, l’incoerenza
e l’estremismo educativo, si collocano quindi, molto probabilmente,
all’interno di un meccanismo di interazione: sono contemporaneamente
causa ed effetto della patologia. Questa interpretazione sembra, in una certa
misura, dimostrata anche dalla ricerca, la quale ha messo in luce come il
trattamento con farmaci stimolanti riduca non soltanto i sintomi
comportamentali e cognitivi nel bambino con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività, ma anche i comportamenti inadeguati dei genitori
(che ovviamente non hanno preso il farmaco!). Credo che questo dovrebbe
farci riflettere. Allora forse non sono, come troppo semplicisticamente a
volte si pensa, solo i comportamenti dei genitori che determinano la
patologia del bambino. È anche la patologia del bambino a determinare
certi comportamenti inadeguati nei genitori. Come se non bastasse, è stato
dimostrato che un analogo miglioramento si verifica anche nei
comportamenti degli insegnanti a seguito dell’assunzione di farmaci
stimolanti da parte del bambino. Vedremo come queste osservazioni
possano essere cariche di conseguenze per l’approccio psicoterapeutico.
In questi ultimi anni, infine, la ricerca sul Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si è concentrata molto sugli aspetti cognitivi,
metacognitivi ed emozionali, mettendo in luce, in questi bambini, carenze
nei processi di autoregolazione (Schunk e Zimmerman, 1994; Cornoldi,
2006; Barkley, 1997; Cornoldi, De Meo, Offredi e Vio, 2001; Vio, 2004;
Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012; Capodieci e Cornoldi, 2013) e di
mediazione verbale; difficoltà nell’uso di strategie; stili di attribuzione
inadeguati; scarsa capacità di regolazione emotiva con conseguenti
difficoltà nel controllo della frustrazione, della rabbia e dell’aggressività;
problemi di relazione con i coetanei (Douglas e Parry, 1994; Barkley, 1994,
1997; Schachar, Tannock, Marriot e Logan, 1995; Van der Meere, 1998;
Kutscher, 2010).
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pag. 13
pag. 365
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pag. 69
ESTINZIONE
Un comportamento si mantiene se è rinforzato. La probabilità che un
comportamento si riproduca in futuro e l’intensità e la frequenza con
cui si riprodurrà dipendono dalle conseguenze che il comportamento
produce. Se un comportamento produce conseguenze positive (cioè è
rinforzato), avrà maggiori probabilità di sopravvivere (l’analisi
funzionale ci dice che sopravvivono solo i comportamenti che
“funzionano”, cioè che servono a qualcosa). Se un comportamento
non produce mai nessuna conseguenza positiva, tenderà a spegnersi.
L’estinzione è precisamente questo fenomeno: il morire di un
comportamento che non funziona, che non produce nulla di utile per
l’individuo. Spesso l’estinzione si verifica spontaneamente negli
ambienti naturali nei quali un individuo vive. Un impiegato a cui per
mesi non venga più né corrisposto né promesso lo stipendio,
probabilmente smetterà di lavorare (a meno che il lavoro non sia per
lui particolarmente interessante o divertente o occasione per uscire di
casa piuttosto che restare in famiglia dove si trova malissimo: in
questi casi, il comportamento “andare a lavorare” non si estinguerà
perché è seguito da rinforzatori intrinseci, positivi o negativi). Un
bambino che, dopo aver studiato la geografia, non viene interrogato,
perché la maestra gli dice che tanto lui non sa mai niente, e che è una
pena starlo a sentire e non viene mai premiato in alcun modo per i
suoi sforzi, probabilmente smetterà di studiare. Quando non si verifica
spontaneamente, l’estinzione può essere programmata e trasformarsi
così in una tecnica di intervento. La si applica di solito nel controllo
dei comportamenti problematici, come si può vedere, per esempio, nel
caso di Lorenzo nel presente capitolo, ma anche in molte situazioni
legate alla Disabilità intellettiva, ai Disturbi dello spettro dell’autismo
e ai Disturbi d’ansia (per es., quando Chicco, nel capitolo 14, viene
portato a scuola per evitare che le sue risposte di evitamento
continuino a essere rinforzate negativamente dalla diminuzione
dell’ansia). Nel controllo dei comportamenti problematici, la
programmazione dell’estinzione rappresenta una procedura utile
perché, nell’ambiente naturale, spesso i comportamenti problematici
sono rinforzati (per es., dall’attenzione di una maestra o di un
genitore, oppure dall’interruzione di un compito sgradevole). La
tecnica dell’estinzione consiste, in questi casi, nell’evitare, per quanto
possibile, di rinforzare i comportamenti inadeguati, come si può
vedere nel capitolo 3, quando Michela impara ad andare al
supermercato senza fare troppe storie; nel capitolo 5, quando
Maurizia smette di girare qua e là per lo studio dello psicologo; nel
presente capitolo, quando Lorenzo impara a non avere più paura del
lettino. Questi esempi mettono in luce altri due aspetti dell’estinzione
intesa come tecnica di intervento. Il primo aspetto, che dovrebbe
risultare particolarmente chiaro nei capitoli 3 e 5, è che l’estinzione
non si usa mai da sola. Utilizzata da sola è una tecnica spesso inutile e
difficilissima da gestire (come si fa a non rinforzare un grave
comportamento aggressivo comportandosi come se non ci fosse?) e a
volte persino pericolosa. In questi esempi si vede, invece, come essa
possa costituire un aiuto prezioso se usata in associazione al
rinforzamento differenziale, all’analisi funzionale e al modellaggio. Il
secondo aspetto, che è possibile vedere nel presente capitolo, quando
Lorenzo comincia a superare l’ansia del lettino, è che l’estinzione può
servire anche a ridurre risposte emozionali. In tutti i capitoli della
sezione sui Disturbi d’ansia è possibile vedere come molte esperienze
di esposizione funzionino proprio perché permettono alle risposte
d’ansia di andare in estinzione.
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Credo sia interessante notare a questo proposito come ciò abbia portato,
tra le altre cose, a una nuova capacità di parlare di sé, di raccontarmi non
solo piccoli avvenimenti della sua vita, ma anche qualche semplice
emozione correlata: come quando, in una seduta dopo una domenica
memorabile nella quale i genitori lo avevano portato per premio al
carnevale di Viareggio, mi ha descritto i carri, le battaglie di coriandoli
ingaggiate con amici occasionali, ma anche la sua paura per il grande
mascherone a forma di diavolo e la sua gioia complessiva per questa
esperienza.
I genitori non portarono Lorenzo al carnevale di Viareggio per caso,
quella domenica. Abbiamo, infatti, lavorato su di loro quasi quanto su
Lorenzo, e uso il plurale perché per oltre un anno sono stato aiutato in
questo da un collega che seguiva la coppia attraverso metodi mutuati dalla
Terapia Razionale Emotiva e dalle tecniche di parent training
(Anastopoulos, DuPaul e Barkley, 1991; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011;
Merati, Valenti e Celi, 2005; Pezzica, Bertini, Millepiedi e Masi, 2008;
Abikoff et al., 2014; Gagliardini, Gentile, Lettieri e Ruggiero, 2013),
mentre io mi dedicavo prevalentemente al bambino.
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PROGNOSI
Forse ho posto un po’ troppa enfasi nella descrizione di questo intervento
psicoterapeutico e ciò potrebbe aver dato l’impressione (falsa) di un
brillante successo e quella (ancora più falsa) che ottenere risultati risolutivi
con bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività sia facile e
frequente.
In realtà, Lorenzo non è “guarito”. Inoltre ho, purtroppo, nella memoria
(e nell’archivio) molti casi analoghi che ho perso, o con i quali non sono
riuscito a ottenere che modestissimi e precari risultati. Ricordo ancora un
ragazzino con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e altri disturbi
del comportamento che oggi è un uomo bizzarro, imprevedibile, che ha
cambiato molti lavori alternando successi, a volte persino clamorosi anche
sul piano economico, a momenti così grigi da far temere il peggio, che è
stato visto talvolta accompagnato da donne molte belle, ma non è mai
riuscito a costruire una relazione stabile…
Lorenzo ha tuttora alti e bassi, soprattutto rispetto alla sua impulsività
(che non è affatto controllata del tutto e che sembra risentire molto
dell’umore del momento e degli stressor ambientali). Un cambio di
insegnante o, peggio, la nascita di un fratellino avvenuta di recente hanno,
di fatto, continuato a produrre piccoli e grandi disastri. Inoltre è rimasta, sia
pure in forma molto attenuata, quella imprevedibile bizzarria che
attualmente sembra difficile etichettare in un disturbo preciso e
propriamente detto, ma che continua a volte a mettermi in allarme. Gli
aspetti più francamente connessi all’iperattività sono sicuramente in
remissione, ma il deficit attentivo e le difficoltà scolastiche e sociali sono
ancora tali da far pensare che Lorenzo continui ad avere bisogno di essere
aiutato.
Il quadro è, tutto sommato, abbastanza coerente con quello che si sa sulla
prognosi di questi disturbi (Taylor, Chadwick, Heptinstall e Dankaerts,
1996; Satterfield, Hope e Schell, 1997; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti,
1998; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2009;
Molina et al., 2009). I sintomi più legati all’iperattività tendono ad
attenuarsi o a scomparire con la crescita, ma il deficit attentivo e
l’impulsività possono resistere più a lungo, a volte anche tutta la vita. Il
passaggio dall’espressione “sindrome ipercinetica”, che è stata usata fino
agli anni Settanta per questa patologia, a quella di Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività che usiamo oggi è, almeno in parte, dovuto proprio a
questa osservazione di una maggiore durata del deficit attentivo.
Un quarto dei bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività
continua a presentare disattenzione e impulsività fino all’età adulta, nella
metà circa si ha con il tempo una remissione totale, mentre nei casi più
difficili o non trattati si possono avere, durante il critico periodo
dell’adolescenza, possibili complicazioni dovute a un’evoluzione del
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività in Disturbo della condotta,
comportamenti antisociali, abuso di sostanze e conseguenti problemi con la
legge (Knecht, de Alvaro, Martinez-Raga e Balanza-Martinez, 2014; Stern
e Maeir, 2014; Nehlin, Nyberg e Oster, 2014).
La prognosi è molto più sfavorevole in caso di esordio precoce e di
comorbilità: in particolare, con altri disturbi del comportamento (vedi il
prossimo capitolo) e con la Disabilità intellettiva o, in genere, con deficit
cognitivi. In questi casi, è possibile un’evoluzione del Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività in Disturbo antisociale di personalità, o in Disturbo
borderline di personalità o in schizofrenia (Mao e Findling, 2014; Perroud
et al., 2014; Vaillancourt et al., 2014).
1 Da Carl Rogers (1902-1987), psicologo, padre di una tecnica terapeutica detta “non direttiva” o
“centrata sul cliente” che consiste essenzialmente in un atteggiamento del terapeuta che tenda a
favorire la libera espressione dell’emotività del paziente, sostenendolo senza influenzarlo, all’interno
di un rapporto empatico. Un tale rapporto finisce per aiutare il paziente a comprendersi e dunque a
modificarsi. Per ulteriori approfondimenti sulla terapia centrata sul cliente vedi anche Vaccari e
Zucconi (2007) e Psychoterapy Networker (2007).
2 Vedi capitolo 5, nota 2.
3 Vedi capitolo 1, nota 1.
4 Per tutti questi materiali diagnostici, vedi Braswell e Bloomquist, 1991; Cornoldi, Gardinale, Masi
e Patternó, 1996; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011. Vedi anche Re (2008); Fedeli (2007); Marzocchi,
Re e Cornoldi (2010).
5 Vedi capitolo 11.
6 I disturbi della regolazione non compaiono nelle classificazioni internazionali come il DSM-5, ma
hanno assunto in questi ultimi anni un’importanza crescente. Possono essere definiti come difficoltà,
tipiche del bambino nei prima anni di vita, nella regolazione del comportamento, dei processi
fisiologici (come il sonno o l’alimentazione), sensoriali, attentivi, affettivi o motori. Esistono diversi
tipi di disturbo della regolazione: ipersensibile, iporeattivo, attivo-aggressivo e disorganizzato sul
piano motorio-impulsivo (Greenspan, 1996; Emde, Bingham e Harmon, 1996; Speranza, 2001b). In
un recente studio di follow-up condotto da IRCCS-Fondazione Stella Maris si è concluso che la
diagnosi di DR è sufficientemente sensibile a intercettare nella prima infanzia un ampio spettro di
difficoltà di sviluppo del bambino, ma appare poco specifica e predittiva relativamente all’evoluzione
successiva. Retrospettivamente, invece, la valutazione dell’intero profilo diagnostico fornisce più
indicazioni rispetto alla diagnosi primaria e la maggiore compromissione delle diverse dimensioni
esplorate predice una evoluzione più severa (Maestro et al., 2012).
7 Vedi capitolo 1, nota 2.
8 Vedi capitolo 12.
9 Vedi capitolo 17.
10 L’argomento è particolarmente dibattuto in Italia anche sulla stampa e sui mezzi di
comunicazione di massa, spesso con i toni accesi della polemica rovente, perché il farmaco è stato
ammesso nel nostro Paese solo nella primavera 2001.
11 Per i trattamenti di ispirazione comportamentale e cognitivo-comportamentale nel Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività, vedi Meichenbaum, 1977; Kirby e Grimley, 1989; Braswell e
Bloomquist, 1991; Kendall e Wilcox, 1993; Cornoldi et al., 1996; Douglas, Parry, Marton e Garson,
1996; Cornoldi, De Meo, Offredi e Vio, 2004; Vio, 2004; Iacchia, 2007. Studi recenti (Young e
Myanthi Amarasinghe, 2009; Polidori et al., 2010; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Capodieci e
Cornoldi, 2013; Rabito-Alcón e Correas-Lauffer, 2014) ribadiscono che gli interventi non
farmacologici più efficaci in questi casi sono costituiti da trattamenti cognitivo-comportamentali
multimodali centrati prima di tutto sul parent training e poi su un lavoro integrato a casa e a scuola
che preveda in particolare l’insegnamento di abilità sociali.
12 Come è possibile vedere anche nel capitolo 3, questo fenomeno è probabilmente connesso al fatto
che spesso i comportamenti negativi si verificano in assenza di capacità comunicative adeguate.
Questo punto di vista va sotto il nome di “ipotesi comunicativa” (Carr, 1977, 1998; Iwata et al., 1982,
1994; Ianes e Celi, 2001; Donati, 2009) e le sue implicazioni terapeutiche sono evidenti: se un
bambino emette un comportamento inadeguato perché non è capace di esprimere verbalmente un
bisogno o un’emozione, allora insegnargli a esprimersi probabilmente ridurrà questi comportamenti.
Capitolo 12
LA STORIA DI DANIELE
La storia di Daniele è molto triste.
Una sera, quando aveva poco più di sei anni, ed era già andato a letto,
chiamò la mamma perché aveva sete. La mamma andò in cucina a prendere
un bicchier d’acqua e lì incontrò il marito che probabilmente aveva bevuto
e sicuramente era di cattivo umore. Erano anni che i rapporti tra i due erano
molto tesi, con violente scenate di gelosia e frequenti aggressioni fisiche del
marito nei confronti della moglie, eppure lei aveva voluto fare un estremo
tentativo e adesso era incinta di quattro mesi. Quella sera il marito le si parò
contro e le intimò di non portare l’acqua a Daniele. Le disse che il bimbo
era fin troppo grande e fin troppo viziato ed era arrivata l’ora che si andasse
a prendere l’acqua da solo quando aveva sete. La madre cercò ugualmente
di aprire il frigorifero e il padre cominciò a picchiarla con particolare
violenza.
“Da quel momento ho odiato il bambino che doveva nascere, pensando
che avrebbe potuto diventare come il padre”, mi disse la madre durante il
nostro primo colloquio.
Purtroppo, pochi mesi dopo fu accontentata. Un parto prematuro
precipitoso, mille complicazioni non so bene di che natura, e il bambino
morì poche ore dopo.
Sono passati sette anni, ma per la donna è una ferita ancora aperta e
sanguinante.
Ora, naturalmente, i genitori sono separati, il padre vive con un’altra
donna dalla quale ha avuto una figlia e i suoi rapporti con Daniele (che al
momento di questo primo colloquio ha tredici anni) sono saltuari,
imprevedibili, a volte drammatici. Non si fa vivo per mesi. Poi telefona,
quando per recriminare su tutto, quando per promettere al figlio cose che
poi non manterrà. Durante una recente telefonata, Daniele gli ha chiesto se
sabato o domenica, come avevano concordato, si sarebbero visti e lui gli ha
risposto che nella sua nuova casa non c’è posto per suo figlio. Qualche
mese prima aveva cercato la madre per una questione di soldi e, con il
ragazzo presente, l’aveva di nuovo aggredita, costringendo la donna a
chiamare la polizia. La mamma piange nel raccontarmi queste cose. Si sta
sottoponendo da anni a una psicoterapia a orientamento psicodinamico in
una struttura pubblica per una forma depressiva e questo le ha insegnato a
risalire indietro nella sua vita. Così mi racconta di quando perse sua madre.
Aveva quattro anni, il padre si risposò, ebbe altri figli e, in pratica, la
abbandonò. Ora lei soffre anche al pensiero che una simile sofferenza debba
toccare a suo figlio.
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MODELLAMENTO
Nel presente capitolo, la madre di Daniele dice allo psicologo che,
dopo qualche seduta, suo figlio ha cominciato a disporre in camera
sua le matite colorate nello stesso modo in cui lo psicologo le tiene
sulla scrivania. L’allievo motivato, che ha instaurato una relazione
significativa con il suo insegnante, tende a comportarsi come lui, a
copiare certi suoi modi di fare, a prenderlo a modello e questo, tra
l’altro, favorisce molto il processo di apprendimento.
I ragazzini, se i loro genitori glielo permettono, cercano di vestirsi
come i loro idoli, per esempio musicali, ne imitano la postura e il
linguaggio.
I maestri di tennis e di sci, soprattutto se hanno a che fare con bambini
piccoli, danno poche spiegazioni ai loro allievi e si limitano a colpire
correttamente la palla o scendere a spazzaneve sul campo scuola.
Dopo un po’, i bambini colpiscono la palla con un movimento simile
a quello del maestro, oppure scendono a spazzaneve quasi come lui. A
un occhio esperto è possibile persino riconoscere, da come gioca a
tennis un bambino, chi è il suo maestro.
I bambini normodotati, di solito, non ricevono un’istruzione formale
per imparare a vestirsi, a lavarsi le mani e, più tardi, ad andare a fare
piccoli acquisti da soli. Guardano il papà, la mamma o un fratello
maggiore, cercano di fare come loro e alla fine imparano.
Questo significa che noi ci impadroniamo di molte abilità e
riproduciamo molti comportamenti osservando un modello. Questo
modo di acquisire nuovi comportamenti e competenze si chiama
“modellamento” (o modeling). Il modellamento può dunque essere
definito come una modalità di apprendimento basata sull’osservazione
di un modello e sull’imitazione del suo comportamento.
Il modellamento diventa una tecnica di intervento quando è usata in
modo esplicito per produrre nuovi apprendimenti o nuove abilità,
come nel caso di Maurizia, che nel capitolo 5 migliora le sue abilità
sociali e si avvicina al gioco simbolico. Nel capitolo 15 il terapeuta
usa una forma di modellamento simbolico per insegnare a Eleonora ad
autocontrollare l’ansia. Nel capitolo 17 Alberto prende confidenza
con uno stimolo ansiogeno e responsabile di comportamenti
compulsivi osservando il terapeuta che gioca con una goccia di
mercurio. Nel capitolo 18 lo psicologo parla molto a Marta con tono
calmo e rilassato cercando di portare la bambina a emettere risposte
verbali simili.
Anche quando non diventa una tecnica esplicita, il modellamento può
ispirare molti interventi. Lo possiamo vedere nel capitolo 7, con la
maestra di Andrea: lo psicologo, nonostante alcune difficoltà, cerca di
mantenere un comportamento collaborativo e non aggressivo per
evitare di trasmettere un modello di comportamento inadeguato.
Qualcosa di simile si trova anche nel capitolo 14, quando lo
psicoterapeuta di Chicco cerca di evitare di porsi come un modello
ansioso mentre il bambino si sforza di allontanarsi dalla madre.
ROLE PLAYING
Il role playing è una metodologia terapeutica nella quale il bambino
prova (un po’ come farebbe un attore) alcuni comportamenti in modo
da essere poi in grado di metterli in atto più efficacemente quando si
troverà in situazioni reali. Il role playing può essere usato
direttamente dal terapeuta e in questo caso viene svolto nel suo studio,
ma si presta bene anche a lavori di gruppo nei quali i bambini
interpretano ruoli diversi in risposta a differenti circostanze: un
bambino, per esempio, può simulare una situazione sociale positiva
nella quale chiede la collaborazione di un compagno e il compagno, in
risposta, può simulare il modo migliore per dare la collaborazione
richiesta. Le interazioni sociali da simulare durante un role playing
possono anche essere negative e, in questo modo, possono favorire
l’acquisizione di abilità di autocontrollo e di gestione dell’ansia e
dell’aggressività. Un bambino può, per esempio, simulare una
provocazione nei confronti del compagno e il compagno può
esercitarsi nel rispondere alla provocazione nel modo migliore, senza
comportamenti impulsivi, ma riflettendo prima sulle possibili
alternative per comporre il conflitto. I vantaggi di questo metodo
consistono essenzialmente nel fatto che è più facile allenarsi e provare
a fare qualcosa quando la situazione è controllata e c’è un supervisore
che ci aiuta, piuttosto che trovarsi senza esperienza in una situazione
reale difficile.
Il role playing è particolarmente indicato per insegnare abilità sociali,
per esempio a bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo (come
si può vedere nel capitolo 5); per favorire l’acquisizione della
capacità di fronteggiare le situazioni temute nei Disturbi d’ansia
(come si può vedere nei capitoli 16 e 17); per sviluppare
comportamenti più adeguati a ricevere gratificazioni dall’ambiente nei
Disturbi depressivi (come si può vedere nel capitolo 23, quando
Silvia cerca di migliorare il suo tono di voce quando deve telefonare a
un’amica o invitarla a casa).
Nel caso di Daniele, come in molti casi analoghi, è stato molto importante
anche un parallelo lavoro sulla madre. In letteratura sono descritte le
modalità educative e comunicative dei genitori di ragazzi con Disturbo
oppositivo provocatorio e Disturbo della condotta (Rutter, 1995; Speranza,
2001a). Una caratteristica fondamentale di queste modalità è l’incoerenza.
A volte il genitore assume un atteggiamento passivo e sottomesso ai
capricci, alle ire e alle prepotenze del figlio. Altre volte, invece, si lascia
andare a un’aggressività esagerata e fuori controllo fino ad arrivare a un
rifiuto esplicito. La relazione con il figlio può passare in modo improvviso,
senza un’apparente giustificazione razionale, da un affetto senza freni
(ricordo di aver sorpreso più di una volta la mamma a sbaciucchiare
Daniele nel corridoio davanti al mio studio, mentre aspettava il suo turno,
come se fosse stato un bambino di quattro anni) a un’indifferenza glaciale
(come quando gli disse, di fronte a me, per l’ennesima nota che aveva preso
a scuola: “Oggi te ne vai da casa. Ti mando a vivere da tuo padre, se ti vorrà
prendere. Altrimenti ti arrangi”).
È chiaro che comportamenti così incoerenti, imprevedibili e caotici, a
volte francamente crudeli, sono molto negativi per il ragazzo ed è, quindi,
necessario cercare di modificarli. Discutevo di questo con la madre,
cercando di farle comprendere l’irrazionalità e i pericoli di queste sue
modalità relazionali e cercavamo insieme modi diversi e più equilibrati di
interagire con Daniele (Beaver, 1996). Dal momento che anche la madre era
in psicoterapia, ho parlato più volte con la psicologa che la seguiva, per
tentare, nei limiti del possibile, di lavorare su obiettivi comuni o, per lo
meno, per evitare di creare situazioni di contrasto tra ciò che avveniva nelle
sue sedute psicoterapeutiche e nei colloqui con me.
Alcune ricerche hanno messo in luce l’efficacia di alcuni programmi di
intervento, come il Parent-Child Interaction Therapy4 (Nixon, Sweeney e
Touyz, 2003; Ridgeway, 2008) e il Family-based Treatment for
Oppositional Behavior5 (Hughes e Obeldobel, 2007), che prevedono
proprio un lavoro mirato sulle modalità di interazione bambino-genitore e
di parent training (Muratori, Pezzica e Lambruschi, 2013). Molto
interessante, per il forte contenuto applicativo e il fatto che l’intervento
psicoterapeutico avvenga tutto all’interno di piccoli gruppi di bambini con
Disturbo oppositivo provocatorio, è il Power Coping Program di Lochman
(Lochman e Wells, 2003, 2004; Lochman, Wells e Murray, 2007; Herman et
al., 2012; Lochman et al., 2014). In questi gruppi molto strutturati secondo
le metodiche classiche dell’approccio cognitivo-comportamentale, si lavora
sulla condivisione degli obiettivi, sulla strutturazione delle regole (con l’uso
di cartelloni e token economy), sulla consapevolezza emotiva e la capacità
di fronteggiare la rabbia e aumentare l’autocontrollo (anche con forme
particolari di role playing attuate attraverso giochi con i burattini),
sull’autoistruzione, sul rilassamento e sulle abilità sociali e interpersonali. I
Coping Power Program prevedono anche un lavoro specifico con i genitori
(Lochman, Wells e Lenhart, 2012; Lochman, Muratori, Ruglioni e Polidori,
2013).
Sfortunatamente, Daniele frequentava il mio studio in modo discontinuo.
Questo era probabilmente in parte causato dal suo disturbo e dalla caotica
situazione familiare, ma dipendeva sicuramente in parte anche da me, che
non riuscivo a dargli sufficienti motivi e opportunità per fare un lavoro più
sistematico. Temo che questo rappresenti, al di là dei fattori di rischio
classici che si trovano in letteratura a proposito dei disturbi del
comportamento, un ulteriore motivo di pericolo, dal punto di vista
prognostico. La remissione, almeno parziale, di un Disturbo oppositivo
provocatorio oppure la sua evoluzione in un più grave Disturbo della
condotta dipendono, sicuramente, anche dalle opportunità che l’ambiente in
genere (e quindi non soltanto la famiglia, ma anche lo psicologo, i servizi
sociali, le strutture territoriali di rete, l’oratorio o un centro di aggregazione)
riesce a offrire al ragazzo (Stainback e Stainback, 1993).
Poche settimane fa Daniele è arrivato da me, dopo mesi che non si
faceva vedere, con una tuta del Parma nuova fiammante. Era fuori di sé
dalla gioia. Altre volte l’ho visto fuori di sé,6 purtroppo, ma per altri
sentimenti. Quel giorno invece mi ha mostrato un giornaletto sportivo
locale dove c’era il suo nome e la sua foto sotto il titolo “I top undici della
Provincia”. C’era disegnato un campo di calcio con undici nomi e il suo
figurava al posto del miglior terzino. Un osservatore del Parma lo aveva
notato, aveva preso contatti con il suo “mister”, lo aveva convocato per un
piccolo torneo estivo, gli aveva regalato una sacca, due completi e due tute
e aveva poi parlato con la madre della possibilità di inserirlo in un loro
vivaio. Il suo sedicesimo compleanno era vicino e la madre l’aveva
festeggiato invitando a sorpresa alcuni suoi amici e facendogli trovare una
torta a forma di campo di calcio.
Non ho ancora chiaro come finirà la storia di Daniele. Ho invece
chiarissimo, purtroppo, quello che sostiene la letteratura sulla prognosi di
questi disturbi, gli alti e bassi di umore della madre, il rischio che, se anche
gli si presenterà un’occasione con il Parma, la madre non lo mandi per non
separarsi da lui, la sua discontinuità nel venire da me e la mia inadeguatezza
nell’accoglierlo nel modo migliore quando viene e nell’offrirgli tutto lo
spazio di cui avrebbe bisogno. Però l’identificazione con un “mister”7
(come lo chiama lui) che gli sappia fornire modelli di comportamento
adeguati e ragionevoli e un po’ di fortuna nel trovare la sua strada
potrebbero fare molto, forse anche “il miracolo”. Dico questo perché, al di
là delle teorie e delle tecniche, sono spesso l’ambiente e le opportunità che
l’ambiente può offrire e dunque, in ultima analisi, anche un po’ di fortuna,
ciò che alla fine può fare la differenza.
Così, dopo avergli offerto e continuando a offrirgli il mio aiuto, dopo
aver programmato incontri periodici con la madre ed essermi mille volte
rammaricato di non riuscire mai a parlare con il padre, dopo aver preso
contatti con i suoi insegnanti e i servizi sociali, adesso tengo incrociate le
dita.
1 Vedi capitolo 5, nota 4.
2 Vedi capitolo 24.
3 Vedi capitolo 16, paragrafo “Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico”.
4 Il Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) è un trattamento comportamentale che pone l’accento
sul miglioramento delle qualità della relazione e sul cambiamento dei modelli di interazione genitore-
figlio. Tale programma si è mostrato efficace nel ridurre i comportamenti inappropriati sia del
bambino che dei genitori e lo stress genitoriale e nell’incrementare la frequenza di comportamenti
prosociali di entrambi.
5 Il Family-based Treatment for Oppositional Behavior (HNC) consiste in un programma di
trattamento per bambini di età compresa fra i tre e gli otto anni che presentano comportamenti
pericolosi e/o oppositivi. Alla base del trattamento vi è la convinzione che il comportamento
inappropriato e non-conforme del bambino sia mantenuto da modalità di interazione famigliare
maladattativi, che rinforzano i comportamenti coercitivi. Il programma HNC, che ha una breve
durata e si propone di utilizzare brevi e chiare istruzioni, prevede un modo specifico e concreto per
ridurre il ciclo oppressivo di interazione negativa attraverso strategie di rinforzo (ricompense e
attenzione), estinzione (i comportamenti negativi vengono ignorati) e punizione (per es., il time-out
per alcuni comportamenti particolarmente negativi o pericolosi).
6 Con pazienti come Daniele a volte può essere importante un lavoro sulle abilità sociali, con
particolare attenzione al riconoscimento e alla conseguente gestione della rabbia (Hornsveld, Nijman,
Hollin e Kraaimaat, 2006).
7 Abbiamo già potuto sottolineare raccontando la storia di Lorenzo (vedi cap. 11) l’importanza del
ruolo che può giocare lo sport nell’evoluzione dei disturbi del comportamento. Alcuni studi hanno
messo in luce come sport quali il karate (Palermo et al., 2006), le arti marziali o l’hip-hop (Tyson,
2004; Pasagiannis, 2008) possano influire positivamente sulle capacità esecutive e di
autoregolazione, rappresentare un fattore protettivo rispetto a future condotte criminali e
incrementare la frequenza delle condotte affiliative. Più in generale, alcune esperienze di campi estivi
rivolti a bambini e adolescenti con disturbi di comportamento mostrano come la strutturazione di
attività sportive, ludiche e ricreative possa incrementare le abilità sociali, l’autostima e il controllo
dei comportamenti inadeguati (Sibley et al., 2011).
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO
Capitolo 13
pag. 49
Giulio ha otto anni e, mai come in questo caso, si può affermare che i
problemi per lui siano iniziati da subito:
“Dopo il parto lo hanno dimesso dall’ospedale un giorno prima”, mi
racconta la mamma, “perché il suo pianto era insopportabile, e le infermiere
del nido lo chiamavano Pavarotti”.
I giorni e i mesi successivi alla nascita non sono andati meglio.
“Giulio piangeva in continuazione, non dormiva mai, con mio marito
passavamo ore in macchina a vagare per le strade perché solo così
perlomeno smetteva di piangere e noi riuscivamo un po’ a riposarci invece
che preoccuparci delle lamentele dei condomini”.
Un’osservazione, prima di lasciare di nuovo la parola alla mamma.
Quando la signora dice “non dormiva mai” non sta raccontando una bugia,
né tanto meno sta cercando di ingannare il terapeuta. Eppure è evidente che
non è possibile che un bambino non dorma mai. Cosa sta succedendo,
dunque? Una cosa molto semplice, e spesso molto importante da mettere in
luce in una relazione terapeutica. Sta succedendo che questa è la narrazione
della madre. Narrazione, prima di tutto, a se stessa: per questo nessuno
potrebbe mai sostenere che la mamma mente. Non mente, in realtà, ma se la
racconta così, come dicono i cognitivisti (Veglia, 1999; Lambruschi, 2014).
Il suo dialogo interno, che riflette il modo con cui lei vede il bambino, è
questo: Giulio non dorme mai. Vedremo, in questo caso meglio che in altri,
come uno dei grandi compiti della psicoterapia sia cercare di modificare la
narrazione. Se un giorno la madre riuscirà a dire di suo figlio che è un
bambino che dorme poco (invece che mai), che spesso (invece che sempre)
disobbedisce, che è molto difficile (invece che impossibile) fargli fare i
compiti, avremo già raggiunto un risultato importante.
A sette mesi i genitori, su consiglio del pediatra, hanno iniziato a dargli
il Noprom (uno sciroppo che viene somministrato anche a bambini molto
piccoli per favorire l’induzione del sonno), ma con pochi risultati. Giulio
dormiva al massimo due ore di seguito e poi ricominciava a piangere. Un
altro dato anamnestico interessante è che il bambino ha iniziato a parlare
molto in ritardo e fino a circa tre anni, per farsi capire, faceva gesti o versi
approssimativamente onomatopeici. Alla scuola dell’infanzia non lo
capivano. “È sempre stato un bambino strano, diverso dai compagni. Non
giocava mai con nessun giocattolo…”.1
Cerco di empatizzare con la sofferenza della mamma e le dico che posso
immaginare quanto quei primi mesi siano stati duri per lei. È a questo punto
che crolla: con gli occhi lucidi, e facendo chiaramente un enorme sforzo di
autocontrollo per non cedere al pianto, mi dice che la cosa che la fa stare
più male, ripensando a quei periodi, è stato fare i conti con una realtà, ma
soprattutto con delle emozioni che mai si sarebbe immaginata di poter
vivere e provare nei confronti del suo primo figlio. Continua dicendomi del
disagio che spesso le capitava di avvertire quando si trovava a parlare con
altre neomamme che, sognanti, raccontavano di quanto fosse meravigliosa
l’esperienza della maternità, mentre lei, pensando al suo piccolo bambino,
riusciva solo a provare angoscia e smarrimento. Cosa aveva Giulio che non
andava? Perché sembrava sempre e continuamente animato da un disagio e
da un’irrequietezza che non lo lasciavano mai? Perché non poteva essere
come tutti gli altri bambini? Questo si chiedeva in continuazione durante
quei mesi.
La situazione, passato il primo anno di vita, non migliora. È per questo
che a due anni Giulio viene sottoposto a una valutazione neuropsichiatrica
anche su consiglio del pediatra. La valutazione ipotizza che i sintomi
manifestati da Giulio potrebbero essere i prodromi di un disturbo del
comportamento, previsione che purtroppo si rivelerà esatta, e si conclude
con il consiglio di una terapia logopedica per i problemi legati allo sviluppo
del linguaggio. Le difficoltà del sonno e della gestione dell’alternanza
sonno-veglia, i pianti continui e la difficoltà a calmarsi, insieme con
irregolarità nell’alimentazione (queste ultime, peraltro, assenti
nell’anamnesi di Giulio) sono spesso indicatori di un particolare disturbo
dello sviluppo che si manifesta nei primi tre anni di vita. Si tratta del
cosiddetto “disturbo della regolazione” (Ammaniti, 2001) e rappresenta
spesso un precursore del Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e dei
Disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della
condotta.
Attraverso una serie di domande guidate continuo a raccogliere la storia del
bambino. Quando Giulio ha circa tre anni la mamma rimane nuovamente
incinta, “per errore”, come sottolinea durante la seduta: il terrore che anche
il secondo bambino possa essere come Giulio getta ombre e angoscia
durante tutto il periodo della gravidanza. Nasce invece Viola, una bambina
tutt’altro che problematica. Racconta la mamma a questo proposito:
“A volte, non sentendola per ore, correvo a controllare che stesse bene,
che fosse ancora viva. Non mi sembrava possibile tanta pace e tranquillità”.
Giulio prende malissimo l’arrivo della sorellina, non tollera che la mamma
la tenga in braccio, tenta spesso di farle del male, le fa continui dispetti.
L’arrivo di Viola, se da un lato dunque rappresenta un magnifico
imprevisto, dall’altro complica ulteriormente la situazione, visto il difficile
rapporto con il fratello che costringe la mamma e il papà a non perdere di
vista neppure per un attimo i due bambini quando sono assieme e a dedicare
la maggior
parte delle attenzioni a Giulio:
“Viola è praticamente cresciuta da sola. Se la vedesse adesso che ha
cinque anni, sembra una donnina e poi ha grande pazienza con il fratello,
con tutto quello che ha dovuto subire da lui prima o poi esploderà…”.
Vado avanti nella raccolta di informazioni. Giulio ha poche amicizie. È
poco integrato nel gruppo dei coetanei e tende a preferire l’adulto per
giocare. “Peccato”, commenta la madre con molta tristezza, “perché Giulio
sareb-
be spiritoso e divertente, ma poi sfinisce, è immaturo, sta troppo
addosso, non rispetta le regole. È per questo che, alla fine, non riesce a
integrarsi e a giocare con gli altri bambini”.
Un esempio significativo di tutto questo è che quando gioca a calcio è
capace di prendere il pallone e andare via da solo.
“Poi non smette mai di parlare, risponde senza riflettere…”: c’è tanta
stanchezza dietro queste parole.
Mentre la mamma racconta delle difficoltà del figlio, mi chiedo come
mai fino a quel momento della seduta abbia parlato praticamente solo di lei,
del marito e di Viola. Mai di una nonna, di un nonno o di qualche altro
familiare. Le esplicito dunque questo mio pensiero, e non appena ho
terminato la frase avverto forte la sensazione di aver toccato un nervo
scoperto, di aver sollevato un argomento doloroso. Lo capisco da come mi
guarda, dagli occhi che ancora una volta tornano a inumidirsi e dal tempo
che impiega prima di rispondermi:
“La mia famiglia e quella di mio marito ci hanno abbandonato. Giulio
non lo vogliono vedere se non in nostra presenza, a casa loro non può
andare, è troppo difficile e faticoso occuparsi di lui”.
C’è rassegnazione, tristezza, ma non rabbia nelle sue parole. È come se
in qualche modo li capisse, li giustificasse. Scopro poi che, oltre ad avere
pochissimi rapporti con i parenti, con il passare del tempo si sono ridotte
anche le occasioni di contatti sociali:
“Non possiamo portarlo da nessuna parte. Pensi che quando aveva tre
anni siamo andati in pizzeria per festeggiare il compleanno di mio marito,
Giulio si è spalmato la pizza in testa e ha continuato a urlare fino a che non
siamo usciti dal locale. Giulio è un bambino che ti mette costantemente alla
prova, ti sfinisce con il suo comportamento, ti porta via tutte le forze e forse
anche la voglia di stargli accanto”.
Le chiedo se, prima di venire da me, hanno mai pensato di farsi aiutare
da qualcuno nella gestione del bambino: è a questo punto che “pare”
ricordarsi che Giulio dai cinque ai sette anni è stato seguito da uno
psicoterapeuta, ma che poi il percorso è stato interrotto perché per il
bambino era troppo faticoso.
“Il dottore diceva che non era il bambino ad avere problemi, ma che ero
io che con la mia ansia lo rendevo nervoso, lo facevo stare male”, mi
racconta subito dopo, facendomi capire che forse ci sono stati altri motivi
per l’interruzione di questa terapia. Stiamo toccando qui un punto molto
importante di questo caso, che assume però anche un significato più
generale. Potremmo domandarci: il terapeuta aveva ragione o torto a
sostenere che era l’ansia della madre a rendere nervoso il bambino? Sul
piano teorico aveva quasi certamente torto: l’ansia di un genitore può
produrre alcune difficoltà emotive in un figlio o accentuare difficoltà
emotive già presenti, ma non può essere la causa di un disturbo così
strutturato e grave. E poi le infermiere del nido chiamavano Giulio
“Pavarotti” due giorni dopo il parto per l’intensità dei suoi pianti disperati e
decisero di mandarlo a casa in anticipo perché metteva a soqquadro tutto il
reparto! È difficile pensare che una sintomatologia così precoce e così
importante possa essere stata determinata dal comportamento di una
mamma.
Ma la questione è ancora più rilevante dal punto di vista pratico. A cosa
serve colpevolizzare un genitore? La mamma fa a questo proposito
un’osservazione illuminante, che terrò bene a mente e della quale farò
tesoro per programmare il mio interevento:
“Tanti specialisti, tante teorie, ma mai nessuno che ci abbia detto cosa
fare”.
Ripeto dunque la domanda: a cosa serve colpevolizzare un genitore? Può
forse avere un significato perturbarlo per poi orientarlo verso pensieri,
emozioni e comportamenti nuovi.2 Ma farlo star male e basta non serve
sicuramente a nulla, se non a produrre un inutile dolore e forse allontanarlo
da noi. Il focus di un intervento terapeutico con un genitore non deve
dunque essere il passato (cosa hai sbagliato, magari in modo irreparabile),
ma il futuro (cosa possiamo fare insieme, da domani, per affrontare la
situazione).
All’età di sette anni Giulio ha fatto un nuovo controllo neuropsichiatrico
e ha ricevuto una diagnosi di Disturbo oppositivo provocatorio con tratti di
impulsività. Sono state fornite alla famiglia numerose informazioni
sull’eziologia e sulle caratteristiche di questa patologia e, in
quell’occasione, è stato chiarito che l’ansia e il nervosismo della madre non
sono fattori causali.
Mi pare chiaro, dalle informazioni ricavate fino a quel momento, che la
gestione del bambino a casa è risultata sempre estremamente problematica,
ma mi chiedo: come sarà Giulio a scuola e fuori dal contesto familiare?
Sono rimasto piuttosto sorpreso quando la mamma mi ha raccontato di
come paradossalmente la scuola non rappresenti un problema per il figlio,
bensì “un’isola felice”, come lei stessa la definisce. Cerco di capire come
mai un luogo come la scuola, dove i bambini con problemi
comportamentali hanno spesso grandi difficoltà, sia per lui un luogo
relativamente sereno.
“È una scuola piccola, con pochi bambini e tante insegnanti. Con i
compagni però le cose non vanno, non passa giorno in cui Giulio non
racconti di aver litigato con qualcuno”.
Prendo accordi per incontrare Giulio. Le chiedo se ha già pensato a come
preparare il bambino e se pensa che ci saranno problemi a convincerlo a
venire da me. La mamma sembra sentire il bisogno di tranquillizzarmi
rispetto al primo approccio:
“Giulio è un bambino tutt’altro che timido, risulta subito simpatico, è
spiritoso, socievole, soprattutto quando non conosce bene le persone”.
Ma l’ottimismo della signora finisce qui:
“Darà il meglio di sé quando avrà preso un po’ di confidenza con la
situazione”.
Il primo approccio
Il bambino arriva sorridente e per niente intimorito al primo incontro. La
mamma ha ragione: ha uno sguardo vispo, un viso e un’espressione
sorridente, che inspira subito simpatia. In cartella trovo questi frettolosi
appunti delle mie prime impressioni: è collaborativo, orientato, empatico e
spiritoso. Si vede che è a suo agio, rimane senza problemi solo con me; è
lui a insistere con la mamma perché rimanga fuori. Si guarda attorno
incuriosito ma sempre rimanendo seduto e risponde alle mie domande,
anche se muove nervosamente le mani sulla scrivania. Gli chiedo qualcosa
sui suoi amici e sulla scuola e poi cerco di capire se ha idea del perché lo
abbiano portato qui da me. Mi risponde di no, ma a parte questo la seduta
sembra proseguire senza grandi difficoltà. Dopo 20 minuti prendo nota che
non si è ancora verificato nessun comportamento francamente
problematico. Provo a riproporgli la domanda di poco prima. Inizialmente
mi risponde che non lo sa e solo dopo qualche mia insistenza, mi dice:
“Forse per via di mia sorella, litighiamo sempre ma per colpa sua, però
poi la mamma se la prende con me”.
In realtà, come emergerà in modo drammatico successivamente, Giulio è
ben consapevole delle sue difficoltà:
“Sono uno zuccone, e il babbo fa bene a darmele”, mi dirà verso la fine
della seduta. È sicuramente una consapevolezza ancora immatura del suo
problema, ma che si costruisce giorno dopo giorno, come l’immagine che
ha di sé, formata su quella che gli altri gli rimandano: i nonni che non lo
vogliono a casa, i pochi amici con i quali litiga spesso e che lo escludono, i
continui rimproveri dei genitori. È così che, piano piano, anche per se
stesso, è diventato lo zuccone, il “combina guai”.
Le sedute successive
pag. 13
pag. 151
Poi la mamma esce, dico a Giulio che è stato bravo a lasciarmi parlare
tranquillamente per 10 minuti, che mi ha fatto un bellissimo disegno e che
dunque, secondo i patti, può divertirsi con Il mostro della discarica. Lo
lascio giocare tranquillamente un po’ e poi cerco di farlo riflettere su quello
che è successo. Lui ha rispettato un accordo e io l’ho premiato perché se lo
meritava. Non sembra avere difficoltà a seguirmi su questa strada. Gli dico
che mi piacerebbe che anche il papà e la mamma facessero a casa, con lui,
qualcosa di simile. Mi sembra che la proposta gli interessi. Per fare questo,
però, gli spiego che sarebbe utile sapere quali cose gli piacciono, oltre a Il
mostro della discarica. Gli propongo dunque di fare insieme a me un elenco
di queste cose che poi, se anche i genitori saranno d’accordo, potranno
servire per premiarlo quando se lo merita.
L’elenco dei rinforzatori che esce fuori da questa seduta è straordinario.
Da un punto di vista tecnico, il terapeuta ha bisogno di questo elenco,
soprattutto con i bambini esternalizzati, per poter poi scegliere rinforzatori
ragionevoli e non improponibili. Dunque, più l’elenco è lungo e meglio è,
perché la speranza è che insieme a desideri irrealizzabili se ne trovino anche
di ragionevoli che possono essere usati senza troppa spesa e senza troppe
complicazioni. Ma qui, quello che viene fuori non è solo un menu di
rinforzatori, come talvolta i comportamentismi chiamano questi elenchi.
Qui viene fuori Giulio!
Viene fuori, come un torrente in piena, tutta la sua incapacità di
controllarsi e pianificare, ma anche la sua gioia di vivere, la sua esplosiva
vitalità.
Il gioco gli piace e gli riesce facile. E comincia senza risparmio:
“Duecento biciclette!”.
“Grande idea!” sono costretto a rispondergli, perché devo in qualche
modo rinforzare la sua collaborazione al compito. Ma devo anche
aggiungere:
“Certo duecento biciclette sono molte e chissà quanti soldi costerebbero.
Magari potresti cominciare ad accontentarti di una…”.6
Ci pensa su, ma solo per un momento. Poi:
“Una PlayStation, anche se ce l’ho già”.
Per un attimo mi illudo che abbia capito che è necessario ridimensionare
le richieste. Ma l’illusione dura, appunto, solo un istante.
“Duecento skateboard”.
Adesso è una mitragliatrice. Non ho il tempo di intervenire. Riesco solo,
a fatica, a prendere appunti.
“Duecento tartarughe di terra”.
“Il Game Boy”.
“Il gioco di Dragon Ball Zeta per Game Boy”.
I bambini gravemente internalizzati spesso hanno grosse difficoltà in
questa fase del lavoro. Non trovano rinforzatori, sembra che facciano fatica
a esprimere e forse talvolta anche a pensare a un desiderio che potrebbe dar
loro un pochino di felicità.
Si vede bene, dunque, che Giulio non è un bambino internalizzato!
Approfitto del fatto che fa una brevissima pausa per un respiro e riesco a
interrompere il fiume in piena:
“Giulio, sei stato bravissimo. Hai tirato fuori un sacco di idee. Ora però
stai attento. Questi sono tutti giocattoli, o animaletti, insomma cose che si
possono toccare e comprare. Ti faccio una domanda un po’ più difficile. Mi
sai dire che cosa ti piacerebbe fare?”.7
Mi guarda. Non sono certissimo che abbia capito. Aggiungo:
“Per esempio. Il Game Boy è una cosa che hai. Una gita scolastica è una
cosa che potresti fare”.
Adesso ha capito sicuramente. Vedo l’insight nei suoi occhi, ma
soprattutto ascolto di nuovo il crepitare della mitragliatrice. L’escalation è
stupenda, e la riporto qui di seguito senza commenti, d’altra parte proprio
come è venuta fuori in seduta. Io non ho avuto tempo di dire nulla e forse
non ce n’era bisogno. Mi sembra che in questo fuoco di fila ci sia già tutto.
Sicuramente c’è Giulio e il suo incredibile mondo interno.
“Andare in piazza d’Armi”.
“Andare a Mirabilandia”.
“Andare all’acquario di Genova”.
Andare a pescare con il babbo”.
“Girare tutto il mondo: Asia, Africa e deserto”.
“Duecento gelati e mille bomboloni”.
IL PARENT TRAINING
pag. 562
Dunque, come dicevo, è chiaro che io cerco di spiegare loro tutte queste
cose.
Ma la prima proposta della mamma ci fa capire bene la differenza tra la
teoria e la pratica:
“Secondo me l’obiettivo più importante è affrontare il problema del
difficile rapporto di Giulio con la sorella”.
Non ho neppure il tempo di provare a commentare questa osservazione,
che il padre intervene:
“Dottore, si rende conto? A otto anni non si sa ancora mettere un paio di
pantaloni, è su questo che bisogna lavorare. Io a questo punto mi pongo
delle domande, ho paura che non sia intelligente, che finisca con il
diventare uno di quei tonti senza futuro. È possibile a otto anni non essere
ancora capaci di vestirsi?”.
Tutto questo è molto significativo, molto tipico e molto rischioso.
Il terapeuta alle prese con un parent training “sogna” un obiettivo di
questo genere: “dopo pranzo, alle due e mezzo del pomeriggio, Giulio inizia
a fare i compiti e resta fermo, seduto e concentrato per 10 minuti”.
Ma i sogni di un papà e di una mamma sono molto diversi. Il papà e la
mamma di Giulio sognano un bambino normale, come tutti gli altri,
ubbidiente e tranquillo, capace di andare d’accordo con la sorella, di vestirsi
da solo appena sveglio senza fare troppe storie e senza sfibrare i genitori
con continue richieste di aiuto e mille storie che trasformano ogni mattina
prima di andare a scuola in una specie di battaglia senza fine.
Chi ha ragione? Sul piano tecnico ha ragione lo psicologo. L’obiettivo
deve essere semplice, facilmente raggiungibile, definito in modo chiaro e
positivo… Ma cosa se ne fanno i genitori di un obiettivo sterilizzato,
freddo, così disperatamente distante dalle loro aspettative, utile forse a un
ricercatore per pubblicare un articolo sull’efficacia del parent training, ma
così privo di senso per loro?
E uno psicoterapeuta cosa se ne fa di due genitori che non riconoscono
un senso a quello che lui propone?
Chiedo al papà e alla mamma di provare a descrivermi la giornata tipo di
Giulio e i momenti che risultano più critici.
Sto provando una manovra per decentrare. Cerco di uscire da
quest’impasse. Di concedermi e di concedere un momento di riflessione, o
per lo meno di sospensione del giudizio. Come quasi sempre succede in
psicoterapia, la fretta è una cattiva consigliera. La mamma mi racconta una
giornata piena di fatiche e di tensioni, che, quasi invariabilmente, si
conclude con le difficoltà di mandare a dormire i due bambini senza dover
spendere altre energie, che a quell’ora sono ormai esaurite:
“A Giulio devo continuamente ordinare di andare a lavarsi, e quando lo
fa finisce che litiga con la sorella perché vuole il bagno tutto per sé; non è
autonomo in niente, pensi che al mattino si fa vestire da me, non è capace di
infilarsi un paio di pantaloni”.
Io le spiego che un certo impaccio motorio potrebbe essere responsabile
di queste difficoltà, ma che ritengo più probabile che Giulio non sia
incapace di vestirsi, ma piuttosto non lo voglia fare. Mi appunto comunque
in cartella di eseguire una prova con il bambino in studio per valutare anche
questo aspetto e cerco invece, subito, di raccogliere la preoccupazione del
padre anche per il futuro del bambino, cercando di spiegargli la differenza
che passa tra un comportamento oppositivo, anche grave, e una carenza
intellettiva.
Poi torno alla descrizione che mi hanno appena fatto delle procedure di
addormentamento. Riprendo il racconto della mamma, che mi ha spiegato
che non solo ci sono liti continue con la sorella per qualsiasi cosa, ma che
lei deve continuamente richiamare Giulio per riuscire a mandarlo a dormire.
Propongo di ripartire da qui. Cerco di prevenire la loro delusione per un
obiettivo così piccolo. Ragioniamo insieme. Più è piccolo un obiettivo e più
è facile raggiungerlo. Un piccolo obiettivo è come il gradino di una scala: di
per sé sembra una cosa senza importanza, ma uno dopo l’altro i gradini
possono anche portarci molto in alto.
“Nemmeno Roma”, osserva a un certo punto la mamma, “è stata fatta in
un giorno”.
Il risultato è: “andare a letto dopo non più di tre richiami della madre
senza coinvolgere o litigare con la sorella”. Si tratta di un obiettivo
condiviso, espresso in modo chiaro e positivo, e sul quale abbiamo qualche
ragionevole speranza di un successo almeno parziale.
pag. 562
pag. 41
Nel frattempo Giulio sta lavorando con una tirocinante in un altro studio.
Improvvisano una nuova mini-token in studio (fig. 13.7) a riprova del fatto
che il metodo gli piace. Dieci minuti di attenzione sostenuta, un timbro per
ogni minuto passato seduto e concentrato sul compito proposto, e di nuovo
la possibilità di andare avanti con il gioco del mostro della discarica.
Figura 13.7 Mini-token economy improvvisata in studio. Il lavoro è stato fatto con una tirocinante,
ma Giulio ha voluto dedicarmelo.
La mamma, dunque, è stata molto brava sia nel compilare con scrupolo la
scheda di osservazione sia nell’iniziare, spontaneamente, una nuova token
con tutti i vantaggi che questa generalizzazione può portare, però…
Un esempio di questo “però…” è costituito dal fatto che la mamma non
mette la crocetta anche se il bambino il mattino si è vestito da solo, ma poi
durante il giorno Giulio si comporta male.
Discutiamo su questo. Cerco di lavorare sul significato di “obiettivo
condiviso”. Se due persone decidono di comune accordo un certo obiettivo
e una certa gratificazione, non si possono poi cambiare le carte in tavola
perché un altro obiettivo non è stato raggiunto. La mamma sembra venirmi
dietro, ma poi mi spiega che in realtà quello che lei infligge è una “multa”.
Discutiamo allora sui rischi della “multa”. Da un punto di vista
strettamente tecnico è frequente che programmi di token economy siano
associati a strategie di costo della risposta (vedi riquadro alla pagina
seguente), che consistono nel togliere token a fronte di comportamenti
inadeguati. Ma tutto ciò va fatto con consapevolezza e avvertendo in modo
chiaro il bambino. Ci sono inoltre controindicazioni importanti con bambini
oppositivo provocatori nelle prime fasi di un intervento. Su quest’ultimo
punto, in particolare, la mamma conviene con me. Si è infatti accorta che
spesso è proprio la “multa” a scatenare un comportamento aggressivo del
figlio. Naturalmente questo non significa che non potremo inserire metodi
di costo della risposta nei nostri programmi. Non significa neppure che la
capacità di affrontare adeguatamente una frustrazione come quella di
ricevere una “multa” non possa a sua volta diventare un importante
obiettivo. Ma dovremmo sempre ricordarci di procedere per gradi, dal facile
al difficile, evitando di mettere insieme troppe cose tutte in una volta.
Anche in questo caso, comunque, è necessario arrivare a un punto di
mediazione, trovare un compromesso tra il punto di vista del terapeuta e
quello della mamma. Lo troviamo insieme: 1 crocetta se si veste da solo; 2
crocette se torna a casa da scuola senza note negative e se di pomeriggio
non combina guai. Si tratterà poi, se vogliamo sistematizzare in questo
modo nuovo l’intervento, di cambiare anche il rapporto con il rinforzatore
di scambio: con 60 crocette si guadagna il Game Boy. Vedremo però che, in
pratica, i due programmi (andare a letto entro il terzo tentativo e vestirsi da
solo prima di andare a scuola) verranno fusi in un’unica token economy e
che, per raggiungere più in fretta il risultato, stabiliremo il rinforzatore di
scambio dopo 22 punti guadagnati.
pag. 13
Figura 13.11 Giulio racconta la token economy che sta facendo a casa con la mamma.
Anche la mamma è contentissima della token: mi dice, tra le altre cose,
che l’ha disegnata Giulio da solo e che a lei sembra molto bella.
La mamma è soddisfatta anche per gli apprezzamenti da parte del padre
per il lavoro che stiamo facendo e conclude la seduta con una frase piena di
ottimismo per il futuro:
“Abbiamo trovato la chiave per aprire la serratura”.
Speriamo bene.
Giulio arriva in seduta contentissimo per aver vinto il Game Boy, che ci
mostra con orgoglio. È anche evidente la soddisfazione intrinseca di vestirsi
da solo. Si sente grande. Percepisce che il papà è molto contento di lui. Non
saranno sicuramente più necessari rinforzatori estrinseci per mantenere
questa conquista.
È invece importante parlare dell’interazione con la sorella e gli propongo un
esercizio di problem solving :
pag. 328
“Giulio, adesso stai molto attento, perché non ti sto chiedendo una cosa
facile”.
Giulio mi guarda.
Continuo:
“È l’ora di salire in camera vostra. Dovreste riuscire ad andarvene a letto
tranquillamente, senza bisogno di correre dalla mamma a chiedere aiuto”.
“È sempre per colpa di Viola che…”.
“Sì sì, ma ora lasciamo perdere la colpa e vediamo cosa possiamo fare
per cercare di vincere i nostri punti. Ti viene in mente qualche buona idea
per riuscire ad andare più d’accordo?”.
Ci pensa, ma come spesso gli succede, solo per un istante. Poi dice:
“Io vado in bagno mentre lei è in camera che si spoglia”.
“Grande Giulio! Veramente un’ottima idea!”.
Lo dico con la massima convinzione, perché penso proprio che sia vero.
Il bambino ha trovato un buona tecnica di prevenzione della risposta (vedi
riquadro alla pagina seguente). Nel linguaggio popolare si dice: “togliamo
la paglia dal fuoco”.
Dunque credo proprio che meriti di essere rinforzato:
“Grande Giulio! Veramente un’ottima idea! Te ne vengono in mente
altre?”. “Poi va in bagno lei mentre mi spoglio io”.
“Perfetto! E poi?”.
“Poi ci mettiamo d’accordo su cosa guardare alla TV…”.
Ecco fatto! Ha trovato lui l’antecedente che mancava…
Ma non è finita:
“… oppure su che gioco fare”.
La sequenza di figure dalla 13.15 alla 13.19 mostra che i due bambini
hanno imparato a interagire correttamente, e riescono a farlo un discreto
numero di volte. Durante la seconda settimana ci sono tre serate buone e tre
cattive. Due non sono valutabili perché i bambini hanno dormito dai nonni.
Le serate negative sono caratterizzate da pianti e bisticci, mentre in un caso
la serata positiva è attribuita dalla mamma al fatto che erano stanchissimi.
Tuttavia almeno in due casi i bambini sono riusciti a trovare un accordo su
che gioco fare o che cosa guardare alla TV, proprio come Giulio aveva
pianificato.
pag. 284
pag. 6
pag. 69
Penso che sia una regola generale che molti casi non si archiviano mai
definitivamente. A volte non si archiviano perché i nostri piccoli ex pazienti
hanno voglia di venirci a trovare e raccontarci le novità della loro vita. Altre
volte, più spesso purtroppo, continuano ad aver bisogno, forse perché non li
abbiamo aiutati abbastanza, con sufficiente sistematicità; forse perché le
loro necessità cambiano e ci chiedono un nuovo aiuto. Credo che faccia
parte del nostro mestiere accettare anche questo.
1 Questo nuovo mai è un ulteriore esempio di come la mamma si racconta i problemi del figlio.
2 Vedi, sulla cosiddetta “perturbazione strategicamente orientata”, il primo paragrafo del capitolo 26.
3 Vedi capitolo 11, nota 4.
4 È qui evidente un tentativo di svolgere una sia pur embrionale analisi funzionale dei
comportamenti oppostivi, provocatori e aggressivi di Giulio.
pag. 402
pag. 6
Disturbi d’ansia
Agorafobia: v. capitolo 14
DSM-5: Disturbi d’ansia – Agorafobia (F40.00)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Sindromi
fobiche – Agorafobia con sindrome da attacchi di panico (F40.01)
LA STORIA DI CHICCO
L’ansia prende me, dopo pochi minuti di colloquio con i genitori di Chicco.
È una specie di senso di soffocamento, come se tutti i problemi del figlio
(e dei suoi genitori!) si stessero rovesciando su di me con la violenza di un
fenomeno atmosferico improvviso, per lasciarmi alla fine senza respiro. La
cosa più impressionante è che la madre vorrebbe la soluzione del problema
subito, qui e ora, durante questo primo colloquio . Più volte, nonostante
siano passati solo pochi minuti da quando sono entrati nel mio studio per
esporre il problema, mi chiede di dirle che cosa può fare per Chicco, come
può comportarsi per convincerlo, per lo meno, a ritornare a scuola.
Aggiunge subito che i problemi sarebbero tantissimi, ma almeno quello
della scuola andrebbe affrontato e risolto subito perché non è più possibile
che Chicco, per il secondo anno consecutivo, continui a rimanere a casa, a
perdere ore e ore di lezione, a rendere in questo modo ogni giorno più
difficile un suo rientro… Se fosse stato per lei, mi avrebbe portato subito
anche il figlio e ho dovuto insistere molto per telefono, quando ha preso il
primo appuntamento, perché non lo facesse anche se ora, con una certa
incoerenza, mi dice che tanto pensa proprio che non sarebbe voluto venire.
pag. 49
Si tratta di una paura forte, per lo più improvvisa, con intensa attivazione
fisiologica, che si verifica e si sviluppa in un arco di tempo di pochi minuti.
Non è chiaro se il disturbo si possa trovare anche nei bambini. La letteratura
non è concorde su questo e, in ogni modo, l’attacco di panico non
rappresenta certo un problema epidemiologicamente molto rilevante in età
evolutiva (Moreau e Follet, 1993). L’esordio tipico è tra la tarda
adolescenza e i venticinque anni, anche se qualche caso isolato è stato
riportato in età precedenti, sia pure con molte cautele.
Agorafobia (F40.00)
(Agorafobia con sindrome da attacchi di panico nell’ICD-10)
Sono stato incerto se inserire qui una breve descrizione di questa sindrome,
o se dedicarle un capitolo. L’ansia generalizzata, infatti, si riscontra con una
certa frequenza anche in età evolutiva, ma raramente come un disturbo
isolato (House, 1991; Kendall e Di Pietro, 1995; si veda anche, a questo
proposito, la storia di Enrico nel capitolo 21). È per lo più in comorbilità
con altri Disturbi d’ansia. Si tratta di una forma d’ansia, a volte di una vera
e propria angoscia, e sempre di un senso forte di apprensione,
preoccupazione, aspettativa del peggio, che si manifesta in assenza di
stimoli specifici. Il paziente vive come se qualcosa di terribile stesse per
accadere. Una disgrazia? Una malattia? In realtà, è qualcosa che egli stesso
non riesce neppure a definire. Così avviene che questa incapacità, questo
vuoto persino di parole utili per descrivere quello che si prova e perché lo si
prova aumentino il senso di disagio e di angoscia, alimentando un circolo
vizioso che può arrivare a produrre molta sofferenza. Tutta quest’ansia di
cui non si conosce neppure la causa, inoltre, porta nel paziente irritabilità,
bisogno di avere qualcuno vicino per essere calmato e rassicurato. Di qui la
frequentissima comorbilità, specialmente in età evolutiva, con il Disturbo
d’ansia di separazione, che mi ha fatto decidere di non trattare l’ansia
generalizzata a parte. Segni di ansia generalizzata sono, d’altronde, presenti
anche nel caso di Chicco. Il Disturbo d’ansia generalizzata è spesso
associato anche a idee depressive. È piuttosto frequente nei bambini, tanto
che nel DSM-III (American Psychiatric Association, 1983) aveva un suo
nome specifico nella sezione dedicata ai Disturbi dell’Infanzia, Fanciullezza
e Adolescenza: Disturbo d’Ansia Diffusa (o Iperansietà). Si manifesta
spesso con attacchi di ansia anticipatoria nella maggior parte delle
situazioni che richiedono un giudizio o una valutazione e con sintomi
caratterizzati da irrequietezza, tensione, perfezionismo e bisogno continuo
di rassicurazione e di gratificazione. Le preoccupazioni, spesso concernenti
eventi futuri, sono di solito tanto vaghe quanto irrealistiche (Chicco, quando
il padre doveva partire per Brescia, non era preoccupato che dovesse
succedere qualcosa proprio a lui, né sapeva in cosa potesse consistere
questo “qualcosa”: era angosciato e basta). Spesso è associata a
manifestazioni somatiche, soprattutto mal di testa e mal di stomaco, a
sintomi fisici come tensione muscolare, difficoltà ad addormentarsi
(Grover, Hughes, Bergman e Lindsey, 2006). Oltre alla comorbilità con altri
Disturbi d’ansia (per es., la comorbilità con la Fobia sociale è superiore al
30%) e con i Disturbi depressivi (Brown et al., 2007),5 è facile trovare ansia
generalizzata in bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività.
Questo rende spesso la diagnosi differenziale particolarmente difficile. Un
altro elemento di difficoltà per la diagnosi è costituito dal fatto che si può
avere l’impressione di essere di fronte a un bambino particolarmente
maturo: a volte non si coglie che certi comportamenti che sembrano molto
assennati sono il frutto del tentativo di tenere l’angoscia sotto controllo. È
più frequente nei figli che appartengono a famiglie di livello
socioeconomico e culturale alto, dove tendono a essere, di conseguenza, più
alte le richieste prestazionali. Vedremo, quando parleremo degli interventi
psicoterapeutici dei Disturbi d’ansia, come quest’ultima considerazione
possa essere importante per programmare un intervento di tipo cognitivo,
basato sull’Educazione Razionale Emotiva e sulla ristrutturazione
cognitiva di certi pensieri disfunzionali sia del bambino sia dei membri
della famiglia. Kendall, Hudson, Gosch, Flannery-Schroedere e Suveg
(2008) hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-
comportamentale sia a livello individuale che familiare.
pag. 370
pag. 350
Si differenzia dal precedente per una più marcata presenza, tra gli altri,
anche di sintomi dissociativi e connessi all’umore negativo e per la durata
dei sintomi che va dai 3 ai 30 giorni dallo stressor. I criteri diagnostici
riportati nell’ICD-10 differiscono da quelli riportati nel DSM-5 per alcuni
aspetti: innanzitutto l’ICD-10 include sintomi prevalentemente di ansia che
devono comparire entro 1 ora dell’evento stressante e insorgere e risolversi
entro 8 ore nel caso di stress transitori o di 48 ore nel caso di stress
persistenti.
Non sono inoltre richiesti sintomi dissociativi o che l’evento venga
persistentemente rivissuto.
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Sul piano clinico, come abbiamo appena visto nella breve descrizione del
caso di Thomas, a volte l’ansia può manifestarsi nei bambini in forma
mascherata, con una prevalenza di irritabilità, aggressività e lamentele
fisiche. Può, inoltre, produrre ricadute molto negative sull’apprendimento.
In questi casi si pone, a volte, il problema della diagnosi differenziale e del
rapporto tra disturbo prevalente e disturbi secondari. Per esempio, un
bambino che va male a scuola, non si impegna, ha la testa da un’altra parte
e risponde male alla mamma che lo invita a fare i compiti, ha un Disturbo
d’ansia che è poi responsabile del Disturbo dell’apprendimento o viceversa?
Porsi domande simili non è mai superfluo. Un particolare disturbo, infatti, a
seconda che sia inquadrato come prevalente o secondario, può cambiare
l’impostazione psicoterapeutica: un conto è cercare di insegnare al bambino
ad affrontare e a gestire l’ansia e un altro conto è tentare di migliorare le sue
prestazioni scolastiche. Molto spesso, però, la realtà è più complessa e
multiforme, e non dovremmo mai dimenticare che nei Disturbi d’ansia la
comorbilità è una regola piuttosto che un’eccezione (Last, Kazdin, Orvachel
e Peria, 1991; Klein, 1993) e, come mettono in luce Mohatt, Bennett e
Walkup (2014) questo può avere importanti ricadute sul lavoro
psicoterapeutico. I sintomi ansiosi che ho in precedenza descritto, infatti,
non sono presenti soltanto nei Disturbi d’ansia veri e propri, ma sono
frequenti anche in moltissime altre situazioni patologiche: nei Disturbi
depressivi7 (nei bambini, in particolare, nel Disturbo depressivo); nei
Disturbi del sonno; nel Disturbo da deficit di attenzione/iperattività;8 nei
Disturbo specifico dell’apprendimento.9 In tutti questi casi può essere
corretta la doppia diagnosi. Come abbiamo già visto, non si pone, invece,
diagnosi di Disturbo d’ansia quando l’ansia si trova all’interno di un quadro
di Disturbo dello spettro dell’autismo.
Esiste, inoltre, un’ampia comorbilità anche all’interno dei Disturbi
d’ansia. Il Disturbo d’ansia di separazione, in particolare, è strettamente
associato all’ansia generalizzata e nel 75% dei casi si manifesta anche sotto
forma di paura di essere lasciati a scuola, come abbiamo visto bene nel caso
di Chicco. Il fatto che in questi disturbi la comorbilità sia una regola
piuttosto che un’eccezione è ben illustrato anche dall’esempio della Fobia
specifica, che verrà descritta attraverso la storia di un caso nel prossimo
capitolo. Questo disturbo, detto a volte anche “fobia semplice” proprio
perché caratterizzato “semplicemente” dalla paura esagerata e irragionevole
per un’unica classe di stimoli (per es., i serpenti o gli ascensori) è, nella sua
forma pura, piuttosto raro, forse più un’astrazione utile per studiare i
modelli di intervento psicoterapeutico di tipo comportamentale che una
realtà clinica dove, invece, è molto spesso associato ad altri disturbi che lo
rendono assai meno semplice di quanto il termine potrebbe far pensare
(Lambruschi, Fabbri e Mandolesi, 2014).
L’eziologia dei Disturbi d’ansia è complessa, controversa, e quasi
certamente multifattoriale. Ci sono, per lo meno, quattro grandi fattori che
concorrono, diciamo prudentemente, a predisporre un bambino a queste
patologie (Rutter, 1995; Van Hasselt e Hersen, 1995; Goodyer, 1996;
Odlenduck e Prinz, 1996; Beidel e Turner, 1997; Le Doux, 1998; Beesdo,
Knappe e Pine, 2009; Maniglio, 2012; Latas e Milovanovic, 2014).
Il primo fattore è quello genetico. Una serie di studi sui gemelli
(monozigoti e dizigoti, allevati nella stessa famiglia e in famiglie diverse)
sembrano mettere in luce la presenza di una predisposizione biologica a
contrarre Disturbi d’ansia, anche se i risultati della maggior parte di questi
studi sono tutt’altro che conclusivi ed evidenziano, comunque, una forte
incidenza delle variabili ambientali ed educative.
Il secondo fattore è appunto quello ambientale. Possono qui essere fatte
rientrare tutte quelle condizioni di vita stressanti e ansiogene che rendono
più probabile l’insorgenza di un Disturbo d’Ansia. Un peso importante
hanno, in particolare, gli eventi traumatici: nelle ricerche ci si riferisce con
questo termine sia a microeventi che, da soli, difficilmente potrebbero
scatenare un disturbo (nel caso di Chicco, per es., la compagna di scuola
che improvvisamente si sentì male e cominciò a vomitare, o in molti casi,
un insegnante particolarmente rigido, severo o, peggio, ironico e
svalutante), sia a eventi gravemente traumatici, anche se non
necessariamente così gravi come quelli che abbiamo visto nel Disturbo da
stress post-traumatico.
Il terzo fattore è quello degli aspetti emotivi e di personalità del
bambino. L’immaturità e l’eccessiva dipendenza; la condiscendenza verso
l’adulto; un esagerato desiderio di piacere; il conformismo; pensieri
ricorrenti probabilmente a loro volta derivati da modalità educative troppo
morbide, eccessivamente tolleranti (“le cose devono andare tutte come
voglio io”) sembrano predisporre a questo genere di disturbi. In Albon,
Dubi, Rapee e Schneider (2009) mostrano come i bambini con Disturbo
d’ansia di separazione e con Fobia sociale tendano a presentare distorsioni
cognitive e conseguenti pensieri disfuzionali e disadattivi, per esempio
legati a sensazioni di sgradevolezza per le situazioni connesse con la
separazione.
Il quarto fattore è quello familiare ed è, probabilmente, il più complesso
di tutti. Comprende un’infinità di situazioni diverse, tutte messe in luce
dalla ricerca sperimentale e clinica, delle quali qui è possibile solo fare un
elenco veloce e incompleto. Ci sono le esperienze negative precoci come
l’indifferenza, l’abuso, la perdita dei genitori. Ci sono le inadeguate
modalità educative di rinforzamento, sia negativo sia positivo, che abbiamo
già avuto modo di vedere e che esamineremo di nuovo quando parleremo
dell’intervento psicoterapeutico. C’è l’ansia indotta attraverso meccanismi
di apprendimento vicario,10 veicolati da genitori a loro volta ansiosi che
non si stancano di ripetere, per ogni comportamento del bambino: “Sii
prudente, stai attento, non ti arrampicare così in alto, non essere troppo
invadente nei giochi con i compagni, studia di più che domani devi essere
interrogato e ho paura che tu non sia preparato abbastanza”. Questo
meccanismo si chiama anche trasferimento dell’informazione11 e lo si vede
spesso agire anche quando i genitori cercano di convincere il figlio a
esporsi a situazioni ansiogene, ma lo fanno comunicando una tale ansia da
produrre probabilmente più danni che benefici. Tra l’altro, da un punto di
vista teorico, questo rende anche molto difficile capire quanto della
familiarità che le ricerche hanno riscontrato nei Disturbi d’ansia sia dovuto
a determinanti genetiche e quanto sia invece trasmesso per via educativa
(Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998). Accanto all’apprendimento
vicario e al trasferimento dell’informazione, vi è poi l’apprendimento
dell’ansia per modellamento : il bambino vede i suoi genitori che hanno
paura di alcune situazioni e le evitano e così impara egli stesso ad averne
paura (Elliot e Place, 2001; Victor, Bernat, Bernstein e Layne, 2007). La
madre timida, per esempio, che non si avvicina mai ad altre mamme nei
giardini pubblici, fa da modello negativo al bambino che, a sua volta, avrà
timore di avvicinarsi ai coetanei. In questi casi, possono esserci nei genitori
vere e proprie carenze nelle abilità sociali, che si trasferiscono ai figli e
predispongono all’insorgenza dell’ansia. Infine, punto particolarmente
importante che merita un approfondimento, la ricerca ha spesso evidenziato
come dietro molti Disturbi d’ansia del bambino, in particolare nel Disturbo
d’ansia di separazione, ci sia una situazione familiare invischiante,
eccessivamente accudente e iperprotettiva. Non è un caso che Bowlby
(1972, 1978), il capostipite dei lavori sull’attaccamento, accomunasse
l’ansia di separazione e la fobia scolare, facendo risalire entrambe a un
comportamento genitoriale che rende difficile per il bambino
un’esposizione corretta e sicura alle situazioni stressanti e potenzialmente
ansiogene. Se anche non si vuole accettare l’idea radicale secondo cui un
cattivo attaccamento sarebbe la causa dei Disturbi d’ansia, appare ben
solida l’ipotesi di certi stili di attaccamento come gravi fattori di rischio.
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Secondo la teoria dell’attaccamento (Ainswort, Blehar, Waters e Vals,
1978; Stern, 1987; Hofer, 1994; Byng-Hall, 1995; Parkes, Stevenson Hinde
e Marris, 1995; Ciotti e Lambruschi, 1996; Crittenden, 1996; Zeanah,
Mammen e Lieberman, 1996; Simonelli, 2000; Lambruschi e Lenzi, 2014)
esiste una componente fondamentale e geneticamente determinata della
natura umana che consiste nella propensione a stringere relazioni emotive
intime. In modo estremamente sintetico si può dire che l’attaccamento è un
sistema motivazionale primario, indipendente dall’erogazione di cibo, ma
dipendente dalla qualità della relazione con i genitori. Tra le cause, o
almeno tra i fattori predisponenti dei Disturbi d’ansia, e in particolare del
Disturbo d’ansia di separazione, può dunque esserci uno stile di
attaccamento non adeguato tra il bambino e le figure significative della sua
vita: di solito, prima di tutte, la madre. Per chiarire, sia pure nei limiti
imposti da questo lavoro, che cosa si può intendere per “stile di
attaccamento non adeguato”, credo che sia utile descrivere quattro
fondamentali modelli di attaccamento che sono stati individuati dalla
ricerca in risposta a uno stress di separazione.
Il primo modello è quello di uno stile di attaccamento detto sicuro,
generato dalla prontezza, da parte della figura di attaccamento, nel
rispondere al pianto del bambino e dalla disponibilità a promuovere
l’interazione sociale. In caso di attaccamento sicuro, l’angoscia di
separazione, pur presente nel bambino, non gli impedisce di staccarsi dalla
madre per esplorare l’ambiente e poi ritornare da lei.
Il secondo modello è detto insicuro evitante e si caratterizza per la scarsa
angoscia presente nel bambino al momento della separazione: la madre
tende a essere evitata e questi bambini tentano di inibire l’angoscia per
evitare ulteriori forme di rifiuto; si riscontra, di solito, nei figli di madri che
sono intrusive in modo esagerato e nei momenti sbagliati, per esempio
quando il bambino gioca serenamente da solo, e poi diventano assenti
quando invece il figlio avrebbe bisogno di loro. I bambini finiscono in
questo modo per sviluppare una tendenza all’isolamento o all’aggressività e
sono, di solito, a rischio di disturbi depressivi.
Il terzo modello è chiamato insicuro ambivalente o anche ansioso
resistente. Questi bambini appaiono esageratamente angosciati dalla
separazione e tale angoscia così forte non permette loro di rasserenarsi
neppure nel momento in cui possono ricongiungersi alla madre. Dimostrano
questa incapacità nel recuperare una loro serenità con comportamenti
ambivalenti di interazione: cercando il contatto fisico con la figura di
attaccamento, ma nello stesso tempo scalciando e scappando. Spesso la
madre non sa quando e come intervenire, e il figlio finisce per stabilire una
dipendenza cronica che gli impedisce di costruire buone relazioni con i
coetanei. I genitori di questi bambini, che appaiono spesso come
intrappolati nelle loro personali preoccupazioni, tendono a trasmettere ai
figli più rischio di Disturbi d’ansia, in particolare, come è facile
comprendere, Disturbo d’ansia di separazione e Disturbo d’ansia sociale.
C’è, infine, un quarto stile di attaccamento, particolarmente grave, detto
insicuro disorganizzato, dove si riscontrano comportamenti confusi,
immobilità o stereotipie motorie nel bambino; questi disturbi sembrano,
solitamente, essere il risultato di una figura di attaccamento maltrattante o
con patologie psichiatriche.
In conclusione, sembra che i bambini che hanno madri o, più in generale,
figure di attaccamento sensibili ai loro bisogni, capaci di essere presenti al
momento giusto e in modi giusti, di allontanarsi quando questo è possibile e
utile per il figlio, di percepire i bisogni del bambino e di essere sensibili a
questi bisogni sviluppino un livello d’ansia più basso e siano in grado di
tollerare e superare l’angoscia che può derivare dalla momentanea rottura
dei legami affettivi.
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PROBLEM SOLVING
Spesso un bambino, per esempio con Disturbo d’ansia, non sa
neppure da che parte cominciare per affrontare il suo problema. A
volte non sa che ci sono possibili alternative e che alcune, forse, sono
più adatte di altre. Oppure non sa che nella ricerca di una soluzione
potrebbe essere aiutato da qualcuno. Può persino capitare che non
sappia, cioè non si renda conto, di avere un problema. Qualcosa di
simile può accadere ai genitori di un bambino con un disturbo. Essi, di
solito, si rendono conto che il figlio ha qualcosa che non va, ma hanno
spesso difficoltà a vedere il disturbo come un problema che potrebbe
per lo meno essere affrontato. Questo può contribuire a rendere la
situazione ancora più difficile. Un conto, infatti, è sapere di avere un
figlio, per esempio, con una Disabilità intellettiva, ma sapere anche
che per questo disturbo si può fare qualcosa: si possono insegnare al
bambino abilità di autonomia, si possono programmare interventi
didattici individualizzati, si può lavorare sulla competenza sociale. Un
altro conto, ben più drammatico, è pensare che la Disabilità
intellettiva sia una condizione patologica responsabile di difficoltà a
non finire e non essere neppure capaci di immaginare possibili
situazioni, anche parziali, per migliorare questa condizione.
Il problem solving è uno strumento cognitivo che serve prima di tutto
a insegnare al paziente a vedere le sue difficoltà in termini di
problemi: cioè di situazioni difficili che possono però, almeno entro
certi limiti, avere delle soluzioni. E poi, naturalmente a cercare
insieme le soluzioni migliori.
Di solito, il problem solving si svolge attraverso cinque fasi
fondamentali:
1. riconoscere il problema e capire che una soluzione può, per lo
meno, con calma, essere cercata;
2. definire il problema uscendo da una vaghezza che è quasi sempre
fonte di indecisione e di ansia;
3. cercare insieme possibili soluzioni alternative;
4. scegliere una soluzione;
5. mettere alla prova la soluzione e valutare i risultati.
Nel testo si trovano esempi di intervento basati anche su metodologie
di problem solving sia direttamente sui bambini (come nel caso di
Lorenzo nel capitolo 11, di Daniele nel capitolo 12, di Eleonora nel
capitolo 15 e di Silvia nel capitolo 23), sia sui genitori (come nel
caso della mamma di Chicco nel presente capitolo).
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D’altra parte, già nelle prime sedute con il bambino, l’esposizione viene
rinforzata socialmente da me. Io dico a Chicco che sono contento di lui,
che, se andiamo avanti così, sicuramente molte delle sue difficoltà potranno
essere superate, e sottolineo tutto questo nei brevi colloqui che ho con la
madre alla fine delle sedute alla presenza di Chicco.
L’ultimo elemento che è possibile vedere già in queste prime sedute è
l’attenzione al modellamento . Abbiamo già osservato come sia facile e
pericoloso modellare risposte d’ansia. Se la madre di Chicco accompagnerà
a scuola il bambino mostrandosi tesa e ansiosa più di lui, difficilmente
otterrà con il figlio buoni risultati. L’ansia della mamma sarà un modello
che Chicco inevitabilmente imiterà. Io cerco di fare il contrario. È inutile
che neghi che anch’io sono un po’ teso quando propongo al bambino di
provare ad allontanarsi dalla madre. Sono teso perché, se l’esposizione
funzionerà, le cose andranno poi nella direzione giusta, ma se non
funzionerà cominceranno i problemi. Tuttavia, cerco non soltanto di tenere
a bada la mia, peraltro modesta, reazione d’ansia, ma anche di non
mostrarla al bambino. Scherzo con lui quando gli propongo di mandare la
mamma nell’anticamera. La butto sul ridere e, infatti, lui sorride all’idea
della mamma che, dall’anticamera, origlia i nostri discorsi. Propongo,
insomma, nei limiti delle mie capacità, un modello positivo, che affronta
una situazione blandamente ansiogena senza farsi sopraffare dall’ansia.
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L’ultima delle sedute con Chicco, già descritta, termina con un mio
tentativo di far riflettere il bambino sul fatto che a volte anche i nostri
pensieri, le nostre emozioni e le nostre paure (dunque eventi interni)
possono cambiare. A volte basta modificare alcune circostanze esterne per
vedere, per esempio, che anche la nostra ansia diminuisce. Abbiamo visto
che non è del tutto indifferente chi accompagna Chicco a scuola. Comincio
a cercare di farlo riflettere su questo chiedendogli che cosa ne pensa della
possibilità che qualche volta lo accompagni la sorella.
È vero che l’inizio non è dei più promettenti, dato che il bambino, dopo
un momento di perplessità, mi risponde con decisione:
“È impossibile”.
Ma è anche vero che piano piano le cose cambieranno.
La terapia proseguirà proprio coinvolgendo la sorella nell’accompagnare
Chicco a fare delle piccole passeggiate, in luoghi che in parte gli piacciono,
ma in parte gli producono ansia, come un centro commerciale non lontano
da casa sua.
Poi gli insegnerò a rilassarsi, usando sia tecniche di rilassamento
muscolare adattate alle necessità del bambino, sia tecniche immaginative.
Grazie a questa nuova capacità di rilassarsi, lavoreremo poi insieme con la
visualizzazione emotiva (di nuovo, una tecnica di controcondizionamento),
che consiste nell’associare in immaginazione uno stimolo fobico con uno
stimolo gratificante. A Chicco, per esempio, piacerà molto immaginarsi in
classe, con la mamma che nel frattempo è andata a lavorare, e la maestra
che lo interroga, gli dà un buon voto, e la sera, a cena, tutti commentano
con gioia questa giornata.
L’esposizione progressiva in vivo al rientro in classe avverrà spesso
grazie all’aiuto della sorella e, qualche volta, all’aiuto del padre. Tornare a
farsi accompagnare a scuola dalla madre sarà l’ultimo passo del
programma. Per fare tutto questo, naturalmente, continuerò a lavorare anche
con i genitori e la sorella, i quali arriveranno così a rendersi conto che gran
parte del lavoro “terapeutico” sul bambino è a carico loro, e a riflettere
sull’adeguatezza delle proprie modalità educative e sull’influenza del clima
familiare sui comportamenti di Chicco. Visiterò anche la scuola
regolarmente, in modo che le insegnanti siano preparate ad accogliere
Chicco nel modo migliore e preparino a loro volta i compagni. In questi
ultimi anni l’esposizione in vivo è sempre più spesso sostituita dalle nuove
tecnologie informatiche e così i computer sono usati per la terapia del
Disturbo d’ansia. Si parla in questi casi di “trattamento con realtà virtuale”
(Przeworski e Newman, 2006; Khanna, Aschenbrand e Kendall, 2007;
Meyerbröker e Emmelkamp, 2010; McCann et al., 2014).
Come è noto e come è stato detto tante volte anche in queste pagine,
nell’approccio comportamentale classico l’esposizione consisiste
nell’affrontare una situazione ansiogena piuttosto che cercare di fuggire da
essa. Potremmo dire, con una specie di gioco di parole, che l’esposizione
consiste nell’evitare l’evitamento. Con gli ultimi sviluppi della ricerca nel
campo della psicoterapia (si vedano, per es., Hayes, Strosahl e Wilson,
1999; Hayes e Strosahl, 2005; Luoma, Hayes e Walser, 2007; Vøllestad,
Nielsen e Nielsen, 2012) ci si è resi conto con sempre maggiore chiarezza
che non è importante evitare l’evitamento solo per quanto riguarda le
situazioni, gli stimoli ambientali, la realtà esterna. È almeno altrettanto
importante evitare anche l’evitamento dei pensieri e delle emozioni.
Ascoltare e accettare i pensieri e le emozioni aiuta il paziente con un
Disturbo d’ansia, e come vederemo nella prossima sezione, anche con un
Disturbo dell’umore, ad affrontare con maggiore serenità le situazioni
difficili che, inevitabilmente, la vita gli presentarà. Nel riquadro sottostante
è brevemente illustrato questo approccio che prende il nome di ACT. Il
lettore italiano può approfondire questi aspetti attraverso i lavori di Segal
(Irving e Segal, 2013) e Williams (William, Russell e Russell, 2008); si
veda anche Hayes, Stroshal e Wilson, 2010; Harris, 2011 e 2012; Hayes,
2012; Wilson e Dufrene, 2014. La terapia ACT risulta particolarmente
idonea all’età evolutiva grazie all’uso frequente di metafore, all’approccio
esperienziale e alla presenza di concetti come quello di prestare attenzione,
che spesso viene ripetuto ai bambini senza essere insegnato (e troppo spesso
in modo punitivo!) e che invece racchiude in sé il significato della
mindfulness: sintonizzarsi su un’esperienza scegliendo di portare
l’attenzione su di essa con un atteggiamento aperto e curioso ed essere
realmente presenti in quello che facciamo (Saltzman, 2012; Woidneck,
Morrison e Twohig, 2013). Nel capitolo 22 si può vedere come, a
conclusione del percorso terapeutico, Aurora arrivi quasi da sola ad
accettare alcuni suoi sintomi di ansia e a convivere serenamente con essi.
ACT
L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy la cui traduzione
italiana potrebbe essere “Terapia legata all’accettazione e
all’impegno”; Spagnulo, 2007) è una forma di terapia evidence-based
che mira ad aiutare i pazienti ad accettare i propri pensieri, le proprie
emozioni e dunque anche i propri sintomi. Molto più che una terapia,
l’ACT è talora indicata come una visione del mondo la cui filosofia
prende spunto da antiche tradizioni spirituali e religiose di origine
orientale tra cui il Buddismo, l’Induismo e lo Zen. Questo modello di
terapia, a differenza di molti altri, in primis quello comportamentale
da cui prende le origini, non si pone come obiettivo primario la
riduzione dei sintomi, quanto di insegnare ai pazienti un modo nuovo
di entrare in contatto con essi. Si ritiene infatti che la vera fonte di
disagio e di sofferenza psicologica sia il tentativo costante di
controllare, combattere e lottare contro i propri sintomi. Il fatto poi
che i sintomi molte volte si riducano, come diversi studi sembrano
dimostrare, non è dunque l’obiettivo della terapia ACT, ma spesso la
diretta conseguenza del diverso modo con cui il paziente impara a
rapportarsi ad essi.
Un concetto fondamentale nella terapia ACT è quello di azione.
Tuttavia nell’ACT l’azione è guidata dai valori e dagli scopi che
ognuno di noi si prefigge nella vita: accept toughts and feelings,
choose directions, and take action (accetta i pensieri e le emozioni,
scegli le priorità, agisci).
Se nella storia della terapia comportamentale la prima ondata della
psicoterapia fu caratterizzata dal comportamentismo e la seconda dal
cognitivismo, l’ACT rappresenta la cosiddetta terza generazione o
terza ondata (Third Wave) della terapia del comportamento e come
tale si propone di modificare la funzione e la relazione degli individui
con gli eventi psicologici mediante strategie come la mindfulness,
l’accettazione o la defusione cognitiva (Teasdale, 2003; Harris, 2009 e
2010).
Lo scopo dell’ACT è quello dunque di creare una vita ricca piena e
significativa e di accettare il dolore che essa comunque comporta. In
qualsiasi momento, persino in quelli più belli della nostra vita, è
possibile sperimentare dolore perché la nostra mente ci parla
continuamente, in sottofondo, a volte senza nemmeno che ce ne
rendiamo conto, e ci fa sperimentare dolore. Se non sappiamo gestire
efficacemente questo dolore, ma tentiamo di evitarlo, esso può farci
molto male e portarci a effetti autolesivi e autodistruttivi. Secondo
l’ACT sono due, fondamentalmente, i processi che rendono le persone
“bloccate” a tal punto da diventare ad esempio ansiose o depresse: la
fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale.
Con il termine fusione si fa riferimento appunto al fatto che a volte
siamo così dentro ai nostri pensieri da fonderci e confonderci con essi
e da non renderci più conto che noi “non siamo i nostri pensieri”;
come se non ci fosse più la giusta distanza da essi: è chiaro che in
questo caso si rischia fortemente che i pensieri governino i nostri
comportamenti e che si perda il contatto con l’esperienza del qui ed
ora, con quello che ci circonda.
Il secondo principio è l’evitamento esperienziale: noi quotidianamente
cerchiamo di scappare o di lottare contro le nostre emozioni o i nostri
pensieri negativi… e più scappiamo più questi si fanno sentire (Najmi
et al., 2010) e così noi dovremo ancor di più aumentare i tentativi per
neutralizzarli, in un circolo senza fine (Lorenzini e Sassaroli, 2000).
Imparare ad accettare senza giudicare né contrastare le emozioni
negative, per quanto spiacevoli possano essere, può consentire invece
di sentirsi stressati da queste in misura minore. È proprio tramite le
abilità di mindfulness, pilastro della terapia ACT, che i pazienti
possono imparare a prendere consapevolezza dell’esperienza interiore,
nel qui ed ora, senza valutazione o giudizi, ma con apertura e
recettività, lasciando che i propri pensieri vadano e vengano: come
diceva Kabat-Zinn (1990) “i pensieri sono solamente pensieri, non
rappresentano la realtà” e la consapevolezza di questo porta al
distanziamento emotivo da essi per dar loro finalmente il giusto status
di “pensieri”. La mindfulness può essere definita proprio come “uno
stato di coscienza o processo mentale caratterizzato da un’attenzione
consapevole, libera da valutazioni e focalizzata sul presente”
(Didonna, 2009).
Lo scopo della terapia ACT è aumentare la flessibilità psicologica,
ossia l’abilità di essere nel momento presente con piena
consapevolezza e apertura alla nostra esperienza e di intraprendere
azioni guidate dai nostri valori.
L’ACT è applicata con successo in molti disturbi dell’età evolutiva:
nella terapia dell’ansia, nei disturbi esternalizzati e anche come
intervento preventivo nelle scuole.
PROGNOSI
Qualche anno fa mi è capitato di seguire un giovane adulto, di circa
trent’anni. Si è trattata di un’esperienza per me non comune, dato che mi
occupo quasi esclusivamente di età evolutiva, ma è stata interessante perché
ho potuto vedere l’evoluzione clinica di un Disturbo d’ansia di separazione.
Paolo, nonostante l’età, venne da me al primo colloquio accompagnato dal
padre e non volle che il padre lasciasse lo studio. Mi raccontò che non
riusciva a stare in casa da solo né, tanto meno, a uscire senza avere il padre
vicino. La situazione si era drammaticamente aggravata qualche mese
prima, con la morte della madre, ma fin da bambino Paolo era stato così. Le
sue difficoltà erano tali che non era neppure riuscito a prendere la licenza
media. Se tentava (anche se semplicemente pensava!) di restare solo, si
sentiva “come in ebollizione”, lo stomaco gli si chiudeva, il cuore
accelerava i battiti fino a dargli l’impressione che sarebbe scoppiato, gli
pareva di perdere il controllo e che la testa andasse per i fatti suoi.
L’atteggiamento di Paolo nei confronti delle sue possibilità di
cambiamento è assolutamente negativo in questa prima seduta. Mi dice che
è stato così fin da bambino e che non riuscirà a combinare niente. Il padre,
seduto accanto a lui, contribuisce a mantenere alta questa convinzione
negativa: tratta effettivamente il figlio come un bambino e arriva a
sostituirsi a lui in molti momenti del colloquio, rispondendo al suo posto.
I metodi di intervento che ho utilizzato in questo caso non sono molto
diversi da quelli che ho descritto nel paragrafo precedente, anche se sono
adattati alle esigenze di un adulto. Prima di tutto concordai con Paolo un
aumento di minuti che avrebbe passato nello studio con me mentre il padre
lo aspettava fuori. Dalla seconda alla sesta seduta passai da 12 minuti
all’ora intera. Mi servivo di questa esperienza positiva per mostrare a Paolo
e a suo padre che alcuni risultati potevano essere raggiunti. Nel frattempo,
gli insegnai a tenere un diario di osservazione dell’ansia e a preparare una
gerarchia di uscite di casa che gli producessero un’ansia crescente (la
farmacia, la videoteca, il negozio di alimentari, il bar). Durante le prime
dieci sedute il solo pensiero di restare in casa da solo gli produceva un’ansia
così forte che decidemmo di accantonarlo e di lavorare sull’esposizione alle
uscite da casa. Lo feci provare prima in immaginazione e gli spiegai i
principi del controcondizionamento e dell’estinzione delle risposte d’ansia.
Poi programmammo cautamente le prove in vivo, all’inizio con la mia
presenza che fungeva da sostegno e da modello. Riuscì a raggiungere tutti
gli obiettivi della prima gerarchia fuorché il bar, dove temeva che gli amici
lo vedessero in uno stato di tensione eccessiva. Però dopo tre mesi di
lavoro, spontaneamente, mi fece la sorpresa di arrivare da solo al mio
studio. Ci furono alti e bassi e grosse difficoltà, soprattutto sugli obiettivi
connessi al restare a casa da solo e a raggiungere con il motorino un vicino
paese di mare (4 chilometri) dove egli stesso desiderava molto andare.
L’esposizione progressiva allo stare solo in casa per tempi crescenti era resa
problematica anche dalla paura che il padre non sarebbe stato ai patti e
avrebbe approfittato dell’insperata libertà per andarsene in giro per i fatti
suoi chissà per quanto tempo. Lavorai su questo con il padre, che in effetti,
dopo la morte della moglie, si sentiva come in prigione, sempre con questo
figlio alle costole. Gli spiegai i rischi che avremmo corso se non fosse stato
ai patti e, d’altra parte, i vantaggi che avrebbe ricavato se fosse stato
paziente ancora per qualche mese. Andai più volte in automobile con Paolo
avvicinandomi di chilometro in chilometro al vicino paese di mare. Le
prime volte che riuscimmo a raggiungerlo era talmente in ansia all’idea di
essere così lontano da casa e da suo padre che dovetti subito fare
retromarcia e tornare in studio. Dopo quattro o cinque volte riuscimmo a
parcheggiare e prendere qualcosa da bere in un bar. Durante esercizi di
immaginazione in studio, gli feci vivere più volte l’esperienza che al ritorno
da una delle sue uscite lui entrava in casa e suo padre, contrariamente a
quanto aveva concordato, era uscito. Lavorammo sulla percezione
dell’ansia, che calava dopo molte immaginazioni di questo episodio, e sui
metodi per fronteggiare questa esperienza se si fosse verificata davvero,
attraverso tecniche di problem solving. È forse il caso di specificare che
questa esperienza terapeutica si è svolta molti anni fa, quando i telefoni
cellulari non erano ancora diffusi e né Paolo né il padre ne possedevano
uno: oggi il telefono cellulare rappresenta, infatti, sicuramente uno dei
possibili strumenti da utilizzare in casi analoghi. Una volta fissai una seduta
con il padre e Paolo riuscì a restare a casa per tutto il tempo, quindi per più
di un’ora. Riuscì anche ad andare a tagliarsi i capelli da solo e a recarsi con
il motorino più volte, sempre da solo, nel vicino paese di mare, dove aveva
vecchi amici che ebbe così l’occasione di tornare a frequentare. In una
seduta in cui mi raccontava un pomeriggio particolarmente gratificante con
alcuni di questi amici, mi disse:
“È stato come alzarsi dalla carrozzella e camminare per la prima volta”.
Da allora, erano passati quasi due anni, ho lavorato a lungo sul tentativo
di portarlo a utilizzare queste nuove abilità di fronteggiamento dell’ansia
per iscriversi a una scuola serale che distava circa due chilometri e mezzo
da casa e a prendere un diploma, oppure per cercarsi un lavoro, ma senza
alcun successo.
Negli anni seguenti, ci furono alti e bassi.
Paolo usciva con qualche amico ma non aveva voglia di impegnarsi in
altre attività più produttive, ma anche più faticose per lui. Ebbe una prima
ricaduta in seguito a un incidente stradale del padre e tornò da me. Non fu
difficile riportarlo alle condizioni che ho descritto sopra, ma fu di nuovo
impossibile muoverlo da questo ozio nel quale diceva di trovarsi bene. Ebbe
una seconda ricaduta dopo la separazione della sorella dal marito, avvenuta
in modo violento. Non ho sue notizie da un paio d’anni, ma credo che abbia
sostanzialmente mantenuto le autonomie che aveva raggiunto senza riuscire
ad andare oltre.
Anche Chicco, dopo aver imparato a stare qualche ora a casa senza la
presenza della mamma, a fare qualche passeggiata con la sorella, a dormire
in camera da solo e ad andare a scuola e restarci tutta la mattina senza
particolari problemi, ha avuto una ricaduta grave in seguito a un cambio di
scuola, dalla quale è uscito con difficoltà e molta sofferenza. La madre,
inoltre, non è mai stata in grado di riprendere a lavorare in modo regolare,
perché la sua vicinanza è sempre utile, se non indispensabile, in troppe
occasioni.
I dati prognostici per il Disturbo d’ansia di separazione riportati dalla
letteratura non sono conclusivi, ma tutto sommato non si discostano molto
da queste due esperienze (Rutter, 1995; Van Hasselt e Hersen, 1995; Elliot e
Place, 2001; Victor e Bernstein, 2009; Altamura, Camuri e Dell’Osso,
2013). I pazienti trattati hanno buone probabilità di remissione dei sintomi,
ma il rischio di esacerbazione e ricadute rimane. I bambini con Disturbo
d’ansia di separazione possono, inoltre, sviluppare in età adulta altri
Disturbi d’ansia e difficoltà anche gravi dell’adattamento sociale.
1 Un altro interessante strumento diagnostico per la valutazione dell’ansia e della depressione in età
evolutiva è il TAD (Test Ansia e Depressione) (Newcomer, Barenbam e Bryant, 1995), valido per
soggetti di età compresa tra i sei e i diciannove anni. È uno strumento multidimensionale costituito da
tre scale – per l’alunno, per gli specialisti e per i genitori – ognuna delle quali fornisce informazioni
complementari per individuare l’entità dei problemi emozionali del ragazzo.
2 Vedi capitolo 1, nota 4.
3 Vedi capitoli 5 e 6.
4 Vedi capitoli 23 e 24.
5 Questa analisi ha mostrato una relazione di familiarità tra ansia e Disturbi depressivi in età adulta.
La terapia cognitivo-comportamentale e l’intervento farmacologico con inibitori della ricaptazione
della serotonina sono efficaci per trattare bambini e adolescenti con questi tipi di disturbi.
6 Questi autori sostengono che è essenziale innanzitutto che il bambino si riconosca come ansioso e
quindi distingua le proprie emozioni prima di affrontare un piano di ricostruzione di coping adeguato;
inoltre sono adatte tecniche di rilassamento e respirazione. Dato che poi il processo di
metacognizione può essere evolutivamente immaturo, e quindi si possono notare difficoltà
nell’interpretazione del proprio dialogo interno, è possibile utilizzare il metodo delle thought bubble
(le nuvolette dei pensieri tipiche dei fumetti) per aiutare i bambini a identificare i propri processi di
pensiero (Kendall, 2000).
7 Vedi capitoli 23 e 24.
8 Vedi capitolo 11
9 Vedi capitoli 7 e 8.
10 L’apprendimento vicario si verifica quando una risposta comportamentale è acquisita senza
bisogno di essere sperimentata personalmente (per es., attraverso l’osservazione di un’altra persona).
Per questo motivo, l’apprendimento vicario può essere chiamato anche “osservativo” ed è
strettamente legato al modellamento , perché può essere il risultato dell’osservazione di un
modello che viene rinforzato o punito per un certo comportamento.
pag. 258
11 Il bambino impara ad avere paura di qualcosa perché vede che i genitori hanno paura:
l’informazione viene trasmessa dal genitore al bambino senza bisogno che il bambino faccia nessuna
esperienza diretta.
12 Quando viene messa in atto la programmazione esplicita di un percorso di apprendimento o di
cambiamento terapeutico, si può parlare di istruzionismo, per intendere che è necessario istruire
l’allievo o il paziente affinché impari o modifichi un suo comportamento. Il costruttivismo può, in
questo senso, essere interpretato come il processo opposto: quando, per esempio, un bambino impara
da solo a leggere guardando le pubblicità e il fratello maggiore; oppure quando un paziente scopre in
modo autonomo la soluzione a un suo problema comportamentale o emotivo.
13 I compiti di esposizione possono essere immaginari o in vivo e possono servire entrambi dentro e
fuori dallo studio del terapeuta. Compiti a casa di esposizione sono essenziali per una buona
generalizzazione a una gamma di situazioni reali. Dopo l’esposizione, bambino e terapista possono
valutare la sua efficacia, per esempio utilizzando il Subjective Units of Distress (Wolpe, 1980) che
valuta i livelli di disagio soggettivo esperito dal paziente prima, dopo e durante l’esposizione.
Capitolo 15
Fobia specifica
Fabio Celi
LA STORIA DI ELEONORA
Eleonora è una bambina di nove anni e mezzo. I genitori sono venuti da me
perché ha difficoltà ad addormentarsi, si agita quando è il momento di
andare a letto, vuole la luce accesa, dice che sente dei passi, chiama il papà,
suda, trema, si riaddormenta solo se il padre va in camera con lei o lei nel
letto con i genitori. Sembra che in certi momenti, ma in realtà quasi solo la
sera, non abbia altri pensieri che la paura della morte (sua e degli altri),
delle malattie e dei ladri. Eppure – mi fa notare il padre, che fin dall’inizio
ha preso le redini del colloquio e che sembra il più coinvolto nella relazione
educativa con Eleonora – quando è fuori di casa è matura, autonoma,
assennata, cerca la compagnia di bambine più grandi con le quali si trova
bene e dalle quali è trattata da pari a pari. A scuola è molto brava, attenta,
coscienziosa (“Anche troppo?”, si chiede il padre, che sembra avere una
buona consapevolezza di alcuni aspetti psicologici della figlia). La cosa
strana è che in casa, invece, è tutta diversa. Sembra un’altra bambina. È
dipendente, ha bisogno di attenzione, se i genitori si occupano delle due
sorelline minori diventa nervosa e a volte addirittura cattiva. In casa è
sempre un po’ tesa e agitata, anche se il suo problema principale, quello per
cui i genitori sono venuti da me, è che ha paura del sonno.
Il padre, durante il primo colloquio, insiste molto su questa diversità
della bambina quando è fuori e quando è all’interno della famiglia. Mi
ripete che a scuola è un’allieva modello, piena di amici, sempre disposta a
dare una mano agli altri. Di pomeriggio fa ginnastica artistica a livello
preagonistico in una palestra della città, dove se la cava piuttosto bene ed è
assolutamente autonoma, nel senso che la madre la lascia all’inizio della
lezione e la va a riprendere alla fine. E poi a casa non si veste neppure da
sola! Mentre mi dice quest’ultima cosa, il padre guarda la moglie e mi
sembra che ci sia nel suo sguardo un velato rimprovero. D’altra parte
quando, poco dopo, raccoglierò qualche notizia su eventuali disturbi
mentali nelle due famiglie, la mamma mi dirà che lei è sempre stata molto
apprensiva, che in alcuni momenti della sua vita ha dovuto fare ricorso a
terapie con ansiolitici, che circa due anni fa, a seguito della morte del padre,
è stata particolarmente male e ha fatto un ciclo di sedute di biofeedback, e
che anche sua madre era così:1 e nel dirmi questo restituirà quello sguardo
al marito. Forse uno psicologo a orientamento comportamentista non
dovrebbe spingersi troppo avanti nell’interpretare gli sguardi, ma qui mi
sembra che il marito stia dicendo alla moglie che se continua a comportarsi
con Eleonora in un certo modo è chiaro che poi la bambina non crescerà
mai; e che la moglie gli risponda che se lei è così non può farci niente. Il
lavoro successivo con i genitori di Eleonora confermerà solo in parte questa
ipotesi iniziale, ma io penso che sia giusto formulare delle ipotesi, anche a
seguito di un’osservazione occasionale. L’importante è non innamorarsi di
queste ipotesi, ma servirsi di osservazioni sempre più precise per metterle
alla prova.
L’anamnesi della bambina è sostanzialmente negativa, anche se i primi
tre mesi di gravidanza sono stati “terribili”. C’è stata prima una minaccia di
aborto, poi un esame, probabilmente sbagliato, che sembrava rilevare la
presenza di toxoplasmosi: la mamma mi racconta che è stato un periodo di
“paure a non finire”. Il pediatra, che non ha nessuna possibilità di vedere le
crisi d’ansia di Eleonora (infatti, in ambulatorio, come da ogni altra parte
che non sia la sua casa, la bambina si comporta in modo assolutamente
adeguato), dice che è un po’ inappetente e leggermente sotto peso, ma che
non c’è nessun motivo di preoccuparsi di questo. D’altra parte, è stata
inappetente e “noiosa per il mangiare”, fin dai primi mesi di vita. Sul piano
fisico non c’è altro da segnalare.
A questo punto del primo colloquio con i genitori, cerco di chiarire e
approfondire i sintomi della bambina. I principali sembrano essere connessi
alla paura del buio e, soprattutto, di addormentarsi. Spesso Eleonora vuole,
la sera quando deve andare a letto, qualcuno vicino a lei, o per lo meno la
luce accesa. Nelle serate in cui si sente più tesa, pretende di dormire con i
genitori. Dice che ha paura, sente il cuore batterle forte e tutta un’agitazione
dentro. Pensa che potrebbe entrare in camera qualcuno e farle del male. A
volte pensa a dei ladri o a dei rapinatori. Altre volte sono personaggi di
fantasia. Le capita, per esempio, di sognare un Peter Pan che la spaventa,
oppure un calamaro gigante che ha visto in un film alla televisione qualche
settimana prima: in questi casi si sveglia di soprassalto e non riesce più a
riprendere sonno da sola. Sente la testa che le scoppia di mille pensieri e il
corpo tutto irrigidito. Si rigira nel letto cercando invano una posizione e il
sonno, ma il più delle volte deve chiamare il padre (sempre il padre), il
quale le accende la luce, resta un po’ con lei, la fa parlare e calmare e solo
così, faticosamente, Eleonora riesce a riaddormentarsi.
Non si può parlare di un esordio vero e proprio, perché, come abbiamo
visto, Eleonora è sempre stata una bambina timorosa, ma la situazione è
precipitata in seguito a due episodi, avvenuti a qualche mese di distanza
l’uno dall’altro. Il primo episodio fu la nascita della seconda sorellina, quasi
un anno fa. Eleonora aveva avuto qualche difficoltà ad accettare anche la
prima, di due anni minore: era stata a lungo gelosa e tuttora le due sorelle
non vanno certo d’accordo. Ma la nascita della terza bambina, che ora ha un
anno e mezzo, fu un vero e proprio dramma. Ne è gelosissima, fa di tutto
per distogliere l’attenzione dei genitori dalla sorella e per attirarla su di sé.
Come mi faceva notare il padre, arriva persino a sostenere di non essere
capace di vestirsi da sola, cosa assolutamente falsa. Una sera ha detto alla
mamma:
“Se anch’io mi facessi tutto addosso, mi dovresti lavare e cambiare”.
Il secondo episodio, qualche mese dopo, fu l’irruzione dei ladri, di notte,
in un appartamento due piani sotto quello di Eleonora, mentre i proprietari,
amici della bambina, dormivano. Eleonora continuava a ripetersi che
sarebbe potuto succedere a loro. In quel periodo voleva più che mai
qualcuno vicino per addormentarsi e diceva di sognare ladri tutta la notte.
Fu in seguito all’aggravamento del quadro dopo questo episodio che i
genitori decisero di venire da me.
Prima di chiudere il colloquio domandai loro se pensavano che ci fossero
altre cose importanti da dire, ma sinceramente la mia domanda era, più che
altro, routinaria e credevo che non sarebbe saltato fuori più niente di
interessante.2 Invece la madre, inaspettatamente, mi disse:
“È tutta colpa mia”.
Anche il marito la guardò con una certa meraviglia.
Chiesi alla signora, molto cautamente, che cosa intendesse dire.
Mi rispose che Eleonora doveva ringraziare lei per questi suoi disturbi.
Una sera era stata lei a permetterle di vedere un film alla televisione che le
era sembrata un’innocua avventura per ragazzi, e invece a un certo punto
era comparso un calamaro gigante che aveva spaventato tantissimo la
bambina e che era diventato nei giorni successivi un incubo notturno
ricorrente. Naturalmente questo episodio era troppo poco per
un’affermazione così pesante come quella che la mamma aveva appena
fatto. Restai un attimo in silenzio, guardando la signora con l’aria di chi è
pronto ad ascoltare dell’altro. Mi disse:
“E poi non è solo questo”.
“Che cos’è che le fa pensare di avere tante colpe?”.
“Ha succhiato l’ansia insieme al mio latte. Ancora prima, quando ero
incinta e ho avuto paura di aver abortito e poi, ancora peggio, ho avuto
paura di dover abortire perché non mi nascesse una bambina gravemente
malata…”.
Il marito la interruppe:
“Lì certo non era colpa tua, ma semmai dei dottori che si erano
sbagliati…”.
“Sì, ma anche dopo, chissà quante paure le ho trasmesso… Quante volte
le ho detto di non arrampicarsi sullo scivolo quando era piccola, di stare
attenta che poteva sbattere la testa e finire all’ospedale… E anche adesso,
tutte le sere, quando va a letto, penso che non ce la farà, che non riuscirà ad
addormentarsi, oppure che avrà degli incubi e si sveglierà piena di
angoscia… Pensa che lei non se ne accorga, dottore? Eleonora ha dei
problemi, ma è intelligente, capisce tutto, io sono sicura che me la legge
negli occhi tutta questa ansia e se la porta in camera con sé…”.
Il marito, per la prima volta durante il colloquio, taceva, forse un po’
imbarazzato, certamente preso alla sprovvista.
Le risposi che ero certo che Eleonora vedesse l’ansia negli occhi della
madre e che forse questo poteva contribuire un po’ al suo problema. Le
dissi però che credevo che darsi la colpa di tutto non fosse giusto, sia perché
non era quasi certamente vero, sia perché non serviva a niente, anzi poteva
solo peggiorare la situazione. Aggiunsi:
“Ora penso che prima di tutto dovrei vedere Eleonora e conoscerla, ma
poi, se le fa piacere, riprenderemo questo discorso, che è molto importante e
può essere la base di partenza per cercare di cambiare alcune cose e aiutare
la bambina”.
Noto qui, di sfuggita, che probabilmente un intervento di questo tipo non
era quello di cui la signora aveva più bisogno in quel momento. Forse la
signora avrebbe voluto trovare qualcuno che raccogliesse subito questa sua
angoscia, le permettesse di esprimerla ancora più a fondo e poi cominciasse
a lavorarci sopra. I limiti, anche di tempo, di un primo colloquio, però sono
noti e con quelle parole io cercai, per lo meno, di tenere una porta socchiusa
per un lavoro successivo.
Per fortuna gli ultimi accordi furono invece semplici e veloci, perché
entrambi i genitori erano già consapevoli del fatto che avrei voluto vedere
la bambina, ne avevano già parlato con lei presentandogli la cosa nel modo
giusto e la bambina non aveva mostrato nessuna difficoltà all’idea di
sostenere un colloquio con un dottore che avrebbe provato a darle una mano
per superare le sue paure.
Quando vidi Eleonora, infatti, mi parve addirittura contenta di essere
venuta da me. Non ebbe nessun problema a mettersi in relazione, a lasciare
subito nel corridoio il padre che l’aveva accompagnata, a spiegarmi che
sapeva benissimo che l’avevano portata da un psicologo dei bambini per
parlare delle sue paure e per vedere se si poteva fare qualcosa per superarle.
Fu dunque subito molto collaborativa. Forse, se proprio voglio concentrare
l’attenzione su alcuni piccoli elementi psicopatologici al di là delle fobie,
c’erano, in Eleonora, alcuni tratti che potremmo approssimativamente
definire ossessivi:3 questo atteggiamento di collaborazione così puntuale;
questo perfezionismo nel mettersi in relazione con me e nel cominciare
subito a lavorare (le chiesi di farmi un diario di osservazione e la settimana
dopo me lo portò compilato in modo ineccepibile e senza aver saltato
neppure un giorno); questo chiedermi più volte che cosa avremmo dovuto
fare insieme per superare il suo problema; persino la meticolosità di certi
disegni liberi nei quali, per esempio, i merli di un castello erano tutti
perfettamente uguali, a uguale distanza uno dall’altro, riempivano oltre
metà del foglio e avevano richiesto oltre mezz’ora per essere disegnati.
Paradossalmente, però, può succedere che i tratti ossessivi, se non si
trasformano in un vero e proprio disturbo che si sovrappone ad altri
Disturbi d’ansia, possono persino darci una mano nello svolgimento di un
programma psicoterapeutico e forse questo fu il caso di Eleonora, che già
nella prima seduta mi raccontò con precisione delle sue paure. Mi disse che,
di solito, scattavano verso sera (e penso adesso, mentre sto scrivendo queste
sue parole riprendendole dalla cartella clinica, quante volte ho sentito
questa storia dell’angoscia che scende insieme alle prime ombre della sera,
sempre diversa perché sempre diverse sono le storie di ciascuno di noi, ma
anche, nelle sue caratteristiche generali, sempre uguale a sé stessa
attraverso gli anni e attraverso i bambini). Le veniva allora in mente,
soprattutto se era in camera sua, soprattutto se era già a letto, da sola, con la
luce spenta, che un uomo avrebbe potuto entrare in casa, forse un ladro, e
rubare o fare del male a qualcuno dei suoi. A volte le veniva in mente un
pensiero ancora peggiore: che un ladro avrebbe già potuto essere in casa, e
aspettare solo il momento buono per saltar fuori e colpire. Questo le
provocava una grande angoscia. Si sentiva tesa e il cuore le balzava in gola.
Allora le bastava un niente, un piccolo rumore da una stanza vicina,
un’ombra, la forma strana che a volte prendono gli oggetti anche familiari
nella semioscurità, per sentire il bisogno di fare qualcosa per scacciare
questa paura, che diventava intollerabile. Doveva accendere la luce, o
andare in bagno a fare la pipì, o chiamare il papà perché le portasse un
bicchier d’acqua e si fermasse un po’ con lei. Certe sere queste paure la
prendevano con particolare forza, ancora prima di andare a letto, e allora
chiedeva di poter dormire con i genitori. Altre sere, invece, si addormentava
con relativa facilità, ma poi capitava che si svegliasse nel cuore della notte,
dopo un brutto sogno, tutta sudata, tremante e terrorizzata: in questi casi
chiamava il padre e lo pregava di fermarsi a dormire un po’ con lei.
Eleonora appariva perfettamente consapevole dell’irragionevolezza delle
sue paure anche se, come vedremo più avanti, ciò non è molto frequente nei
bambini. Durante questa prima seduta, che fu evidentemente molto
produttiva, tentai allora di esaminare anche il grado di consapevolezza della
bambina rispetto ai suoi rapporti con le sorelle. Appena affrontai
l’argomento, mi disse che non era affatto gelosa (ben prima che io le facessi
una domanda precisa a questo riguardo!). Però ammise che erano noiose,
soprattutto la più piccola, e che a forza di “rompere” attiravano sempre tutta
l’attenzione di papà e mamma.
Decisi di tentare, giocando un po’ d’azzardo, e le dissi:
“E tu allora, per avere un po’ di attenzione, ti fai prendere dalle paure la
sera”.
Parve un po’ contrariata da questa mia frase, ma decisa a rifletterci su.
Poi mi disse tre cose, tutte e tre molto interessanti, anche se non ricordo più
e non ritrovo nei miei appunti in che ordine. Mi disse che potevo aver
ragione; che di certo lei non lo faceva apposta; che sperava che sarebbe
riuscita a migliorare, perché lo desiderava davvero.
Le risposi raccogliendo le ultime due osservazioni. Le dissi che ero
sicuro che non lo facesse apposta e che pensavo proprio che saremmo
riusciti a inventare insieme qualche sistema per affrontare meglio le sue
paure. Le spiegai come fare un primo diario delle paure e a che cosa poteva
servire. Costruimmo insieme la griglia di osservazione e lei disegnò un
“termometro della paura” (Kendall e Di Pietro, 1995). Infine le diedi
l’appuntamento per la settimana successiva.
L’avverbio “infine”, però, non è quello giusto. Credevo di chiudere così
la seduta. Invece Eleonora prese il foglietto con la data e l’ora
dell’appuntamento, lo guardò e mi disse:
“Prima, quando ti ho detto che non sono gelosa delle mie sorelline, ti ho
detto la verità”.
Le feci cenno di sì aspettandomi che andasse avanti.
“Gelosa no, però mi piacerebbe restare bambina”.
“Come mai ti piacerebbe restare bambina?”.
“Perché i bambini giocano sempre, sono belli e sono coccolati. Io da
grande farò la maestra”.
pag. 6
pag. 151
pag. 136
pag. 365
Più avanti abbiamo lavorato ancora nella direzione del guardarsi dentro e
abbiamo provato prima ad ascoltare e poi a modificare il dialogo interno:
“Che cosa posso fare per cercare di stare più calma? Posso chiamare
disperatamente il mio papà, ma posso anche provare ad abbracciare il mio
pupazzo”. Quando Eleonora si rende conto delle possibili alternative ed è in
grado di scegliere la migliore a seconda del momento e del livello di paura
sta facendo anche un lavoro di problem solving .8 La ristrutturazione
cognitiva, più avanti, riguarderà anche alcuni pensieri catastrofici che è
meglio imparare a considerare altamente improbabili e che, in quanto tali,
vanno scartati dalle nostre alternative mentali.
pag. 328
RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA
Ci sono pensieri che non favoriscono un positivo processo di
cambiamento nel paziente (per es.: io sono nato così e non riuscirò
mai a cambiare). Ci sono pensieri che non aiutano a collaborare con il
terapeuta (per es.: perché dovrei provare a invitare un amico a uscire
con me se tanto mi risponderà di no?). Ci sono pensieri che non
aiutano a vedere in modo corretto gli obiettivi terapeutici (per es.: un
amico potrà anche uscire con me, ma sicuramente non ci
divertiremo). Ci sono pensieri che generano demotivazione (per es.: è
inutile che studi, perché comunque farò una brutta interrogazione);
ansia (per es.: se provo anche solo ad avvicinarmi alla classe,
sicuramente mi sentirò male); depressione (per es.: che senso ha
uscire, telefonare, cercarsi un lavoro, fare una passeggiata?).
La ristrutturazione cognitiva è una metodologia terapeutica che cerca
di modificare questi pensieri. Per ottenere questo risultato il terapeuta
aiuta il paziente a riconoscere i pensieri che lo fanno star male o non
lo aiutano a star meglio. Poi cerca di mostrargli che pensieri di questo
genere hanno, di solito, alcune caratteristiche ricorrenti che li rendono
pericolosi: sono esagerati (un conto è pensare non mi divertirò, un
altro conto è pensare sicuramente mi annoierò a morte e tornerò a
casa più triste e sfiduciato che mai); sono dicotomici (sì/no,
bianco/nero, tutto/nulla) e perciò assoluti (tutto quello che faccio è
sbagliato); sono caratterizzati da inferenze arbitrarie che, da piccoli
particolari, arrivano a conclusioni generali (non mi ha salutato, quindi
mi detesta: io infatti non piaccio mai a nessuno). Poi cerca di metterli
in discussione, di mostrare al paziente quanti errori questi pensieri
contengano e come sarebbe più ragionevole, più utile, più “sano”
provare a pensare in modo diverso.
Nel presente capitolo si può vedere come in un Disturbo d’ansia la
ristrutturazione cognitiva sia usata per correggere un’interpretazione
errata di un sintomo fisico. Se un bambino pensa, per esempio, che
l’aumento del ritmo cardiaco sia il primo segnale di un un malore
gravissimo che certamente lo porterà a sentirsi male, a svenire, a fare
brutta figura davanti a tutti, modificare questo pensiero può
contribuire a interrompere un circolo vizioso dell’ansia. Nel capitolo
16 la ristrutturazione cognitiva permette a Gabriele di modificare
alcune convinzioni errate connesse alle situazioni sociali. Nel
capitolo 23 il terapeuta cerca di insinuare, nella mente di Silvia, il
dubbio se sia proprio vero che lei è così antipatica. Qual è la prova
che tu sia così irrimediabilmente insopportabile agli occhi di tutte le
tue amiche? Come fai a sapere, senza neppure avere provato, che
nessuna accetterà un tuo invito? Queste sono domande tipiche della
ristrutturazione cognitiva, che non dovrebbe essere pensata come una
metodologia necessariamente a sé stante, ma che può essere uno
strumento che si integra in un approccio cognitivo-comportamentale
complesso. Una ristrutturazione cognitiva, per esempio, può preparare
il terreno a una esperienza di esposizione agli stimoli ansiogeni o a un
compito comportamentale svolto in modo più adeguato e più proficuo.
pag. 13
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pag. 236
pag. 69
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7 Alcuni studi (Ollendick et al., 2009; Ollendick e Davis, 2013; Fond e Franc, 2013) hanno
dimostrato l’efficacia della terapia di esposizione nelle fobie specifiche in età evolutiva anche in una
sola seduta, con effetti mantenuti al follow-up. Inoltre uno studio pilota di Vigerland et al. (2013),
suggerisce come, anche attraverso l’Internet-delivered CBT (ovvero il trattamento cognitivo-
comportamentale effettuato online), si ottengano risultati positivi nella riduzione della severità dei
sintomi. Bouchard (2011) invece suggerisce l’uso della realtà virtuale per l’esposizione, vista
l’efficacia dimostrata con i pazienti adulti.
8 Recenti ricerche (Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006) dimostrano che il training
per lo sviluppo delle abilità di problem solving è particolarmente indicato nel trattamento dei Disturbi
d’ansia in età evolutiva. D’altra parte, come abbiamo visto più analiticamente nel capitolo 14, già nel
1971, D’Zurilla e Goldfried hanno dimostrato come i compiti di problem solving favoriscano
l’acquisizione di abilità e tecniche non circoscritte a quelle insegnate ma generalizzabili a diverse
aree di problemi.
9 Vedi capitolo 14.
10 Per queste metodologie di lavoro con i genitori e la relativa bibliografia, vedi capitoli 11 e 13.
11 Esempi in letteratura di quanto affermato sono riconducibili agli studi di Brown et al. (2007),
Kolaitis (2012) e Ginsburg et al. (2014), che mostrano l’esistenza di una relazione di familiarità tra
Disturbi d’ansia dell’età evolutiva (Disturbo d’ansia generalizzata, Fobia specifica e Disturbo d’ansia
sociale) e Disturbi d’ansia e depressivi in età adulta.
Capitolo 16
LA STORIA DI GABRIELE
Gabriele ha quindici anni e non va più a scuola da due mesi. Durante il
primo colloquio i genitori mi raccontano che è sempre stato un allievo
bravissimo. L’anno precedente è uscito dalla scuola secondaria di primo
grado con la valutazione di “ottimo” e ha vinto anche un premio in denaro
di una Cassa di Risparmio locale. Da questo punto di vista, dunque, non
sembrava proprio che dovesse avere dei problemi. Ha sempre frequentato
regolarmente e anche quest’anno, in prima Liceo Scientifico, le cose erano
partite bene, anzi molto bene – specifica la madre –, con i voti nelle
interrogazioni e nei compiti in classe sempre oscillanti tra l’8 e il 9.
Se qualche problema era emerso in passato, era piuttosto un problema di
carattere. Fin da bambino Gabriele era un tipo poco deciso, lento e timoroso
nel fare amicizia, un po’ più piccolo della sua età. Su quest’ultimo aspetto
sia il padre sia la madre sentono il bisogno di specificare che si riferiscono
alla personalità di Gabriele e non certo alla sua intelligenza o al suo
rendimento scolastico. Il padre mi porta l’esempio del calcio. Qualche anno
fa sembrava che gli piacesse il gioco del pallone. Non si perdeva una partita
in TV, era un grande tifoso del Milan e, quando il padre portava a casa il
giornale, lui subito andava alle pagine dello sport a cercare le ultime notizie
sul suo Milan. Così avevano deciso di provare a iscriverlo in una piccola
squadra locale. Nel primo periodo, quando si era trattato solo di fare
esercizi preparatori e qualche allenamento, le cose erano andate piuttosto
bene. L’allenatore aveva detto che Gabriele si impegnava e pareva anche
piuttosto portato. Le difficoltà erano cominciate appena l’allenatore aveva
provato a farlo giocare, ed erano aumentate quando, dalle semplici partite
tra di loro fatte più che altro per farli divertire dopo gli allenamenti, si era
passati alle partite “vere”, con piccole squadre avversarie il sabato
pomeriggio. L’allenatore aveva provato a mandarlo in campo, ma,
contrariamente a quello che avviene con tutti i ragazzini, Gabriele preferiva
stare in panchina. Si tirava indietro. Sembrava come aver paura dello
scontro diretto. Sia l’allenatore sia il padre avevano provato a parlarne con
Gabriele. Era emerso che il bambino temeva di trovarsi esposto al giudizio
dei compagni, di poter essere in qualche modo ritenuto responsabile di un
eventuale insuccesso. Anche tecnicamente, l’allenatore sosteneva che in
partita giocava molto peggio, sembrava quasi che a volte cercasse di stare
lontano dal pallone per evitare di potersi trovare in una situazione difficile,
dove poi sarebbe stato giudicato male. I genitori si consultarono e decisero
che, dal momento che il calcio sarebbe dovuto essere un divertimento, tanto
valeva ritirarlo.
Il padre mi racconta questo episodio come l’unico in cui il figlio abbia
fatto pensare, in passato, di avere dei problemi. Per il resto sembra tutto a
posto. L’anamnesi è negativa, il pediatra ha detto che è un ragazzino sano e
che va mandato a scuola a tutti i costi, “anche con la forza, se necessario”, e
la madre ci tiene a farmi sapere che loro sono una famiglia “perfetta” (padre
libero professionista e madre casalinga), unita e senza problemi. Nessuno
dei due genitori ha mai sofferto di disturbi mentali, anche se entrambi si
definiscono come “un po’ nervosi”. Inoltre, si è verificato un episodio
tristissimo nella loro vita di coppia, ma tanti di quegli anni fa da potersi
ormai considerare una cicatrice rimarginata, per quanto sia possibile che
cicatrici così profonde si rimarginino del tutto. Oltre venti anni prima, il
loro unico figlio morì, per la cosiddetta “morte in culla”. Oggi dunque è
Gabriele il loro unico figlio e nel dirmi questo sembrano quasi chiedermi
una giustificazione preventiva se, inevitabilmente, l’hanno forse
iperprotetto.
Il rifiuto di andare a scuola è stato, dunque, un fulmine a ciel sereno in
una vita che sembrava scorrere regolare e tranquilla. È cominciato tutto per
delle banalità. Una mattina (“Era giovedì, me lo ricordo ancora”, dice la
madre) era tornato a casa amareggiato perché un professore, che fino a quel
momento gli aveva fatto intendere che sarebbe stato scelto per coordinare
un gruppo per una ricerca di scienze, aveva poi preferito un altro ragazzo di
un’altra classe. Proprio per quella sera il padre gli aveva trovato da tempo
due biglietti per una partita della Nazionale, ma Gabriele non aveva avuto
voglia di andare. Si era intristito e come chiuso in sé per la delusione che
questo episodio gli procurava, ma soprattutto gli dispiaceva il fatto che
aveva già raccontato a un paio di amici, come cosa ormai quasi certa, che
avrebbe fatto questa ricerca a stretto contatto con il suo professore e adesso
pensava alla brutta figura che lo aspettava e si dava dello stupido per non
essere stato zitto e non aver saputo aspettare che la notizia fosse certa. Poi
c’era stato qualche rimprovero da parte della professoressa di latino per
questioni molto banali ma che, di nuovo, lo avevano mortificato. Infine,
sempre in latino, un “non classificato” in un compito in classe a causa di un
passaggio di bigliettini tra compagni sembrava essere stata la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso. Era tornato a casa alle 11 del mattino, subito
dopo questo giudizio, perché gli si era chiuso lo stomaco e aveva sentito un
senso di soffocamento. Un sintomo simile si era ripresentato due giorni
dopo, una mattina in cui c’era un compito in classe di italiano. La
professoressa aveva appena letto i titoli dei temi, quando Gabriele sentì un
vuoto allo stomaco e chiese il permesso di tornare a casa. Da quel giorno
cominciò ad andare a scuola solo se non c’erano compiti in classe. Poi,
verso metà novembre, ci fu una settimana in cui ogni giorno era in
programma un compito in classe e, da quel momento, Gabriele smise di
andare a scuola del tutto. Riprovò dopo un periodo piuttosto lungo durante
il quale la scuola era rimasta chiusa per un’occupazione studentesca. Aveva
ricominciato a frequentare la classe da un giorno e mezzo. A metà mattina
del secondo giorno si era di nuovo sentito male e, da allora, non ha più
neppure riprovato. I genitori mi riferiscono che gli insegnanti sono
comprensivi, disponibili e pronti a fare tutto quello che è in loro potere per
aiutare il ragazzo a tornare a scuola, ma Gabriele dice che proprio non ce la
fa, che si sente soffocare, al mattino, alla sola idea di entrare in classe, che
gli viene il panico e anche quando, qualche volta, la sera, fa i migliori
propositi per l’indomani (e sembra sincero), poi questo senso di panico è
più forte di lui. Mi accordo con i genitori per vedere il ragazzo il
pomeriggio stesso, perché credo possa essere utile dare un segnale forte e
che non valga la pena perdere altro tempo.
Secondo Gabriele, che vedo appunto poche ore dopo, lo stimolo che ha
dato il via a tutto è stato quel giudizio negativo (a suo parere ingiusto) nel
compito in classe di latino. Il ragazzo non dà, invece, molta importanza ad
alcuni antecedenti, né prossimi, come la delusione di non essere stato scelto
dal professore per quella ricerca, né remoti, come la sua tendenza a tirarsi
un po’ indietro, fin da piccolo, in certe situazioni sociali in cui gli venivano
fatte richieste prestazionali precise. In realtà, fin da questi primi approcci,
Gabriele appare un ragazzino con qualche lieve difficoltà relazionale, ma
senza altri disturbi psicopatologici di rilievo oltre a quelli che lui stesso
riconosce. Mi racconta che, secondo lui, tutto è iniziato dopo quel
maledetto compito in classe di latino, durante il quale lui ha passato dei
bigliettini a due compagni in difficoltà. Mi sembra che sia ancora in una
situazione di conflitto rispetto a questo episodio. Da un lato pensa di aver
fatto bene a cercare di passare agli amici delle frasi difficili che lui era
riuscito a tradurre. Questo pensiero è reso particolarmente forte dalla
considerazione che in passato, per esempio alla scuola secondaria di primo
grado, non l’aveva mai fatto perché non ne aveva mai avuto il coraggio e
forse anche perché non aveva mai avuto in classe amici nel vero senso della
parola. Mi pare dunque di capire che Gabriele avrebbe voglia di essere
orgoglioso di quello che ha fatto. Mi pare anche che, ai tempi dell’episodio,
ci fosse in lui la speranza di costruire in questo modo relazioni più
significative all’interno della classe. Dall’altro, invece, sembra pentito. Se
non avesse avuto quell’idea, ora non si troverebbe in queste condizioni.
Ricorda nitidamente la mattina in cui la professoressa, infuriata, aveva
restituito i compiti in classe punendo quelli chiaramente copiati con un “non
classificato”. Cerco di fargli notare che a me un “non classificato” non
sembra un giudizio particolarmente negativo, da prendere tanto male.
Gabriele, però, mi fa gentilmente intendere che non ho capito niente. Lui
non è stato male per quel giudizio “del cavolo” (metto tra virgolette
un’espressione che, in realtà, non è esattamente quella usata dal ragazzo).
Lui si è sentito a disagio per la figura che aveva fatto, per l’ingiustizia che
stava subendo, per il rovello di quali potessero essere i pensieri dei suoi
compagni, perché li vedeva tranquilli e quasi indifferenti a quello che stava
succedendo, mentre lui stava così male. Stava effettivamente male da un
punto di vista fisico, mi racconta. Sentiva lo stomaco che gli si chiudeva,
una sensazione come se gli scoppiasse la testa, un’irrequietezza addosso che
gli faceva provare il bisogno impellente di alzarsi per distendere i nervi,
muoversi, prendere aria, non sentirsi più gli occhi addosso di tutti, uscire da
lì.
Concludo la prima seduta con il ragazzo parlando della sua famiglia, alla
quale sembra molto attaccato, e della sua vita extrascolastica che,
soprattutto in inverno, sembra un po’ povera.
“Tutti gli anni”, mi dice, “va sempre a finire nello stesso modo. In estate
mi diverto abbastanza, al mare sto con amici di fuori e mi trovo bene. Così
a settembre penso: adesso devo continuare a divertirmi, uscire, mettermi
d’accordo con qualcuno per andare al cinema…”.
“E invece?”.
“Invece va sempre a finire che poi la scuola mi prende”.
“Vuoi dire che ti prende troppo?”.
“Sì, mi prende troppo. Mi chiudo in casa a studiare… anche adesso, sai?,
studio, cerco di tenermi in pari, prima di sentirmi male avevo quasi la media
dell’8…”.
“E ci tieni molto a questi risultati”.
“Sì, un po’ ci tenevo, l’anno scorso ho vinto anche un premio, ma
soprattutto è per i miei genitori”.
“E a ritornare a scuola ci tieni?”.
“Eccome!”.
“In una scala da 0 a 10 quanto ci tieni? Quanto è alta la tua motivazione
a rientrare?”.
Mi risponde che è molto alta. Insisto per una valutazione quantitativa e
lui mi dice 8. Gli chiedo se allora sarebbe disposto a provare a rientrare in
classe, magari solo per qualche ora, magari solo in alcune situazioni
particolari. Cambia espressione. Si fa teso. Mi dice che il solo pensiero lo
mette in ansia. Ci riflette ancora un attimo e poi mi risponde francamente di
no. Che non è disposto a provare, in nessuna condizione. Mi dice che si è
sbagliato. La sua motivazione a rientrare in classe non supera il 7, ma la sua
speranza di riuscirci è vicina allo zero.
DESENSIBILIZZAZIONE SISTEMATICA –
ESPOSIZIONE
La desensibilizzazione sistematica è una procedura di
controcondizionamento. Se uno stimolo (per es., fobico) produce una
risposta inadeguata (per es., ansia eccessiva), si può affrontare il
problema associando allo stimolo fobico un altro stimolo antagonista
dell’ansia (di solito, il rilassamento). Per un processo ben noto di
condizionamento classico, si ottiene così che lo stimolo che in
precedenza provocava ansia eccessiva ora non la provochi più.
Tutto questo è più facile da descrivere in teoria che da mettere in
pratica con un paziente che ha risposte d’ansia molto forti e molto
difficili da controllare. Per questo motivo, la desensibilizzazione
sistematica prevede di costruire insieme al paziente una gerarchia
degli stimoli ansiogeni e di cominciare il trattamento dagli stimoli che
producono meno ansia. Secondo il principio della gradualità che si
ritrova in molte metodologie comportamentali, si presenteranno via
via stimoli che determinano un’ansia crescente. La
desensibilizzazione sistematica, come suggerito da molti studi (per
es., Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006), si può
svolgere nello studio del terapeuta facendo immaginare al paziente le
situazioni che gli creano ansia e facendolo contemporaneamente
rilassare. In questo caso prende il nome di desensibilizzazione
sistematica in immaginazione. Oppure si può svolgere in una
situazione reale, come quando, nel capitolo 14, Paolo affronta vere
situazioni ansiogene. In questo caso, si chiama desensibilizzazione
sistematica in vivo.
Quando, come in quest’ultimo caso, lo stimolo ansiogeno non è
immaginato ma realmente presente, si parla anche di esposizione. La
tecnica dell’esposizione consiste dunque nell’esporre il paziente, per
lo più in modo graduale, agli stimoli che gli determinano ansia. Qui il
meccanismo di azione non è più il controcondizionamento, ma
l’estinzione. L’esposizione alla situazione ansiogena, infatti, fa sì che
le risposte di fuga e di evitamento non vengano più rinforzate
negativamente dalla riduzione dell’ansia.
Sempre nel capitolo 14, abbiamo visto Chicco che viene dapprima
sottoposto a una forma modificata di desensibilizzazione sistematica
per riuscire a parlare delle proprie paure e poi all’esposizione graduale
per imparare a entrare in classe staccandosi dalla madre. Viene usata
una metodologia di esposizione graduale allo stimolo ansiogeno anche
nel presente capitolo, quando Gabriele va prima in biblioteca e poi in
classe. Ad Alberto, invece, il cui caso verrà illustrato nel capitolo 17,
la desensibilizzazione sistematica in immaginazione serve per
preparare il terreno a tornare al campo di calcio dove aveva paura di
essere punto da una vipera. È chiaro che, poi, il ritornare davvero su
quel campo rappresenterà di nuovo una forma di esposizione.
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Disturbo ossessivo-compulsivo
Fabio Celi
LA STORIA DI ALBERTO
Alberto ha quasi quindici anni e ha perso il padre circa sei mesi prima,
investito da un camion mentre, in bicicletta, andava a lavorare. Vengono a
raccontarmi questa storia drammatica la madre, che però parla pochissimo,
probabilmente ancora chiusa nel suo dolore, e uno zio paterno, che fa molta
fatica a esprimersi, a causa di una forte balbuzie che lo costringe
continuamente a interrompersi e a riprendere il discorso da capo. La madre
e lo zio sono molto preoccupati per le “fobie” che Alberto ha manifestato in
questi ultimi mesi e che sembrano farsi più gravi di giorno in giorno, ma lo
zio mi spiega che il ragazzo ha sempre avuto dei problemi. Ripete, a questo
proposito, più volte il termine “fobia” in questa prima parte del primo
colloquio. Quando era più piccolo aveva paura a toccare il detersivo per la
lavatrice e per la lavapiatti. Questa paura, d’altra parte, era molto simile a
quella della madre, che, infatti, pretendeva che fosse il padre a mettere il
sapone nelle vaschette. Poi questa “fobia” è quasi del tutto passata, ma
soltanto per lasciare posto ad altre, forse ancor più strane. Per esempio, il
bambino aveva paura del mercurio. Una volta, quando aveva circa undici
anni, vide un termometro cadere a terra e rompersi. Ne rimase terrorizzato.
Disse alla madre che proprio pochi giorni prima la maestra aveva spiegato
come funzionava un termometro, che cos’era il mercurio e come si trattasse
di una sostanza tossica molto pericolosa. Sto cercando di riassumere, ma
anche di dare una forma e una logica a questo colloquio, naturalmente per
ovvi motivi di chiarezza. Mi rendo conto, però, che in questo modo
vengono meno l’ansia, la confusione, l’angoscia, l’incapacità, da parte dello
zio, di fare un discorso filato, chiaramente comprensibile, con un inizio e
una fine. La madre, d’altra parte, sta quasi sempre zitta, come ritirata in sé,
e si limita a intervenire per correggere il cognato su particolari tutto
sommato irrilevanti, come il fatto che la lezione sul mercurio doveva averla
fatta un professore e non una maestra perché Alberto, in quel periodo, era
già in prima classe della scuola secondaria di primo grado.
In ogni modo, ciò che emerge è che, dopo questo episodio del termometro,
Alberto cominciò ad avere mille paure, una più assurda dell’altra. Prima di
andare a letto doveva controllare che tra le coperte e sul cuscino non ci
fossero tracce di mercurio che avrebbero potuto contaminarlo; questo è un
comportamento piuttosto frequente in bambini con Disturbo ossessivo-
compulsivo, che spesso presentano disturbi legati al sonno proprio per i
rituali che interferiscono con l’addormentamento (Storch et al., 2007). I
genitori gli spiegarono che tutto questo non aveva senso:
“Chi vuoi che abbia messo del mercurio nel tuo letto?” gli dicevano.
Ma non serviva a niente. Alberto replicava che gli avevano spiegato a
scuola, e poi era andato anche a controllare su un’enciclopedia, che il
mercurio è chiamato anche “argento vivo” proprio per la sua capacità di
dividersi e infilarsi dappertutto. E, in ogni modo, il ragazzo non si limitava
ad avere la “fobia” della presenza del mercurio. Di fronte alle obiezioni dei
genitori, replicava che nel letto, ma anche nel tovagliolo quando erano a
tavola, avrebbero potuto esserci piccoli frammenti di vetro, quasi invisibili
ma pericolosissimi. Da qui nasceva la necessità di fare mille controlli,
sempre più accurati, che però non bastavano mai a rassicurarlo del tutto.
Lo zio insiste molto, nella prima parte del colloquio, su questo episodio
scatenante del termometro, per sottolineare che Alberto aveva già da tempo
qualcosa che non andava. Certo la morte del padre, per di più in circostanze
così drammatiche, ha fatto precipitare la situazione. Tutte le vecchie “fobie”
di Alberto sono riemerse e tutte contemporaneamente: i detersivi, il
mercurio, i vetri. Poi se ne sono aggiunte di nuove: le piante grasse e
spinose, dalle quali ora il ragazzo deve girare alla larga per paura di essere
punto, le vipere (ma non nel senso banale di provare ansia di fronte a una
vipera, ma in quello, ben più complesso, di essere ossessionato dall’idea
che una vipera potrebbe essere nascosta tra l’erba del giardino o tra i vasi
delle piante dell’appartamento), e infine il contagio di qualche non meglio
identificata malattia. Penso che sia utile, a questo proposito, tener conto del
fatto che i sintomi del Disturbo ossessivo-compulsivo cambiano nel tempo,
spesso senza alcun modulo chiaro di progressione, e molti bambini hanno
più di un sintomo contemporaneamente. Di conseguenza, numerosi soggetti
hanno sperimentato quasi tutti i sintomi classici entro la fine
dell’adolescenza (Rettew et al., 1992).
Questo è, adesso, ciò che maggiormente preoccupa lo zio e la madre. La
madre va al cimitero tutti i giorni e, nonostante le sue insistenze, non è mai
riuscita a convincere Alberto a seguirla, neppure una volta. Forse questo è il
momento di maggior partecipazione, anche emotiva, della madre al
colloquio. Piange raccontandomi di non essere mai riuscita a portare
Alberto a fare visita a suo padre. Il ragazzo, infatti, ha paura di contaminarsi
andando al cimitero. Lo zio non è in grado di spiegarmi con precisione che
cosa questo significhi, ma è evidente che il pensiero del cimitero e delle
malattie che si potrebbero contrarre andando in quel posto infetto terrorizza
il ragazzo.
Ma non è tutto. La paura di restare contaminato è tale che Alberto si
tiene a distanza dalla madre quando sa che si è recata al cimitero. Le gira
alla larga, come con le piante spinose e poi, per sicurezza, si lava le mani.
Alberto si lava le mani anche venti, forse trenta volte al giorno. Si lava le
mani quando, suo malgrado, è costretto ad avvicinarsi troppo alla madre
appena tornata dal cimitero. Si lava le mani quando, per aprire una porta,
deve toccare una maniglia che in precedenza è stata toccata dalla madre
tornata dal cimitero. Si lava le mani se gli viene in mente che potrebbe lui
stesso aver toccato un oggetto contaminato dal mercurio. Si lava le mani
quando lo assale la paura che frammenti di vetro, presi chissà come,
potrebbero essere rimasti tra le sue dita. Si lava le mani quando pensa che
potrebbe, mangiando, ingoiare uno di questi frammenti e strozzarsi. Tutto
questo non accadeva prima della morte del padre e invece adesso è
diventato terribile, tanto che ultimamente le sue mani sono piagate: a volte
quasi sanguinano per i continui lavaggi.
Questi, tutto sommato, sono gli elementi importanti del primo colloquio
con la madre e lo zio. Infatti, al di là dei sintomi che lo zio si ostina a
chiamare “fobie”, anche se vedremo più avanti come questo termine non sia
adeguato alla situazione, Alberto ha un’anamnesi negativa. È il
secondogenito di tre figli. Ha una sorella adulta, sposata, che abita
all’estero, e un fratello di undici anni. La madre, per quanto mi è possibile
ricostruire, ebbe una gravidanza regolare e un parto eutocico a termine. Le
prime tappe dello sviluppo del bambino furono regolari. Anzi, a questo
proposito lo zio interviene per dirmi che era un bambino “perfetto”:
mangiava e dormiva, rispettava sempre gli orari, non piangeva mai e
cresceva sano senza dare nessun tipo di problema. Anche il medico di
famiglia ha sempre detto che Alberto non ha problemi dal punto di vista
fisico e ha insistentemente consigliato questa consulenza psicologica.
pag. 49
E aggiunge:
“Non posso uscire con i miei compagni, fare amicizie nuove…”.
“Come mai?”.
Mi guarda, come per un’ultima esitazione. Poi tira fuori di tasca una
boccetta di profumo, di quelle che regalano come campioni pubblicitari.
“Vedi?”, mi chiede. “Era di mio padre. Devo sempre portarla in tasca
perché altrimenti credo che mi potrebbe succedere qualcosa. Poi, quando mi
sento male, tolgo il tappo e annuso un po’ di profumo, anche se ormai è
quasi vuota”.
“E quindi ti secca che i tuoi amici si accorgano di questo?”.
“Sì, non ho voglia di andare a raccontare in giro i miei problemi”.
“Credi di avere tanti problemi?”.
“Tantissimi. Non ce la faccio più”.
Ha ancora la boccetta in mano. È chiusa. Per me, in quel momento, è
però come se togliesse il tappo, e provasse a fare uscire tutte le sue angosce.
Mi racconta che lui è diverso dagli altri. A scuola ci va perché è
obbligatorio e perché vuole studiare e diventare un disegnatore, ma anche lì
se ne sta per i fatti suoi e non vorrebbe mai che un suo compagno scoprisse
che gira sempre con una boccetta di profumo in tasca e che ogni tanto deve
annusarla per contenere la sua angoscia. Così, appena terminate le lezioni,
preferisce andarsene a casa e non rischiare che qualcuno si accorga delle
sue fissazioni.
Mi racconta di quando lo zio gli si avvicinò, quel pomeriggio tragico, per
dirgli dell’incidente di suo padre. Lui lo sapeva già, se lo sentiva, è tutta la
vita che sente che qualcosa di brutto deve succedere, forse da un momento
all’altro, forse domani, e quella volta era successo davvero.
Mi racconta che deve lavarsi le mani un sacco di volte al giorno e si
vergogna all’idea che qualcuno gli guardi le mani, si accorga di come sono
rovinate e gli chieda spiegazioni. Qualche volta capita e lui allora inventa di
avere un’allergia, una specie di malattia della pelle, e poi cambia subito
discorso. Ma è chiaro che più sta da solo, più si chiude nel suo guscio, e
meno probabile diventa che qualcuno scopra la sua boccetta, le sue mani e i
suoi pensieri. In effetti, anche con me, in tre sedute, ha cercato di mostrarmi
le sue mani il meno possibile. È stato costretto a farlo quando mi ha portato
i suoi disegni o quando ha eseguito alcuni test, ma, per lo più, siede di
fronte a me ricurvo, con la testa incassata nelle spalle e con le mani sotto la
scrivania. Gli chiedo se ora me le vuole mostrare. Non solo lo fa, ma mi
sembra anche che lo faccia con un certo sollievo, come se gli giovasse poter
smettere di nascondere almeno una cosa. Le mani sono effettivamente
rovinate, ma questo lo sapevo già dal colloquio con lo zio e lo avevo già
notato. Non è questo il punto. Il punto è che Alberto comincia così ad
aprirsi con me. Sta imparando che non è affatto certo che lo aiuterò a
risolvere i suoi problemi, ma che, per lo meno, può raccontarmeli senza per
questo essere giudicato, essere preso in giro, diventare oggetto di
compassione o di eccessiva curiosità.
Tra la fine di questa terza seduta e la successiva mi racconterà di nuovo,
con angoscia e con mille particolari che sembrano tornargli in mente nel
momento preciso in cui me li sta raccontando, del giorno della morte del
padre, dei suoi pensieri in quel momento, delle sue paure, che ha sempre
avuto, ma che prima era riuscito alla meglio a controllare e da quel
pomeriggio, invece, sembrano averlo sopraffatto.
La più grave di tutte è probabilmente, adesso, la paura della
contaminazione. È grave perché Alberto si rende ben conto di quanto sia
assurda. Sa benissimo, razionalmente, che il mercurio non se ne va in giro
da solo per il mondo e che se anche, per caso, una goccia finisse sul
pavimento della sua camera, non potrebbe certo ucciderlo. È capace di fare,
razionalmente, considerazioni analoghe per i frammenti di vetro e per la
contaminazione da malattie mortali prodotta dalla vicinanza con la madre
che è stata al cimitero. In certi momenti, però, questa razionalità sembra
sgretolarsi, come franare: e allora una paura cieca prende il sopravvento.
Allora Alberto è preso dal terrore della contaminazione e deve fare qualcosa
per non soccombere. È per questo che si lava le mani. Gli sembra, in quel
modo, di annullare o di ridurre il rischio. Di nuovo sa bene, razionalmente,
che questo è assurdo, però, appena si è lavato le mani, sta meglio: l’ansia
tende a placarsi, gli concede un periodo di respiro, come di tregua. Ricorro
a questo termine perché la sensazione che ho, parlando con il ragazzo, è che
si tratti di una vera e propria guerra. A volte Alberto cerca di resistere, di
avere la meglio, di vincere. Dice a sé stesso che non deve assolutamente
cedere, che non ha senso, che è assurdo, che si sta rovinando, che oggi non
si laverà le mani fino all’ora di cena. Capita, a volte, che vinca una
battaglia, ma è raro e tutto sommato inutile. Sta malissimo durante tutto il
periodo in cui cerca di resistere e poi, prima o dopo, sa che ricomincerà a
lavarsi le mani, che l’angoscia avrà comunque la meglio. Il problema della
contaminazione è dunque particolarmente grave, soprattutto perché lo
costringe di continuo a questi comportamenti di lavaggio che lui stesso
giudica assurdi, dei quali si vergogna, che lo fanno star male, che lo
allontanano dagli altri e gli rovinano le mani, ma che non riesce a evitare.
Purtroppo c’è dell’altro. A volte l’angoscia si fa particolarmente
violenta. Il ragazzo viene travolto dal pensiero che, nonostante tutte le
precauzioni prese (ma che non sono mai abbastanza), ha sicuramente
ingoiato un frammento di vetro. Pensa che non gli resti che aspettare, da un
momento all’altro, di rimanere strozzato. Allora ha come l’impressione di
non esserci, come se il cervello se ne andasse per i fatti suoi. Anche questo
lo spaventa molto. Forse, in certi momenti, è la cosa che lo spaventa di più.
Teme, a volte, che siano i primi segnali del fatto che diventerà pazzo. Poi,
per la verità, di solito si tranquillizza. Si rende conto che sono sensazioni
con una durata piuttosto breve e che poi, per il resto del giorno, torna
l’Alberto di sempre, con le sue paure assurde e le sue fissazioni, ma con il
cervello al suo posto. Però, quando capitano, quei momenti sono tremendi:
proprio come se il corpo e la mente si staccassero.
Infine, ci sono i problemi, apparentemente più banali, ma in realtà tanto
importanti per la vita quotidiana. È sempre solo e soffre di questo. Non è
vero che gli piace disegnare chiuso nella sua camera e basta. Gli piaceva
anche giocare a calcio, e lo faceva, solitamente, con qualche amico più
piccolo di lui, fino a qualche anno fa. Ora ricorda di quando il padre lo
portava a un campetto dell’oratorio, nei momenti di libertà dal lavoro,
normalmente il sabato pomeriggio o la domenica mattina, e lo incoraggiava
ad andare a giocare. Mi parla di questo come di una felicità perduta. Mi
dice che già allora si rendeva conto di essere un bambino pieno di problemi,
di paure e di stranezze. Ma che era niente in confronto a come si sente
adesso, continuamente teso, in stato di allerta, in attesa del peggio. Così è
rimasto completamente solo. Gli piacerebbe ancora (eccome se gli
piacerebbe!) fare una partitella a calcio con gli amici (ancora di più gli
piacerebbe se fosse il papà ad accompagnarlo). A volte, a scuola, durante
l’intervallo, ascolta i suoi compagni fare programmi per il pomeriggio o per
la domenica. Lui se ne sta prudentemente in disparte perché ha paura che
qualcuno possa avvicinarsi e tentare di coinvolgerlo in uno di questi
programmi. Sa bene che sarebbe costretto a dire di no, che se dicesse di sì
finirebbe poi per fare una brutta figura e che è quindi più prudente rimanere
ritirato in buon ordine. Però, gli piacerebbe tanto provare qualche volta a
uscire con loro, rompere l’isolamento, divertirsi un po’ come fa suo fratello
tutti i giorni, che riceve cento telefonate e ha mille programmi e forse
addirittura una ragazzina che gli fa la corte. Si può riscontrare un’evidente
tonalità depressiva dietro questi pensieri. Alberto è scontento di sé. Pensa
che con un pochino più di volontà potrebbe vincere certe sue fissazioni e
con un pochino più di coraggio potrebbe uscire con qualche compagno, ma
non ci riesce. La solitudine e la tristezza si mordono la coda, si alimentano a
vicenda, e la sensazione è che l’abbiano come chiuso in gabbia. Così, non
gli restano che i suoi disegni perfetti, i suoi vaghi sogni e le sue angosce
invincibili.
pag. 259
In seguito fui meno fortunato, nel senso che non sempre la terapia andò
nella direzione che avrei desiderato. Per un certo periodo ebbe bisogno di
un supporto farmacologico e alla fine lo persi del tutto di vista. Ciò non
significa, però, che non riuscimmo a ottenere qualche risultato. Gli insegnai
i metodi di auto-osservazione e di analisi funzionale e lo invitai a
tenere in questo modo una specie di diario del suo comportamento inerente
al lavaggio delle mani. Potemmo così lavorare sulla presa di
consapevolezza delle situazioni che maggiormente gli creavano un’ansia
tale da indurlo a lavarsi le mani, e utilizzammo alcune metodologie di
“arresto del pensiero” che consistevano nell’imparare a dire a se stesso
“STOP” e interrompere la catena dei pensieri quando sentiva l’insorgere di
un’idea ossessiva e prima che l’ansia gli rendesse impossibile conservare il
controllo della situazione. Lo “stop del pensiero” può essere una strategia
utile anche per cercare di controllare il rimuginio, o worry, una modalità di
pensiero presente nel Disturbo ossessivo-compulsivo e nei Disturbi d’ansia.
Il rimuginio è, infatti, un fenomeno mentale che si accompagna all’ansia e
contribuisce al mantenimento del Disturbo ossessivo-compulsivo (Dar e
Iqbal, 2014). La sua caratteristica fondamentale è la ripetitività e la capacità
pervasiva di occupare lo spazio mentale. Il soggetto rimuginatore ha sempre
paura che le cose vadano male, ritiene di dover tenere tutto sotto controllo
ed è ossessionato dal timore di un danno irreparabile, con scarsa
rappresentazione di scenari concreti (Clark, 2005).
pag. 151
pag. 402
A volte provavamo questi esercizi in studio. Alberto si sdraiava sul
lettino per il rilassamento, si metteva comodo, a suo agio, con gli occhi
chiusi e io lo portavo a immaginare situazioni e soprattutto pensieri temuti
(“Ecco, ci potrebbe essere del mercurio, ora mi verrà in mente che ci
potrebbe essere del mercurio e perderò la testa dietro questo pensiero”), a
“urlare” immediatamente dentro di sé la parola “STOP” e a interrompere la
catena dell’ansia prima che fosse troppo tardi.
A casa, intanto, continuava l’auto-osservazione e io mi servivo dei dati
per costruire un grafico dell’andamento delle compulsioni e per rinforzarlo
quando questi dati mostravano un decremento. Cercai anche di insegnargli
ad autorinforzarsi imparando a riconoscere i suoi successi anche quando
questi erano parziali, molto limitati e sicuramente al di sotto delle sue
aspettative (a volte irrealistiche e irrazionali: non devo assolutamente mai
avere certi pensieri e non devo lavarmi le mani più di due volte al giorno).
In questo modo cercavo di introdurre nuove abilità di autocontrollo dei
comportamenti ossessivi e compulsivi che però, purtroppo, non vennero
mai del tutto acquisite (Beck, 1976; 1993).
Cominciammo poi, sia in studio sia all’esterno, esperienze di
esposizione graduale e modellamento . Mi ero procurato del
mercurio e, in una prima fase, Alberto riuscì a osservarmi mentre con una
penna giocavo con una grossa goccia di mercurio e la dividevo in tante
gocce più piccole senza provare ansia eccessiva e senza doversi
immediatamente lavare le mani. In questo modo, all’esposizione graduale e
al modellamento, cercavo di aggiungere anche una tecnica di prevenzione
della risposta, che consiste nell’impedire che il paziente emetta la risposta
disadattiva: in questo caso, la compulsione a lavarsi le mani. La risposta
non viene così rinforzata dall’immediata attenuazione dell’ansia e tende
dunque a estinguersi gradualmente.
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Mutismo selettivo
Fabio Celi
LA STORIA DI MARTA
Il primo contatto con Marta avviene attraverso la pedagogista della scuola
dell’infanzia, che mi telefona e mi chiede un appuntamento per parlami di
una bambina. Già questo è un po’ strano per le abitudini della pedagogista,
che conosco da anni e che solitamente usa il telefono per parlarmi dei
problemi e delle difficoltà dei bambini della sua scuola.
Ho l’impressione che Marta rappresenti, però, un motivo di
preoccupazione speciale per la pedagogista, e questa impressione mi viene
confermata quando ci incontriamo. Il principale motivo di preoccupazione
riguarda la diagnosi e, conseguentemente, come comunicarla ai genitori.
Marta ha ormai cinque anni compiuti ed è una bambina strana; secondo lei e
secondo le maestre (che non hanno mai visto niente di simile), è una
bambina indecifrabile. Ha appena iniziato il suo terzo e ultimo anno di
scuola dell’infanzia (è la fine di settembre) e non parla. O meglio: nessuno
l’ha mai sentita parlare. Eppure non sembra una bambina autistica. La
pedagogista ne ha visti tanti, nella sua carriera, di bambini “psicotici”
(come ancora spesso si chiamano, soprattutto in ambiente scolastico, i
soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo): ne ha visti di più e di
meno gravi; alcuni, per esempio, erano capaci di parlare, anche se a modo
loro; altri, anche se non parlavano, mostravano in qualche modo la loro
intelligenza; altri ancora sembravano proprio fuori dal mondo. Marta, però,
è diversa, è completamente diversa; i bambini “psicotici”, infatti, hanno
tutti qualcosa di strano, di bizzarro, di inquietante, di fuori dalla realtà – mi
dice la pedagogista –, mentre Marta appare soltanto un po’ timida, un po’
intimorita dal rapporto con gli altri, peraltro come tanti altri bambini nella
scuola dell’infanzia, anche più riservati e isolati di lei. Però non dice una
parola. Mai. Nessuno ha mai sentito la sua voce.
La pedagogista sente il bisogno di aggiungere subito che la bambina non
ha praticamente frequentato la scuola il primo anno, forse perché all’inizio
piangeva, era a disagio e la mamma decise di non portarla più. Durante tutto
il secondo anno, cioè l’anno scorso, ha invece frequentato regolarmente, si
è ambientata sempre meglio, in alcune attività (come il disegno) è una delle
più brave e perciò le maestre si aspettavano che, da un momento all’altro, si
facesse coraggio e cominciasse a parlare. Ecco perché, finora, non hanno
avuto il coraggio di consigliare esplicitamente ai genitori di portarla da uno
psicologo. Non che non ci fosse il problema. Non che le maestre non se ne
fossero accorte: impossibile non accorgersi di una bambina che non dice
mai una parola; anche i compagni se ne sono accorti e, anzi, le maestre
hanno avuto il loro bel daffare per evitare che questo diventasse
un’occasione di scherno nei confronti di Marta. Ma proprio non sapevano
come spiegarlo alla madre. Gliene avevano parlato, naturalmente, più volte.
La madre, però, ostentava tranquillità, diceva che a casa parlava
tranquillamente (ma sarà vero?), certe volte anche troppo, che era serena e
andava a scuola volentieri e così le maestre non hanno mai trovato il modo
per consigliare una consulenza specialistica.
Poi è arrivata l’estate, è tornato settembre, hanno riaperto le scuole e
tutte loro speravano proprio che il problema si sarebbe risolto da solo.
Invece, siamo punto e da capo, l’anno prossimo Marta comincerà la scuola
primaria e non si può proprio continuare a far finta di niente.
“Non potresti venire in classe a dare un’occhiata?”.
Chiarisco che, naturalmente, non lo posso fare, come non posso fare
nessun’altra cosa se prima non ho parlato con i genitori e avuto la loro
autorizzazione a intervenire sulla bambina. Capisco, però, che questo mette
la pedagogista in difficoltà. Né lei né le maestre sanno cosa dire alla madre,
come giustificare la richiesta di una consulenza psicologica e come
giustificare perché proprio adesso. Come dicevo fin dall’inizio, è prima di
tutto la diagnosi che preoccupa la pedagogista. Che cos’ha Marta? Perché
non parla, pur sembrando intelligente e, a parte una certa timidezza,
perfettamente normale?
Gioco un po’ di anticipo e dico che, da quello che ho sentito fino a quel
momento, la bambina potrebbe avere un Mutismo selettivo. (I criteri
diagnostici adottati dal DSM-5 e dall’ICD-10 per poter porre una diagnosi
di Mutismo selettivo sono gli stessi. Nell’ICD-10 questo disturbo viene
riportato come Mutismo elettivo.)
Spiego alla pedagogista che cosa significa questa espressione e già mi
sembra che la cosa la tranquillizzi. Forse era il mistero del comportamento
della bambina a metterla in difficoltà. Il fatto che questo apparente mistero
abbia invece un nome, rappresenti un disturbo conosciuto e descritto,
attenua le incertezze e i dubbi. Infatti, a questo punto diventa più facile
concordare che le maestre parleranno alla mamma, le descriveranno il
comportamento di Marta, le diranno che avrebbero bisogno di qualche
consiglio su che cosa fare, anche in considerazione che l’anno prossimo la
bambina frequenterà la scuola primaria, e la inviteranno a prendere un
appuntamento con uno specialista.
Le cose si svolgono proprio come le abbiamo programmate.
La mamma di Marta viene da me da sola, chiarendo subito che il padre
non è potuto venire perché è sempre molto impegnato sul lavoro. Aggiunge,
sempre spontaneamente, che lei è venuta su richiesta delle maestre, che le
hanno segnalato un’eccessiva timidezza della bambina, e le hanno
consigliato di farla vedere da me.
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Non è stata dimostrata familiarità del disturbo, che si presenta con la stessa
frequenza nei due sessi. L’esordio è collocabile per lo più nel periodo della
scuola dell’infanzia.
Attualmente la ricerca suggerisce che probabilmente il Mutismo selettivo
abbia una base biologica con le sue radici nell’ansia (Bergman, Piacentini e
McCracken, 2002). Nonostante i ricercatori siano concordi nell’affermare
che risulti necessaria una ricerca più approfondita per provare la presenza di
fattori neurobiologici e forse genetici alla base del disturbo, vi sono già
svariate ragioni che favoriscono questa più recente concezione rispetto alle
teorie passate. In particolare, i bambini selettivamente muti trattati sotto il
profilo dell’ansia (seguendo protocolli basati sulla terapia comportamentale
e/o trattamenti farmacologici per l’ansia) sembrano avere più probabilità di
guarire o di compiere progressi significativi nel superamento del problema
(Shipon-Blum, 2010).
Per la diagnosi è quasi sempre necessario l’aiuto di colloqui con i
genitori e insegnanti, perché solitamente questi bambini non parlano
durante la consultazione. A volte è possibile, però, per lo psicologo
interagire con questi bambini utilizzando un intermediario, per esempio la
madre, con il quale essi parlano con voce bisbigliata. Inoltre, test non
verbali devono confermare il normale sviluppo intellettivo e del linguaggio
ricettivo. Abbiamo visto con Marta questi aspetti, essenziali anche per la
diagnosi differenziale.
I problemi di diagnosi differenziale si pongono, evidentemente, con il
Disturbo d’ansia sociale4, ma anche con i Disturbi della comunicazione5,
altri Disturbi del neurosviluppo e i Disturbi della schizofrenia e altri disturbi
psicotici6. In tutti questi casi, tuttavia, il sintomo principale e tipico non è la
totale assenza di linguaggio in situazioni specifiche, come invece avviene
per il Mutismo selettivo, che proprio da questo prende il nome. È stata
infine ipotizzata una possibile comorbilità tra Mutismo selettivo e difficoltà
di attenzione (Oerbeck e Kristensen, 2007).
ANALISI FUNZIONALE
L’analisi funzionale è una particolare forma di osservazione
sistematica che non si limita a considerare il comportamento
manifestato dal soggetto, ma cerca di mettere in relazione questo
comportamento con gli antecedenti (gli stimoli che presumibilmente
l’hanno provocato) e le conseguenze (i rinforzatori che
presumibilmente lo mantengono).
Per esempio, nel capitolo 11 abbiamo visto che Lorenzo emette in
classe alcuni comportamenti aggressivi. Fare un’analisi funzionale di
questi comportamenti significa cercare di capire da cosa sono
preceduti (nell’esempio, dal fatto che i compagni gli chiedano in
prestito un oggetto) e da cosa sono seguiti (nell’esempio, dal fatto che
Lorenzo esce dalla classe).
L’analisi funzionale non è solo uno strumento di osservazione, ma
permette anche di impostare programmi di intervento. Quando, infatti,
ci si rende conto che certi stimoli sono responsabili di certi
comportamenti inadeguati, si possono modificare gli stimoli. Quando
ci si rende conto che certe conseguenze rinforzano il comportamento,
si possono modificare le conseguenze. Nel testo ci sono molti esempi,
oltre a quello di Lorenzo, di uso di analisi funzionale come strumento
di intervento. Nel capitolo 3 l’analisi funzionale permette di attribuire
ai comportamenti inadeguati di Michela un significato comunicativo.
Nel capitolo 5 serve allo psicologo per comprendere che non si
devono fare richieste troppo pressanti a Maurizia se non si vogliono
provocare nella bambina comportamenti inadeguati. Nei capitoli
dedicati ai Disturbi d’ansia permette di comprendere quali
meccanismi mantengano i comportamenti di evitamento e di fuga e di
agire di conseguenza sul piano terapeutico.
L’analisi funzionale non si applica esclusivamente ai comportamenti
inadeguati. Può servire anche per osservare comportamenti adeguati,
come si vede bene nel presente capitolo, dove viene usata dalla
pedagogista e dalle insegnanti di Marta per favorire le interazioni
della bambina con i compagni.
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Capitolo 19
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Vedo Stefano la prima volta dopo qualche giorno dal primo colloquio con il
padre e la madre. Lo trovo seduto in sala d’aspetto con loro: mi colpisce il
suo sorriso pieno di vita e la discrepanza con i volti fissi e immobili dei suoi
genitori.
È un bel bambino moro, con gli occhi vispi e due simpatiche fossette
sulle guance. Accetta di entrare nel mio studio lasciando i genitori,
letteralmente terrorizzati, in sala d’aspetto. È un bambino adeguato, aperto,
collaborante. Mi racconta senza difficoltà dei suoi amici, del calcio che
frequenta già da diversi anni, della passione per gli animali. Parliamo anche
del perché è venuto da me.
“Non riesco più ad andare a scuola”.
La voce è velata di tristezza e il volto perde per un attimo la luce che
aveva prima. Spiega questa sua difficoltà raccontandomi dell’episodio della
professoressa di italiano:
“Mi ha tirato il braccio per farmi staccare dalla mia mamma”.
Me lo dice con un tono arrabbiato come se questo, ora, fosse per lui la
giustificazione a non provare nemmeno a ritornare a scuola. Sento che
posso continuare ancora su questo tema e che Stefano è in grado di venirmi
dietro. Comunque provo a condividere la mia idea con lui:
“Mi piacerebbe se provassi a immaginare per un attimo di essere davanti
a scuola quando stai per entrare. Possiamo fare questa prova?”.
Mi risponde di sì.
“Sei lì… con la tua mamma… Ormai è ora di entrare, i tuoi amici si
stanno avviando… Cosa stai pensando?”.
“Ho paura. Mi viene la nostalgia. Ora la mamma se ne va… Ho paura
che faccia un incidente in macchina oppure che si incendi la casa”.
Lo seguo perché parla con facilità e mi sembra molto coinvolto nel
raccontarmi le sue paure: io le legittimo, mi mostro incuriosita3 e allo stesso
tempo mi stupisco di quanto sia bravo a fare collegamenti con problemi
questa volta (e finalmente!) tutti fuori da scuola.
Poi, per spiegarmi la paura che la casa si incendi, mi racconta che circa
un anno prima stava giocando con il suo migliore amico a casa di lui
quando a un certo punto l’appartamento di sopra ha preso fuoco per un
guasto elettrico: hanno prima sentito odore di bruciato e poi il fuoco che si
diffondeva velocemente per le scale e sono riusciti a scappare con grande
terrore di tutti.
Evidentemente questo episodio ha rappresentato uno shock per Stefano:
da allora ha paura del fuoco e si preoccupa che al padre possa succedere
qualcosa di brutto quando è al lavoro. Si preoccupa anche quando la
mamma usa l’automobile e quando i suoi genitori escono di casa e fuori c’è
il temporale.
Continuo a vedere Stefano dopo il nostro primo incontro altre quattro volte
da sola, prima di fissare uno spazio per i genitori per poter condividere ciò
che ho visto e stabilire con loro un piano comune di intervento.
Gli incontri con Stefano sono molto produttivi: il bambino continua a
raccontarsi e a portare nuovi e diversi elementi di sofferenza in parte
trascurati dai genitori.
Mi racconta di essere triste anche perché il suo migliore amico della
scuola primaria ora non lo cerca più e si è fatto altri amici e lo esclude dai
giochi. Lo incoraggio a cercare ancora altre cose che l’hanno fatto o lo
fanno ancora soffrire: lo vedo triste, troppo triste, come se ci fosse dell’altro
ancora da tirare fuori. Gli spiego che a me può dire tutto perché sono
vincolata al segreto professionale e che quindi non potrei mai riferire una
cosa se lui non mi autorizza.
A questo punto mi dice:
“Ti devo dire un segreto, ma questa cosa non si può dire assolutamente a
nessuno”. “Certo, stai tranquillo”.
“Hanno venduto la nostra casa”.
Ancora prima di esplorare i significati di un evento così importante
rimango sbalordita al pensiero che con i genitori tutto finora era stato
focalizzato solo sulla scuola: della casa e dei significati che la sua vendita
poteva aver avuto sull’intera famiglia, neanche una parola. Stefano invece
mi racconta che per lui tutto questo è molto doloroso: l’idea di non vivere
più con i suoi nonni e con la zia alla quale è molto legato, di lasciare i suoi
amici del quartiere che conosce fin da quando erano piccoli, di lasciare i
suoi animali (“Dove andrà a finire la mia tartaruga di terra che ora la
teniamo nel grande giardino che abbiamo?”). Lo seguo raccogliendo per
quanto possibile questo infinito elenco di tristezze, pensando che finora non
hanno certo avuto un contenitore; nessuno inoltre deve averlo aiutato a
costruire e a immaginarsi un futuro.
Mi racconta poi dei potenziali acquirenti che suonano per farsi mostrare
la casa, entrano e “fanno come se fossero a casa loro”.
“E tu?”, gli domando, “Tu che fai?”.
“Io sono lì che guardo”.
“E cosa vedi?”.
“Vedo tutti che piangono”.
Ma mentre siamo lì e Stefano rivive al rallentatore la scena dove gli
agenti immobiliari e i potenziali acquirenti entrano nella sua casa e sulla
sua casa esprimono commenti e critiche, c’è dolore (“perché me la possono
portare via”) ma anche rabbia (“come si permettono di giudicarla male che
per me è la casa più bella del mondo?”).
Da qui Stefano racconta anche alcuni incubi notturni molto collegati a
questa situazione: sono tutti in casa e gli adulti stanno litigando. Lui invece,
come fa spesso anche nella vita reale, origlia dalla porta e a un certo punto
entra in sala e dice: “Basta, smettete di litigare!”. Il nonno però a questo
punto dice che si è stufato di tutti, anche di Stefano, e scappa di casa.
Ricostruendo i pensieri che prendono Stefano quando è a scuola,
ritroviamo gli stessi temi portati avanti con molta angoscia e dolore: “Cosa
succede a casa? Gli agenti saranno venuti? Avranno comprato? La mamma
e la nonna staranno piangendo? Ci saranno ancora o avranno fatto le
valigie? E per andare dove?”.
Questo senso di angoscia traspare anche dal disegno della sua casa,
eseguito dal bambino durante una delle nostre prime sedute (fig. 19.1).
Emerge anche una scarsa comunicazione in famiglia: Stefano sente tanto
dolore, ma non c’è nessuno che sia disposto ad affrontare questi temi con
lui e che abbia il coraggio di parlargliene direttamente. Come mi dirà:
“Io le cose che so le so di nascosto, origliando”.
Figura 19.1 Il disegno della casa di Stefano (prospetto e piantina), con le scritte “venduto” in diverse
parti.
Figura 19.3 La rappresentazione di un incubo di Stefano: i suoi genitori hanno un incidente stradale.
“Che effetto le fa pensare che la casa dove siete stati finora è in vendita?”.
Il padre appare un po’ titubante e sembra volermi comunicare, sempre
volgendo lo sguardo verso la moglie, che certo tutto questo dolore se lo
sarebbe voluto risparmiare. Ma poi va avanti e dice, un po’ cautamente, che
lui è sempre vissuto con i suoceri e di questo ha sempre sofferto, e che non
gli dispiacerebbe l’idea di costruirsi una famiglia tutta sua. Domando la
stessa cosa alla mamma che mi risponde con un atteggiamento non
coinvolto, tradito subito dopo dalle lacrime che cominciano a scendere e
che la costringono ad abbassare il capo.
Ho la netta impressione che la vendita della casa abbia significati troppo
dolorosi per la mamma di Stefano, che meriterebbero di essere raccolti ed
elaborati più di quanto io non sia in grado di fare in quel momento. Gli dico
che forse anche Stefano sta sentendo questo dolore. I genitori sembrano
stupiti, quasi increduli di fronte alle mie parole; mi sembra quasi di leggere
nei loro volti il retropensiero “come è possibile? Facciamo di tutto perché
non se ne accorga…”. (Ma, per fortuna, non arrivano a dirmelo). A questo
punto, forse in modo un po’ direttivo, ritorno su Stefano. Dico loro che a
volte può succedere che un problema come il non riuscire più a stare a
scuola sia il risultato di sofferenze e preoccupazioni interne alle relazioni
familiari, e che su queste sofferenze dovremmo fermarci assieme. Propongo
loro alcune sedute con il bambino, con l’obiettivo di parlare tutti e quattro
delle cose che stanno succedendo.
“A volte i silenzi fanno male”, aggiungo.
So che per loro è difficile comprendere l’importanza di parlarsi; mi
accontento che per ora si fidino di quello che dico loro e accettino qualche
colloquio alla presenza di Stefano; contemporaneamente li ringrazio di
questa fiducia concordando un piano per affrontare il problema “scuola”.
CHE COS’HA STEFANO? L’INQUADRAMENTO
DIAGNOSTICO E LA CONCETTUALIZZAZIONE DEL
PROBLEMA
Diagnosi descrittiva
La diagnosi descrittiva che maggiormente si avvicina alla complessa
situazione di Stefano è quella che il DSM-5 (American Psychiatric
Association, 2013 - edizione italiana 2014) chiama Disturbo d’ansia di
separazione e che viene inclusa all’interno dei Disturbi d’ansia.
Infatti sono presenti tre elementi del criterio A:
1. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei
principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro
qualcosa di dannoso;
2. persistente riluttanza o rifiuto di andare a scuola o altrove per la paura
della separazione;
3. ripetute lamentele di sintomi fisici (per es., mal di testa, dolori di
stomaco, nausea o vomito).
Come indicato dal criterio B, l’anomalia dura da più di quattro settimane. Il
disturbo sta certamente causando disagio clinicamente significativo e una
compromissione dell’area scolastica ma anche sociale: infatti Stefano
comincia a vergognarsi a frequentare nel pomeriggio i suoi compagni di
classe o a incontrarli al catechismo o semplicemente per la strada. Tutto
questo non è meglio attribuibile ad altri disturbi (criterio C). Infine il
disturbo non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale (criterio D).
Al di là di questo Stefano ha tante altre cose che una semplice diagnosi
descrittiva, che non è altro che un elenco di sintomi, non mette in luce.
Diagnosi esplicativa
Stefano vive in una famiglia in cui la madre, nel momento in cui li conosco,
sta attraversando una fase di profonda crisi emotiva. La vendita della casa
che ancora non si è realizzata, ma che è per ora soltanto la prospettiva di un
cambiamento che prima o poi dovrà avvenire, risuona nell’universo mentale
della madre in modo molto angosciante e attivante. Per la madre di Stefano
la vendita della casa ha diversi significati: significa inizialmente
confrontarsi con le proprie modalità di reagire agli eventi, tipicamente
depressive, caratterizzate dalla sensazione di non riuscire a reggere e di non
farcela ad affrontare i cambiamenti.
Contribuisce a far precipitare la situazione, la sensazione percepita di
perdita di protezione, sia da parte dalla sua famiglia di origine, dalla quale
si dovrebbe distaccare, sia da parte del marito il quale in fondo, a voler
guardare proprio bene, sembra intravedere in questo cambiamento anche
degli aspetti potenzialmente positivi.
Tutto ciò accade in un contesto di assoluta non comunicazione: i vissuti
della madre vengono palesemente mascherati, ma Stefano li coglie, li
respira nell’aria e infine, per sapere quello che nessuno è in grado di dirgli,
finisce per origliare le conversazioni degli adulti.
Il padre non è in grado di costituirsi come mediatore degli equilibri della
madre e non è quindi capace di riequilibrare il sistema. Così finisce che in
famiglia non si parla della vendita della casa, né si parla di altri temi
connotati emotivamente in senso negativo, come se la sofferenza del solo
parlarne facesse scegliere implicitamente a tutti i membri della famiglia il
non detto. Una cosa cattiva è meglio tenersela per sé: questa modalità che
all’interno della famiglia è particolarmente significativa si ritrova a volte
anche nei rapporti dei singoli membri (ma soprattutto della madre) con
l’esterno, verso cui vige la regola implicita che bisogna, sempre e solo,
mostrare la faccia perfetta.
Nei rapporti con Stefano la mamma è da sempre molto normativa:
Stefano deve essere educato, deve chiamare la psicologa rigorosamente
“dottoressa”, come se l’atteggiamento più amichevole rappresentasse una
mancanza di rispetto, e ancora deve essere un bravo scolaro. All’interno di
questo contesto familiare il modo migliore che Stefano ha trovato nel tempo
per tenere il rapporto con la sua mamma è stato quello di assumere il ruolo
del bravo bambino: bello e perfetto in tutti i campi (e in particolare a
scuola) proprio come la mamma desiderava.
Poi a un certo punto, esattamente nel periodo in cui si decide per la
vendita della casa e quando vengono da me portandomi il sintomo più
evidente, qualcosa è cambiato: le strategie relazionali che prima
funzionavano non sono più sufficienti per ancorare a sé una mamma che è
immersa nell’elaborazione del suo dolore. Ecco allora che assistiamo a un
viraggio. Servono strategie relazionali più attive e amplificate, che riattivino
la mamma facendola preoccupare così tanto da distoglierla dal suo dolore e
permettano a Stefano di avere nuovamente il controllo della relazione: è
proprio qui che Stefano inserisce il sintomo. Non è un caso che il sintomo
che Stefano introduce, il non entrare più a scuola, abbia a che fare con la
performance scolastica e la visibilità sociale, colpendo dritto al cuore delle
priorità emotive della madre.
In questo periodo cambia proprio il rapporto con la mamma: Stefano
sente il bisogno di amplificare maggiormente i suoi segnali rispetto a
quanto avvenga per esempio con il padre, introducendo nel rapporto con lei
crescenti dosi di rabbia. La madre riporta, proprio in questo periodo, alcuni
comportamenti del bambino (come le urla e i tentativi di picchiarla) che a
una prima analisi vengono letti normativamente in senso negativo, ma che
in realtà non sono altro che un modo per scuoterla e distrarla dalle sue
sofferenze.
Stefano è riuscito per un lungo periodo ad ancorare la mamma
mostrandole la sua parte migliore. Ma adesso questo non funziona più come
prima: da un lato è sempre più difficile attivare la mamma e sedurla;
dall’altro a volte non è così facile mostrare la parte migliore quando nuove
difficoltà emergono all’improvviso. E allora, se non riesco ad attivarti, a
sentirti vicina facendoti contenta, se non riesco a sedurti con le mie doti che
pure ho ma che tu mostri in certi momenti di non vedere, allora ti picchio, ti
mordo, ti faccio star male, ti faccio vedere che sto male e ti costringo
coercitivamente ad accorgerti nuovamente di me (per usare la parole che ha
usato Stefano, lo schiaffo, il pugno e il morso servono a “sbranarla”).
Per ritornare alle strategie relazionali di Stefano, che potremmo definire
“strumentali” ad ancorare l’altro a sé, le troviamo identiche già dalla fine
della prima seduta, nella relazione con me. Difficile immaginare un
significato diverso per tutti quei messaggi in cui si chiede dove sono, cosa
sto facendo, mi si riempie di complimenti non solo per le competenze
professionali (“sei bravissima”) ma persino per le presunte doti fisiche (“sei
bellissima”) e ci si accerta che io (dopo pochi minuti) non solo non mi sia
dimenticata di lui (“sono il bimbo di prima”), ma persino del fatto che io
abbia il suo numero di cellulare (“il mio cell è xxx”). Quest’ultimo rilievo
non ha nessun senso nella realtà, dato che il numero resta memorizzato a
ogni messaggio, ma assume di nuovo un significato di garanzia per Stefano
che lui non sia per me una “ruotina di scorta”, ma una persona talmente
importante e al centro delle mie attenzioni tanto da avere il suo numero
nella memoria del mio cellulare e non solo.
All’interno di questa cornice, la prima difficoltà scolastica nella quale il
bambino sperimenta una disconferma diventa l’occasione per l’esordio del
problema che viene presentato dai genitori tutto in attribuzione esterna. Lo
spiacevole episodio scolastico non può essere considerato l’evento critico
che ha fatto scatenare lo scompenso: esso stesso può essere visto già come
un sintomo che Stefano in uno stato di profonda vulnerabilità non è stato in
grado di integrare.
D’altra parte è interessante notare che l’episodio accaduto a scuola
risulta molto importante per una concettualizzazione più completa del caso.
Emerge infatti in Stefano un’estrema attenzione al giudizio degli altri visti
come possibili agenti minaccianti l’immagine di sé.
Probabilmente anche a causa del fatto che Stefano è capitato in una
classe di allievi brillanti, gli succede più di una volta di non riuscire a dare
agli altri l’immagine di sé come del primo della classe: ciò lo fa soffrire e
questa sia pure piccola sofferenza si va a sommare con quelle più grandi già
descritte.
Tutti questi problemi insieme suggeriscono una via di fuga.
Se sto lontano dalla classe, lontano dalla scuola, al sicuro nella mia
casa… Anzi no, nemmeno la mia casa è del tutto sicura: meglio nella mia
camera, nel mio letto, sotto le coperte. Forse così mi salverò e riuscirò a
riavere il controllo sulla mia mamma.
In questa tempesta di emozioni non si può certo dare la colpa a una
insegnante, non saprei dire se più ignorante o più insensibile, di averlo
tirato dentro con maniere brusche e aver così prodotto il disturbo. I
problemi erano dentro Stefano, ma probabilmente quando il bambino ha
sentito che qualcuno dall’esterno, senza empatia, cercava di costringerlo a
fare qualcosa, ha deciso che lui avrebbe costretto tutti gli altri a fare il
contrario: si è divincolato dalla stretta dell’insegnante, è scappato a casa e
non si è più mosso di lì.
pag. 178
Stefano era molto motivato in questa specie di gioco. Lui non era
obbligato a fare certe cose, ma se le faceva veniva premiato.
In breve tempo il bambino ha ripreso la sua routine e si è messo in pari
con i compiti. In un certo senso il successo di questa strategia di token
economy stava nel garantire a Stefano il controllo della situazione senza
farlo sentire costretto e obbligato a compiere certe azioni. Nella figura 19.4
viene riportata una scheda di osservazione sistematica in cui gli obiettivi
comportamentali sono stati definiti giorno per giorno e il loro
raggiungimento veniva controfirmato dai genitori.
Figura 19.4 Contratto e osservazione sistematica del rispetto degli impegni controfirmata dai
genitori.
pag. 13
Inoltre ha detto di essere preoccupato perché “vedo papà che mangia troppo
e la mamma che non mangia più”.
Ad alcuni di questi temi Stefano ha avuto risposte rassicuranti. Ricordo
per esempio che il padre ha ripreso il discorso della tartaruga non appena
Stefano lo ha introdotto, tranquillizzando il bambino sul fatto che la
tartaruga Tilly avrebbero potuto darla al nonno e che lui sarebbe stato
capace di fargli un recinto dove sarebbe stata sicuramente bene.
Su altri temi invece le cose non sono state così facili: le rassicurazioni
non arrivavano spontanee e spesso i genitori di fronte alle stimolazioni di
Stefano cercavano frettolosamente di chiudere o di normalizzare oppure,
peggio ancora, rimanevano impietriti, dimostrando in ogni caso di essere
incapaci di raccogliere e restituirgli le emozioni in una forma che fosse per
il bambino accettabile. Qui cercavo di inserirmi, soffermandomi bene su
quello che Stefano stava esprimendo, rallentando i tempi, stimolando tutti a
stare in mezzo a queste emozioni che facevano loro così tanta paura. A
volte questa operazione riusciva; altre invece ho avuto la netta sensazione
che la sponda materna vacillasse troppo. È capitato un paio di volte che la
madre di Stefano si chiudesse in un pianto sofferto e silenzioso incapace di
esprimere verbalmente una qualunque cosa. Questi segnali sono stati per me
fonte di riflessione personale: sentivo che la mamma di Stefano aveva
bisogno di uno spazio suo e di un aiuto maggiore rispetto a quello che io
personalmente mi sentivo di garantirle. Poi di certo questo avrebbe aiutato
anche il lavoro che assieme avremmo potuto fare con e per Stefano.
Cominciamo ad avvicinarci a scuola (ma quante condizioni
avverse…)
pag. 365
Stefano era visibilmente soddisfatto della gerarchia che era stata costruita,
grazie alla sua fantasia e come se fosse un gioco fatto assieme, con
bigliettini colorati messi in fila uno dopo l’altro sulla scrivania del mio
studio. Una volta terminata la gerarchia gli ho chiesto cosa ne pensava e lui
mi ha detto che pensava che almeno i primi gradini non erano poi così
difficili da provare a salire.
È stato così che abbiamo concordato di provare a salire il primo gradino:
stare 15 minuti nel parcheggio della scuola. Abbiamo poi provato a
immaginare la situazione ed è emersa la paura che i genitori, una volta
arrivati nel parcheggio, l’avrebbero costretto a entrare, cosa che ovviamente
ha fatto salire il termometro dell’ansia. Nella figura 19.7 è riportato l’ABC
cognitivo (Lambruschi, 2014) (vedi riquadro sottostante) relativo alla
situazione “sono nel parcheggio della scuola con i miei genitori”.
ABC COGNITIVO
Molte volte il sintomo del bambino viene descritto dai genitori o dal
bambino stesso come svicolato da un contesto preciso come se si
calasse in un vuoto. Il terapeuta può aiutare bambino e genitori a
ricollocare il sintomo all’interno della situazione relazionale in cui il
sintomo stesso si origina e si mantiene nel tempo.
Per fare questo risulta utile recuperare, nel modo più dettagliato
possibile, gli eventi antecedenti (A) e dunque il contesto nel quale il
sintomo si presenta: per esempio i luoghi, i momenti della giornata, le
attività, le figure significative presenti o assenti. A tale proposito è
utile indagare gli antecedenti ponendo domande come: Dove?
Quando? Con chi?
È utile inoltre indagare i pensieri e le emozioni (B sta per beliefs,
traducibile con “credenze”) che fanno parte dell’esperienza più
interna del bambino, ponendo domande come: Cosa hai pensato?
Cosa ti ha attraversato la mente? Come ti sei sentito? Che emozione
hai provato? Quanto misurava la tua emozione in quel momento?
Infine è necessario analizzare cosa è successo dopo, cioè quali sono
state le conseguenze (C), questa volta a livello comportamentale:
Cosa hai fatto? Cosa hanno fatto gli altri?
È importante notare che l’ABC cognitivo presenta analogie con
l’analisi funzionale (a volte chiamata infatti ABC, o ABC
comportamentale), ma non va confuso con questa. Nell’ABC
cognitivo l’enfasi è posta sul mondo interno del paziente, sui suoi
pensieri e sulle sue emozioni: tant’è vero che la B dell’acronimo
indica i beliefs e non, come nel modello comportamentale classico, i
behaviors.
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pag. 365
1. Durante i primi giorni Stefano ha avuto bisogno che la madre fosse non
solo dentro la scuola, ma addirittura in piedi nel corridoio di fronte alla
porta della sua classe. Questo gli garantiva di poterla sempre vedere.
2. Progressivamente il bambino ha tollerato che la madre si sedesse nel
corridoio dove c’era la sua classe. Stefano di tanto in tanto usciva per
controllare che la madre fosse lì e poi rientrava in classe.
3. Successivamente assieme a Stefano abbiamo concordato che la mamma
si sedesse dalle bidelle nell’atrio centrale della scuola, quindi sempre più
distante dalla sua classe e da lui.
4. Il passo successivo è stato l’ulteriore allontanamento della madre nel
cortile della scuola. Fortunatamente eravamo già verso fine aprile e il
clima consentiva alla mamma di stare all’aria aperta e Stefano usciva
ogni cambio d’ora per andarla a salutare.
5. Il lavoro è proseguito concedendo alla mamma di stare fuori da scuola a
patto di tornare a ogni cambio dell’ora per farsi vedere.
6. Poi le visite a ogni cambio d’ora sono state sostituite su suggerimento di
Stefano da telefonate nelle quali il bambino si accertava velocemente che
fosse tutto a posto e poi tornava subito in classe.
7. A fine anno Stefano andava a scuola come tutti gli altri e la sua mamma
lo aspettava alle 13:00 fuori da scuola come tutti i genitori. Raramente
succedeva che avesse bisogno di sentirla per telefono, ma ovviamente il
bambino sapeva che non ci sarebbero stati problemi nel caso in cui ne
avesse sentito la necessità.
Nel frattempo, nei colloqui Stefano si mostrava davvero più sereno: parlava
della sua nuova classe come se da sempre fosse stato lì, si sentiva accettato
e compreso per il suo problema, come è possibile vedere dalla pagina
riportata nella figura 19.10, che Stefano ha scritto durante un nostro
incontro.
In maggio ho ripetuto il test TMA5 che, come si può vedere nella figura
19.10, mostra come l’autostima del bambino fosse migliore in quasi tutti gli
ambiti (linea più alta), con un netto miglioramento per l’autostima
familiare. Quando assieme a Stefano abbiamo riletto le risposte che aveva
dato mesi prima (quando era in piena crisi) ha commentato, un po’
incredulo, questo miglioramento dicendo: “Stavo proprio male!”.
Figura 19.10 L’importanza dell’accettazione dal punto di vista di Stefano.
Stefano questo concetto lo aveva compreso così bene che un giorno, in una
seduta in cui eravamo tutti assieme, suggerì alla madre di fare domanda da
insegnante nella sua scuola, che era un modo per ridarle un ruolo che
lentamente, grazie ai suoi miglioramenti, stava perdendo; e la cosa,
evidentemente, preoccupava molto il bambino.
Riguardando la storia di Stefano e il lavoro fatto con lui e la sua famiglia
posso dirmi contenta, anche se non nascondo che non tutti i risultati sono
stati tanto soddisfacenti quanto il suo reinserimento a scuola e il distacco di
Stefano dalla mamma. In diversi momenti del nostro percorso, persino
quando le cose per Stefano stavano andando bene, ho temuto che
l’immobilismo, la passività e la stanchezza della mamma producessero il
riemergere di comportamenti attivanti che avrebbero potuto corrispondere a
un esacerbarsi della patologia.
Capitolo 20
Interludio
Fabio Celi
30 dicembre 2008
Capitolo 21
Forse ha fatto in tempo a sedersi, forse si sta ancora sistemando sulla sedia
quando la mamma di Enrico mi dice che è in cura da otto anni per attacchi
di panico. Ha fatto qualche anno di farmacoterapia della quale ultimamente
riesce quasi sempre a fare a meno, mentre la psicoterapia, cominciata
appunto circa otto anni fa, continua. Anche i suoi due fratelli sono stati più
volte in terapia con ansiolitici, mentre dalla parte della famiglia del marito
non sono riferiti disturbi di natura psicologica o psichiatrica di nessun tipo.
Arrivata a questo punto la mamma si è seduta, ha cominciato a
familiarizzare con la situazione, e allora mi dice che è venuta da me per suo
figlio Enrico, che va in giro con una bottiglietta di chinotto “per quando gli
viene un po’ d’ansia”. Sembra che una volta il bambino avesse sentito il
nonno materno che, dopo pranzo, chiedeva del chinotto per digerire e che
quella frase lo avesse molto colpito.
Il padre, che non è presente al colloquio, torna di nuovo alla ribalta. La
mamma mi racconta infatti che lui cerca di risolvere il problema dicendo al
bambino: “Smettila con questa bottiglia”. Ma la cosa non funziona. I due
momenti peggiori per il bambino sono il distacco dalla mamma al mattino
quando deve andare a scuola e la ricreazione. Ha paura di vomitare e la
bottiglietta gli serve per tranquillizzarsi. Beve un goccio dalla bottiglietta di
vetro e si calma. A scuola, quando lavora e si concentra, sta meglio; sembra
invece che la ricreazione gli crei più difficoltà proprio perché gli viene a
mancare la sicurezza data dall’avere un compito preciso da svolgere, tanto
che ripete spesso una frase piuttosto insolita e triste per un bambino (Enrico
ha sette anni e qualche mese1 e fa la seconda classe della scuola primaria):
“La lezione dovrebbe durare otto ore”.
Chiedo com’è il rendimento scolastico e se ci sono altre cose che non
vanno. Tecnicamente, questo segna il passaggio dalle manovre di apertura
del primo colloquio , durante le quali ho lasciato parlare la madre
restando praticamente in silenzio, a domande più dirette per cercare di
mettere meglio a fuoco la situazione e il problema.
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Enrico non ha difficoltà scolastiche. Però sembra che faccia tutto per gli
altri e che a lui interessi ben poco anche dei suoi risultati positivi. “Anche
gli ‘ottimo’ li prende per gli altri”, dice la madre.
Domando da quanto tempo è che sente il bisogno di questa bottiglietta. È
da qualche mese, perché tutto è cominciato alla fine dell’anno scolastico e
ora siamo a pochi giorni dalle vacanze di Natale. Dal momento che la
mamma ha una data di riferimento così precisa, le chiedo qualcosa di più
rispetto a un possibile evento traumatico legato agli attuali problemi del
figlio.
“Doveva fare la recita di fine anno”, mi racconta con una certa angoscia.
“Si stava preparando da settimane, ma quando la data ha cominciato ad
avvicinarsi mi ha detto che non voleva più farla. Mi ha chiesto per favore di
non mandarlo a quella recita. Io non sapevo cosa fare e ho cercato un
consiglio dal suo pediatra perché Enrico sembrava veramente in difficoltà,
diceva che non se la sentiva, che aveva paura di non essere pronto e di fare
una brutta figura davanti a tutti… Il pediatra mi ha consigliato di mandarlo.
Anche il padre ha insistito dicendo che erano tutte idee e che poi suo figlio
se la sarebbe certamente cavata benissimo. Così lo abbiamo mandato e ha
recitato la sua parte in modo perfetto.
La mamma, arrivata a questo punto del racconto, mi sembra come
mortificata. Mentre Enrico recitava la sua parte in modo “perfetto”, il padre
le faceva infatti notare che dunque aveva ragione lui, che non c’era motivo
di preoccuparsi e che le paure della mamma non erano altro che il segno
della sua debolezza.
Il problema è che però, appena finita la recita, Enrico ha detto di essere
stato malissimo. “Ho avuto una paura folle di strozzare”, ha spiegato alla
madre, “di vomitare, di sentirmi male”. Sembra che i sintomi siano
cominciati da lì.
Dopo, tutto è diventato difficile. È un problema persino portarlo al luna
park o al cinema, cioè fare cose che dovrebbero essere divertenti e gradite.
Non parliamo del catechismo. Va a scuola, sia pure con molte difficoltà,
perché andare a scuola è obbligatorio, ma tende a rifiutare tutte le
esperienze in qualche modo nuove o emozionanti. In termini tecnici
potremmo dire che mette in atto comportamenti di evitamento di fronte a
situazioni attivanti, che per qualche ragione gli producano emozioni più
forti di quanto non sia capace di controllare.
Adesso, al mattino, la mamma lo deve accompagnare fin sulla porta
della classe anziché lasciarlo al portone di ingresso della scuola, come il
regolamento vorrebbe. Credo che sia utile immaginare la situazione che si
crea in questo modo e, soprattutto, di cercare di guardarla con gli occhi dei
compagni di Enrico. I bambini vengono accompagnati davanti alla scuola.
Salutano i genitori, entrano nell’atrio, salgono le scale e se ne vanno in
classe. Enrico invece, con una bottiglietta di vetro in mano, piena di un
liquido marrone, entra nella scuola con la mamma a fianco, sempre con la
mamma attraversa l’ampio atrio, sale le scale e solo davanti alla porta della
sua aula si decide, sempre con quella strana bottiglietta in mano, a salutare
la mamma e a entrare in classe. Non è difficile rendersi conto
dell’immagine di stranezza, bizzarria, anormalità che produce una
situazione di questo genere. Ci sono inoltre giorni in cui, con tutta la buona
volontà della madre e di Enrico stesso, il bambino non riesce neppure ad
andare a scuola.
Cerco di approfondire quali sono i pensieri e le paure di Enrico che gli
rendono così difficile frequentare le lezioni in modo regolare e partecipare a
molte altre attività sociali. La mamma mi risponde di nuovo che crede che il
problema principale sia la paura di vomitare. Le viene anche in mente un
altro episodio, sempre di qualche mese prima. Il bambino era andato dal
pediatra per un persistente mal di gola. Il medico lo aveva sottoposto a un
tampone faringeo. Enrico aveva avuto la sgradevolissima sensazione di
vomitare ed era uscito molto turbato da questa visita, obiettivamente banale
e velocissima, ma soggettivamente percepita come molto invasiva.
Tutto, d’altra parte, sembra strettamente connesso con le relazioni
sociali. A casa il bambino sta bene, da solo e senza problemi. I problemi
cominciano, al contrario, quando si cerca di portarlo fuori. Solleva mille
difficoltà e appare evidente che la casa, per lui, è un luogo sicuro dove sta
volentieri probabilmente perché si sente protetto. Tra pochi giorni, per
esempio, andranno tutti in crociera per le vacanze di Natale, e lui sta già
facendo un sacco di storie perché non vorrebbe partire.
Raccolgo l’anamnesi. I primi dati sembrano tutti negativi, a indicare uno
sviluppo del tutto tipico: gravidanza regolare, parto eutocico a termine,
dimissioni in quarta giornata, primi mesi a casa tranquillo (“un bambino
facile da allevare, che mangiava e dormiva regolarmente”), prime parole e
la deambulazione autonoma intorno al compimento del primo anno. Poi,
però, la storia si complica. Viene fuori che ha dormito con la mamma fino
ai quattro anni e mezzo, anche se, in verità, sarebbe più corretto dire che
fosse la mamma che dormiva con lui, in una brandina di fortuna: ed è molto
significativo il commento che, del tutto spontaneamente, fa la signora a
questo proposito: “perché io non mi volevo staccare”. Ancora adesso, va a
letto con il rituale del biberon. La mamma gli prepara una camomilla
tiepida e gliela mette in un vecchio biberon, che il bambino porta a letto con
sé.
Una breve osservazione tecnico-teorica, che abbiamo già svolto in modo
simile in simili circostanze, ma che mi fa piacere ribadire. La mamma che
“non si vuole staccare” dal figlio e ancora adesso che ha più di sette anni gli
dà il biberon la sera per farlo addormentare si presterebbe a mille
approfondimenti. Mi chiedo quanti miei colleghi, ascoltando queste parole,
avrebbero seguito filoni di colloquio ritenuti preziosi. Penso anche che
qualcuno potrà leggere queste pagine, dove io tiro dritto fino agli accordi
finali, scuotendo il capo e pensando a quante occasioni ho perso con la mia
superficialità. Può darsi. Però io immagino il primo colloquio come una
galleria da scavare. L’obiettivo è sbucare in un tempo ragionevole dall’altra
parte. Fuor di metafora: concludere in modo da poter vedere il bambino per
il quale i genitori hanno chiesto il mio aiuto. Certo, durante questo scavo
posso incontrare filoni d’argento o persino d’oro che sarebbe un peccato
abbandonare. Benissimo: per oggi il mio compito è sbucare dall’altra parte
della montagna. Poi potrò sempre tornare sui miei passi a esplorare nuove
miniere.
L’inserimento alla scuola dell’infanzia è avvenuto senza problemi.
Invece la scuola primaria sembra proprio non piacergli. Non ci va
volentieri. È capitato più di una volta che, a metà mattina, facesse chiamare
la mamma per farsi venire a prendere perché si sentiva male e gli veniva da
vomitare. La mamma aveva preso accordi con il bambino e con le maestre a
questo proposito. Il “patto” era che Enrico avrebbe dovuto cercare di
resistere e di farsi forza, ma se proprio avesse sentito di non farcela,
avrebbe avvertito la maestra, la maestra avrebbe telefonato alla mamma e la
mamma sarebbe andata a prenderlo. Invece c’è stato un episodio nel quale
questi accordi sono stati violati. Il bambino ha avvertito la maestra, ma la
maestra non ha creduto che valesse la pena di telefonare. Enrico si è sentito
male e ha vomitato in classe, davanti a tutti. La maestra, in quell’occasione,
aveva agito sicuramente a fin di bene, ma purtroppo il risultato è stato
molto negativo. Più in generale: è un errore non rispettare un patto.
Quell’accordo poteva essere giusto o sbagliato, e se lo si riteneva sbagliato
si poteva non farlo. Ma, una volta concluso, un accordo va rispettato se non
si vuol perdere la fiducia di un figlio, o di un allievo, o di un paziente, con
conseguenze che, come in questo caso, possono anche essere piuttosto
gravi, come vedremo più avanti.
Il colloquio si sta avviando alla conclusione. La mia idea sarebbe quella
di finire la storia del bambino arrivando a oggi, e in particolare ai rapporti
con i coetanei, alle amicizie, alle eventuali attività extrascolastiche. Ma, a
partire da una nuova osservazione della madre sulla durezza educativa del
marito, arriviamo in modo quasi automatico a parlare della famiglia.
Abbiamo già, indirettamente, conosciuto il padre. Abbiamo già cominciato
a capire che è una persona forte e sicura di sé. Le notizie che raccolgo
adesso su di lui non fanno che completare il quadro. È un uomo molto
dinamico che, partito quasi dal niente e dopo una gavetta brevissima, ha
messo su un impero nel settore delle macchine per la lavorazione del
marmo. Poi, da lì, è passato alle macchine a controllo numerico e poi,
ancora, all’elettronica di consumo. Alla fine ha costruito un impero. È
spesso assente da casa, il più delle volte all’estero anche per più giorni di
seguito, a causa del suo lavoro, che porta avanti a ritmi sostenutissimi. Si è
fatto da solo e crede nella forza della volontà, dell’impegno, della fiducia in
se stessi. Questo gli rende particolarmente difficile comprendere suo figlio
ed empatizzare con lui. Alle prese tutti i giorni, da anni, con problemi di
ogni tipo, è convinto che le difficoltà vadano affrontate a viso aperto, con
coraggio, senza arretramenti e senza inutili dubbi. Le cose non mi vengono
dette con questa chiarezza dalla moglie e sono in parte il frutto di una mia
rielaborazione, ma quello che appare sicuramente molto chiaro in questo
tratto del colloquio è che il padre e la madre rappresentano, per moltissimi
aspetti, estremi opposti: dall’aggressività alla passività; da un atteggiamento
proattivo e ostentatamente ottimista pronto ad affrontare i problemi senza
tentennamenti a uno ripiegato su se stesso, sempre in difesa, caratterizzato
da dubbi e incertezze. La mamma tiene l’amministrazione di un grande
magazzino di casalinghi: un lavoro che la occupa poche ore la settimana e
la lascia per il resto del tempo quasi completamente dedita ai figli, oltre che
ai suoi disturbi emotivi; ma forse sarebbe meglio dire al figlio Enrico
perché le altre due, una di quattordici e una di diciassette anni, non
sembrano avere un particolare bisogno di lei. Mi sembra inoltre di cogliere,
fin da questo primo colloquio, la povertà generale della comunicazione in
questa famiglia, dove ognuno sembra fare per sé, a eccezione di Enrico e
della sua mamma: che lo comprende fin troppo, forse fino ad anticipargli i
problemi e le soluzioni.
Anche le relazioni sociali del bambino sono molto povere, come ci si
poteva aspettare. Gioca occasionalmente con i cuginetti più piccoli, ma per
il resto, di solito, tende a chiudersi in se stesso. Non gli piace nessun tipo di
sport. Hanno provato a proporgli qualche attività, ma ha sempre rifiutato.
Lo sport non gli interessa neppure da guardare in televisione. Inoltre, gli
orari della scuola a tempo pieno che frequenta non favoriscono attività
extrascolastiche. Tuttavia è evidente che Enrico non fa praticamente
nient’altro oltre ad andare a scuola, principalmente per una scelta e per
difficoltà sue.
Credo che sia arrivato il momento delle manovre conclusive. Riassumo
alla madre che mi sembra di aver capito che il problema principale del
figlio sia costituito da una serie di ansie che si manifestano quasi
esclusivamente in pubblico, si concentrano sulla paura di vomitare, ma
forse si estendono alla più generale idea di fare brutta figura. Il bambino
tenta di tenere a bada queste difficoltà girando con una bottiglia di chinotto
dalla quale beve qualche sorso quando sente sopraggiungere il vomito. Il
loro rapporto appare inoltre molto stretto ed Enrico fatica anche a entrare in
classe se la mamma non lo accompagna e non lo rassicura. Sta volentieri a
casa, dove si sente tranquillo e le sue relazioni sociali sono ridotte al
minimo. La mamma condivide questo mio breve riassunto e allora posso
procedere chiedendole se ha già preparato il figlio all’idea di venire da me,
o se dobbiamo discutere di questo aspetto.
Mi risponde che lo ha già preparato ed Enrico viene con l’aspettativa che
io faccia sparire il suo problema. Sembra molto determinato, secondo la
mamma, da questo punto di vista. Dice di sapere che “è un fatto di testa”,
ma di non essere capace di levarselo da solo. Una volta, durante una visita
pediatrica, spontaneamente, ha chiesto al dottore se poteva farlo operare al
cervello in modo da togliergli questa fissazione della bottiglia. Mi sembra
un episodio forte e un dato molto significativo. Esprime, da un lato, una
sofferenza acuta da parte del bambino: al punto da fargli preferire un
intervento chirurgico a questo dolore. Dall’altro lato sembra indicare uno
stile di attribuzione completamente esterno: “io non posso in alcun
modo intervenire sul mio problema ed è necessario il bisturi per portarmelo
via”.
pag. 540
La relazione di aiuto
pag. 563
“Proprio non avevi nessuna voglia di venire”, gli dico, con un’ombra di
sorriso che cerca di comunicargli che mi sembra di aver capito questo, ma
che di certo non lo sto giudicando.
Mi guarda senza aggiungere altre parole.
“Puoi dirlo anche a me, sai? Puoi dirmelo. Proprio non avevi nessuna
voglia di venire, vero?”.
Con la testa fa un rapidissimo cenno di no. Ma sembra già più tranquillo,
anche se ci vuole qualche minuto, durante il quale mi limito a interagire con
lui in modo molto cauto, perché cominci, cautamente, a collaborare.
Gli domando se preferisce fare due chiacchiere o un disegno. Sceglie di
parlare. Gli chiedo di ricostruire la sua giornata.
L’evoluzione del colloquio, a cominciare da questo punto, è
sorprendente. Fino a un attimo prima il bambino era chiuso, oppositivo,
desideroso solo di essere da un’altra parte. Ho cercato di accogliere e non
giudicare queste emozioni. Ho usato una strategia tipicamente rogersiana di
risposta riflessa (Rogers e Kinget, 1965; Rogers, 1970; Charkhuff, 1989;
Rainieri, 2005; Rogers, 2012), rimandandogli indietro il suo desiderio di
non essere qui da me in questo momento. Strategie simili, che in stadi più
avanzati di una psicoterapia possono diventare anche molto raffinate, hanno
lo scopo di riflettere le emozioni profonde di un paziente e cercare di
interpretarle. In casi come questi sono invece molto prudenti e superficiali:
si limitano a rimandare indietro il semplice contenuto di una comunicazione
e sono spesso utilissime anche solo come stratagemma per uscire da
un’impasse, da un momento difficile o imbarazzante del colloquio. Adesso
sto cercando di riprendere il discorso con una domanda estremamente
generica e quanto più possibile neutra. Enrico avrebbe potuto, nella
ricostruzione di una sua giornata, raccontarmi o non raccontarmi qualunque
cosa. Invece parte dal mattino, quando si sveglia per andare a scuola. Subito
aggiunge che questo è un momento molto difficile per lui. Mentre si
prepara, l’ansia legata al pensiero di andare a scuola è molto forte. Usa
proprio il termine tecnico “ansia”. Aggiunge che un altro momento molto
brutto è quando, a ricreazione, la maestra gli dice “corri” o “gioca”.
Se il lettore ricorda il primo colloquio che ho fatto con la madre, noterà
qui una consonanza perfetta. La madre mi aveva detto che i due momenti
più brutti della giornata, per Enrico, sono il momento di andare a scuola e la
ricreazione: e adesso il bambino mi sta dicendo esattamente la stessa cosa.
Se poi il lettore ricorda anche le ingiunzioni paradossali o il cosiddetto
“doppio legame” di Watzlawick e Nardone (1997), troverà qui un’eco di
questo tipo di comunicazione. Enrico sembra, a qualche livello, rendersi
conto che gli si chiede una cosa quasi impossibile. Il bambino può infatti
ubbidire alla maestra quando gli viene chiesto di leggere a pagina 24; è più
difficile ubbidire quando gli si dice di correre e giocare. Ci mancherebbe
che gli venisse ingiunto di divertirsi e il paradosso sarebbe completo. È
quasi come ordinare a una persona di essere spontanea, o mostrargli un
cartello dove c’è scritto “vietato leggere questo cartello”.
La recita
Mi sembra che, nel complesso, la seduta sia andata molto bene, soprattutto
se si considera com’era cominciata. Tuttavia non credo che possa finire qui.
Sono rimasti sospesi, come nell’aria, due temi che in qualche modo sento la
necessità di raccogliere.
Il primo è la bottiglia di chinotto, che il bambino ha davanti a sé. È
difficile che Enrico pensi che io non sappia nulla di questo suo problema.
Ma anche nell’improbabile caso che la mamma non me ne abbia parlato, la
bottiglia di vetro è lì sulle sue ginocchia, prova silenziosa ma evidente di
qualcosa del quale sarebbe brutto, da parte mia, non parlare neppure. Gli
chiedo se me la fa vedere. Gli dico che so che tenerla vicino a sé gli dà
sicurezza. Cerco, nei limiti delle mie capacità, di fare tutto questo con un
atteggiamento calmo e non giudicante. Gli comunico che, in ogni modo, a
me non fa paura parlarne. Enrico annuisce. Allora provo ad andare avanti;
solo un cauto, piccolo passo:
“Secondo te, se io provassi a spostare un po’ la bottiglietta, per esempio
appoggiandola sul lettino, cosa succederebbe?”.
Sembra incerto:
“Non so…”.
“Certo, è difficile saperlo prima di provare. Secondo te, possiamo
provare?”.
Mi risponde di sì.
Prendo la bottiglietta e, lentamente, la poggio sul lettino da rilassamento,
che dista dalla scrivania e dunque anche da noi due, poco più di un metro.
La bottiglietta resta in ogni modo perfettamente visibile, potrei dire a
portata di mano.
“Come ti senti, ora che la bottiglietta è sul lettino?”.
“Sempre uguale”.
“Benissimo. Ti senti sempre uguale. E se provassi a spostarla sullo
schedario, dietro l’orologio?”.
Di nuovo un po’ di incertezza, ma di nuovo mi risponde di sì.
Prendo ancora la bottiglietta e, ancora lentamente, la appoggio sopra lo
schedario. Guardo Enrico che mi sembra sereno. Gli sorrido e “nascondo”
la bottiglietta dietro l’orologio. Cerco di fare tutto questo con una modalità
che trasmetta calma e sicurezza. Senza fretta, senza ansia di raggiungere
risultati, senz’altro scopo che quello di provare e vedere cosa succede.
Adesso la bottiglietta dista due o tre metri, è alle spalle del bambino e non
può essere vista perché è nascosta dall’orologio.
“E ora che la bottiglietta è dietro di te, come ti senti?”.
“Sempre uguale”.
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pag. 13
La recita
L’esposizione graduale
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pag. 13
Figura 21.4 Il puzzle del rinforzatore di scambio, trasformato in un manifesto che poi attaccheremo
alla parete dello studio. Come si può vedere, nel videogioco c’è scritto “I miglioramenti di Enrico”,
mentre al posto del punto esclamativo una tirocinante creativa ha disegnato una bottiglietta rovesciata
e senza tappo dalla quale esce il chinotto!
Quando Enrico torna gli mostro la busta dove ho messo tutte le tessere
del puzzle plastificate e gli chiedo se è pronto per cominciare il nostro
gioco. Naturalmente è pronto: in verità non aspetta altro. Allora gli dico che
ci manca un termometro. Finora abbiamo usato il termometro
dell’agitazione solo a voce, ma adesso mi piacerebbe averne uno vero con il
quale lavorare. Io ne ho alcuni: sono disegni, o cartoncini, o piccoli
termometri giocattolo trasformati per questa necessità, ma propongo sempre
ai miei piccoli pazienti, se preferiscono, di disegnarne uno loro. Enrico mi
dice che preferisce disegnarne uno e, forse perché non è un grande artista,
forse per la fretta di cominciare, mi fa il termometro che si può vedere nella
figura 21.5.
Figura 21.6 La prima scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da solo.
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Figura 21.7 La seconda scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da solo.
Madre e bambino, seduta dopo seduta, entrano insieme nel mio studio e
mi mostrano la scheda. Parliamo un po’ delle loro impressioni relative alla
settimana e poi io consegno le tessere guadagnate. Mi è capitato qualche
volta, in passato, di dare ai genitori tutto il materiale della token economy,
ma ho imparato con l’esperienza che si tratta di una procedura pericolosa.
Banalmente, qualche volta il materiale può andar perso, e questo è un
problema molto più grave di quando viene persa la scheda di una settimana.
Ma c’è a volte, soprattutto nei pazienti esternalizzati, un rischio ancora più
grave. Una giornata storta nella quale il bambino ha fatto un capriccio
particolarmente violento può indurre i genitori a distruggere tutto in un
momento di rabbia, vanificando così, per un solo episodio negativo, un
intero programma, che magari stava procedendo discretamente.
Andiamo dunque avanti, settimana dopo settimana, con queste
osservazioni sistematiche fatte a casa e la token economy gestita in studio.
La figura 21.8 mostra la terza scheda di osservazione sistematica e di
contratto educativo. Dopo l’esperienza positiva della prima settimana,
avevamo calcolato insieme che, approssimativamente, con questo ritmo, il
bambino avrebbe fatto circa 8 punti a settimana e dunque, per raggiungere il
premio in un mese o poco più, avrebbe avuto bisogno di 30 punti. Abbiamo
fatto un puzzle di 30 tessere e nella prima settimana di marzo l’obiettivo è
stato raggiunto.
Figura 21.8 La terza e ultima scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da
solo.
pag. 178
Se prima provo ad allontanare la bottiglietta, e poi provo a lasciare la
mamma fuori dalla scuola e mi accorgo che ce la posso fare, le cose
cambiano. E cambia (credo che ogni lettore con un minimo di orecchio per
questi aspetti cognitivi lo abbia già colto) lo stile di attribuzione: dipende da
me. Si, certo, dipende dal termometro, dall’aiuto che mi dà Fabio, dai
giochi della PlayStation che i miei genitori mi comprano quando me lo
merito, ma prima di tutto dipende da me. Sono io il protagonista del mio
cambiamento:
“Se mi impegno miglioro”, mi dice Enrico durante una seduta nella
quale lavoriamo su queste ristrutturazioni cognitive e poi, con un’aria di
indescrivibile soddisfazione, aggiunge:
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Figura 21.9 La scheda di auto-osservazione relativa alla dilazione della risposta. Enrico cerca di
prendere la bottiglietta il più tardi possibile.
pag. 151
Come si può vedere nella figura 21.9, dal 27 marzo Enrico non toglie più
la bottiglietta dallo zaino. Inoltre, in seduta, mi racconta che ha imparato a
metterla nella tasca del grembiule la mattina prima di andare a scuola. Poi,
appena in classe, la ripone nello zaino e la tira fuori solo se e quando ne
sente il bisogno. Inoltre, la bottiglietta, ormai, contiene il più delle volte
acqua e solo saltuariamente chinotto. Tutto questo produce come effetto che
adesso il bambino dà ai compagni un’immagine di sé molto diversa rispetto
a quando entrava in classe con una bottiglietta in mano e la mamma a
fianco.
Come abbiamo visto, molti di questi risultati sono stati possibili perché non
mi sono limitato a lavorare con il bambino in studio. I tre strumenti che mi
hanno permesso di lavorare con il bambino “a distanza”, per obiettivi come
andare in classe da solo, sono stati l’osservazione sistematica del
comportamento, la token economy e il contratto educativo. Ma per il
loro uso è necessario programmare sedute di parent training , nel senso
che non si possono dare in mano strumenti di questo genere a un genitore
senza spiegare il loro uso in modo attento e supervisionarne gli effetti.
pag. 13
pag. 562
Andare a scuola da solo! Gli dico che secondo me ha avuto un’idea molto
interessante, ma che una cosa così non possiamo discuterla noi due soli. Gli
chiedo se è d’accordo a far entrare la mamma e se vuole parlarLe lui di
questa nuova idea. Eccome se è d’accordo! La mamma entra, si siede, e il
figlio, senza troppi preamboli, le dice:
“Mamma, sei un’insicura, perché non mi mandi a scuola da solo?”.
La mamma, comprensibilmente, resta senza parole, ma accetta l’idea e
collabora lealmente al progetto. “Lealmente” non significa senza dubbi e
senza paure. Una volta di più, il bambino si è mostrato molto intuitivo
quando le ha detto che è lei a essere insicura, forse più di quanto non lo sia
lui stesso. In ogni modo, i risultati di questa condivisione non tardano a
venire. È vero che la casa e la scuola distano poche centinaia di metri, ma
comunque entrambi si mostrano molto bravi. Concordiamo che Enrico
proverà, il mattino, a prepararsi e a partire: e vedremo quello che succede.
Quello che succede è presto detto. Il bambino sembra molto contento di
questa fiducia che gli viene accordata e dall’autonomia che ne deriva, e
sembra andare a scuola (con la sua bottiglietta d’acqua nella tasca del
grembiule) senza particolari difficoltà. Quando in seduta parliamo di questo
mi dice che, in quei momenti, il termometro dell’ansia è a 0, mentre la
felicità è a duemila perché si sente grande.
Per la mamma le cose sono un po’ più difficili.
Durante le prime mattine è stata spesso tentata di convincerlo a frasi
accompagnare da lei e, mi racconta, si è trattenuta solo per il fatto che ne
avevamo a lungo parlato insieme e che, razionalmente, si rendeva conto che
in questo modo avrebbe fatto solo il male del figlio. Tutto questo non le ha
però impedito di spiarlo, per qualche mattina, andandogli dietro e
nascondendosi al riparo da una siepe, e in seguito cercando per lo meno di
seguirlo con gli occhi dal balcone della cucina.
Il pericolo maggiore, secondo la mamma, è costituito dal fatto che è
necessario attraversare una strada in un punto in cui è particolarmente
stretta, dietro una curva e dunque con poca visibilità. Mentre progettavamo
questo obiettivo le avevo fatto notare che, al mattino, quando i bambini
vanno a scuola, c’è sempre un pensionato inviato dal Comune che controlla
che le automobili si fermino per far passare gli alunni.
“E se l’uomo che fa attraversare la strada è malato?”, replica la mamma
durante quel nostro colloquio.
“Dall’inizio dell’anno quante volte è stato malato?”, le chiedo.
“Mai. E comunque c’è sempre un sostituto pronto!”.
Cerco di scherzare su questo, quasi prendendola in giro. Alcune piccole
ristrutturazioni cognitive, per esempio come in questo caso legate alle
cosiddette “catastrofi a bassa probabilità”, possono passare anche attraverso
un po’ di sana ironia.
Naturalmente ci sono argomenti anche più seri che possono essere messi
in campo in casi del genere. È vero, purtroppo, che in un programma di
autonomia sociale c’è sempre un margine di rischio. Ogni volta che un
genitore decide di dare spazio e fiducia a un figlio lo espone a dei pericoli,
più o meno grandi, più o meno probabili, ma che non possono essere mai
eliminati totalmente, almeno come ipotesi. E allora? E allora l’attenzione va
spostata dal possibile ma improbabile pericolo insito, per esempio,
nell’andare a scuola da solo o nell’uscire con un amico, al pericolo certo a
cui va incontro un figlio se queste esperienze gli vegono sistematicamente
negate.
Dico, per esempio:
“Le piacerebbe che Enrico, a vent’anni, non riuscisse ad andare in giro
senza la mamma a fianco?”.
È chiaro che si tratta di un’ipotesi volutamente esagerata, ma serve per
riflette sul fatto che non esiste un’educazione senza rischi. Si tratta di venire
fuori dal pensiero dicotomico (autonomia sì/autonomia no) e decidere,
giorno per giorno, quali rischi scegliere. Il pensiero “non devo
assolutamente far correre nessun rischio a mio figlio” è palesemente
irrazionale e il lavoro terapeutico dovrebbe gradualmente trasformarlo in
“cercherò di evitare rischi esagerati, ma anche di non tenerlo sempre nella
bambagia”. È così che si cresce.
E, a proposito di crescere: non sarà il caso di buttar via il biberon?
Anche su questo madre e figlio concordano, e anche questo avverrà con una
certa naturalezza. Ne parliamo, chiedo al bambino quanta ansia gli produce
l’idea di andare a letto senza biberon e la sua risposta mi pare abbastanza
decisa: 0.
Discutiamo sul fatto che un bambino che va a scuola da solo va anche a
letto senza biberon. Così un pomeriggio la mamma accompagnerà Enrico al
più vicino cassonetto della spazzatura e lì butteranno il vecchio biberon
senza ulteriori problemi. Io ho appena scritto: “senza ulteriori problemi”,
ma è interessante ascoltare la narrazione della madre di questo episodio:
“Abbiamo buttato via il biberon, poi però la notte ha bevuto da una bottiglia
d’acqua che si era portato sul comodino”. Ancora quella dannata virgola di
troppo!13 E, dopo la virgola, quella frase: “poi però la notte ha bevuto da
una bottiglia d’acqua che si era portato sul comodino”. A me sembra che
portarsi dell’acqua sul comodino per la notte sia un comportamento molto
normale. La mamma di Enrico, invece, deve fare ancora un po’ di strada per
imparare a mettere i punti fermi nelle sue narrazioni: “Abbiamo buttato via
il biberon.”. È arrivata la primavera. La scuola organizza una gita al
Cavallino Matto, un parco giochi a un centinaio di chilometri di distanza.
Madre e figlio sono molto perplessi. Ne parliamo tutti e tre insieme. Chiedo
il permesso di parlare anche con le maestre. Lo ottengo, anche se con molta
ansia da parte della mamma, che ha bisogno di mille rassicurazioni su come
condurrò questo incontro. Il colloquio con le maestre è rassicurante. Loro
non hanno dubbi sul fatto che il bambino dovrebbe e potrebbe andare in
gita. Il rapporto con i compagni è migliorato. I bambini notano ancora la
stranezza di questa bottiglietta (spesso ormai d’acqua, ma qualche volta
anche di chinotto) che di tanto intanto Enrico tira fuori dallo zaino, ma
hanno imparato ad accettare la cosa senza dargli peso, hanno notato i
miglioramenti del compagno e sicuramente non lo prendono in giro. Enrico,
da parte sua, appare molto più sicuro di sé, anche a ricreazione. Rimane un
atteggiamento di fondo come di paura per i cambiamenti: in questo periodo,
per esempio, stanno passando dal quaderno a righe a quello a quadretti e la
cosa lo mette in difficoltà, soprattutto dal punto di vista emotivo. Ma le
maestre pensano che adesso sia soprattutto la mamma a generare ansia. Per
questa benedetta gita al Cavallino Matto, per esempio, ha già fatto mille
telefonate e chiesto un occhio di riguardo per il figlio, se Enrico dovesse
andare.
Spiego alla madre che le maestre si sentono sicure del fatto che il
bambino non avrà problemi ad andare in gita con una classe nella quale
ormai si trova quasi completamente a suo agio e lavoriamo di nuovo sul
fatto che non facciamo il suo bene a frenare la sua autonomia e le sue
relazioni sociali.
Enrico va in gita, per fortuna. La mamma mi racconta che la mattina, al
risveglio, era molto agitato. Anche lei stessa riconosce che era molto
agitata. Però si sono fatti coraggio e quando il bambino ha visto i compagni
gli è passato tutto.
“A me un po’ meno, e sono rimasta in pensiero per tutto il giorno”.
“È stata molto in gamba… E quando Enrico è tornato?”.
“Era felice…”.
Le sorrido. Non credo siano necessari altri rinforzatori.
Oggi siamo tutti e tre in seduta. Ci sono molte cose positive delle quali
parlare, ma c’è anche questa bottiglietta: la situazione è migliorata, ma la
bottiglietta non è sparita del tutto. Chiedo al bambino:
“Come mai continui a portarla a scuola?”.
“Perché potrebbe succedermi qualcosa”.
“Ci sono due Enrico: il coraggioso e il fifone”.
“È vero”.
“E tu quale preferisci?”.
“Il coraggioso!”.
“E quante mamme ci sono?”.
“Due”.
“Raccontami”.
“Una gentile che mi fa fare quello che voglio e una arrabbiata che dà
noia”.
“Fammi capire meglio. Una ti fa fare quello che vuoi”.
“Sì”.
“La chiamiamo mamma 1, se per te va bene. La mamma 1 cede, ti dà
ragione, non ti controlla. È così?”.
“Sì, la mamma 1 è così”.
“E la mamma 2 com’è?”.
“La mamma 2 non mi compra il chinotto, quando glielo chiedo. La
mamma 2 non cede”.
“La mamma 1 cede e la mamma 2 tiene duro. Tu quale preferisci?”.
“La mamma 2”.
“Allora ringraziala la mamma 2, perché è lei che ti ha aiutato a buttare
via il biberon e ad andare in gita”.
Enrico la ringrazia.
Gli dico:
“La tua mamma è stata coraggiosa, sai? Perché anche lei aveva un po’
paura di questo Cavallino Matto…”.
Enrico sorride.
Mi rivolgo alla mamma:
“È vero che è stata brava, signora?”.
Un sorriso triste:
“Non abbastanza…”.
“Non abbastanza?”.
“Mi sento brava, ma non del tutto, perché sono stata aiutata. Così
nemmeno io sono completamente autonoma”.
Ma nessuno è completamente autonomo. Proviamo a lavorare un po’ su
questo. Anche l’autonomia, così intesa, è un pensiero dicotomico e
irrazionale, che ha bisogno di essere ristrutturato. L’autonomia completa
non esiste. Abbiamo tutti bisogno di aiuto e alcune persone vanno dallo
psicologo e gli psicologi vanno dal supervisore…
Poi prendo la bottiglietta di chinotto che oggi Enrico ha di nuovo portato
con sé. Gli chiedo se ha voglia di venire in bagno con me, svuotarla e
riempirla d’acqua, come in un rito. Lo facciamo, torniamo in studio e gli
domando:
“Cosa fa la mamma quando gli chiedi il chinotto?”.
“A volte me lo prende”.
“Secondo te fa bene?”.
“No”.
“Cosa dovrebbe fare?”.
“Dovrebbe darmi acqua”.
“Perché?”.
“Perché così faccio passi avanti”.
“E lei perché a volte cede?”.
“Mi prende il chinotto perché ha paura di farmi soffrire”.
“E tu invece potresti resistere?”.
“Potrei resistere”.
Grande Enrico! penso durante questa parte di colloquio. E intanto
guardo la mamma che ascolta in silenzio…
E il papà?
Il papà è negli Stati Uniti nel periodo in cui Enrico riempie di crocette le
schede di auto-osservazione e comincia ad andare a scuola da solo. Questo
è un dato di realtà, ma è anche una metafora. Il padre mi sembra così
assente dalla storia di questo bambino…
Un pomeriggio gli dico:
“Con le crocette stai andando benissimo, ma come mai non racconti
niente al papà?”.
“Il papà non c’è”.
“Si, ma lo senti per telefono?”.
“Sì, ci salutiamo, ma a lui queste cose non interessano”.
“Come fai a sapere che non gli interessano?”.
“Dice che non sono cose importanti”.
“Quando te lo ha detto?”.
“Lo dice sempre”.
“Ma gli hai raccontato che prendi la bottiglia molto tardi durante la
mattinata, e vai a scuola da solo…”.
“No”.
“Quindi lui queste cose non le sa ancora”.
“No”.
“Quindi non può dire che non sono importanti, se non le sa”.
Gli dico che potrebbe almeno provare. Ma è in imbarazzo. L’imbarazzo,
in parte, sembra derivare proprio dal fatto che il padre non lo gratifica mai
per questi suoi piccoli progressi. Probabilmente, più in generale, il bambino
ha imparato a tacere con il padre, perché il silenzio è rinforzato
negativamente molto più di quanto la comunicazione lo sia positivamente.
Ma in parte, come spesso succede, sembra anche che ormai non sappia più
come fare, tanta è la mancanza di abitudine.
Gli propongo un role playing della telefonata al padre. Io faccio il
padre; lo incoraggio e do importanza a quello che mi dice. In seguito parlo
con la mamma. Le spiego quello che abbiamo fatto. Le dico che sarebbe
bello se Enrico provasse a farlo davvero e il papà lo ascoltasse. Tutto
questo, me ne rendo conto, è tanto artificiale da dare, persino a me adesso,
mentre ci ripenso e scrivo queste parole, un senso di tristezza. Il papà,
avvertito dalla mamma, gli dirà, non so con quanta convinzione o invece
con quanta meccanica freddezza, che è stato molto bravo. Questa è come la
storia grigia di un fiore mai sbocciato. Ora so che è così, ma allora cosa
avrei dovuto fare? Non siamo in grado di predire il futuro e non abbiamo il
diritto, come terapeuti, di decidere a priori cosa non potrà sicuramente
succedere. A volte avviamo in modo freddo e artificiale un programma, ma
poi questo comincia a vivere di vita propria, modifica positivamente una
relazione, permette a un piccolo paziente di dare significati nuovi a quello
che fa. A volte non succede nulla. Credo che abbiamo comunque il dovere
di provare.
pag. 259
Figura 21.11 Una nuova scheda di auto-osservazione per un nuovo obiettivo: fare a meno della
bottiglia.
pag. 151
pag. 284
Di solito non ho molta simpatia per modalità di questo tipo, a causa del
fatto che sono centrate su aspetti negativi. Preferisco, tutte le volte che è
possibile, rinforzare comportamenti piuttosto che punirli. Ma qui la
proposta della mamma ha secondo me un significato molto preciso. Sembra
volermi dire: puniamolo, per favore, se prende il chinotto! Perché solo se so
che verrà punito, io riuscirò a non comprarglielo. L’interpretazione, così
senza prova, può sembrare azzardata, ma guardate i risultati di questa
scheda di auto-osservazione. Alla fine la mamma non gli ha comprato il
chinotto e così Enrico non ha subìto nemmeno una multa!
È arrivato giugno, come si può vedere nella figura 21.13, e perciò alla
scuola (che nel frattempo chiude) si sostituisce il mare, dove mamma e
bambino vanno regolarmente quasi tutti i giorni. La figura 21.13, quasi a
conclusione del nostro percorso, mi sembra molto interessante rispetto a ciò
che potremmo chiamare un processo di normalizzazione. Prima di tutto, ai
punti guadagnati non corrisponde più nessun premio. La token economy è
sparita e al rinforzamento simbolico si è sostituito un autorinforzamento
sociale: il bambino è orgoglioso dei punti che riesce a guadagnare, cioè dei
progressi che fa. Inoltre l’osservazione sistematica è cambiata: ora Enrico
autovaluta se è riuscito ad andare al mare con le bottiglie nella borsa frigo,
prenderne una quando ha sete e riporla nella borsa, che resterà
all’ombrellone dopo che lui ha bevuto. Quello che viene descritto in questa
scheda è, in altre parole, il comportamento tipico di qualsiasi persona che
decida di passare una giornata in spiaggia.
Figura 21.13 Una scheda di auto-osservazione del periodo estivo, dove il comportamento osservato
appare ormai molto “normale”.
FOLLOW-UP
Capitolo 22
pag. 49
pag. 151
pag. 13
pag. 562
Non credo che l’autista più bravo sia quello che pensa che quando il
rumore del motore della sua automobile si fa troppo acuto significa che il
motore è troppo su di giri e quindi si deve passare da una marcia inferiore a
una superiore, e per far questo è necessario togliere il piede dal pedale
dell’acceleratore e premere a fondo il pedale della frizione, e subito dopo
cambiare la marcia e poi togliere il piede dal pedale della frizione e premere
sul pedale dell’acceleratore. Credo che un buon autista sia quello che
esegue dolcemente, automaticamente, queste operazioni e intanto, con la
mente libera da preoccupazioni troppo tecniche o troppo teoriche, può
godersi il panorama delle colline che passa davanti al parabrezza della sua
auto.
Non ricordo di aver mai detto esplicitamente ai genitori di Aurora
“dovete starle più vicini”. Però forse, piano piano, anche solo per dover
completare insieme alla figlia una scheda dove raccogliere i punti per un
cartellone di token economy, è successo che il papà, la mamma e la bambina
si siano in qualche modo avvicinati. Di sicuro non ho mai detto loro dovete
farle esprimere di più le sue emozioni e voi stessi dovete trovare il coraggio
di esprimerle. Penso che non avrebbero capito. Forse si sarebbero allarmati,
oppure si sarebbero offesi, oppure si sarebbero sentiti in colpa.
Provo a fare un ragionamento analogo anche per i risvolti, per certi
aspetti inattesi, che questa storia presenta a proposito del cosiddetto
comportamentismo di terza generazione. Io ho cercato di aiutare Aurora a
non scappare. A stare qualche minuto in giardino dentro il suo gazebo, e
qualche minuto dentro la sua paura. A sdraiarsi sul lettino della sua camera
ad aspettare. Aspettare cosa? Né io né lei lo sapevamo. Aspettare quello che
sarebbe successo. Non le ho insegnato in modo esplicito l’accettazione o la
defusione, perché tra l’altro credo che non ne sarei stato capace.
Però è successo. Non voglio anticipare l’e-mail, sorprendente, che la
bambina mi manderà alla fine del nostro percorso terapeutico e che mi
mette un brivido tutte le volte che la leggo o che mi capita anche solo di
pensarci. Ma mi sembra, in un paio di righe, una summa dell’ACT che
io di certo non avrei saputo fare. Un sintesi che è tutta sua. Perché Aurora, o
forse il nostro percorso insieme, è andato più avanti dei miei ragionamenti,
dei miei pensieri, delle teorie che padroneggio e che applico. In un certo
senso, anche se ovviamente all’interno delle tecniche di cui mi sono servito,
non è stato programmato. È successo.
pag. 333
Non posso fare a meno di citare qui, adesso, dopo queste mie
considerazioni forse un po’ confuse, un passo del discorso che von Karajan
fece in onore del collega Böhm in occasione di una cerimonia in cui Böhm
veniva insignito di una onorificenza. Quei due giganti della direzione
d’orchestra del Novecento sono uno di fronte all’altro. E uno dice all’altro:
“Tu hai in realtà, se posso dire così, unito la conoscenza, la capacità, la
volontà e il conseguimento degli obiettivi in un’unica persona. I maestri zen
nell’arte del tiro con l’arco1 non dicono, quando esercitano la propria
attività, io tiro la freccia, bensì la freccia si tira. L’azione è diventata una
cosa talmente scontata che non si deve aggiungere nulla. Quindi, nel tuo
caso, dovrei dire: la musica si fa da sé. E questo riflette una delle massime
più profonde della filosofia cinese: nel non agire si trova l’agire. Non
bisogna fraintendere. Prima tutto deve essere stato fatto, ma poi ogni cosa
deve compiersi da sé. Questa è la vera maestria! E ci vuole molto tempo per
raggiungerla.”
So bene di non avere nell’arte della psicoterapia neppure un frammento
della maestria che Böhm aveva nella direzione d’orchestra e so bene che
nessun von Karajan dirà mai di me queste parole. Ma mi è piaciuto citarle
perché mi sembra rappresentino in modo mirabile il passaggio dalla prima
ondata dell’approccio comportamentale, tutta tecnica e tutta attenzione ai
passi da compiere, alla terza ondata, dove anche la psicoterapia finirà,
almeno nei casi migliori, per “compiersi da sè”.
Basta.
Torniamo subito alla nostra piccola Aurora che da vecchio e un po’
incallito comportamentista dalla prima ondata non ho piacere lasciare
troppo a lungo con le sue angosce; e che vorrei aiutare il prima possibile a
staccarsi di nuovo, almeno un po’, dai suoi genitori e a riprendere almeno
un po’ della sua antica sicurezza.
Le chiedo, dunque, intanto di disegnare le sue paure.
Le figure 22.2 e 22.3 rappresentano il risultato di questa mia richiesta.
Cosa devo fare a questo punto? Cosa devo fare dopo aver raccolto,
commentato e lavorato su questi due disegni?
Modifico la domanda. Cosa deve fare a questo punto lo psicoterapeuta
comportamentista?
Deve cercare un aspetto positivo. Un punto di forza. Qualcosa che
funzioni nella vita del suo paziente. Se Archimede fosse stato uno psicologo
comportamentista avrebbe detto: “datemi un punto di appoggio e vi
rinforzerò il mondo”.
“Bene.” dico alla bambina. “E ora, se ne hai voglia, disegnami Aurora
serena e felice.”
La figura 22.4 rappresenta la risposta a questa mia richiesta. Aurora è
fuori di casa. Passeggia sul viale di fronte alla sua villetta e un albero che
sta cominciando a perdere le foglie segnala che l’autunno è alle porte. Il
disegno è pieno di movimento; il controllo formale è molto inferiore a
quello precedente, ma qui c’è vita. Sui jeans di Aurora sono ricamati due
cuori.
pag. 333
Figura 22.5 Gerarchia della situazioni endogene. Nella gerarchia originale, come è spiegato nel
testo, le cifre che indicano situazioni percepite come inaffrontabili sono colorate di rosso, mentre
quelle che indicano situazioni sulle quali la bambina sente di poter lavorare sono colorate di blu. Qui,
dato che la tavola è in bianco e nero, abbiamo racchiuso in un circolo le cifre rosse e in un quadrato
quelle blu.
Qualche volta ci sono invece battute d’arresto o quanto meno alti e bassi,
come si può leggere nell’e-mail della figura 22.9 dove, a fronte dei
miglioramenti nell’andare in bagno da sola, ci sono difficoltà a stare nel
gazebo in giardino e queste difficoltà aumentano in modo vistoso la sera,
fino a provocare proteste e crisi di pianto.
Per fortuna, con i loro inevitabili limiti, sono genitori in gamba, capaci di
comprendere e di imparare dai propri errori. L’e-mail della figura 22.11 è
talmente chiara a questo riguardo da non aver bisogno di commenti. Mi
limito a riportare l’ultima frase: “memori dell’altra sera, abbiamo subito
smesso di insistere”.
Figura 22.11 Sbagliando si impara (i cognitivisti direbbero: una perturbazione può riorientare in
modo strategico un paziente in difficoltà).
Come si può leggere nel breve (e un po’ freddo) testo, Aurora mi racconta i
suoi progressi e tenta di programmare anche qualche obiettivo successivo.
Intanto il diario va avanti, i punti si accumulano e i genitori mi raccontano
di una buona giornata, in cui la figlia ha giocato in giardino con l’amica del
cuore con la quale si è aperta raccontandole delle sue paure, facilitata dal
fatto che anche la sua amica era andata da uno psicologo. La mamma,
intanto, ha potuto allontanarsi un po’ e Aurora è sembrata serena (vedi fig.
22.13).
Figura 22.13 Aurora sta meglio e apre uno spiraglio sulle sue emozioni con un’amica.
Figura 22.14 Aurora sta cercando di dire alla mamma che ha ancora bisogno delle sue paure.
Figura 22.15 “Talvolta mi sembra che Aurora abbia paura di non avere più paura”.
Sembra anche a me, ma adesso per fortuna, non sono più solo. Durante una
seduta molto carica emotivamente la mamma sembra avere un insight e mi
dice:
“Adesso finalmente Aurora ha un po’ di attenzione da parte nostra.
Soprattutto durante la malattia della nonna le bambine sono state messe tra
parentesi. Il messaggio era: cercate di dare meno fastidio possibile che noi
dobbiamo occuparci della nonna. Fino al 21 luglio le bambine sono state
chiuse in un lager estivo”.
Usa proprio questa metafora terribile.
E Aurora, intanto?
Aurora sicuramente è motivata dai suoi punti che aumentano. La
bambina sicuramente vuole guadagnare i token per completare il suo primo
cartellone. Sicuramente non vede l’ora di arrivare al rinforzatore di scambio
che, in questa prima fase del lavoro terapeutico, è un libro di Geronimo
Stilton sui viaggi del tempo (vedi fig. 22.16). Altrimenti che
comportamentista sarei?
Figura 22.16 La prima token completata.
Figura 22.20 Aurora comincia a stare a letto da sola per tempi crescenti.
Arriviamo così a completare anche il secondo cartellone di token
economy (vedi fig. 22.21) e la bambina guadagna il suo dvd, che tra l’altro
le servirà, d’ora in poi, per passare il tempo quando starà a letto da sola per
tempi crescenti, come racconta lei stessa nell’e-mail che si può vedere in
figura 22.22.
Eppure nel corso delle settimane era evidente che qualcosa si stava
muovendo anche sul versante emotivo: con la mamma, con il papà, con la
bambina stessa. E allora guardate l’e-mail di due giorni dopo, in figura
22.23: i punti esclamativi sono una fila ininterrotta che arriva quasi alla fine
della riga!!!!! Qualcosa sta succedendo, allora, anche da questo punto di
vista…
Succederà, infatti.
La figura 22.26 mostra i progressi nell’impegno visti dai genitori, che
sottolineano come l’esercizio del rimanere sola a letto stia andando bene e
talvolta venga svolto anche per più di un’ora, con un’ansia percepita che
non supera mai il livello di 55.
Figura 22.26 I progressi visti con gli occhi dei genitori.
La figura 22.27 mostra i progressi e la gioia visti con gli occhi (e forse,
finalmente, anche con il cuore) della bambina. Come si può vedere, sembra
che adesso l’accento emotivo si sia spostato dalle emozioni negative a
quelle positive: non solo la gioia percepita è maggiore della paura, ma quel
“SEMPRE” scritto in caratteri maiuscoli per indicare un livello di 100 che
sembra non cambiare mai è molto significativo al riguardo. E poi c’è la
speranza, che ho già avuto modo di commentare, che il nuovo cartellone sia
bello: una speranza che la dice lunga sul fatto che le emozioni si sono
infiltrate in un programma terapeutico svolto all’inizio in modo un po’
rigido e un po’ freddo.
pag. 41
pag. 13
pag. 182
Arriva dicembre.
I genitori programmano una breve vacanza a Venezia. La bambina è serena.
Si diverte, si svaga e, come sempre, è molto interessata alle bellezze
artistiche e architettoniche che i genitori la portano a vedere. Poi tornano a
casa. Aurora è stanca del viaggio di ritorno, va nel suo letto e si
addormenta.
I genitori, prudenti, razionali, molto attenti alle mie prescrizioni e forse
anche (finalmente!) un po’ ottimisti e un po’ positivi, avevano già
provveduto a comprare il lettore MP3, premio finale della nostra ultima
token (fig. 22.32). Aurora è felice e me lo descrive con una dovizia di
particolari (come si può vedere nella figura 22.33) che potrebbe apparire
molto rigida, un po’ fredda, ma che a me sembra invece nascondere a fatica
un’eccitazione forte e piena di gioia. E poi mi raccomanda di nuovo di
arrivare puntuale al suo saggio!
Invece sbagliavo.
Qualcosa, per me di molto significativo, doveva ancora succedere.
Passano le vacanze di Natale. In gennaio ci sentiamo, sia con la bambina
che con i genitori, e ci scriviamo. Le cose vanno piuttosto bene, più o meno
come quando ci siamo sentiti a fine dicembre. Mi segnalano solo un po’
d’ansia, per lo più serale e notturna. Mi dicono che a volte riemerge di
nuovo, ma non sembrano dare importanza a questa cosa che invece crea in
me un po’ di inquietudine. Così scrivo ad Aurora: “E la paura, adesso, come
va?”
La sua risposta (come si può vedere nell’e-mail di figura 22.35)
rappresenta per me una grande lezione.
Figura 22.35 “… di notte va e viene…”.
Disturbi dell’umore
Disturbo depressivo
Fabio Celi
LA STORIA DI SILVIA
Il primo colloquio con i genitori di Silvia si svolge in modo
tradizionale, prevedibile, senza scosse e senza sorprese, forse anche perché
la madre, come vedremo subito, è abituata ad avere a che fare con psicologi
e psichiatri.
pag. 49
Forse la cosa di cui parla più volentieri è un coniglietto bianco che gli ha
regalato il papà qualche settimana fa, al ritorno da un viaggio di lavoro. È
stata una bellissima sorpresa e la realizzazione di un suo antico sogno. La
mamma non è molto contenta di questo coniglio, perché dice che sporca e
dà molto da fare. La mamma è quasi sempre stanca. Il pomeriggio, quando
torna da lavorare, va a letto e lei fa i compiti da sola. Non le piace fare i
compiti da sola, si annoia, non le riescono e quando la mamma si sveglia lei
non ha mai finito. Così succede quasi sempre che la mamma si arrabbia e le
urla. Anche lei si arrabbia e litigano. Più che per i compiti scritti, litigano
per la storia e la geografia. Quando lei, nel ripetere, sbaglia qualche parola,
la mamma strilla e va a finire che Silvia sbaglia ancora di più, perché quegli
strilli non le piacciono e le fanno perdere la memoria. Dice di avere poca
memoria e di essere troppo lenta. Anche le maestre le dicono che deve
diventare più svelta e i compagni la prendono in giro. I compiti le fanno
anche venire il mal di testa, soprattutto la sera. Certe sere arriva il papà, è
quasi l’ora di cena e loro sono ancora a fare i compiti oppure a ripetere
storia e geografia. Il papà si arrabbia e dice che quella non è l’ora di fare i
compiti. Silvia non mi parla mai, almeno in queste prime sedute, dei litigi
tra padre e madre e sembra sempre che gli strilli e le arrabbiature dei
genitori siano rivolti contro di lei, e che la colpa sia sua.
Spesso arriva in seduta già stanca. Appoggia la testina sulla scrivania e
dà l’impressione di addormentarsi da un momento all’altro. Altre volte salta
proprio la seduta: la mamma mi telefona per dirmi che la bambina è troppo
stanca, o ha mal di testa, o mal di stomaco, o che sono rimasti troppo
indietro nei compiti. Altre volte ancora viene, ma ha un atteggiamento
mutacico che sembra francamente oppositivo. Mi chiede più volte di rifare
gli stessi giochi, per esempio alcuni semplici puzzle che sa eseguire
perfettamente a memoria. Mette a posto i pezzi con gesti lenti, come se
ognuno le costasse un’enorme fatica, oppure come se volesse prendere
tempo, evitare richieste diverse da parte mia.
Nei momenti migliori, invece, mi domanda se può disegnare e molte
volte fa il suo coniglietto, quando da solo, quando con lei o con tutta la
famiglia. C’è uno di questi disegni che mi colpisce particolarmente, tanto
che adesso sono in grado di descriverlo anche se non l’ho sotto gli occhi.
Lei e la mamma sono in salotto, dietro una tenda, disegnata con una trama
così fitta da farle sembrare come in gabbia, oppure prese dentro una rete di
pescatori. L’essere più libero della casa è il coniglietto bianco, che mangia
tranquillamente in cucina. Il padre non c’è. Mi spiega che è andato a
lavorare, aggiungendo che è quasi sempre a lavorare. Le dico che a volte,
per esempio il sabato pomeriggio o la domenica, è a casa. Silvia mi
risponde che però, in quei momenti, la mamma dorme…
Spesso, invece, i disegni che fa non le piacciono e allora li commenta molto
negativamente e poi li strappa prima ancora di averli finiti. Nel frattempo,
durante queste prime sedute, faccio alcune osservazioni di routine. Silvia
non mostra disturbi di comportamento degni di nota né deficit attentivi. La
sua intelligenza generale è lievemente superiore alla media e le sue abilità
scolastiche, in particolare lettura e scrittura, sono sostanzialmente adeguate.
Però subito si stanca, di tutto si annoia e fare queste prove è lungo e
faticoso. La bambina, nonostante un’evidente coartazione e una certa
chiusura relazionale, è orientata e sempre aderente alla realtà: una realtà che
descrive, tuttavia, come grigia, triste, senza mai un raggio di sole.
RICERCHE
In questi ultimi anni è stato più volte messo in luce il fatto che la
depressione infantile sia stata in passato sottodiagnosticata, mentre sembra
oggi che il fenomeno sia piuttosto diffuso (Kovacs, Gatsonic, Pollok e
Parrone, 1994; Marcelli, 1999; Cuijpers, van Straten, Smits e Smit, 2006;
Rocha, Zeni, Caetano e Kieling, 2013). Questo, probabilmente, dipende da
una serie di difficoltà nel porre diagnosi di depressione in età evolutiva e
nei bambini in particolare (Lima, 2004). La prima difficoltà è dovuta al
fatto che i sintomi della depressione nel bambino sono multiformi: come
abbiamo visto, e solo per fare alcuni esempi, essi spaziano dalle lamentele
somatiche, all’irritabilità, al ritiro sociale. Questi sintomi, che non si
riferiscono precisamente all’umore depresso, ma che possono indirizzare
verso una diagnosi in questo senso, vengono a volte chiamati anche
“equivalenti depressivi”, ma poi, nella pratica clinica, non è facile
distinguere una depressione da un sintomo che potrebbe invece suggerire un
disturbo del comportamento o un Disturbo d’ansia (Kazdin, 1990). Si tratta
di una difficoltà strettamente legata, come abbiamo visto, al problema della
diagnosi differenziale, in questi casi resa particolarmente complessa se si
considera che la descrizione standard del Disturbo depressivo è stata
delineata pensando agli adulti. Così, quando dobbiamo applicare questi
schemi diagnostici ai bambini, aumenta il rischio di errore. D’altra parte, la
ricerca ha mostrato una sostanziale continuità tra la depressione infantile e
quella in età adulta (Kashani, Holcomb e Orvaschel, 1986; Ryan et al.,
1987; Kashani, Allan, Beck, Bledose e Reid, 1997; Kolaitis, 2012). Studi su
campioni non clinici suggeriscono inoltre che i bambini e gli adolescenti
utilizzano stili cognitivi associati all’ansia e alla depressione simili a quelli
riscontrati negli adulti (Garber, Weiss e Shanley, 1993; Chorpita, Albano,
Heimberg e Barlow 1996; Hadwin, Frost, French e Richards, 1997). Ciò
rende particolarmente importante il tentativo, anche se talvolta difficile, di
una diagnosi precoce, sia a fini prognostici sia, soprattutto, a fini preventivi.
Si consideri, tra l’altro, che sembra ormai dimostrato un abbassamento, in
questi ultimi anni, dell’età di insorgenza del Disturbo depressivo.
La prevalenza del Disturbo depressivo maggiore in psicopatologia dello
sviluppo, pur con tutte le cautele che ho appena evidenziato sembra
aggirarsi in Italia intorno al 3% (Dacomo e Pizzo, 2012). Tuttavia, questi
dati sono particolarmente incerti, perché non è sempre chiaro, dalle
ricerche, se si riferiscano a un Disturbo depressivo completo o alla
presenza, nel bambino e nel preadolescente, di tratti depressivi, magari in
comorbilità con altri problemi come Disturbi dell’adattamento, del
comportamento o dell’apprendimento; o anche solo a difficoltà scolastiche
o familiari (Birmaher et al., 1996; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998;
Lewinsohn e Clarke, 1999), come si vedrà meglio più avanti e nei prossimi
tre capitoli.
La prevalenza sale poi in modo significativo se il bambino, o ancor più
l’adolescente, vive in comunità (5%), oppure è ospedalizzato (dal 20 fino
anche al 40%, a seconda dei motivi del ricovero: le percentuali più alte si
trovano nei problemi fisici cronici). Se tutti questi dati possono apparire
troppo alti o troppo pessimistici, si consideri che circa il 15-18% della
popolazione generale ha avuto almeno un episodio di depressione nel corso
della vita (Stark, 1995; Campo e Bridge, 2009).
Sembra ormai accertato che non è vero che la depressione sia più
frequente nei maschi che nelle femmine. In realtà, si osserva una maggior
frequenza nei maschi fino a circa i dodici anni, mentre dopo questa età si
registra un’inversione a favore delle femmine, con il picco più alto per le
ragazze nella media adolescenza. Axelson e Birmaher (2001) riportano un
rapporto maschi/femmine 1:1 in età infantile e 1:2 durante l’adolescenza; le
femmine non solo presentano sintomi depressivi in misura maggiore, ma
manifestano livelli di soddisfazione minori rispetto alle proprie
caratteristiche fisiche e livelli di autostima significativamente inferiori
rispetto ai coetanei maschi (Lewinsonhn e Essau, 2002). Forse questo può
essere spiegato con il fatto che nella nostra organizzazione sociale e
culturale il maschio adolescente tende ad affrontare lo stress attraverso
meccanismi di esternalizzazione delle emozioni, come riunirsi in gruppo e
basare la vita su azioni concrete. Le ragazze, invece, sembrano più portate a
ripiegarsi su sé stesse, a internalizzare, a sviluppare una relazione amicale
magari molto intensa, ma con una sola compagna, per poi trascorrere molto
tempo a chiacchierare con lei e analizzare le proprie emozioni
(McGuinness, Dyer e Wade, 2012). Alcuni autori hanno osservato
l’esistenza di una connessione temporale tra insorgenza dei sintomi della
depressione e comparsa del menarca (Patton et al., 1996) e, anche, altro
elemento rilevante sembra essere lo sviluppo cerebrale che inizia
mediamente prima nelle femmine (Lenroot e Giedd, 2006). In generale
sembra che le adolescenti femmine siano più frequentemente esposte a
esperienze stressanti rispetto ai maschi della stessa età (Hankin,
Mermelstein e Roesch, 2007).
La comorbilità è molto frequente con i disturbi del comportamento, in
particolare il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, e con il Disturbo
specifico dell’apprendimento: nel 34% dei bambini segnalati dalla scuola
per questi problemi si è riscontrato un Disturbo depressivo associato. Può
essere interessante notare, a questo proposito, che l’ICD-10 ha una
categoria studiata proprio per questi casi: si tratta del Disturbo della
condotta depressivo, che è tipico dell’età evolutiva ed è caratterizzato dalla
presenza di un Disturbo della condotta con una persistente e marcata
depressione dell’umore, evidenziata da eccessiva tristezza, perdita di
interesse e piacere per le attività, sentimenti di autoaccusa e disperazione e,
talvolta, disturbi del sonno e dell’appetito. Si può avere comorbilità anche
con la Disabilità intellettiva e, in genere, con le forme di handicap psichico
nelle quali esista la consapevolezza del problema. Tuttavia, l’aspetto più
importante e più studiato è quello della comorbilità tra Disturbo depressivo
e Disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo d’ansia di separazione e il
Disturbo d’ansia sociale, che sembra oscillare tra il 40 e il 70% (Cazzullo,
Lenti, Musetti e Musetti, 1998).
Il problema dell’eziologia è, come abbiamo già visto per molti altri
disturbi, aperto e controverso. È probabile che non esista una causa della
depressione, ma piuttosto siano presenti molte concause, molti fattori
favorenti o scatenanti. La ricerca ha isolato alcuni di questi fattori, che
possiamo dividere in quattro categorie (McGuffin e Katz, 1989; Radke-
Yarrow, Nottelman, Martinez e Fox, 1992; Pataki e Carsoln, 1995; Stark,
1995; Zobel, Yassouridis, Frieboes e Holsboer, 1999; Elliot e Place, 2001;
Verduyn, Roger e Wood, 2009).
Nella prima categoria troviamo i fattori biologici, in particolare quelli
biochimici come la diminuzione delle catecolamine (dopamina-
noradrenalina), la diminuzione della serotonina, disfunzioni endocrine (test
di soppressione al desametasone – DST), anomala risposta dell’ormone
della crescita – GH: tutti argomenti che esulano dagli scopi di questo
lavoro.
La ricerca sui fattori biologici, tuttavia, non ha fatto altro che aumentare
le prove a favore dell’importanza della seconda categoria di fattori causali,
che possiamo qui, un po’ genericamente, riassumere con il termine di
familiarità: disturbi psicopatologici nei genitori rappresentano un
importante fattore di rischio e la depressione, soprattutto della madre, è uno
dei dati più frequentemente riscontrati nel Disturbo depressivo del bambino.
Il 61% dei figli di genitori con Disturbo depressivo maggiore svilupperà un
disturbo psichiatrico durante l’infanzia o l’adolescenza e questi bambini
hanno un rischio quattro volte maggiore, rispetto ai propri coetanei senza
genitori affetti, di sviluppare un Disturbo dell’umore (Beardslee, Versage e
Gladstone, 1998). I figli di madri depresse presentano una maggiore
frequenza di pensieri e comportamenti suicidari rispetto ai loro coetanei
(Klimes-Dougan et al., 1999).
Accanto a questo, si può trovare anche con notevole frequenza una
madre con importanti Disturbi d’ansia e, in conseguenza, con atteggiamenti
iperprotettivi nei confronti del figlio. Lo abbiamo visto bene nel nostro
caso: la mamma di Silvia è depressa e tende inoltre a stare addosso alla
bambina con modalità che appaiono a volte francamente soffocanti. Se
questo è chiaro da un punto di vista clinico, dal punto di vista della ricerca
apre invece importanti problemi teorici, perché può diventare difficile
distinguere in che misura l’eziologia sia a carico del disturbo della madre, e
quindi possa essere etichettata tra i fattori di familiarità a origine biologica,
e in che misura sia, invece, connessa con lo stile educativo del genitore, e
debba dunque essere inquadrata tra le cause ambientali. Tuttavia, studi
controllati sui gemelli, anche allevati separatamente, hanno evidenziato una
significativa influenza della familiarità, con percentuali oscillanti tra il 10%
e il 50% (Stark, 1995).
La terza categoria di fattori causali è particolarmente importante per lo
psicologo, anche da un punto di vista pratico e terapeutico, come vedremo
nel paragrafo successivo. Si tratta di quella grande categoria di cause che
fanno riferimento alla storia personale del bambino. Prima di tutto, dunque,
alla sua educazione. Ciò non significa, naturalmente, sostenere che
un’educazione “sbagliata” possa produrre un disturbo depressivo, dal
momento che le cause di questo disturbo sono molte, complesse e in
interazione tra di loro. Significa che può contribuire alla sua insorgenza o
rendere più difficile il suo superamento. Possiamo trovare qui modelli
educativi troppo rigidi, con genitori oppressivi, estremamente severi e
soprattutto poco empatici, che pretendono un rispetto assoluto di alcuni
doveri e hanno difficoltà ad accettare le manchevolezze del figlio e a
sottolineare i suoi piccoli progressi. Altri elementi ad alto rischio della
storia personale del bambino sono, in primo luogo, il lutto, che non deve
essere inteso necessariamente come la morte di una persona vicina, ma che
può riguardare anche la perdita di un animale domestico particolarmente
caro al bambino, o addirittura, come abbiamo visto per la compagna di
Silvia, la separazione da un amico importante, che può arrivare a
rappresentare, da un punto di vista emotivo, un equivalente della morte.
Separazione e perdita sono i due grandi temi emozionali che stanno dietro a
molti Disturbi depressivi. Naturalmente si colloca al primo posto la perdita
di un genitore, ma risultano fattori molto importanti anche un genitore
ammalato, oppure lontano (per ragioni di lavoro, per una separazione o un
divorzio, o anche per una indisponibilità affettiva nei confronti del figlio).
A volte il contesto familiare è sfavorevole perché un genitore è
emotivamente distante dal bambino, e questo può avvenire per cause che
coinvolgono il genitore stesso, come un suo Disturbo depressivo, o una
grave preoccupazione, o un lutto in famiglia. In alcuni di questi casi
possono diventare drammatiche le interazioni tra più fattori. La morte di un
fratello, per esempio, può causare direttamente sul bambino un grave
abbassamento del tono dell’umore, ma è molto probabile che produca anche
nei genitori effetti analoghi: in questo modo, sul bambino ricadranno anche
i danni indiretti dovuti al fatto di avere due genitori che non hanno più, nei
suoi confronti, la serenità e la disponibilità affettiva di prima. Ci sono poi
gli effetti di violenze e abuso sul bambino (Lindert et al., 2014) e quelli di
malattie croniche (Agresta, 2001), soprattutto quando accompagnate da
ricoveri o assenze scolastiche prolungate, perdita delle relazioni amicali e
paura della morte. I primi studi sistematici sui rapporti tra depressione nel
bambino e condizioni sfavorevoli, soprattutto connesse alla separazione,
risalgono agli studi classici di Spitz (1946) e proseguono con i lavori
fondamentali di Bowlby, che hanno poi dato origine alle ricerche
sull’attaccamento.16 È vero che le relazioni tra modelli di attaccamento e
psicopatologia del bambino sono state forse più studiate nei Disturbi
d’ansia, come abbiamo visto nel capitolo 14. È vero anche che non sembra
esistere, attualmente, un’ipotesi di relazione univoca tra un particolare
modello di attaccamento patologico e la depressione nel bambino. Tuttavia,
possiamo dire che l’incapacità delle figure di attaccamento di porsi in
sintonia con gli stati emotivi del bambino è un elemento che si trova di
frequente nella ricerca come precursore di Disturbi depressivi (Morley e
Moran, 2011). Le condizioni di attaccamento più a rischio per lo sviluppo di
Disturbi depressivi sono quelle del modello insicuro o
disorientato/disorganizzato. Ricerche svolte sia con adulti (Mikulincer e
Shaver, 2007) che con bambini (Muris, Meesters, van-Melik e Zwambag,
2001) mostrano una relazione tra la presenza di sintomi depressivi e
l’attaccamento insicuro di entrambi i tipi, sia ansioso-resistente sia evitante.
Inoltre, la ricerca ha evidenziato una corrispondenza, con tassi intorno al
70-80%, tra equilibrio emotivo, affettivo e di attaccamento nei genitori ed
equilibrato sviluppo del bambino; mentre, al contrario, bambini
emotivamente e affettivamente in difficoltà tendono ad avere figure di
attaccamento distaccate, abbandonanti, oppure eccessivamente preoccupate
e invischianti (Stark, 1995; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998).
Infine, sembra che un eccessivo carico scolastico rappresenti un importante
fattore di aggravamento di problemi legati all’umore del bambino,
soprattutto in presenza di un Funzionamento intellettivo borderline. Credo
che quest’ultimo elemento sia particolarmente importante per lo psicologo
clinico. Abbiamo già visto, nel capitolo 4, come il Funzionamento
intellettivo borderline rappresenti una condizione della quale lo psicologo
dell’età evolutiva si trova molto spesso a doversi occupare. Abbiamo anche
visto come i bisogni di questi bambini tendano a venire trascurati a causa
del fatto che i loro problemi possono non apparire subito evidenti o possono
essere sottovalutati. Se questo è vero per quei bambini che presentano
“solo” una difficoltà cognitiva, è vero a maggior ragione quando alla
difficoltà cognitiva se ne aggiunge una emozionale. Credo che molto
dipenda dall’inquadramento precoce e corretto. Infatti, dato che un bambino
con Funzionamento Intellettivo borderline non ha un disturbo mentale
propriamente detto, né può essere certificato per un sostegno scolastico,
rischia di passare per un bambino come gli altri, senza particolari bisogni e
senza particolari diritti. Può allora succedere che a scuola gli vengano
richieste prestazione in tutto e per tutto uguali a quelle dei compagni, che
lui non sia in grado di fornire queste prestazioni, ma che sia
sufficientemente intelligente e sensibile da rendersi conto di queste
difficoltà e di questa sua diversità non riconosciuta. Non bisogna poi
meravigliarsi se si crea un rischio di depressione. Un analogo discorso vale
per il Disturbo specifico dell’apprendimento, e spiega in parte la
comorbilità riscontrata tra queste categorie diagnostiche. Penso a quante
volte mi è capitato di sentire il racconto angosciato di una madre relativo a
un episodio per lei imprevisto, sorprendente e doloroso e che rappresentava
invece, per me, un triste déjà vu. A un certo punto, di solito di sera, spesso
di fronte a un quaderno con un compito particolarmente difficile, il bambino
comincia a piangere silenziosamente. La mamma chiede al figlio che cosa
stia succedendo. Il bambino risponde con una domanda, o con molte
domande tutte molto simili:
“Perché non mi riesce di leggere come fanno i miei compagni?”.
“Perché sono così più lento di loro?”.
“Perché non imparo?”.
“Perché sono tanto diverso?”.
Credo che, piuttosto che tante dotte e sterili discussioni diagnostiche sui
disturbi prevalenti, piuttosto che tante guerre, alle quali pure ho assistito, di
specialisti che passavano il loro tempo a negare la presenza di un Disturbo
specifico dell’apprendimento o a ignorare una Disabilità intellettiva per
concentrare tutte le loro attenzioni sui conflitti e sugli investimenti libidici
(e viceversa), sarebbe meglio ricordarsi dei rischi ai quali questi bambini
vanno incontro, non trascurare programmi che possano favorire il loro
inserimento scolastico o migliorare le loro prestazioni didattiche e, nello
stesso tempo, porre tanta attenzione alle emozioni e alle sofferenze che
possono manifestare.
Nella quarta e ultima categoria di fattori che possono favorire un
Disturbo depressivo troviamo i fattori psicologici, in particolare di tipo
cognitivo ed emozionale. Difficile trattarli in un capoverso di un paragrafo,
quando meriterebbero un intero trattato. Ancora più difficile distinguerli del
tutto dalla storia personale del bambino, che può essere fatta sì di eventi
esterni come un lutto o un abbandono, ma che dipende poi, profondamente,
da come questi eventi si modulano e risuonano all’interno di ciascun essere
umano. Tra questi fattori, comunque, si può contemplare, prima di tutto,
una reattività eccessiva, troppo intensa, troppo emotivamente caricata nei
confronti degli stressor ambientali. L’eccessiva reattività può determinare,
anche di fronte a problemi “oggettivamente” non molto gravi, un’angoscia
di abbandono, la sensazione di non essere più amato, un senso di colpa,
l’idea di non valere più nulla. Abbiamo visto un esempio di questo
fenomeno analizzando i sentimenti di Silvia e anche le ricadute
comportamentali di questi sentimenti quando l’amica Sabrina si è trasferita
a Modena. Un evento esterno, di solito considerato non particolarmente
drammatico (il cambio di città di un’amica), è stato rielaborato
cognitivamente e affettivamente: un’eccessiva reattività emozionale lo
trasforma in un lutto, una separazione definitiva, la prova che d’ora in
avanti nessuno potrà più essere mio amico perché io non valgo niente e non
merito di essere amato. Il modello cognitivo-comportamentale ha studiato
questi fenomeni di interazione tra eventi esterni e percezioni interne
dell’evento e le sue ricadute sui Disturbi depressivi. Lo studio è avvenuto
prima sugli adulti e ha portato alla formazione dei due grandi concetti di
“distorsione cognitiva negativa dell’interpretazione degli eventi” e di
“senso di impotenza appresa” (Seligman, 1975; Kendall, Stark e Adam,
1990). Poi si è dedicato ai bambini, evidenziando che nei soggetti a rischio
di disturbi depressivi si verifica, di frequente, una diminuzione di
rinforzamenti positivi provenienti dall’ambiente. Sembra che questo, da un
punto di vista cognitivo, sia il risultato di un’incapacità di produrre
esperienze piacevoli e di prevenire esperienze avversive. Tale risultato, a
sua volta, è responsabile di un aumento di comportamenti di fuga e di
evitamento di fronte sia a situazioni problematiche, sia a situazioni
potenzialmente positive: è inutile che inviti un mio amico a casa, tanto non
verrà e, se venisse, sicuramente non ci divertiremmo. Naturalmente, le
componenti cognitive ed emozionali che sto qui brevemente descrivendo
una dopo l’altra sono invece, nella realtà clinica, strettamente interconnesse.
Per esempio, l’incapacità di produrre esperienze piacevoli e i
comportamenti di fuga possono essere, a un tempo, causa ed effetto di
deterioramento della qualità delle relazioni interpersonali e di sentimenti di
svalutazione (non valgo niente, è chiaro che il mio amico non verrà:
nessuno si diverte con me). Svalutazione di sé e tendenza all’isolamento
sono caratteristiche ricorrenti nei bambini depressi. A queste si aggiungono,
e non di rado con queste interagiscono, la mancanza di strategie efficaci per
affrontare situazioni spiacevoli e una visione irrimediabilmente negativa del
futuro: sicuramente grigio e sicuramente immodificabile.
L’immodificabilità del futuro e, in genere, delle circostanze sfavorevoli
riconducono anche al concetto di stile di attribuzione (vedi riquadro
sottostante), già visto a proposito di tante altre patologie: questi bambini
tendono ad attribuire a cause che non possono essere cambiate i motivi dei
loro insuccessi e delle loro frustrazioni (sono sfortunato, sono antipatico, è
tutta colpa mia, non c’è niente da fare).
Tutto questo, evidentemente, è connesso anche all’autostima , che
può essere qui brevemente definita come il concetto che ciascuno di noi ha
di sé stesso, in relazione ai suoi successi, ai suoi insuccessi e anche alle sue
aspettative. Se, per esempio, un bambino desidera farsi un numero di amici
sufficiente per poter organizzare una partita di calcetto e riesce
effettivamente a diventare amico di sei o sette coetanei con i quali spesso, il
sabato, si ritrova per fare una partitella e divertirsi (qualche volta vincendo
e qualche volta perdendo), la sua autostima interpersonale sarà buona.
Questo esempio, pur nella sua banalità, illustra molti aspetti importanti
dell’autostima. Prima di tutto, che si tratta di un costrutto complesso, non
monolitico, ma formato da diverse componenti. Il bambino del nostro
esempio avrà probabilmente un’adeguata autostima interpersonale, ma
potrebbe averne una scolastica pessima. In secondo luogo, l’autostima
dipende dai risultati che riusciamo a ottenere. Se il nostro bambino non
riuscisse mai a convincere neppure un compagno ad andare a giocare con
lui, avrebbe quasi certamente una peggiore immagine di sé. Infine – e
questa è forse la cosa più importante – l’autostima dipende anche dalle
nostre aspettative. Noi potremmo vedere un bambino che, pur avendo solo
un paio di amici, ha un’adeguatissima autostima interpersonale e un altro
che ne ha sempre sette o otto a disposizione per le sue partite di calcetto, ma
che è quasi sempre scontento di sé. Come mai? Perché l’obiettivo del primo
bambino è quello di passare il sabato pomeriggio a giocare con il computer,
e due amici sono più che sufficienti. L’obiettivo del secondo, invece, non è
giocare a calcetto, ma vincere, entrare in una squadra di calcio vera, fare un
campionato, diventare un professionista. È chiaro che il tasso di
soddisfazione che riusciamo a provare per noi stessi dipende da quello che
ci chiediamo, dai nostri desideri, dalle nostre speranze. Un’insoddisfazione
continua, estesa a molte aree (interpersonale, scolastica, lavorativa,
sportiva, familiare…) e dovuta all’incapacità di raggiungere gli obiettivi
prefissati, può condurre a un Disturbo depressivo. Diversi studi mettono in
relazione una bassa autostima con una maggiore vulnerabilità di insorgenza
di disturbi depressivi e proprio per questo motivo diventa importante
promuovere una autostima positiva, soprattutto durante l’età critica
dell’adolescenza, come forma di prevenzione rispetto allo sviluppo della
depressione in età adulta (Rawana e Morgan, 2014; Steiger, Allemand,
Robins e Fend, 2014). Meno chiaro, o per lo meno lasciato ancora in dubbio
dalla ricerca, è il rapporto tra autostima e autoefficacia. L’autoefficacia può
essere definita come la percezione che abbiamo delle nostre capacità. Nel
campo specifico della depressione infantile, si è visto che l’autoefficacia
svolge un ruolo importantissimo dal punto di vista sia causale sia
terapeutico (Steca et al., 2014). I bambini che non credono di essere capaci
di fronteggiare le situazioni difficili hanno maggiori probabilità di
sviluppare un Disturbo depressivo. D’altra parte, imparare a fronteggiare
situazioni difficili, ma soprattutto modificare in questo modo la percezione
della propria abilità, migliora significativamente il tono dell’umore. Tra le
ormai infinite ricerche fiorite in questo campo, citerò quei lavori che
sembrano chiudere il cerchio dei quattro fattori predisponenti la
depressione. Abbiamo cominciato parlando dei fattori biologici, come se
questi fossero indipendenti dagli altri e immodificabili. Non è così. È stato
visto che un aumento di autoefficacia per la gestione delle situazioni
stressanti influisce positivamente sul funzionamento di alcuni
neurotrasmettitori: la sensazione di essere in grado di padroneggiare le
abilità necessarie per fronteggiare situazioni minacciose normalizza il loro
funzionamento. Questi studi hanno una rilevanza clinica enorme: non
soltanto per le indicazioni psicoterapeutiche che forniscono, ma anche
perché è stato dimostrato che la modificazione dei pensieri distorti connessi
all’autoefficacia diminuisce il rischio di ricadute future, che si hanno invece
dopo la sospensione dei farmaci quando la terapia si limita all’intervento
farmacologico (DeRubeis et al., 1990; Bandura, 2000).
pag. 56
STILE DI ATTRIBUZIONE
Un bambino ha fatto una buona interrogazione di scienze e ha preso
un buon voto. Alla fine dell’interrogazione si domanda: di chi è il
merito di quello che è successo?
Esempio ancora più significativo: un altro bambino, che oltretutto ha
un Disturbo specifico dell’apprendimento, ha fatto un cattivo compito
di aritmetica, ha ricevuto un giudizio negativo e pensa, magari non in
modo così esplicito, ma confusamente dentro di sé: di chi è la colpa di
questa ennesima figuraccia?
Le risposte che questi due bambini danno a queste domande
rappresentano i loro stili di attribuzione.
Forse il primo bambino pensa: parte del merito è stata mia; ieri mi
sono impegnato, ho studiato, ho preparato uno schema degli
argomenti principali e così ho fatto una buona interrogazione.
Forse, invece, il secondo bambino pensa: la colpa della figuraccia è
mia, che non sono portato per la matematica.
Lo stile di attribuzione è un costrutto metacognitivo (con importanti
sconfinamenti anche negli aspetti emozionali) che può essere definito
come il modo attraverso il quale noi attribuiamo il merito o la colpa
delle cose che ci accadono. Tornando all’esempio dei due bambini, il
primo potrebbe anche interpretare la causa della sua buona
interrogazione in modi diversi. Per esempio: sono stato fortunato.
Oppure: sono simpatico alla maestra. O ancora: l’argomento era
molto facile. Il secondo bambino, invece, potrebbe pensare: ieri ho
studiato poco.
Questi esempi mostrano che ci sono molti stili di attribuzione. Gli stili
di attribuzione possono essere divisi in interni (per es.: è colpa mia)
ed esterni (per es.: il compito era molto difficile). Oppure possono
essere divisi in stabili (per es.: sono nato sfortunato) e instabili (per
es.: non era la mia giornata). Ma la classificazione più importante,
perché più utile ai fini dell’intervento, è tra attribuzioni che possono
essere modificate dal soggetto e attribuzioni che sfuggono al suo
controllo. Sono attribuzioni modificabili: ieri mi sono impegnato, ho
studiato, ho preparato uno schema degli argomenti principali e così
ho fatto una buona interrogazione; oppure: ieri ho studiato poco.
Sono attribuzioni immodificabili: sono simpatico alla maestra;
l’argomento era molto facile; oppure: non sono portato per la
matematica.
Gli stili di attribuzione modificabili sono molto più adatti a portare un
bambino a impegnarsi di più nello studio o ad affrontare in modo
proficuo un percorso di cambiamento psicoterapeutico. Nel capitolo
7, per esempio, Andrea dovrebbe togliersi dalla testa si essere nato
cattivo lettore e sostituire a questa attribuzione quella molto più
costruttiva secondo la quale l’allenamento può migliorare le sue
prestazioni. Un meccanismo molto simile si può vedere nel capitolo
8, dove gran parte delle possibilità di recupero di Simona passano per
i suoi stili di attribuzione: solo quando la bambina penserà che i
successi e gli insuccessi dipendono anche da lei e dall’impegno che
metterà nel fare le cose, proverà a modificarsi. Nel capitolo 11 le
tecniche di rinforzamento, autorinforzamento e autocontrollo servono
anche a modificare gli stili di attribuzione di Lorenzo che si rende
conto che, se vuole, può imparare a controllarsi di più. Anche nella
sezione dedicata ai Disturbi dell’umore è possibile vedere il ruolo
giocato dallo stile di attribuzione: Silvia, nel presente capitolo, dovrà
cercare di modificare la sua idea di essere sfortunata e antipatica a
tutti indipendentemente da quello che fa. La maestra di Edo, nel
capitolo 24, si è resa conto che può aiutare il suo allievo mostrandogli
che, se vuole, se si impegna e li cerca, esistono modi per affrontare le
sue difficoltà e la sua tristezza.
Come abbiamo visto, ci sono però anche altri problemi che rendono
difficile pensare di poter invitare Lisa a fare i compiti. Per esempio, c’è la
mamma, dalla quale Silvia si separa con difficoltà e che sembra non avere
una gran voglia di trovarsi con altre bambine per casa. Poi c’è il problema
della sua autostima scolastica. Qui Silvia è veramente convinta di non
valere niente e, per la verità, anche le maestre non la aiutano molto in
questo. Però possiamo per lo meno parlarne. Dopo un paio di mesi Silvia si
apre molto sui suoi rapporti con la madre, anche se lo fa, naturalmente, a
modo suo, con un tono lamentoso, e con espressioni brevi, implicite, da
vittima che non ha neppure il diritto o il coraggio di parlare in modo chiaro.
La mamma le sta troppo addosso. Le sta addosso nei compiti. Passano su
quei libri e su quei quaderni interi pomeriggi e anche dopo non è mai
contenta. Non c’è un momento di pace (a meno che la mamma non dorma).
Non la mattina, quando le strilla di sbrigarsi, che è tardi e arriveranno in
ritardo a scuola. Non di pomeriggio, quando i compiti non vanno mai bene
e non finiscono mai e non c’è nemmeno il tempo per vedere un cartone
animato. Non la sera, perché bisogna sempre ripassare qualcosa che è
rimasto indietro. E per la mamma ancora non basterebbe e la vorrebbe
mandare a lezione. La mamma le sta addosso anche impedendole di andare
a scuola da sola. Poi ci sono le maestre che le dicono sempre che è lenta,
che deve impegnarsi di più, mettercela tutta e migliorare.
Tutto questo, al di là del rapporto con Lisa, mi dà lo spunto per lavorare
in molte direzioni. Per esempio, su cosa pensa Silvia delle idee della madre.
Abbiamo chiarito che la sua mamma le sta molto addosso, ma non può darsi
che anche lei si stacchi malvolentieri dalla mamma? Abbiamo chiarito che
la mamma non è mai contenta dei compiti, ma Silvia è contenta? La
mamma e le maestre pensano che Silvia sia molto lenta, ma lei non pensa
un po’ la stessa cosa? E poi prova mai a cercare di fare le cose da sola e
magari un po’ più velocemente? Quando Silvia risponde che lei non riesce a
fare i compiti da sola le insinuo il dubbio: è proprio sicura? Ha mai
provato? E, sull’andare a scuola da sola: d’accordo che la mamma non ce la
manda, ma lei ci andrebbe?
Intanto continuiamo a lavorare sull’invito di Lisa a casa. Silvia – è
passato qualche mese – ha un po’ cambiato alcune idee su di sé e sulle sue
possibilità. Cominciamo a pensare che potrebbe anche provare a invitarla.
Meglio per fare i compiti o meglio per giocare? Insieme a Silvia decidiamo
che forse la soluzione migliore sarebbe provare a invitarla per tutte e due le
cose, un giorno in cui non è previsto il rientro pomeridiano. Naturalmente
bisognerà parlarne prima con la mamma. Una possibilità sarebbe che
parlassi io, l’altra che fosse lei a parlarle. Silvia preferirebbe la prima
soluzione. Ci accordiamo che io le preparerò il terreno, anticipando alla
mamma quali sono le nostre idee, ma che poi anche lei si farà coraggio e
farà la sua parte.
Poi facciamo qualche prova. “Che cosa potresti dire a Lisa?”. Ricordo
che Silvia ha una voce flebile, che le dà un’intonazione lamentosa, come di
gattino ferito. Lavoriamo anche su questo:
“Coraggio, prova a dire: io mi chiamo Silvia”.
All’inizio è riluttante. Forse un po’ si vergogna, un po’ pensa di non
essere all’altezza, un po’ le sembra una cosa stupida. La butto in ridere, la
trasformo in un gioco. Ripeto io la frase con molte voci diverse. Cerco di
sdrammatizzare la situazione. Le faccio di nuovo ripetere la frase. La
correggo, naturalmente senza nessuna connotazione punitiva, ma anzi
sottolineando i progressi. Le chiedo di esagerare, facendo la voce grossa
come se fosse un orso, oppure provando a imitarmi. Poi passiamo, con modi
analoghi, a provare frasi di invito per Lisa. Poi cerco di chiarire quello che
mi aspetto da lei. Non certo che Lisa accetti l’invito, e ancora meno che si
divertano come pazze, se Lisa verrà. Io vorrei solo vedere Silvia che ci
prova, sarei molto contento di sapere che ci ha provato e penso che anche
lei potrebbe già essere contenta di questo. Non sembra molto convinta, ma,
se non altro, ha capito il mio punto di vista. Le chiedo anche di fare un
semplicissimo diario di questi suoi eventuali tentativi, ma non ne vuole
sapere. Dice che non ne ha voglia, che sicuramente sarà stanca e piena di
compiti e che scrivere le fa fatica.
Non è la sola difficoltà di questo periodo e di questo programma. A
volte, come già dicevo, salta una seduta. Altre volte arriva talmente stanca,
come svuotata, che è difficile tirarle fuori anche qualche parola. Cerco di
avere pazienza e di rispettare i suoi ritmi. (Riassumo molto questa storia,
per ovvie ragioni di spazio, ma è importante sapere che, nelle realtà, le cose
sono andate in modo molto più lento, tortuoso e difficile.) Però parla con la
mamma (dopo che le avevo parlato io). Invita Lisa a casa, più di una volta,
e anche Lisa invita lei. A volte fanno i compiti insieme (peccato che poi, la
sera, la mamma non sia mai contenta e le faccia rifare molte cose e, una
sera particolarmente drammatica, le strappi tutta la pagina e la faccia
ricominciare da capo). Giocano insieme. Escono a comprare il gelato sul
mare qualche sabato pomeriggio con il papà di Silvia e un sabato sera la
bambina va a dormire dall’amica e passa la domenica con lei (ma tralascio
di raccontare qui la fatica dell’intervento sulla madre per preparare questo
episodio).
Non posso però evitare di accennare almeno genericamente al fatto che
ho lavorato tanto, soprattutto all’inizio, sia col padre sia con la madre.
Insieme abbiamo discusso di alcuni atteggiamenti che potevano essere
particolarmente pericolosi per la bambina: i loro litigi in sua presenza,
prima di tutto; l’eccessiva insistenza sul carico scolastico; l’eccessiva
sottolineatura delle inadeguatezze di Silvia (da parte della madre) e delle
inadeguatezze della madre (da parte del padre); l’importanza di favorire
nella bambina ogni tentativo di distacco e di autonomia, anche nella banale
quotidianità dei compiti (ho provato, con successo parziale, a insegnare, per
esempio, alla madre ad andare a preparare il caffè mentre Silvia provava a
studiare da sola, oppure ad assegnarle qualcosa di facile da fare mentre lei
dormiva e, in sostanza, ad allontanarsi gradualmente da lei); il bisogno della
bambina di stringere qualche nuovo rapporto di amicizia e di fare qualche
esperienza gratificante, per esempio il sabato pomeriggio o la domenica
(benissimo con il padre, meglio ancora, qualche volta, con i due genitori
insieme). Ho detto che ho lavorato con i genitori soprattutto nel primo
periodo della terapia, perché poi sono riuscito ad appoggiarli a una collega
che si è occupata di loro e con la quale interagisco con una certa frequenza.
Un lavoro analogo, anche se, devo confessarlo, non sistematico come
sarebbe necessario, ho cercato di farlo con le maestre. Dopo aver
ovviamente ottenuto l’autorizzazione dei genitori, sono andato a scuola e ho
spiegato, a grandi linee, quali fossero, a mio parere, i principali problemi
della bambina e quali, di conseguenza, le sue necessità: creare occasioni per
farle fare esperienze di successo; favorire lo scambio di relazioni sociali,
anche attraverso esperienze di piccoli gruppi di compagni nei quali ognuno
potesse dare un suo contributo al raggiungimento di obiettivi comuni;
evitare l’eccessiva sottolineatura delle sue inadeguatezze, soprattutto
davanti alla classe e soprattutto per quanto riguarda la sua lentezza,
problema che la bambina sente molto e molto dolorosamente; tenere il più
possibile conto degli effetti pericolosi di un eccessivo abbassamento
dell’autostima e provare a porvi rimedio attraverso richieste equilibrate;
incoraggiare la madre a fidarsi delle possibilità della bambina e a favorire la
sua autonomia.
Sulla fiducia in sé stessa, nelle sue capacità, in particolare scolastiche,
abbiamo lavorato anche nelle sedute con Silvia. Le chiedevo spesso di
portare i quaderni. Li guardavamo e li commentavamo insieme. Non
fingevo che non ci fossero pagine brutte, giornate particolarmente nere e
nelle quali aveva scritto male e poco. In quei casi discutevamo di che cosa
era successo. Di come lei si era sentita. Di come avevano reagito le
insegnanti e di cosa avrebbe potuto fare, in situazioni future simili, per
affrontare meglio il problema di una giornata storta. Naturalmente mi
soffermavo di più sulle giornate migliori. All’inizio, per lei, era difficile
persino riconoscere queste giornate e queste pagine buone. Molte volte le
ho fatto notare che una giornata buona non è una giornata in cui tutto è
andato in modo perfetto, le maestre le hanno dato “superextraottimo” alla
fine di ogni esercizio, gli esercizi erano cento, lei li ha fatti tutti senza
nemmeno un errore e li ha scritti tutti senza nemmeno una sbavatura e li ha
svolti tutti così in fretta che ha finito per prima e così ha guadagnato cento
“superextraottimi” (di nuovo caricavo molto questi esempi, per renderli
ridicoli e farla sorridere). Le giornate buone sono quelle diverse dalle
giornate cattive. Se nelle giornate cattive va tutto storto e un giorno una
cosa va dritta, quella è una giornata buona. Se poi va dritta non per caso, ma
perché Silvia si è impegnata di più e ci ha creduto, allora quella non è una
giornata buona, ma una giornata ottima, perché impegnarsi e crederci è
ancora più importante che riuscire.
Tutto questo – l’ho già detto, ma preferisco ripetermi piuttosto che
rischiare di dar l’impressione che la psicoterapia con una bambina depressa
possa seguire un andamento lineare e segnare miglioramenti progressivi e
costanti – si svolge fra alti e bassi, ripiegamenti su di sé, momenti tristi
elaborati emotivamente nel modo peggiore, comportamenti inadeguati dei
genitori e lunghi silenzi in seduta, momenti di oppositività, sensazione che
tutto il lavoro fatto fino a quel momento sia stato inutile. Quando sono
proprio in crisi per uno di questi momenti, di solito le chiedo del suo
coniglietto bianco. Di questo ha quasi sempre voglia di raccontare. Questo
le illumina quasi sempre, almeno per un attimo, il volto. Serve, anche se
dietro rimane tanta sofferenza, a riaccendere almeno un poco la relazione.
Un altro argomento con il quale lavoro nei momenti di stallo è quello di un
centro sportivo polivalente, dove va anche Lisa, in cui non si fa un’attività
specifica e men che meno a livelli agonistici, ma si può passare dalla
pallavolo alla ginnastica artistica, senza troppe pretese, senza nessuna
aspettativa particolare e in un’atmosfera giocosa e amichevole, favorita
anche dalla presenza di insegnanti-allenatori molto giovani e pieni di
entusiasmo. Cerco, in ogni modo, di tenere alta la motivazione di Silvia a
questa esperienza perché penso che sia importante. Ascolto con particolare
interesse quello che ha da raccontarmi su questo argomento e le dico che mi
dà molta soddisfazione sapere che abbiamo trovato un posto dove va
piuttosto volentieri (è sempre prudente che non esageri, altrimenti replica
subito che non è vero e che quel posto non è affatto bello come io
sostengo).
Infine – poiché non vorrei cadere anch’io nell’atteggiamento depressivo
che sto descrivendo – mi piace parlare ancora una volta di Sabrina. Piano
piano abbiamo scoperto che Sabrina esisteva ancora, era viva, abitava a
Modena e poteva essere chiamata al telefono. Silvia ha imparato che poteva
anche scriverle, che era capace di farlo, che dipendeva da lei. Lo ha fatto.
Sabrina, naturalmente, le ha risposto. L’attesa delle sue lettere e di qualche
sua telefonata è diventata un motivo di piccole gioie. A volte mi ha portato
in seduta alcune di queste lettere di Sabrina. Altre volte, in seduta, abbiamo
scritto noi a lei. In estate si sono riviste e credo vi siano stati momenti molto
belli.
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Accenno brevemente anche al fatto, già rilevato tante volte nella storia
dei casi di questo libro, che il rinforzamento è stato qui sempre usato in
associazione al modellaggio : certo non ho chiesto a Silvia, durante la
prima seduta, di andare a dormire a casa dell’amica e passare un intero fine
settimana con lei: ci siamo avvicinati all’obiettivo gradualmente.
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Negli ultimi anni i trattamenti dei Disturbi depressivi nei bambini e negli
adolescenti sono sempre più caratterizzati da una forte integrazione fra le
teorie cognitivo-comportamentali e le teorie relative alle emozioni: stanno
infatti assumendo sempre più centralità nel lavoro clinico costrutti quali la
comprensione delle emozioni, la regolazione emotiva e l’intelligenza
emotiva (Manaresi e Paloscia, 2014). Molti trattamenti, che qui verranno
solo accennati, prevedono il coinvolgimento attivo dei genitori, data la forte
influenza rilevata dal contesto familiare nell’esordio prima e nel
mantenimento poi dei disturbi depressivi e bipolari.
Per il trattamento della depressione in età prescolare è stato sviluppato il
Parent Child Interaction Therapy-Emotion Development (PCIT-ED), che
utilizza tecniche comportamentali e terapie basate sul gioco per migliorare
la qualità della relazione genitori-figli, per promuovere la sintonizzazione
emotiva e la capacità di educare in modo efficace il bambino (Lenze,
Pautsch e Luby, 2011).
Per bambini di scuola primaria troviamo l’ACTION Treatment Program
(Stark et al., 2008; Stark, Streusand, Krumholz e Patel, 2010), ritenuto uno
degli interventi evidence-based tra i più importanti in questo campo (Weisz
e Kazdin, 2010). Il programma è costituito da venti incontri di gruppo e due
individuali della durata di circa un’ora e trenta. Un importante obiettivo che
si pone il programma è aiutare i bambini a riconoscere i problemi e trovare
adeguate strategie di problem solving per poterli affrontare. In parallelo, è
previsto un intervento con i genitori mirato ad aiutarli a riconoscere e
valorizzare gli sforzi dei bambini e a trasmettere loro la sensazione di essere
amati e apprezzati e degni di valore. Altro obiettivo è quello di migliorare il
tono affettivo dei membri della famiglia per renderlo più caldo, empatico e
meno distanziante.
Sempre per l’età della scuola primaria, assieme ai programmi di terapia
cognitivo-comportamentale per bambini sviluppati da Stark, troviamo la
Contextual Emotion-Regulation Therapy (CERT), che è un trattamento
basato sul miglioramento delle capacità di regolazione del distress e della
disforia (Kovacs e Lopez-Duran, 2012). La CERT ipotizza che
un’autoregolazione deficitaria del distress e della disforia preceda l’inizio
della depressione e si pone dunque l’obiettivo di modulare la risposta al
distress in modo da ridurre la possibilità di scivolare in uno stato
depressivo.
La Mindfulness-Based Cognitive Therapy per bambini (MBCT-C) è una
psicoterapia di gruppo che aumenta la consapevolezza dei bambini rispetto
a pensieri, sensazioni ed emozioni che si sperimentano nel momento
presente, e che non andrebbero giudicate o evitate ma semplicemente
accettate per quelle che sono (Lee, Semple, Dinelia e Miller, 2008; Semple,
Lee, Rosa e Miller, 2010).
Per il trattamento delle forme lievi e lievi-moderate di depressione
maggiore negli adolescenti si utilizzano: una forma di terapia cognitivo-
comportamentale che è un adattamento della terapia cognitiva di Beck
sviluppata per gli adulti (Brent e Poling, 1997); la terapia di gruppo
Adolescent Coping with Depression (CWD-A) (Kahn e Kehle, 1990); la
terapia interpersonale per adolescenti (IPT-A) particolarmente efficace con i
pazienti più gravi che presentano depressione in comorbilità con l’ansia; la
Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) che aiuta a sviluppare uno
stato cognitivo di consapevolezza per affrontare gli eventi stressanti fisici
ed emotivi quotidiani (Biegel, 2005).
PROGNOSI
Nonostante l’enorme difficoltà di studi di questo genere, la ricerca converge
attualmente sull’idea che un Disturbo depressivo durante l’infanzia aumenta
in modo significativo la probabilità dell’insorgenza di una depressione in
età adulta. Questo, tuttavia, non sembra valere se nella storia del bambino è
presente un solo Episodio depressivo. Il DSM-5 elenca tra i fattori di rischio
che comportano una prognosi peggiore per il Disturbo depressivo i fattori
temperamentali, ambientali e genetici, mentre nel Disturbo bipolare i fattori
genetici e fisiologici sembrano essere prevalenti con un aumento del rischio
medio di insorgenza maggiore di 10 volte tra parenti di individui con
Disturbo bipolare I e Disturbo bipolare II. Per quanto riguarda i Disturbi
depressivi in età evolutiva, vengono riportati tassi di recidiva del 40% dopo
un primo episodio depressivo (Birmaher et al., 2004); circa il 50% rimane
clinicamente depresso a 12 mesi e tra il 20-40% a 24 mesi, con molti di
questi pazienti che presenteranno depressione in età adulta (Kessler et al.,
2005).
Per quanto riguarda invece i Disturbi bipolari, la prognosi è molto legata
alla presenza di disturbi in comorbilità, alla gravità del quadro clinico e alla
risposta al trattamento farmacologico. Generalmente il Disturbo ciclotimico
ha un decorso migliore del Disturbo bipolare e, tra questi ultimi, il Disturbo
bipolare I presenta migliori esiti rispetto al Disturbo bipolare II (Manaresi e
Paloscia, 2014). Non è difficile rendersi conto di come, da questi studi,
emerga tutta l’importanza di un lavoro preventivo durante l’infanzia, che
probabilmente andrebbe attuato con la stretta collaborazione delle scuole,
per esempio attraverso programmi di Educazione Razionale Emotiva sui
bambini e di consulenza ai genitori.
I fattori prognostici più favorevoli, nel caso di un Disturbo depressivo in
età evolutiva, sono un alto livello di autostima; una buona abilità
nell’affrontare le situazioni potenzialmente stressanti; buoni risultati
scolastici; interessi esterni gratificanti; relazioni buone e significative con i
coetanei. Queste affermazioni possono apparire banali, o anche
autocontraddittorie. Si potrebbe, infatti, obiettare: è ovvio che se un
bambino ha, per esempio, buone occasioni di divertirsi fuori casa e con gli
amici avrà, a parità di altre condizioni, una prognosi migliore per futuri
Disturbi depressivi. Oppure, si potrebbe obiettare che un bambino con tutte
queste caratteristiche non può neppure essere considerato un bambino
depresso. Tuttavia, tali osservazioni sono importanti sia a livello terapeutico
sia, di nuovo, preventivo. Purtroppo un Episodio depressivo può colpire
chiunque, tanto che si afferma, a volte, che la depressione è il raffreddore
della psicopatologia (Seligman, 1975). Una volta però che un bambino
abbia avuto un Episodio depressivo, questi dati ci indicano che, se
riusciamo a lavorare su di lui per migliorare le interazioni sociali,
l’autostima, le abilità di coping e il rendimento scolastico (per fare solo
alcuni esempi), abbassiamo la probabilità di una recidiva e, di conseguenza,
dello sviluppo di una depressione in età adulta (Stark, 1995; Fabrizi, 2001).
Purtroppo nelle forme depressive gravi, dove nessuno degli elementi
prognosticamente favorevoli è presente, il rischio di ricaduta in un nuovo
Episodio depressivo arriva fino al 60%. Inoltre, è stato descritto il
fenomeno secondo il quale anche quando non ci sono ricadute vere e
proprie, un Disturbo depressivo non trattato in età evolutiva porta spesso al
rischio a lungo termine di malfunzionamenti nelle aree sociali e
interpersonali e un senso di insoddisfazione nei confronti della vita.
1 Inutile dire che si tratta di un grave errore. Una frase di questo genere, così importante e così
carica di emozioni, avrebbe sicuramente meritato ben altro trattamento. Certamente non il silenzio,
né l’imbarazzo o addirittura la paura con la quale invece è stata accolta.
2 Vedi capitolo 15, nota 2.
3 Sembra lo stesso atteggiamento che la bambina ha mostrato anche nei confronti di un possibile
cambio di scuola: come se pensasse che tanto è tutto inutile.
4 La citazione è tratta dal Glossario dei termini tecnici (American Psychiatric Association, 2014, p.
965).
5 Nell’ICD-10 si parla di Sindromi affettive; in questa categoria rientrano: l’Episodio maniacale, le
Sindromi affettive bipolari, gli Episodi depressivi, le Sindromi depressive ricorrenti, le Sindromi
affettive persistenti, le Altre sindromi affettive e, infine, le Sindromi affettive non specificate.
6 I criteri diagnostici proposti nell’ICD-10 per l’Episodio depressivo, contengono 10 item, diversi
dagli item del DSM-5 (il calo dell’autostima è separato dai sentimenti di colpa inappropriati). L’ICD-
10 fornisce set di criteri separati per ogni livello di gravità di un Episodio depressivo maggiore.
Inoltre, per poter fare diagnosi di Episodio depressivo maggiore, secondo l’ICD-10 è richiesto che vi
siano almeno 2 dei seguenti sintomi: umore depresso, perdita di interesse e ridotta energia (per gli
episodi depressivi lievi e moderati) e tutti e 3 per gli Episodi depressivi gravi.
7 Oltre alle differenze nella definizione dell’Episodio depressivo maggiore, i criteri diagnostici
presenti nell’ICD-10, prevedono una diversa soglia per definire quando il disturbo si caratterizza
come episodio singolo rispetto a 2 episodi ricorrenti separati. In base all’ICD-10 è necessario che vi
sia un periodo di almeno 2 mesi libero da sintomi significativi di alterazione dell’umore tra gli
episodi, mentre nel DSM-5 è richiesto un intervallo di almeno 2 mesi consecutivi durante il quale
non risultino soddisfatti i criteri per un Episodio depressivo maggiore.
8 Vedi capitolo 11.
9 Vedi capitolo 12.
10 Vedi capitoli 14, 15, 16 e 17
11 Vedi capitolo 16.
12 Vedi capitolo 16.
13 Vedi capitolo 26.
14 Il CDI è un questionario per la misurazione della depressione in età evolutiva. Il paziente deve
scegliere, tra alcune semplici affermazioni, quella che meglio descrive i suoi sentimenti attuali. Per
esempio: “Io mi sento triste / Molte volte sono triste / Io sono sempre triste”; oppure: “Tutte le cose
spiacevoli accadono per colpa mia / Molte cose spiacevoli accadono per colpa mia / Le cose
spiacevoli di solito non accadono per colpa mia”. Il punteggio finale ottenuto sommando i singoli
punteggi di ogni domanda viene confrontato con i dati normativi e fornisce un indicatore della
depressione del bambino o dell’adolescente.
15 Il TAD è un questionario per la misurazione di questi due fattori emotivi in soggetti di età
compresa tra i sei e i diciannove anni. Il paziente deve rispondere “vero” o “falso” ad alcune semplici
informazioni come “Ho paura di perdere le mie amicizie”, oppure “Non ho voglia di mangiare”. Il
punteggio finale ottenuto sommando i singoli punteggi di ogni domanda viene confrontato con i dati
normativi e fornisce un indicatore dell’ansia e della depressione. Un aspetto particolare di questo
strumento è che tiene conto del fatto che non sempre il bambino è in grado di rendersi conto e
autovalutare in modo attendibile certi suoi stati d’animo e che, spesso, reazioni emotive particolari si
verificano di più in alcune circostanze ambientali che in altre. Per questo motivo, Il TAD prevede
anche un questionario per i genitori, con affermazioni del tipo “Lamenta spesso dei malesseri”,
oppure “Ha un buon carattere”, e uno per gli insegnanti, con affermazioni del tipo “Appare spesso
stanco e svogliato”, oppure “Si demoralizza facilmente”.
16 Vedi capitolo 14.
17 Vedi capitolo 13.
Capitolo 24
LA STORIA DI EDO
La mamma di Edo si è separata 15 mesi fa e il padre ha una convivente, di
sicuro già sua amante da molto tempo prima della separazione. Adesso in
casa ci sono un sacco di problemi, prima di tutto economici, perché l’ex
marito non passa mai alla signora la cifra stabilita nei modi stabiliti: quando
ritarda nei pagamenti, quando dice che è stato un mese difficile e decide di
ridurre la quota, quando trova un pretesto per una litigata furiosa e si rende
irreperibile per settimane. La madre ha dovuto accettare il primo lavoro che
ha trovato: un lavoro che la costringe a orari pesanti e imprevedibili. A volte
si sveglia alle cinque del mattino e rincasa per l’ora di pranzo; altre volte è
fuori tutto il pomeriggio. “La conseguenza è che Edoardo, invece di perdere
solo il padre (che non vede quasi mai), ha perso anche la madre”, mi dice la
signora durante il nostro primo colloquio.
La signora ha l’aria stanca, sciupata, di chi sembra aver rinunciato a
lottare.
Mi dice che Edo non ha accettato la separazione dei genitori. Può
succedere che abbia vere e proprie crisi di disperazione; oppure che
manifesti la sua rabbia e la sua tristezza con coliche d’aria, due ricoveri
ospedalieri per malesseri acuti non meglio definiti e poi risoltisi in nulla, un
episodio di enuresi a scuola, un periodo di qualche settimana, lo scorso anno,
di rifiuto della scuola.
Frequenta la quinta classe della scuola primaria e le maestre lo vedono
peggiorato.
“Era un ragazzino proprio in gamba. Me lo dicevano sempre. Era la mia
più grande soddisfazione”.
La mamma fa un cenno al fatto che le sembrava ci fosse qualcosa di
miracoloso nella diligenza e nel rendimento scolastico di Edoardo. Il fratello
maggiore, ora ultraventenne, era sempre stato un disastro, aveva smesso
presto di studiare e aveva scelto di fare il marinaio. Il padre, camionista, non
ricorda di averlo mai visto con un libro in mano. A lei, forse, studiare
sarebbe anche piaciuto, ma erano sei sorelle e certamente i suoi genitori non
si potevano permettere di mandarle a scuola oltre la fine della secondaria di
primo grado. Invece il suo Edo era interessato a tutto, faceva i compiti da
solo, preparava le interrogazioni a volte andando anche in biblioteca con
qualche suo compagno e poi si offriva volontario e prendeva sempre i voti
migliori. Adesso va a scuola svogliato, come se fosse già stanco appena si
sveglia. Talvolta, il mattino dice che ha mal di testa o mal di stomaco.
“Non credo che siano scuse, perché capita che lo dica anche la domenica
e poi se ne resta rannicchiato davanti alla televisione, ma sembra che non
guardi nemmeno quello che c’è”.
Anche a scuola le maestre dicono che spesso ha lo sguardo perso, la testa
da un’altra parte. Una delle tre maestre lo conosce fin dalla prima classe
della scuola primaria, ed è molto in gamba. Anch’io conosco piuttosto bene
la maestra perché seguo da tempo un altro bambino suo allievo. Quando le
andrò a parlare mi racconterà che è riuscita a farsi dire da Edo che cosa lo
tormenta, perché non ha più voglia di studiare, perché a volte sembra che
non sia nemmeno in classe, ma chissà dove. Edo le ha detto che pensa a suo
padre, ma la maestra non è stata capace di andare oltre e ora non sa come
aiutarlo.
Chiedo alla madre se Edo vede suo padre, se lo cerca, se almeno si
sentono per telefono, come sono i suoi rapporti con lui. Devo precisare che
questo primo colloquio non segue un andamento molto standard. Forse
ciò deriva dal fatto che, fin dalle prime parole della madre, dopo le mosse di
apertura e durante la libera esposizione del suo punto di vista, credo di aver
già capito gli aspetti essenziali della questione. Questo non è un modo molto
rigoroso di procedere, ma forse sono almeno parzialmente giustificato dal
fatto che mi sono capitati nella mia vita professionale moltissimi casi simili a
questo e così faccio ricorso alla mia esperienza precedente e mi permetto di
condurre il colloquio in modo un po’ più libero. Naturalmente dovrei, per lo
meno, essere pronto a cambiare direzione e strategia appena mi accorgessi
che le cose sono diverse dalle mie prime ipotesi. Chiedo dunque alla signora
se e come il bambino vede suo padre.
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“Io invece quella volta lì ho pianto tanto, non dormivo, ero in crisi, mi
venivano le vampate, davo i colpi al pavimento, avrei voluto spaccare gli
oggetti, farmi male e finire anche all’ospedale. Una volta ci sono finito
davvero, perché mi sono sentito male. Una volta ho anche picchiato la
mamma perché il babbo mi aveva detto che era stata colpa sua se si erano
lasciati”.
Spesso mi sembra di avere a che fare con un bambino molto più grande
dei suoi dieci anni e mezzo.
“Andava tutto così bene quando il babbo era lì con noi. A casa, mentre si
mangiava, scherzavamo…”.
“A volte, quando sono a tavola, mi sembra ancora adesso di vederlo
lì…”.
Mi parla ancora del fratello, così lontano. Mi dice che secondo lui è
scappato, perché ha messo incinta una ragazza, ma non crede che la voglia
sposare. Ora lei ha una bambina di sei mesi:
“Chissà se mi riconoscerà come suo zio, non mi vede mai…”.
Infine, sembra come farsi coraggio, sembra rendersi conto che il tempo
della seduta sta per finire, sembra quasi aver paura che potrebbe non esserci
un’altra occasione. Mi racconta del venerdì che suo padre lo accompagnò
fino a scuola. Non sono capace di rendere qui, per iscritto, l’angoscia di
questo momento. Gli disse che sarebbe venuto a riprenderlo all’uscita. Gli
disse di aspettarlo, lì davanti al cancello della scuola, perché forse avrebbe
tardato qualche minuto. Edo era così contento quel giorno. Era venerdì.
Rimaneva ancora il sabato e poi avrebbe potuto riposarsi; anche suo padre
sarebbe stato a casa e forse sarebbero andati a pescare insieme. Lui lo
aspettò, davanti al cancello della scuola. Lo aspettò a lungo. Rimase solo con
la bidella fino alle due. Poi la bidella telefonò alla mamma perché doveva
andare via. La mamma le chiese il favore di accompagnarlo a casa. Quando
Edo entrò, vide la mamma che piangeva. Il tavolo di cucina non era neppure
apparecchiato e sopra c’era solo un bigliettino.
Ciò significa che durante la terapia con Edoardo mi è capitato mille volte di
usare il rinforzamento , per esempio sottolineando con mia soddisfazione
i risultati positivi che, per lo più da solo, era riuscito a raggiungere. Ho usato
il modellaggio , che è consistito innanzitutto nell’evitare di fissare subito
obiettivi troppo difficili e perciò irrealistici. Ho usato le prescrizioni
comportamentali e i compiti graduati, che per lo più Edoardo, grazie alle
sue risorse e all’intesa che si era stabilita tra di noi, era in grado di darsi da
solo. Ho proposto a Edoardo l’auto-osservazione e ho lavorato con la
madre attraverso metodi di parent training (vedi riquadro sottostante): non
so quante volte ho discusso con lei il bisogno del bambino di gratificazioni e
di relazioni interpersonali; il fatto che molti suoi comportamenti aggressivi
fossero determinati dal suo sentirsi schiacciato da conflitti padre-madre più
grandi di lui; l’importanza che la mamma adottasse, per quanto possibile,
uno stile educativo basato su affetto e fermezza piuttosto che il contrario!
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PARENT TRAINING
In alcune forme classiche di psicoterapia del bambino, i genitori non
vengono praticamente mai coinvolti nel processo psicoterapeutico.
Tutto il lavoro si concentra sulla relazione e sull’analisi della relazione
tra lo psicologo e il bambino. Qualcosa di simile avviene in queste
forme di psicoterapia anche nei confronti degli insegnanti, che non
vengono consultati, ma lasciati ai margini del processo di
cambiamento.
L’approccio comportamentale, invece (insieme, ovviamente, a quello
sistemico relazionale), è molto sensibile alle influenze che l’ambiente
ha sul bambino. Il terapeuta comportamentale è consapevole che per
ottenere risultati significativi e generalizzabili è necessario che alcune
procedure, alcuni stimoli e alcune strategie di rinforzamento non
vengano utilizzati soltanto nel suo studio, ma anche nell’ambiente in
cui il bambino vive. È da questa sensibilità all’ambiente naturale che
nasce il parent training, una strategia di coinvolgimento dei genitori
nel processo educativo, riabilitativo e psicoterapeutico. Gli obiettivi
fondamentali del parent training sono cinque:
1. imparare a comprendere e a circoscrivere il problema del figlio;
2. imparare che il problema può essere affrontato;
3. imparare che ci sono strategie più adeguate di altre per affrontarlo,
conoscere queste strategie, scegliere le migliori e metterle alla prova
(come si può vedere nel lavoro con i genitori di Andrea nel capitolo
7);
4. modificare l’atteggiamento verso il problema del figlio, acquisendo
la consapevolezza che le cose, entro certi limiti, possono essere
cambiate;
5. trasformare il senso di colpa (sempre in agguato tra i genitori di
bambini difficili, e spesso di origine tristemente iatrogena) in
consapevolezza che gli eventuali errori del passato possono servire
per comportarsi in modo più corretto in futuro, come si può vedere
nel lavoro con la mamma di Silvia nel capitolo 23.
Il parent training non si limita agli interventi comportamentali nei
confronti dei genitori, ma prevede anche un lavoro sugli aspetti
cognitivi (legati, per esempio, al loro senso di autoefficacia e ai loro
stili di attribuzione), e su quelli emozionali (come si può vedere nel
lavoro con la mamma di Simona nel capitolo 8 oppure, quando, nel
capitolo 11, un approccio razionale emotivo ha cambiato alcuni
convincimenti del papà e della mamma di Lorenzo sul fatto, per
esempio, di dover essere genitori perfetti). Quando il lavoro
sull’ambiente del bambino, dalla situazione familiare si estende a
quella scolastica attraverso l’applicazione di strategie psicoeducative
sempre di matrice cognitivo-comportamentale, prende il nome di
teacher training (Celi e Fontana, 2007).
RELAZIONE DI AIUTO
(o approccio rogersiano, o terapia centrata sul cliente)
Nel presente capitolo è descritta in modo piuttosto dettagliato una
relazione di aiuto con Edo, bambino con Disturbo depressivo
persistente. Una caratteristica interessante di questi interventi è che
possono dare l’impressione di non servirsi di tecniche terapeutiche
specifiche. Si può pensare, per esempio, che uno psicoanalista
interpreterà i sogni di un paziente oppure, se il paziente è un bambino,
interpreterà i suoi disegni e i suoi giochi in modo da far emergere
materiale rimosso. Si può pensare che un comportamentista rinforzerà
le risposte corrette del suo paziente. Naturalmente nella pratica clinica
le cose non sono mai così schematiche, ma, in linea generale, si ritiene
che a un approccio teorico corrisponda l’utilizzo di tecniche specifiche.
Nei metodi basati sulla relazione di aiuto si può, invece, avere
l’impressione opposta: che il terapeuta proceda senza servirsi di
strumenti predeterminati, ma come navigando a vista.
Si tratta di un’impressione falsa, che coglie tuttavia un aspetto
essenziale di questo approccio: la precedenza data agli aspetti
relazionali. È come se il terapeuta dicesse a sé stesso: prima di tutto mi
sta a cuore il paziente in quanto persona, unica e diversa da tutte le
altre, e mi interessa entrare in sintonia con lui, poi si vedrà.
La relazione di aiuto è una metodologia di intervento che tende a dare
la precedenza alla costruzione di un particolare rapporto con il
paziente, detto “empatico”: cioè orientato a mettersi nei panni
dell’altro, a comprenderlo, in qualche modo a soffrire con lui. Ma non
è vero che così non si seguano regole e non si utilizzino strumenti. In
realtà questo approccio, detto anche rogersiano dal nome del suo
fondatore (Carl Rogers), o terapia centrata sul cliente, ha degli
obiettivi precisi e si serve di metodi specifici per raggiungerli. Gli
obiettivi principali di una relazione di aiuto sono tre. Il paziente:
1. dovrebbe imparare a guardarsi dentro;
2. dovrebbe imparare a comprendersi;
3. dovrebbe partire da questa comprensione di sé per agire nel modo
migliore.
I metodi principali che lo psicoterapeueta può mettere in atto sono
quattro, come di nuovo si può vedere nel presente capitolo:
1. prestare attenzione al paziente;
2. rispondere a ciò che il paziente dice, ma anche alle emozioni
sottostanti;
3. personalizzare queste risposte in modo da produrre una
comprensione empatica;
4. avviare il paziente al suo percorso di cambiamento.
Il lavoro fatto con Edo nel presente capitolo non è l’unico esempio di
relazione di aiuto che è possibile trovare nel testo. Al contrario, molte
interazioni terapeutiche, anche quando utilizzano esplicitamente
tecniche cognitivo-comportamentali di intervento, sono improntate ai
principi della relazione di aiuto, come si può vedere nel capitolo 14 nei
primi approcci tra il terapeuta e Chicco; o nell’interpretazione dei
comportamenti problematici di Eleonora nel capitolo 15; o nella
gestione di un compito graduato quando Silvia, nel capitolo 23, prova
a telefonare a Modena all’amica Sabrina.
Anche nei colloqui con i genitori è possibile vedere come l’attenzione
al rapporto sia spesso in primo piano (come nel caso della mamma di
Marco nel capitolo 1) fino, a volte, anche a stravolgere le consuete
modalità di raccolta dei dati.
Questi esempi dovrebbero servire anche a mostrare come non sia
sempre necessario interpretare le metodologie della relazione di aiuto
come tecniche a sé stanti, né, tanto meno, come modalità di intervento
che, per la loro non direttività, sono incompatibili con l’approccio
cognitivo-comportamentale. In realtà, ci sono modi di interpretare
l’approccio cognitivo-comportamentale particolarmente attenti alla
relazione nei quali l’integrazione con forme di terapia centrata sul
cliente può essere molto fruttuosa.
Dicevo che ci sono, in Edo, due emozioni ricorrenti, che sembrano fare da
sfondo a tutta la sua vita attuale e darle quel colore triste che accompagna le
sue giornate: la solitudine e il rimpianto.
La solitudine ha molte facce. Edo è solo, prima di tutto, perché ha perduto
suo padre. Poi è solo, perché anche sua madre non è più quella di prima:
lavora, e questo la porta spesso lontana da casa e da lui; e poi, neppure come
disponibilità personale è più la mamma a cui era abituato o che per lo meno
ora ricorda: è nervosa, preoccupata, distante e, come se non bastasse, Edo sa
benissimo che, sia pure senza volere, lui è in parte responsabile di questo,
con i suoi scoppi di collera, con i suoi cali di rendimento scolastico, con le
sue crisi di pianto. Infine, è più solo anche in classe, con i suoi amici che non
ha più voglia di frequentare, e persino con le sue maestre rischierebbe di
restare isolato perché capita, purtroppo, a tutti, a meno che non stiamo molto
attenti e non impariamo a guardarci dentro e a non rispondere in modo
troppo impulsivo alle nostre emozioni, di allontanarci un po’ da chi non ci dà
più le soddisfazioni di una volta. Edoardo, certo, in questo ultimo anno, non
ha più dato alle maestre (come alla mamma, come agli amici) le
soddisfazioni di una volta: meno male che in questo caso specifico le
maestre sono in gamba, hanno capito e cercano di stargli vicino.
Il rimpianto è il risultato di tutte queste nuove solitudini. Edo mi racconta
di quando era piccolo, e la domenica, in estate, qualche volta andavano al
mare tutti insieme, il papà, la mamma e il fratello grande. Ricorda ancora
che aveva un costumino giallo e si domanda che fine avrà fatto quel
costumino, ma io penso che si stia domandando dove sono andati a finire
tutti quei giorni sereni. Penso anche che molti di questi ricordi, come quasi
sempre succede, siano colorati da una luce idealizzata e un po’ irrealistica,
perché la mamma mi ha detto più volte che la loro vita familiare non è mai
stata molto serena, che il padre era a volte violento e spesso assente, ma
certo adesso va peggio e il meccanismo del rimpianto funziona proprio così:
seleziona le parti migliori del passato, le confronta con il grigio dell’oggi e
fa da anticamera alla depressione.
Un approccio terapeutico centrato sulla relazione di aiuto consiste
proprio, prima di tutto e forse principalmente, nel far emergere questo
insieme di emozioni. Non è facile per un bambino raccontare certi
sentimenti. Forse, ancora più in profondità, non è facile neppure rendersi
conto di averli.
Il primo passo per il terapeuta consiste dunque nel mettersi lì, sereno per
quanto è possibile, e prestare attenzione alle parole del bambino che ha di
fronte. Questo rappresenta l’embrione dell’empatia. Io sono qui. Sono qui
per ascoltarti, qualunque cosa tu abbia voglia di dire. Quello che mi racconti
mi interessa ed è per questo che resto molto in silenzio e ti guardo negli
occhi e ti dò (quasi: cerchiamo di evitare di cadere noi per primi nei pensieri
irrazionali del terapeuta perfetto) tutta la mia attenzione e (quasi) nulla di
quello che dirai mi scandalizza, mi fa schifo, suscita in me critiche violente o
giudizi negativi che possano bloccare il tuo desiderio di parlare con me, di
raccontarmi le tue storie, i tuoi pensieri, le tue emozioni. Questo
atteggiamento farà raccontare al bambino più cose di quanto lui stesso
avrebbe mai pensato e previsto.
pag. 328
Parlavamo della madre che perde la pazienza per nulla e lo sgrida per tutto.
Edo riusciva a rendersi conto che ciò avveniva, in parte, anche a causa sua.
Capiva che avrebbe potuto essere più ubbidiente perché a volte, quando fa
così, merita di essere sgridato. Ha imparato anche a dirmi che stava male per
questo, che si sentiva la colpa addosso e forse alla fine reagiva contro la
madre per non pensare.
Abbiamo parlato ancora del padre: di quando fece la Prima Comunione e
lui non comparve nemmeno un momento, nemmeno in chiesa, nemmeno per
un saluto. È riuscito a dirmi non soltanto come si era sentito in quella
giornata tristissima, ma anche come si sentiva certe volte, quando avrebbe
voluto dirgli che cosa pensava di lui. Quando avrebbe voluto dirgli in faccia
che era uno stronzo e che lui il sabato e la domenica a casa sua e della Mirka
non ci voleva più andare. Abbiamo scoperto insieme che, a volte, ne
combinava una delle sue e poi si chiudeva in camera da solo perché avrebbe
voluto dire certe cose a suo padre (e anche a sua madre) e non ci riusciva.
Abbiamo scoperto insieme come questo lo facesse sentire schiacciato.
Abbiamo lavorato anche su qualche minima abilità assertiva e di
comunicazione, per lo meno nei confronti della madre, alla quale sentiva di
poter trovare il coraggio di dire certe cose.
Abbiamo parlato del fratello lontano, e della nipotina che avrebbe tanto
voluto vedere. Abbiamo cercato, per la verità senza trovarne, soluzioni
anche a questo problema.
E poi abbiamo parlato della scuola, delle note di comportamento che gli
affibbiavano, di che cosa gli succedeva dentro quando non riusciva più a
controllarsi e di come reagiva poi a casa, spesso disperandosi e chiudendosi
in camera. In quel caso siamo riusciti a trovare insieme qualcosa di diverso
da fare, dopo aver compreso i meccanismi che lo portavano a sentirsi così.
Siamo, in sostanza, riusciti a iniziare un percorso di cambiamento.
Non parlavamo soltanto durante la seduta. Parlavamo anche a distanza,
attraverso un semplice diario che avevamo chiamato “dei fatti brutti e belli”,
che lui teneva e sul quale mi raccontava ciò che gli succedeva e ciò che
provava.
Spesso veniva in seduta con le figurine dei Pokemon. Aveva voglia di
giocare con me. Poteva essere un modo per non affrontare argomenti di cui
si vergognava o che erano troppo dolorosi. Oppure poteva essere un bisogno
di consolidare la relazione, di fare insieme a me proprio quelle cose che gli
piacevano di più. Cercavo di fargli notare queste diverse possibilità. Ne
parlavamo insieme.
Altre volte riusciva a portarmi, come un regalo, una bella notizia, una
giornata serena, spensierata, forse persino felice, come la gita scolastica al
Museo Egizio di Torino, dove si era comportato bene e divertito tanto e
aveva assaporato con gli amici una gioia antica di stare insieme che non
provava da tempo. Cercavo di ricambiare, come potevo, questi regali.
Durante una seduta particolarmente profonda mi ha raccontato –
l’impressione per me è stata quasi che mi confessasse – il desiderio che a
volte lo prendeva, e per il quale poi si vergognava e si dava dello stupido,
che la mamma e Mirka diventassero amiche. Abbiamo lavorato a lungo su
ciò che questo poteva significare, sui suoi dubbi, sui suoi bisogni inespressi.
Capitolo 26
pag. 49
Nel corridoio Matteo incontra il padre, chiacchierano un po’ tra loro, con un
atteggiamento complice, e poi il padre mi dice che vorrebbe dirmi due
parole. Ho qualche minuto. Propongo al bambino di fare un’altra partita al
flipper elettronico con la tirocinante e ricevo il papà in uno studio libero.
Il papà ha voglia di scambiare le sue impressioni rispetto ai primi due
colloqui con il figlio. Mi spiega che ha visto il bambino uscire proprio
contento dai nostri incontri e che Matteo gli ha detto che sono uno con cui
si può parlare e raccontare di tutto. Per chiarire meglio le sue impressioni
mi racconta che a casa mi chiamano “Fabio” anziché “dott. Celi”, e subito
si scusa per questa apparente mancanza di rispetto sulla quale io
ovviamente sorrido; dice che mi chiamano per nome perché è Matteo a
chiamarmi così e poi perché a loro non piace sottolineare il fatto che Matteo
vada dallo psicologo. Invece, mi racconta che qualche sera fa erano a cena
con amici e Matteo ha parlato di me e uno di loro ha chiesto chi fosse
questo “Fabio”. Il bimbo, senza esitazione e con orgoglio, ha risposto: “È il
mio psicologo!”.
Ovviamente tutti questi feedback mi fanno piacere, ma la cosa che
sembra più rilevante e prognosticamente favorevole è sapere dal padre di
Matteo che nell’ultima settimana ha cercato di parlare di più con il figlio, e
sebbene ritenga di essere ancora all’inizio, gli pare che questo per loro sia
molto positivo e spera di poter continuare su questa strada.
Mi mostro molto contento e gli confermo che penso anch’io che questo
possa essere un bene per loro. Colgo così l’occasione per proporgli una
seduta a tre insieme al figlio. Lo diciamo anche a Matteo e tutti e due
accettano volentieri l’idea.
Prima di tutto, subito dopo queste riflessioni chiamo il padre nel tentativo di
riprendere in mano la situazione e recuperare gli errori commessi. Discuto
con lui della seduta, del bisogno di Matteo di vedere nel padre, con il quale
ha un legame così stretto e così importante, le emozioni in qualche modo
espresse per potersi permettere di esprimerle a sua volta. Rispetto al
“parlare del nonno” è stato interessante vedere che avevano idee
contrastanti: il padre diceva che parlavano del nonno e Matteo diceva che
non parlavano mai del nonno. Gli faccio notare che entrambi avevano
ragione perché ognuno di loro interpretava il “parlare del nonno” in modo
diverso.
Era evidente che per Matteo parlare di “indennità”, cioè di una questione
legale, freddamente burocratica, non era “parlare del nonno”: lui aveva
bisogno di altro. Il padre di Matteo mi dice che comprende questa esigenza
e che anche se hanno avuto due modi diversi di esprimere le loro emozioni,
pensa che si tratti di emozioni in fondo molto simili.
Poi incontro di nuovo Matteo assieme al padre, la settimana dopo, e
dedico l’intera seduta a cercare di recuperare ciò che sentivo che avevamo
perso.
Lascio al bambino tutto lo spazio di cui credo abbia bisogno per parlare
di quello che vuole e intanto io gli dico con chiarezza che penso di aver
fatto un sacco di pasticci e di errori nel nostro incontro precedente. Gli
chiedo se è d’accordo, se se ne era accorto.
“Ti sei scordato della Juventus!”, mi dice con quei suoi occhi che ridono.
È vero. La volta scorsa mi ero dimenticato che gli avevo promesso che
avremmo parlato della partita che andavo a vedere a Parma, anche se
sapevo che a lui questo stava molto a cuore.
Gli confesso che purtroppo la partita non era l’unica cosa di cui mi ero
dimenticato nel nostro precedente incontro e mentre lo dico lo guardo, per
vedere se riconosce altri miei errori.
“Il flipper!”, mi dice.
Gli sorrido e gli faccio cenno di sì con il capo. Gli chiedo poi di dirmi,
come se fosse un processo nei miei confronti, come si è sentito, cosa non gli
è piaciuto, secondo lui cosa ho sbagliato. E intanto, con molta facilità,
stiamo parlando della nostra “seduta sbagliata” e in qualche modo gli sto
chiedendo scusa, e lui mi sta dando un’altra opportunità.
Mi racconta che ultimamente è ricomparso il vomito al mattino prima di
andare a scuola e poi mi parla dell’intolleranza ai crostacei del padre, come
se le due cose fossero in qualche modo collegate.
Ha ancora voglia di aprirsi e per fortuna, questa volta, lo ascolto
attentamente.
Il padre interviene e dice:
“C’è un legame molto stretto tra me e Matteo: pensi che io ho
un’intolleranza ai crostacei che a lui piacciono molto e quando ci sono
scampi o gamberoni per cena mi chiede il permesso di mangiarli”.
Mi sembra che il chiedere il permesso al padre per mangiare i crostacei
non sia molto diverso dal bisogno di Matteo di sentirsi legittimato dal padre
a esprimere le sue emozioni.
Adesso è Matteo che ascolta attentamente il papà.
Il padre poi mi racconta che Matteo, usciti dall’ultimo incontro, gli ha
rinfacciato di aver detto di avere pianto, quando lui invece non l’ha mai
visto piangere.
Allora il padre gli spiega che lui intendeva dire che ha pianto in
ospedale, da solo, come di nascosto, quando Matteo non c’era; e così si
chiariscono su questo punto. Poi, guardando Matteo con un’aria di intesa,
mi dice che l’altro giorno ha raccontato per la prima volta a Matteo che
quando lui era piccolo e aveva solo quattro anni, gli è morta una nonna a
cui lui era molto affezionato.
Dice di non avere mai pianto per la morte della nonna, di non essere
riuscito a esprimere il suo dolore, nonostante lo avesse dentro, e per questo
è diventato balbuziente.
“E sa cosa mi ha detto Matteo?”, mi chiede il padre.
“Se il nonno ti portava dallo psicologo non diventavi balbuziente!”.
FINALMENTE INSIEME!
Raccontata così, e troncata in questo punto, più ancora che una storia a lieto
fine sembra una favola.
Invece le storie non finiscono e questa non è una favola e dunque, come
in tutte le storie vere, ci saranno, nella vita di Matteo come in quella di
ciascuno di noi, giorni di pioggia e forse anche di temporale, e momenti
bui, e lutti e tristezze e forse anche occasioni di disperazione. Nessuno
psicoterapeuta può evitare tutto questo, né questo è il compito di nessuna
psicoterapia. La speranza è che quando i momenti di tristezza verranno,
Matteo sia capace di riconoscerli, accettarli, esprimerli e, quando sarà
necessario (ma questo non vale solo per lui, ma per tutti noi), emozionarsi e
piangere.
1 Vedi capitolo 9, nota 3.
2 Uso questo aggettivo non solo nella sua accezione comune, ma anche con il significato tecnico che
gli attribuisce la teoria della Terapia Razionale Emotiva di Ellis. Ci sono pensieri, chiamati appunto
irrazionali, che fanno star male un paziente. “Devo sempre prendere solo buoni voti a scuola,
altrimenti mi sento un fallito” è un esempio di pensiero irrazionale (Di Pietro, 2013). Ma ci sono
anche pensieri che fanno star male uno psicoterapeuta: “Devo assolutamente essere un terapeuta
perfetto” è uno di questi. Credo pertanto che sia utile, talvolta, raccontare a colleghi errori e
fallimenti (io su questi temi avrei materiale per un libro di mille pagine). Non solo perché dagli errori
si può imparare qualcosa. Ma anche perché è emotivamente sano pensare che nessuno può essere un
terapeuta perfetto, ma tutti possono cercare di correggersi e migliorare.
Bibliografia
Figura 1 (vedi cap.1, pag. 8) Un disegno di Marco fatto in occasione del Natale. Si può vedere il
livello di completezza della figura umana e una generica povertà di forme e contenuti.
Figura 2 (vedi cap. 3, pag. 35) Disegno della figura umana di Michela, dal quale appare evidente il
grave ritardo della bambina.
Figura 3 (vedi cap. 5, pag. 70) Uno dei primi disegni di Maurizia. Con difficoltà, si possono scorgere
figure umane sia nella grande immagine centrale che nelle due più piccole in basso a destra. L’intero
foglio è poi riempito di forme e colori esplosivi.
Figura 4 (vedi cap. 6, pag. 101) Un disegno di Luciano, rigido e “freddo” come lui.
Figura 5 (vedi cap. 11, pag. 241) Uno dei primi disegni di Lorenzo, dove la destrutturazione è
evidente.
Figura 6 (vedi cap. 11, pag. 241) Un disegno di Lorenzo dopo i primi mesi di lavoro: ora un maggior
autocontrollo permette al bambino di disegnare figure ben riconoscibili.
Figura 7 (vedi cap. 11, pag. 241) Un disegno di Lorenzo dopo oltre un anno di terapia: molto più
controllato e ricco di particolari.
Figura 8 (vedi cap. 15, pag. 348) Il “sereno” disegno della famiglia di Eleonora.
Figura 9 (vedi cap. 24, pag. 570) Il disagio della famiglia di Edo, dove appare evidente la diversa
qualità delle relazioni tra bambino e mamma e bambino e papà.