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Psicopatologia dello sviluppo

Storie di bambini e psicoterapia


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adattamento totale e parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le
copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

La Stampa dell’opera è consentita esclusivamente per uso personale.

Acquisition Editor: Luciana Dambra


Development Editor: Chiara Daelli
Produzione: Donatella Giuliani
Redazione: Lorenza Dainese
Impaginazione e grafica di copertina: Feel Italia, Milano
Immagine di copertina: © Derek Hatfiels
Realizzazione ePub: codeMantra

ISBN 978-88-386-9385-4
Indice

Finestre di glossario
Autori
Presentazioni
Prefazione

Parte prima Disturbi dell’intelligenza


1 DISABILITÀ INTELLETTIVA LIEVE
La storia di Marco
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico
Ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo
Prognosi

2 DISABILITÀ INTELLETTIVA MODERATA


La storia di Luca
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo e prognosi

3 DISABILITÀ INTELLETTIVA GRAVE


La storia di Michela
Considerazioni teoriche
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo e prognosi

4 FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO BORDERLINE


La storia di Gabriella
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo e prognosi

Parte seconda Disturbi autistici


5 DISTURBO DELLO SPETTRO DELL’AUTISMO
La storia di Maurizia
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico
Ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo
Prognosi

6 LO “SPETTRO” AUTISTICO
La storia di Michele
Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, disarmonia
evolutiva, disturbo multisistemico dello sviluppo, autismo atipico,
autismo ad alto funzionamento
Disturbo di Asperger: il caso di Luciano
Disturbo disintegrativo dell’infanzia
Altri Disturbi pervasivi dello sviluppo e considerazioni conclusive

Parte terza Disturbi dell’apprendimento


7 DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO CON COMPROMISSIONE DELLA
LETTURA
La storia di Andrea
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico
I Bisogni Educativi Speciali
Ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo
Prognosi

8 ALTRI DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO


La storia di Simona
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


9 LA STORIA DI PATRIZIA. DA UNA DIAGNOSI DIFFICILE A UN INTERVENTO
SIGNIFICATIVO
Il primo colloquio con la mamma
Cominciamo a conoscere Patrizia
Il papà
Le sedute successive con Patrizia
Che cos’ha Patrizia? E cosa possiamo fare per lei?
Il lavoro psicoterapeutico con Patrizia
E la storia di Patrizia continua…

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


10 LA STORIA DI FERDINANDO. CHE ANGOSCIA LE LETTERINE!
Due genitori disorientati e arrabbiati
Il primo colloquio con Ferdinando
Che cos’ha Ferdinando?
Il lavoro insieme a Ferdinando e alla sua mamma (parent training)
I risultati ottenuti durante la frequenza della scuola primaria
Ferdinando diventa un ragazzino e la storia continua…

Parte quarta Disturbi del comportamento


11 DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITÀ
La storia di Lorenzo
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico
Ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico
Prognosi

12 ALTRI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO


La storia di Daniele
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


13 LA STORIA DI GIULIO. DEL SUO DISTURBO ESTERNALIZZATO E DELL’IMPEGNO
DELLA SUA MAMMA
Il primo colloquio con la mamma
Cominciamo a conoscere Giulio
Il parent training
Parent training e generalizzazione
Una seduta con Giulio
Nuovi problemi, nuovi obiettivi
Risultati, tutt’altro che definitivi

Parte quinta Disturbi d’ansia


14 DISTURBI D’ANSIA E DISTURBO D’ANSIA DI SEPARAZIONE
La storia di Chicco
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico: panoramica
sui Disturbi d’ansia
Inquadramento teorico e ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico
Prognosi

15 FOBIA SPECIFICA
La storia di Eleonora
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi

16 DISTURBO D’ANSIA SOCIALE (FOBIA SOCIALE)


La storia di Gabriele
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi

17 DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
La storia di Alberto
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi

18 MUTISMO SELETTIVO
La storia di Marta
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico e prognosi

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


19 LA STORIA DI STEFANO. “CHE NE SARÀ DELLA MIA CASA, CHE È LA PIÙ BELLA
DEL MONDO?”
Primo: non affogare insieme al paziente
Finalmente conosco Stefano: il primo colloquio con il piccolo paziente
Provo a farmi un’idea più precisa: l’approfondimento dell’assessment
con Stefano
Una prima costruzione di senso con i genitori
Che cos’ha Stefano? L’inquadramento diagnostico e la
concettualizzazione del problema
Oltre la diagnosi: il lavoro psicoterapeutico con Stefano e la sua famiglia
I primi risultati e i primi cambiamenti
La presa in carico della mamma di Stefano
Follow-up e nuovi possibili sviluppi

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


20 INTERLUDIO

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


21 LA STORIA DI ENRICO. QUANTE PAURE…
Il primo colloquio con la mamma
Il primo incontro con Enrico: quante sorprese…
Il secondo colloquio: il ritorno dalla crociera
Dalla diagnosi e dalla formulazione di un obiettivo all’intervento
psicoterapeutico
Il lavoro psicoterapeutico continua
Follow-up

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


22 JACK LO SQUARTATORE E LA PRINCIPESSA AURORA

Parte sesta Disturbi dell’umore


23 DISTURBO DEPRESSIVO
La storia di Silvia
Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico
Ricerche
Linee di intervento psicoterapeutico
Prognosi

24 DISTURBO DEPRESSIVO PERSISTENTE (DISTIMIA)


La storia di Edo
Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico
Linee di intervento psicoterapeutico

Parte settima Gli altri bambini


25 I BAMBINI CHE È DIFFICILE TROVARE SUI LIBRI

DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


26 LA (BREVE) STORIA DI MATTEO. VIVERE LE EMOZIONI
Il primo colloquio con i genitori
L’incontro con Matteo
Una psicoterapia senza aggettivi
Il secondo colloquio
Uno scambio con il padre di Matteo
Una seduta sbagliata
Imparare dai propri errori
Una seduta per recuperare
Finalmente insieme!
Le storie non finiscono…

Bibliografia
Finestre di glossario

ABC cognitivo
ACT
Abilità adattive – Autonomie personali – Autonomie sociali
Abituazione
Analisi del compito
Analisi funzionale
Apprendimento senza errori
Autoistruzione – Autocontrollo – Autorinforzamento
Autoefficacia
Auto-osservazione – Automonitoraggio
Autostima
Compiti comportamentali
Contratto educativo
Costo della risposta
Desensibilizzazione sistematica – Esposizione
Estinzione
Generalizzazione
Metacognizione
Modellaggio
Modellamento
Parent training
Prevenzione della risposta
Primo colloquio con i genitori
Problem solving
Relazione di aiuto (o approccio rogersiano, o terapia centrata sul cliente)
Rinforzamento – Token economy
Rinforzamento differenziale
Ristrutturazione cognitiva
Role playing
Stile di attribuzione
Terapia razionale emotiva (o Educazione Razionale Emotiva)
Autori

Fabio Celi
Psicologo e psicoterapeuta, Direttore dell’U.O. di Psicologia e del
Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e dell’apprendimento dell’ASL 1
di Massa e Carrara. Docente di Psicologia clinica presso la Facoltà di
Psicologia dell’Università degli Studi di Parma e nelle scuole di
specializzazione in psicoterapia (Psicologia del ciclo di vita dell’Università
degli Studi di Padova, quadriennali di Psicoterapia cognitivo-
comportamentale di Genova, Firenze, Parma e Roma, quadriennali di
psicoterapia cognitiva di Torino e Bologna) e nei master in Psicopatologia
dell’apprendimento nelle Università degli Studi di Padova e Parma.
Membro del comitato di redazione della rivista Difficoltà di apprendimento
e del comitato scientifico delle riviste Handicap grave, Autismo e disturbi
dello sviluppo, AMJR American Journal on Mental Retardation (edizione
italiana). Referee delle riviste Saggi di neuropsicologia infantile,
psicopedagogia e riabilitazione, Life span and disability e Psicologia
clinica dello sviluppo.
Autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche sui temi della psicologia e
della psicopatologia dell’età evolutiva, dell’uso delle nuove tecnologie nella
didattica e nella riabilitazione, dei progetti psicoeducativi nel contesto
scolastico.

Daniela Fontana
Psicologa e psicoterapeuta, specializzata in terapia a indirizzo costruttivista
ed evolutivo, dottore di ricerca in Psicologia dell’Educazione delle
disabilità. Cultore della materia Psicologia clinica e docente nei laboratori
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Parma.
Lavora presso l’ASL 1 di Massa e Carrara, dove si occupa di disturbi
dell’età evolutiva con particolare riferimento ai problemi legati
all’apprendimento. Autrice di libri e articoli applicativi e di ricerca relativi a
progetti psicoeducativi nel contesto scolastico.
Hanno collaborato alla revisione della terza edizione:

Federica Memo
Psicologa, specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale,
borsista presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e
dell’apprendimento dell’ASL 1 di Massa e Carrara

Sara Arrighi
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Giulia Cantareli
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Lucia Frassinato
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Valeria Giuffrida
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Giorgia Mazzacani
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Mariano Matteo Montree Musci


Laureato in Scienze e tecniche psicologiche
Studente Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive
Silvia Scarpone
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Noemi Vasetti
Laureata in Scienze e tecniche psicologiche
Studentessa Laurea magistrale in Psicobiologia e neuroscienze cognitive

Hanno collaborato alla revisione delle precedenti edizioni:


Annalisa Nova
Psicologa, Cultore della materia Psicologia clinica e docente nei laboratori
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Parma.

Daniela Sartori
Psicologa, Cultore della materia Psicologia clinica e docente nei laboratori
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Parma, borsista
presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e dell’apprendimento
dell’ASL 1 di Massa e Carrara.

Barbara Cecchinelli
Psicologa, borsista presso il Laboratorio Ausili per i disturbi cognitivi e
dell’apprendimento dell’ASL 1 di Massa e Carrara.

Laura Ozzola
Laureata in psicologia

Cecilia Toselli
Laureata in psicologia

Elena Davoli
Laureata in psicologia

Giulia Trinelli
Laureata in psicologia

Chiara Barellotti
Studentessa di psicologia
Andrea Ferrari
Studente di psicologia

Elisa Ferrari
Studentessa di psicologia

Elena Fornaciari
Studentessa di psicologia
Presentazioni

Questo è decisamente un libro tecnico. Già dal titolo promette di insegnare


la psicopatologia dell’età evolutiva e mantiene la promessa. A differenza di
altre opere del settore ha però una caratteristica: si appiccica alle dita. Non
credo che alcun lettore, a meno che non si scateni un terremoto o un’altra
catastrofe, riuscirà a lasciare a metà un capitolo. E, finito un capitolo,
inevitabilmente viene voglia di leggere il successivo.
Pochi libri di avventura, o di buona letteratura, mi hanno coinvolto
altrettanto. Mi sono domandato il perché, e non ho avuto difficoltà a darmi
non una, ma molte spiegazioni. Innanzitutto il testo propone, fin dalle prime
pagine, una inversione totale di quanto generalmente si propone nei libri
tecnici, e in particolare nei libri di psicopatologia dell’età evolutiva.
Generalmente i libri tecnici, e in particolare quelli di argomento
psicologico, partono da dotte disquisizioni sulle patologie prese in esame e
poi, eventualmente, presentano un caso a riprova di quanto affermato. Si
tratta per lo più di casi “addomesticati”, utilizzati per avallare una realtà che
sta nella esposizione e nelle opinioni dell’autore, non già nello squallore
della realtà. Sembrano quasi affermare “Non permetterò che la realtà dei
fatti contraddica la mia teoria”.
L’Autore fa esattamente il contrario, innanzitutto non parla di casi, ma di
persone. Da ogni riga traspare l’amore, la simpatia, in qualche caso anche il
fastidio e l’ansia suscitati dagli incontri. Nel riserbo della privacy, nomi e
situazioni sono di necessità un po’ camuffati, ma la sostanza dell’incontro è
decisamente trasparente nelle righe che via via scorrono sotto i nostri occhi.
La teoria, la classificazione, le tecniche di indagine scaturiscono in modo
quasi necessario, certamente consequenziale, da questi incontri.
Questa scelta di premettere la realtà dell’incontro col piccolo paziente (e
con la sua famiglia) alla descrizione dei necessari aspetti tecnici ha
stimolato coraggiose scelte redazionali. A volte le notazioni tecniche sono
poste quasi timidamente in nota, a volte frammiste al testo, ma a commento
di una situazione vera e palpitante, non già come l’oggetto centrale della
disquisizione.
Da questo modo di interpretare la materia scaturiscono alcune importanti
conseguenze e alcune avvertenze d’uso per questo libro. Allo studente che
si avvicina allo studio della disciplina, suggerisco di leggere il volume con
tutti i suoi sensi, non solo con gli occhi e con il cervello. Se si immaginano
le situazioni descritte, se ci si lascia coinvolgere come se si leggesse un
libro di avventura o di buona letteratura, si ricorda molto di più rispetto a
quando si studia in modo tradizionale. Suggerisco quindi di dare un volto
alle persone incontrate nelle pagine, di dare rumore, odori e colori agli
eventi e alle situazioni descritte, di lasciarsi commuovere, di porsi delle
domande (Che cosa farei in questo caso, quali test, quali modalità di
assessment sarebbero utili? Quale può essere la diagnosi e la prognosi per
questo caso?). Con questo coinvolgimento, con questo interesse (interesse
vuole dire essere dentro l’argomento) le capacità di memorizzazione e di
ricordo sono esaltate. Le proposte dell’autore, sia a livello nosografico, sia a
livello valutativo e terapeutico, discendono allora dal caso in modo naturale
e non forzato. Suggerisco, pertanto, di non “studiare” questo testo, se al
termine studiare si dà una valenza di scontro col testo e di fatica da
sostenere in vista del bene sommo rappresentato dalla promozione.
Suggerisco, piuttosto, di “viverlo” per imparare qualcosa di nuovo e di
interessante in relazione alla propria professione futura. Avvicinandosi con
questa modalità allo studio della psicopatologia dell’età evolutiva, si capirà
come anche alcuni apparenti dettagli possano acquistare un loro valore assai
importante. Suggerisco di non trascurare le note, spesso importantissime, e,
soprattutto, di consultare e leggere con attenzione le finestre di glossario,
che rappresentano uno tra i migliori piccoli trattati di tecniche terapeutiche
di base che mi è occorso di leggere. Per non appesantire il testo e per non
ripetersi in eccesso nella descrizione di tecniche la cui utilità si applica a
situazioni diverse, l’Autore ha deciso di estrapolare alcuni tra i più
importanti elementi di intervento e di comprensione del caso in una serie di
finestre di approfondimento.
Nel ragionamento tradizionale dello studente che studia le materie e si
scontra con libri noiosi, approfondimenti e note sono poste a puro
completamento del testo. Sono considerati elementi sommamente inutili,
“tanto certamente all’esame il Prof. non li domanda”. In questo caso non si
tratta di approfondimenti “scollati” dal testo, ma di una parte integrante del
testo. Dal momento che ho avuto il privilegio di leggere questo volume
nella versione elettronica che precede la stampa, era acuta la voglia di
“cliccare” su alcune parole chiave evidenziate, per ottenere una lettura
interattiva del testo. Ovviamente, il supporto cartaceo non consente questi
“salti”, ma il lettore farà bene a giocare col testo, leggendo e rileggendo i
rimandi quando gli servono.
Quando si frequenta un corso e si studia una materia come la
psicopatologia dello sviluppo, l’obiettivo non consiste tanto nel superare
l’esame, quanto piuttosto nell’imparare e nell’amare la materia cui ci stiamo
avvicinando. Superare l’esame è la inevitabile conseguenza dell’aver
imparato. Le lezioni del Professor Celi, il suo testo e i suoi esami non sono
fatti per sottoporre gli studenti a interrogatori e bocciare chi non sa
rispondere. Tutto lo sforzo è volto ad aiutare a mostrare e, per quanto
possibile, a vivere gli aspetti pratici e applicativi di una disciplina assai
articolata quale quella in questione. La comunicazione, scritta o orale che
sia, serve a far amare oltre che a far apprendere la materia, a condividere
esperienze, trucchi del mestiere e conoscenze fondamentali, più che a
imporre una visione della materia da apprendere a memoria pena la
bocciatura.
Probabilmente alcune delle nozioni acquisite nello studio di questa
disciplina saranno poi rivisitate in modo diverso nell’esame di psicologia
clinica, di psicologia dell’handicap, di teoria e tecnica dei test e teoria e
tecnica del colloquio. Non si tratta, però, di inutili sovrapposizioni o di
doppioni che non occorre studiare “tanto le sappiamo già”. Anch’io che,
purtroppo da molti anni, insegno alcune di queste materie ho trovato utile e
formativa la lettura del libro dell’amico Celi.
Un ultima notazione riguardo al volume e allo sforzo del suo Autore:
anni fa, quando ho avuto l’avventura di insegnare la stessa materia, ho
provato estrema difficoltà nello scegliere un testo di psicopatologia dell’età
evolutiva che non si rifacesse ad astruse quanto astratte teorie. Tutta la mia
didattica era in effetti volta a spiegare in termini operativi quanto era
confusamente e astrattamente scritto in testi di cui, io stesso che li avevo
adottati, a volte non riuscivo appieno a comprendere alcuni passaggi. Non
so bene se durante l’esame ero più imbarazzato quando uno studente
mostrava di non averli capiti o quando dimostrava di averli imparati a
memoria (“a pappagallo”, come si diceva un tempo).
Con il libro di Fabio Celi non credo si possano più correre rischi di
questo genere.

Francesco Rovetto
Professore Ordinario
Docente di Psicologia Clinica
e Psicofarmacologia
Università degli Studi di Pavia

Caro lettore, che tu sia uno studente, uno specializzando, un clinico alle
prime armi o un terapeuta “fatto”, un ricercatore o un docente universitario,
sappi che sei decisamente fortunato. Hai tra le mani un volume denso di
esperienza autentica, un volume che ricorderai e che ti lascerà vivide
immagini sensoriali, dialoghi caldi che risuonano nella mente, sensazioni
forti depositate nel tuo corpo, e se avrai voglia di lasciarle scorrere potrai
sentirle e riconoscerle come emozioni intense.
Se hai già letto qualche autorevole manuale di psicopatologia dell’età
evolutiva o di neuropsichiatria infantile, di quelli in cui ritrovi ogni area
psicopatologica perfettamente (e asetticamente) descritta in termini di
criteri diagnostici-descrittivi, epidemiologia, eziopatogenesi, decorso,
prognosi e trattamento, e dove i bambini e le loro famiglie usualmente
scompaiono dietro questa rigida impalcatura teorica e metodologica, allora
immagina che adesso quei bambini, quelle mamme e quei papà hanno avuto
dagli autori il permesso di uscire da dietro le quinte e di entrare in scena;
viene restituito loro un corpo, un volto, un’anima, e finalmente possono
cominciare a rappresentare autenticamente e talvolta drammaticamente le
loro storie.
E tu, cosa rara, potrai vederli. Ma, c’è di più: insieme a loro, dalla
polvere delle quinte, potrai vedere uscire, e stagliarsi in modo chiaro anche
un altro personaggio (il cui agire è di solito avvolto nel più grande mistero):
il clinico, con i suoi dubbi, il suo dialogo interiore, le sue reazioni emotive,
i suoi ragionamenti clinici: e ti sembrerà finalmente e miracolosamente di
capire che cosa fa concretamente un terapeuta, quali sono le sue operazioni
mentali e procedurali. All’interno di quelle storie che si dipanano così vere
e intense, la diagnosi, l’epidemiologia, l’eziopatogenesi, il decorso, la
prognosi e le modalità di trattamento, non scompaiono affatto, prendendo
anzi una forma ancora più chiara, comprensibile e umana.
Caro lettore, con te vorrei essere sincero anche riguardo al mio sentire:
durante la lettura di questo libro una parte del mio dialogo interiore (e
corrispondenti tonalità emotive che a tratti facevano capolino) rimandavano
in qualche misura a quel disdicevole sentimento che è l’invidia. Sì, perché
probabilmente questo è il libro che io avrei voluto scrivere, quello in cui la
psicopatologia dello sviluppo diventa vera e prende la forma di “storie di
bambini”, come recita appunto in modo pertinente il sottotitolo: storie vere,
palpitanti ed emozionanti.
Ma insieme a questo moto d’invidia c’era anche il piacere, all’idea di
partecipare, pur con poche righe, all’opera. Un piacere direi “doppio”, per
l’intrecciarsi in questa occasione di due storie, per me entrambe belle e
ricche. La prima è quella con Fabio Celi, con il quale ho già avuto la
fortuna di collaborare in ambito editoriale e didattico, per il quale nutro una
stima del tutto particolare e del quale sono note le doti umane e relazionali.
La seconda è quella con Daniela Fontana, che nell’apparente ruolo di
allieva, per quattro lunghi anni in realtà mi ha insegnato un sacco di cose,
con la sua curiosità, le sue critiche vibranti, i suoi mirati apprezzamenti. Nei
casi clinici da lei descritti vivo il piacere immenso di osservare una
impeccabile integrazione tra l’ottica cognitivo comportamentale classica e
la prospettiva costruttivista e interpersonale, con una viva e attenta
considerazione della qualità dei legami d’attaccamento dentro i quali i
sintomi prendono forma.
Ti accorgerai, dunque, che questo libro, partendo dai volti e dalle parole
dei bambini, traccia una panoramica davvero ampia ed esaustiva sulle
principali aree psicopatologiche, quelle cioè che costituiscono i motivi più
frequenti e importanti di consultazione in età evolutiva.
A partire dal ritardo mentale, solitamente confinato a spazi angusti e
grigi (il più triste di tutti i capitoli) negli autorevoli manuali di cui sopra, e
che qui invece prende una cinquantina di pagine appassionate e colorate
che, tra le altre cose, ti fanno cogliere in modo efficace il valore empatico e
l’utilizzo relazionale delle procedure cognitivo-comportamentali di base,
come il modellaggio e il rinforzamento. Di ciò abbiamo la più chiara
consapevolezza quando vediamo il bambino che arriva a dire al suo
terapeuta: sei diventato “mio amico”.
Già in questi primi capitoli, caro lettore, ti accorgerai quanto è piacevole
“studiare” le tecniche cognitivo-comportamentali (o magari goderti un bel
ripasso, se hai i capelli grigi) in modo induttivo a partire dal caso,
navigando per “finestre” chiare e strategicamente collocate: il
rinforzamento e la token economy, il rinforzamento differenziale, il
modellaggio, la generalizzazione, l’estinzione, l’apprendimento senza
errori, l’analisi funzionale, l’autosservazione, le autoistruzioni verbali, le
tecniche di colloquio, l’analisi del compito, il role-playing, il parent
training, e così via. La loro descrizione, così dislocata, le rende appetibili e
pronte per essere “divorate” quando servono, piuttosto che subircele con
stanchezza in una lunga elencazione sistematica come solitamente accade.
Nei capitoli successivi ti aspettano la strana danza sulla punta dei piedi e
i movimenti magici dei bambini autistici o dello “spettro” autistico, con
tutto il potenziale di preoccupazione e di dolore che sprigiona, in questi
casi, dall’universo mentale del genitore, del bambino e del terapeuta, nel
profondo rispetto per i vincoli neurobiologici ampiamente accertati in
questo ambito e per la fatica insita nelle diverse forme di intervento
psicoterapeutico-riabilitativo di cui disponiamo attualmente.
I disturbi dell’apprendimento scolastico (lettura, calcolo, espressione
scritta) rappresentano un’altra grande sfida per chi opera nell’ambito
dell’età evolutiva. Sono qui descritti con quella naturale semplicità, unita
tuttavia allo spessore e all’esperienza di chi per anni si è occupato
fattivamente e operativamente di ausili e di strumenti ipermediali per
l’apprendimento e per la riabilitazione cognitiva. Questa area di intervento,
evidenza inoltre, forse meglio di altre, l’importanza, anzi direi il carattere
essenziale, del rapporto col contesto educativo e scolastico di cui il
bambino si nutre per gran parte della sua quotidianità. Lavorare nell’età
evolutiva senza avere la capacità di implicare, coinvolgere emotivamente e
strutturare un costante lavoro di collaborazione con la scuola e con gli
insegnanti, significa lavorare astrattamente immersi in un vuoto: un po’
come curare un disturbo respiratorio (con raffinati strumenti diagnostici e
mezzi farmacologici) senza pre-occuparsi di capire se il paziente trascorre
otto ore al giorno in mezzo ai fumi di una fonderia, magari senza
mascherina. E su questo ambito sia Celi sia Fontana hanno dimostrato sul
campo di essere dei “fuoriclasse”, sia nel creare il clima emotivo giusto, sia
nel costruire un’alleanza di lavoro intensa ed empatica con gli insegnanti,
sia nel declinare le tecniche, ad esempio di token economy, nelle modalità
più stimolanti, divertenti e quindi fruibili sia per il gruppo classe che per gli
operatori scolastici.1
E a seguire, tutto il ricco e complesso repertorio dei disturbi cosiddetti
esternalizzanti (disturbo da deficit d’attenzione/iperattività, disturbi della
condotta) e internalizzanti (disturbi d’ansia e disturbi dell’umore), con una
varietà straordinaria di esemplificazioni cliniche, dove il rilievo di alcuni
importanti sbilanciamenti affettivi, insicurezze, sofferenze familiari si fa via
via più presente e pregnante, sia in termini di inquadramento diagnostico-
esplicativo sia riguardo all’organizzazione del setting clinico e della presa
in carico terapeutica; ma anche e soprattutto riguardo al posizionamento del
terapeuta in seduta, alle sue reazioni emotive e alla sua capacità di costruire
una adeguata relazione terapeutica col bambino e con la sua famiglia.
Tanto si è detto ed è stato scritto sulla cosiddetta alleanza di lavoro in
psicoterapia. Al di là delle metodologie e delle tecniche specifiche
utilizzate, l’analisi e la gestione di tale spazio relazionale costituisce una
delle variabili cruciali nella strutturazione di ogni fase dell’intervento.
Sappiamo che l’alleanza terapeutica, come componente comune ad ogni
approccio terapeutico, si nutre di alcuni elementi fondamentali: a) un
accordo preciso riguardo agli scopi; b) un accordo rispetto ai compiti
specifici; c) la creazione di un legame interpersonale costituito da
sentimenti positivi reciproci. Sui primi due punti l’ottica cognitiva e
cognitivo-comportamentale non hanno niente da imparare da altri approcci,
avendo sempre posto una grande enfasi sulla natura collaborativa del
rapporto terapeutico (empirismo collaborativo), come sollecitazione di una
fiducia di fondo nelle possibilità del trattamento e sulla chiara condivisione,
tra terapeuta e paziente, degli obiettivi da raggiungere e dei compiti
reciproci. Sul terzo punto Celi e Fontana ci insegnano come nell’ambito
dell’età evolutiva la costruzione del legame terapeutico possa prendere la
forma delicata e tenera del “diventare amici” e come “terapia” significhi
anche “interesse per gli interessi e per la vita dell’altro” (ad esempio
impegnandosi con curiosità nell’imparare a giocare a flipper prima della
seduta con quel piccolo paziente che ci offre, appunto, il linguaggio del
flipper come spazio possibile di condivisione cognitiva ed emotiva): “…
interpreto il mio mestiere, ogni volta, come l’inizio di una storia, di un
pezzo di strada da fare insieme”.
Nell’ottica cognitivo-evolutiva i processi interpersonali che si
determinano in terapia vengono considerati come uno degli elementi
centrali della cura. Tanto più nel lavoro clinico con il bambino, il cui Sé
tende in genere ad esprimersi nel setting, in forma emotivamente
immediata, attraverso schemi procedurali vivaci, talora sorprendenti o
addirittura drammatici, piuttosto che sui più pacati e maneggiabili registri
della comunicazione verbale e razionale. Questo libro ci mostra in modo
particolarmente vivido che il bambino, anche quello più compiacente o
inibito, è un paziente assai poco paziente e prevedibile, con il quale tutte le
rassicuranti regole del setting tipiche del lavoro cognitivo con il paziente
adulto, mostrano inesorabilmente i loro limiti, sollecitando costantemente
nel terapeuta risonanze emotive più o meno intense, che richiedono di
essere monitorate, comprese ed adeguatamente gestite. Parallelamente,
anche nella relazione con la coppia genitoriale, il terapeuta si trova
implicato in complesse dinamiche emozionali connotate ora da allarme e
urgenti aspettative di cura e di rassicurazione, ora intrise di sentimenti di
colpa e necessità di impellenti agiti riparativi, sentimenti di inadeguatezza,
incapacità e bisogno di conferma, rabbia e ostilità verso il mondo esterno,
compreso, talvolta, il terapeuta stesso. Per questo diventa essenziale in
primo luogo, facilitare la costruzione di un clima di condivisione emotiva e
di un rapporto collaborativo coi genitori evitando comunicazioni, anche
tacite o contestuali di carattere giudicante, svalutativo o disconfermante nei
loro confronti. Un’arte sottile che traspare lungo tutto il presente lavoro.
Questo è un ambito in cui, come sottolineano gli stessi autori, i confini
tra i diversi approcci psicoterapeutici comunciano a perdere di nettezza: “…
se il lettore avrà voglia di andare avanti con la storia di Matteo si accorgerà
che ben difficilmente il lavoro fatto con lui può essere etichettato come
cognitivo-comportamentale. In realtà, cosa abbiamo fatto insieme? … La
risposta è che non lo so. Vado oltre: la vera risposta è che sono contento di
non saperlo … il sogno è proprio quello di una psicoterapia tanto rispettosa
nei confronti del paziente e delle conoscenze teoriche e tecniche della
ricerca, quanto indifferente alle idiosincrasie e alle ossessioni delle varie
scuole. Non esiste una terapia medica ippocratica, o pasteuriana o
flemingiana. Credo che da un’analoga perdita di aggettivi, anche la
psicoterapia potrebbe avere molto da guadagnare”. Una terapia senza
aggettivi. Parole sante, mi verrebbe da dire.
Il caso di Matteo, di Stefano, ma anche quello di Enrico, sono in effetti
incentrati in modo esplicito, quanto meno in alcune fasi del processo
terapeutico, su aree emozionali critiche non adeguatamente riconosciute,
articolare e condivise dal bambino con le proprie figure di riferimento
affettivo. Un lutto, un dolore e il pianto che sul piano affettivo-motorio
dovrebbe accompagnarlo; oppure aspetti profondi di paura o di vergogna
non condivisibili con le proprie figure d’attaccamento. La teoria
dell’attaccamento, che in buona comunanza integrativa con l’approccio
cognitivista va ponendosi per l’appunto come paradigma integrativo,
significativo crocevia tra diversi approcci psicoterapeutici, attribuisce
grande rilievo a questi aspetti nella determinazione delle diverse uscite
psicopatologiche dell’età evolutiva. In questa prospettiva i sintomi sono
visti come mezzi specifici volti al mantenimento dello stato di relazione col
caregiver, a fronte di sbilanciamenti affettivi percepiti come non più
gestibili sulla scorta degli abituali meccanismi di compenso (schemi
interpersonali). Com’è noto, un’accurata conoscenza e articolazione della
propria esperienza emotiva, costruita all’interno di legami d’attaccamento
sensibili e sicuri, costituisce la base fondamentale per sviluppare
un’adeguata capacità di regolazione degli stessi stati emotivi e quindi un
sufficiente grado di benessere psicologico. In termini clinicamente assai
fruibili, potremmo dire che laddove c’è un sintomo, c’è una particolare area
emotiva scarsamente riconosciuta e articolata nel bambino, ovviamente nel
legame con una figura d’attaccamento che non ha la capacità/possibilità di
lasciarsi attraversare da tali stati. Per Matteo, ad esempio, sembra essere
rappresentata dalla profonda tristezza relativa al lutto del nonno, che in tal
modo diventa “irrisolto”; per Enrico pare che sia il sentimento di vergogna.
Così, caro lettore, potrai osservare che la relazione diventa “terapeutica”
nella misura in cui il clinico (magari supportato da una sensibile tirocinante
che sa commuoversi facendo risuonare in se stessa il dolore del piccolo
paziente) riesce a costituirsi come sponda relazionale capace di aiutare il
bambino a riconoscere e condividere stati affettivi di cui non è mai riuscito
a fare “palestra” nella propria storia di sviluppo, in quanto minaccianti lo
stato di relazione col caregiver: “non posso dirlo a papà sennò succede un
casino!”. Magari con l’ausilio di fumetti, termometri delle emozioni o di un
dinamico e attivante role-playing: quando sono chiari i fini (le strategie), di
mezzi tecnici (le tattiche) ne possiamo costruire e inventare a volontà.
Ma non è solo lui (Matteo, Enrico, Stefano …) a dover far palestra di
stati interni sconosciuti. C’è qualcuno a casa che deve gradualmente e non
senza fatica rendersi disponibile ad accoglierli e farsi attraversare da essi: se
non lo sta facendo non è certo per cattiveria o mancanza di volontà, ma
perché nel suo “dolorante” stato mentale quegli stati suonano come difficili
da comprendere, talvolta disdicevoli, oppure inquietanti o addirittura
spaventanti. È bello allora vedere i nostri terapeuti all’opera mentre si
costituiscono in seduta come sensibili e tenaci mediatori nella
comunicazione tra i piccoli pazienti e le loro figure d’attaccamento.
Questa, caro lettore, è l’ottica cognitivo-comportamentale più intrigante
che io conosca, quella che diventa calda e “profonda”, che fa tesoro di tutto
il patrimonio procedurale che la nostra tradizione scientifica e di ricerca ha
prodotto, per metterlo strategicamente al servizio della relazione e dei
legami affettivi.

Furio Lambruschi
Psicologo e Psicoterapeuta
Direttore Scuola Bolognese
di Psicoterapia Cognitiva
Prefazione

«Domando a una neolaureata in psicologia che sta facendo il tirocinio con


me:
“Conosci la WISC?”1
Mi risponde di sì.
Allora le indico la valigia che contiene il test e le chiedo di prendere un
protocollo vuoto, in modo da cominciare a impostare il lavoro prima che
arrivi il bambino al quale somministrerò il test.
Prende la valigetta, ma vedo che ha difficoltà ad aprirla.
Le chiedo se era abituata con la precedente versione, che era contenuta
in una scatola di cartone anziché in una valigia.
Mi risponde che non ha mai visto il test WISC, né in una scatola, né in
una valigia.
Perché, allora, mi ha detto che lo conosceva? Perché all’Università lo
aveva studiato. Sapeva come era stato costruito, come era stato validato, a
cosa serviva… Sapeva un sacco di cose, ma non l’aveva mai visto.
L’episodio me ne ricorda uno simile con uno studente di informatica del
quarto anno che voleva fare una tesi sulla messa a punto di un software per
la riabilitazione cognitiva di bambini con Ritardo Mentale. Gli stavo
mostrando alcuni prototipi multimediali quando lui mi chiese:
“Ma queste sarebbero le famose finestre di Windows?”
Di nuovo, aveva studiato all’Università il sistema operativo che di lì a
poco sarebbe diventato il più diffuso nel mondo, ma non lo aveva mai visto.
Questi episodi risalgono a molti anni fa e oggi le cose sono decisamente
cambiate. L’Università mostra più interesse di un tempo nei confronti delle
attività pratiche e di avvicinamento al mondo della professione, eppure mi è
capitato qualcosa di simile anche di recente. Ero in studio con un
tirocinante. È entrato un bambino che in pochi minuti ha messo a soqquadro
la stanza. Ha rovesciato per terra tutte le matite e poi, se non lo avessi
fermato, avrebbe fatto fare la stessa fine ai libri e alle riviste che tengo in
uno scaffale accanto alla scrivania.

Lo psicologo tirocinante aveva, letteralmente, gli occhi fuori dalle orbite.


Mi ha chiesto:
“Ma un bambino con un Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività si
comporta così?!”.
“Sì, capita piuttosto di frequente”. gli ho risposto “Perché mi fai questa
domanda?”.
“Perché c’è una bella differenza tra leggere una lista di sintomi su un
libro e vedere un bambino vero in azione”.
La prima edizione di Psicopatologia dello sviluppo iniziava con queste
parole che riportiamo di nuovo qui perché, inevitabilmente, anche quello
che abbiamo appena finito di scrivere è un libro, nel quale, però, abbiamo
cercato di dare vita ai bambini di cui parliamo. Abbiamo cercato di non
isolare la teoria, ma di calarla nella realtà delle storie cliniche. Ci siamo
sforzati di tenere conto di un bisogno degli studenti e dei giovani laureati in
psicologia che riteniamo fondamentale: vedere la psicopatologia dello
sviluppo e la psicoterapia dall’interno; vedere i comportamenti dei bambini,
dei loro genitori, dei loro insegnanti; vedere come lo psicologo clinico
relaziona con loro e cerca di aiutarli.
Naturalmente le storie che descriviamo nel libro sono state modificate
per rendere irriconoscibili i bambini. Moltissimi particolari di ogni caso
sono stati cambiati. Spesso, inoltre, più casi clinici sono stati descritti come
se si trattasse di un solo bambino: questo ci ha permesso di salvaguardare
ulteriormente la riservatezza dei casi e di renderli maggiormente
paradigmatici e dunque più utili da un punto di vista didattico.
L’impostazione che abbiamo dato a questo libro comporta dei limiti
evidenti. Prima di tutto, ci ha costretto a parlare solo di patologie di cui
avevamo sufficiente esperienza e così sono rimasti fuori, o trattati solo di
sfuggita, la psicopatologia dei primi anni di vita, molti disturbi tipici
dell’adolescenza, i disturbi del linguaggio, dell’alimentazione, dell’identità
di genere, da disregolazione dell’umore dirompente, bipolare e quelli
correlati a sostanze o che si presentano con caratteristiche fisiche. Inoltre, la
trattazione dei disturbi risulterà forse non sufficientemente sistematica,
inserita com’è all’interno delle storie cliniche.
Abbiamo cercato di superare in parte almeno quest’ultimo limite
inserendo all’inizio di ogni parte un sommario dove vengono riportati in
forma sintetica i disturbi che saranno trattati in quella sezione. La
denominazione e il codice di ogni disturbo sono sia quelli del DSM-5, sia
quelli dell’ICD-10, in modo da facilitare il lettore che desideri consultare
questi manuali per approfondire o sistematizzare il proprio studio. Inoltre,
ogni parte si apre con una mappa concettuale che invita il lettore a una
riflessione metacognitiva sui contenuti dei capitoli che seguiranno e si
chiude con una mappa riassuntiva dei principali concetti trattati.
I metodi di intervento psicoterapeutico sono illustrati, in linea di
massima, con un procedimento analogo a quello della descrizione delle
patologie. Viene mostrato come lo psicologo usa i suoi “ferri del mestiere”
nella pratica clinica: c’era il rischio, pertanto, di una scarsa sistematicità
della trattazione, soprattutto per quei lettori che non hanno sufficiente
dimestichezza con gli strumenti cognitivo-comportamentali. Questo è il
motivo delle finestre di glossario che spiegano brevemente il significato dei
termini tecnici più rilevanti. Le finestre di glossario sono state inserite dove
risultano più significative: per esempio dove una particolare strategia di
intervento viene usata per la soluzione di uno specifico problema clinico.
Tuttavia, ogni volta che nel testo compare uno di questi termini, è presente
un rimando alla pagina dove si trova la relativa finestra. Alcuni capitoli,
facilmente individuabili per una diversa impostazione grafica, trattano
invece specificamente di interventi psicoterapeutici: in questi casi il focus
non è sulla psicopatologia e il lettore è accompagnato passo dopo passo,
quasi seduta dopo seduta, a osservare il lavoro dello psicologo che cerca di
affrontare i problemi del suo piccolo paziente. A proposito di psicoterapia,
nella terza edizione si è cercato di dar spazio ad alcuni aspetti più innovativi
dell’approccio cognitivo-comportamentale, il così detto comportamentismo
di terza generazione, con particolare riferimento all’ACT e alla mindfulness.
Alcuni trascritti di sedute, che non potevano essere riportati sul libro per
ragioni di spazio, sono consultabili sul sito web www.ateneonline.it/celi-
fontana3e. In questo stesso sito verranno via via inseriti nuovi materiali
tratti da diversi tipi di seduta.
Dobbiamo a questo punto un ringraziamento davvero speciale a Luciana
Dambra, che ci ha spronato a intraprendere questa nuova avventura e ci ha
stimolato lungo tutto il percorso anche nei nostri momenti di maggiore
difficoltà e stanchezza durante i quali, lasciati soli, avremmo probabilmente
gettato la spugna; e a Chiara Daelli, per la pazienza e la sistematicità con la
quale ci ha seguito lungo tutto il lavoro ed evitato non sappiamo più quanti
errori.
Ci sono poi molte altre persone senza le quali non avremmo potuto
scrivere il nostro nuovo lavoro, ma non c’è bisogno di ringraziarle perché
compaiono a vario titolo nelle pagine del libro: è molto bello poter leggere
tra i collaboratori di alcuni capitoli, o anche solo di alcune revisioni, i nomi
di colleghi con i quali abbiamo condiviso e stiamo condividendo pezzi della
nostra vita professionale.
Dietro a ogni storia c’è la storia del nostro gruppo, che è stato capace di
condividere un problema e di trovare soluzioni, facendoci sentire che le
cose più belle e i risultati più significativi sono quelli che si riescono a
condividere e a costruire insieme.

Gli Autori

Nota dell’editore
L’editore ringrazia i docenti che hanno partecipato alla review e che con le
loro preziose indicazioni hanno contribuito alla realizzazione della terza
edizione di Psicolopatologia dello sviluppo. Storie di bambini e
psicoterapia:
Francesca Agostini, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna
Eleonora Cannoni, Sapienza-Università di Roma
Tito de Marinis, Università degli Studi di Salerno
Davide Dèttore, Università degli Studi di Firenze
Irene Mammarella, Università degli Studi di Padova
Pier Luigi Righetti, Università degli Studi di Roma Tre
Magali Jane Rochat, Università Cattolica del Sacro Cuore
Cristina Toso, Università degli Studi di Padova e di Trieste
Giovanni Vecchio, Università degli Studi di Padova
Claudio Vio, Università degli Studi di Padova e di Trieste
1 Vedi nota 3 capitolo 1.
Parte prima

Disturbi dell’intelligenza

Disabilità intellettiva: v. capitolo 1 per la gravità Lieve


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disabilità intellettiva con
specificazione livello di gravità Lieve (F70)
ICD-10: Livello intellettivo – Ritardo mentale – Ritardo mentale lieve
(F70)

Disabilità intellettiva: v. capitolo 2 per la gravità Moderata


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disabilità intellettiva con
specificazione livello di gravità Moderata (F71)
ICD-10: Livello intellettivo – Ritardo mentale – Ritardo mentale di media
gravità (F71)

Disabilità intellettiva: v. capitolo 3 per la gravità Grave


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disabilità intellettiva con
specificazione livello di gravità Grave (F72)
ICD-10: Livello intellettivo – Ritardo mentale – Ritardo mentale profondo
(F73)

Funzionamento intellettivo borderline: v. capitolo 4


DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Funzionamento intellettivo borderline (V62.89)
ICD-10: v. capitolo 4, nota 5
Capitolo 1

Disabilità intellettiva Lieve


Fabio Celi

LA STORIA DI MARCO
Un pomeriggio di fine gennaio venne nel mio studio una donna di circa
trent’anni, magrissima, tesa, chiaramente in difficoltà. Mi disse che da
qualche mese aveva perso il sonno, che non capiva cosa stesse succedendo
a suo figlio a scuola. Quando ormai tutti gli altri bambini della sua classe
avevano, chi più chi meno, imparato a leggere, lui ancora restava lì, davanti
alla pagina del libro, con l’aria smarrita. A volte avvicinava il volto al
foglio, fino a pochi centimetri dagli occhi, tanto che, prima di Natale, su
consiglio della maestra, era stato portato da un oculista. La visita oculistica,
però, aveva dato esito negativo. Anzi, era stato proprio l’oculista a
consigliare alla madre, sia pure molto cautamente e in maniera non del tutto
esplicita, di condurre il bambino da uno psicologo. D’altra parte, la
maggiore o minore distanza degli occhi dalla pagina scritta non modificava
in alcun modo la prestazione: Marco non leggeva e basta. Racconto queste
prime cose che mi furono dette spontaneamente dalla madre cercando, per
evidenti motivi di chiarezza, di riunirle con un certo ordine. Ciò, comunque,
non rende appieno l’atmosfera emotiva del primo colloquio con i genitori
, la confusione mentale della mamma che, seduta di fronte a me sull’orlo
della sedia, passava da un argomento all’altro come se ciascuno fosse
troppo doloroso per lei e non le fosse possibile riuscire a raccontarlo con un
minimo di completezza.
pag. 49

La lasciai dunque parlare liberamente a lungo, secondo una modalità


centrata sulla relazione di aiuto , piuttosto che sulla semplice raccolta
dei dati. Ero del parere, infatti, che la signora avesse prima di tutto bisogno
di sentirsi a suo agio, ascoltata e, nei limiti del possibile, compresa nelle sue
difficoltà. Era stata molto incerta se consultarmi e non sapeva ancora bene
che cosa, in realtà, fosse venuta a fare. Probabilmente, non sapeva neppure
se avesse fatto o meno la scelta giusta. Così, la raccolta dei dati sulla storia
di Marco passò in secondo piano rispetto a quello che mi sembrava il primo
bisogno della madre, tanto che non tutti gli elementi che riporto qui di
seguito furono in realtà ottenuti in questo primo colloquio.

pag. 563

La mamma di Marco aveva avuto una gravidanza difficile. Da un punto di


vista fisico non c’erano stati particolari problemi, ma la madre ricorda quei
nove mesi come molto infelici. Viveva in casa dei genitori del marito, con
un suocero che spesso la sera si ubriacava e diventava violento. Si sentiva
sola con questo bambino dentro di lei. Avrebbe avuto bisogno di consigli su
come affrontare i piccoli problemi quotidiani del suo stato; invece, era priva
di aiuti dall’ambiente circostante, senza solidarietà. Ciò le provocava uno
stato di ansia continua (o forse accentuava un’ansia che la donna già
portava dentro di sé). Il parto, avvenuto con qualche settimana di anticipo,
era stato difficile, lungo, doloroso. La madre non ricorda se Marco avesse
subìto una vera e propria sofferenza e anche la cartella del parto e il
punteggio di Apgar1 erano negativi a questo proposito. Però, forse, non
aveva pianto proprio subito; però, forse, era stato un po’ scuro in volto (ma
la mamma è tutt’altro che certa nel riferirmi questo) nei primi momenti…
In ogni modo, madre e bambino furono dimessi regolarmente in quinta
giornata e, a casa, all’inizio, sembrava che tutto andasse per il meglio. Ma
fu un’illusione di breve durata, perché Marco dormiva poco e in modo
irregolare; rigurgitava spesso il (poco) latte materno; fu necessario alternare
l’allattamento al seno con diversi tipi di latte artificiale che il bambino non
sempre tollerava bene; l’accrescimento non procedeva secondo i ritmi attesi
e, anche in tutte queste circostanze, la madre era sola (nel pesarlo, nelle
visite di controllo dal pediatra, nei tentativi con i vari tipi di latte artificiale,
nel cercare di farlo riaddormentare la notte) o, forse, peggio che sola. Si
sentiva, di volta in volta, circondata da indifferenza o da ostilità; sempre
con l’angoscia che il suocero tornasse a casa ubriaco e facesse una delle sue
scenate.
Marco cominciò a camminare intorno all’età di quattordici mesi, ma
ancora non diceva neppure una parola. Un linguaggio essenziale, ma
comprensibile, si sviluppò dopo i due anni; quando, però, la madre portava
fuori il bambino e lo confrontava con qualche suo coetaneo che incontrava
per caso, aveva spesso una vaga sensazione che il suo fosse più indietro
degli altri, in qualche modo un po’ diverso. Questa angoscia sottile e mai
espressa chiaramente neppure a sé stessa tendeva ad aumentare, piuttosto
che a placarsi, nel tempo. L’inserimento alla scuola dell’infanzia fu
drammatico. Quando la madre tentava di allontanarsi, Marco piangeva
disperatamente. Nel corso delle prime settimane, ciò poteva anche apparire
normale, nel senso che c’erano altri bambini di tre anni che manifestavano
simili difficoltà di distacco. Ma più il tempo passava, più le difficoltà di
Marco sembravano maggiori e diverse da quelle dei compagni. Non solo,
infatti, Marco piangeva più a lungo dei compagni e con una disperazione
che i compagni non manifestavano, ma quelle rare volte in cui la madre
riusciva a lasciarlo solo a scuola, anche per breve tempo, si calmava con
difficoltà, restava isolato, in un angolo, silenzioso e triste. La madre, alla
fine, rinunciò per quel primo anno alla scuola dell’infanzia e provò
nuovamente l’anno successivo, quando il bambino aveva quattro anni e
mezzo. Le cose andarono un po’ meglio, nel senso che Marco rimaneva a
scuola, ma le insegnanti riferivano che partecipava pochissimo alle attività
proposte e tendeva ancora a stare per conto suo. Dal colloquio ricavai
l’impressione che la frequenza alla scuola dell’infanzia fosse stata ben poco
proficua per Marco, il quale era così arrivato a sei anni e mezzo in prima
senza aver acquisito, se non in minima parte, quelle tipiche abilità
preparatorie così importanti per affrontare la scuola primaria. Era stato,
infatti, proprio durante i primi mesi di scuola primaria che i problemi del
bambino erano divenuti così evidenti da indurre la madre ad affrontare la
situazione.
Mi accordai con la madre per vedere Marco, che, al primo approccio, mi
apparve proprio come l’avevo immaginato. Era minuto. Si muoveva con
piccoli scatti nervosi: gli occhi grandi e mobilissimi esprimevano con
angoscia l’incapacità di capire perché fosse lì, la paura di ciò che avrebbe
potuto capitargli, il desiderio di scappare. Era piccolo, non soltanto
fisicamente. Anche il linguaggio, la timida scelta dei giochi che gli proposi,
i primi, ripetitivi disegni di un robot giapponese molto in voga in quel
periodo, davano l’impressione di avere dinanzi un bambino di quattro o
cinque anni, piuttosto che di sette. Dal momento che non aveva nessuna
intenzione di restare da solo nello studio con me, feci l’errore di iniziare la
somministrazione delle PM2 con la mamma presente. Già nelle primissime
tavole, dove Marco avrebbe potuto quasi certamente cavarsela da solo, la
mamma interferiva, tentava di suggerire, comunicava ansia al bambino e
alimentava chiaramente il suo timore di sbagliare. L’ansia di Marco, in un
evidente meccanismo di circolo vizioso, aumentava il rischio di errore. La
mamma, allora, mi guardava e mi comunicava con gli occhi l’angoscia che
il bambino stesse dimostrando la sua inadeguatezza. Decisi di interrompere
la prova fingendo (o almeno cercando di fingere) di avere già visto
abbastanza e di essere interessato a fare altre cose. Feci di nuovo disegnare
Marco, lasciandolo ancora libero di decidere il soggetto e invitai la madre a
sedersi nell’angolo del mio studio più lontano dalla scrivania. Da quel
momento in avanti e fino quasi alla fine della seconda seduta (quando
ottenni lo scopo), il mio unico proposito fu di abituare Marco all’idea di
restare a giocare e a lavorare da solo con me in modo sereno, secondo un
metodo graduale, di avvicinamento progressivo e paziente all’obiettivo, che
prende il nome di modellaggio (vedi riquadro sottostante) e che avremo
modo di vedere in molte altre occasioni.

MODELLAGGIO
Quando un bambino emette una risposta corretta, adeguata, adattiva,
conforme all’obiettivo didattico programmato, dovrebbe ricevere un
rinforzatore, perché in questo modo aumenta la probabilità che
risposte simili si ripresentino in futuro. Sebbene a volte possa essere
difficile ricordarsi di mettere in pratica questa regola fondamentale,
almeno nelle sue linee teoriche si tratta di un principio molto facile da
comprendere.
Ma cosa fare quando il bambino non emette la risposta corretta? Cosa
fare quando il suo comportamento non corrisponde alle nostre
aspettative, quando non rappresenta il comportamento migliore per
uscire da una situazione difficile o per raggiungere un obiettivo
didattico?
Lo puniamo? Ma la punizione produce di solito più danni che
benefici.
Lo rinforziamo ugualmente? Ma rinforzare una risposta non adeguata
significa aumentare la probabilità che risposte non adeguate si
verifichino di nuovo in futuro.
Allora non lo rinforziamo? Per quanto tempo non lo rinforziamo?
Fino a che non emette la risposta corretta? Questo può andare bene se
la risposta corretta viene poi emessa in un tempo ragionevole: il
giorno dopo a scuola, durante la successiva seduta psicoterapeutica, il
prossimo sabato pomeriggio. Ma se la risposta corretta non si
manifesta per giorni, per settimane, per mesi? Quanto tempo un
bambino (ma qualunque essere umano, anzi, probabilmente
qualunque essere vivente) può resistere senza rinforzatori? Che
relazione diventerà mai quella in cui un genitore, un insegnante, uno
psicologo non possono mai dire “bravo!” al bambino, non possono
mai sorridergli, non possono mai manifestare la loro soddisfazione per
qualcosa che il bambino ha fatto e riceverne in cambio una sua
espressione di gioia?
Da questo dilemma (rinforzare i comportamenti inadeguati o non
rinforzare mai?), da questa trappola relazionale si può uscire con le
tecniche di modellaggio (o shaping). Il modellaggio consiste nel
rinforzare quei comportamenti che più si avvicinano all’obiettivo,
anche se ne sono ancora distanti. L’obiettivo per un ragazzo con Fobia
sociale è entrare in classe con i suoi compagni? Allora lo
psicoterapeuta rinforzerà il ragazzo quando per lo meno entra a scuola
(anche se poi rimane da solo in biblioteca, come si può vedere nel
caso di Gabriele nel capitolo 16). L’obiettivo per una bambina con
Disturbo dello spettro dell’autismo che se ne sta in un angolo a
giocare con le sue mani è sedersi alla scrivania dello psicologo per
provare a fare un disegno? Allora lo psicologo la rinforzerà quando si
avvicina alla scrivania (come si può vedere nel caso di Maurizia nel
capitolo 5). L’obiettivo per una bambina depressa è uscire con le
amiche e divertirsi? Allora il terapeuta la rinforzerà quando la
bambina prova, per lo meno, a invitare una compagna di scuola (come
si può vedere nel caso di Silvia nel capitolo 23). In questo senso, e in
questa prima fase, il modellaggio consiste dunque nella capacità, da
parte dello psicologo o dell’educatore, di accontentarsi delle risposte
anche solo parzialmente positive che il bambino sa dare, nel cogliere
la parte buona che c’è nell’altro e intanto rinforzare quella. È chiaro
che poi, a mano a mano che il bambino mostra di migliorare alcuni
comportamenti e alcune abilità, il modellaggio consisterà nel
rinforzare comportamenti sempre più vicini alla meta, fino a
raggiungere alcuni obiettivi prefissati.
Nel testo si trova che in molti casi, come nella Disabilità intellettiva
(per es., nel caso di Marco nel presente capitolo) e nei Disturbi dello
spettro dell’autismo (per es., nel caso di Maurizia nel capitolo 5), il
modellaggio può essere considerato una metodologia di intervento a
sé stante. Ma più spesso, come si può vedere in particolare nelle
sezioni dedicate ai Disturbi d’ansia e Disturbi dell’umore, può
affiancarsi ad altre tecniche, sia comportamentali che cognitive. Se,
per esempio, si decide di assegnare un compito comportamentale a un
bambino, lo si farà in modo graduato, per aumentare le probabilità di
successo e dunque le opportunità di rinforzamento. Se si decide di
lavorare con una metodologia di auto-osservazione, si fisseranno in un
primo tempo obiettivi molto semplici da osservare, che verranno poi
resi gradualmente più complessi.
In tutti i casi, e indipendentemente dagli esempi specifici, il
modellaggio è una metodologia che ha tra i suoi scopi fondamentali
quello di migliorare la relazione. C’è, infatti, una bella differenza tra
una relazione caratterizzata da aspettative irrealistiche, obiettivi
irraggiungibili, rari rinforzatori e tanta frustrazione (reciproca) e una
caratterizzata, invece, dalla possibilità di rinforzare sistematicamente i
piccoli successi e di essere rinforzati da essi. Il rinforzamento, infatti,
è un meccanismo relazionale: è vero che, quando un bambino emette
un comportamento (abbastanza) corretto e lo psicologo gli dice che è
contento di lui, lo psicologo rinforza il bambino, ma è altrettanto vero
che il bambino, emettendo un comportamento (abbastanza) corretto,
rinforza lo psicologo in un circolo virtuoso che è alla base di qualsiasi
relazione terapeutica.
Soltanto nelle sedute successive, e senza fretta, ripresi in mano le PM,
somministrai la WISC,3 proposi a Marco i temi di alcuni disegni (vedi fig.
1, Tavole a colori), in particolare il disegno della figura umana,4 esaminai
con attenzione le sue (carenti) prestazioni scolastiche, il suo linguaggio, la
sua capacità di mettersi in relazione con me e i suoi livelli di autonomia .

pag. 34

Nel frattempo, Marco diventava piano piano “mio amico”. Fu proprio lui
a esprimersi in questi termini dopo un paio di mesi di sedute, ma anche se
non lo avesse detto esplicitamente, si capiva dal suo comportamento che
cominciava a venire volentieri da me, si apriva, provava piacere nel
raccontarmi le sue esperienze (soprattutto scolastiche) e le sue difficoltà. In
un clima così rasserenato, anche il quadro clinico apparve meno
drammatico di quanto, durante la prima seduta con la madre, avrebbe potuto
sembrare. Da un punto di vista intellettivo il bambino era deficitario, ma
non in modo grave: il punteggio totale della WISC era di 69, senza
differenze degne di nota tra i punteggi parziali verbali e di performance,
mentre le PM si collocavano tra il 10° e il 25° percentile. Da un punto di
vista emotivo si notavano delle difficoltà nel controllo dell’ansia e la
personalità appariva lievemente coartata, con una persistente paura di
sbagliare, una consapevolezza marcata di non essere all’altezza, di essere in
qualche modo diverso dagli altri (in particolare dai compagni di classe), ma
anche relativamente armonica,5 con un buon contatto con la realtà. Marco
non mostrava nessun disturbo di comportamento degno di nota, se non
piccole e tipiche manifestazioni di ansia, come qualche tic saltuario o una
lieve balbuzie che tendevano a emergere, in particolare, in situazioni di
stress prestazionale. Il linguaggio appariva povero, ma correttamente
strutturato e senza disturbi specifici, mentre, da un punto di vista scolastico,
il ritardo era già evidente: a metà della prima classe della scuola primaria il
bambino non era in grado di leggere, né di fare la fusione delle sillabe, ma
si limitava a riconoscere le lettere dell’alfabeto; era in grado di scrivere il
suo nome e qualche semplice parola in stampatello maiuscolo e, dal punto
di vista logico-matematico, non padroneggiava neppure la corrispondenza
numero-quantità.
Naturalmente, il fatto di aver instaurato una buona relazione con il
bambino, che ora restava volentieri da solo a lavorare con me, non allentò i
miei contatti con la madre (e, saltuariamente, anche con il padre). Alla fine
di ogni seduta settimanale trovavo il modo di dire qualche parola, per lo più
positiva, su come erano andate le cose e con una frequenza circa mensile
fissavo un appuntamento dedicato ai soli genitori, di solito il sabato mattina,
quando Marco era a scuola e il padre, libero dagli impegni di lavoro, aveva
maggiori probabilità di partecipare. Quando non vi riusciva (era operaio
specializzato), ricevevo la madre (casalinga) da sola. Questi incontri
avevano almeno due funzioni. Prima di tutto, fungevano da rassicurazione,
in particolare per la madre: spiegavo che cosa facevo in seduta con Marco;
illustravo le sue caratteristiche, ma in particolare le sue potenzialità;
mostravo i suoi primi progressi e discutevo, di volta in volta, i nuovi
obiettivi che mi sembrava ragionevole sperare di raggiungere con il
bambino (per una rassegna sulle esperienze del prendersi cura da parte dei
genitori di bambini con Disabilità intellettiva e dell’importanza relativa
all’attenzione allo stress genitoriale, in particolare materno, vedi
Willingham-Storr, 2014). D’altra parte, raccoglievo su Marco ulteriori
informazioni: come si comportava a casa, come commentava le nostre
sedute, quali erano i suoi livelli di autonomia personale (quando l’ho
conosciuto, Marco non si vestiva né si lavava da solo), come andavano le
cose a scuola. Sempre con l’obiettivo di raccogliere informazioni e costruire
un rapporto di collaborazione, andavo a trovare la maestra del bambino con
una frequenza di circa una volta al mese.

pag. 34

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
Le caratteristiche fondamentali di Marco sono la carenza intellettiva, la
coartazione, le difficoltà scolastiche e, più in generale, il deficit nelle abilità
adattive.
Tutto ciò è coerente con un quadro di Disabilità intellettiva. Il livello del
ritardo, tutt’altro che grave, indirizza verso una diagnosi Disabilità
intellettiva con la specificazione di gravità Lieve (nell’ICD-10 Riardo
mentale Lieve, codice F70).6 Come è abbastanza tipico con questi livelli di
gravità, la scoperta relativamente tarda (all’ingresso nella scuola primaria)
ha determinato un periodo di grandi tensioni in famiglia, causate
dall’incertezza: il non sapere con precisione se il bambino ha dei problemi,
se “è malato”, ciò che gli succederà. Questo è particolarmente frequente
nelle famiglie con basso livello economico e culturale, che, a loro volta,
rappresentano la situazione sociale dove più sovente si riscontra la
Disabilità intellettiva Lieve. Inoltre, riconoscere e accettare la diagnosi può
diventare ancora più difficile quando non vi siano cause organiche
conosciute e chiare, come nel caso di Marco e in un gran numero di casi
analoghi.7
Tuttavia, una volta superato il momento di crisi dovuto alla diagnosi del
deficit, il quadro non appare particolarmente grave, anche per la sostanziale
armonicità: è come se tutto (intelligenza, autonomia, socialità, abilità
specifiche) si sviluppasse con maggiore lentezza, ma continuando a dare la
sensazione che, prima o poi, con pazienza e con gli aiuti necessari, le tappe
fondamentali verranno raggiunte. Non vi sono drammatiche discrepanze, né
altri gravi sintomi psicopatologici. Marco appare come un bambino più
piccolo della sua età, più lento, più chiuso, più intimidito e intimorito dalle
richieste dell’ambiente intorno a lui. Ma sembra anche capace di aprirsi, di
crescere e di imparare, purché gli si diano tempo, fiducia, serenità.
Penso non sia un caso (e infatti avviene piuttosto spesso) che i genitori si
siano rivolti a me quando il bambino ha cominciato a frequentare la scuola
primaria. Certo, come abbiamo visto, anche prima vi erano difficoltà.
Marco ha cominciato a parlare tardi, alla scuola dell’infanzia aveva qualche
preoccupante comportamento di isolamento e disegnava molto peggio della
maggioranza dei suoi coetanei. Probabilmente, in una famiglia più adeguata
dal punto di vista socioculturale e più attenta allo sviluppo di un figlio,
Marco sarebbe arrivato prima a una consulenza specialistica.

È vero anche, però, che conoscendolo sempre meglio nel corso delle sedute,
entrando in relazione con lui, conquistando la sua fiducia e potendolo così
vedere sempre più motivato e sicuro di sé nello svolgere i compiti che via
via gli proponevo, provavo a volte la sensazione (certamente falsa, ma
significativa) che, se non ci fosse stato il problema della scuola, Marco se la
sarebbe cavata come tanti altri.
Che cosa c’era, in fondo, che non andava in lui? Era magro magro e
sembrava a volte come indifeso di fronte agli stimoli che il mondo esterno
gli presentava. Soprattutto, quando gli stimoli erano nuovi, per esempio
quando passammo dai lavori centrati sulla lettura e scrittura alle prime
prove di aritmetica, sembrava come perdersi, temere che non ce l’avrebbe
mai fatta, chiedere tacitamente aiuto con i suoi grandi occhi in quei
momenti spalancati.
Una volta, all’incirca un anno dopo i nostri primi incontri, fu lui a pormi
proprio questa domanda:
“Cosa c’è in me che non va?”.
Forse non ricorse proprio a queste parole, ma certamente la sua domanda
ne esprimeva chiaramente il senso e dietro c’era tutta l’angoscia di tale
confusa consapevolezza. Quella seduta fu molto importante, dal punto di
vista terapeutico, perché apriva una nuova fase di lavoro col bambino,
centrata sulla relazione di aiuto , piuttosto che limitata agli aspetti
riabilitativi, come avremo modo di vedere meglio più avanti. Ma anche dal
punto di vista diagnostico la domanda mi sembra molto significativa: che
cosa c’è che non va in Marco? È rimasto un po’ indietro, ma non presenta
carenze particolarmente gravi in un ambito specifico dello sviluppo. È
soltanto come se fosse partito più tardi dei suoi compagni nella corsa della
vita. Più tardi ha cominciato a camminare, più tardi a parlare, più tardi a
disegnare una figura umana riconoscibile, più tardi a colorarla restando
dentro i margini; analogamente, più tardi imparerà come si fa amicizia con
un compagno o come lo si invita a una festa, più tardi a leggere, a scrivere,
a usare il denaro e a muoversi autonomamente nella propria città.

pag. 563

Ma niente più di questo. Anche la facile, serena, arriverei a dire


piacevole relazione che io avevo instaurato con lui rappresenta un
importante indicatore diagnostico. Non imbrogliamo noi stessi: non è vero
che i pazienti sono tutti uguali. Alcuni producono in noi incertezza, ansia,
aggressività, rifiuto, paura, desiderio di fuga. Il fatto che nessuno di questi
sentimenti, nessuna di queste emozioni negative si rendesse protagonista
nel corso delle nostre sedute, rappresenta un’ulteriore conferma
dell’inquadramento diagnostico. Marco è stato forse il primo caso di cui mi
sono occupato in modo sistematico nella mia carriera di psicologo. Ricordo
che lo aspettavo con serenità (con un bambino ossessivo, o autistico, o
anche soltanto con un grave disturbo da deficit dell’attenzione, i sentimenti
sono inevitabilmente diversi) e credo che questa serenità fosse un bel
segnale del fatto che il bambino avesse “solo” una Disabilità intellettiva
Lieve. Naturalmente non sto sottovalutando le implicazioni, a volte anche
pesantemente negative, del quadro: intendo dire che il quadro, armonico,
non era aggravato da altre componenti.

In sintesi, le caratteristiche psicopatologiche di Marco sono dunque tre:


1. le sue capacità intellettive sono inferiori a ciò che ci si aspetterebbe per
l’età cronologica: questo dato è stato misurato, tra l’altro, con la WISC,
cioè con uno strumento obiettivo per la valutazione del QI,
standardizzato e somministrato individualmente; è inoltre evidente, sul
piano clinico, un generico ritardo un po’ in tutto: linguaggio, gesto
grafico, socialità, autonomie;
2. il deficit intellettivo è associato a un deficit delle capacità di adattamento
alle richieste dell’ambiente;8
3. l’esordio è precoce:9 Marco manifesta questi sintomi fin da piccolo.
Queste sono le caratteristiche tipiche di una Disabilità intellettiva. Dal
momento che il bambino, sul piano clinico, conserva discrete capacità
adattive generali; che fino all’ingresso a scuola le difficoltà erano rimaste
sfumate e non chiare; che le interazioni sociali, il linguaggio e la
comunicazione sono immaturi ma sostanzialmente preservati e l’autonomia
personale sta sviluppando in modo non troppo diverso da quello che ci si
aspetterebbe da un bambino a sviluppo tipico di pari età, il ritardo viene
etichettato come Lieve. È importante notare, a questo proposito, che il
DSM-5 ha molto attenuato il significato del QI per la diagnosi rispetto alle
precedenti edizioni a favore di una più attenta valutazione del
funzionamento adattivo. Tuttavia, come è ancora esplicitamente previsto
dall’ICD-10, il QI di Marco è comunque di poco al di sotto della fascia
limite compresa tra 70 e 90. Inoltre, come abbiamo visto, il disturbo non è
complicato da ulteriori elementi psicopatologici, come invece avviene
piuttosto spesso (Einfeld e Aman, 1995), ed è pertanto etichettato da alcuni
studiosi come “armonico” (Mises, 1979; Marcelli, 1999).

RICERCHE
In questo paragrafo ho riunito, in una veloce panoramica, i cinque filoni di
ricerca sulla Disabilità intellettiva che mi sembrano particolarmente
significativi da un punto di vista pratico, cioè per la messa a punto di
strategie di intervento. Queste ricerche non si riferiscono alla sola Disabilità
intellettiva Lieve, ma anche alle forme più gravi di cui si parlerà nei capitoli
successivi, e il loro significato terapeutico si chiarirà durante la descrizione
degli interventi attuati.
Il primo filone è rappresentato dai lavori che hanno cercato di adattare le
acquisizioni ottenute dalla psicologia dell’apprendimento in laboratorio o
comunque in situazioni molto controllate rispetto alle normali condizioni di
vita del bambino con disabilità. Nel corso di questi ultimi decenni è stato
più volte dimostrato come i risultati delle ricerche di base sul
rinforzamento (vedi riquadro sottostante), l’analisi del compito , il
modellaggio , l’apprendimento senza errori potessero essere
utilizzati per mettere a punto programmi di intervento nei casi di Disabilità
intellettiva (Zeitlin e Williamson, 1994; Caracciolo e Rovetto, 1994; Ianes e
Tortello, 2002; Di Giacomo e Passafiume, 2004; Didden, Korzilius, van
Oorsouw e Sturmey, 1997). Spesso, e anche di recente, è stato inoltre messo
in luce come questi metodi possano essere utilizzati non solo da specialisti
come psicologi o psichiatri. Al contrario, interventi psicosociali svolti da
personale di comunità per bambini con Disabilità intellettiva si rivelano
particolarmente importanti per lo sviluppo di competenze di uso quotidiano
e per favorire la generalizzazione.

pag. 83

pag. 6

pag. 30
RINFORZAMENTO
(primario e secondario; consumatorio, tangibile,
simbolico, sociale e informativo; continuo e
intermittente; estrinseco e intrinseco; positivo e
negativo)
TOKEN ECONOMY
Non ha molto senso evidenziare parti del testo dove vengono illustrati
o utilizzati i rinforzatori, perché il rinforzamento è uno dei principali
leitmotiv dell’intero libro.
Tecnicamente, il rinforzatore può essere definito come la conseguenza
positiva di una risposta che ha l’effetto di rendere tale risposta più
probabile in futuro. Se un bambino riceve una gratificazione tutte le
volte che legge un brano di un libro, è più probabile che continuerà a
leggere anche nei giorni seguenti. In questo senso, tra l’altro, c’è una
stretta correlazione tra rinforzamento e motivazione.
Qui di seguito vengono brevemente illustrate quattro caratteristiche
fondamentali del rinforzamento, utili per comprendere meglio molti
aspetti teorici ma soprattutto applicativi, che si trovano nella
discussione dei casi riportati nel testo.
1. I rinforzatori sono virtualmente infiniti. Da un punto di vista teorico
possono essere classificati in primari e secondari. I rinforzatori
primari sono legati alla sopravvivenza (per es., il cibo). I
rinforzatori secondari invece sono appresi nel corso della vita (per
es., le figurine dei Pokemon). In pratica, ovviamente, in educazione
e in psicoterapia si usano solo i rinforzatori secondari i quali, a loro
volta, possono essere suddivisi in molte categorie. Ai livelli più
bassi ci sono i rinforzatori molto concreti: per esempio quelli che si
mangiano (ma che non sono legati alla sopravvivenza!) e che
vengono detti consumatori, oppure quelli che si toccano, come un
giocattolo, e che vengono per questo detti tangibili. Ai livelli più
alti ci sono i rinforzatori simbolici (che, come nel caso del denaro o
della token economy, possono essere scambiati con qualcosa
d’altro), sociali (per es., un sorriso, o la vicinanza fisica) e
informativi (l’informazione sul risultato di un’azione), a volte detti
anche feedback. Bisognerebbe cercare di usare i rinforzatori di più
alto livello tra quelli che funzionano. Quando, nei casi più gravi
(per es., in alcune forme di Disabilità intellettiva e di Disturbo dello
spettro dell’autismo), funzionano solo i rinforzatori di basso livello,
bisognerebbe cercare di spostare il controllo del rinforzamento
verso rinforzatori di livello più alto. Una tecnica di passaggio da
rinforzatori più a rinforzatori meno concreti è la token economy,
che consiste nel rinforzare il bambino con gettoni (o con dei punti
sotto qualsiasi forma) che, in seguito, possono essere scambiati con
rinforzatori di livello più alto, come la possibilità di andare a
giocare in giardino.
2. L’attenuazione della concretezza del rinforzamento può (e deve,
ogni volta che è possibile) essere attuata anche rispetto ai
programmi di rinforzamento. I programmi si riferiscono alla
frequenza con la quale un rinforzatore è erogato. Per esempio, un
rinforzatore può essere erogato secondo un programma continuo:
tutte le volte che il bambino emette la risposta corretta riceve la
gratificazione. Oppure può essere erogato secondo un programma
intermittente: la gratificazione arriva solo dopo alcune risposte
corrette. Anche in questo caso bisognerebbe prevedere il graduale
passaggio da programmi continui di rinforzamento a programmi
intermittenti. Questo favorisce il mantenimento e la
generalizzazione delle abilità acquisite e toglie artificiosità
all’intervento educativo o psicoterapeutico.
3. I rinforzatori descritti fin qui vengono chiamati estrinseci. Questo
significa che sono al di fuori dei comportamenti e delle abilità che
vengono rinforzati. Se un bambino riceve un punto su una tessera
tutte le volte che telefona a un amico per invitarlo a casa e poi,
quando ha ottenuto 10 punti, potrà andare al cinema con il papà, il
suo comportamento “telefonare a un amico” è sotto il controllo di
rinforzatori estrinseci. Né il punteggio su una tessera, infatti, né
andare al cinema con il papà hanno a che fare con la telefonata a un
amico. Se invece un bambino telefona a un amico e lo invita a casa
sua per il piacere di giocare con lui, il suo comportamento è
controllato da un rinforzatore intrinseco, perché la gratificazione
(giocare con un amico) è strettamente connessa al comportamento
(telefonare a quell’amico). In moltissime parti del testo è possibile
vedere come lo scopo del lavoro educativo e terapeutico consista,
spesso, nello spostare il controllo dei comportamenti positivi dai
rinforzatori estrinseci a quelli intrinseci. Il rinforzamento
intrinseco, infatti, produce motivazione intrinseca e quando un
comportamento è intrinsecamente motivante non c’è più bisogno di
maestri o psicologi in quanto si riprodurrà da sé.
4. I rinforzatori, infine, possono essere suddivisi in positivi e negativi.
Tutti i rinforzatori esemplificati fin qui sono positivi e la loro
definizione non comporta nessun problema. I problemi possono
nascere quando si devono definire e comprendere i rinforzatori
negativi, che a volte vengono scambiati con le punizioni. I
rinforzatori negativi non sono punizioni. Le punizioni sono
conseguenze negative (per es., uno schiaffo). I rinforzatori, invece,
per definizione, sono sempre conseguenze positive, altrimenti non
sono più rinforzatori. Si chiamano positivi quando la conseguenza
positiva è determinata dall’aggiunta di un elemento positivo (per
es., una caramella); si chiamano negativi quando la conseguenza
positiva è determinata dalla sottrazione di un elemento negativo o
spiacevole. I comportamenti problematici, per esempio, sono
spesso mantenuti da rinforzatori negativi. Un bambino fa il
pagliaccio in classe e la maestra lo manda fuori. Forse la maestra
pensa, in questo modo, di erogare una punizione, ma se il bambino
era stufo di stare seduto e di ascoltare la lezione, in realtà riceve un
premio: smettere di stare seduto e di ascoltare una lezione noiosa è
dunque un rinforzatore, perché rappresenta per il bambino una
conseguenza positiva. Si chiama rinforzatore negativo perché è
determinato dalla cessazione di una situazione sgradita. Anche le
risposte d’ansia sono spesso mantenute da rinforzatori negativi. Se
un bambino prova ansia all’idea di avvicinarsi a un amico e
chiacchierare con lui, può darsi che, quando vede l’amico, se ne
allontani per evitare l’ansia. Il comportamento di allontanamento è
dunque rinforzato: il bambino sta meglio perché, mentre si
allontana dall’amico, l’ansia decresce.
Molto sinteticamente, i risultati più rilevanti sono stati i seguenti:
• è possibile aumentare la probabilità di emissione di risposte corrette se la
risposta è seguita da una gratificazione e diminuire la probabilità di
emissione di risposte indesiderate se queste non sono seguite da
gratificazione: su questo aspetto è interessante rilevare che da decenni la
letteratura di ispirazione comportamentale ha messo in luce l’importanza
della manipolazione delle conseguenze della risposta nel produrre un
incremento di comportamenti adeguati e un decremento di comportamenti
inadeguati in pazienti con Disabilità intellettiva, ma le più recenti rassegne
(vedi, per esempio, Matson et al., 2011; Doehring, Reichow, Palka,
Phillips e Hagopian, 2014;) mostrano come questo modello possa essere
applicato in modo del tutto analogo anche per il Disturbo dello spettro
dell’autismo dei quali parleremo nei capitoli 5 e 6;
• è più facile ottenere risposte corrette se gli stimoli che controllano la
risposta sono manipolati con particolare cura, presentati almeno
inizialmente nel modo più semplice possibile e corredati di una serie di
aiuti: Ledford, Wolrey, Lane e Elan (2012) mostrano a questo proposito
come sia possibile utilizzare stimoli di aiuto anche all’interno di un
piccolo gruppo di pazienti con Disabilità intellettiva, mentre Sy,
Donaldson, Vollmer e Pizarro (2014) evidenziano come l’attenzione a
costruire intorno al bambino disabile un ambiente dove il controllo dello
stimolo sia particolarmente “pulito”, libero da altri stimoli irrilevanti e
distraenti produce risposte più adeguate;
• quando un compito è troppo complesso per poter essere padroneggiato da
un bambino in difficoltà intellettiva, lo si può spezzare nei suoi elementi
semplici e si può così insegnare al bambino non il compito in un’unica
soluzione, ma uno dopo l’altro i singoli passi che lo compongono: in una
rassegna, Wright e Wolery (2014) mostrano per esempio come l’analisi
dei passi necessari per imparare ad attraversare la strada e l’insegnamento
di un passo alla volta migliorano l’autonomia sociale di ragazzi con
Disabilità intellettiva, aumenta l’indipendenza e diminuisce il rischio di
incidenti quando poi i ragazzi provano in situazioni reali a mettere in atto
queste abilità;
• quando un bambino è tanto in difficoltà da non emettere mai una risposta
corretta, è ugualmente possibile e utile gratificarlo scegliendo, tra i suoi
comportamenti, quelli meno distanti dalla risposta che si desidera ottenere
(Perini e Bijou, 1992; Bijou, 1996; Meazzini, 1997; Ianes, 2001); Feeley,
Jones, Blackburn e Bauer, 2011; Furniss e Biswas, 2012).
Queste procedure, nonostante la loro straordinaria efficacia, sono state
talvolta sottoposte a critiche, anche pesanti, per il rischio che possano
produrre apprendimenti molto meccanici o una forma di addestramento
anziché di riabilitazione o di educazione propriamente detta. A tali critiche
si può rispondere che vi sono delle circostanze (tanto più frequenti quanto
più grave è il ritardo) nelle quali l’insegnamento meccanico di abilità è il
massimo che riusciamo a fare. Naturalmente, questa risposta implica che
quanto meno grave è il ritardo, tanto più attenuate dovranno essere le
tecniche usate per la riabilitazione (Meazzini, 1997; Dweck, 2000). In ogni
caso, lo psicologo attento agli aspetti relazionali del suo paziente e di chi gli
sta intorno eviterà di servirsi di queste tecniche in modo rigido come se
fosse in un laboratorio, ma le adatterà alle necessità del bambino e del suo
ambiente (Celi e Fontana, 2007).

Il secondo filone di ricerca riguarda gli aspetti legati alla metacognizione


, che sovrintendono a molti processi di apprendimento (Albanese, 2006;
Cornoldi, 2006). Su questo approccio si potrebbe fare una considerazione di
segno opposto rispetto a quella formulata sulle metodiche comportamentali
appena individuate, in quanto le ricerche di base e le loro applicazioni
pratiche sono tanto più interessanti e significative quanto meno grave è il
ritardo del bambino. Infatti, sebbene siano attualmente disponibili alcuni
lavori sull’importanza della metacognizione anche nella Disabilità
intellettiva Grave (Cornoldi, 1990; 1995; Ianes, 1990; Muzio e Pilone,
2000; Friso, Palladino e Cornoldi, 2006), è chiaro che quanto meglio
conservate sono le capacità di pensiero, tanto più è ragionevole sperare di
poter lavorare in questo campo. Le applicazioni più interessanti della
ricerca metacognitiva, pertanto, si collocano forse al di fuori dell’ambito
della Disabilità intellettiva e riguardano piuttosto l’ambito dei disturbi
specifici di apprendimento o dei problemi comportamentali (vedi le Parti
terza e quarta, dove verranno esaminate in maniera approfondita). In questa
sede può essere sufficiente definire la metacognizione come la capacità di
ragionare sui propri processi di pensiero; notare come questa capacità possa
favorire un miglioramento di molte prestazioni in un soggetto con Disabilità
intellettiva (un bambino che riesca a pensare: “più volte ripeto questo brano
e meglio lo imparo”, sarà uno studente migliore); e sottolineare come la
ricerca abbia dimostrato che anche le abilità metacognitive possono essere
insegnate (Ianes e Cramerotti, 2000) e far parte di un programma
terapeutico dedicato a bambini con difficoltà intellettive10; evidenziare
come, attraverso lo studio delle differenze tra bambini a sviluppo tipico e
adolescenti con Disabilità intellettiva appaiati per età mentale rispetto a
percezione di sé, abilità di autoregolazione e di problem solving e
metacognizione, sia possibile ricavare interessanti strategie di intervento
(Nader-Grosbois, 2014).

pag. 26

Il terzo filone è quello della ricerca collocata a metà strada tra psicologia e
sociologia, che ha messo in luce, fin dagli anni Settanta, l’importanza
dell’integrazione. Come è noto, per anni (ma forse sarebbe meglio dire per
secoli, o meglio ancora da sempre) le persone con Disabilità intellettiva
sono state isolate dal loro contesto naturale. Di volta in volta questo
isolamento è stato giustificato da ragioni di protezione (del soggetto o della
società) o, nei casi migliori, dalla necessità del disabile di ricevere tutte le
cure specifiche necessarie. Ma, al di là delle giustificazioni, i risultati di
questo isolamento sono stati la diminuzione delle opportunità di apprendere
abilità e abitudini di vita normali e l’aumento di probabilità di sviluppare
comportamenti inadeguati e ulteriori manifestazioni psicopatologiche
(Cornoldi e Vianello, 1990; Zanobini e Usai, 2005). La ricerca in questo
campo ha mostrato come l’integrazione del bambino con Disabilità
intellettiva in un ambiente normale migliori l’apprendimento di abilità
sociali e integranti, favorisca i processi di apprendimento e diminuisca il
rischio di condotte patologiche (Canevaro, Cocever e Weis, 1996; Vianello,
1999; Comitato Tecnico Scientifico Anffas, 2007; Ianes e Canevaro, 2008;
Pavone, 2013; Preger, 2014).
Tutto ciò ha portato grandi vantaggi, ma anche inevitabili problemi.
Quando il bambino con Disabilità intellettiva era isolato nelle scuole
speciali, subiva tutti gli effetti negativi della mancanza di integrazione, ma
non creava difficoltà ai compagni (che erano tutti, più o meno, come lui).
L’ingresso nelle classi normali ha costretto la scuola a un complesso (e
spesso salutare) lavoro di riadattamento. Da questo lavoro e dalle nuove
necessità da parte della scuola che si è assunta l’onere dell’integrazione
nascono le ricerche sull’apprendimento cooperativo. Tali ricerche hanno
mostrato come sia possibile inserire in uno stesso gruppo bambini con
caratteristiche e potenzialità anche molto diverse senza che nessuno perda
tempo od occasioni di apprendimento. Nelle esperienze cooperative, infatti,
tutti i membri del gruppo progrediscono sia sul piano cognitivo che su
quello relazionale (Johnson, Johnson e Holubec, 1996; Comoglio e
Cardoso, 1966; Cohen, 1999; Piercy, Wilton e Townsend, 2003; Lancioni,
O’Reilly, Cognini e Serenelli, 2004; Trubini e Pinelli, 2005 e 2007). In
questi studi l’accento spesso è posto su un costrutto di fondamentale
importanza detto “Qualità della vita”. Cosciarelli e Balboni (2014)
analizzano l’importanza di questo costrutto non solo dal punto di vista
teorico, ma anche come strumento per meglio pianificare interventi rivolti a
persone con Disabilità intellettiva.
Tra le abilità integranti fondamentali c’è quella di mettersi in
comunicazione con gli altri. In alcune forme, di solito nelle più gravi, di
Disabilità intellettiva la comunicazione attraverso il canale tradizionale del
linguaggio verbale è resa molto difficile o del tutto impossibile,
analogamente a quello che vedremo nella sezione dedicata al Disturbi dello
spettro dell’autismo. In questi casi è possibile ricorrere a forme alternative
di comunicazione come il Sistema di comunicazione attraverso lo scambio
di immagini (PECS, acronimo inglese di Picture Exchange Communication
System). Stoner, Beck, Bock, Hichey, Kosuwan e Thompson (2006), per
esempio, hanno mostrato che se si insegna a pazienti con Disabilità
intellettiva a comunicare contenuti elementari (come “sì” o “no”) o alcuni
bisogni fondamentali (come “aiutami” o “ho fame”) attraverso figure che
illustrano il contenuto della comunicazione, le interazioni sociali di questi
pazienti migliorano e molti comportamenti inadeguati si attenuano.

Il quarto filone è rappresentato dai lavori sugli aspetti emotivi. Si è visto


come la riabilitazione e la psicoterapia del bambino con Disabilità
intellettiva debbano tenere conto degli atteggiamenti, dello stile di
attribuzione , della sua autostima e delle capacità di valutare e
controllare la propria ansia e le proprie emozioni (Scott, 1994; Einfeld e
Aman, 1995; De Beni e Moè, 1995; Rutter, 1995; Wright-Strawderman,
1996; Sunderland, 1997 e 2004; Moreno e Saldana, 2005; Bedin, 2008;
Potente e Celi, 2009). Sempre più spesso, con il procedere della ricerca e
delle esperienze cliniche, l’utilizzo delle strategie cognitivo-
comportamentali è stato esteso anche ai problemi emotivi di questi pazienti
che in passato tendevano a essere messi in ombra a vantaggio del lavoro sul
recupero della disabilità (Castellani et al., 2010; Trucchia, 2011;
Vereenooghe e Langdon, 2013) e alla corretta gestione di emozioni negative
come la rabbia (Willner et al., 2013).

pag. 540

pag. 56

Il quinto è un filone di ricerca ormai sterminato che riguarda l’utilità delle


nuove tecnologie informatiche come strumento di aiuto per i bambini con
disabilità in generale e Disabilità intellettiva in particolare. Il tema è
talmente vasto che non può essere affrontato se non con un cenno, in questa
sede, al fatto che il computer si rivela sempre più spesso un alleato prezioso
per la riabilitazione cognitiva e l’autonomia (Jacobson, 1992; Celi e
Romani, 1997; Fogarolo, 2007; Wong, Chan, Li-Tsang e Lam, 2009; Ayres
e Cihak, 2010; Fogarolo, 2012; www.leonardoausili.com; www.anastasis.it;
www.erickson.it; www.itd.cnr.it; http://formare.erickson.it/;
http://handitecno.indire.it/). A questi lavori si possono aggiungere anche
quelli sull’uso della robotica. Businaro, Zecca e Castiglioni (2014)
discutono sulle possibilità offerte da un laboratorio di robotica in una scuola
primaria per favorire lo sviluppo non solo cognitivo ma anche emotivo di
un bambino con Disabilità intellettiva in un’ottica costruttivista.
Esulano dagli scopi di questo lavoro, che si occupa degli aspetti psicologici
delle patologie dell’infanzia, le ricerche sulle cause organiche della
Disabilità intellettiva e sulle conseguenti strategie di prevenzione e
intervento medico.11

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO
Può sembrare strano, ma l’intervento con Marco è cominciato con la
seconda somministrazione delle PM. Può sembrare strano perché la
somministrazione delle PM è un atto tipicamente diagnostico, dal momento
che serve per valutare alcune abilità cognitive generali. Eppure, durante la
prima seduta Marco non era riuscito, non dico a eseguire le matrici, ma
neppure a provarci con sufficiente serenità. Non era riuscito neppure a
rimanere in studio da solo con me e così era stato costretto a subire la
presenza ansiogena della madre. Se, in quella prima seduta, avessi insistito
nella somministrazione, avrei ottenuto risultati disastrosi: non validi sul
piano diagnostico, perché troppo negativamente influenzati dalla tensione
emotiva della situazione, e dannosi sul piano della relazione. Pazientare,
abituare piano piano Marco all’idea di lavorare con me senza la presenza
della madre e portarlo a impegnarsi in compiti cognitivamente rilevanti
senza provare ansia eccessiva ed esagerata paura di sbagliare rappresentano
già un primo passo terapeutico. Come abbiamo già avuto modo di
anticipare, questo significa attuare una strategia di modellaggio delle
prime risposte positive di Marco. Significa anche, naturalmente, poter usare
in modo sistematico il rinforzamento , dato che gli obiettivi sono
minimi e Marco può raggiungerli facilmente potendo essere spesso
gratificato per questo. L’uso sistematico del rinforzamento, a sua volta,
consolida e migliora la mia relazione con lui e aumenta la sua motivazione
e la sua autostima . A qualcuno l’osservazione potrà apparire banale fino
al semplicismo, ma non è detto che le cose semplici debbano per questo
essere meno utili o meno vere: a Marco piace essere gratificato, come a tutti
noi. Così, una relazione nella quale io gli chiedo poche cose per volta, in
modo che me le possa dare, mi permette di rinforzarlo per quello che di
positivo mi dà. Questo lo fa star meglio. Aumenta il suo desiderio di
lavorare con me e di fare le cose che io gli propongo. In un tipico esempio
di circolo virtuoso, fornisce a me nuove occasioni per gratificarlo e a lui
nuove occasioni per sentirsi all’altezza della situazione. Se si considera, poi,
che nella storia di questi bambini vi sono spesso ripetute esperienze
frustranti di relazioni dove gli altri sottolineano le cose che non vanno (che
purtroppo sono molte, per definizione, nella Disabilità intellettiva), si
apprezza ancora di più l’importanza dell’uso di queste strategie terapeutiche
tutte giocate sulla valorizzazione delle parti positive del piccolo paziente.
Quando Marco mi disse di essere diventato “mio amico”, espresse con due
sole parole il significato relazionale ed emotivo profondo delle metodologie
di modellaggio e di rinforzamento, meglio di quanto si potrebbe fare in un
trattato. Queste “tecniche” non si limitano a migliorare la prestazione;
migliorano anche la relazione empatica tra il bambino e il suo terapeuta (ma
anche il suo insegnante o i suoi genitori) e modificano in senso positivo le
sue emozioni e la sua percezione di sé (Pope, McHale e Craighead, 1992;
Celi e Ianes, 2001; Ruggerini, Manzotti, Griffo e Veglia, 2013).

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Naturalmente, se il modellaggio consiste inizialmente nell’arte di


accontentarsi di ciò che il bambino può dare, il lavoro terapeutico con un
soggetto con Disabilità intellettiva non può consistere nel continuare ad
accontentarsi di obiettivi minimi per tutta la vita. Ma questo non è un
problema, perché gli obiettivi possono essere “adeguati” a mano a mano
che il soggetto risponde al trattamento. Negli anni della scuola primaria fu
così possibile programmare per Marco (sempre a stretto contatto con
l’insegnante) percorsi centrati sull’apprendimento della lettura e delle
abilità logico-matematiche di base attraverso le metodologie dell’analisi
del compito e dell’apprendimento senza errori (Martin e Pear,
2000).

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pag. 30

Le carenze scolastiche, tuttavia, non erano le uniche nella vita di Marco.


Con metodologie analoghe, e stavolta con la collaborazione più stretta
possibile anche dei genitori, abbiamo così lavorato per aumentare la sua
autonomia personale .

pag. 34
Col passare degli anni, Marco acquisiva, sia pur lentamente, nuove
abilità, ma questo non può essere l’unico scopo di un lavoro terapeutico.
Quando, per esempio, mi chiese cosa c’era in lui che non andava, dimostrò
di avere una notevole consapevolezza della sua condizione, ma anche che
questa consapevolezza lo faceva soffrire, gli dava insicurezza, ansia,
sensazione continua di non essere all’altezza. Così, dalla fine della scuola
primaria e per tutto il periodo dell’adolescenza abbiamo lavorato insieme a
lungo su questi temi, connessi all’autostima e alla capacità di gestire la
proprie emozioni. Marco, che si era ormai abituato ad aprirsi con me, mi
parlava di questi suoi dubbi e di tante sue incertezze (a mano a mano che
cresceva, rivolte soprattutto verso il futuro). Io lo ascoltavo e cercavo di
aiutarlo a chiarirsi queste paure, secondo una metodologia basata sulla
relazione di aiuto ; a distinguere quelle ragionevoli, che doveva
imparare ad accettare, da quelle irragionevoli, che doveva invece cercare di
abbandonare, secondo una metodologia basata sull’educazione razionale
emotiva ; a usare le sue aumentate abilità cognitive e sociali per superare
almeno in parte queste incertezze che a volte lo facevano stare male.

pag. 563

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Durante l’adolescenza, inoltre, abbiamo lavorato sulle autonomie sociali


. Ho aiutato Marco a farsi coraggio e cominciare a uscire da solo, a usare
il denaro (prima per fare piccoli acquisti e poi per gestire autonomamente le
somme che i suoi genitori gli davano per i suoi bisogni quotidiani), ad
andare in autobus e a frequentare qualche compagno di classe (Wehman,
Renzaglia e Bates, 1988; Soresi, 2007; Walton e Ingersoll, 2013).

pag. 34

Contemporaneamente, ho continuato a lavorare sui genitori, soprattutto


sulla madre, adattando alla situazione e alla patologia i metodi del
cosiddetto parent training (Di Pietro e Bassi, 2013; Neece, Green e
Baker, 2013; Reichow et al., 2014), sebbene questo intervento sia andato
piano piano diminuendo di importanza col crescere di Marco. Anche in
questo caso, credo che l’inizio del lavoro “terapeutico” abbia coinciso con
la comunicazione della diagnosi. Ricordo ancora in modo estremamente
vivido, come se fosse avvenuto poco fa (invece sono passati più di
vent’anni), l’espressione del volto del papà di Marco e lo sguardo che
rivolse alla moglie quando spiegai che cosa significava avere una Disabilità
intellettiva, a quali limitazioni e a quali difficoltà il bambino avrebbe potuto
andare incontro, ma anche (soprattutto!) quante potenzialità residue
conservasse. Celato sotto i baffi rossicci, colsi chiaramente nel padre un
moto come di liberazione. Mi è difficile adesso spiegarlo a parole. È chiaro
che non fu un’espressione contenta, soddisfatta, di gioia. Eppure era come
se mi dicesse:

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“Finalmente sappiamo, qualcuno ci ha parlato chiaro, ci ha spiegato le


cose, ci ha fatto uscire da questo tunnel, buio e lunghissimo (oltre sei anni),
del non sapere, del non capire”.
Parlando di Disabilità intellettiva non davo di certo a questi genitori una
bella notizia, però, per lo meno, dicevo loro qualcosa, fornivo una
spiegazione, anche se molto parziale, davo un nome alle cose,
materializzavo un fantasma. La saggezza popolare sostiene che “il diavolo
non è mai così brutto come lo si dipinge”. Purtroppo non è sempre vero. A
volte è proprio così brutto e a volte anche di più. Spesso, però, il vecchio
proverbio contiene almeno una parte di verità e in tutti questi casi sapere
acquista già un valore terapeutico. Ricordo anche come la mamma di Marco
rispose a quello sguardo e l’ho ricordato anche qualche mese dopo quella
seduta, quando la signora mi raccontò che il comportamento del marito nei
confronti del bambino era cambiato.
“Prima – mi disse – era come se mio marito gli girasse intorno senza
sapere da che parte entrare, come se avesse paura di lui. Ora gli parla,
alcune sere provano a fare qualche compito insieme…”.
Forse semplifico un po’ troppo le cose, ma il lavoro terapeutico con i
genitori di Marco può essere riassunto in questa descrizione della madre:
sapere, capire, cominciare ad accettare, provare a fare qualcosa.

PROGNOSI
Nel paragrafo “Dalla descrizione del caso all’inquadramento diagnostico”
ho usato questa espressione, a proposito di Marco: “Va più lentamente degli
altri”.
La domanda di questo paragrafo è: “Ma arriverà?”.
È una delle prime domande che i genitori mi posero e una delle domande
più ricorrenti e spesso più drammatiche che i genitori si pongono dopo una
diagnosi di Disabilità intellettiva (l’ultima, che a volte non hanno neppure il
coraggio di farsi esplicitamente, è: “che cosa succederà quando noi non ci
saremo più?”). Tra l’altro, il termine più in uso per definire questo disturbo,
prima dell’avvento del DSM-5 (Ritardo mentale), con quella parola
“ritardo”, può contribuire a creare prima aspettative irrealistiche e poi
delusioni cocenti e pericolose. Infatti, se con la domanda si intende chiedere
se, prima o dopo, il bambino raggiungerà i coetanei in tutte le abilità sociali,
cognitive ed emozionali e finirà, da adulto, per vivere una vita
assolutamente uguale a quella degli altri, la risposta è “no”. (Ma a una
domanda formulata in questo modo si potrebbe anche rispondere che non
esistono due vite uguali, come non esistono due fiocchi di neve identici).
Questo “no”, come vedremo meglio nei capitoli 2 e 3 dedicati a situazioni
più gravi di Disabilità intellettiva, può essere più o meno netto e
drammatico, ma neppure Marco raggiungerà in tutto e per tutto i suoi
coetanei.
Tuttavia, nella Disabilità intellettiva Lieve le possibilità di recupero sono
notevolissime e in pratica possono restare esclusi solo i livelli più alti di
astrazione e di autonomia (Van Hasselt e Hersen, 1995). Tutto il resto
(lavoro, relazioni sociali, persino matrimonio) non viene escluso a priori,
purché il bambino sia circondato da cure e fiducia e non presenti altri gravi
disturbi psicopatologici associati al ritardo.
Marco, per esempio, dopo un periodo nero passato senza risultati e con
molte frustrazioni in un istituto tecnico superiore, ha frequentato prima una
scuola edile e poi, attraverso esperienze di inserimento protetto, è arrivato
oggi a svolgere un lavoro autonomo e retribuito; ha una vita sociale e di
relazione accettabile e il bisogno di supervisione da parte dei genitori è in
pratica limitato alla gestione delle questioni domestiche (situazione
condivisa, peraltro, da molti giovani adulti normodotati che continuano a
vivere in famiglia) e dei suoi risparmi in banca, ma non è affatto escluso
che possa in seguito imparare anche queste abilità.
Proprio mentre stavo scrivendo questo capitolo l’ho incontrato, poche
settimane fa, la sera dell’ultimo dell’anno. Andavo a casa di amici e l’ho
visto, solo soletto, nel buio della città quasi deserta, fermo al capolinea
degli autobus. Sono sceso dall’auto per salutarlo. Mi ha fatto, come sempre
quando ci incontriamo, mille feste. Era contento. Ci siamo scambiati gli
auguri. Marco aspettava alcuni compagni di lavoro che dovevano venire a
prenderlo per andare a cena da un’amica che ha la casa in collina e che
aveva invitato tutti per brindare all’anno nuovo. Mi ha detto che sperava
fosse una delle ultime volte che doveva contare sul passaggio di qualcuno,
perché dopo tanti sforzi aveva finalmente superato l’esame scritto di guida.
Pensava che la prova pratica sarebbe stata più facile.
Vorrei dedicare a Marco questo libro. Naturalmente, ho dovuto cambiare
il suo nome e modificare numerosi dettagli nella sua storia, a volte
mescolando anche storie di altri bambini, come ho fatto per tutti i
protagonisti di queste pagine, per non renderli riconoscibili. Un po’ mi
dispiace, come se qualche cosa, insieme al nome e all’unicità della sua vita,
andasse perduto. Questo però mi permette di dedicare il presente lavoro a
lui, il mio primo paziente che, dopo tanti anni, mi è impossibile
dimenticare, ma anche, idealmente, a tutti quei bambini che non avrò modo
di nominare, ma verso i quali conservo una gratitudine irraccontabile per
tutto quello che, mentre io cercavo di aiutare loro, loro hanno insegnato e
dato a me.
1 Il punteggio di Apgar è un metodo di valutazione del neonato subito dopo la nascita. Serve per
identificare i neonati che richiedono la rianimazione e, anche se un basso punteggio non è
necessariamente indicativo di ipossia né predittivo di mortalità neonatale o paralisi cerebrale, denota
comunque una certa sofferenza. Il punteggio di Apgar va da 0 a 10 ed è calcolato al primo e al quinto
minuto dopo il parto sulla base della frequenza cardiaca, dell’attività respiratoria, del tono muscolare,
della risposta a un catetere nella narice, del colorito. Un punteggio da 0 a 3 indica la necessità di
rianimazione immediata. Un punteggio di 10 indica un neonato nelle migliori condizioni possibili.
2 PM è l’acronimo inglese di Matrici Progressive, un test messo a punto da Raven negli anni Trenta
e poi revisionato e sistematizzato nei decenni successivi (Raven, 1962). L’idea alla base della
costruzione di questo reattivo era quella di valutare l’intelligenza cercando, per quanto possibile, di
escludere le influenze culturali, prima fra tutte la lingua. Le Matrici Progressive consistono, infatti, in
una serie di figure astratte legate insieme da una logica a difficoltà crescente che il soggetto deve via
via scoprire per dare la risposta corretta. La risposta può essere data semplicemente indicando la
figura scelta e dunque non è necessario l’uso del linguaggio produttivo. Inoltre, non sono necessarie
conoscenze specifiche, per esempio di tipo scolastico, per rispondere correttamente. In questo senso
le Matrici Progressive sono state considerate un buon indicatore del fattore g di Sperman, cioè della
cosiddetta intelligenza generale (Anastasi, 1975). Sebbene da un punto di vista teorico la pretesa di
misurare l’intelligenza in modo puro, cioè indipendente dalle esperienze e dalla cultura del soggetto,
si sia dimostrata in larga misura irrealistica (Valseschini e Del Ton, 1981), le PM sono ancora oggi
largamente usate nella pratica clinica per la velocità e la semplicità di somministrazione e per l’utilità
dei dati che permettono di ottenere. In età evolutiva, inoltre, il test è quasi sempre molto gradito ai
bambini, che lo fanno talmente volentieri da scambiarlo spesso per un gioco. Questo lo rende utile, a
volte, anche come strumento di primo approccio con soggetti difficili che, per esempio, non siano in
grado, per i più vari motivi, di instaurare una relazione basata sul linguaggio verbale. Nel corso degli
anni sono state elaborate moltissime versioni di Matrici Progressive, diverse per difficoltà e per età di
destinazione. Con Marco venne utilizzata la versione denominata PM 38, la più adatta per bambini
disponibile a quell’epoca. Oggi, per bambini dai 5 agli 11 anni, esistono invece le CPM (acronimo
inglese di Matrici Progressive Colorate), particolarmente belle anche da un punto di vista grafico e
particolarmente utili per la loro validità sia interna che di costrutto (Belacchi e Cornoldi, 2006).
3 Il test WISC è la versione per l’età evolutiva della notissima scala di Wechsler per la misurazione
del QI negli adulti, pubblicata per la prima volta nel 1939 (Wechsler, 1939) e poi più volte riadattata.
In età evolutiva è probabilmente il test più usato per la misurazione dell’intelligenza e per la diagnosi
di disabilità. La caratteristica fondamentale della scala WISC è quella di essere composta di molti
subtest, alcuni dei quali verbali e anche strettamente legati a conoscenze fortemente influenzate dalla
cultura e dalla scolarizzazione; altri, sempre verbali, meno dipendenti dalle esperienze del soggetto
ma più legati, per esempio, a capacità di riflessione o alla memoria di lavoro; altri ancora, non
verbali, costruiti in modo da valutare capacità percettive, di orientamento spazio-temporale, di
coordinamento oculomanuale, di velocità di elaborazione. Il risultato finale, espresso in QI,
rappresenta la misura media dei punteggi ottenuti nei singoli subtest, ma l’analisi e il confronto dei
risultati parziali fornisce indicazioni diagnostiche ulteriori di grandissimo interesse (Ranieri e
Catocci, 1997; Padovani, 1998). A Marco venne somministrata la scala WISC, l’unica allora a
disposizione per l’età evolutiva. In seguito, per soggetti dai 6 ai 16 anni, è uscita una versione
revisionata, detta WISC-R (Wechsler, 1986), che è quella per lo più usata nei casi descritti nei
capitoli, mentre per bambini di età prescolare è disponibile la versione WPPSI (Wechsler, 1973).
Segnalo che, nel tempo intercorso tra il lavoro con i casi raccontati su questo libro e la sua
pubblicazione, è uscita una nuova versione del test anche in italiano: si tratta della WISC-III
(Wechsler, 2006) e, più recentemente, la WISC-IV (Wechsler, 2012) dove, alle due tradizionali scale
verbale e di performance, si sono aggiunte la memoria di lavoro e la velocità di elaborazione, in
modo da fornire un quadro neuropsicologico più ampio e nello stesso tempo più dettagliato delle
caratteristiche cognitive del bambino e del ragazzo. Molti dati già consolidati e alcune ricerche
tuttora in corso sembrano indicare, in particolare, che la velocità di elaborazione rappresenti una
scala molto utile per ottenere indicazioni sulla specificità del disturbo e sui punti di forza e di
debolezza del paziente (Carli e Orsini, 2013).
4 Il disegno della figura umana è una prova che viene svolta molto di frequente nella consultazione
psicologica di bambini di età prescolare e di scuola primaria. Non esiste una procedura unica di
somministrazione, né, tanto meno, di valutazione standardizzata: anzi, la valutazione della figura
umana come test per la misurazione dell’intelligenza e per l’indagine della personalità è stata
sottoposta a critiche molto forti, per lo più convincenti e spesso condotte nei termini rigorosi di
analisi sperimentali che non sembrano corroborare empiricamente l’ipotesi secondo la quale questi
strumenti rappresentano metodi attendibili di valutazione (Lilienfeld, Wood e Garb, 2001). Tuttavia, i
bambini disegnano volentieri, mentre disegnano è più facile entrare in relazione con loro, il disegno
può essere spunto per ulteriori comunicazioni da parte loro e per ulteriori approfondimenti da parte
dello psicologo (Sacchelli, 2001) e il disegno della figura umana in particolare (Goodenough e
Harris, 1977; Royer, 1979; Rea e Picone, 2013) può fornire qualche indicazione sia sulle capacità
intellettive sia su alcuni eventuali aspetti psicopatologici, purché l’interpretazione del disegno sia
fatta con molta cautela e sia sempre messa a confronto con altri dati clinici e con test standardizzati
(Widlocher, 1992). Per una discussione molto sfaccettata, molto accesa e molto stimolante, vedi
Tressoldi, Pedrabissi, Trevisan e Cornoldi, 2010.
5 Quando la personalità non è armonica e ai disturbi dell’intelligenza si sovrappongono altri
disturbi, per esempio d’ansia o dell’umore, ma soprattutto della relazione, la situazione clinica si
complica in modo notevole, come si può vedere, in particolare, nel capitolo 6.
6 Vedi capitolo 2, nota 4
7 Attualmente si calcola che oltre il 20% circa dei soggetti con Disabilità intelletiva sia a causa
organica sconosciuta (Van Hasselt e Hersen, 1995; De Negri, 1999). Questa percentuale è tanto più
alta quanto più lieve è l’entità del ritardo ed è significativamente maggiore nei bambini allevati in
situazioni di disagio ambientale e sociale. Probabilmente si tratta di una percentuale destinata a
scendere con il progredire delle indagini diagnostiche, soprattutto genetiche (State, King e Dykens,
1997; King, State, Shah, Davanzo e Dykens, 1997; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998; Utine et
al., 2014), e comunque molto incerta: si pensi, per esempio, che solo una decina di anni fa, ancora
qualche studioso stimava che nel 75% circa dei casi di Diabilità intellettiva la causa organica non
fosse identificabile (Weisz, 1990).
8 Questa capacità, detta “adattiva”, può essere valutata attraverso l’osservazione delle capacità di
comunicazione, cura di sé, cura domestica, capacità sociali, uso della comunità, capacità di
autogestione, comportamento scolastico, gestione del tempo libero, capacità lavorative. La capacità
adattiva può essere misurata con l’ABI, uno strumento standardizzato che permette di valutare il
comportamento adattivo di un soggetto portatore di handicap rispetto a 5 dimensioni: autonomia,
comunicazione, abilità sociali, abilità scolastiche, abilità lavorative (Brown e Leigh, 1987). Tuttavia
il test oggi più diffuso e accreditato è probabimente rappresentato dalle Vineland Adaptive Beahovior
Scales (Sparrow, Balla e Cicchetti, 1993-1999) che, attraverso un’intervista semistrutturata a genitori
e caregiver, valutano la comunicazione, le abilità quotidiane, la socializzazione e le abilità motorie.
In una discussione sulla concettualizzazione, la misurazione e l’utilizzo del costrutto di
comportamento adattivo, Tassé et al. (2012) mostrano l’importanza della misurazione di questa
abilità per un assessment funzionale non solo a una più corertta diagnosi, ma anche all’impostazione
di un più efficace lavoro abilitativo.
9 Per fare diagnosi di Disabilità intellettiva è necessario che l’esordio avvenga nell’età dello
sviluppo. Esordio non significa diagnosi: dunque, in teoria, la diagnosi può essere fatta per la prima
volta anche su un adulto, se la storia consente di accertare che il ritardo era presente già nei primi
anni di vita. In pratica, tuttavia, anche nel caso dei ritardi più lievi, oggi è difficile che un bambino
non sia diagnosticato per lo meno con il suo ingresso a scuola.
10 Le applicazioni terapeutiche dei principi teorici della metacognizione, e la relativa bibliografia,
saranno meglio analizzate nei capitoli 7 e 8 a proposito del Disturbo specifico dell’apprendimento.
11 Una brevissima analisi di questo argomento è svolta nel capitolo 3, paragrafo “Considerazioni
teoriche”. Vedi anche Cazzullo (1998).
Capitolo 2

Disabilità intellettiva Moderata


Fabio Celi

LA STORIA DI LUCA
Luca è nato con una sindrome di Down. L’ho conosciuto quando aveva
quasi cinque anni, ma penso che la diagnosi sia stata fatta fin dai primi
giorni di vita. I genitori di Luca appartengono alla classe media, il padre è
un professionista e la madre insegna in una scuola secondaria di secondo
grado. I medici devono aver notato subito che c’era qualcosa che non
andava; la mappa cromosomica, poi, ha tolto ogni dubbio residuo. Quando
ho raccolto la storia, questa prima parte è rimasta sempre un po’ nel vago,
come se facesse parte di un brutto sogno. Ciò che sono riuscito a ricostruire
(senza particolari insistenze, per cercare di rispettare il bisogno dei genitori
di non tornare a soffrire rievocando quei momenti in maniera troppo
precisa) è che, prima di tutto, la notizia fu evidentemente un colpo
gravissimo per entrambi. Avevano già un figlio di circa otto anni, sano,
intelligente e fonte di mille soddisfazioni, e l’attesa del secondo era stata
accompagnata da serenità, gioia e tante aspettative positive. Inoltre, erano
sufficientemente colti per capire fin dal primo momento che cosa questa
diagnosi significasse. Durante il primo colloquio con i genitori
ricostruii sommariamente le loro reazioni in quel periodo: prima il panico
per l’ignoto che li attendeva, poi, da parte della madre, la depressione,
mentre il padre reagiva buttandosi nel lavoro con un accanimento ancora
maggiore di quanto avesse fatto fino a quel momento (Drotar, Baskiewicz,
Irvin, Kennel e Marshall, 1975; Montobbio, 1983). Le diverse reazioni dei
genitori si erano probabilmente potenziate a vicenda, almeno in un primo
periodo: la madre, in un certo senso abbandonata, lasciata sola di fronte ai
problemi di un figlio bisognoso di cure particolari, rischiava ogni momento
di vedere la sua depressione aggravarsi; il padre finiva per allontanarsi
sempre di più dalla famiglia, ritrovando a casa non soltanto un bambino che
lo angosciava, ma anche una moglie depressa.

pag. 49

Un punto di svolta fu rappresentato dal consiglio del pediatra di fare


riabilitazione motoria e del linguaggio. Il consiglio era corretto da un punto
di vista tecnico, perché Luca aveva subito mostrato ritardi significativi in
entrambe le aree, iniziando a deambulare autonomamente poco prima dei
due anni e a usare qualche parola con intento comunicativo dopo i due anni
e mezzo. Il consiglio ebbe però un valore molto positivo anche da un punto
di vista emozionale, perché diede alla madre, forse per la prima volta dalla
nascita di Luca, l’idea che si potesse tentare di fare qualcosa.
Ricordo nei primissimi tempi della mia pratica professionale un anziano
specialista che, di fronte a casi di questo genere, era solito dire ai genitori,
con una chiarezza che sfiorava la brutalità, che i limiti biologici causati
dalla malattia del bambino erano invalicabili e che quindi non riponessero
speranze nelle terapie, ma si abituassero piuttosto realisticamente all’idea di
avere un figlio handicappato per tutta la vita. Giustificava tale approccio
sostenendo che non bisogna avere paura della verità, né essere
corresponsabili di un inganno. Il risultato, però, era che spesso io ero poi
costretto a lavorare per settimane o mesi con i genitori (o più sovente con la
mamma da sola che arrivava in lacrime dopo aver sentito tali affermazioni)
al solo scopo di neutralizzare o almeno attenuare gli effetti devastanti di una
comunicazione fatta in quel modo.
È chiaro che le aspettative irrealistiche sono pericolose, ma un genitore
senza speranza finirà per trovarsi di fronte a un figlio disperato. Al
contrario, credere nelle capacità, anche limitate, di chi ci sta di fronte è il
modo migliore per affrontare qualsiasi lavoro educativo o terapeutico: da
quel primo colloquio con i genitori mi apparve chiaro che il lavoro svolto
dalla terapista, oltre a essere utile per Luca, aveva avuto anche un
significato terapeutico per loro.
Quel consiglio del pediatra ebbe anche un altro effetto, stavolta del tutto
fortuito. Dopo un certo numero di sedute, la terapista disse ai genitori che
aveva bisogno dell’aiuto di uno psicologo, per impostare meglio i
programmi futuri con Luca, e consigliò loro di consultarmi. Il consiglio non
fu accolto con particolare entusiasmo e la terapista pensò allora di mediare:
se loro erano d’accordo, mi avrebbe invitato ad assistere a una sua seduta di
terapia.
I genitori accettarono questa sorta di compromesso e così vidi Luca per
la prima volta nello studio della logopedista, quando aveva circa cinque
anni. Era un bambino cicciottello, con gli occhiali, il volto tipico della
sindrome di Down e un’espressione allegra, sorridente e serena anche
quando la terapista gli chiedeva di impegnarsi in compiti riabilitativi a volte
non propriamente divertenti. Era evidente che aveva sviluppato con lei una
relazione particolarmente buona, ma tutto sommato osservai comportamenti
simili anche quando, nelle sedute successive, cominciai a vederlo da solo
(una volta “rotto il ghiaccio”, infatti, i genitori non ebbero più nessuna
difficoltà a collaborare con me).
Luca aveva buone capacità relazionali, una personalità, al di là
dell’ovvio aspetto deficitario, sostanzialmente equilibrata, era sereno e
collaborativo e i disturbi di comportamento erano limitati a una certa
oppositività di fronte a richieste che riteneva troppo pesanti. Verificai la
presenza di alcune abilità preparatorie alla scuola primaria (Cornoldi et al.,
1997), in particolare di tipo spazio-temporale, poi lo feci disegnare, sia in
modo libero sia chiedendogli temi specifici come il disegno della figura
umana,1 infine lo sottoposi alle CPM2 e alla WPPSI3 ottenendo un profilo
cognitivo armonico con un QI di 45.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Luca presenta dunque una Disabilità intellettiva di gravità Moderata
(nell’ICD-10 “Ritardo mentale di media gravità”, codice F71),4 disturbo per
il quale è quasi sempre possibile trovare una causa organica.5 Il bambino, in
particolare, ha una trisomia 21 e questa è una causa frequente di Disabilità
intellettiva, anche se dalla sola anomalia cromosomica non è possibile
sapere in anticipo quale sarà la gravità. La trisomia 21 è, però, un esempio
tra i tanti di patologie che portano a una condizione di Disabilità intellettiva.
Per questi motivi la ricerca medica si è interessata moltissimo allo studio
delle cause e delle possibili terapie. L’argomento, tuttavia, che a rigore va al
di là degli interessi di questo libro, viene brevemente affrontato nel capitolo
3.
Non esiste invece una ricerca specifica di orientamento psicologico sulla
Disabilità intellettiva Moderata, che, collocandosi in una posizione
intermedia tra le forme più lievi e quelle più gravi, può avvalersi dei
risultati dei lavori descritti nel capitolo 1 e nel capitolo 3. In questi casi, uno
dei principali problemi consiste proprio nel trovare un giusto equilibrio tra
un approccio al bambino eccessivamente rigoroso, spesso indispensabile
nelle situazioni più gravi, ma utile anche in questi casi, e un atteggiamento
più aperto, più attento alle forme di apprendimento incidentale e agli aspetti
metacognitivi ed emozionali (Ianes, 1990; Zeanah, 1996; Channell, Conners
e Barth, 2014; Bermejo, Mateos e Sánchez-Mateos, 2014). Il punto è
dunque non rinunciare alle potenzialità offerte dai metodi dell’educazione
speciale senza sbilanciarsi troppo con approcci che, per la loro eccessiva
rigidità e la scarsa attenzione ai processi autonomi di apprendimento e di
crescita del bambino, finiscono per interferire negativamente sulla
metacognizione (vedi riquadro sottostante) e sull’autostima .

pag. 56

La ricerca ha più volte messo in luce, a questo proposito, come gli


interventi più efficaci, non tanto per gli effetti a breve termine, quanto per
quelli sul lungo periodo, siano proprio quegli interventi che tengono conto
il più possibile, anche attraverso forme di apprendimento incidentale, del
mantenimento e della generalizzazione delle nuove abilità acquisite, e
dell’ambiente naturale in cui il bambino è inserito (Day e Horner, 1987).
Intendo dire che è relativamente facile “condizionare” un bambino con
sindrome di Down a indossare una maglia (sempre la stessa, con un
orsacchiotto disegnato sul davanti) quando lo “sperimentatore” gli dice:
“Ora metti la maglia” e poi, per evitare che la indossi a rovescio: “Attento
che l’orsacchiotto sia al posto giusto” e infine, per rinforzare l’abilità:
“Bravissimo, hai messo la maglia da solo. Ti meriti un cioccolatino”.
L’esempio è volutamente caricaturale, ma serve per evidenziare che il
problema non è tanto costruire un comportamento o un’abilità in
laboratorio, ma fare in modo che il comportamento e l’abilità servano nella
vita vera, di tutti i giorni (Ianes, 2001; Celi et al., 2007; Wright, Kaiser,
Reikowsky e Roberts, 2013). L’esempio, in sé molto banale, serve anche
per ribadire uno degli aspetti forse centrali di tutta la ricerca psicologia sulla
Disabilità intellettiva. Nessun intervento significativo è possibile con questi
bambini senza una collaborazione con la famiglia e, per estensione, con le
figure di riferimento anche affettivo che ruotano intorno a loro (Bijou,
1990; Milani, 1993, 2001; Soresi, 1997; Marcus, Kunce e Schopler, 2005;
Coduri, 2013). Questa considerazione, che si rifà ai modelli del parent
training , è valida per tutti i livelli di Disabilità intellettiva e, ancora più
in generale, in molte condizioni psicopatologiche dell’infanzia, come è
possibile vedere, per esempio, nelle sezioni di questo libro dedicate al
Disturbo dello spettro dell’autismo o ai Disturbi d’ansia (Benedetto, 2005;
Menazza e Bacci, 2008). Se ne parlo più diffusamente qui è perché, entro
certi limiti, un bambino con un ritardo lieve può anche cavarsela con l’aiuto
dei suoi insegnanti, o del suo terapista, o del suo psicologo. Un bambino
grave avrà comunque massicciamente bisogno di interventi riabilitativi
specialistici. In situazioni intermedie lo stretto lavoro di collaborazione con
la famiglia diventa, invece, particolarmente prezioso. I genitori protagonisti
o almeno coprotagonisti dell’intervento abbandonano più facilmente un
atteggiamento rinunciatario nei confronti del figlio, tipico in queste
situazioni e molto pericoloso, per adottare comportamenti più fiduciosi e
dunque più attivi. La collaborazione attenta e supervisionata dei genitori ai
programmi terapeutici tende, inoltre, a diminuire gli errori educativi, spesso
responsabili non soltanto degli scarsi progressi nei programmi didattici e
riabilitativi, ma anche di complicazioni emozionali e comportamentali,
purtroppo frequenti nei bambini con Disabilità intellettiva. La possibilità di
ripetere a casa, in famiglia, o la domenica andando a spasso col papà,
esperienze già sperimentate come utili in situazioni più protette come la
scuola o lo studio dello psicologo e del terapista della riabilitazione,
consolida le acquisizioni fatte, le inserisce in un contesto più naturale,
favorisce la generalizzazione e fornisce ai genitori l’opportunità di
gratificare il figlio per i suoi progressi e per le soddisfazioni reali che è in
grado di dare loro. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante,
perché tende a trasformare positivamente il clima relazionale genitori-
bambino, molto più di tante chiacchiere teoriche di certi psicoterapeuti così
astrattamente orientati alla relazione da dimenticare che una relazione
positiva dipende anche dai banalissimi ma concreti comportamenti positivi
che una persona riesce a mettere in atto mentre si relaziona con un’altra. A
sostegno di questa posizione citiamo i risultati di una ricerca condotta in
Italia su 47 bambini con sindrome di Down, in cui si poneva a confronto
l’efficacia di un programma di sviluppo implementato dai genitori in
accordo col CCITSN6 con quella del trattamento di base fornito dal
Servizio Sanitario Nazionale (SSN). A distanza di 12 mesi dall’inizio
dell’intervento, il gruppo sperimentale ha mostrato decisi miglioramenti
nelle aree dello sviluppo, mentre il gruppo SSN, pur mostrando un lieve
miglioramento, non ha raggiunto la significatività statistica (Del Giudice et
al., 2006).7 Altre ricerche internazionali, effettuate su problematiche
peculiari, come le difficoltà nel sonno in bambini con sindrome di Down
(Stores e Stores, 2004), hanno condotto a risultati analoghi.

pag. 41

pag. 562

METACOGNIZIONE
La metacognizione è il pensiero sul pensiero. Un bambino può fare
una capriola su un prato e questo (ammesso che si possa fare qualcosa
senza pensare a nulla) è un comportamento. Oppure può pensare alla
capriola che farà o a quella che ha appena fatto, e questo è un
pensiero. Oppure può riflettere sul fatto che, se prima di fare la
capriola pensa a come farla, la capriola gli riuscirà meglio (o forse
peggio) e questa è una metacognizione: una riflessione sui propri
pensieri. Quando un bambino studia a memoria una poesia mette in
atto un processo cognitivo, o più probabilmente molti processi
cognitivi. Quando un bambino studia un brano di storia mette in atto
altri processi cognitivi. Quando scopre che i processi cognitivi
necessari per imparare una poesia a memoria sono diversi da quelli
necessari per sostenere un’interrogazione di storia, sta facendo una
riflessione metacognitiva. Si dice che il bambino capace di molte
riflessioni di questo genere ha sviluppato una buona sensibilità
metacogniva. Oggi sappiamo, anche se ci vorrebbe un trattato e non
una voce di glossario per discutere questo argomento, che una buona
sensibilità metacognitiva può fare la differenza tra uno studente in
gamba e uno in difficoltà. È infatti chiaro che le capacità di studio e il
rendimento scolastico tendono ad aumentare se lo studente si rende
conto che ci sono modi diversi per studiare materiali diversi, modi
diversi di leggere testi diversi, modi più adeguati per affrontare
un’operazione aritmetica e modi più adeguati per risolvere un
problema, situazioni dove studiare risulta più facile e più produttivo
(solo per citare qualche esempio, tra i tantissimi di questo sterminato
campo di ricerca).
Nel testo non ci si limita a sottolineare l’importanza teorica della
metacognizione, ma si mostra anche come, entro certi limiti, un
miglior atteggiamento metacognitivo possa essere insegnato, sia a
bambini con Disabilità intellettiva (come nel capitolo 1), sia,
soprattutto, a bambini con Disturbo specifico dell’apprendimento
(come nel capitolo 7, dove le abilità di comprensione del testo
aumentano quando Andrea riflette sul fatto che lo scopo principale
della lettura è impadronirsi del significato di quello che si legge).
Nei capitoli sui disturbi della sfera emozionale (ansia e umore)
vedremo come, in un’ottica cognitivo-costruttivista, anche la
psicoterapia fa leva sulla sensibilità metacognitiva del paziente.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO E PROGNOSI
Lo specialista che in casi di Disabilità intellettiva Moderata dice alla madre
che non c’è niente da fare, che è meglio accettare la realtà che illudersi,
sbaglia due volte. Sbaglia una prima volta, evidentemente, per i danni
emotivi che produce, come abbiamo visto. Sbaglia ancora, e in modo grave
anche da un punto di vista puramente prognostico. Oggi Luca frequenta il
primo anno di un istituto tecnico. Proprio mentre scrivo sta imparando ad
andare a scuola da solo usando un autobus con il quale deve percorrere gli
oltre tre chilometri che separano la casa dalla scuola. Già durante la
frequenza alla scuola secondaria di primo grado ha imparato a muoversi da
solo nel suo quartiere, a fare qualche acquisto e a gestire piccole somme di
denaro. Le sue relazioni sociali spontanee sono molto limitate, ma frequenta
un gruppo di ragazzi di un’organizzazione di volontariato dove si trova
molto bene; anche con i compagni di classe non ha particolari problemi.
Contro il punto di vista dello specialista che ho citato nel paragrafo
iniziale, dunque, si può fare molto. Questi risultati sono stati raggiunti con:
un lavoro di équipe; la fondamentale collaborazione dei genitori come
“terapeuti”; l’utilizzo di strategie cognitivo-comportamentali sempre più
flessibili a mano a mano che Luca cresceva; la messa a punto di una
programmazione scolastica centrata su esperienze di apprendimento
collaborativo; l’uso di tecnologie informatiche per avvicinare la sua
programmazione individualizzata a quella di classe, che gli hanno
permesso, per esempio, di sostenere all’esame di terza classe della scuola
secondaria di primo grado prove su numerosi argomenti simili, anche se
molto semplificati, a quelli studiati dai suoi compagni di scuola (Celi,
1996).
Ciò non significa che, quando era più piccolo, Luca non sia anche stato
“bombardato” da stimoli e rinforzatori per ottenere risultati che al momento
ci sembravano importanti per lui. So che questo termine, “bombardato”,
può far storcere il naso a molti e lo uso di proposito in questo contesto per
ribadire che non dobbiamo aver paura delle tecniche, quando queste sono
utili a un bambino disabile e quando vengono applicate con competenza e
saggezza. Verso l’età di sette anni, per esempio, quando tutti i compagni
intorno a lui avevano imparato a leggere, lui era ancora fermo al
riconoscimento delle lettere dell’alfabeto in stampatello maiuscolo.
Perché negare che questo sia un problema? Nessuno sostiene che sia il
problema. Nessuno sostiene che per “guarire” Luca sia necessario
insegnargli a leggere. Nessuno può, d’altra parte, pensare di “guarire” Luca
e tutti ci rendiamo conto che un bambino così ha bisogno di molte cose e,
prima fra tutte, di condurre una vita serena circondato da persone per
quanto possibile serene. Non avrebbe senso concentrare i nostri sforzi
esclusivamente sul processo di lettura e trascurare il resto fino a trasformare
questo obiettivo in una specie di ossessione per lui, per i suoi genitori e per
i suoi insegnanti.
Ma questo cosa significa? Significa forse che non dobbiamo lavorare in
modo sistematico sugli apprendimenti per paura di trascurare cose più
importanti e fare chissà quali danni? Io non credo. Pongo però queste
domande perché purtroppo furono poste, a volte anche con una certa
aggressività, da alcuni specialisti. Costoro sostenevano che non si doveva
lavorare sulla lettura, né, in genere, occuparsi di apprendimento, ma solo
dei “vissuti” di Luca e dei genitori nei confronti della sua diversità. In una
parola, Luca aveva bisogno di psicoterapia e non di programmi educativi.
Menziono questo episodio perché rappresenta un copione che si ripete, sia
pure con mille varianti, molte volte: tanto è vero che lo ritroviamo simile
anche nel prossimo capitolo.
È troppo facile che la vita di questi bambini venga a un certo punto
attraversata da uno psicologo o da un neuropsichiatra infantile con idee
molto precise: questo “investimento” degli aspetti didattici è pericoloso e
assolutamente da evitare; bisogna aspettare la maturazione spontanea di
certi processi cognitivi e non provocarla con metodi artificiali e
condizionanti; si deve lavorare sulla relazione e non sui contenuti.
Personalmente preferisco posizioni più mediate. Luca trascorre almeno
cinque ore al giorno a scuola, dove è almeno in una certa misura inevitabile
che vengano “investiti” gli apprendimenti. Si può ragionevolmente
prevedere che almeno un’ora venga dedicata anche nel pomeriggio ad
attività simili (compiti, terapia riabilitativa, rientri pomeridiani a scuola).
Per il resto della giornata è sacrosanto che Luca faccia dell’altro. Ma
davvero è una buona idea lasciarlo tante ore con dei compagni che leggono,
scrivono, presto impareranno a risolvere problemi aritmetici e a studiare la
storia, senza cercare di portarlo, con pazienza, dolcezza e gradualità, ad
alcuni di questi obiettivi? Cosa lo aiuterà maggiormente a “vivere” la sua
diversità: le chiacchiere di uno psicoterapeuta oppure il provare a ridurre
almeno questa diversità e rendersi conto così che questa non è sempre
un’impresa impossibile?
Non amo le guerre, e le evito ogni volta che mi riesce anche con gli
psicologi e i neuropsichiatri infantili che la pensano in modo molto diverso
da me: nelle guerre, di solito, sono i più deboli quelli che si fanno più male,
e qui i più deboli sarebbero stati certamente Luca e i suoi genitori. Così
cerco di mediare tra queste posizioni. Cerco di evitare che i genitori escano
eccessivamente confusi da comunicazioni troppo contrastanti. Cerco di
evitare loro, per lo meno, il senso di colpa che quasi certamente
sopraggiunge di fronte a troppe proposte “specialistiche” in antitesi tra di
loro. Poi, eseguita questa operazione preliminare a mio parere
fondamentale, cerco anche di seguire la strada che ritengo più utile per un
bambino. In questo caso, mi sembrava che imparare a leggere, utilizzando
tutti i metodi che la psicologia dell’educazione speciale ci mette a
disposizione, fosse utile per Luca. Per il resto, dato che programmi di
questo genere non occupano, di solito, più di mezz’ora al giorno, Luca
poteva continuare ad andare a scuola per socializzare, fare psicomotricità e
terapia della famiglia, trovare un oratorio disposto ad accoglierlo nella
piccola squadra di calcio senza lasciarlo perennemente in panchina
(operazione difficile, ma non impossibile e molto utile ogni volta che si
riesce a fare) e mille altre cose.
I metodi di apprendimento senza errori (vedi riquadro sottostante) per
l’avvio alla lettura (Smeets, Lancioni e Hoogeveen, 1984; Celi, 1989;
Perini, 1997; Lancioni, 1993; Zanzanelli, Fontana e Celi, 2005; Sage,
Hesketh e Ralph, 2005; Didden, de Graaff, Nelemans, Vooren e Lancioni,
2006) che utilizzai con Luca, sempre in stretta collaborazione con gli
insegnanti e la terapista e con il “consenso”, se non proprio l’entusiasmo,
del neuropsichiatra infantile, rappresentano a mio parere un’istruttiva
metafora di quello che possiamo fare con i bambini con Disabilità
intellettiva.

APPRENDIMENTO SENZA ERRORI


L’apprendimento senza errori è una tecnica di insegnamento e di
riabilitazione cognitiva che consiste nell’inserire nella situazione
didattica uno stimolo con funzione di aiuto. Questo stimolo di aiuto
(detto anche prompt) serve in un primo tempo a impedire al soggetto
di sbagliare (di qui l’espressione apprendimento senza errori o
errorless learning). In un secondo tempo, quando il soggetto comincia
a padroneggiare la nuova abilità, lo stimolo di aiuto viene eliminato in
modo molto graduale. Di solito, si usano metodi di dissolvenza (o
fading) a mano a mano che il soggetto mostra di poter fare a meno
dell’aiuto (di qui l’espressione prompting and fading, altro modo di
chiamare questa tecnica).
Un esempio di programma di apprendimento senza errori si trova nel
capitolo 1 a proposito dell’avviamento alla lettura di parole intere nel
caso di Marco. A dimostrazione della flessibilità del metodo, tuttavia,
vale la pena fare riferimento anche al capitolo 7, dove con Andrea è
usata la stessa tecnica e sempre per favorire il processo di lettura, ma
questa volta a livello di riconoscimento di grafemi e di
consolidamento della corrispondenza grafema-fonema. In questo
stesso capitolo è possibile vedere anche l’utilità delle tecniche di
apprendimento senza errori in software didattici e riabilitativi.
L’apprendimento senza errori può essere usato anche per insegnare
abilità nelle autonomie personali e sociali. Inoltre, ampliando un poco
il significato dell’espressione, può essere trovato anche in alcuni
programmi psicoterapeutici di esposizione agli stimoli ansiogeni.
Nell’ultimo paragrafo del capitolo 14, per esempio, viene brevemente
descritto il caso di Paolo che riuscì a raggiungere in auto un vicino
paese grazie alla presenza del terapeuta che faceva il percorso in auto
con lui. La presenza del terapeuta può essere interpretata come uno
stimolo di aiuto (anche se di tipo emozionale piuttosto che cognitivo).
Se poi il terapeuta si fa da parte in modo graduale, lasciando il
paziente piano piano da solo ad affrontare le situazioni ansiogene,
questo può essere interpretato come una forma particolare di
apprendimento senza errori.

La tecnica deriva da esperimenti di laboratorio che risalgono alla metà degli


anni Sessanta del secolo scorso (Terrace, 1963) e che studiavano la capacità
dei piccioni di discriminare colori e forme diversamente orientate nello
spazio. I primi studi mostrarono che i piccioni potevano essere facilmente
condizionati a scegliere sempre un certo colore, mentre non riuscivano a
imparare a riconoscere le diverse forme. Questo avrebbe potuto portare i
ricercatori a concludere che gli animali hanno limiti biologici che
impediscono loro questi apprendimenti. Gli studiosi, invece, modificarono
l’apparato sperimentale classico della discriminazione e condizionarono i
piccioni a rispondere a certe forme associando alla forma un colore
precedentemente appreso. In questo modo condizionarono l’animale a dare
sempre risposte corrette, perché aiutati dal colore precedentemente appreso
(questo è il motivo per cui la tecnica prende il nome di “apprendimento
senza errori”). Una volta ottenuto questo risultato, attenuarono il
suggerimento del colore, facendolo dissolvere lentamente (la tecnica si
chiama, infatti, anche fading che significa, appunto, dissolvenza). Infine,
eliminarono completamente il colore e scoprirono che i piccioni erano, a
quel punto, in grado di riconoscere forme diverse grazie al precedente
lavoro di condizionamento. Possiamo fare con Luca la stessa cosa? La
stessa cosa ovviamente no. Non possiamo rinchiuderlo in un laboratorio e
condizionarlo a riconoscere colori e forme rinforzandolo con pezzettini di
cibo. Però possiamo proporgli semplici parole scritte in stampatello
maiuscolo e presentate insieme all’immagine corrispondente (per es., la
parola “nave” e il disegno di una nave). Possiamo poi chiedergli di leggere
la parola e ottenere così un tipo di apprendimento senza errori: Luca leggerà
“nave”, perché facilitato dal disegno. Non abbiamo nessun bisogno di
pezzettini di cibo, ma possiamo ugualmente gratificarlo dicendogli che è
bravo, che siamo contenti di lui, che sta imparando a leggere. Poi, a mano a
mano che la sua abilità di riconoscimento di questi cartoncini aumenta e
aumenta la sua motivazione a questi compiti, introduciamo l’attenuazione.
Facciamo sfumare piano piano il disegno della nave e infine lasciamo solo
la parola. Non mi interessa qui tanto né la descrizione analitica del metodo
né il fatto, pur importantissimo per Luca, che il bambino abbia così
imparato a leggere, prima parole, poi semplici frasi anche in stampatello
minuscolo e, con tecniche analoghe (Lancioni, 1992), abbia imparato molte
altre cose come le addizioni e le sottrazioni con riporto e prestito. Quello
che mi interessa è mostrare come l’approccio educativo possa essere visto
in due modi.
C’è un modo violentemente critico di vederlo: noi abbiamo trattato Luca
come se fosse un piccione, lo abbiamo ammaestrato invece di educarlo,
abbiamo condizionato alcune irrilevanti risposte automatiche trascurando la
relazione con lui, il suo bisogno di crescere serenamente e senza
accanimenti terapeutici e riabilitativi che finiranno per fargli più male che
bene. C’è, però, anche un secondo modo: con pazienza e gradualità gli
abbiamo insegnato a leggere. La tecnica, presa in prestito dal laboratorio,
ma riadattata alle sue esigenze di essere umano e di bambino, gli ha
permesso prima di giocare con le parole; poi di fare esperienze gratificanti
di riconoscimento anziché essere sottoposto alla frustrazione di esercizi
troppo difficili per lui; poi l’ha messo in grado, molto più avanti nel tempo,
di comprendere semplici frasi; poi ha fatto sì che lui stesso e chi gli stava
intorno cominciassero a credere un po’ di più nelle sue potenzialità; forse
domani (come recitano i manuali nei capitoli sulla prognosi del Disabilità
intellettiva Moderata) questa tecnica gli permetterà di svolgere semplici
lavori in un ambiente protetto o sotto supervisione e di condurre una vita
sociale parzialmente autonoma. Allo stesso scopo, per esempio, si possono
progettare interventi volti a diminuire specifici comportamenti-problema
che utilizzino forme di apprendimento senza errori applicate nel contesto in
cui il soggetto vive e opera quotidianamente (Hughes, Alberto e Fredrick,
2006).8
Se un tempo si diceva che i bambini con sindrome di Down non possono
imparare a leggere e oggi si dicono cose così diverse, molto dipende dal
diverso approccio che oggi abbiamo con loro: non credo di aver trattato
Luca come un piccione, ma solo di avergli concesso almeno la stessa
fiducia (ma, in realtà, molta di più) che i comportamentisti degli anni
Sessanta riponevano nei loro animali da laboratorio.
1 Vedi capitolo 1, nota 4.
2 Vedi capitolo 1, nota 2
3 Vedi capitolo 1, nota 3.
4 Nelle classificazioni internazionali (DSM-IV-TR e ICD-10), il Ritardo Mentale era suddiviso in 5
sottotipi, a seconda del livello di QI: Ritardo Mentale Lieve (QI da 50-55 a circa 70); Ritardo
Mentale Moderato (QI da 35-40 a 50-55); Ritardo Mentale Grave (QI da 20-25 a 35-40); Ritardo
Mentale Gravissimo (QI inferiore a 20-25); Ritardo Mentale di Gravità Non Specificata (QI non
valutabile, ma presumibilmente inferiore a 70). I due sistemi di classificazione differivano
leggermente perché i criteri diagnostici dell’ICD-10 definiscono i livelli con punteggi limite precisi:
il Ritardo lieve è delimitato tra 50 e 69, il moderato tra 35 e 49, il grave tra 20 e 34, il gravissimo al
di sotto di 20. Al contrario, già il DSM-IV-TR prevedeva una flessibilità maggiore nel collegare la
gravità a un dato punteggio di QI definendo i livelli di gravità con punteggi che si sovrappongono.
Nel DSM-5 questa flessibilità aumenta perché, come abbiamo visto nel primo capitolo, i livelli di
gravità sono valutati primariamente sulla base del funzionamento adattivo.
5 La probabilità di trovare una causa organica della Disabilità intellettiva cresce con l’aumentare
della gravità del disturbo; la più bassa è nella Disabilità intellettiva Lieve e la più alta nella Disabilità
intellettiva Grave. Nella Disabilità intellettiva Grave, come si può vedere nel capitolo 3, paragrafo
“Considerazioni teoriche”, è praticamente sempre presente una causa organica dimostrabile.
6 CCITSN (Carolina Curriculum for Infants and Toddlers with Special Needs) è un programma di
abilitazione neurologica e di apprendimento che ha lo scopo di promuovere uno sviluppo
psicomotorio che si avvicini il più possibile alla norma. Tale programma si basa su attività che
possono essere facilmente integrate nella routine di cura quotidiana del paziente e pertanto si presta a
essere gestito da parte delle famiglie stesse. Il CCITSN prende in considerazione 5 domini principali:
cognizione, comunicazione/linguaggio, abilità sociali/adattamento, abilità motorie fini e abilità
motorie basilari (Johnson-Martin, Jens, Attermeier e Hacker, 1991).
7 Nella ricerca di Del Giudice et al. (2006), il programma CCITSN era implementato dai genitori,
ma con l’aiuto di un team professionale che dopo aver steso la baseline ha preparato un programma
di intervento specifico per ogni bambino. Ai genitori è stato insegnato ad amministrare ogni singolo
item e sono stati avvisati che l’implementazione di questi sarebbe stata fatta esclusivamente da loro,
ma che periodicamente avrebbero avuto degli incontri con gli operatori.
8 In questa ricerca, svolta allo scopo di permettere a 4 giovani studenti con Disabilità intellettiva
Moderata di accedere a un percorso di apprendistato lavorativo, Huges e coll. hanno condotto una
analisi funzionale nel setting dell’ambiente lavorativo (quindi in un setting naturalistico) per
determinare la funzione dei comportamenti problematici di ogni studente. L’intervento ha previsto
l’uso di self-operated auditory prompting system, istruzioni vocali personalizzate registrate su nastro,
focalizzate sullo specifico comportamento-problema di ciascuno studente. Si tratta di un intervento
considerato non intrusivo, non avversivo, socialmente valido e facilitante l’autonomia del soggetto
che non ha più bisogno di una persona che gli fornisca gli stimoli antecedenti necessari al controllo
del comportamento. I risultati evidenziano come i comportamenti problematici si siano ridotti per
tutti gli studenti raggiungendo livelli desiderabili.
Capitolo 3

Disabilità intellettiva Grave


Fabio Celi

LA STORIA DI MICHELA
Michela è nata dopo un parto molto difficile. Ore di travaglio, una lunga
sofferenza perinatale e un periodo asfittico, il punteggio di Apgar1 di 4 al
primo minuto e di 6 al quinto. La storia dello sviluppo di Michela, fin dai
primi mesi di vita, è caratterizzata da un ritardo evidente ed esteso a tutte le
aree. La bambina aveva difficoltà persino a succhiare il latte dal biberon e a
deglutire. Intorno agli otto-nove mesi ancora non riusciva a stare seduta. Ha
imparato a camminare da sola senza sostegno dopo i tre anni e a dire
qualche parola comprensibile connessa ai suoi bisogni primari verso i
cinque.
A complicare il quadro, verso il sesto mese, sono intervenute crisi
epilettiche che i neurologi non erano in grado di controllare
farmacologicamente. Michela ha cambiato nel corso degli anni molte volte
la terapia farmacologica, con risultati alterni. Verso i sette-otto anni le crisi
sono diminuite di frequenza e di intensità senza però scomparire del tutto
(De Negri, 1999; O’Brien e Meisler, 2013).
La bambina ha frequentato la scuola dell’infanzia con un insegnante di
sostegno che si occupava a tempo pieno di lei, dal momento che Michela
non possedeva neppure le semplici autonomie di autoaccudimento. Durante
il periodo della scuola dell’infanzia e anche nei primi anni di scuola
primaria non era capace di andare in bagno da sola, di spogliarsi e di
vestirsi, di mangiare. Manifestava, inoltre, alcuni comportamenti
problematici. A volte, soprattutto quando era lasciata da sola o senza
un’attività ben precisa da svolgere, cominciava a dondolarsi avanti e
indietro, in un movimento stereotipato piuttosto tipico. Occasionalmente,
manifestava altri comportamenti stereotipati, come giocare con le mani
muovendole davanti agli occhi in modo ripetitivo. Inoltre, aveva frequenti
scoppi di aggressività, a volte diretta verso gli oggetti (come lanciare o
rompere) a volte verso le persone, più frequentemente nei confronti della
madre e, qualche volta, di alcuni compagni di classe. Con il passare degli
anni e con il notevole aumento di abilità-autonomia (vedi riquadro
sottostante) e, soprattutto, di comunicazione verbale,2 questi disturbi di
comportamento sono diminuiti in modo significativo. Sono rimasti una
facile irritabilità, qualche scoppio di collera vero e proprio, ma raro e per lo
più, in un certo senso, giustificato dalle circostanze, e un atteggiamento
capriccioso e infantile.
Il grave ritardo psicomotorio si è andato attenuando negli anni, anche
grazie a terapie riabilitative specifiche, ma la goffaggine e l’impaccio,
soprattutto nella motricità fine, non sono mai scomparsi del tutto.
La produzione grafica è sempre stata gravemente in ritardo per l’età.
Intorno agli otto-dieci anni la figura umana3 è diventata riconoscibile e non
si è più significativamente modificata: sembra il disegno di un bambino di
scuola dell’infanzia, con qualche bizzarria, per esempio nell’uso dei colori e
nella forma degli occhi, grandi, quasi perfettamente rotondi e con un
piccolo punto nel centro (vedi fig. 2, Tavole a colori). La produzione
scolastica non è mai andata molto oltre la capacità di scrivere il proprio
nome e di riconoscere globalmente qualche parola. Il test ABI4 mostra gravi
carenze in tutte le aree dell’autonomia. Non è possibile eseguire in modo
corretto un test di intelligenza, per l’incapacità della bambina a collaborare
e a comprendere le consegne.

ABILITÀ ADATTIVE
AUTONOMIE PERSONALI
AUTONOMIE SOCIALI
Si chiamano adattive quelle abilità che permettono a una persona di
adattarsi alle richieste dell’ambiente. Le abilità adattive dipendono,
ovviamente, dall’età del soggetto. Per un bambino sono costituite, per
esempio, dal comunicare adeguatamente i propri bisogni, dal
cominciare a socializzare con i coetanei, dallo svolgere da solo alcune
attività tipiche della vita quotidiana, come lavarsi e vestirsi e, più
tardi, uscire con gli amici.
Nei primi 3 capitoli, dedicati al Disabilità intellettiva, è evidenziato
come la carenza di abilità adattive costituisca uno degli elementi di
diagnosi e, nella nuova visione proposta dal DSM-5, addirittura il
principale. Negli stessi capitoli, oltre che nei capitoli 5 e 6 dedicati ai
Disturbi dello spettro dell’autismo, si vede anche che alcune abilità
adattive sono particolarmente importanti e possono, entro certi limiti,
essere insegnate. Si tratta delle autonomie, che consistono nella
capacità di svolgere da soli alcuni compiti.
Le autonomie si dicono personali quando si riferiscono
all’autoaccudimento (come alimentarsi, usare il bagno, lavarsi,
vestirsi). Si dicono sociali quando si riferiscono ad abilità superiori,
per lo più utili nella relazione con gli altri (per es., usare il telefono e
il denaro, leggere l’orologio per arrivare puntuali a un appuntamento,
muoversi da soli nel quartiere per andare a scuola o da un amico,
prendere un mezzo pubblico).
Possiamo vedere, tra gli altri, esempi di insegnamento di autonomie
nel capitolo 1, quando Marco è stato incoraggiato a uscire da solo e a
fare piccoli acquisti; nel presente capitolo, quando Michela ha
imparato ad apparecchiare la tavola e fare il caffè; nel capitolo 5,
quando Maurizia ha imparato a lavarsi le mani.

L’inquadramento diagnostico del caso di Michela è, da un punto di vista


psicologico, piuttosto facile. Sento il bisogno di specificare “da un punto di
vista psicologico” anche se la precisazione dovrebbe essere inutile nel
contesto di un libro che si interessa esclusivamente degli aspetti psicologici
dei casi esaminati. Gli aspetti organici, infatti, sono qui troppo importanti
perché ci sia anche solo il sospetto che possano venire trascurati. È evidente
che Michela è un caso di competenza neurologica, per esempio per quanto
riguarda i suoi disturbi epilettici. C’è una lesione cerebrale responsabile del
suo ritardo. Ma, ripeto, da un punto di vista dell’inquadramento
psicologico, la questione è semplice: Michela ha un Disabilità intellettiva
Grave (codice ICD-10 F72). Ritroviamo, infatti, nella sua storia i tre
elementi fondamentali della Disabilità intellettiva:
1. deficit delle funzioni intellettive;
2. deficit del funzionamento adattivo;
3. esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo.
In linea puramente teorica, si potrebbe obiettare che manca, per inquadrare
Michela nell’ambito della Disabilità intellettiva Grave, il risultato certo di
un QI inferiore a 35-40,5 ottenuto attraverso la somministrazione
individuale di un test standardizzato. Tuttavia, questa obiezione può avere
una sua validità nel caso di una Disabilità intellettiva Lieve, dove è
sbagliato e pericoloso basare la diagnosi soltanto sull’intuito clinico e sulle
difficoltà adattive (o, peggio ancora, scolastiche). In quei casi, il risultato di
un test di QI diventa utilissimo per ottenere informazioni più affidabili sul
reale funzionamento intellettivo di un soggetto e per una diagnosi
differenziale con un Funzionamento intellettivo borderline6 o con altri
disturbi di sviluppo o di apprendimento.7 Purtroppo, la situazione di
Michela è invece già chiara così. Se manca un valore definitivo di QI,
questo è dovuto proprio alla gravità del ritardo. D’altra parte, se non
possiamo fissare con precisione il livello del QI, la gravità del deficit di
comportamento adattivo è evidente, sia sul piano clinico sia dal risultato di
test e check-list. Michela è sistematicamente indietro rispetto ai bambini di
pari età cronologica in tutte le tappe dello sviluppo. Abbiamo già visto le
carenze nello sviluppo motorio e linguistico. Abbiamo già visto con quante
difficoltà la bambina si sia impadronita (parzialmente) delle autonomie
personali legate all’autoaccudimento. Nel corso della sua crescita, possiamo
notare difficoltà simili nello sviluppo di semplicissime abilità scolastiche e
di autonomia sociale.
Anche il compito dello psicologo nei primi rapporti con i genitori è, in
questi casi, relativamente semplice. Infatti, mentre con una sintomatologia
più sfumata è necessaria una particolare cautela nel formulare la diagnosi e,
soprattutto, nel comunicarla ai genitori (Clark, Pailson e Conlis, 1996), qui
la mamma di Michela mi ha consultato quando la bambina aveva oltre
quattro anni e la diagnosi le era già ampiamente nota. Anzi, come è tipico
delle situazioni dove la componente organica è particolarmente rilevante,
già a questa età la bambina aveva una cartella clinica piena di referti relativi
ai deficit di sviluppo motorio, al disturbo epilettico, agli accertamenti clinici
e strumentali connessi con la lesione corticale.
Naturalmente, il fatto che non vi siano particolari problemi di diagnosi
né di comunicazione della diagnosi non rende il lavoro dello psicologo
inutile, o irrilevante, né, tanto meno, semplice sul lungo periodo. Se non vi
è un problema di diagnosi, vi è, infatti, un grave problema di intervento e di
prognosi. Come vedremo meglio nel paragrafo dedicato all’intervento
psicoterapeutico, i genitori hanno bisogno di essere informati nel modo più
corretto possibile su questo punto e sostenuti nel corso degli anni nei loro
sforzi e nelle loro difficoltà (Weissbourd, 1996). Vedremo, inoltre, come lo
psicologo, pur in presenza di un grave danno organico per il quale sono
prima di tutto necessari interventi medici e di riabilitazione anche fisica (si
pensi, nel caso specifico di Michela, alle terapie antiepilettiche e al lungo
lavoro di riabilitazione del linguaggio e della motricità), possa mantenere
un ruolo prezioso di coordinamento degli interventi, di consulenza non solo
ai genitori, ma a tutte le persone che si occupano di Michela come
insegnanti, educatori, volontari del tempo libero…
Un ultimo aspetto del quadro di Michela è legato ai disturbi di
comportamento (Ianes, 1992; Arron, Oliver, Moss, Berg e Burbidge, 2011).
In una revisione critica della letteratura fatta da Davies e Oliver (2014) si
evidenzia come, nella Disabilità intellettiva, ci siano importanti relazioni
con la depressione, l’aggressività e l’autolesionismo. In questi pazienti, a
volte, i problemi di comportamento sono tali da configurarsi come sindromi
a se stanti, per esempio in un Disturbo dello spettro dell’autismo, come è
possibile vedere nei capitoli 5 e 6 dedicati a tale argomento. Altre volte,
come in questo caso, rappresentano invece soltanto incidenti di percorso e
come tali possono essere in qualche modo trattati.

CONSIDERAZIONI TEORICHE
Una parte molto rilevante delle ricerche sulla Disabilità intellettiva Grave si
concentra sullo studio delle cause organiche del disturbo e sull’intervento
medico. Infatti, contrariamente a quanto avviene in forme più lievi di
ritardo, qui la causa organica è praticamente sempre presente e
riconoscibile. Capita anzi, spesso, che le cause siano più di una, come
avviene nei casi di cosiddetto plurihandicap, dove alla Disabilità intellettiva
si associano, per esempio, deficit sensoriali a carico della vista o dell’udito.
Sebbene l’analisi di questi studi, di interesse tipicamente medico, esuli dagli
scopi di questo lavoro, sarà per lo meno importante ricordare che più la
ricerca progredisce e più si evidenziano compromissioni organiche
dimostrabili sia nella Disabilità intellettiva sia nei Disturbi dello spettro
dell’autismo (come si può vedere nei capitoli 5 e 6 dedicati a queste
sindromi). Le cause sono molto varie, ma, in estrema sintesi, possono essere
fatte rientrare in alcune grandi categorie (Cazzullo, Lenti, Musetti e
Musetti, 1998; De Negri, 1999): cause prenatali (come errori congeniti del
metabolismo, anomalie di un singolo gene, aberrazioni cromosomiche,
sindromi poligenetiche familiari); alterazioni precoci dello sviluppo
embrionale (come mutazioni cromosomiche, infezioni, fattori teratogeni o
tossici, disfunzioni placentari); cause perinatali per lo più a danno del
sistema nervoso centrale, particolarmente frequenti nelle gravi prematurità
(Fava Vizziello, Calvo e Cadrobbi, 2000); cause postnatali (come infezioni,
traumi, asfissia, disturbi del metabolismo). Ne parlo in questa sede, ma le
stesse cause si possono ritrovare in tutti i gradi di ritardo, anche se nei
ritardi più lievi le influenze ambientali come la malnutrizione,
l’inadeguatezza sociale, culturale e organizzativa della famiglia sembrano
avere un ruolo preminente. È chiaro che, ogni volta che viene messa in luce
un’eziologia organica, acquistano una particolare importanza gli interventi
medici, per lo più di ordine farmacologico, ma a volte anche connessi, per
esempio, a particolari regimi alimentari. Tali interventi possono ridurre
significativamente il disturbo e migliorare la qualità della vita del bambino
e ci fanno riflettere sul fatto che, in questi casi, lo psicologo non deve essere
il referente unico del caso, ma collaborare con gli specialisti che si
occupano di cure mediche e di riabilitazione.
Nella quotidiana pratica professionale dello psicologo rivestono
maggiore interesse quelle ricerche che hanno messo in luce la possibilità di
applicare i principi della psicologia a orientamento comportamentista per
favorire lo sviluppo di abilità specifiche anche in soggetti di notevole
gravità. Si tratta di una mole ormai imponente di ricerche, sperimentali e
cliniche, dalle quali cercherò di enucleare gli aspetti più rilevanti,
soprattutto da un punto di vista delle prospettive di intervento (Moderato,
1984; Caracciolo e Rovetto, 1988; Lancioni, 1992; Perini e Bijou, 1992;
Celi e Ianes, 2001; Cottini, 2003; American Association on Mental
Retardation, 2005; van Oorsouw, Embregts, Bosman e Jahoda, 2009;
Lancioni, Singh, O’Reilly e Sigafoos, 2009; Vereenooghe e Langdon,
2013).
L’educazione speciale, applicazione pratica dei principi della psicologia
del comportamento ai problemi educativi dei bambini con bisogni educativi
speciali, e dunque alla Disabilità intellettiva prima di tutto, ha mostrato
come non esista nessun soggetto completamente non educabile. In passato
questa distinzione tra educabili e non educabili è stata legittimata
teoricamente e applicata praticamente, a volte anche con una certa rigidità.
Poi, dagli anni Settanta in avanti, sono avvenuti due cambiamenti che ci
permettono oggi di dire che questa rigida distinzione non ha fondamento
teorico ed è dannosa in pratica. Il primo cambiamento riguarda il concetto
di educabilità. Certo, se con questo termine si intende la capacità di
impadronirsi di quelle abilità tipicamente scolastiche come la lettura, la
scrittura o il calcolo, è evidente che vi sono soggetti esclusi da questa
possibilità a causa della gravità del disturbo. L’educazione speciale ha però
rivoluzionato questo concetto e ha esteso il significato del termine
“educare” fino a comprendere l’insegnare a una persona ad andare in
bagno, a vestirsi, ad alimentarsi da sola anziché aver bisogno per tutta la
vita di essere imboccata, a muoversi autonomamente per luoghi conosciuti,
a esprimere verbalmente o in altro modo alcuni bisogni fondamentali, a
controllare la propria aggressività sostituendo a comportamenti gravemente
disadattivi comportamenti socialmente più adeguati. Un esempio
particolarmente drammatico di educabilità anche di soggetti con Disabilità
intellettiva Estrema e plurihandicap è costituito dai lavori di Lancioni e del
suo gruppo sui microswitch. Si tratta di ricerche (il lettore interessato può
trovarne un gran numero nelle annate dal 2001 al 2009 della rivista
Handicap Grave chiamata in seguito Disabilità gravi) che mostrano come,
attraverso tecniche molto sofisticate di feedback erogati da strumenti
elettronici sensibili anche ai minimi movimenti volontari, sia possibile
insegnare embrionali comportamenti di autodeterminazione a soggetti in
passato considerati incapaci di qualsiasi apprendimento e quasi di qualsiasi
interazione significativa con l’ambiente. Si vedano a questo proposito il
lavoro di Lancioni et al. (2011) che ha mostrato la possibilità di insegnare a
pazienti molto gravi a riconoscere stimoli ambientali diversi, e quello di
Ramdoss et al. (2012) che ha analizzato una serie di studi basati su
interventi mediati dal computer per insegnare abilità di vita quotidiana.
Se dunque con il termine “educare” intendiamo tutto questo, allora
persone come Michela sono sicuramente educabili, come apparirà ben
chiaro nel prossimo paragrafo. A livello internazionale è ancora aperto il
dibattito su quali siano i luoghi e le strutture più adatti per svolgere questa
particolare educazione: scuole speciali, centri di riabilitazione
specificamente attrezzati, istituti residenziali o semiresidenziali, oppure la
scuola di tutti8 (scelta che invece, in Italia, raccoglie attualmente la quasi
totalità dei consensi). Ma, comunque si imposti il dibattito e si risponda alla
domanda su dove sia più facile mettere in atto programmi di educazione
speciale, nessuno solleva oggi più dubbi sulla educabilità delle persone con
Disabilità intellettiva Grave. Questo radicale cambiamento di punto di vista
è avvenuto non soltanto grazie a una attenta ridefinizione di educabilità, ma
anche grazie alla messa a punto di programmi educativi fortemente
individualizzati che fanno riferimento alla teoria e all’applicazione
dell’approccio comportamentale. Questi programmi si basano su alcuni
punti forti, che ho cercato di sintetizzare qui di seguito.
1. Un’attenta osservazione dell’allievo, dei suoi deficit e delle sue difficoltà,
ma anche delle sue potenzialità. Tutta la programmazione educativa nella
Disabilità intellettiva, tanto più se Grave, dovrebbe partire dalle abilità,
sia pur minime, possedute dall’allievo e, da qui, cominciare a costruire
abilità nuove.
2. Una definizione molto rigorosa degli obiettivi didattici. Un bambino con
un’intelligenza brillante quasi non ha bisogno che si programmino per lui
gli obiettivi da raggiungere. La sensazione che dà a chi vive vicino a lui è
che impari le cose da solo. Si tratta di una sensazione sbagliata, ma che
illustra bene il principio generale secondo il quale i bambini con buone
potenzialità intellettive possono raggiungere risultati importanti anche
con un approccio educativo libero e poco programmato. Nel caso della
Disabilità intellettiva Grave è vero il contrario. Proprio la grave patologia
dell’intelligenza, la scarsissima autonomia di queste persone, il loro
bisogno di essere seguite passo passo in quello che fanno, rendono la
programmazione rigorosa uno strumento indispensabile. Un bambino a
sviluppo tipico impara a lavarsi le mani guardando, in modo più o meno
distratto, il fratello maggiore o la madre che si lavano le mani, e
facendosi aiutare qualche volta da un adulto. Un bambino con Disabilità
intellettiva Grave può imparare a lavarsi le mani a patto che questo
diventi un obiettivo esplicito e che siano messe in atto tutte le procedure
necessarie per raggiungere il risultato.
3. Diretta conseguenza di tutto ciò è la necessità di un controllo molto forte
sull’ambiente (Stasolla, Stella e Damato, 2014). Un bambino
normodotato può imparare a lavarsi le mani in qualsiasi bagno. Al
contrario, per un bambino con Disabilità intellettiva, le variazioni anche
minime che ogni situazione diversa comporta (per es., la forma o il
funzionamento di un rubinetto) rendono indispensabile estendere il rigore
della programmazione anche agli aspetti ambientali. Vedremo nei capitoli
della prossima sezione come questa attenzione estremamente rigorosa
agli aspetti ambientali che possono influenzare la prestazione
comportamentale sia alla base di molti approcci terapeutici (come il
TEACH o l’ABA) specificamente dedicati a bambini con Disturbo dello
spettro dell’autismo.
4. Gli stimoli presentati al bambino (nell’esempio: la porta del bagno, il
lavandino, i rubinetti) devono seguire una successione rigorosa, studiata
in modo tale da rendere l’apprendimento particolarmente facile, cioè
“dolce” e graduale, e favorire così il massimo possibile di occasioni di
successo, tanto più preziose in questi soggetti perché inevitabilmente
rare.
5. Ogni successo deve essere seguito in modo sistematico dal
rinforzamento . Nella Disabilità intellettiva Grave le tecniche rigorose
di rinforzamento hanno mostrato in mille ricerche e in mille occasioni la
loro efficacia. Che un comportamento positivo, che si desideri
consolidare, debba essere seguito da una forma di gratificazione è una
regola generale e valida in qualunque circostanza. Mentre, però, in
situazioni meno gravi anche l’uso del rinforzamento può (e spesso deve)
assumere forme più flessibili, come riportato in molte altre parti di questo
libro, qui è proprio la sistematicità la migliore garanzia di ottenere
risultati utili per il soggetto. Sfortunatamente, nei casi di Disabilità
intellettiva Grave, spesso i soli rinforzatori che funzionano sono quelli
molto concreti (per es., consumatori o tangibili), mentre i rinforzatori
sociali, migliori da ogni altro punto di vista, rischiano di essere inefficaci.
In questi casi è necessario avere il coraggio di adottare anche rinforzatori
concreti, avendo però cura ogni volta di associarli a rinforzatori sociali
con l’obiettivo a lungo termine di spostare il controllo del
comportamento dall’oggetto-premio alla lode verbale. Sempre su questo
punto, la ricerca ha mostrato anche come sia spesso necessario servirsi in
modo sistematico del rinforzatore non soltanto quando il bambino
raggiunge l’obiettivo programmato, ma anche quando emette risposte
che, in qualche modo, si avvicinino all’obiettivo. In questo modo si
riescono a ottenere risultati altrimenti impensabili con soggetti di questa
gravità e si può continuare a lavorare in un rapporto improntato alla
gratificazione anche quando il comportamento del bambino è tutt’altro
che perfetto. Questa tecnica, che prende il nome di modellaggio ,
permette di raffinare la prestazione del soggetto portandola gradualmente
e con molta pazienza ad avvicinarsi a quella desiderata (Martin e Pear,
2000).

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6. È stato evidenziato più volte come tutte queste accortezze rendano


fortemente artificiali i programmi di educazione speciale, con tutti gli
svantaggi dell’artificiosità. Per questo motivo, anche nella Disabilità
intellettiva Grave è possibile, con molte cautele, introdurre gradualmente
nei progetti riabilitativi i principi dell’attenuazione (di aiuti e rinforzatori)
e dell’apprendimento incidentale. Si favorisce così, per quanto la
situazione lo permetta, un certo processo di generalizzazione (vedi
riquadro alla pagina seguente) delle abilità.
7. Sul piano clinico, infine, è importante che queste metodologie siano
messe in atto con una particolare attenzione agli aspetti emozionali e ai
possibili effetti negativi sui disturbi di comportamento. Un’applicazione
troppo massiccia di certe tecniche può produrre, in alcuni casi,
comportamenti di rifiuto nel bambino, regressioni e disturbi emotivi
(Matson, Lott, Mayville, Swender e Moscow, 2007). D’altro lato, un uso
attento può invece servire proprio a risolvere, almeno in parte, molti
problemi comportamentali senza bisogno di far ricorso a metodologie
punitive (Ianes, 1992; D’Incognito, Stasolla e Lancioni, 2010; Lancioni
et al., 2011; Bouxsei, Roane e Harper, 2012). È, per esempio, possibile
ridurre aggressività e stereotipie evitando di rinforzarle e gratificando
comportamenti più adeguati attraverso tecniche di estinzione e
rinforzamento differenziale . È anche possibile prevenire molti di
questi disturbi con l’analisi funzionale , che permette di osservare con
precisione e, quindi, modificare le circostanze che tendono a determinare
i problemi (Sturmey, 2001; Rapp e Miltenberger, 2001; Yang, 2003; Pino,
2004; Hassiotis et al., 2012). Questa metodologia risulta estremamente
efficace anche nella gestione dei comportamenti oppositivi e
autolesionistici che spesso si manifestano nei bambini con questo tipo di
disturbo. Il dato interessante è che non solo è possibile ridurre la
frequenza di queste condotte negative, ma parallelamente si producono
effetti positivi anche nelle relazioni con i pari e gli adulti (Toole,
Bowman, Thomason, Hagopian e Rush, 2003).

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Nel caso poi, come spesso accade, l’analisi funzionale mostrasse che
molti comportamenti inadeguati assumono un significato comunicativo,
si possono insegnare strategie più adeguate di comunicazione: la ricerca
ha mostrato che in questo modo i comportamenti problematici
diminuiscono significativamente e il bambino tende ad acquistare un
maggior equilibrio emotivo (Carr, 1977, 1998; Blair, Umbreit, Dunlap e
Jung, 2007). Attualmente esistono diversi programmi di intervento basati
su strategie di comunicazione aumentativa e alternativa (AAC)9 e
finalizzati a migliorare la comunicazione, sia a livello di espressione che
di comprensione, in soggetti con capacità linguistiche limitate, come il
Sistema di Comunicazione mediante Scambio per Immagini (PECS)10 e
il Training di Comunicazione Funzionale (FCT).11

GENERALIZZAZIONE
Una delle critiche più spesso rivolte agli interventi comportamentali è
che, anche quando funzionano, questi interventi producono risultati
molto circoscritti e limitati. Si dice: sì, è vero, un bambino con
Disabilità intellettiva può imparare, grazie a questi metodi, a lavarsi le
mani nel bagno della terapista della riabilitazione, ma poi non sa farlo
né a casa né a scuola. Oppure: sì, è vero, la bambina depressa è
riuscita con successo a modificare un po’ il suo tono di voce e a
telefonare, dallo studio del terapeuta, a una sua amica per invitarla a
casa a giocare, ma poi durante la settimana, tra una seduta e l’altra,
non telefona mai a nessuno, il suo tono di voce si abbassa di nuovo
fino a ritornare il flebile, triste sussurrare di sempre.
Le critiche sono giuste, ma è sbagliato il bersaglio. Se si verificano
questi fenomeni, la responsabilità non è dei metodi comportamentali,
ma del loro cattivo uso. In particolare, la responsabilità di questi
fallimenti sta nel non aver programmato la generalizzazione, cioè la
capacità di usare anche in contesti differenti le abilità apprese in un
contesto specifico. A volte, soprattutto con i bambini sani e
intellettivamente brillanti, la generalizzazione sembra scattare da sola.
Insegniamo a un bambino a farsi la doccia e lui, poi, va in campeggio,
a casa di un amico, in un albergo dove non è mai stato prima, e si fa la
doccia senza problemi. Insegniamo a un bambino a leggere usando
l’alfabetiere appeso in classe e le pagine del suo libro di scuola e poi
lui leggerà da solo altri libri, i fumetti e la Gazzetta dello Sport.
Purtroppo non sempre è così e con i bambini difficili spesso la
generalizzazione deve essere esplicitamente programmata.
Nel testo, è possibile vedere esempi di generalizzazione tutte le volte
che si parla di parent training e di rapporto con i genitori, perché è
chiaro che, se i genitori riescono a riprodurre a casa le condizioni che
hanno funzionato nello studio dello psicologo, questo aumenta la
probabilità che il bambino metta in atto anche con il papà e la mamma
le nuove abilità delle quali si è impadronito. Un discorso analogo può
essere fatto nei confronti della scuola e del rapporto di collaborazione
tra psicologo e insegnanti. Nel testo è possibile trovare anche molte
situazioni nelle quali la generalizzazione è favorita da un approccio
non strettamente comportamentale, che tenga conto anche dei principi
dell’apprendimento incidentale (per es., nel capitolo 2, dove si spiega
come Luca impari a indossare un maglione da solo); della sensibilità
metacognitiva (per es., nel capitolo 7, a proposito dei processi di
comprensione del testo e delle abilità di studio); dell’autoistruzione
(per es., nel capitolo 8, dove Simona impara a eseguire da sola le
addizioni col riporto). Anche nelle sezioni dedicate ai Disturbi d’ansia
e ai Disturbi depressivi è possibile vedere come molte strategie di
intervento cognitivo siano finalizzate proprio ad aumentare la capacità
del bambino di cavarsela anche da solo, cioè in situazioni diverse da
quelle previste dall’intervento psicoterapeutico.

La pratica clinica, anche nel caso di Michela, conferma molti di questi


risultati, come si può vedere nel prossimo paragrafo.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO E PROGNOSI
Credo che i primi anni di Michela siano stati duri.
Dico “credo” perché non è facile per nessuno capire cosa le passasse per
la mente, quali fossero i suoi desideri e i suoi dolori. La mancanza di un
linguaggio verbale sufficientemente sviluppato per esprimere tutto questo
rendeva le cose molto difficili, ma che Michela avesse desideri e dolori (che
non era capace di comunicare) era evidente dai suoi comportamenti,
dall’espressione del volto, dalle enormi difficoltà ad adattarsi anche alle
situazioni per noi più semplici, come quella di andare a scuola e stare
almeno un po’ di tempo seduta al suo posto.
Naturalmente, se non era facile per lei, non lo era neppure per chi le
stava vicino. Non era facile per i suoi genitori prima di tutto (sua madre, in
particolare) e poi per gli insegnanti, di classe e di sostegno; non era facile
per nessuna delle figure che a vario titolo si affiancavano via via a lei, per
aiutarla a socializzare e, in fin dei conti, a vivere.
Le difficoltà e i problemi erano di mille tipi. Prima di tutto di ordine
fisico, con le crisi epilettiche che si ripetevano senza che nessuna terapia
riuscisse a controllarle adeguatamente; con la necessità di continue visite e
di accertamenti neurologici ed elettroencefalografici; con il grave impaccio
motorio che nei primi anni rendeva difficile a Michela anche solo salire le
scale della scuola, soprattutto se c’erano anche i suoi compagni che
avrebbero potuto farla cadere. E poi di ordine comportamentale: fu un
lungo dramma abituarla a staccarsi dalla madre durante il secondo anno di
scuola dell’infanzia, in cui passava l’intera giornata senza interagire quasi
mai con nessun compagno, in cui all’ora di pranzo doveva essere
completamente imboccata, in cui, quando sarebbe stato il momento di
sedersi a fare un disegno o ad ascoltare la maestra che raccontava una
favola, Michela poteva all’improvviso mettere in atto i comportamenti più
imprevedibili e inadeguati: urla immotivate (per quello che ne potevamo
sapere), esplosioni di aggressività fisica nei confronti di chi le capitava
vicino, ostinati rifiuti a eseguire anche i compiti più semplici dove pure,
molto lentamente e quando “era in buona”, mostrava di riuscire.
La strada del suo parziale recupero è stata lentissima, costellata di
insuccessi e frustrazioni, tuttora (spero) non completamente percorsa, ma
certamente oggi chi ricorda la Michela di qualche anno fa deve ammettere
che si stenta a riconoscerla. Percorrere questa strada ha voluto dire, prima
ancora che mettere in atto programmi e tecniche di intervento, due cose:
sgombrare il cammino dagli ostacoli, almeno dai macigni più grossi, e
imparare a lavorare insieme a tanti altri. Gli ostacoli erano le persone che
non ci credevano. Erano una maestra, che Michela ebbe in seconda e in
terza classe della scuola primaria, che mi chiedeva spesso perché mai
avessimo mandato in una scuola una bambina così, capace solo di urlare e
di rotolarsi per terra. Io la ascoltavo, perché non credo che il compito di uno
psicologo consista nel tranciare giudizi sull’altro, ma piuttosto nel mettersi
nei suoi panni, nel capire le sue ragioni e le sue difficoltà: cosa che in
questo caso mi pareva particolarmente facile, dal momento che anch’io mi
chiedevo a volte cosa mai saremmo riusciti a ottenere da Michela. La
ascoltavo e poi provavo a modificare il modificabile. Gli ostacoli erano le
periodiche crisi di sconforto della madre, quando non sapeva più come
affrontare certi momenti particolarmente difficili e certi comportamenti
particolarmente problematici della bambina. Erano i tentativi di fuga, per
esempio nel lavoro, del padre, anche quando sembrava probabile che la sua
vicinanza avrebbe potuto svolgere un ruolo prezioso. Erano un
neuropsichiatra infantile che mi chiedeva che senso avesse impostare con
Michela un programma di lettura funzionale;12 di più: erano il
neuropsichiatra infantile che mi diceva che intraprendere un programma di
lettura funzionale con Michela non era soltanto inutile, ma anche dannoso,
perché Michela aveva bisogno di lavorare sulla relazione e, quindi,
qualunque intervento didattico rischiava di diventare per i genitori e gli
insegnanti una difesa, una barriera alla relazione tra loro e la bambina.
Invece, chi l’avrebbe mai detto? Quegli esercizi di lettura funzionale, certo
fatti senza accanimento, soltanto quando era chiaro che Michela era in
grado di tollerarli, sempre accontentandosi dei piccoli parziali successi che
ottenevamo e mai sottolineando i mille insuccessi e le mille occasioni di
frustrazione, le sono tornati utili, molto tempo dopo, in una piccola,
limitata, ma significativa esperienza di inserimento lavorativo protetto.
Tutto questo, naturalmente, e molte altre cose che cercherò di riassumere
qui di seguito, non possono essere il frutto del lavoro di una persona sola.
Michela ha fatto fin da piccola riabilitazione motoria e del linguaggio; ha
imparato piano piano a usare il linguaggio verbale in modo funzionale,13
per esprimere i suoi bisogni fondamentali e per raccontare, molto
semplicemente, cose di sé; è andata a scuola e, alla primaria, è riuscita
gradualmente a controllare meglio il suo comportamento, a interagire in
modo adeguato coi compagni e con gli adulti, a tenere l’attenzione su
semplici compiti per un tempo crescente; negli ultimi anni di scuola
primaria e alla secondaria di primo grado ha imparato a leggere e a scrivere
in stampatello maiuscolo qualche parola e ha cominciato a svolgere
semplici programmi di autonomia sociale . Tutto questo è stato
evidentemente possibile grazie al lavoro coordinato di terapisti della
riabilitazione, insegnanti di classe e di sostegno e genitori in collaborazione
con medici e psicologi che, di volta in volta, indicavano la via da seguire,
supervisionavano i programmi, cercavano di aiutare Michela e le persone
coinvolte nella sua educazione a superare le difficoltà.

pag. 34

Spesso, per ottenere alcuni di questi risultati sono state impiegate tecniche
comportamentali sistematiche. Per esempio, l’educatrice ha di recente
insegnato a Michela ad apparecchiare la tavola e a preparare il tè e il caffè
servendosi di analisi del compito molto specifiche e tagliate su misura
per le sue esigenze. Il compito è stato articolato in tanti sotto-obiettivi così
semplici da essere alla sua portata (prendere il pentolino, aprire il rubinetto,
riempire il pentolino di acqua, accendere il fuoco e così via). A volte è stato
necessario rappresentare graficamente i passi del compito, riportare su
cartoncini queste rappresentazioni grafiche e insegnare a Michela a
riordinare i cartoncini prima di passare all’esecuzione del compito vero e
proprio. L’educatrice si è inoltre sempre posta come un modello efficiente
da imitare e ha mostrato più volte a Michela le corrette sequenze da
riprodurre. Alcune ricerche condotte su pazienti con Disabilità intellettiva
Grave ed Estrema hanno messo in luce l’efficacia del Video Modeling
(VM)14 nell’insegnamento di abilità domestiche, come servire un caffè
(Bidwell e Rehfeldt, 2004) o preparare un sandwich (Rehfeldt, Dahman,
Young, Cherry e Davis 2003). Negli ultimi anni, inoltre, sono state condotte
diverse ricerche di meta-analisi che hanno evidenziato come il VM e il
VSM (Video Self-Modeling): siano strategie efficaci per incrementare
abilità socio-comunicative, funzionali e per insegnare comportamenti
adattivi; favoriscano la generalizzazione e il mantenimento delle abilità
acquisite (Bellini e Akullian, 2007); siano più efficaci quando ricorrono a
modelli costituiti da pari o dai pazienti stessi (McCoy e Hermensen, 2007);
siano più efficienti del modellamento in vivo, dal momento che più utenti
contemporaneamente possono trarne beneficio, permettono la
visualizzazione di istruzioni che vengono riprodotte in modo identico e
richiedono poco addestramento per i terapeuti (Charlop-Christy, Le e
Freeman, 2000).

pag. 83

Naturalmente, non si tratta soltanto di mostrare la corretta sequenza di un


comportamento, ma anche di sostenere e incentivare la motivazione e gli
sforzi del paziente a metterlo in atto. Per questo motivo tutti i tentativi di
Michela, corretti o comunque vicini alla corretta esecuzione, sono stati
sistematicamente rinforzati. Quando possibile, si è usato un rinforzatore
intrinseco alla fine dell’esecuzione del compito (per es., dopo aver
preparato il tè, berlo insieme all’educatrice chiacchierando degli argomenti
preferiti da Michela e mangiando biscottini). Saltuariamente, sono stati
coinvolti in questi programmi altri educatori di un centro che Michela
frequenta il pomeriggio; è stata coinvolta anche la madre, per favorire la
generalizzazione delle abilità acquisite. In modo analogo, la ragazza ha
imparato a spazzare, rifare il letto, lavare i piatti e, con il ricorso massiccio
a tecniche di apprendimento senza errori, a telefonare (Celi e Ianes, 1994).
Adesso ha anche una semplice rubrica personale, dove è capace di trovare il
nome che le interessa e di leggere e comporre il numero con l’aiuto di un
foglio mobile che fa scorrere a mano a mano che preme le cifre sulla
tastiera.

pag. 13

Anche i comportamenti problematici sono stati spesso gestiti con tecniche


di rinforzamento differenziale e analisi funzionale . Qualche tempo
fa, per esempio, l’educatrice mi fece presente che era molto difficile
portarla al supermercato, perché faceva spesso i capricci pretendendo di
comprare alcuni oggetti: spesso piagnucolava, a volte arrivava a strillare e a
creare situazioni che poi l’educatrice non sapeva come gestire. Abbiamo
allora spiegato a Michela che se desiderava andare al supermercato (e lo
desiderava), doveva comportarsi secondo certe regole. Si sarebbe stabilito
prima l’elenco di oggetti che potevano essere comprati. Michela,
naturalmente, poteva esprimere i suoi desideri, ma la decisione sarebbe
stata presa di comune accordo con la madre. Una volta al supermercato,
avrebbe dovuto limitarsi a chiedere e comprare gli oggetti in precedenza
concordati. Quando si comportava in questo modo, poteva fare gli acquisti e
continuare a girare per i reparti che le interessavano. Se avesse cominciato a
piangere o a urlare, sarebbero immediatamente tornati a casa. Ricordo che,
qualche tempo dopo l’applicazione di questo programma, la mamma mi
disse:

pag. 69

pag. 402

“Non era poi così difficile. Adesso porto Michela al supermercato senza
particolari problemi. Bastava pensarci, lo dice anche il proverbio: patti
chiari, amicizia lunga”.
Mi parve un buon modo per riassumere con semplicità e saggezza i
principi del rinforzamento differenziale e dei contratti educativi. Qualche
volta, tra l’altro, abbiamo avuto anche una specie di prova sperimentale
dell’efficacia del metodo, perché l’educatrice ha dimenticato di mettere in
chiaro le condizioni e definire gli oggetti da comprare prima di uscire di
casa e Michela è tornata a fare il diavolo a quattro appena arrivata al
supermercato.
I comportamenti problematici, tuttavia, spesso avevano per Michela un
significato comunicativo. Quando, da piccola, non era praticamente in
grado di parlare, la cosa era particolarmente evidente. Noi, persone più o
meno “normali” e normodotate intellettivamente, disponiamo del
linguaggio verbale per esprimere i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre
paure, i nostri dolori. Ma che cos’altro poteva fare Michela quando era
stanca, quando a scuola la maestra le proponeva compiti troppo difficili per
lei, quando aveva bisogno di un po’ di attenzione da parte del padre, se non
rotolarsi per terra, piangere, gridare? Una certa riduzione di comportamenti
problematici, infatti, è andata di pari passo con l’acquisizione di capacità
comunicative migliori, proprio come succede nella normale evoluzione di
un bambino, che piange sempre meno a mano a mano che impara a parlare.
A volte le abbiamo insegnato a chiedere esplicitamente ciò che desiderava,
anziché cercare di ottenerlo con un capriccio o con un comportamento
aggressivo.
Oggi, a vent’anni, Michela può essere lasciata sola in casa per brevi
periodi di tempo; si lava e si veste da sola; svolge qualche semplice lavoro
domestico come apparecchiare la tavola o preparare il caffè. Nel centro
socioeducativo dove passa parte della giornata è ben adattata e i
comportamenti problematici sono rari. Ormai sono quasi esclusivamente
connessi alla sfera sessuale o più genericamente affettiva: quando è nel
centro cerca di isolarsi con un compagno o di stringerlo e abbracciarlo e a
volte si tocca, anche quando è in gruppo, in un inizio di masturbazione,
mentre nelle uscite esterne pretende, talvolta con una certa aggressività, di
andare in un bar dove spera di incontrare un ragazzo che le interessa. In
ogni caso, io avrei qualche dubbio, date le circostanze, a continuare a
etichettare questi come comportamenti problematici (Veglia, 1991). Ha
imparato, accompagnata, a fare piccoli acquisti col denaro contato (Celi e
Ianes, 1991; Ianes, Celi, Matassoni e Malagoli, 2011; Malagoli, 2012).
Frequenta una scuola di musica e di teatro: fa quello che può, ma la
frequenta molto volentieri e sembra tornare a casa da queste esperienze più
rilassata e serena. Infine, svolge per alcune ore la settimana un semplice
lavoro in un negozio di alimentari, che consiste nel sistemare negli scaffali
la merce scaricata dai grossisti: qui ha l’occasione di usare le semplicissime
abilità di lettura funzionale imparate ai tempi della scuola, perché riconosce
i prodotti dai colori, dai disegni, ma anche dalle scritte sulla confezione e li
sistema al posto giusto.
Nei casi più fortunati, questa è più o meno la prognosi nella Disabilità
intellettiva Grave: capacità di svolgere compiti semplici in ambienti protetti
e di adattarsi con una certa facilità alla vita in famiglia o in centri
semiresidenziali o in comunità alloggio. Per problemi medico-legali relativi
all’accertamento del suo grado di invalidità, ho dovuto di recente
sottoporla, come avevo fatto senza successo tanti anni fa, a un test per la
valutazione del QI. Le ho somministrato la WAIS15 e il risultato di 33
conferma la diagnosi di Disabilità intellettiva Grave. Però, per lo meno,
questa volta il test siamo riusciti a farlo!
Mi capita di incontrare Michela per strada, accompagnata da
un’educatrice che la segue ormai da un paio d’anni. Le vedo a volte che
attraversano la strada facendo attenzione che il semaforo sia verde oppure
che non passino automobili. Di solito Michela ha l’aria piuttosto attenta
rispetto a quello che fa e anche l’educatrice, durante le supervisioni, mi dice
che succede abbastanza spesso che lei possa tirarsi un po’ indietro e lasciare
che la ragazza prenda l’iniziativa quando deve attraversare la strada, o
raggiungere un luogo conosciuto, o comprare qualcosa in un negozio.
Quando vedo Michela in qualcuna di queste situazioni, mi è difficile
resistere alla tentazione di pensare che la ricerca ci ha insegnato, sulla
prognosi della Disabilità intellettiva Grave, che forse il suo potenziale di
crescita e di autonomia non si sia ancora del tutto esaurito.
1 Vedi capitolo 1, nota 1.
2 Come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, sembra esserci una correlazione tra le difficoltà a
usare il linguaggio verbale e l’emissione di comportamenti problematici, che probabilmente hanno
spesso proprio una funzione sostitutiva del messaggio verbale.
3 Vedi capitolo 1, nota 4.
4 Vedi capitolo 1, nota 8.
5 Vedi capitolo 2, nota 4.
6 Vedi capitolo 4.
7 Vedi capitoli 5, 6, 7 e 8.
8 Con questa espressione si intende la scelta dell’integrazione scolastica: ogni portatore di handicap,
indipendentemente dalla sua gravità, viene inserito in una classe normale, con compagni di pari età
cronologica.
9 L’AAC (Augmentative and Alternative Communication) rappresenta un insieme di metodi e
tecnologie che favoriscono tutte le forme di comunicazione (da qui il concetto di “comunicazione
alternativa”) che permettono al soggetto con gravi difficoltà linguistiche di esprimere pensieri,
bisogni, desideri e idee. L’AAC, tuttavia, non deve sostituire il linguaggio verbale, ma, quando
possibile, deve implementare le competenze linguistiche degli utenti (da qui il concetto di
“comunicazione aumentativa”). A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso le ricerche
in questo campo sono aumentate in modo esponenziale, incoraggiate dagli sviluppi nelle tecnologie
applicate alla clinica e all’educazione (per una rassegna più dettagliata rispetto ai metodi aided e
unaided, con o senza supporto tecnologico, vedi Wilkinson e Hearing, 2007). Tali ricerche hanno
confermato che l’AAC può contribuire a migliorare l’interazione sociale, i risultati scolastici e la
percezione di auto-efficacia. È possibile utilizzare queste tecniche persino in soggetti con
plurihandicap, come Disabilità intellettiva, sordità e cecità (Sigafoos, Green, Didden, Schlosser,
O’Reilly e Lancioni, 2008; Ogletree e Pierce, 2011).
10 Il PECS (Picture Exchange Communication System) rappresenta un’applicazione specifica dei
principi dell’AAC, ideato inizialmente, nell’ambito del Delaware Autistic Program, per bambini in
età prescolare con Disturbo dello spettro dell’autismo (Bondi e Frost, 1994). Il PECS è un percorso
di apprendimento a piccoli passi, costituito da sei diverse fasi, che si pone lo scopo di incoraggiare la
spontaneità e l’iniziativa del bambino nella comunicazione, minimizzando la dipendenza dalle
istruzioni date dall’adulto. Fornisce, inoltre, modelli di linguaggio verbale, utilizzando lo scambio di
immagini per incoraggiare il linguaggio orale (Visconti, Peroni e Ciceri, 2007; Lancioni, O’Reilly,
Cuvo, Singh, Sigafoos e Didden, 2008; Cannella-Malone, Fant e Tullis, 2010).
11 La procedura FCT (Functional Communication Training), descritta per la prima volta da Carr e
Durand (1985), prende avvio con un assessment volto a individuare la funzione del comportamento-
problema in esame (come, per esempio, attirare l’attenzione o eludere richieste). Una volta
identificate le conseguenze responsabili del mantenimento della condotta, si individua e si insegna al
soggetto un nuovo comportamento socialmente accettabile che sostituisca quello esistente. Perché
questa strategia abbia successo: 1) è necessario insegnare una risposta in linea con la funzione svolta
dal comportamento-problema (se, ad esempio, il comportamento è mantenuto dall’attenzione, va
insegnata una risposta che permetta al soggetto di ottenere attenzione); 2) è possibile ricorrere a
diverse forme di comunicazione (la parola, i segni, le immagini, l’uso di apparecchi per linguaggio
digitale), ma l’aspetto fondamentale è che tutte le persone coinvolte capiscano ciò che il soggetto
comunica; 3) la risposta comunicativa deve sempre comportare meno sforzo del comportamento-
problema, ottenere una ricompensa più gratificante, più spesso e più velocemente; 4) è importante
usare solo immagini relative a richieste che il soggetto può realmente avanzare perché disponibili nel
contesto di training (Oliver, Moss, Petty, Arron, Sloneem e Hall, 2005).
12 La lettura funzionale (Snell e Ianes, 1986) è un particolare tipo di lettura, adattata a soggetti con
ritardi importanti, che consiste nell’insegnare non la tecnica di decodifica, ritenuta troppo difficile,
ma una capacità di riconoscimento di alcune parole che svolga una funzione pratica nella vita di tutti
i giorni. Per esempio, non si insegna a riconoscere prima la lettera A, poi la L, poi la T e infine a
metterle insieme: si insegna a fermarsi quando ci si trova di fronte alla parola ALT.
13 Analogamente a quanto illustrato nella nota 12 a proposito della lettura, anche il linguaggio può
essere insegnato in modo funzionale (Kent e Sherman, 1985), cioè in modo da svolgere una funzione
adattiva nella vita di tutti i giorni. Quando, più avanti in questo stesso paragrafo, Michela imparerà a
usare il denaro per fare piccoli acquisti, svolgerà un programma di matematica funzionale.
14 Attraverso il VM si presenta ai pazienti un filmato videoregistrato in cui un modello (quando la
scena è messa in atto dal paziente stesso si parla di Video Self-Modeling) completa una lista
sequenziale di compiti, giungendo a un qualche tipo di risultato. I pazienti visualizzano il filmato
all’inizio di ogni sessione di training, in cui dovranno mettere in pratica quello che hanno visto (per
una rassegna, vedi Walton e Ingersoll, 2013).
15 Vedi capitolo 1, nota 3.
Capitolo 4

Funzionamento intellettivo
borderline
Fabio Celi

LA STORIA DI GABRIELLA
Appena seduta di fronte a me, al suo primo colloquio, la mamma di
Gabriella mi disse:
“Non so neppure io se ho fatto bene a venire. Non so da che parte
cominciare, forse perché alla fine non c’è niente da dire”.
È piuttosto frequente che un genitore apra il primo colloquio (vedi
riquadro sottostante) esprimendo delle difficoltà personali: a volte banali,
come il non sapere da che parte cominciare, altre volte più importanti, come
una separazione o un lutto recente. In questi casi è sempre difficile
distinguere quanto il bisogno sia del genitore e quanto del bambino, e sono
necessarie, a mio parere, pazienza e prudenza nel non lasciarsi influenzare
da interpretazioni o ipotesi troppo precipitose, anche se capita poi piuttosto
spesso di scoprire, dopo aver lasciato parlare l’adulto serenamente, che
forse la richiesta di aiuto riguardava più lui che il figlio.
PRIMO COLLOQUIO CON I GENITORI
Non c’è unanimità, tra gli psicologi e gli psicoterapeuti, sul modo di
condurre il primo colloquio con i genitori di un bambino. Alcuni
sostengono, per esempio, che il primo colloquio andrebbe condotto
alla presenza dei genitori e del bambino, per valutare subito le
modalità di attaccamento. Questo è solo un esempio e ci sono, in
realtà, moltissimi modi diversi per condurre questa delicata fase
iniziale di un lavoro di consulenza.
Nel testo si fa riferimento a un metodo che ha, in linea di massima, e
con tutta la flessibilità necessaria in questi casi, due caratteristiche
fondamentali. La prima caratteristica è che il primo colloquio è
condotto alla presenza dei soli genitori, senza il bambino. Il vantaggio
di questo approccio consiste essenzialmente nella possibilità di poter
parlare in modo libero dei problemi del figlio e anche delle angosce
che il figlio suscita senza dover ricorrere a mezze parole, a frasi
sussurrate, a sottintesi e senza dover dire di fronte al bambino cose
che potrebbero essere per lui traumatiche. Un primo colloquio con i
genitori senza il figlio permette anche di preparare il futuro colloquio
con il bambino cercando di evitare incomprensioni e comunicazioni
sbagliate sul significato degli incontri tra lo psicologo e il bambino
stesso (si veda più avanti, al punto 10).
La seconda caratteristica è che nel primo colloquio con i genitori si
cerca di seguire uno schema di domande che permetta di raccogliere
alcune informazioni utili sostanzialmente standard. Nel testo è poi
messo in luce molte volte che, nella pratica clinica, questo schema
non è rigido, ma sempre adattato in modo flessibile alle necessità del
genitore e del momento. È quindi possibile cambiare la successione
delle domande, soffermarsi più su alcune e meno su altre. Tuttavia,
quando non ci sono particolari motivi per modificare o anche
stravolgere lo schema, è forse utile avere in mente le fasi attraverso le
quali un primo colloquio può svilupparsi.
Riassumendo un po’ la questione, le fasi possono essere ridotte a
dieci.
1. Manovre di apertura e ascolto libero del problema. Lo psicologo
si limita qui a cercare di mettere i genitori a proprio agio e ad
ascoltare quello che hanno da dire, su qualsiasi cosa, ma, di solito,
anche sul loro figlio e sui motivi che li hanno spinti a venire in
consultazione. Può capitare che questa fase sia molto
inconcludente, almeno in apparenza: in ogni caso serve, in realtà,
a costruire una relazione. Può anche capitare, invece, che in questa
fase più libera i genitori forniscano spontaneamente molte delle
informazioni che si sarebbero dovute raccogliere nelle fasi
successive.
2. Focalizzazione del problema. I genitori, all’inizio, parlano del
problema del figlio a modo loro, a volte confusamente, a volte
sottolineando aspetti importanti per loro ma tralasciandone altri
almeno altrettanto importanti. Questa fase serve per mettere un
po’ di ordine, per cercare di capire il problema con un po’ più di
chiarezza.
3. Anamnesi (o storia). Si raccolgono qui le notizie sulla gravidanza,
il parto, le eventuali complicazioni avvenute e le eventuali cure di
cui il bambino ha avuto bisogno, il periodo della degenza in
ospedale, le dimissioni, l’alimentazione e il sonno, le prime tappe
dello sviluppo, la deambulazione autonoma, le prime parole, le
malattie degne di nota e, se ce ne sono state, le cure o le
ospedalizzazioni. Sarebbe bene riservare un momento anche alla
ricostruzione di eventuali disturbi mentali nei due genitori e nelle
loro famiglie.
4. Scuola. Dai tre anni in avanti (a volte anche da prima, ma, al
massimo, dai sei) una parte importante della storia del bambino
coincide con la sua scolarizzazione. Ha frequentato il nido? La
scuola dell’infanzia? Ha avuto problemi di separazione dalle
figure di attaccamento? Ha avuto problemi di inserimento, di
comportamento, o di altro tipo? Come lo descrivevano le maestre?
E, una volta alla primaria, le cose sono cambiate? Andava
volentieri? Legava con gli altri? Apprendeva con facilità o aveva
difficoltà generali o specifiche su alcune materie?
5. Famiglia. Di solito, a questo punto si possono raccogliere notizie
sulla composizione della famiglia, sul lavoro dei genitori, sulla
presenza di fratelli o altri conviventi, sullo stato delle relazioni
all’interno dei vari membri del nucleo.
6. Attività extrascolastiche. La scuola, naturalmente, non è tutto e, in
particolare in questi ultimi anni, è molto frequente che i bambini
svolgano attività anche molto strutturate fuori dalla scuola:
palestre e gruppi sportivi, studio di una lingua o di uno strumento
musicale, corsi di teatro e mille altre cose. Quali attività il
bambino svolge, scelte da chi, con che frequenza, con che
motivazione, con quanto impegno, con quanta sistematicità e con
quali obiettivi possono rappresentare notizie interessanti non solo
dal punto di vista conoscitivo, ma anche per eventuali interventi
futuri. A volte, per esempio, un gruppo sportivo o un gioco di
squadra, se ben organizzato, sono risorse preziose.
7. Socialità e amicizie. La capacità di stare con gli altri, di interagire
in modo costruttivo e soddisfacente, il numero e la qualità delle
relazioni sociali sono elementi diagnostici e prognostici di
notevole importanza che meritano di essere approfonditi prima di
chiudere il primo colloquio.
8. Riassunto. Se c’è il tempo e la possibilità sarebbe bene fare una
semplicissima, provvisoria restituzione di quello che si è capito
del primo colloquio. Questo è importante, perché lo psicologo può
controllare l’accuratezza della sua comprensione e i genitori
possono fare una prima, positiva esperienza di essere stati ascoltati
e compresi. Lo psicologo può riprendere in mano i suoi appunti e
riassumere i punti salienti di ciò che è stato detto, invitando i
genitori a correggerlo nelle parti dove la comprensione non è stata
adeguata e ad aggiungere particolari importanti che lo psicologo
avesse trascurato.
9. Ascolto libero conclusivo. Quest’ultimo aspetto, ovvero la
ricognizione di particolari eventualmente trascurati, si lega alla
possibilità di chiedere esplicitamente ai genitori se hanno
qualcos’altro da aggiungere: qualsiasi cosa, parlando liberamente
come già hanno fatto all’inizio del colloquio. A volte non viene
fuori niente. Altre volte, come nel caso della mamma di Eleonora
nel capitolo 15, possono emergere cose importantissime.
10. Accordi. Prima di congedare i genitori e rischiare che poi questi
portino dallo psicologo il figlio dicendogli che vanno a trovare un
amico o a fare una visita oculistica, è bene prendere accordi il più
precisi possibile. Lo psicologo spiegherà come intende vedere il
bambino, cosa farà con lui, come non sia affatto obbligatorio che
il bambino, fin dal primo momento, resti da solo nello studio: tutto
questo con i modi più tranquillizzanti possibili e con molta
comprensione per le difficoltà che i genitori possono provare
all’idea di consegnare un figlio nelle mani di uno “strizzacervelli”.
I genitori saranno invitati a non raccontare bugie al figlio, ma a
prepararlo adeguatamente a questa consulenza, come si può
vedere in molti casi descritti nel testo.
Un esempio di primo colloquio piuttosto rigoroso e sostanzialmente
standard è riportato nel capitolo 23 con i genitori di Silvia. In molte
altre parti del testo, invece, ci sono esempi che mostrano come il
primo colloquio si modifichi e si adatti alle particolari esigenze dei
genitori che si hanno di fronte: nel capitolo 11, per esempio, le
manovre di apertura sono lunghissime, perché la madre di Lorenzo
non era pronta ad affrontare anche solo l’idea di far vedere il figlio a
uno specialista. Altre volte il primo colloquio è più lungo o più corto a
seconda delle particolari esigenze della situazione: la madre di
Chicco, per esempio, nel capitolo 14, ha bisogno di due sedute,
mentre con la madre di Edo, nel capitolo 24, tutto si svolge molto più
rapidamente.

Qui la situazione sembra un po’ diversa. Il dubbio della madre di Gabriella


si concentra sul senso di essere venuta da me. Anche in questi casi,
naturalmente, ci vogliono prudenza e capacità di resistere alla tentazione di
interpretare il significato nascosto dietro questo dubbio. Per esempio: si può
pensare che i problemi di Gabriella e di sua madre siano tanto gravi che la
donna senta il bisogno di nasconderli, a sé stessa prima ancora che allo
psicologo, ma al momento non lo sappiamo e questa ipotesi deve, pertanto,
restare in un angolo della nostra mente. C’è una cosa molto più urgente da
fare ora: raccogliere questa difficoltà e da questa partire. Si potrà allora dire
qualcosa come:
“Ha paura di essere venuta qui per niente”.1
“Beh, proprio per niente no, ma anche le maestre mi avevano detto di
non preoccuparmi, per adesso, che ogni bambino ha i suoi ritmi di
apprendimento e ora, per esempio, mia figlia ha imparato a leggere…”.
Superato così questo primo, piccolo scoglio, la storia di Gabriella si
dipana più facilmente e alla fine del colloquio credo di poter ipotizzare che
forse le difficoltà iniziali della madre erano, almeno in parte, dovute proprio
al fatto che la bambina non presentava problemi particolarmente gravi.
Vedremo più avanti che questa interpretazione era corretta solo in parte.
D’altronde, credo che ogni interpretazione dovrebbe restare sempre
un’ipotesi aperta e modificabile.
Gabriella presenta delle difficoltà di apprendimento, e in particolare
difficoltà spaziali. A volte non riesce a copiare correttamente dalla lavagna
(siamo nella primavera della prima classe della scuola primaria). Altre volte
non va a capo in modo corretto. Commette errori con una certa facilità in
esercizi che coinvolgono concetti topologici anche semplici, come sinistra e
destra o davanti e dietro (Gibello, 1987; Andreani Dentici, 1991; Masi e
Ferretti, 1991; Rigoni, Cornoldi e Alcetti, 1997).
Da quanto la mamma racconta, sembra vi siano anche sottostanti
difficoltà emotive: a volte, più che non riuscire in un compito, dà
l’impressione di non voler neppure provare (Lorusso, 1991). Sembra che
rifiuti di imparare – sostiene la madre – soprattutto nelle prime fasi di un
apprendimento nuovo. In questo la scuola non c’entra nulla, non ha nessuna
specifica responsabilità. Gabriella faceva così fin da piccola. Con i numeri,
per esempio, appena si accorse che non erano un gioco, rimase come
bloccata. In un primo tempo recitava filastrocche di numeri e si divertiva a
contare oggetti. Poi la mamma le comprò un libro e fu come se la bambina
scoprisse che quello che aveva creduto un divertimento era invece un
esercizio nel quale si doveva dimostrare quanto si era bravi. Da quel
momento manifestò notevoli difficoltà. Sembrava non saper più fare
neppure attività che prima padroneggiava. Accadde lo stesso con la
bicicletta. Gabriella è insicura – sostiene la mamma –, non crede nelle sue
possibilità: quando le tolsero le ruotine disse che non sarebbe mai stata
capace di imparare ad andare senza. Persino con lo sci fu necessario darle
uno schiaffo per obbligarla a provare e buttarsi da un facile falsopiano. Ci
volle quella spinta, senza la quale probabilmente non si sarebbe mai fatta
coraggio e non avrebbe mai provato. Ora scia benissimo. Va senza problemi
anche in bicicletta, ma ogni volta che le si presenta una attività nuova, fa
sempre fatica a superare la fase iniziale.
Adesso il nuovo “dramma” è costituito dal passaggio dai quaderni a
quadretti a quelli a righe. Gabriella ha sicuramente faticato più dei
compagni per imparare a scrivere, ma ora scrive in modo sufficientemente
corretto e ordinato per una bambina di prima classe della scuola primaria.
Sembrava che andasse tutto per il meglio, quando la maestra ha deciso di
passare alle righe. Ora pare che la bambina non sappia più scrivere. Dice:
“Non mi riesce, sono un fallimento”. Se non si insiste, quasi quasi non ci
proverebbe neppure. A volte si deve arrivare a farla piangere perché si
metta a fare i compiti. Durante il colloquio la mamma insiste molto su
questi aspetti. Arriva a descrivere Gabriella come una bambina oppositiva,
anche se solo di tanto in tanto e soltanto quando è a casa con lei. Lamenta
anche una certa goffaggine. Nella scrittura, inoltre, la bambina ha qualche
difficoltà specifica: confonde suoni simili (per es., f e v) e lettere
diversamente orientate nello spazio (come la b e la d).
L’anamnesi è completamente negativa. Il pediatra ha detto alla madre
che se era proprio convinta di richiedere la mia consulenza, poteva anche
farlo, ma che la bambina è assolutamente sana. La gravidanza è stata
regolare, il parto eutocico a termine, nessuna sofferenza, dimissioni in
quarta giornata, alimentazione e sonno regolari. Una bambina sempre facile
da allevare. Anche la deambulazione autonoma e le prime parole sono
arrivate in epoca regolare: nei primi anni di vita, però, la bambina aveva
qualche difficoltà di pronuncia e un linguaggio sempre un po’ povero per
l’età. Ora il linguaggio verbale è normale, ma queste passate difficoltà si
riflettono nella scrittura (Pinto, 1993): Gabriella, infatti, non soltanto ha
imparato a scrivere con qualche mese di ritardo rispetto ai compagni, ma
anche adesso le sue frasi sono molto brevi, molto semplici, un po’ limitate.
Le maestre, come e più del pediatra, sdrammatizzano il problema. È di
buon carattere – dicono –, giocherellona e amica di tutti. Secondo loro la
consulenza psicologica non era necessaria, almeno non in quel momento, e
si sarebbe potuto aspettare. Nella scheda di primo quadrimestre ha
collezionato una serie di sufficienze, anche se la madre si sente in dovere di
precisare che, a suo parere, le sono state regalate. In passato la bambina ha
frequentato tranquillamente il nido e la scuola dell’infanzia senza che mai
nessun insegnante segnalasse particolari difficoltà. Qualche mese prima del
nostro incontro, infine, la madre aveva sottoposto Gabriella a una visita
specialistica di controllo, forse anche motivata da questa lentezza
nell’acquisizione della lettura e della scrittura. La visita aveva dato esito
sostanzialmente negativo, anche se i risultati delle prove della vista non
erano stati chiarissimi a causa di una certa mancanza di collaborazione da
parte di Gabriella.
Dopo aver raccolto alcune informazioni sulla famiglia (molto
interessanti, in verità, ma non rilevanti per il tema specifico di questo
capitolo), chiudiamo il colloquio preparando la bambina al primo incontro
con me. La madre si mostra preoccupata su questo punto. Sostiene che non
sarà facile riuscire a convincere Gabriella a lavorare con uno sconosciuto;
probabilmente, non sarà facile neppure farla sedere alla scrivania e lasciarla
nel mio studio. Tranquillizzo la madre dicendole che non è affatto
necessario che Gabriella resti sola con me o si metta subito a lavorare.
Vedremo cosa succede e poi, senza fretta, decideremo come andare avanti.
La prima cosa che fa Gabriella quando, la settimana dopo, ci
incontriamo è smentire la mamma. Entra nel mio studio sorridente, saluta la
madre dando evidentemente per scontato che lei aspetterà fuori, si siede di
fronte a me e l’approccio con lei è subito molto facile. Mi mostra i suoi
quaderni e un album di figurine che ha portato con sé, risponde con
sicurezza alle prime, banali domande che le faccio sulla sua vita, sulla sua
casa, sulla scuola. Dopo pochi minuti la sensazione è che siamo già
diventati amici. Le chiedo se ha voglia di disegnare e mi risponde subito di
sì. Anche quando le domando se ha voglia di leggere mi risponde di sì. Si
limita ad aggiungere che non è molto brava nella lettura e poi specifica che
neppure la scrittura è il suo forte. Questo non le impedisce, tuttavia, di
descriversi come adeguata in molte altre circostanze. Il risultato del primo
colloquio è un rapporto empatico costruito senza sforzi; un disegno della
figura umana2 lievemente in ritardo sull’età cronologica, ma privo di segni
psicopatologici evidenti; una chiara capacità della bambina a orientarsi
nella conversazione in modo sostanzialmente adeguato all’età; l’accordo
per un incontro successivo che Gabriella sembra prendere con gioia. Inoltre,
ho potuto vedere i suoi quaderni che, fino a febbraio, sono francamente
deficitari, con poche parole scritte solo in stampatello maiuscolo e molto
disorientamento spaziale, ma che da febbraio vanno normalizzandosi; e ho
potuto verificare la sua lettura, lievemente in ritardo per quanto riguarda la
velocità, ma corretta e con buona comprensione dei semplici testi che le
propongo.
Il secondo colloquio non riserva sorprese. La bambina è molto
espansiva, sembra venire decisamente volentieri da me e aver voglia di
mettersi alla prova. Ho la sensazione che questo dipenda, almeno in parte,
dal fatto che le sue prestazioni sono sistematicamente gratificate dai miei
commenti positivi, situazione alla quale non deve essere molto abituata. Mi
racconta, infatti, che la mamma non le dice “brava” così spesso come faccio
io. Le CPM3 sono quasi ai limiti inferiori della norma: il punteggio
percentile è appena al di sopra del 25 e l’età mentale appena al di sotto dei 6
anni e mezzo, mentre Gabriella ne ha sette. Il comportamento durante la
prova è adeguato per attenzione e motivazione al compito; è da notare
soltanto che Gabriella non appare molto strategica nella scelta delle risposte
e tende a sbagliare soprattutto negli item dove sono maggiormente coinvolti
processi di orientamento spaziale. Una prova obiettiva di scrittura
(Tressoldi e Cornoldi, 1991) mostra carenze non gravi, ma significative.
Dopo questo secondo colloquio vado a scuola a parlare con le insegnanti.
Trovo tre persone molto disponibili e molto positive. Pensano che sia la
madre, molto ansiosa, a porsi più problemi di quanto sarebbe necessario.
Sottolineano che nella loro classe vi sono allievi ben più difficili per i quali
l’intervento dello psicologo sarebbe molto più urgente se solo i genitori
aprissero gli occhi e volessero collaborare. Gabriella ha ritmi più lenti di
apprendimento – dicono – e non è favorita da un atteggiamento materno
iperprotettivo, che rallenta il suo processo di autonomia. Spesso va a scuola
con i compiti fatti in classe il giorno prima corretti dalla madre, a volta
addirittura con la pagina strappata e l’intero esercizio rifatto. Questo poteva
forse aver senso nei primi mesi, quando in effetti la bambina restava molto
indietro, sbagliava molto, a volte dava proprio la sensazione di andare nel
pallone e di essere come assente, lontana dalle attività proposte. Adesso,
però, che le maestre hanno imparato come prenderla, come rispettare i suoi
tempi, come aiutarla quando ne ha bisogno, le cose vanno molto meglio e la
madre dovrebbe rilassarsi e lasciare la bambina lavorare anche un po’ da
sola e persino permetterle di sbagliare senza farne un dramma. Invece,
quando parla con loro, fa continui confronti negativi tra la figlia e i
compagni e, secondo le maestre, anche qui sbaglia due volte: in primo
luogo, perché la bambina può rendersi conto di questa svalutazione e
rimanerci male; in secondo luogo, perché non è l’unica in classe ad avere
queste lentezze, a non aver ancora sviluppato un metodo di lavoro
autonomo e a mostrare qualche difficoltà in alcuni processi di pensiero.
Però, per esempio, ha ormai imparato a leggere, e negli esercizi sulle
successioni temporali è molto migliorata. Inoltre, è ben socializzata in
classe, amica di tutti e quasi sempre serena. Magari si preoccupa un po’
troppo di fronte alle cose nuove, tende a dire un po’ troppo
precipitosamente e un po’ troppo spesso che qualcosa non le riesce, si
stanca facilmente e, di solito, prima degli altri. Ma le maestre aggiungono
che si tratta di piccole cose e ribadiscono il loro ottimismo sulla bambina.
Dedico quasi completamente il terzo colloquio alla WISC-R,4 che
riusciamo a fare tranquillamente e regolarmente in meno di un’ora senza
particolari problemi. A volte l’atteggiamento molto espansivo di Gabriella
rappresenta un piccolo ostacolo allo svolgimento di alcune fasi del test.
Direi che in questi momenti è fin troppo socievole e chiacchierona, fino a
diventare dispersiva. Penso che si comporti così anche per difendersi dal
timore di non essere all’altezza di certe richieste. I risultati sono un QI
totale di 83, con un punteggio verbale di 88 e uno di performance di 80. Tra
i test verbali registro una caduta nella memoria di cifre e tra quelli non
verbali nel disegno con cubi. In quest’ultima prova mostra difficoltà
specifiche non soltanto di copia del modello, ma anche di coordinazione
visuomotoria.
Durante tutti e tre i colloqui sono assenti segni di deficit di attenzione,
iperattività, disturbi di comportamento e reazioni emotive degne di nota. Vi
è soltanto un certo abbassamento dell’autostima (vedi riquadro sottostante)
quando si parla di lei come alunna e come figlia e la personalità appare
genericamente più infantile dell’età cronologica.

AUTOSTIMA
L’autostima può essere definita come l’immagine di sé e dipende dal
rapporto tra due fattori. Il primo fattore è il successo personale che
ciascuno, nei più diversi campi, riesce a ottenere. Per questo motivo,
non esiste in realtà una autostima, ma ne esistono molte: in età
evolutiva, per esempio, esiste l’autostima scolastica, interpersonale,
emozionale, famigliare, corporea, di controllo sull’ambiente. Tuttavia,
c’è un secondo fattore, importantissimo, che contribuisce a
determinare l’autostima: si tratta delle aspettative, a loro volta legate
anche alla capacità di accettare un certo tasso di insuccesso. Nel
capitolo 23 è illustrato il rapporto tra successo e aspettative nel
determinare l’autostima: nel senso che essa cresce con l’aumentare
delle esperienze di successo, ma tende a calare se le aspettative sono
troppo alte e irrealistiche. Non è un caso che il capitolo 23 venga
citato per primo, dal momento che si occupa del Disturbo depressivo:
la depressione è infatti strettamente legata a una immagine negativa di
sé.
Tuttavia in moltissimi capitoli è possibile ritrovare questo concetto,
importantissimo in quasi tutta la psicopatologia dello sviluppo. Nella
sezione dedicata alle patologie dell’intelligenza è spesso evidenziato
come un abbassamento dell’autostima sia un rischio sempre in
agguato per questi bambini e come adeguate strategie cognitivo-
comportamentali di intervento possano ridurre questo rischio.
Osservazioni analoghe vengono fatte nella sezione dedicata al
Disturbo specifico dell’apprendimento. Sembra in effetti ormai chiaro
che l’importanza data dalla maggior parte degli interventi cognitivo-
comportamentali agli aspetti positivi del bambino contribuiscono
proprio a prevenire cadute eccessive dell’immagine di sé. Anche nella
sezione dedicata ai Disturbi d’ansia (e al Disturbo d’ansia sociale in
modo particolare) è spesso illustrato come una particolare attenzione
all’autostima possa favorire il processo di cambiamento terapeutico.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Che problemi presenta Gabriella?
Nessuno, si potrebbe rispondere, ma questa risposta contiene alcune
insidie ed è proprio a causa di queste insidie che ho deciso di dedicarle un
capitolo, mentre di solito i manuali dedicano, a mio parere, troppo poco
spazio a bambini come lei: si pensi, per esempio, al fatto che il DSM-5
parla di questi problemi in un’appendice di sole sette righe e mezzo.5
Si potrebbe anche rispondere che ha molti piccoli problemi, ma così sfumati
che probabilmente non vale la pena di occuparsene. Nemmeno questa
risposta, per quanto plausibile, mi piace. È sicuramente vero che Gabriella
mostra qualche difficoltà di scrittura (e forse anche di lettura); una certa
goffaggine motoria; alcuni momenti di calo dell’attenzione; qualche
comportamento oppositivo in determinate circostanze e, in altre, un
abbassamento della stima di sé che, a tratti, potrebbe anche trasformarsi in
un umore francamente depresso. Se questi problemi superassero un certo
livello di gravità, certamente molti psicologi e molti neuropsichiatri infantili
se ne occuperebbero. Questo stesso libro dedica interi capitoli ai disturbi
dell’apprendimento, o al deficit di attenzione, solo per fare degli esempi. Se
questi problemi superassero un certo livello di gravità, qualche
neuropsichiatra infantile, con una terminologia che non condivido,
potrebbe, per esempio, parlare di “disarmonia evolutiva a versante
deficitario” e allora, sicuramente, si occuperebbe del caso. Ma qui nessuno
di questi problemi acquista un vero significato clinico. Tutto si colloca in
una zona di confine, grigia e pericolosa come un limbo.
In realtà, Gabriella presenta un Funzionamento intellettivo borderline.
Questo significa che non ha un Disabilità intellettiva, perché il suo QI non è
francamente deficitario (cioè non è inferiore a 70) e il deficit di adattamento
non è sufficientemente grave da permettere di porre una diagnosi, ma
Gabriella non ha neppure un’intelligenza normale, perché questa si colloca
approssimativamente tra 90 e 110. È a metà del guado. Su una sponda del
fiume ci sono i bambini disabili che abbiamo osservato nei capitoli
precedenti, o quelli con gravi difficoltà scolastiche e comportamentali che
potremo osservare nei capitoli successivi, e Gabriella non si trova su questa
sponda. Ma sull’altra ci sono i bambini a sviluppo tipico, che non hanno
bisogno di nessuna particolare attenzione, e Gabriella, purtroppo, non si
trova neppure tra questi.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO E PROGNOSI
E allora? Che cosa dobbiamo fare?
Quando scrivevo la prima edizione di questo volume, avevo cominciato
a lavorare con Gabriella solo da qualche mese. La bambina frequentava la
seconda classe della scuola primaria e se la cavava discretamente. Avevo
scelto di proposito un caso di cui sapevo ancora poco anche perché
all’epoca non vi erano molti dati in letteratura sugli interventi e sulla
prognosi di questi bambini. Ci si limitava a dire che, crescendo, essi
tendono ad adattarsi spontaneamente alle richieste dell’ambiente e
diventano adulti normali (Rapaport e Ismond, 2000; House, 2001). Tuttavia
scrivevo in quella prima edizione: “temo che questi lievi disturbi
dell’intelligenza rischino di essere trascurati. È vero, infatti, che non sono
gravi (per definizione: e forse è proprio per questo che sono trascurati);
sono però molto frequenti e, molto frequentemente, i bambini che ne
soffrono hanno un certo bisogno di essere aiutati (Fenning, Backer, Backer
e Crnic, 2007)”. Oggi le cose sono molto cambiate. In un lavoro secondo
me fondamentale, Di Nuovo (2012) analizza tutta una serie di problemi
posti da questi bambini che si trovano in una zona grigia difficile da
definire e persino da quantificare. I problemi sono tanti: in quale range si
definisce la normalità dell’intelligenza, visto anche il margine di errore dei
test, da tutti riconosciuto in teoria ma poi così spesso trascurato in pratica?
Che ruolo svolge, in tutta la questione, la valutazione del funzionamento
adattivo? Come si distinguono questi bambini “al limite” dal punto di visto
intellettivo da quelli che vivono in situazioni di grave svantaggio
socioculturale? Queste domande sono tutt’altro che teoriche. Di Nuovo fa
infatti notare che se si prende come zona limite un QI compreso tra 84 e 71,
in base alla curva di distribuzione normale del QI circa il 14% della
popolazione dovrebbe trovarsi nella situazione di Funzionamento
intellettivo borderline! E allora perché le “diagnosi” oscillano tra l’1 e il
7%? Si possono tentare molte risposte a questa domanda. Molti non fanno
diagnosi perché il Funzionamento intellettivo borderline non è un disturbo
propriamente detto. Le diagnosi spesso non tengono conto del
funzionamento adattivo dei bambini (Di Nuovo dimostra che misurando
con la Vineland questo aspetto l’accuratezza dell’inquadramento passa dal
37 al 93%).
Questo tema, che sembrava così marginale, è adesso al centro di
discussioni molto accese dopo che una serie di direttive e circolari del
MIUR hanno cominciato a parlare di allievi con Bisogni Educativi Speciali
(BES), di allievi cioè che, pur non rientrando in una categoria diagnostica
ben definita, hanno bisogno a scuola di molte particolari attenzioni.
Parleremo più analiticamente dei BES nella sezione dedicata al Disturbo
specifico dell’apprendimento, ma qui mi preme notare che finalmente
l’importanza (non solo epidemiologica) di questi problemi sta cominciando
a venire alla luce in tutta la sua drammaticità. In estrema sintesi, se in Italia
un bambino ha una Disabilità intellettiva è protetto a scuola dalla legge 104
del 1992: ha un insegnante di sostegno e un Piano Educativo
Individualizzato. Se invece ha un Disturbo specifico dell’apprendimento è
protetto dalla legge 170 del 2010: ha diritto a strumenti compensativi,
misure dispensative e a un Piano Didattico Personalizzato. Ma se legge
male come un dislessico, ma non ha né una Disabilità intellettiva né un
Disturbo specifico dell’apprendimento perché il suo Funzionamento
intellettivo è borderline, gli diciamo che deve arrangiarsi? La speranza è
che questa domanda non resti senza risposta, grazie alla nuova
consapevolezza dell’importanza di questi temi, testimoniata dalle direttive
ministeriali sui BES e dal fiorire di ricerche scientifiche (Salvador-Carulla
et al., 2013; Baglio et al., 2014; Borgetto, 2014; Brasca, Brembati, Domini
e Girelli, 2014; Olivio, Vianello, Lanfranchi e Pulina, 2014; Schuiringa, van
Nieuwenhuijzen, Orobio de Castro e Matthys, 2014; Gigi et al., 2014).
Alla fine del terzo colloquio con Gabriella, ho lasciato la bambina da
sola nel mio studio a disegnare e, nel corridoio, ho detto alla madre che
avevo bisogno di parlarle. Le ho accennato che avevo visto Gabriella
abbastanza per poter dire che non c’era niente di grave di cui preoccuparsi e
che, quindi, pensavo che non fosse necessario continuare a vederla
sistematicamente, ma che fosse più utile fare il punto della situazione con
lei. La mamma ha tirato un sospiro di sollievo, ma non in senso figurato: ho
proprio potuto sentire il rumore dell’aria che entrava e usciva dai suoi
pomoni. Poi mi ha detto:
“Grazie. Per me è stato come un secondo parto”.
Intendeva evidentemente dire che era molto in pensiero per la figlia e per
quello che avrei potuto trovare. La settimana successiva ho iniziato il
colloquio con lei proprio da qui. Le ho fatto notare che è molto ansiosa nei
confronti di una bambina che forse non merita tante preoccupazioni. Subito
dopo, tuttavia, le ho detto francamente come pensavo che stessero le cose.
Le ho dunque descritto una situazione tutt’altro che grave, ma che forse
merita di essere seguita sia pure a prudente distanza. Ho lasciato alla madre
il tempo per fare i suoi commenti e le ho poi proposto di vedere Gabriella
più o meno una volta al mese per valutare i suoi progressi e lavorare sulle
sue eventuali nuove difficoltà. Le ho detto che, se era d’accordo, avrei
incontrato con sistematicità le insegnanti e, quando fosse necessario, avrei
fornito loro materiale didattico e software (Celi e Romani, 1997) adatto alle
particolari esigenze della bambina, in modo particolare strumenti orientati
all’acquisizione di abilità strategiche di pensiero (Baldi, 1999), alla
metacognizione e a modalità di lavoro autonomo (Ashman e Conway,
1991), e avrei discusso l’evoluzione del caso. Le ho consigliato di iscrivere
Gabriella a qualche attività sportiva, possibilmente di gruppo, dove la
bambina potesse acquistare sicurezza da un punto di vista sia motorio sia
sociale. Soprattutto, l’ho invitata, e continuo a farlo nei colloqui che
abbiamo insieme, a raccogliere con più fiducia e più gioia i successi della
bambina, anche quando arrivano un po’ più lentamente di come lei potrebbe
desiderare e anche quando non sono così brillanti come lei potrebbe
sperare: i bambini ci danno quello che noi mostriamo di apprezzare in loro.
Per adesso nient’altro. Poi, se riuscirò a rimanere in contatto, valuteremo
insieme, volta per volta, le necessità che emergeranno: programmi di
semplificazione del testo (Scataglini e Giustini, 1998) quando le attività
scolastiche si faranno più difficili; consulenza per la scelta delle scuole
successive alla primaria; sostegno psicologico nei momenti di crisi che
potranno arrivare. Credo che la cosa fondamentale, in questi casi, sia di non
lasciare solo un bambino e chi gli sta accanto con i piccoli problemi che
nessuno tenta mai di affrontare.
Ricordo, molti anni fa, Tommaso, un bambino che vidi solo un paio di
volte. Il padre faceva il capostazione e la mamma gestiva un ristorante ed
erano entrambi molto preoccupati quando lo accompagnarono da me,
perché aveva avuto difficoltà a imparare a leggere, poi a fare le operazioni,
poi a studiare la storia e la geografia… Anche lui non aveva “niente”, se
non un QI intorno all’80. La mia inesperienza e i genitori così ansiosi e così
occupati nei loro lavori mi suggerirono di tranquillizzarli e non occuparmi
più di Tommaso. Mi capita, a volte, di incontrarlo per caso o di avere
qualche notizia su di lui. Ha terminato la scuola secondaria di primo grado
con difficoltà, ha iniziato a frequentare un istituto tecnico industriale e poi
ha abbandonato gli studi; ora fa saltuariamente l’apprendista in un’officina
e conduce una vita un po’ isolata, non credo molto soddisfacente. Vederlo o
sentire parlare di lui mi lascia un po’ di amaro in bocca, come per
un’occasione perduta.
1 Questo è un esempio di “risposta riflessa”. La risposta riflessa consiste nel riformulare ciò che il
paziente ha detto, per mostrargli comprensione e tenere aperto un canale comunicativo con lui. Una
risposta dello psicologo può riflettere il contenuto della comunicazione del paziente (come in questo
caso), ma anche le emozioni sottostanti. Quando la risposta riflessa è usata in modo sistematico,
probabilmente lo psicologo sta lavorando con una tecnica terapeutica di ispirazione rogersiana, detta
anche “terapia centrata sul cliente”, o comunque con metodi che privilegiano la relazione di aiuto
. Una descrizione più analitica di questi metodi e i relativi riferimenti bibliografici possono essere
trovati nei capitoli 21 e 24. Qui, in realtà, la risposta riflessa serve solo per cercare di mettere la
madre a proprio agio, per comunicarle che si sta comprendendo la sua difficoltà e per cercare in
questo modo di favorire lo sviluppo di successive comunicazioni significative. Probabilmente, di
fronte alla frase della madre che dice di non essere sicura di aver fatto bene a cercare l’aiuto di uno
psicologo e di non sapere da che parte cominciare, interazioni diverse dalla risposta riflessa
avrebbero reso la comunicazione più difficile. Per esempio, lo psicologo avrebbe potuto dire:
“Cominci pure da dove vuole”, ma questo avrebbe potuto aumentare l’imbarazzo della donna.
Oppure, in un esempio caricaturale ma utile per capire cosa significa bloccare la comunicazione,
avrebbe potuto dire: “Se non sa neppure perché è venuta, avrebbe potuto restarsene a casa!”. La
risposta riflessa, invece (“Ha paura di essere venuta qui per niente”), lascia probabilmente più aperta
la relazione.

pag. 563

2 Vedi capitolo 1, nota 4.


3 Vedi capitolo 1, nota 2.
4 Vedi capitolo 1, nota 3.
5 DSM-5 dedica un’appendice intitolata “Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione
clinica” a quelle situazioni che non possono essere definite “Disabilità intellettiva”, ma che
richiedono spesso un intervento. All’interno di questa sezione è inserito il Funzionamento intellettivo
borderline (V62.89). Nell’ICD-10 non è presente un’analoga appendice, e quindi, come è sostenuto,
tra gli altri, dal Gruppo di lavoro per l’integrazione dell’alunno disabile (2008), questa diagnosi non è
possibile: nel documento si legge infatti che l’ICD-10 viene individuato dalla Regione Lombardia
“quale unico sistema classificatorio di riferimento. Di conseguenza, le uniche diagnosi di Disabilità
intellettiva ammesse sono quelle previste dal sistema citato (F70; F71; F72; F73; F78; F79). Tale
scelta porta ad escludere alcune condizioni cliniche abitualmente utilizzate dai servizi del territorio
che avevano come riferimento il Sistema Classificatorio DSM-IV. Nello specifico, non è possibile
diagnosticare un ‘Funzionamento Intellettivo Limite’ (QI compreso tra 71 e 84 punti secondo la
vecchia definizione del DSM-IV). Tale ‘diagnosi’ risulta impropria rispetto alle direttive Regionali in
quanto non prevista all’interno dell’ICD-10. Di conseguenza, NON sono ammissibili dizioni e codici
diagnostici differenti. L’esperienza clinica condotta dai partecipanti al gruppo di lavoro ha permesso
di evidenziare come i funzionamenti intellettivi limite spesso trovano adeguato riconoscimento nelle
codifiche relative alle condizioni cliniche indicate con i codici F83 e F81.9.” Credo che queste parole
meritino qualche commento. Il primo è la perplessità che nasce nel leggere che una diagnosi è
propria o impropria a seconda di una direttiva regionale e verrebbe voglia di chiedere cosa facciamo
di bambini senza diagnosi ma con un QI che non è né “normale” né “patologico”. Il secondo è un
dubbio molto generale: perché all’Università gli studenti di psicologia studiano regolarmente il
DSM-5 e poi nel Servizio Sanitario Nazionale si usa invece l’ICD-10? Il terzo è che ricorrere al
codice F83 (Disturbi evolutivi specifici misti, che prevedono disfunzioni in almeno due aree tra
quelle del linguaggio, delle abilità scolastiche e delle funzioni motorie) o al codice F81.9 (Disturbi
evolutivi delle abilità scolastiche non specificate) sembra quanto meno bizzarro, dal momento che in
nessuna di queste categorie sono prese in considerazione le funzioni intellettive e di adattamento, che
rappresentano invece il punto centrale del Funzionamento intellettivo borderline. Probabilmente il
miglior modo per tradurre il Funzionamento intellettivo borderline in un codice ICD-10 è ricorrere
alla sezione R00-R99 (Sintomi, segni e risultati anormali di esami clinici di laboratorio non
classificati altrove), dove si trova il codice specifico R41.8 (Altri e non specificati sintomi e segni
che coinvolgono le funzioni cognitive e la consapevolezza).
Parte seconda

Disturbi autistici
Disturbo autistico: v. capitolo 5
DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo dello spettro dell’autismo
(F84.0)
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Autismo infantile (F84.0)

Disturbo di Rett: v. capitolo 6


Denominazione non compresa nel DSM-5
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Sindrome di Rett (F84.2)

Disturbo disintegrativo dell’infanzia: v. capitolo 6


Denominazione non compresa nel DSM-5
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Sindrome disintegrativa
dell’infanzia di altro tipo (F84.3)

Disturbo di Asperger: v. capitolo 6


Denominazione non compresa nel DSM-5
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Sindrome di Asperger
(F84.5)

Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato: v. capitolo


6
Denominazione non compresa nel DSM-5
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Altre (F84.8) e Non
specificate (F84.9)
Come riportato nel testo, si trovano tuttora in ambito clinico etichette
diagnostiche vecchie, controverse o comunque non sempre comprese in
entrambe le classificazioni internazionali. Fra queste, le più diffuse sono le
seguenti:

Disarmonia evolutiva: v. capitolo 6


Etichetta diagnostica che si trova tuttora in ambito clinico non compresa né
nel DSM-5 né nell’ICD-10

Disturbo multisistemico dello sviluppo: v. capitolo 6


Etichetta diagnostica che si trova in ambito clinico non compresa né nel
DSM-5 né nell’ICD-10

Autismo atipico: v. capitolo 6


Denominazione non compresa nel DSM-5
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico – Sindromi da
alterazione globale dello sviluppo psicologico – Autismo atipico (F84.1)

Autismo ad alto funzionamento: v. capitolo 6


Etichetta diagnostica che si trova in ambito clinico non compresa né nel
DSM-5 né nell’ICD-10
Capitolo 5

Disturbo dello spettro


dell’autismo
Fabio Celi

LA STORIA DI MAURIZIA
Sembra una danza: Maurizia, sulle punte dei piedi, ruota su sé stessa e
muove le mani e le dita delle mani davanti agli occhi ritmicamente, e i suoi
movimenti hanno qualcosa di magico.
Ma non è una danza. Bastano purtroppo pochi secondi per capirlo.
Maurizia ha quasi quattro anni, è la prima volta che ci vediamo e invece di
salutarmi, o almeno sorridermi, o anche solo guardarmi, o magari
spaventarsi per la mia presenza o per la novità del luogo in cui si trova, gira
su sé stessa in mezzo alla stanza, tra la mia scrivania e la parete di fronte, lo
sguardo fisso in avanti, come se non vedesse nulla o nulla le interessasse,
forse al di fuori di quelle mani mosse in modo stereotipato, sempre,
ossessivamente uguale, e come se non sentisse nulla: certamente non me
che provo a chiamarla, che la invito ad avvicinarsi o almeno a guardarmi o
a interessarsi a qualcuno degli oggetti che le mostro; ma neppure la madre
che è lì vicino a lei e cerca di interromperla per attirare la sua attenzione e
assume intanto, con il passare dei secondi che sembrano pesantissime ore,
un’espressione sempre più angosciata, mentre alterna occhiate alla bimba e
a quel suo comportamento così strano, e a me, forse per spiare se nel mio
sguardo c’è già riprovazione, fastidio, angoscia, magari già una diagnosi
formulata e non favorevole per la figlia.
La mamma è venuta al primo appuntamento portando per sbaglio anche
la bambina, perché io di solito programmo un primo colloquio alla
presenza dei soli genitori; per sbaglio, oppure perché provava il bisogno
impellente di portarla da me, forse l’ansia di una prima risposta. Mi mostra,
infatti, una cartella gonfia di referti medici e mi dice che l’ultimo
neuropsichiatra che ha interpellato le ha detto che Maurizia è autistica,
mentre il pediatra l’aveva in precedenza tranquillizzata, dicendole che si
trattava soltanto di un ritardo del linguaggio, che la bambina era un po’
indietro ma sarebbe maturata, che avrebbe dovuto seguire una terapia del
linguaggio e piano piano avrebbe cominciato a parlare…

pag. 49

Mi è difficile capire se la mamma crede a quello che mi sta dicendo, se è


venuta da me, su consiglio del pediatra, per avere una conferma della
diagnosi e della prognosi del medico o se, in cuor suo, sa già che la cosa è
più complicata, più grave, più terribile.
Maurizia, intanto, si è messa in un angolo, si è accovacciata in terra,
silenziosa e come in un altro mondo continua il suo gioco con le mani, ma
la danza è finita. La madre approfitta di questo momento di calma per
sedersi di fronte a me e parlare con un po’ più di tranquillità. È una donna
molto giovane, dall’aria indifesa. Questa sensazione di fragilità è aumentata
anche dal suo basso livello culturale e sociale. Quando comincia a
raccontarmi la storia di Maurizia è come se mi dicesse:
“Io però non ne so niente, non ci capisco niente, mi metto nelle sue
mani”.
Subito, infatti, mi racconta che Maurizia è figlia unica e dunque lei non
ha elementi di paragone. Si rende però conto che è sempre stata una
bambina strana, difficile. Era strana già nei primi mesi di vita, quando lei la
prendeva in braccio: la madre non sa spiegarmi bene, ma era come se
Maurizia non volesse essere abbracciata… No, non proprio così: era come
se non rispondesse all’abbraccio, come se non gliene importasse nulla, forse
era come abbracciare un oggetto anziché una figlia.
D’altra parte tutto, con Maurizia, era stato difficile, fin dall’inizio, fin
dalla brutta gravidanza, con iperemesi1 durante tutto il periodo di
gestazione. Poi un po’ di respiro, perché il parto era stato spontaneo ed
eutocico;2 la bambina pesava 3 chili ed era stata subito dimessa. Anche lo
sviluppo psicomotorio, inizialmente, sembrava nella norma, con il controllo
del capo verso i tre mesi, la posizione seduta intorno ai sette, la
deambulazione autonoma a diciassette mesi. Ma già durante il periodo
dell’allattamento al seno la bambina si mostrò problematica: aveva
difficoltà ad attaccarsi e si alimentava poco. Il passaggio al latte artificiale,
inevitabile perché la mamma non ne aveva abbastanza, peggiorò la
situazione. Anche il sonno era un problema. Maurizia si addormentava con
difficoltà, dormiva poco e in modo discontinuo, con risvegli frequenti e
angosciosi e lunghi periodi di insonnia. (Tuttora resta sveglia a lungo,
durante la notte: a volte si agita, scende dal letto, si mette a giocare, sempre
a modo suo, con alcuni oggetti nella stanza; più spesso resta in silenzio, lo
sguardo perso nel vuoto.) Ha cominciato a camminare in epoca regolare, ma
anche qui c’era, fin dall’inizio, qualcosa di strano: camminava sulle punte,
come se non avesse voluto toccare il terreno, come se anche in questo
comportamento volesse restare un po’ al di sopra, al di fuori del mondo (ma
questo lo aggiungo io adesso, non fu certamente la mamma a dirmelo). La
sensazione di vivere fuori dal nostro mondo, però, Maurizia la dà in mille
modi. Prima di tutto con l’assenza di linguaggio verbale. Questo è il motivo
di maggiore angoscia per la mamma, quello che ha poi dato il via a tutte le
visite specialistiche. Maurizia ha più di quattro anni e non dice ancora una
parola.
“Eppure non è sorda!”.
L’ha visitata un otorino, ma poi è evidente da mille indizi che sente i
rumori intorno a lei. Soltanto che non gliene importa niente. Non le importa
niente di nessuno. Mentre mi racconta questo, la mamma butta uno sguardo
sulla bambina a terra, come per dirmi:
“La vede? Eccola lì, indifferente e lontana”.
Non le importa dei bambini alla scuola dell’infanzia, dei cuginetti che
abitano accanto a lei, neppure dei giocattoli. Gioca, sì, ma a modo suo: con
quello che trova in casa, con un cucchiaio di legno che batte sul pavimento
per ore… Potrebbe parlare, se volesse, perché la voce ce l’ha. La usa per
alcuni gridolini, a volte una specie di miagolio incomprensibile. La verità è
che non vuole parlare, mi dice la madre, e aggiunge che non sa perché. Il
colloquio finisce con un’occhiata alla voluminosa documentazione medica
che mi ha portato.
Immergermi nella lettura dei referti mi solleva un po’ da un’angoscia
sottile che aveva cominciato ad accumularsi dentro di me. Leggere i referti
è come prendere una boccata d’aria di realtà, dopo tutta l’apnea
dell’osservazione di Maurizia e delle parole della madre. Gli accertamenti
medici sono tutti negativi: l’analisi cromosomica evidenzia un cariotipo
femminile normale; l’esame neurologico è nella norma (anche se alcuni
degli specialisti interpellati preferiscono scrivere “ai limiti della norma”);
da più di un ricovero in un reparto di pediatria non risulta nulla da rilevare
all’esame dei vari organi e apparati; gli esami neuroradiologici
dell’encefalo sono negativi per alterazioni congenite e per lesioni focali
intracraniche; sono nella norma le prove del metabolismo degli aminoacidi
(aminoacidemia, aminoaciduria); è nella norma la funzione tiroidea;
l’analisi del DNA per la ricerca dell’X-fragile è negativa; gli esami
virologici sono negativi; l’esame della funzione visiva e uditiva non ha
dimostrato deficit sensoriali; il fundus oculi è nella norma; e ancora (ma
non infine, perché sono io che faccio adesso una selezione dei referti e
decido di riportarne soltanto alcuni e non tutti quelli che la mamma mi
aveva mostrato) sono nella norma gli esami ematochimici e urinari e l’EEG.
Mentre leggo tutta la documentazione, e altro ancora, Maurizia si è
alzata, si è avvicinata alla madre, la tocca, gioca con le dita della sua mano,
si allontana di nuovo, va alla porta, la apre e la chiude più volte, sembra che
cominci ad agitarsi o comunque questa è l’interpretazione che la madre dà
del suo comportamento, tanto che le dice:
“Sì, Maurizia, abbiamo quasi finito, ora andiamo”.
Inutile negare che anche questo mi solleva: il pensiero che la prima visita
è quasi finita. La bambina sta diventando insofferente e la mamma pensa di
essere riuscita a dirmi l’essenziale. Fissiamo la data per il nostro prossimo
incontro.
Sono state necessarie quattro sedute, a distanza ravvicinata, per
raccogliere su Maurizia le informazioni che riporto qui di seguito. Se avessi
dovuto giudicarla dai nostri primi approcci, avrei dovuto dire che lavorare
con Maurizia è impossibile, che la bambina non è in grado di interagire in
alcun modo e tanto meno di rispondere a una, anche semplicissima
consegna, come quella di prendere in mano una matita colorata o almeno di
avvicinarsi alla mia scrivania. All’inizio, infatti, reagisce alle mie richieste
in due modi soltanto: o mi ignora completamente, come se fossi un oggetto
fra i tanti nel mio studio, oppure, se tento di essere un po’ più direttivo, di
insistere, di farmi a ogni costo sentire, diventa oppositiva e anche
francamente aggressiva: quella specie di monotono miagolio (Baltaxe,
1984) sale di tono, l’irrequietezza motoria aumenta e Maurizia manifesta
qualche comportamento autolesionista, come mordersi la mano destra. Ogni
elemento dell’ambiente è un motivo di distrazione e la bambina passa gran
parte del tempo a camminare su e giù nel mio studio con una
deambulazione che, spesso, è rigida, vagamente robotica. Shetreat-Klein,
Shinnar e Rapin (2014) hanno di recente analizzato l’andatura in bambini
con Disturbo dello spettro dell’autismo trovando in questi pazienti, con
maggior frequenza rispetto a bambini a sviluppo tipico, un’andatura
anomala e una tendenza a camminare sulla punta dei piedi.
Mi sembra evidente che le mie richieste la mettano in uno stato di
angoscia, o forse meglio: aumentino un’angoscia che ha già dentro di sé.
Così lascio che familiarizzi con la situazione e con la mia presenza senza
chiederle nulla, almeno in un primo tempo. Aspetto i momenti in cui è un
po’ più calma e mi limito a fare il suo nome. A volte ottengo in questo
modo un brevissimo contatto oculare che subito le restituisco. Non la
disturba essere guardata. Da metà della seconda seduta in avanti sembra,
anzi, che cerchi la mia attenzione. Gliela concedo, molto cautamente,
quando anche lei mi guarda, quando si avvicina alla mia scrivania, quando
finalmente accetta di prendere una matita colorata che provo a porgerle. La
ignoro negli altri momenti: quando torna a mettersi da sola in un angolo o
gioca con le sue dita. Piano piano, cercando di alternare senza rigidità
metodi di estinzione , rinforzamento differenziale (vedi riquadro alla
pagina seguente) e modellaggio , la porto a sedersi alla scrivania.

pag. 236

pag. 6

Le porgo qualche oggetto che Maurizia accetta, anche se poi di rado lo


usa per la sua funzione. Le matite, per esempio, non le servono per
disegnare o colorare: le prende, le gira e rigira tra le mani, le annusa, le
batte ritmicamente sulla scrivania. Riusciamo però così, piano piano, a fare
una specie di gioco, anche se molto meccanico: le chiedo di prendere un
oggetto e lei lo prende. All’inizio provo con un oggetto solo, ma il gioco
funziona anche come esercizio di discriminazione tra due o tre oggetti.
Metto di fronte a lei una matita, una figurina, un orsacchiotto e le chiedo di
prendere, per esempio, l’orsacchiotto. Lo prende, lo afferra per la coda e lo
fa dondolare per un po’. Arriva a stare seduta per una quindicina di minuti,
ma i suoi momenti di attenzione restano brevissimi e imprevedibili.

RINFORZAMENTO DIFFERENZIALE
Alla voce estinzione, nel capitolo 11, è chiaramente detto che questa
tecnica non si dovrebbe mai usare da sola. Usare l’estinzione da sola
non è soltanto difficilissimo ma, talvolta, addirittura impossibile. È
cattivo nei confronti del bambino. Estinguere significa eliminare i
rinforzatori, e nessuno può vivere senza rinforzatori. Senza
rinforzatori primari, letteralmente, si muore. Ma non vale l’obiezione
che tanto i rinforzatori primari non sono mai usati né
nell’insegnamento né nella psicoterapia. Il problema è che, anche
senza rinforzatori secondari, muore qualcosa: la motivazione, la
relazione, la fiducia nelle proprie capacità. Per questo l’estinzione è
cattiva: perché sottrae rinforzatori. Per questo andrebbe sempre usata
insieme al rinforzamento differenziale. Perché il rinforzamento
differenziale consiste nel restituire al bambino i rinforzatori che
l’estinzione gli ha tolto.
Naturalmente non si dovranno restituire al bambino i rinforzatori
quando emette comportamenti inadeguati, perché in questo modo si
vanificherebbero i risultati dell’estinzione. Però si potrà rinforzare il
bambino quando si comporta bene (in questo caso si parla di DRA,
acronimo inglese che sta per rinforzamento differenziale dei
comportamenti adeguati); oppure quando non si comporta male (in
questo caso si parla di DRO: rinforzamento differenziale dei
comportamenti alternativi); oppure quando emette comportamenti che
gli impediscono di comportarsi male (in questo caso si parla di DRI:
rinforzamento differenziale dei comportamenti incompatibili).
Nel testo è possibile vedere un esempio di rinforzamento differenziale
dei comportamenti adeguati nel capitolo 3, quando l’educatrice
insegna a Michela ad andare al supermercato senza fare capricci
continui. È possibile vedere un esempio di rinforzamento differenziale
dei comportamenti alternativi nel presente capitolo, quando lo
psicologo rinforza con la sua attenzione Maurizia ogni volta che non
si isola e non fa giochi stereotipati. Infine, è possibile vedere un
esempio di rinforzamento differenziale dei comportamenti
incompatibili nel caso di Lorenzo, nel capitolo 11, quando il bambino
viene rinforzato per ogni comportamento, anche verbale, in cui mostri
di non avere più troppa paura di avvicinarsi al lettino.
I principi del rinforzamento differenziale possono essere insegnati
anche ai genitori: nel capitolo 15, per esempio, il papà e la mamma di
Eleonora imparano che possono aiutare la figlia a superare l’ansia
rinforzando la sua autonomia e i suoi comportamenti orientati ad
affrontare le situazioni.

Sono per lo più flash di qualche secondo e poi subito la fuga, il ritiro dentro
di sé, la saracinesca che si abbassa di nuovo. La durata dell’attenzione, in
queste prime sedute, può essere paragonata a quella di un bambino con
Disabilità intellettiva Grave, ma la qualità è profondamente diversa.
Quando, alla quarta seduta, riesco a farla disegnare, la mia considerazione è
la stessa. Provate a confrontare il disegno della figura umana3 di un
bambino con Disabilità intellettiva (vedi fig. 2, Tavole a colori): sembra
quello di un bambino più piccolo, ci sono meno particolari e più
imperfezioni; è spesso un disegno povero: pochi colori, nessun movimento,
nessuno sfondo; nient’altro. Invece il disegno di Maurizia è del tutto
diverso (vedi fig. 3, Tavole a colori): non è la carenza di particolari, o di
colori, o di precisione del tratto a colpire. È la qualità generale e
complessiva a essere sorprendente, inquietante, angosciosa. L’intero foglio
è riempito. In un angolo, con un po’ di buona volontà, si riesce a
riconoscere una specie di figura umana: una grande testa, due grandi occhi
vuoti e due piccoli stecchi che potrebbero essere le gambe. Poi c’è di tutto.
Tentativi di riempire le forme con colori che escono fuori dai margini, linee
orizzontali e verticali da ogni parte del foglio che finiscono per coprire
anche quella povera figura umana, altre macchie di colore qua e là. È questo
che intendo con qualità diversa: nel bambino deficitario l’attenzione è
breve e il disegno povero. L’attenzione di Maurizia, quando scatta, dà
l’impressione di poter durare chissà quanto e di portare a chissà quali
risultati, poi, improvvisamente, scompare imprevedibile come era arrivata.
Altrettanto imprevedibile è il suo disegno, che in certi momenti potrebbe
anche diventare bello o per lo meno suggestivo se poi Maurizia non
decidesse d’un tratto di prendere una matita nera o rossa e ricoprirlo tutto
con una specie di grande scarabocchio.
Dopo quattro sedute fisso di nuovo un appuntamento con i genitori.
Stavolta viene anche il padre. Ha subito un atteggiamento aggressivo, come
se volesse mettere le mani avanti, avvertirmi che non è disposto a sentire
certe cose su sua figlia. D’altra parte, me lo dice poi anche chiaramente.
L’hanno vista mille medici e non hanno rilevato nulla. Il pediatra (“l’unico
che ci capisce qualcosa”) ha detto che la bambina ha solo un ritardo del
linguaggio, che forse dovrà fare un po’ di logopedia e basta. Cose simili
hanno detto anche alcuni neuropsichiatri infantili, magari aggiungendo che
la bambina ha qualche difficoltà di relazione, e questo forse è vero –
commenta il padre – perché anche quando la portano ai giardini pubblici
tende a giocare da sola, a starsene in disparte, a non cercare gli altri
bambini. Chi, invece, i genitori proprio non hanno mandato giù è stato un
neuropsichiatra che, dopo aver visto la bambina un paio di volte, ha detto
loro, in faccia, che è autistica. Questo è inaccettabile: Maurizia non parla e
qualche volta, soprattutto con chi non la conosce, ha qualche
comportamento strano, ma ha anche molte doti, per esempio ha
un’incredibile memoria (il padre non mi spiega in base a cosa possa dire
questo), è attentissima e interessatissima a molti programmi televisivi e
bravissima nell’esecuzione di puzzle.
Date queste premesse, mi sembra prematura una mia restituzione4 e, a
maggior ragione, una mia diagnosi. Mi limito dunque ad ascoltare, a fare
qualche commento generico. La madre tace per quasi tutta la seduta. Ha
un’espressione dolorosa. Da come guarda il marito sembra combattuta tra la
speranza che quello che dice sia vero e il timore che si spinga troppo in
avanti, fino a suscitare in me una reazione negativa. Penso che poche cose
al mondo le farebbero male come se io interrompessi il marito per dirgli che
non credo a quello che sta raccontando, che il pediatra si è sbagliato, che la
loro figlia ha ben altro che un ritardo del linguaggio…
Io mi aggancio invece a due affermazioni del padre: che la bambina dà il
meglio di sé dopo un po’ che la si conosce e che è molto brava nei puzzle.
Così propongo ai genitori di non affrettare le conclusioni, di vederla ancora,
magari con i puzzle che è abituata a fare, in modo che io possa osservarla
quando gioca con oggetti che le sono abituali.
I genitori accettano e, soprattutto la madre, sembrano sollevati da questa
specie di tregua.
Così, la volta successiva Maurizia arriva con un sacco che contiene i
pezzi di un puzzle molto grande, di plastica, con ogni tessera che misura
una ventina di centimetri. Il suo comportamento, all’inizio, ha qualcosa di
sconvolgente, soprattutto se paragonato con quanto il padre mi aveva detto.
Tira fuori lentamente e meccanicamente tutti i pezzi, che poi sono solo sei,
e li dispone davanti a sé. Quindi si ferma, silenziosa e assente, immersa nel
suo mondo. Infine prende una tessera del puzzle che ha un buco al centro.
Tutto questo avviene con una lentezza indicibile. Guarda la tessera come se
fosse la prima volta che la vede. La mette intorno al collo e ci gioca in
modo stereotipato a lungo, come se fosse una collana, di nuovo con quello
sguardo perso. Emette gridolini e altri vocalizzi sempre in modo ripetitivo e
stereotipato. Non riesco a calcolare né a ricordare quanto tempo passi così
(secondi? minuti?), ma so che mi è più che sufficiente per pensare che
Maurizia è ancora più grave di come avevo ipotizzato e che anche il padre,
se è arrivato a raccontarmi quello che mi ha raccontato e a portarmi la
bambina con quel puzzle sperando di dimostrarmi chissà che cosa, deve
essere ormai un po’ fuori dalla realtà. Poi, all’improvviso, Maurizia mi
guarda, e già questo ha dell’eccezionale perché non credo di aver mai visto
un contatto oculare spontaneo nella bambina. È uno sguardo intenso che
accompagna l’inizio della disposizione di qualche pezzo al punto giusto:
con intervalli infiniti tra l’uno e l’altro. Alla fine, un’ultima sorpresa:
un’accelerazione improvvisa e il puzzle si completa, in un modo che
sembra miracoloso.

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
Purtroppo il neuropsichiatra “cattivo”, quello dal quale i genitori hanno
giurato che non sarebbero tornati mai più, aveva sostanzialmente ragione.
Probabilmente è stato frettoloso nell’osservazione della bambina e brusco
nei modi con i quali ha poi riferito ai genitori i risultati di questa
osservazione, ma Maurizia ha un Disturbo dello spettro dell’autismo (o
Sindrome da alterazione globale dello sviluppo secondo la classificazione
proposta dall’ICD-10).5 Si tratta forse della categoria di disturbi
psicopatologici in età evolutiva più drammatica, sia per la sua gravità sia
per i molti aspetti di mistero dai quali è tuttora avvolta, che aggiungono al
dramma della malattia anche il dramma del non sapere e del non capire.
Quello che oggi chiamiamo Disturbo dello spettro dell’autismo ha avuto
in passato molti nomi. Fra i tanti, menziono qui soltanto l’etichetta di
“psicosi infantile” perché, nonostante sia stata giustamente abolita da
tempo, è ancora molto diffusa nell’uso corrente di psicologi e medici.
L’espressione non dovrebbe più essere usata in questi contesti perché il
Disturbo dello spettro dell’autismo è molto diverso dalle cosiddette psicosi
che insorgono in età più avanzata, come la schizofrenia (Rutter e Schopler,
1978; 1992; Kolvin e Berney, 1990; Volkmar e Cohen, 1991; Skokauskas e
Gallagher, 2009). Anzi, probabilmente le differenze sono maggiori delle
analogie. Nel Disturbo dello spettro dell’autismo sono assenti deliri e
allucinazioni, tipici invece nei disturbi psicotici a esordio più tardivo, e i
sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo. Credo,
in conclusione, che l’espressione “psicosi infantile” sia stata in passato
carica di malintesi, pregiudizi, occasioni per un uso eccessivamente e
disinvoltamente allargato della diagnosi e per più o meno sottintese ipotesi
eziologiche assolutamente false, come vedremo meglio più avanti, e che
tutti questi motivi siano più che sufficienti per cancellarla, speriamo
definitivamente, dal vocabolario corrente dello psicologo che si occupa di
bambini.
In realtà, la caratteristica fondamentale del Disturbo dello spettro
dell’autismo è un’incapacità di stabilire un adeguato sistema di
comunicazione con l’ambiente. È chiaro che questo trascina con sé altre
conseguenze: Maurizia, incapace di comunicare e mettersi in sintonia con le
persone che le stanno intorno, dà a volte l’impressione di essere pazza e
sicuramente fa stare male chi le è vicino in modo non molto diverso da
come può fare un adulto schizofrenico. Sul piano sintomatologico, però,
resta il fatto che è la difficoltà a comunicare e a mettersi in relazione in
modo adeguato (Hobson, 1991 e 1993; Baron-Cohen, Golan e Ashwin,
2009; Park, Yelland, Taffe e Gray, 2012; Shield, 2014; Sun e Fernandes,
2014) il nucleo di questo disturbo.
Più analiticamente, si notano in Maurizia, e sono tipici della sindrome,
una grave compromissione dell’interazione sociale e della comunicazione
unita ad attività, comportamenti e interessi ristretti, ripetitivi e stereotipati.
Maurizia ha anche, evidentemente, una Disabilità intellettiva Grave che,
peraltro, non è possibile valutare con strumenti diagnostici tradizionali per
l’incapacità della bambina di collaborare all’esecuzione di un test
intellettivo. Tuttavia, la compromissione cognitiva, pur essendo una
caratteristica molto frequentemente associata ai Disturbi dello spettro
dell’autismo, non è sempre presente. Esistono infatti Disturbi dello spettro
dell’autismo in bambini normodotati intellettivamente.
Il Disturbo dello spettro dell’autismo è stato suddiviso, dai diversi
sistemi di classificazione che si sono succeduti, in numerosi sottotipi, come
si potrà vedere meglio nel capitolo successivo. Nel DSM-5, invece, è stata
fatta la scelta di mantenere un’unica categoria diagostica con diverse
specificazioni a seconda del livello di gravità e a seconda del fatto che al
disturbo siano associati: una compromissione intellettiva o del linguaggio;
una condizione medica, o genetica o un fattore ambientale; un altro disturbo
del neurosviluppo, mentale o comportamentale. Maurizia ha un Disturbo
dello spettro dell’autismo, spesso detto anche autismo infantile, che
rappresenta la manifestazione più frequente e più tipica di questa classe di
disturbi. Nel suo caso, il livello di gravità è “grave”.
Dopo l’eccessiva prudenza del pediatra, tutti gli specialisti che hanno
visto la bambina sono stati concordi su questo punto, anche se l’hanno
espresso con termini e modalità diverse, a seconda dei loro punti di vista
teorici, ma soprattutto della loro sensibilità. Le caratteristiche fondamentali
del disturbo di Maurizia sono, infatti, piuttosto tipiche e possono essere
riassunte nei punti seguenti:
• una grave, evidente e non solo quantitativa compromissione
dell’interazione sociale (Senju, 2013; Corbett, Newsom, Key, Qualls e
Edmiston, 2014): la bambina non guarda negli occhi l’altro, non
interagisce verbalmente, non ha con i coetanei relazioni adeguate alla sua
età, non sembra condividere con gli altri gioie, dolori, emozioni. In realtà,
la sensazione che dà più spesso è di non accorgersi neppure che gli altri
esistono;
• un linguaggio verbale che, all’inizio dell’osservazione, è inesistente e che,
anche quando comincerà a svilupparsi, lo farà in modo molto particolare,
come vedremo meglio più avanti: poche parole, non sempre comprensibili
e non sempre rivolte agli altri, una cadenza cantilenante e un impiego
molto stereotipato e ripetitivo (Naigles, 2013);
• una incapacità di giocare, almeno come di solito noi intendiamo questo
termine: nessun gioco simbolico (Leslie, 1987; Wing, 1989; Thorp,
Stahmer e Schreibman, 2000; Marcu, Oppenheim, Koren-Karie, Dolev e
Yirmiya, 2009; Hobson, Lee e Hobson, 2009), di simulazione o di
imitazione sociale, ma solo “giochi” chiusi all’interno del proprio mondo.
I bambini a sviluppo tipico, alla sua età, prendono in mano un mestolo da
cucina e lo trasformano in un’astronave e poi, con gli amici, giocano “che
eravamo degli esploratori spaziali”. Maurizia, invece, prende un mestolo
da cucina e lo batte ritmicamente per terra, da sola, forse per sentirne il
suono, o chissà perché. Sono molto frequenti nella bambina, e nel
Disturbo dello spettro dell’autismo, questi comportamenti ripetitivi,
stereotipati, a volte autolesionisti, rigidi e manierati; oppure un particolare
attaccamento a una cosa inanimata, o un interesse bizzarro e per noi
difficile da spiegare per gli aspetti non funzionali di un oggetto come
l’odore (da cui il frequente annusare) o il sapore (da cui il frequente
mettere in bocca di tutto);
• la diagnosi si completa per l’esordio precoce: nel caso di Maurizia, i primi
segni di anormalità sono comparsi fin dai primi mesi di vita.
Il DSM-5 riassume queste caratteristiche in due grandi categorie: la prima si
riferisce ai deficit di comunicazione e interazione sociale (e all’interno di
questa vengono inserite le difficoltà di gioco di immaginazione); la seconda
si riferisce a comportamenti, interessi o attività ristrette e ripetitive.
Ma, al di là di questa elencazione di sintomi, credo che vi sia un aspetto
fondamentale del disturbo che lo rende così diverso da quasi tutti gli altri e
che dovrebbe sempre essere tenuto presente. Si tratta del fatto che lo
sviluppo sociale dei bambini autistici è qualitativamente diverso da quello
dei coetanei a sviluppo tipico, anche se negli ultimi anni la ricerca sembra
mettere in luce che molti aspetti oltre a quelli sociali sono
significativamente compromessi nei Disturbi dello spettro dell’autismo
(Rogers, 2009). Ho scelto Maurizia perché mi sembrava emblematica in
relazione a questo aspetto. Il suo comportamento, il suo disegno, il suo
modo di comunicare e di giocare, persino il suo linguaggio verbale quando,
sia pure molto parzialmente, si svilupperà, non sono quelli di una bambina
più piccola o di una bambina in ritardo sulle tappe dello sviluppo. Sono
quelli di una bambina diversa.

RICERCHE
Forse il Disturbo dello spettro dell’autismo è, tra tutti i disturbi mentali in
età evolutiva, il più studiato eppure ancora il più misterioso. Tuttavia, la
ricerca ha cominciato a fare un po’ di luce almeno su alcuni aspetti, che qui
di seguito cercherò di illustrare in forma molto sintetica.
Prima di tutto, il Disturbo dello spettro dell’autismo non è in alcun modo
causato da una distorta relazione madre-bambino. Ho visto troppe volte
papà sconvolti e mamme in lacrime dopo un colloquio con lo “specialista”
di turno, che non trovava niente di meglio da fare che aggiungere al
dramma dei genitori di avere un figlio autistico il dramma di dar loro la
colpa. Per questo esprimo in modo così netto e perentorio questo punto di
vista: i comportamenti dei genitori non sono responsabili della genesi del
Disturbo dello spettro dell’autismo. La ricerca, più cautamente, si esprime,
di solito, sostenendo che non vi sono prove a favore di questa ipotesi della
cosiddetta “madre frigorifero” che, con la sua freddezza relazionale,
sarebbe la responsabile prima del disturbo del bambino. Si tratta di un’idea
inverosimile, bizzarra e crudele, che, tuttavia, ha avuto notevole credito per
decine di anni negli ambiti della psicologia e della neuropsichiatria infantile
e che ancora oggi, nonostante tutto, appare dura a morire.
L’idea è prima di tutto inverosimile: avete mai visto un bambino con
Disturbo dello spettro dell’autismo? Davvero si può pensare che una
devastazione così grave, pervasiva e complessa possa essere determinata da
una modalità di relazione? Poi è bizzarra: come può mai venire in mente
una cosa del genere? Poi è crudele: quanti danni saranno stati causati dal
senso di colpa dei genitori che un pregiudizio di questo genere
necessariamente produce? Infine è falsificata sistematicamente dalla
ricerca, secondo la quale tutte le prove finora accumulate vanno proprio
nella direzione contraria a questa ipotesi (McAdoo e De Myer, 1978; De
Meyer, Hingtgen e Jackson, 1981; Jordan e Powell, 1997; Schopler e
Mesibov, 1998; Surian, 2001) e ormai molti studi si indirizzano verso
analisi sempre più raffinate delle cause genetiche della malattia (Weiss e
Arking, 2009; Rosenberg et al., 2009).
I Disturbi dello spettro dell’autismo sembrano ormai essere determinati
da fattori biologici. Solo a titolo esemplificativo cito a questo proposito i
lavori di: Cannell e Grant (2013) che hanno studiato l’associazione tra
anomalie dell’interazione sociale e bassi livelli di serotonina nel cervello e
di vitamina D, frequenti nei soggetti autistici; Siniscalco, Bradstreet, Cirillo
e Antonucci (2014) che hanno osservato che un enzima, il nagalese, in un
campione di 400 bambini affetti da autismo, presentava nell’80% dei casi
livelli significativamente elevati; Patrick e Ames (2014) che hanno studiato
la correlazione tra disordini autoimmuni e manifestazioni del Disturbo dello
spettro dell’autismo.
Inoltre si osserva spesso nell’anamnesi di questi bambini la presenza di
rosolia materna durante la gravidanza o convulsioni nei primi mesi di vita.
Si riscontrano con frequenza anomalie neurobiologiche come la persistenza
di riflessi primitivi, segni neurologici lievi, positività varie
all’elettroencefalogramma, alla tomografia assiale computerizzata e alla
risonanza magnetica. Con il procedere della ricerca in questi campi, si
scoprono sempre più facilmente problemi legati a generali condizioni
negative neonatali e ostetriche e associazioni con patologie specifiche come
la fenilchetonuria, la sclerosi tuberosa, la sindrome dell’X-fragile
(Courchesne et al., 1994; Bayley et al., 1996; Kau et al., 2001; Surian,
2001; Cannell e Grant, 2013).
Quest’ultimo caso è particolarmente emblematico e clamoroso. La
sindrome dell’X-fragile, infatti, è stata descritta alla fine degli anni Sessanta
del XX secolo, ma solo agli inizi degli anni Ottanta cominciarono a
svilupparsi strumenti adeguati di diagnosi, che impiegarono ancora del
tempo per diventare esami di routine (Wilson, Stackhouse, O’Connor,
Schrfenaker e Hagerman, 1999). Mi è così successo più di una volta, nella
mia pratica professionale, di vedere bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo sui quali specialisti affezionati alle ipotesi eziologiche della
relazione madre-bambino esercitavano tutta la loro “scienza” interpretativa.
Indimenticabile il caso del bambino autistico le cui iniziali del nome erano
O. O. Lo specialista mi fece dottamente notare la “vuota specularità” di
queste iniziali, il profondo senso del nulla che emanavano quelle due lettere
che, “comunque orientate, non davano altro valore che lo zero”. Questo era
chiaramente il segno di un abisso psicotico di cui i genitori, che avevano
scelto il nome del bambino, erano in qualche modo responsabili… Oggi O.
O. ha vent’anni, un’analisi del DNA eseguita un paio di anni fa ha permesso
di porre una diagnosi di X-fragile, ma nessuno potrà risarcire i genitori delle
sofferenze generate da certe interpretazioni (per una discussione su
comorbilità e differenze tra autismo e X-fragile, si veda Abbeduto,
McDuffie e Thurman, 2014).
Se ci fosse ancora bisogno di altre prove, è stato anche dimostrato che la
frequenza di disturbi psicopatologici nei genitori dei bambini autistici è
uguale a quella che si riscontra nelle famiglie di bambini con altri problemi
di sviluppo (Cottini, 2002; Favorini e Bocci, 2008). Appare ormai evidente,
anche alla luce della prospettiva genomica nello studio delle cause del
Disturbo delle spettro dell’autismo (Connolly e Hakonarson, 2014), che la
famosa e famigerata distorsione nella relazione madre-bambino non è la
causa di questo disturbo, ma semmai l’effetto, nel senso che avere un figlio
con i gravi problemi comportamentali tipici dell’autismo può esercitare
un’influenza negativa profonda sulla famiglia.
D’altra parte, a contribuire alla falsificazione di questa ipotesi c’è il fatto
che piuttosto raramente un Disturbo dello spettro dell’autismo si riscontra
in altri fratelli, mentre i gemelli monozigoti hanno maggiori probabilità sia
dei fratelli sia dei gemelli dizigoti di presentare entrambi un Disturbo dello
spettro dell’autismo (Piven e Folstein, 1994). Anche questo dovrebbe farci
riflettere. Sembra davvero difficile ipotizzare che una madre possa essere
“frigorifero” con un figlio e non con un altro, e ancora più difficile pensare
che il suo comportamento possa essere così diverso nei confronti di due
gemelli se sono dizigoti e più simile se invece sono monozigoti! Emerge
qui, una volta di più, la forza dell’ipotesi genetica nell’eziologia del
Disturbo dello spettro dell’autismo. D’altra parte, ricerche molto recenti
sembrano indicare che il disturbo è più frequente tra i figli di ingegneri che
nella popolazione generale. Mettiamo allora subito le mani avanti prima che
a qualcuno venga in mente, appena accantonata l’ipotesi della madre-
frigorifero, di tirare fuori quella del padre-frigorifero. Sembra decisamente
più ragionevole pensare che esistano geni non dominanti che possono, in
alcuni casi, essere causa dell’autismo e in molti altri influenzare
semplicemente alcuni interessi e alcune scelte professionali.6
Credo che si potrebbe mettere una definitiva pietra tombale su questa
discussione con le parole conclusive che, già più di vent’anni fa, si
potevano leggere sul DSM-III (American Psychiatric Association, 1983,
pag. 103) a proposito dell’eziologia del Disturbo Autistico: “Nel passato, si
era ipotizzato che certi fattori familiari e interpersonali potessero
predisporre allo sviluppo di questa sindrome, ma studi più recenti non
accreditano questo punto di vista”. Tordjman et al. (2014) discutono a
questo proposito il ruolo dell’epigenetica e dell’interazione gene-ambiente
nell’eziologia del disturbo.
Sgombrato il campo dalle mistificazioni eziologiche, vale la pena di
soffermarsi su due importanti contributi della ricerca: la prevalenza e la
comorbilità. Sul primo i dati sono per certi aspetti impressionanti: si pensi
che negli anni Ottanta del secolo scorso si parlava di una prevalenza intorno
a 2-5 casi su 10000 soggetti, come si può leggere nelle passate edizioni del
DSM, mentre la stima oggi riportata dal DSM-5 si avvicina all’1% della
popolazione (si veda a questo proposito anche Baird et al., 2006). Non è
chiaro, tuttavia, se questi dati indichino un aumento reale dei disturbi
autistici o dipendano invece da una maggiore attenzione alle procedure di
diagnosi. Per quanto riguarda il secondo contributo, invece, appare sempre
più evidente il ruolo primario dei sintomi cognitivi (Hughes, Russel e
Robbins, 1994; Russell, 1997; Morton e Frith, 1994), ma la ricerca di questi
ultimi anni ha messo in luce anche la comorbilità tra Disturbi dello spettro
dell’autismo e, nell’ordine, Disturbi d’ansia, Disturbi dell’umore e
schizofrenia (Skokauskas e Gallagher, 2009).
Il DSM-5 riporta che circa il 70% di individui con Disturbo dello spettro
dell’autismo è affetto da almeno un disturbo mentale concomitante, in
particolare Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo dello
sviluppo della coordinazione, Disturbi d’ansia, Disturbi depressivi.
Rybakowski et al. (2014) osservano in un’ampia rassegna su epidemiologia,
sintomi, comorbilità e diagnosi come il Disturbo dello spettro dell’autismo,
nell’inquadramento fatto dal DSM-5, ha sostituito e riassunto in sé il
disturbo autistico, la sindrome di Asperger, il disturbo disintegrativo e il
disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato. Le due
dimensioni psicopatologiche fondamentali del Disturbo dello spettro
dell’autismo sono i disturbi di comunicazione e i comportamenti
stereotipati, la cui diagnosi è completata attraverso la valutazione dello
sviluppo del linguaggio e del livello intellettivo. Gli autori riportano che
negli studi epidemiologici successivi a questo tipo di inquadramento
diagnostico la prevalenza del disturbo risulta in aumento, attualmente
stimata attorno all’1% della popolazione generale. Nella maggior parte dei
pazienti si osserva comorbilità. Per la diagnosi rimangono elementi
fondamentali e imprescindibili le interviste strutturate e le liste di
comportamenti da osservare in modo sistematico.
Negli ultimi decenni molte ricerche si sono concentrate sullo studio della
comorbilità tra Disturbo dello spettro dell’autismo e Disturbi d’ansia. I
principali risultati emersi hanno evidenziato come, accanto ai sintomi
caratteristici del Disturbo dello spettro dell’autismo, oltre un 50% dei
bambini soddisfava anche i criteri diagnostici per un Disturbo d’ansia (Van
Steensel et al., 2011). L’ansia può causare in questi bambini un disagio
acuto, può amplificare il nucleo dei sintomi del Disturbo dello spettro
dell’autismo e innescare difficoltà comportamentali, come aggressività e
autolesionismo.
Partendo da questo punto di vista, un gruppo di numerosi studiosi (Hallett et
al., 2013) ha voluto esplorare la frequenza dei sintomi d’ansia nei soggetti
con questo disturbo e il rapporto esistente tra ansia e altri comportamenti
problematici. Lo studio si è concentrato su un campione di 415 bambini con
Disturbo dello spettro dell’autismo, di età compresa tra i 4 e i 17 anni. Per
la raccolta dei dati sono stati usati strumenti come il test per la rilevazione
del QI, insieme ad anamnesi mediche, psichiatriche e questionari per i
genitori. Per la raccolta dei sintomi d’ansia sono stati somministrati il
“Child and Adolescent Symptom Inventory” e il “CASI- Anxiety Scale”,
utilizzato quest’ultimo per differenziare il tipo di ansia (fobia specifica,
fobia sociale, ansia da separazione). I risultati emersi dalla ricerca hanno
mostrato che punteggi più alti della scala CASI sono associati a soggetti
con un QI di 70 o superiore, con elevati livelli di linguaggio e presenza di
irritabilità e iperattività, in accordo con le ipotesi iniziali.
Un altro studio che ha indagato la presenza di comorbilità tra questi due
disturbi è stato svolto da Renno e Wood (2013) su un campione di 88
bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo, in età compresa tra i 7 e
gli 11 anni. Per la raccolta dei dati sono stati somministrati il
“Multidimensional Anxiety Scale for Children-Child and Parent” e
l’“Anxiety Disorders Interview”, un’intervista semistrutturata per i genitori
di questi bambini. I risultati emersi mostrano che i sintomi d’ansia
manifestati dai soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo sono
analoghi a quelli che si verificano nei bambini a sviluppo tipico; questo
conferma quindi che la gravità del disturbo non correla con la gravità e la
manifestazione del Disturbo d’ansia.
Da queste ricerche emerge pertanto che questi bambini sono vulnerabili
nel sviluppare un Disturbo d’ansia. Partendo da questa premessa, Rodgers,
McConachie, Glod e Connolly (2012) hanno ipotizzato che i
comportamenti ripetitivi e stereotipati, caratteristica tipica dei soggetti con
questi disturbi, siano in relazione a esperienze d’ansia vissute dai bambini
stessi. Per sostenere questa ipotesi iniziale, hanno esaminato i
comportamenti ripetitivi e l’ansia in 67 bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo, suddividendoli poi in due gruppi: quelli con elevati livelli di
ansia e quelli con più bassi livelli di ansia. Per la raccolta dei dati sono stati
utilizzati due tipi di strumenti: il “Repetitive Behaviours Questionnaire” per
misurare i comportamenti ripetitivi, e lo “Spence Children’s Anxiety Scale-
Parent Version”
Si deve anche tener conto del fatto che il profilo cognitivo di questi
bambini può essere particolarmente irregolare (House, 1991). A volte, a
fronte di gravi cadute nelle abilità verbali, si hanno sorprendenti abilità di
problem solving. D’altra parte, se è vero che vi sono bambini autistici del
tutto incapaci di usare il linguaggio verbale, o con un linguaggio così
bizzarro, pieno di ecolalie, manierismi e stereotipie, da essere praticamente
inutilizzabile a fini comunicativi, è anche vero che ve ne sono altri con un
linguaggio ben sviluppato, ma incapaci di entrare in relazione con gli altri.
Ha così cominciato a svilupparsi una teoria, oggi nota come teoria della
mente, che tenta di spiegare molte di queste anomalie relazionali a partire
da un’interpretazione cognitiva. L’espressione “teoria della mente” indica la
capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri (Surian e Frith,
1993; Baron-Cohen, 1997; Frith, 2008; Baron-Cohen, Golan e Ashwin,
2009). È grazie a questa capacità che noi siamo in grado di comunicare con
i nostri simili, di provare empatia, di immaginare il punto di vista degli altri,
e pare che sia proprio questa capacità a mancare alle persone autistiche. Un
esempio banale, ma che mi sembra chiarificatore. Se qualcuno seduto a
tavola vicino a me mi chiede: “Ti dispiace passarmi il sale?”, io
probabilmente prenderò il sale e glielo darò. Questo dipende dal fatto che io
ho la capacità di “leggere” nella mente dell’altro le sue presumibili
intenzioni, i suoi bisogni e i suoi desideri. Ovviamente questa capacità non
è completa, ma nell’esempio che ho fatto è sufficiente a farmi capire che la
domanda “Ti dispiace passarmi il sale?” va interpretata alla luce del fatto
che probabilmente l’altro vuole un po’ di sale. Così io vado oltre il
significato letterale della frase e ne comprendo il significato vero. Il
paziente autistico, invece, risponderà “sì”, oppure “no” alla domanda, e a
quel punto si fermerà a causa della sua incapacità di mettersi nei panni
dell’altro. Tutto questo è stato messo alla prova con ricerche rigorose, per
esempio sulla falsa credenza, che sembrano dimostrare, nei pazienti con
Disturbo dello spettro dell’autismo, gravi difficoltà di
metarappresentazione7 (Leslie e Frith, 1990; Frith, 1991; Eales, 1993;
Charman e Baron-Cohen, 1992, 1995; Surian e Leslie, 1999; Bloom, 2000;
Melot e Angeard, 20038). Essi non sanno pensare sui pensieri, e questo li
rende “ciechi” nei confronti dei pensieri degli altri. Di qui le carenze tipiche
dei bambini autistici, per esempio nel gioco simbolico, che presuppone la
capacità di condividere con altri il fare finta che un oggetto sia qualcosa di
diverso (“Facciamo finta che questa scatola sia la nave dei pirati”), le
difficoltà di comunicare, di persuadere, anche di ingannare o semplicemente
di giocare a “indovina in che mano è nascosto un oggetto” (San José
Cáceres, Keren, Booth e Happé, 2014), di fare amicizia con gli altri e di
identificarsi con loro. In breve, le carenze di socializzazione, di
comunicazione e di immaginazione che sono tra i sintomi più tipici del
disturbo. A ulteriore conferma della centralità di tali problematiche nel
Disturbo dello spettro dell’autismo, spesso si riscontra in questi bambini un
deficit nell’attenzione condivisa (joint attention), cioè nella capacità di
stabilire con un’altra persona un comune fuoco attentivo (Adamson e
McArthur, 1995). Una carenza in tale capacità può pregiudicare lo sviluppo
di altre abilità socio-comunicative, come la comprensione delle emozioni,
dei desideri e delle credenze dell’altro e, successivamente, la lettura delle
motivazioni e intenzioni altrui. Emerge qui di nuovo il problema della
“teoria della mente” nell’autismo e il fatto che certe capacità metacognitive
risultino deficitarie in questi pazienti. In linea con questa tesi, interessanti
ricerche (Whalen e Schreibman, 2003; Whalen, Schreibman e Ingersoll,
2006) hanno messo in luce come un training sull’attenzione condivisa, oltre
a produrre effettivi miglioramenti in quest’area, generi cambiamenti
collaterali in altre aree dello sviluppo socio-comunicativo, quali l’iniziativa
sociale, gli affetti positivi, l’imitazione, il gioco e le vocalizzazioni
spontanee. Frank, Baron-Cohen e Ganzel (2014) sostengono che ci sono
prove crescenti che le donne abbiano una “teoria della mente” più
sviluppata (si veda la nota 6 di questo capitolo) e di conseguenza maggiori
capacità empatiche. I loro studi suggeriscono diversità anche neurali del
cosiddetto cervello maschile (meno empatico sia sul piano cognitivo che su
quello affettivo e meno adatto a un ragionamento tipico della “teoria della
mente” che permette di lavorare in modo adeguato sulla falsa credenza).
Sempre secondo questi autori, caratteristiche simili si trovano nei pazienti
con Disturbo dello spettro dell’autismo. Kimhi, Shoam-Kugelmas, Agam
Ben-Artzi, Ben-Moshe e Bauminger-Zviely (2014) mostrano come i
bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo abbiano difficoltà di “teoria
della mente” associate a difficoltà nelle funzioni esecutive in confronto a
bambini con sviluppo tipico, e mettono in evidenza come questo abbia
importanti ricadute negative nei bambini autistici per quanto riguarda le
loro capacità cognitive e sociali.
Accanto a questa carenza, è stata ipotizzata anche una difficoltà a
cogliere gli aspetti generali di una situazione, per fermarsi sempre a livello
di dettaglio. Questa ipotesi prende il nome di teoria della coerenza centrale
e suppone, appunto, che i soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo
abbiano specifiche inadeguatezze cognitive nel dare risposte adatte al
contesto e incontrino difficoltà nell’integrare informazioni a differenti
livelli (Frith e Happè, 1994; 1999; Happè, 1994, 1996; Colombi, Brighenti
e Celi, 2001; Frith, 2008; Frith, 2012; Mammarella, Giofrè, Caviola,
Cornoldi e Hamilton, 2014). Essi tendono ad analizzare dettaglio per
dettaglio invece di cogliere l’impressione generale di una situazione, e
questo può spiegare molte caratteristiche del disturbo, come la presenza di
alcune strane isole di abilità. Talvolta si riscontrano in questi bambini, in
difficoltà in mille campi, una memoria sorprendente o una straordinaria
abilità nella costruzione dei disegni coi cubi; sono gli stessi bambini che
poi, posti di fronte a prove di comprensione o di riordinamento di storie
figurate evidenziano gravi deficit. La “teoria della coerenza centrale” è stata
più volte messa alla prova in ricerche sperimentali che hanno, peraltro, dato
esiti contrastanti. In queste ricerche si misurava l’abilità di riconoscere,
individuare e ricordare figure nascoste all’interno di altre figure più
complesse. I soggetti autistici mostravano spesso un’abilità superiore nello
svolgere questo compito, di solito molto difficile per i soggetti normodotati,
probabilmente proprio perché, per loro, le figure non erano poi così
nascoste come noi crediamo: il contesto che le dovrebbe nascondere, infatti,
viene per lo più ignorato dagli autistici. In altre parole, molti esperimenti
tendono a dimostrare che questi soggetti non si fanno influenzare dal
significato dell’insieme, il che rende alcune loro prestazioni, nelle quali è
necessaria la capacità di prescindere dal contesto e di concentrarsi
sull’analisi del particolare, superiori a quelle di soggetti normali di pari età.
Naturalmente però, nelle situazioni ben più frequenti dove è necessario
usare le indicazioni che provengono dal contesto per prendere decisioni,
comportarsi correttamente e relazionare in modo adeguato, queste persone
mostrano tutte le loro difficoltà e le loro bizzarrie.
“Teoria della mente” e “teoria della coerenza centrale” non sono
necessariamente in antitesi, ma possono anzi convivere (Frith, 2012). È, per
esempio, possibile ipotizzare come determinate carenze nella capacità di
utilizzare il contesto rappresentino un particolare stile cognitivo analitico
(opposto a uno stile globale) che si situa lungo un continuum. A un estremo
c’è anche l’incapacità di tener conto dei pensieri e dei punti di vista degli
altri, mentre nelle zone intermedie si possono collocare soggetti
praticamente normali, ma molto concentrati sui dettagli e poco empatici.9
Vedremo meglio nel prossimo capitolo le conseguenze, sul piano clinico, di
questo punto di vista.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO
I metodi di intervento nell’autismo sono virtualmente infiniti. L’enorme
difficoltà nello strutturare un metodo univoco e sicuramente efficace, la
relativa diffusione della malattia e la notevole diversità delle sue
manifestazioni psicopatologiche hanno contribuito a questa proliferazione
di metodi più o meno controllati, più o meno “scientifici” e più o meno
“magici”. Si va così dalle terapie farmacologiche, utili quando non
indispensabili in alcuni casi, alle forme più bizzarre di “psicoterapia”, fino
alla ippoterapia o alla delfinoterapia e alla comunicazione facilitata.10
Anche Maurizia ha seguito un percorso terapeutico molto accidentato,
espressione eufemistica per dire che, come molti bambini autistici, le ha
provate un po’ tutte.
Già nel primo paragrafo, dove descrivo i nostri primi approcci, abbiamo
potuto vedere l’uso di alcune strategie tipicamente comportamentali, come
il rinforzamento , il rinforzamento differenziale dei comportamenti
adeguati e il modellaggio . Inoltre, Maurizia svolgerà per molti anni una
terapia finalizzata non solo all’acquisizione di alcune abilità di linguaggio
verbale e di comunicazione, ma anche all’aumento dei tempi di attenzione e
alla capacità di dedicarsi a compiti cognitivamente rilevanti. Questo tipo di
intervento, che potremmo genericamente chiamare logopedico, riveste una
particolare importanza e ogni volta che è possibile (sfortunatamente non
sempre lo è) bisognerebbe cercare di favorire in questi bambini lo sviluppo
del linguaggio verbale. È stato, infatti, più volte evidenziato che il livello di
linguaggio verbale è, insieme al QI, il fattore prognostico favorevole più
rilevante (Rapaport e Ismond, 2000; Cohen e Volkmar, 2004a; Vio, 2005).

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Più in generale, possiamo dire che nell’approccio cognitivo-


comportamentale al Disturbo dello spettro dell’autismo si trovano alcuni
elementi caratteristici (Jordan, 1991; Migliorini e Celi, 2001; Cohen e
Volkmar, 2004b; Greenspan e Wieder, 2007; Granpeesheh, Tarbox e Dixon,
2009; Drahota, Wood, Sze e Van Dyke, 2011; Warren et al., 2011;
Sukhodolsky, Bloch, Panza e Reichow, 2013; Ung, Selles, Small e Storch,
2014). Prima di tutto è necessaria un’attenzione particolare, e per quanto
possibile precoce, all’aspetto educativo. Con ciò non intendo indicare la
necessità di attuare una psicoterapia in senso tradizionale, ma piuttosto di
cominciare il prima possibile un’educazione speciale. Si deve insegnare,
cioè, al bambino ad acquisire alcune abilità (verbali, relazionali, sociali, di
gioco) e a metterle in atto, per quanto possibile, anche nella vita di tutti i
giorni. Per raggiungere tale obiettivo si possono usare, come abbiamo già
visto, strategie tradizionali di intervento comportamentale (Buckley,
Strunck e Newchok, 2005; Andanson, Pourre, Maffre e Raynaud, 2011;
Kenworthy et al., 2014). Per esempio, abbiamo osservato come nelle prime
sedute Maurizia sia angosciata dalle mie richieste. Allora io lascio che
familiarizzi con la situazione senza fare altro e senza chiederle nulla. Sto
dunque utilizzando una tecnica di controllo dello stimolo, a sua volta
derivata da un’analisi funzionale della situazione. Reese (Reese,
Richman, Zarcone e Zarcone, 2003; Reese, Richman e Morse, 2005) si è
occupato di rintracciare le più comuni contingenze di rinforzo che
mantengono i comportamenti problematici tipici dei disturbi dello spettro
autistico, al di là delle specificità individuali, e di evidenziare eventuali
differenze di genere. Attraverso delle interviste di assessment funzionale
(functional assessment interview) ha raccolto numerosi dati che
suggeriscono come i comportamenti distruttivi vengono spesso emessi: in
risposta a tentativi esterni di distogliere l’attenzione da attività perseverative
e, quindi, con lo scopo di poter tornare a tali attività; per ottenere
rinforzatori sensoriali (spesso di natura tattile, olfattiva o visiva); per
ottenere attenzione e oggetti desiderati e per evitare in generale le richieste
esterne; per ottenere oggetti interrelati con le stereotipie; per evitare
richieste interferenti con i loro comportamenti ripetitivi e per evitare stimoli
sensoriali percepiti come spiacevoli.

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Le mie osservazioni sul comportamento di Maurizia sono in accordo con


molti di questi risultati: mi accorgo, infatti, che ci sono particolari classi di
stimoli (le mie richieste) che generano in lei risposte inadeguate (la sua
angoscia). Allora elimino gli stimoli per evitare l’insorgere delle risposte.
Lascio poi che familiarizzi con la situazione e quando è più calma la
chiamo per nome e, se mi guarda, rinforzo il contatto oculare con la mia
attenzione. Questo significa che, una volta accertato che gradisce la mia
attenzione, io gliela do quando mi guarda, poi quando si avvicina alla
scrivania e finalmente quando accetta una matita colorata che provo a
porgerle. Rinforzo dunque progressivamente i comportamenti che si
avvicinano alla meta (sedersi alle scrivania e iniziare a interagire e lavorare
con me) servendomi di una tecnica di modellaggio . Cerco di fare
qualcosa di simile anche con i comportamenti inadeguati. Per quanto
possibile, li ignoro in modo da mandarli in estinzione . Per questo evito
di dare attenzione a Maurizia quando si isola e quando mette in atto
comportamenti stereotipati. Naturalmente continuo, invece, a darle
attenzione quando emette comportamenti adeguati, o per lo meno non così
inadeguati come isolarsi e fare giochi stereotipati. Uso così anche il metodo
del rinforzamento differenziale . Un altro aspetto molto importante,
connesso con questo approccio educativo, è che il lavoro non si svolge
soltanto nello studio dello psicologo o del logopedista. Se vogliamo che le
abilità che il bambino autistico impara, spesso con grande fatica, siano poi
anche messe in atto, è necessario lavorare nei suoi ambienti di vita e dunque
cercare di coinvolgere in questo approccio anche gli insegnanti e i
genitori.11 Senza questa accortezza difficilmente otterremo il mantenimento
e, soprattutto, la generalizzazione delle abilità acquisite. Infine, sempre
nell’ottica di un approccio più educativo che psicoterapeutico, sarà
importantissimo lavorare sull’insegnamento delle autonomie e delle
abilità sociali (Andanson, Pourre, Maffre e Raynaud, 2011). Ricordo
quando Maurizia, con l’aiuto della madre, imparò a lavarsi le mani da sola.
Le fu insegnato ad aprire il rubinetto dell’acqua, a bagnarsi le mani senza
fare un lago per terra, a insaponarsi… Di nuovo vediamo qui l’utilizzo di
una classica strategia comportamentale, l’analisi del compito (vedi
riquadro sottostante), associata, quando necessario, alla guida fisica e
all’aiuto gestuale e verbale.12 Le tecniche di modellamento e di role
playing , invece, sono particolarmente utili nell’insegnamento delle
abilità sociali, che consistono nella capacità di interagire correttamente con
gli altri.

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ANALISI DEL COMPITO
Quando un compito è troppo complesso per essere insegnato tutto in
una volta, può essere analizzato e scomposto nelle sue parti semplici.
In questo modo è poi possibile programmare un intervento nel quale
si insegnano al paziente, una dopo l’altra, le singole parti del compito.
Per esempio, l’abilità che vorremmo insegnare a un bambino con
Disabilità intellettiva è quella di lavarsi i denti da solo. Può darsi che
si tratti di un’abilità troppo difficile per il bambino, che infatti non è
mai riuscito a impararla in modo tradizionale, come fanno i coetanei:
cioè osservando un adulto che si lava i denti, ascoltando le sue
istruzioni e provando. In questo caso possiamo usare l’analisi del
compito. Il compito “lavarsi i denti” è scomposto in tanti piccoli passi
(detti anche sotto-obiettivi).
I passi possono essere, per esempio:
• andare in bagno;
• avvicinarsi al lavandino;
• aprire il rubinetto;
• prendere lo spazzolino
Il vantaggio di questa procedura è che è più facile insegnare a un
bambino in difficoltà ad andare in bagno che a lavarsi i denti. È più
facile insegnargli ad avvicinarsi al lavandino che a lavarsi i denti. E
così via.
Un altro vantaggio molto importante è che l’analisi del compito
permette di ottenere subito, anche con bambini difficili, risultati
positivi e questo aumenta la possibilità di usare il rinforzamento e di
aumentare così la motivazione. Possiamo vedere, nel testo, moltissimi
esempi di analisi del compito. Tra questi, cito le tecniche usate
dall’educatrice di Michela nel capitolo 3 per insegnarle a svolgere
semplici mansioni in cucina e quelle che hanno permesso a Maurizia,
nel presente capitolo, di imparare a lavarsi le mani.
Nel presente capitolo c’è un ulteriore esempio di uso dell’analisi del
compito per favorire lo sviluppo della capacità di comprendere gli
stati mentali degli altri. Questo è importante, perché ci mostra che
l’analisi del compito non serve solo per l’insegnamento delle
autonomie nei bambini con Disabilità intellettiva. Può servire anche
per consolidare abilità di lettura o di matematica in bambini con
Disturbo specifico dell’apprendimento, come si può vedere nei
capitoli 7 e 8.
Può servire persino in approcci psicoterapeutici con bambini con
Disturbi d’ansia: nel capitolo 14, per esempio, l’analisi del compito
serve per portare gradualmente Chicco a tornare in classe,
programmando piccoli obiettivi a difficoltà crescente.

Uno degli approcci che meglio riassume tutte queste strategie è il


cosiddetto ABA (Applied Behaviour Analysis, o Analisi Applicata del
Comportamento). Si tratta di un intervento ormai sostenuto da una
vastissima mole di ricerche empiriche nelle quali l’approccio
comportamentale classico viene attuato per quanto possibile nell’ambiente
naturale del bambino e applicato alle aree del linguaggio, del gioco, della
comunicazione, della socializzazione, delle autonomie personali, delle
abilità scolastiche, con una particolare attenzione a programmare la
generalizzazione di tutte queste abilità (Lovaas, 1987 e 2003; Leaf e Mc
Eachin, 2006; Foxx, 2008; Granpeesheh, Tarbox e Dixon, 2009; Huskens,
Reijers e Didden, 2012; Smith, 2014; Donaldson e Stahmer, 2014;
www.abautismo.it). L’approccio ABA è stato utilizzato su bambini con
Disturbo dello spettro dell’autismo da Huskens, Verschuur, Gillesen,
Didden e Barakova (2013) utilizzando sia istruttori umani sia robot: i
risultati mostrano che i due tipi di intervento danno risultati equivalenti.
Come ho già avuto modo di sottolineare parlando di Disabilità
intellettiva, il Video Modeling (VM)13 sembra essere una strategia più
efficiente rispetto al modellamento in vivo (Charlop-Christy, Lee e
Freeman, 2000; McCoy e Hermensen, 2007). Alcune ricerche condotte su
bambini con autismo mostrano che anche in questa patologia il VM può
essere utilizzato con successo per favorire abilità connesse all’interazione
sociale (Nikopoulos e Keenan, 2003; Bellini, Akullian e Hopf, 2007).
Wilson (2014), in uno studio su bambini della scuola dell’infanzia affetti da
Disturbo dello spettro dell’autismo, hanno analizzato la possibilità di
utilizzare il VM anche all’interno del contesto classe. Tierney, Kurtz,
Panchik e Pitterle (2014) hanno mostrato come associare le tecniche di VM
con le storie sociali (vedi nota 18 in questo capitolo).
Parlavo più sopra di analisi funzionale come strumento per valutare
quali stimoli particolarmente inadeguati generano in Maurizia
comportamenti problematici. Diverse ricerche hanno messo in luce come un
FBA (Functional Behavioral Assessment) rappresenti una procedura
estremamente utile ed efficace al fine di progettare piani comportamentali
individualizzati (individualized schedule) per ridurre comportamenti
autolesionistici (O’Reilly, Sigafoos, Lancioni, Edrisinha e Andrews, 2005)
e condotte oppositive e, contemporaneamente, incrementare comportamenti
positivi con importanti ricadute sul piano relazionale (Blair, Umbreit,
Dunlap e Jung, 2007; Virues-Ortega, Julio e Pastor-Barriuso, 2013; D’Elia
et al., 2014).

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Le modalità di intervento nel Disturbo dello spettro dell’autismo fin qui


sintetizzate sono ben illustrate ed esemplificate nell’approccio che prende il
nome di TEACCH14 (Schopler, 1991; 1995; Schopler e Mesibov, 1998;
Coppa, Raffa, Angeletti, Bianchi e Lausdei, 1999; Panerai, Ferrante e
Zingale, 2002; Tsang, Shek, Lam, Tang e Cheung, 2007).
Il TEACCH rappresenta un approccio complesso e articolato che deriva
dalla psicologia cognitivo-comportamentale e dalla psicolinguistica e si
basa su alcuni principi fondamentali. Prima di tutto, l’individualizzazione e
la flessibilità: ogni intervento deve essere calibrato su misura per le
specifiche esigenze del bambino e non applicato in modo rigido e uguale
per tutti. Poi, l’attenta programmazione: si parte da obiettivi chiari e definiti
con precisione e si lavora su quelli, scegliendoli in modo che siano
ragionevoli per quel bambino e significativi per lui e per la sua qualità della
vita. Il metodo prevede anche una particolare attenzione all’ambiente nel
quale l’intervento viene svolto. È importante che l’ambiente sia strutturato
in modo da eliminare per quanto possibile le distrazioni, favorire
l’emissione delle risposte corrette e rendere più improbabile l’insorgere di
comportamenti problematici (altro punto sul quale il TEACCH concentra
molti dei suoi interessi e dei suoi sforzi terapeutici). Infine, la
generalizzazione: molte accortezze, come quella di lavorare in ambienti
diversi e via via più complessi, di coinvolgere i genitori nel processo
educativo e di attuare forme di apprendimento incidentale servono proprio a
far sì che le abilità acquisite dal bambino possano essere usate in contesti
diversi e significativi (Jordan e Powell, 1997; De Meo, Vio e Maschietto,
2000; Koegel, Kuriakose, Singh e Koegel, 2012; Watkins et al., 2014).
Uno degli obiettivi fondamentali del TEACCH, di nuovo strettamente
connesso alla rierca della generalizzazione degli effetti del trattamento, è la
comunicazione spontanea, che può essere definita come la capacità di
esprimere, non solo verbalmente, i propri bisogni e di scambiare
informazioni ed esperienze in situazioni naturali, cioè nelle normali
circostanze della vita piuttosto che nello studio del terapeuta o del
logopedista. La comunicazione spontanea è importante perché rappresenta
tipicamente un punto di debolezza nei pazienti con Disturbo dello spettro
dell’autismo. Dunque la sua acquisizione, anche parziale, può ridurre
significativamente il deficit di questi bambini e migliorare la loro prognosi.
Essa viene favorita attraverso un approccio educativo che parte da
un’analisi attenta delle comunicazioni verbali e non verbali presenti nel
repertorio comportamentale del soggetto; dall’osservazione sistematica dei
contesti in cui questa comunicazione si manifesta; dall’analisi delle funzioni
che di volta in volta svolge. L’intervento consiste poi nello scegliere gli
obiettivi successivi di comunicazione e nell’insegnarli attraverso sedute
strutturate. Si utilizzano per questo: tecniche di insegnamento incidentale
nelle quali l’educatore-terapeuta sfrutta le circostanze che casualmente
l’ambiente gli mette a disposizione per favorire l’intento comunicativo del
bambino (per es., durante un’attività di gioco, il fatto che il bambino
desideri la palla); facilitatori fisici, visivi e verbali che verranno poi
gradualmente attenuati secondo i metodi dell’apprendimento senza errori
; rinforzatori per quanto possibile naturali; sedute di gruppo e di
gioco; coinvolgimento dei genitori secondo i metodi di parent training
(Schopler e Mesibov, 1998; Marcus, Kunce e Schopler, 2005; Schopler,
2005). Dekker, Nauta, Mulder, Timmerman e de Bildt (2014) mostrano
come la generalizzazione possa essere favorita dal convolgimento dei
genitori in programmi di intervento per bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo.

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I deficit di comunicazione tipici di questi bambini sono spesso affrontati


anche attraverso la cosiddetta Comunicazione Aumentativa e Alternativa
(Augmentative and Alternative Communication, AAC) che, come abbiamo
già visto nel capitolo 3, consiste nel potenziamento, quando questo è
possibile, delle capacità linguistiche e nel ricorso ad altre forme di
comunicazione, in modo tale che il soggetto possa esprimere in qualche
modo i propri bisogni e i propri pensieri15 (Wilkinson e Hearing, 2007).
Diversi studi dimostrano come interventi che utilizzano sistemi AAC, come
per esempio il PECS,16 producano un effettivo miglioramento sul piano
della comunicazione spontanea e funzionale (Malandraki e Okalidou,
2007). Inoltre, l’impiego di tali strumenti in contesti naturali, come quello
domestico o scolastico, comporta ricadute positive sulle interazioni sociali
(Kravits, Kamps, Kemmerer e Potucek, 2002). In una meta-analisi di 13
studi su caso singolo relativi a soggetti con Disabilità dello sviluppo e
Disturbo dello spettro dell’autismo, Hart e Banda (2010) hanno evidenziato
che l’uso delle PECS produce un aumento di comportamenti socialmente
comunicativi e, aspetto probabilmente ancora più importante, riduce i
comportamenti problematici a ulteriore dimostrazione del fatto - più volte
messo in luce in moltissimi ambiti della psicopatologia dello sviluppo - che,
se un paziente è in grado di comunicare meglio, ha meno bisogno di fare
sintomi (vedi anche Conklin e Mayer, 2011; Carter, Sisco e Chung, 2010 e
2012; Cihak, Smith, Cornett e Coleman, 2012). Esiste infatti un legame tra
difficoltà di comunicazione e comportamenti inadeguati: Martin, Drasgow,
Halle e Brucker (2005) mostrano come attraverso un assessment funzionale
adeguato sia possibile comprendere il significato di certi sintomi del
bambino autistico e insegnargli, per esempio, grazie a un Training di
Comunicazione Funzionale (FCT, Functional Communication Training)17,
a rifiutare oggetti indesiderati toccando l’immagine che li rappresenta
anziché gettandoli per terra gridando.
In questo panorama dei possibili interventi, come dicevo all’inizio
assolutamente incompleto, merita ancora una citazione l’approccio centrato
sulla “teoria della mente” (Howlin, Baron-Cohen e Hadwin, 1999; Begeer,
2014). Nel paragrafo precedente abbiamo già descritto a grandi linee il
significato di questa teoria. Dal punto di vista terapeutico-riabilitativo,
l’assunto fondamentale è che la capacità di “leggere” gli stati mentali degli
altri può, almeno in parte, essere insegnata. Questo approccio prevede,
pertanto, di lavorare con il bambino con Disturbo dello spettro dell’autismo
perché impari a riconoscere le emozioni negli altri. Ciò può essere ottenuto
attraverso la messa a punto di un curricolo che parte dal riconoscimento
delle espressioni del viso (felicità, tristezza, rabbia e paura) nelle fotografie,
prosegue col riconoscimento delle emozioni in disegni schematici e arriva a
insegnare al bambino, attraverso esperienze a difficoltà crescente, a
identificare emozioni che possono essere causate da situazioni diverse
(piacevoli o spiacevoli), da diversi desideri e da diverse opinioni.
Un esempio tipico di questo trattamento è la costruzione di una
situazione in cui si simula che una bambina desideri un orsacchiotto per il
suo compleanno e che la nonna le regali effettivamente un orsacchiotto.
Come si sentirà la bambina? Secondo i metodi tipici dell’approccio
curricolare e dell’analisi del compito , la situazione può venire
gradualmente complicata. La bambina desidera un orsacchiotto, la nonna
glielo compra, ma lei non lo sa e crede che la nonna le abbia comprato
un’altra cosa che la bambina non desidera. Come si sentirà questa volta?

pag. 83

Si cerca così di insegnare che le emozioni dipendono da ciò che noi


crediamo piuttosto che dalla realtà dei fatti. Si prosegue il programma
mostrando ai bambini che le nostre credenze, che dipendono da ciò che noi
possiamo vedere e sperimentare, possono essere vere o false a seconda della
quantità e della correttezza dei dati di cui disponiamo. Uno degli scopi
fondamentali di tutto questo è arrivare a rendersi conto che anche gli altri,
come noi, possono avere credenze vere oppure false, a seconda del punto di
vista che assumono e delle informazioni di cui dispongono. Così, per
esempio, la bambina Sally di un celebre esperimento di teoria della mente
(Surian e Leslie, 1999; Frith, 2008) andrà a cercare un oggetto dove ha visto
che l’oggetto veniva nascosto, anche se poi questo viene spostato a sua
insaputa in un luogo diverso. Spesso i bambini con Disturbo dello spettro
dell’autismo non capiscono questo, e pensano che Sally andrà a cercare
l’oggetto dove realmente si trova. Quando invece imparano, attraverso
programmi di questo genere, a pensare come Sally, a comprendere che c’è
un motivo se Sally cerca l’oggetto nel posto sbagliato, a mettersi nei suoi
panni, aumentano le capacità di capire gli altri, di assumere il loro punto di
vista, di provare per gli altri una certa empatia, di rompere infine
l’isolamento tipico di questi disturbi (Baron-Cohen, 1991; 1997; Frith,
Happè e Siddons, 1994; Surian e Leslie, 1999; Surian, 2001). Per una meta-
analisi sull’efficacia del lavoro sulla “teoria della mente” in bambini con
Disturbo dello spettro dell’autismo e sui limiti di questo lavoro sul
mantenimento e la generalizzazione, si veda Fletcher-Watson, McConnell,
Manola e McConachie (2014).
Questa incapacità di “leggere” e comprendere le situazioni sociali e il
punto di vista degli altri e l’assenza di comportamenti socialmente adeguati
rendono spesso necessario un intervento mirato all’incremento delle abilità
sociali. A questo scopo appare oggi sempre più popolare il ricorso alle
Social Stories,18 cioè a brevi racconti individualizzati che favoriscono
l’interpretazione e la comprensione di situazioni sociali impegnative o
ambigue (Gray e Garand, 1993; Gray 2000; Myck-Wayne, Robinson e
Henson, 2011; Thompson e Johnston, 2013; Velloso, Duarte e
Schwartzman, 2013). Più nello specifico, questi racconti, resi più incisivi e
chiari dalla presenza di immagini e figure, consentono di mettere in luce il
punto di vista degli altri coinvolti in una data situazione (le loro emozioni, i
loro pensieri e i loro comportamenti), e di identificare i segnali sociali, il
loro significato, le regole di comportamento legate a un certo contesto e il
copione dettagliato per applicare le abilità sociali adeguate (Attwood,
2000). Alcune ricerche sembrano suggerire la maggiore efficacia delle
Social Stories nel ridurre comportamenti inappropriati, come le stereotipie
(Reynhout e Carter, 2007) o condotte mantenute dall’attenzione ricevuta
(Lorimer, Simpson, Smith Myles e Ganz, 2002; Smith, 2006), piuttosto che
nell’implementazione di comportamenti positivi (Scattone, Tingstrom e
Wilczynski, 2006). Come abbiamo già avuto modo di notare sopra, è stata
inoltre sottolineata la particolare efficacia di interventi che prevedono l’uso
combinato delle Social Stories e del Video Modeling (Sansosti e Powell-
Smith, 2008; Tierney, Kurtz, Panchik e Pitterle, 2014).
Qualche mese fa lavoravo con Fernando, un bambino con un Disturbo
dello spettro dell’autismo Lieve, buone capacità cognitive, ma importanti
difficoltà di gestione della rabbia. Abbiamo costruito insieme una storia
sociale e poi l’abbiamo usata, attraverso una serie di role playing, durante i
quali a volte io ero Fernando e lui qualcuno che mi faceva arrabbiare e altre
volte ero io che cercavo di far arrabbiare Fernando. A titolo esemplificativo
riporto l’intera storia sociale:
Fernando è un ragazzo molto in gamba.
È intelligente, legge bene e scrive benissimo con il computer.
Il suo problema è che a volte si arrabbia e diventa violento.
Quando Fernando diventa violento può anche far male.
A volte, quando si arrabbia, Fernando non riesce a controllarsi.
Quando Fernando sente arrivare la rabbia può fare un bel respiro.
Poi può cercare di calmarsi senza urlare, senza picchiare e senza dire le parolacce.
Fernando può dire: “mi sono arrabbiato”.
Poi la rabbia passa.
Fernando è contento quando la rabbia passa e lui si sente più tranquillo.
I programmi basati sulla capacità di “lettura” della mente si occupano
spesso anche di insegnare ai bambini autistici il gioco di simulazione, il
“fare finta” che, come abbiamo visto, rappresenta una carenza tipica in
questa categoria di disturbi. Tale obiettivo didattico può essere ottenuto
attraverso esperienze di drammatizzazione, tecniche di modellamento e
rinforzamento , metodi di apprendimento incidentale. Faccio
nuovamente notare come, anche a questo proposito, la ricerca abbia più
volte evidenziato che un aumento di capacità di comunicazione spontanea e
di gioco di drammatizzazione tende a produrre in questi bambini una
diminuzione di comportamenti problematici come le stereotipie e
l’autolesionismo,19 migliorando anche significativamente la qualità della
loro integrazione e della loro vita (Watson, Lord, Schaffer e Schopler,
1987).

pag. 258

pag. 13

Per concludere questa rassegna, non è possibile non menzionare tutti


quegli interventi che, pur differenziandosi molto per quel che concerne gli
obiettivi che si prefiggono, sono accomunati dall’ingente uso di tecnologie
informatiche. Già citando alcuni strumenti, come il Video Modeling e le
strategie di Comunicazione Aumentativa e Alternativa, il lettore si sarà reso
conto degli importantissimi risvolti applicativi che lo sviluppo delle nuove
tecnologie ha avuto nell’ambito della psicologia clinica e riabilitativa. Nel
tentativo di dare un’idea della vastità e dell’eterogeneità di tali interventi
cito di seguito alcuni interessanti studi che hanno messo in luce l’efficacia e
la grande flessibilità di questi strumenti. Bosseler e Massaro (2003), per
esempio, hanno ottenuto risultati significativi, sia in termini di
apprendimento che di generalizzazione, ricorrendo a un tutor computer-
animato, chiamato Baldi, operante all’interno di un programma di
insegnamento linguistico (Language Wizard/Player), sfruttando così
l’associazione tra immagini e parole pronunciate. Sempre nell’ambito del
linguaggio è stata messa a punto una procedura strutturata di fading20 a
sette passaggi, allo scopo di favorire il riconoscimento di parole prese da
loghi commerciali. Anche in questo caso i risultati ottenuti hanno mostrato
effetti positivi relativi all’apprendimento, al mantenimento delle abilità
acquisite e alla loro generalizzazione alle attività scolastiche (Hetzroni e
Shalem, 2005). In un altro studio Mitchell, Parsons e Leonard (2007) hanno
invece messo in luce l’efficacia del ricorso all’ambientazione virtuale21
nell’insegnamento delle abilità sociali.
Non si tratta ovviamente di soluzioni perfette o esaustive, come
suggerisce uno studio di Bishop (2003) nel quale è stato utilizzato un
database consultabile mediante telefono cellulare predisposto all’accesso a
Internet (PARLE, Portable Affect Recognition Learning Environment) che
consente di tradurre in tempo reale idiomi, aforismi e modi di dire in un
modo più chiaro e meno ambiguo (un’espressione come “Il gatto ti ha
mangiato la lingua?” potrebbe essere per esempio chiosata in questo modo:
“Sei silenzioso, come mai?”). Pur ricevendo consistenti apprezzamenti per
la sua utilità e attrattività, tale strumento ha comunque il limite di essere
troppo artificiale e di non riuscire a tenere in considerazione gli aspetti
prosodici ed emozionali connessi alle frasi e al contesto interazionale.
Tenendo in debita considerazione tali limitazioni, vanno comunque
sottolineate le importanti implicazioni dell’uso del computer con persone
con disabilità così gravi (Holburn, Nguyen e Vietze, 2004):
• aumenta il ventaglio dei possibili rinforzatori;
• permette agli educatori di mettere a punto delle strategie riabilitative più
efficienti se si sostituiscono i rinforzatori tangibili con rinforzatori
proiettati grazie a un computer;
• permette interazioni più indipendenti con l’ambiente;
• offre possibilità ricreative interessanti, come può essere per una persona
senza disabilità guardare la TV o giocare a un video gioco.
Un ulteriore passo avanti in questa direzione è stato fatto utilizzando robot
con i bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo per intervenire sulle
difficoltà motorie che si riscontrano a volte in associazione a questa
sindrome (Taffoni et al., 2012); per migliorare l’attenzione e le abilità
sociali (Jordan, King, Hellersteth, Wirén e Mulligan, 2013; Zheng et al.,
2013); per aumentare le abilità di comunicazione e ridurre l’ansia sociale
(Kaboski et al., 2014).

PROGNOSI
Oggi Maurizia frequenta la quarta classe della scuola primaria.
Naturalmente ha un insegnante di sostegno dedicato a lei e dubito che,
senza questo aiuto, sarebbe in grado di frequentare regolarmente la scuola.
Ha imparato a usare alcune parole con fini chiaramente comunicativi, per
esprimere bisogni fondamentali come dire di sì o di no, chiedere di alzarsi
dal banco, chiedere da mangiare, chiedere un oggetto, andare in bagno:
anche se non sempre le parole sono pronunciate in modo comprensibile,
soprattutto da chi non è abituato al suo linguaggio. I comportamenti
autolesionistici si sono fatti più rari, sia a casa sia a scuola, e anche le
stereotipie motorie e verbali sono, di solito, limitate ad alcuni momenti
particolari: quando è stanca, quando si annoia, quando vorrebbe fare
dell’altro e non è in grado di comunicarlo chiaramente o di ottenere ciò di
cui avrebbe bisogno.22 Tuttavia, le sue capacità di attenzione sono talmente
limitate per quantità e qualità che è spesso necessario, quando è a scuola,
portarla fuori dall’aula per proporle attività diverse e, quando è a casa,
questo costituisce ancora un grave problema per i genitori, che sovente non
sanno letteralmente cosa farle fare e come tenerla calma. A volte ascolta
musica, quasi sempre le stesse cassette, come incantata. Altre volte si ferma
davanti allo schermo della TV e allora “sta brava” anche per lunghi periodi,
ma, poiché è tutt’altro che certo che segua il programma, i genitori si
rendono conto che questa non può essere una soluzione. L’interazione con i
compagni è ancora molto limitata, ma, anche grazie a un lavoro costante e
attento fatto in questo senso dall’insegnante di sostegno, qualcosa è stato
ottenuto: una certa vicinanza fisica, un contatto oculare più frequente,
qualche scambio di oggetti (come un pennarello o una gomma) durante
momenti di lavoro cooperativo, per esempio di costruzione di un tabellone,
qualche parola. Nelle ore di palestra si produce anche qualche scambio con
la palla in un embrione di gioco di squadra. La mamma porta spesso, nel
pomeriggio, Maurizia al parco, ma qui, in una situazione meno controllata,
le interazioni con i coetanei sono ridotte quasi a zero. La mamma soffre
molto per questo, sembra a volte vergognarsi francamente del
comportamento della figlia così diverso da quello degli altri, e avrebbe
sicuramente bisogno di un sostegno e di una guida psicologica maggiore di
quanto fino a ora siamo riusciti a darle. Le cose vanno un po’ meglio su
piccoli programmi di autonomia personale. Come abbiamo già visto, la
mamma è riuscita a insegnare a Maurizia a lavarsi le mani e, in seguito, a
spogliarsi da sola e anche a indossare qualche indumento con nessuno o
pochissimo aiuto. Maurizia, inoltre, si lava da sola i denti e, a volte,
“quando è in buona”, aiuta la mamma ad apparecchiare la tavola.
È difficile dire fino a che punto potrà arrivare crescendo, ma la
sensazione vedendola oggi è che avrà sempre bisogno di una forte
supervisione da parte di un adulto; che Maurizia non potrà mai essere
lasciata da sola; che i deficit di linguaggio e di interazione sociale
rimarranno motivo di menomazione importante. C’è però da considerare
che la bambina rappresenta un caso per molti aspetti particolarmente
difficile. È molto compromessa sul piano intellettivo e, come abbiamo già
visto, questo è un fattore cruciale per la prognosi. Il secondo fattore
cruciale, anche questo sfavorevole, è la grave compromissione del
linguaggio verbale. Inoltre, Maurizia non ha potuto fare un intervento
riabilitativo precoce e i genitori, purtroppo, non sono seguiti come
avrebbero bisogno (Zeanah, 1996).
La prognosi è molto diversa per i bambini autistici con buone capacità
intellettive e linguistiche (detti anche ad “alto funzionamento”, come
vedremo meglio nel prossimo capitolo) e che hanno la possibilità di
usufruire per sé stessi e per i loro genitori di programmi di intervento
strutturati, precoci e sistematici (Warren et al., 2011; Lai, Lombardo e
Baron-Cohen, 2014). In questi casi è frequente notare una riduzione
significativa dei disturbi di comportamento e dei deficit di interazione
sociale. Il DSM-5 fa notare che i sintomi del disturbo sono di solito più
marcati nella prima infanzia, mentre con la crescita tende a migliorare, per
esempio, l’interesse per le relazioni sociali. In età adulta i pazienti con
Disturbo dello spettro dell’autismo, anche se possono conservare alcune
bizzarrie e una certa ristrettezza di interessi e di attività, spesso
acquisiscono una certa indipendenza e possono in alcuni casi riuscire vivere
e a lavorare in modo quasi completamente autonomo (Howlin e Moss,
2012).
1 Il mornig sickness, cioè la nausea e il vomito gravidico che generalmente insorgono al mattino per
poi attenuarsi durante la giornata, è da considerarsi fisiologicamente e statisticamente normale. Tale
disturbo, infatti, tende a comparire intorno alla 6a settimana di gestazione e a scomparire, in modo
spontaneo, verso la fine del 3° mese: arco di tempo in cui l’HCG (il cosiddetto “ormone della
gravidanza”) è prodotto in grandi quantità. L’iperemesi gravidica, come del resto la totale assenza di
questi disturbi, rappresenta, invece, una situazione di atipicità, caratterizzata da perdita di peso,
disidratazione e chetosi: sintomi che segnalano l’effettiva gravità del vomito. Gli studi realizzati allo
scopo di indagare la relazione tra iperemesi ed esiti perinatali forniscono dati piuttosto rassicuranti.
Pare, infatti, che questa condizione non sia associata né all’aumento del rischio di malformazioni
(ACOG, 2004) né a morte fetale (Dodds, Fell, Joseph, Allen e Butler, 2006). Uno studio retrospettivo
condotto in Nova Scotia (Davis, 2004), inoltre, ha messo in luce come gli esiti perinatali associati a
iperemesi siano limitati a donne con un ridotto accrescimento ponderale durante la gestazione.
2 Con il termine “eutocico” (dal greco eu = bene) si fa riferimento a un parto che avviene senza
complicanze e senza alcuna manovra da parte di ostetrici e medici, se non la normale assistenza
fornita alla madre e al bambino. Il termine “distocico” (dal greco dys = difficile), invece, fa
riferimento a tutti quei casi in cui si verificano complicanze durante il parto.
3 Vedi capitolo 1, nota 4.
4 Il colloquio di restituzione è, in generale, un colloquio nel quale lo psicologo appunto restituisce al
paziente quello che ha capito dei dati, delle informazioni, delle emozioni che ha raccolto fino a quel
momento. Una breve restituzione può a volte avvenire già alla fine del primo colloquio, e in questo
caso svolge una funzione di chiarimento reciproco. A volte può invece rappresentare la chiusura di
un’intervista o anche la conclusione di un rapporto terapeutico. In psicopatologia dello sviluppo, una
restituzione tipica è quella che fa lo psicologo ai genitori dopo aver visto il bambino e aver formulato
alcune ipotesi diagnostiche. Questo tipo di restituzione è molto delicata perché lo psicologo,
soprattutto nei casi di gravi patologie, dovrebbe evitare sia di “mentire” su quello che ha trovato, sia
di produrre nei genitori reazioni di sconforto troppo difficili poi da sopportare. Per questo motivo
molti clinici consigliano, nei casi più difficili, una restituzione fatta non tutta in una volta, ma
costruita con prudenza nel corso di più colloqui in collaborazione con i genitori stessi.
5 Nell’ICD-10 le “Sindromi da alterazione globale dello sviluppo”, inserite nella sezione dei
Disturbi dello sviluppo psicologico, comprendono l’Autismo infantile, l’Autismo atipico, la
Sindrome di Rett, la Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo, la Sindrome di Asperger, la
Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati. Quest’ultimo disturbo si
caratterizza per la presenza, nel bambino, di una marcata iperattività, di stereotipie motorie e di un
grave ritardo mentale. Nonostante tale sindrome sia mal definita e di incerta validità nosologica,
come sottolineato nello stesso ICD-10, la categoria è tuttavia stata inclusa nella classificazione a
fronte dell’evidenza che molti bambini con grave ritardo mentale e gravi problemi di iperattività e di
deficit attentivo presentano spesso anche comportamenti stereotipati.
6 Si tratta di un’ipotesi eziologico-esplicativa del Disturbo dello spettro dell’autismo come di un
estremo cognitivo che si collocherebbe lungo un continuum caratterizzato dalla cosiddetta “mente
maschile” (Baron-Cohen, 1997), come si vedrà meglio più avanti con gli studi sulla cosiddetta
“teoria della mente”.
7 La metarappresentazione, in questo contesto, può essere intesa come la capacità di riflettere sulle
proprie rappresentazioni mentali e di esserne consapevoli. In questo senso, un deficit di
metarappresentazione comporta difficoltà a guardare dentro sé stessi e dunque, a maggior ragione, a
vedere le cose dal punto di vista di un altro.
8 In questo studio, Melot e Angeard (2003) hanno sottoposto 11 bambini di scuola dell’infanzia con
autismo a un trattamento sulle abilità metacognitive della falsa credenza e della distinzione tra
apparenza e realtà. I risultati, oltre a dimostrare un miglioramento delle performance per entrambe le
abilità, hanno messo in luce come un training su uno di questi due aspetti produca miglioramenti
anche nell’altro: il che suggerisce l’esistenza di una possibile interdipendenza tra queste due abilità
metacognitive.
9 Vedi nota 6 del presente capitolo.
10 La comunicazione facilitata è un metodo che consentirebbe a persone con gravi ritardi del
linguaggio o del tutto prive di linguaggio verbale (in particolare, soggetti autistici) di comunicare
scrivendo le parole sulla tastiera di una macchina per scrivere elettrica o su un computer. Questo
sarebbe reso possibile dalla presenza di un assistente, detto facilitatore, che inizialmente sorregge il
polso del soggetto che scrive. Il condizionale è reso necessario dal fatto che su questo metodo, sulla
sua reale efficacia e sul suo status scientifico non ci sono prove e in passato le polemiche sono state
piuttosto roventi (Biklen e Schubert, 1997; Canevaro, 1997; Stork, Golse e Lebovici, 1997; Edelson,
Rimland, Lee Berger e Billings, 1998; Brighenti, 2000). Nel capitolo 6, paragrafo “Disturbo
disintegrativo dell’infanzia”, è riportato brevemente un esempio di comunicazione facilitata attuata
su un ragazzo con una forma gravissima di Disturbo dello spettro dell’autismo.
11 I genitori di bambini autistici spesso necessitano, anche a causa del forte stress associato alla loro
condizione, di un cospicuo supporto esterno alla famiglia per la gestione quotidiana dei loro bambini.
Una recente ricerca (Openden, Symon, Koegel e Koegel, 2006) ha evidenziato come un programma
di selezione dei baby-sitter, effettuata sulla base della motivazione dei candidati e delle specifiche
necessità espresse da ciascuna coppia genitoriale, possa produrre effetti benefici per tutti gli attori
coinvolti. Le famiglie mostrano alti livelli di soddisfazione rispetto alle prestazioni offerte dai baby-
sitter, usufruiscono di prestazioni poco costose e hanno a disposizione più tempo libero. I bambini,
dal canto loro, hanno maggiori opportunità di comunicazione sociale e, interagendo con caregiver
differenti, sono più facilitati nei processi di generalizzazione delle abilità apprese. Gli stessi baby-
sitter, infine, riportano alti livelli di soddisfazione, fanno un’esperienza nell’ambito dell’educazione
speciale e molti di loro esprimono il desiderio di orientare in quest’ambito la loro carriera.
12 La guida fisica è una tecnica comportamentale che si usa solo nei casi di handicap grave e che
consiste nel guidare il movimento del soggetto mentre esegue un certo comportamento. Se, per
esempio, un ragazzo deve insaponarsi le mani, l’educatore prende le sue mani e guida così i gesti
necessari. Quando poi il soggetto ha cominciato ad automatizzare un comportamento corretto,
l’educatore può sostituire la guida fisica con l’aiuto gestuale, che consiste nel mostrare, per esempio
al ragazzo che sta imparando a lavarsi le mani, come deve fare. Alla fine anche l’aiuto gestuale può
essere eliminato e sostituito dall’aiuto verbale (per es., l’educatore che dice: “Benissimo, adesso devi
strofinare le mani una contro l’altra”). In questa attenuazione del suggerimento è possibile vedere
anche un’applicazione dei principi dell’apprendimento senza errori .

pag. 30

13 Vedi capitolo 3, nota 14.


14 Treatment and Education of Autistic and related Communication Handicapped Children.
15 Vedi capitolo 3, nota 9.
16 Vedi capitolo 3, nota 10.
17 Vedi capitolo 3, nota 11.
18 Per progettare un intervento che utilizzi le Social Stories è necessario effettuare alcune operazioni
preliminari: individuare una specifica situazione sociale problematica; identificare le caratteristiche
principali del setting, raccogliendo contemporaneamente dati quantitativi coi quali costruire una linea
di base, indispensabile per la valutazione dell’efficacia dell’intervento; condividere con il bambino e
con le altre figure coinvolte nel progetto le informazioni raccolte. Per scrivere una Social Story è,
invece, indispensabile valutare le capacità di comprensione del soggetto per il quale viene strutturata
e tenere a mente che essa dovrebbe contenere quattro diversi tipi di affermazioni: 1) descrittiva, per
chiarire le variabili contestuali della situazione target; 2) direttiva, per identificare il comportamento
adeguato da tenere in quella specifica situazione sociale; 3) prospettiva, per mettere in luce i pensieri,
le credenze, le emozioni e lo stato fisico delle persone coinvolte; 4) affermativa, per esprimere
credenze relative a culture e norme sociali condivise. Per utilizzare una Social Story si può ricorrere a
diversi tipi di presentazione: la storia può essere letta dal bambino o dal caregiver; può essere
ascoltata mediante attrezzatura audio; può essere presentata al computer; può essere mostrata
attraverso una videocassetta (vedi, in particolare per l’applicazione delle storie sociali ai
comportamenti problematici nei bambini autistici, Scattone, Wilczynski, Edwards e Rabian, 2002;
per un manuale sull’uso delle storie sociali, Smith, 2006; per una rassegna aggiornata e per l’uso
delle storie sociali all’interno di un contesto sperimentale controllato, Quirmbach, Lincoln, Feinberg-
Gizzo, Ingersoll e Andrews, 2009).
19 Come è illustrato più sopra in questo stesso capitolo e nel capitolo 3 (paragrafo “Considerazioni
teoriche”), la ricerca ha mostrato che spesso i comportamenti problematici sono equivalenti
comunicativi e si manifestano quando il soggetto non possiede metodi più adeguati per comunicare i
suoi bisogni. In questo caso, tendono a diminuire quando si insegnano al bambino strategie di
comunicazione migliori (Carr, 1977; Iwata et al., 1982 e 1994; Carr, 1998).
20 L’utilizzo del computer può rendere più semplice ed efficace la progettazione di interventi di
fading, rendendo la procedura più sistematica, organizzata e prevedibile. Con le sue caratteristiche di
automaticità il computer può, infatti, mantenere i passaggi di fading consistenti e accurati,
permettendo la ripetizione e la pratica.
21 Un’ambientazione virtuale (virtual environment, VE) può essere definita come una simulazione
tridimensionale, generata con il computer, di un ambiente reale o immaginario. L’utente può
interagire liberamente con l’ambiente tramite il proprio avatar, cioè attraverso la rappresentazione
virtuale della propria identità. Il VE, inoltre, si distingue in SVE (single-user VE), in cui l’utente può
soltanto interagire con l’ambiente e con altri avatar pre-programmati, e CVE (collaborative VE), in
cui è possibile interagire con avatar di altri utenti.
22 Nella rivista italiana Autismo e disturbi dello sviluppo, e nell’edizione italiana dell’American
Journal on Intellectual and Developmental Disabilities, sono reperibili moltissimi articoli che
trattano degli aspetti clinici generali, degli strumenti diagnostici e degli interventi terapeutici,
psicoeducativi e sociali nel Disturbo dello spettro dell’autismo. Vedi nota 6 del presente capitolo.
Capitolo 6

Lo “spettro” autistico
Fabio Celi

LA STORIA DI MICHELE
Appena Michele è entrato nel mio studio, ho pensato:
“Ecco, ci siamo”.
Un fantasma stava entrando insieme a lui.
È agitato, in movimento, evita il mio sguardo e mi trasmette una bella
parte dell’ansia che deve avere dentro. Straparla, molto più per sé stesso che
per me, a volte fino alla fabulazione.
“Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”, mi ripete più volte.
Gli faccio cenno di sì, perché mi sembra di capire che ne abbia bisogno,
ma intanto, dentro di me, penso: “Ecco un’altra volta lo spettro”.
Impiego il termine “spettro” nel suo doppio significato. Il primo è quello
che usano gli studiosi per cercare di descrivere il fenomeno complesso e
ancora molto misterioso delle forme mutevoli, spesso ambigue e difficili da
riconoscere, che questi disturbi possono assumere (Wing, 1988). Vi sono
infatti molte forme sfumate, parzialmente diverse per età di insorgenza o
gravità dei sintomi, non sempre facili da riconoscere ed etichettare, spesso
mescolate e confuse con altri disturbi, prima fra tutti la Disabilità
intellettiva, ma anche forme particolarmente gravi di Disturbo da deficit di
attenzione, Disturbi d’ansia e persino, a volte, Disturbi specifici
dell’apprendimento.
Il secondo significato è appunto quello di spettro come sinonimo di
fantasma.
Per l’ennesima volta Michele mi ripete:
“Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”.
Gli rispondo di sì, pensando di placare almeno un poco la sua ansia, e lui
subito aggiunge:
“Il mio papà, invece, mi chiama Michelino, mi chiama Michino, perché
mi chiama Michino? Io ormai sono grande, sono come Marco, è vero che
ormai sono diventato grande come Marco?”.
“Chi è Marco?”.
“Io ormai sono diventato grande come Marco, mio cugino, è vero che sono
diventato grande come Marco? Perché il mio papà mi chiama Michino?
Come ti chiama il tuo papà?”.
Durante il primo colloquio la mamma mi aveva parlato di Michele
come di un bambino difficile, segnalato dalle maestre perché restava
indietro un po’ su tutto, ma specialmente nella scrittura in corsivo, e perché
si distraeva spesso. Ma appena l’ho visto entrare, appena ho sentito le sue
prime parole, ho pensato:

pag. 49

“Un altro fantasma”.


Ecco di nuovo lo “spettro autistico” che fa capolino dietro un bambino a
cui certamente non può essere diagnosticato un disturbo autistico
propriamente detto, ma che presenta tutta una serie inquietante di sintomi
per i quali bisognerà trovare un nome, una collocazione, un inquadramento:
e so già che non sarà facile.
Intanto osserviamo Michele un po’ più da vicino. Certamente non ha un
Disturbo dello spettro dell’autismo come quello che abbiamo esaminato nel
capitolo precedente. Presenta un linguaggio piuttosto ben sviluppato e
quando si calmerà e prenderà un po’ di confidenza con me e con la
situazione, anche quelle ripetizioni ossessive di cui ho fornito un esempio
tenderanno a diminuire. Usa il linguaggio con un chiaro e funzionale
intento comunicativo. Mi chiede un gioco, i colori per completare un
disegno, la possibilità di provare a scrivere un po’ con il mio computer. C’è
di più. È un bambino sensibile ed empatico, capace di entrare in relazione e
di “leggere” nella mente degli altri quanto un coetaneo (ha sette anni e
mezzo) e a volte anche molto di più. Mi è difficile dimenticare il momento
in cui, durante la nostra terza seduta, vedendo probabilmente un’ombra che
mi attraversava il viso, mi ha chiesto:
“Fabio, sei stanco?”.
Mi sono come riscosso e ho guardato dentro di me, accorgendomi che
effettivamente ero stanco, forse preso da qualche mia preoccupazione,
certamente lontano.
Michele se n’era accorto prima di me.
Ma le capacità di comunicazione e di relazione non sono le sole
caratteristiche che rendono difficile la diagnosi. Anche la storia dei primi
anni di vita è sostanzialmente negativa. Lo sviluppo di Michele è stato
regolare fino ai tre anni, con le sole eccezioni di qualche anomalia del
sonno (difficoltà ad addormentarsi e risvegli notturni) e di un certo ritardo
del linguaggio: le prime parole sono comparse dopo i due anni e una frase
comprensibile e ben strutturata dopo i tre (“Ma ora è un problema farlo
tacere”, aggiunge la madre durante il primo colloquio). Poi ha frequentato
saltuariamente la scuola dell’infanzia perché piangeva, si staccava mal
volentieri dalla mamma e interagiva poco e male con i compagni. Adesso,
in prima classe della scuola primaria, si trova decisamente in difficoltà, sia
dal punto di vista didattico sia da quello relazionale. Però parla, interagisce,
ha interessi relativamente estesi, condivide emozioni con gli altri.
E allora, cosa diavolo avrà Michele?
Durante il primo colloquio con la madre io pensavo a un Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività,1 oppure a un Disturbo specifico
dell’apprendimento,2 o più probabilmente alle due cose insieme, magari
aggravate anche da un certo deficit cognitivo, e invece…
Invece ecco comparire lo “spettro”.
Sicuramente Michele manifesta un deficit attentivo. Spesso ha difficoltà
a stare seduto, oppure si agita sulla sedia, o prende una scatola dalla mia
scrivania dove tengo dei foglietti bianchi per segnare l’orario degli
appuntamenti e li tira tutti fuori, poi li rimette tutti dentro e poi
ricomincerebbe da capo se non lo invitassi a fare qualche altra cosa. La
capacità di concentrarsi è scarsa per i suoi sette anni compiuti, si stanca
facilmente, chiede spesso di cambiare gioco.
Sicuramente ha difficoltà di apprendimento. La scrittura in corsivo è
decisamente deficitaria, anche a causa di una lateralità3 incerta. Anche la
lettura è in ritardo (però resto colpito quando, dopo una prova che è andata
particolarmente bene, mi dice, ma non con l’aria soddisfatta, quanto
piuttosto con l’espressione triste di chi si rende conto che quello che è
appena successo è probabilmente un’eccezione anziché una regola: “Non ho
nemmeno sillabato…”).
Sicuramente ha anche qualche carenza intellettiva, pur essendo ben
lontano da una Disabilità intellettiva. Alla WISC-R4 riporta un punteggio
totale di 81, con 78 nelle prove verbali, 88 in quelle non verbali e alcune
risposte sorprendenti per intuito e rapidità. Alle CPM5 esprime circa un
anno di ritardo sull’età cronologica e una piena consapevolezza di questo,
evidente quando mi implora di dargli un piccolo aiuto. La consapevolezza
delle sue difficoltà, d’altra parte, è un triste elemento ricorrente della sua
storia. La mamma mi racconterà che più volte, dopo un compito difficile,
un insuccesso scolastico, un rifiuto da parte dei compagni, gli capita di
piangere e di dire:
“Piango perché non sono intelligente”.
Eppure, al di là di tutti questi dati, facili da raccogliere e per questo
piuttosto certi, ci rimangono gli sfumati e inquietanti segni dello “spettro”
che ha aleggiato nel mio studio fin dalla prima volta che ci siamo visti. Le
difficoltà di interazione con gli adulti, ma soprattutto con i coetanei con i
quali a volte arriva a essere fisicamente aggressivo; certe stereotipie, in
particolare verbali, con frasi all’improvviso interrotte da contaminazioni
ripetitive di frammenti di cartoni animati (“Spider Man, ecco Spider Man
all’attacco…”); un’irrequietezza a volte così esasperata da farlo sembrare
“fuori di testa”; un terrore senza motivo per i temporali, che, magari in una
giornata appena nuvolosa, lo fa correre alla finestra, scrutare il cielo
ansiosamente, chiedermi più volte di essere rassicurato che non arriveranno
i tuoni e i fulmini. Tutto questo, unito d’altra parte a una dolcezza e a una
sensibilità spesso fuori dal comune, mi mettono in allarme, mi fanno
pensare che non siamo in presenza di un semplice deficit attentivo e
cognitivo, ma che c’è dell’altro.
Chiedo una consulenza neuropsichiatrica, che conferma le mie
preoccupazioni. Dal punto di vista neurologico non vi è nulla da segnalare.
Però anche il medico è colpito da quella che chiama “parziale distorsione
del rapporto con la realtà”. Arriva a dirmi che c’è in Michele una
“disarmonia” (usa proprio questa parola) che lo ha messo in allarme, tanto
che vorrebbe sottoporre il bambino a un’indagine sul cariotipo, per lo meno
per escludere la presenza di un X-fragile,6 anche se, per ora, teme di fare ai
genitori questa proposta, che potrebbe contribuire ad aumentare il loro
livello di angoscia nei confronti delle difficoltà del figlio.

DISTURBO PERVASIVO DELLO SVILUPPO NON


ALTRIMENTI SPECIFICATO, DISARMONIA EVOLUTIVA,
DISTURBO MULTISISTEMICO DELLO SVILUPPO,
AUTISMO ATIPICO, AUTISMO AD ALTO
FUNZIONAMENTO
Parole ne sono state coniate tante e corrispondono agli svariati tentativi di
inquadrare un disturbo che appare invece, almeno fino a oggi, difficilmente
inquadrabile.
Il problema centrale è che Michele presenta alcune caratteristiche che
tipicamente si ritrovano nel Disturbo dello spettro dell’autismo, ma, per sua
fortuna, non ha tutti i sintomi e quelli che ha si manifestano in forma
attenuata. L’atipicità, inoltre, è dovuta anche al fatto che, mentre nel
Disturbo dello spettro dell’autismo, come abbiamo visto nel capitolo
precedente, l’esordio dei sintomi si verifica nel periodo precoce dello
sviluppo e quasi sempre le gravi anomalie di sviluppo si osservano fin dai
primi mesi, qui i primi anni di vita sono stati sostanzialmente normali.
Così, una prima possibilità di inquadramento diagnostico è quella
(secondo l’ICD-10) di “Sindrome non specificata da alterazione globale
dello sviluppo psicologico”. Questa categoria diagnostica indica che, pur
riscontrandosi una menomazione importante dello sviluppo dell’interazione
sociale reciproca associata con una compromissione delle capacità verbali e
non verbali o con la presenza di comportamento, interessi o attività
stereotipati, i sintomi non soddisfano completamente i criteri per un
Disturbo dello spettro dell’autismo. Tuttavia questa soluzione, che pure ha
dei vantaggi in quanto racchiude in un’unica categoria tutti i sintomi più o
meno sfumati e incompleti che abbiamo visto nel caso di Michele e che
troviamo spesso in casi analoghi, non è affatto condivisa da tutti i clinici e i
ricercatori. Molti sostengono che usare una denominazione generica come
“Non Altrimenti Specificato” non risolve in realtà nulla e che, anzi,
contribuisce a generare confusione. Propongono allora, tra le possibili
alternative, la denominazione di “autismo atipico”, per indicare che il
disturbo è sostanzialmente caratterizzato da manifestazioni simili a quelle
dell’autismo, benché non si possa parlare propriamente di Disturbo dello
spettro dell’autismo per la mancanza dei sintomi completi. Un’altra
soluzione, che abbiamo visto nel paragrafo precedente, quando Michele ha
fatto una consulenza neuropsichiatrica, consiste nell’inquadrare il disturbo
come “disarmonia evolutiva”. Con questa espressione, che pure può essere
variamente interpretata, si intende, di solito, un disturbo caratterizzato da
una perturbazione della personalità globale che, malgrado l’assenza dei
sintomi specifici dell’autismo infantile, rivela capacità cognitive e
relazionali appunto disarmoniche: gravemente carenti in alcuni settori e
invece integre in altri (Misès et al., 1988). Un concetto non troppo diverso
si può ritrovare nella categoria dei “disturbi multisistemici dello sviluppo”,
con la quale si cerca, abitualmente, di etichettare una serie di sintomi posti a
metà strada tra i Disturbi del comportamento e i Disturbi dello spettro
dell’autismo propriamente detti (Muratori, Cosenza e Parrini, 2001).
Un ultimo motivo di perplessità e di prudenza nell’uso di tale
classificazione nei casi sfumati di disturbo (fino a qualche anno fa, per
esempio, in casi analoghi a quello di Michele si usava e abusava del termine
borderline) è costituito dal timore dell’effetto negativo che etichette di
questo genere possono avere sul bambino e sul suo ambiente. In effetti, un
conto è porre una diagnosi di Disturbo dello spettro dell’autismo, pur con
tutte le cautele, a un bambino che presenti effettivamente questa patologia,
e un conto è ricorrere a termini simili o similmente stigmatizzanti per
bambini che possono poi rivelarsi molto diversi. Le possibilità di intervento
terapeutico sui bambini “disarmonici” come Michele e la loro prognosi
sono, in effetti, spesso molto migliori di quelle di bambini autistici
propriamente detti (Cohen, Volkmar, Rhea e Klin, 2008; Cornaglia Ferraris,
2009).
Il lavoro terapeutico con Michele, per esempio, è particolarmente facile
perché è un bambino affettuoso, sensibilissimo, sempre contento di venire
da me, disponibile alla relazione e alla collaborazione. È vero che poi, per
altri aspetti, soprattutto nelle prime sedute, l’approccio risulta bizzarro e
problematico, egocentrico e a volte fuori contesto. Però si può facilmente
notare come molti dei suoi comportamenti esagerati siano determinati
dall’ansia; una volta a suo agio, infatti, Michele si tranquillizza, si calma e
si apre. In questo modo è sufficiente programmare per lui attività semplici e
calibrate sulle sue necessità per vedere non soltanto che riesce, ma anche
che è contento di sé. Questo aumenta l’autocontrollo e diminuisce le
stereotipie verbali un po’ ossessive e, in generale, molte delle sue bizzarrie
di comportamento. Le attività, che verranno poi gradualmente programmate
a difficoltà crescente, possono riguardare vari aspetti. Possono riferirsi a
compiti cognitivi come la comprensione di semplici testi: in questi casi è
evidente come il frazionamento del testo in unità semplici e l’uso di
domande aperte per guidare la comprensione producano in un tempo
piuttosto breve risultati interessanti. Oppure possono riferirsi a compiti
metacognitivi, come i programmi centrati sulla capacità di mettersi nei
panni degli altri secondo gli assunti della “teoria della mente” che abbiamo
visto nel precedente capitolo. Forse, però, gli aspetti più significativi sono i
cosiddetti “compiti a casa”, o compiti comportamentali (vedi riquadro
sottostante). Di comune accordo con la mamma programmiamo semplici
attività come invitare un compagno, giocare e studiare con lui, persino
organizzare la sua festa di compleanno. Mi sembra che quest’ultimo aspetto
rivesta un significato terapeutico anche per la madre, in quanto si rende
conto della possibilità da parte del figlio di fare progressi nel campo sociale
e allenta la tensione ansiogena che prima era molto centrata sugli aspetti
didattici. Un giorno mi dirà:
“Finalmente una bella festa! Forse è la prima volta che Michele si
diverte il giorno del suo compleanno con qualche amico”.
Ciò non significa in alcun modo che un approccio cognitivo-
comportamentale abbia “guarito” Michele. Alcuni suoi sintomi tipici sono
rimasti (una spontanea tendenza all’isolamento, l’emergere, anche
improvviso, di richieste verbali ripetute fino all’ossessività, quel rifugiarsi
in un mondo suo fatto di cartoni animati) e tendono ad aumentare in
situazioni di stress.
Vale qui le pena di citare brevemente una metodica tratta dal cosiddetto
comportamentismo di terza generazione, del quale parleremo più
diffusamente nei capitoli dedicati ai Disturbi d’ansia. Si tratta della
mindfulness che, aiutando i pazienti a prendere consapevolezza delle
sensazioni provate nel qui e ora tende a favorire l’accettazione di pensieri
che sarebbero altrimenti patogeni su molti aspetti relativi alla sfera
emozionale.
COMPITI COMPORTAMENTALI
(o compiti graduati, o prescrizioni comportamentali)
Nell’approccio comportamentale, che non a caso è spesso visto come
un processo educativo, è molto frequente che il terapeuta assegni al
paziente dei veri e propri compiti. Per esempio, nella sezione dedicata
ai Disturbi specifici dell’apprendimento, allenarsi a casa per
migliorare certe prestazioni può essere considerato un compito di
questo tipo. Nel capitolo 15 a Eleonora vengono assegnati addirittura
tre compiti: tenere un diario, allenarsi ad affrontare l’ansia, esercitarsi
nel rilassamento imparato nello studio del terapeuta. Alberto, nel
capitolo 17, esegue bene, e anche con una buona dose di fortuna, il
compito di provare a uscire con un amico. Anche Edo, nel capitolo
24, svolge molti compiti a casa, anche se spesso non è necessario che
sia il terapeuta ad assegnarli perché è il bambino stesso che impara a
costruire da solo un suo percorso di cambiamento.
Questi compiti sono detti a volte comportamentali perché si
riferiscono, di solito, a comportamenti manifesti e osservabili e per lo
stesso motivo possono essere chiamati anche prescrizioni
comportamentali. A volte si trova, anche nel testo, l’espressione
compiti graduati, per intendere che vengono assegnati secondo la
regola della difficoltà crescente, in modo da aumentare la probabilità
di successo e dunque l’occasione di rinforzare il bambino.
Anche nel rapporto con i genitori, tecnicamente detto parent training,
troviamo spesso prescrizioni comportamentali.

Spek, Van Ham e Nyklíček (2013) hanno posto 42 pazienti con diagnosi di
Disturbo dello spettro autistico ad Alto funzionamento (secondo la
denominazione che nel 2013 hanno usato gli Autori) in due condizioni
sperimentali: una in cui i pazienti si sottoponevano a 9 settimane di terapia
cognitivo-comportamentale, e una di controllo in cui i pazienti erano inseriti
in una lista d’attesa. I risultati hanno mostrato una significativa diminuzione
dei sintomi di depressione, ansia e ruminazione nei pazienti che avevano
partecipato attivamente alla mindfulness rispetto al gruppo di controllo. La
ricerca rappresenta un importante studio controllato a dimostrare che gli
adulti con Disturbo dello spettro dell’autismo possono beneficiare della
terapia cognitivo-comportamentale. I risultati di cui sopra sono stati
replicati anche da Kiep, Spek e Hoeben (2014) che hanno svolto
l’esperimento con 50 pazienti affetti da autismo, andando ad indagare se la
mindfulness fosse utile anche per altri tipi di problematiche psicosomatiche
associate all’autismo. La terapia aveva una durata di 9 settimane e i risultati
non solo hanno confermato la diminuzione dell’ansia e della depressione,
ma hanno mostrato anche significativi miglioramenti dei sintomi
agorafobici, di somatizzazione e di diffidenza. Miglioramenti si sono
riscontrati anche nel modo di pensare e agire, nonché nei disturbi del sonno
e di sensibilità interpersonale. Complessivamente si è visto un
miglioramento generale di benessere psicofisico, sebbene l’ostilità mostrata
prima del trattamento non sia diminuita in maniera significativa. Inoltre tali
miglioramenti si sono mantenuti anche nel follow-up, indicando quindi che
la Mindfulness based therapy risulta essere un buon trattamento per questi
pazienti.
Un altro studio (Bruin, Blom, Smit, Van Steensel e Bogels, 2014) ha
sottoposto 23 adolescenti con Disturbo dello spettro dell’autismo a 9 sedute
settimanali di terapia cognitivo-comportamentale di gruppo e,
parallelamente a esse, anche i loro genitori (18 madri, 11 padri) venivano
sottoposti a Mindful parenting training. I dati, basati su pre-test, post-test e
un follow-up dopo 9 settimane, hanno mostrato una diminuzione della
ruminazione e un sostanziale miglioramento della vita dei ragazzi. Sebbene
i principali sintomi dell’autismo non siano diminuiti, i genitori dei pazienti
hanno osservato un miglioramento delle capacità di risposta sociale, della
comunicazione, cognizione e motivazione sociale. Inoltre, riferito a se
stessi, hanno confermato un’accresciuta consapevolezza e competenza
genitoriale, stili genitoriali meno lassisti e un aumento della qualità della
vita.
Proprio mentre scrivo l’insegnante di matematica ha preso a tartassare
Michele perché lo vorrebbe vedere più pronto nella soluzione di semplici
problemi aritmetici. Michele, all’inizio, ha manifestato il suo disagio
dicendo di non voler andare a scuola nelle mattine in cui era prevista la
lezione di matematica nelle prime ore e ancora adesso è più teso, più
bisognoso di continue rassicurazioni; a volte lamenta mal di testa o di
stomaco il mattino prima di andare a scuola e mostra qualche segno di
depressione. Ciò nonostante, Michele è comunque un bambino con il quale
si può lavorare, che ha già dato buoni risultati e che, a mio parere, ha ancora
ampi spazi di miglioramento. Indimenticabile la sua gioia (e quella dei suoi
genitori) al ritorno da una gita scolastica all’acquario di Genova dove si era
fatto coraggio, era andato da solo, si era comportato benissimo e divertito
tanto. Significativa la seduta in cui aveva cominciato a parlare a più riprese
di Gatto Silvestro suscitando in me una certa angoscia (“Ecco, ci risiamo
con le fabulazioni”), peraltro subito svanita dopo essermi accorto con
sollievo che in realtà stava guardando e commentando un disegno appeso
alla parete alle mie spalle. Significativo anche il suo inserimento in una
piccola squadra di calcio senza pretese di classifica, non particolarmente
competitiva, dove aveva a volte l’occasione di lasciare la panchina anche
durante le partite e di giocare qualche decina di minuti: tutte cose che,
spesso, valgono cento psicoterapie messe insieme.
Mi chiedo, a conclusione di questo quadro, se in alcuni casi sfumati e
incerti come quello di Michele, l’approccio diagnostico migliore, da un
punto di vista psicologico, non sia quello di evidenziare le patologie
deficitarie (per es., Funzionamento intellettivo borderline o Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività) aggiungendo poi una breve descrizione dei
comportamenti patologici come i disturbi della relazione e le stereotipie
verbali e, eventualmente, di una personalità immatura e disarmonica.
Probabilmente, in questi casi, è consigliabile evitare etichette diagnostiche
che somiglino troppo a condanne definitive: solo così si potranno ottenere
benefici evidenti sulla motivazione a lavorare con questi bambini e sulla
speranza di ottenere con loro risultati significativi.

DISTURBO DI ASPERGER: IL CASO DI LUCIANO


C’è una frase, durante il primo colloquio con i genitori di Luciano, che
mi colpisce e mi allarma.

pag. 49
La mamma mi ha appena mostrato i quaderni del bambino, che sono
puliti, ordinatissimi, perfetti, tanto da sembrare stampati. Le faccio notare
tutto questo e lei mi conferma che, da un punto di vista didattico, in effetti,
Luciano non presenta nessun problema, anche se i genitori sono venuti da
me proprio su segnalazione delle maestre che cominciano a preoccuparsi
dell’inserimento del bambino (ora in quarta classe della scuola primaria)
alla scuola secondaria di primo grado. Dunque, nessun problema didattico,
mi ribadisce la madre, al contrario: Luciano è un bambino motivato, attento,
interessatissimo ad alcune materie come le scienze naturali, fino al punto
che spesso le studia da solo, indipendentemente dai compiti che gli sono
assegnati, a volte anche su altri libri.7 Per Natale ha voluto un microscopio
come regalo e passa molto tempo a osservare le foglie, le ali degli insetti, i
fili d’erba. Inoltre usa il computer del padre con grande competenza…
È a questo punto che il padre ci interrompe e aggiunge:
“Sembra un computer lui stesso”.
Questa è la frase che mi colpisce, anche perché il padre era rimasto quasi
sempre in silenzio fino a quel momento, e mi allarma. Ecco di nuovo lo
“spettro” che fa capolino. Fino a poco fa i genitori mi avevano descritto un
bambino timido, un po’ insicuro, più appassionato della TV, dei cartoni
animati, dei videogiochi, delle scienze naturali e dei musei che dei giochi
con i compagni; ma adesso, dopo questo breve intervento del padre, la
situazione mi appare improvvisamente diversa, più inquietante.
Purtroppo non mi sbagliavo.
Nella cartella, subito dopo la data del mio primo colloquio col bimbo,
compare questo mio appunto:
“Sembra un robottino”.
Sembra un robottino quando parla. A un certo punto gli chiedo:
“Hai amici?”.
Mi risponde:
“Sì, a scuola ho un amico. Il suo nome è Mario. Di solito mi aiuta a fare i
disegni. Inoltre è gentile con me. Di solito a scuola sono molto bravo. Mi
impegno”.
Tutto questo d’un fiato e senza intonazione. Poi silenzio fino alla mia
prossima domanda.
Sembra un robottino quando disegna. Concentrato, silenzioso, chiuso nel
suo mondo, mi fa una serie di personaggi dei cartoni animati schematici
come macchine, rigidi, ordinatissimi e perfetti (vedi fig. 4, Tavole a colori).
Alla WISC-R8 rivela 130 di QI con alcuni picchi prodigiosi nelle prove
non verbali come il disegno coi cubi e il cifrario. Le CPM9 sono oltre il 95°
percentile per l’età. Però non vuole farmi altri disegni, neppure durante le
sedute successive, quando dovrebbe aver preso una certa confidenza con me
e con la situazione. Gli chiedo:
“Non hai voglia di disegnare?”.
Mi risponde:
“So fare molti disegni. Inoltre mi interesso di molte altre cose”.
Mi chiedo cosa avrà voluto dirmi. Penso a un particolare aspetto della
“teoria della mente” di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Si tratta
dell’osservazione secondo la quale la comunicazione tra esseri umani è resa
possibile, tra l’altro, dal fatto che, quando uno parla, conosce già molte cose
sul suo interlocutore e usa queste conoscenze per rendere la sua
comunicazione efficace. Per esempio, quando io chiedo a un bambino se ha
voglia di disegnare, mi aspetto che il bambino immagini quello che io
vorrei sapere da lui. Analogamente, se il bambino mi risponde “Dammi un
foglio”, io capisco il significato positivo della sua risposta, anche se non mi
è stato esplicitamente detto “Sì, ho voglia di disegnare”, perché leggo le sue
intenzioni implicite e immagino che voglia un foglio proprio per fare un
disegno. Tutto questo tende a non succedere nel dialogo con Luciano, o, per
lo meno, succede con grande difficoltà. Parlare con lui mi dà una
sensazione strana. Mi ricorda un po’ quello che accade quando si cerca, da
dilettanti, di programmare un computer. Se spiego a un essere umano come
si calcola l’area di un triangolo e poi gli propongo di provare se ha capito e
gli chiedo di calcolare l’area di un triangolo che ha base 3 e altezza 6, mi
aspetto che mi risponda che l’area è 9. Se faccio la stessa cosa con un
computer usando un qualsiasi linguaggio di programmazione, si verifica un
fenomeno strano (almeno per noi esseri umani). Io fornisco al computer la
formula per calcolare l’area del triangolo. Poi gli fornisco i dati di base e
altezza. Poi gli chiedo di calcolare l’area e… il computer non fa niente (o
almeno così sembra). Lo schermo resta vuoto. Come mai? Se sono
abbastanza abile da andare a vedere che cosa c’è nella sua memoria mi
accorgerò che da qualche parte, etichettato come “area del triangolo”, c’è il
dato che gli avevo chiesto di calcolare. Il problema è che il dato resterà lì
perché non ho detto al computer di fornirmelo. Se voglio che il computer
mi mostri sullo schermo il risultato dei suoi calcoli devo chiederglielo
esplicitamente, mentre un essere umano capisce le mie intenzioni, “legge”
nella mia mente e mi dà la risposta 9 anche se gli avevo chiesto di calcolare
l’area, ma non di dirmela.
L’impressione è proprio che con Luciano avvenga qualcosa del genere.
Non ha la flessibilità necessaria per comunicare e interagire in modo fluido
e adeguato. Naturalmente questo non significa che abbia un Disturbo dello
spettro dell’autismo. Basta aver visto anche una sola volta nella vita un
bambino con un autismo “vero” e poi trascorrere qualche minuto con
Luciano per rendersi conto delle differenze che passano tra i due bambini,
se non altro per quanto riguarda la gravità e la pervasività dei sintomi.
Eppure le analogie ci sono. Luciano, come abbiamo visto, ha buone
capacità verbali e un livello intellettivo ottimo, però mostra difficoltà di
comunicazione, introversione, chiusura. Non vuole essere toccato dalla
maestra, nemmeno con una pacca sulle spalle. Preferisce decisamente stare
da solo. Se può scegliere, se viene lasciato in pace e non obbligato dai suoi
genitori ad andare in piscina, preferisce passare la giornata davanti alla TV
o al microscopio. (In una recente seduta, alla mia domanda: “Ma in piscina
ci vai volentieri?”, ha risposto: “La mia mamma ha già pagato per tutto il
mese. Inoltre l’attività fisica fa bene. Io so già nuotare discretamente”.) Si
impressiona e si ritrae, incapace di reagire, se un compagno lo prende in
giro perché è meno sveglio degli altri. Durante la ricreazione sta in classe
perché la confusione gli dà fastidio e per lo stesso motivo non ha mai voluto
festeggiare un suo compleanno. A volte ride in modo eccessivo, non
giustificato dalle circostanze. Quando si trova in una situazione di
particolare stress gli capita di muovere le braccia ritmicamente,
allungandole come se si stesse stiracchiando. È stato difficile, per i genitori,
convincerlo a fare uno sport qualsiasi. Si è finalmente deciso per la piscina,
forse perché nel nuoto i contatti con i compagni sono ridotti al minimo, e
solo con il patto che non avrebbe mai fatto gare. Teme la competizione in
ogni sua forma e si demoralizza facilmente per tutto. Quando racconta di sé,
in quel modo meccanico, rigido, privo di intonazione che abbiamo visto,
tende sempre a dare un’immagine positiva, quasi di perfezione, che non
credo condivida intimamente. Molti di questi sintomi che ho descritto sono
sfumati, tanto che la pediatra era contraria a consultare uno psicologo. Però
le difficoltà e le anomalie ci sono. Si alimenta solo con quattro o cinque
cose, sempre le stesse: penne al pomodoro, sofficini e poco altro. Fino ai
cinque anni ha sofferto di enuresi diurna e notturna. Ha difficoltà a reggere
la relazione non solo con i coetanei: anche la sorellina, che ha poco più di
quattro anni, gli mette i piedi in testa, ha sempre la meglio su di lui. A volte
lo picchia e lo morde senza che Luciano sappia come reagire. Quando
parliamo di questo commenta: “È una cosa normale. È più piccola. Inoltre è
una femmina”.
Cerco di lavorare con lui modellando modalità di comunicazione più
adeguate e fino a un certo punto, almeno con me, la cosa riesce. Dopo
qualche seduta vedo un miglioramento della relazione e una certa apertura
anche ad accettare alcune prescrizioni comportamentali che, molto
cautamente, stabiliamo di comune accordo con la mamma. Ma la mamma
mi riferisce che spesso, ancora adesso, ai giardini pubblici, o in spiaggia,
quando nessun adulto controlla quello che fa, si mette in un angolo, guarda
gli altri bambini giocare (la mamma, per la verità, si esprime in un modo
diverso: “Spia gli altri bambini giocare”) e gioca da solo…

pag. 98

Alla fine di questa seduta la mamma, già in piedi, mi dice:


“Sapesse come è difficile prenderlo…” ed esce quasi precipitosamente
dal mio studio perché ha già gli occhi lucidi e probabilmente non vuole
mettersi a piangere di fronte a me.
Il caso di Luciano è molto diverso da quello di Michele che abbiamo
visto nel primo paragrafo, se non altro per le diverse potenzialità intellettive
dei due bambini, i quali sembrano avere in comune il fatto di collocarsi in
qualche punto, difficile da definire, del continuum autistico.
Anche in questo caso il problema dello “spettro” potrebbe essere risolto
con una delle categorie che abbiamo visto nel secondo paragrafo, ma
l’ottimo livello cognitivo di Luciano ci permette di prendere in
considerazione un’altra ipotesi diagnostica. Alcuni clinici e ricercatori
hanno dato a questa ipotesi il nome di “Autismo ad Alto Funzionamento”,
per descrivere quei bambini che sembrano avere disturbi per certi aspetti
sovrapponibili al Disturbo dello spettro dell’autismo, ma il cui livello
generale di funzionamento cognitivo è molto migliore di quello che si
ritrova di solito nei soggetti autistici (Rutter e Schopler, 1978; Freman et
al., 1985). A questo proposito, è interessante notare che sia la teoria della
mente sia la teoria della coerenza centrale di cui abbiamo parlato nel
capitolo precedente, sembrano adattarsi molto meglio a questi soggetti che
agli autistici ai quali sia associata anche Disabilità intellettiva.
Altri studiosi, invece, parlano di Disturbo di Asperger10 (Wing, 1981;
Zeanah, 1996; De Meo, Vio e Maschietto, 2000). Le due espressioni non
sono perfettamente sovrapponibili, ma questa seconda ha il vantaggio di
essere stata inclusa da tempo, sia pure con alcune perplessità, nell’ICD-10,
dove compare come Sindrome di Asperger e, quindi, di essere stata definita
con una certa precisione. Le caratteristiche del Disturbo di Asperger, che
troviamo presenti in Luciano, sono una compromissione qualitativa
nell’interazione sociale11 manifestata da carenza di sguardo diretto e di
espressione, postura rigida e poco orientata alla relazione, difficoltà a
sviluppare con i coetanei relazioni adeguate al livello di sviluppo, difficoltà
a condividere gioie, interessi e obiettivi con altre persone; qualche modalità
di comportamento ripetitivo, rigido e stereotipato. Altri sintomi tipici di
questo disturbo, che però sono assenti in Luciano, sono la sottomissione
rigida ad abitudini inutili o rituali specifici e un persistente ed eccessivo
interesse per parti di oggetti.
In conclusione?
In conclusione non ho, in questo come in altri casi analoghi, una risposta
definitiva. Resta il fatto che l’anomalia causa una compromissione
clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre importanti
aree del funzionamento psichico, e che questo è sicuramente vero per
Luciano. Resta però anche il fatto che, comunque decidiamo di chiamare
questo disturbo, appare relativamente facile lavorarci e ottenere qualche
risultato significativo; anche la prognosi appare, perciò, decisamente
migliore (De Meo, Vio e Maschietto, 2001; Attwood, 2006; Fontani, 2007;
Levy, Mandell e Schultz, 2009).

DISTURBO DISINTEGRATIVO DELL’INFANZIA


Ho parlato fino qui di alcuni disturbi meno gravi del Disturbo dello spettro
dell’autismo, a volte anzi così sfumati da lasciare il dubbio se si tratti
proprio di patologie di questo genere.
Il caso di Fernando, invece, appare purtroppo particolarmente serio.
Visto oggi, che ha quasi vent’anni, è difficile distinguerlo da un soggetto
autistico di quelli con la prognosi più sfavorevole. Non parla. Ha enormi
difficoltà a comunicare, anche in modo non verbale, persino i più
elementari bisogni quotidiani. Ha gravi e quasi continui episodi di
stereotipie e autostimolazioni. Spesso, a questi, si aggiungono esplosioni
improvvise di aggressività auto- ed eterodiretta. Presenta scarsissime
autonomie personali e non può praticamente mai essere lasciato solo in
situazioni sociali a causa dell’imprevedibilità dei suoi comportamenti. I
tentativi di intervento, farmacologici, psicoterapeutici, educativi, hanno
sempre dato esiti poco o per nulla significativi, con l’eccezione di una
esperienza per molti aspetti sconvolgente di comunicazione facilitata,
durante la quale Fernando avrebbe imparato, con l’aiuto di una macchina
per scrivere elettrica e di un educatore che gli facilitava il compito
sostenendogli il polso, a scrivere frasi anche molto complesse e con
contenuti anche molto personali e profondi. Una di queste frasi, che credo
giustifichi l’aggettivo “sconvolgente” che ho usato per descrivere
l’esperienza, fu: “Mi dispiace molto pensare che il dott. Celi non mi ha mai
capito e non ha mai creduto nelle mie possibilità”. Tuttavia il significato
reale, lo status scientifico e l’applicabilità terapeutica dei metodi basati sulla
comunicazione facilitata costituiscono un argomento troppo complesso e
troppo delicato per poter essere affrontato in poche righe in un lavoro, come
questo, che si prefigge altri scopi.12
Fernando è dunque oggi un ragazzo difficilmente distinguibile da un
soggetto autistico grave, e la diagnosi differenziale è possibile solo
ricostruendo la sua storia di bambino nato prematuro e sotto peso dopo un
parto difficile. È stato dieci giorni in incubatrice e poi, dimesso, ha avuto
nei primi anni di vita uno sviluppo sostanzialmente normale. I primi segnali
di allarme sono venuti quando già frequentava da quasi due anni la scuola
dell’infanzia e aveva un linguaggio e capacità di relazioni adeguati all’età.
È cominciata una regressione che è andata avanti inesorabile durante la sua
frequenza alla scuola primaria, costituita da una chiusura relazionale
sempre più grave e da una progressiva perdita del linguaggio verbale.
Contemporaneamente cominciavano a manifestarsi comportamenti
stereotipati, masturbazione compulsiva in classe, regressione gravissima di
tutte le abilità cognitive acquisite nei primi anni di vita, comparsa di
comportamenti problematici sempre più gravi, fino al quadro attuale che ho
molto sommariamente descritto.
Questo disturbo, che si caratterizza per sintomi simili a quelli delle
forme più gravi di autismo, ma per un esordio più tardivo con progressivo
deterioramento del funzionamento generale, prende il nome, secondo
l’ICD-10, di “Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo”. Si tratta
di un disturbo molto più raro dell’autismo, pochi casi su un milione di
bambini nati, e, come per tutti i Disturbi dello spettro dell’autistimo
all’infuori del Disturbo di Rett,13 più comune nei maschi che nelle
femmine. Come per l’autismo, non si hanno certezze rispetto all’eziologia,
anche se sembra ormai chiaro che debba trattarsi di una grave anomalia
neurologica, peraltro non identificata. Rispetto all’autismo, la prognosi è
decisamente peggiore.

ALTRI DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO E


CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Ricapitolando, i Disturbi dello spettro dell’autismo possono essere
considerati, nel loro insieme, come patologie a esordio nell’infanzia
caratterizzate, in estrema sintesi, da gravi anomalie che non sono normali in
nessuno stadio dello sviluppo e riguardano la comunicazione, le abilità
sociali, l’attività immaginativa, il gioco. Molto spesso, sono associati a
Disabilità intellettiva.
Questa ampia categoria nel DSM-5 (come abbiamo visto nel dettaglio
nel capitolo precedente) viene chiamata Disturbo dello spettro dell’autismo
ma, al suo interno, possiamo far rientrare il Disturbo di Asperger, il
Disturbo disintegrativo dell’infanzia (già trattatati nei due precedenti
paragrafi) e il Disturbo di Rett.14 Quest’ultimo è un disturbo neuroevolutivo
molto specifico, che colpisce solo le bambine, che insorge nel primo anno
di vita dopo qualche mese di apparente normalità di sviluppo e produce
rallentamento della crescita del cranio, ipotonia, diminuzione della mobilità,
comparsa di attività ripetitive e movimenti stereotipati delle mani, arresto
nello sviluppo psicomotorio e grave compromissione della ricezione e
dell’espressione del linguaggio verbale. L’eziologia non è certa, anche se il
disturbo sembra essere di origine genetica. La prevalenza è di 1 su 10000, il
decorso somiglia a quello dell’autismo associato a ritardo mentale e la
prognosi è peggiore anche per la frequente insorgenza di complicanze
neurologiche (Hunter, 2005).
Molto meno gravi di queste ultime due sindromi, ma molto più
interessanti per lo psicologo, sia per la maggiore frequenza sia per le
possibilità di significativi interventi psicoterapeutici, sono tutte quelle
forme sfumate o parziali di Disturbo dello spettro dell’autismo che nel
DSM-5 è rappresentato dalla specificazione di gravità “Livello 1” e che
nell’ICD-10 prende il nome di Sindrome di Asperger e Sindromi e disturbi
non specificati da alterato sviluppo psicologico.15
Ho cercato di mostrare come, in queste forme, ci siano ancora molte
incertezze per quanto riguarda l’inquadramento. Credo che queste
incertezze dovrebbero indurre lo psicologo ad assumere un atteggiamento
prudente, più orientato alla ricerca di strumenti di intervento che a un
accanimento diagnostico che difficilmente aiuta il bambino, ma che spesso
può anzi contribuire a mettere in difficoltà lui stesso e soprattutto le persone
che gli stanno vicino e che hanno il compito di occuparsi della sua
educazione e del suo equilibrato sviluppo.
1 Vedi capitolo 11.
2 Vedi capitoli 7 e 8.
3 La lateralità (o dominanza) va intesa, in questo contesto, come la preferenza nell’uso della mano
destra o sinistra.
4 Vedi capitolo 1, nota 3.
5 Vedi capitolo 1, nota 2.
6 Vedi capitolo 5, paragrafo “Ricerche”.
7 I bambini con la Sindrome di Asperger, pur avendo spesso un’intelligenza superiore alla media,
possono comunque riscontrare in ambito scolastico alcune tipiche difficoltà in compiti che richiedono
capacità organizzative e di problem solving, e nella scrittura a mano. Recenti ricerche mettono in luce
come il ricorso ad un pocket PC (PDA) possa costituire un ausilio efficace per compensare questi
problemi (Smith Myles, Ferguson e Hagiwara, 2007). Le difficoltà legate all’esecuzione dei compiti,
inoltre, rappresentano per questi bambini una significativa fonte di frustrazione che può generare
comportamenti problematici. La ricerca evidenzia come sia possibile, ricorrendo alla tecnica delle
Social Stories (vedi capitolo 5, paragrafo “Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo”), ridurre
la frequenza di tali condotte (Adams, Gouvousis, VanLue e Waldron, 2004).
8 Vedi capitolo 1, nota 3.
9 Vedi capitolo 1, nota 2.
10 Da Hans Asperger, che nel 1944 propose una categoria diagnostica diversa dall’autismo,
soprattutto per rendere conto delle migliori capacità verbali di questi soggetti.
11 Recentemente sono stati messi a punto strumenti e strategie che hanno lo scopo di migliorare, nei
bambini con Disturbo di Asperger, le capacità metacognitive, indispensabili per poter interagire con
gli altri in modo efficace e adeguato. Tra gli strumenti ricordiamo il software Mind Reading: The
Interactive Guide To Emotions (Baron-Cohen, 2004), che si è mostrato particolarmente efficace per
l’implementazione della capacità di riconoscimento delle emozioni, sia semplici che complesse (La
Cava, Golan, Baron-Cohen e Smith Myles, 2007). Tra le strategie, invece, di notevole interesse è il
SODA (Stop, Observe, Deliberate, Act), utilizzato per l’apprendimento di abilità socio-
comportamentali. In particolare, tale strategia prevede una serie di regole volte ad aiutare bambini e
adolescenti con Disturbo di Asperger a individuare segnali sociali, a processarli e a scegliere le
abilità sociali appropriate a uno specifico contesto. In uno studio di Bock (2007) il SODA è stato
utilizzato con 4 bambini con Disturbo di Asperger, valutandone gli effetti sulla partecipazione ad
attività di apprendimento cooperativo e ad attività sportive e sull’interazione con i pari durante il
pranzo. I risultati indicano effetti positivi su un periodo di 5 mesi, con mantenimento delle
prestazioni anche dopo l’interruzione del trattamento. I bambini hanno raggiunto prestazioni simili a
quelle dei loro pari senza alcuna disabilità.
12 Vedi capitolo 5, nota 10.
13 Vedi paragrafo successivo.
14 Da Andreas Rett, che per primo descrisse la sindrome.
15 Nella rivista italiana Autismo e disturbi dello sviluppo possono essere trovati molti articoli che
trattano degli aspetti clinici generali, degli strumenti diagnostici e degli interventi terapeutici,
psicoeducativi e sociali nei disturbi dello spettro autistico.
Parte terza

Disturbi dell’apprendimento

Disturbo della lettura: v. capitolo 7


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo specifico
dell’apprendimento con specificazione “compromissione della lettura” con
specificazione livello di gravità (Lieve-Moderata-Grave) (F81.0)
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterazione specifica dello sviluppo
psicologico – Disturbi dello sviluppo psicologico – Disturbi evolutivi
specifici delle abilità scolastiche – Disturbo specifico della lettura (F81.0)

Disturbo del calcolo: v. capitolo 8


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo specifico
dell’apprendimento con specificazione “compromissione del calcolo” con
specificazione livello di gravità (Lieve-Moderata-Grave) (F81.2)
Disturbo del calcolo (F81.2)
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterazione specifica dello sviluppo
psicologico – Disturbi dello sviluppo psicologico – Disturbi evolutivi
specifici delle abilità scolastiche – Disturbo specifico delle abilità
aritmetiche (F81.2)

Disturbo dell’espressione scritta: v. capitolo 8


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo specifico
dell’apprendimento con specificazione “compromissione dell’espressione
scritta” con specificazione livello di gravità (Lieve-Moderata-Grave)
(F81.1)
ICD-10: Sindromi e disturbi da alterazione specifica dello sviluppo
psicologico – Disturbi dello sviluppo psicologico – Disturbi evolutivi
specifici delle abilità scolastiche – Disturbo specifico della compitazione
(F81.1) o Disturbo misto delle capacità scolastiche (F81.3) a seconda del
fatto che prevalgano la difficoltà di compitazione in assenza di disturbo
specifico della lettura oppure che quelle della compitazione appaiano
clinicamente associate a difficoltà aritmetiche e di lettura
Capitolo 7

Disturbo specifico
dell’apprendimento con
compromissione della lettura
Fabio Celi

LA STORIA DI ANDREA
La prima frase della mamma di Andrea è:
“Più che preoccupata, sono scoraggiata”.
È il nostro primo colloquio e ancora io non so nulla del bambino di
cui la signora è venuta a parlarmi. Mi dice questo con un atteggiamento
almeno in apparenza sereno, certamente molto diverso da quello che spesso
caratterizza i primi colloqui con genitori di bambini difficili. Poi, piano
piano, mi spiega meglio quello che intendeva dire. Andrea è in quarta classe
della scuola primaria e ancora legge malissimo. Le hanno provate un po’
tutte, compreso un day-hospital, qualche mese fa, in un importante Istituto
di Neuropsichiatria Infantile, ma non ne è venuto fuori granché. Peccato, mi
dice la madre, perché è un bambino intelligente, sano, in gamba. Anche
nell’Istituto dove sono stati non hanno diagnosticato nulla di significativo e
hanno consigliato ai genitori di venire da me per questo ritardo della lettura
che per lui è una fonte continua di sofferenza: a scuola le valutazioni
negative e le incomprensioni con le maestre; a casa le ore passate sui libri a
fare i compiti e a studiare… Tutto questo è un problema per lui, ma anche
per la famiglia e per la madre in particolare, che non sa cosa fare, come
prenderlo, se aiutarlo più di quanto non stia già facendo, se punirlo per le
sue cattive prestazioni, se rinunciare del tutto e lasciare che le cose vadano
come devono andare evitando, per lo meno, di farne un dramma quotidiano.

pag. 49

A questo punto pongo alla madre una domanda che mi capita spesso di
fare in situazioni analoghe:
“Ma se la scuola non esistesse, secondo lei Andrea che problemi
avrebbe?”.
Riflette per un po’ in silenzio, forse è perplessa per una domanda che
non si aspettava.
Aggiungo:
“Faccia uno sforzo di fantasia. Immagini un mondo senza scuole. Come
sarebbe Andrea? Oppure pensi all’estate, alle vacanze di Natale… Andrea
ha altri problemi? Per esempio a casa, oppure con gli amici?”.
Mi risponde che pensa proprio di no e la successiva raccolta anamnestica
sembra confermare questo punto di vista. La gravidanza è stata regolare. Il
parto eutocico a termine. Nessun segno di sofferenza (il punteggio di
Apgar1 era di 9,9). Madre e bambino sono stati dimessi dopo quattro giorni
di degenza tranquilla. A casa Andrea si è rivelato subito un bambino facile
da allevare. Mangiava, dormiva e cresceva regolarmente. A dieci mesi ha
cominciato a camminare da solo. In questa storia del primo sviluppo c’è
soltanto un piccolo campanello d’allarme: le prime parole sono comparse
intorno ai due anni e poi, per tutto il periodo della scuola dell’infanzia, è
rimasto un certo ritardo del linguaggio, nel senso che il bambino aveva
qualche difficoltà a pronunciare alcuni suoni e, più avanti, le sue frasi erano
molto semplici, povere, sicuramente meno sviluppate di quelle dei coetanei.
Per il resto, anche alla scuola dell’infanzia l’inserimento è stato ottimo e
nessuno ha dato una particolare importanza al problema del linguaggio, che
d’altra parte dava l’impressione di risolversi piano piano da solo. Andrea
era ben socializzato, pieno di amici, e le maestre erano contente di lui. Per
molti aspetti sembrava, fin dai primi anni di vita, un bambino più grande
della sua età (a parte il linguaggio). Le autonomie personali si erano
sviluppate precocemente e senza difficoltà e attualmente la stessa facilità di
sviluppo si può vedere per le autonomie sociali . Andrea sa usare il
telefono (anche il computer) e il denaro, sa gestire da solo il proprio tempo,
esce di casa e fa piccole commissioni per la madre e, anzi, è proprio la
madre che frena alcune di queste autonomie per paura e perché lo vede
ancora troppo piccolo: se fosse per lui, sicuramente potrebbe anche andare a
scuola da solo con l’autobus e fare molte più cose di quelle che già fa. Ha
ancora molti amici e, al di là delle difficoltà scolastiche, è un bambino
sereno. Non sembrano esserci altri disturbi psicopatologici degni di nota.

pag. 34

pag. 34

I guai sono cominciati in prima classe della scuola primaria, con la


lettura. Il problema è stato subito evidente e, fin dall’inizio, grave ma
circoscritto. Le maestre continuavano a descriverlo come un bambino
intelligente, motivato, ben inserito, ben socializzato, con un comportamento
corretto, senza deficit attentivi e senza nessuna difficoltà nelle altre attività
scolastiche, anzi molto spesso brillante, per esempio nelle discussioni orali
che venivano fatte in classe su vari argomenti. Però a Natale i compagni
leggevano e lui no. L’acquisizione del processo di fusione dei suoni è
avvenuta verso la fine della prima classe con lentezza, difficoltà e tanta
fatica; e solo in seconda il bambino ha iniziato a leggere qualche frase
molto semplice, per un lungo periodo soltanto in stampatello maiuscolo.
Adesso è in quarta e nella lettura si trascina dietro tutti questi problemi: è
lentissimo, scorretto e fa una fatica enorme ad arrivare alla fine del brano.
Questo causa qualche ostacolo anche nelle materie orali: per lui studiare da
solo due pagine di storia è già un mezzo dramma. In realtà, le difficoltà
nell’orale sono limitate a questo, perché quando gli è sufficiente stare
attento alle spiegazioni della maestra oppure se a casa la madre decide di
sostituirsi a lui nella lettura delle pagine da studiare, Andrea fa poi
interrogazioni molto buone, sostenute dalle sue ottime capacità di memoria
e di comprensione. Qualcosa del genere avviene anche con la matematica.
Tutto bene con il calcolo e con la comprensione di meccanismi e regole. Ma
nella soluzione dei problemi è lentissimo e rischia sempre di sbagliare per
la difficoltà di lettura del testo. La madre mi racconta che a volte, a casa,
prova lei a leggere al bambino il testo del problema e allora lui individua
subito l’operazione o le operazioni da fare e, a volte, arriva anche alla
soluzione con un calcolo mentale. Ma se viene lasciato solo perde un sacco
di tempo. La madre commenta: “Secondo me non ha più neppure fiducia
nelle sue capacità”.
Mi sembra che in qualche modo il ciclo del nostro primo colloquio si stia
chiudendo. La madre aveva esordito dicendomi di essere scoraggiata e ora
mi sta dicendo qualcosa di simile a proposito delle sensazioni del figlio.
Cerco di indagare un po’ di più su questo punto. Soprattutto cerco di capire
se questa sfiducia possa aver prodotto qualche danno più significativo dal
punto di vista dell’autostima o, peggio, del generale tono dell’umore.
Ma sembra proprio di no. Di nuovo, la mamma mi fa capire che al di fuori
del problema scolastico, e della lettura in particolare, Andrea è un bambino
sereno e complessivamente soddisfatto di sé. Un’immagine simile, di
sostanziale normalità, la fornisce anche a proposito della famiglia, che è
l’ultimo argomento che affronto durante questo colloquio. Il padre è un
libero professionista, piuttosto occupato, ma vicino ai figli nel tempo libero;
la madre è impiegata part-time e quindi può dedicarsi ad Andrea nel
pomeriggio per aiutarlo nei compiti; c’è infine una sorella di sedici anni,
molto brava, che frequenta il liceo classico e che sicuramente rappresenta
per Andrea un confronto perdente, almeno dal punto di vista scolastico.

pag. 56

Termino il colloquio con una breve restituzione alla madre degli aspetti
salienti emersi fin qui e con gli accordi su come incontrare il bambino. La
madre mi dice che pensa che Andrea non avrà problemi a venire da me, sia
perché è già stato avvertito, sia perché è abituato a visite e colloqui di
questo genere.
La previsione della madre si rivela esatta. Il primo approccio con il
bambino è molto facile. Andrea è subito collaborativo, orientato, empatico,
consapevole dei suoi problemi di lettura. Nella relazione con me è brillante
e la cosa che mi colpisce di più è l’atteggiamento autoironico che assume
rispetto alle sue difficoltà. Ci scherza sopra atteggiandosi un po’ a vecchio
saggio ormai rassegnato. È come se mi dicesse che lui sa bene di essere un
cattivo lettore, però ha altre doti e per questo difetto ha capito che non può
farci nulla e così cerca semplicemente di abituarsi a conviverci. È
sicuramente sfiduciato, come già mi diceva la madre, ma con in più un
atteggiamento cinico, probabilmente difensivo. Sembra quasi che mi voglia
dire: “Sì, sono un cattivo lettore e lo sappiamo tutti e due. Io lo ammetto e
tu lasciami in pace”.
Se invece affronto un qualsiasi argomento extrascolastico sembra
proprio che non ci siano problemi. Andrea è contento di sé, dei suoi amici,
della sua vita in famiglia e fuori, del tennis che lo appassiona e gli dà
qualche soddisfazione anche dal punto di vista agonistico. Forse gliene
darebbe anche di più se potesse dedicare più tempo agli allenamenti. Il suo
maestro gli ripete spesso che non si allena abbastanza, ma sua madre non
vuole sottrarre troppe ore ai compiti e allo studio, e d’altra parte lui stesso
riconosce di essere lento, soprattutto quando c’è di mezzo la lettura.
Questo ci riporta al punto di partenza. La storia delle difficoltà scolastiche,
raccontata dal punto di vista di Andrea, non è molto diversa da quella
raccontata dalla madre durante il nostro primo colloquio. Anche le
emozioni che stanno dietro questa storia sembrano simili: un velo di
tristezza, giustificato dalla consapevolezza di certe difficoltà e
dall’atteggiamento delle insegnanti a volte forse un po’ vessatorio; un senso
di sfiducia, dopo tanta applicazione e tanto tempo consumato in uno studio
che, per quel che riguarda la lettura, non ha certo dato i risultati sperati;
forse, in più, in Andrea, c’è la voglia di lasciar perdere, di non combattere
più su questo fronte: forse quell’ironia che ho sentito fin dal nostro primo
incontro era almeno in parte rivolta anche a me, all’ennesimo esperto che
tanto non gli avrebbe risolto il problema, allo psicologo da cui Andrea
avrebbe fatto volentieri a meno di andare (un’altra ora inutilmente sottratta
al tennis).
Questo non significa che Andrea non venga regolarmente alle sedute,
collaborando con me e permettendomi di conoscerlo sempre meglio. Le sue
capacità intellettive sono normali. La WISC-R2 dà un punteggio totale di
106 (in verità, io prevedevo un risultato anche migliore), senza apprezzabili
differenze tra prove verbali e non verbali e cadute nel disegno con i cubi e
nel cifrario non particolarmente significative. Le CPM3 sono nella norma,
con qualche caduta negli item dove è più coinvolto l’aspetto
dell’organizzazione spaziale. Questa difficoltà è confermata anche dal test
di sviluppo della percezione visiva di Frostig (Frostig, Lefever e Whittlesey,
1966) e dal test visuomotorio di Bender (1992). Per la valutazione delle
capacità visuopercettive e di integrazione visuomotoria si può utilizzare il
test TPV (Developmental Test of Visual Perception) (Hammil, Pearson e
Voress, 2003), che nasce dal perfezionamento del classico test di Frostig,
oppure il test VMI (Developmental Test of Visual-Motor Integration) (Beery
e Buktenica, 2000). I risultati più significativi riguardano, però, le prove
specifiche di lettura. Le prove MT4 mostrano carenze importanti sia a
livello di velocità sia di correttezza e qualche difficoltà anche nella
comprensione del testo. Prove di analisi delle difficoltà specifiche (Sartori,
Job e Tressoldi, 2007) evidenziano cadute soprattutto nella competenza
fonologica (difficoltà di riconoscimento di non parole). La lettura a voce
alta evidenzia omissioni, inversioni, lunghe esitazioni e incertezze con
conseguente lentezza. È invece adeguata la capacità di ricordare le cose
lette, una volta comprese, e di trarre conclusioni o inferenze dal testo
scritto. Le prove metacognitive che, come vedremo meglio nel terzo
paragrafo, servono per valutare la consapevolezza del bambino sugli scopi
della lettura, non mostrano problemi a questo riguardo (Pazzaglia e coll.,
1994). Scrittura e abilità matematiche sono sostanzialmente normali
(Tressoldi, De Beni e Cristante, 1991).
Un questionario che valuta sempre gli aspetti metacognitivi, questa volta
relativi al metodo di studio, è il QMS contenuto nel volume “Imparare a
studiare 2” (Cornoldi, De Beni e Gruppo MT, 2001). Questo questionario ha
lo scopo di chiarire le conoscenze metacognitive prima di iniziare un
percorso didattico ad hoc e viene somministrato di nuovo al termine del
lavoro svolto per monitorare eventuali miglioramenti. Ci si aspetta, di
solito, che a seguito di un lavoro sistematico gli studenti migliorino le
conoscenze metacognitive rispetto allo studio, e che questo miglioramento
possa giocare un ruolo positivo sulle prestazioni di studio stesse. Sempre
per la valutazione delle abilità metacognitive dei ragazzi delle classi terza,
quarta e quinta della scuola primaria esiste il questionario “Io e la mia
mente” contenuto in “Avviamento alla metacognizione” (Friso, Palladino e
Cornoldi 2006) che dispone ora anche dei dati normativi di riferimento
grazie ai quali è possibile avere una stima oggettiva del livello
metacognitivo raggiunto anche a seguito di un percorso specifico
confrontando i dati pre- e post-trattamento (Friso, Drusi e Cornoldi, 2013).
Un altro recente strumento di valutazione degli aspetti metacognitivi, in
questo caso in rapporto alla matematica, è il test MeMa (Caponi, Cornoldi,
Falco, Focchiatti e Lucangeli, 2012) che si compone di quattro diversi
questionari: il primo rivolto ai ragazzi che frequentano dalla terza classe
della scuola primaria alla terza classe della scuola secondaria di primo
grado; il secondo rivolto agli insegnanti di scuola primaria e secondaria di
primo grado; il terzo rivolto ai genitori; e infine il quarto rileva la presenza
di ansia specifica per l’apprendimento della matematica nei ragazzi dai 9 ai
14 anni.
Tuttavia la situazione di Andrea è più semplice per quanto riguarda
l’ansia e più in genarale i disturbi della sfera emozionale, che non sembrano
essere presenti. Il bambino appare infatti equilibrato e sereno (a parte i
problemi direttamente generati dalle difficoltà di lettura); il tono dell’umore
è adeguato e non si evidenziano disturbi di comportamento né deficit
attentivi. Durante un colloquio con una delle insegnanti questo mi verrà
confermato anche relativamente al comportamento in classe. I disegni di
Andrea non sono particolarmente ricchi, ma appaiono disegni normali, con
figure umane5 tracciate in modo tradizionale e colori che non si fanno
notare per nessuna particolare caratteristica. Il suo disegno più bello, tra
quelli che farà durante le nostre sedute, è certamente quello dove
rappresenta sé stesso durante una partita di tennis in un torneo in cui, con
molta fatica e molta soddisfazione, era riuscito ad avere la meglio
sull’avversario. Il TMA, una prova specifica per la misurazione
dell’autostima (Bracken, 2003; edizione in CD-ROM, 2005), mostra una
significativa caduta dell’autostima scolastica, che tuttavia non influenza il
risultato globale. In tutti gli altri settori (come figlio, come amico, come
sportivo) Andrea si sente adeguato e a suo agio. Lo stile di attribuzione ,
invece, che (come vedremo nel quarto paragrafo) è tanto importante in casi
come questi, è decisamente inadeguato. Per la valutazione dello stile di
attribuzione si può usare il “Questionario di Attribuzione” (De Beni e Moè,
1995) che è valido per i ragazzi dagli undici ai venti anni, adattato anche
dalle stesse autrici per i soggetti di età inferiore (1999). Ormai Andrea si è
messo in testa che questa sua caratteristica di essere un cattivo lettore è
immodificabile, fa parte di lui e che non c’è più niente da fare.

pag. 450

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
Credo che l’inquadramento diagnostico, in questo caso, sia piuttosto facile,
anche perché ho scelto di proposito un bambino paradigmatico. Sebbene
(come vedremo nel prossimo capitolo) non sempre le cose siano così
lineari, Andrea mi sembrava un bambino adatto per illustrare i punti
fondamentali di un Disturbo specifico dell’apprendimento.
Andrea non ha nessun disturbo neurologico, né deficit sensoriale, né
altre condizioni mediche degne di nota. Come abbiamo visto, è stato
visitato più volte e con particolare accuratezza da alcuni neuropsichiatri ed
è risultato del tutto negativo. Non ha certamente una Disabilità intellettiva,
ma neppure difficoltà cognitive meno gravi come un Funzionamento
intellettivo borderline. I risultati dei test di intelligenza e l’ottimo livello di
autonomia del bambino non lasciano dubbi al riguardo. Non ha certamente
un Disturbo dello spettro dell’autismo, ma neppure problemi relazionali,
emozionali o comportamentali importanti. Non ha ricevuto un’educazione
gravemente inadeguata, né a casa, né a scuola.
Tutti questi “non ha” mi fanno tornare di nuovo in mente le prime parole
della madre:
“Più che preoccupata, sono scoraggiata”.
In realtà, si può quasi avere la sensazione che Andrea non abbia niente,
eppure a scuola non sta bene e certe sue prestazioni sono sicuramente fonte
di preoccupazione e disagio. Queste sono le caratteristiche tipiche di un
Disturbo specifico dell’apprendimento: un bambino sano (sia dal punto di
vista fisico, sia dal punto di vista psicologico, sia dal punto di vista sociale),
che però fatica in un’area scolastica, fino a starci male. Nel caso specifico
di Andrea, l’area in questione è la lettura e dunque possiamo parlare di
Disturbo specifico dell’apprendimento con compromissione della lettura.
Le caratteristiche generali di questo disturbo sono tre.
1. Prima di tutto, la capacità di lettura è inferiore rispetto a quanto previsto
per l’età, il livello di intelligenza e l’istruzione ricevuta. Questo concetto,
che è espresso con il termine di “discrepanza”, cioè differenza
significativa tra la prestazione dell’individuo e quella attesa in base ai
dati ottenuti da un campione confrontabile, deve risultare dall’uso di test
specifici standardizzati e somministrati individualmente. In altri termini
non è accettato dalla comunità scientifica esprimere un giudizio clinico
basandosi solo sulle proprie impressioni o sul semplice ascolto della
lettura di un qualsiasi brano, né tanto meno basandosi esclusivamente
sulle osservazioni riportate da insegnanti o genitori. Per i lettori italiani le
prove standardizzate riguardano più livelli: lettura di brano, lettura di
lettere, parole e non-parole. Il problema di lettura può riguardare sia la
velocità (lettura molto lenta e stentata), sia la correttezza (lettura
caratterizzata da errori frequenti), sia la comprensione (gravi difficoltà a
capire il significato del testo letto), sia una combinazione qualsiasi di
questi tre elementi. Nel DSM-5 viene specificato attraverso una nota che
con i termini di uso più comune “dislessia” e “discalculia” si fa invece
riferimento a difficoltà che riguardano solo i parametri di accuratezza e
velocità. Pertanto in questi casi viene consigliato di specificare la
presenza di eventuali difficoltà aggiuntive di comprensione del testo
scritto o di ragionamento matematico. Un discorso aggiuntivo deve però
essere fatto per la comprensione del testo scritto.
Nell’ambito della letteratura internazionale vari studi hanno evidenziato,
accanto al disturbo specifico della lettura (comunemente dislessia) intesa
come disturbo specifico della decodifica, anche l’accezione di disturbi
della comprensione del testo scritto indipendenti sia dai disturbi di
comprensione da ascolto che dagli stessi disturbi di decodifica
(Consensus Conference, 2010). Il DSM-5, di edizione molto più recente
(2014), non prevede però alcuna categoria aggiuntiva o alcuna
specificazione per tale difficoltà che si presenti in maniera isolata.
Pertanto, secondo il DSM-5, un bambino che presenti solo difficoltà nella
comprensione del testo può rientrare nel Disturbo specifico
dell’apprendimento con compromissione della lettura. Ovviamente in
questo caso spetta al clinico specificare ulteriormente che la
compromissione riguarda la comprensione del testo. Su come applicare il
concetto di “discrepanza” esiste un sostanziale accordo sul fatto che la
compromissione dell’abilità specifica deve essere “significativa” e
inferiore a −2 DS dei valori normativi attesi per età o classe frequentata.
Non è invece ancora stato specificato a quante delle prove di lettura
somministrate i criteri menzionati si devono applicare ma, sempre nelle
linee guida della Consensus Conference, viene indicato che in caso di
prestazione inferiore a −2 DS (o al 5° percentile) in una sola prova sia il
giudizio clinico a determinare la decisione se formulare o meno la
diagnosi. È importante sottolineare come attualmente il parametro
“velocità di decifrazione” sia considerato il principale marker clinico per
effettuare la diagnosi. Recenti ricerche, infatti, hanno messo in evidenza
come tale parametro evidenzi al meglio, almeno nelle lingue
“trasparenti”,6 la padronanza dell’abilità di decodifica (Cazzaniga, Re,
Cornoldi, Poli e Tressoldi, 2005).
2. In secondo luogo, la difficoltà interferisce significativamente con
l’apprendimento e le attività di vita quotidiana che richiedono capacità di
lettura. Abbiamo potuto vedere anche questo aspetto nel caso di Andrea,
che non si limita a leggere male, ma che soffre per questo, si trova a
disagio in alcune situazioni scolastiche e ha bisogno di aiuto per imparare
in modo adeguato alcune materie come la storia, la geografia e le scienze.
3. Infine, l’anomalia non deve poter essere spiegata con problemi medici o
psicologici più gravi. Per esempio, se c’è un deficit sensoriale come la
sordità che spiega le difficoltà di lettura non si può fare diagnosi di
Disturbo dell’apprendimento, né di Disturbo della lettura. Qualcosa del
genere avviene per la Disabilità intellettiva: se la Disabilità intellettiva
spiega, da sola, le difficoltà di apprendimento, non ha senso ricorrere a
una diagnosi aggiuntiva. Può tuttavia capitare, almeno in linea teorica,
che un bambino con Disabilità intellettiva Lieve abbia difficoltà di lettura
maggiori di quelle che ci si potrebbero aspettare per la sua età
cronologica e mentale: in questo caso, la doppia diagnosi è ammessa
(Rutter, 1995). Abbiamo visto, nel caso di Andrea, che tutti e tre gli
aspetti della rapidità, della correttezza e della comprensione sono
coinvolti, anche se a livello diverso, e che la valutazione è avvenuta
attraverso test specifici e standardizzati come le prove MT. Per la
diagnosi di Disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) il documento
di intesa (PARCC, 2011) tra esperti rappresentanti di Organizzazioni e
Servizi riporta alcune utili raccomandazioni cliniche. In particolare viene
consigliato per la valutazione del funzionamento intellettivo di utilizzare
test multicomponenziali come la scala WISC-IV, anche se è possibile
utilizzare un quoziente mono componenziale (per esempio, scala Leiter,
Matrici Progressive di Raven). Perché si possa considerare possibile la
diagnosi di DSA il quoziente totale (multicomponenziale), oppure il
migliore tra i quozienti monocomponenziali rilevati, deve essere non
inferiore a 85, corrispondente a ⁕1 DS rispetto ai valori attesi per l’età.
Per un clinico appare comunque evidente che alla fine la valutazione
dovrà tenere conto dello sviluppo globale del bambino e del suo
comportamento adattivo, come peraltro ribadito con maggiore forza nel
DSM-5. È infatti chiaro che un bambino con un QI di 75, ma per esempio
con compromissioni nelle autonomie personali che facciano pensare a
una Disabilità intellettiva, non potrà ricevere una diagnosi di Disturbo
specifico dell’apprendimento, come è altrettanto chiaro che esistono
bambini con quoziente compreso tra 70 e 85 il cui funzionamento
generale è così buono che quando la caduta è solo nell’ambito della
lettura possono ricevere probabilmente una diagnosi in tal senso.
È d’altra parte vero che, sempre da un punto di vista clinico, è comunque
necessaria una grande cautela nell’abbassare il limite del QI perché è
evidente che la specificità del Disturbo di apprendimento di un bambino
con una intelligenza normale o addiritttura superiore ha una espressività
ben diversa dalle difficoltà connesse con un Funzionamento cognitivo
borderline. Non a caso proprio da queste considerazioni clicniche e dalle
loro ricadute educative dal 2011 si è cominciato a parlare della categoria
dei BES, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
Nella nuova edizione del DSM-5 il Disturbo della lettura rappresenta una
specificazione del Disturbo specifico dell’apprendimento che, a sua volta, è
inserito nella categoria Disturbi del neurosviluppo insieme alla Disabilità
intellettiva, ai Disturbi della comunicazione, al Disturbo dello spettro
dell’autismo, al Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, ai Disturbi del
movimento e alla categoria residua Altri disturbi del neurosviluppo
(American Psychiatric Association, 2013). A differenza di quanto accadeva
nel DSM-IV-TR esiste dunque un’unica categoria denominata appunto
Disturbo specifico dell’apprendimento, mentre le difficoltà di lettura,
scrittura e calcolo rappresentano sottotipi dello stesso problema e non più
patologie autonome. Nel DSM-5 scompare il Disturbo dell’apprendimento
non Altrimenti Specificato presente invece nel DSM-IV-TR.
Nell’ICD-10, invece, il Disturbo specifico della lettura compare nella
sezione riservata ai “Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche”
che includono anche il Disturbo specifico della compitazione, il Disturbo
specifico delle abilità aritmetiche e i Disturbi misti delle capacità
scolastiche compresi nella sezione più generale delle “Sindromi e disturbi
da alterato sviluppo psicologico”.
Per quanto riguarda i criteri diagnostici del Disturbo specifico della
lettura, l’ICD-10 prevede che il Disturbo della lettura abbia la precedenza
su quello del calcolo; nel caso in cui dunque fossero soddisfatti i criteri per
entrambi, la diagnosi dovrebbe essere solo di Disturbo specifico della
lettura.

I BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI


Con l’espressione Bisogni Educativi Speciali (BES) si fa riferimento a tutti
quegli alunni che all’interno di una classe presentano una richiesta di
speciale attenzione per una varietà di ragioni. Infatti, facendo riferimento ai
cut-off, alle deviazioni standard e ai percentili, inevitabilmente rimane una
zona grigia di alunni che, pur presentando difficoltà di varia natura, non
vengono in alcun modo tutelati dalla legge 170 del 2010, analogamente a
quanto succede per le situazioni di intelligenza borderline che
rappresentano la zona grigia rispetto alla legge 104/92 (vedi cap. 4).
La Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per
alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per
l’inclusione scolastica” (a cui ha fatto seguito il successivo chiarimento del
MIUR del 22 novembre 2013) è entrata in vigore con lo scopo di ampliare
l’attenzione degli insegnanti a tutte queste situazioni che non rientrano in
una categoria diagnostica ben precisa, ma che possono ugualmente, se non
di più, avere dei Bisogni Educativi Speciali. Tanto per fare un esempio, un
alunno può non rientrare nella categoria dei DSA, ma avere una situazione
al limite con prestazioni inferiori alla media prevista per la classe
frequentata (inferiori di 1 DS), o ancora un alunno può non rientrare nei
DSA ma avere una situazione ancora più grave in quanto alle lievi difficoltà
di apprendimento si possono sommare gravi problemi comportamentali o
emozionali.
Inutile negare che questi alunni abbiano forse altrettanto se non di più
bisogno di insegnanti che sappiano riconoscere le loro necessità e che
sappiano individuare per loro i modi migliori per favorire l’accesso alla
conoscenza senza il bisogno che qualcuno li prescriva o che ci sia una
diagnosi sanitaria. Crediamo, tra l’altro, che questa sia una sfida per gli
insegnanti, ma anche la strada per riappropriarsi del loro ruolo.

RICERCHE
La ricerca psicologica sui Disturbi specifici dell’apprendimento ha una
storia piuttosto recente. Fino a qualche decina di anni fa, soprattutto per
opera degli studiosi di pedagogia speciale, ci si occupava di bambini con
handicap conclamati, fisici, psichici o sensoriali. Per questi bambini
venivano messi a punto percorsi educativi e riabilitativi ed erano previste
anche scuole speciali per la loro accoglienza. Qualche pioniere si occupava
anche di difficoltà molto specifiche, in particolare di lettura, e di tentativi di
educazione personalizzata per questi particolari bambini che avevano alcuni
problemi settoriali di apprendimento, spesso anche gravi, in assenza di altri
disturbi fisici o di handicap evidenti. Queste difficoltà prendevano a volte il
nome generico di “disturbi lacunari”, per intendere che si riferivano a
lacune nelle abilità di apprendimento; oppure, a seconda che la lacuna si
riferisse alla lettura, alla scrittura o al calcolo, venivano usati i termini
specifici di dislessia, disgrafia e discalculia. A questi primi studi
pionieristici corrisponde, almeno in Italia, il periodo delle classi
differenziali, dove si tentava un’educazione fortemente specializzata per
questi bambini, che venivano pertanto tolti dalle classi normali, ma non
inseriti in scuole speciali completamente diverse, come avveniva con gli
handicappati propriamente detti (Quadrio, 1968).
Il più delle volte, però, al di là di questi studi pionieristici,
l’atteggiamento nei confronti di molti di questi bambini era quello di
ritenerli sani e normali da ogni punto di vista, dunque non bisognosi di
particolari cure, e semplicemente etichettabili come allievi svogliati, poco
motivati, poco portati per la scuola, più adatti a essere inseriti il prima
possibile nel mondo del lavoro. Con un’espressione un po’ rude, ma
efficace per illustrare un certo tipo di posizione pedagogica, molti maestri,
fino a qualche decina di anni fa, si riferivano a questi bambini come a
“mani rubate alle zolle”, per intendere che sarebbe stato molto meglio
toglierli dalle aule scolastiche a faticare inutilmente sui libri e mandarli nei
campi dove c’era tanto bisogno di manodopera. L’atteggiamento ha
cominciato a cambiare con gli studi specifici che gli psicologi
dell’educazione hanno avviato sulle cosiddette learning disabilities
(Hammil, 1990; Cornoldi, 1991; Tressoldi, 1991; Adelmann, 1992). Questi
studi hanno evidenziato come esistano profili piuttosto precisi e ricorrenti di
bambini con disturbi spesso limitati alla sfera degli apprendimenti
scolastici, ma non per questo banali o da trascurare. Credo che il
consolidarsi di questa posizione e il progressivo (anche se non ancora
definitivo) abbandono della pedagogia delle “mani rubate alle zolle” sia
dovuto, da una parte, a queste ricerche, ma dall’altra a una radicale
mutazione delle società avanzate, che hanno sempre meno bisogno di
manodopera generica e sempre più sentono la necessità, economica e
sociale, di far studiare tutti i bambini.
Le prime ricerche sulle learning disabilities, che hanno poi preso in
Italia il nome di Disturbi dell’apprendimento, si sono concentrate su due
punti fondamentali: il criterio di discrepanza e i fattori di esclusione
(Mercer e coll., 1985; Rovetto, 1987; Cornoldi, 1991; Rapaport e Ismond,
2000). Il criterio di discrepanza si riferisce al fatto che questi bambini
forniscono prestazioni significativamente inferiori a quelle che ci si
aspetterebbero da bambini di pari età e di condizioni simili. I fattori di
esclusione indicano che possiamo sostenere l’esistenza di un Disturbo
specifico dell’apprendimento dopo aver escluso che una specifica difficoltà
(per es., nella lettura) non sia dovuta a una particolare condizione medica
(per es., un deficit uditivo) o psicologica (per es., un ritardo mentale) o
sociale (per es., un’educazione gravemente inadeguata). Le prime ricerche
nel campo dei Disturbi dell’apprendimento ponevano un’enfasi particolare
su questo aspetto dei fattori di esclusione, peraltro complementare al
criterio di discrepanza. Questo è testimoniato, fra l’altro, dal nome che fino
al DSM-III veniva dato a queste patologie: “Disturbi Specifici dello
Sviluppo”, dove l’aggettivo specifici stava proprio a indicare l’esclusione di
altre patologie (American Psychiatric Association, 1983). Nel DSM IV-TR
l’attenzione ai fattori di esclusione cala: si ritiene, infatti, che un disturbo di
questo genere non debba necessariamente essere specifico, ma possa anche
trovarsi associato ad altre problematiche psicopatologiche o a deficit
sensoriali, purché, come abbiamo già visto nel secondo paragrafo, queste
patologie più gravi non spieghino del tutto il ritardo di apprendimento.
Anche il DSM-5 riconferma, con l’aggettivo “specifico” l’importanza di
questo concetto per quattro fondamentali motivi:
1. il disturbo non è attribuibile a disabilità intellettive;
2. il disturbo non è attribuibile a fattori esterni come lo svantaggio
economico, sociale, culturale o ambientale;
3. il disturbo non è attribuibile a problemi neurologici, o motori, o visivi, o
uditivi;
4. la difficoltà di apprendimento può essere limitata a una sola abilità o a un
solo ambito scolastico (per es., leggere parole singole, ricordare o
calcolare dati numerici).
Così definiti, i Disturbi dell’apprendimento (e in particolare il Disturbo
della lettura che copre da solo circa l’80% dell’intero spettro) risultano
molto rilevanti dal punto di vista epidemiologico. Si parla di una prevalenza
che, secondo alcuni arriverebbe fino al 10% della popolazione scolastica
(Crisfield, 1996; Gabrieli, 2009). Nel DSM-5 la prevalenza dei disturbi
specifici di apprendimento sugli ambiti di lettura, scrittura e calcolo tra
bambini in età scolare trasversalmente a linguaggi e culture diverse è
stimata tra il 5 e il 15%. Rispetto alla prevalenza dei DSA in Italia ci sono
dati oscillanti in relazione al disturbo cercato (lettura, scrittura, calcolo o un
insieme di queste difficoltà), al tipo di strumenti utilizzati (parole, testi,
valutazione QI ecc.) e al range di età considerato. In ogni caso la maggior
parte delle ricerche condotte nella fascia di età 8-13 anni (tra la terza e la
quinta classe primaria e la terza classe della secondaria di primo grado)
mostra che circa il 3,5-4% della popolazione è interessata dal disturbo
(Stella, 2010). Anche Cornoldi (2007), in linea con gli altri autori, riporta la
presenza di percentuali oscillanti dall’1,5 al 5%, con una stima ragionevole
intorno al 4% (dato presente nella proposta di legge “Norme in materia di
difficoltà specifiche di apprendimento” dell’8 maggio 2006), aggiungendo
però che “fino a che non si definiranno i criteri di inclusione facendo
riferimento a strumenti comuni di indagine, queste percentuali rimarranno
delle opinioni”. Infatti la definizione di un criterio predefinisce la
percentuale dei casi che possono essere interessati da un problema, e se si
assume come criterio il 5° percentile e un quoziente intellettivo di almeno
85, e le norme sono state ottenute sull’intera popolazione, la percentuale dei
DSA non potrà mai superare il 5%. Si tratta di dati impressionanti, perché
se si esce dalla fredda visione statistica e si entra in una classe, questo
significa che è difficile non trovare un bambino dislessico e molto facile
trovarne più d’uno. I Disturbi specifici dell’apprendimento sono nettamente
più frequenti nei maschi che nelle femmine. Inoltre, vi è una notevole
concordanza tra i dati dei ricercatori e l’esperienza dei clinici e degli
educatori nel rilevare un significativo aumento di questi disturbi negli
ultimi anni. Non vi è, invece, accordo sul significato da attribuire a questo
aumento (Hallahan, 1992). Alcuni sostengono che vada ricercato in
modalità educative inadeguate e in un sistema scolastico che, prima si è
sforzato di accettare tutti i bambini, poi non è riuscito a mettere a punto
strategie calibrate sulle diverse esigenze di questi allievi. Al contrario, altri
sostengono che, piuttosto che un vero aumento di casi di Disturbi
dell’apprendimento, assistiamo oggi a una maggiore attenzione per queste
difficoltà e quindi, in realtà, a un rilevamento diagnostico più accurato su
bambini che in passato venivano trascurati.
D’altra parte, il problema dell’eziologia dei Disturbi specifici
dell’apprendimento in genere e del Disturbo specifico dell’apprendimento
con compromissione della lettura in particolare, è tutt’altro che chiarito
dalla ricerca (Hooper e Willis, 1989; Adelmann, 1992; Heaton e Winterton,
1996; Pumfrey, 1996; Braga, 2001; Galaburda, Sherman, Rosen, Aboitiz e
Gaschwind, 1985). Dopo un periodo in cui si attribuiva un’importanza oggi
sicuramente considerata eccessiva ai fattori emozionali e alla cattiva
relazione tra il bambino e le figure di accudimento (e questa, come vedremo
più avanti, non è la sola analogia tra i Disturbi specifici dell’apprendimento
e i Disturbi dello spettro dell’autismo!), oggi si tende a sottolineare
l’influenza di fattori diversi, che probabilmente interagiscono tra loro nel
favorire l’insorgenza del disturbo. Tra questi fattori, i più frequentemente
messi in luce sono: condizioni medico-biologiche non ben determinate
come anomalie cromosomiche o comunque fattori genetici predisponenti
(quest’ultima ipotesi è corroborata dall’osservazione della netta prevalenza
dei maschi sulle femmine per questi disturbi), encefaliti, alcune forme di
meningite, prematurità e, in genere, sofferenze prenatali e perinatali e
imperfetto sviluppo neurologico; familiarità; problemi psicologici e sociali
nei genitori; povertà, basso livello sociale e culturale; bassa qualità
dell’accudimento; bassa qualità dell’educazione; problemi motivazionali ed
emotivi del bambino. Tuttavia, è necessario ripetere che questo elenco
rappresenta solo una serie di ipotesi circa possibili fattori predisponenti. Ad
oggi l’eziologia dei DSA non è completamente nota, anche se gli studiosi
sembrano sempre più concordi nel considerare l’influenza dei fattori
genetici e l’importanza dei fattori ambientali nel condizionare l’espressione
di questo disturbo (Peterson, McGrath, Smith e Pennington, 2007). La
ricerca non ha prodotto in questo campo certezze del tipo causa-effetto e,
d’altra parte, sul piano clinico, l’esempio di Andrea è illuminante sul fatto
che spesso si trovano bambini con Disturbi specifici dell’apprendimento
anche piuttosto gravi che non sembrano avere alle spalle nessuno di questi
fattori causali ipotizzati.
Contrariamente a quanto abbiamo notato nel caso di Andrea, che
rappresenta un esempio tipico e relativamente semplice di Disturbo
specifico dell’apprendimento con compromissione della lettura, queste
patologie sono a volte complicate dalla presenza di problemi emozionali e
comportamentali di vario tipo. La ricerca ha più volte messo in luce la
presenza di comorbilità tra i Disturbi specifici dell’apprendimento e i
Disturbi del comportamento (in particolare, il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività,7 ma anche il Disturbo oppositivo provocatorio e il
Disturbo della condotta)8 e depressivo (in particolare, il Disturbo depressivo
maggiore9 e il Disturbo depressivo persistente10), con conseguenti rischi
anche gravi di disadattamento e di abbandono scolastico (Bernabei,
Mazzoncini e Levi, 1991; Lorusso,1991; Henderson, Barnett e Henderson,
1994).
Sono stati, inoltre, evidenziati alcuni interessanti problemi di diagnosi
differenziale (Rapaport e Ismond, 2000).
Prima di tutto, come abbiamo già visto, qualche difficoltà di diagnosi si
può verificare in presenza di patologie più gravi e presumibilmente
responsabili anche delle difficoltà di apprendimento, come la Disabilità
intellettiva o deficit sensoriali.
In secondo luogo, è stata sottolineata la necessità di una particolare
cautela nella diagnosi di questi disturbi in presenza di bambini che si
trovino in condizioni di grave svantaggio ambientale, sociale, culturale ed
educativo. In questi casi, la domanda da porsi è: le difficoltà di
apprendimento sono in qualche modo primarie oppure possono essere
spiegate dal solo fatto che il bambino non è stato educato e seguito in modo
opportuno? Come vedremo nel prossimo paragrafo, questa domanda non ha
solo un valore teorico, perché a seconda della risposta che diamo possono
cambiare le strategie di intervento.
Infine, esiste, almeno in teoria, un problema di diagnosi differenziale con
i Disturbi dello spettro dell’autismo, non solo nel senso che in alcune forme
attenuate di quello che nel capitolo precedente ho chiamato lo “spettro
autistico” può essere necessaria una certa cautela per distinguere la
patologia, ma anche perché alcuni studiosi hanno tentato di tracciare una
linea di continuità tra i Disturbi dello spettro dell’autismo e i Disturbi
specifici dell’apprendimento (Klin, De Antonio, McCracken, Forness e
Ackerland, 1994; Cox e Mesibov, 1998). Infatti, sono state riconosciute
interessanti analogie tra queste categorie di disturbi per quanto riguarda i
deficit cognitivi, di comunicazione, sociali e interpersonali e la discrepanza
fra diverse aree di apprendimento e di abilità specifiche. Inoltre il Disturbo
specifico dell’apprendimento deve essere differenziato dalle scarse
prestazioni scolastiche dovute al Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (DDAI) perché in questo caso i problemi potrebbero
riflettere la generale difficoltà nel mettere in atto le abilità piuttosto che
specifiche difficoltà di apprendimento. Se dovessero risultare soddisfatti i
criteri per entrambi i disturbi è comunque corretto porre entrambe le
diagnosi.
Ma, più analiticamente, che cos’hanno questi bambini che non funziona
e che rende deficitario il loro apprendimento? La prima risposta della
ricerca a questa domanda cruciale è stata: sono carenti nello sviluppo
cognitivo generale. Questo non significava necessariamente “meno
intelligenti”, ma, per esempio in un’ottica piagetiana, poteva significare
“intelligenti in modo diverso”. Questo modello esplicativo è stato talvolta
chiamato, proprio in senso piagetiano, “genetico”, a indicare che i bambini
con difficoltà di apprendimento possono essere fermi a particolari stadi di
sviluppo che dovrebbero invece essere già stati superati (Kirbi e Biggs,
1980; Tressoldi e Cornoldi, 1991).
Lo studio sulle correlazioni tra deficit specifici e difficoltà nei processi di
decodifica ha permesso anche di individuare sottotipi diversi di difficoltà,
secondo il modello di acquisizione della lettura detto “a due vie” (Frith,
1980; Sartori, 1984; Tressoldi e Cornoldi, 2007). Il modello prevede che la
lettura possa essere acquisita attraverso una via fonologica, o percettiva, o
indiretta: si parte con l’analisi fonologica, l’associazione grafema-fonema e
la fusione, si arriva alla decodifica e, infine, all’acquisizione del significato.
Nello sviluppo normale, il bambino utilizza di solito questa via per prima.
Quando l’acquisizione della lettura è deficitaria ed è privilegiata questa via
(tipica dell’emisfero destro), si parla di dislessia P e la si può riconoscere
per la lentezza e il numero di errori relativamente basso e per la difficoltà
specifica con le parole omofone non omografe. La riabilitazione privilegerà
l’emisfero sinistro attraverso la presentazione nell’emicampo destro.
Esistono moltissimi software abilitativi costruiti a questo scopo: solo a
titolo esemplificativo cito Vocabolacquario di Anastasis (www.anastasis.it).
La seconda possibile via di acquisizione della lettura è invece quella
lessicale, detta anche “diretta”: si parte dall’accesso diretto al significato
della parola attraverso un’analisi visiva globale. Nello sviluppo normale, il
bambino utilizza di solito questa via dopo quella fonologica. Quando
l’acquisizione della lettura è deficitaria ed è privilegiata questa via (tipica
dell’emisfero sinistro), si parla di dislessia L e la si può riconoscere per la
relativa velocità di lettura e l’alto numero di errori e per la difficoltà
specifica con le non-parole. In questo secondo caso, i bambini danno spesso
l’impressione di “tirare a indovinare” piuttosto che leggere (Bakker e
Vinke, 1985; Lorusso e Milani, 2008). La riabilitazione privilegerà
l’emisfero sinistro attraverso la presentazione nell’emicampo destro.
Sempre e solo a titolo esemplificativo, tra i moltissimi software (per lo più
editi in Italia da Anastasis) cito Tiro al bersaglio. Esiste anche una dislessia
M (mista) con caratteristiche sia della P che della L.
Si può fare un ragionamento analogo se si considerano le difficoltà
specifiche di sviluppo. In questo caso, possiamo distinguere un Disturbo
della lettura detto “fonologico” (Lundberg, 1994; Solity, 1996),
probabilmente determinato da problemi nello sviluppo dello stadio
alfabetico, dove le maggiori difficoltà sono nella lettura di non-parole, e un
disturbo detto “morfologi-co-lessicale” o “superficiale”, determinato
probabilmente da problemi nello sviluppo dello stadio ortografico e
lessicale, dove le maggiori difficoltà si riscontrano nella lettura di parole
irregolari e di parole omofone. Sono state, infine, evidenziate forme miste
di Disturbo della lettura nelle quali sono presenti entrambe le difficoltà
(Seymour, 1987).
Questa attenzione della ricerca a fattori cognitivi specifici e a specifiche
disabilità ha permesso anche lo sviluppo di un ulteriore filone di studio
basato sulla metacognizione (Cornoldi, 2006; Borkowski e
Muthukrishna, 2011). La metacognizione, che può essere qui definita come
la capacità di riflettere sui propri processi di pensiero, riveste una
particolare importanza nella comprensione del testo (De Beni e Pazzaglia,
1991). È stato, infatti, messo in luce come spesso le difficoltà di
comprensione derivino da una scarsa consapevolezza, da parte di alcuni
bambini, sugli scopi della lettura. Si dice allora che questi bambini hanno
scarsa sensibilità metacognitiva perché non si rendono conto che, quando si
legge, la cosa più importante da fare è quasi sempre capire quello che si sta
leggendo. A un lettore esperto questa osservazione può sembrare banale,
ma non lo è per molti piccoli lettori, e in particolare per lettori con Disturbo
specifico dell’apprendimento. Un aspetto paradossale, che la ricerca ha
evidenziato e che si è rivelato carico di conseguenze a livello terapeutico e
riabilitativo, è che spesso proprio i programmi riabilitativi eccessivamente
centrati sugli aspetti tecnici della decodifica sono responsabili di uno scarso
sviluppo di sensibilità metacognitiva. Proviamo a immaginare cosa succede
a un bambino normodotato senza Disturbi dell’apprendimento. A sei anni
va a scuola. Tra settembre e ottobre impara la corrispondenza grafema-
fonema. A novembre impara la fusione dei fonemi e a Natale sa leggere.
Naturalmente sto semplificando molto, ma il senso del discorso è che
quando il processo di decodifica scatta senza particolari difficoltà, poi il
bambino ha davanti a sé anni di lavoro per impadronirsi del significato dei
testi che via via, a scuola, gli saranno proposti. Non sarà dunque difficile,
per lui, capire qual è il vero scopo della lettura. Se poi quel bambino è stato
tanto fortunato da aver avuto, nei suoi primi anni di vita, una nonna o un
papà che gli leggevano le favole, ha sviluppato una sensibilità
metacognitiva sugli scopi della lettura persino prima di imparare a leggere.
Niente di strano se già a Pasqua della prima classe della scuola primaria è
capace di comprendere qualche testo. Sfortunatamente, il caso del bambino
con un Disturbo specifico dell’apprendimento con compromissione della
lettura può essere molto diverso. Può darsi che quel bambino impieghi un
anno di tempo, fatica e riabilitazione per imparare la corrispondenza
grafema-fonema. Può darsi che un altro anno passi per impratichirsi sulla
fusione dei suoni. A questo punto, tutti gli sforzi degli insegnanti e dei
riabilitatori saranno nella direzione di insegnargli a essere sempre più
veloce e sempre più corretto. Non c’è da meravigliarsi se poi questo
bambino cresce con l’idea che la lettura (oltre a essere un’attività
terribilmente noiosa e difficile) consista essenzialmente in un processo
meccanico di decodifica nel quale tutti gli sforzi sono diretti a cercare di
correre e sbagliare poco. E la comprensione? Quel bambino l’ha persa
lungo la strada. In questo esempio, naturalmente estremo, non solo nessuno
gliel’avrebbe insegnata, ma se anche un po’ di consapevolezza
metacognitiva fosse stata presente, tutti quegli sforzi riabilitativi centrati
sulla decodifica l’avrebbero certamente cancellata dalla sua mente. La
ricerca ha messo, peraltro, in luce che la sensibilità sugli scopi della lettura
non è la sola abilità metacognitiva deficitaria in molti bambini con questi
disturbi. Spesso risulta carente anche la consapevolezza che testi diversi, in
quanto hanno scopi diversi, andrebbero letti in modo diverso (si pensi a un
racconto, o a un elenco del telefono, o a un libro di storia, o a un
vocabolario, o a un problema di matematica), e che la comprensione di
queste differenze potrebbe essere favorita da indizi che si trovano al di fuori
del testo come il titolo, le immagini e le didascalie (De Beni e Pazzaglia,
1991; Meloni et al., 2005). Connessa in qualche modo con questa sensibilità
metacognitiva al testo è la capacità di costruire narrazioni, o racconti, o più
in generale storie con un senso compiuto: sembra evidente che più è
sviluppata nel bambino questa capacità, più gli sarà facile comprendere
molti testi scritti almeno di carattere narrativo (Nathanson, Crank, Saywitz
e Ruegg, 2007). In Italia la sperimentazione controllata con i principali
programmi metacognitivi esistenti – in particolare “Memoria e
metacognizione” (Cornoldi e Caponi, 1991), “Lettura e metacognizione”
(De Beni e Pazzaglia, 1991b), “Matematica e metacognizione” (Cornoldi et
al., 1995) – ha messo in evidenza che si possono ottenere importanti
risultati sul piano della maturazione cognitiva e degli stessi apprendimenti
scolastici.

pag. 26

Un ultimo, interessante, filone di ricerca è quello dei rapporti tra disturbi


emozionali-motivazionali e Disturbi specifici dell’apprendimento
(Hellgren, Gillberg, Bahenhom e Gillberg, 1994). In passato a questo
rapporto è stata data probabilmente troppa importanza e ancora oggi è
piuttosto frequente (e un po’ sconfortante) leggere in alcune diagnosi di
bambini, per esempio con Disturbo specifico dell’apprendimento con
compromissione della lettura: “Gli apprendimenti scolastici non sono
sufficientemente investiti”. A volte, di fronte a queste diagnosi, mi chiedo:
che cosa vorrà dire? Che la “libido”, invece che sulla lettura, è andata a
indirizzarsi da qualche altra parte? Certo Andrea, per esempio, dopo tutto
quello che ha passato, dopo le frustrazioni e gli insuccessi che la lettura gli
ha provocato, ora non ha tanta voglia di trascorrere il suo tempo a leggere.
Se vogliamo esprimere questa banalità con l’espressione più pomposa “la
lettura non è sufficientemente investita”, per me va anche bene. Basta
intendersi. L’importante è non scambiare, come invece spesso succede, la
causa con l’effetto. Dicevo che, almeno in passato, c’è stato certamente un
eccesso di enfasi sui disturbi emozionali come causa delle difficoltà
scolastiche, mentre oggi sappiamo che queste difficoltà possono avere
molte, diverse concause. Ciò che resta vero ed empiricamente validato,
invece, è che spesso i Disturbi specifici dell’apprendimento si trovano
associati ad altre problematiche psicologiche. Queste problematiche,
talvolta, possono anche essere ipotizzate come causa, o almeno concausa, di
difficoltà di apprendimento. È il caso, per esempio, di alcuni Disturbi del
comportamento (in particolare, il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività) e di alcuni Disturbi depressivi (in particolare, il
Disturbo depressivo maggiore). In questi casi, come abbiamo già osservato,
può manifestarsi una vera e propria comorbilità. I ragazzi con Disturbi
specifici dell’apprendimento rischiano di essere più depressi dei loro
coetanei: tra i bambini e adolescenti con DSA l’incidenza dei disturbi
depressivi e dei Disturbi d’ansia è fino al 25-35% rispetto al 10% della
popolazione normale (Strepparava e Iacchia, 2012). Può anche darsi, però,
che la sola diagnosi, per esempio, di Disturbo depressivo, giustifichi le
difficoltà scolastiche di un bambino che ha la testa da un’altra parte e non
ha nessuna intenzione di dedicarsi allo studio con la necessaria
applicazione. In questi casi, tra l’altro, bisogna anche domandarsi se la
diagnosi di Disturbo specifico dell’apprendimento sia appropriata o se non
sia meglio considerare le difficoltà scolastiche come una delle conseguenze
del disturbo principale.
Molto spesso, comunque, come abbiamo visto, il Disturbo specifico
dell’apprendimento è in qualche modo primario e allora si possono
rintracciare problemi emotivi o motivazionali che sono, per lo più, l’effetto
della difficoltà di apprendimento. La storia di Andrea è emblematica a
questo proposito. Prima di tutto Andrea ha avuto un Disturbo specifico
dell’apprendimento con compromissione della lettura e poi, su questo, si
sono instaurati problemi di motivazione scolastica, di bassa autostima, di
scarsa autoefficacia, di inadeguati stili di attribuzione. Su questi aspetti la
ricerca degli ultimi anni ha concentrato la sua attenzione, per mostrare che i
bambini con Disturbo specifico dell’apprendimento sviluppano spesso una
cattiva immagine di sé, perdono la fiducia nelle loro possibilità di
miglioramento, finiscono per credere che non ci siano soluzioni ai loro
problemi, e questo può poi produrre comportamenti poco orientati al
cambiamento. Se questi bambini sviluppano pensieri del tipo “qualunque
cosa faccia io resto un cattivo lettore”, si comporteranno anche di
conseguenza e non cercheranno neppure di darsi da fare per affrontare e
almeno cercare di risolvere il problema.
Tutto questo apparirà più chiaro appena affronteremo, nel prossimo
paragrafo, il tema degli strumenti psicoterapeutici.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-


RIABILITATIVO
Credo che, prima di tutto, occorra intervenire attraverso il rinforzamento
in tutte le sue forme (Celi e Fontana, 2007).

pag. 13

Potrei spingere questa convinzione fino a farla diventare una regola


generale, valida per ogni capitolo di questo libro e per ogni patologia, ma
certamente i Disturbi specifici dell’apprendimento si prestano
particolarmente bene a ribadire tale fondamentale necessità: i nostri pazienti
devono essere gratificati. Devono essere gratificati per i loro progressi, a
volte anche per quelli parziali o minimi, altre volte anche solo per i loro
tentativi. E il rinforzamento non può limitarsi al bambino. Hanno spesso
bisogno di essere rinforzati il papà, la mamma, gli insegnanti, l’educatrice
volontaria che, solo per fare un esempio, lavora con Andrea di
pomeriggio…
Ricordo una delle prime sedute con Andrea dopo che avevamo iniziato
un programma di intervento che lui svolgeva in parte da solo a casa, dopo i
compiti. Era visibilmente di cattivo umore. Quasi non parlava e rispondeva
a monosillabi alle mie domande, cosa particolarmente strana per un
bambino loquace e, fino a quel momento, aperto alla relazione con me. Era
evidente che non aveva voglia di lavorare. Magari non arrivava a rifiutare
attivamente gli esercizi che gli proponevo, ma opponeva una resistenza
passiva, attraverso un comportamento svogliato, dove la demotivazione
sembrava a tratti sconfinare con un umore francamente depresso. Ho
lasciato perdere con gli esercizi e ho cercato di lasciarlo libero di dire e fare
quello che preferiva. A un certo momento ha aperto lo zaino. Ha tirato fuori
il diario e, senza dire una parola, me lo ha mostrato, già aperto alla pagina
del giorno avanti. C’era scritto: “Anche oggi, come al solito, Andrea ha
letto in modo molto scorretto e stentato. Dovrebbe esercitarsi di più a
casa!!!”. Peccato che non possa riprodurre qui il colore rosso con il quale la
maestra aveva scritto la nota e i punti esclamativi.
Abbiamo appena parlato, da un punto di vista teorico, di motivazione,
autostima , autoefficacia, stile di attribuzione , ed ecco che subito
siamo in grado, nella pratica, di comprendere che cosa può produrre un
disturbo della lettura associato a un inadeguato uso del rinforzamento. Che
cosa è successo ad Andrea dopo un’esperienza di questo genere? È
diminuita ancora un po’ la sua voglia di leggere, già certamente non molto
alta. È diminuita anche la fiducia nelle sue capacità, almeno quelle
scolastiche. Il bambino si è convinto che ha scarse possibilità di migliorare
e che, comunque, il miglioramento non dipende da lui, dal suo impegno nel
seguire il programma che abbiamo concordato insieme: lui, infatti, ci aveva
provato, ma non è servito a nulla e ha preso l’ennesima nota negativa dalla
maestra.

pag. 56

pag. 540

Un corretto uso del rinforzamento consiste, essenzialmente, nel fare il


contrario di quello che abbiamo visto in questo esempio. Un corretto uso
del rinforzamento tiene sempre conto della metodologia del modellaggio
: è graduale e progressivo e sottolinea gli aspetti salienti, significativi e
positivi della prestazione. Nella situazione concreta che abbiamo appena
visto, certamente Andrea non avrà letto in modo esemplare, ma non era
quello il punto che andava valutato. Se la maestra aspetta da Andrea una
lettura perfetta prima di rinforzarlo, non lo rinforzerà mai. E, se non lo
rinforzerà mai, l’autostima scolastica del bambino continuerà a scendere.
Questo è esattamente quello che stava succedendo ad Andrea: quando gli
somministrai il TMA,11 trovai che il bambino aveva un’autostima
sostanzialmente adeguata, con punte significativamente alte nelle aree
relative alla prestanza fisica, alla capacità di fare amicizia e al ruolo svolto
all’interno della famiglia, e poi una gravissima caduta dell’autostima
scolastica. Un corretto uso del rinforzamento evita, almeno in gran parte,
questi problemi: ci si informa su che cosa sta facendo il bambino per
migliorare, lo si gratifica per questi sforzi, gli si fa leggere un brano di
difficoltà e lunghezza adeguati alle sue attuali possibilità, si confronta la
prestazione non con quella media della classe o, peggio, con le nostre
aspettative, ma con la prestazione di Andrea di un mese o una settimana
prima, e si gratificano con particolare enfasi gli eventuali, anche piccoli
progressi rispetto al passato.

pag. 6

A questo punto può porsi un bel problema pratico. Come si dovrà


comportare lo psicologo che ha in carico Andrea dopo l’episodio piuttosto
triste che ho appena raccontato? Prenderà in mano il telefono e chiamerà la
maestra per rimproverarla? Naturalmente no. La teoria generale del
modellaggio non si applica soltanto ai bambini, ma anche a tutte le figure
significative che gli stanno intorno. Allora lo psicologo attento cercherà di
far parlare Andrea su che cosa pensa di questa nota, su che cosa ha pensato
appena l’ha ricevuta, sulle emozioni che la nota gli ha provocato, sulle
reazioni che ha provocato a casa. Poi cercherà di sminuirne l’importanza
negativa. Quindi, necessariamente, parlerà anche con la maestra. Ricordo il
pomeriggio in cui la ricevetti nel mio studio, dopo che l’avevo chiamata per
chiederle un incontro. La ringraziai per essere venuta, la lasciai parlare di
Andrea approvando le cose secondo me condivisibili che diceva su di lui,
discutemmo sui programmi svolti e su quelli da svolgere con il bambino
cercando di non perdere occasione per sottolineare positivamente tutte le
azioni della maestra che a me sembravano corrette e utili per Andrea. In
altre parole la rinforzavo. Qualcuno potrebbe obiettare: “Si era comportata
malissimo e tu la rinforzavi?”. Rispondo: io non rinforzavo il suo
comportamento sbagliato, rinforzavo la sua collaborazione, i suoi sforzi e i
tentativi che mi sembravano corretti. Rispondo anche: quale messaggio
avrei dato se avessi cercato di correggere i suoi comportamenti punitivi con
un mio comportamento punitivo nei suoi confronti? Che risultato avrei
ottenuto con questo? Probabilmente non sarebbe più venuta a colloquio da
me.
Invece, ho cercato di comportarmi con lei come pensavo fosse utile che
lei si comportasse con il suo allievo. Rinforzamento, modellamento,
modellaggio e infine, naturalmente, rinforzamento differenziale .
Solo quando ormai la relazione è sufficientemente consolidata e i
comportamenti collaborativi sono sufficientemente stabili, bisogna dire che,
oltre alle molte cose che vanno bene, ce ne sono altre che vanno male.
Allora, ma solo allora, affronto l’argomento di quella brutta nota negativa.
Ci ragioniamo insieme. Riconosco senza difficoltà il fatto che si tratta di un
errore spiegabile, date le circostanze, perché sicuramente Andrea legge
male e fa scappare la pazienza (però, intanto, suggerisco che si tratta
comunque di un errore). Poi discutiamo dei possibili effetti negativi che
errori di questo genere, se si ripetessero troppo spesso, potrebbero avere sul
bambino. Infine valutiamo le possibili alternative: che cosa si può fare
quando si ripresenteranno casi analoghi? Beh, lo si può intanto gratificare
perché sta facendo gli esercizi, si possono sottolineare i piccoli
miglioramenti…

pag. 6

pag. 69

Nel Disturbo della lettura il rinforzamento può assumere anche un


aspetto più tecnico, attraverso forme di rinforzamento informativo (o
feedback). Questo tipo di rinforzamento consiste nell’erogazione, per
quanto possibile precisa e immediata, di un’informazione relativa al
risultato di un certo comportamento. Un esempio banale ma efficace di
rinforzamento informativo è lo specchio che, pur limitandosi a riflettere il
risultato di un nostro comportamento motorio senza erogare nessun altro
rinforzatore, è in grado di migliorare notevolmente molte nostre prestazioni.
Nel Disturbo della lettura il feedback può essere facilmente usato,
soprattutto per aumentare la rapidità in caso di lettura particolarmente lenta
e per diminuire il numero di errori in caso di lettura particolarmente
scorretta (Celi e Pedrabissi, 1982; Tognoni e Celi, 1999). Il metodo
consiste, essenzialmente, nel far leggere al bambino un brano adeguato alle
sue difficoltà, annotando il tempo impiegato e il numero di errori commessi
e comunicando questi dati al bambino subito dopo la prestazione. Si può poi
decidere, a seconda dei casi, di far leggere di nuovo lo stesso brano più di
una volta ripetendo la medesima procedura, oppure di cambiare brano. In
ogni caso, si faranno notare al bambino i suoi eventuali progressi in termini
sia di correttezza (per es., “Perbacco, sei stato proprio bravo, prima hai fatto
9 errori, ora soltanto 6!”) sia di velocità (per es., “Bravissimo! Questa volta
hai letto tutto il brano in 1 minuto e mezzo, mentre prima ne avevi
impiegati quasi 2”).
Il rinforzatore informativo, cioè la comunicazione dei risultati della
prestazione, può essere riportato su un grafico, per esempio su un
istogramma, che è bene che il bambino abbia sempre sott’occhio di seduta
in seduta, in modo da cominciare a imparare a valutare anche da solo i suoi
eventuali progressi. Sebbene, infatti, questa procedura, così descritta, appaia
tipicamente e rigidamente comportamentale, l’esperienza clinica ci insegna
che spesso il bambino acquisisce un diverso stile cognitivo. Comincia, per
esempio, a rendersi conto che le sue abilità di lettura dipendono, almeno in
parte, dall’impegno che mette nel fare esercizi.
Questa sensibilità, che alla lunga può arrivare a trasformare lo stile di
attribuzione , può essere ottenuta più facilmente integrando la procedura
del rinforzamento informativo con strategie cognitive esplicite. Si può, per
esempio, insegnare al bambino ad autovalutare e ad autorinforzare la sua
prestazione. Si può lavorare, durante queste sedute, sul concetto di
allenamento. Con Andrea la cosa fu particolarmente facile perché era uno
sportivo e capiva bene il significato di questo termine. Cercavo allora di
farlo riflettere sul fatto che, da questo punto di vista, tennis e lettura non
erano attività tanto differenti e che i risultati dipendevano anche dalla
quantità e dalla qualità dell’allenamento. Credo che questo sia uno dei tanti,
interessanti casi in cui le metodologie di intervento comportamentali e
cognitive, ben lungi da essere le une contrapposte alle altre, si possono
integrare facilmente e in questo modo potenziarsi a vicenda. Andrea trovava
anche molto divertente cronometrare da solo la sua velocità di lettura e
scoprire che, brano dopo brano, questa diminuiva esattamente come gli
succedeva con i 100 metri quando faceva preparazione atletica. È evidente
che esperienze di questo genere tendono a modificare positivamente lo stile
di attribuzione e l’autoefficacia (“La mia abilità di lettura, almeno in parte,
dipende da me”, “Se voglio, posso migliorare”). Anche l’autostima, in
questo caso scolastica, ne trarrà importanti benefici.

pag. 540

Il metodo per il lavoro sulla correttezza e quello per il lavoro sulla


rapidità sono molto simili e per questo motivo li ho descritti insieme. In
pratica, tuttavia, è di solito preferibile lavorare separatamente su questi due
obiettivi, sia per non creare troppa confusione sul bambino, sia per evitare
che un aumento di rapidità porti a un aumento di errori o che una
diminuzione di errori porti a una diminuzione della rapidità. In questo
modo, tra l’altro, è anche possibile tenere meglio sotto controllo l’efficacia
del trattamento attraverso metodologie sperimentali a linea di base
multipla.12 È inoltre molto importante, se lo psicologo svolge questo lavoro
in studio con il bambino, che i suoi insegnanti siano per lo meno avvertiti,
in modo da assumere comportamenti rinforzanti anche dei piccoli progressi,
come abbiamo visto in precedenza. Risulta spesso un’ottima strategia
cercare di trasferire direttamente agli insegnanti queste metodologie perché,
nei limiti del possibile, le utilizzino direttamente con l’allievo in classe, in
modo da consolidare le abilità così acquisite e favorire la generalizzazione
. Sono numerosi i testi e i manuali dal forte carattere pragmatico e
operativo che si rivolgono direttamente agli insegnanti (Meloni, Sponza,
Kvilekval, Valente e Bellantone, 2002), a sottolineare come oggi sia forte la
tendenza a favorire interventi sul campo, realizzati cioè nel contesto
scolastico piuttosto che in ambienti artificiali come lo studio di uno
specialista. Infine, questi metodi di rinforzamento informativo possono
essere affiancati a procedure che prevedano di fonoregistrare la prestazione
del bambino e di riascoltarla insieme a lui, sempre sottolineando i progressi
verificatisi di seduta in seduta.

pag. 41

Abbiamo ragionato fin qui, a proposito del trattamento del Disturbo della
lettura, in termini di lavoro globale sulla prestazione: il bambino sa leggere,
ma legge male e allora noi cerchiamo, genericamente, di migliorare le sue
abilità. In una direzione diversa si muovono i metodi cosiddetti di “training
centrato sul deficit” (Cornoldi, Miato, Molin e Poli, 1986). Questi metodi
partono dai lavori teorici che cercano di indagare i processi cognitivi
sottostanti alle difficoltà di lettura e che abbiamo visto nel precedente
paragrafo, e lavorano quindi attraverso l’individuazione dei processi carenti
e la riabilitazione specifica di questi processi (Berton, Lorenzi, Lugli e
Valenti, 2006). Per esempio: un bambino ha difficoltà di discriminazione
visiva? La terapia consisterà allora in un addestramento sulle capacità di
discriminazione visiva. In modo analogo si può procedere, quando
l’assessment ci mostra dove sono le particolari carenze, lavorando sulla
corrispondenza grafema-fonema, oppure sulla fusione fonemica, o sulla
ricerca visiva di lettere, o sulla ricerca visiva di sillabe, o sull’analisi e la
sintesi dei fonemi, o sul riconoscimento rapido di parole isolate, o sulla
ricostruzione di una frase. Una recente ricerca ha messo in luce l’efficacia
di un trattamento integrato per la riabilitazione del modulo della lettura che
prevede la stimolazione dello specifico sistema deteriorato e un intervento
sulle componenti attentive. In particolare, si è sottolineato come il
potenziamento delle risorse attentive rinforzi il sistema che diventa più
adeguato a modularizzare il processo di lettura (Benso, Berriolo, Marinelli,
Guidi, Conti e Francescangeli, 2008).
Un lavoro così analitico è facilitato dall’uso di apposite analisi del
compito e curricola, che suddividono la complessa abilità della lettura in
elementi semplici, obiettivi specifici e sotto-obiettivi semplificati
(Ferraboschi e Meini, 1993). In questo modo è possibile ottenere risultati
interessanti anche con bambini particolarmente difficili (Perini, Lo Presti e
Notarbartolo, 1984; Celi, Alberti e Laganà, 1986).

pag. 83

Ai metodi dell’analisi del compito possono essere affiancati programmi


particolari denominati di apprendimento senza errori (Celi, 1990;
Lancioni, 1992; Perini, 1997), che consistono nel presentare al bambino gli
obiettivi di un compito semplificati attraverso l’uso di un aiuto molto forte,
che di fatto gli impedisca di sbagliare. Per esempio, in un compito di
discriminazione del fonema iniziale, le parole CANE e PANE possono
essere presentate trasformando la C nel disegno di un cagnolino, in modo da
rendere particolarmente facile la discriminazione. Le procedure di
apprendimento senza errori prevedono, naturalmente, una fase di
attenuazione, da mettere in atto non appena il bambino mostri di essere in
grado di superare la difficoltà. Allora, nell’esempio appena fatto, quando il
bambino riesce a eseguire correttamente la discriminazione, il disegno del
cane viene fatto sfumare lentamente per lasciare il posto, in modo graduale,
alla lettera C. Queste tecniche permettono, tra l’altro, di rinforzare
sistematicamente il bambino anche nelle prime fasi di un apprendimento
particolarmente difficile, perché l’aiuto grafico riduce al minimo la
probabilità di errore e massimizza la probabilità di risposta corretta che può
così essere rinforzata, con notevole vantaggio sulla motivazione e
sull’autostima del bambino.
pag. 30

Alcuni lavori italiani in questo campo sembrano tuttavia concordare sul


fatto che i trattamenti più efficaci sono quelli che puntano
all’automatizzazione del processo di lettura (Allamandri et al., 2007;
Tressoldi, Iozzino e Vio, 2007; Tretti e Vio, 2011).
Abbiamo tanto parlato dell’importanza del rinforzamento nei pazienti
che presentano DSA e allora diventa indispensabile ricordare che un essere
umano spesso fatica a rinforzare in modo preciso e sistematico quanto
sarebbe necessario. Vuoi perché l’uomo, che è fatto anche di emozioni, ha
spesso degli slittamenti in alto delle aspettative, vuoi perché non è facile
registrare tutte le risposte fornite e ricordarsi di dare feedback precisi e al
momento giusto. I computer, invece, sono macchine, e se programmati in
questo senso riescono a gestire questi aspetti in modo molto puntuale. Ecco
allora che l’informatica diventa una grande alleata nell’abilitazione dei
DSA. Non dimentichiamo poi che i software didattici tendono a essere visti
come più piacevoli e motivanti rispetto ad attività similari proposte in modo
tradizionale, quali per esempio compiti da eseguire con carta e matita.
Così, per esempio, per favorire lo sviluppo della consapevolezza
fonologica, prerequisito all’apprendimento della letto-scrittura (Stella e
Grandi, 2011), è possibile utilizzare software come “Lettura di base 1”
(Andrich e Miato, 2002) o “Suono o sono?” (Orsolini, Capriolo e Santese,
2005). Quest’ultimo include anche un test di valutazione delle abilità
metafonologiche di partenza. Se il problema non è la consapevolezza
fonologica, ma vengono registrate difficoltà a carico del sistema visivo,
problema frequente nei DSA (Lorusso, 2004), si possono utilizzare software
come “Occhio alla lettera” (Vio e Moresco, 2006) oppure “Lettura di base
2” (Andrich e Miato, 2002), gemello del precedente “Lettura di base 1”.
Una volta acquisite la consapevolezza fonologica e adeguate capacità
visuo-percettive di riconoscimento dei grafemi, si dovrebbe attivare la fase
fonologica (Vio e Toso, 2012) che può essere favorita da training di tipo
sublessicale. In questo caso il lavoro viene concentrato
sull’automatizzazione del riconoscimento globale di pezzi di parole, come
le sillabe, abbandonando la strategia di conversione grafema-fonema che
rischia di generare una lettura troppo lenta. I trattamenti sublessicali
permettono di incrementare la rapidità senza compromettere l’accuratezza.
Software che lavorano in questa direzione sono, per esempio, “Dislessia e
trattamento sublessicale” (Cazzaniga, Re, Cornoldi, Poli e Tressoldi, 2007)
e “Win ABC” (De Lorenzo e Tressoldi, 2003).
Un interessante contributo è lo studio di Tressoldi e Vio (2011) che
hanno confrontato i risultati ottenuti sulla velocità di lettura da quattro
categorie di trattamenti: sublessicali, lessicali, balance e neuropsicologici. I
trattamenti sono stati valutati relativamente all’efficacia (cambiamento
rispetto a quello atteso senza interventi specialistici) e all’efficienza
(cambiamento rispetto alle ore di trattamento). I risultati mostrano che i
trattamenti neuropsicologici e sublessicali sembrano essere più efficaci nel
modificare la velocità di lettura; tuttavia sembrerebbero migliori i risultati
sublessicali in quanto, a parità di efficacia, vengono raggiunti con un minor
investimento di tempo.
Software che invece lavorano sulla via lessicale, e quindi puntano al
riconoscimento globale dell’intera parola in modo da velocizzare la
decodifica sono, per esempio, “Il tiro al bersaglio” e “Tachistoscopio”
(entrambi reperibili su www.anastasis.it)
Sappiamo oggi, grazie allo studio e alla ricerca nel campo
dell’abilitazione dei DSA, che è fondamentale garantire ai pazienti sia un
intervento precoce sia una frequenza degli interventi di tipo intensivo,
quotidiano, che difficilmente può essere ottenuto nelle tradizionali forme di
abilitazione svolte solo in studio.
Attraverso piattaforme come Ridinet (www.anastasis.it) è possibile
gestire via internet l’abilitazione a distanza e aumentare la frequenza delle
sessioni di lavoro, che possono così essere svolte anche quotidianamente da
casa incrementando l’efficacia del piano abilitativo. Il clinico può scegliere
il percorso per il proprio paziente, gli esercizi da svolgere, e personalizzare
alcuni parametri come, nel caso del software “Reading trainer” presente
nella piattaforma Ridinet, la velocità di lettura del brano e la percentuale di
accuratezza. Il software fornisce un grafico delle prestazioni svolte sia in
termini di velocità che di accuratezza, che ha l’importante funzione di
feedback informativo. Il professionista, dopo aver scelto gli esercizi da
svolgere, può semplicemente monitorare online i risultati, controllare che
gli esercizi vengano effettivamente svolti, verificare l’eventuale progresso
del bambino ed eventualmente impostare nuovi parametri. Il training
prevede un lavoro di 15 minuti al giorno per tre mesi e consente in
moltissimi casi, spesso indipendentemente dalla presenza di altre
comorbilità, di raggiungere un livello di velocità e di accuratezza che, anche
se inferiore a quello atteso relativamente alla classe frequentata, è
sufficiente per la lettura in autonomia di qualunque testo.
La piattaforma web “ePRO” (Potenziamento e riabilitazione in studio e a
distanza-DSA, www.epro.erickson.it) è un analogo strumento di
riabilitazione/abilitazione a distanza per bambini con DSA e analoghe
difficoltà di apprendimento (Franceschi e Facci, 2013).
Fin qui abbiamo parlato esclusivamente di un lavoro sul processo di
decodifica, lasciando in ombra la comprensione del testo, che può invece
essere il problema principale da affrontare con alcuni bambini con Disturbo
specifico dell’apprendimento con compromissione della lettura. Sulla
comprensione esistono alcune possibili linee di intervento. Si può lavorare
con le tecniche sopra descritte in modo da favorire la rapidità e la
correttezza del processo di decodifica e ottenere, come conseguenza, un
miglioramento della comprensione. Tuttavia questo approccio non dà
sempre i risultati sperati ed è spesso pericoloso per i motivi teorici che
abbiamo visto nel precedente paragrafo: un’enfasi eccessiva sulla
decodifica può addirittura peggiorare la sensibilità metacognitiva di un
bambino in difficoltà, che finirà per trascurare del tutto la comprensione del
testo. In questi casi, la cosa migliore da fare è affrontare il problema
direttamente e lavorare sulla metacognizione, insegnando al bambino che lo
scopo ultimo della lettura è capire il significato di ciò che si sta leggendo;
che leggere è come avere un amico che ti racconta delle cose; che la lettura
serve per divertirsi, per passare il tempo, per essere informati, per studiare e
per imparare cose nuove; che ci sono testi che raccontano una storia e
vanno letti dall’inizio alla fine, mentre altri, che danno informazioni
specifiche, possono essere letti a salti fino a trovare l’informazione
desiderata; che man mano che si legge è importante chiedersi: “Che cosa ho
capito fin qui?” e verificare la comprensione, mettendola anche a confronto
con le cose che già si conoscono e con quello che un libro ci dice al di là
delle parole scritte, con le sue immagini, per esempio, che sono spesso un
aiuto prezioso (De Beni e Pazzaglia, 1991). A tal proposito è del 2006 il
programma “Avviamento alla Metacognizione” (Friso, Palladino e
Cornoldi, 2006) che propone attività metacognitive che si caratterizzano per
una certa elementarietà e semplicità, a differenza di programmi troppo vasti
e impegnativi e quindi difficilmente inseribili dagli insegnanti in una
programmazione già di per sé consistente. All’interno del programma è
anche inserito il questionario “Io e la mia mente” (citato già
precedentemente) per avere un’idea del livello metacognitivo pre- e post-
trattamento. Tale lavoro non aumenta direttamente la capacità di
comprensione, ma predispone cognitivamente il bambino a comprendere.
Naturalmente un lavoro metacognitivo di questo genere può essere
affiancato a programmi di intervento specifici: si possono usare prove di
comprensione alla fine di ogni brano e fornire al bambino un rinforzatore
informativo per metterlo sempre al corrente della sua prestazione. Si
possono utilizzare programmi di automonitoraggio nei quali il bambino
impari a valutare da solo quanto ha capito di un testo (Paris, Cross e Lipson,
1984; De Beni e Pazzaglia, 1991) e programmi di autorinforzamento (vedi
riquadro alla pagina seguente) in cui il bambino impari a trarre
soddisfazione dal fatto che la sua comprensione aumenta. Tutto questo può
essere inserito in un vero e proprio pacchetto cognitivo di autoistruzione
(vedi riquadro alla pagina seguente) nel quale, dopo aver spiegato al
bambino cosa deve fare per aumentare la sua efficacia nella comprensione
del testo, lo si inviti a provare a fare da solo, eventualmente modellando i
comportamenti di autoistruzione e autorinforzamento nelle prima fasi.

pag. 151

Anche per la comprensione, inoltre, è possibile utilizzare strategie simili


a quelle del training centrato sul deficit e dell’analisi del compito che
abbiamo appena visto a proposito di correttezza e rapidità. Il complesso
meccanismo della comprensione può essere, infatti, suddiviso in alcuni
elementi più semplici: decodifica, analisi grammaticale, analisi sintattica e
analisi semantica. Ognuno di questi elementi può diventare oggetto di un
training specifico, anche attraverso l’uso di software costruiti a questo
scopo (Celi e Potenza, 1998; Cornoldi, Lonciari e Paganelli, 1999), senza
tuttavia dimenticare due questioni. La prima è che, nel suo complesso, la
comprensione è in larga misura un processo attivo di costruzione del
significato e che, pertanto, assume importanza fondamentale, nel
trattamento, che il bambino si impossessi dell’uso autonomo di strategie
(Cornoldi, De Beni e Gruppo MT, 1989). Anche in questo caso, tuttavia, si
tratta di un processo graduale come ben esemplifica il “DARA” (Dynamic
Assessment and Remediation Approach), un modello sociocostruttivista che
utilizza il dialogo come strumento di scaffolding (Wood, Bruner e Ross,
1976) per favorire nel soggetto la comprensione relativa alle proprie
modalità di processamento delle informazioni testuali. Anche in questo
caso, in accordo con il principio della gradualità, è prevista la valutazione
continua dei progressi che favorisce l’adattamento delle strategie e il
passaggio a obiettivi più alti (Macrine e Sabbatino, 2008).
La seconda questione da tenere presente è l’importanza del
rinforzamento erogato con attenzione e sistematicità dall’ambiente dove il
bambino vive, senza il quale è difficile ottenere risultati significativi anche
dal punto di vista motivazionale ed emozionale.

AUTOISTRUZIONE – AUTOCONTROLLO –
AUTORINFORZAMENTO
Negli approcci comportamentali classici, l’insegnante o il terapeuta
programmano dall’esterno un percorso: forniscono gli stimoli
adeguati, gli aiuti necessari, i rinforzatori e tutto quello che può
servire per raggiungere un obiettivo. Questo modo di lavorare ha
evidentemente dei vantaggi, primo fra tutti il fatto che l’allievo o il
paziente, sostenuto in questo modo attento e rigoroso, ha maggiori
probabilità di ottenere dei risultati di quanto non avverrebbe se fosse
lasciato solo. Tuttavia, anche lo svantaggio è evidente. I risultati
ottenuti sono legati alla presenza di un aiuto esterno.
L’autoistruzione è una metodologia cognitiva che cerca di superare
questo limite. Si insegna al bambino a spostare il controllo del suo
processo di apprendimento dall’esterno verso l’interno. Gli si insegna,
cioè, a fornirsi da solo le istruzioni necessarie per raggiungere un
obiettivo.
Nel capitolo 8 si può vedere all’opera un programma di
autoistruzione quando Simona impara a darsi le istruzioni necessarie
per eseguire correttamente le addizioni con riporto. L’aspetto più
importante dell’autoistruzione è il dialogo interno: il bambino dice a
se stesso cosa deve fare.
Quando il dialogo interno serve al bambino non tanto per regolare un
suo percorso di apprendimento (come nel caso delle addizioni) quanto
per modificare i suoi comportamenti, allora il metodo prende il nome
di autocontrollo. Per esempio, nel capitolo 11 si può vedere come il
dialogo interno serva per favorire lo sviluppo di comportamenti meno
impulsivi e più meditati: il bambino impara ad agire solo dopo aver
detto a se stesso cosa deve fare. Anche le reazioni d’ansia possono
entro certi limiti essere affrontate con tecniche di autocontrollo:
Eleonora, per esempio, nel capitolo 15, impara a dire a se stessa che
non c’è motivo di aver paura che un calamaro gigante entri di notte
nella sua camera e questo le permette di affrontare un po’ meglio le
situazioni temute.
L’autocontrollo prevede, come abbiamo visto, che il paziente, in un
certo senso, si sostituisca al terapeuta, per esempio nell’erogazione
degli stimoli adatti a raggiungere un certo obiettivo. Tuttavia, è noto
che gli stimoli non sono sufficienti e che qualunque programma
comportamentale prevede anche l’uso dei rinforzatori. Se dunque si
desidera modificare in senso cognitivo un programma di intervento e
spostare il controllo da un agente esterno al paziente stesso, sarà
necessario che il paziente impari non solo a darsi gli stimoli adatti, ma
anche i rinforzatori necessari.
Questo particolare aspetto dell’autocontrollo si chiama
autorinforzamento e se ne può vedere un esempio nel capitolo 17,
dove tento di insegnare ad Alberto a gratificarsi da solo anche per i
piccoli progressi che ottiene nel controllo dei suoi rituali ossessivi.
Sempre nello stesso capitolo è possibile vedere gli stretti legami tra
auto-osservazione e autocontrollo. Alessandra impara a controllare
parzialmente le sue compulsioni per il solo fatto che comincia a tenere
un diario di osservazione su di esse. Probabilmente, in questo caso,
l’osservazione svolge una funzione di feedback, o rinforzamento
informativo. Dal momento che si tratta di un’auto-osservazione,
possiamo dunque parlare di nuovo anche di autorinforzamento.

A tale proposito, anche se ho già avuto modo di affermarlo in questo


paragrafo, preferisco puntualizzare di nuovo in modo esplicito che il
bambino con Disturbo delle lettura (come qualsiasi altro bambino!) non
vive solo nello studio del suo psicologo-psicoterapeuta. Mi capita a volte di
domandarmi, non nascondo con una certa angoscia, cosa diavolo facciano
certi psicoterapeuti che, magari per anni, lavorano con un bambino chiusi
nel loro studio, concedendo con il contagocce e spesso di malavoglia
qualche colloquio ai genitori, e senza mai mettere il piede a scuola, né
parlare (neppure per telefono!) con un insegnante. Alcuni arrivano a
giustificare sul piano teorico questa posizione dicendo che “non vogliono
inquinare il setting”. I metodi che ho descritto finora, invece,
presuppongono un “inquinamento” continuo. Io ho parlato a lungo con la
mamma e il papà di Andrea. Ho spiegato loro cosa cercavo di fare con lui e
ho chiesto che provassero a fare a casa esercizi simili. Tecnicamente, si
direbbe che ho usato metodi di parent training , anche se forse a me
piace di più dire che li ho fatti partecipi dei nostri sforzi (dei miei insieme
ad Andrea), dei nostri obiettivi, delle nostre speranze, mentre loro facevano
partecipe me delle frustrazioni e delle difficoltà che man mano
incontravano. Nei limiti del possibile, ho cercato di fare la stessa cosa con
le maestre. Ho promosso a scuola tutte le forme possibili di rinforzamento e
di autoistruzione (Fontana e Celi, 2001). Ho cercato di aiutare le maestre,
spesso a corto di risorse, tanto più con bambini come Andrea che, secondo
le leggi attuali, non hanno diritto all’insegnante di sostegno, a mettere in
piedi forme di tutoring13 e di apprendimento cooperativo (Johnson, Johnson
e Holubec, 1996; Cohen, 1999). La lettura (e la scrittura) collaborativa sono
esperienze bellissime, economiche, utili contemporaneamente al bambino in
difficoltà come al primo della classe. Se uscire dallo studio, prendere
l’automobile, andare a scuola per parlare con gli insegnanti, collaborare con
loro e cercare di promuovere la collaborazione tra bambini significa
“inquinare il setting” allora sì, lo confesso: sono un inquinatore.

pag. 562

Naturalmente, pur con la buona volontà di tutti, spesso un bambino con


Disturbo della lettura continuerà ad avere qualche difficoltà in questo
campo. Allora è giusto utilizzare anche metodi non più terapeutici o
riabilitativi, ma basati sul tentativo di rendergli più agevole la strada. Si
parla in questo caso di misure dispensative e strumenti compensativi (Legge
n. 170 del 2010 e successive direttive): le prime consistono nell’esonerare
l’alunno con DSA da attività come la lettura ad alta voce, la scrittura veloce
sotto dettatura, lo studio mnemonico delle tabelline e, in alcuni casi, la
lingua straniera in forma scritta; i secondi, invece, consentono all’alunno di
affrontare gli stessi compiti dei compagni con aiuti che bypassino le sue
difficoltà specifiche, sono cioè l’equivalente di un paio di occhiali per i
miopi (Meloni, Sponza, Galvan e Sola, 2004). Per esempio, i testi dei libri
di storia o di scienze possono essere semplificati perché si adattino al suo
livello (De Beni e Zamperlin, 1993; Scataglini e Giustini, 1998, 1999,
2000). Alcuni argomenti sui quali il bambino sarà interrogato possono
essere schematizzati. Alcune lezioni possono essere registrate perché il
bambino studi, almeno in parte, ascoltando la lezione anziché faticando
sulla lettura di un libro. Per queste strategie di semplificazione un aiuto
prezioso ci è fornito oggi dalle nuove tecnologie informatiche, in particolare
dagli ipertesti e dagli ipermedia (Stella, Arina e Conti, 2008), che ci
permettono di costruire percorsi di studio personalizzati e personalizzabili,
corredati di tutti gli aiuti necessari, anche vocali, e di solito piacevoli da
usare per il bambino (Milani, Lorusso e Molteni, 2008; Piredda e Musatti,
2007). Diventa così possibile, per esempio, riscrivere in forma ipertestuale e
multimediale un capitolo di storia su cui il bambino preparerà poi la sua
interrogazione, oppure un romanzo che i suoi compagni stanno leggendo in
quel periodo durante le lezioni di italiano. Tutto ciò permetterà al bambino
con Disturbo della lettura di restare agganciato alla programmazione di
classe, di condividere gli interessi dei compagni, di sostenere
adeguatamente le interrogazioni, senza essere costretto a leggere testi
superiori alle sue possibilità (Celi, 1999).
Questo, tra l’altro, non è il solo modo attraverso il quale le tecnologie
informatiche possono venire in aiuto dei bambini con Disturbo della lettura,
anche se è forse uno di quelli attualmente più interessanti. Esistono, per
esempio, software specifici per la riabilitazione di alcune difficoltà che
seguono i principi del training centrato sul deficit, dell’analisi del compito e
dell’apprendimento senza errori (Alberti, Celi, Fiorentino e Laganà, 1996;
Savelli e Pulga, 2006). Il loro vantaggio è che, mentre i metodi gestiti in
modo tradizionale con carta e matita sono a volte difficili, faticosi e anche
un po’ noiosi (sia per il bambino sia per il terapeuta o l’insegnante), la
presentazione attraverso il computer è molto più semplice, piacevole e
motivante (Alberti, Celi, Fiorentino e Laganà, 1995). I bambini lavorano
con questi software, quando sono ben progettati, quasi come farebbero con
un videogioco: il rinforzamento è intrinseco, il feedback viene fornito
automaticamente dal punteggio che cresce con il crescere della prestazione,
il passaggio da un obiettivo dell’analisi del compito a uno successivo più
complesso è gestito dal sistema anziché dall’educatore e la stessa cosa può
essere fatta per l’attenuazione degli aiuti quando il software utilizza
strategie di apprendimento senza errori . Tutto questo rende il lavoro
meno complesso e quindi più divertente. Infine, mentre molti metodi
tradizionali di riabilitazione vengono visti dal bambino come strumenti per
allievi incapaci o per lo meno poco abili, il computer è considerato uno
strumento per grandi e quindi non solo tende a non essere rifiutato, ma anzi,
usato attentamente dagli educatori, può diventare un ausilio che anche i
compagni di classe desiderano usare.14 Questo lo rende un veicolo prezioso
per esperienze cooperative quando, nel gruppo, c’è un allievo con un
Disturbo specifico dell’apprendimento (Calvani, 1994; Celi e Romani,
1997).

pag. 30

PROGNOSI
Andrea è in seconda classe della scuola secondaria di primo grado. È ancora
un cattivo lettore, almeno nel senso che è più lento della media dei suoi
compagni, nella lettura a voce alta è in difficoltà e fatica nello studiare testi
troppo lunghi. Tuttavia ha imparato a gestire questa situazione, studia su
appunti preparati insieme a un insegnante che lo segue di pomeriggio sotto
la mia supervisione, cerca di stare molto attento durante le lezioni e questo
gli permette di cavarsela con le interrogazioni orali. È molto bravo in
matematica e sempre sufficiente in italiano, forse anche perché ha trovato
un professore comprensivo e disposto a collaborare con me. Quest’anno ha
lavorato molto con ipertesti specifici: alcuni, come quello della vita nel
castello medioevale e delle grandi scoperte geografiche, preparati
appositamente per lui. Gli ipertesti contenevano prove di comprensione e
verifiche di memorizzazione del materiale studiato concordate con il
professore di lettere. Spesso Andrea ha lavorato con questi materiali
informatici all’interno di un piccolo gruppo di compagni che poi, come lui,
venivano interrogati su questi argomenti. Per quanto riguarda il resto, al di
là dello specifico problema della lettura, va a scuola (ragionevolmente)
volentieri, è un discreto tennista, un buon amico di molti compagni di classe
e di gioco e non ha sviluppato altri problemi psicopatologici.
Questo è un buon esempio di prognosi sostanzialmente favorevole anche
perché ha dalla sua molti elementi che si ritrovano in letteratura come
appunto prognosticamente favorevoli: assenza di segni neurologici; buon
livello intellettivo; storia sostanzialmente negativa per complicazioni
emotive importanti; livello sociale e culturale della famiglia medio-alto
(Rapaport e Ismond, 2000).
Ci sono casi meno fortunati nei quali il Disturbo della lettura si mantiene
grave lungo tutto il periodo della scolarizzazione e anche in età adulta. Un
tempo si tendeva a credere che le difficoltà di apprendimento passassero
con l’età, mentre oggi alcuni dati epidemiologici parlano di una prevalenza
dei Disturbi specifici dell’apprendimento nella scuola secondaria di
secondo grado e nell’università maggiore dal 4 al 5% (Cornoldi, 1991,
2007). In casi ancora meno fortunati, ma fortunatamente piuttosto rari,
questi disturbi evolvono verso problematiche psicopatologiche più
complesse, a volte fino a vere e proprie forme di Disturbo antisociale
(Rutter, 1995). Naturalmente queste evoluzioni negative sono più probabili
in caso di comorbilità con Disturbi del comportamento o depressivi già
presenti nell’infanzia. Inoltre, la situazione è più complessa e
prognosticamente più delicata quando il Disturbo della lettura o, più
genericamente, il Disturbo specifico dell’apprendimento è associato a un
Funzionamento intellettivo borderline. Anche la Consensus Conference sui
Disturbi dell’apprendimento promossa dall’Istituto Superiore della Sanità
nel 2011 si è posta come obiettivo di valutare l’evoluzione in età
adolescenziale e adulta dei DSA (Lambruschi et al., 2014). Viene ribadito
che la precocità e la tempestività degli interventi appaiono sempre più
spesso in letteratura tra i fattori prognostici positivi. La letteratura appare al
momento piuttosto complessa e tutt’altro che conclusiva rispetto
all’evoluzione a distanza dei DSA. Attualmente sono stati identificati tre
profili prognostici:
1. prognosi del disturbo intesa come evoluzione del processo di lettura,
scrittura e calcolo;
2. prognosi psicopatologica intesa come evoluzione a distanza nell’area
della salute mentale riferita in particolare all’insorgenza del Disturbo
della condotta;
3. prognosi scolastica-lavorativa intesa come la possibilità di avanzare nella
carriera scolastica e lavorativa.
L’attenzione sulla ricerca è rivolta principalmente al Disturbo specifico
della lettura e in modo minore a quello del calcolo. Sembrerebbe che le
componenti del disturbo continuino a mostrarsi deficitarie in età adulta
(Swanson et al., 2009; Ruggerini et al., 2014); che il disturbo sia più spesso
associato in adolescenza e in età adulta a sintomi internalizzati quali sintomi
depressivi e ansiosi (Arnold et al., 2005); e che invece non ci siano una
correlazione e una causalità diretta tra Distrubo specifico
dell’apprendimento con compromissione della lettura e Disturbo della
condotta (Trzesniewski et al., 2006). Infine sembra che la possibilità di
proseguire gli studi sia correlata alla gravità del disturbo, al QI e alla
possibilità di accesso a risorse esterne (Miller et al., 1990). Per quanto
riguarda l’accesso al mondo del lavoro sembra che ciò dipenda dalle abilità
matematiche acquisite e dalla partecipazione dei genitori al percorso
formativo.
D’altra parte, anche per concludere con una nota di ottimismo un
capitolo dedicato a una patologia che non deve essere trascurata e che
sembra assumere in questi ultimi anni un’importanza epidemiologicamente
sempre maggiore, ma che non dovrebbe essere considerata come grave, si
pensi ad alcune figure del passato come Leonardo da Vinci, Edison,
probabilmente Alessandro Volta e lo stesso Einstein (Grenci e Zanoni,
2007). Oggi sarebbero diagnosticati per Disturbi della lettura, o della
scrittura o dell’apprendimento, mentre ai loro tempi non risulta che uno
psicologo si sia occupato di loro.
Eppure, alla meglio, sono riusciti a cavarsela ugualmente.
1 Vedi capitolo 1, nota 1.
2 Vedi capitolo 1, nota 3.
3 Vedi capitolo 1, nota 2.
4 Le prove MT sono prove obiettive e standardizzate sulla popolazione italiana per la valutazione
dell’abilità di lettura. In un primo tempo vennero pubblicate per tutte e cinque le classi della scuola
elementare (oggi primaria) (Cornoldi, Colpo e Gruppo MT, 2. ed., 1998). In un secondo tempo sono
uscite anche per la scuola media inferiore (oggi secondaria di primo grado) (Cornoldi e Colpo, 1994)
e nel 2010 sono state pubblicate le prove MT avanzate-2 (Cornoldi, Pra Baldi e Friso, 2010) per la
valutazione dei livelli sia di lettura che di matematica per il biennio della scuola secondaria di
secondo grado. Si tratta di prove piuttosto semplici da somministrare, anche da parte di insegnanti, e
straordinariamente efficaci. Permettono di ottenere una misurazione obiettiva della rapidità di lettura,
della correttezza e della comprensione del testo. In questo modo, l’insegnante e lo psicologo
scolastico acquisiscono un’idea precisa delle abilità del bambino o anche del livello di un’intera
classe. Le prove, per ogni classe, sono strutturate su tre livelli a difficoltà crescente: una prova di
ingresso che può essere somministrata approssimativamente all’inizio dell’anno (e che ovviamente
non esiste per la prima classe della scuola primaria), una prova intermedia e una prova di uscita. In
questo modo educatori e psicologi possono disporre di uno strumento prezioso da un punto di vista
didattico, clinico e di ricerca. Nel 2011 sono state pubblicate le prove di lettura MT-2 (Cornoldi e
Colpo, 2011) per la scuola primaria di primo grado, e nel 2012 sono uscite le nuove prove di lettura
MT per le classi della scuola secondaria di primo grado (Cornoldi e Colpo, 2012). Entrambe le
edizioni aggiornate contengono i riferimenti normativi per la diagnosi di Disturbo specifico di
apprendimento rivisti secondo le linee guida della Consensus Conference e le fasce di prestazione
modificate in modo che la fascia “Richiesta di intervento immediato” corrisponda al 5° percentile,
cut-off raccomandato dalla Consensus Conference.
5 Vedi capitolo 1, nota 4.
6 Con l’espressione “lingue trasparenti” si fa riferimento a tutte quelle lingue, per esempio l’italiano,
caratterizzate da un’ortografia regolare, nelle quali cioè le parole vengono lette così come sono
scritte. Si pensi per contrasto alla lingua inglese. La sua complessità fonemica è lampante anche dalla
semplice constatazione del disaccordo tra studiosi nell’identificare il numero di suoni da essa previsti
(Wells, 2000; Morris, 2000). Tale complessità sembra giocare un ruolo importante nell’incidenza del
disturbo: si pensi al 4-5% dell’Italia contro l’8-10% degli Stati Uniti.
7 Vedi capitolo 11.
8 Vedi capitolo 12.
9 Vedi capitolo 23.
10 Vedi capitolo 24.
11 Il TMA, come abbiamo già avuto modo di vedere nel primo paragrafo, è un questionario
composto da 100 domande con risposta a scelta multipla che permette di valutare l’autostima in
soggetti dagli otto ai diciassette anni di età (Bracken, 1993). È possibile ricavare una misurazione
totale della stima di sé, ma anche valutazioni di scale parziali, come l’autostima scolastica,
interpersonale, familiare, corporea, di controllo sull’ambiente. Nei bambini più piccoli o con
difficoltà di lettura, è possibile tentare una somministrazione del test leggendo le domande a voce alta
e facendo attenzione a non suggerire le risposte con spiegazioni o particolari intonazioni di voce.
12 Quando si desidera conservare il rigore sperimentale tipico delle ricerche con gruppi di controllo,
ma si ha a disposizione un solo soggetto (come capita spesso in ambito clinico), si può ricorrere a un
particolare disegno sperimentale detto “a linee di base multiple” (Lancioni, 1995). Questo disegno
prevede tre fasi. Nella prima fase si misurano contemporaneamente due variabili dipendenti (per es.,
la velocità e la correttezza di lettura). Nella seconda fase si agisce solo su una variabile (per es., si
interviene per migliorare la correttezza), mentre si continua l’osservazione basale sulla seconda.
Nella terza fase si agisce anche sulla seconda variabile (per es., si interviene per aumentare la
velocità di lettura). Se i miglioramenti si verificano prima per la prima variabile e poi per la seconda,
è possibile concludere che questi non sono dovuti al caso, ma all’effetto specifico dei trattamenti
messi in atto.
13 Organizzazione della didattica che prevede che un allievo faccia da insegnante (tutor) a un altro,
all’interno di un contesto cooperativo (Ianes, 2001).
14 Moltissimi lavori nei due campi, il primo più specifico dei processi di abilitazione-riabilitazione
della decodifica, il secondo più generale del lavoro con un bambino con difficoltà di apprendimento
in studio, a casa e a scuola, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie e con metodi di
apprendimento cooperativo, possono essere trovati, rispettivamente, nelle riviste Dislessia e
Difficoltà di apprendimento. Informazioni utili, articoli scientifici, notizie su congressi e iniziative e
circolari ministeriali nel campo dei Disturbi specifici dell’apprendimento sono reperibili su
www.airipa.it.
Capitolo 8

Altri disturbi dell’apprendimento


Fabio Celi

LA STORIA DI SIMONA
Ho conosciuto Simona quando frequentava la quarta classe della scuola
primaria e questa è forse l’unica analogia con il caso di Andrea, che ho
descritto nel capitolo precedente. Se l’avessi conosciuta prima,
probabilmente mi sarei comportato in modo molto diverso.
Simona mi viene inviata da un collega psicologo per vedere se possiamo
fare qualcosa per lei usando strumenti informatici che sembrano
interessarla. Il suo problema è che a scuola va malissimo, praticamente in
tutte le materie. Le maestre hanno chiesto per anni, a volte con particolare
insistenza e quasi con aggressività (soprattutto una maestra), di segnalare la
bambina come handicappata in modo da farle avere un insegnante di
sostegno, ma il mio collega, giustamente, non ha mai risposto positivamente
a questa richiesta.
Forse sbaglio nel dire che la classe frequentata è l’unica analogia tra
Simona e il bambino con Disturbo della lettura di cui ho parlato nel
precedente capitolo. Ora mi viene in mente che ce n’è forse un’altra,
probabilmente ben più significativa. Anche la mamma di Simona, quando la
incontro per la prima volta, mi appare scoraggiata, sfiduciata, stanca. È una
donna semplice, molto modesta nei modi, povera nell’abbigliamento e nel
linguaggio e sembra in difficoltà nel capire che cosa sta succedendo. Perché
il mio collega psicologo ha mandato Simona da me? Perché, nonostante le
richieste delle maestre, non ha mai ceduto sull’insegnante di sostegno? A
mano a mano che il colloquio procede, mi sembra sempre più chiaro che la
sfiducia e la stanchezza si stiano trasformando in aggressività.
Un’aggressività contenuta a stento, che da un momento all’altro potrebbe
sfociare in ostilità aperta, anche se non riesco ancora a capire contro chi.
Ciò che comunque la mamma sta cercando di dirmi è che la sua Simona
è una bambina normale, sana e intelligente, e invece la fanno passare da
stupida e da handicappata. In realtà, è arrabbiata un po’ con tutti e anche un
po’ contraddittoriamente. Per esempio, è arrabbiata con le maestre che
vorrebbero segnalarla come portatrice di handicap per avere l’insegnante di
sostegno, e con lo psicologo che non le fa il certificato e dunque ha lasciato
senza aiuto la bambina. Questo atteggiamento, che a noi può sembrare non
molto coerente, è peraltro giustificato dalla bassa condizione culturale della
madre e dal suo desiderio, perfettamente legittimo, di non danneggiare la
bambina ma di farla aiutare in tutti modi possibili.
Dopo queste mosse di apertura, durante le quali la mamma se la prende
anche un po’ con me che ho tardato tanto a darle l’appuntamento, il primo
colloquio scorre poi lungo binari tutto sommato prevedibili. La bambina
è nata dopo un parto un po’ lungo e un po’ difficoltoso, forse ha avuto un
brevissimo periodo asfittico (“Era un po’ nera”, dice la mamma), ma i
medici l’hanno trovata perfettamente a posto e hanno dimesso madre e
bambina dopo cinque giorni senza altre cure e senza particolari
raccomandazioni. La bambina ha avuto uno sviluppo regolare, era docile e
tranquilla fin dai primi mesi di vita, mangiava, dormiva e non dava nessuna
preoccupazione. Ha cominciato a parlare intorno all’anno e a camminare a
un anno e mezzo. È andata al nido perché il padre e la madre (culturalmente
ed economicamente, come abbiamo visto, molto modesti) lavoravano; poi
alla scuola dell’infanzia, dove non sembra abbia mai avuto problemi
particolari. Anche alla scuola primaria, all’inizio, sembrava che andasse
tutto in modo regolare. Le maestre hanno cominciato a sollevare qualche
dubbio verso la fine della prima. La mamma, a questo punto del colloquio,
ha un altro dei suoi sfoghi:

pag. 49

“Se almeno avessero avuto un po’ di coraggio e me l’avessero


bocciata!”, mi dice. “Che male ci sarebbe stato? Anch’io sono stata bocciata
in prima elementare, e mio marito è stato bocciato in prima e in seconda.
Ma poi, alla bell’e meglio, abbiamo imparato quello che dovevamo
imparare”.
Invece, nel caso di Simona, i problemi sono via via aumentati. Andava
male in tutto. Quando era in seconda classe della scuola primaria, a
dicembre le maestre mandarono a chiamare la madre e le dissero che la
bambina andava portata da uno psicologo per farle un certificato per
l’insegnante di sostegno. Giustificavano questa richiesta sostenendo che la
bambina aveva costantemente bisogno di qualcuno vicino, che la
incoraggiasse e la aiutasse nel fare le cose, perché da sola non era
assolutamente capace di fare nulla. Leggeva, male, qualche parola in
stampatello maiuscolo: scriveva solo copiando e non era in grado di
svolgere nessuna operazione aritmetica. La madre, nel colloquio con me,
riconosceva queste difficoltà scolastiche della bambina, ma negava il punto
di vista più generale delle insegnanti secondo il quale Simona non era
capace di fare nulla autonomamente. Fin da piccola, in realtà, ancora prima
di andare alla scuola primaria, aveva imparato a vestirsi e a spogliarsi da
sola. Adesso si lavava, aiutava la mamma nelle faccende domestiche e
andava spesso anche a fare piccole spese. Il primo psicologo interpellato
disse che la bambina poteva aver bisogno di qualche aiuto sul piano
didattico e la inviò da una terapista che faceva riabilitazione cognitiva, ma
negò la necessità di un insegnante di sostegno. Dopo questa presa di
posizione le maestre, e in particolare quella di italiano, che svolgeva
all’interno del gruppo di insegnanti la funzione di leader, si irrigidirono nei
confronti della bambina e le pagelle di seconda e terza classe della scuola
primaria che la mamma mi porta sono molto significative al riguardo. La
bambina è sistematicamente valutata in modo molto negativo, non le si
riconosce nessun progresso e non si perde occasione per ribadire che
avrebbe bisogno di un insegnamento fortemente individualizzato, di una
persona che la seguisse in rapporto uno a uno, di un programma molto
differenziato rispetto a quello della classe.
La bambina che mi si presenta davanti, invece, non sembra davvero una
“handicappata”, come secondo la legge dovrebbe essere per avere diritto
all’insegnante di sostegno. Stabilisce subito con me una relazione
amichevole. È ben orientata, nel senso che sa raccontarmi di sé, della sua
vita, delle sue difficoltà scolastiche. Sa anche perché l’hanno portata da me,
come in passato la portavano da un altro psicologo e da “una signora che mi
aiutava a fare i compiti e mi faceva fare altri giochi difficili”. Il solo
problema che appare evidente da subito è un certo atteggiamento infantile,
da bambina più piccola della sua età. Lo si vede nel linguaggio, molto
povero; negli argomenti che sceglie di trattare liberamente; nei disegni, che
sembrano quelli di una bambina di prima o seconda classe della scuola
primaria. Per il resto è assolutamente adeguata, sostanzialmente serena,
senza nessun disturbo di comportamento evidente, con una soddisfacente
vita di relazione e ottime autonomie personali e sociali . Tutto questo
finché non si parla di scuola. Qui le carenze sono addirittura sorprendenti.
Ho trovato riportato nella sua cartella questo frammento di dialogo. Le
chiedo:

pag. 34

“Quali sono le materie più difficili per te, a scuola?”.


“Storia”.
“Ah, la storia è difficile per te… Che cosa stai studiando di storia in
questo periodo?”.
“Geografia”.
Sembra quasi che le si chiuda il cervello. Sembra che su questi
argomenti non voglia faticare neppure un momento, non voglia fare
neppure lo sforzo minimo per dare una risposta sensata. È certo che la sua
motivazione scolastica è vicina allo zero, e da quello che ha raccontato la
madre durante il primo colloquio c’era da aspettarselo. È certo che anche la
sua autostima scolastica1 è molto bassa. È certo che a Simona la scuola
non interessa, che si è convinta che non fa per lei e che questa convinzione
contribuisce a farle ulteriormente calare ogni motivazione. Ma qui sembra
esserci qualcosa di più. È come se la bambina volesse dire: “A scuola mi
trattano come una scema? E io la faccio”.

pag. 56

“Scema”, in realtà, non è affatto. I risultati della WISC-R2 mostrano un


QI verbale di 90, un QI non verbale di 72 (con cadute particolarmente gravi
nei test di storie figurate e cifrario) e un QI totale di 80. Dunque, come
abbiamo visto nel capitolo 4, la bambina si colloca nell’area del
Funzionamento intellettivo borderline. Se si considerano, inoltre, le sue
ottime capacità adattive, si può escludere senz’altro una diagnosi di
Disabilità intellettiva e questo dà ragione allo psicologo che aveva rifiutato
di certificare Simona per un insegnante di sostegno.
Le prove MT di lettura, invece, come quelle per la Valutazione delle Abilità
di Scrittura (Tressoldi e Cornoldi, 1991; Giovanardi Rossi e Malaguti,
2003), le Prove AC-MT 6-11 per la valutazione delle abilità di calcolo e di
soluzione di problemi (Cornoldi, Lucangel e Bellina, 2012), le Prove
Oggettive di matematica MAT-2 (Amoretti, Bazzini, Pesci e Raggiani,
2007), così come il test ABCA (Test di abilità del calcolo aritmetico;
Lucangeli, Tressoldi e Fiore, 2003) e il test SPM (Abilità di soluzione dei
problemi; Lucangeli, Tressoldi e Cendron, 2003; versione CD-ROM, 2006)
– danno risultati significativamente inferiori a quelli attesi (ovviamente i
test effettivamente somministrati a Simona erano quelli disponibili
all’epoca in cui mi occupavo del caso, mentre qui riporto le loro versioni
aggiornate). Questo significa che Simona mostra difficoltà di decodifica del
testo scritto a livello sia di rapidità sia di correttezza, difficoltà
particolarmente gravi di comprensione del testo, difficoltà di scrittura e
difficoltà nell’area logico-matematica (Geary, 1993). Inoltre, presenta una
bassissima motivazione alle attività scolastiche e, sempre limitatamente
all’area scolastica, una scarsa autostima e un’autoefficacia e uno stile di
attribuzione inadeguati.
Certamente le insegnanti hanno contribuito ad aggravare questi ultimi
aspetti più emozionali che cognitivi. Nessuno sforzo della bambina e
dell’ambiente circostante è stato riconosciuto né, tanto meno, premiato. Ho
potuto ricostruire questo dalla storia di Simona e dai colloqui con lo
psicologo e con la terapista, che ha fatto con lei per oltre un anno un lavoro
di riabilitazione cognitiva, ma ho potuto anche verificarlo,
drammaticamente, con i miei occhi. Ho avuto con le insegnanti di Simona
solo due incontri. Durante il primo volevo limitarmi a esporre i risultati
delle mie osservazioni iniziali e provare a stabilire qualche modalità di
collaborazione. Invece fui aggredito dall’insegnante di italiano che mi disse
che loro erano stufe, dopo quattro anni, di chiacchiere, che Simona è una
bambina “che non sa neanche se è al mondo”, che loro avevano bisogno di
un insegnante di sostegno e basta. Il secondo colloquio, qualche mese dopo,
andò, se possibile, ancora peggio. Avevamo messo a punto per Simona, con
una mia collaboratrice, un programma di intervento con strumenti
informatici di cui parlerò nel terzo paragrafo, che mi sembrava cominciasse
a dare qualche piccolo risultato e sul quale volevo confrontarmi con le
insegnanti. Non avrei potuto avere un’idea peggiore. Venni a sapere,
durante questo secondo incontro, che quei semplici programmi che
avevamo predisposto, sperimentato, utilizzato e poi installato anche a
scuola perché Simona potesse esercitarsi nel suo quotidiano ambiente di
vita non erano stati usati neppure una volta. Questo però non veniva
giustificato, come spesso accade e come io posso comprendere, dalla
mancanza di tempo, o di risorse, o in ogni modo da qualche difficoltà
pratica o organizzativa. Le maestre, ma sempre una in particolare,
sostenevano che tutti questi tentativi (senza aver mai provato neppure una
volta!) sarebbero stati inutili. Simona era peggiorata ulteriormente. Si
estraniava dalla classe. Passava la maggior parte del tempo a pensare ai fatti
suoi. Rifiutava di fare gli esercizi che le venivano proposti (li vidi, quegli
esercizi, sempre ondeggianti tra la velleità più incontrollata e il pessimismo
più nero: a volte si trattava, per esempio, della stessa analisi grammaticale
data al resto della classe, altre volte erano schede tratte da un libro di scuola
dell’infanzia sull’orientamento spaziale, con i concetti di sopra-sotto e
vicino-lontano…). Tentai ancora, un’ultima volta, di dire che avevamo
messo a punto, provato, e, d’accordo con loro (almeno credevo!), installato
sul computer della scuola un software molto semplice su alcune regioni di
Italia. Anche i compagni di Simona stavano studiando le stesse regioni in
quel periodo e pensavo che avrebbe potuto essere una buona idea far
esercitare la bambina ancora un po’ con quel software, che già
padroneggiava piuttosto bene, per poi provare a farle sostenere
un’interrogazione su quegli argomenti. Stavo per aggiungere che così, se
l’interrogazione fosse andata bene come io speravo, sarebbe stato possibile
gratificarla… Fui bruscamente, violentemente interrotto dalla maestra. Mi
chiese che senso pensavo potesse avere insegnare le regioni di Italia a una
bambina che non sapeva neppure di vivere a Ricortola!
Ricortola è il quartiere dove abitava Simona. Non fui in grado di dire, lì
per lì, se Simona ne conoscesse il nome. Certo ci girava tranquillamente da
sola e ci andava a fare la spesa per aiutare la mamma, ma tutto questo ormai
aveva poca importanza. Se non fossimo stati alla fine della quarta classe
della scuola primaria, avrei pensato seriamente di consigliare ai genitori di
cambiare scuola (ora mi sembra che alla scuola secondaria di primo grado,
dove abbiamo preparato il terreno, le cose vadano un po’ meglio). Ma c’è
un motivo se ho raccontato questo episodio della maestra-strega (anche
fisicamente lo sembrava un po’, con i capelli color stoppa e quel naso
adunco, e mi sono chiesto più volte quante notti di Simona siano state
turbate da questa immagine). Il motivo è che anche se si tratta, ovviamente
e fortunatamente, di un episodio estremo e rarissimo, resta significativo di
un atteggiamento che, magari in modo più strisciante, è possibile trovare nei
confronti di alcuni bambini difficili, ma non francamente “handicappati”.
Quando un bambino ha, per esempio, una Disabilità intellettiva e magari è
anche in sedia a rotelle, oppure un Disturbo dello spettro dell’autismo,
appare chiaro a tutti che si tratta di un bambino malato che ha dunque
diritto a particolari cure. Quando invece la difficoltà è più sfumata e, anche
legalmente, non è possibile aiutarlo con strumenti ufficiali come un
sostegno, può succedere che qualche insegnante, che non sa più che cosa
fare, finisca per scaricare sull’allievo le sue difficoltà, la sua aggressività e
le sue angosce.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Qual è, allora, questa difficoltà “più sfumata” eppure fonte di tante
sofferenze per Simona?
La bambina manifesta certamente un Disturbo dell’apprendimento anche
se, alla luce di quanto ampiamente dibattuto nel capitolo precedente,
secondo le ultime linee guida sarebbe attualmente molto critico
l’inquadramento di specificità. Ritroviamo nel suo caso i due aspetti
fondamentali, che abbiamo già visto nel capitolo precedente a proposito del
Disturbo della lettura: il criterio di discrepanza e i fattori di esclusione. Il
criterio di discrepanza si riferisce, in questo caso, al fatto che Simona ha
prestazioni scolastiche molto peggiori di quelle dei suoi compagni e di
quelle che ci si potrebbero aspettare vista la sua età e la sua scolarizzazione.
Inoltre, nell’escludere che la bambina presenti queste difficoltà a causa di
una particolare condizione medica come un deficit sensoriale, ci riferiamo a
un “fattore di esclusione” fisico. I fattori di esclusione psicologici e sociali,
invece, sono, nel caso di Simona, un po’ più complessi, perché se è vero
che Simona non ha una Disabilità intellettiva o una situazione culturale e
scolastica così inadeguata da giustificare la difficoltà dell’apprendimento, è
anche vero che la sua intelligenza non è particolarmente brillante e la sua
situazione, che potremmo chiamare genericamente “sociale”, non è
particolarmente felice. Probabilmente la cosa più corretta da fare, in questo
caso, è quella di considerare le carenze cognitive, il basso livello culturale
dei genitori e l’incapacità del gruppo di insegnanti di affrontare la
situazione in modo adeguato come concause del disturbo.
Ho scelto di parlare di Simona perché, in un certo senso, riassume in sé
tutte le forme di Disturbo specifico dell’apprendimento. Certamente ha un
Disturbo della lettura, associato però a un Disturbo dell’espressione scritta
(classificabile secondo l’ICD-10 come “Disturbo evolutivo specifico delle
abilità scolastiche”), che si caratterizza per l’incapacità di acquisire, nei
compiti di scrittura, le competenze adeguate all’età e al suo livello di
sviluppo. La teoria e le classificazioni internazionali richiederebbero, per la
diagnosi di Disturbo specifico dell’apprendimento con compromissione
dell’espressione scritta, una misurazione delle abilità di scrittura ottenuta
attraverso test standardizzati somministrati individualmente, in analogia a
quanto abbiamo visto per il Disturbo della lettura. In realtà questo è
piuttosto difficile, almeno nella situazione italiana, perché i test per la
valutazione delle abilità di scrittura sono complessi e poco diffusi (Tressoldi
e Cornoldi, 2000; Giovanardi Rossi e Malaguti, 1994a). Con Simona,
tuttavia, ho utilizzato alcune prove standardizzate, anche se più per una
specie di scrupolo di precisione che per reali esigenze diagnostiche. Infatti,
era già clinicamente evidente che Simona presentasse, associato a un
Disturbo della lettura, anche un Disturbo dell’espressione scritta. La sua
scrittura è incerta, molto lenta, piena di errori e in alcune pagine, soprattutto
quando è stanca, al limite della leggibilità. Secondo la classificazione
internazionale del DSM-5 per fare diagnosi di Disturbo specifico
dell’apprendimento deve essere presente, da almeno 6 mesi, almeno uno dei
sei sintomi indicati nel criterio A. Tra questi criteri compaiono, come
abbiamo già visto nel capitolo precedente, una lettura imprecisa, lenta o
faticosa, ma anche le difficoltà a comprendere il significato di ciò che si
legge, nello spelling, nell’espressione scritta (caratterizzata da molteplici
errori grammaticali o di punteggiatura all’interno delle frasi o da una scarsa
organizzazione dei paragrafi, nonché da una generale mancanza di
chiarezza nell’espressione delle idee), nel padroneggiare il concetto di
numero, i dati numerici o il calcolo, e nel ragionamento matematico.
La diagnosi completa del Disturbo specifico di apprendimento con
compromissione dell’espressione scritta, sempre in analogia con il Disturbo
specifico dell’apprendimento con compromissione della lettura, prevede
anche che l’anomalia interferisca in modo significativo con
l’apprendimento scolastico o con le attività quotidiane che richiedono la
composizione di testi (e questo, purtroppo, per Simona è facilmente e
drammaticamente accertato: basti pensare al trattamento che le riserva la
maestra di italiano dopo una verifica scritta). Prevede inoltre, che la
difficoltà inizi durante gli anni scolastici, ma può anche accadere che non si
manifesti pienamente fino a che la richiesta rispetto a queste capacità
scolastiche colpite supera le limitate capacità dell’individuo, e infine, come
sempre nei Disturbi specifici dell’apprendimento, che l’anomalia non possa
essere spiegata con problemi medici o psicologici più gravi.
Nell’ICD-10, il Disturbo dell’espressione scritta viene compreso, come
accennato prima, nei “Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche”.
All’interno della sezione dedicata ai “Disturbi dello sviluppo psicologico”
dell’ICD-10 compare peraltro il Disturbo specifico della compitazione. Tale
sindrome si caratterizza per una specifica e rilevante compromissione nello
sviluppo delle capacità di compitazione e la diagnosi non va posta se
l’unico problema del bambino è quello della scrittura.
Nel DSM-5 il Disturbo dell’espressione scritta rappresenta una
specificazione del Disturbo specifico dell’apprendimento che, a sua volta, è
inserito nella categoria Disturbi del neurosviluppo insieme alle Disabilità
intellettive, ai Disturbi della comunicazione, al Disturbo dello spettro
dell’autismo, al Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, ai Disturbi del
movimento, e alla categoria residua Altri disturbi del neurosviluppo
(American Psychiatric Association, 2013). A differenza di quanto accadeva
nel DSM-IV-TR esiste dunque un’unica categoria denominata appunto
Disturbo specifico dell’apprendimento, mentre le difficoltà di lettura,
scrittura e calcolo rappresentano sottotipi dello stesso problema e non più
patologie autonome. Nella pratica clinica è inoltre importante distinguere
quando il disturbo è prevalentemente a carico della scrittura propriamente
detta, e in questo caso si parla di “disgrafia”, oppure quando il deficit
riguarda principalmente la correttezza e allora si parla di “disortografia”
(Tressoldi e Cornoldi, 2007).
Il concetto di disgrafia non è mai stato basato su criteri ben definiti e
talvolta è stato confuso con il problema generico di cattiva grafia. Per la
definizione più precisa di questo disturbo è stato istituito un gruppo
all’interno dell’AIRIPA che ha portato ad alcuni chiarimenti in materia
(Russo et al., 2011). Per la diagnosi di disgrafia vengono confermati i criteri
generali per la diagnosi dei DSA (assenza di patologie neurologiche e/o
deficit sensoriali, livello intellettivo in norma, notevole interferenza con
l’apprendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana, problema
non dovuto a specifici effetti dell’insegnamento, diagnosi da porre
preferibilmente non prima della terza elementare); inoltre devono essere
compromesse la fluenza (velocità) e la qualità del gesto grafico, ossia la
resa formale o leggibilità del testo prodotto (il fatto che il testo sia
facilmente decodificabile dallo scrivente e da un esterno). I problemi di
fluenza e leggibilità devono manifestarsi in ogni forma di scrittura, inclusa
quella più gradita allo studente (per es., stampatello maiuscolo) e devono
presentarsi in maniera continuativa nell’arco della carriera scolastica.
Purtroppo, però, Simona non ha soltanto difficoltà di lettura e scrittura,
ma ha anche carenze in matematica (Soresi, 1991; Lucangeli e Tressoldi,
2001; Geray, 2009). Come abbiamo visto, ha imparato tardi e male a
eseguire le quattro operazioni e ancora adesso è lenta, impacciata, insicura e
commette molti errori. Nella soluzione di problemi aritmetici, dove sono
coinvolte anche capacità logiche più generali e la comprensione del testo
scritto, le cose vanno ancora peggio. Per questo motivo, Simona soddisfa
anche i criteri per una diagnosi di Disturbo specifico dell’apprendimento
con compromissione del calcolo (o Disturbo specifico delle abilità
aritmetiche, come riportato nell’ICD-10) che, in perfetta analogia con
quanto abbiamo visto per i precedenti Disturbi dell’apprendimento, sono
sostanzialmente tre. Prima di tutto, le capacità di calcolo, anche in questo
caso misurate attraverso test standardizzati somministrati individualmente,
sono inferiori a quelle che ci si aspetterebbe in base all’età e alle
potenzialità intellettive. Vale a questo proposito una considerazione analoga
a quella fatta per il Disturbo dell’espressione scritta: sebbene esistano,
anche per il caso del calcolo e della soluzione di problemi, test
standardizzati, almeno in Italia non si fa un grande uso di questi strumenti
(Cornoldi, Lucangeli e Bellina, 2012; Amoretti, Bazzini, Pesci e Raggiani,
1994; Lucangeli, Tressoldi e Cendron, 2003; Lucangeli, Tressoldi e Fiore,
1998).
Sempre per la valutazione delle abilità di calcolo esiste anche la BDE
(Batteria per la discalculia evolutiva) (Biancardi e Nicoletti, 2004),
utilizzata come prova di secondo livello per la diagnosi della discalculia
evolutiva.
In secondo luogo, la difficoltà deve interferire in modo significativo con
l’apprendimento o con le attività quotidiane che richiedano abilità di
calcolo e, di nuovo, abbiamo purtroppo visto come questo criterio sia
pienamente soddisfatto nel caso di Simona. Infine, il disturbo non deve
essere meglio spiegato con condizioni medico-neurologiche particolari o
con deficit sensoriali.
Come accennavo in precedenza parlando del Disturbo della lettura,
anche per il Disturbo del calcolo, secondo l’ICD-10, dove viene riportato
come “Disturbo specifico delle abilità aritmetiche”, in presenza dei criteri
diagnostici per entrambi i disturbi, viene diagnosticato solo il Disturbo della
lettura.
Nel DSM-5 il Disturbo del calcolo rappresenta una specificazione del
Disturbo specifico dell’apprendimento che, analogamente a quanto già detto
per la lettura e la scrittura, è inserito nella categoria Disturbi del
neurosviluppo. Il Disturbo specifico dell’apprendimento con
compromissione nel calcolo comprende difficoltà con il concetto di numero
e a memorizzare i fatti aritmetici con il calcolo accurato e fluente e con un
corretto ragionamento matematico. Viene specificato in una nota che con il
termine “discalculia” si fa riferimento a un pattern di difficoltà
nell’elaborare informazioni numeriche, imparare formule aritmetiche ed
eseguire calcoli in modo fluente e accurato. Se nel bambino si dovessero
riscontrare anche difficoltà nel ragionamento matematico si consiglia di
specificarlo.
In conclusione, Simona soddisfa tutti i criteri per una diagnosi multipla
di Disturbo specifico dell’apprendimento (della lettura, del calcolo e
dell’espressione scritta). È una bambina sostanzialmente sana, non
particolarmente intelligente ma neppure francamente deficitaria, autonoma
e dalla personalità un po’ infantile ma equilibrata, e senza altri elementi
psicopatologici di rilievo, se non un certo calo del tono dell’umore, un
abbassamento della stima di sé e una scarsa motivazione all’impegno
personale che appaiono secondari al Disturbo dell’apprendimento. Non ha
alle spalle una famiglia particolarmente forte dal punto di vista sociale e
culturale e questo, associato al suo basso livello intellettivo, costituisce un
fattore prognostico negativo. Inoltre, cosa che mi appare particolarmente
grave, non ha certamente trovato un ambiente scolastico adatto a lei.
LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO-
RIABILITATIVO
Vorrei partire da quest’ultima osservazione.
Credo che il primo intervento avrebbe dovuto essere quello di cambiarle
scuola e ora che, alla secondaria di primo grado, abbiamo potuto preparare
meglio l’ambiente, anche le cose scorrono un po’ meglio. Se non l’ho fatto
è stato perché, quando mi sono reso conto della situazione, la bambina era a
metà della quarta classe della scuola primaria e mi è sembrato troppo tardi o
non ne ho avuto il coraggio. Parto comunque da questa osservazione per
sottolineare, di nuovo, che nei Disturbi specifici dell’apprendimento è
importantissimo cercare di lavorare per modificare positivamente
l’ambiente scolastico. Questo si ottiene, di solito, parlando con gli
insegnanti, spiegando loro il significato di questa patologia, facendoli
riflettere sul fatto che non hanno di fronte un allievo svogliato e in qualche
modo “colpevole” delle sue difficoltà (che merita dunque di essere punito),
ma un bambino che soffre di alcune inadeguatezze, che ha bisogno di
particolari attenzioni e di speciali incoraggiamenti. Quando questo non è
proprio possibile, a volte cambiare scuola è la strategia migliore.
Qualcosa del genere dovrebbe avvenire nei rapporti tra lo psicologo e la
famiglia. È bene che anche il padre e la madre siano informati con
chiarezza sulle necessità del figlio e possano imparare ad aiutarlo
applicando metodi di intervento analoghi a quelli che usa lo psicologo in
studio e l’insegnante in classe. Questo lavoro con i genitori, che va sotto il
nome di parent training , tende a migliorare il clima in famiglia, riduce il
rischio di complicanze emozionali e di altri problemi psicopatologici nel
bambino con Disturbo specifico dell’apprendimento, potenzia il lavoro
dello psicologo e degli educatori e favorisce il mantenimento e la
generalizzazione delle abilità a mano a mano acquisite.

pag. 562

pag. 41

Prima di tutto, dunque, viene l’ambiente, come abbiamo già avuto modo
di osservare nel precedente capitolo. Poi vengono, naturalmente, le tecniche
di intervento più specifiche, che non sono molto diverse da quelle illustrate
a proposito del Disturbo della lettura.
Ci serviremo allora del rinforzamento e del modellaggio , usati
sia per aumentare la motivazione a compiti didattici, che di solito in questi
bambini è molto bassa, sia per favorire lo sviluppo graduale di nuove
competenze. Utilizzeremo poi le analisi del compito e i curricula, anche
se, naturalmente, dovranno essere finalizzati agli specifici disturbi del
bambino. Nell’area logico-matematica, per esempio, ci sono appositi
curricula che partono dalla capacità di contare insiemi prima disordinati e
poi ordinati di oggetti e poi, attraverso l’associazione simbolo numerico-
quantità e, inversamente, l’associazione quantità-simbolo numerico,
arrivano alle quattro operazioni e alla soluzione di semplici problemi
aritmetici con strumenti tradizionali come carta e matita (Abbot, 1992;
Bortolato, 1998; Carnine, 1999; Karp e Voltz, 2000; Berausse, 2009; Maso
e Pagani, 2009; De Candia, Cibinel e Lucangeli, 2009) e attraverso software
(Costa e Colombo Bozzolo, 2008; Biancardi, Savelli e Pulga, 2008;
Pericone, 2009).

pag. 13

pag. 6

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Questi curricula, nei quali alcuni obiettivi più complessi sono scomposti
in molti sotto-obiettivi più semplici secondo le tecniche classiche
dell’analisi del compito, si prestano bene a un utilizzo anche massiccio del
modellaggio, perché permettono allo psicologo o all’insegnante di
rinforzare il bambino passo dopo passo. Inoltre, sono spesso corredati da
una serie di aiuti grafici: in un compito di addizione, per esempio, è
possibile disegnare accanto a ogni addendo un numero di palline
corrispondenti e poi cerchiare tutte le palline così ottenute per visualizzare
il risultato; oppure, la soluzione di un problema aritmetico può essere
facilitata da un’immagine che ne rappresenta gli aspetti salienti.3 Questi
aiuti grafici possono poi essere eliminati pian piano secondo le tecniche
dell’apprendimento senza errori .
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L’apprendimento senza errori e la curricularizzazione dei percorsi di


apprendimento possono essere utili anche nel Disturbo dell’espressione
scritta: si possono usare quaderni con le righe in rilievo per favorire una
scrittura più ordinata, matite a impugnatura speciale, percorsi guidati di
recupero grafico (Pratelli, 1995; Blason, Borean, Bravar e Zoia, 2004;
Fantuzzi e Tagliazucchi, 2009), ortografico (Ferraboschi e Meini, 1995;
Pascoletti, 2005; Raymer, Strobel, Prokup, Thomason e Reff, 2009) e di
composizione del testo (Ferraboschi e Meini, 1992; Marchisan e Alber,
2001; Swalm e Coultas, 2002; Bianchi e Farello, 2010). Le analisi del
compito risultano preziose anche per un particolare tipo di matematica,
detta “funzionale”,4 che consiste nell’insegnare al bambino in difficoltà,
piuttosto che teorie e metodi astratti, abilità concrete che possano poi essere
subito utilizzate nella vita di tutti i giorni. Sono esempi di matematica
funzionale l’uso del denaro (Celi e Ianes, 1991) o la lettura dell’orologio
(Celi e Ianes, 1992), per cui esistono programmi, curricula e analisi del
compito ad hoc, di solito messi a punto per bambini portatori di handicap,
ma spesso utili anche nei Disturbi specifici dell’apprendimento. Può essere
utile, a questo proposito, consultare le linee guida dell’AID (2008) sui
disturbi evolutivi specifici dell’apprendimento.
Anche gli interventi di ispirazione cognitiva e metacognitiva sono simili
a quelli che abbiamo visto nel precedente capitolo. L’auto-osservazione
(vedi riquadro alla pagina seguente), l’autorinforzamento e
l’autoistruzione possono essere usati per favorire nel bambino
l’autonomia , l’uso di strategie, la consapevolezza di quello che sta
facendo e dei risultati che può così raggiungere (Cisotto, 1998).
L’autoregolazione è una funzione cognitiva essenziale per il successo
scolastico. Numerose ricerche hanno dimostrato che studenti con DSA sono
carenti in questa competenza e deve essere insegnato loro esplicitamente a
monitorare e controllare le proprie attività cognitive ogni volta che
svolgono compiti accademici come problemi matematici (Montague, 2007).

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AUTO-OSSERVAZIONE – AUTOMONITORAGGIO
Gli approcci comportamentali classici prevedono che l’insegnante o il
terapeuta svolgano spesso delle osservazioni sistematiche sugli
obiettivi didattici e sui comportamenti dei loro allievi o dei loro
pazienti. Le osservazioni sistematiche servono per monitorare gli
eventuali progressi (e poterli così rinforzare) e per rendersi conto delle
difficoltà in modo da porvi rimedio. Quando invece è l’allievo o il
paziente stesso a osservare e valutare il proprio comportamento, si
parla di auto-osservazione o automonitoraggio.
Rispetto ai metodi classici di osservazione eseguita dall’esterno, i
metodi più cognitivi di auto-osservazione e automonitoraggio
presentano il vantaggio di lasciare il bambino almeno parzialmente
protagonista del suo processo di cambiamento.
Nel testo si trovano molti esempi di auto-osservazione e
automonitoraggio come procedure che preparano il terreno
all’autocontrollo. Nel presente capitolo Simona impara a valutare le
sue prestazioni per poi gestire da sola parte del suo processo di
apprendimento. Nel capitolo 11 Lorenzo impara a osservare i suoi
comportamenti inadeguati per poi provare a cambiarli. Nel capitolo
15 Eleonora usa il termometro della paura (che è, evidentemente, una
forma di automonitoraggio) per imparare ad affrontare meglio le
paure che si presenteranno in futuro. Nel capitolo 16 Gabriele impara
a tenere un diario di osservazione e a misurare il suo livello soggettivo
di ansia: e questo gli sarà utile quando dovrà trovare il coraggio di
rientrare in classe. Anche Alberto, nel capitolo 17, tiene un diario di
osservazione del suo comportamento compulsivo per aumentare
l’autocontrollo. Nel capitolo 23, purtroppo, il terapeuta non riesce a
convincere Silvia ad automonitorare i suoi tentativi di incontrare
un’amica, ma purtroppo con i Disturbi depressivi tutto è
particolarmente difficile.
Con Simona, per esempio, abbiamo fatto un’esperienza di autoistruzione
che, in linea generale, consiste nell’insegnare al bambino a darsi da solo le
istruzioni verbali necessarie all’esecuzione di un compito, attraverso l’uso
di un linguaggio interno. Il programma che ho sperimentato con Simona è
composto da quattro fasi. Nella prima fase io svolgo il ruolo di modello
durante l’esecuzione di un compito, per esempio un’addizione con il
riporto. Mi dò a voce alta le istruzioni verbali dicendo:
“Prima di tutto guardo attentamente l’operazione [15 + 8], poi comincio a sommare le unità:
8 + 5 fa 13. Ora mi chiedo: 13 è maggiore di 10? Sì. Dunque scrivo l’unità trovata [3] nella
colonna delle unità e riporto le decine [1] nella colonna delle decine…”.
Simona mi guarda, mi ascolta e per ora il suo unico compito è quello di
osservarmi in modo da essere in grado, quando glielo chiederò, di fare
come me.
La seconda fase consiste proprio nel tentativo, da parte della bambina, di
copiare il mio comportamento. Di fronte alle stessa operazione (e poi, in
seguito, anche di fronte a operazioni diverse) incoraggio Simona a darsi a
voce alta le istruzioni verbali per arrivare alla soluzione corretta.
Secondo i principi dell’apprendimento senza errori che abbiamo avuto
modo di vedere tante volte, la terza fase consiste nell’attenuazione delle
autoistruzioni verbali. Insegno a Simona, ancora ponendomi come modello,
che non è sempre necessario darsi a voce alta tutte le istruzioni complete,
ma che è possibile svolgere correttamente le addizioni con il riporto anche
riducendo queste autoistruzioni all’essenziale, per esempio:
“Sommo le unità… riporto le decine…”.
Tutte le altre istruzioni possono infatti essere dette dentro di sé, cioè
pensate. L’importante, naturalmente, è non dimenticare mai di pensare a
quello che si deve fare per arrivare alla soluzione.
Questa è, appunto, la quarta e ultima fase: imparare a darsi autoistruzioni
interne, inizialmente pronunciandole a bassa voce, poi solo a fior di labbra,
infine trasformandole in pensieri.
A Simona piacevano molto questi esercizi, che trovava così diversi dal
modo consueto di fare i compiti di matematica. Aumentò la sua attenzione,
la sua motivazione, la memoria per le regole e le strategie e la capacità di
usarle al momento giusto. Anche la generalizzazione sarebbe certamente
aumentata se solo le maestre mi avessero dato una mano. Comunque, per lo
meno con me in studio e con una mia collaboratrice che di pomeriggio la
aiutava privatamente e che seguiva le mie indicazioni, fu evidente che nello
svolgere le operazioni aritmetiche e, in seguito, nella soluzione dei
problemi, la bambina divenne meno passiva, più autoregolata e sviluppò
uno stile di attribuzione più adeguato (se mi impegno, se mi do le
istruzioni giuste, se penso prima di fare il calcolo, allora posso ottenere
risultati migliori).

pag. 540

E così siamo arrivati alla metacognizione, altro aspetto fondamentale nel


trattamento di questi problemi. Gli interventi metacognitivi, nel caso di
carenze logico-matematiche, possono riguardare la capacità di riconoscere
le abilità necessarie per il problem solving, la capacità di riconoscere il
proprio stile cognitivo, la capacità di ricorrere a strategie adeguate, la
capacità di autovalutare la propria prestazione. Strettamente connessi a
questi aspetti metacognitivi ve ne sono anche di più propriamente
emozionali, come l’acquisizione di un atteggiamento positivo nei confronti
della matematica, il riconoscimento e la gestione dell’ansia di fronte a
compiti matematici, la capacità di riconoscere in maniera positiva la
possibilità di insuccesso e di saper utilizzare l’errore, il superamento delle
idee stereotipate sulla difficoltà della matematica e la consapevolezza che
l’ansia per la matematica è comune a molte persone (Cornoldi, Gardinale,
Masi e Patternó, 1996).
Gli interventi metacognitivi per le abilità di scrittura possono riguardare
la conoscenza e la pianificazione dei processi di scrittura, la capacità di
definire da soli gli obiettivi da raggiungere durante la stesura di un testo, la
capacità di progettare e trascrivere il testo, la capacità di revisionarlo
attraverso l’autovalutazione e l’autocorrezione.
Infine, una serie di metodologie usate a lungo con Simona, spesso con
risultati interessanti, riguardano proprio quelle per le quali la bambina era
stata indirizzata a me. Gli strumenti informatici si possono rivelare utili in
questi casi da molti punti di vista. Possono gestire in modo automatico le
analisi del compito specifiche dell’area logico-matematica, proponendo al
bambino gli obiettivi ordinati gerarchicamente, eseguendo l’osservazione
sistematica al posto dell’educatore e stabilendo così in modo automatico
quando passare a compiti più difficili oppure, se vengono usate anche
strategie di apprendimento senza errori, quando attenuare gli aiuti. Vorrei
rapidamente notare, a tale proposito, come la gestione automatica di
procedure di solito molto noiose per l’essere umano lascino l’educatore più
libero di occuparsi degli aspetti motivazionali, relazionali ed emozionali del
bambino. Così, contrariamente a quanto a volte si crede, finiscono per
rendere la riabilitazione cognitiva con il computer meno meccanica e più
“umana” (Alberti, Celi e Laganà, 1994).
Gli strumenti informatici possono svolgere anche una funzione di veri e
propri eserciziari e offrire all’allievo in difficoltà mille occasioni per
consolidare la sua tecnica. Per esempio, così come per migliorare gli aspetti
legati all’ortografia è possibile utilizzare software come “Recupero in
ortografia” (Ferraboschi e Meini, 2014) o “Difficoltà ortografiche 1, 2, 3”
(Quintarelli, 2013 e 2014) o ancora “Gli aGlieni nell’orto…grafia” (Colli,
Mauri e Mari, 2011), per la matematica è invece possibile utilizzare
“Discalculia trainer” (Molin, Poli, Tressoldi e Lucangeli, 2009) che propone
molti esercizi, graduati per difficoltà, che riguardano diverse aree
importanti per imparare a calcolare, oppure “Sviluppare l’intelligenza
numerica 1, 2, 3” (Lucangeli, Poli e Molin, 2010, 2011 e 2012). Sono
inoltre disponibli diversi CD-ROM che insegnano la matematica con il
metodo analogico a partire dalla tabelline (Bortolato, 2014) fino ad arrivare
alla risoluzione di problemi aritmetici (Bortolato, 2013). Gli strumenti
informatici possono anche, d’altra parte, favorire invece l’apprendimento
per scoperta, soprattutto se il software è stato progettato in un’ottica
costruttivista (Bonetti, Marchetta e Celi, 2001), e questo è particolarmente
utile per sviluppare abilità carenti in ambito logico generale e di soluzione
di problemi aritmetici in particolare (Studer, 1999).
Come abbiamo già visto nel capitolo precedente, essi possono anche
favorire esperienze cooperative e aiutare il bambino in difficoltà a rimanere
il più agganciato possibile alla programmazione di classe.
Con Simona, per esempio, avevamo lavorato su programmi e ipertesti di
geografia e di astronomia, i cui temi erano molto vicini a quelli trattati dalla
maestra nello stesso periodo. Simona appariva molto più motivata e anche
molto più abile a “giocare” con questi software che non a studiare gli stessi
argomenti sul suo libro di testo. Imparava così molte cose che avrebbe
faticato tantissimo a studiare in modo tradizionale. Sarebbe stato facilissimo
per una maestra utilizzare queste nuove competenze della bambina per
permetterle di fare buona figura in un’interrogazione! Sarebbe stato ancora
più facile, dal momento che una mia collaboratrice aveva installato questi
stessi software su un computer della scuola e che i compagni di Simona
avevano una gran voglia di provarli, approfittare di tutto ciò per favorire
l’integrazione della bambina nel suo gruppo!
All’inizio, quando ancora non mi era ancora chiaro con chi avevo a che
fare, avevamo offerto anche la nostra consulenza per lavorare tutti insieme,
usando un semplicissimo sistema autore5 (Calvani, 1996), alla costruzione
di un ipertesto su un argomento qualsiasi del programma dell’anno, che la
maestra poteva scegliere. Inutile dire quanto questo avrebbe favorito
l’apprendimento collaborativo. Purtroppo non avevamo fatto i conti con la
maestra-strega, ma ciò, naturalmente, non toglie validità al discorso
generale. Gli strumenti informatici, nel caso specifico del Disturbo
dell’espressione scritta, permettono di far lavorare il bambino, attraverso
l’uso di word processor normali o semplificati (Sacco, 1993; Guastavigna,
1995), su compiti di scrittura a difficoltà crescente (De Francesco e Torro,
1991). Questo comporta grandissimi e documentati vantaggi. Aumenta la
motivazione, sia perché lo strumento tende a essere intrinsecamente
motivante, sia perché il bambino vede, forse per la prima volta nella sua
vita, un suo scritto leggibile e pulito; aumenta, come conseguenza di questa
leggibilità e di questa “pulizia”, l’opportunità di autocorrezione. Il processo
di correzione del testo è inoltre favorito dai correttori automatici, il cui uso
migliora anche la consapevolezza cognitiva delle strategie di correzione.
Sempre con questi obiettivi è possibile utilizzare anche il programma
“SuperQuaderno” (edito da Anastasis), che vedremo meglio nel prossimo
capitolo. La possibilità di presentare all’insegnante un buon testo, corretto e
bello a vedersi, come un tema o una ricerca fatta a casa, fornisce
l’opportunità di accedere facilmente a rinforzatori esterni; infine, il
materiale così prodotto e ben stampato può essere usato come strumento
facilitato di studio. Quando dall’uso di un semplice word processor e di una
semplice stampante si passa alla costruzione (ormai quasi altrettanto
semplice) di un ipertesto, si conservano tutti questi vantaggi ai quali si
aggiunge la possibilità per il bambino con Disturbo specifico
dell’apprendimento di fare un’esperienza cooperativa con i suoi compagni,
di dare il meglio di sé mentre i compagni danno a loro volta il meglio di
loro, di studiare un argomento non per il dovere di accontentare la maestra
ma per il piacere di costruire qualcosa (Celi, Lippi e Potenza 1995;
Marchetta, Bonetti e Celi, 2001).
Fino a oggi, purtroppo, con Simona non mi è accaduto, come in tanti
altri casi, di essere stato invitato, a fine anno scolastico, a partecipare a una
cerimonia di presentazione e consegna ai genitori di un CD-ROM costruito
in classe in forma cooperativa. Ci sono ancora alcuni che hanno resistenze e
pregiudizi sul fatto che le metodologie cognitivo-comportamentali – per di
più associate all’uso del computer – siano meccaniche, fredde, indifferenti
agli aspetti emotivi che sono poi spesso i più importanti nella vita di tutti
noi. Vorrei tranquillizzarli, assicurandoli che è molto bello, invece, quando
la maestra presenta il lavoro fatto dai bambini e il Direttore regala una copia
del CD-ROM a tutti i presenti, vedere il bambino con Disturbo
dell’apprendimento e i suoi genitori sorridere.
1 Vedi capitolo 7, nota 11.
2 Vedi capitolo 1, nota 3.
3 Moltissimi lavori sui processi e sui programmi di recupero per i Disturbi dell’apprendimento
matematico possono essere trovati nella rivista Difficoltà in matematica.
4 Vedi capitolo 3, note 12 e 13.
5 Scrivere un programma per computer con strumenti tradizionali è un’operazione lunga, complessa
e per lo più alla portata dei soli professionisti. I sistemi autore sono software che permettono di
produrre un ipertesto o un programma didattico con relativa facilità, a volte senza neppure conoscere
i rudimenti della programmazione, altre volte attraverso linguaggi di programmazione
particolarmente semplici e intuitivi.
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 9

La storia di Patrizia Da una


diagnosi difficile a un intervento
significativo
Fabio Celi, Daniela Fontana

IL PRIMO COLLOQUIO CON


LA MAMMA

“È timida, si tira indietro, è molto sensibile, le cose nuove la spaventano. È


un po’ come me”.
La mamma di Patrizia è molto giovane, e sembra piuttosto intimidita
all’apertura del nostro primo colloquio . Ma ciò non le impedisce di
dirmi subito una cosa che sembra molto importante. La sua bambina è come
lei: stessi problemi, stesse emozioni.

pag. 49

Questo dovrebbe mettermi sull’avviso, in qualche modo insospettirmi.


Patrizia è infatti arrivata con una segnalazione per un Disturbo specifico
dell’apprendimento. Da qualche mese è seguita da una pedagogista, che
nella lettera di invio scrive: “La bambina (otto anni; andrà in terza classe
della scuola primaria) è stata condotta da me perché il suo rendimento
scolastico risultava inferiore al quello dei coetanei”. Però aggiunge
immediatamente dopo, nella sua relazione: “L’anamnesi mette in evidenza
una familiarità per Ritardo mentale1 e Disturbi d’ansia”. La pedagogista ha
cominciato a seguire Patrizia durante l’estate (ora è settembre) con incontri
di un’ora e mezzo a frequenza settimanale centrati soprattutto sul recupero
delle abilità di lettura dove sono presenti, in particolare, sempre per quello
che leggo nella sua relazione, errori fonologici. Tuttavia ha inviato la
bambina a me per un aiuto non solo “finalizzato al recupero nell’area
linguistica”, ma anche per “potenziare la sua autostima e favorire lo
sviluppo affettivo e relazionale”. Mi chiede inoltre una “valutazione del suo
livello cognitivo e emotivo”.
Le prime parole della madre durante le manovre di apertura sembrano
andare nella stessa direzione dei dubbi della pedagogista. “È come me: un
po’ isolata, ha sempre bisogno di essere spinta”. Solo a questo punto
aggiunge: “E poi ha problemi di apprendimento, soprattutto nella lettura.
Confonde la b con la d. Già in prima faceva fatica a memorizzare le
lettere”.
Dopo averla lasciata parlare liberamente e aver così raccolto queste
prime informazioni che, in modo spontaneo, la mamma ha sentito il bisogno
di darmi, cerco di mettere a fuoco il problema in modo un po’ più preciso,
facendole domande specifiche sulle difficoltà della figlia. La mamma non
ha letto il DSM-5, naturalmente, né l’ICD-10: eppure, nel rispondere,
sembra illustrare il concetto di comorbilità molto meglio di come riescono a
fare molti libri: “È lenta. Anche le maestre me lo dicono: è come se avesse
paura”.
Nello scrivere queste pagine e nel riflettere, a distanza di qualche anno,
su questa storia, sono inevitabilmente avvantaggiato dal fatto di conoscere,
oggi, molte cose che ignoravo durante quel primo colloquio: oggi so chi è
Patrizia, so cosa ho fatto per lei, so quali problemi ha superato, almeno
parzialmente, e su quali è invece ancora in difficoltà. In qualche modo,
rispetto alla mia posizione di allora, conosco il futuro e questo non può non
influenzarmi adesso: eppure mi sembra che già queste poche parole mi
mettano in allerta.
La bambina, come spesso succede nella pratica clinica, è probabilmente
più complessa di quanto non sia l’asettica descrizione di un disturbo. “È
lenta. Anche le maestre me lo dicono: è come se avesse paura”: la frase
comincia facendo pensare a una difficoltà scolastica e, con perfetta
consequenzialità, finisce per portarci verso la sfera delle emozioni. La
mamma continua il suo racconto: “Spesso piagnucola quando va a scuola e
quando la vado a prendere, soprattutto se l’hanno fatta leggere o se ha fatto
brutta figura…”.
E poi, di nuovo, una svolta (non esistono autostrade che vadano dritte
alla meta nel nostro mestiere). Quando credevo di cominciare a capire il
problema di una bambina con difficoltà di apprendimento e tanta paura di
sbagliare, il colloquio prende una direzione completamente diversa.
“Ma io sono preoccupata per un’altra cosa…”, mi dice la mamma.
La ascolto. Cerco di dare tutta l’attenzione di cui sono capace a questa
nuova richiesta di aiuto.
“Il cugino ha delle ossessioni e io ho paura che Patrizia diventi come
lui”.
Le chiedo se vuole spiegarmi qualcosa di più.
“Un cugino di Patrizia ha attacchi di panico. Ripete le cose. A volte
anche mio marito ripete le cose, si fissa e le ripete”.
“Per esempio?”.
“Per esempio la domenica mattina dice: ‘Usciamo? Cosa facciamo
oggi?’, e lo ripete cento volte”.
Continuo ad ascoltarla in silenzio, perché mi sembra che abbia ancora
qualcosa da dire. Aggiunge:
“E poi anch’io sono ansiosa, anche se noi due [intende il marito e lei]
non abbiamo mai avuto bisogno di cure”.
C’è molta angoscia nel raccontarmi queste cose, un’angoscia che cerco
di raccogliere e ascoltare con empatia. Quello che mi sembra di capire è
che, ormai da molto tempo, la mamma ha cominciato a fare paragoni tra
Patrizia e il figlio di un fratello del padre: e le sembra a volte di vedere nella
patologia di quest’ultimo qualcosa che le ricorda i comportamenti della sua
bambina. Forse la paura della mamma è che la figlia abbia ereditato, sia
dalla famiglia del padre che da lei, qualcosa di molto brutto, non ben
definito ma sicuramente spaventoso.
La mamma non mi dice più di questo, per ora. Torna a parlarmi del
marito, che non sta molto dietro alla figlia. Le chiedo che lavoro fa il papà
di Patrizia.
“È un commerciante, sempre molto occupato”.
“E lei?”.
“Io sono casalinga. Durante l’estate ho lavorato in un negozio di
ceramiche, ma poi ho dovuto smettere”.
“Le piaceva lavorare?”.
“Molto…”, ma lo dice come se questa parola le fosse sfuggita, come se
lei stessa non ne avesse del tutto preso consapevolezza. Poi aggiunge:
“Patrizia veniva a trovarmi di pomeriggio, le piaceva molto, giocava con gli
animaletti di porcellana, mi aiutava a metterli in ordine e sembrava
un’altra”.
“E come mai ha dovuto smettere?”.
Anche questa domanda sembra come prenderla alla sprovvista. Riflette
(o forse prende tempo?):
“Perché devo aiutare mio marito, tenergli i conti, andare dal
commercialista…”.
E, dopo una pausa:
“… E poi l’ho fatto per la bambina, che rimaneva troppo tempo da sola”.
Mi pareva di aver capito che Patrizia fosse in qualche modo contenta che
la mamma andasse a lavorare. Glielo dico. Lei commenta (credo che il
verbo “commentare” sia più adatto di “rispondere”, perché in realtà quello
che mi dice non sembra la risposta alla mia domanda, quanto piuttosto un
pensiero a voce alta che la mia domanda le ha suscitato):
“Noi due siamo uguali, siamo due perdenti, ci areniamo alla prima
difficoltà”.
Penso che stia emergendo, di nuovo, il tema che ha aperto il colloquio e
farà da leitmotiv a una lunga parte di questa storia: “Patrizia è un po’ come
me”.
Le chiedo:
“Lei si è arenata alla prima difficoltà e così ha deciso di smettere di
lavorare?”.
Mi fa cenno di sì con la testa.
“E Patrizia è stata contenta di vedere che lei non andava più a lavorare?”
“Sì… credo di sì. E poi anche mio marito, gliel’ho detto, aveva bisogno
di aiuto e non gli piaceva molto che lavorassi fuori”.
“In casa siete lei, suo marito, Patrizia…”.
“E basta”.
Patrizia dunque è figlia unica e a una mia cauta domanda sull’atmosfera
familiare la mamma, con disagio, mi fa un cenno del fatto che in casa c’è
poca comunicazione, sia tra moglie e marito che tra Patrizia e papà.
Torno ai problemi della bambina, partendo di nuovo dalla scuola e
allargando il discorso alle relazioni sociali. Patrizia sembra andare
malvolentieri a scuola. Resta facilmente indietro e probabilmente questo
non aumenta la sua motivazione. La mamma mi mostra quaderni che, pur
ordinati e ben tenuti, sembrano di una bambina più piccola della sua età.
Inoltre è isolata, sia a scuola che nelle attività extrascolastiche. A scuola
non è molto considerata dalle compagne e tende così a starsene un po’ per i
fatti suoi. L’anno precedente aveva provato ad andare a danza, ma si è
subito stancata. Sembra che anche altri tentativi di attività pomeridiane
siano falliti prima ancora di cominciare.
“Il punto è che si stacca mal volentieri da me”, mi spiega la mamma. A
scuola, probabilmente, ci deve andare perché è obbligatorio anche se lo fa
con fatica. Ma cerca di evitare (e quasi sempre ci riesce) ogni attività
extrascolastica e perciò facoltativa”.
Una lunga pausa.
“E poi la situazione è peggiorata quando sono rimasta incinta e ho perso
il bambino”.
Mi sembra che il colloquio stia prendendo, per la seconda volta, una
direzione inattesa. La prima volta è stata quando la signora ha smesso di
parlare delle attuali difficoltà scolastiche e relazionali della figlia per aprirsi
su di una angoscia probabilmente ben più profonda, legata alla paura che,
crescendo, Patrizia diventi come un cugino pieno di problemi psicologici.
Adesso, di nuovo, viene accantonato l’argomento delle difficoltà della
bambina e la mamma mi parla di sé, del suo recente e dolorosissimo aborto.
È stato un periodo di lunga sofferenza e, anche se questo la signora non lo
dice, non credo che si tratti di una sofferenza conclusa. Inoltre Patrizia
sembra non saper nulla di tutto questo, o per lo meno nessuno gliene ha mai
parlato. La bambina sapeva che avrebbe dovuto arrivare una cicogna per
potare un fratellino o una sorellina e adesso più niente. Solo silenzio. Mi
pare di capire un pesante silenzio. Cerco di comprendere come mai né lei né
nessun altro abbiano pensato di dire alla bambina, seppure cautamente, la
verità. La risposta della madre non è facile da interpretare, ma di nuovo,
sicuramente, sottintende molto dolore:
“Ho paura. Quelli che soffrono di più sono i bambini…”.
È per me molto difficile in certi momenti di certi colloqui decidere se e
come andare avanti quando emergono contenuti così potenzialmente
significativi ma anche pericolosi. Da un lato, infatti, sembra evidente che
qui la mamma di Patrizia abbia sentito il bisogno di raccontare qualcosa che
pesa nella sua storia personale: qualcosa che, forse si rende confusamente
conto, avrebbe dovuto raccontare alla figlia, ma per la quale non ha trovato
le parole o il coraggio. Credo che si debbano dunque raccogliere queste
comunicazioni e ascoltarle con attenzione ed empatia. Ma dall’altro lato è
anche necessario tener conto che un primo colloquio di questo tipo
dovrebbe essere finalizzato alla preparazione all’incontro con la bambina.
Dunque, nonostante certe aperture, la mamma probabilmente non si aspetta
che trasformiamo questo momento preparatorio in una specie di
psicoterapia per lei. Forse lei stessa avrà bisogno di una psicoterapia. Quasi
certamente avrà ancora bisogno di essere ascoltata e compresa. Ma avremo
tempo per questo, in una prossima seduta, in altre sedute successive che
possiamo sempre programmare.
In questi casi la cosa più sensata da fare mi sembra quella di raccogliere
le comunicazioni, la paure, i dubbi e i dolori che emergono e ricordare che
potremo sempre riprenderli in seguito, senza però permettere che tutto
questo ci porti, in un primo colloquio, troppo lontano. Troppo lontano non
solo dal nostro obiettivo (e questo poco importa), ma forse anche
dall’obiettivo del genitore, che è venuto da noi perché noi vediamo e ci
prendiamo cura del figlio. Un’insistenza eccessiva e una eccessiva
sottolineatura dei problemi dei genitori potrebbero anche dare l’impressione
che noi abbiamo già deciso che non è il bambino ad avere bisogno di aiuto,
ma il genitore stesso, cosa un po’ pericolosa se metacomunicata in modo
così non pensato, implicito e precipitoso.
Torno dunque alla mia raccolta di dati e chiedo:
“E lei, quando aspettava Patrizia, ha avuto una gravidanza regolare?”.
Mi risponde di sì. Anche il parto è stato eutocico a termine.
Spontaneamente, e con visibile orgoglio, mi cita anche l’indice di Apgar:2
10, 10, come a voler allontanare i fantasmi di poco fa, del cugino malato,
dei bambini che soffrono… Madre e bambina sono state dimesse
regolarmente in quarta giornata e poi, una volta a casa, le cose si sono
svolte in modo tranquillo. Allattamento al seno per qualche mese, poi latte
artificiale, poi svezzamento senza problemi. Le prime parole e la
deambulazione autonoma sono comparse intorno al compimento del primo
anno e tutto è andato avanti senza scosse fino al momento della scuola
dell’infanzia, dove ha sempre avuto grandi difficoltà a staccarsi dalla madre
e che, per questo motivo, ha finito per frequentare molto irregolarmente. In
prima classe della scuola primaria, poi, come abbiamo visto fin dalle prime
battute del colloquio, sono iniziate le difficoltà specifiche, in particolare
nella lettura. Una visita oculistica, per accertarsi che queste difficoltà non
dipendessero da qualche deficit visivo, aveva dato esito negativo.
Arriviamo così all’ultima fase del nostro colloquio. Gli accordi
conclusivi, che di solito portano via un certo tempo e possono essere
piuttosto complicati, sono invece in questo caso semplici fino alla banalità.
Patrizia sa già che verrà vista da un nuovo dottore per le sue difficoltà
scolastiche. Sa anche che questo dottore è un collega della pedagogista che
l’ha aiutata a studiare durante l’estate e che è stata proprio lei a chiedere
questa consulenza: dunque non dovrebbero esserci particolari problemi.

COMINCIAMO A CONOSCERE PATRIZIA

La prima seduta: un inizio difficile


Mi domando adesso, nel rimettere a posto gli appunti della mia cartella, se i
nostri accordi non siano stati troppo semplici, frettolosi e superficiali.
Patrizia non appare davvero pronta per questo incontro. Il primo
approccio è difficilissimo. Sembra come paralizzata dal terrore per la
situazione e resta disperatamente attaccata alla mamma, quasi con le unghie
conficcate nelle sue cosce. Di solito, quando un bambino durante il primo
incontro sente il bisogno di entrare con un genitore, io comincio a pensare a
come programmare gradualmente il distacco: rivolgendomi direttamente a
lui piuttosto che all’adulto, cercando di metterlo a suo agio, coinvolgendolo
in una attività o in un gioco che attiri il suo interesse e lo decentri rispetto al
problema della separazione. Ma qui nemmeno a provarci. Non mi passa
neppure per la mente di poter allontanare la mamma dalla bambina.
L’atteggiamento è totalmente mutacico e il volto quasi inespressivo.
Facile immaginare non solo il suo grande disagio, ma anche il mio
imbarazzo. Schematizzando al massimo, ci sono tre tipi di piccoli pazienti
che si presentano al primo colloquio. C’è il bambino facile, che sa già
perché è venuto da me e immagina con una certa precisione cosa lo aspetta:
è collaborativo, si mette in relazione in modo adeguato, risponde alle
domande mostrando disinvoltura e tranquillità. Poi c’è il bambino
esternalizzato, che tocca tutto, è interessato a tutto, parla di tutto ed è
sostanzialmente incontenibile: con lui lo sforzo iniziale del terapeuta è,
appunto, contenerlo, evitare che butti all’aria lo studio e dirigere piano
piano il colloquio e le attività verso qualcosa di costruttivo. Infine ci sono i
bambini come Patrizia. Non saprei dire quale dei due tipi, il secondo o il
terzo, siano i più difficili. Certo con Patrizia tutta la mia attenzione è
centrata sulla cautela a non allarmarla, a non chiederle niente che possa
metterla in difficoltà, a farle comprendere che qui da me non dovrà fare
nulla che non abbia voglia di fare o che la spaventi, che non c’è niente di
obbligatorio, che io non ho nessuna fretta di raggiungere nessun risultato e
che, almeno per ora e per tutto il tempo che sarà necessario, siamo qui solo
per conoscerci. Farò dunque cautamente soltanto qualche semplice
domanda senza necessariamente attendermi una risposta. Più è forte la
difficoltà, più le domande saranno semplici e a risposta chiusa: mi
accontenterò di un sì, di un no, anche solo di un cenno del capo. Per
esempio, sfruttando il fatto che io ho già una cartella e dunque delle notizie
su di lei, potrò domandarle:
“Allora, Patrizia, se non mi ricordo male, andrai in seconda classe della
scuola primaria. Giusto?”.
Anche un sì con un filo di voce, anche il più impercettibile segno di
assenso, saranno rinforzati con convinzione, a sottolineare che quello che
stiamo facendo e dicendo è, per ora, più che sufficiente. Oppure tenterò di
proporle, ma di nuovo molto cautamente, sempre appunto come una
proposta e mai come un’imposizione, un gioco, un disegno, un’attività
qualsiasi. Spesso qualcosa che consenta al bambino di tenere la testa bassa
impegnato in un semplice compito come colorare o comporre un puzzle lo
aiuta a superare il disagio relazionale e l’ansia generata dalla situazione
nuova.
Quando, a partire dal caso di Patrizia o da casi simili, discuto di questi
temi con giovani colleghi in formazione, emerge spesso una difficoltà
legata alla paura di perdere tempo, a una specie di ansia prestazionale che
potrebbe essere tradotta in un dialogo interno di questo tipo: “Ma cosa sto
facendo io con questo bambino? Qual è l’obiettivo di questo mio intervento
che mi sembra così senza capo né coda? E la mamma, qui di fronte a me
che mi guarda, cosa penserà del fatto che io non sto combinando nulla?”.

pag. 162
La risposta a questi dubbi è l’abituazione (vedi riquadro): a parità di
condizioni, l’ansia e in genere il disagio emotivo decrescono con il passare
del tempo. In altre parole, ci si abitua a una situazione inizialmente
percepita come pericolosa perché nuova. Tutto ciò significa, più in generale,
che il tempo che può sembrarci perso è spesso tempo guadagnato: e non
solo per il paziente. Se un bambino è in ansia non gli fa certo bene
percepire che è in ansia anche il suo terapeuta, perché ha fretta di
raggiungere qualche risultato, o di fare qualche test, o di ottenere per lo
meno qualche risposta significativa alle sue domande. Questo può essere
facilmente spiegato al genitore che è entrato con il figlio. Spesso io guardo
l’orologio e chiedo, per esempio:
“Ha fretta, signora?”.
Quasi sempre mi viene risposto di no.
Allora aggiungo:
“Glielo dico perché sto perdendo un po’ di tempo in modo che il
bambino familiarizzi con la situazione…”.
Naturalmente la cosa è più semplice in un setting pubblico, dove la fretta
e l’ansia da prestazione dello psicoterapeuta non sono influenzate dal
pensiero che a fine seduta, indipendentemente da quello che si è riusciti a
fare, sarà necessario chiedere del denaro. Ma non credo che questo possa
modificare sostanzialmente la questione: se un paziente ha bisogno di
tempo, è bene concedergli questo tempo, anche se poi lo dovrà pagare.
Siamo dunque a queste prime caute manovre di abituazione e di
conoscenza reciproca quando, dopo una decina di minuti passati tra silenzi,
imbarazzi e qualche monosillabo, abbiamo un colpo di fortuna.
All’improvviso va via la luce nello studio e Patrizia sorride. Le chiedo se la
cosa la diverte. Mi fa cenno di sì, sempre ridacchiando. Fingo di affannarmi
a rimediare, cercando di rendere il più caricaturale possibile la scena.
Quando finalmente torna la luce le dico che a questo punto, dopo che ho
fatto tanta fatica, potrebbe anche farmi un disegno. Accetta e, con la testa
china sul foglio, risponde a qualche mia domanda. Le dico che mi sta
facendo un disegno bellissimo. Le chiedo che voto ha in disegno. Con un
filo di voce mi dice che non lo sa,3 come non sa il giorno del suo
compleanno; però sa rispondermi che ha otto anni e in ogni modo, anche se
tra mille difficoltà, una relazione verbale tra di noi è cominciata. Piano
piano, sempre a voce bassissima, pronuncia qualche semplice frase in
risposta a qualche mia semplice richiesta. Dopo una mezz’ora circa si
stacca fisicamente dalla madre, nel senso che non ha più bisogno di
toccarla; allora la madre si allontana con la sua sedia di qualche centimetro
dalla scrivania. Racconto questi dettagli perché spero che abbiano un
significato “terapeutico” per lo psicologo clinico che, ancora con poca
esperienza, si stia avvicinando al mondo dell’età evolutiva. Difficoltà come
quelle che ho appena descritto sono piuttosto frequenti nel nostro lavoro e
creano spesso situazioni di imbarazzo e di apparente impasse. Ma tendono,
quando prima quando dopo, a risolversi in questo modo. A volte è
necessaria una manciata di minuti perché il bambino si abitui alla situazione
e la relazione prenda il via. Altre volte, come in questo caso, è necessaria
metà seduta. Ci sono anche casi più difficili nei quali sono necessarie
settimane di lavoro (di apparente non lavoro), ma poi, invariabilmente,
l’abitudine prende il posto dell’ansia, purché il terapeuta sia consapevole di
questo e si comporti (apparentemente, non si comporti) di conseguenza. Il
grande nemico, in queste situazioni, è il bisogno di fare qualcosa, di
guadagnarsi la parcella lavorando attivamente verso chissà quale obiettivo.
La grande alleata, come avviene molto spesso nel nostro mestiere, è una
consapevole pazienza.

ABITUAZIONE
A parità di condizioni, l’ansia tende a decrescere a mano a mano che
rimaniamo immersi nella situazione ansiogena, o in funzione di
quante esperienze simili facciamo di questa situazione. L’ansia che
provo oggi quando devo fare una lezione all’Università è
infinitamente più bassa di quella che ricordo di aver provato il mio
primo giorno di lezione il primo anno. Questo fenomeno prende il
nome di abituazione e può essere sfruttato in psicoterapia offrendo al
paziente occasioni sufficientemente prolungate o frequenti di fare
esperienza delle situazioni che gli creano ansia.
Per esempio, Patrizia nel presente capitolo, ed Enrico nel 21, si sono
tranquillizzati a mano a mano che hanno fatto l’abitudine a situazioni
nuove inizialmente ansiogene per loro.

Dunque Patrizia si stacca fisicamente dalla mamma e la mamma si


stacca fisicamente dalla scrivania. Questo tende a favorire, anche se per ora
impercettibilmente, il mio relazionare con la bambina piuttosto che con la
madre; ma non significa certo che l’ansia sia scomparsa. Trovo in cartella
l’appunto “tensione emotiva simmetrica”. Significa che mi sembra di
cogliere non solo la tensione di Patrizia all’allontanarsi della madre, ma
anche quella speculare della madre all’allontanarsi da Patrizia. Credo che
questo abbia, di nuovo, molto a che fare con la frase con cui si era aperto il
nostro primo colloquio:
“È timida, si tira indietro, è molto sensibile, le cose nuove la spaventano.
È un po’ come me”.
Vedremo come questi indizi si riveleranno preziosi quando dovremo
progettare un intervento terapeutico.
La bambina mostra dunque un continuo bisogno di fare riferimento alla
madre, per esempio prima di rispondere a una domanda; di chiederle
conferma; di assicurarsi che sia ancora lì; di appoggiarsi a lei in molti
momenti e in mille modi. E la mamma è sempre pronta a rispondere con un
atteggiamento timoroso, apprensivo: come se in ogni momento la figlia
dovesse mostrare le sue inadeguatezze.
Tuttavia la seduta continua ad andare meglio di come era cominciata.
Patrizia prende sempre più confidenza con la situazione e sembra trovarsi
particolarmente a suo agio con una tirocinante specializzanda4 che fino a
quel momento è rimasta in una posizione silenziosa di ascolto e
osservazione. Stiamo parlando degli animaletti di porcellana del negozio
dove la mamma lavorava durante l’estate. Comincia a raccontare,
evidentemente più rivolta alla tirocinante che a me, di coniglietti, cani e
caprette. La tirocinante le dà tutta la sua attenzione e questo sembra
funzionare: Patrizia, dagli animaletti finti, passa a parlare di quelli veri. Ha
un cagnolino al quale sembra molto affezionata che si chiama Ted, e la
mamma le ha promesso che le comprerà dei pesci rossi. È evidente che si
intendono. Scelgono insieme qualche gioco e si divertono così fino a alla
fine di una seduta che credo possa essere interessante rivedere da capo,
questa volta con gli occhi della specializzanda, cioè riportando qui di
seguito gli appunti della sua cartella.
La bambina entra con la mamma. Parla poco ma disegna e risponde a monosillabi.
Attaccamento preoccupante e simmetrico. Povertà generale nell’interazione, nel disegno e
apparente povertà cognitiva (non sa dire la data di compleanno né il nome di qualche amico)
in una situazione di tensione. Cambia l’interazione e anche la vivacità quando riusciamo a
parlare di animali. Controlla qualche volta che la mamma sia ancora lì, ma rimane. Facciamo
un puzzle: non si arrende alla mamma che le sottolinea gli errori e va avanti. Ne fa un altro
che probabilmente è troppo difficile per lei, ma si vede che ci tiene e arriva in fondo. Molto
sensibile ai rinforzatori e agli aiuti. Mi sembra che si stia trovando bene. Anche la mamma
adesso è più a suo agio e ripete a Fabio che è contenta e si vede che la bambina ha reagito
bene. Nel frattempo facciamo un gioco di ricostruzione di immagini: a volte cerca di mettere
insieme dei pezzi che è evidente non ci possano stare (forse la bambina ha problemi
cognitivi?).

La seconda seduta: una mamma in difficoltà

L’incontro successivo inizia, anche se con tonalità emotive meno intense,


un po’ come il primo.
Patrizia arriva con la mamma e l’impressione netta, sia mia che della
specializzanda, è che la mamma abbia bisogno di entrare nel mio studio
almeno quanto la bimba di averla vicina a sé. In realtà è la mamma che
parla, racconta, gestisce la seduta. All’inizio la bambina rifiuta anche di
disegnare e sembra interessata soltanto a quello che ci diciamo. È evidente
che ascolta tutto con attenzione, si direbbe con le orecchie tese, ben
consapevole che quello che stiamo dicendo la riguarda molto da vicino.
“Il primo giorno di scuola è andato così e così: lei si è fatta un
piantolino, ma non molto, diciamo cinque minuti. Io no!”.
Se ci fosse stato bisogno di una prova del fatto che la mamma sentiva la
necessità di raccontarsi, l’abbiamo adesso in quegli ultimi due monosillabi
che chiudono la frase. E un attimo dopo aggiunge:
“Avevo il cuore gonfio, ma non ho pianto”.
C’è una sofferenza riconosciuta in queste parole, insieme al desiderio di
superarla. Ed è molto difficile, mentre la mamma racconta delle lacrime
trattenute a stento il primo giorno di scuola, dimenticare quello che mi ha
detto solo una settimana fa: “È timida, si tira indietro, è molto sensibile, le
cose nuove la spaventano. È un po’ come me”. E ancora: “Noi due siamo
uguali, siamo due perdenti, ci areniamo alla prima difficoltà”.
Intanto Patrizia è attaccata anche fisicamente alla mamma, ma a questo
punto diventa molto difficile capire se questa vicinanza le serva per essere
sostenuta o per sostenerla. Quello che è certo è il bisogno della madre di
continuare a raccontare: che Patrizia, durante la settimana, le ha parlato
molto bene della seduta qui con noi, mentre al padre non ha detto niente.
Patrizia, nel frattempo, ha cominciato a disegnare con la specializzanda.
Chiedo alla mamma qualcosa di più sui rapporti tra la bambina e il
padre. Mi vengono descritte relazioni molto distanti, quasi inesistenti.
Sembra che l’unico modo che hanno di stare insieme sia quello dei
battibecchi; oppure il padre la cerca e la stuzzica per giocare, magari in un
modo che per Patrizia appare troppo irruento (per esempio cercando di
bloccarla per farle il solletico) e lei si allontana brontolando o addirittura
piangendo; e se ne va in camera sua. Il risultato è quasi sempre che il padre
si offende. Succede qualcosa di simile anche la domenica, quando il padre
vorrebbe uscire, fare un giro con la famiglia, e spesso le due donne di casa
gli rispondono di no. Probabilmente un meccanismo analogo è entrato in
gioco anche rispetto al problema del lavoro della madre nel negozio di
ceramiche. Anche in quella situazione il marito si è sentito trascurato, come
messo da parte, sebbene poi la moglie, dopo una rapidissima apertura su
questo tema, subito ripieghi su Patrizia, che non poteva essere lasciata sola
per tanto tempo tutti i giorni.
È a questo punto che la bambina, sorprendentemente, interrompe il
lavoro sul disegno che stava facendo con la tirocinante per dire:
“Se vuoi tornare a lavorare, per me ci puoi andare”.
Ne parliamo un po’ mentre Patrizia torna al suo disegno: si tratta di una
serie di famiglie immaginarie, perché si è rifiutata di fare il disegno della
sua (fig. 9.1). Prima è la volta di una famiglia, numerosissima, di
coccodrilli. I coccodrillini dividono la mamma dal papà, che sono disegnati
l’uno lontanissimo dall’altra, quasi agli antipodi del loro mondo. Un piccolo
coccodrillo sputa al papà: come a ribadire i cattivi rapporti poco prima
descritti dalla mamma. La seconda famiglia è di pesci, ed è disegnata in
modo molto simile, con i genitori molto distanti tra loro.
Figura 9.1 Le famiglie immaginarie. In quella in alto si può vedere la scritta “PU” accanto alla
freccia che parte da un piccolo coccodrillino, a indicare lo sputo verso il papà.

La mamma mi dice:
“Patrizia faceva il conto alla rovescia di quanti giorni mancavano alla
fine del mio lavoro estivo”.
“Allora lei ha smesso perché glielo chiedeva la bambina”.
“Veramente me lo ha chiesto una volta sola…”.
Mi guarda. Io guardo la bambina che adesso gioca tranquilla con la
tirocinante. Sorrido alla mamma, con una punta di ironia, come a suggerire
che forse il problema non è proprio e solo tutto della bambina.
Sembra comprendere e riflettere. Dopo qualche secondo di silenzio
aggiunge:
“Se sapessi che fa bene alla bimba ci tornerei”.
La seduta ha preso una piega che non avevo programmato. Madre e
figlia sono entrate insieme e poi è stata la madre a rivolgersi a me, come se
in qualche modo io fossi il suo psicologo. Patrizia, nel frattempo, ha
familiarizzato sempre di più con la tirocinante e questo, per ora, ci è utile
per favorire il distaccarsi tra la mamma e la bambina. Tuttavia è anche
giusto riconoscere che la situazione mi sta in un certo senso sfuggendo di
mano, perché non era certo questo che avevo in mente per la seconda
seduta. La cosa si fa ancora più evidente quando la bambina comincia a
giocare con una bambola, la mamma la guarda e dice che anche a casa
gioca spessissimo e a lungo in questo modo. Il papà, quando la vede, si
arrabbia e la sgrida. Trovo un po’ strana la rabbia del papà, dal momento
che Patrizia ha otto anni e mi sembra piuttosto normale che giochi con le
bambole. Allora la mamma mi spiega il motivo delle loro perplessità
aggiungendo che fa così da dopo l’aborto (anche se non usa questo termine,
ma un giro di parole). Mi sembra impossibile non raccogliere questa nuova
comunicazione, non rimandargliela indietro e non arrivare a condividere
che certamente le cose sono collegate e che Patrizia, con questo gioco
insistito, sembra voler dire qualcosa, esprimere un bisogno o un’emozione.
Mi sembra impossibile non raccogliere, ma lo faccio in un modo veloce e
come furtivo, un modo che non mi piace ma che mi è dettato dalla presenza
della bambina. Poi, appena mi è possibile, cerco di coinvolgere la figlia
come protagonista della seduta, piuttosto che continuare a lasciarla in un
angolo mentre parlo con la mamma di cose che lei probabilmente ascolta
come di nascosto.
Prendo dallo scaffale della libreria un libro di animali molto semplice e
dico alla mamma di provare a far leggere la bambina. Temo che se lo
facessi io direttamente potrei mettere Patrizia in maggiore difficoltà. In
questo modo, invece, posso mantenere il coinvolgimento della madre nella
seduta, evitare la marginalizzazione della bambina e osservare le loro
interazioni su un compito preciso. Patrizia prima guarda le figure e sfoglia
velocemente le pagine senza leggere nulla. Contrattano per un tempo
piuttosto lungo la pagina da leggere (“questa è troppo lunga… questa non
mi piace…”). Quando la mamma insiste, Patrizia mostra una certa
oppositività iniziale. Poi comincia a leggere con un filo di voce, appena
percettibile. Mostra gravi esitazioni di fusione di fronte a parole appena più
difficili delle bisillabe piane. La mamma la riprende invitandola a non
guardare i disegni, ma a concentrarsi sulla lettura. Guarda la figlia con aria
preoccupata, come se di nuovo temesse una brutta figura e quindi il
materializzarsi delle sue paure. Non rinforza mai la bambina, neanche
quando legge in modo corretto una parola. Le fornisce qualche timido aiuto,
ma con una voce molto bassa, ai limiti della percettibilità proprio come
quella della figlia. Le corregge spesso gli errori e, mi appunto per la
seconda volta in cartella, non gratifica mai le risposte adeguate.
La lettura di Patrizia è lenta, la bambina appare costantemente in
difficoltà, confonde in particolare la b con la d e la a con la e. Inoltre,
sembra non credere a quello che fa. Non ha fiducia nella possibilità di fare
buona figura, ma, al contrario, appare certa che non leggerà bene.
L’impressione, per usare un termine tecnico, è di una bassa autoefficacia
, con un dialogo interno del tipo: “tanto, qualunque cosa faccia, leggerò
male”.

pag. 182

Adesso, però, devo lasciare di nuovo la parola alla cartella della


tirocinante specializzanda, perché a un certo momento succede qualcosa di
troppo importante, che richiede tutta la mia attenzione e dunque sono
costretto a smettere di prendere appunti.
La mamma deve far leggere la bimba. Non dà istruzioni. La bimba esplora le immagini poi la
mamma, timidamente, riesce a farla leggere. Legge molto lentamente e a voce molto bassa. Io
non riesco a percepire la sua voce. La mamma di tanto in tanto dice:
“Dai Patrizia.”
Oppure:
“No”.
La bambina legge molto male ma non rifiuta il compito. La mamma lancia occhiate a Fabio,
cercando comprensione, come a dire: “Ha visto?”. Patrizia continua a leggere. La lettura è
decisamente deficitaria per l’età, anche se mi sembra che la comprensione sia adeguata.
A un certo momento guarda l’immagine di una capra e dice:
“È incinta”.
(Effettivamente sembra incinta).
Fabio: “La vorresti una sorellina?”.
Patrizia: “No”.
“Perché?”.
Tace.
“Cosa pensi se arrivasse un fratellino?”.
“Sarei gelosa”.
“E cosa pensavi quando la mamma andava a lavorare?”.
“Deve portare anche me”.
“Secondo te, la mamma sarebbe contenta di andare a lavorare?”.
“Sì”.
“E tu saresti contenta se ci andasse?”.
“Sì, ma il papà era geloso”.
“Tu però saresti contenta?”.
“Sì”.
“Allora glielo diciamo?”.
Poi però si imbarazza, ma dà il permesso a Fabio di dirglielo. La mamma si emoziona.
Due parole su questo episodio. Come spesso succede, il problema non
sembra essere che Patrizia non sa la verità (in questo caso, che la mamma
ha perso il bambino che aspettava), ma che nessuno ha trovato le parole e il
coraggio per dirgliela. Così Patrizia fa capire di sapere molte più cose di
quanto gli adulti siano disposti a pensare. Io però, in questa situazione, non
posso fare altro che ascoltare e portare, genericamente e velocemente, il
discorso sul possibile arrivo del fratellino. Poi, naturalmente, terrò in
memoria l’episodio della capretta incinta e cercherò di lavorarci con i
genitori; ma adesso non è compito dello psicologo raccontare cose che i
genitori stessi ancora non hanno detto. Dal momento però che Patrizia si è
aperta molto, in presenza della madre, ne approfitto per parlare delle sue
paure e, in particolare, del problema di essere lasciata sola dalla mamma
quando va a lavorare. La bambina è molto brava nel venirmi dietro e nel
comunicare alla madre che, per quello che la riguarda, lei potrebbe
continuare a lavorare senza porsi tanti problemi.
Forse qualche lettore penserà che io, in questa fase del colloquio, ho
fatto cadere molti argomenti e perso molte occasioni. Può darsi. Ma può
anche darsi che, quando tanto materiale arriva tutto in una volta e molto
confusamente, sia meglio metterlo in memoria, farlo decantare e lavorarci
poi con più calma e con più metodo in un momento successivo. Vedremo
più avanti come alcuni di questi temi (non tutti, inevitabilmente) verranno
ripresi ed entreranno a far parte del percorso terapeutico.
A questo punto, con la bambina collaborativa e piuttosto tranquilla,
inizio le CPM.5 Patrizia si concentra sul compito. Provo a chiederle se la
mamma può andare in corridoio. Mi fa cenno di sì. Ha qualche difficoltà a
farla uscire e poi, una volta che la mamma è fuori, mostra lievi segni
d’ansia di separazione, ma completa il test senza problemi. Faccio rientrare
la mamma.6 Insieme alla tirocinante chiediamo a Patrizia se la prossima
volta ci porta la sua bambola, che si chiama Beatrice. Sembra contenta di
accettare.

IL PAPÀ
Mentre Patrizia prendeva accordi con la tirocinante, ho parlato rapidamente
con la mamma nel corridoio. Le ho detto che, anche alla luce di tutto quello
che stava venendo fuori, avrei avuto piacere di conoscere suo marito e di
poter parlare un po’ tutti e tre insieme. La signora mi ha risposto che vedeva
la cosa come piuttosto difficile: già il marito è molto scettico su questo tipo
di interventi sulla figlia, poi è sempre così occupato per il lavoro… Ho
risposto che naturalmente non era un obbligo, ma una mia idea, una mia
proposta. Ho aggiunto che sullo scetticismo non potevo farci granché, ma
per il problema degli impegni potevo venire loro incontro, per esempio
fissando un appuntamento la sera tardi oppure il sabato. Sono rimasto
d’accordo che lei ne avrebbe parlato con il marito e poi mi avrebbero fatto
sapere.
Il sabato mattina tra la seconda e la terza seduta con Patrizia riesco a
vedere i genitori insieme. Il discorso cade subito sui rapporti difficili tra la
bambina e il padre, il quale mi racconta che la figlia lo rifiuta, lui ci rimane
male, si arrabbia e finisce per farle i dispetti, per ripicca, come farebbe un
coetaneo. Il risultato è che la figlia si allontana ancora di più.
Gli dico che è un provocatore.
Mi rendo conto ora, rivedendo gli appunti, che si è trattato di un azzardo,
dal momento che eravamo nella prima fase del nostro primo colloquio.
Avrebbe potuto non riconoscersi in questa mia definizione, oppure
offendersi. Invece sembra che mi sia andata bene. Mi risponde che è vero:
anche da ragazzo, a scuola, non faceva che prendere note e dare problemi ai
genitori. “Ora”, aggiunge, “attacco Patrizia forse per attirare un po’ la sua
attenzione che altrimenti è tutta per la mamma”.
“Attacca Patrizia…”.
“Sì…”.
“Per esempio, se la prende quando gioca con la sua bambola Beatrice”.
“Sempre con quel bambolotto… sembra un secondo figlio…”.
“Appunto…”.
Riescono entrambi a venirmi dietro su questo tema; a comprendere che
quasi certamente Patrizia sa e adesso avrebbe bisogno di sentirlo raccontare
da loro. Dico:
“Prima non faceva questo gioco”.
“Prima no”.
“Quando ha iniziato?”.
“Da dopo che è successo quello che è successo”.
Ma questa lunga perifrasi per non nominare l’aborto neppure adesso, in
un colloquio protetto alla presenza di un professionista e senza Patrizia, la
dice lunga sul percorso che ancora dovremo fare.
“Non ne avete più parlato?”.
“No”.
“Avete paura”.
“Sì, abbiamo paura”.
Di nuovo lavoriamo su questo, perché sviluppi, sia pure con i tempi che
saranno necessari, la consapevolezza della necessità di superare il silenzio.
Di paura in paura, di non detto in non detto, arrivano insieme a un’altra
grande angoscia familiare, della quale la mamma mi aveva già fatto un
cenno durante la prima seduta. Fanno molta fatica a raccontarmelo e il
racconto è molto incompleto. Ma sul dramma che generano questi pensieri
ci sono pochi dubbi. Torna di nuovo il fantasma del cugino di Patrizia. Il
papà si emoziona a parlare della malattia del nipote e della sua paura che
Patrizia sia o diventi come lui.
La mamma lo ascolta. Ho l’impressione che in casa abbiano parlato ben
poco di tutto questo: la mamma lo ascolta quasi come se fosse la prima
volta. Poi commenta:
“Io non ho paura. Sono terrorizzata”.
Lascio che racconti di nuovo questo suo terrore, senza rassicurarla
rispetto a cose che per ora non posso sapere, ma dicendo a entrambi che
cercherò di conoscere Patrizia in modo da poter rispondere ai loro dubbi.
Questa, tra l’altro, è anche una delle richieste della pedagogista che me l’ha
inviata (la sua relazione parlava esplicitamente di una “valutazione del suo
livello cognitivo e emotivo”) e dunque potrebbe essere il mio primo
obiettivo di lavoro con la bambina.
Discuto con i genitori anche altri obiettivi possibili.
Un secondo potrebbe essere un avvicinamento dei comportamenti del
padre e di quelli della madre nei confronti della figlia. Adesso mi sembrano
così diversi gli uni dagli altri, così distanti da generare poi, inevitabilmente,
comportamenti molto diversi della bambina nei confronti dei genitori. Forse
per questo per Patrizia è tanto difficile, da un lato, staccarsi dalla madre e,
dall’altro, avvicinarsi al padre.
L’ultimo obiettivo è quello di parlare esplicitamente del bambino perso.
Il padre sembra molto colpito dal modo con cui ho formulato il secondo
obiettivo e dal fatto che, secondo me, Patrizia si comporta in modo così
diverso con loro perché loro si comportano in modi così diversi con lei. E
commenta:
“È vero che Patrizia vuol stare solo con la mamma, ma è anche vero che
la mamma non la lascia un momento”.
“Sì, certo, è quello che ho notato anch’io. Ma sei poi la mamma prova ad
andare a lavorare e lei non ce la manda…”.
Sembra colpito7 da questo, come da un piccolo insight. Ci lavoriamo.
Favorire il distacco della bambina dalla madre può essere un lavoro
complesso. Ma padre e madre possono fare insieme piccoli passi in questa
direzione. La mamma per prima può provare ad allontanarsi un po’. Si
possono invitare a casa sua alcune compagne di scuola. Proviamo a fare
altri esempi semplici di distacco e su questo tema concludiamo la seduta.

LE SEDUTE SUCCESSIVE CON PATRIZIA

Può essere un caso, naturalmente: perché è difficile distinguere gli effetti


del nostro lavoro da cose che sarebbero successe comunque anche senza un
intervento specifico: fatto sta che, alla seduta successiva, la mamma fin dal
corridoio prova a staccarsi da Patrizia. La bambina non sembra
contentissima di questa novità, ma entra comunque nel mio studio da sola e
ci resta senza particolari problemi mentre la mamma va a prendersi un caffè
alla macchinetta automatica poco più in là. Iniziamo la WISC-R,8 che
esegue senza intoppi per 45 minuti. Poi decido di far entrare la mamma.9
Lascio la bambina a giocare e chiacchierare con la tirocinante e vado a
parlare con la signora in un altro studio. Mi dice che la situazione con il
padre non si è modificata in alcun modo, ma le sembra che la figlia vada a
scuola un po’ più serena. Inoltre è stata invitata a un compleanno da una
compagna di classe. Non avrebbe voluto andarci, ma la mamma l’ha spinta
e rassicurata dicendole che non l’avrebbe lasciata sola. Patrizia è andata,
anche se con grande difficoltà. Poi, però, con la mamma sempre a portata di
vista, si è anche divertita. Faccio notare alla mamma l’importanza di questi
piccoli passi. La signora, emozionata, sembra per un attimo venirmi dietro,
ma poi comincia a piangere silenziosamente. La lascio piangere per qualche
decina di secondi e poi provo a chiederle i suoi pensieri. Mi dice che sì, è
contenta di vedere che sua figlia può fare qualche progresso, ma questo le
fa venire in mente i continui commenti della suocera, che vive in un
appartamento sopra di loro, nel loro stesso palazzo. Quando la donna vede
la nipotina in difficoltà, per esempio ad andare a una festa, non perde
occasione per dirle che suo nipote (il tanto citato cugino) da piccolo era
eguale a Patrizia, si comportava esattamente come lei. Credo che adesso,
finalmente, ci sia il tempo e il modo per approfondire questo argomento.
Il cugino di Patrizia, che ora ha vent’anni ed è sempre stato una fonte di
preoccupazioni gravissime per tutta la famiglia, ha un Disturbo ossessivo-
compulsivo e una Disabilità intellettiva. C’è di nuovo tanta paura nelle
parole della signora, un’angoscia così difficile da contenere. La ascolto,
cerco di empatizzare con queste emozioni, ma stavolta posso anche offrirle
una piccola e parziale rassicurazione, dal momento che non solo i dati delle
CPM, ma anche quelli dei primi subtest della WISC-R sembrano
approssimativamente normali per l’età.
Nel frattempo la specializzanda sta lavorando con la bambina e appunta
in cartella:
Gioca con la bambola Beatrice. La imbocca. Mi racconta di quando il papà la prende in giro.
Le chiedo come si sente quando papà la prende in giro. Mi dice che si sente arrabbiata. È
proprio sicura quando dice di sentirsi arrabbiata. Poi, finalmente, mi fa il disegno della
famiglia (fig. 9.2). Disegna subito la mamma, poi dice che non vuol più continuare. Alla fine,
invece, frettolosamente, lo completa aggiungendo se stessa e il papà. Quando Fabio e la
mamma rientrano nello studio chiede subito alla mamma perché ha pianto, ma con un tono
tutt’altro che sorpreso, come se fosse abituata a vederla piangere, come se questa fosse una
cosa normale per lei. La mamma non le risponde.

Figura 9.2 Il disegno della famiglia.


Nella quarta seduta finiamo la WISC-R che, come si può vedere dalla figura
9.3. mostra un’intelligenza nella norma, con un QI totale di 99 e i punteggi
parziali di 94 per le prove verbali e di 105 per le prove di performance.

Figura 9.3 Il protocollo della WISC-R.

Nella quinta seduta le somministro le prove MT,10 dalle quali risulta una
prestazione sufficiente per comprensione e anche, sia pure ai limiti inferiori
della norma, per correttezza. È invece deficitaria la velocità. Tutto questo
viene alternato con giochi, disegni e colloqui con la tirocinante, con la quale
evidentemente la bambina si trova molto bene. Il gioco con la bambola
Beatrice va avanti e porta la bambina a parlare ancora brevemente della
sorellina. Racconta che avrebbe voluto una sorellina, ma adesso non la
vuole più. Sapeva che avrebbe dovuto arrivare la cicogna, glielo aveva detto
la mamma, ma ora non ne sa più niente. È molto agitata nel raccontare
quest’ultima cosa e, appena ha finito di dirlo, chiede esplicitamente:
“Giochiamo”, per interrompere questo discorso che le genera
evidentemente un’ansia maggiore di quella che è capace di tollerare.
Per tutte e due le sedute e per tutta l’ora la mamma resta fuori dallo
studio e in alcuni momenti possiamo cominciare a lavorare su come si sente
quando si stacca dalla mamma e su quali emozioni prova.

CHE COS’HA PATRIZIA? E COSA POSSIAMO FARE


PER LEI?

È arrivato il momento di raccogliere le idee e di preparare la restituzione.


Non è mai facile decidere quando sia questo momento, perché è impossibile
sapere tutto di un bambino e dunque essere completamente pronti per
parlare con i genitori, ma è anche vero che non si può proseguire all’infinito
la fase diagnostica e con Patrizia abbiamo già fatto cinque sedute: è quindi
necessario farsi coraggio e procedere.
Date le premesse, la restituzione partirà naturalmente dal dato negativo
sulla Disabilità intellettiva. Tutte le prove fatte escludono in modo tassativo
la possibilità di questa diagnosi. Patrizia ha un’intelligenza nella norma.
Inoltre, la Disabilità intellettiva non può sbucar fuori da un momento
all’altro, ma, al contrario, il livello di intelligenza tende a mantenersi
costante nel tempo. Questo ci permette di escludere non solo che Patrizia
abbia una Disabilità intellettiva come il cugino, ma anche che possa
svilupparlo in futuro. Il discorso è diverso per l’ansia, naturalmente. Allo
stato attuale Patrizia non ha sicuramente un Disturbo ossessivo-
complulsivo, né nulla può far prevedere che lo svilupperà, tuttavia questo
non può essere escluso in modo tassativo. Per ora, quello che si vede è una
difficoltà a staccarsi dalla madre e ad affrontare situazioni nuove. Tutto ciò
fa pensare a livelli d’ansia superiori alla media, ma non a un disturbo
strutturato. Anche il Disturbo d’ansia di separazione, del quale sono
presenti alcuni sintomi, non sembra completo. Seguita con attenzione e
incoraggiata ad affrontare con gradualità le situazioni temute, la bambina
può fare molti passi avanti per superare queste difficoltà. Restano,
indubbiamente, problemi di apprendimento. La lettura è carente soprattutto
per quanto riguarda la rapidità (il che fa pensare a un deficit di
automatizzazione, ma questo è un aspetto troppo tecnico che non affronto
durante il colloquio di restituzione). D’altra parte, è invece un dato molto
incoraggiante, soprattutto per il futuro, che la comprensione del testo appaia
sostanzialmente adeguata, come fin dall’inizio, con un certo intuito, aveva
ipotizzato la specializzanda.
In sintesi: nessuna Disabilità intellettiva, né presente né futura. Nessun
Disturbo ossessivo-compulsivo, ma tratti di ansia che hanno buone
probabilità di essere affrontati con successo. Una difficoltà di
apprendimento sulla quale è possibile lavorare.
Quando le comunico tutte queste cose, la mamma appare visibilmente
sollevata. Ciò che sembra tranquillizzarla di più sono i risultati della WISC-
R, che commentiamo insieme in modo piuttosto dettagliato.
Fatto questo, le chiedo della cicogna.
La signora non ha fatto molta strada, in questa direzione. Dopo l’aborto
aveva raccontato che in estate le cicogne vanno in vacanza e poi
l’argomento è caduto e non è mai stato ripreso. Se si considera che ormai
siamo in pieno autunno, la cosa appare piuttosto grave. Tento di lavorare su
questo, ma la signora non mi segue, forse perché, come lei stessa dice:
“Oggi volo a un metro sopra da terra…”.
Le dico che sono contento, anche se sarei più tranquillo se camminasse
con i piedi per terra…
Intanto Patrizia e la tirocinante lavorano tranquillamente insieme. Si
scambiano i numeri di cellulare per mandarsi SMS. La bambina disegna il
suo cane Ted (fig. 9.4) ed è facile vedere, dal confronto tra questo e i suoi
primi disegni, come la nuova tranquillità acquisita seduta dopo seduta
migliori in modo vistoso la qualità della sua produzione: dato che, come
vedremo, si rivela prezioso per la progettazione dell’intervento terapeutico.
Figura 9.4 Il disegno di Patrizia e il suo cane.

Poi giocano e si scambiano perline per fare spille e braccialetti,


un’attività che andrà avanti ancora per molte sedute.

Prima la diagnosi e poi la terapia?

Ma, al di là di tutto questo e della doverosa restituzione alla madre, noi


sappiamo con precisione che cos’ha Patrizia?
Con precisione sicuramente no.
Sappiamo che ha difficoltà di apprendimento, anche se non siamo in
grado di dire con sicurezza se si tratti di un disturbo specifico (in particolare
a carico della velocità della lettura) o se questi problemi siano secondari a
disturbi della sfera emozionale. Un’altra cosa che sappiamo, e che è
strettamente collegata a questo primo dubbio, è che i disturbi della bambina
non sono limitati all’area degli apprendimenti scolastici. D’altra parte la
teoria, come è noto, parla con chiarezza di frequente comorbilità tra
Disturbi dell’apprendimento, Disturbi d’ansia e Disturbi dell’umore.11 Si
può tralasciare l’ipotesi del Disturbo dell’Umore, anche se certi pianti
frequenti e un persistente isolamento sociale danno qualche indizio anche in
questa direzione; ma di sicuro non si possono trascurare i sintomi, numerosi
e rilevanti, connessi con l’ansia. Dunque un’ipotesi alternativa al Disturbo
specifico dell’apprendimento potrebbe essere quella di un Disturbo d’ansia
che, a sua volta, genera un abbassamento delle prestazioni scolastiche. La
teoria ci viene incontro anche su questa nuova ipotesi. Viene spesso
sottolineata l’importanza della diagnosi differenziale tra il Disturbo
specifico dell’apprendimento e i Disturbi d’ansia, ma anche la possibilità
che certe difficoltà aspecifiche derivino da un percorso scolastico
inadeguato. Nel nostro caso si potrebbe ipotizzare che la bambina vada a
scuola con tante difficoltà emotive da non poter poi sfruttare adeguatamente
le opportunità formative che la scuola le fornisce.
Sempre in teoria, dunque, potremmo dedicare ancora molto tempo, molti
sforzi, molte sedute al tentativo di sciogliere con la maggior precisione
possibile questi dubbi diagnostici. Ma ne vale davvero la pena?
Credo che in ambito clinico, quando il nostro obiettivo primario è quello
di dare una mano a un paziente che ne ha bisogno, un problema
fondamentale sia quello di cercare di evitare due atteggiamenti opposti, che
quando diventano estremi e radicali possono arrivare a sfociare in una
specie di caricatura.
Da una parte c’è l’esasperazione dell’atteggiamento del
comportamentista classico: “La sola cosa che mi interessa è il problema e il
mio unico obiettivo è eliminarlo o per lo meno ridurlo in modo
significativo”. Questa indifferenza totale nei confronti della diagnosi è
ovviamente una forzatura. Un inquadramento diagnostico, per quanto
impreciso e non definitivo, rappresenta infatti una necessità per la
comunicazione tra specialisti e, in molti casi, per l’impostazione di un
programma terapeutico: si pensi, solo per fare un esempio, alle differenze di
una psicoterapia per un Disturbo d’ansia di separazione rispetto a quella per
un Disturbo d’ansia sociale. Entrambi i disturbi possono condividere il
sintomo “il bambino non riesce ad andare a scuola”, ma nel primo caso
l’intervento sarà centrato sulla capacità di staccarsi da una figura di
sostegno emotivo come la madre; nel secondo caso il focus sarà sulle
relazioni con i compagni di classe.
Dall’altra parte c’è invece l’esasperazione delle manovre diagnostiche:
ore, giorni, magari settimane nelle quali il piccolo paziente “viene rivoltato
come un guanto” in modo da sapere tutto di lui e dei suoi disturbi, per
concludere poi con l’indicazione “di un invio ai servizi territoriali per una
presa in carico psicoterapeutica”.
Cosa facciamo, dunque, con Patrizia e con i suoi genitori? Credo che
abbiamo abbastanza dati per condividere obiettivi terapeutici e che altri,
potenzialmente utili, potranno venir fuori ed essere analizzati nel corso
dell’intervento. Ma già adesso sappiamo che la bambina avrebbe bisogno di
migliorare le sue prestazioni scolastiche e di prendere fiducia nelle sue
capacità; di imparare a entrare meglio in contatto con le sue emozioni in
modo da superare alcune paure connesse con il distacco dalla mamma e
andare a scuola più serena cercando di interagire meglio e con più
soddisfazione con i suoi amici; di avere due genitori più vicini e più
coerenti nei loro comportamenti verso di lei; di sentirsi valorizzata e
compresa, piuttosto che tenuta in disparte con segreti di pulcinella come il
fatto che il fratellino o la sorellina non arriveranno.
Abbiamo dunque materiale sufficiente per cominciare a lavorare? Sono
certo di sì; anzi, ho il dubbio che abbiamo già più obiettivi di quelli che
potremo raggiungere, per non parlare del bisogno che anche i genitori
mostrano di essere aiutati per i loro problemi.
Credo che il modello medico tradizionale che impone “prima la diagnosi
e poi la terapia” non si applichi con altrettanta rigidità al lavoro dello
psicologo, che non può certo iniziare una psicoterapia alla cieca senza avere
idea dei problemi del paziente, ma neppure aspettare di sapere tutto prima
di provare a intervenire. Nel rapporto psicoterapeutico la relazione
diagnosi-intervento tende a essere circolare piuttosto che lineare: a mano a
mano che la psicoterapia procede anche l’inquadramento teorico si farà più
chiaro. Se qualche medico dovesse scandalizzarsi di questo modello, ricordi
quante volte, anche nel suo mestiere, ha fatto qualcosa di simile, per
esempio somministrando un farmaco non dopo, ma prima della diagnosi: in
modo da rivalutare la diagnosi proprio in funzione della risposta del
paziente a quel farmaco. Lui chiama questo metodo ex adjuvantibus, perché
secoli di tradizione professionale gli permettono di usare il latino. Io lo
chiamo circolare, perché la nostra storia non è così antica. Ma spesso non
diciamo cose molte diverse.

IL LAVORO PSICOTERAPEUTICO CON PATRIZIA


I capitoli di questo libro dedicati agli interventi psicoterapeutici hanno di
solito una struttura cronologica. Vengono cioè narrate in ordine temporale le
cose che sono state fatte con i vari bambini protagonisti delle nostre storie, i
risultati che via via sono stati raggiunti e le inevitabili difficoltà incontrate.
Per ragioni didattiche, qui ho deciso di procedere in modo diverso e di
distinguere le fasi dell’intervento in funzione degli strumenti utilizzati e
degli obiettivi programmati di volta in volta. Il vantaggio di questa scelta
dovrebbe essere quello di mettere il lettore nella condizione di comprendere
meglio lo strumento di volta in volta utilizzato (che si tratti di una token
economy o del lavoro sulle emozioni). Lo svantaggio può consistere nel
fatto che sarà necessario andare più volte avanti e indietro nel tempo,
leggendo questa parte di storia. Le tecniche, infatti, in una psicoterapia, non
si usano uno dopo l’altra, ma formano un insieme che può essere scisso per
ragioni didattiche, ma che nella realtà è costituito da un unico ininterrotto
fluire.

pag. 13

Modellaggio (o shaping) per favorire il distacco

Inizialmente la mamma, come abbiamo già visto, entra con la bambina e


resta vicino a lei. Questo non mi impedisce di rinforzarla, in un primo
momento quasi del tutto indipendentemente da quello che fa.12 Poi la
mamma si allontana gradualmente e, di nuovo, la bambina viene rinforzata.
Infine (potremmo dire, ma ci accorgeremo subito che questo non è del tutto
vero) la mamma si allontana del tutto, nel senso che resta fuori dal mio
studio per l’intera durata della seduta e Patrizia, di nuovo, viene rinforzata
in mille modi. Si può qui osservare che se l’obiettivo terapeutico fosse
“rimanere in studio con me e senza la mamma in una situazione libera da
ansia”, un breve modellaggio svolto durante le prime sedute
diagnostiche ci avrebbe permesso di raggiungere il nostro scopo. In realtà,
l’obiettivo di restare in seduta con me e senza la mamma in una situazione
libera da ansia è solo uno dei primi obiettivi rispetto a una gerarchia più
complessa, nella quale lo scopo è quello di aiutare la bambina a effettuare
una generalizzazione di questo risultato alla sua vita di tutti i giorni.
Così il lavoro prosegue, sempre nell’ottica del modellaggio. Quando la
mamma non si limita ad aspettare la figlia nel corridoio per tutta l’ora, ma
le comunica che andrà a fare la spesa nel supermercato vicino al mio studio,
Patrizia continua a lavorare tranquilla con me o con la tirocinante e, di
nuovo, viene rinforzata per questo. Poi, come abbiamo già visto, va a un
compleanno: e viene rinforzata per il fatto di esserci andata, piuttosto che
rimproverata perché ha ancora avuto bisogno della mamma vicina.

pag. 6

pag. 41

Poi, e qui siamo arrivati alle soglie delle vacanze di Natale e sono passati
dunque quasi quattro mesi, andrà a cantare in chiesa e di nuovo, come
vedremo più avanti, sarà rinforzata in un modo molto significativo per
questo. Poi andrà ai Giochi della Gioventù: siamo in primavera e questo
nuovo obiettivo sarà raggiunto attraverso un vero e proprio contratto
educativo (vedi paragrafo successivo). Poi comincerà a invitare le amiche a
casa. Poi le inviterà al mare: inutile sottolineare che questo non potrà
avvenire che in estate e che dunque sarà necessario del tempo per arrivare a
certi risultati. Infine sarà lei ad andare al mare dalle amiche, cioè a
raggiungerle nei loro stabilimenti balneari e perciò molto lontano dalla
madre. A questo punto qualche lettore attento potrebbe pensare che da un
certo momento in avanti abbia dimenticato di rinforzare o di scrivere di
aver rinforzato Patrizia. È vero che non l’ho scritto. È anche vero che ho
smesso di rinforzarla, ma non perché mi sia dimenticato. Un programma di
modellaggio prevede, come è noto, un uso sistematico del rinforzamento
anche quando, nelle prime fasi, i comportamenti messi in atto dal paziente
sono ancora molto lontani dall’obiettivo finale. Ma quando tutto procede
nel migliore dei modi, arriva un momento in cui il successo stesso del
programma genera rinforzatori erogati spontaneamente dall’ambiente
naturale, che in qualche modo diventano così intrinseci. All’inizio è
importantissimo (per non dire indispensabile) far sentire la bambina a suo
agio quando la mamma esce dal mio studio anche per pochi minuti,
comprendere che questo è già un risultato per lei e rimandargli indietro
l’importanza di questo successo. Più avanti sarà ancora importante
sottolineare i suoi successi e la nostra soddisfazione. Ma che bisogno c’è di
una token economy per rinforzarla del fatto che si diverte al mare con le
amiche? Lei si diverte, appunto, e questo è più che sufficiente!
Le cose, naturalmente, non vanno sempre così bene in un lavoro
terapeutico. Ma quando vanno così rappresentano la risposta migliore alle
obiezioni di artificiosità e non generalizzazione di questi interventi. E la
riposta è: noi cominciamo così; e poi vediamo fin dove riusciremo ad
arrivare.

Contratti per favorire il distacco

C’è un atteggiamento molto importante che dovrebbe contraddistinguere,


quando si può, il rapporto tra uno psicoterapeuta e il suo paziente, ma anche
tra un bambino e suo padre, tra una bambina e la sua maestra, tra un medico
e un paziente. Si tratta della reciprocità degli impegni. Io mi impegno a fare
certe cose, e tu certe altre. Ognuno si assume responsabilità e doveri. Tanto
più manterremo quello che ci siamo proposti, tanto più tutti avremo da
guadagnarci.
Quando ho cominciato a vedere che Patrizia era in grado di allontanarsi
dalla mamma e che quindi si poteva spostare un po’ più in alto l’asticella
dell’obiettivo, abbiamo cominciato a lavorare con lo strumento del
contratto educativo (vedi riquadro sottostante), che prevede appunto un
impegno reciproco: in questo caso tra la bambina, che andrà ai Giochi della
Gioventù, e la mamma, che in cambio le comprerà qualcosa che Patrizia
desidera da tempo.
La figura 9.5, nella sua semplicità, illustra bene i principi generali del
contratto.
Figura 9.5 Il contratto tra Patrizia e la mamma.

L’obiettivo terapeutico è formulato in modo preciso e circoscritto: non in


forme generiche e interpretabili tipo “aumentare la mia autonomia nei
confronti della mamma” o “andare a scuola più volentieri”. Analogamente,
il rinforzatore è definito con chiarezza13. È poi piuttosto importante che sia
rispettato un certo formalismo: il contratto ha un titolo, è stampato con il
computer in doppia copia in modo che io terapeuta ne possa conservare una
in cartella, riporta la data e la firma dei due contraenti ed è firmato durante
una piccola cerimonia a fine seduta. Il terapeuta dovrà sempre accertarsi
prima che il genitore sia d’accordo con la procedura, che ne condivida
metodi e obiettivi, e che sia in grado di procurare il rinforzatore pattuito
prima del momento in cui verrà guadagnato, per evitare che un bambino
raggiunga l’obiettivo e non sia subito premiato adeguatamente. Per ottenere
questo risultato preliminare è a volte necessario lavorare con i genitori per
arrivare ad una vera e propria ristrutturazione cognitiva . Qualche
genitore, infatti, vi dirà: “Io sono contrario a ricattare i bambini, e ancora
di più a essere ricattato. Mio figlio dovrebbe fare queste cose perché è suo
dovere, non in cambio di qualcos’altro”. Prima di arrivare alla firma di un
contratto, il genitore dovrà rendersi conto che c’è una bella differenza tra
accordarsi e ricattare; e che tutti noi dovremmo fare molte cose, ma se non
ci riusciamo forse è giusto provare a farci aiutare, e spesso la motivazione si
costruisce proprio attraverso uno scambio tra ciò che si fa e ciò che si
riceve.
pag. 350

CONTRATTO EDUCATIVO
Nessun psicoterapeuta vuole ricattare i suoi pazienti o desidera che i
genitori lo ricattino. Ma molto spesso, tra persone per bene, prima si
fanno accordi chiari e poi si cerca di rispettarli. Io, per esempio, mi
impegno a lavorare con te su un programma per automatizzare il tuo
processo di lettura la prima mezz’ora della nostra seduta. Tu ti
impegni a dedicarti a questo programma con attenzione per il tempo
che abbiamo concordato. Ci accordiamo infine che, nella seconda
metà della seduta, parleremo di cose che ti stanno a cuore e poi
faremo insieme uno dei tuoi giochi preferiti. Quando tutto questo,
anziché restare un accordo verbale o peggio ancora implicito, viene
riportato su un foglio in modo chiaro e firmato da tutti i soggetti
interessati, si trasforma in un contratto educativo. Abbiamo visto
spesso (capp. 9, 19 e 21) come il contratto educativo possa diventare
uno strumento prezioso soprattutto all’interno di procedure di parent
training, perché permette al terapeuta di dare indicazioni chiare al
bambino e ai suoi genitori, gli fornisce feedaback piuttosto precisi di
quello che è avvenuto a casa tra una seduta e l’altra e favorisce la
generalizzazione.

pag. 562

pag. 41

Tachistoscopio e feedback vari…


Naturalmente non mi sono dimenticato che Patrizia ha anche delle difficoltà
di lettura. È vero che di gran parte dei problemi di apprendimento si occupa
la pedagogista che me l’ha inviata: con lei la bambina svolge molti dei
compiti che le sono assegnati per casa, studia e fa esercizi aggiuntivi; la
pedagogista, inoltre, tiene i rapporti con la scuola, che conosce bene e con
la quale è abituata a collaborare; il che spiega, tra l’altro, il motivo per il
quale in questo capitolo non si parla mai di interventi in collaborazione con
gli insegnanti, che invece io di solito associo con regolarità a moltissimi
programmi psicoterapeutici.
Ritengo tuttavia che durante le nostre sedute ci sia spesso il tempo di
occuparsi anche della lettura, con il duplice obiettivo di aumentare la
velocità (e in particolare il processo di automatizzazione) e di migliorare
l’autostima scolastica della bambina. Il processo di automatizzazione può
essere favorito da un dispositivo, detto tachistoscopio, che presenta le
parole sullo schermo di un computer per una frazione di secondo,
chiedendo al bambino di riconoscerle e in qualche modo obbligandolo a una
lettura veloce (Tressoldi, Vio, Lo Russo, Facoetti e Iozzino, 2003;
Tressoldi, Iozzino e Vio, 2007; Tressoldi, Vio e Iozzino, 2007). Con Patrizia
iniziamo con parole semplici (bisillabe piane) presentate per tempi
relativamente lunghi. Poi, gradualmente, rendiamo la situazione più difficile
aumentando la complessità delle parole presentate e diminuendo il tempo di
presentazione. Alla fine di ogni sessione il software fornisce un feedback
(vedi rinforzamento ) molto preciso relativo al numero di parole lette
correttamente e agli errori commessi.14

pag. 13

Come si può notare dal confronto tra il grafico riportato nella figura 9.6 e
quello riportato nella figura 9.7, le prestazioni di Patrizia migliorano,
passando da 20 risposte corretta su 40 parole a 40 su 43.
Figura 9.6 Il software tachistoscopio fornisce diversi feedback alla fine della seduta. Qui si può
vedere, in alto a sinistra, come la bambina ha risposto: a volte “non so”, a volte in modo corretto (per
es., “bivio”), a volte sbagliando (per es., “volte” anziché “volta”); in basso a sinistra il totale di parole
lette correttamente e il totale di errori; in basso a destra un grafico delle percentuali di risposte
corrette e di errori. Le sigle Sx, Cen e Dx si riferiscono alla modalità di presentazione della parola (a
sinistra, al centro, a destra dello schermo), ma non ci interessano in questo caso.

Figura 9.7 Il software tachistoscopio dopo qualche settimana di training: nella parte alta si vede che
la bambina ha letto correttamente tutte le parole di quella schermata, mentre nella parte bassa si
vedono, a sinistra, i pochi errori commessi e, a destra, il grafico delle percentuali di risposte corrette e
di errori che, paragonato al grafico della figura 9.6, evidenzia un netto miglioramento.

Insegno inoltre alla bambina a trasformare lei stessa in istogrammi i risultati


delle sue prestazioni quando legge la favola Aladino e la lampada magica.
Abbiamo preso questa storia da un libro scelto da lei e ne leggiamo un
brano di lunghezza uguale in ogni seduta. Anche in questo caso si può
vedere nella figura 9.8 come, di volta in volta, le parole giuste aumentino e
quelle sbagliate diminuiscano.

Figura 9.8 Grafico costruito e colorato da Patrizia. Per ogni seduta, la colonna di sinistra indica le
parole lette in modo corretto e quella di destra le parole sbagliate. Nell’istogramma che rappresenta
l’ultima seduta, la colonna delle parole sbagliate è vuota e quindi non è stata disegnata.

In marzo i miglioramenti in questo settore sono già piuttosto evidenti. In


cartella la tirocinante annota:
Oggi sono sola con Patrizia. Liste di parole al tachistoscopio; nessun errore! Leggiamo
Aladino e lo finisce. La lettura è più veloce rispetto a quando abbiamo cominciato il lavoro,
meno stentata, più corretta. Le chiedo come è andata. Mi risponde che è contenta. Le dico che
anch’io sono molto contenta: sta diventando bravissima! E poi un’altra cosa che mi pare
evidente e molto importante è che è interessata a quello che legge. Mi dice che viene qui
volentieri15 e poi mi parla di Marco, un compagno di scuola che le piace molto. E poi alla
fine della seduta mi dà un bacio!16 Che carina!

AUTOEFFICACIA
L’autoefficacia è un costrutto teorico con molti punti di contatto e
talvolta anche di sovrapposizione con l’autostima , ma non deve
essere confusa con quest’ultima. Se infatti l’autostima può essere
definita come l’immagine di sé, l’autoefficacia rappresenta la fiducia
nella possibilità di influenzare e modificare eventi che ci riguardano.

pag. 56

Sto scrivendo questo libro di psicopatologia. Se, secondo il mio


giudizio e a partire dai miei obiettivi e dalle mie aspettative, il libro
verrà un buon lavoro, la mia autostima (ovviamente come scrittore di
testi di psicologia) aumenterà; in caso contrario, come è piuttosto
evidente, si abbasserà. Ora però cambiamo prospettiva. Rileggo il mio
libro e mi rendo conto che è venuto molto peggio degli standard che
mi ero prefissato. Il mio dialogo interno può essere: ecco la prova che
non sono un gran che come scrittore di testi scientifici; proverò a
pubblicarlo così, e vada come vada. La mia autoefficacia è molto
bassa. L’autostima qui c’entra fino a un certo punto: l’aspetto cruciale
è che non credo di poter migliorare il mio libro. Ma il mio dialogo
interno porrebbe anche essere diverso: ok, devo riconoscere che
questa prima stesura ha una serie di difetti; ora cercherò di analizzarli,
capirne le cause e poi mi metterò al lavoro per eliminarne il maggior
numero possibile e migliorare anche la qualità generale della scrittura.
Adesso la mia autoefficacia è più alta e, come credo si possa veder
bene da questo esempio, anche il mio comportamento probabilmente
cambierà. Nel primo caso decido di pubblicare il libro così com’è (o
magari di buttar via il manoscritto). Nel secondo caso mi darò da fare
per scrivere un libro migliore.
Potremo anche dire, in modo poco accademico ma spero utile dal
punto di vista didattico, che l’autostima è la misura di quanto mi
piaccio, mentre l’autoefficacia è la misura di quanto credo nelle mie
possibilità.
Quando un bambino, in questo caso Patrizia, è convinto di poter
modificare alcuni eventi e crede che darsi da fare in una direzione
potrà portare qualche buon risultato, è sicuramente un paziente
migliore, più collaborativo, meno fatalista, più orientato al
cambiamento.
Passano i mesi. Siamo in estate. Avevamo stabilito insieme che avrebbe
fatto anche a casa degli esercizi di lettura. La bambina li ha fatti e
concordiamo che merita un premio. Usciamo insieme. Andiamo a fare
merenda (un pezzo di pizza e una coca) e poi in libreria. Le faccio scegliere
il libro che le piace di più e che sarà il nostro nuovo obiettivo.
Qualche riga di teoria. La pizza e la coca sono rinforzatori consumatori.
Ma la cosa non è così semplice, in pratica, perché se la bambina si diverte a
uscire con me per fare merenda in realtà tutto questo diventa un rinforzatore
dinamico. E il libro? Non ne posso essere sicuro, ma se lo abbiamo scelto
bene e Patrizia si divertirà a leggerlo potrà diventare una forma di
rinforzatore intrinseco, perché la lettura sarà rinforzata dalla lettura stessa.
Forse le cose non andranno proprio in modo così perfetto, ma sempre
meglio provare a premiare una bambina con un libro che le piace piuttosto
che, come troppi insegnanti ancora fanno, sanzionare il comportamento
inadeguato di un allievo facendogli leggere a casa un brano per punizione!
Torniamo in studio. Facciamo insieme, con il computer, una scheda con
tanti rettangoli quante sono le pagine del libro e la attacchiamo sulla prima
pagina. Insegno alla bambina e alla mamma a fare una croce sulle pagine
via via lette: è anche questa una forma di feedback, nel senso che l’aumento
delle crocette nelle caselle che si vanno riempiendo avranno il significato di
segnale relativo al fatto che il compito sta procedendo.
Poi spiego alla mamma come leggere questo nuovo libro. Quando
Patrizia comincia a leggere, la mamma dovrà cronometrare 10 minuti. Al
decimo minuto Patrizia si potrà fermare e la mamma farà un segno a matita
per indicare il punto dove la bambina è arrivata. Inoltre segnerà, sempre a
matita, quanti errori ha fatto. Si tratta di un lavoro che abbiamo svolto
spesso anche in studio. Il risultato di tutti questi feedback sarà una costante
diminuzione degli errori e un aumento di parole che Patrizia riuscirà a
leggere in 10 minuti.
Di ognuno di questi progressi discutiamo in seduta, sia con la mamma
che con la figlia, in modo da potenziare gli effetti positivi delle prestazioni
sull’autostima .

pag. 56
… e contemporaneamente il lavoro sulle emozioni

È metà ottobre. Sono le nostre prime sedute. Patrizia sta giocando con la
tirocinante. Ha in mano Beatrice, la sua bambola che ormai porta
regolarmente con sé. Parlano tanto di questa bambola (e nel frattempo la
mamma, come vedremo più avanti, ha cominciato a parlare con la figlia del
fatto che la cicogna non arriverà). A un certo momento racconta che la
cicogna arriva con Beatrice, una bambina vera, ma la porta in un’altra
famiglia, perché la sua mamma non la vuole più.
Questo rappresenta un punto molto delicato del lavoro. Molto più
delicato e molto più complesso del tachistoscopio e della velocità di lettura.
Patrizia ci sta raccontando qualcosa, ma ci sta anche chiedendo qualcosa. Ci
sta raccontando che forse ha capito che la sorellina non arriverà. Ma non sa
bene se le cose stanno proprio così. Forse vorrebbe sentirlo da noi, o per lo
meno poterne parlare.
Ci vuole molta cautela, in momenti come questi. Lo psicoterapeuta
ascolta, ovviamente; raccoglie e sicuramente non nega. Poche cose
sarebbero sbagliate come rassicurare un bambino che finalmente trova il
coraggio di raccontare un fatto o un’emozione negativa dicendogli che le
cose non stanno così. Lo psicoterapeuta ascolta, dunque, ma non può
sostituirsi ai genitori. Quello che può fare è favorire la narrazione di una
storia condivisa. Chiedo allora a Patrizia di portare in studio le foto della
sua storia. Costruiamo insieme, in un file di word, il libro della storia di
Patrizia: il giorno in cui è nata, con le immagini dell’ospedale di Massa
scaricate da Internet; quando l’hanno portata a casa; il suo battesimo… ma
sempre facendo molta attenzione ad affiancarsi e non a precedere le cose
raccontate dai genitori. Seduta dopo seduta, stampiamo queste pagine e
Patrizia le porta a casa per mostrarle a chi desidera. Arriviamo così all’oggi,
attraverso le feste di compleanno, i nonni materni e paterni (e qui la
bambina approfitta per dirmi quanto detesti la nonna paterna, magra magra,
sempre nervosa e invadente!), il primo giorno di scuola, i compagni. Nel
frattempo, come vedremo più avanti, sto lavorando con i genitori, attraverso
una forma di parent training , per favorire questo loro affiancarsi nel
raccontare alla figlia. Di seduta in seduta, dunque, Patrizia arriva al giorno
in cui il papà e la mamma le dissero che sarebbe arrivata la cicogna a
portarle un fratellino o una sorellina. Mi racconta i suoi pensieri e le sue
emozioni di quel periodo. Mi racconta anche che poi la mamma le ha detto
che non era stata molto bene e quando una mamma sta così purtroppo la
cicogna, almeno per ora, non può arrivare.

pag. 562

Sono le cose non dette quelle che fanno più male. Sono le cose che non
abbiamo il coraggio di raccontare quelle che fanno più paura.
Dall’insegnare a dire no con un gesto all’autistico e prevenire così il suo
bisogno di battere la testa contro il muro, fino all’elaborazione di un lutto e
oltre, una parte grandissima di psicoterapia consiste nel trasformare il non
detto in detto, l’implicito in esplicito, il silenzio in parole: agli altri ma
forse, più profondamente ancora, a se stessi.
Così, piano piano, dopo aver affrontato il problema della cicogna che
non arriverà, Patrizia impara a parlare anche di altro e con altri. Delle sue
amiche, per esempio, delle sue compagne di scuola con le quali c’è per lo
più un rapporto insoddisfacente quando non francamente difficile. Impara
anche, però, che se prova a frequentarle qualcosa può cambiare. Con la
tirocinante hanno costruito un termometro delle emozioni (fig. 9.9)
attraverso il quale dare un nome alla rabbia, alla tristezza e alla felicità, e
valutarne l’intensità nelle varie situazioni.
Figura 9.9 Il termometro della tristezza, della rabbia e della felicità.

Un giorno invita a casa sua Renata e Arianna, due compagne che


sembrano starle particolarmente a cuore, e fanno i compiti e giocano
insieme quasi tutto il pomeriggio.
“Da zero a dieci quanto ti sei divertita?”
“Mille!”.
Questo non è il segno che non ha imparato a usare il termometro, ma che
sta imparando a divertirsi e comprende il significato e il valore di tutto
questo.
Un’altra emozione che affrontiamo, di seduta in seduta, è come si sente
come alunna. È evidente che non è contenta di sé, anche se gradualmente
imparerà ad apprezzare qualche piccolo progresso. Con la scuola di danza,
invece, la sua percezione di inadeguatezza ha avuto la meglio e Patrizia ha
smesso di frequentarla. Parliamo dei motivi di questa scelta. Dice che erano
tutte più brave di lei. Questo sembra rappresentare un duplice problema,
perché molte delle ex compagne di danza sono anche compagne di scuola e
così questo senso di inadeguatezza riverbera fin dentro la classe. Proviamo
ad affrontarlo.
“Come fai a dire17 che sono tutte più brave di te?”.
“Me lo ha detto la Samantha e le altre si sono messe a ridere”.
“E tu come ti sei sentita?”.18
“La Samantha mi è antipatica e io a danza non ci vado più”.
“Ok, la Samantha ti è antipatica e tu non vuoi più andare a danza dove
c’è lei che ti prende in giro, ma tu, come ti sei sentita?”.19
“Arrabbiata. Mi sono sentita arrabbiata”.
“Ti sei sentita arrabbiata perché Samantha si è messa a ridere, ti ha preso
in giro e ha fatto ridere anche le altre tue compagne?”.20
“Sì”.
“Credi che potresti provare a dirglielo?”.
“Sì”.
“Come gli dirai? Prova…”.
E attiviamo fino alla fine della seduta un role playing durante il quale
Patrizia impara a dire a Samantha cosa ha provato.

pag. 259

La seduta successiva si apre parlando dei nonni (ma, come vedremo


subito dopo, l’argomento “Samantha e amiche” è tutt’altro che
archiviato…). Sorprendentemente, mi dice di avere solo una nonna e una
bisnonna, riferendosi a quelle materne. Le ricordo che ne ha un’altra e la
bambina resta senza parole. Forse è un silenzio imbarazzato, sembra che
non sappia più cosa dire.
Non dimentichiamo che si tratta della nonnina, tutta nervi, che non perde
occasione per spargere ansia rispetto al futuro, ripetendo cento volte alla
nuora (la mamma di Patrizia) che la bambina assomiglia tantissimo al
cugino con Disabilità intellettiva e Disturbo ossessivo-compulsivo. Provo
allora a dare io voce alle sue emozioni o, come si dice, a prestarle il mio
dialogo interno:
“Ti piacerebbe che andasse per un po’ in un paese lontano…”.
Il gioco le piace.
Suggerisco l’Australia. Dico:
“Potrebbe andarsene in vacanza in Australia anche per qualche mese”.
“No! Non per qualche mese!”.
“Per quanto?”.
E lei, alla toscana, con un’espressione sulla quale scherzeremo e
lavoreremo spesso nelle sedute successive, sia con lei che con la mamma:
“Per dumiladucent’anni!”.
Patrizia è stata più brava di me.
Io ho provato a prestarle parole ed emozioni perché potesse dire che
vorrebbe allontanare questa nonna, che evidentemente non le piace. Le ho
indicato la strada, ma lei è andata molto più avanti. È uno degli aspetti
fondamentali di una psicoterapia, quando funziona. Il paziente impara (in
questo caso che certe cose si possono dire) e poi va avanti da solo.
Vedremo, poche righe più sotto, come Patrizia mostri di essere
straordinariamente capace di andare avanti da sola.
Torniamo infatti alle amiche. Mi racconta che ha chiesto a Samantha
perché ha riso di lei e le ha detto chiaro che c’era rimasta male. Ha tirato
fuori la sua rabbia! Appare orgogliosa di questo, come di una cosa che
andava fatta e che lei è stata capace di fare. Sono molto contento. Glielo
dico e le chiedo che cosa pensa di tutto questo. Anche lei è contenta e pensa
che le abbia fatto bene dire quello che provava. Aggiunge:
“Samantha avrà pensato: ma guarda questa qui che non parla mai, chissà
oggi cosa le è preso!”.
Però ci sono stati altri episodi di esclusione. Me li racconta. Anna,
Benedetta, Alessia e Elena, l’altro giorno, non l’hanno fatta giocare. Le
chiedo come si è sentita. Si è sentita triste, mi risponde, e si mette a
piangere. Aspetto che si asciughi le lacrime e poi lei si corregge. Si è sentita
un po’ triste e un po’ arrabbiata. Sta evidentemente imparando a dare un
nome alle sue emozioni, a riconoscerle e a convivere con esse. Le ricordo
che con Samantha è riuscita molto bene a tirar fuori la sua rabbia. Lei allora
mi guarda e, come se avesse un insight, mi dice:
“Domani vado da Benedetta e lo dico anche a lei. Come potrei dire?
Proviamo?”.
“D’accordo: proviamo…”.
“Le dico: perché mi avete lasciato sola al bigliardino?…”.
Siamo a metà novembre e trovo straordinaria questa parte della seduta. È
la bambina stessa che, dopo aver riconosciuto emozioni negative dentro di
sé, mi propone di affrontarle con un role playing, come abbiamo fatto nella
seduta precedente. Ora è lei che detta la strategia e piano piano imparerà a
fare da sola un pezzo di strada.
Adesso siamo in primavera. Con tutta la classe sono andati a fare una gita
alla Centrale del latte. Mi racconta che la mamma era molto in ansia e le
aveva dato un cellulare in modo da poterla chiamare di tanto in tanto… ma
Patrizia l’ha tenuto spento tutto il giorno! Le maestre erano molto contente
(inutile dire quanto fosse contenta lei nel raccontarmelo). Dice che in questi
ultimi tempi più di una volta le maestre le hanno detto che legge meglio, è
più veloce e più sicura.
“E tu come ti senti quando ti dicono queste cose?”.
“Sono felice”.
“Loro ti dicono che sei più sicura quando leggi. Anche tu ti senti più
sicura?”.
“Sì”.
“Come fai a capire che ti senti più sicura?”.
“Andrò ai Giochi della Gioventù e farò il tiro alla pallina”.
Un bell’esempio di generalizzazione! Io mi sarei accontentato di sapere
perché si sente più sicura quando la fanno leggere e avrei potuto aspettarmi
risposte tipo “non sento più la paura” oppure “non mi viene da piangere”.
Patrizia invece ha già trasferito la sicurezza da una situazione didattica
tradizionale a una sociale e sportiva. Certo: di rado la psicoterapia fa
miracoli e, quando funziona, tende a produrre, salvo fortunati casi
eccezionali, piccoli progressi attraverso la strategia graduale di un passo
dopo l’altro. In questo caso, per esempio, è facile notare che Patrizia non ha
scelto, per i Giochi della Gioventù, i 100 metri o il salto in lungo, dove
probabilmente la competizione sarebbe stata enormemente maggiore e
dunque troppo forte da tollerare. Non so neppure cosa sia il tiro alla pallina,
e certamente non è una specialità olimpica. Però Patrizia andrà, giocherà,
starà con in suoi compagni e questo aumenterà la sua sicurezza creando un
circolo virtuoso che è un effetto tipico dei programmi psicoterapeutici che
riescono a spezzare l’opposto circolo vizioso ansia-evitamento-ansia.
È metà giugno e sta lavorando con la tirocinante. Ha l’aria malinconica.
“Ti vedo un po’ triste”, le dice la tirocinante.
Lo riconosce e parlano un po’ di questo. Forse, ora che è finita la scuola,
si annoia un po’. In questi mesi ha imparato, entro certi limiti, a interagire
con le compagne e a divertirsi con loro: e adesso tutto questo le manca.
Anche la mamma, con la quale io sono a colloquio in un studio accanto,
mi racconta qualcosa di simile. Da quando è in vacanza, capita spesso che
Patrizia le dica: “Mamma, che cosa si fa?”.
Torno nello studio con Patrizia e la tirocinante. Patrizia le sta
raccontando che loro vanno da tanti anni nello stesso stabilimento balneare,
dove però lei quest’anno si annoia. Vorrebbe tanto che la mamma cambiasse
bagno per andare in quello dove ci sono alcune sue amiche. A fine seduta,
tutti insieme, ne parliamo. La mamma dice che prenderà in considerazione
la cosa e vedrà cosa si può fare. Intanto, però, sembra molto contenta di
queste aperture della figlia, e quasi incredula.
La seduta successiva, dalla cartella della tirocinante:
Mi regala un anello!
Mi racconta che è andata a casa della Nicoletta (una sua amica).
Mi dice:
“Abbiamo mangiato un pezzo di focaccia e un bombolone. Abbiamo cercato le coccinelle. Poi
in piscina dopo aver digerito. Poi l’idromassaggio”.
“Quanto eri contenta da zero a dieci?”.
“Mille!”.
“Perché eri così contenta?”.
“Perché gli altri giorni gioco con le bambole e mi annoio di più”.
Poi mi dice che va allo stesso bagno dell’anno scorso, ma la mamma invita le amiche. Sembra
proprio soddisfatta di tutto questo, appagata e serena. Aggiunge:
“Ti ho regalato l’anello perché te lo sei meritato. Hai convinto la mia mamma a portare le mie
amiche al mare”21

Un contratto strategico

Un pomeriggio indimenticabile, poco prima delle vacanze di Natale,


Patrizia sta lavorando con la specializzanda. Il discorso cade sul fatto che il
suo parroco ha organizzato una serata di canti natalizi. Lei è andata
piuttosto regolarmente alle prove, ma non ha intenzione di cantare davanti a
tutti. Parlano di questo, poi la tirocinante specializzanda ha un’idea. Le
chiede se le piacerebbe andare al cinema con lei e con me durante le
vacanze. Patrizia risponde di sì, sembra in effetti che l’idea la attiri molto.
Allora la tirocinante le propone un patto. Prima discutono brevemente di
questi canti, e Patrizia è “costretta” a riconoscere che non si tratta poi di
niente di così terribile, niente che lei non possa fare. Poi la tirocinante
prende un foglio, direi quasi in fretta e furia, per non farsi sfuggire l’attimo,
e stila il contratto che si può vedere nella figura 9.10.

Figura 9.10 Il contratto educativo stilato estemporaneamente per Patrizia sfruttando un momento
favorevole della terapia.

Credo che possano essere utili a questo punto alcune considerazioni.


In primo luogo, il contratto non rispetta la regola formale di essere ben
scritto, magari con il computer, e avere una veste il più ufficiale e simbolica
possibile: ma c’è un motivo ben preciso per questa violazione. Il momento
sembrava propizio. Poche e semplici manovre di ristrutturazione cognitiva
avevano prodotto in Patrizia l’idea che andare a cantare in coro non le
avrebbe poi prodotto tutte quelle difficoltà che probabilmente prima
temeva. Inoltre sembrava molto attratta dall’idea di venire al cinema con
noi durante le vacanze. Dunque, bisognava cogliere l’attimo.
In secondo luogo, il contratto sembra violare anche un’altra regola,
relativa alla chiarezza del rinforzatore. Qui c’è un punto in realtà poco
chiaro: “Se potrà, verrà anche Fabio”. Sarebbe come se un padre dicesse al
figlio: “Tu fai i compiti e poi, se ne avrò voglia, ti porterò a fare un giro in
bicicletta”. Abbiamo visto (nota 12 di questo capitolo) come in linea teorica
questo non vada affatto bene. Tuttavia qui, di nuovo, ci troviamo in una
specie di situazione di emergenza. Non c’è stato né tempo né modo di
programmare questa manovra, che però sembra molto promettente. E allora
la facciamo come meglio possiamo, e se dobbiamo fare qualche errore
scegliamo i meno gravi. Io non sono sicuro che durante le vacanze di Natale
avrò la possibilità di portare Patrizia al cinema. In queste condizioni,
scrivere “Fabio e Daniela mi porteranno al cinema” sarebbe un errore
ancora più grave. È intatti molto importante, sia nei contratti educativi che
nella token economy, che il rinforzatore finale, o di scambio, sia
sicuramente a disposizione del terapeuta. Quando, per esempio, programmo
e condivido una token economy con un padre, mi capita a volte che il padre
mi dica che il premio finale lo comprerà su Internet, magari attraverso
un’asta su eBay. Va benissimo, naturalmente, ma io cerco di insistere
perché l’asta venga fatta subito, e il premio sia già stato comprato quando il
mio paziente avrà raggiunto l’obiettivo. Questo contratto contiene una
clausola chiara (Patrizia andrà al cinema con Daniela) perché su questo
siamo sicuri. Inoltre, se potrò, la accompagnerò anche io.
La terza considerazione è la più importante. Se Patrizia guadagnerà il
suo rinforzatore dinamico, si allontanerà per un paio d’ore dalla madre.
Chiamo questa procedura “strategica” nel senso che Watzlawick, Nardone e
la loro scuola danno a questo termine (Watzlawick, 1979; Nardone e
Watzlawick, 1990; Watzlawick e Nardone, 1997; Rampin e Nardone, 2002).
Nella terapia strategica vengono date al paziente prescrizioni
apparentemente prive di senso (“verrai da me domani mattina con una mela
rossa”) che in realtà servono per distogliere l’attenzione dall’obiettivo
(uscire di casa) rendendo più facile il suo raggiungimento. La metafora che
i terapeuti strategici fanno è quella del prestigiatore, che con la mano destra
muove una bacchetta magica luccicante facendo concentrare su di essa tutta
l’attenzione del pubblico, in modo da poter fare indisturbato con la mano
sinistra le sue manovre. La specializzanda “strategica” mostra a Patrizia un
premio con la mano destra, mentre con la sinistra cercherà di favorire
ulteriormente il distacco tra la bambina e la madre.
Le cose, infatti, andranno proprio così. Patrizia canterà in chiesa, alla
presenza dei genitori, tra l’altro molto contenti di questo: in cambio andrà al
cinema con noi (anche con me che, nel frattempo, sono riuscito a
organizzarmi in modo da poter andare). Le faremo scegliere il film e lei
sceglierà Le cronache di Narnia. Sarà un pomeriggio speciale. Patrizia
saluterà la madre (che resterà nei pressi del cinema con il cellulare acceso) e
mostrerà moltissimo interesse per le vicende del film. Devo confessare che
quando mi dirà, appena spente le luci in sala, che non è mai stata al cinema,
verrà a me un po’ di panico pensando che se l’avessi saputo prima forse non
avrei avuto il coraggio di portarla. Ma la fortuna arride agli audaci. Durante
il primo tempo, Patrizia mi chiederà alcune informazioni sulla trama
dimostrando però che nel complesso sta seguendo bene la storia di un film
tutt’altro che semplice per un bambina di otto anni. Poi, nell’intervallo,
scoprirò che seduta vicino a me c’è una collega con una nipotina della
stessa età di Patrizia. Familiarizzeranno e tutto finirà per il meglio,
nonostante il film sia molto lungo e anche emotivamente impegnativo.
All’uscita la mamma non crederà a suoi occhi vedendo la figlia così
autonoma e così felice.

Token economy su più obiettivi diversi

Abbiamo visto che il distacco dalla mamma e il prendere l’iniziativa per


nuove attività rappresentano obiettivi importanti per la bambina e dunque
l’esperienza delle Cronache di Narnia non doveva rimanere un fatto isolato.
Così, da gennaio, abbiamo cominciato a lavorare in modo più sistematico su
alcuni comportamenti di autonomia. Abbiamo scaricato da Internet il
manifesto del film, lo abbiamo stampato in formato A3, Patrizia lo ha
colorato, poi il poster così ottenuto è stato tagliato in tanti pezzi, in modo da
diventare un puzzle. Patrizia guadagnava pezzi di puzzle tutte le volte che,
in seduta, si impegnava negli esercizi di lettura e, da casa, portava notizie
relative al suo avvicinarsi alle amiche, a parlare e a giocare con loro, a
invitarle a casa e così via.
Ancora oggi il puzzle completato delle Cronache di Narnia è nel mio
studio, incorniciato e appeso alla parete. Patrizia era molto contenta mentre
lo costruiva e contentissima quando l’ha visto completato e messo sotto
vetro. Non era previsto nessun rinforzatore di scambio, in questo particolare
caso. Così una token economy si trasforma, e da sistema di rinforzamento
simbolico diventa un sistema di rinforzamento sociale. Si tratta di un
passaggio importante, da cercare di fare ogni volta che è possibile. Il
rinforzatore simbolico trae infatti il suo potere rinforzante dal fatto di poter
essere scambiato con qualche altra cosa. La forza del rinforzatore sociale,
invece, sta solo nella soddisfazione di aver raggiunto un risultato e
vederselo riconoscere. Questo è un grande passo avanti: un paziente riesce a
perseguire certi obiettivi senza aver più bisogno di rinforzatori di scambio,
ma per il solo fatto che il terapeuta segnala i suoi progressi e attribuisce loro
un significato. Abbiamo già visto che l’ultimo passo, per Patrizia, sarà
costituito dal rinforzatore intrinseco connesso con il piacere di invitare al
mare le amiche ed essere invitata da loro.

pag. 13

La token economy tradizionale, che prevede un rinforzatore finale di


scambio, rimane spesso utile da associare a contratti educativi, tanto più se
gestiti in parent training, come vedremo di seguito. La figura 9.11 mostra
Patrizia mentre sta per completare il puzzle grazie al quale guadagnerà una
didolina.

Figura 9.11 Un’altra token economy sotto forma di puzzle.

Parent training
Con l’andare avanti della terapia Patrizia mostra sempre più chiaramente di
lavorare volentieri con la specializzanda. Questo mi permette di lasciarle
spesso sole e di fissare contemporaneamente colloqui con i genitori,
soprattutto con la mamma che accompagna la figlia alle sedute e che in
questo modo risparmia anche del tempo, non essendo costretta a prendere
altri appuntamenti con me in orari diversi.
Il lavoro andrà avanti per molti mesi su vari temi.
Il primo riguarda la necessità di parlare a Patrizia della sorellina che non
arriverà, e dunque dell’aborto. Come abbiamo visto, questo non è un
compito che viene scaricato sui genitori, ma non è neppure un lavoro che lo
psicoterapeuta può svolgere da solo. Così, quello che si verifica è una
specie di gioco di sponda. Patrizia, in seduta, ricostruisce la sua storia, e i
genitori (la mamma, soprattutto) durante i colloqui di parent training prima
acquisiscono la consapevolezza della necessità di raccontare certe cose e
poi si fanno coraggio e cominciano a parlarne con la bambina.

pag. 562

Questo processo proseguirà nel corso dei mesi. Dopo aver affrontato il tema
della cicogna che non potrà più arrivare, la mamma, sebbene molto
faticosamente, si spingerà oltre. Spiegherà alla figlia che, in realtà, non sono
le cicogne a portare i bambini e inizierà così una vera e propria, anche se
molto cauta, educazione sessuale.
Un’altra forma di gioco di sponda è costituita dal lavoro sul distacco.
Penso che spesso i metodi tradizionali di parent training siano come
monchi, o quanto meno sbilanciati. In un parent training tradizionale il
terapeuta avrebbe invitato la madre a favorire l’allontanamento della figlia e
a rinforzarla quando questo allontanamento si verificava. Tutto bene, ma
tutto un po’ freddo, un po’ troppo distante. Preferisco lavorare direttamente
su Patrizia perché cominci a prendere coraggio e a chiacchierare con
un’amica. Nel frattempo, quando questo funziona, ne discuto con i genitori.
Provo a far apprezzare loro questi progressi, e poi a fissare nuovi piccoli
obiettivi. Li invito a incoraggiare la figlia, senza forzarla, ad attività
extrascolastiche. Può darsi che l’attività più adatta venga in mente al papà o
alla mamma. Ma può anche darsi che venga in mente a Patrizia e a me in
seduta. In questo caso, suggerirò ai genitori l’idea: che poi è proprio quello
che è successo in questo caso. La bambina ha scelto un gruppo di
decoupage, dove si è trovata bene probabilmente perché poteva interagire
con delle coetanee senza la forte dose di competitività spesso presente nei
gruppi sportivi o dedicati a un’attività come la danza troppo soggetta al
giudizio. Le nostre sedute di parent training hanno così finito per
incoraggiare il distacco in modo dolce e quasi sempre concordato e
condiviso.
Abbiamo anche lavorato, sia pure con risultati alterni, su una maggiore
omogeneità di comportamenti del padre e della madre che, almeno nei
momenti migliori, si sono resi conto che atteggiamenti educativi troppo
distanti non favorivano l’equilibrio nella figlia.
Un punto importante, toccato subito a gennaio e dunque pochi mesi dopo
l’inizio della nostra terapia, è stata la rielaborazione in studio, con la
mamma, dell’esperienza delle Cronache di Narnia. La mamma mi ha
raccontato della sua ansia prima (aveva sentito il bisogno di farsi
accompagnare dalla nonna perché temeva di non reggere l’attesa di oltre
due ore nei paraggi del cinema!) e la sua incredulità poi. Mi sembra anche
questo un buon esempio di quello che potremmo chiamare parent training
“a caldo”, o condiviso. In una parent training “a freddo”, fatto cioè solo dal
lavoro del terapeuta con i genitori, lo psicologo avrebbe probabilmente
sostenuto l’importanza di mandare Patrizia al cinema con qualcun altro. La
mamma avrebbe detto che credeva che questo sarebbe stato troppo difficile
per la bambina. Forse lo psicologo le avrebbe fatto notare che
probabilmente diceva così perché la cosa era troppo difficile per lei.
Naturalmente non nego che un lavoro di questo genere, ben condotto,
avrebbe potuto portare a un insight nella madre e che l’insight, a sua volta,
avrebbe aiutato i genitori a programmare questa esperienza. Mi limito a
osservare che il lavoro contemporaneo con Patrizia e la mamma è stato più
facile e più naturale.
È stato molto naturale anche passare dal contratto improvvisato in seduta
dalla specializzanda all’uso potrei dire routinario dei contratti in parent
training. Questi contratti, come si vede bene anche in altre parti del libro,
servono prima di tutto per favorire la generalizzazione. Io posso lavorare in
studio perché Patrizia faccia un test o un esercizio di lettura con me senza la
madre vicina, ma non posso portarla a una festa di compleanno o ai Giochi
della Gioventù. Queste attività possono però essere programmate in
colloqui con i genitori, e i contratti educativi rappresentano una importante
guida per loro.

pag. 41

Con l’avvicinarsi delle vacanze estive, e quindi verso la fine del nostro
lavoro, la mamma impara anche a usare i rinforzatori informativi, o
feedback, per favorire la velocità di lettura e, più in generale, la motivazione
ai compiti. Come abbiamo infatti già visto, la mamma segnala alla figlia, in
modo preciso e immediato, il risultato della sua lettura, incoraggiandola di
giorno in giorno a diminuire il numero di errori, ma soprattutto ad
aumentare la sua velocità. Inoltre, le crocette messe prima all’inizio di un
libro di lettura e poi su quello dei compiti per le vacanze, segnalano a
Patrizia i suoi progressi (rinforzatore positivo) e le danno la soddisfazione
immediata di vedere che i compiti da fare diminuiscono (rinforzatore
negativo).
Infine, ancora durante le vacanze, lavoro con la mamma perché
acquisisca una sempre maggior consapevolezza dell’importanza delle
relazioni della figlia con le amiche. Discuto anche del fatto che la capacità
di Patrizia di frequentare coetanee e divertirsi non è un dato immutabile sul
quale non abbiamo controllo, ma qualcosa sul quale si può lavorare e
ottenere successi anche molto significativi. Durante una seduta di parent
training leggerò alla mamma quello che ha scritto in cartella la tirocinante,
e del quale ho già parlato:
Mi racconta che è andata a casa della Nicoletta. Mi dice:
“Abbiamo mangiato un pezzo di focaccia e un bombolone. Abbiamo cercato le coccinelle. Poi
in piscina dopo aver digerito. Poi l’idromassaggio”.
“Quanto eri contenta da zero a dieci?”.
“Mille!”.
“Perché eri così contenta?”.
“Perché gli altri giorni gioco con le bambole e mi annoio di più”.
Mi piace riportare di nuovo questo brano nella speranza che il lettore si
renda conto di come esperienze ed emozioni di questo genere possano
essere preziose in un parent training per modificare lo stile di attribuzione
di una madre e farle almeno intravedere speranze nuove di cambiamento.
Consulenza ai genitori (piuttosto che niente)

Anch’io avevo delle speranze di cambiamento che purtroppo sono andate


deluse. Le avevo nei confronti di due genitori che vedevo come distanti,
incapaci di comunicare, persino sessualmente ormai troppo lontani
nonostante la giovanissima età. Dopo poche sedute avevo già deciso che
sarebbe stato utile tentare un invio per una terapia o per lo meno una
consulenza di coppia. Mi appariva per esempio sempre più evidente che la
distanza, sia fisica che emotiva, di Patrizia nei confronti del padre, fosse
uno specchio della medesima distanza che da tempo, ma soprattutto dopo
l’aborto spontaneo, doveva essersi instaurata tra marito e moglie. Ho
dunque proposto un invio, ma purtroppo ho fallito l’obiettivo.
Credo che possa essere utile a questo proposito una precisazione
metodologica. Non c’è nessuna controindicazione a seguire una coppia
genitoriale di un nostro paziente attraverso tecniche più o meno strutturate
di parent training. Al contrario: come abbiamo appena visto, lavorare
contemporaneamente su un bambino e sui suoi genitori per raggiungere
obiettivi condivisi è spesso particolarmente utile. Ma quando allo psicologo
appaia evidente che il papà o la mamma, o entrambi, avrebbero bisogno non
di una consulenza educativa, ma di un lavoro su se stessi, non credo che
possa fare due parti in commedia e diventare il terapeuta di una coppia
quando è già il terapeuta del figlio. È una distinzione sottile ma importante.
Per questo io ho cercato di aiutare la coppia genitoriale attraverso una
forma di consulenza sui problemi di Patrizia, ma ho proposto un invio sui
loro specifici problemi.
È difficile dire perché abbia fallito. Forse i genitori erano già molto
scettici, o impauriti. Sicuramente io non sono stato abbastanza direttivo o
deciso. Ricordo, per esempio, di aver consigliato un centro ASL di terapia
della coppia, fornendo loro anche l’indirizzo. Ma non ho dato un nome
specifico di uno specialista di mia fiducia, né indicazioni sugli orari, né un
numero di telefono al quale rivolgersi. Ci sono circostanze nelle quali i
pazienti hanno un particolare bisogno di essere presi per mano. Questo non
significa, ovviamente, obbligarli; ma un accompagnamento autorevole,
preciso e deciso a volte li può aiutare.
Dunque, piuttosto che niente, e sempre chiarendo che una cosa era una
consulenza centrata sui problemi di Patrizia e una cosa ben diversa una
terapia di coppia, ho continuato a lavorare con loro. È stato molto bello
vedere quasi dissolversi le angosce relative alle analogie tra la figlia e il
cugino, e credo che questo abbia fatto molto bene a Patrizia. Credo che le
abbia fatto bene anche vedere che i genitori si comportavano con lei in
modo un po’ meno incoerente, e forse anche tra di loro la distanza era un
po’ diminuita. Abbiamo infatti discusso della possibile funzionalità di
alcuni comportamenti di Patrizia. Probabilmente l’eccessivo attaccamento
alla madre serviva alla figlia a tenere separati i genitori. Inoltre, la bambina
sembrava rifiutare il padre e i suoi approcci giocosi, anche se probabilmente
maldestri, proprio come la moglie rifiuta il marito. In queste situazioni,
benché riesca apparentemente facile, è in realtà impossibile stabilire nessi di
causa-effetto. Il dato è però che un riavvicinamento tra coniugi, sia pure in
forma incerta e sicuramente incompleta, avverrà in tarda primavera e
all’inizio dell’estate Patrizia e suo padre se ne andranno una sera in moto a
mangiare un gelato in riva al mare e un’altra sera, sempre loro due soli, al
luna park.

E LA STORIA DI PATRIZIA CONTINUA…

Da qualche anno non sono più il terapeuta di Patrizia.


Il suo rapporto con quella che allora era una mia specializzanda si è
consolidato al punto che, con il tempo, lei è diventata il suo punto di
riferimento e Patrizia va ancora da lei quando c’è qualche problema nuovo.
Tuttavia lavoro ancora con la mia ex specializzanda e stiamo scrivendo
insieme questo libro, e dunque non mi è difficile avere notizie aggiornate.
La scuola primaria è finita meglio di come era cominciata. Patrizia ha
imparato, pur tra mille difficoltà, a esporsi a situazioni nuove. Per un anno
ha seguito un corso di pallavolo. È andata qualche volta in una palestra con
la mamma, anche se poi l’idea della ginnastica ritmica non si è mai
trasformata in realtà. Ha cominciato a uscire con qualche amica, con
crescente autonomia: soprattutto in estate è andata con loro in giro in
bicicletta, imparando a fare piccoli acquisti con sicurezza. Ha tuttavia
ancora avuto bisogno di aiuto, negli anni passati, per alcune difficoltà
scolastiche, per certi suoi momenti di tristezza e di vuoto, ed è stata
nuovamente incoraggiata a frequentare amiche e attività extrascolastiche; a
riflettere e reagire in modo adeguato a certe richieste prestazionali cercando
di non mettere in atto comportamenti di evitamento e pianti; a riconoscere e
accettare che alcune cose le sappiamo fare meglio e altre meno bene.
In questi stessi anni anche la mamma, che purtroppo non sono mai
riuscito a inviare a una psicoterapia per sé, è stata comunque aiutata,
almeno nei rapporti con la figlia, a capire meglio cos’è un Disturbo
specifico dell’apprendimento, cosa comporta, ma anche quante potenzialità
lascia inalterate. A farsi coraggio lei per prima nell’esporre Patrizia a
situazioni sociali extrascolastiche come la pallavolo o la ginnastica artistica.
Ad affrontare la possibilità di parlare di temi che in passato si sarebbero
tipicamente trasformati in non detti, come la malattia e l’intervento
chirurgico del nonno. A permettersi di piangere. A prepararsi all’idea della
scuola secondaria di primo grado della figlia e a fare i conti con tutte le sue
paure legate a questo cambio di scuola.
Poi il cambio è arrivato. Quest’anno Patrizia è in prima media (o
secondaria di primo grado, come si dice ora). In settembre siamo andati a
scuola per parlare con gli insegnanti e presentare il caso. Abbiamo spiegato
alcune caratteristiche del suo Disturbo dell’Apprendimento e le necessità
didattiche della ragazzina legate a questo disturbo. Abbiamo aggiunto gli
aspetti legati alla bassa stima di sé, al rischio di tendenza all’isolamento e al
bisogno di Patrizia di sentirsi apprezzata e incoraggiata sui due fronti del
rendimento scolastico e della socialità.
È una regola generale che, nei rapporti con la scuola, lo psicologo debba
svolgere queste operazioni con una particolare cautela. Deve evitare di far
lezione salendo in cattedra e prescrivendo agli insegnanti comportamenti
che gli insegnanti possono non condividere, ritenere difficile e qualche
volta addirittura ingiusto mettere in atto. Tanto per fare solo un esempio,
non si può dire a un professore che deve assolutamente gratificare un
ragazzo per i suoi piccoli progressi in lettura del tutto indipendentemente
dal programma e dal livello della classe. Questo può essere giusto in teoria,
ma se viene percepito dal professore più come un diktat che come un
consiglio, il professore metterà in campo mille obiezioni e finirà per
boicottare qualunque indicazione dello psicologo.
Abbiamo cercato di mettere in atto queste cautele, ma abbiamo avuto fin
dai primi momenti del colloquio con i nuovi insegnanti di Patrizia
l’impressione che tutto questo non fosse particolarmente necessario.
L’istituto scelto dalla mamma con una buona dose di intuito è una scuoletta
in un paesino di pescatori, tanto piccola da essere sempre a rischio chiusura.
I professori hanno un forte spirito di corpo legato a questa scuola, da
sempre abituata a lavorare con ragazzi che sicuramente non provengono da
ambienti sociali e culturali particolarmente elevati. Sembrano sentire molto
la doppia vocazione di aiutare i loro allievi e salvare il loro istituto. Così ci
siamo capiti subito, loro hanno capito Patrizia, la comprensione non è
rimasta a livello intellettuale ma si è trasformata in comportamenti, e
Patrizia viene interrogata sulle parti del programma che ha preparato con
particolare attenzione e viene fatta leggere a voce alta davanti alla classe
solo su brani nei quali si sente sicura. Inoltre i genitori hanno trovato una
nuova insegnante che, di pomeriggio, l’aiuta a studiare e la segue nei
compiti con competenza e buoni risultati. Sono cominciati ad arrivare voti
molto rinforzanti per lei. Tutto questo ha prodotto subito i suoi effetti. C’è
adesso una motivazione che non si era mai vista prima, un atteggiamento
propositivo, un impegno personale e convinto nel voler fare le cose:
scolastiche ed extrascolastiche. I pianti sono diventati rari. Ha un gruppo di
amiche con cui si trova bene: è stata a una festa di Halloween e a un
mercatino natalizio e si è divertita tanto.
Poche settimane fa ci ha portato una pagellina che, se non avessimo
conosciuto i suoi insegnanti, avrebbe qualcosa di miracoloso ed è invece il
frutto di un impegno reciproco e consapevole: matematica 6; grammatica 6;
storia 6; geografia 7; italiano 7; italiano 6; matematica 7; scienze 7;
francese 7, 7, 7, 7, 7; inglese 5; matematica 10 (!!!); italiano 5; scienze 10;
arte 6/7; italiano 5/7.
Era molto contenta quel pomeriggio, naturalmente. Inutile dire quanto
fosse contenta la mamma. So bene che le regole dello stile di attribuzione
dello psicoterapeuta prescrivono una buona dose di attribuzione interna
instabile: lo psicologo dovrebbe abituarsi a pensare che molti cambiamenti
del paziente possono dipendere da lui e dal suo impegno nella terapia.
Eppure credo che questa piccola scuola sul mare, con questi “prof” che
sembrano innamorati non solo del mestiere e dei loro allievi ma anche di
quelle vecchie mura, sia la riprova che in un lavoro psicoterapeutico, come
in tutte le storie di una vita, anche la fortuna giochi il suo ruolo: e mi
sembra che stavolta Patrizia ne abbia trovata un po’ e sono certo che se la
meritava.
1 Viene lasciata la dizione “Ritardo mentale” usata nella relazione che è stata redatta qualche anno
fa. Oggi, nel DSM-5 il termine è stato sostituito da “Disabilità intellettiva”, come si può vedere nei
primi capitoli di questo libro.
2 Vedi capitolo 1, nota 1.
3 Bisogna anche considerare che sono i primi di settembre, la scuola non è ancora cominciata e
dunque la mia domanda, un po’ incauta, si riferiva a un ricordo di diversi mesi prima.
4 All’epoca in cui conosciamo Patrizia la tirocinante specializzanda, che poi prenderà in mano gran
parte del lavoro con la bambina, è Daniela Fontana, coautrice di questo volume e coprotagonista di
questa storia. In realtà, molti capitoli di questo libro raccontano di lavori fatti in collaborazione e di
storie condivise tra gli autori. Abbiamo tuttavia deciso di conservare sempre la narrazione in prima
persona per facilitarne la leggibilità, soprattutto nelle parti più emozionali, dove il terapeuta parla di
sé.
5 Vedi capitolo 1, nota 2.
6 Ci si potrebbe chiedere perché far rientrare la mamma quando Patrizia non ne manifesta il bisogno.
La questione è sottile. È chiaro che chiamare la mamma rappresenta una forma di rinforzamento
; la domanda, dunque, diventa: quand’è il momento migliore per erogarlo? Nel riquadro di
approfondimento viene discussa brevemente la questione.

pag. 13

7 Nel capitolo 26 vengono discusse queste strategie terapeutiche che consistono nel creare una
forma di perturbazione nel paziente per favorire una ristrutturazione, un modo diverso di vedere le
cose.
8 Vedi capitolo 1, nota 3.
9 Vedi nota 6 del presente capitolo.
10 Vedi capitolo 7, nota 4.
11 Vedi capitoli 7, 8, 12, 17 e 18.
12 Questa è una tipica manovra di rinforzamento incondizionato, cioè di una gratificazione che
viene data non per un comportamento più o meno corretto, ma indipendentemente da tutto, senza
nessuna condizione. Si usa di solito nelle prime fasi non solo di un intervento terapeutico, ma di
qualunque tipo di interazione. Nei primi giorni di scuola, la maestra rinforza i suoi piccoli alunni
senza chiedere loro nulla “in cambio” e l’innamorato, all’inizio di una storia, dice al partner “grazie
di esistere”. È interessante notare come questa forma gratuita di rinforzamento non possa durare a
lungo senza perdere di significato e debba più o meno gradualmente essere sostituita da rinforzatori
erogati con maggiore consapevolezza.

pag. 13
13 Il rinforzatore deve essere definito in modo chiaro, proprio come l’obiettivo, per evitare i rischi di
una vaghezza all’interno della quale poi ognuno possa fare quello che vuole, violando di fatto la
reciprocità degli impegni presi. Questo significa che l’impegno di un bambino non dovrebbe essere
“fare il bravo”, perché poi il rischio è che sosterrà di essere stato bravo qualunque cosa abbia fatto.
Analogamente, il rinforzatore non dovrebbe essere “un bel giocattolo”, per evitare che quello che
sembra bello al padre o alla madre sia una delusione per il figlio. Questa regola ha però
un’importante eccezione, rappresentata dal rinforzatore “a sorpresa”. In alcuni casi può essere
corretto, e anche molto efficace, lasciare nel vago il rinforzatore finale per aumentare la curiosità del
bambino e dare un significato speciale a tutto l’accordo.
14 Per informazioni sui software tachistoscopici è possibile consultare i seguenti siti che si
riferiscono, rispettivamente, al tachistoscopio dell’Anastasis di Bologna, a quello dell’Istituto per le
Tecnologie Didattiche del CNR di Genova e a quello della Tecnimedia distribuito da Vannini di
Brescia: http://www.anastasis.it/AMBIENTI/NodoCMS/CaricaPagina.asp?ID=50;
http://sd2.itd.cnr.it/prot/recensioni/tachis.htm; http://www.vanninieditrice.it. Come è più
analiticamente illustrato nei capitoli 7 e 8, oltre alla presentazione tachistoscopica è possibile
utilizzare per l’automatizzazione anche il trattamento sublessicale e diversi strumenti di abilitazione a
distanza messi a punto da Anastasis e Erickson.
15 Vediamo qui, evidente, il nesso tra autoefficacia (vedi riquadro alla pagina seguente) e
motivazione. Si rende conto di essere in grado di migliorare la sua lettura e legge più volentieri.
16 Non resisto alla tentazione di ripetere, di fronte a questo episodio, che il rinforzamento non è un
meccanismo monodirezionale. Il rinforzamento sta dentro una relazione e, ogni volta che lo si usa,
ritorna indietro. Persino i topolini nella gabbia di Skinner rinforzavano il loro sperimentatore e, in
un’indimenticabile vecchia vignetta dicevano, indicando Skinner: “Hai visto? Siamo riusciti a
condizionarlo! Ogni volta che premiamo la leva ci dà un pezzo di formaggio…”. Anche qui succede
qualcosa di simile: chi rinforza chi? La tirocinante rinforza Patrizia perché legge sempre meglio e
Patrizia le dà un bacio.
17 Tipica manovra di ristrutturazione cognitiva , equivalente a chiedere: “Qual è la prova?”.

pag. 350

18 Qui invece il lavoro, da cognitivo, passa all’emozionale.


19 Prima una risposta riflessa: accetto la comunicazione e ne rimando indietro il contenuto; poi, di
nuovo, cerco di mettere l’accento sulle emozioni sottostanti.
20 Ancora una risposta riflessa, ma questa volta non tanto sul contenuto quanto sull’emozione.
21 Me lo domando per l’ennesima volta (vedi nota 16 del presente capitolo): chi rinforza chi?
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 10

La storia di Ferdinando Che


angoscia le letterine!
Daniela Fontana

DUE GENITORI DISORIENTATI E ARRABBIATI

Il primo colloquio con i genitori di Ferdinando è connotato da intense


emozioni di rabbia, difficili da contenere.

pag. 49

Ferdinando è già in terza elementare ed è seguito da un paio d’anni da un


centro specialistico integrato, tra l’altro scomodo dal punto di vista logistico
perché lontano dalla città dove vive e dove gli specialisti, secondo i
genitori, seguono il bambino poco, male e in modo inconcludente.
Dalla ricostruzione della storia di sviluppo si segnala un linguaggio
comparso tardivamente: le prime parole intorno ai tre anni e le prime frasi
un po’ più articolate intorno ai cinque. Ferdinando, fin da piccolo,
presentava un ritardo più generalizzato dello sviluppo con difficoltà
attentive e instabilità motoria. Ha effettuato anche un percorso prima di
psicomotricità e poi di logopedia. Quest’ultimo continua anche al momento
della consultazione con me.
Qui la madre apre una parentesi e mi racconta che la logopedia sembra
diventare sempre più un problema nonostante i genitori si rendano conto
che sia necessaria: Ferdinando non ci va volentieri, è costretto a uscire da
scuola (perché la terapia viene fatta solo al mattino) dove invece,
nonostante le difficoltà enormi di apprendimento, sta molto volentieri, e
questa cosa lo indispone fino a farlo piangere e diventare oppositivo.
Persino le maestre, molto cautamente, avrebbero tentato con i genitori di
affrontare il problema, non per le uscite in orario scolastico che, a detta
loro, non costituiscono un problema, quanto per l’atteggiamento che
Ferdinando sta mostrando e che secondo loro è sintomo che qualcosa non
sta funzionando a dovere nella terapia logopedica o, più probabilmente, nel
rapporto con la logopedista.
A questo punto del colloquio è il padre che prende la parola, lamentando
che gli specialisti di questo centro non hanno mai parlato con gli insegnanti,
che non c’è raccordo tra loro e il mondo della scuola, dove pure Ferdinando
passa gran parte del suo tempo e dove incontra tanti problemi.
In effetti, quando arriverò a fare le prime domande sul funzionamento
scolastico scoprirò che Ferdinando è proprio in difficoltà, nonostante le
maestre sappiano gestire molto bene il bambino.
Le difficoltà linguistiche sono molto forti: Ferdinando non conosce il
nome di molti colori, non ricorda il nome dei compagni di classe e
nemmeno quello delle sue maestre. La madre riporta qualche esempio: non
essendo capace di ricordare il nome “bianco”, il bambino è costretto a fare
dei giri di parole, come per esempio “è del colore della neve”, e non
ricordando il nome delle maestre ha trovato un suo modo alternativo per
nominarle: le chiama “maestra a righe” (quella che insegna italiano o
discipline linguistiche) e “maestra a quadri” (quella che insegna matematica
e discipline scientifiche). Compaiono inoltre nel linguaggio di Ferdinando
diversi difetti di pronuncia, che rendono l’eloquio non sempre
comprensibile, anche a causa di una strutturazione della frase difficoltosa.
Ma il vero dramma riguarda gli apprendimenti scolastici.
Ferdinando è in terza elementare e non sa ancora né leggere né scrivere.
Nei tre anni di scuola ha appreso il riconoscimento delle vocali e solo di
alcune consonanti, ma non di tutte. Non è in grado di fondere le lettere fino
a formare le sillabe e riesce solo a riconoscere visivamente e globalmente,
attraverso la via lessicale, alcune semplici parole molto comuni come
“mamma” o “sole”.
Per quanto riguarda la scrittura, procede copiando dalla lavagna le parole
e le frasi che la maestra o i compagni scrivono, con una grafia curata
secondo i genitori in modo meticoloso, ma autonomamente non è in grado
di scrivere nulla. Sia a casa che a scuola insegnanti e genitori procedono
con la tecnica del “presta-mano”: Ferdinando detta e gli adulti scrivono per
lui.
Mentre i genitori mi descrivono tutto questo si affacciano nella mia
mente diverse domande: mi chiedo per esempio come starà vivendo
Ferdinando queste sue difficoltà; che bambino potrò mai trovarmi di fronte;
se sarà demotivato, sfiduciato, magari oppositivo, come spesso a questi
bambini capita. Mi consola pensare che a scuola va volentieri, che le
insegnanti hanno trovato sicuramente un equilibrio che non gli fa troppo
pesare le sue difficoltà e probabilmente ne sanno valorizzare le doti.
Sì, perché – come mi dicono i genitori durante questo primo colloquio –
Ferdinando nella vita di tutti i giorni è un bambino pieno di risorse: sveglio
e autonomo, se la sa cavare benissimo in tutto. È sportivo e atletico: ha
imparato a fare surf da quando aveva 6 anni e lo pratica con estrema
facilità; inoltre sa nuotare bene e suona la batteria con molta passione.
Non ha difficoltà nei rapporti con gli altri bambini che lo invitano spesso
a casa loro per giocare e che i genitori molto saggiamente cercano di
invitare a loro volta per coltivare il più possibile un’area che mostra di
funzionare bene.
In conclusione di questo nostro primo colloquio appare evidente che
quello che proprio non va sono gli apprendimenti e l’atteggiamento che
Ferdinando mostra al riguardo: è difficile farlo lavorare perché ormai si è
messo in testa, dicono i genitori, di non potercela fare e che tutto sia per lui
inutile. Sono loro a chiedermi un aiuto: non sanno più come muoversi, se è
giusto rinunciare oppure se è giusto insistere con il bambino e attraverso
quale strada. Tutte quelle che hanno tentato e stanno tentando si sono
rivelate fallimentari e loro si sentono persi e senza guida.
Ci salutiamo, non prima di aver riassunto i punti salienti del bambino e
aver promesso – come da richiesta esplicita dei genitori – che dopo il
necessario inquadramento avrei cercato di individuare insieme a loro, alle
maestre e al bambino quale strada potevamo percorrere tutti insieme.

IL PRIMO COLLOQUIO CON FERDINANDO

Arriva il giorno in cui conosco Ferdinando.


Entra con la mamma, anche perché mi rendo subito conto che tentare di
farlo entrare da solo sarebbe stata una mossa davvero azzardata. Ferdinando
non doveva essere molto contento di essere stato portato da me. Mi
guardava con gli occhi un po’ sospettosi, come se cercasse di capire se io
sarei stata l’ennesima persona che lo avrebbe “torturato”.
L’approccio generale che colgo è di un bimbo assolutamente non
deficitario, ma sicuramente bizzarro.
Inizialmente è silenzioso, con lo sguardo fisso e sperduto. Io cerco di
lasciargli il tempo per adattarsi e comincio a dialogare con la madre che
invece comprende perfettamente la situazione e sembra anche lei, come me,
stare in mezzo a questi silenzi senza pretese o ansie particolari. Poi, poco
alla volta, Ferdinando comincia a interagire con noi, anche perché la madre
è molto abile nel coinvolgerlo. A questo punto tento di metterlo a suo agio
dicendogli che so che è molto bravo negli sport e gli domando quali attività
pratica.
Ferdinando si illumina quando sente parlare di sport, ma poi si gira un
po’ goffamente verso la madre chiedendole: “mamma, come si chiama lo
sport che faccio?”. Ha una voce piuttosto grossa ma anche un po’
balbettante e nel tentativo di rispondere si mostra piuttosto agitato. La
madre sembra prestargli le parole in modo molto dolce, delicato e
accudente, per nulla ansiosa o preoccupata che vengano messi in luce questi
aspetti del figlio che pure la devono preoccupare parecchio.
Mentre l’interazione del bambino con me si fa via via sempre più sciolta,
noto la presenza di problemi fonologici nel linguaggio: dice per esempio
”queto” invece di questo; “cuola” per scuola; “trivere” per scrivere. Noto
anche che non sa dire quale classe frequenta e solo dopo un pochino mi dice
la seconda, mentre lui è già in terza. Tutto sommato il linguaggio, anche se
difficoltoso, con un po’ di orecchio appare comprensibile.
Accetta volentieri di disegnare. Il disegno viene più volte cancellato e
rifatto, com’è tipico dei bambini ansiosi e insicuri; ma alla fine è soddisfatto
della sua produzione e sicuramente occuparsi di un’attività piacevole come
il disegno “ci” aiuta a rompere il ghiaccio e a familiarizzare.
Quando ormai mi accorgo che Ferdinando è tranquillo, decido di tentare
il distacco e propongo al bambino di giocare da solo con me. Ferdinando
accetta e la mamma esce serena dalla stanza e noi ci divertiamo a fare un
gioco di carte. Così finisce il nostro primo incontro.
I colloqui successivi

All’incontro successivo Ferdinando entra senza difficoltà lasciando la


mamma in sala d’aspetto. Sembra contento di vedermi e io ne approfitto per
rinsaldare la nostra relazione appena agli inizi. Chiacchieriamo un po’ e io
lo sento finalmente molto più tranquillo e disteso rispetto alla prima volta,
come se l’ansia o il disagio si fossero in gran parte sciolti.
Mi sembra anche un bambino intelligente e vispo nonostante
l’espressione orale risenta di mille difficoltà: ma è brillante e intuitivo e
percepisco perfettamente che l’intuito arriva prima della sua capacità di dar
voce ai suoi pensieri con le parole.
Comincio volutamente la seduta con lo shangai, un gioco che propongo
spesso ai bambini e che, noto con piacere, seppure nella sua semplicità
viene molto apprezzato. Anche a Ferdinando per fortuna sembra piacere
molto. Poi propongo al bambino le tavole CPM che per esperienza vengono
quasi sempre percepite come un gioco, tanto che spesso capita che i
bambini mi richiedano a distanza di tempo di poterle rifare. In questo modo
comincio ad avere un’idea più oggettiva anche se ancora approssimativa,
delle sue competenze cognitive. Ferdinando appare tranquillo, motivato e
attento durante l’esecuzione della prova.
Poi con un po’ di coraggio decido di affrontare la reazione del bambino
di fronte alle lettere. Ricordavo perfettamente ciò che mi avevano detto i
genitori e per questo motivo uso la parola “coraggio”, molto indicativa del
mio stato d’animo in quel momento. Sì, perché il fatto che Ferdinando fosse
venuto volentieri, cominciasse ad aprirsi e mi avesse percepito in modo
positivo erano prerequisiti fondamentali della possibilità che potessimo
lavorare insieme. E io dentro di me ero in qualche modo contenta di questo
equilibrio, che però percepivo ancora come precario e temevo che da un
momento all’altro avrebbe potuto rompersi.
Decido dunque di farmi coraggio, ma in modo graduale e prudente.
Tiro fuori dei cartoncini con le lettere scritte in stampatello maiuscolo, e
comincio con le vocali. Ferdinando cambia l’espressione del viso, ma lo
tranquillizzo dicendogli che ho bisogno di vedere le cose che sa fare e
quelle sulle quali c’è ancora bisogno di lavorare per poterlo così aiutare
meglio.
Con le vocali va tutto bene: sebbene mi stia comunicando con
l’atteggiamento e lo sguardo che questa attività proprio non la gradisce,
tuttavia risponde correttamente e io lo posso gratificare. I problemi però
arrivano molto presto con le consonanti che non sa riconoscere in modo
stabile, proprio come i genitori mi avevano anticipato. E con queste
difficoltà cominiciano anche le reazioni negative del bambino che, appena
percepisce di non riuscire, si butta tutto indietro sulla sedia e mi dice “No!
ancora con queste letterine! Ma non hai capito che io sono un deficiente?
Non riuscirai a farmi cambiare idea”.
Le parole di Ferdinando risuonano forti, dure, e io in quel momento ho
percepito in tutta la sua intensità la devastazione che il bambino provava
dentro di sé. La raccolgo come meglio posso dicendogli:
“Quando non ti riesce, ti viene da pensare così?”.
Lui annuisce con il capo e decido allora di passare ad altro. Mi guardo un
po’ intorno nella stanza, cercando un modo o uno strumento o un’idea che
possa risollevarci dalla situazione di impasse in cui ci troviamo. Accendo il
computer e apro il programma SuperQuaderno (edizione Anastasis; vedi
cap. 7 e fig. 10.1), uno speciale editor multimediale di testi che utilizza due
canali – visivo e uditivo – contemporaneamente. In pratica il bambino,
mentre digita le lettere sulla tastiera, le può ascoltare grazie alla presenza di
una sintesi vocale e inoltre, appena ha terminato di digitare la parola, se la
può far leggere per intero; è poi possibile associare a una parola scritta
l’immagine corrispondente attraverso una funzione del programma
chiamata “magia”.
Figura 10.1 Uno scritto con il software SuperQuaderno.

Prendo da un vecchio testo di scuola elementare che ho nell’armadio una


semplice frase scritta in stampatello e gli chiedo di copiarla al computer:
Ferdinando ci si mette d’impegno, riesce a svolgere perfettamente il
compito che finalmente è alla sua portata e poco alla volta scopre tutti i
“trucchi” di SuperQuaderno, mostrando a ogni scoperta tutta la sua
meraviglia:
“Ma ripete le lettere che scrivo?”, “Ma ora ha letto tutta la parola!”, “Ha
fatto una magia! È comparsa la figura!”.
Noto con piacere l’aspetto motivante dello strumento, che gli consente di
lavorare ora in modo divertente, sereno e disteso con quelle stesse letterine
che poco prima gli avevano generato una frustrazione e un’angoscia
palpabili.
Mi sembra così gratificante questo risultato che tento di chiudere
l’incontro prima che la motivazione cada. Invece Ferdinando mi chiede di
poter scrivere ancora un’altra frase con quello che lui chiamava il
“quaderno magico” e che tra di noi avremmo continuato a chiamare sempre
così.
La seduta si conclude con un episodio casuale ma significativo che mi dà
l’occasione di ritornare sul tema delle difficoltà percepite, dell’impegno e
della possibilità di migliorare: Ferdinando sta giocando con una penna,
tenendola in bilico tra bocca e naso. Lo gratifico con dei rinforzatori
dicendogli che è bravo e lui replica che in questo è un campione. Gli faccio
notare che a me sembra un gioco abbastanza difficile e gli propongo di
insegnarmelo, con po’ di pazienza. Gli dico anche che, se lui ne avrà voglia,
io in cambio gli insegnerò le letterine.

pag. 13

Mi guarda e mi ascolta, forse perplesso, ma di fronte alla chiusura e al


rifiuto totale mostrato prima mi sembra di intravedere in questo silenzio uno
spiraglio. Poi mi chiede se può far vedere alla sua mamma il “quaderno
magico”.
I colloqui successivi hanno seguito grosso modo questo andamento. I
genitori mi hanno confermato che il bambino viene da me senza alcuna
resistenza, anzi piuttosto volentieri. Durante le nostre sedute ho cercato di
mantenere con Ferdinando un ritmo particolarmente attento alle sue
esigenze: lui sembra capire che in parte dovrà fare alcune prove che non gli
piacciono molto, ma sa che non lo stresserò più di tanto e che alterneremo
queste prove ad attività a lui più gradite come il “quaderno magico”, che lui
continuerà a ricercare e che costituisce già l’inizio di un trattamento
abilitativo.

CHE COS’HA FERDINANDO?

La parte valutativa è stata in realtà molto semplice e veloce, in parte per il


fatto che il bambino ha già una documentazione, anche se non recente,
fornita dai genitori, in parte perché per quanto riguarda gli apprendimenti è
quasi tutto da costruire.
Ferdinando, anche clinicamente, appare un bimbo sveglio e brillante.
Anche il test CPM proposto in fase iniziale così come la WISC-III fatta nel
corso delle successive sedute hanno confermato questo dato. Il test CPM
fornisce un risultato collocabile intorno al 75° percentile, quindi ai limiti
superiori della norma. La somministrazione della scala WISC mette in luce
un profilo cognitivo molto discrepante, con prestazioni nettamente migliori
nella parte di performance e cadute significative nella parte verbale, con
particolare rifermento ai subtest delle informazioni, del ragionamento
aritmetico, della memoria di cifre e del cifrario.
A fronte di competenze cognitive nella norma, Ferdinando presenta
quello che nel DSM-5 viene chiamato Disturbo del linguaggio. Questo
disturbo, secondo le direttive del DSM-5, è caratterizzato da difficoltà nella
comprensione o nella produzione linguistica: in particolare sono presenti un
lessico ridotto, difficoltà nella strutturazione delle frasi e una generale
compromissione delle abilità discorsive. Tali difficoltà devono collocare la
prestazione sotto il livello atteso per l’età, devono essere misurate attraverso
test standardizzati per il linguaggio e devono interferire con il rendimento
scolastico, le prestazioni professionali, l’efficacia della comunicazione o la
socializzazione. Si può verificare in concomitanza un disturbo fonetico-
fonologico se sono presenti anomalie nella produzione dei suoni del
linguaggio.
Nell’ICD-10 questa condizione viene denominata Disturbo del
linguaggio di tipo espressivo: in questo caso, però, si fa riferimento a sole
difficoltà di tipo espressivo a fronte di una comprensione del linguaggio che
deve essere nella norma. Possono essere presenti anomalie o ritardi nella
produzione dei suoni verbali.
Nel caso di Ferdinando sono presenti difficoltà di tipo espressivo, mentre
la comprensione del linguaggio risulta integra. Poi, sicuramente, il bambino
presenta un iniziale e significativo ritardo di apprendimento che evolverà
nel Disturbo specifico dell’apprendimento, con compromissione sia della
lettura che dell’espressione scritta e del calcolo. Anche quando Ferdinando
si impadronirà dei meccanismi di letto-scrittura e le abilità finalmente
decolleranno, permarrà un divario rispetto alle prestazioni attese per la
classe frequentata sia nella velocità che nella correttezza.
Inoltre è presente nel quadro clinico una notevole ansia prestazionale,
che però sembra essere reattiva alle difficoltà oggettive sperimentate dal
bambino, difficoltà che gli provocano anche una bassa autoefficacia e
comportamenti di evitamento.

IL LAVORO INSIEME A FERDINANDO E ALLA SUA


MAMMA (PARENT TRAINING)

Il lavoro con Ferdinando si snoda attraverso tre grandi direttive.


In primis io e il bambino ci ritagliamo uno spazio per familiarizzare con
quelle angoscianti letterine che non risultano ancora apprese e che
inevitabilmente, se non affrontate, rischiano di ostacolargli fortemente
l’accesso agli apprendimenti e di causargli un disagio e una sofferenza
sempre crescente. Comincio a lavorare su questo obiettivo in studio e a
valutarne personalmente i risultati e gli effetti sul piano emotivo: nel quadro
clinico del bimbo questi aspetti risultano fondamentali e diventa
indispensabile programmare ogni attività di apprendimento in modo
assolutamente attento alle sue caratteristiche. Pertanto cerco di proporgli
varie attività, molte delle quali sotto forma di gioco, in modo che la
motivazione del bambino possa sempre mantenersi il più alta possibile.
Comincio dalle lettere che conosce meglio, inserendo gradualmente quelle
che non ha ancora appreso, in modo comunque che il tasso di errore sia
nettamente inferiore alle risposte corrette che riesce a darmi, così da evitare
la frustrazione e la percezione di non essere all’altezza del compito.
Una prima attività consiste nel presentare una lettera alla volta in
cartoncini stampati e chiederne la lettura. Ovviamente ogni risposta corretta
viene sistematicamente gratificata, secondo i metodi dei rinforzatori
tramite elogi, mentre se la risposta è sbagliata rileggo io correttamente le
lettere e gliele ripresento subito dopo. Così, in sequenza una dopo l’altra,
passiamo in rassegna tutte le lettere con l’obiettivo di consolidare quelle già
conosciute e di apprendere quelle che il bambino ancora non padroneggia.
La stessa attività, a difficoltà crescente perché richiede la messa in atto del
meccanismo della fusione, viene poi proposta con due lettere affiancate in
modo da favorire il passaggio alla sillaba: presento la prima lettera che il
bambino legge “L”, e subito dopo affianco la seconda, e anche questa viene
letta “A”, e infine gli dico di metterle insieme per formare “LA”. Ogni
risposta corretta o sbagliata del bambino viene registrata in una scheda in
modo da effettuare un’osservazione sistematica, che sarà utile sia per poter
gratificare Ferdinando sia per conoscere con precisione le parti acquisite e
quelle su cui è invece necessario insistere ancora (figg. 10.2 e 10.3). In
questo modo posso programmare nuovi obiettivi di lavoro. Io e Ferdinando
giochiamo spesso con le lettere e le sillabe e insieme ci divertiamo anche
molto: gli propongo la tombola di lettere e sillabe (fig. 10.4), il domino e il
memory, sempre di lettere e sillabe, e tutta questa varietà di giochi gli
consente di apprendere le lettere in modo divertente e quindi più facilmente
e con meno fatica.
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Figura 10.2 Osservazione sistematica di lettere in studio.


Figura 10.3 Osservazione sistematica di lettere e sillabe in studio.
Figura 10.4 Tombola di sillabe.

Il secondo tipo di lavoro con Ferdinando viene svolto tramite il


computer: in una primo momento lavoriamo sulla metafonologia,
utilizzando per esempio il software didattico “Lettura di base 1”, o sul
riconoscimento visivo delle lettere con “Lettura di base 2”. Passiamo poi
alla fusione dei suoni con “Fondiamo le letterine” (fig. 10.5), e quindi a
esercizi per migliorare la memoria utilizzando il software “Memoria
verbale”. Il software SuperQuaderno continuerà a essere invece nostro
alleato come lo è stato fin dalle primissime sedute (vedi paragrafo
precedente): con la sintesi vocale Ferdinando riesce a “leggere” alcune
storie, usando il software all’inizio per scrivere lettere, poi sillabe, poi
parole, poi frasi, e infine testi. Il bambino si abitua così a bypassare il suo
deficit di lettura attraverso il computer, abilita i meccanismi della scrittura
anche grazie al feedback uditivo che il programma fornisce, si diverte
mentre vede comparire nei suoi scritti le immagini e chiede di poterne
inserire di nuove, per esempio le nostre fotografie, in modo da vederle
comparire quando si digitano i nostri nomi. Quando Ferdinando ha
raggiunto buoni risultati è stato utilizzato per un’intera estate, dunque per
tre mesi, il Reading Trainer per favorire l’automatizzazione e quindi la
velocità della lettura, con risultati assolutamente soddisfacenti.
Figura 10.5 Software “Fondiamo le letterine”.

La terza direzione presa nel lavoro con il bambino si rifà ai modelli di


parent training , con il coinvolgimento attivo della mamma di
Ferdinando. Dopo aver appurato che le strategie programmate funzionavano
in studio, ho cercato un’alleanza attiva con lei, in modo da estendere il
lavoro anche a casa e massimizzare i risultati che già in studio si
cominciavano ad apprezzare. La mamma di Ferdinando è stata mia
complice in questo percorso e mi sembra di poter dire, guardandomi
indietro, che gran parte del lavoro l’ha fatto proprio lei, seguendo con
attenzione la strada che avevo pensato e progettato, chiedendomi aiuto
quando necessario e condividendo con me gioie e successi. Primo punto che
abbiamo affrontato insieme ha riguardato la necessità di lavorare spesso ma
per poco tempo. Per esperienza so che è facile che i genitori si facciano
prendere da entusiasmi iniziali, ma che non sappiano poi né calibrare nel
modo giusto il loro investimento, né renderlo duraturo. Finiscono così per
fare in poco tempo quello che invece dovrebbe essere diluito e generando
presto e facilmente reazioni negative da parte dei loro bimbi. La mamma di
Ferdinando è invece riuscita a essere sistematica nel suo lavoro, lavorando
al massimo venti minuti al giorno, tutti i giorni, per un periodo piuttosto
lungo (almeno per un anno), fino a che il bambino non ha cominciato a
scrivere e a leggere da solo, anche se più lentamente dei suoi compagni e
con qualche errore. Ha poi proseguito su altri obiettivi specifici che
abbiamo programmato insieme.
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Le schede di osservazione sistematica che io uso in studio (vedi sopra,


figg. 10.2 e 10.3) le passo alla madre, in modo che lei le possa utilizzare a
casa e mi possa portare i risultati del lavoro svolto con Ferdinando alla
seduta successiva. Ho conservato in studio un plico di schede di
osservazione sistematica sulla lettura e di scritti fatti con il SuperQuaderno
da Ferdinando e mi sembra interessante far notare che alle volte compaiono
delle “bizzarrie”. Un esempio è la scelta di un carattere di scrittura
particolarmente difficile, scelta tecnicamente sbagliata ma molto
significativa della complessità del bambino che, pur avendo difficoltà
specifiche e particolarmente consistenti di apprendimento, è in grado di
costruirsi un percorso più creativo, più bello a vedersi, più suo e in ultima
analisi più motivante rispetto a un percorso standard pensato da un adulto al
suo posto (fig. 10.6).
Figura 10.6 Parole scelte da Ferdinando e scritte con SuperQuaderno.

Nella figura 10.7 troviamo un bellissimo esempio di quando l’approccio


costruttivista prende il posto dell’istruzionismo classico e tipico del parent
training : a un certo momento sono la mamma e Ferdinando che,
autonomamente, di loro iniziativa, come sotto l’effetto di un insight,
passano dalle lettere e dalle sillabe alle parole, utilizzando a casa, per questi
nuovi esercizi, strategie analoghe a quelle imparate per le lettere, ma qui
usate in un contesto diverso di crescita e di ulteriore progresso.

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Figura 10.7 Osservazione sistematica di sillabe e parole a casa.

Poi insisto molto con la mamma sull’importanza dei rinforzatori


soprattutto in fase iniziale, quando la motivazione di Ferdinando necessita
di essere fortemente sostenuta dall’esterno, ma anche negli inevitabili
momenti di stanchezza, quando diversi obiettivi sono stati raggiunti ma è
importante continuare puntando, per esempio, sull’automatizzazione del
processo di lettura. Ricordo durante l’estate tra la quinta e la prima media
un calo di motivazione da parte di Ferdinando: ne abbiamo parlato insieme
anche alla mamma e al babbo e abbiamo trovato un accordo e pensato di
aiutare il bambino riconoscendogli, a fronte di un impegno quotidiano, la
conquista di un premio che Ferdinando avrebbe gradito. Così ogni giorno di
lavoro il bambino guadagnava la tessera di un puzzle con raffigurato un
pezzettino del cellulare che desiderava avere, e solo quando il puzzle
sarebbe stato completato avrebbe ricevuto il premio da parte dei suoi
genitori. Ma accanto ai rinforzatori simbolici e tangibili, Ferdinando è
stato gratificato tantissimo anche dalle lodi della madre, del padre e persino
delle sorelle in casa. I progressi Ferdinando li ha poi portati anche a scuola,
dove tutte le maestre hanno riconosciuto al bimbo gli enormi passi in avanti
e mostrato grande soddisfazione durante i nostri incontri.

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Il lavoro insieme a Ferdinando e alle sue maestre

Dunque, dopo aver conosciuto Ferdinando e averlo inquadrato, mi sono


preoccupata di andare a scuola per prendere contatto con le sue maestre.
Quando le conosco capisco subito come mai Ferdinando vada così
volentieri a scuola e perché, per fortuna, vi si trovi a suo agio. Questa
constatazione ovviamente mi fa tirare un sospiro di sollievo. Di maestre
nella mia esperienza ne ho incontrate di tanti tipi, ma di fronte a un alunno
che in terza elementare sa solo le vocali e procede esclusivamente copiando
parole per lui senza significato, molte si sarebbero allarmate, avrebbero
mostrato difficoltà, chiesto aiuti di qualunque tipo.
In questo caso mi trovo di fronte a delle insegnanti che esordiscono
facendomi un quadro del bambino assolutamente positivo, partendo da tutte
le sue doti e dai suoi punti di forza, e se devo pensare all’emozione che ho
provato durante quel primo colloquio potrei dire che mi sono sentita
meravigliata, stupita e forse anche un po’ spiazzata. Ho pensato a lungo a
quel colloquio e lo ricordo con immagini e sensazioni molto vivide. Mi
capita ancora oggi di incontrare le maestre di Ferdinando – magari
casualmente o a volte quando vado nella stessa scuola per qualche altro
bimbo – e loro, tutte le volte, immancabilmente, si ricordano della storia di
Ferdinando, ma anche del mio stupore il giorno del nostro primo incontro.
Ricordano in particolare che dissi loro che erano le maestre più brave al
mondo a compensare e dispensare!
Poi ho cercato di dare forma alle emozioni che avevo provato quel
giorno, e che erano tra di loro anche un po’ contrastanti, e ho capito che mi
ero sentita così anche perché era troppo presto per procedere
esclusivamente compensando e dispensando il bambino: Ferdinando aveva
anche bisogno di apprendere a leggere e a scrivere, e le maestre in tutto
questo potevano e anzi dovevano darci una mano. Per questo motivo
quell’incontro non fu l’unico, altri ne seguirono in tutte le fasi del mio
lavoro con il bambino.
Ricordo ad esempio che, superata la prima fase di apprendimento delle
lettere e delle sillabe, chiesi alle maestre di procedere con il bambino
facendo dei piccoli dettati di sole parole e poi di semplici testi, che
ovviamente andavano pensati su misura su di lui, ma che potevano essere
facilmente agganciati ai contenuti di classe (fig. 10.8). Ricordo che in
diverse occasioni le maestre trovavano il modo per gratificare Ferdinando,
per esempio mandandolo alla lavagna a scrivere semplici parole collegate
agli argomenti che stavano spiegando in classe, o facendolo leggere dei
brani di testo, magari con l’accortezza di preannunciarglielo prima in modo
che per Ferdinando non fosse una lettura a prima vista e fossero sotto
controllo gli aspetti ansiosi.

Figura 10.8 Piccolo dettato con SuperQuaderno dopo circa tre mesi di lavoro
Poi ci fu il momento in cui per Ferdinando si rivelò utile usare il
SuperQuaderno a scuola e insieme alle maestre riuscimmo a coinvolgere
tutti i compagni di classe e a incuriosirli sull’uso del computer. Con la
modalità tipica del brainstorming e del circle time, ogni compagno di classe
ha avuto modo di esprimere le proprie idee sul computer: se lo
possedevano, per che cosa lo usavano, se lo consideravano uno strumento
interessante, se secondo loro era più divertente scrivere con la penna o con
il computer. Ferdinando ascoltava i suoi compagni con curiosità e interesse,
e più andava avanti la discussione più lui sembrava contento di vedere che
quello che per lui stava diventando un “amico”, un alleato del suo
apprendimento, era un oggetto che veniva apprezzato anche dai suoi
compagni.

I RISULTATI OTTENUTI DURANTE LA FREQUENZA


DELLA SCUOLA PRIMARIA

L’impegno di Ferdinando e di tutti noi insieme ha permesso al bambino nel


giro di un tempo ragionevole di ottenere dei gran buoni risultati.
Praticamente a primavera della classe terza leggeva soltanto alcune lettere e
scriveva poche parole, che riconosceva in modo globale, ma già a fine
estate di quello stesso anno scolastico era in grado di leggere e scrivere
piccole frasi.
Alla fine della quarta elementare somministro le prove di lettura di brano
MT (che non avevo mai somministrato in entrata essendo il livello di
partenza del bambino troppo distante dal livello previsto per la classe):
risulta sufficiente la correttezza, mentre è assolutamente e
comprensibilmente deficitario il parametro della velocità. La scrittura,
sempre curata e ben leggibile, dall’essere un puro gesto grafico privo di
significato diventa finalmente dotata di scopi comunicativi: Ferdinando
comincia a scrivere per trasmettere i suoi pensieri e, sebbene permangano
errori ortografici prevalentemente di tipo non fonologico e la strutturazione
della frase sia alcune volte caotica, i progressi risultano evidenti (fig. 10.9).
Figura 10.9 Produzione autonoma a meno di un anno di distanza.

Il lavoro sulla letto-scrittura è proseguito anche per tutta la classe quinta e


in estate, dunque a fine ciclo della scuola elementare, sarà fatta una nuova
valutazione.
Per quanto riguarda la lettura Ferdinando ha fatto altri passi avanti: il
lavoro con Reading Trainer lo ha aiutato a migliorare nella componente
della velocità di lettura fino a consentirgli di passare dalla fascia “Richiesta
di intervento immediato” a quella di “Richiesta di attenzione”, molto vicina
alla fascia di “Prestazione sufficiente”, con una velocità direi piuttosto
compatibile con le attività di studio che vengono proposte alla scuola
secondaria di primo grado. Anche la scrittura è migliorata, tanto da
rientrare, per quanto riguarda gli aspetti ortografici, entro i limiti della
normalità.
Ma credo che l’aspetto più rilevante di tutto questo lavoro non stia nel
maggior numero di sillabe al secondo che il bambino è riuscito a scrivere o
nella riduzione degli errori ortografici, quanto nel significato emotivo e
quindi più profondo che tutto questo lavoro ha avuto per lui.
Ferdinando prima era un bambino che si opponeva direi dolorosamente
alle attività di lettura e scrittura, proprio come chi non si sente all’altezza e
anzi pensa che non potrà mai riuscire e incolpa se stesso di questa
incapacità: “sono un deficiente” la dice lunga su quanto il bambino
attribuisse a se stesso questo insuccesso e su quanto pensasse che questa
cosa fosse immodificabile e stabile.
Ferdinando è però riuscito ad attuare una svolta direi “cognitiva”
contemporaneamente all’acquisizione delle sue abilità: durante i colloqui
era sempre più positivo e fiducioso ed era capace di comprendere che certo
era faticoso lavorare, ma che era migliorato tanto e questo grazie
all’allenamento. Spesso usavamo insieme la metafora del surf: anche per
“surfare” devi essere disposto a faticare parecchio, devi remare fino a
raggiungere le onde, e se c’è corrente queste ti si infrangono addosso e ti
rendono difficoltosa l’avanzata; poi devi imparare ad alzarti sul surf e
accettare l’idea che devi provare tanto prima di riuscire, e poi quando
finalmente riuscirai a prendere un’onda e proverai una sensazione
bellissima ti accorgerai che dura pochissimo e devi continuare a faticare per
sperimentarla ancora.
Ferdinando questa metafora la capiva benissimo perché il surf era la sua
passione e sapeva anche benissimo che i suoi sforzi sarebbero stati ripagati;
ora lui non era più il bambino che si tirava indietro e rifiutava la lettura.
Finalmente era felice di poter leggere e anzi il suo disegno (fig. 10.10) dove
è raffigurato un bambino in mezzo a libri di ogni tipo sovrastato dalla
scritta, quasi come uno slogan, NON DIMENTICATEVI MAI DI
LEGGERE, sembra essere un manifesto delle sue emozioni più profonde da
comunicare a tutti, grandi e piccini.

Figura 10.10 Il significativo disegno di Ferdinando sulla lettura.


Il lavoro insieme a Ferdinando e alla sua mamma: scambio di
emozioni e condivisione di significati

Accanto a un’enorme quantità di schede di osservazione sistematica e agli


scritti fatti da Ferdinando, con e senza il SuperQuaderno, ho conservato
nella cartella del bambino diversi scambi di e-mail con la sua mamma
risalenti a tutte le fasi del nostro lavoro insieme.
A distanza di tempo riprendo in mano questo scambio di comunicazioni,
e cerco di riordinarle per poter meglio raccontare una parte importante di
questa storia insieme. Diverse e-mail le avevo proprio dimenticate e le
rileggo ora con piacere. Posso dire però che anche se non ricordo
esattamente alcuni contenuti, mi rimane chiaramente impresso
l’atteggiamento di forte cooperazione che ha connotato tutto il nostro lavoro
insieme basato su una strategia di parent training .

pag. 562

Ritrovo, tra le prime e-mail, alcune considerazioni della mamma di


Ferdinando dopo i nostri primi colloqui: emerge la necessità della madre di
condividere con me un risultato positivo che la faceva riflettere, visto che il
bambino si era opposto fino ad allora a qualsiasi terapia. Poi molti scambi
di informazioni tutti relativi al lavoro che mamma e bambino svolgevano
insieme, e ritrovo anche qui che l’aspetto di maggiore condivisione non è
tanto quello tecnico, che pure è presente, quanto l’attenzione della madre
verso la parte emotiva del bambino: come stava vivendo il lavoro, i segnali
che mandava, le gratificazioni che il sistema familiare riusciva a mandare in
circolo elogiando tutti i progressi del bambino. La condivisione, poi, andava
ben oltre il lavoro specifico che madre e figlio svolgevano a casa,
estendendosi a tante altre situazioni di vita di Ferdinando: un risultato
positivo alla recita di fine anno, le prime richieste di autonomia, alcune
ansie notate in Ferdinando per gli aspetti competitivi presenti nelle attività
sportive. Alcune di queste e-mail venivano poi ridiscusse in colloqui più
strutturati con i genitori, altre in colloqui con Ferdinando, e mi sono servite
per aiutarlo a rielaborare alcune sue emozioni e a gestirle meglio.
FERDINANDO DIVENTA UN RAGAZZINO E LA
STORIA CONTINUA…

Oggi Ferdinando è un ragazzino che sta per finire la scuola secondaria di


primo grado. Ho continuato a vederlo fino all’ingresso alla scuola media e
per i primi mesi della sua frequenza per monitorare l’evoluzione di questo
difficile passaggio.
Ricordo molta preoccupazione sia da parte dei genitori che del bambino
stesso: le scuole medie, con quell’orario complesso anche solo da scrivere,
con tutti quei libri pesanti anche solo da portare (per non pensare che
sarebbero stati anche da studiare!), e tutti quei professori i cui nomi
sarebbero stati davvero difficili da ricordare…
In fondo la scuola elementare era stata per il bambino un ambiente
assolutamente positivo, valorizzante e protettivo, e proprio per questo
cominciava ad affacciarsi il comprensibile timore per una cosa nuova che
avrebbe anche potuto minare alcuni traguardi che il bambino aveva
raggiunto con tanto sforzo. Noi di Ferdinando conoscevamo perfettamente
il suo percorso e ci scorreva davanti proprio come fosse un film: da dove
era partito con le sue grandi difficoltà, l’impegno e il lavoro sia sul campo
che dietro le quinte, e finalmente dove era riuscito ad arrivare.
C’era il rischio che i nuovi professori che avrebbero accolto Ferdinando
alle scuole medie avessero solo la fotografia del momento, ignorando la sua
storia e il suo apprezzabile percorso.
L’ultimo obiettivo del mio lavoro per il bambino è stato pertanto quello
di rendere partecipi i nuovi professori di questo film, di condividere con
loro la storia del bambino e la nostra storia con lui (la mia, quella della
famiglia e quella delle maestre, alleati per un obiettivo comune) in modo
che potessero prendere in mano il testimone dandogli il giusto valore e
significato e continuare in quella direzione ancora per un nuovo pezzo di
strada.
A settembre, all’inizio alla scuola secondaria, appena gli insegnanti
erano entrati in servizio mi sono recata a scuola e ho parlato con tutti i
nuovi professori di Ferdinando. Ho impostato con loro una chiacchierata
poco tecnica e un po’ informale, ma che consentisse di appassionarsi e
incuriosirsi a questa storia; d’altra parte per le cose più tecniche ci sarebbe
stato tempo anche dopo. Volevo che sapessero chi si sarebbero trovati
davanti: certamente un bambino con alcune difficoltà, spaventato,
intimorito e in ansia; ma pieno di mille risorse. Ricordo tanti nuovi visi che
ascoltavano le mie parole, all’inizio forse ancora troppo incentrati sulla
diagnosi e le questioni più tecniche e burocratiche, poi sempre più vicini
emotivamente a comprendere che il loro obiettivo nei primi mesi doveva
essere semplicemente quello dell’accoglienza e della tranquillizzazione:
Ferdinando doveva sentirsi sereno di essere a scuola al di là delle difficoltà
linguistiche e di apprendimento che poteva mostrare.
I frutti di questo primo intervento si sono potuti vedere molto presto:
qualche giorno dopo, prima ancora dell’inizio delle lezioni, venne
organizzato a scuola un incontro con i nuovi genitori e i bambini di
ciascuna classe. L’insegnante di italiano, che era anche la coordinatrice
della classe di Ferdinando, prima di spiegare alcuni punti importanti
riguardanti orario, attività e libri, ha esordito in modo amichevole dicendo
che lei era “l’insegnante a righe” (utilizzando proprio lo stesso linguaggio
di Ferdinando) e ha speso molte parole per tranquillizzare genitori e
bambini sul nuovo percorso che stava per cominciare. Ovviamente questo
gesto, comprensibile solo per Ferdinando e la sua mamma, ha significato
molto, e per loro è stato come sentirsi nuovamente a casa.
Tutto sommato posso dire che le cose sono partite bene e sono
proseguite altrettanto bene, per fortuna. In mezzo ci sono stati anche alcuni
momenti di normale impasse: per esempio, le verifiche strutturate in modo
troppo difficile per Ferdinando, le incertezze sull’uso degli strumenti
compensativi e dispensativi, gli inevitabili momenti d’ansia sia di
Ferdinando che della sua famiglia. Ho però gestito piuttosto facilmente
questi episodi ricontattando gli insegnanti e trovando sempre un clima
sinceramente collaborativo.
Ma a parte questi piccoli e prevedibili ostacoli, la storia di Ferdinando è
proseguita seguendo il suo normale percorso e senza necessità di ulteriori
interventi da parte mia.
Ferdinando ora è un ragazzo alto e snello; va bene a scuola grazie
all’aiuto di qualche strumento compensativo e alla madre che gli dà sempre
una mano ogni volta che è necessario, anche se decisamente meno di prima;
continua a fare sport come da piccolo, con passione e piacere, ma
liberamente, senza partecipare a gare o competizioni che non sono mai state
nelle sue corde.
Ricevo sue notizie generalmente per le festività e gli auguri, e
inevitabilmente mi fanno molto piacere. Ogni tanto, mentre passeggio in
riva al mare, getto lo sguardo verso l’orizzonte e lo vedo sul suo surf
cavalcare meravigliosamente le onde. Mi emoziona pensare che lui ora è in
grado di affrontare da solo anche altri tipi di onde, quelle nella sua vita che
prima gli facevano molta paura, e più intimamente sono felice di avergli
potuto essere utile quando ancora ne aveva bisogno.
Parte quarta

Disturbi del comportamento

Disturbo da deficit di attenzione/iperattività: v. capitolo 11


DSM-5: Disturbi del neurosviluppo – Disturbo da deficit di attenzione/
iperattività: Manifestazione combinata (F90.2) – Manifestazione con
disattenzione predominante (F90.0) – Manifestazione con iperattività/
impulsività predominanti (F90.1) – Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività con altra specificazione (F90.8) – Disturbo da deficit
di attenzione/iperattività senza specificazione (F90.9)
ICD-10: Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio
abituale nell’infanzia e nell’adolescenza – Sindromi ipercinetiche (F90)

Disturbo della condotta: v. capitolo 12


DSM-5: Disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi
e della condotta – Disturbo della condotta: Tipo con esordio nell’infanzia
(F91.1), Tipo con esordio nell’adolescenza (F91.2), Esordio non specificato
(F91.9)
ICD-10: Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio
abituale nell’infanzia e nell’adolescenza – Disturbi della condotta (F91)

Disturbo oppositivo provocatorio: v. capitolo 12


DSM-5: Disturbi da comportamento dirompente, del controllo gli impulsi e
della condotta – Disturbo oppositivo provocatorio (F91.3)
ICD-10: Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio
abituale nell’infanzia e nell’adolescenza – Disturbo oppositivo provocatorio
(F91.3)
Disturbo dell’adattamento Con alterazione della condotta (F43.25): v.
capitolo 12
DSM-5: Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti – Disturbo
dell’adattamento Con alterazioni della condotta (F43.24)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Reazioni a
gravi stress e sindromi da disadattamento – Sindromi da disadattamento con
disturbo misto delle emozioni della condotta (F43.24)

Disturbi della regolazione: v. capitolo 11, nota 6 Denominazione non


compresa né nel DSM-5 né nell’ICD-10
Capitolo 11

Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività
Fabio Celi

LA STORIA DI LORENZO
Di solito, la raccolta delle informazioni durante il primo colloquio con i
genitori è preceduta da una breve fase costituita da alcune “mosse di
apertura”, che consistono essenzialmente nel cercare di mettere i genitori a
proprio agio, lasciandoli parlare di quello che preferiscono in modo da
iniziare poi il colloquio vero e proprio nella situazione migliore. Le
cosiddette “mosse di apertura” possono durare qualche minuto, durante il
quale lo psicologo può domandare ai genitori, per esempio, se hanno avuto
difficoltà a trovare lo studio, oppure come è nata l’idea di chiedere questa
consulenza. Il discorso si sposta così, gradualmente, verso i bisogni del
figlio e il colloquio vero può prendere il via, con l’ascolto del problema, la
raccolta dell’anamnesi e tutte le sue fasi successive.

pag. 49

Nel caso di Lorenzo, le “mosse di apertura” durarono sei mesi.


Sono stato a lungo incerto se presentare il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (o Disturbo dell’attività e dell’attenzione, come
riportato nell’ICD-10) attraverso questo bambino. La mia incertezza
derivava dall’anomalia complessiva di questa situazione, evidente già dalla
durata abnorme delle prime manovre di approccio da parte della madre. Il
caso di Lorenzo è, in effetti, un caso particolare da molti punti di vista. Per
questo ho più volte pensato che non fosse adatto a svolgere la funzione
didattica di illustrare il disturbo. Certamente non sembra, almeno a prima
vista, un caso paradigmatico, ma piuttosto un’eccezione, un po’ come i
verbi irregolari che, infatti, non vengono mai usati in una grammatica come
esempi per insegnare una coniugazione. Come se non bastasse, scegliere
Lorenzo rischia di espormi ad alcune critiche, nel senso che qualcuno,
leggendo la sua storia, i suoi sintomi e la descrizione di molti suoi
comportamenti, arriverà forse anche a mettere in dubbio la diagnosi. Eppure
alla fine mi sono deciso per due motivi. Il primo è che non so quanto sia
giusto, in un campo necessariamente così incerto come la psicopatologia,
dove è molto raro trovare situazioni chiare e nette come certezze
aritmetiche del tipo 2 + 2 = 4, presentare sempre casi paradigmatici, dando
così la falsa impressione che i bambini siano facilmente classificabili in
base a una lista standard di sintomi ai quali corrisponda univocamente un
disturbo. Il secondo motivo è che ho cercato, nella memoria e tra le mie
cartelle, un altro caso di Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (o
ADHD, per usare l’acronimo inglese di questo disturbo, o DDAI per
l’analogo acronimo italiano riportato nella versione italiana del DSM-5) e
ne ho trovati solo di due tipi. O casi banalissimi, questi sì paradigmatici al
punto da sembrare finti: bambini irrequieti, disattenti, impulsivi, che vanno
male a scuola pur essendo intelligenti perché non si applicano mai in un
compito per un tempo sufficiente. Oppure casi tutto sommato, per un
motivo o per l’altro, non tanto diversi da Lorenzo, o per lo meno complicati
quasi quanto il suo.
E allora?
Allora tanto vale rischiare con un bambino la cui madre ha impiegato sei
mesi per passare dalla prima telefonata al primo colloquio e poi oltre un
anno per portarmi in studio per la prima volta il figlio. Credo che con la
scelta di questo caso potrà restare qualche dubbio circa la diagnosi, ma si
produrrà il vantaggio di avere una visione meno schematica e tutto
sommato più vera di certe patologie che rischiano, altrimenti, di essere
troppo banalizzate quando si nasconde la loro complessità.
In realtà, la prima volta che sentii parlare di Lorenzo fu dalle maestre
della scuola dell’infanzia che frequentava. Mi telefonarono e poi mi fecero
contattare dalla Dirigente scolastica per dirmi che avevano in classe un
bambino molto difficile, continuamente agitato, spesso aggressivo con i
compagni, disinteressato a qualsiasi attività proposta, incapace persino di
stare qualche minuto ad ascoltare una favola che la maestra leggeva, a volte
imprevedibile e bizzarro, altre volte francamente pericoloso. Dissi alle
maestre e alla Dirigente scolastica che avevo bisogno di parlare prima con i
genitori perché non potevo intervenire senza avere il loro assenso. Mi
risposero che sarebbe stato molto difficile, che avevano già parlato più volte
sia con la madre sia con il padre invitandoli a portare Lorenzo da uno
specialista, ma che entrambi avevano sempre rifiutato, sostanzialmente
negando i problemi del figlio. Spiegai allora che potevano fare un tentativo
diverso. Anziché invitare i genitori a portare il figlio da uno specialista,
potevano dire che erano le maestre stesse che sentivano la necessità di
essere aiutate per le difficoltà del loro allievo (cosa assolutamente vera), che
per questo motivo mi avevano contattato e che io, prima di poter fare
qualsiasi cosa, anche soltanto dare loro un consiglio, avevo bisogno di
parlare con i genitori del bambino.
Fecero così ed è a questo punto che ricevetti la prima telefonata della
madre, la quale mi disse, appunto, che le maestre erano in difficoltà e
l’avevano invitata a mettersi in contatto con me, ma lei non ne capiva il
motivo. Lorenzo era a volte un po’ agitato, ma in fondo non aveva ancora
cinque anni: chiedere aiuto a un psicologo per così poco le sembrava
davvero un’esagerazione. Risposi alla madre che capivo il suo punto di
vista e che, in ogni modo, lei non era certo obbligata a venire da me, come
all’inizio della telefonata sembrava temere. Aggiunsi, però, che se le
maestre sentivano il bisogno di essere aiutate, forse valeva la pena di
prendere in considerazione questa loro necessità. La madre, per quello che
fu possibile capire per telefono, sembrò rassicurata e mi disse che ci
avrebbe pensato sopra, ne avrebbe parlato con il marito e poi avrebbe preso
un appuntamento.
Fu di parola anche se, come dicevo, passarono alcuni mesi prima di
questa decisione.
Al primo colloquio arrivarono insieme padre e madre, e la madre esordì
ricordandomi i nostri accordi. Loro erano venuti per una necessità delle
insegnanti e non per farmi vedere il figlio. Finalmente, dopo queste
lunghissime manovre di apertura, mi fu possibile cominciare a raccogliere
la storia del bambino.
“Fino a tre anni è stato benissimo”, sembra mettere le mani avanti la
mamma, anche se immediatamente dopo aggiunge: “Però non dormiva mai.
Già a quell’epoca il pediatra diceva che era un bambino iperattivo”.
Un inizio di storia molto significativo. Da una parte, la sostanziale
negazione del problema, o per lo meno di un problema vero, sganciato dalla
scuola e da quello che dicono le maestre. (Significativo, da questo punto di
vista, anche quello che la madre mi dirà tra un momento: “I guai sono
iniziati con la scuola dell’infanzia”.) Dall’altra parte, l’ammissione palese
che, invece, alcune difficoltà ci sono sempre state, perché un bambino che
dai primi giorni di vita e fino a tre anni non dorme è un bambino che,
quanto meno, ha dato delle preoccupazioni. Ma, come se non bastasse,
appena negato il problema, quasi contemporaneamente la mamma mi
fornisce la diagnosi, e la fonte non è una fonte qualsiasi, ma quella del
medico di famiglia: “Già a quell’epoca il pediatra diceva che era un
bambino iperattivo”. Questa ambiguità continuerà a lungo: il suo
superamento e l’acquisizione della consapevolezza che Lorenzo ha un
disturbo psicologico del quale conviene occuparsi costituiranno una parte
importante dell’intervento terapeutico.
Dunque i guai sono iniziati con la scuola dell’infanzia e la colpa di tutto
è che il bambino è sempre stato con i nonni paterni, praticamente allevato
da loro. I genitori, lavorando entrambi, furono costretti ad affidare il figlio
ai nonni, sicuramente troppo deboli con il nipote. Questo è apparso chiaro
quando, intorno ai tre anni, tentarono l’inserimento alla scuola dell’infanzia.
Lorenzo piangeva e diceva che voleva stare con i nonni, che gliele danno
sempre tutte vinte. Ora ci va ma è stata durissima, è vivacissimo,
aggressivo, quando non gli riesce una cosa picchia e qualche volta si
picchia, spacca tutto, vuol sempre fare a modo suo.
Una delle sue frasi preferite è: “Io posso fare quello che voglio…”.
Anche a casa non sta mai fermo, non sa giocare in modo tranquillo con
niente. È un problema, tutte le sere, metterlo a letto. La madre, che rincasa
la sera tardi stanca dal lavoro, è depressa ed è in cura da anni per questo.
Arriva a confidarmi con un evidente senso di colpa che a volte, quando non
ce la fa più, lo picchia. Vuole la camomilla nel biberon, altrimenti è
impossibile convincerlo a cercare di addormentarsi. Mangia sempre quello
che vuole lui, e sempre le stesse cose. Quando si tenta di lasciarlo solo nella
sua cameretta per vedere se riesce a organizzarsi qualche gioco, in cinque
minuti la butta all’aria. Poi, però, guai se trova un oggetto fuori posto che
non è stato lui a spostare!
È interessante notare che raccolgo tutte queste notizie quasi senza porre
domande.
Credo che sia ancora più interessante notare che le raccolgo dalla stessa
persona che qualche mese prima, per telefono, mi aveva detto che Lorenzo
non aveva nessun problema e che erano le maestre a farla così lunga per
niente; la stessa persona che aveva iniziato questo primo colloquio
ribadendo che, secondo lei, il bambino non aveva bisogno dello psicologo e
stava benissimo. Questo cambiamento si verifica quando le persone si
trovano a loro agio, quando sentono che dall’altra parte c’è qualcuno
interessato a ciò che loro hanno da raccontare e desideroso di provare a dare
una mano. Naturalmente io non riesco a comportarmi sempre in questo
modo! La mia vita professionale è piena di telefonate simili a quelle della
mamma di Lorenzo alle quali non ha fatto seguito nessun appuntamento. È
piena di primi colloqui rigidi e improduttivi ai quali non ha fatto seguito
nessun colloquio successivo. Il punto di vista che vorrei sottolineare,
servendomi di questa esperienza concreta e fortunata (ripeto: alla quale si
affiancano mille fallimenti che però non racconterò in questo libro), è un
punto di vista teorico. L’obiettivo del primo colloquio non può essere
quello, un po’ inquisitore, di avere un quadro preciso e dettagliato della
situazione del bambino; di fare un assessment rigoroso; di formulare una
diagnosi o almeno un’ipotesi diagnostica in accordo con quello che le
maestre hanno riferito; di dimostrare alla madre che abbiamo ragione noi e
che il bambino ha bisogno (eccome!) del nostro intervento. Molto più
modestamente, l’obiettivo del primo colloquio è quello di incoraggiare
l’espressione per quanto possibile sincera dei punti di vista e dei bisogni di
chi ha deciso di venire a parlare con noi. Vi piace una terminologia
comportamentale? Allora si può dire che bisogna rinforzare le
verbalizzazioni spontanee. Preferite un approccio meno direttivo, più
rogersiano1 e più “centrato sul cliente”? Allora si può dire che bisogna
cercare di creare una rapporto empatico, una relazione di aiuto . È
comunque importante aver chiaro il risultato, non le parole che usiamo per
descriverlo.

pag. 563
Alla fine, l’obiettivo ultimo e fondamentale del primo colloquio è far sì
che il paziente torni al secondo colloquio.
La mamma di Lorenzo era venuta per dirmi che il suo bambino stava
bene e non aveva bisogno di nulla e che se il problema era delle maestre,
erano le maestre che dovevano cercare di risolverlo. Invece, adesso mi sta
raccontando che anche quando lo accompagnano a scuola ha degli strani
comportamenti. Deve toccare con il piede tre volte un certo gradino, sempre
lo stesso, della scala esterna; deve essere la mamma, o il papà, o chi lo
accompagna ad aprire la porta che immette nell’atrio; ed è in quel preciso
momento che lui deve dare il bacio di commiato. È su questo punto che
interviene il padre per la prima volta, parlando di veri e propri rituali. Per
esempio, per la mensa è necessario portare una volta alla settimana dei
buoni che attestino il pagamento e questo compito è, di solito, del padre.
Bene, in quei giorni Lorenzo “pretende” che il padre entri in classe e
depositi i buoni direttamente dentro una cassettina che la maestra tiene su
uno scaffale della libreria. È impossibile convincerlo a fargli prendere i
buoni perché sia lui a portarli a scuola. Il padre ci ha provato, qualche volta,
ma Lorenzo dà in escandescenze. Comincia a scalciare come un mulo
oppure si butta per terra e si rotola cercando di proposito di sporcarsi. Così
il padre ha deciso di rinunciare e accondiscendere a queste “fissazioni”.
A questo punto mi sembra che i genitori abbiano imparato a parlare
liberamente e che dunque sia possibile cominciare a fare domande
specifiche.
L’anamnesi è sostanzialmente negativa. La mamma ha avuto una
gravidanza regolare, Lorenzo è nato da un parto eutocico2 a termine, non
c’è stata nessuna sofferenza, il punteggio di Apgar3 era 9,9 e in quinta
giornata madre e bambino sono stati dimessi. La cartella che i genitori mi
portano è negativa per ittero e per malformazioni. Lo sviluppo è stato
regolare, senza malattie degne di nota. Come abbiamo già visto, invece, il
sonno è stato sempre gravemente irregolare e ancora adesso è motivo di
problemi e di preoccupazioni. Anche l’alimentazione sembra un po’
anomala, ma è difficile dire quanto pesi in questo una certa arrendevolezza
educativa dei genitori e dei nonni. Lorenzo ha imparato a parlare intorno ai
tredici mesi e la deambulazione autonoma è avvenuta a diciotto mesi: “E si
è subito rotto un braccio”, aggiunge la mamma sconsolatamente.
Il bambino è figlio unico. Padre e madre sono impiegati presso aziende
diverse, ma con orari simili che, in pratica, li impegnano fino a sera dal
lunedì al venerdì. Per questo Lorenzo è stato praticamente allevato dai
nonni paterni. La madre mi ripete il particolare quando affronto il tema
della composizione famigliare, anche se mi aveva già spiegato la situazione
poco fa. Mi sembra di cogliere, questa seconda volta, un sentimento a metà
tra la colpa e la rabbia per questa decisione che probabilmente, se potesse
tornare indietro, non prenderebbe più. Per il resto, la situazione famigliare
mi viene descritta come abbastanza tranquilla e sostanzialmente serena. I
nervosismi e le tensioni ruotano per lo più intorno a Lorenzo, ai problemi
educativi che il bambino pone quotidianamente, ai conflitti che suscita tra
padre e madre, che spesso non sanno come prenderlo e come reagire (con le
buone? Con le cattive? Usando le punizioni, anche corporali?).
Anticipo qui alcune notizie che, in realtà, avrò parecchi mesi dopo
questo primo colloquio, ma che mi sembra utile fornire adesso per
completare il quadro. Il pediatra mi riferisce che, per quello che ha potuto
vedere lui in questi anni, dal punto di vista fisico sembra tutto negativo.
Con il tempo e con la pazienza convinceremo comunque i genitori a
sottoporre Lorenzo a un esame elettroencefalografico sia in stato di veglia
sia durante il sonno. I risultati non saranno chiarissimi. Il tracciato non
evidenzierà episodi critici né chiari segni di lesione focale, ma rileverà un
eccesso di attività rapida di significato clinico incerto. Sulla base di questo
referto, che neppure il pediatra sarà in grado di interpretare con sicurezza,
riusciremo anche a inviare Lorenzo a una consulenza da un neuropsichiatra
infantile, il quale non darà alcuna importanza agli esami
elettroencefalografici, sottoporrà il bambino a osservazione per qualche
seduta e poi farà una diagnosi di instabilità psicomotoria in soggetto con
personalità immatura sul piano affettivo e sviluppo cognitivo adeguato.
Aggiungerà che si nota nel bambino una fluttuazione tra condotte
egocentriche e regressive, mentre è preservato l’esame di realtà.
Tutto questo, comunque, come dicevo, sarebbe avvenuto molto tempo
dopo. Quel giorno conclusi il primo colloquio valutando le intenzioni dei
genitori. Prese di nuovo la parola la madre, che mi disse che avrei potuto
parlare con le insegnanti e, se lo avessi ritenuto necessario, anche vedere il
bambino, ma solo a scuola. Lei non aveva intenzione di portarmelo per due
motivi. Prima di tutto, perché in quest’ultimo periodo Lorenzo era
decisamente migliorato e non le sembrava il caso di sottoporlo a una
consulenza proprio adesso. In secondo luogo, perché lei aveva paura delle
possibili reazioni del figlio che si agitava e spesso vomitava anche solo per
una visita dal pediatra. Emerse qui, di nuovo, l’ambiguità che aveva
caratterizzato il primo colloquio fin dall’inizio, la stessa che aveva fatto dire
alla madre che fino ai tre anni il figlio era stato benissimo, però non
dormiva mai. D’altra parte il tema del miglioramento, forse come tentativo
estremo di non sottoporre il bambino a nessun controllo, caratterizzò tutta
l’ultima parte del colloquio, che si concluse con le parole che il pediatra
aveva detto alla madre qualche mese prima:
“È un bambino molto vivace e un po’ viziato. Lo mandi all’asilo senza
pietà”.
“E in effetti”, aggiunse la madre in netta contraddizione con quanto mi
aveva detto meno di un’ora prima, “andare alla scuola dell’infanzia gli ha
fatto molto bene”.
Fu così che vidi il bambino per la prima volta alla scuola dell’infanzia e
parlai con le insegnanti in modo più approfondito di quanto non avessi
potuto fare per telefono. I sintomi che mi vennero descritti furono,
principalmente, quelli di una grave forma di irrequietezza. Lorenzo non
riusciva mai a stare fermo, non sembrava interessato a nulla di quello che le
insegnanti gli proponevano. O meglio: se anche all’inizio si mostrava
interessato a un gioco o a un’attività, ben presto si stufava, chiedeva di fare
un’altra cosa, bastava un niente per spostare altrove la sua attenzione.
Questa irrequietezza era talmente marcata da sfociare, talvolta, in episodi di
vera e propria aggressività, per lo più verbale, ma qualche volta anche
fisica. Indimenticabile, per le insegnanti, la mattina in cui, durante una
recita, cominciò prima a gironzolare sul palco e poi scese disturbando i
genitori che erano venuti ad assistere. La Dirigente scolastica gli si avvicinò
in modo gentile cercando di riportarlo al suo posto o per lo meno di
convincerlo a stare fermo. Lui la guardò con espressione di forte curiosità
(che sembrava significare: “E questa chi è? Che cosa vuole da me?”) e poi
le disse:
“Oh cretina, ma chi ti ha cercato?!”.
Una delle maestre aggiunse di essere quasi certa che se non fosse
intervenuta lei prontamente a portarlo via di peso, avrebbe dato alla
Dirigente scolastica un calcio nel sedere, perché – lei che lo conosceva bene
poteva dirlo – aveva già preso la mira.
L’aggressività di Lorenzo, purtroppo, già grave in sé, era aggravata dal
fatto che, a volte, era autodiretta. Avveniva raramente, ma quando proprio
perdeva il controllo, quando qualcosa lo contrariava in modo forte oppure
quando arrivava a scuola già agitato da casa, non solo tentava di picchiare i
compagni, avventandoglisi contro o prendendoli a calci, ma, dopo essersi
rotolato per terra, poteva anche arrivare a battere la testa contro il
pavimento. Oltre a questo c’era, come abbiamo già visto nel colloquio con i
genitori, qualche rituale ossessivo e qualche momento in cui si isolava
completamente da tutto e da tutti e, per esempio in cortile, si metteva a
giocare da solo con la sabbia.
Tutte queste notizie sono quasi completamente il frutto dei miei colloqui
con le insegnanti, perché io non ebbi mai modo di vedere, a scuola, niente
di più che un bambino irrequieto, distratto, impulsivo e a volte assente,
come un po’ chiuso in sé stesso.
Fu necessario ancora moltissimo tempo prima che i genitori si
convincessero che valeva la pena di cercare di far aiutare il figlio in modo
più sistematico e decidessero di portarmelo. Il bambino, nel frattempo, era
andato in prima classe alla scuola primaria e, anche qui, le maestre avevano
notato tempi d’attenzione brevissimi (mediamente non superiori ai 5 minuti,
indipendentemente dal compito proposto); difficoltà a rispettare le regole,
anche nel gioco; pessima relazione con i compagni ai quali tendeva a fare
dispetti e con i quali si arrabbiava fino a diventare aggressivo per un
nonnulla; facile eccitabilità: all’improvviso, per qualcosa che gli andava
storto, era capace di lanciare un urlo o di rovesciare una sedia oppure di
mettersi a piangere, soprattutto se non riusciva a ottenere subito quello che
desiderava.
Il primo approccio con me fu drammatico. Lorenzo piangeva, era
terrorizzato all’idea di dover entrare nello studio e di doversi staccare dalla
madre. Cercai di rassicurarlo sul fatto che non era obbligato a venire da me,
se non voleva, e che in ogni modo sarebbe potuto entrare insieme alla
mamma. Impiegò un po’ di tempo, incerto sulla porta, a capire il significato
di quanto gli stavo dicendo, perché inizialmente non mi prestava ascolto,
ma sembrava tutto preso dalla sua angoscia. Quando capì, si fece coraggio
e, per mano alla mamma, provò a entrare. Tuttavia, superato il primo
problema, immediatamente saltò fuori un altro dramma. Guardò il lettino,
che tengo nello studio per fare esercizi di rilassamento con alcuni bambini,
poi guardò me con aria nuovamente terrorizzata, e mi disse:
“Sei un dottore?”.
Sembrava aver paura delle sue stesse parole, che ripeté più volte,
nuovamente angosciato:
“Sei un dottore?”.
“Dimmelo: sei un dottore?”.
Non mi era facile rassicurarlo, perché non volevo dirgli la bugia palese
che non ero un dottore e, d’altra parte, sarebbe stato impossibile spiegargli
la differenza tra psicologo e medico. Mi limitai a dirgli, con voce calma e
mantenendomi a distanza da lui, che ero un dottore ma che non gli avrei
fatto niente: però, se voleva, poteva lui fare qualche gioco oppure un
disegno. Ci vollero nuovamente parecchi minuti perché si convincesse a
entrare, sedersi (sempre rimanendo vicinissimo alla mamma, quasi
attaccato) e instaurare un inizio di relazione con me. Di tanto in tanto,
tuttavia, tornava a guardare il lettino con aria preoccupata, ripeteva
ossessivamente che io non ero un dottore e che lui non era obbligato a salire
sul lettino e, a volte, mi chiedeva di essere nuovamente rassicurato su
questo.
Al di là di questi evidenti sintomi d’ansia, Lorenzo mostrava una forma
grave di irrequietezza motoria e una facilissima distraibililità, non soltanto
in quella prima seduta, ma anche nelle successive, quando cominciò a
familiarizzare con l’ambiente, a collaborare e a entrare senza la madre.
Bastava un niente, un rumore dall’esterno, ma a volte anche un suo pensiero
interno (per es., il lettino che, di tanto in tanto, gli tornava in mente), per
distoglierlo da qualunque attività. A volte non era neppure necessario uno
stimolo specifico, ma il semplice passare del tempo era sufficiente a farlo
stufare di qualsiasi cosa. Allora si alzava, gironzolava per la stanza, tentava
di frugare nell’archivio o sugli scaffali, mi chiedeva di fare un gioco nuovo.
A volte alternava oppositività a mutacismo. Con pazienza, in sette o otto
sedute riuscii a completare l’osservazione, ma ogni singola seduta era
un’incognita. Poteva andar bene, e allora magari finivo un test o riuscivo a
farlo arrivare in fondo a un disegno. Poteva andare male e, allora, era
difficile anche solo parlare di cos’era successo a scuola o a casa.
A volte, all’oppositività si aggiungevano comportamenti bizzarri
particolarmente preoccupanti. Poteva capitare che il suo sguardo vagasse
non so bene dove. Oppure che emettesse qualche risolino incongruo,
apparentemente fuori contesto, come se seguisse chissà quale suo pensiero,
o che pronunciasse qualche verso, o qualche frase che sconfinava con la
fabulazione. Durante una seduta presi un libro di immagini con il quale
volevo fare alcuni esercizi e alcune prove. Me lo tolse di mano,
letteralmente me lo strappò di mano e provò ad annusarlo. Poi cominciò a
sfogliarlo senza fermarsi su nessuna pagina, in apparenza senza guardare
neppure una figura. Cercai a più riprese, senza successo, di riportarlo alla
prima pagina. All’improvviso, prese un timbro che avevo sulla scrivania e
cominciò a timbrare le pagine. Dovetti fermarlo e allora mi chiese, con
un’espressione preoccupatissima, come pentito:
“Sei arrabbiato?”.
“No, ma volevo farti vedere questo libro e chiederti se ti piacciono
queste figure…”.
Ma il “pentimento” durò pochissimo:
“E io ho detto di no!”.
Tentò di nuovo di prendere il timbro, io lo misi nel cassetto e lui allora
prese le chiavi e cominciò a cercare di aprire non solo il cassetto, ma anche
lo schedario e continuò per parecchi minuti a giocare con queste chiavi e a
usarle per non fare nessun’altra delle attività che gli proponevo.
Quando poi si calmava, oppure era in buona, il linguaggio appariva povero
ma non deficitario, la lettura di immagini era adeguata così come i test
intellettivi. I risultati, sul piano quantitativo, furono normali, con un QI
totale di poco inferiore a 100 e senza significative discrepanze tra i vari
subtest. I problemi risiedevano, però, nella discontinuità attentiva, che mi
costringeva spesso a interrompere le prove e a somministrarle solo nei
momenti buoni, e nella fortissima impulsività: Lorenzo tendeva spesso a
dare una risposta prima di averci pensato e addirittura, a volte, prima che io
avessi finito di formulare la domanda.
Nel disegno e nella scrittura si notavano gravi carenze di coordinamento
oculomanuale. A volte, inoltre, i disegni erano talmente tirati via da
apparire come destrutturati e non era raro trovare temi aggressivi, con
sangue, mostri, scheletri di dinosauri, esplosioni e terremoti.
Tutte le prove specifiche per il Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (Prova MF di ricerca fra figure simili, Prova CP di
ricerca di sequenze condizionali di lettere, Prova MFCPR di memoria di
figure categorizzabili parzialmente ripetute) risultarono positive oppure non
somministrabili a causa, appunto, dell’incapacità di prestare attenzione alla
prova per un tempo sufficiente. Anche le scale SDAG (per i genitori) e
SDAI (per gli insegnanti) risultarono positive sia per disattenzione sia per
iperattività, con risultati particolarmente gravi nella valutazione degli
insegnanti.4

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
Sicuramente Lorenzo presenta gravi carenze attentive. Nelle classificazioni
internazionali queste carenze sono definite da una serie di comportamenti:
non riuscire a prestare attenzione o commettere errori di distrazione in
compiti scolastici o in altre attività; non riuscire a mantenere l’attenzione
nei compiti o nelle attività di gioco; dare a volte l’impressione di non
ascoltare quando gli altri parlano; non seguire le istruzioni e non essere
capaci di portare a termine le attività; evitare impegni che richiedano uno
sforzo mentale protratto; perdere frequentemente gli oggetti necessari per i
compiti o per altre attività; essere facilmente distratti da stimoli estranei;
essere sbadati in molte attività quotidiane. Abbiamo visto che molti di
questi comportamenti caratterizzano Lorenzo.
Sicuramente il bambino presenta, inoltre, una forma grave di iperattività.
Anche l’iperattività può essere definita attraverso una serie di
comportamenti caratteristici come: muovere con irrequietezza mani e piedi
e dimenarsi sulla sedia; lasciare spesso il proprio posto a sedere; scorrazzare
e saltare ovunque in modo eccessivo; mostrare difficoltà nel giocare e nel
dedicarsi ad altre attività divertenti in modo tranquillo; dare spesso
l’impressione di essere sotto pressione, come mossi di continuo da un
motore che non possa essere spento; parlare troppo. Anche molti di questi
comportamenti sembrano fatti apposta per descrivere Lorenzo.
Sicuramente il bambino presenta, infine, una forte componente di
impulsività, che può essere definita come una tendenza ad agire prima di
pensare; a sparare le risposte prima ancora che le domande siano state
completate; a non riuscire a rispettare il proprio turno interrompendo gli
altri di continuo in modo invadente e non controllato. Sembra di nuovo la
fotografia di Lorenzo.
Disattenzione, iperattività e impulsività: tutto questo c’è di sicuro e se ci
fosse solo questo la diagnosi psicologica sarebbe facile e rapida. Potremmo
parlare di Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e il discorso si
chiuderebbe qui. Il DSM-5 prevede inoltre un’età di esordio inferiore ai
dodici anni la presenza dei sintomi sopra elencati in almeno due contesti di
vita (per es., casa e scuola) e una compromissione significativa del
funzionamento sociale, scolastico o lavorativo: tutti elementi presenti nel
nostro caso. Inoltre, il DSM-5 prevede diverse manifestazioni del disturbo,
a seconda che sia prevalente la disattenzione o l’iperattività, o che entrambe
siano presenti: in quest’ultimo caso si parla di Manifestazione combinata.
Nell’ICD-10 tale disturbo viene riportato nella categoria delle Sindromi
ipercinetiche e prende il nome di Disturbo dell’attività e dell’attenzione; i
criteri diagnostici utilizzati nelle due classificazioni sono in parte
sovrapponibili, anche se nell’ICD-10 non vengono differenziati i sottotipi
come nel DSM-5. Inoltre, mentre nel DSM-5 occorrono, per poter fare
diagnosi, la presenza o di 6 item di disattenzione o 6 di iperattività-
impulsività, i criteri diagnostici dell’ICD-10 richiedono almeno 6 item di
disattenzione, almeno 3 di iperattività e almeno 1 di impulsività. Nella
sezione delle Sindromi ipercinetiche compare inoltre il Disturbo
ipercinetico della condotta, che riguarda quei soggetti che soddisfano i
criteri sia della Sindrome ipercinetica sia del Disturbo della condotta.5
Tuttavia, la situazione di Lorenzo non è così semplice. Non è stato né
rapido né facile riuscire a incontrarlo, ma ancora meno è stato inquadrarlo
con certezza in una categoria diagnostica univoca e ben definita. Lorenzo
ha certamente i sintomi che ho appena elencato e che sono tipici del
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, ma ne ha anche altri. Ha gravi
comportamenti aggressivi. A volte – e questo aggiunge gravità alla gravità
– questi comportamenti aggressivi sono autodiretti, come quando, dopo
essersi rotolato per terra a causa di una forte frustrazione, comincia a battere
la testa contro il pavimento. L’anamnesi fa intravedere pregressi disturbi
della regolazione6 nei primi anni di vita che, attualmente, in forme alquanto
evidenti, persistono. Il tono dell’umore è fluttuante. L’ansia appare una
costante di molti momenti della vita e della giornata di Lorenzo e assume
spesso caratteristiche francamente patologiche, che possono sfociare in
forme generalizzate di panico e angoscia o manifestarsi con sintomi di tipo
ossessivo-compulsivo. Quando le frustrazioni sono più forti del solito o
difficili da gestire, oppure quando il tono dell’umore subisce oscillazioni
particolarmente violente o, forse più di ogni altra cosa, quando l’ansia
supera il livello di guardia, compaiono nel bambino bizzarrie effettivamente
preoccupanti. Mi riferisco a certi disegni che ho descritto nel primo
paragrafo, a certi comportamenti regressivi come l’annusare gli oggetti, a
certe verbalizzazioni fabulatorie che sembrano a tratti completamente
sganciate dalla realtà. In un certo senso, compare lo “spettro” protagonista
del capitolo 6.
Si può ugualmente parlare, in queste difficili condizioni, di Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività? Io, pur tra mille dubbi, penso di sì per
molti motivi. Primo, i sintomi caratteristici del disturbo ci sono tutti.
Secondo, nel Disturbo da deficit di attenzione/iperattività i principali
problemi di diagnosi differenziale si pongono di solito per la Disabilità
intellettiva, i Disturbi d’ansia, i Disturbi depressivi, bipolare e correlati e i
Disturbi dello spettro dell’autismo. Mi sembra che, in questo caso, i
Disturbi d’ansia siano senz’altro presenti (per quanto come comorbilità), la
Disabilità intellettiva e i Disturbi depressivi, bipolare e correlati possano
essere facilmente esclusi e una diagnosi di Disturbo dello spettro
dell’autismo non sia davvero adeguata: sebbene, infatti, siano presenti
alcuni sintomi saltuari, non si osserva nessun quadro completo e anche il
neuropsichiatra infantile ha chiaramente parlato di un esame di realtà che
appariva integro. Terzo, sia il pediatra sia il neuropsichiatra infantile
concordavano, anche se con sfumature diverse, su questo inquadramento
diagnostico. Quarto, come vedremo meglio più avanti, gli altri sintomi,
talvolta anche piuttosto gravi, di Lorenzo, possono trovarsi associati al
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività con una certa frequenza
(Munir, Biederman e Knee, 1987; Braswell e Bloomquist, 1991; Marzocchi
e De Meo, 1998; Masi, Millepiedi, Pezzica, Bertini e Berloffa, 2005 ; Brus,
Solanto e Goldberg, 2014). Brus, Solanto e Goldberg (2014) hanno
evidenziato come il Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattvità e il
Disturbo bipolare presentino un quadro sintomatologico facilmente
sovrapponibile. Knecht, de Alvaro, Martinez-Raga e Balanza-Martinez
(2014) hanno rilevato alti tassi di Disturbo da deficit
dell’attenzione/iperattività negli autori adolescenti di reati. Molti studi,
infine, hanno evidenziato importanti correlazioni tra il Disturbo da defcit di
attenzione/iperattività e il Disturbo dello spettro dell’autismo (Rommelse,
Franke, Geurts, Hartman e Buitelaar, 2010; Gargaroa, Rinehartb,
Bradshawa, Tongeb e Shepparda, 2011; Grzadzinski et al., 2011; Mayes,
Calhoun, Mayes e Molitoris, 2012).
Ci sono certamente bambini che hanno caratteristiche molto più
“scolasticamente” coerenti con una diagnosi di Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività senza particolari complicazioni dovute a comorbilità
o a complesse sovrapposizioni di sintomi. Proprio in questi giorni, mentre
stavo scrivendo questo capitolo, ho visto per la prima volta Stefano, un
bambino di sette anni inviato dalle maestre perché a scuola è troppo vivace,
dà noia, non sta mai fermo, non sta mai attento e crea un grave disagio
all’interno della classe. Così, pur essendo molto intelligente, è rimasto
indietro, ha imparato con difficoltà a leggere e a scrivere e ora gli insegnanti
non sanno più come prenderlo, perché ne combina di tutti i colori per
attirare l’attenzione. I genitori riconoscono con facilità che è così anche a
casa: impulsivo, imprevedibile, senza regole, magicamente capace di
trasformare in “sì” tutti gli iniziali “no” che papà e mamma tentano di
imporgli. Ha qualche amico, che sceglie tra quelli simili a lui e con i quali
gioca in cortile, ma sempre in modo aggressivo. La mamma aveva avuto
una gravidanza regolare, il parto era stato precipitoso, ma il bambino non ne
aveva risentito in alcun modo dal punto di vista fisico (e attualmente
Stefano, a ogni modo, è in ottima salute). Adesso, tra l’altro, la madre è di
nuovo incinta, si preoccupa di come potrà prenderla il figlio e mi chiede
aiuto anche per questo. Al primo approccio Stefano mi appare orientato ed
empatico. Entra subito nel mio studio da solo e si descrive come “cattivo”:
a scuola non sta fermo un momento, a casa ci vogliono mille storie per
fargli fare due compiti, in cortile si diverte a tirare la terra in faccia agli
amici. Mi dà subito l’impressione di un’intelligenza vivace ma poco
educata. Mi parla spontaneamente del fatto che la mamma è incinta e mi
dice che lui vuole assolutamente una sorellina, perché “due maschi in casa
sono troppi”. Mi fa disegni bellissimi e pieni di colori, anche se un po’ tirati
via, e le CPM7 sono di un anno superiori alla media, anche se, a volte, devo
stare attento a richiamare la sua attenzione sul compito e soprattutto a
evitare che dia la risposta troppo precipitosamente.
Gli chiedo:
“Devi prendere il treno?”.
Mi risponde di no sorridendomi.
“Allora non abbiamo nessuna fretta. Pensaci e non correre”.
Per ora ho visto Stefano solo due volte, ma sembra davvero che non ci
sia altro.
Invece in Lorenzo c’è sicuramente, quanto meno, una comorbilità. Credo
che la comorbilità sia con un Disturbo oppositivo provocatorio,8 con una
forma complessa di Disturbo d’ansia che probabilmente include anche il
Disturbo ossessivo-compulsivo,9 e mi rimangono mille dubbi a proposito
della struttura disarmonica che, se non approfondisco qui, è solo perché ne
abbiamo lungamente discusso nel capitolo 6.

RICERCHE
Si potrebbe obiettare: perché, se avevi tanti dubbi, non hai parlato piuttosto
di Stefano o di uno dei tanti bambini come lui?
Vi è un filone di ricerca, portato avanti di solito da neuropsichiatri
infantili, spesso di scuola francese e per lo più a orientamento
psicodinamico, che critica, anche in termini aspri, la categoria diagnostica
del Disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Si sostiene che il tentativo
di spiegare nei semplici termini di “deficit” un disturbo in realtà molto
complesso sia troppo riduttivo, perché queste problematiche
comportamentali sono molto spesso associate a “organizzazioni
disarmoniche della personalità” ed è pertanto frequente trovare in bambini
diagnosticati per un Disturbo da deficit di attenzione/iperattività quadri
“prepsicotici” caratterizzati da forte angoscia, bizzarrie, senso di estraneità,
aggressività forte e mal contenuta. In passato questi disturbi hanno avuto i
nomi più diversi e più fantasiosi, come “danno cerebrale minimo”,
“disarmonia evolutiva”, “sindrome borderline”, e la critica che viene fatta
alla categoria diagnostica chiamata oggi Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si spinge, a volte, fino al punto di sostenere che
questo inquadramento “rappresenta una grave regressione nella nostra
pratica della psichiatria infantile” (Marcelli, 1999, p. 393). Inoltre i modelli
neurobiologici e cognitivi che vengono prevalentemente utilizzati per
spiegare l’insorgenza dell’ADHD vengono messi in discussione da approcci
di tipo psicodinamico e relazionale che sottolineano come la possibile causa
di insorgenza del disturbo possa essere rintracciabile nella relazione
primaria tra il bambino e chi si prende cura di lui soprattutto durante il
primo anno di vita (Ladnier e Massanari, 2000; Sugarman, 2006).
A me non sembra davvero che le cose stiano in questo modo. Mi sembra,
al contrario, che i criteri diagnostici del Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività permettano oggi di descrivere bene un disturbo molto
diffuso in età evolutiva e che proprio l’accento messo sul deficit attentivo
piuttosto che sulla sola iperattività, come si tendeva a fare in passato, abbia
contribuito a sviluppare metodologie di intervento molto promettenti, come
vedremo nel corso del capitolo.
Tuttavia, l’osservazione clinica che questo disturbo è spesso complicato
da una serie di problemi emozionali e relazionali resta e spiega, per quello
che mi riguarda, la scelta del caso di Lorenzo. D’altra parte, anche la ricerca
non di ispirazione psicodinamica ha evidenziato come in questo disturbo
siano spesso presenti, oltre ai sintomi classici della difficoltà attentiva,
dell’iperattività e dell’impulsività, anche scarsa tolleranza alla frustrazione,
insicurezza, bassa autostima, ansia, fobie e comportamenti di evitamento,
immaturità emozionale e condotte regressive come l’isolamento e
l’iperdipendenza (Pelham e Millich, 1984; Taylor, Chadwick, Heptinstall e
Dankaerts, 1996; Van der Meere, 1998; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012;
Capodieci e Cornoldi, 2013).
Più specificamente, è stata messa in luce la frequente comorbilità del
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e altri Disturbi da
comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta,
che vedremo meglio nel prossimo capitolo (Diamantopoulou, Verhulst e
van der Ende, 2011; Von Polier, Vloet e Herpertz-Dahlmann, 2012; Burke,
Rowe e Boylan, 2014); Disturbi depressivi, bipolare e correlati; Disturbi
d’ansia; Disturbi dell’evacuazione; Disturbi correlati a sostanze, che
insorgono, per lo più, in adolescenza (Knecht, de Alvaro, Martinez-Raga e
Balanza-Martinez, 2014); Disturbo specifico dell’apprendimento e disturbi
della comunicazione: questi ultimi non soltanto come conseguenza del
deficit attentivo, ma anche perché in questi bambini è facile trovare, per
esempio, goffaggine motoria e, più in generale, segni neurologici minori,
con conseguenti difficoltà nella scrittura e nella lettura (Sandberg, 1996;
Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Genovesi, Grazioli e Palladino, 2010;
Trena e Zoccolotti, 2012; Dovigo e Re, 2013; Capodieci e Cornoldi, 2013;
Kulkarni, 2014). Masi, Millepiedi, Pezzica, Bertini e Berloffa (2005) notano
come studi su campioni clinici e su campioni epidemiologici siano concordi
nell’individuare che almeno il 70% dei soggetti con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività abbia un disturbo associato: del comportamento,
d’ansia, in particolare ossessivo-compulsivo, in questo caso spesso a sua
volta associato a tic e Disturbo di Tourette, dell’umore, in particolare
depressione e Disturbo bipolare (Brus, Solanto e Goldberg, 2014; Knecht,
De Alvaro, Martinez-Raga e Balanza-Martinez, 2014; Armstrong, Lycett,
Hiscock, Care e Sciberras, 2014).
Come spesso succede nella psicopatologia dello sviluppo, l’eziologia del
disturbo è molto incerta. Alcuni segni neurologici minori dei quali ho
appena parlato, presenti spesso in questi bambini, hanno fatto ipotizzare una
causa organica connessa a una sofferenza cerebrale, in particolare a carico
delle aree prefrontali, causata a volte da una sofferenza fetale, da una
asfissia perinatale o da sofferenze cerebrali postnatali come traumi o
convulsioni (Sieg, Gaffney, Preston e Hellings, 1995; Houk e Wise, 1995;
Casey, Castellanos, Giedd e Marsh, 1997; Episcopo e Parena, 2007; Ianes,
Marzocchi e Sanna, 2009). Questo è uno dei motivi per cui in passato ha
avuto tanta fortuna il termine di “danno cerebrale minimo” per la
descrizione del disturbo. In realtà, non è sempre possibile dimostrare un
danno cerebrale in questi bambini e Lorenzo, con i suoi
elettroencefalogrammi di incerta interpretazione, è emblematico da questo
punto di vista. Altri studi che si sono concentrati sulle cause genetiche alla
base del disturbo (Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012; Lotan et al., 2014) e
sullo sviluppo di alcune aree cerebrali (Castellanos e Baroni, 2014; Mous et
al., 2014). Zaccaria e Mammarella (2007) suggeriscono che il Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività sia spesso associato a difficoltà nell’ambito
della memoria di lavoro: l’ipotesi è sostenuta anche da una successiva meta-
analisi di Zaccaria (2008) e da uno studio di Noogle, Thompson e Davis
(2014) relativo al ruolo della memoria di lavoro nelle difficoltà di
comprensione del testo nei bambini con ADHD.
Esiste inoltre, ormai ben documentata dalla ricerca, una familiarità del
disturbo. È molto frequente trovare nei bambini con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività genitori (soprattutto il padre) con una storia di
disturbi simili o, più in generale, di Disturbi del comportamento. È quasi
altrettanto frequente trovare genitori (soprattutto la madre) con disturbi
dell’umore, in particolare Depressione maggiore (Rutter, 1995; Cazzullo,
Lenti, Musetti e Musetti, 1998). La mamma di Lorenzo è in cura da anni
proprio per una forma depressiva.
La prevalenza del disturbo è calcolata tra il 3 e il 5% della popolazione
generale, e le osservazioni cliniche tendono a indicare che il Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività sia una patologia in aumento, anche se non
è chiaro, come spesso avviene anche in disturbi analoghi, che cosa questo
significhi (Episcopo e Parena, 2007; Felt, Biermann, Christner, Kochhar e
Harrison, 2014; Panevska, Zafirova-Ivanovska, Vasileva, Isjanovska e
Kadri, 2014). Significa che ci sono oggi più bambini con Disturbo da deficit
di attenzione/iperattività che in passato, magari a causa
dell’iperstimolazione (per es., da TV o da videogiochi) o
dell’organizzazione sempre più frenetica della vita familiare, sociale e
persino scolastica? Oppure, più banalmente, i ricercatori, i clinici e gli
insegnanti si occupano oggi di questi bambini più di quanto non facessero
una volta? È infatti vero che la vita dei bambini di oggi, rispetto a quanto
accadeva in passato, è più convulsa, più carica di impegni, con minori
occasioni di giocare in modo non strutturato e di organizzarsi da soli un po’
di tempo libero e un po’ di spazio per pensare prima di agire. Tuttavia è
altrettanto vero che fino a qualche decina di anni fa la psichiatria non si
occupava certo di bambini un po’ agitati a scuola o durante il gioco, la
neuropsichiatria infantile era una disciplina agli esordi e la psicologia
dell’età evolutiva quasi non esisteva. Il disturbo, d’altra parte, è circa 10
volte più frequente nei maschi che nelle femmine, e questo sembra
indirizzare verso la presenza di cause genetiche, al di là delle evidenti
influenze ambientali (Gallucci et al., 1995; Camerini, Coccia e Caffo, 1996;
Barkley, 1998; Swanson et al., 1998; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2009;
Arnett, Pennington, Willcutt, De Fries e Olson, 2014).
A questo proposito, il ruolo delle figure educative, pur essendo
controverso, appare molto rilevante (Barkley, 1997; Benedetto, Gagliano,
Ingrassia e La Foresta, 2008; Cussen, Sciberras, Ukoumunne e Efron,
2012). Ciò non significa stabilire una relazione univoca e monodirezionale
di causa-effetto tra modalità educative inadeguate e insorgenza del disturbo.
È tuttavia dimostrato che nei genitori di bambini con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si riscontrano frequentemente modalità educative e
relazionali inadeguate, improntate a eccessivo lassismo o a eccessiva
durezza, o – più spesso – a un passaggio repentino e ingiustificato tra
lassismo e durezza: dunque le caratteristiche più rilevanti di queste modalità
educative e relazionali sembrano essere l’ambiguità e l’incoerenza
(Speranza, 2001a; Gagliardini, Gentile, Lettieri e Ruggiero, 2013; Haack,
Villodas, McBurnett, Hinshaw e Pfiffner, 2014). Ripeto che questo non
significa necessariamente che il modo di educare un bambino determini il
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Al contrario, una simile
affermazione sarebbe quasi certamente falsa e rappresenterebbe un modo
semplicistico e molto pericoloso di affrontare il problema, almeno da un
punto di vista clinico, come abbiamo già avuto modo di osservare a
proposito dei Disturbi dello spettro dell’autismo.
Ricordo ancora un caso di tanti anni fa di un bambino con Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività. Ho bene in mente come la madre soffrisse
quando qualcuno le diceva che suo figlio era viziato. Naturalmente la sua
rabbia e la sua frustrazione aumentavano se a dirglielo non era la commessa
di un negozio che il bambino in pochi minuti era riuscito a buttare all’aria,
ma il pediatra o, peggio, la maestra. La madre tentava, disperatamente, di
replicare che lei aveva insegnato al figlio tutte le regole e che si sforzava in
ogni modo di farle rispettare. Citava anche il caso dei due fratelli maggiori,
che erano stati allevati ed educati nello stesso modo ed erano oggi ragazzi
modello. Ma non serviva a niente. L’impressione che dava suo figlio
all’esterno era effettivamente quella di un bambino abituato e autorizzato a
fare ciò che voleva. Un giorno un’osservazione di questo genere venne
comunicata alla madre da un neuropsichiatra infantile e la conseguenza fu
che, per anni, la madre smise di portare il figlio da neuropsichiatri o
psicologi. Seguo ancora oggi il caso (il ragazzo ha più di vent’anni e stiamo
cercando di aiutarlo a tenere un’occupazione fissa) e la madre, di tanto in
tanto, mi ricorda ancora con angoscia e con rabbia l’episodio di quel dottore
che l’aveva accusata di viziare il bambino con il solo risultato di allontanare
madre e bambino dalla terapia. La realtà, in questi casi, è probabilmente
molto più complessa. In un soggetto che già manifesta sintomi di Disturbo
da deficit di attenzione/iperattività si innestano, con maggiori probabilità di
quanto accada di solito con un bambino normale, modalità interattive ed
educative inadeguate che concorrono ad aggravare il quadro. Le modalità
relazionali inadeguate, e in particolare la rabbia, l’aggressività, l’incoerenza
e l’estremismo educativo, si collocano quindi, molto probabilmente,
all’interno di un meccanismo di interazione: sono contemporaneamente
causa ed effetto della patologia. Questa interpretazione sembra, in una certa
misura, dimostrata anche dalla ricerca, la quale ha messo in luce come il
trattamento con farmaci stimolanti riduca non soltanto i sintomi
comportamentali e cognitivi nel bambino con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività, ma anche i comportamenti inadeguati dei genitori
(che ovviamente non hanno preso il farmaco!). Credo che questo dovrebbe
farci riflettere. Allora forse non sono, come troppo semplicisticamente a
volte si pensa, solo i comportamenti dei genitori che determinano la
patologia del bambino. È anche la patologia del bambino a determinare
certi comportamenti inadeguati nei genitori. Come se non bastasse, è stato
dimostrato che un analogo miglioramento si verifica anche nei
comportamenti degli insegnanti a seguito dell’assunzione di farmaci
stimolanti da parte del bambino. Vedremo come queste osservazioni
possano essere cariche di conseguenze per l’approccio psicoterapeutico.
In questi ultimi anni, infine, la ricerca sul Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività si è concentrata molto sugli aspetti cognitivi,
metacognitivi ed emozionali, mettendo in luce, in questi bambini, carenze
nei processi di autoregolazione (Schunk e Zimmerman, 1994; Cornoldi,
2006; Barkley, 1997; Cornoldi, De Meo, Offredi e Vio, 2001; Vio, 2004;
Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012; Capodieci e Cornoldi, 2013) e di
mediazione verbale; difficoltà nell’uso di strategie; stili di attribuzione
inadeguati; scarsa capacità di regolazione emotiva con conseguenti
difficoltà nel controllo della frustrazione, della rabbia e dell’aggressività;
problemi di relazione con i coetanei (Douglas e Parry, 1994; Barkley, 1994,
1997; Schachar, Tannock, Marriot e Logan, 1995; Van der Meere, 1998;
Kutscher, 2010).

pag. 540

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


Devo rapidamente sgombrare il campo da un tema che esula dagli scopi di
questo volume, ma al quale, in questo particolare contesto, è impossibile
non fare un cenno. Il tema è quello della terapia farmacologica, che
ovviamente non interessa in modo diretto lo psicologo non rientrando nelle
sue competenze specifiche (tale argomento non sarà peraltro più toccato nel
resto del libro, nemmeno quando tratterò di patologie come i Disturbi
d’ansia e i Disturbi dell’umore, nei quali pure la farmacoterapia ha un ruolo
importante anche in età evolutiva). Ne faccio un cenno ora perché ritengo
che sia necessario che lo psicologo tenga conto dell’esistenza di farmaci
stimolanti, in particolare un’amfetamina, il metilfenidato, che hanno
dimostrato un’efficacia notevole nella riduzione dei sintomi
dell’iperattività.10 Negli ultimi anni si è cominciato a parlare anche del
modafinil che, pur essendo sempre uno stimolante, si caratterizza per una
struttura differente rispetto agli psicostimolanti usati tipicamente per trattare
l’ADHD. Alcune ricerche sembrano suggerire che il modafinil riduce i
sintomi di ADHD e, rispetto al metilfenidato, risulta maggiormente tollerato
e con minori effetti avversi, come insonnia, mal di testa, perdita
dell’appetito, perdita di peso e disturbi gastrointestinali (Rugino, 2007;
Amiri et al., 2008; Kutscher, 2010; Masi e Manfredi, 2013).
Secondo alcuni studi certi farmaci stimolanti ottengono risultati
clinicamente significativi nel 70-80% dei casi, anche se la percentuale di
successo si riduce molto nel caso di comorbilità (Richters et al., 1995;
Gillbarg et al., 1997; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Elliot e Place, 2001).
Tuttavia, la ricerca ha messo in luce la possibilità di ricorrere ad altri
trattamenti farmacologici alternativi agli stimolanti (che possono provocare
dipendenza e potenzialità di abuso) come l’atomoxetina, un inibitore
selettivo della noradrenalina, che si sta dimostrando tra l’altro efficace per il
trattamento di quei pazienti che non rispondono o non sono in grado di
tollerare gli stimolanti (Michelson et al., 2004; Buitelaar et al., 2007;
Franke, Konrad, Lieb e Huss, 2012).
Questi studi non possono essere ignorati. In primo luogo, anche solo da
un punto di vista teorico, per i già citati effetti che producono sui
comportamenti dei genitori e degli insegnanti. In secondo luogo, per le
polemiche recentissime che hanno stimolato in ambito psicologico, sia per i
problemi di dipendenza che il farmaco può indurre, sia soprattutto a causa
dei rischi di iperdiagnosticare un disturbo per poi curare magicamente con
una medicina anche normali comportamenti del bambino, magari solo un
po’ fastidiosi per l’adulto: non a caso si è arrivati a parlare di “pillola
dell’obbedienza”. Infine, perché credo che quando altri, per esempio il
pediatra o il neuropsichiatra infantile, decidono per una terapia
farmacologia, lo psicologo debba imparare a convivere con questa
decisione (Rovetto, 1996; Kutscher, 2010). Convivere con la farmacoterapia
significa essere capaci di offrire al bambino e ai suoi genitori un tipo di
aiuto che cerchi di potenziare con mezzi psicologici l’effetto positivo del
farmaco; che sfrutti questo effetto positivo per proporre nuovi obiettivi
comportamentali; che lavori per cercare di evitare l’uso eccessivamente
prolungato di una medicina e prevenire i rischi di dipendenza. Un discorso
analogo potrebbe essere fatto per gli ansiolitici e, oggi ancora di più, per gli
antidepressivi, dei quali si comincia a fare uso anche nella psicopatologia
dello sviluppo per i Disturbi d’ansia e i Disturbi depressivi, bipolare e
disturbi correlati.
Per tornare a un punto di vista puramente psicologico, invece, abbiamo
già visto che prima di tutto ho dovuto abituare Lorenzo all’idea di entrare
nel mio studio, di lavorare con me, di allontanare la madre, di ignorare la
presenza del lettino. Per ottenere ciò è stata necessaria l’applicazione
sistematica, durante le prime sedute, di metodi comportamentali classici
come il rinforzamento dei comportamenti adeguati; l’esposizione
progressiva agli stimoli ansiogeni e la conseguente desensibilizzazione ,
che vedremo meglio nei prossimi capitoli dedicati ai Disturbi d’ansia; il
modellaggio , che mi è servito per avvicinare progressivamente Lorenzo
a lavorare almeno per qualche minuto con me; l’estinzione (vedi riquadro
sottostante) e il rinforzamento differenziale .

pag. 13

pag. 365

pag. 6

pag. 69

ESTINZIONE
Un comportamento si mantiene se è rinforzato. La probabilità che un
comportamento si riproduca in futuro e l’intensità e la frequenza con
cui si riprodurrà dipendono dalle conseguenze che il comportamento
produce. Se un comportamento produce conseguenze positive (cioè è
rinforzato), avrà maggiori probabilità di sopravvivere (l’analisi
funzionale ci dice che sopravvivono solo i comportamenti che
“funzionano”, cioè che servono a qualcosa). Se un comportamento
non produce mai nessuna conseguenza positiva, tenderà a spegnersi.
L’estinzione è precisamente questo fenomeno: il morire di un
comportamento che non funziona, che non produce nulla di utile per
l’individuo. Spesso l’estinzione si verifica spontaneamente negli
ambienti naturali nei quali un individuo vive. Un impiegato a cui per
mesi non venga più né corrisposto né promesso lo stipendio,
probabilmente smetterà di lavorare (a meno che il lavoro non sia per
lui particolarmente interessante o divertente o occasione per uscire di
casa piuttosto che restare in famiglia dove si trova malissimo: in
questi casi, il comportamento “andare a lavorare” non si estinguerà
perché è seguito da rinforzatori intrinseci, positivi o negativi). Un
bambino che, dopo aver studiato la geografia, non viene interrogato,
perché la maestra gli dice che tanto lui non sa mai niente, e che è una
pena starlo a sentire e non viene mai premiato in alcun modo per i
suoi sforzi, probabilmente smetterà di studiare. Quando non si verifica
spontaneamente, l’estinzione può essere programmata e trasformarsi
così in una tecnica di intervento. La si applica di solito nel controllo
dei comportamenti problematici, come si può vedere, per esempio, nel
caso di Lorenzo nel presente capitolo, ma anche in molte situazioni
legate alla Disabilità intellettiva, ai Disturbi dello spettro dell’autismo
e ai Disturbi d’ansia (per es., quando Chicco, nel capitolo 14, viene
portato a scuola per evitare che le sue risposte di evitamento
continuino a essere rinforzate negativamente dalla diminuzione
dell’ansia). Nel controllo dei comportamenti problematici, la
programmazione dell’estinzione rappresenta una procedura utile
perché, nell’ambiente naturale, spesso i comportamenti problematici
sono rinforzati (per es., dall’attenzione di una maestra o di un
genitore, oppure dall’interruzione di un compito sgradevole). La
tecnica dell’estinzione consiste, in questi casi, nell’evitare, per quanto
possibile, di rinforzare i comportamenti inadeguati, come si può
vedere nel capitolo 3, quando Michela impara ad andare al
supermercato senza fare troppe storie; nel capitolo 5, quando
Maurizia smette di girare qua e là per lo studio dello psicologo; nel
presente capitolo, quando Lorenzo impara a non avere più paura del
lettino. Questi esempi mettono in luce altri due aspetti dell’estinzione
intesa come tecnica di intervento. Il primo aspetto, che dovrebbe
risultare particolarmente chiaro nei capitoli 3 e 5, è che l’estinzione
non si usa mai da sola. Utilizzata da sola è una tecnica spesso inutile e
difficilissima da gestire (come si fa a non rinforzare un grave
comportamento aggressivo comportandosi come se non ci fosse?) e a
volte persino pericolosa. In questi esempi si vede, invece, come essa
possa costituire un aiuto prezioso se usata in associazione al
rinforzamento differenziale, all’analisi funzionale e al modellaggio. Il
secondo aspetto, che è possibile vedere nel presente capitolo, quando
Lorenzo comincia a superare l’ansia del lettino, è che l’estinzione può
servire anche a ridurre risposte emozionali. In tutti i capitoli della
sezione sui Disturbi d’ansia è possibile vedere come molte esperienze
di esposizione funzionino proprio perché permettono alle risposte
d’ansia di andare in estinzione.

Questi ultimi metodi meritano un breve approfondimento perché sono


particolarmente importanti nei disturbi del comportamento e perché
verranno usati massicciamente con Lorenzo anche a scuola e a casa.
L’estinzione e il rinforzamento differenziale consistono nello stabilire
alcuni comportamenti inadeguati dei quali si desidera ridurre la frequenza
(per es., “alzarsi dalla sedia e gironzolare di qua e di là nello studio”);
nell’individuare comportamenti adeguati, o per lo meno diversi dal
comportamento scelto come bersaglio (per es., “restare seduti alla scrivania
a colorare”); nell’ignorare sistematicamente i comportamenti inadeguati;
nel rinforzare i comportamenti diversi, meglio ancora se incompatibili con
il comportamento bersaglio (per es., “colorare è un comportamento
incompatibile con il gironzolare per lo studio, perché non si può
contemporaneamente colorare e gironzolare”). In questo modo, i
comportamenti inadeguati tendono ad andare in estinzione, come in genere
accade alle risposte non rinforzate: dunque la loro frequenza diminuisce nel
tempo. In senso inverso, i comportamenti adeguati tendono, di
conseguenza, a farsi sempre più probabili perché sono stati rinforzati
sistematicamente. Il rinforzamento differenziale crea anche un circolo
virtuoso: più aumentano i comportamenti adeguati incompatibili con quelli
negativi, meno quelli negativi hanno modo di manifestarsi; inoltre, la
relazione con le figure educative migliora, come sempre succede quando le
gratificazioni prendono il posto delle modalità punitive. Nel caso di
Lorenzo, per esempio, cercavo di ignorare tutte le verbalizzazioni più o
meno ossessive a proposito del lettino e tutti i comportamenti inadeguati
che da qui scaturivano, mentre rinforzavo Lorenzo rassicurandolo quando si
avvicinava spontaneamente al lettino o quando, spontaneamente, mi diceva
che il lettino non gli faceva paura o che non era obbligato a salirci. Credo
che quest’esempio sia particolarmente interessante perché ci permette di
notare come, una volta di più, non esista nella pratica clinica una divisione
così netta tra metodi comportamentali classici e metodi cognitivo-
comportamentali. Durante la sesta seduta, spontaneamente, mentre stavamo
facendo tutt’altro, Lorenzo mi disse:
“Io non devo avere paura del lettino, vero?”.
“No”, gli ho risposto, con un atteggiamento calmo sconfinante
nell’indifferenza.
“Io non sono costretto a sdraiarmi sul lettino, vero?”.
“No di certo. Te l’ho già detto altre volte”.
“Però posso avvicinarmi, vero?”.
“Se vuoi, certo che ti puoi avvicinare!”.
“Posso toccarlo…”.
“Se vuoi puoi sicuramente toccarlo”.
“Posso sdraiarmici sopra, se voglio…”.
“Ti piacerebbe provare? Dimostrarmi che non hai più paura, che sei
diventato coraggioso?”.
Non fu necessario attendere una risposta verbale: Lorenzo, infatti, ci si
era già sdraiato sopra, anche se subito dopo aveva cominciato a farci il
diavolo a quattro (ho ancora, nello studio, i segni delle suole delle sue
scarpe stampate sul muro).
Credo che questo episodio sia doppiamente significativo. Prima di tutto,
da un punto di vista pratico, perché mi ha permesso di iniziare con Lorenzo
un training di rilassamento che ha poi dato i suoi frutti nel favorire sia il
controllo dell’ansia, sia la riduzione dei comportamenti iperattivi. In
secondo luogo, da un punto di vista teorico, perché l’episodio illustra bene
un sottile passaggio dai metodi comportamentali classici agli interventi
cognitivo-comportamentali. Finché lo psicologo o lo psicoterapeuta
agiscono dall’esterno, manipolando gli stimoli ambientali per ottenere
particolari risposte e poi manipolando le conseguenze di queste risposte per
fare in modo che si rinforzino e si consolidino in futuro, possiamo dire che
utilizza metodi comportamentali. Quando, però, è il paziente stesso che, in
qualche modo, attivamente, modifica i suoi comportamenti dopo aver
modificato i suoi punti di vista interni, come le cognizioni, le aspettative, le
emozioni, allora, al posto di un approccio rigidamente comportamentale, sta
subentrandone uno cognitivo. Nella clinica, almeno con i bambini, è molto
frequente che questo passaggio non debba essere rigidamente programmato
dallo psicologo ma, almeno in una certa misura, sembri avvenire quasi in
modo spontaneo. Uso quest’espressione molto cauta, perché in realtà il
rigore e la flessibilità (che non sono in contraddizione!) con cui vengono
programmati i primi passi dell’intervento comportamentale sicuramente
favoriscono questo passaggio. Qui che cos’è successo a Lorenzo? Lo
stimolo “lettino” produceva ansia e iperattività. Ho cercato di lavorare su
questo e, a un certo punto, Lorenzo ha come preso il comando della
situazione e ha cominciato ad autogestire il processo di cambiamento.
Sembra quasi che, in un primo tempo, il bambino mi abbia sentito tante
volte ripetere (con le parole, ma soprattutto con la calma e la coerenza dei
comportamenti) che il lettino non era pericoloso; che, se voleva, poteva far
finta che non esistesse; che nessuno l’avrebbe mai obbligato a sdraiarcisi
sopra; che, se smetteva di dargli tanta importanza, sarebbe stato meglio e
avrebbe guadagnato la mia attenzione, la mia approvazione e la possibilità
di svolgere qualche attività più piacevole. E che poi abbia cominciato a
ripetere queste cose a se stesso, in una specie di dialogo interno di cui mi ha
fatto parzialmente partecipe (“Io non devo avere paura del lettino, vero?”) e
che abbia finito per produrre un processo di autoregolazione.
Più in generale, possiamo definire l’autoregolazione come la capacità (di
solito formata da automonitoraggio e autocontrollo ) di dirigere i
propri comportamenti secondo le esigenze della situazione e dell’ambiente.
Nel caso del Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, l’autoregolazione
assume un ruolo particolarmente significativo: poiché, infatti, rappresenta
una delle maggiori carenze riscontrabili in queste patologie, una volta
acquisita permette una riduzione dell’impulsività e di buona parte della
sintomatologia legata all’iperattività e alle difficoltà attentive. Nel capitolo
8 abbiamo visto un esempio di autoistruzione a proposito dell’abilità di
eseguire addizioni con il riporto in una bambina con difficoltà di
apprendimento. Con metodi analoghi è possibile favorire lo sviluppo di
autoregolazione in bambini con Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività, attraverso programmi strutturati che prevedono
l’interiorizzazione dei comandi verbali e si svolgono attraverso varie fasi:
comprendere il problema; parlare a sé stessi per cercare possibili soluzioni;
pensare prima di agire, valutando l’efficacia delle soluzioni pensate, le loro
conseguenze e le possibili alternative; allenarsi a una attenzione via via
maggiore; autovalutarsi e rinforzarsi per un buon risultato; applicare queste
strategie in contesti di studio, ma anche di relazioni interpersonali e di
gestione delle emozioni come frustrazione e rabbia.
pag. 151

pag. 136

In pratica, nelle sedute con Lorenzo, ho continuato a utilizzare


contemporaneamente metodiche comportamentali e cognitivo-
comportamentali11 all’interno di una relazione terapeutica centrata sui suoi
bisogni. Credo che questo sia un approccio sempre utile, ma
particolarmente importante nei casi, come quello di Lorenzo, sfaccettati,
complessi e caratterizzati da comportamenti spesso difficili da prevedere da
seduta a seduta.
Una volta raggiunte con il bambino una certa stabilità di comportamento
e la possibilità di lavorare con lui almeno per qualche minuto di seguito e di
allontanare dallo studio la mamma, ho cominciato una token economy
centrata sui tempi di attenzione e subito dopo, appena questa ha mostrato di
funzionare, l’ho associata all’automonitoraggio . Il programma
funzionava in questo modo: prendevo il mio orologio da polso con
cronometro, lo poggiavo sulla scrivania, e spiegavo a Lorenzo che avrebbe
guadagnato un punto per ogni minuto che passava seduto e attento a
lavorare con me. I punti così guadagnati servivano ad avere la possibilità di
fare un gioco particolarmente gradito al bambino e venivano anche riportati
su un grafico appeso a una parete del mio studio, il che aggiungeva alla
procedura anche il rinforzamento informativo o feedback. Una mia
collaboratrice, più portata di me per il disegno, trasformava l’istogramma
così ottenuto, che sarebbe stato di difficile lettura per il bambino, in un
treno al quale si aggiungevano vagoni a mano a mano che i minuti di
attenzione aumentavano. A fine seduta Lorenzo mostrava il grafico alla
mamma o al papà. Dopo poche sedute, appena mi sono accorto che questo
metodo cominciava a dare qualche frutto, ho spiegato a Lorenzo che
sarebbe stato meglio se fosse riuscito a valutare un po’ anche da solo come
se la cavava con l’attenzione: ho così introdotto l’automonitoraggio. Non
solo gli ho insegnato a usare e a controllare il cronometro, ma alla fine di
ogni breve attività il bambino dava anche una valutazione qualitativa della
sua prestazione, con una scala a tre punti rappresentata da tre diverse
faccine nello stile degli smile: una faccina sorridente voleva dire “Mi sono
comportato molto bene: sono stato fermo, attento e mi sono impegnato”;
una faccina triste, con la bocca all’ingiù, significava: “Non mi sono
comportato molto bene, mi sono mosso molto, distratto e impegnato poco”;
una faccina con la bocca rappresentata da un segmento orizzontale
significava: “Mi sono comportato e impegnato così così”. Il risultato totale
era dato dalla somma tra i punteggi riferiti a una buona prestazione (tanto
più alti quanto migliore era stata la prestazione) e quelli riferiti alla
coerenza tra la sua valutazione e la mia (tanto più alti quanto la sua
valutazione coincideva con la mia): in sostanza, a un risultato finale elevato
corrispondeva sia la capacità di controllarsi sia quella di valutarsi
correttamente.

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pag. 13

È probabile che queste procedure non si limitino a modificare


comportamenti, ma incidano anche sull’autostima , sull’autoefficacia e
sugli stili di attribuzione .

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All’inizio del trattamento era difficile usare con Lorenzo anche un


semplice rinforzatore sociale. Più di una volta mi era capitato, dopo un
comportamento che mi era parso adeguato, o dopo una prestazione corretta,
di dirgli frasi come:
“Bravo! Sei un campione”,
e di sentirmi rispondere:
“No, non sono un campione”.
Sul piano teorico, questo illustra bene le difficoltà di simili bambini ad
accettare gratificazioni alle quali non sono abituati. Infatti, i loro
comportamenti producono abitualmente nell’ambiente naturale reazioni
punitive, piuttosto che rinforzatori. Così la loro immagine di sé finisce per
risultare compromessa al punto che non sono più capaci di credere che, se si
danno da fare, si impegnano e provano a controllarsi, possano ottenere
risultati buoni e meritevoli di lodi. Sul piano della pratica clinica, si può qui
vedere come l’associazione tra modellaggio, osservazione sistematica e
autovalutazione permetta di superare, almeno in parte, questo problema.
Ora Lorenzo è capace di sentirsi dire che è bravo perché questa valutazione
positiva è avvenuta in modo graduale (modellaggio = “Non sono diventato
miracolosamente bravo da un giorno all’altro, ma piano piano”); perché è
dimostrata oggettivamente (osservazione sistematica = “Non mi viene detto
‘bravo’ tanto per dire, ma perché i minuti di attenzione sono aumentati”);
perché è riconosciuta e compresa da Lorenzo stesso (autovalutazione =
“Anch’io mi accorgo che, se voglio, posso combinare qualcosa di buono”).
Tutto questo ha prodotto, nel giro di qualche mese, incrementi dei tempi
di attenzione che, da 0, sono passati a 5 minuti nelle prime sedute, 15
minuti dopo un paio di mesi, mezz’ora circa intorno al terzo mese. Essi si
sono assestati poi intorno ai 45 minuti, che è rimasta la durata standard
dell’attenzione finalizzata a compiti proposti da me, benché non proprio la
durata effettiva della seduta. La seduta durava, infatti, circa un’ora, ma
l’ultimo quarto d’ora era, di solito, riservato a giochi, sia tradizionali sia con
il computer, scelti per lo più da Lorenzo. Questi giochi, tuttavia, non erano
semplici riempimenti di tempo. Avevano sia una funzione di rinforzamento,
sia un significato di ulteriore opportunità per esercitare le capacità attentive
e di autocontrollo. Esistono, infatti, software generici che possono essere
usati a questo scopo, ma anche software specifici per valutare e
incrementare l’attenzione (Di Nuovo, 2013; Stucke, 2014). Anche molti
giochi tradizionali come i puzzle o il memory possono svolgere una
funzione simile. Lorenzo era inoltre particolarmente attratto da alcuni
giochi da tavolo classici che si rivelarono molto utili, come vedremo meglio
più avanti, soprattutto nel rapporto con i genitori.
All’incremento dell’attenzione e dell’autocontrollo ha corrisposto una
certa diminuzione di gridolini incongrui, frasi fuori contesto,
comportamenti di annusamento, irrequietezza motoria e impulsività,
reazioni d’ansia e oppositività. Questi sintomi, molto frequenti nelle prime
sedute, sono in seguito diventati sporadici. Contemporaneamente si è
stabilizzato il disegno, che è diventato comprensibile, maggiormente
strutturato, con il tratto a matita non eccessivamente marcato e con meno
correzioni e i colori adeguatamente inseriti nelle forme e non più debordanti
ed esplosivi (vedi la sequenza delle figg. 5, 6 e 7, Tavole a colori).
Dopo oltre due anni di lavoro, Lorenzo è diventato collaborativo e anche
certe ripetizioni ossessive di frasi si sono fatte piuttosto rare. Quando questi
miglioramenti l’hanno reso possibile, abbiamo svolto un programma molto
semplificato di Educazione Razionale Emotiva centrato, soprattutto,
sull’importanza di non chiedere cose impossibili, di non pretendere tutto e
subito e di riconoscere alcune emozioni fondamentali e gli eventi che,
normalmente, le producono.

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In collaborazione con le insegnanti abbiamo condotto anche un breve


training di abilità sociali, interpersonali e di comunicazione, con tecniche di
role playing e di problem solving (McGinnis e Goldstein, 1986;
Menotti, Beretta, Napolitano, Trapasso e Calafiore, 2013).

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Credo sia interessante notare a questo proposito come ciò abbia portato,
tra le altre cose, a una nuova capacità di parlare di sé, di raccontarmi non
solo piccoli avvenimenti della sua vita, ma anche qualche semplice
emozione correlata: come quando, in una seduta dopo una domenica
memorabile nella quale i genitori lo avevano portato per premio al
carnevale di Viareggio, mi ha descritto i carri, le battaglie di coriandoli
ingaggiate con amici occasionali, ma anche la sua paura per il grande
mascherone a forma di diavolo e la sua gioia complessiva per questa
esperienza.
I genitori non portarono Lorenzo al carnevale di Viareggio per caso,
quella domenica. Abbiamo, infatti, lavorato su di loro quasi quanto su
Lorenzo, e uso il plurale perché per oltre un anno sono stato aiutato in
questo da un collega che seguiva la coppia attraverso metodi mutuati dalla
Terapia Razionale Emotiva e dalle tecniche di parent training
(Anastopoulos, DuPaul e Barkley, 1991; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011;
Merati, Valenti e Celi, 2005; Pezzica, Bertini, Millepiedi e Masi, 2008;
Abikoff et al., 2014; Gagliardini, Gentile, Lettieri e Ruggiero, 2013),
mentre io mi dedicavo prevalentemente al bambino.
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L’approccio Razionale Emotivo era centrato soprattutto sul


ridimensionamento di alcune aspettative non realistiche e sulla
ristrutturazione e la modificazione di pensieri irrazionali. Alcuni di questi
pensieri erano del tipo: “devo essere un genitore perfetto perché anche un
solo errore comprometterà ulteriormente e per sempre la situazione di mio
figlio”; “devo risolvere completamente il problema del mio bambino”;
“devo evitare a mio figlio ogni possibile frustrazione” (Ellis, 1984, 1993; Di
Pietro, 1992, 1999; Vio, Marzocchi e Offedi, 2011). L’obiettivo principale
dell’educazione razionale emotiva è quello di sostenere una crescita
affettiva armonica nel bambino mediante pratiche didattiche (scoperta
guidata, esperimenti di problem-solving, role-playing, rinforzamento,
assegnazioni di compiti) che lo conducano ad acquisire consapevolezza
delle proprie emozioni e di come spesso è il nostro modo di pensare che
determina le nostre reazioni emotive e guida, di conseguenza, i nostri
comportamenti. Si cerca così di potenziare nel bambino la capacità di
riconoscere i propri pensieri irrazionali, ovvero quei pensieri distorti e
inadeguati a valutare realisticamente gli eventi che accadono, al fine di
poterli modificare e favorire reazioni emotive equilibrate e comportamenti
funzionali. Altri importanti obiettivi di questo approccio sono: favorire
l’accettazione di se stessi e degli altri, aumentare la tolleranza alla
frustrazione, saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo,
saper individuare i propri modi di pensare abituali, imparare il rapporto fra
pensieri e azioni, incrementare la frequenza e l’intensità di stati emotivi
piacevoli e favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio
comportamento.
L’educazione Razionale Emotiva si configura come un’estensione in
ambito educativo della Rational-Emotive Therapy (RET), una teoria
psicoterapeutica sviluppata nel 1955 dallo psicologo americano Albert Ellis.
Anni dopo, nel 1999, Ellis ha aggiunto il termine comportamentale
modificando il nome del metodo in Rational-Emotive Behavior Therapy
(REBT) per enfatizzare il concetto secondo cui cognizioni, emozioni e
azioni sono integrate in un unico processo. In questa prospettiva i nostri
problemi emotivi e comportamentali sono visti come la risultante di
pensieri irrazionali circa l’evento attivante e non dell’evento in sé (Hayes e
Ellis, 2014; Vernon, 2011). La letteratura di questi ultimi anni conferma
l’efficacia dell’educazione razionale emotiva in svariati contesti educativi
(Banks, 2011), comprovando la riduzione del distress degli insegnanti, una
conduzione più positiva del gruppo classe e, in particolare, degli studenti
inadeguati, e la promozione di comportamenti on-task (Roberston e
Dunsmuir, 2013; Vesely, Sakiofske e Leschied, 2013; Maag, 2008). Questi
studi evidenziano inoltre lo sviluppo delle capacità sociali e una migliore
gestione della rabbia e degli stati depressivi in bambini di età scolare
(Flanagan, Allen e Henry, 2010).
Da un’importante meta-analisi di 19 studi sulla realizzazione
dell’Educazione Razionale Emotiva con bambini e adolescenti (Gonzales et
al., 2004), questa risulta avere un effetto positivo su cinque categorie di
risposte: ansia, comportamenti dirompenti, irrazionalità, concetto di sé e
media dei voti scolastici. Tra tutti, il risultato più significativo si è registrato
nei comportamenti dirompenti. Inoltre, le ricerche documentano che le
sessioni di educazione razionale emotiva di lunga durata hanno un impatto
decisamente più rilevante sugli esiti e che i bambini beneficiano di questo
metodo più degli adolescenti, suggerendo, dunque, la significatività di un
intervento psicoeducativo precoce.
Un risultato analogo è stato messo in luce da Gavita e Calin (2013), che
hanno valutato gli effetti di due programmi (RETMAN Rational Story group
e Rational Parenting Program group, che rientrano nell’ambito
dell’educazione razionale emotiva) sulla diminuzione dei problemi di
comportamento esternalizzanti e internalizzanti in 32 bambini di una scuola
primaria. L’esito della ricerca ha evidenziato l’efficacia di entrambi i
programmi; tuttavia, i risultati migliori si sono rilevati nel primo gruppo, in
cui si è assistito a una particolare riduzione dei disturbi esternalizzanti.
Relativamente al trattamento del Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività Brown et al., (2005), Dopheide e Pliszka (2009),
Greydanus, Pratt e Patel (2007), e Smith, Wasschbush, Willoughby e Evans
(2000) hanno sottolineato l’efficacia di un approccio multimodale:
trattamento farmacologico unitamente a interventi psicoterapeutici,
comprendenti interventi educativi a scuola, terapia cognitivo-
comportamentale, parent training, gruppi di supporto e interventi per il
potenziamento delle capacità sociali.
Nel caso di Lorenzo, il parent training consisteva essenzialmente
nell’aiutare i genitori a capire alcune dinamiche nella loro relazione con il
figlio e ad affrontarle con l’atteggiamento e i metodi migliori. I passi più
importanti del programma erano: comprendere il problema del figlio e
cercare di affrontarlo con strategie adeguate e con l’atteggiamento di chi
crede che le cose si possano cambiare; imparare a usare una particolare
forma di osservazione sistematica che prende il nome di analisi funzionale
e che vedremo meglio più avanti; imparare a non farsi prendere dal
senso di colpa; adottare scelte educative coerenti, basate più su modalità
gratificanti che punitive e orientate all’autonomia del figlio e
all’autoregolazione; imparare ad agire d’anticipo piuttosto che farsi
sorprendere dai problemi del figlio; proporsi come modelli; abituarsi a
parlare e a giocare con Lorenzo.

pag. 402

Proprio i giochi, in particolare quelli da tavolo, svolsero fin dall’inizio


un ruolo fondamentale. Fu necessario spiegare ai genitori la loro funzione
come attivatori di comportamenti attentivi antagonisti all’iperattività e
tranquillizzarli quando tornavano in seduta riferendo che Lorenzo aveva
giocato pochissimo, si era stufato quasi subito ed era evidente che non si era
divertito.
“Che giochi sono, se mio figlio li fa contro voglia?”, disse una volta il
padre, chiaramente scoraggiato, a questo proposito.
Di fronte a obiezioni di questo tipo, lo psicologo dovrebbe rendersi conto
che un genitore può non avere chiara la funzione terapeutica e progressiva
del gioco. Bisognerà allora spiegare che non si può sperare che Lorenzo,
improvvisamente, stia fermo due ore a giocare, motivato e allegro, se fino al
giorno prima non era capace neppure di stare seduto. Bisognerà spiegare
che certi risultati si ottengono, quando va bene, piano piano (e nessuno
venga a obiettare che questa cosa l’avevamo già detta altre volte e in molte
altre circostanze al papà, perché la presunzione di produrre
generalizzazione degli apprendimenti senza faticare è un peccato grave per
il terapeuta comportamentale!). Bisognerà spiegare che, nelle prime fasi,
persino un gioco teoricamente divertente va usato come se fosse una
medicina amara o un’iniezione: ora è spiacevole o addirittura doloroso, ma,
se siamo costanti, alla fine ci farà bene. La passione che alla fine mostrò
Lorenzo nel giocare a Monopoli con il padre ci diede ragione.
Il padre fu infine invitato a uscire qualche volta solo con il bambino per
fornirgli un modello maschile di comportamento adeguato. Andarono
insieme a pescare, a vedere qualche partita di calcio e, soprattutto, in
piscina, dove Lorenzo si trovò particolarmente bene e dove tuttora fa parte
di una piccola squadra di preagonistica, anche questa utile come occasione
per imparare a rispettare le regole, a impegnarsi, ad apprezzare il valore
dello sforzo personale per ottenere dei risultati (Graham, 2007; Pan et al.,
2014; Choi, Han, Kang, Jung e Renshaw, 2014). Negli ultimi anni sono
stati, inoltre, messi a punto interventi intensivi chiamati Summer Treatment
Program (STP) rivolti a bambini dai sei ai dodici anni d’età che esibiscono
comportamenti associati all’ADHD o altri disturbi del comportamento
come il Disturbo oppositivo provocatorio. Per la durata di 6 settimane i
bambini sono impegnati in un programma che prevede training su alcune
abilità carenti, come per esempio training sulle abilità sociali e sportive e
gruppi di discussione di problem solving, portati avanti attraverso strategie
cognitivo-comportamentali, quali per esempio token economy, daily report
cards e rinforzo positivo (Chronis et al., 2004; Pelham e Hoza, 2005;
Chronis, Jones e Raggi, 2006; Sibley, Smith, Evans, Pelham e Gnagy, 2012;
Fabiano, Schatz e Pelham, 2014).
Un altro promettente modello di intervento è quello basato sulla
mindfulness (per una discussione più ampia di questi metodi, all’interno del
cosiddetto comportamentismo di terza generazione o ACT si vedano i
capitoli 14, 22 e 23). Van der Oord, Bögels e Peijnenburg (2012) hanno
condotto una ricerca con bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni con
Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, sottoposti a un training di
mindfulness di 8 settimane durante le quali parallelamente svolgevano la
stessa attività anche i loro genitori. Era presente un gruppo di controllo di
bambini appartenenti a una lista d’attesa. Ai genitori era stato chiesto di
compilare un questionario prima di cominciare la terapia, subito dopo, e
dopo 8 settimane dalla fine, in cui dovevano riportare i sintomi del Disturbo
da deficit dell’attenzione/iperattività e del Disturbo oppositivo provocatorio
dei loro bambini, e indicare eventuali segnali di Disturbo da deficit
dell’attenzione/iperattività, di stress, di reattività, di permissivismo e di
consapevolezza. Inoltre venivano intervistati gli insegnanti che dovevano
rispondere facendo riferimento ai sintomi di Disturbo da deficit
dell’attenzione/iperattività e di Disturbo oppositivo provocatorio dei loro
allievi durante il periodo della terapia. I genitori hanno riscontrato una
notevole diminuzione dei sintomi di Disturbo da deficit
dell’attenzione/iperattività dal pre- al post-test e anche durante il follow-up.
Hanno inoltre dichiarato di aver notato un incremento della consapevolezza
di sé e una diminuzione sia dello stress che della reattività. Malgrado i
riscontri positivi esposti dai genitori, tali risultati non sono stati notati dagli
insegnanti che non hanno riscontrato effetti significativi (vedi anche
Searight, Robertson, Smith, Perkins e Searight, 2012; Schoenberg et al.,
2014).).
Soprattutto in casi complessi come quello di Lorenzo, infine, ma forse
più importante di tutto, è il lavoro con la scuola (Barkley, 1997; Vio,
Marzocchi e Offredi, 2011; Bassi, Filoramo e Di Pietro, 2001; Celi e
Fontana, 2007; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2012). Rimasi in contatto il più
possibile con le insegnanti, che nei primi tempi erano letteralmente
disperate. A volte venivano loro nel mio studio. Altre volte, quando potevo,
andavo io a trovarle. Nel primo periodo della terapia i loro resoconti erano
ancora decisamente negativi: osservavano in classe comportamenti da
pagliaccio per attirare l’attenzione, soprattutto dei compagni; frequenti
uscite dall’aula; rendimento discontinuo; reazioni eccessive alle più piccole
frustrazioni, ai divieti, alle imposizioni di regole; bizzarrie verbali,
stereotipie e ritualismi; aggressività verso gli oggetti e, a volte, anche verso
i compagni; isolamento e perdita di contatto dal gruppo e dalle attività di
classe.
Credo che la prima cosa da fare sia raccogliere queste osservazioni,
comprenderle, in qualche modo condividerle. Non c’è niente di peggio, per
lo psicologo orientato a lavorare con la scuola, che negare rigidamente il
punto di vista dell’insegnante. Secondo me Lorenzo era già migliorato, ma
se le maestre non vedevano il miglioramento toccava a me mettermi in una
posizione di ascolto e di attesa. È chiaro che un bambino non ha gli stessi
comportamenti nella tranquillità controllata dello studio dello psicologo, in
rapporto uno a uno con un professionista della relazione, e all’interno della
classe, con le sue variabili e le sue tensioni. È altrettanto chiaro che negare
questo ovvio punto di vista significa gettare le basi di un’incomprensione
duratura con gli insegnanti piuttosto che di un rapporto di collaborazione.
Mettersi nei panni dell’educatore (per quanto possibile: abbiamo visto in
altre parti di questo libro che, in taluni casi, questo è difficilissimo se non
impraticabile) ci ha permesso, invece, di programmare obiettivi comuni.
Con le maestre di Lorenzo abbiamo fissato, per prima cosa, tre obiettivi
piccoli, condivisi e chiaramente esplicitati al bambino: rispettare alcune
semplici regole di comportamento; aumentare la durata dell’attenzione
finalizzata al compito proposto dall’insegnante; imparare a interagire con i
compagni. Abbiamo definito questi obiettivi attraverso la descrizione
precisa di alcuni comportamenti. Le maestre hanno imparato a rinforzare in
modo sistematico questi comportamenti. Abbiamo stabilito anche una
programmazione, per quanto possibile individualizzata, relativamente agli
aspetti didattici, perché Lorenzo era rimasto indietro in molte aree
curricolari. Anche la valutazione è stata fortemente individualizzata, nel
senso che ha tenuto conto dei suoi progressi invece che confrontare le sue
prestazioni con quelle dei compagni.
Un altro strumento importantissimo per il controllo del comportamento
si è rivelato, in questo caso, l’analisi funzionale (Sturmey, 2001; Garrick e
Duhaney, 2005). Si tratta di un particolare metodo di osservazione che non
si limita a occuparsi del comportamento (per es., “Lorenzo prende a calci
Andrea”), ma cerca di capirne le cause, almeno quelle ambientali. Per fare
questo analizza sia gli stimoli antecedenti, che presumibilmente hanno
provocato il comportamento (per es., “Andrea gli si avvicina e gli chiede
una gomma in prestito”), sia le conseguenze che probabilmente influiranno
su analoghi comportamenti futuri (per es., “per punizione la maestra lo
manda fuori dall’aula”). Un’analisi funzionale ben fatta e ripetuta un
sufficiente numero di volte permette allo psicologo o all’educatore di capire
come un comportamento “funziona”, cioè quale funzione svolge. Se, per
esempio, ci accorgiamo che Lorenzo prende spesso a calci i compagni che
gli si avvicinano per chiedergli qualcosa, forse ci rendiamo conto che lo
scopo di quel comportamento aggressivo è tenere i compagni alla larga.
Forse Lorenzo non è capace di esprimere con parole i suoi sentimenti e le
sue necessità.12 Forse non ha sufficienti capacità relazionali e sociali per
dire ad Andrea:
“Ti presto mal volentieri la gomma perché ho paura che tu non me la
restituisca”.
O, ancora meglio:
“Va bene, te la presto, ma, mi raccomando, restituiscimela perché se
arrivo a casa senza gomma la mamma mi punisce”.
Se sapesse fare questo non avrebbe bisogno di emettere un
comportamento aggressivo. Invece, non lo sa fare. Allora il suo
comportamento “funziona” come un sostituto di comunicazione verbale. La
cosa è ancora più interessante se analizziamo le conseguenze. Forse a volte
Lorenzo è stanco di stare in classe. Forse non ce la fa più a seguire la
lezione. Forse un altro bambino, in condizioni analoghe, direbbe:
“Maestra, sono stanco”.
Oppure:
“Maestra, ora possiamo fare qualche altra cosa?”.
O ancora, si servirebbe di un piccolo trucco (gli psicologi potrebbero
chiamarla una “strategia”) che due bambini su tre hanno usato nella loro
vita scolastica:
“Maestra, posso andare in bagno?”.
Lorenzo non ne è capace. Allora dà un calcio ad Andrea (emette un
comportamento al posto di una comunicazione verbale) e ottiene comunque
il risultato, perché la maestra, per “punizione”, lo manda fuori dall’aula. Se
era stanco di stare in classe, il suo comportamento “ha funzionato”. E
quando un comportamento funziona si ripeterà in futuro. Senza volere,
abbiamo insegnato a Lorenzo a emettere comportamenti aggressivi per
ottenere un rinforzatore negativo (uscire di classe).

pag. 13

Questo è il significato di analisi funzionale e questa la sua forza


terapeutica. Una volta comprese queste dinamiche, si tratta di cambiarle,
agendo in modo che le comunicazioni vengano emesse in una forma
socialmente accettabile, che i comportamenti inadeguati non funzionino più
(non vengano rinforzati) e comincino invece a funzionare quelli positivi. Il
training di abilità sociali insegnerà a Lorenzo a esprimere i suoi bisogni con
le parole piuttosto che con i “sintomi” e alla maestra a rinforzare le
comunicazioni adeguate piuttosto che l’aggressività.
Un anno di lavoro con i piccoli obiettivi comportamentali e l’analisi
funzionale ha portato a un significativo miglioramento: l’iperattività e
l’aggressività si sono molto ridotte e le bizzarrie verbali e i ritualismi sono
diventati quasi un’eccezione. Il bambino mostra un buon contatto con la
realtà e ha raggiunto anche qualche risultato dal punto di vista didattico, in
particolare per quanto riguarda la lettura. Soprattutto nelle ore di scienze
(che lo appassionano), i tempi di attenzione ora sono adeguati. Inoltre
Lorenzo ha fatto una bellissima esperienza di teatro dove ha dato il meglio
di sé.
Noto che anche le maestre hanno radicalmente modificato il loro
comportamento. Anche qui mi pongo l’eterna domanda: causa o effetto?
Lorenzo è migliorato perché le maestre ora sono più adeguate nei suoi
confronti, oppure (un po’ come succede con il metilfenidato) le maestre
sono più adeguate perché ora Lorenzo è migliorato? Non ho una risposta
dal punto di vista teorico, ma in pratica questo ci dà un’indicazione
importantissima. Il successo porta successo. I primi, anche piccoli
cambiamenti positivi che si ottengono con un bambino possono essere
utilizzati per modificare i nostri atteggiamenti nei suoi confronti, la
percezione degli insegnanti e dei genitori, le aspettative. Con un bambino
con il quale si ha l’impressione che non ci sia nulla da fare finiremo quasi
automaticamente per non fare nulla. Con un bambino che relaziona quasi
esclusivamente in modo aggressivo finiremo quasi inesorabilmente per
essere aggressivi. La consapevolezza che, al contrario, si può fare qualcosa
diventa la molla motivazionale per credere in lui e fare per lui qualcosa di
più e qualcosa di meglio.
L’anno scolastico successivo questo appare evidente. Sono le maestre a
chiedermi di aumentare gli obiettivi, sia per quantità sia per complessità.
Lavoriamo un intero anno su dieci obiettivi didattici e comportamentali.
Ricordo che, durante un colloquio a novembre, quindi ad anno scolastico
iniziato da poco, le maestre mi dissero:
“A volte ci domandiamo perché continuiamo a venire. Lei ha
sicuramente casi più gravi, mentre ormai Lorenzo va piuttosto bene e ci
sembra che ce la potremmo cavare anche da sole. Il fatto è che ora non ci
accontentiamo più, e pensiamo di poter ottenere altri risultati”.
Impostate così le cose, non c’è da meravigliarsi se continuiamo a ottenere
risultati. Migliora ancora l’autocontrollo. Lavoriamo sulla scrittura, che era
sempre stata troppo grossa e disordinata e che comincia a normalizzarsi,
infine le maestre si lanciano nell’uso di ipertesti per favorire lo studio della
storia e della geografia (Alberti, Belstracci, Celi, Corbani e Laganà, 1994;
Mautone, DuPaul e Jitendra, 2005; Shaw e Lewis, 2005). All’inizio, una
mia collaboratrice dà loro una mano, ma poi le insegnanti imparano a
cavarsela da sole. Pensano che gli ipertesti possano essere utili anche ad
altri bambini e formano piccoli gruppi intorno al computer che favoriscono
ulteriormente in Lorenzo lo sviluppo di comportamenti di interazione
sociale.

PROGNOSI
Forse ho posto un po’ troppa enfasi nella descrizione di questo intervento
psicoterapeutico e ciò potrebbe aver dato l’impressione (falsa) di un
brillante successo e quella (ancora più falsa) che ottenere risultati risolutivi
con bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività sia facile e
frequente.
In realtà, Lorenzo non è “guarito”. Inoltre ho, purtroppo, nella memoria
(e nell’archivio) molti casi analoghi che ho perso, o con i quali non sono
riuscito a ottenere che modestissimi e precari risultati. Ricordo ancora un
ragazzino con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e altri disturbi
del comportamento che oggi è un uomo bizzarro, imprevedibile, che ha
cambiato molti lavori alternando successi, a volte persino clamorosi anche
sul piano economico, a momenti così grigi da far temere il peggio, che è
stato visto talvolta accompagnato da donne molte belle, ma non è mai
riuscito a costruire una relazione stabile…
Lorenzo ha tuttora alti e bassi, soprattutto rispetto alla sua impulsività
(che non è affatto controllata del tutto e che sembra risentire molto
dell’umore del momento e degli stressor ambientali). Un cambio di
insegnante o, peggio, la nascita di un fratellino avvenuta di recente hanno,
di fatto, continuato a produrre piccoli e grandi disastri. Inoltre è rimasta, sia
pure in forma molto attenuata, quella imprevedibile bizzarria che
attualmente sembra difficile etichettare in un disturbo preciso e
propriamente detto, ma che continua a volte a mettermi in allarme. Gli
aspetti più francamente connessi all’iperattività sono sicuramente in
remissione, ma il deficit attentivo e le difficoltà scolastiche e sociali sono
ancora tali da far pensare che Lorenzo continui ad avere bisogno di essere
aiutato.
Il quadro è, tutto sommato, abbastanza coerente con quello che si sa sulla
prognosi di questi disturbi (Taylor, Chadwick, Heptinstall e Dankaerts,
1996; Satterfield, Hope e Schell, 1997; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti,
1998; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Ianes, Marzocchi e Sanna, 2009;
Molina et al., 2009). I sintomi più legati all’iperattività tendono ad
attenuarsi o a scomparire con la crescita, ma il deficit attentivo e
l’impulsività possono resistere più a lungo, a volte anche tutta la vita. Il
passaggio dall’espressione “sindrome ipercinetica”, che è stata usata fino
agli anni Settanta per questa patologia, a quella di Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività che usiamo oggi è, almeno in parte, dovuto proprio a
questa osservazione di una maggiore durata del deficit attentivo.
Un quarto dei bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività
continua a presentare disattenzione e impulsività fino all’età adulta, nella
metà circa si ha con il tempo una remissione totale, mentre nei casi più
difficili o non trattati si possono avere, durante il critico periodo
dell’adolescenza, possibili complicazioni dovute a un’evoluzione del
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività in Disturbo della condotta,
comportamenti antisociali, abuso di sostanze e conseguenti problemi con la
legge (Knecht, de Alvaro, Martinez-Raga e Balanza-Martinez, 2014; Stern
e Maeir, 2014; Nehlin, Nyberg e Oster, 2014).
La prognosi è molto più sfavorevole in caso di esordio precoce e di
comorbilità: in particolare, con altri disturbi del comportamento (vedi il
prossimo capitolo) e con la Disabilità intellettiva o, in genere, con deficit
cognitivi. In questi casi, è possibile un’evoluzione del Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività in Disturbo antisociale di personalità, o in Disturbo
borderline di personalità o in schizofrenia (Mao e Findling, 2014; Perroud
et al., 2014; Vaillancourt et al., 2014).
1 Da Carl Rogers (1902-1987), psicologo, padre di una tecnica terapeutica detta “non direttiva” o
“centrata sul cliente” che consiste essenzialmente in un atteggiamento del terapeuta che tenda a
favorire la libera espressione dell’emotività del paziente, sostenendolo senza influenzarlo, all’interno
di un rapporto empatico. Un tale rapporto finisce per aiutare il paziente a comprendersi e dunque a
modificarsi. Per ulteriori approfondimenti sulla terapia centrata sul cliente vedi anche Vaccari e
Zucconi (2007) e Psychoterapy Networker (2007).
2 Vedi capitolo 5, nota 2.
3 Vedi capitolo 1, nota 1.
4 Per tutti questi materiali diagnostici, vedi Braswell e Bloomquist, 1991; Cornoldi, Gardinale, Masi
e Patternó, 1996; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011. Vedi anche Re (2008); Fedeli (2007); Marzocchi,
Re e Cornoldi (2010).
5 Vedi capitolo 11.
6 I disturbi della regolazione non compaiono nelle classificazioni internazionali come il DSM-5, ma
hanno assunto in questi ultimi anni un’importanza crescente. Possono essere definiti come difficoltà,
tipiche del bambino nei prima anni di vita, nella regolazione del comportamento, dei processi
fisiologici (come il sonno o l’alimentazione), sensoriali, attentivi, affettivi o motori. Esistono diversi
tipi di disturbo della regolazione: ipersensibile, iporeattivo, attivo-aggressivo e disorganizzato sul
piano motorio-impulsivo (Greenspan, 1996; Emde, Bingham e Harmon, 1996; Speranza, 2001b). In
un recente studio di follow-up condotto da IRCCS-Fondazione Stella Maris si è concluso che la
diagnosi di DR è sufficientemente sensibile a intercettare nella prima infanzia un ampio spettro di
difficoltà di sviluppo del bambino, ma appare poco specifica e predittiva relativamente all’evoluzione
successiva. Retrospettivamente, invece, la valutazione dell’intero profilo diagnostico fornisce più
indicazioni rispetto alla diagnosi primaria e la maggiore compromissione delle diverse dimensioni
esplorate predice una evoluzione più severa (Maestro et al., 2012).
7 Vedi capitolo 1, nota 2.
8 Vedi capitolo 12.
9 Vedi capitolo 17.
10 L’argomento è particolarmente dibattuto in Italia anche sulla stampa e sui mezzi di
comunicazione di massa, spesso con i toni accesi della polemica rovente, perché il farmaco è stato
ammesso nel nostro Paese solo nella primavera 2001.
11 Per i trattamenti di ispirazione comportamentale e cognitivo-comportamentale nel Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività, vedi Meichenbaum, 1977; Kirby e Grimley, 1989; Braswell e
Bloomquist, 1991; Kendall e Wilcox, 1993; Cornoldi et al., 1996; Douglas, Parry, Marton e Garson,
1996; Cornoldi, De Meo, Offredi e Vio, 2004; Vio, 2004; Iacchia, 2007. Studi recenti (Young e
Myanthi Amarasinghe, 2009; Polidori et al., 2010; Vio, Marzocchi e Offredi, 2011; Capodieci e
Cornoldi, 2013; Rabito-Alcón e Correas-Lauffer, 2014) ribadiscono che gli interventi non
farmacologici più efficaci in questi casi sono costituiti da trattamenti cognitivo-comportamentali
multimodali centrati prima di tutto sul parent training e poi su un lavoro integrato a casa e a scuola
che preveda in particolare l’insegnamento di abilità sociali.
12 Come è possibile vedere anche nel capitolo 3, questo fenomeno è probabilmente connesso al fatto
che spesso i comportamenti negativi si verificano in assenza di capacità comunicative adeguate.
Questo punto di vista va sotto il nome di “ipotesi comunicativa” (Carr, 1977, 1998; Iwata et al., 1982,
1994; Ianes e Celi, 2001; Donati, 2009) e le sue implicazioni terapeutiche sono evidenti: se un
bambino emette un comportamento inadeguato perché non è capace di esprimere verbalmente un
bisogno o un’emozione, allora insegnargli a esprimersi probabilmente ridurrà questi comportamenti.
Capitolo 12

Altri disturbi del comportamento


Fabio Celi

LA STORIA DI DANIELE
La storia di Daniele è molto triste.
Una sera, quando aveva poco più di sei anni, ed era già andato a letto,
chiamò la mamma perché aveva sete. La mamma andò in cucina a prendere
un bicchier d’acqua e lì incontrò il marito che probabilmente aveva bevuto
e sicuramente era di cattivo umore. Erano anni che i rapporti tra i due erano
molto tesi, con violente scenate di gelosia e frequenti aggressioni fisiche del
marito nei confronti della moglie, eppure lei aveva voluto fare un estremo
tentativo e adesso era incinta di quattro mesi. Quella sera il marito le si parò
contro e le intimò di non portare l’acqua a Daniele. Le disse che il bimbo
era fin troppo grande e fin troppo viziato ed era arrivata l’ora che si andasse
a prendere l’acqua da solo quando aveva sete. La madre cercò ugualmente
di aprire il frigorifero e il padre cominciò a picchiarla con particolare
violenza.
“Da quel momento ho odiato il bambino che doveva nascere, pensando
che avrebbe potuto diventare come il padre”, mi disse la madre durante il
nostro primo colloquio.
Purtroppo, pochi mesi dopo fu accontentata. Un parto prematuro
precipitoso, mille complicazioni non so bene di che natura, e il bambino
morì poche ore dopo.
Sono passati sette anni, ma per la donna è una ferita ancora aperta e
sanguinante.
Ora, naturalmente, i genitori sono separati, il padre vive con un’altra
donna dalla quale ha avuto una figlia e i suoi rapporti con Daniele (che al
momento di questo primo colloquio ha tredici anni) sono saltuari,
imprevedibili, a volte drammatici. Non si fa vivo per mesi. Poi telefona,
quando per recriminare su tutto, quando per promettere al figlio cose che
poi non manterrà. Durante una recente telefonata, Daniele gli ha chiesto se
sabato o domenica, come avevano concordato, si sarebbero visti e lui gli ha
risposto che nella sua nuova casa non c’è posto per suo figlio. Qualche
mese prima aveva cercato la madre per una questione di soldi e, con il
ragazzo presente, l’aveva di nuovo aggredita, costringendo la donna a
chiamare la polizia. La mamma piange nel raccontarmi queste cose. Si sta
sottoponendo da anni a una psicoterapia a orientamento psicodinamico in
una struttura pubblica per una forma depressiva e questo le ha insegnato a
risalire indietro nella sua vita. Così mi racconta di quando perse sua madre.
Aveva quattro anni, il padre si risposò, ebbe altri figli e, in pratica, la
abbandonò. Ora lei soffre anche al pensiero che una simile sofferenza debba
toccare a suo figlio.

pag. 49

Dopo la separazione definitiva ci sono stati momenti in cui madre e


figlio hanno letteralmente sofferto la fame. Ora, da questo punto di vista, le
cose vanno un po’ meglio, perché la mamma si dà molto da fare con lavori
saltuari che però la occupano tutto il giorno, spesso anche la sera, e questo
la costringe a trascurare Daniele, che resta così a lungo solo e senza
controllo.
Il ragazzo è intelligente (mi dice la madre, e io potrò poi appurare che è
vero), ma è disinteressato a tutto, con l’unica eccezione del calcio. Gioca in
una squadra locale, se la cava bene, l’allenatore è molto contento di lui, ma
questa è l’unica attività nella quale si impegni e ottenga buoni risultati.
“È l’isola felice della sua vita”, mi dice la mamma.
Per il resto è un disastro su tutti i fronti. Va a scuola mal volentieri e ha
un pessimo rendimento. Studia poco, saltuariamente e con difficoltà. Spesso
torna a casa con delle note, perché ne ha combinata qualcuna delle sue. È
disubbidiente, insofferente alle regole, provocatore e a volte francamente
aggressivo anche con la madre.
“Quando mi guarda in un certo modo e si capisce chiaramente che
avrebbe voglia di picchiarmi, mi sembra di rivedere suo padre e ho paura.
Poi altre volte è affettuosissimo, dolce, ma ci sono dei momenti in cui perde
proprio il controllo, diventa un’altra persona”.
Durante il primo colloquio, la madre era convinta che non sarebbe
riuscita a portarmi il figlio, che tende a fare sempre di testa sua e sempre il
contrario di quello che la madre cerca di suggerirgli. Invece, come cercherò
di raccontare meglio nel terzo paragrafo, Daniele venne e instaurò subito,
spontaneamente, una buona relazione con me, come se da tempo non
desiderasse altro. In seduta era tranquillo, collaborativo e non manifestava
nessuno dei comportamenti descritti dalla madre e dagli insegnanti con i
quali, nel frattempo, mi ero messo in contatto. Tuttavia non negava i suoi
problemi e mi raccontava con notevole sincerità delle tensioni e dei litigi
con la madre, del suo pessimo comportamento come studente, degli scoppi
di aggressività nei confronti dei compagni e, in genere, di tutto quello che
combinava (raramente cose positive).
Poi però, anche all’improvviso, durante una seduta, dopo avermi parlato
del pomeriggio precedente in cui, avendo fatto a botte con due amici, la
mamma di uno dei due voleva chiamare la polizia, si commuove nel
raccontarmi di suo padre, dei suoi ricordi di bambino, della tristezza della
sua vita di ora. Non arriva proprio a piangere, ma i suoi occhi si
inumidiscono e lo vedo che fa uno sforzo per trattenersi.
Parla di suo padre, oggi, come della peggiore persona al mondo, sostenendo
che sta molto meglio quando non lo incontra e che spera di non vederlo mai
più. Quelle rare volte in cui il padre gli telefona, però, e gli riaccende la
speranza anche solo di andare insieme al fiume a pescare un sabato
pomeriggio, cambia umore. Ho persino l’impressione che anche il suo
comportamento si faccia più tranquillo, che Daniele si controlli di più e
tenda a non combinare i suoi soliti guai nei giorni che vanno dalla
telefonata alla quasi immancabile delusione: il padre non lo verrà a
prendere, oppure lo porterà al fiume per poi lasciarlo lì due ore da solo
perché ha altro da fare, oppure passerà tutto il tempo a inveire contro la
madre dicendo a Daniele che un giorno o l’altro verrà a casa con un pistola
e la leverà dal mondo una volta per tutte.
Il bisogno della figura del padre o almeno di un padre è tristemente
chiaro da tanti particolari. Continuerò a seguire Daniele a lungo, sia pure
con molta discontinuità, come vedremo meglio nel terzo paragrafo, e un
elemento ricorrente risulterà quanto il ragazzo si affezioni ai compagni della
mamma e quanta speranza riponga ogni volta in ognuno di loro come
occasione per ricostruire una famiglia più o meno normale. Puntualmente,
purtroppo, questi rapporti finiscono, spesso in modo drammatico, e Daniele
reagisce con un peggioramento netto dei suoi comportamenti. Una notte di
ferragosto, dopo l’ennesimo violento litigio della madre con un compagno
con il quale stava da qualche mese, che aveva regalato al ragazzo una
bicicletta, un computer usato e un po’ di affetto, Daniele scapperà di casa
per un giorno e mezzo.
Questo desiderio di una figura maschile di riferimento è chiaro fin dalle
prime sedute con me. Durante un colloquio di restituzione,1 quando avevo
visto il figlio solo tre o quattro volte, la madre mi disse che Daniele aveva
disposto in camera sua le penne, le matite e pastelli colorati dentro barattoli
esattamente come facevo io nel mio studio.
Era, tra l’altro, un bravissimo disegnatore. In seduta, mentre
chiacchierava con me, mi faceva dei disegni bellissimi e altri me ne portava
da casa.
Ottenuto rocambolescamente, un po’ per pietà un po’ per levarselo dai
piedi, il diploma di scuola secondaria di primo grado, si è iscritto al Liceo
Artistico, dove gli insegnanti lo trovavano bravissimo, ma dove lui, al
contrario, si comportava molto male. Durante il periodo dell’occupazione è
stato uno dei più agitati, segnalato dalla polizia e portato in questura per atti
vandalici. Ha fatto lunghe assenze immotivate. Ha tentato, di pomeriggio,
di svolgere un paio di lavori come meccanico e come operaio ed entrambe
le volte è stato accusato di furto e mandato a casa.
Nei periodi in cui non frequenta, va a letto tardissimo, a volte rincasando
non si sa da dove, e la mattina dorme fino a tardi. A scuola, di recente, ha
dato un pugno a una compagna dopo uno sciocco litigio e la ragazza è stata
portata al Pronto Soccorso. Dopo questo episodio, la professoressa di
italiano ha detto alla mamma che, se non si interviene con metodi drastici, il
ragazzo prenderà la strada della delinquenza.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Daniele è testardo; tende a boicottare le attività che gli vengono proposte e
finisce talvolta, più o meno volontariamente e consapevolmente, per
boicottare anche sé stesso. Ha improvvisi scatti d’ira che lo rendono
aggressivo. Non sopporta le prescrizioni e, quando l’ambiente gli propone
in modo rigido regole che non è in grado di rispettare, va in collera, litiga,
sfida, accusa per difendersi e può arrivare a diventare vendicativo.
Sono i sintomi tipici del Disturbo oppositivo provocatorio (stessa
denominazione utilizzata nell’ICD-10), che il DSM-5 colloca, insieme al
Disturbo della condotta (che vedremo qui di seguito), nella categoria
generale dei Disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli
impulsi e della condotta.
Come già accennato nel precedente capitolo, il DSM-5 e l’ICD-10
hanno, anche rispetto a questo disturbo, gruppi di criteri identici; tuttavia
nell’ICD-10 il Disturbo oppositivo provocatorio è considerato un sottotipo
del Disturbo della condotta.
Il Disturbo oppositivo provocatorio si caratterizza, dunque, per questo
comportamento ostile e negativistico che abbiamo visto bene nel caso di
Daniele. Per essere diagnosticato è necessario che i sintomi durino da
almeno 6 mesi e che l’anomalia sia causa di una compromissione
significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
Sfortunatamente, entrambi i criteri appaiano soddisfatti nel nostro caso.
La letteratura sottolinea anche che questo disturbo è spesso il precursore
del Disturbo della condotta (Cicchetti e Cohen, 1994; White, Moffit, Earls e
Robins, 1990; Wiesner et al., 2014), e purtroppo non sono certo che Daniele
rappresenterà un’eccezione a questa regola.
Il Disturbo della condotta (stessa denominazione utilizzata nell’ICD-10)
è il più grave tra i disturbi del comportamento, è piuttosto frequente (tasso
dal 2 a oltre il 10%, con una media del 4% e una netta prevalenza a favore
dei maschi; DSM-5, 2013) ed è, innanzitutto, caratterizzato dalla persistente
violazione dei diritti fondamentali degli altri o delle regole della società
nella quale il ragazzo vive (Rapaport e Ismond, 2000). Il nuovo
specificatore “Con emozioni prosociali limitate” inserito nel DSM-5 ha lo
scopo di fornire, nel modo più completo possibile, la compromissione dello
stato emotivo del soggetto con Disturbo della condotta (Colins e
Andershed, 2014; Deborde, Vanwalleghem Maury e Aitel, 2014).
I sintomi principali sono l’aggressività, spesso anche fisica, la
distruzione della proprietà, la frode, la menzogna e il furto (Stadler, 2014).
Tipicamente, si trovano in questi pazienti problemi che Lambruschi e
Muratori (2013) definiscono, in una prospettiva multifattoriale, come un
intreccio tra caratteristiche neurobiologiche, modalità educative, condizioni
ambientali e qualità dei legami di attaccamento. È inoltre frequente un
perdita del senso morale (Buonanno, 2013). In Daniele, abbiamo potuto
vedere la comparsa di alcuni sintomi specifici, anche se molti di questi sono
saltuari, come il fatto che fa il prepotente, dà inizio a collutazioni fisiche,
mente, trascorre fuori parte della notte e marina la scuola.
Il Disturbo della condotta può avere il suo esordio nella fanciullezza o
nell’adolescenza. Il tipo a esordio nella fanciullezza tende a essere più
grave e ad avere una prognosi peggiore. È prevista una specificazione di
gravità del disturbo su tre livelli (lieve, moderato e grave) in funzione della
quantità di sintomi presenti e dei danni che questi sintomi provocano agli
altri (per es., per una diagnosi di gravità è necessario che siano presenti, tra
i sintomi, violenze sessuali, crudeltà fisica o uso di armi e simili).
Anche se presentati diversamente, i criteri del DSM-5 e dell’ICD-10 per
il Disturbo della condotta sono identici; nell’ICD-10 inoltre sono
individuate diverse categorie di tale disturbo (Disturbo della condotta
limitato al contesto familiare, Disturbo della condotta con ridotta
socializzazione, Disturbo della condotta con socializzazione normale) che,
come accennato sopra, comprendono anche il Disturbo oppositivo
provocatorio. Le varie categorie utilizzate dall’ICD-10, quindi, permettono
di differenziare e specificare i contesti e gli ambiti entro cui i sintomi si
manifestano prevalentemente.
In letteratura si trova una frequente comorbilità tra il Disturbo della
condotta e il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (come abbiamo
avuto modo di vedere meglio nel precedente capitolo), il Disturbo specifico
dell’apprendimento e i Disturbi della comunicazione, talvolta anche la
Disabilità intellettiva (di grado Lieve), i Disturbi correlati a sostanze e i
Disturbi depressivi, disturbo bipolare e disturbi correlati (House, 1991;
McGarvey, Canterbury e White, 1996; Lambruschi e Fabbri, 2003; Liu, Ali,
Rosychuk e Newton, 2014). Quest’ultimo punto è particolarmente delicato
perché pone anche un problema di diagnosi differenziale. Può a volte
succedere, infatti, che in alcuni disturbi dell’umore (e in particolare nel
Disturbo depressivo maggiore del bambino), l’umore depresso produca
irritabilità, agitazione e comportamenti aggressivi.
Nel caso di Daniele, invece, abbiamo visto una situazione tipica nella
quale un Disturbo oppositivo provocatorio rischia di evolvere in un
Disturbo della condotta e convive con difficoltà scolastiche evidenti e un
importante calo del tono dell’umore, per il quale è forse possibile una
diagnosi aggiuntiva di Disturbo depressivo persistente.2 La letteratura
sottolinea inoltre un aspetto che, nel caso di Daniele, appare con particolare
drammaticità: questi Disturbi del comportamento sono spesso associati a
problemi ambientali, familiari e sociali (Cicchetti e Cohen, 1994;
Satterfield, Hope e Schell, 1997; Capo, 2004; Freeze, Burke e Vorster,
2014; Yasui, Hipwell, Stepp e Keenan, 2014; Logue, Logue, Kaufmann e
Belcher, 2014).
Esiste un’ulteriore categoria diagnostica, che non si applica al caso di
Daniele, ma che merita di essere citata per la sua frequenza (si parla di una
prevalenza dal 5 fino al 20%). Si tratta dei Disturbi dell’adattamento con
alterazione della condotta, presente anche nell’ICD-10 con il nome di
Sindrome da disadattamento con prevalente disturbo della condotta. I
Disturbi dell’adattamento, come vedremo meglio nelle due sezioni
successive dedicate all’ansia e alla depressione, consistono in una reazione
di disadattamento che si manifesta entro 3 mesi dall’esordio di un evento
stressante, come la separazione dei genitori o una malattia.
Nell’ICD-10 si parla di Sindromi da disadattamento e sono comprese nella
sezione dedicata alle Sindromi nevrotiche legate a stress e somatoformi; i
criteri diagnostici sono praticamente identici a quelli del DSM-5.
Nel caso specifico dei Disturbi dell’adattamento con alterazione della
condotta si possono riscontrare sintomi simili a quelli del Disturbo della
condotta (violazione delle regole e dei diritti degli altri), ma, a differenza
dei disturbi più strutturati, questo tende ad avere una durata più breve e,
pertanto, una prognosi migliore proprio perché, per definizione, è causato
da un evento stressante il cui effetto, di solito, si attenua nel tempo.
La prognosi del Disturbo della condotta propriamente detto, invece, è
molto più complessa. Dipende, tra l’altro, dall’età di esordio (peggiore,
come abbiamo già visto, nel caso di esordio più precoce), dall’intelligenza
(peggiore nel caso, piuttosto frequente, di deficit intellettivi), dalla gravità e
dalla compromissione emotiva. È, inoltre, influenzata negativamente da
situazioni ambientali particolarmente difficili e positivamente dalla
possibilità di trovare, dentro o fuori dalla famiglia, figure significative di
riferimento e di identificazione adeguata (Freeze, Burke e Vorster, 2014).
Nei casi più lievi, si può avere una remissione quasi completa in età
adulta: a volte resta una propensione a condurre una vita un po’ sregolata
sia dal punto di vista familiare siada quello lavorativo. Nei casi più gravi, il
disturbo può diventare cronico o sfociare nel Disturbo antisociale di
personalità o, più raramente, nel Disturbo borderline di personalità.3
Paciello e Fida (2013) tracciano un quadro complesso delle possibili
traiettorie evolutive del disturbo, dai primi comportamenti oppositivi e di
violazione delle regole fino, nei casi più complessi, a condotte criminali
propriamente dette nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO E


PROGNOSI
Durante una seduta difficile da dimenticare, Daniele, quasi all’improvviso,
subito dopo avermi parlato di un litigio violento con l’insegnante di
educazione tecnica, per il quale aveva rischiato una sospensione, prese a
raccontarmi di un ricordo che sembrava essergli ritornato in mente
all’improvviso. La gioia di quelle rare volte in cui il padre tornava a casa
dal lavoro di buon umore e aveva voglia di farlo giocare. Alcuni giochi che
facevano insieme, persino il profumo della sua tuta da lavoro unta di
grasso… Per tutto il resto della seduta, poi, mi parlò di questa nostalgia del
padre (o, meglio, di quei pochissimi momenti felici), che mi parve dolorosa,
quasi lancinante.
Molto tempo dopo, parlandomi di tutt’altro (di una ragazza con la quale
aveva litigato trattandola male, che poi aveva lasciato e con la quale ora
avrebbe avuto voglia di ricucire, se non altro per poter di nuovo approfittare
della sua disponibilità dal punto di vista sessuale), mi dirà:
“A volte i miei amici mi chiedono perché vado dallo psicologo”.
Già questa osservazione, rivolta in fondo più a sé stesso che a me, questo
modo di esprimersi, di guardarsi dentro, di non limitarsi a raccontarmi fatti,
ma anche idee e emozioni, sono importantissimi in un ragazzino di solito
abituato a esprimere tutto attraverso comportamenti piuttosto che pensieri e
parole.
“E tu cosa rispondi?”.
“A loro non rispondo, però ci penso. Con i miei amici posso parlare.
Posso raccontare di Alessia e di come ci siamo lasciati male… Però loro mi
danno consigli, oppure mi parlano delle loro ragazze…”.
“E io?”.
“Tu invece mi stai a sentire”.
Aggiungerà, dopo una lunga esitazione:
“È diverso…”.
Credo che risieda in questa diversità un punto importante e delicato del
processo terapeutico di cambiamento.
Importante perché è la base, il prerequisito, probabilmente di qualunque
psicoterapia, ma certamente di questa. Anzi: ho avuto spesso la sensazione
che la possibilità di offrirmi come qualcuno che lo ascoltava, che era
interessato alle sue storie e ai suoi problemi, che gli dava comprensione
prima che giudizi, fosse in molte sedute l’unica forma di aiuto che riuscissi
a dare a Daniele. Si trattava, comunque, di un aiuto fondamentale. Daniele
imparava così a guardarsi dentro, anziché fare affidamento solo su ciò che
accadeva fuori di lui. Imparava che si può pensare e parlare prima di
passare all’azione. Imparava che era anche per lui possibile incontrare
persone alle quali stava a cuore quello che diceva, capaci di non farsi
prendere dall’emotività incontrollata, capaci di sospendere il giudizio,
anziché cominciare a dargli bastonate (anche se metaforiche) prima ancora
che lui avesse finito di raccontare quello che aveva fatto. Questo è stato,
probabilmente, terapeutico in sé e ha inoltre permesso di lavorare con
strumenti terapeutici più definiti come il modellamento (vedi riquadro alla
pagina seguente) e l’apprendimento strutturato di abilità sociali. Il
modellamento consiste, in genere, nell’apprendimento di abilità nuove
attraverso l’osservazione di un modello e la riproduzione dei suoi
comportamenti. Nel caso specifico, ero io ad avere una funzione di modello
ed è molto interessante notare che la cosa è avvenuta prima di essere stata
esplicitamente programmata. Abbiamo già visto, a questo proposito, come
dopo poche sedute dedicate all’osservazione del ragazzo e alla
formulazione della diagnosi, Daniele già tendesse spontaneamente a imitare
certi miei comportamenti (come il modo di tenere le matite e i colori sulla
scrivania). I nuovi comportamenti che possono essere così appresi sono
tantissimi e, nei casi di disturbi del comportamento, i più importanti sono
probabilmente quelli connessi alle abilità comunicative, sociali e
interpersonali. Attraverso tecniche semistrutturate, che partono da vere e
proprie analisi del compito , si può allora insegnare al paziente, per
esempio, a esprimere una rimostranza, a prepararsi a una conversazione
stressante, ad affrontare le accuse, ad ascoltare, a chiedere aiuto, a
riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, a trovare alternative
all’aggressività, a gestire lo stress, a padroneggiare metodi di autocontrollo
, autoregolazione, pianificazione e problem solving (Polidori et al.,
2014). Per ottenere questo si possono usare prescrizioni comportamentali
, ovviamente associate a un uso corretto del rinforzamento sociale ,
modellaggio e procedure di role playing (vedi riquadro alla pagina
seguente) (McGinnis e Goldstein, 1986; Grimm e Mackowiak, 2006) con
un occhio sempre attento agli aspetti cognitivi ed emozionali (Lambruschi e
Fabbri, 2004).

pag. 83

pag. 136

pag. 328

pag. 98

pag. 13

pag. 6

MODELLAMENTO
Nel presente capitolo, la madre di Daniele dice allo psicologo che,
dopo qualche seduta, suo figlio ha cominciato a disporre in camera
sua le matite colorate nello stesso modo in cui lo psicologo le tiene
sulla scrivania. L’allievo motivato, che ha instaurato una relazione
significativa con il suo insegnante, tende a comportarsi come lui, a
copiare certi suoi modi di fare, a prenderlo a modello e questo, tra
l’altro, favorisce molto il processo di apprendimento.
I ragazzini, se i loro genitori glielo permettono, cercano di vestirsi
come i loro idoli, per esempio musicali, ne imitano la postura e il
linguaggio.
I maestri di tennis e di sci, soprattutto se hanno a che fare con bambini
piccoli, danno poche spiegazioni ai loro allievi e si limitano a colpire
correttamente la palla o scendere a spazzaneve sul campo scuola.
Dopo un po’, i bambini colpiscono la palla con un movimento simile
a quello del maestro, oppure scendono a spazzaneve quasi come lui. A
un occhio esperto è possibile persino riconoscere, da come gioca a
tennis un bambino, chi è il suo maestro.
I bambini normodotati, di solito, non ricevono un’istruzione formale
per imparare a vestirsi, a lavarsi le mani e, più tardi, ad andare a fare
piccoli acquisti da soli. Guardano il papà, la mamma o un fratello
maggiore, cercano di fare come loro e alla fine imparano.
Questo significa che noi ci impadroniamo di molte abilità e
riproduciamo molti comportamenti osservando un modello. Questo
modo di acquisire nuovi comportamenti e competenze si chiama
“modellamento” (o modeling). Il modellamento può dunque essere
definito come una modalità di apprendimento basata sull’osservazione
di un modello e sull’imitazione del suo comportamento.
Il modellamento diventa una tecnica di intervento quando è usata in
modo esplicito per produrre nuovi apprendimenti o nuove abilità,
come nel caso di Maurizia, che nel capitolo 5 migliora le sue abilità
sociali e si avvicina al gioco simbolico. Nel capitolo 15 il terapeuta
usa una forma di modellamento simbolico per insegnare a Eleonora ad
autocontrollare l’ansia. Nel capitolo 17 Alberto prende confidenza
con uno stimolo ansiogeno e responsabile di comportamenti
compulsivi osservando il terapeuta che gioca con una goccia di
mercurio. Nel capitolo 18 lo psicologo parla molto a Marta con tono
calmo e rilassato cercando di portare la bambina a emettere risposte
verbali simili.
Anche quando non diventa una tecnica esplicita, il modellamento può
ispirare molti interventi. Lo possiamo vedere nel capitolo 7, con la
maestra di Andrea: lo psicologo, nonostante alcune difficoltà, cerca di
mantenere un comportamento collaborativo e non aggressivo per
evitare di trasmettere un modello di comportamento inadeguato.
Qualcosa di simile si trova anche nel capitolo 14, quando lo
psicoterapeuta di Chicco cerca di evitare di porsi come un modello
ansioso mentre il bambino si sforza di allontanarsi dalla madre.

ROLE PLAYING
Il role playing è una metodologia terapeutica nella quale il bambino
prova (un po’ come farebbe un attore) alcuni comportamenti in modo
da essere poi in grado di metterli in atto più efficacemente quando si
troverà in situazioni reali. Il role playing può essere usato
direttamente dal terapeuta e in questo caso viene svolto nel suo studio,
ma si presta bene anche a lavori di gruppo nei quali i bambini
interpretano ruoli diversi in risposta a differenti circostanze: un
bambino, per esempio, può simulare una situazione sociale positiva
nella quale chiede la collaborazione di un compagno e il compagno, in
risposta, può simulare il modo migliore per dare la collaborazione
richiesta. Le interazioni sociali da simulare durante un role playing
possono anche essere negative e, in questo modo, possono favorire
l’acquisizione di abilità di autocontrollo e di gestione dell’ansia e
dell’aggressività. Un bambino può, per esempio, simulare una
provocazione nei confronti del compagno e il compagno può
esercitarsi nel rispondere alla provocazione nel modo migliore, senza
comportamenti impulsivi, ma riflettendo prima sulle possibili
alternative per comporre il conflitto. I vantaggi di questo metodo
consistono essenzialmente nel fatto che è più facile allenarsi e provare
a fare qualcosa quando la situazione è controllata e c’è un supervisore
che ci aiuta, piuttosto che trovarsi senza esperienza in una situazione
reale difficile.
Il role playing è particolarmente indicato per insegnare abilità sociali,
per esempio a bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo (come
si può vedere nel capitolo 5); per favorire l’acquisizione della
capacità di fronteggiare le situazioni temute nei Disturbi d’ansia
(come si può vedere nei capitoli 16 e 17); per sviluppare
comportamenti più adeguati a ricevere gratificazioni dall’ambiente nei
Disturbi depressivi (come si può vedere nel capitolo 23, quando
Silvia cerca di migliorare il suo tono di voce quando deve telefonare a
un’amica o invitarla a casa).

Nel caso di Daniele, come in molti casi analoghi, è stato molto importante
anche un parallelo lavoro sulla madre. In letteratura sono descritte le
modalità educative e comunicative dei genitori di ragazzi con Disturbo
oppositivo provocatorio e Disturbo della condotta (Rutter, 1995; Speranza,
2001a). Una caratteristica fondamentale di queste modalità è l’incoerenza.
A volte il genitore assume un atteggiamento passivo e sottomesso ai
capricci, alle ire e alle prepotenze del figlio. Altre volte, invece, si lascia
andare a un’aggressività esagerata e fuori controllo fino ad arrivare a un
rifiuto esplicito. La relazione con il figlio può passare in modo improvviso,
senza un’apparente giustificazione razionale, da un affetto senza freni
(ricordo di aver sorpreso più di una volta la mamma a sbaciucchiare
Daniele nel corridoio davanti al mio studio, mentre aspettava il suo turno,
come se fosse stato un bambino di quattro anni) a un’indifferenza glaciale
(come quando gli disse, di fronte a me, per l’ennesima nota che aveva preso
a scuola: “Oggi te ne vai da casa. Ti mando a vivere da tuo padre, se ti vorrà
prendere. Altrimenti ti arrangi”).
È chiaro che comportamenti così incoerenti, imprevedibili e caotici, a
volte francamente crudeli, sono molto negativi per il ragazzo ed è, quindi,
necessario cercare di modificarli. Discutevo di questo con la madre,
cercando di farle comprendere l’irrazionalità e i pericoli di queste sue
modalità relazionali e cercavamo insieme modi diversi e più equilibrati di
interagire con Daniele (Beaver, 1996). Dal momento che anche la madre era
in psicoterapia, ho parlato più volte con la psicologa che la seguiva, per
tentare, nei limiti del possibile, di lavorare su obiettivi comuni o, per lo
meno, per evitare di creare situazioni di contrasto tra ciò che avveniva nelle
sue sedute psicoterapeutiche e nei colloqui con me.
Alcune ricerche hanno messo in luce l’efficacia di alcuni programmi di
intervento, come il Parent-Child Interaction Therapy4 (Nixon, Sweeney e
Touyz, 2003; Ridgeway, 2008) e il Family-based Treatment for
Oppositional Behavior5 (Hughes e Obeldobel, 2007), che prevedono
proprio un lavoro mirato sulle modalità di interazione bambino-genitore e
di parent training (Muratori, Pezzica e Lambruschi, 2013). Molto
interessante, per il forte contenuto applicativo e il fatto che l’intervento
psicoterapeutico avvenga tutto all’interno di piccoli gruppi di bambini con
Disturbo oppositivo provocatorio, è il Power Coping Program di Lochman
(Lochman e Wells, 2003, 2004; Lochman, Wells e Murray, 2007; Herman et
al., 2012; Lochman et al., 2014). In questi gruppi molto strutturati secondo
le metodiche classiche dell’approccio cognitivo-comportamentale, si lavora
sulla condivisione degli obiettivi, sulla strutturazione delle regole (con l’uso
di cartelloni e token economy), sulla consapevolezza emotiva e la capacità
di fronteggiare la rabbia e aumentare l’autocontrollo (anche con forme
particolari di role playing attuate attraverso giochi con i burattini),
sull’autoistruzione, sul rilassamento e sulle abilità sociali e interpersonali. I
Coping Power Program prevedono anche un lavoro specifico con i genitori
(Lochman, Wells e Lenhart, 2012; Lochman, Muratori, Ruglioni e Polidori,
2013).
Sfortunatamente, Daniele frequentava il mio studio in modo discontinuo.
Questo era probabilmente in parte causato dal suo disturbo e dalla caotica
situazione familiare, ma dipendeva sicuramente in parte anche da me, che
non riuscivo a dargli sufficienti motivi e opportunità per fare un lavoro più
sistematico. Temo che questo rappresenti, al di là dei fattori di rischio
classici che si trovano in letteratura a proposito dei disturbi del
comportamento, un ulteriore motivo di pericolo, dal punto di vista
prognostico. La remissione, almeno parziale, di un Disturbo oppositivo
provocatorio oppure la sua evoluzione in un più grave Disturbo della
condotta dipendono, sicuramente, anche dalle opportunità che l’ambiente in
genere (e quindi non soltanto la famiglia, ma anche lo psicologo, i servizi
sociali, le strutture territoriali di rete, l’oratorio o un centro di aggregazione)
riesce a offrire al ragazzo (Stainback e Stainback, 1993).
Poche settimane fa Daniele è arrivato da me, dopo mesi che non si
faceva vedere, con una tuta del Parma nuova fiammante. Era fuori di sé
dalla gioia. Altre volte l’ho visto fuori di sé,6 purtroppo, ma per altri
sentimenti. Quel giorno invece mi ha mostrato un giornaletto sportivo
locale dove c’era il suo nome e la sua foto sotto il titolo “I top undici della
Provincia”. C’era disegnato un campo di calcio con undici nomi e il suo
figurava al posto del miglior terzino. Un osservatore del Parma lo aveva
notato, aveva preso contatti con il suo “mister”, lo aveva convocato per un
piccolo torneo estivo, gli aveva regalato una sacca, due completi e due tute
e aveva poi parlato con la madre della possibilità di inserirlo in un loro
vivaio. Il suo sedicesimo compleanno era vicino e la madre l’aveva
festeggiato invitando a sorpresa alcuni suoi amici e facendogli trovare una
torta a forma di campo di calcio.
Non ho ancora chiaro come finirà la storia di Daniele. Ho invece
chiarissimo, purtroppo, quello che sostiene la letteratura sulla prognosi di
questi disturbi, gli alti e bassi di umore della madre, il rischio che, se anche
gli si presenterà un’occasione con il Parma, la madre non lo mandi per non
separarsi da lui, la sua discontinuità nel venire da me e la mia inadeguatezza
nell’accoglierlo nel modo migliore quando viene e nell’offrirgli tutto lo
spazio di cui avrebbe bisogno. Però l’identificazione con un “mister”7
(come lo chiama lui) che gli sappia fornire modelli di comportamento
adeguati e ragionevoli e un po’ di fortuna nel trovare la sua strada
potrebbero fare molto, forse anche “il miracolo”. Dico questo perché, al di
là delle teorie e delle tecniche, sono spesso l’ambiente e le opportunità che
l’ambiente può offrire e dunque, in ultima analisi, anche un po’ di fortuna,
ciò che alla fine può fare la differenza.
Così, dopo avergli offerto e continuando a offrirgli il mio aiuto, dopo
aver programmato incontri periodici con la madre ed essermi mille volte
rammaricato di non riuscire mai a parlare con il padre, dopo aver preso
contatti con i suoi insegnanti e i servizi sociali, adesso tengo incrociate le
dita.
1 Vedi capitolo 5, nota 4.
2 Vedi capitolo 24.
3 Vedi capitolo 16, paragrafo “Considerazioni teoriche e inquadramento diagnostico”.
4 Il Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) è un trattamento comportamentale che pone l’accento
sul miglioramento delle qualità della relazione e sul cambiamento dei modelli di interazione genitore-
figlio. Tale programma si è mostrato efficace nel ridurre i comportamenti inappropriati sia del
bambino che dei genitori e lo stress genitoriale e nell’incrementare la frequenza di comportamenti
prosociali di entrambi.
5 Il Family-based Treatment for Oppositional Behavior (HNC) consiste in un programma di
trattamento per bambini di età compresa fra i tre e gli otto anni che presentano comportamenti
pericolosi e/o oppositivi. Alla base del trattamento vi è la convinzione che il comportamento
inappropriato e non-conforme del bambino sia mantenuto da modalità di interazione famigliare
maladattativi, che rinforzano i comportamenti coercitivi. Il programma HNC, che ha una breve
durata e si propone di utilizzare brevi e chiare istruzioni, prevede un modo specifico e concreto per
ridurre il ciclo oppressivo di interazione negativa attraverso strategie di rinforzo (ricompense e
attenzione), estinzione (i comportamenti negativi vengono ignorati) e punizione (per es., il time-out
per alcuni comportamenti particolarmente negativi o pericolosi).
6 Con pazienti come Daniele a volte può essere importante un lavoro sulle abilità sociali, con
particolare attenzione al riconoscimento e alla conseguente gestione della rabbia (Hornsveld, Nijman,
Hollin e Kraaimaat, 2006).
7 Abbiamo già potuto sottolineare raccontando la storia di Lorenzo (vedi cap. 11) l’importanza del
ruolo che può giocare lo sport nell’evoluzione dei disturbi del comportamento. Alcuni studi hanno
messo in luce come sport quali il karate (Palermo et al., 2006), le arti marziali o l’hip-hop (Tyson,
2004; Pasagiannis, 2008) possano influire positivamente sulle capacità esecutive e di
autoregolazione, rappresentare un fattore protettivo rispetto a future condotte criminali e
incrementare la frequenza delle condotte affiliative. Più in generale, alcune esperienze di campi estivi
rivolti a bambini e adolescenti con disturbi di comportamento mostrano come la strutturazione di
attività sportive, ludiche e ricreative possa incrementare le abilità sociali, l’autostima e il controllo
dei comportamenti inadeguati (Sibley et al., 2011).
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 13

La storia di Giulio Del suo disturbo


esternalizzato e dell’impegno della
sua mamma
Fabio Celi, Daniela Fontana

IL PRIMO COLLOQUIO CON LA MAMMA

Parlare di Giulio è probabilmente raccontare della forza e della tenacia che


solo una madre riesce qualche volta ad avere nei confronti del proprio
figlio. Perché con Giulio, come si capirà dalla sua storia, di forza e di
tenacia ce n’è voluta tanta, e tanta ce ne vorrà ancora in futuro.
La mamma viene da sola al primo colloquio e sarà prevalentemente
con lei che lavorerò; il papà è troppo impegnato con il lavoro ma
soprattutto, lo capirò con il passare del tempo, ha sempre faticato molto a
guardare in faccia il problema del figlio, a comprenderlo. Forse tutto questo
lo fa stare troppo male.

pag. 49

Giulio ha otto anni e, mai come in questo caso, si può affermare che i
problemi per lui siano iniziati da subito:
“Dopo il parto lo hanno dimesso dall’ospedale un giorno prima”, mi
racconta la mamma, “perché il suo pianto era insopportabile, e le infermiere
del nido lo chiamavano Pavarotti”.
I giorni e i mesi successivi alla nascita non sono andati meglio.
“Giulio piangeva in continuazione, non dormiva mai, con mio marito
passavamo ore in macchina a vagare per le strade perché solo così
perlomeno smetteva di piangere e noi riuscivamo un po’ a riposarci invece
che preoccuparci delle lamentele dei condomini”.
Un’osservazione, prima di lasciare di nuovo la parola alla mamma.
Quando la signora dice “non dormiva mai” non sta raccontando una bugia,
né tanto meno sta cercando di ingannare il terapeuta. Eppure è evidente che
non è possibile che un bambino non dorma mai. Cosa sta succedendo,
dunque? Una cosa molto semplice, e spesso molto importante da mettere in
luce in una relazione terapeutica. Sta succedendo che questa è la narrazione
della madre. Narrazione, prima di tutto, a se stessa: per questo nessuno
potrebbe mai sostenere che la mamma mente. Non mente, in realtà, ma se la
racconta così, come dicono i cognitivisti (Veglia, 1999; Lambruschi, 2014).
Il suo dialogo interno, che riflette il modo con cui lei vede il bambino, è
questo: Giulio non dorme mai. Vedremo, in questo caso meglio che in altri,
come uno dei grandi compiti della psicoterapia sia cercare di modificare la
narrazione. Se un giorno la madre riuscirà a dire di suo figlio che è un
bambino che dorme poco (invece che mai), che spesso (invece che sempre)
disobbedisce, che è molto difficile (invece che impossibile) fargli fare i
compiti, avremo già raggiunto un risultato importante.
A sette mesi i genitori, su consiglio del pediatra, hanno iniziato a dargli
il Noprom (uno sciroppo che viene somministrato anche a bambini molto
piccoli per favorire l’induzione del sonno), ma con pochi risultati. Giulio
dormiva al massimo due ore di seguito e poi ricominciava a piangere. Un
altro dato anamnestico interessante è che il bambino ha iniziato a parlare
molto in ritardo e fino a circa tre anni, per farsi capire, faceva gesti o versi
approssimativamente onomatopeici. Alla scuola dell’infanzia non lo
capivano. “È sempre stato un bambino strano, diverso dai compagni. Non
giocava mai con nessun giocattolo…”.1
Cerco di empatizzare con la sofferenza della mamma e le dico che posso
immaginare quanto quei primi mesi siano stati duri per lei. È a questo punto
che crolla: con gli occhi lucidi, e facendo chiaramente un enorme sforzo di
autocontrollo per non cedere al pianto, mi dice che la cosa che la fa stare
più male, ripensando a quei periodi, è stato fare i conti con una realtà, ma
soprattutto con delle emozioni che mai si sarebbe immaginata di poter
vivere e provare nei confronti del suo primo figlio. Continua dicendomi del
disagio che spesso le capitava di avvertire quando si trovava a parlare con
altre neomamme che, sognanti, raccontavano di quanto fosse meravigliosa
l’esperienza della maternità, mentre lei, pensando al suo piccolo bambino,
riusciva solo a provare angoscia e smarrimento. Cosa aveva Giulio che non
andava? Perché sembrava sempre e continuamente animato da un disagio e
da un’irrequietezza che non lo lasciavano mai? Perché non poteva essere
come tutti gli altri bambini? Questo si chiedeva in continuazione durante
quei mesi.
La situazione, passato il primo anno di vita, non migliora. È per questo
che a due anni Giulio viene sottoposto a una valutazione neuropsichiatrica
anche su consiglio del pediatra. La valutazione ipotizza che i sintomi
manifestati da Giulio potrebbero essere i prodromi di un disturbo del
comportamento, previsione che purtroppo si rivelerà esatta, e si conclude
con il consiglio di una terapia logopedica per i problemi legati allo sviluppo
del linguaggio. Le difficoltà del sonno e della gestione dell’alternanza
sonno-veglia, i pianti continui e la difficoltà a calmarsi, insieme con
irregolarità nell’alimentazione (queste ultime, peraltro, assenti
nell’anamnesi di Giulio) sono spesso indicatori di un particolare disturbo
dello sviluppo che si manifesta nei primi tre anni di vita. Si tratta del
cosiddetto “disturbo della regolazione” (Ammaniti, 2001) e rappresenta
spesso un precursore del Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e dei
Disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della
condotta.
Attraverso una serie di domande guidate continuo a raccogliere la storia del
bambino. Quando Giulio ha circa tre anni la mamma rimane nuovamente
incinta, “per errore”, come sottolinea durante la seduta: il terrore che anche
il secondo bambino possa essere come Giulio getta ombre e angoscia
durante tutto il periodo della gravidanza. Nasce invece Viola, una bambina
tutt’altro che problematica. Racconta la mamma a questo proposito:
“A volte, non sentendola per ore, correvo a controllare che stesse bene,
che fosse ancora viva. Non mi sembrava possibile tanta pace e tranquillità”.
Giulio prende malissimo l’arrivo della sorellina, non tollera che la mamma
la tenga in braccio, tenta spesso di farle del male, le fa continui dispetti.
L’arrivo di Viola, se da un lato dunque rappresenta un magnifico
imprevisto, dall’altro complica ulteriormente la situazione, visto il difficile
rapporto con il fratello che costringe la mamma e il papà a non perdere di
vista neppure per un attimo i due bambini quando sono assieme e a dedicare
la maggior
parte delle attenzioni a Giulio:
“Viola è praticamente cresciuta da sola. Se la vedesse adesso che ha
cinque anni, sembra una donnina e poi ha grande pazienza con il fratello,
con tutto quello che ha dovuto subire da lui prima o poi esploderà…”.
Vado avanti nella raccolta di informazioni. Giulio ha poche amicizie. È
poco integrato nel gruppo dei coetanei e tende a preferire l’adulto per
giocare. “Peccato”, commenta la madre con molta tristezza, “perché Giulio
sareb-
be spiritoso e divertente, ma poi sfinisce, è immaturo, sta troppo
addosso, non rispetta le regole. È per questo che, alla fine, non riesce a
integrarsi e a giocare con gli altri bambini”.
Un esempio significativo di tutto questo è che quando gioca a calcio è
capace di prendere il pallone e andare via da solo.
“Poi non smette mai di parlare, risponde senza riflettere…”: c’è tanta
stanchezza dietro queste parole.
Mentre la mamma racconta delle difficoltà del figlio, mi chiedo come
mai fino a quel momento della seduta abbia parlato praticamente solo di lei,
del marito e di Viola. Mai di una nonna, di un nonno o di qualche altro
familiare. Le esplicito dunque questo mio pensiero, e non appena ho
terminato la frase avverto forte la sensazione di aver toccato un nervo
scoperto, di aver sollevato un argomento doloroso. Lo capisco da come mi
guarda, dagli occhi che ancora una volta tornano a inumidirsi e dal tempo
che impiega prima di rispondermi:
“La mia famiglia e quella di mio marito ci hanno abbandonato. Giulio
non lo vogliono vedere se non in nostra presenza, a casa loro non può
andare, è troppo difficile e faticoso occuparsi di lui”.
C’è rassegnazione, tristezza, ma non rabbia nelle sue parole. È come se
in qualche modo li capisse, li giustificasse. Scopro poi che, oltre ad avere
pochissimi rapporti con i parenti, con il passare del tempo si sono ridotte
anche le occasioni di contatti sociali:
“Non possiamo portarlo da nessuna parte. Pensi che quando aveva tre
anni siamo andati in pizzeria per festeggiare il compleanno di mio marito,
Giulio si è spalmato la pizza in testa e ha continuato a urlare fino a che non
siamo usciti dal locale. Giulio è un bambino che ti mette costantemente alla
prova, ti sfinisce con il suo comportamento, ti porta via tutte le forze e forse
anche la voglia di stargli accanto”.
Le chiedo se, prima di venire da me, hanno mai pensato di farsi aiutare
da qualcuno nella gestione del bambino: è a questo punto che “pare”
ricordarsi che Giulio dai cinque ai sette anni è stato seguito da uno
psicoterapeuta, ma che poi il percorso è stato interrotto perché per il
bambino era troppo faticoso.
“Il dottore diceva che non era il bambino ad avere problemi, ma che ero
io che con la mia ansia lo rendevo nervoso, lo facevo stare male”, mi
racconta subito dopo, facendomi capire che forse ci sono stati altri motivi
per l’interruzione di questa terapia. Stiamo toccando qui un punto molto
importante di questo caso, che assume però anche un significato più
generale. Potremmo domandarci: il terapeuta aveva ragione o torto a
sostenere che era l’ansia della madre a rendere nervoso il bambino? Sul
piano teorico aveva quasi certamente torto: l’ansia di un genitore può
produrre alcune difficoltà emotive in un figlio o accentuare difficoltà
emotive già presenti, ma non può essere la causa di un disturbo così
strutturato e grave. E poi le infermiere del nido chiamavano Giulio
“Pavarotti” due giorni dopo il parto per l’intensità dei suoi pianti disperati e
decisero di mandarlo a casa in anticipo perché metteva a soqquadro tutto il
reparto! È difficile pensare che una sintomatologia così precoce e così
importante possa essere stata determinata dal comportamento di una
mamma.
Ma la questione è ancora più rilevante dal punto di vista pratico. A cosa
serve colpevolizzare un genitore? La mamma fa a questo proposito
un’osservazione illuminante, che terrò bene a mente e della quale farò
tesoro per programmare il mio interevento:
“Tanti specialisti, tante teorie, ma mai nessuno che ci abbia detto cosa
fare”.
Ripeto dunque la domanda: a cosa serve colpevolizzare un genitore? Può
forse avere un significato perturbarlo per poi orientarlo verso pensieri,
emozioni e comportamenti nuovi.2 Ma farlo star male e basta non serve
sicuramente a nulla, se non a produrre un inutile dolore e forse allontanarlo
da noi. Il focus di un intervento terapeutico con un genitore non deve
dunque essere il passato (cosa hai sbagliato, magari in modo irreparabile),
ma il futuro (cosa possiamo fare insieme, da domani, per affrontare la
situazione).
All’età di sette anni Giulio ha fatto un nuovo controllo neuropsichiatrico
e ha ricevuto una diagnosi di Disturbo oppositivo provocatorio con tratti di
impulsività. Sono state fornite alla famiglia numerose informazioni
sull’eziologia e sulle caratteristiche di questa patologia e, in
quell’occasione, è stato chiarito che l’ansia e il nervosismo della madre non
sono fattori causali.
Mi pare chiaro, dalle informazioni ricavate fino a quel momento, che la
gestione del bambino a casa è risultata sempre estremamente problematica,
ma mi chiedo: come sarà Giulio a scuola e fuori dal contesto familiare?
Sono rimasto piuttosto sorpreso quando la mamma mi ha raccontato di
come paradossalmente la scuola non rappresenti un problema per il figlio,
bensì “un’isola felice”, come lei stessa la definisce. Cerco di capire come
mai un luogo come la scuola, dove i bambini con problemi
comportamentali hanno spesso grandi difficoltà, sia per lui un luogo
relativamente sereno.
“È una scuola piccola, con pochi bambini e tante insegnanti. Con i
compagni però le cose non vanno, non passa giorno in cui Giulio non
racconti di aver litigato con qualcuno”.
Prendo accordi per incontrare Giulio. Le chiedo se ha già pensato a come
preparare il bambino e se pensa che ci saranno problemi a convincerlo a
venire da me. La mamma sembra sentire il bisogno di tranquillizzarmi
rispetto al primo approccio:
“Giulio è un bambino tutt’altro che timido, risulta subito simpatico, è
spiritoso, socievole, soprattutto quando non conosce bene le persone”.
Ma l’ottimismo della signora finisce qui:
“Darà il meglio di sé quando avrà preso un po’ di confidenza con la
situazione”.

COMINCIAMO A CONOSCERE GIULIO

Il primo approccio
Il bambino arriva sorridente e per niente intimorito al primo incontro. La
mamma ha ragione: ha uno sguardo vispo, un viso e un’espressione
sorridente, che inspira subito simpatia. In cartella trovo questi frettolosi
appunti delle mie prime impressioni: è collaborativo, orientato, empatico e
spiritoso. Si vede che è a suo agio, rimane senza problemi solo con me; è
lui a insistere con la mamma perché rimanga fuori. Si guarda attorno
incuriosito ma sempre rimanendo seduto e risponde alle mie domande,
anche se muove nervosamente le mani sulla scrivania. Gli chiedo qualcosa
sui suoi amici e sulla scuola e poi cerco di capire se ha idea del perché lo
abbiano portato qui da me. Mi risponde di no, ma a parte questo la seduta
sembra proseguire senza grandi difficoltà. Dopo 20 minuti prendo nota che
non si è ancora verificato nessun comportamento francamente
problematico. Provo a riproporgli la domanda di poco prima. Inizialmente
mi risponde che non lo sa e solo dopo qualche mia insistenza, mi dice:
“Forse per via di mia sorella, litighiamo sempre ma per colpa sua, però
poi la mamma se la prende con me”.
In realtà, come emergerà in modo drammatico successivamente, Giulio è
ben consapevole delle sue difficoltà:
“Sono uno zuccone, e il babbo fa bene a darmele”, mi dirà verso la fine
della seduta. È sicuramente una consapevolezza ancora immatura del suo
problema, ma che si costruisce giorno dopo giorno, come l’immagine che
ha di sé, formata su quella che gli altri gli rimandano: i nonni che non lo
vogliono a casa, i pochi amici con i quali litiga spesso e che lo escludono, i
continui rimproveri dei genitori. È così che, piano piano, anche per se
stesso, è diventato lo zuccone, il “combina guai”.

Le sedute successive

Nell’incontro successivo inizio somministrando a Giulio le prove MF e CP,3


che evidenziano una certa impulsività, ma anche insospettate abilità
strategiche. Inoltre provo a chiedere prestazioni di diverso tipo senza
esercitare un particolare controllo. Faccio altro, rispondo al telefono,
sistemo qualcosa al computer. Nonostante questi miei tentativi finalizzati a
produrre qualche sintomo per poi poterlo osservare, non emerge ancora
nessun comportamento negativo.
A questo secondo appuntamento Giulio è arrivato accompagnato da un
educatore che lo segue ormai da qualche anno. Colgo l’occasione per
parlare un po’ con lui. Mi racconta delle difficoltà iniziali che ha avuto con
il bambino e di come ora le cose vadano molto meglio:
“È come se avesse un lato oscuro. A volte, senza che ci siano chiare
ragioni, perde il controllo, cambia espressione, inizia a spaccare tutto quello
che trova a portata di mano; l’unico modo di gestirlo in quei momenti è
contenerlo fisicamente fino a che non si calma. Una crisi può arrivare a
durare quasi un’ora e in certi momenti mi verrebbe quasi voglia di chiamare
un esorcista”. Cerco di capire quanto frequenti siano queste crisi e se in
qualche modo sia riuscito a individuare dei fattori scatenanti ricorrenti o
delle situazioni che con più probabilità le provocano. Mi risponde che i
maggiori problemi di comportamento si manifestano in casa. Basta portarlo
in biblioteca o nell’appartamento dell’educatore perché le cose,
tendenzialmente, vadano meglio. Questo non significa che non possa avere,
anche in queste situazioni, i suoi momenti difficili e le sue crisi di
aggressività sia verso gli oggetti che verso le persone. Però sono più rare. A
casa, al contrario, i comportamenti oppositivi e provocatori anche gravi
sono praticamente all’ordine del giorno.
Trovo nell’educatore un interlocutore attento e competente. Cerco
dunque di fare un passo avanti e chiedo in modo più esplicito se sappia
dirmi quali sono gli antecedenti, cioè le situazione che più facilmente
scatenano l’oppositvità, e i conseguenti, cioè le circostanze che più
frequentemente si verificano subito dopo l’esplosione.4 Su un antecedente
tipico l’educatore non ha dubbi: è il limite. Per Giulio è difficilissimo
accettarlo. Ogni volta che si è costretti a proibirgli una cosa (basta anche un
“no” alla richiesta di un secondo gelato o di una seconda fetta di pizza) si
rischia di scatenare una crisi. La stessa cosa vale per l’imposizione di una
regola: a volte è sufficiente ricordargli che deve fare i compiti o chiedergli
di abbassare la voce in biblioteca per provocare un comportamento
inadeguato o un’esplosione di collera.
Ma le sicurezze dell’educatore si fermano qui. Mi fa infatti notare che
quello che ha appena detto degli antecedenti rappresenta solo una parte
della realtà. A volte è difficilissimo stabilire che cosa scateni i
comportamenti aggressivi più gravi. Ci sono momenti in cui Giulio sembra
perdere il controllo senza apparenti motivi, come se qualcosa di misterioso
gli succedesse dentro.
“Forse è un’ansia interna”, cerca di spiegarmi l’educatore. Ma è in
evidente difficoltà, come d’altra parte capita spesso con questi bambini che
sembrano come prendere fuoco per autocombustione.
Una difficoltà simile esiste anche per l’analisi delle conseguenze.
L’educatore non sembra consapevole di possibili rinforzatori che vengano
emessi in funzione di un comportamento inadeguato e in qualche modo lo
alimentino. La sola cosa che riesce a dirmi è che spesso Giulio, subito dopo
averne combinata una delle sue, si dice e appare sinceramente pentito;
chiede scusa; promette, in apparente buona fede, che non lo farà più. Ma,
come spesso succede nei pazienti con scarso controllo degli impulsi, non
sarà poi quasi mai in grado di mantenere queste promesse.
È solo al nostro terzo incontro che Giulio inizia a mostrare qualche
segno di oppositività e di irrequietezza. Io ho aperto la seduta cercando di
parlare dei suoi comportamenti postivi e negativi a casa e il bambino
“finalmente” comincia a produrre qualche sintomo.
Scrivo l’avverbio “finalmente” tra virgolette perché è ovvio che non
sono contento che manifesti un disturbo. Ho però bisogno di vederlo, questo
disturbo, per farmene un’idea di prima mano. Nella seduta precedente ho
cercato di provocare qualche sintomo attenuando il controllo e l’attenzione
su di lui e passando una buona parte della seduta a parlare con l’educatore,
ma non è bastato. Allora ho cambiato strategia, cercando di portarlo a
parlare dei suoi problemi a casa: e questo sembra attivarlo.
È entrato da quasi 10 minuti ed è irrequieto. Si alza. Poi non vuole più
sedersi. Allora cerco di non insistere troppo e faccio in modo di attirarlo
vicino alla scrivania proponendogli un disegno o un gioco. Accetta di
disegnare di malavoglia e, in una manciata di secondi, mi fa due personaggi
di Dragon Ball (fig. 13.1). Forse impiega più tempo a cancellare che a
disegnare. Il tratto è molto marcato e tutto è eseguito frettolosamente. Non
faccio in tempo a chiedergli di mettere il nome sul disegno che il bambino è
già di nuovo in piedi a gironzolare per il mio studio.
Figura 13.1 Il primo disegno di Giulio.

Cerco di riportare Giulio al compito di parlarmi dei suoi comportamenti


a casa. Sembra incuriosito, ma allo stesso tempo è come se provasse
fastidio a rispondere alla mia richiesta. Inizia una sorta di danza di
avvicinamento alla sedia che dura quasi 5 minuti, durante i quali continua a
guardarmi con aria di sfida; credo mi stia mettendo alla prova, che stia in
qualche modo misurando la mia capacità di mantenere la calma, ma
soprattutto di non cedergli.

Cominciamo a fare qualcosa insieme

Gli dico che se decide di sedersi potremo fare insieme un gioco di


“resistenza”, in realtà una mini-token economy : se riuscirà a rimanere
seduto per 15 minuti consecutivi potrà scaricare da Internet e stampare delle
immagini dei suoi personaggi preferiti. Giulio accetta e riesce a portare a
termine il compito, anche se sente il bisogno di chiedere in continuazione
quanto manca alla fine del gioco. Nella figura 13.2 si può vedere il foglio
dove ho improvvisato questa strategia che sta a metà tra una token economy
e un automonitoraggio , dal momento che è il bambino stesso a
disegnare i 15 cerchi e a mettere una crocetta per ogni minuto passato
seduto a parlare o a lavorare con me.

pag. 13

pag. 151

Figura 13.2 Scheda di automonitoraggio e mini-token improvvisata per favorire un comportamento


collaborativo per un quarto d’ora. Si può notare come, con il passare del tempo, le cose tendano a
diventare sempre più difficili: durante i primi 5 minuti le crocette sono eseguite in modo piuttosto
regolare, mentre le ultime sono talmente tirate via da non essere più neppure delle crocette, ma solo
dei segmenti eseguiti in modo molto veloce. Giulio, tuttavia, arriva alla fine del compito restando
seduto al suo posto.

Mentre svolgiamo questo esercizio di “resistenza”, torno all’argomento


con cui avevo tentato di aprire la seduta e gli chiedo di elencarmi i suoi
comportamenti positivi e negativi a casa. Lo faccio sia per valutare la
consapevolezza del bambino rispetto al suo comportamento, sia per iniziare
a farmi un’idea di possibili obiettivi da condividere con lui. Giulio
ricomincia a innervosirsi, dice che non lo sa, che lui è sempre bravo, che
vuole rifare il gioco dei minuti, come lo chiama lui, ma non parlare di
queste cose.
È evidente che tirar fuori i suoi aspetti negativi è molto difficile per lui.
Avverto il disagio, la fatica di rispondermi. Allora provo a chiedergli di
cominciare con le situazioni in cui si comporta bene. Piuttosto velocemente
mi dice: “Quando non mi picchio con mia sorella, quando sono bravo,
quando gioco calmo in camera mia, quando faccio i compiti”.
Lo rinforzo moltissimo per avermi risposto in modo così preciso, e gli
chiedo ora di essere altrettanto bravo nel provare a pensare a quando invece
non si comporta bene. Anche questa volta mi risponde subito, come se su
questo si sentisse ben preparato:
“Quando do i morsi a mia sorella, quando mi butto giù dalla bicicletta,
quando disobbedisco, quando salto sul letto, quando accendo e spengo la
luce”.
Sono molto contento e glielo comunico con enfasi. Gli dico che ha
lavorato bene e per questo gli permetto di stampare altre due immagini da
Internet. Tut ti siamo sensibili alle lodi e in genere ai rinforzatori, ma Giulio
sembra comunicarmi in questo momento l’impressione che lui abbia una
particolare sete di gratificazioni. Credo di capirlo da come mi guarda, con
un’espressione di gioia mista a sorpresa. Me lo richiede continuamente se
davvero è stato bravo, poi corre fuori a dirlo alla mamma e sembra al
settimo cielo quando esce dallo studio sventolando le stampe dei suoi
personaggi preferiti che si è guadagnato.
Tra la terza e la quarta seduta preparo il materiale necessario per fare un
lavoro di automonitoraggio un po’ meno improvvisato. Come si può vedere
nella figura 13.3, si tratta di una scheda dove, nella parte alta, è riportato il
compito (io ho intenzione di parlare per 10 minuti con la sua mamma e mi
aspetto che nel frattempo lui resti seduto al suo posto). La parte bassa serve
per dare il via al cronometro. Nel centro ci sono 10 smile sui quali Giulio
potrà mettere una crocetta al passare dei minuti se riesce a rimanere seduto
(gli proporrò intanto di fare un disegno). Quando avrà totalizzato 10
crocette potrà fare un videogioco al computer che mi sembra gli piaccia
molto. Si tratta de Il mostro della discarica: un gioco nel quale è necessaria
una certa dose di riflessione5 per poter procedere e che, tra l’altro, contiene
interessanti considerazioni ecologiche sullo smaltimento dei rifiuti.
Figura 13.3 Scheda di automonitoraggio preparata prima della seduta.

Mentre parlo con la mamma chiedendole se per la prossima settimana


possiamo fissare un appuntamento con lei e il marito, il bambino disegna.
Anche questa volta fa personaggi di Dragon Ball, ma il disegno, come si
può vedere nella figura 13.4, è più curato, quasi completamente colorato,
eseguito con più attenzione e con più lentezza.
Figura 13.4 Il secondo disegno di Giulio.

Poi la mamma esce, dico a Giulio che è stato bravo a lasciarmi parlare
tranquillamente per 10 minuti, che mi ha fatto un bellissimo disegno e che
dunque, secondo i patti, può divertirsi con Il mostro della discarica. Lo
lascio giocare tranquillamente un po’ e poi cerco di farlo riflettere su quello
che è successo. Lui ha rispettato un accordo e io l’ho premiato perché se lo
meritava. Non sembra avere difficoltà a seguirmi su questa strada. Gli dico
che mi piacerebbe che anche il papà e la mamma facessero a casa, con lui,
qualcosa di simile. Mi sembra che la proposta gli interessi. Per fare questo,
però, gli spiego che sarebbe utile sapere quali cose gli piacciono, oltre a Il
mostro della discarica. Gli propongo dunque di fare insieme a me un elenco
di queste cose che poi, se anche i genitori saranno d’accordo, potranno
servire per premiarlo quando se lo merita.
L’elenco dei rinforzatori che esce fuori da questa seduta è straordinario.
Da un punto di vista tecnico, il terapeuta ha bisogno di questo elenco,
soprattutto con i bambini esternalizzati, per poter poi scegliere rinforzatori
ragionevoli e non improponibili. Dunque, più l’elenco è lungo e meglio è,
perché la speranza è che insieme a desideri irrealizzabili se ne trovino anche
di ragionevoli che possono essere usati senza troppa spesa e senza troppe
complicazioni. Ma qui, quello che viene fuori non è solo un menu di
rinforzatori, come talvolta i comportamentismi chiamano questi elenchi.
Qui viene fuori Giulio!
Viene fuori, come un torrente in piena, tutta la sua incapacità di
controllarsi e pianificare, ma anche la sua gioia di vivere, la sua esplosiva
vitalità.
Il gioco gli piace e gli riesce facile. E comincia senza risparmio:
“Duecento biciclette!”.
“Grande idea!” sono costretto a rispondergli, perché devo in qualche
modo rinforzare la sua collaborazione al compito. Ma devo anche
aggiungere:
“Certo duecento biciclette sono molte e chissà quanti soldi costerebbero.
Magari potresti cominciare ad accontentarti di una…”.6
Ci pensa su, ma solo per un momento. Poi:
“Una PlayStation, anche se ce l’ho già”.
Per un attimo mi illudo che abbia capito che è necessario ridimensionare
le richieste. Ma l’illusione dura, appunto, solo un istante.
“Duecento skateboard”.
Adesso è una mitragliatrice. Non ho il tempo di intervenire. Riesco solo,
a fatica, a prendere appunti.
“Duecento tartarughe di terra”.
“Il Game Boy”.
“Il gioco di Dragon Ball Zeta per Game Boy”.
I bambini gravemente internalizzati spesso hanno grosse difficoltà in
questa fase del lavoro. Non trovano rinforzatori, sembra che facciano fatica
a esprimere e forse talvolta anche a pensare a un desiderio che potrebbe dar
loro un pochino di felicità.
Si vede bene, dunque, che Giulio non è un bambino internalizzato!
Approfitto del fatto che fa una brevissima pausa per un respiro e riesco a
interrompere il fiume in piena:
“Giulio, sei stato bravissimo. Hai tirato fuori un sacco di idee. Ora però
stai attento. Questi sono tutti giocattoli, o animaletti, insomma cose che si
possono toccare e comprare. Ti faccio una domanda un po’ più difficile. Mi
sai dire che cosa ti piacerebbe fare?”.7
Mi guarda. Non sono certissimo che abbia capito. Aggiungo:
“Per esempio. Il Game Boy è una cosa che hai. Una gita scolastica è una
cosa che potresti fare”.
Adesso ha capito sicuramente. Vedo l’insight nei suoi occhi, ma
soprattutto ascolto di nuovo il crepitare della mitragliatrice. L’escalation è
stupenda, e la riporto qui di seguito senza commenti, d’altra parte proprio
come è venuta fuori in seduta. Io non ho avuto tempo di dire nulla e forse
non ce n’era bisogno. Mi sembra che in questo fuoco di fila ci sia già tutto.
Sicuramente c’è Giulio e il suo incredibile mondo interno.
“Andare in piazza d’Armi”.
“Andare a Mirabilandia”.
“Andare all’acquario di Genova”.
Andare a pescare con il babbo”.
“Girare tutto il mondo: Asia, Africa e deserto”.
“Duecento gelati e mille bomboloni”.

IL PARENT TRAINING

Il papà e la mamma di Giulio si presentano all’appuntamento puntuali, con


un atteggiamento che mi sembra di interesse, di voglia di collaborare.
Proviamo dunque a lavorare sui cinque passi fondamentali per una
preparazione al parent training (Vio, Marzocchi e Offredi, 2011;
Fabbro, 2004; W Bendetto, 2005; Marcus, Kunce e Schopler, 2005;
Pezzica, 2007; Menazza e Bacci, 2008).

pag. 562

La prima cosa da fare è la restituzione. Si tratta di una fase spesso


delicatissima, soprattutto quando il terapeuta deve comunicare, per la prima
volta, quello che gli sembra di aver trovato in un bambino e sa che i genitori
non ne hanno consapevolezza. È inoltre spesso molto importante dare
notizie sufficientemente precise sul disturbo. Qui, al contrario, questa fase è
molto semplice, perché da questo punto di vista i genitori sanno già tutto.
Quello che devo dire è che ho conosciuto Giulio e l’ho trovato un bambino
oppositivo provocatorio: cioè, in sostanza, non mi resta che confermare
quello che c’è scritto sui referti che i genitori stessi mi hanno portato. Il
papà e la mamma sono ben consapevoli che Giulio ha delle difficoltà di
comportamento tipiche di questo disturbo e presenta tratti di impulsività
piuttosto marcati. Dunque possiamo procedere.
La seconda cosa da fare è spiegare, ma soprattutto cercare di
condividere il metodo. Discuto il fatto che vorrei trovare per Giulio,
insieme a loro, delle nuove modalità di gestione del bambino, dei metodi
che possano aiutarlo a controllarsi di più e ad aver meno bisogno di
produrre i suoi sintomi. Cerco di fare questa proposta agganciandomi a
quello che la mamma mi aveva detto in prima seduta (“Tanti specialisti,
tante teorie, ma mai nessuno che ci abbia detto cosa fare”), in modo che la
mia idea non appaia come un’imposizione dall’alto, ma come qualcosa che
prima di tutto risponde a bisogni che i genitori stessi mi hanno manifestato.
Non faccio quasi in tempo a finire di esplicitare il mio pensiero che, prima
la madre e poi il padre, mi dicono che è proprio quello che desideravano
sentire:
“Ci dicono sempre quello che ha Giulio, ci rimbalzano da un centro a un
altro, ma mai nessuno che ci spieghi come dobbiamo comportarci. Solo una
volta ci è stato consigliato un libro da leggere, ma lei mi capisce, un conto è
leggere le cose e un conto è provare a metterle in pratica davvero”.
Queste parole della madre, insieme ai cenni di assenso del padre, mi
sembrano ottime premesse per iniziare un lavoro di parent training.
La terza cosa da fare è di gran lunga la più difficile.
Scriverla su un libro è molto facile: si tratta della “scelta dell’obiettivo”.
Ma i genitori non sono fatti di carta e inchiostro. Sono fatti di carne, di
speranze, di illusioni e disillusioni… È chiaro che io cerco subito di
spiegare loro l’importanza di scegliere piccoli obiettivi, e lo faccio per due
ragioni: la prima più propriamente tecnica, la seconda di tipo emotivo.
Cerco di spiegare che non è possibile, soprattutto con bambini che
presentano difficoltà particolari come Giulio, fissare obiettivi troppo alti,
perché difficilmente vengono raggiunti, con il pericolo che la frustrazione e
la demotivazione prendano il sopravvento. La scelta di un obiettivo piccolo
ma alla portata del bambino gli permetterà con più probabilità di
sperimentare un successo e darà la possibilità ai genitori di gratificarlo.
Questa è la ragione che definisco tecnica. L’altra, emotiva e forse ancora
più importante, sta nel fatto che è bene non creare aspettative irrealistiche
nel genitore rispetto alla portata e alla velocità del cambiamento. Piccoli
passi, piccoli obiettivi, dunque, ma che permettono al bambino di
raggiungere piccoli traguardi e al genitore di allenarsi e di acquisire
padronanza delle tecniche insegnate.

Com’è difficile concordare piccoli obiettivi “definiti in modo


operazionale”!

Dunque, come dicevo, è chiaro che io cerco di spiegare loro tutte queste
cose.
Ma la prima proposta della mamma ci fa capire bene la differenza tra la
teoria e la pratica:
“Secondo me l’obiettivo più importante è affrontare il problema del
difficile rapporto di Giulio con la sorella”.
Non ho neppure il tempo di provare a commentare questa osservazione,
che il padre intervene:
“Dottore, si rende conto? A otto anni non si sa ancora mettere un paio di
pantaloni, è su questo che bisogna lavorare. Io a questo punto mi pongo
delle domande, ho paura che non sia intelligente, che finisca con il
diventare uno di quei tonti senza futuro. È possibile a otto anni non essere
ancora capaci di vestirsi?”.
Tutto questo è molto significativo, molto tipico e molto rischioso.
Il terapeuta alle prese con un parent training “sogna” un obiettivo di
questo genere: “dopo pranzo, alle due e mezzo del pomeriggio, Giulio inizia
a fare i compiti e resta fermo, seduto e concentrato per 10 minuti”.
Ma i sogni di un papà e di una mamma sono molto diversi. Il papà e la
mamma di Giulio sognano un bambino normale, come tutti gli altri,
ubbidiente e tranquillo, capace di andare d’accordo con la sorella, di vestirsi
da solo appena sveglio senza fare troppe storie e senza sfibrare i genitori
con continue richieste di aiuto e mille storie che trasformano ogni mattina
prima di andare a scuola in una specie di battaglia senza fine.
Chi ha ragione? Sul piano tecnico ha ragione lo psicologo. L’obiettivo
deve essere semplice, facilmente raggiungibile, definito in modo chiaro e
positivo… Ma cosa se ne fanno i genitori di un obiettivo sterilizzato,
freddo, così disperatamente distante dalle loro aspettative, utile forse a un
ricercatore per pubblicare un articolo sull’efficacia del parent training, ma
così privo di senso per loro?
E uno psicoterapeuta cosa se ne fa di due genitori che non riconoscono
un senso a quello che lui propone?
Chiedo al papà e alla mamma di provare a descrivermi la giornata tipo di
Giulio e i momenti che risultano più critici.
Sto provando una manovra per decentrare. Cerco di uscire da
quest’impasse. Di concedermi e di concedere un momento di riflessione, o
per lo meno di sospensione del giudizio. Come quasi sempre succede in
psicoterapia, la fretta è una cattiva consigliera. La mamma mi racconta una
giornata piena di fatiche e di tensioni, che, quasi invariabilmente, si
conclude con le difficoltà di mandare a dormire i due bambini senza dover
spendere altre energie, che a quell’ora sono ormai esaurite:
“A Giulio devo continuamente ordinare di andare a lavarsi, e quando lo
fa finisce che litiga con la sorella perché vuole il bagno tutto per sé; non è
autonomo in niente, pensi che al mattino si fa vestire da me, non è capace di
infilarsi un paio di pantaloni”.
Io le spiego che un certo impaccio motorio potrebbe essere responsabile
di queste difficoltà, ma che ritengo più probabile che Giulio non sia
incapace di vestirsi, ma piuttosto non lo voglia fare. Mi appunto comunque
in cartella di eseguire una prova con il bambino in studio per valutare anche
questo aspetto e cerco invece, subito, di raccogliere la preoccupazione del
padre anche per il futuro del bambino, cercando di spiegargli la differenza
che passa tra un comportamento oppositivo, anche grave, e una carenza
intellettiva.
Poi torno alla descrizione che mi hanno appena fatto delle procedure di
addormentamento. Riprendo il racconto della mamma, che mi ha spiegato
che non solo ci sono liti continue con la sorella per qualsiasi cosa, ma che
lei deve continuamente richiamare Giulio per riuscire a mandarlo a dormire.
Propongo di ripartire da qui. Cerco di prevenire la loro delusione per un
obiettivo così piccolo. Ragioniamo insieme. Più è piccolo un obiettivo e più
è facile raggiungerlo. Un piccolo obiettivo è come il gradino di una scala: di
per sé sembra una cosa senza importanza, ma uno dopo l’altro i gradini
possono anche portarci molto in alto.
“Nemmeno Roma”, osserva a un certo punto la mamma, “è stata fatta in
un giorno”.
Il risultato è: “andare a letto dopo non più di tre richiami della madre
senza coinvolgere o litigare con la sorella”. Si tratta di un obiettivo
condiviso, espresso in modo chiaro e positivo, e sul quale abbiamo qualche
ragionevole speranza di un successo almeno parziale.

Mancano ancora gli ultimi due passi, ma il momento più


difficile è superato

La quarta cosa da fare è l’osservazione sistematica.


Costruisco assieme ai genitori una scheda di osservazione per il
comportamento scelto, che dovranno compilare ogni sera. “Costruisco
assieme ai genitori” significa che evito due errori opposti nei quali si può
cadere in questa fase. Il primo è quello di dare una scheda già pronta,
magari tecnicamente perfetta, ma che i genitori non riconoscono come
propria, come adatta a loro. Il secondo è quello di dire, troppo
genericamente: mi raccomando, fate, sera dopo sera, un’osservazione
sistematica del comportamento di Giulio.
“Costruisco assieme ai genitori” significa che accendo il computer, apro
un file di word, riporto l’obiettivo che abbiamo concordato e sotto inserisco
una tabella con i giorni che ci separano dalla prossima seduta e tutte le
colonne che i genitori ritengono necessarie per poter annotare le loro
osservazioni. In questo caso, come si può vedere nella figura 13.5, le
colonne sono 3 per ogni giorno: “È andato a letto al primo richiamo?
SÌ/Oppure cosa ha fatto e cosa ha detto”. Idem per il secondo e il terzo
richiamo. In questo modo il lavoro della mamma sarà molto semplice:
basterà che scriva SÌ nella casella giusta quando le cose sono andate bene e
due parole di spiegazione quando sono andate male.
Figura 13.5 La prima scheda di osservazione sistematica concordata con i genitori.

Insisto molto sull’importanza di svolgere sempre e con cura queste


rilevazioni. Misurare il comportamento che si intende modificare è l’unico
modo che abbiamo prima per quantificarlo, e poi per vederne le
modificazioni. Aiuta anche i genitori a staccarsi da un’immagine e da una
narrazione ormai cristallizzata (in negativo) del figlio e ad abituarsi a
vederne anche i più piccoli cambiamenti. In questa fase è importante che il
terapeuta faccia ogni sforzo perché un genitore si renda conto che gli viene
offerto uno strumento utile per lui e non che gli viene proposto un compito
che interessa al terapeuta.
La quinta cosa da fare è la scelta del rinforzatore. Spiego l’importanza di
premiare il bambino ogni volta che se lo sarà meritato e che, per premiarlo,
bisognerà scegliere tra le cose che gli piacciono. Io ho già cominciato a fare
un elenco insieme a lui e ne discuteremo la prossima volta. L’importante, in
questa fase, è che sia chiaro ai genitori che un comportamento coerente con
l’obiettivo deve essere rinforzato.
In molte altre parti di questo libro sono discusse le implicazioni
cognitive ed emotive connesse con l’uso dei rinforzatori. A volte è
necessaria una vera e propria ristrutturazione cognitiva per evitare che un
genitore pensi che rinforzare un bambino vuol dire cedere a un ricatto o che
non sia giusto premiare un comportamento che dovrebbe essere
naturalmente sentito come un dovere. Non riproporrò dunque qui queste
discussioni, che pure sono fondamentali. Mi limiterò a una osservazione
che faccio quando confronto la mia esperienza clinica con quella di
docente. Nella mia esperienza clinica mi capita di incontrare qualche
resistenza da parte di un genitore, o qualche dubbio sul corretto uso e sul
senso del rinforzamento. Mi capita, ma tutto questo non è né
particolarmente frequente, né di solito particolarmente difficile da gestire.
Quando invece faccio lezione nelle scuole di specializzazione di
psicoterapia molti giovani colleghi sembrano alquanto preoccupati da questi
aspetti e passano volentieri del tempo con me a discutere e a simulare le
ristrutturazioni cognitive necessarie perché un genitore accetti l’uso corretto
dei metodi di rinforzamento. Mi chiedo il perché di questa discrepanza. A
volte mi viene il dubbio che le resistenze che gli psicoterapeuti in
formazione temono di trovare nei genitori siano prima di tutto dentro di
loro. Forse se un terapeuta è consapevole e convinto di quello che fa (in
questo caso dell’importanza di rinforzare sistematicamente comportamenti
adeguati) i genitori tenderanno ad andargli dietro con meno difficoltà di
quanto non avviene quando è il terapeuta per primo a essere scettico, o
dubbioso, o in qualche modo impaurito rispetto all’uso di una strategia.

PARENT TRAINING E GENERALIZZAZIONE

La mamma (senza il papà) si presenta alla seduta successiva e subito


consegna la scheda che si può vedere nella figura 13.6. Le chiedo come è
andata, cosa ne pensa di questo lavoro, ma la risposta è già nei risultati
dell’osservazione sistematica.
Figura 13.6 La prima scheda di osservazione sistematica concordata con i genitori.

Mi risponde che è contenta perché è stato più facile del previsto.


Quei quattro SÌ su otto giorni di osservazione costituiscono già la
premessa per un cambio di narrazione. Prima dell’osservazione sistematica
la mamma si raccontava così le sere con Giulio: “non va mai a letto, e
bisogna chiamarlo mille volte”. Adesso la narrazione potrà essere: “capita
che sia difficile e molto faticoso convincerlo ad andare a letto, ma capita
anche che ci vada al primo richiamo”.
Tuttavia, a volte, anche un successo può essere eccessivo. La mamma,
infatti, sulla scia dell’entusiasmo per i dati di questa scheda (tra l’altro
ottenuti prima di iniziare un intervento) mi racconta che, spontaneamente,
ha iniziato un’altra token sul vestirsi da solo, che per ora funziona. Ha preso
un calendario dell’Esselunga e l’ha appeso in cucina. Poi mette una crocetta
ogni mattina in cui Giulio si veste da solo. Quando il bambino avrà 30
crocette vincerà un Game Boy.
Lavoro su qualche cautela connessa con questi programmi troppo
precocemente autogestiti. Ovviamente la mamma è stata molto brava ed è
un’ottima cosa che da sedute di parent training , necessariamente
artificiali, scaturisca una forma di generalizzazione grazie alla quale i
genitori imparano a gestire più correttamente molti problemi del figlio. Ma
ci sono anche dei pericoli, dei rischi che discuteremo nel prossimo
paragrafo.

pag. 562

pag. 41

Nel frattempo Giulio sta lavorando con una tirocinante in un altro studio.
Improvvisano una nuova mini-token in studio (fig. 13.7) a riprova del fatto
che il metodo gli piace. Dieci minuti di attenzione sostenuta, un timbro per
ogni minuto passato seduto e concentrato sul compito proposto, e di nuovo
la possibilità di andare avanti con il gioco del mostro della discarica.
Figura 13.7 Mini-token economy improvvisata in studio. Il lavoro è stato fatto con una tirocinante,
ma Giulio ha voluto dedicarmelo.

È molto bello anche il modo con cui il bambino si racconta questa


esperienza (fig. 13.8): “Oggi sono stato composto e attento per 10 minuti.
Sono contento perché sono stato bravo per questi 10 minuti”. Piuttosto
interessante, infine, anche il disegno libero che ha fatto (fig. 13.9): un tema
nuovo rispetto ai soliti personaggi di Dragon Ball; meglio strutturato;
colorato completamente; evidentemente eseguito con una maggiore calma.
Figura 13.8 La narrazione di Giulio rispetto al piccolo programma di token economy svolto in
studio. Il bambino ha poi voluto la firma della tirocinante, come a sancire che quello che aveva
scritto era vero. Una serie di scarabocchi nel foglio e il passaggio dalla matita alla penna a sfera
testimoniano bene l’impulsività di Giulio.
Figura 13.9 Il terzo disegno di Giulio.

I rischi di una fuga in avanti

La mamma, dunque, è stata molto brava sia nel compilare con scrupolo la
scheda di osservazione sia nell’iniziare, spontaneamente, una nuova token
con tutti i vantaggi che questa generalizzazione può portare, però…
Un esempio di questo “però…” è costituito dal fatto che la mamma non
mette la crocetta anche se il bambino il mattino si è vestito da solo, ma poi
durante il giorno Giulio si comporta male.
Discutiamo su questo. Cerco di lavorare sul significato di “obiettivo
condiviso”. Se due persone decidono di comune accordo un certo obiettivo
e una certa gratificazione, non si possono poi cambiare le carte in tavola
perché un altro obiettivo non è stato raggiunto. La mamma sembra venirmi
dietro, ma poi mi spiega che in realtà quello che lei infligge è una “multa”.
Discutiamo allora sui rischi della “multa”. Da un punto di vista
strettamente tecnico è frequente che programmi di token economy siano
associati a strategie di costo della risposta (vedi riquadro alla pagina
seguente), che consistono nel togliere token a fronte di comportamenti
inadeguati. Ma tutto ciò va fatto con consapevolezza e avvertendo in modo
chiaro il bambino. Ci sono inoltre controindicazioni importanti con bambini
oppositivo provocatori nelle prime fasi di un intervento. Su quest’ultimo
punto, in particolare, la mamma conviene con me. Si è infatti accorta che
spesso è proprio la “multa” a scatenare un comportamento aggressivo del
figlio. Naturalmente questo non significa che non potremo inserire metodi
di costo della risposta nei nostri programmi. Non significa neppure che la
capacità di affrontare adeguatamente una frustrazione come quella di
ricevere una “multa” non possa a sua volta diventare un importante
obiettivo. Ma dovremmo sempre ricordarci di procedere per gradi, dal facile
al difficile, evitando di mettere insieme troppe cose tutte in una volta.
Anche in questo caso, comunque, è necessario arrivare a un punto di
mediazione, trovare un compromesso tra il punto di vista del terapeuta e
quello della mamma. Lo troviamo insieme: 1 crocetta se si veste da solo; 2
crocette se torna a casa da scuola senza note negative e se di pomeriggio
non combina guai. Si tratterà poi, se vogliamo sistematizzare in questo
modo nuovo l’intervento, di cambiare anche il rapporto con il rinforzatore
di scambio: con 60 crocette si guadagna il Game Boy. Vedremo però che, in
pratica, i due programmi (andare a letto entro il terzo tentativo e vestirsi da
solo prima di andare a scuola) verranno fusi in un’unica token economy e
che, per raggiungere più in fretta il risultato, stabiliremo il rinforzatore di
scambio dopo 22 punti guadagnati.

UNA SEDUTA CON GIULIO

La mamma, durante la quarta seduta di parent training, mi dice che pensa


che in questo modo Giulio stia imparando a ubbidire e che quindi
probabilmente l’obiettivo di andare a letto entro il terzo richiamo si
raggiungerà facilmente. Sul vestirsi da solo è invece di nuovo preoccupata
(e il marito, che oggi è presente, più di lei) della possibilità che l’eccessiva
lentezza sia dovuta a un impaccio motorio. Formulo l’ipotesi alternativa che
in passato la lentezza del bambino sia stata rinforzata dalla mamma che lo
vestiva, ma tengo aperta anche l’interpretazione dei genitori e decidiamo
insieme che farò una seduta solo con Giulio per valutare questo aspetto.
COSTO DELLA RISPOSTA
La filosofia, prima ancora della tecnica, dell’approccio cognitivo-
comportamentale tende a guardare con una certa diffidenza ai metodi
punitivi. Forse tale diffidenza, da un punto di vista storico, è la
reazione a un periodo nel quale il comportamentismo delle origini
faceva largo uso della punizione. Forse è anche un atteggiamento
determinato dalla constatazione più generale che i soggetti deboli e
sofferenti troppo spesso vengono puniti, il più delle volte in modo non
completamente consapevole, dai genitori, dagli insegnanti,
dall’ambiente naturale. Esistono questioni etiche e questioni tecniche
che dovrebbero scoraggiare l’idea di punire una persona perché sta
male (è quello che, di fatto, succede quando un bambino con un
Disturbo del comportamento viene cacciato fuori dalla classe o riceve
una nota). Tuttavia, non si può negare che, talvolta, un metodo
punitivo rappresenti la sola riposta di fronte a un problema di
comportamento. In questi casi, che si spera siano rari, prima di
programmare un intervento basato sulla punizione il terapeuta
dovrebbe assicurarsi che non vi siano metodi positivi per affrontare
adeguatamente il problema; che la punizione sia commisurata al
problema stesso e non rappresenti invece un eccesso di inutile e
pericolosa aggressività; che non produca più danni dei vantaggi che si
propone di ottenere; che venga erogata in modo esplicito, dichiarato,
consapevole e senza (nei limiti del possibile) correlati emozionali
negativi.
Il costo della risposta, che consiste nel far pagare un “pegno” in
conseguenza del comportamento inadeguato, si presta abbastanza
bene a rispettare queste cautele. Nella vita di tutti i giorni sono esempi
di costo della risposta “hai rotto un vetro, ora lo ricompri nuovo”, o
“hai superato i limiti di velocità, ora paghi una multa”. Nell’approccio
cognitivo-comportamentale diventa particolarmente maneggevole
all’interno di un programma di token economy . In questi casi è
sufficiente stabilire non solo i comportamenti che faranno guadagnare
uno o più token, ma anche quelli che li faranno perdere. Sono in ogni
modo necessarie particolari cautele quando si introduce questa
strategia: avvertire con chiarezza il bambino prima che il
comportamento venga emesso circa quello che gli succederà se si
comporta in un certo modo; erogare la punizione cercando di mostrare
che viene sanzionato un comportamento che non va bene e non il
bambino in sé; evitare che la punizione venga percepita dal bambino
come un atto di “cattiveria” o di “odio nei suoi confronti” o come un
vantaggio per il punitore (che, per es., gli toglie punti per non dovergli
comprare il premio finale e risparmiare così del denaro); costruire il
programma in modo tale che i punti guadagnati tendano sempre a
essere significativamente superiori a quelli persi.

pag. 13

La settimana successiva Giulio arriva in studio e subito mi racconta della


token. È molto contento. Facciamo una prova in studio sullo spogliarsi e il
vestirsi: c’è un impaccio motorio lievissimo, ma soprattutto è evidente che
c’è poca esperienza, poca autoefficacia, nessun problema specifico; i tempi
di esecuzione, comunque, se il bambino è adeguatamente stimolato, sono
appropriati e compatibili con il programma di vestirsi da solo prima di
andare a scuola.
D’altra parte, queste mie osservazioni sono in larga misura già superate
dagli eventi, perché adesso anche il programma di vestirsi da solo sembra
aver preso il via. Giulio mi mostra il cartellone della token che ha costruito
a casa insieme alla mamma e che si può vedere nella figura 13.10.
Figura 13.10 Il cartellone della token economy disegnata a casa. In questo caso, i punti per arrivare al
traguardo sono 22. Su suggerimento della mamma, si parte da 22 e si colorano a ritroso le caselle
corrispondenti ai punti guadagnati. In questo modo è più facile per il bambino vedere quanti punti
mancano all’arrivo. Nell’immagine si vede che ne mancano 7.

Gli chiedo anche di scrivermi un pensierino su questa esperienza. Si può


vedere il risultato nella figura 13.11.

Figura 13.11 Giulio racconta la token economy che sta facendo a casa con la mamma.
Anche la mamma è contentissima della token: mi dice, tra le altre cose,
che l’ha disegnata Giulio da solo e che a lei sembra molto bella.
La mamma è soddisfatta anche per gli apprezzamenti da parte del padre
per il lavoro che stiamo facendo e conclude la seduta con una frase piena di
ottimismo per il futuro:
“Abbiamo trovato la chiave per aprire la serratura”.

NUOVI PROBLEMI, NUOVI OBIETTIVI

Ci sono molti elementi per essere ottimisti. Ma, inevitabilmente, ci sono


anche dei problemi.
Il vero, grande problema è che Giulio non è “guarito”.
La sera, quando è il momento di andare a letto, ci va di solito senza fare
particolari storie, al primo o al secondo richiamo. Poi però, quando tutto
sembra a posto e i genitori si sono illusi che i bambini si siano
addormentati, cominciano nuovi drammi. Dal piano di sopra dove sono le
camere si sentono litigi, pianti, talvolta urla.
Cosa facciamo?
Primo, cerchiamo di non scoraggiarci. Secondo, programmiamo un
nuovo obiettivo. Di fronte a problemi di questo genere, la narrazione può
essere: “questo programma non sta funzionando”. Oppure: “questo
programma ha prodotto buoni risultati sull’obiettivo ‘vestirsi da solo il
mattino’ e buoni risultati sull’obiettivo ‘andare a letto entro il terzo
richiamo’, ma non sull’obiettivo ‘andare d’accordo con la sorella’”. Inutile
dire quale sia la narrazione più funzionale.
Sorgono però delle difficoltà nel programmare un obiettivo centrato sul
rapporto con la sorella. La maggiore è che Giulio, di fronte a questa
proposta, sembra diventare improvvisamente un bambino saggio e
parsimonioso e dice:
“No, mamma, non ti voglio far spendere troppo!”.
Apparentemente intende dire che non vuol far spendere alla madre altri
soldi per un nuovo rinforzatore di scambio legato a una nuova token. Ma è
evidente che in realtà quello che intende è che non ha nessuna voglia di
imbarcarsi in un’impresa dove dovrà cercare di andare d’accordo con la
sorella. La seconda difficoltà è che dovremmo evitare formulazioni negative
dell’obiettivo (“non litigare”, “non urlare”, “non piangere”, “non dare calci”
non vanno bene). La terza difficoltà è che questo obiettivo è impossibile se
non si coinvolge attivamente la sorella nel programma.
Stavolta Giulio sembra proprio non volerne sapere. Adombrandosi in
viso, mi ripete di no, che non vuole che la mamma spenda altri soldi per i
premi.
Come mai fino a quel momento ha sempre accettato con entusiasmo gli
obiettivi proposti e ora è così risoluto nel dire di no? Cosa nasconde questo
rifiuto? Forse, mi dico, è il pensiero: “è troppo difficile, non ce la farò mai”.
Forse è la consapevolezza che su certi aspetti della sua impulsività lui non
ha il controllo.
Parliamo con lui e con la mamma. Gli spiego che possiamo intanto fare
una prova. Concordiamo, con difficoltà, una nuova scheda di osservazione
sistematica, che si può vedere nella figura 13.12. L’obiettivo è definito in
modo operazionale e positivo: “da dopo cena all’ora di andare a letto Giulio
e sua sorella si spogliano, si lavano, guardano la TV e interagiscono tra loro
da soli (quindi senza coinvolgere la mamma)”.
Figura 13.12 Osservazione del comportamento di Giulio e della sorella.

Speriamo bene.

I rischi di una fuga in avanti

La token con il Game Boy è finita ed è andata molto bene. Il


comportamento positivo continua senza più bisogno di premi: la mattina
Giulio si veste da solo con notevole evidente motivazione intrinseca. Anche
il papà è molto soddisfatto.
Per quello che riguarda invece l’interazione corretta con la sorella (fig.
13.13) le cose vanno decisamente male. In questa prima settimana di
osservazione sistematica abbiamo un solo SÌ e i NO sono seguiti da
osservazioni di questo tenore: “colpi forti sul solaio; urla smodate; litigano
a sangue; scendono piangendo; litigano per la TV”.
Figura 13.13 Una brutta settimana!

Cosa sta succedendo? Come potremmo cercare di rimediare?


Provo a capire con la madre per quali motivi le cose sono andate male e
ciò che appare più evidente è che è necessario un rinforzatore per la sorella.
Poi forse manca un lavoro sugli antecedenti, per esempio un compito
comune e condiviso che diminuisca le tensioni e i motivi di litigio.
Arriviamo così a definire un contratto per entrambi, come si può vedere
nella figura 13.14, che assume la forma di una token economy cooperativa.
Nelle esperienze cooperative, infatti, uno dei punti fondamentali è la
cosiddetta interdipendenza positiva,8 attraverso la quale tutti si sentono
membri di un gruppo: ciascuno si rende conto che “siamo tutti nella stessa
barca”. A sua volta, una delle forme più importanti di interdipendenza
positiva è l’interdipendenza di risultato: nessun membro del gruppo può
vincere da solo: “o vinciamo tutti o perdiamo tutti”. Nel semplice gruppo
costituito da Giulio e da sua sorella l’interdipendenza positiva è evidente.
Se entrambi si preparano, giocano un po’ con il Game Boy, guardano
qualcosa alla televisione e poi spengono la luce e dormono, entrambi
vincono 1 punto. Altrimenti, nessuno dei due vince nulla.

Figura 13.14 Un contratto cooperativo tra Giulio e la sorella.

I rischi di una fuga in avanti

Giulio arriva in seduta contentissimo per aver vinto il Game Boy, che ci
mostra con orgoglio. È anche evidente la soddisfazione intrinseca di vestirsi
da solo. Si sente grande. Percepisce che il papà è molto contento di lui. Non
saranno sicuramente più necessari rinforzatori estrinseci per mantenere
questa conquista.
È invece importante parlare dell’interazione con la sorella e gli propongo un
esercizio di problem solving :

pag. 328
“Giulio, adesso stai molto attento, perché non ti sto chiedendo una cosa
facile”.
Giulio mi guarda.
Continuo:
“È l’ora di salire in camera vostra. Dovreste riuscire ad andarvene a letto
tranquillamente, senza bisogno di correre dalla mamma a chiedere aiuto”.
“È sempre per colpa di Viola che…”.
“Sì sì, ma ora lasciamo perdere la colpa e vediamo cosa possiamo fare
per cercare di vincere i nostri punti. Ti viene in mente qualche buona idea
per riuscire ad andare più d’accordo?”.
Ci pensa, ma come spesso gli succede, solo per un istante. Poi dice:
“Io vado in bagno mentre lei è in camera che si spoglia”.
“Grande Giulio! Veramente un’ottima idea!”.
Lo dico con la massima convinzione, perché penso proprio che sia vero.
Il bambino ha trovato un buona tecnica di prevenzione della risposta (vedi
riquadro alla pagina seguente). Nel linguaggio popolare si dice: “togliamo
la paglia dal fuoco”.
Dunque credo proprio che meriti di essere rinforzato:
“Grande Giulio! Veramente un’ottima idea! Te ne vengono in mente
altre?”. “Poi va in bagno lei mentre mi spoglio io”.
“Perfetto! E poi?”.
“Poi ci mettiamo d’accordo su cosa guardare alla TV…”.
Ecco fatto! Ha trovato lui l’antecedente che mancava…
Ma non è finita:
“… oppure su che gioco fare”.

RISULTATI, TUTT’ALTRO CHE DEFINITIVI

La sequenza di figure dalla 13.15 alla 13.19 mostra che i due bambini
hanno imparato a interagire correttamente, e riescono a farlo un discreto
numero di volte. Durante la seconda settimana ci sono tre serate buone e tre
cattive. Due non sono valutabili perché i bambini hanno dormito dai nonni.
Le serate negative sono caratterizzate da pianti e bisticci, mentre in un caso
la serata positiva è attribuita dalla mamma al fatto che erano stanchissimi.
Tuttavia almeno in due casi i bambini sono riusciti a trovare un accordo su
che gioco fare o che cosa guardare alla TV, proprio come Giulio aveva
pianificato.

Figura 13.15 Seconda scheda di osservazione dell’interazione con la sorella.

Durante la terza settimana i SÌ vincono sui NO per tre a zero e, di nuovo,


i bambini sembrano capaci di giocare insieme o di scegliere insieme cosa
guardare in televisione (fig. 13.16).
Figura 13.16 Terza scheda di osservazione dell’interazione con la sorella.

Anche nella quarta settimana i SÌ prevalgono nettamente sui NO, che si


presentano solo una volta (fig. 13.17). La quinta settimana è la più bella:
tutti SÌ, con la mamma che fa commenti di questo tenore: “tutto bene;
hanno trascorso il pomeriggio insieme (quasi con successo); guardano il
Festivalbar, Viola si addormenta, Giulio resiste fino alle 23, lo sento
cantare fino dalla cucina” (fig. 13.18). Nella sesta settimana, con la quale
chiudo questo capitolo, ricompare qualche NO (fig. 13.19). Approfitto di
questa scheda per ribadire una cosa che ho già detto più sopra: Giulio non è
guarito. La mamma ha imparato qualche strategia educativa e ha ottenuto
qualche risultato. Il papà, sia pure in veste di semplice osservatore, ha
modificato qualche idea sul bambino.
Figura 13.17 Quarta scheda di osservazione dell’interazione con la sorella.
Figura 13.18 Quinta scheda di osservazione dell’interazione con la sorella.
Figura 13.19 Sesta scheda di osservazione dell’interazione con la sorella.

PREVENZIONE DELLA RISPOSTA


Possiamo vedere nel riquadro relativo al costo della risposta con
quanta cautela il terapeuta dovrebbe utilizzare metodologie punitive.
È infatti molto meglio, ogni volta che si riesce, trovare strategie
alternative alla punizione. Molte di queste strategie si trovano in modi
particolari di maneggiare le conseguenze della risposta (vedi in
particolare il modellaggio e il rinforzamento differenziale ). A
volte è tuttavia possibile giocare d’anticipo in modo da evitare o per
lo meno rendere più improbabile che una risposta inadeguata si
manifesti. Se, per esempio, un bambino tende a diventare
particolarmente oppositivo quando si trova a dover svolgere i compiti
dopo cena, potremmo cercare di prevenire la sua oppositività evitando
di proporgli questa attività nelle ore critiche. Tutte le volte che
cerchiamo di preparare l’ambiente o, in modo più specifico, gli
stimoli antecedenti, allo scopo di evitare che si manifesti un certo
comportamento, mettiamo in atto una strategia che prende il nome di
prevenzione della risposta.

pag. 284

pag. 6

pag. 69

L’estate e l’autunno passeranno in modo relativamente tranquillo:


l’estate, in particolare, che era invece di solito un periodo piuttosto critico.
Poi ci saranno nuovi problemi. L’educatore, al quale Giulio è molto
affezionato e sul quale la mamma si appoggiava spesso, viene ritirato per
ragioni economico-burocratiche per diversi mesi. Anch’io sono costretto a
interrompere per un certo periodo il mio lavoro con il bambino e la
famiglia. Giulio attraversa momenti di crisi, anche molto violenti. A un
successivo controllo neuropsichiatrico verrà consigliata una terapia
farmacologia che darà qualche buon risultato. Pochi giorni fa sono andato a
scuola a parlare con i nuovi professori di Giulio e la situazione è abbastanza
tranquilla, ma abbiamo deciso con la madre di riprendere in modo
sistematico i nostri incontri per programmare nuovi obiettivi e perché la
mamma, di nuovo molto stanca, sente il bisogno di questo sostegno.
Ho provato a chiedere alla mamma le ragioni di questa stanchezza.
Abbiamo esplorato i momenti critici ed è emerso che complessivamente le
cose non andavano così male. Poi è tornato a galla quello che potrei
chiamare il punto. Giulio va a scuola piuttosto volentieri, il suo rendimento
è buono e il suo comportamento accettabile (sicuramente anche grazie
all’aiuto farmacologico). Torna a casa e per lo più fa i compiti e studia
senza creare troppi problemi, anche perché in questi lunghi e faticosissimi
anni la mamma ha imparato ad accontentarsi e a non chiedere troppo. Ma
quando arriva il momento di giocare con la sorella cominciano le urla e i
litigi spesso senza senso.
Per la mamma è un dramma. Per me è un bell’esempio di ricaduta,
considerando il lavoro che avevo fatto qualche anno prima, e una bella
frustrazione. Credo che uno psicologo possa reagire alla frustrazione in tanti
modi. Con l’evitamento (provi a rivolgersi a qualcun altro), con
aggressività (cara signora, questo significa che lei non è stata capace di
seguire le mie indicazioni), con rassegnazione (con Giulio non c’è proprio
niente da fare).
Descrivo queste reazioni perché le ho provate tante volte su me stesso.
Stavolta, invece, ho cercato di riprendere in mano la situazione, ho
ristudiato quello che avevamo fatto e ne ho parlato con Giulio. Forse un
limite del nostro precedente lavoro era stato quello di coinvolgere la sorella
solo marginalmente, a distanza, senza poter analizzare il suo punto di vista
durante i litigi, i suoi comportamenti, le sue emozioni. Così abbiamo
cambiato metodo. Ora le sedute sono con la sorella. Guardo come giocano
insieme, come gestiscono il conflitto e cosa invece scatena il litigio.
Analizzo e discuto con loro le differenze di comportamento quando un
gioco è competitivo o collaborativo. Cerco di tenere sotto controllo variabili
importanti che prima mi erano sfuggite: la superiorità della sorella in molte
circostanze e le emozioni che questa superiorità suscita in Giulio.
Abbiamo iniziato una nuova token: i punti ovviamente non vanno a chi
prende più shanghai o mette più tessere di un puzzle. Si vincono insieme
andando d’accordo e trovando mediazioni nei momenti difficili. Quando i
due bambini riescono a giocare bene quando io esco dalla studio i punti
raddoppiano. Giulio ha capito perfettamente il significato di quello che
stiamo facendo e i risultati sembrano incoraggianti.
Non c’è molto da aggiungere.

Penso che sia una regola generale che molti casi non si archiviano mai
definitivamente. A volte non si archiviano perché i nostri piccoli ex pazienti
hanno voglia di venirci a trovare e raccontarci le novità della loro vita. Altre
volte, più spesso purtroppo, continuano ad aver bisogno, forse perché non li
abbiamo aiutati abbastanza, con sufficiente sistematicità; forse perché le
loro necessità cambiano e ci chiedono un nuovo aiuto. Credo che faccia
parte del nostro mestiere accettare anche questo.
1 Questo nuovo mai è un ulteriore esempio di come la mamma si racconta i problemi del figlio.
2 Vedi, sulla cosiddetta “perturbazione strategicamente orientata”, il primo paragrafo del capitolo 26.
3 Vedi capitolo 11, nota 4.
4 È qui evidente un tentativo di svolgere una sia pur embrionale analisi funzionale dei
comportamenti oppostivi, provocatori e aggressivi di Giulio.

pag. 402

5 A volte si dice in modo eccessivamente frettoloso che i videogiochi favoriscono l’impulsività.


Molti videogiochi sono in effetti costruiti in modo tale da richiedere risposte veloci e quindi
scoraggiare la riflessione (come quando si devono distruggere astronavi nemiche). Ma non è sempre
così e dipende dalla filosofia del videogioco stesso. Quando mio figlio Francesco era un bambino
aveva una passione per Sim City, un videogioco che consisteva nel costruire e far prosperare una città
identificandosi nel ruolo del suo sindaco. Francesco aveva imparato a giocare con una certa
competenza, raccoglieva correttamente le tasse, costruiva strade e centrali per la produzione
dell’energia e la sua città prosperava. Però, grande appassionato di sport molto più che di cultura, a
mano a mano che accumulava denaro con le tasse dei cittadini costruiva nuovi stadi bellissimi, e
neppure una scuola. A un certo punto si è accorto che la sua città si impoveriva, a causa
dell’analfabetisimo degli abitanti. Mi sembra che questo esempio suggerisca che quando un
videogioco è costruito in un certo modo possa aiutare a pensare prima di agire e a riflettere sulle
conseguenze delle proprie azioni. Il mostro della discarica che ho usato con Giulio aveva queste
caratteristiche.
6 Un tipico esempio di modellaggio (o shaping).

pag. 6

7 È evidente qui il mio tentativo di passare da rinforzatori tangibili a rinforzatori dinamici.


8 Per i concetti di apprendimento cooperativo e interdipendenza positiva, di solito applicati
all’apprendimento in classe o in piccoli gruppi, vedi Johnson, Johnson e Holubec (1996); Comoglio e
Cardoso (1996); Comoglio (1999); Sharan e Sharan (1998); Cohen (1999); Kagan (2000); Johnson e
Johnson (2002); Johnson e Johnson (2003); Polito (2003); Trubini e Pinelli (2005); Trubini e Pinelli
(2007).
Parte quinta

Disturbi d’ansia

Disturbo d’ansia di separazione: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi d’ansia – Disturbo d’ansia di separazione (F93.0)
ICD-10: Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio
abituale nell’infanzia e nell’adolescenza – Sindromi e disturbi della sfera
emozionale con esordio caratteristico dell’infanzia – Sindrome ansiosa da
separazione dell’infanzia (F93.0)

Disturbo di panico: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi d’ansia – Disturbo di panico (F41.0)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Altre
sindromi ansiose – Sindrome da attacchi di panico (ansia episodica
parossistica) (F41.0)

Agorafobia: v. capitolo 14
DSM-5: Disturbi d’ansia – Agorafobia (F40.00)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Sindromi
fobiche – Agorafobia con sindrome da attacchi di panico (F40.01)

Fobia specifica: v. capitolo 15


DSM-5: Disturbi d’ansia – Fobia specifica (F40.2 – si possono usare altre
due cifre per la specifiazione dello stimolo fobico: per es. F40.218 per
Fobia specifica per animali come ragni, insetti o cani)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Sindromi
fobiche – Fobie specifiche (isolate) (F40.2)

Fobia sociale: v. capitolo 16


DSM-5: Disturbi d’ansia – Disturbo d’ansia sociale – Fobia sociale
(F40.10)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Sindromi
fobiche – Fobie sociali (F40.1)

Disturbo ossessivo-compulsivo: v. capitolo 17


DSM-5: Disturbo ossessivo compulsivo e disturbi correlati – Disturbo
ossessivo-compulsivo (F42)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Sindrome
ossessivo-compulsiva (F42)

Disturbo da stress post-traumatico: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi correlati ad eventi traumatici o stressanti – Disturbo da
stress post-traumatico (F43.10)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Reazioni a
gravi stress e sindromi da disadattamento – Sindrome post-traumatica da
stress (F43.1)

Disturbo acuto da stress: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi correlati ad eventi traumatici o stressanti – Disturbo da
stress acuto (F43.0)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Reazioni a
gravi stress e sindromi da disadattamento – Reazione acuta da stress (F43.0)

Disturbo d’ansia generalizzata: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi d’ansia – Disturbo d’ansia generalizzata (F41.1)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Altre
sindromi ansiose – Sindrome ansiosa generalizzata (F41.1)

Disturbo dell’adattamento con ansia: v. capitolo 14


DSM-5: Disturbi correlati ad eventi traumatici o stressanti – Disturbo
dell’adattamento con ansia (F43.22) – Disturbo dell’adattamento con ansia
e umore depresso misti (F43.23)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Reazione a
gravi stress e sindromi da disadattamento – Sindromi da disadattamento –
Reazione mista ansioso-depressiva (F43.22)
Disturbo evitante di personalità: v. capitolo 14
DSM-5: Disturbi di personalità – Disturbi di personalità del gruppo C –
Disturbo evitante di personalità (F60.6)
ICD-10: Disturbi della personalità e del comportamento nell’adulto –
Disturbi di personalità specifici – Disturbo di personalità ansioso (di
evitamento) (F60.6)

Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità: v. capitolo 18


DSM-5: Disturbi di personalità – Disturbi di personalità del gruppo C –
Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (F60.5)
ICD-10: Disturbi della personalità e del comportamento nell’adulto –
Disturbi di personalità specifici – Disturbo di personalità anancastico
(F60.5)

Mutismo selettivo: v. capitolo 17


DSM-5: Disturbi d’ansia – Mutismo selettivo (F94.0)
ICD-10: Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio
abituale nell’infanzia e nell’adolescenza – Disturbi del funzionamento
sociale con esordio specifico dell’infanzia e dell’adolescenza – Mutismo
elettivo (F94.0)
Capitolo 14

Disturbi d’ansia e Disturbo


d’ansia di separazione
Fabio Celi

LA STORIA DI CHICCO
L’ansia prende me, dopo pochi minuti di colloquio con i genitori di Chicco.
È una specie di senso di soffocamento, come se tutti i problemi del figlio
(e dei suoi genitori!) si stessero rovesciando su di me con la violenza di un
fenomeno atmosferico improvviso, per lasciarmi alla fine senza respiro. La
cosa più impressionante è che la madre vorrebbe la soluzione del problema
subito, qui e ora, durante questo primo colloquio . Più volte, nonostante
siano passati solo pochi minuti da quando sono entrati nel mio studio per
esporre il problema, mi chiede di dirle che cosa può fare per Chicco, come
può comportarsi per convincerlo, per lo meno, a ritornare a scuola.
Aggiunge subito che i problemi sarebbero tantissimi, ma almeno quello
della scuola andrebbe affrontato e risolto subito perché non è più possibile
che Chicco, per il secondo anno consecutivo, continui a rimanere a casa, a
perdere ore e ore di lezione, a rendere in questo modo ogni giorno più
difficile un suo rientro… Se fosse stato per lei, mi avrebbe portato subito
anche il figlio e ho dovuto insistere molto per telefono, quando ha preso il
primo appuntamento, perché non lo facesse anche se ora, con una certa
incoerenza, mi dice che tanto pensa proprio che non sarebbe voluto venire.
pag. 49

Mi fa presente di continuo, interrompendomi, ma interrompendo spesso


anche sé stessa, che non riuscire ad andare più a scuola è un problema
grave, che Chicco è sempre stato molto bravo, un allievo modello
(aggiunge: “Le maestre non perdevano mai occasione per dirmelo, ogni
volta che c’era una riunione con i genitori alla quale, d’altronde, io non
mancavo mai”) e adesso chissà cosa penseranno di tutti questi giorni di
assenza (“E, per di più, ingiustificati, perché mica posso portare un
certificato medico; sì, effettivamente la mattina ha mal di stomaco e quello
sicuramente è vero, ma insomma a scuola potrebbe andarci benissimo e poi
l’altra settimana, nemmeno a farlo apposta, eravamo al supermercato io e
Chicco, di mattina, e abbiamo incontrato la maestra di matematica, doveva
essere il suo giorno libero, e lei ci ha riconosciuto e ci ha salutato e Chicco
mi ha stretto la mano forte forte e si è girato dall’altra parte senza nemmeno
rispondere al saluto, oltretutto una gran brutta figura”). Ma più di tutto la
mamma è preoccupata del fatto che ogni giorno che passa senza risolvere il
problema, il problema aumenta: poiché, nei primi 10 minuti di colloquio,
mi ripeterà cento volte questo concetto (tale dato non è frutto di
un’osservazione sistematica, naturalmente, ma dell’emozione che provavo
in quei momenti). In conclusione, il mio sentimento prevalente durante
questa prima seduta è che, se potessi, invierei questi genitori da un altro
specialista.
Almeno in apparenza il padre è forse più controllato, certamente parla
meno, se non altro a causa del poco spazio che la moglie gli lascia, ma in
sostanza sembra angosciato quanto lei, quanto lei ansioso di risolvere i
problemi “una volta per tutte”. Tento di agganciarmi a queste due ultime
osservazioni. La prima è il fatto che il padre abbia ribadito, parlando al
plurale, che i problemi sono più di uno, come anche la mamma mi aveva
fatto capire. La seconda è che, probabilmente, avevano già tentato di
risolvere in qualche modo le difficoltà del bambino, se adesso il loro
desiderio è quello di una soluzione definitiva, appunto “una volta per tutte”.
Tento di agganciarmi per provare a governare il colloquio, a dirigerlo,
almeno in parte, dove vorrei io, piuttosto che permettere all’ansia dei
genitori di lasciarlo andare alla deriva. Dico:
“La cosa che vi preoccupa di più è quella che Chicco non riesca più ad
andare a scuola (a proposito, che classe fa?), ma mi sembra che ci siano
anche altri problemi”.
Chicco frequenta la terza classe della scuola primaria e i suoi problemi
riguardano la paura.
“Paura di che cosa?”.
“Di tutto”, è la loro prima risposta.
Mi ci vuole un po’ per riuscire a ricostruire la storia e i sintomi.
Sembra che tutto sia iniziato a scuola, oltre un anno prima, quando il
bambino, allora in seconda classe della primaria, vide una compagna
vomitare. Ebbe una crisi d’ansia acuta. Le maestre riferirono poi ai genitori
che lo videro sbiancare, con gli occhi fissi sulla compagna che si sentiva
male, palesemente inorridito da quello spettacolo, ma nello stesso tempo
incapace di staccare gli occhi di lì, come paralizzato. Subito, il pomeriggio
stesso, disse alla mamma che aveva paura. Secondo quanto la mamma
ricorda ora, precisamente disse:
“Mi arriva la paura”.
“La paura di che cosa?”.
“Di vomitare”.
Il giorno dopo non volle andare a scuola. Le rassicurazioni dei genitori,
che razionalmente gli fecero presente che l’episodio capitato alla compagna
non avrebbe certo potuto ripresentarsi, non servirono a nulla. Il padre mi
racconta che provò a spiegargli che i casi erano due: o la sua compagna
stava bene e quindi non sarebbe successo nulla, oppure, se ancora si sentiva
male, certamente non sarebbe andata a scuola. Ma Chicco sembrava non
ascoltare neppure, preso dalla sua angoscia. Restava con la mano attaccata
al braccio del padre. Disse più volte che non voleva essere lasciato solo. Il
padre provò a portarlo ugualmente davanti a scuola. Il bambino non voleva
scendere dall’auto, poi chiese di essere accompagnato in classe e disse al
papà che avrebbe dovuto restare lì vicino a lui per tutta la mattina. Il padre
preferì riaccompagnarlo a casa. Era febbraio. Per tre mesi riuscirono a
portarlo a scuola in modo saltuario, e sempre con l’accordo che la madre
doveva aspettarlo tutta la mattina nel corridoio. Ma l’ansia di Chicco non
era limitata all’andare a scuola. Non si staccava più un attimo dalla madre
(o anche dal padre, se restava solo con lui).
I genitori sono proprietari di una ditta di lavorazione del marmo e, fino a
quel momento, la mamma aveva lavorato in ufficio per dare una mano al
marito in amministrazione. Da allora non è stato più possibile. Chicco
diceva che, se la mamma andava a lavorare, lui si sentiva male. Spesso di
sentiva male veramente. Nausea, tremito, senso di paura. Non era facile per
i genitori fargli dire di che cosa avesse paura con precisione e ora non è
facile per me capire dal racconto dei genitori, ma, in linea di massima,
sembra che, oltre ai sintomi fisici, ci fosse una specie di aspettativa di
eventi negativi se non catastrofici, che avrebbero potuto capitare alla
mamma (e, in misura minore, al papà) se Chicco fosse andato a scuola o
fosse rimasto solo a casa con la signora delle pulizie mentre la mamma
andava a lavorare.
“… Che ti potrebbe succedere qualcosa…”.
“… Che potresti non tornare…”.
“… Come una specie di incidente… Non so, non te lo so spiegare… Non
voglio pensarci”.
Queste erano, alla meglio, le cose che Chicco riusciva a dire o, per lo
meno, quello che i genitori riuscivano a riferire a me.
Bastava poi pochissimo per far precipitare la cosa. Il bambino era
sempre in uno stato di tensione, attento a che la mamma non si allontanasse,
che fosse veramente in cucina come aveva detto, che in bagno non
chiudesse la porta a chiave in modo che lui potesse in ogni momento
controllare. Ma questa tensione aumentava a causa di un temporale, oppure
per l’influenza o anche solo per un banale malessere di un membro della
famiglia. “Ho paura che tu vomiti”, diceva in quei casi, e tutti i suoi sintomi
tendevano a esacerbarsi.
I genitori sostengono, durante questo primo colloquio, che il bambino
non aveva mai avuto problemi in precedenza, e che tutto era cominciato
appunto nel febbraio dello scorso anno. Cerco di approfondire questo
aspetto. Chicco è sempre stato un bambino sano, nato dopo una gravidanza
regolare, da un parto eutocico, e mamma e bambino erano stati dimessi
pochi giorni dopo. Però, durante l’alimentazione al seno, c’erano state
alcune difficoltà, rigurgiti eccessivi ai quali, peraltro, il pediatra non aveva
dato particolare importanza, ma soprattutto disturbi e irregolarità del sonno.
Il bambino tendeva a svegliarsi di notte anche dopo essere passato ai
quattro pasti giornalieri, tanto che i genitori avevano deciso di trasportalo
dalla cameretta dove dormiva con la sorella maggiore alla loro camera. Ora
si domandano se non sia stato un errore, perché non sono più riusciti a
toglierlo da lì. Dorme quindi, praticamente da sempre, con i genitori e
spesso, anche prima delle crisi d’ansia di questo ultimo anno, richiedeva la
presenza della madre per addormentarsi. Voleva che gli si leggessero delle
favole, a volte voleva che la mamma, o il papà, gli tenessero le mani
“perché – diceva – addormentarmi mi fa un po’ paura”. All’inizio della
scuola primaria i genitori, consultandosi anche con il pediatra e con amici
che avevano figli della stessa età di Chicco, si erano resi conto che sarebbe
stato meglio abituare il bambino a dormire in camera sua, ma non c’erano
riusciti.
“In piccolo”, mi dice il padre a questo punto del primo colloquio,
“faceva le stesse cose che poi ha fatto con la scuola e con la paura di restare
da solo”.
D’altra parte, a mano a mano che il colloquio mi permette di
approfondire questi aspetti, emerge che il bambino ha sempre avuto qualche
difficoltà di relazione con i coetanei, non perché non sia capace di fare le
sue piccole amicizie, ma perché si è sempre staccato mal volentieri, con una
certa fatica, dalla figura dell’adulto: così, per esempio, alle feste di
compleanno, o al parco giochi, tendeva sempre a cercare la vicinanza della
mamma o dell’adulto che l’accompagnava, piuttosto che abbandonarsi
completamente al piacere di giocare con i compagni e di divertirsi con loro.
Alcuni giochi, poi, come il nascondino, gli hanno fatto sempre una
particolare paura e ha sempre rifiutato di parteciparvi.
“Sinceramente”, dice il padre con una certa cautela, più rivolto alla
moglie che a me e subito attento a spiarne le reazioni, come a valutare se
può spingersi fino a questo punto o se è bene fare marcia indietro e non
scoprirsi troppo, “un po’ fifone è sempre stato, fifone di tutto. Certo ora è
una tragedia. L’altra settimana avrei dovuto andare a Brescia per lavoro e ho
dovuto disdire tutto perché lui l’ha saputo e ci faceva diventare matti. Una
sera si è attaccato a me supplicandomi di non partire, che aveva paura, che
si sarebbe sentito male se fossi andato via, che sarebbe potuto succedermi
qualcosa…”.
Riprendo il filo della storia. Lo scorso anno, dunque, ha avuto per tre
mesi grandi difficoltà ad andare a scuola. Ha continuato a fare regolarmente
i compiti a casa e a studiare, poi con fatica e con la madre che passava le
mattinate nel corridoio o seduta al posto della bidella, ha ripreso ad andarci
con una certa regolarità, ha fatto le interrogazioni e le verifiche finali, è
stato promosso con una bella pagella e quindi i genitori hanno passato
l’estate a distrarlo. L’hanno portato al mare per tutte le vacanze, anche
perché ormai la mamma aveva completamento rinunciato all’idea di
lavorare; poi tre giorni a Gardaland; spesso, la sera, alle sagre, alle fiere, ai
luna park e a vedere i fuochi di artificio o le stelle cadenti. Chicco era
contento e sembrava sereno ma in realtà (mi viene in parte detto
spontaneamente dai genitori, ma in parte sono io che li faccio riflettere su
questo) non si staccava mai dal papà o dalla mamma e probabilmente era
per questo che dava l’impressione di stare così bene.
All’inizio della scuola, infatti, tutto è ricominciato come prima. Davanti
al cancello restava abbracciato alla madre, disperato, supplicando di non
essere lasciato da solo.
Il pediatra ha consigliato di “far finta di niente”, nel senso di ignorare
queste crisi (ha rassicurato di nuovo i genitori sul fatto che, dal punto di
vista fisico, il bambino non aveva assolutamente niente) e di cercare di
mandarlo a scuola con fermezza, senza più permettergli di fare tante storie.
Per un po’ ha funzionato.
Resto colpito dal fatto che, sebbene tutti gli altri sintomi (crisi d’ansia
ricorrenti, incapacità di restare a casa senza la mamma e talvolta persino
solo in una stanza) si fossero mantenuti identici, la madre descriva questo
periodo, approssimativamente da ottobre a marzo, quando il bambino
andava a scuola regolarmente, come un periodo sereno, senza problemi. Mi
dice testualmente:
“La vita andava avanti tranquilla e Chicco era ritornato il Chicco di
prima”.
Credo che questo fosse il segno che, tutto sommato, gli altri disturbi non
preoccupavano e non angosciavano la madre come il fatto che il bambino
non riuscisse ad andare a scuola.
Poi, una settimana prima di Pasqua, di nuovo il dramma. I genitori si
interrogano una volta di più, di fronte a me, sulle possibili cause di questa
grave ricaduta, ma capisco che devono essersi fatti queste domande già
mille volte. Una piccola influenza, peraltro durata mezza giornata con
qualche linea di febbre? Due bambini che a catechismo hanno vomitato?
Difficile dire. Il fatto è che non si riesce più a lasciarlo a scuola da solo.
Concludo il colloquio con la raccolta di qualche altra notizia sulla
famiglia e con gli accordi su come procedere. Per fare questo sono costretto
a interrompere la madre che, altrimenti, ricomincerebbe da capo a
sommergermi con la sua ansia e con le sue richieste di aiuto.
Non risultano disturbi mentali importanti nelle due famiglie. Solo la
madre, in passato, è stata in cura per qualche mese per una forma di
depressione ansiosa, come le disse lo psichiatra che la trattava con una
terapia farmacologica. La famiglia è composta dai due genitori, tra i quali
sembra esserci un rapporto di coppia molto stanco se non propriamente
distaccato, e da una sorella maggiore, di diciassette anni, molto brava a
scuola, piena di amici, molto autonoma, poco partecipe alla vita familiare e
con la quale Chicco ha rapporti superficiali e sporadici.
I genitori temono che sarà impossibile convincere il bambino a venire da
me. Discutiamo di questa convinzione-preoccupazione del papà e della
mamma di Chicco, nel senso che io dico che mi rendo conto delle possibili
difficoltà, ascolto i loro motivi e i loro dubbi, ma provo anch’io a insinuare
il dubbio che forse, con un po’ di preparazione e di pazienza, potremmo
anche riuscire a organizzare un colloquio con il bambino e che, comunque,
nulla è impossibile. Naturalmente, per l’immediato accetto il loro punto di
vista e fisso un nuovo appuntamento ai genitori, durante il quale proveremo
a studiare insieme qualche strategia per affrontare almeno gli aspetti più
urgenti del problema. Questo, in pratica, significa la frequenza a scuola,
che, come abbiamo ampiamente visto, rappresenta la preoccupazione di
gran lunga prevalente. La mamma, infatti, mi invita a parlare nel frattempo
con le maestre, ad ascoltare il loro punto di vista, a valutare se possono dare
una mano a Chicco quando, dopo aver parlato con uno psicologo, vedranno
probabilmente il problema sotto una luce diversa. Mi sembra di capire che
la madre tema che, fino a oggi, le maestre non si siano rese conto delle reali
difficoltà del bambino e che magari pensino, banalmente, che abbia scarsa
voglia di andare a scuola e i genitori, troppo accondiscendenti, lo lascino
fare.
Vado a parlare con le insegnanti, ma le cose non stanno affatto come la
madre temeva. Le maestre sanno benissimo che Chicco non sta bene.
Hanno visto più volte con i loro occhi, sia lo scorso anno sia questo, le crisi
d’ansia del bambino. Ricordano perfettamente come si sentì quando vide la
compagna vomitare e hanno sempre correttamente interpretato le scene di
panico di quando non riusciva a staccarsi da un genitore ed entrare in
classe. Loro stesse hanno più volte impiegato molto tempo e grandi energie
per tentare di calmarlo il mattino. A volte non ci sono riuscite, ma altre
volte sì, e spesso in quei giorni, una volta staccato dalla mamma o dal papà
ed entrato in classe, poi il bambino si tranquillizzava e tornava a essere un
allievo assolutamente normale: ben socializzato, interessato alle attività
scolastiche, attento, collaborativo e apparentemente sereno.
Al secondo colloquio si presenta la madre da sola e lavoriamo sulla
formulazione di piccoli obiettivi di allontanamento del bambino dalla
madre. Spiego alla signora come questi obiettivi possono essere
programmati con gradualità; proposti e non imposti al figlio con un
atteggiamento il meno possibile ansioso; adeguatamente rinforzati appena
raggiunti. Discutiamo, naturalmente, anche il problema della frequenza
scolastica. Le dico che, sebbene mi renda conto che questo sia per loro un
problema prioritario, io non concentrerei tutte le attenzioni su questo punto
(il bambino deve assolutamente tornare a scuola subito; è intollerabile
pensare che continui a perdere giorni e giorni di lezione). Le faccio
presente l’irrazionalità di questi pensieri e il fatto che se il bambino si
riabitua all’idea di staccarsi dalle figure genitoriali, poi anche restare solo in
classe gli risulterà più facile. Studiamo insieme anche alcune soluzioni
possibili a questo problema. Scartiamo l’uso della forza e la costrizione, che
in passato non ha certo dato risultati buoni ma, al contrario, ha forse in certi
momenti peggiorato la situazione. Non scartiamo del tutto la soluzione della
madre che l’accompagna e poi l’aspetta anche tutta la mattina nel corridoio,
ma solo come uno dei possibili metodi per affrontare l’emergenza.
Concentriamo, invece, la nostra attenzione sul diverso comportamento del
bambino quando è la madre oppure il padre ad accompagnarlo a scuola.
Sebbene nei periodi di crisi (come l’attuale) resti comunque difficilissimo
convincerlo a entrare, la madre, parlando e riflettendo con me, si rende
conto che quando è accompagnato dal padre il bambino è un pochino più
malleabile. Questo mi fa venire un’idea, che provo a buttare là:
“E se fosse la sorella ad accompagnarlo?”.
La madre ha un’espressione sorpresa. Per metà è chiaramente perplessa,
perché si tratta di una cosa alla quale non aveva mai pensato e che continua
a sembrarle molto strana, forse alla fine improponibile. Per un’altra metà
pare però che abbia avuto come un’illuminazione. Resta un po’ in silenzio,
probabilmente riflettendo sulle possibili conseguenze di questa idea. Poi mi
dice:
“Beh… sarebbe un bel problema convincere Daniela, però, in effetti, se
andasse con la sorella…”.
Discutiamo di questo. Chiarisco alla madre che, per adesso, è soltanto
un’idea, della quale riparleremo. Ora non mi aspetto certo che Chicco,
accompagnato dalla sorella, riprenda ad andare a scuola magicamente.
Forse, aggiungo, se provate ad attenuare tutte le ansie che ormai si sono
concentrate sulla sua frequenza, se lavorate piuttosto per allontanarlo da voi
anche soltanto di pomeriggio, se fate tentativi tranquilli di accompagnarlo a
scuola senza voler forzare la mano, qualche piccolo risultato si potrà anche
cominciare a vedere. Altrimenti, se il mattino proprio non riuscite a
convincerlo a entrare in classe, perché non provate, per lo meno, a portarlo
da me? Può darsi che, piuttosto che dover stare in classe da solo cinque ore,
accetti l’idea di un breve colloquio con uno psicologo, come il male minore.
Pochi giorni dopo, la madre fissa, in effetti, un appuntamento per
Chicco. Mi dice che stanno tentando, cautamente, di portarlo di nuovo a
entrare in classe, e che il bambino sembra aver accettato volentieri l’idea
che alcune mattine può venire da me piuttosto che andare a scuola.
Chicco entra nello studio letteralmente appiccicato alla mamma.
Si siedono su due sedie vicine e si tengono per mano. Ma, a parte questo
(che ovviamente non è un dettaglio secondario!), mi appare subito un
bambino normale, perfettamente in grado di instaurare una relazione con
me, orientato e intellettivamente brillante. I miei primi approcci con lui
sono molto prudenti. Lascio che il colloquio vada nelle direzioni che
preferisce e non mi è difficile capire, già dopo pochi minuti, che parla
volentieri di tutto all’infuori dei suoi problemi. Dagli argomenti connessi
alle sue difficoltà ad andare a scuola e a staccarsi dai genitori tenta di
svicolare quando sono io che faccio timidi tentativi di affrontarli. In alcuni
momenti, nei primi colloqui, ho la sensazione che cerchi addirittura di
negarli, sebbene la madre, lì inesorabilmente presente, a pochi centimetri da
lui, renda molto difficile questo tentativo.
Nel secondo colloquio mi racconta dei suoi programmi TV preferiti,
durante i quali, peraltro, spesso la sera si addormenta. È contento quando
prende sonno davanti alla televisione e il papà lo porta a letto, perché
questo gli risparmia di doversi addormentare, cosa che spesso gli riesce
difficile. Non aggiunge altro e non fa cenno al fatto di dormire con i
genitori, ma questa è, se non altro, la prima apertura nei confronti di un suo
problema. Approfondisco finché è possibile questo argomento, ma Chicco
non si spinge molto più in là; forse arriva a farmi un cenno cauto al fatto
che addormentarsi gli fa un po’ paura, e subito dopo mi fa capire che ha
detto abbastanza, che non è disposto ad andare oltre. Gli chiedo cosa fa nel
tempo libero: quando non va a scuola, nel pomeriggio, la domenica… Ne
viene fuori il quadro di una vita un po’ povera, non particolarmente
gratificante, con una vaga tonalità depressiva. Aveva cominciato a giocare a
pallavolo, faceva anche qualche partita in una piccola squadra, ma si è
stufato e ha abbandonato tutto. L’avevano portato in piscina, ma lì ha
smesso subito perché non gli piaceva e la piscina grande, quella con l’acqua
alta dove non si tocca, gli faceva un po’ paura, tanto che tuttora non sa
nuotare.
“Ci sono molte cose che ti fanno paura?”, approfitto per chiedergli.
Mi risponde di no, chiudendo chiaramente la comunicazione. Poi guarda
la mamma seduta a un passo da lui come ad accertarsi che non lo tradirà.
Questo atteggiamento di difesa, questo timore ad aprirsi ai suoi problemi e
alle sue difficoltà, evidente nei primi colloqui, si ritrova anche nei risultati
dei test e dei questionari specifici che gli somministro. Il questionario
d’ansia per l’età evolutiva (Busnelli, Dall’Aglio e Faina, 1974), per
esempio, dà un risultato negativo, nel senso che il punteggio totale rientra
perfettamente nell’area di normalità e l’analisi di alcuni item specifici
conferma il fatto che il bambino non ha voluto riconoscere (a sé stesso o di
fronte a me?) alcuni fatti che invece il colloquio con i genitori e
l’osservazione diretta rendono evidenti.1 Chicco, per esempio, risponde che
non prova particolari preoccupazioni e non teme che sia successo qualcosa
quando il papà torna a casa tardi dal lavoro o quando lui deve restare a casa
da solo. Vedremo nel terzo paragrafo come questo dato sia coerente con
gran parte della ricerca che sostiene come in età evolutiva sia difficile far
emergere direttamente le esperienze d’ansia e come spesso la diagnosi
debba essere fatta più sulle descrizioni comportamentali e su quanto
riferiscono genitori e insegnanti che su quanto il bambino è capace e ha
voglia di riferire.
Evito dunque di insistere su un punto che sembra, per ora, provocare a
Chicco troppo disagio e gli chiedo:
“E ora che non vai più né a pallavolo né in piscina cosa fai?”.
In casa gioca a carte con i genitori e, qualche rara volta, con la sorella. Si
sente che i rapporti con la sorella sono distanti. Giocano a poker: “Di
niente”, aggiunge subito, come se volesse chiarire che non ci sono soldi di
mezzo tra di loro, ma che tutto questo è solo un modo per passare il tempo.
Gli chiedo se ha voglia di farmi un disegno; lo lascio libero di scegliere
il tema e me ne fa subito uno bellissimo (o io non so interpretare i disegni di
bambini – cosa assolutamente verosimile –, o Chicco non ha un disturbo
d’ansia, o i disegni non rappresentano poi quel grande aiuto diagnostico che
si dice in giro),2 pieno di colori pastello, con tutti gli spazi usati in modo
corretto e non ossessivo, un bel giardino, tanti fiori, un sole giallo e rosso
che ride, una nuvoletta azzurra piena di goccioline di pioggia (sarà lì che si
annida l’ansia?), una bambina in altalena con una bella felpa sulla quale è
disegnato un cuore e un bambino sullo scivolo: entrambi sorridono, i fiori
sono colorati e gli alberi pieni di frutta.
Disegnare e parlare, purché del più e del meno, senza forzarlo ad
approfondire temi ansiogeni o cruciali, gli piace e lo rilassa. Questa
osservazione, associata al fatto che sembra intenzionato a non dirmi con
parole quello che prova, mi fa decidere che sia arrivato il momento di
premere un po’ sull’acceleratore. Verso la fine del secondo colloquio gli
dico che la mamma potrebbe anche aspettarlo fuori, così noi lavoriamo e
chiacchieriamo in pace. In realtà, non credo proprio che per ora sia
possibile far uscire la madre. La mia è una provocazione, che mi serve per
vedere la sua reazione, per metterlo di fronte alle sue difficoltà e per
provare, poi, a fissare insieme qualche obiettivo molto più prudente e
ragionevole. In effetti, sgrana gli occhi con un’espressione direi quasi
scandalizzata più che terrorizzata, come se si domandasse come oso dire
una cosa così chiaramente assurda e improponibile. Immediatamente dopo
guarda la madre, per accertarsi di avere ancora un’alleata solida, uno
scoglio sicuro al quale continuare a restare attaccato stretto stretto. Gioco
d’anticipo e sono io a rassicurarlo. Gli dico che era solo un’idea. Che non
deve preoccuparsi, che non dovrà fare niente di cui non sia convinto, che
volevo soltanto provare che cosa ne pensava. Implicitamente, gli faccio
capire che so e vedo quanta difficoltà avrebbe a staccarsi dalla madre.
Fisso un terzo appuntamento direttamente con il bambino. Poi mi rivolgo
alla madre, ma Chicco è presente, ascolta, ed è perfettamente consapevole
di quello che stiamo dicendo. Concordo con la madre che la prossima volta
entreranno insieme e, se sarà necessario, resteranno ancora seduti vicini per
tutto il tempo, ma che se invece Chicco vorrà, la madre potrà provare ad
allontanarsi un po’, anche solo sedendosi su una sedia un po’ più distante
dalla scrivania, che di solito utilizzo per i tirocinanti osservatori.
All’inizio della terza seduta è il bambino stesso che ricorda alla madre il
nostro “patto” e la invita a sedersi su quella sedia. In realtà, non era stato un
patto, ma solo una mia prudente proposta, ma io prendo naturalmente per
buona quest’idea di Chicco e lo rinforzo socialmente con molta (e sincera)
convinzione. Il bambino mi chiede se può fare un altro disegno. Mi sembra
che questo lo rassereni e gli dico subito di sì. Gli do il foglio, la matita e i
colori pastello e gli propongo di disegnare la sua famiglia. Mi fa un bel
disegno, molto tradizionale, della famiglia in piedi in salotto con,
nell’ordine, il padre e la madre vicini, la sorella vestita all’ultima moda con
l’ombelico scoperto e poi lui. Chiacchieriamo su questo disegno anche
mentre lo sta facendo. Quando comincia a parlarmi della mamma gli dico,
sorridendo, che la mamma potrebbe anche uscire, se non proprio nel
corridoio, per lo meno nell’anticamera (una piccola stanzetta tra il mio
studio e il corridoio). Chicco ci pensa un po’. Sdrammatizzo la cosa
dicendogli che può fare come crede e scherzo sul fatto che, secondo me, la
mamma, anche se la mandiamo fuori, origlierà alla porta per continuare ad
ascoltare quello che diciamo su di lei. Chicco ride, guarda la mamma,
riflette ancora un attimo e poi mi dice che allora la mamma può andarsi a
sedere nell’anticamera, ma lasciando la porta di comunicazione aperta.
Quando arriva il turno di parlare della sorella, mi dice che tra un po’
dovrebbe cominciare a pensare di studiare per prendere la patente, ma che è
indecisa. Dice sempre che se un giorno avrà la patente le toccherà portare
Chicco a destra e a sinistra e non ne ha nessuna voglia. Parliamo piuttosto a
lungo di questo. Mi sembra di capire che Chicco desidererebbe un rapporto
un po’ più stretto con la sorella maggiore.
“Ti piacerebbe se fosse lei ad accompagnarti a scuola?”, gli chiedo un
po’ a bruciapelo.
Sembra molto perplesso per questa domanda assolutamente inattesa, che
deve apparirgli alquanto strana.
Alla fine mi risponde con decisione:
“È impossibile”.

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO: PANORAMICA
SUI DISTURBI D’ANSIA
A una prima, sommaria occhiata, il caso di Chicco potrebbe far pensare a
una fobia della scuola, che a sua volta si inserisce, come vedremo più
avanti, nella più ampia categoria della Fobia sociale. Invece, l’andare a
scuola è per Chicco soltanto una delle fonti d’ansia. Chicco ha difficoltà in
molte altre situazioni. Si preoccupa quando è lontano dai genitori, in
particolare dalla madre. Teme che possa accadere loro qualcosa. Non si
stacca da queste figure di riferimento se non con difficoltà e sofferenza.
Cerca attivamente di evitare le situazioni che lo possano mettere in ansia a
causa di questi distacchi. Se il problema fosse limitato alla paura di andare a
scuola, il bambino probabilmente non avrebbe avuto tante difficoltà a
restare da solo nello studio con me e certamente sarebbe ben contento di
starsene tranquillo a casa con la donna delle pulizie mentre la madre va a
lavorare. Invece, non soltanto non se ne sta affatto in casa tranquillo, ma la
mamma ha specificato che è stata, in pratica, costretta a rinunciare al lavoro
per le reazioni del figlio al suo allontanamento. Il ragionamento può anche
essere invertito: se il problema fondamentale di Chicco fosse una difficoltà
a stare in classe, questa difficoltà sarebbe indipendente dalla presenza della
madre all’interno della scuola. Invece abbiamo visto che questa variabile
svolge un ruolo fondamentale nel disturbo del bambino. Se Chicco è certo
che la madre resterà tutta la mattina nel corridoio, entra in classe con molte
minori difficoltà e poi, una volta in classe, appare spesso sereno e in buoni
rapporti con i compagni.
Il nucleo centrale delle difficoltà di Chicco sembra essere dunque
un’ansia, che si manifesta con molti sintomi fisici, comportamentali e
cognitivi, connessa a situazioni nelle quali il bambino è costretto a
separarsi dalle figure significative di attaccamento: in questo caso, come
quasi sempre in età evolutiva, i genitori.
Il disturbo sembra dunque essere un Disturbo d’ansia di separazione (o
Sindrome ansiosa da separazione dell’infanzia, secondo la classificazione
ICD-10).
I sintomi principali del Disturbo d’ansia di separazione sono un’ansia
non appropriata ed eccessiva per la separazione da coloro a cui il soggetto è
attaccato, evidenziata da malessere quando avviene la separazione o anche
quando essa è semplicemente anticipata con il pensiero; una
preoccupazione persistente e irrealistica di perdita o paura che possa
accadere qualcosa alle principali figure di attaccamento; conseguenti
difficoltà a stare in qualunque luogo dove sia necessario separarsi (e dunque
in età evolutiva, innanzitutto a scuola, ma anche a casa quando i genitori
escono) o a dormire da soli; incubi connessi con la separazione; lamentele
di sintomi fisici nel periodo di anticipazione cognitiva della separazione
(per es., nausea, vomito, dolori di stomaco al momento di partire per una
festa di compleanno dove il bambino sa che sarà accompagnato dalla
madre, ma poi lasciato lì a giocare fino a sera). Il disturbo, per poter essere
diagnosticato, deve avere una durata di almeno 4 settimane nei bambini e
negli adolescenti (mentre è richiesto un periodo di almeno 6 mesi per la
diagnosi in età adulta) e infine causare un forte disagio familiare, sociale,
scolastico o lavorativo (Lambruschi, Fabbri e Mandolesi, 2014; Silove e
Rees, 2014).
Nel caso specifico di Chicco, l’inquadramento sembra difficile da
mettere in dubbio.
In generale, per la diagnosi di Disturbo d’ansia di separazione si
dovrebbe procedere ponendosi due domande cruciali.
La prima è: la maggior parte dei problemi di un bambino può essere fatta
risalire a disturbi d’ansia o è meglio spiegata, per esempio, da un Disturbo
dello spettro dell’autismo3 o da Disturbi dell’umore?4 Potrebbe, per
esempio, accadere che un bambino metta in atto comportamenti
problematici quando la mamma abbandona la stanza o tenta di mandarlo a
scuola: il bambino potrebbe mettersi a gridare e mordersi una mano. In
questo esempio del tutto teorico è possibile che il bambino sia autistico
(vedi cap. 5) e che l’autolesionismo sia un modo per comunicare il suo
bisogno di avere la mamma vicina. Una diagnosi di Disturbo d’ansia di
separazione sarebbe quindi del tutto fuori luogo. D’altra parte, un bambino
potrebbe anche manifestare sintomi disforici al tentativo di essere
allontanato dai genitori. Potrebbe piangere o lamentarsi che si sente male
perché, in realtà, è depresso (vedi capp. 23 e 24) e, anche in questo caso,
l’ansia potrebbe essere solo un sintomo secondario.
La seconda domanda da porsi è: quali stimoli, quali situazioni, quali
contesti sembrano essere i responsabili delle risposte d’ansia? Abbiamo
appena visto nel caso di Chicco che la risposta a questa domanda richiede
un minimo di attenzione. Frettolosamente, si sarebbe potuto rispondere “la
scuola”. Invece, con un’analisi più attenta, ci siamo accorti che gli stimoli
sono connessi alla separazione dalle figure di attaccamento.
I bambini con Disturbo d’ansia di separazione mostrano, come è stato
messo in luce da Doobay (2008), un incremento delle consultazioni
psichiatriche e il decremento di possibilità di diventare genitori in età
adulta, probabilmente a causa delle limitate abilità sociali spesso connesse
con questa patologia. Nelle passate edizioni del DSM (fino alla quarta), il
Disturbo d’ansia di separazione era inserito in una sezione dedicata ai
“Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell’Infanzia, nella
Fanciullezza e nell’Adolescenza”, e precisamente nell’ultima parte di
questa sezione, che era chiamata “Altri Disturbi dell’Infanzia, della
Fanciullezza e dell’Adolescenza”, la stessa nella quale si trovava anche il
Mutismo selettivo, che sarà descritto nel capitolo 18. Anche nell’ICD-10
tale disturbo viene inserito nella parte dedicata a “Sindromi e disturbi della
sfera emozionale con esordio caratteristico dell’infanzia” e prende il nome
di Sindrome ansiosa da separazione dell’infanzia. Gli item dei sintomi del
DSM e dell’ICD-10 sono molto simili. Nell’ultima edizione del DSM-5,
invece, è stata fatta una scelta diversa e tutti i Disturbi d’ansia sono stati
inseriti in un’unica sezione, nella quale è compreso anche il Mutismo
selettivo, ma escluso il Distrubo ossessivo-compulsivo, come vedremo nel
capitolo 17. Questi disturbi son descritti in una sequenza che cerca di
rispettare l’età tipica di esordio, e dunque troviamo nell’ordine: il Disturbo
d’ansia da separazione (F93.0, nel presente capitolo), il Mutismo selettivo
(F94.0, vedi cap. 18), la Fobia specifica (F40.2 al quale è necessario
aggiungere due ulteriori cifre per specificare il tipo di stimolo fobico; vedi
cap. 15), il Disturbo d’ansia sociale (o Fobia sociale F40.10; vedi capi. 16).
A questi il DSM-5 aggiunge altri disturbi d’ansia che non saranno trattati in
questo volume in capitoli separati perché di scarso interesse per la
psicopatologia dello sviluppo. Seguendo l’ordine dell’ultima edizione del
DSM ne vengono qui di seguito brevemente descritti alcuni.

Disturbo di panico (F41.0)


(Sindrome da attacchi di panico secondo l’ICD-10)

Si tratta di una paura forte, per lo più improvvisa, con intensa attivazione
fisiologica, che si verifica e si sviluppa in un arco di tempo di pochi minuti.
Non è chiaro se il disturbo si possa trovare anche nei bambini. La letteratura
non è concorde su questo e, in ogni modo, l’attacco di panico non
rappresenta certo un problema epidemiologicamente molto rilevante in età
evolutiva (Moreau e Follet, 1993). L’esordio tipico è tra la tarda
adolescenza e i venticinque anni, anche se qualche caso isolato è stato
riportato in età precedenti, sia pure con molte cautele.

Agorafobia (F40.00)
(Agorafobia con sindrome da attacchi di panico nell’ICD-10)

Letteralmente, come è noto, significa “paura della piazza”, e rappresenta un


disturbo legato alla fobia di trovarsi in circostanze in cui potrebbe essere
difficile allontanarsi o chiedere aiuto qualora se ne presentasse la necessità.
Di solito è associata a una storia di attacchi di panico e, per motivi analoghi
a quelli del Disturbo di panico, si tratta di una sindrome frequente e
importante negli adulti, ma non nei bambini.

Disturbo d’ansia generalizzata (F41.1)


(Sindrome ansiosa generalizzata secondo l’ICD-10)

Sono stato incerto se inserire qui una breve descrizione di questa sindrome,
o se dedicarle un capitolo. L’ansia generalizzata, infatti, si riscontra con una
certa frequenza anche in età evolutiva, ma raramente come un disturbo
isolato (House, 1991; Kendall e Di Pietro, 1995; si veda anche, a questo
proposito, la storia di Enrico nel capitolo 21). È per lo più in comorbilità
con altri Disturbi d’ansia. Si tratta di una forma d’ansia, a volte di una vera
e propria angoscia, e sempre di un senso forte di apprensione,
preoccupazione, aspettativa del peggio, che si manifesta in assenza di
stimoli specifici. Il paziente vive come se qualcosa di terribile stesse per
accadere. Una disgrazia? Una malattia? In realtà, è qualcosa che egli stesso
non riesce neppure a definire. Così avviene che questa incapacità, questo
vuoto persino di parole utili per descrivere quello che si prova e perché lo si
prova aumentino il senso di disagio e di angoscia, alimentando un circolo
vizioso che può arrivare a produrre molta sofferenza. Tutta quest’ansia di
cui non si conosce neppure la causa, inoltre, porta nel paziente irritabilità,
bisogno di avere qualcuno vicino per essere calmato e rassicurato. Di qui la
frequentissima comorbilità, specialmente in età evolutiva, con il Disturbo
d’ansia di separazione, che mi ha fatto decidere di non trattare l’ansia
generalizzata a parte. Segni di ansia generalizzata sono, d’altronde, presenti
anche nel caso di Chicco. Il Disturbo d’ansia generalizzata è spesso
associato anche a idee depressive. È piuttosto frequente nei bambini, tanto
che nel DSM-III (American Psychiatric Association, 1983) aveva un suo
nome specifico nella sezione dedicata ai Disturbi dell’Infanzia, Fanciullezza
e Adolescenza: Disturbo d’Ansia Diffusa (o Iperansietà). Si manifesta
spesso con attacchi di ansia anticipatoria nella maggior parte delle
situazioni che richiedono un giudizio o una valutazione e con sintomi
caratterizzati da irrequietezza, tensione, perfezionismo e bisogno continuo
di rassicurazione e di gratificazione. Le preoccupazioni, spesso concernenti
eventi futuri, sono di solito tanto vaghe quanto irrealistiche (Chicco, quando
il padre doveva partire per Brescia, non era preoccupato che dovesse
succedere qualcosa proprio a lui, né sapeva in cosa potesse consistere
questo “qualcosa”: era angosciato e basta). Spesso è associata a
manifestazioni somatiche, soprattutto mal di testa e mal di stomaco, a
sintomi fisici come tensione muscolare, difficoltà ad addormentarsi
(Grover, Hughes, Bergman e Lindsey, 2006). Oltre alla comorbilità con altri
Disturbi d’ansia (per es., la comorbilità con la Fobia sociale è superiore al
30%) e con i Disturbi depressivi (Brown et al., 2007),5 è facile trovare ansia
generalizzata in bambini con Disturbo da deficit di attenzione/iperattività.
Questo rende spesso la diagnosi differenziale particolarmente difficile. Un
altro elemento di difficoltà per la diagnosi è costituito dal fatto che si può
avere l’impressione di essere di fronte a un bambino particolarmente
maturo: a volte non si coglie che certi comportamenti che sembrano molto
assennati sono il frutto del tentativo di tenere l’angoscia sotto controllo. È
più frequente nei figli che appartengono a famiglie di livello
socioeconomico e culturale alto, dove tendono a essere, di conseguenza, più
alte le richieste prestazionali. Vedremo, quando parleremo degli interventi
psicoterapeutici dei Disturbi d’ansia, come quest’ultima considerazione
possa essere importante per programmare un intervento di tipo cognitivo,
basato sull’Educazione Razionale Emotiva e sulla ristrutturazione
cognitiva di certi pensieri disfunzionali sia del bambino sia dei membri
della famiglia. Kendall, Hudson, Gosch, Flannery-Schroedere e Suveg
(2008) hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-
comportamentale sia a livello individuale che familiare.

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pag. 350

A questo elenco seguono, sempre nella sezione dei Disturbi d’ansia,


quelli dovuti a sostanze, farmaci o altre condizioni mediche, mentre nella
sezione Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti sono compresi tre
disturbi che riportiamo qui di seguito per il loro interesse nella
psicopatologia dello sviluppo.

Disturbo da stress post-traumatico (F43.10)


(Sindrome post-traumatica da stress secondo l’ICD-10)

In questo caso, l’ansia e le sue conseguenze patologiche si presentano a


seguito dell’esposizione a uno stress particolarmente drammatico. I sintomi
più comuni del Disturbo da stress post-traumatico nell’adolescente e nel
bambino sopra i 6 anni sono: il continuo, ripetitivo rivivere lo stressor in
modo persistente (nei giochi, nei sogni, nei disegni); l’evitamento degli
stimoli in qualche modo legati al trauma; l’attenuazione della reattività
generale, che produce una specie di obnubilamento; l’eccessiva attivazione
(nell’ICD-10 i sintomi di aumentato arousal non sono considerati
indispensabili ma possono essere sostituiti dall’incapacità di rievocare
importanti aspetti del trauma); sentimenti di paura, orrore, impotenza; un
comportamento disorganizzato e agitato; il ritiro sociale; la regressione
intesa come perdita temporanea di abilità già acquisite come il linguaggio e
il controllo sfinterico (l’enuresi e l’encopresi secondaria sono tipici nel
Disturbo da stress post-traumatico, come in alcune forme piuttosto gravi di
Disturbo dell’adattamento: vedi più avanti in questo stesso paragrafo); i
terrori notturni; le difficoltà di concentrazione; le gravi anomalie del sonno;
l’ipervigilanza; l’aggressività. Lo stressor deve essere molto forte, al di
fuori delle comuni esperienza umane: rischiare di morire; assistere
all’uccisione di un genitore; gravi lesioni; minaccia dell’integrità fisica;
aggressione da parte di animali; interventi medici particolarmente invasivi,
dolorosi e spaventosi; rapimento; incidenti. Nell’ ICD-10 si parla a
proposito di una situazione o evento stressante “di natura eccezionalmente
minacciosa o catastrofica, in grado di provocare diffuso malessere in quasi
tutte le persone”. Nella psicopatologia dello sviluppo gli stressor più tipici
responsabili del Disturbo da stress post-traumatico sono oggi,
probabilmente, i maltrattamenti e gli abusi fisici e sessuali (Dèttore e
Fuligni, 1998; Ammaniti, 2001); la violenza domestica ed extradomestica; i
disastri naturali e le guerre. È importante, tuttavia, ricordare che queste
sono cause necessarie ma non sufficienti per determinare il disturbo. Fattori
protettivi ancora non chiariti dalla ricerca fanno sì che non sempre a uno di
questi stressor faccia seguito un Disturbo da stress post-traumatico; Lubit,
Rovine, Defrancisci ed Eth (2003) hanno studiato l’impatto del trauma sui
bambini e descritto i trattamenti psicoterapeutici utili in questi casi. D’altra
parte, fattori predisponenti personali e familiari possono produrre un
disturbo di questo tipo anche a seguito di eventi meno drammatici.
Ho seguito per un certo periodo una bambina di otto anni, con pregresse
difficoltà nell’addormentarsi e probabilmente una Fobia specifica per il
sangue e le ferite, in quanto una sera si trovò ad assistere a una rapina in
casa. Tre extracomunitari mascherati, che parlavano una lingua quasi del
tutto incomprensibile, minacciarono i genitori, legarono il padre e ferirono
la madre con il calcio della pistola, si fecero aprire la cassaforte e poi
diedero alla bambina l’impressione che le avrebbero sparato. Non successe
in realtà nulla di irreparabile, ma per mesi la bambina non riusciva più a
dormire da sola, sognava ladri, rapinatori e ferite da arma da fuco,
disegnava tutto questo in continuazione nelle sedute con me: in particolare
disegnava maschere, dalle quali sembrava terrorizzata. Sebbene i genitori e
gli insegnanti la descrivessero come una bambina in passato socievole e
piena di voglia di vivere, nel periodo in cui io la conobbi trascorreva le
giornate in casa, preferibilmente da sola con la mamma, a disegnare o a
guardare la televisione, evitando accuratamente qualsiasi programma, film,
telefilm o telegiornale che potesse rievocare l’evento traumatico.
La prevalenza del disturbo è, molto approssimativamente, calcolata
attorno al 3,5%, ma si tratta di studi di solito non specificamente fatti sui
bambini. Nella metà dei casi c’è una remissione completa entro tre mesi. In
alcuni casi, invece, sintomi anche gravi possono persistere per anni (Yule,
2000; Victor e Bernstein, 2009). Bambini che esibiscono psicopatologia già
prima di un’esposizione traumatica e poi subiscono un trauma per un lungo
periodo, o che sperimentano direttamente l’evento traumatico, hanno un
alto rischio di sviluppare questo disturbo. Il supporto genitoriale può essere
un fattore predittivo, mentre altri fattori sociali negativi possono aumentare
il rischio fra i bambini traumatizzati: in questi casi la terapia cogntivo-
comportamentale è raccomandata in quanto ha più volte dimostrato la sua
efficacia (Herpertz, Hahn e Hempt, 2005; Russo, Galluzzi, Trabacca e
Massagli, 2005). Il DSM-5 prevede una sottocategoria di questo disturbo
per bambini di età inferiore ai 6 anni dove si specifica che i ricordi intrusivi
dell’evento traumatico possono non essere percepiti come spiacevoli e
possono trasformarsi in una specie di gioco.

Disturbo da stress acuto (F43.0)


(Reazione acuta da stress secondo l’ICD-10)

Si differenzia dal precedente per una più marcata presenza, tra gli altri,
anche di sintomi dissociativi e connessi all’umore negativo e per la durata
dei sintomi che va dai 3 ai 30 giorni dallo stressor. I criteri diagnostici
riportati nell’ICD-10 differiscono da quelli riportati nel DSM-5 per alcuni
aspetti: innanzitutto l’ICD-10 include sintomi prevalentemente di ansia che
devono comparire entro 1 ora dell’evento stressante e insorgere e risolversi
entro 8 ore nel caso di stress transitori o di 48 ore nel caso di stress
persistenti.
Non sono inoltre richiesti sintomi dissociativi o che l’evento venga
persistentemente rivissuto.

Disturbo dell’adattamento con ansia

In linea generale, i Disturbi dell’adattamento si caratterizzano per una


sintomatologia che si verifica in risposta a stressor situazionali presenti
nella vita di una persona. Abbiamo già trattato questo concetto nel capitolo
precedente, a proposito del Disturbo dell’adattamento con alterazione della
condotta.
Così definito, il Disturbo dell’adattamento con ansia può assomigliare al
Disturbo da stress post-traumatico, ma si tratta di una somiglianza
superficiale perché qui sia gli stimoli ansiogeni sia le risposte
sintomatologiche sono molto più lievi. Inoltre, nel Disturbo
dell’adattamento manca un sintomo altamente specifico del Disturbo da
stress post-traumatico, che consiste nel continuo rivivere il trauma. La
diagnosi di Disturbo dell’adattamento con ansia è pertanto riservata a quei
casi in cui non esiste e non può essere diagnosticato un Disturbo d’ansia
completo, e in cui i sintomi si manifestano a seguito di un fattore stressante
verificatosi non più di 3 mesi prima delle reazioni disadattive. La diagnosi
va cambiata se i sintomi persistono dopo 6 mesi dalla cessazione dello
stressor. In passato questa limitazione era più rigida: si diceva che la
diagnosi non era più corretta se i sintomi continuavano dopo 6 mesi
dall’evento stressante che aveva generato la reazione di disadattamento.
Oggi si parla, invece, di 6 mesi dalla cessazione dello stressor: questo
permette di fare diagnosi di Disturbo dell’adattamento anche quando lo
stressor è cronico e, di conseguenza, anche il disturbo può avere una durata
più lunga (Rapaport e Ismond, 2000). Tipico, in psicopatologia dello
sviluppo, è il caso della reazione disadattiva di un bambino a una
separazione dei genitori, specie se avvenuta in modo violento. Se la
separazione dura e se continua l’atteggiamento aggressivo dei genitori tra di
loro e nei confronti del bambino, per esempio usato come “ostaggio” o
“merce di scambio” nelle questioni legali o di coppia, anche il Disturbo
dell’adattamento con ansia può prolungarsi ben oltre i 6 mesi dalla
separazione, senza che per questo sia necessario cambiare la diagnosi.
Tuttavia, è bene tener presente che i Disturbi dell’adattamento tendono per
loro natura a non essere cronici e a risolversi da soli: pertanto, quando si
cronicizzano, diventa probabilmente più adeguata una diagnosi diversa.
Il problema dei bambini che, pur senza avere una patologia specifica e
chiaramente inquadrabile in una categoria diagnostica standard, soffrono a
causa di vicende familiari, ambientali e scolastiche non particolarmente
fortunate è un problema cruciale per lo psicologo dell’età evolutiva (Tafà,
2001). Tutto ciò indipendentemente dal fatto che in questi casi sia più
corretta una diagnosi di Disturbo dell’adattamento, o che sia meglio
inquadrare questi bambini nella categorie previste dall’utima sezione del
DSM-5 relativa alle Altre condizioni che possono essere oggetto di
attenzione clinica. Cercherò, nei limiti imposti dalle dimensioni e dagli
scopi di questo lavoro, di affrontare questo problema nel capitolo 25,
dedicato alla casistica infinita dei bambini che di solito è difficile trovare
sui libri. Penso che questo argomento sia generalmente un po’ trascurato,
forse anche a causa dello scarso interesse che riveste per psichiatri e
neuropsichiatri infantili. Al contrario, per lo psicologo che si occupa di
infanzia e di adolescenza può rappresentare uno degli aspetti più rilevanti di
tutta la sua vita professionale.
INQUADRAMENTO TEORICO E RICERCHE
L’ansia è un’esperienza umana universale.
È stato messo in luce infinite volte, da studiosi di ogni orientamento,
come non sia possibile neppure pensare a una vita completamente priva di
ansia. L’ansia è, infatti, impossibile da eliminare del tutto ed è inoltre, in
molte circostanze, sana. Possiamo imparare qualcosa sull’ansia studiandola
sui libri, naturalmente; poi attraverso esperienze cliniche come quella di
Chicco; ma, forse, il modo migliore per capire davvero cosa sia questo
fenomeno complesso e multiforme è (come spesso accade in psicologia)
guardarsi dentro. Credo, infatti, che abbiamo vissuto tutti l’esperienza
soggettiva di una reazione d’ansia esagerata, che avremmo preferito evitare
e che in qualche modo ci ha danneggiato, per esempio per un esame
particolarmente impegnativo; ma abbiamo, a volte, anche provato come una
dose ragionevole di ansia ci sia servita per essere più vigili, più attenti, più
preparati ad affrontare una situazione difficile.
Mentre stavo preparando questo capitolo, mi è capitato di fare una
passeggiata in montagna con un gruppo di adulti e bambini. È stata
un’esperienza molto avventurosa. Prima abbiamo incontrato un serpente
lungo oltre un metro, giallo e nero, che strisciava nell’erba proprio tra i
nostri piedi e che uno di noi, inavvertitamente, ha schiacciato e ucciso.
Qualcuno ha cacciato un urlo, quasi tutti sono indietreggiati, una bambina è
impallidita e si è avvinghiata a suo padre (che però sembrava avere più
paura di lei e, dunque, non l’ha aiutata molto a causa di un modellamento
negativo). Il serpente era morto, ma nessuno osava avvicinarsi, fino a che
un ragazzo del gruppo, molto più esperto degli altri, ci ha rassicurato
dicendo che era solo una povera biscia d’acqua. Questo non ha cambiato
molto le cose, nel senso che abbiamo continuato, chi più chi meno, a tenerci
a distanza di sicurezza. (Ci si potrebbe chiedere sicurezza di cosa, visto che
era un animale innocuo e per di più morto: ma questi sono proprio gli
aspetti irrazionali tipici di molti di questi fenomeni emotivi.) Il ragazzo
invece si è avvicinato, l’ha presa in mano, l’ha mostrata a chi aveva voglia
di guardarla un po’ meglio. L’ansia ha chiaramente cominciato a decrescere
in tutti noi, ma naturalmente non in tutti allo stesso modo. Come se
quest’avventura non fosse bastata, poco dopo, invece, abbiamo incontrato
una vipera. Si sono ripetute scene analoghe. Un bambino si è messo a
piangere. Non avevamo un rilevatore di pulsazioni cardiache e, anche se lo
avessimo avuto, eravamo tutti affaccendati a scappare, ma è certo che la
frequenza dei nostri battiti era in quei momenti notevolmente aumentata.
Tornati alla base, qualcuno era ancora un po’ scosso da questo secondo
incontro. Una bambina, la notte, si è svegliata più volte dicendo che aveva
una vipera nel letto e ha voluto che almeno un genitore dormisse con lei. La
povera biscia d’acqua, invece, ha cominciato piano piano a diventare
oggetto di gioco. I più coraggiosi hanno provato a toccarla (e ovviamente
non sono morti). Qualcuno ha voluto farsi fotografare con il serpente tra le
mani. Qualcun altro, per non essere da meno, si è fatto la foto con il
serpente intorno al collo. Prima dell’ora di cena quasi nessuno aveva più
paura della biscia d’acqua. Ci era rimasta la paura della vipera,
naturalmente, e se ne avessimo incontrata un’altra avremmo avuto le stesse
reazioni fisiche di ansia e saremmo scappati di nuovo. Tuttavia questo non è
un disturbo psicologico, ma la giusta reazione a un pericolo vero. L’ansia
generata dall’innocua biscia d’acqua, invece, si è attenuata pian piano e
anche per quei pochi di noi che hanno continuato ad avere reazioni di
disagio per la presenza del serpente non si può parlare di un disturbo
psicologico, perché il giorno dopo eravamo tutti in città, dove di solito non
ci sono bisce d’acqua, l’episodio era dimenticato e non generava più nessun
comportamento disadattivo nelle nostre vite.
Da un punto di vista clinico, l’ansia non può dunque essere sempre
inquadrata come un disturbo (Golse, 1995). Prima di tutto, non lo può
essere se gli stimoli che la determinano sono oggettivamente pericolosi. In
questo caso, ben lungi da rappresentare una patologia, l’ansia è un
comportamento adattivo, utile a generare uno stato di allerta che rende più
facile affrontare un pericolo. L’ansia creata dalla vista di una vipera durante
una passeggiata in un bosco è una normale paura. Se la stessa paura è
determinata da una biscia d’acqua (una volta che si sia imparato a
riconoscerla e che si sappia che è innocua) allora forse si può cominciare a
parlare di fobia, anche se questo è valido solo per chi abita in campagna o
in montagna. Prima di etichettare come patologica una risposta d’ansia, è
infatti necessario che essa interferisca negativamente nella nostra vita
quotidiana. Una forte paura generata da una formica, da una farfalla o da un
gatto sarebbe quasi certamente una fobia, perché un bambino che ha paura
delle formiche può avere difficoltà a giocare in giardino con gli amici e a
divertirsi con loro. Le bisce d’acqua, invece, nella nostra vita quotidiana
sono così rare che una paura per questi animali sarebbe praticamente
irrilevante. Il secondo criterio per poter definire l’ansia un disturbo
psicopatologico è dunque quello della produzione di significativi
disadattamenti. È evidente che questo secondo criterio è relativo, in quanto
fortemente influenzato dall’ambiente in cui una persona vive. Forse una
fobia per le bisce d’acqua diventerebbe patologica in un taglialegna, per il
quale non sarebbe invece patologica una fobia per gli ascensori. A questo
proposito Meltzer et al. (2009) riferiscono che nei bambini e negli
adolescenti dai cinque ai sedici anni sono molto frequenti (con tassi anche
oltre il 30%) le paure specifiche; nell’ordine, in particolare: animali,
sangue/iniezioni, buio. Tuttavia, di questi, solo l’1% può ricevere una
diagnosi completa di fobia specifica sulla base dei criteri internazionali del
DSM-5 o dell’ICD-10, soprattutto perché spesso non interferiscono in
modo significativo con la vita e non provocano un disagio significativo. Gli
autori sostengono inoltre che alcune paure specifiche sono in parte correlate
con l’appartenenza a un gruppo etnico e mediate culturalmente da credenze,
valori e tradizioni del gruppo. Sulle caratteristiche delle paure infantili, si
veda anche Berger, 2010 e Muris e Field, 2010.
Alle due cautele generali (l’ansia non deve essere generata da stimoli
oggettivamente pericolosi e deve, a sua volta, generare comportamenti
disadattivi) ne devono essere aggiunte altre due specifiche per l’età
evolutiva. Primo, nel bambino lo studio dei fenomeni legati all’ansia è reso
particolarmente complesso dal fatto che, come abbiamo appena visto, mille
paure (del buio, di essere lasciati soli, di piccoli animali, di mostri
immaginari) sono frequentissime e assolutamente normali in alcune fasi
dello sviluppo. Secondo, in età evolutiva, contrariamente a quanto di solito
avviene per gli adulti, l’ansia può non essere chiaramente percepita e
verbalizzata (March, 1995). Il clinico dovrà dunque esplorare con
attenzione i comportamenti del bambino, soprattutto se piccolo, che
possano far sospettare l’esistenza di un problema d’ansia (Gosch, Flannery-
Schroeder, Mauro e Compton, 2006).6
Sto seguendo un bambino di sei anni e mezzo, di nome Thomas. In
questi ultimi tempi ha cominciato a manifestare una forma di aggressività
verbale grave nei confronti dei genitori. “È diventato cattivo”, dice la
madre, è disubbidiente e un paio di volte, la scorsa settimana, quando la
tensione con la mamma si è fatta particolarmente forte, le ha detto: “Ti
odio”. Visti così, isolati dal loro contesto, in un bambino che ha anche
qualche difficoltà di linguaggio e non è certamente in grado di spiegare cosa
prova, questi potrebbero sembrare sintomi di un Disturbo della condotta, o
suggerire una cattiva relazione tra il bambino e i suoi genitori. In realtà,
Thomas frequenta la prima classe della scuola primaria. Nei primi mesi ha
avuto gravi difficoltà di inserimento e di socializzazione. Adesso sta in
classe e interagisce con qualche compagno, ma è rimasto molto indietro, se
ne accorge e soffre di questo. Ha paura delle verifiche e la notte si sveglia
cento volte dicendo che gli scappa la pipì. Uno dei suoi genitori si deve
alzare, accendere la luce e accompagnarlo in bagno, il più delle volte per
niente. Allora Thomas si scusa, dice che non chiamerà più e dieci minuti
dopo si sveglia di nuovo e chiama dicendo che deve fare la pipì. Queste
sono evidentemente manifestazioni d’ansia, anche se il bambino non è
capace di riconoscerle e, tanto meno, di descriverle come tali. La mamma,
che non ha studiato psicologia e non è neppure una donna particolarmente
colta, ha però sufficiente intuito per dirmi, a un certo momento del
colloquio, mentre mi sta descrivendo questi sintomi:
“È come un mostro che all’improvviso si risveglia dentro di lui”.
È appunto l’ansia, che probabilmente si accumula a causa delle tensioni
e dei fallimenti scolastici.
Pur con tutte queste cautele e queste difficoltà di individuazione, i
Disturbi d’ansia rappresentano la psicopatologia forse più diagnosticata in
età evolutiva, con una prevalenza molto diversa a seconda degli studi di
riferimento, ma probabilmente superiore al 10% della popolazione generale:
per il Disturbo d’ansia di separazione, che non è il più frequente e si
manifesta di solito in età prepubere, si parla di una prevalenza del 4%,
mentre la Fobia specifica supera il 10% da sola. Durante l’infanzia i
Disturbi d’ansia sono approssimativamente doppi nei maschi rispetto alle
femmine, mentre dall’adolescenza in avanti il rapporto tende a rovesciarsi
(Levi e Sogos, 1999; Lambruschi, Fabbri e Mandolesi, 2014).
La ricerca è da tempo concorde (Kendall e Di Pietro, 1995) sul fatto che
l’ansia, in particolare quando raggiunge livelli patologici, si manifesta in tre
grandi categorie di risposta (o di sintomi, se stiamo specificamente parlando
di un disturbo).
1. Le risposte fisiche dell’ansia sono l’aumento della frequenza cardiaca (il
cuore che batte più velocemente alla vista della vipera), della pressione
arteriosa e della tensione muscolare, la diminuzione della temperatura
cutanea alle estremità, la sudorazione, la dispnea con conseguente
sensazione di soffocamento, il dolore o il fastidio al petto, la nausea e il
vomito. La ricerca di ispirazione comportamentale ha chiarito come
molte risposte fobiche, in particolare molte reazioni fisiche, possano
essere apprese attraverso un modello di associazione di stimoli. Se, per
esempio, una volta, mentre era in classe lontano dai suoi genitori, Chicco
si è sentito male alla vista della compagna che vomitava e ha avuto una
serie di sintomi fisici, è possibile che un meccanismo di condizionamento
classico faccia sì che adesso, tutte le volte che si trova in classe lontano
dai suoi genitori, i sintomi si ripresentino perché i due stimoli (essere in
classe senza genitori e vedere una compagna vomitare) si sono trovati
una volta associati. Così adesso non c’è più bisogno del primo stimolo (la
compagna che vomita) per generare la risposta. Da questo modello
interpretativo sono nati alcuni metodi terapeutici basati sul
controcondizionamento e la desensibilizzazione sistematica , che
vedremo nel prossimo paragrafo. Questa interpretazione
comportamentale, tuttavia, non esaurisce certo le possibili letture del
fenomeno. Il soggetto ansioso, infatti, può percepire e diventare
consapevole di alcune risposte fisiche: può, per esempio, sentirsi
particolarmente teso, oppure può rendersi conto che il suo cuore
comincia a battere all’impazzata, fino a dargli l’impressione che da un
momento all’altro gli scoppierà nel petto. Questa percezione può, in
alcuni casi, contribuire ad attivare risposte cognitive, per esempio: “Ecco,
ci siamo, il cuore comincia a battere senza controllo, ora mi sentirò male,
forse sverrò qui davanti a tutti, chiameranno l’ambulanza e mi dovranno
ricoverare…”. Tali risposte cognitive possono dunque manifestarsi in
seguito a una risposta fisica, producendo così un grave circolo vizioso
che autoalimenta l’ansia. Può allora verificarsi che la percezione di una
risposta fisica (il cuore batte più forte) produca un pensiero (“Mi sentirò
male”) che a sua volta aumenterà l’effetto della risposta fisica (il cuore
batterà ancora più forte) responsabile, in un circolo virtualmente infinito,
di risposte cognitive di intensità crescente (“Non mi sentirò male, ma
malissimo: forse sta per arrivarmi un infarto”). È evidente che
l’interruzione di questo circolo vizioso, per esempio attraverso strategie
di ristrutturazione cognitiva , diventa in questi casi essenziale.
Inoltre, sulla possibilità di misurare con appositi strumenti
psicofisiologici molte risposte fisiche, si basa una particolare forma di
terapia, detta biofeedback, che consiste nel fornire al paziente
un’informazione precisa e immediata di una serie di parametri fisiologici
che misurano il livello della sua ansia mentre cerca di rilassarsi (Chiari,
1982; Basmajian, 1985). Questa informazione funge appunto da
rinforzatore informativo , o feedback, e permette al paziente di
imparare gradualmente ad abbassare i parametri indicatori dell’ansia in
modo da raggiungere un rilassamento sempre più profondo. Il
rilassamento in biofeedback può poi essere usato come strumento
terapeutico a sé stante in molti Disturbi d’ansia (in particolare, nella
Fobia specifica) oppure in associazione con esercizi di
desensibilizzazione sistematica e di esposizione in immaginazione
(Hedtke, Kendall e Tiwari, 2009; Rauch, Eftekhari e Ruzek, 2012). In
alcuni casi, per combattere i Disturbi d’ansia (e anche il dolore cronico
spesso collegato con l’ansia) vengono utilizzati interventi che insegnano
a esercitare un controllo sul proprio sistema nervoso autonomo. Tra
questi emergono: il biofeedback, la meditazione, la guida
all’immaginazione e l’ipnosi (Turk, Swanson e Tunks, 2008).

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2. Le risposte comportamentali dell’ansia sono sostanzialmente la fuga


(tendenza ad allontanarsi da uno stimolo ansioso) e l’evitamento
(tentativo di evitarne il contatto). Se ho paura della biscia d’acqua dirò
che ho mal di stomaco e non posso andare a fare una passeggiata in
montagna (e poi, magari, il mal di stomaco mi verrà davvero, a
dimostrazione che questa suddivisione fra risposte fisiche,
comportamentali e cognitive è per lo più teorica, perché nella realtà
clinica troviamo spesso queste risposte mescolate insieme e potenziate
l’una dall’altra). Oppure mi metterò a giocare a carte, sostenendo che
poche cose nella vita mi divertono come giocare a carte e che non ho
nessuna intenzione di interrompere la partita per fare una stupida gita in
montagna. L’evitamento consiste proprio nella messa in atto di
comportamenti atti a evitare uno stimolo con conseguenze aversive. Nel
caso di Chicco, inventare mille stratagemmi per convincere la mamma a
passare tutto il pomeriggio in casa è una risposta di evitamento. Quando
invece, durante una passeggiata in montagna, alla vista del primo oggetto
che si muove tra l’erba scappo a gambe levate, fornisco un buon esempio
di comportamento di fuga, simile a quello di Chicco che, accompagnato
davanti al cancello della scuola, scapperà di nuovo dentro l’automobile
della mamma e non ci sarà modo di levarlo di lì. La ricerca di ispirazione
comportamentale ha chiarito bene il meccanismo che alimenta e
mantiene i comportamenti di fuga e di evitamento attraverso il
rinforzamento negativo e, in qualche caso, anche positivo (Martin e Pear,
2000). Fuggire dallo stimolo ansiogeno e, in seguito, riuscire addirittura a
evitarlo, viene premiato dalla riduzione dell’ansia (rinforzamento
negativo, inteso come sottrazione di una situazione aversiva). A volte
questi comportamenti sono anche premiati da quelli che psicologi con
diverso orientamento teorico chiamano “vantaggi secondari” (Marcelli,
1999) e che noi possiamo chiamare rinforzatori positivi: per esempio, nel
caso di Chicco, restarsene a casa al calduccio, a guardare la televisione o
a prendersi le coccole della mamma. Vedremo nel prossimo paragrafo
come da questo semplice modello teorico sia possibile derivare strategie
di intervento terapeutico, in particolare quelle basate sull’esposizione e il
rinforzamento differenziale dei comportamenti adattivi.
3. Le risposte cognitive dell’ansia sono state in parte anticipate nel punto 1.
Pur essendo tantissime e non potendo certamente essere elencate in modo
completo, in linea generale si può dire che si tratta di pensieri negativi,
per lo più irrealistici o comunque esagerati, nei confronti di particolari
situazioni temute. Spesso sono pensieri anticipatori (“Sicuramente, se ora
la mamma mi lascia solo in classe, mi accadrà di sentirmi male…”) o
connessi alle cosiddette catastrofi a bassa probabilità (“Potremmo
naufragare”, “Il palazzo potrebbe prendere fuoco”, “Il gatto potrebbe
graffiarmi ed essere portatore di una malattia mortale”). Altre volte sono
interpretazioni distorte di dati di realtà: ne abbiamo visto un esempio al
punto 1, quando il batticuore, invece che una banale attivazione
fisiologica che è ovvio capiti quando siamo un po’ tesi, è interpretato
come il segno di un malessere grave e catastrofico. Nei bambini possono
consistere in particolare in pensieri angosciosi sulla possibilità che
succeda qualcosa di terribile in determinate circostanze: per esempio, che
i genitori possano venire uccisi, o subire gravi incidenti, o scomparire e
non tornare mai più (in particolare nell’Ansia di separazione). Oppure,
analogamente a quanto avviene per gli adulti, possono assumere la forma
di esagerazioni e distorsioni negative dell’importanza di certi eventi. Per
esempio, possono portare all’idea che, se sbaglio o ho un attimo di
incertezza o non mi sento bene nel momento in cui la mamma mi lascia
in classe, tutti i miei compagni se ne accorgeranno e mi prenderanno in
giro, ed è intollerabile fare una brutta figura davanti agli altri, e questa
sarà l’ennesima conferma del fatto che non piaccio a nessuno… Inoltre
l’ansia elevata può produrre sensazione di sbandamento, instabilità,
derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione
(sensazione di essere staccati da sé stessi), paura di perdere il controllo e
di impazzire. Tutto questo può interferire negativamente con le abilità di
pensiero e, in particolare, di ragionamento astratto, di pianificazione e di
problem solving. Anche qui ci troviamo di fronte a un evidente rischio di
circolo vizioso dell’ansia: proprio in quei momenti particolarmente
difficili in cui il paziente avrebbe bisogno di far ricorso a tutte le sue
abilità per affrontare e risolvere il problema, queste abilità vengono
meno, rendendo il problema più terribile da fronteggiare. Vedremo come
anche queste componenti cognitive ed emozionali possano essere
affrontate con alcune metodologie terapeutiche, in particolare con la
cosiddetta terapia razionale emotiva (Suveg, Kendall, Comer e Robin,
2006).

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Sul piano clinico, come abbiamo appena visto nella breve descrizione del
caso di Thomas, a volte l’ansia può manifestarsi nei bambini in forma
mascherata, con una prevalenza di irritabilità, aggressività e lamentele
fisiche. Può, inoltre, produrre ricadute molto negative sull’apprendimento.
In questi casi si pone, a volte, il problema della diagnosi differenziale e del
rapporto tra disturbo prevalente e disturbi secondari. Per esempio, un
bambino che va male a scuola, non si impegna, ha la testa da un’altra parte
e risponde male alla mamma che lo invita a fare i compiti, ha un Disturbo
d’ansia che è poi responsabile del Disturbo dell’apprendimento o viceversa?
Porsi domande simili non è mai superfluo. Un particolare disturbo, infatti, a
seconda che sia inquadrato come prevalente o secondario, può cambiare
l’impostazione psicoterapeutica: un conto è cercare di insegnare al bambino
ad affrontare e a gestire l’ansia e un altro conto è tentare di migliorare le sue
prestazioni scolastiche. Molto spesso, però, la realtà è più complessa e
multiforme, e non dovremmo mai dimenticare che nei Disturbi d’ansia la
comorbilità è una regola piuttosto che un’eccezione (Last, Kazdin, Orvachel
e Peria, 1991; Klein, 1993) e, come mettono in luce Mohatt, Bennett e
Walkup (2014) questo può avere importanti ricadute sul lavoro
psicoterapeutico. I sintomi ansiosi che ho in precedenza descritto, infatti,
non sono presenti soltanto nei Disturbi d’ansia veri e propri, ma sono
frequenti anche in moltissime altre situazioni patologiche: nei Disturbi
depressivi7 (nei bambini, in particolare, nel Disturbo depressivo); nei
Disturbi del sonno; nel Disturbo da deficit di attenzione/iperattività;8 nei
Disturbo specifico dell’apprendimento.9 In tutti questi casi può essere
corretta la doppia diagnosi. Come abbiamo già visto, non si pone, invece,
diagnosi di Disturbo d’ansia quando l’ansia si trova all’interno di un quadro
di Disturbo dello spettro dell’autismo.
Esiste, inoltre, un’ampia comorbilità anche all’interno dei Disturbi
d’ansia. Il Disturbo d’ansia di separazione, in particolare, è strettamente
associato all’ansia generalizzata e nel 75% dei casi si manifesta anche sotto
forma di paura di essere lasciati a scuola, come abbiamo visto bene nel caso
di Chicco. Il fatto che in questi disturbi la comorbilità sia una regola
piuttosto che un’eccezione è ben illustrato anche dall’esempio della Fobia
specifica, che verrà descritta attraverso la storia di un caso nel prossimo
capitolo. Questo disturbo, detto a volte anche “fobia semplice” proprio
perché caratterizzato “semplicemente” dalla paura esagerata e irragionevole
per un’unica classe di stimoli (per es., i serpenti o gli ascensori) è, nella sua
forma pura, piuttosto raro, forse più un’astrazione utile per studiare i
modelli di intervento psicoterapeutico di tipo comportamentale che una
realtà clinica dove, invece, è molto spesso associato ad altri disturbi che lo
rendono assai meno semplice di quanto il termine potrebbe far pensare
(Lambruschi, Fabbri e Mandolesi, 2014).
L’eziologia dei Disturbi d’ansia è complessa, controversa, e quasi
certamente multifattoriale. Ci sono, per lo meno, quattro grandi fattori che
concorrono, diciamo prudentemente, a predisporre un bambino a queste
patologie (Rutter, 1995; Van Hasselt e Hersen, 1995; Goodyer, 1996;
Odlenduck e Prinz, 1996; Beidel e Turner, 1997; Le Doux, 1998; Beesdo,
Knappe e Pine, 2009; Maniglio, 2012; Latas e Milovanovic, 2014).
Il primo fattore è quello genetico. Una serie di studi sui gemelli
(monozigoti e dizigoti, allevati nella stessa famiglia e in famiglie diverse)
sembrano mettere in luce la presenza di una predisposizione biologica a
contrarre Disturbi d’ansia, anche se i risultati della maggior parte di questi
studi sono tutt’altro che conclusivi ed evidenziano, comunque, una forte
incidenza delle variabili ambientali ed educative.
Il secondo fattore è appunto quello ambientale. Possono qui essere fatte
rientrare tutte quelle condizioni di vita stressanti e ansiogene che rendono
più probabile l’insorgenza di un Disturbo d’Ansia. Un peso importante
hanno, in particolare, gli eventi traumatici: nelle ricerche ci si riferisce con
questo termine sia a microeventi che, da soli, difficilmente potrebbero
scatenare un disturbo (nel caso di Chicco, per es., la compagna di scuola
che improvvisamente si sentì male e cominciò a vomitare, o in molti casi,
un insegnante particolarmente rigido, severo o, peggio, ironico e
svalutante), sia a eventi gravemente traumatici, anche se non
necessariamente così gravi come quelli che abbiamo visto nel Disturbo da
stress post-traumatico.
Il terzo fattore è quello degli aspetti emotivi e di personalità del
bambino. L’immaturità e l’eccessiva dipendenza; la condiscendenza verso
l’adulto; un esagerato desiderio di piacere; il conformismo; pensieri
ricorrenti probabilmente a loro volta derivati da modalità educative troppo
morbide, eccessivamente tolleranti (“le cose devono andare tutte come
voglio io”) sembrano predisporre a questo genere di disturbi. In Albon,
Dubi, Rapee e Schneider (2009) mostrano come i bambini con Disturbo
d’ansia di separazione e con Fobia sociale tendano a presentare distorsioni
cognitive e conseguenti pensieri disfuzionali e disadattivi, per esempio
legati a sensazioni di sgradevolezza per le situazioni connesse con la
separazione.
Il quarto fattore è quello familiare ed è, probabilmente, il più complesso
di tutti. Comprende un’infinità di situazioni diverse, tutte messe in luce
dalla ricerca sperimentale e clinica, delle quali qui è possibile solo fare un
elenco veloce e incompleto. Ci sono le esperienze negative precoci come
l’indifferenza, l’abuso, la perdita dei genitori. Ci sono le inadeguate
modalità educative di rinforzamento, sia negativo sia positivo, che abbiamo
già avuto modo di vedere e che esamineremo di nuovo quando parleremo
dell’intervento psicoterapeutico. C’è l’ansia indotta attraverso meccanismi
di apprendimento vicario,10 veicolati da genitori a loro volta ansiosi che
non si stancano di ripetere, per ogni comportamento del bambino: “Sii
prudente, stai attento, non ti arrampicare così in alto, non essere troppo
invadente nei giochi con i compagni, studia di più che domani devi essere
interrogato e ho paura che tu non sia preparato abbastanza”. Questo
meccanismo si chiama anche trasferimento dell’informazione11 e lo si vede
spesso agire anche quando i genitori cercano di convincere il figlio a
esporsi a situazioni ansiogene, ma lo fanno comunicando una tale ansia da
produrre probabilmente più danni che benefici. Tra l’altro, da un punto di
vista teorico, questo rende anche molto difficile capire quanto della
familiarità che le ricerche hanno riscontrato nei Disturbi d’ansia sia dovuto
a determinanti genetiche e quanto sia invece trasmesso per via educativa
(Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998). Accanto all’apprendimento
vicario e al trasferimento dell’informazione, vi è poi l’apprendimento
dell’ansia per modellamento : il bambino vede i suoi genitori che hanno
paura di alcune situazioni e le evitano e così impara egli stesso ad averne
paura (Elliot e Place, 2001; Victor, Bernat, Bernstein e Layne, 2007). La
madre timida, per esempio, che non si avvicina mai ad altre mamme nei
giardini pubblici, fa da modello negativo al bambino che, a sua volta, avrà
timore di avvicinarsi ai coetanei. In questi casi, possono esserci nei genitori
vere e proprie carenze nelle abilità sociali, che si trasferiscono ai figli e
predispongono all’insorgenza dell’ansia. Infine, punto particolarmente
importante che merita un approfondimento, la ricerca ha spesso evidenziato
come dietro molti Disturbi d’ansia del bambino, in particolare nel Disturbo
d’ansia di separazione, ci sia una situazione familiare invischiante,
eccessivamente accudente e iperprotettiva. Non è un caso che Bowlby
(1972, 1978), il capostipite dei lavori sull’attaccamento, accomunasse
l’ansia di separazione e la fobia scolare, facendo risalire entrambe a un
comportamento genitoriale che rende difficile per il bambino
un’esposizione corretta e sicura alle situazioni stressanti e potenzialmente
ansiogene. Se anche non si vuole accettare l’idea radicale secondo cui un
cattivo attaccamento sarebbe la causa dei Disturbi d’ansia, appare ben
solida l’ipotesi di certi stili di attaccamento come gravi fattori di rischio.

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Secondo la teoria dell’attaccamento (Ainswort, Blehar, Waters e Vals,
1978; Stern, 1987; Hofer, 1994; Byng-Hall, 1995; Parkes, Stevenson Hinde
e Marris, 1995; Ciotti e Lambruschi, 1996; Crittenden, 1996; Zeanah,
Mammen e Lieberman, 1996; Simonelli, 2000; Lambruschi e Lenzi, 2014)
esiste una componente fondamentale e geneticamente determinata della
natura umana che consiste nella propensione a stringere relazioni emotive
intime. In modo estremamente sintetico si può dire che l’attaccamento è un
sistema motivazionale primario, indipendente dall’erogazione di cibo, ma
dipendente dalla qualità della relazione con i genitori. Tra le cause, o
almeno tra i fattori predisponenti dei Disturbi d’ansia, e in particolare del
Disturbo d’ansia di separazione, può dunque esserci uno stile di
attaccamento non adeguato tra il bambino e le figure significative della sua
vita: di solito, prima di tutte, la madre. Per chiarire, sia pure nei limiti
imposti da questo lavoro, che cosa si può intendere per “stile di
attaccamento non adeguato”, credo che sia utile descrivere quattro
fondamentali modelli di attaccamento che sono stati individuati dalla
ricerca in risposta a uno stress di separazione.
Il primo modello è quello di uno stile di attaccamento detto sicuro,
generato dalla prontezza, da parte della figura di attaccamento, nel
rispondere al pianto del bambino e dalla disponibilità a promuovere
l’interazione sociale. In caso di attaccamento sicuro, l’angoscia di
separazione, pur presente nel bambino, non gli impedisce di staccarsi dalla
madre per esplorare l’ambiente e poi ritornare da lei.
Il secondo modello è detto insicuro evitante e si caratterizza per la scarsa
angoscia presente nel bambino al momento della separazione: la madre
tende a essere evitata e questi bambini tentano di inibire l’angoscia per
evitare ulteriori forme di rifiuto; si riscontra, di solito, nei figli di madri che
sono intrusive in modo esagerato e nei momenti sbagliati, per esempio
quando il bambino gioca serenamente da solo, e poi diventano assenti
quando invece il figlio avrebbe bisogno di loro. I bambini finiscono in
questo modo per sviluppare una tendenza all’isolamento o all’aggressività e
sono, di solito, a rischio di disturbi depressivi.
Il terzo modello è chiamato insicuro ambivalente o anche ansioso
resistente. Questi bambini appaiono esageratamente angosciati dalla
separazione e tale angoscia così forte non permette loro di rasserenarsi
neppure nel momento in cui possono ricongiungersi alla madre. Dimostrano
questa incapacità nel recuperare una loro serenità con comportamenti
ambivalenti di interazione: cercando il contatto fisico con la figura di
attaccamento, ma nello stesso tempo scalciando e scappando. Spesso la
madre non sa quando e come intervenire, e il figlio finisce per stabilire una
dipendenza cronica che gli impedisce di costruire buone relazioni con i
coetanei. I genitori di questi bambini, che appaiono spesso come
intrappolati nelle loro personali preoccupazioni, tendono a trasmettere ai
figli più rischio di Disturbi d’ansia, in particolare, come è facile
comprendere, Disturbo d’ansia di separazione e Disturbo d’ansia sociale.
C’è, infine, un quarto stile di attaccamento, particolarmente grave, detto
insicuro disorganizzato, dove si riscontrano comportamenti confusi,
immobilità o stereotipie motorie nel bambino; questi disturbi sembrano,
solitamente, essere il risultato di una figura di attaccamento maltrattante o
con patologie psichiatriche.
In conclusione, sembra che i bambini che hanno madri o, più in generale,
figure di attaccamento sensibili ai loro bisogni, capaci di essere presenti al
momento giusto e in modi giusti, di allontanarsi quando questo è possibile e
utile per il figlio, di percepire i bisogni del bambino e di essere sensibili a
questi bisogni sviluppino un livello d’ansia più basso e siano in grado di
tollerare e superare l’angoscia che può derivare dalla momentanea rottura
dei legami affettivi.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


Ho dovuto descrivere le prime sedute con i genitori di Chicco e con il
bambino nel primo paragrafo, perché erano indispensabili per fare un
quadro della situazione del Disturbo d’ansia di separazione. Eppure non è
difficile vedere come già queste prime sedute non siano soltanto di
osservazione, ma introducano elementi di intervento psicoterapeutico
(Eysenck e Rachman, 1976; Lazarus, 1976; Meyer e Chesser, 1976; Borgo
e Sibilia, 1978; Meazzini e Galeazzi, 1978; Sanavio, 1978a; Wolpe, 1980;
Fiorelli e Rezzonico, 1981; Guidano e Reda, 1981; Meazzini, 1984; Vera e
Leveau, 1991; Anchisi, Dessy e Moderato, 1996; Martin e Pear, 2000;
Dodd e Hudson, 2011; Esbjørn et al., 2013).
Credo che questo sia interessante perché può servire a mostrare come,
nella pratica clinica, la divisione tra diagnosi e terapia sia più un’astrazione
che una realtà. Non intendo dire, naturalmente, che non si debbano prima
formulare ipotesi diagnostiche e poi mettere a punto programmi di
intervento, ma in pratica già alcuni metodi di osservazione e, soprattutto,
già un certo tipo di relazione che si crea con il bambino anche durante le
prime sedute possono avere una funzione terapeutica. Non solo: come la
psicoterapia può essere intrapresa fin dalla prima seduta (e, probabilmente,
quando un rapporto psicoterapeutico funziona, proprio dal momento in cui
il paziente entra nello studio, si siede, parla e si sente ascoltato), così il
processo diagnostico può andare avanti a lungo anche dopo che l’intervento
propriamente detto è cominciato.
Proviamo a ritornare alla seconda seduta con la mamma di Chicco.
Quando spiego alla signora come potremmo programmare alcuni piccoli
obiettivi per il figlio, già introduco due elementi psicoterapeutici importanti.
Il primo è appunto quello della spiegazione, che in un certo senso avvicina
una psicoterapia a orientamento cognitivo-comportamentale a un processo
educativo. Potremmo dire che la psicoterapia cognitivo-comportamentale
aiuta il paziente a imparare nuove modalità di comportarsi e di pensare e
tenta anche di insegnargli, come si potrà vedere più avanti, a disimparare
comportamenti e pensieri inadeguati, disadattivi e responsabili del suo star
male. Neuhoff (2006), a questo proposito, ha dimostrato l’efficacia di
trattamenti quali: interventi psicoeducativi attuati anche attraverso il parent
training, ristrutturazione cognitiva, esposizione e prevenzione della ricaduta
per questo disturbo. Il secondo elemento è quello della gradualità con la
quale gli obiettivi sono formulati. Abbiamo già visto in molte altre
circostanze (dalla Disabilità intellettiva al ai Disturbi da deficit di
attenzione/iperattività) come la programmazione di piccoli obiettivi a
difficoltà crescente rappresenti spesso un punto centrale dell’intervento. Ma
in questo caso, forse, vi è qualcosa di più: c’è un elemento cognitivo che
può giocare un ruolo importante nel processo di cambiamento. La mamma
può cominciare a rendersi conto che non potrà ottenere da Chicco tutto e
subito, come forse vorrebbe; ma che, accontentandosi di procedere un passo
alla volta, forse potrà arrivare a conseguire buoni risultati. Questi piccoli
obiettivi, inoltre, andranno presentati in modo positivo, proposti e non
imposti, prontamente rinforzati appena vengono raggiunti dal bambino.
Insieme alla madre abbiamo messo a fuoco che il problema principale
del figlio è l’ansia. Dovremo dunque cercare di insegnare a Chicco ad
affrontarla, piuttosto che a farsene travolgere. I piccoli obiettivi servono
proprio a questo: Chicco dovrà cercare di esporsi gradualmente a quelle
situazioni che di solito gli creano ansia, rendersi conto che può farcela e
imparare così a superare, una dopo l’altra, alcune sue difficoltà. Faccio
anche presente alla madre che questo dovrebbe essere ottenuto senza
comunicare ansia al bambino, o per lo meno senza comunicargliene troppa.
Se, mentre la madre propone a Chicco un piccolo obiettivo, si mostra tesa,
angosciata, intimamente timorosa dell’insuccesso, il figlio imparerà a sua
volta a sentirsi in ansia, perché vede la madre che si sente così. Il
modellamento , cioè la capacità di imparare attraverso l’osservazione di
un modello, funziona in modo adattivo quando vediamo un modello
positivo, per esempio una persona tranquilla che affronta una situazione in
modo corretto; ma, purtroppo, può funzionare anche in modo gravemente
disadattivo quando vediamo un modello comportarsi in modo inadeguato.
Non c’è modo migliore per infondere scoraggiamento e alla fine angoscia in
un soldato impegnato in un’azione di guerra che mostrargli il suo
comandante che ha paura.

pag. 258

Quando lavoro con la mamma di Chicco cerco, dunque, di


ridimensionare certe sue aspettative che per l’immediato appaiono
eccessive, e di farle accettare, piuttosto, un approccio graduale. Ma non mi
limito a questo. In realtà, cerco anche di modificare alcuni suoi modi di
pensare. Ci sono infatti certi pensieri, relativi ai problemi di Chicco, che
hanno una doppia caratteristica negativa. Da un lato, sono irrazionali, nel
senso che non sono razionalmente veri e che, analizzati con freddezza,
mostrano di essere quanto meno esagerati. Dall’altro lato, sono pensieri
emotivamente negativi, nel senso che servono a star male, a produrre
emozioni inadeguate, a bloccare un atteggiamento costruttivo di
cambiamento. Li abbiamo visti, alcuni di questi pensieri, fin dalla prima
seduta. La mamma di Chicco pensa che il bambino debba assolutamente
tornare a scuola, pensa che sia intollerabile che continui a perdere ore e
giorni di lezione. Cerchiamo allora, nella seconda seduta, di modificare
insieme questi pensieri. È senz’altro vero che sarebbe bene se Chicco
tornasse a scuola. È senz’altro vero che se riuscirà a farlo, almeno per
qualche ora al giorno, magari con l’aiuto della mamma che aspetta nel
corridoio, questo migliorerà le cose. È senz’altro vero che i giorni che passa
senza andare a scuola tendono invece a peggiorare la situazione. Non è
vero, però, che deve assolutamente e immediatamente rientrare. Non è vero
che sarebbe intollerabile se perdesse ancora una settimana o un mese. Tutto
questo non soltanto è falso: è dannoso. Crea ansia, o meglio, visto che di
ansia ce n’è già tanta, aggiunge ansia ad ansia, rendendo le cose sempre più
complicate, emotivamente inestricabili. Crea aspettative irrealistiche, che
dunque, per definizione, non si realizzeranno. Il risultato sarà che tutti
staranno peggio e trovare anche solo una soluzione parziale del problema
diventerà ancora più difficile. Creano aggressività, perché costringono la
madre a tollerare, con sempre maggiore frustrazione, comportamenti che lei
stessa ha invece definito come intollerabili. Anche modificare questi
pensieri razionalmente ed emotivamente inadeguati è una forma di terapia
che, se funziona, si riverbererà positivamente sul bambino.
A questo proposito è possibile agire per modificare gli stili disadattivi
dei genitori, migliorare il funzionamento familiare e incrementare le
interazioni positive genitore-figlio. È stato proposto infatti un trattamento
denominato Parent Child Interaction Therapy (PCIT; Brinkmeyer ed
Eyberg, 2003), progettato per aiutare i genitori a costruire una relazione
calda e responsabile con i loro figli, e organizzare il comportamento dei
bambini in modo più efficace. Si basa sull’assunto che il miglioramento
dell’interazione possa consentire un miglior funzionamento della famiglia e
del bambino (Foote, Eyberg e Schumann, 1998). Comprende due fasi: la
Child Directed Interaction (CDI) e la Parent Directed Interaction (PDI).
Inoltre viene offerta ai genitori un’istruzione sulla natura dell’ansia, il suo
ciclo e l’importanza di insegnare ai bambini a non evitare situazioni
ansiogene, ma prepararli all’esposizione, così che le situazioni di
separazione possano cominciare a essere eseguite (Pincus, Eyberg e Choate,
2005).
Tutti questi approcci, pur con sfumature diverse, fanno riferimento al
ceppo comune della terapia cognitivo-comportamentale, che continua a
mostrare la sua efficacia in questi disturbi: Walkup et al. (2008), per
esempio, hanno lavorato con bambini e ragazzi di età compresa tra i sette e i
diciassette anni che avevano una diagnosi primaria di Disturbo d’ansia di
separazione, Disturbo d’ansia generalizzata, Disturbo d’ansia sociale. I
pazienti sono stati divisi in gruppi e sottoposti a terapia cognitivo-
comportamentale (14 sessioni), farmacoterapia con sertralina (un
antidepressivo inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina o
SSRI), una combinazione di sertralina e terapia cognitivo-comportamentale,
e placebo. I miglioramenti maggiori si sono visti nel gruppo di pazienti
sottoposti a combinazione di psicoterapia cognitivo-comportamentale più
farmacoterapia (80,7% dei miglioramenti), seguiti dai pazienti trattati con
sola psicoterapia (59,7%) e da quelli seguiti con sola farmacoterapia
(54,9%). Tutte le terapie sono state superiori al placebo (23,7%).
Suveg, Sood, Comer e Kendall (2009) hanno esaminato 37 pazienti con
Disturbi d’ansia di età compresa tra sette e quindici anni trattati con terapia
cognitivo-comportamentale e hanno rilevato che dopo il trattamento era
evidente una riduzione di ansia e angoscia, una migliore consapevolezza,
un’aumentata capacità di regolazione emotiva e migliori capacità di
fronteggiare le situazioni ansiogene. Ulteriori prove sperimentali
dell’efficacia dell terapia cognitivo-comportamentale per i Disturbi d’ansia
in età evolutiva sono state raccolte da Adler Nevo et al., 2014; Afrooz,
Neshat-Doost, Mohammad, Mozhgan e Shole, 2014; Aydin, 2014. Questi
autori fanno notare come tra le caratteristiche fondamentali che portano al
successo di un programma terapeutico di questo genere ci sia spesso il
sistematico coinvolgimento delle figure genitoriali.
Poco fa, parlando di Chicco, dicevo che i pensieri irrazionali rendono più
difficile trovare una soluzione ai nostri problemi. I pensieri irrazionali sono
spesso fatti di tutto e subito, bianco o nero. Chicco andrà a scuola, fin da
domani mattina, tutti i giorni e per sempre e senza alcun aiuto e senza alcun
problema? Allora la situazione è bianca e siamo tutti contenti. Altrimenti è
nera e non c’è niente da fare. In realtà, la situazione è grigia, come quasi
tutte le situazioni della vita: un po’ più chiara o un po’ più scura, ma
comunque grigia. Durante il nostro secondo colloquio, la mamma si rende
conto di questo e scopre che a volte le cose davanti al cancello della scuola
vanno particolarmente male (di solito, quando è lei ad accompagnare il
figlio) e a volte un po’ meno peggio (di solito, quando lo accompagna il
papà). È questo che ci permette di cercare insieme una soluzione. Possiamo
provare a risolvere un problema. Forse, se non è la mamma ad
accompagnarlo, Chicco reagisce meglio. Forse, se prima si prepara il
bambino a piccole separazioni pomeridiane, sarà più sicuro di sé al
momento di entrare in classe. Qui vediamo in atto un altro tipico intervento
cognitivo, detto problem solving (vedi riquadro alla pagina seguente), e
vediamo anche una tipica caratteristica di un approccio non più rigidamente
comportamentale. D’Zurilla e Goldfried (1971) hanno sviluppato un
programma di abilità di problem solving da insegnare individualmente per
aiutare a risolvere i problemi. L’approccio non propone di trovare una linea
di soluzioni per un singolo problema, ma permette all’individuo di
generalizzare tecniche che saranno utili in altre aree problematiche.
Nell’approccio comportamentale classico, che è per sua natura molto
direttivo, il terapeuta insegna al paziente come comportarsi. Lo abbiamo
visto bene all’inizio del secondo colloquio. A mano a mano che il processo
di cambiamento evolve in senso cognitivo, il paziente prende invece la
situazione in mano, almeno in parte: in qualche modo produce da sé
soluzioni possibili. Questo approccio prende il nome di costruttivismo12 e
consiste nel far sì che il paziente diventi il protagonista, costruisca da solo,
entro certi limiti, il suo processo di cambiamento (De Silvestri, 1997;
Lambruschi e Lenzi, 2014).

PROBLEM SOLVING
Spesso un bambino, per esempio con Disturbo d’ansia, non sa
neppure da che parte cominciare per affrontare il suo problema. A
volte non sa che ci sono possibili alternative e che alcune, forse, sono
più adatte di altre. Oppure non sa che nella ricerca di una soluzione
potrebbe essere aiutato da qualcuno. Può persino capitare che non
sappia, cioè non si renda conto, di avere un problema. Qualcosa di
simile può accadere ai genitori di un bambino con un disturbo. Essi, di
solito, si rendono conto che il figlio ha qualcosa che non va, ma hanno
spesso difficoltà a vedere il disturbo come un problema che potrebbe
per lo meno essere affrontato. Questo può contribuire a rendere la
situazione ancora più difficile. Un conto, infatti, è sapere di avere un
figlio, per esempio, con una Disabilità intellettiva, ma sapere anche
che per questo disturbo si può fare qualcosa: si possono insegnare al
bambino abilità di autonomia, si possono programmare interventi
didattici individualizzati, si può lavorare sulla competenza sociale. Un
altro conto, ben più drammatico, è pensare che la Disabilità
intellettiva sia una condizione patologica responsabile di difficoltà a
non finire e non essere neppure capaci di immaginare possibili
situazioni, anche parziali, per migliorare questa condizione.
Il problem solving è uno strumento cognitivo che serve prima di tutto
a insegnare al paziente a vedere le sue difficoltà in termini di
problemi: cioè di situazioni difficili che possono però, almeno entro
certi limiti, avere delle soluzioni. E poi, naturalmente a cercare
insieme le soluzioni migliori.
Di solito, il problem solving si svolge attraverso cinque fasi
fondamentali:
1. riconoscere il problema e capire che una soluzione può, per lo
meno, con calma, essere cercata;
2. definire il problema uscendo da una vaghezza che è quasi sempre
fonte di indecisione e di ansia;
3. cercare insieme possibili soluzioni alternative;
4. scegliere una soluzione;
5. mettere alla prova la soluzione e valutare i risultati.
Nel testo si trovano esempi di intervento basati anche su metodologie
di problem solving sia direttamente sui bambini (come nel caso di
Lorenzo nel capitolo 11, di Daniele nel capitolo 12, di Eleonora nel
capitolo 15 e di Silvia nel capitolo 23), sia sui genitori (come nel
caso della mamma di Chicco nel presente capitolo).

Già in questo secondo colloquio con la mamma, dunque, abbiamo visto


all’opera molte strategie cognitivo-comportamentali di intervento:
l’atteggiamento educativo, la gradualità della formulazione degli obiettivi
tipica delle tecniche di analisi del compito e di modellaggio ,
l’attenzione al modellamento di comportamenti adeguati, la Terapia
Razionale Emotiva e il problem solving .

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pag. 6
pag. 258

pag. 370

pag. 328

Altre ne vediamo subito fin dal primo colloquio con Chicco.


Emerge, prima di tutto, il rinforzamento incondizionato. Quando Chicco
entra per la prima volta nel mio studio mi comporto come certe maestre il
primo giorno di scuola primaria, che fanno trovare sul banco, per ogni
bambino, una caramella. La caramella è sicuramente un rinforzatore, ma
che cosa rinforza in quel particolare contesto? Qual è il comportamento
specifico di cui si vuole aumentare la frequenza? Nessuno. In una fase
preliminare ci si accontenta di rinforzare genericamente il fatto che i
bambini siano arrivati. È un modo di dar loro il benvenuto. In realtà, tutte le
maestre (spero) mettono su ogni banco una caramella il primo giorno di
scuola primaria. Chi non lo fa in senso letterale lo fa in modo simbolico.
Sorride ai bambini. Si avvicina loro e parla in tono caldo ed empatico, senza
fare richieste didattiche specifiche. Nessuna maestra (spero!) chiede ai suoi
allievi, il primo giorno di scuola primaria, la corrispondenza grafema-
fonema per poi rinforzare i bambini che la sanno e punire gli altri. Questo si
chiama rinforzamento incondizionato ed è ciò che ho cercato di fare con
Chicco fin dal primo momento, mostrandomi interessato a tutto quello che
diceva e anche al semplice fatto che fosse lì. Non l’ho rinforzato quando mi
parlava dei suoi problemi e punito negli altri casi. È chiaro che, sul medio
termine, a me interesserà cercare di conoscere i problemi di Chicco, come
alle maestre interesserà insegnare la corrispondenza grafema-fonema. Per
ora, prendiamo tempo. Ci accontentiamo di quello che ci viene dato e
rinforziamo quello. Come ho già avuto modo di dire in un’altra occasione,
se preferite una terminologia meno comportamentista: tentiamo di creare
una relazione empatica.
Accontentarsi di qualcosa durante la prima seduta (o il primo giorno di
scuola) non vuol dire continuare ad accontentarsene per sempre. Anche con
Chicco, pian piano, cercherò di arrivare a poter parlare dei suoi problemi e
delle sue paure. Cercherò di aumentare il tempo in cui il bambino parla di
questo e in cui rimane solo con me. Cercherò di allontanare la mamma,
prima di qualche centimetro, poi di spostarla in una sedia lontana dalla
scrivania dove Chicco ha cominciato a disegnare, poi di farla accomodare
nell’anticamera e poi, ottenuto tutto questo, fisserò ancora obiettivi
successivi, sempre più ambiziosi e più utili per il bambino.
Anche il rinforzamento seguirà il destino di questa programmazione di
obiettivi che sempre più si avvicinino allo scopo della psicoterapia. Così
rinforzerò Chicco, con pazienza e gradualità, ogni volta che si avvicinerà a
questi obiettivi, secondo una tecnica ben nota che prende il nome di
modellaggio.
Il modellaggio presuppone anche di rinforzare ciò che un paziente mi dà,
piuttosto che di punire ciò che mi nega. È quello che tento di fare quando
affrontiamo l’argomento del sonno. Mi mostro molto interessato a Chicco
quando mi racconta che ha difficoltà, quasi paura ad addormentarsi. Però
non lo sgrido quando tace sul fatto che dorme con i genitori o che ha molte
altre paure. Questo aumenterà, di seduta in seduta, il suo parlare delle
paure, ma Chicco potrà farlo in una situazione distesa, serena, mentre
disegna (cosa che gli piace molto e lo rilassa) e non in un contesto teso e
ansiogeno. Chicco sta imparando che delle proprie paure si può, per lo
meno, parlare senza essere puniti e senza star male. Almeno con
l’immaginazione possono essere affrontate e non solo non producono, qui
in seduta, un’ansia intollerabile, ma sono anzi associate a uno stato di
relativo benessere, dato dalla serenità della situazione e dal piacere di
disegnare. Si stanno già attuando, anche senza che li abbiamo formalmente
programmati, i principi della desensibilizzazione sistematica .

pag. 365

Nella sua forma classica, e in particolare con gli adulti, la


desensibilizzazione sistematica si svolge attraverso cinque passaggi
fondamentali:
1. definire lo stimolo fobico: per esempio, andare da soli a fare la spesa;
2. insegnare al paziente una tecnica di rilassamento;
3. costruire con il paziente una gerarchia degli stimoli ansiogeni, che vada
dalle situazioni che producono meno ansia fino a quelle che producono
un’ansia massima: per esempio, affacciarsi sulla soglia di casa; uscire
sulla via per pochi secondi; attraversare la strada; andare a comprare il
pane nel piccolo negozio di fronte; fare una grossa spesa al supermercato;
4. fare immaginare al paziente situazioni ansiogene in stato di rilassamento
partendo dalle prime nella gerarchia, quindi dalle più semplici, e
imparando così che si possono pensare situazioni ansiogene senza
provare ansia;
5. aumentare gradualmente la difficoltà delle situazioni secondo la gerarchia
preparata per imparare a restare rilassati anche quando ci si immagina in
situazioni che prima della terapia erano gravemente ansiogene (per es.,
immaginarsi, mentre si è ben rilassati, di essere a fare la spesa in un
supermercato).
Il principio fondamentale della desensibilizzazione sistematica è il
controcondizionamento: uno stimolo che produce ansia viene associato a
una situazione antagonista all’ansia e perde così il suo potere ansiogeno.
Con Chicco avviene qualcosa di molto simile. Ora, per lo meno, può
pensare e parlare di cose che prima lo facevano stare troppo male.
Naturalmente, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Un conto è
affrontare una situazione difficile con le parole o con l’immaginazione e un
altro conto è affrontarla con comportamenti veri (Vera e Leveau, 1991). Per
questo motivo, anche la tecnica della desensibilizzazione sistematica
presuppone che dopo aver fatto queste esperienze in immaginazione si passi
alla cosiddetta esposizione in vivo. L’esposizione 13 consiste nel provare
ad affrontare realmente le situazioni, ed è quello che ho cominciato a fare
con Chicco fin dalle prime sedute e che continuerò a fare in seguito:
provare a esporre gradualmente il bambino a situazioni di separazione
sempre più ansiogene, non soltanto in studio, ma anche a casa e a scuola, e
fargli imparare che può affrontare l’ansia e superarla procedendo con
gradualità lungo gli stimoli della gerarchia. La desensibilizzazione in vivo e
l’esposizione agli stimoli ansiogeni non si basano più sul semplice modello
del controcondizionamento, ma utilizzano i principi del condizionamento
operante e dell’estinzione. Quando Chicco, di fronte al cancello della
scuola, torna indietro e sale in macchina, subisce un processo di
condizionamento operante: il suo comportamento inadeguato (di fuga)
viene rinforzato negativamente dal fatto che l’ansia, un attimo prima
fortissima, decresce molto rapidamente. Chicco, in quel momento, sta
benissimo, perché l’esperienza dell’ansia che lo abbandona
improvvisamente è molto piacevole. Così il comportamento inadeguato
viene rinforzato e tende a riprodursi in futuro. Tra l’altro, se quando Chicco
torna a casa ha anche la possibilità di guardare i cartoni animati alla
televisione con la mamma, il suo comportamento patologico è seguito
anche da un rinforzatore positivo. L’esposizione tende, invece, a produrre
un effetto opposto: il comportamento inadeguato (tornare in macchina) non
si manifesta, quindi non è rinforzato e quindi la sua probabilità futura di
emissione si indebolisce. Naturalmente, bisognerà anche fare in modo di
rinforzare i comportamenti positivi. Quando Chicco affronta un ostacolo e
lo supera, dovrà ricevere lodi verbali, attenzione, una dose speciale
dell’affetto dei suoi genitori. Se necessario, si potranno anche mettere in
atto forme specifiche di rinforzamento, come una token economy o un
contratto educativo (Perini, 1997) per aumentare la motivazione del
bambino ad andare avanti nel programma di esposizione. Faccio tuttavia
presente, per inciso, che nel caso di Chicco questo non è stato necessario.
Come spesso succede, se la gerarchia degli stimoli ansiogeni è studiata
insieme al piccolo paziente con attenzione e se l’ambiente è preparato bene,
i comportamenti di esposizione tendono a cadere sotto il controllo di
rinforzatori intrinseci. Chicco era contento di sé e di quello che stava
facendo. Un programma di token economy sarebbe stato in questo caso
superfluo, e ogni programma superfluo è un programma dannoso, perché
introduce elementi di artificiosità nella situazione e tende a produrre
risultati meno stabili nel tempo e più difficili da generalizzare.

pag. 365

pag. 13

D’altra parte, già nelle prime sedute con il bambino, l’esposizione viene
rinforzata socialmente da me. Io dico a Chicco che sono contento di lui,
che, se andiamo avanti così, sicuramente molte delle sue difficoltà potranno
essere superate, e sottolineo tutto questo nei brevi colloqui che ho con la
madre alla fine delle sedute alla presenza di Chicco.
L’ultimo elemento che è possibile vedere già in queste prime sedute è
l’attenzione al modellamento . Abbiamo già osservato come sia facile e
pericoloso modellare risposte d’ansia. Se la madre di Chicco accompagnerà
a scuola il bambino mostrandosi tesa e ansiosa più di lui, difficilmente
otterrà con il figlio buoni risultati. L’ansia della mamma sarà un modello
che Chicco inevitabilmente imiterà. Io cerco di fare il contrario. È inutile
che neghi che anch’io sono un po’ teso quando propongo al bambino di
provare ad allontanarsi dalla madre. Sono teso perché, se l’esposizione
funzionerà, le cose andranno poi nella direzione giusta, ma se non
funzionerà cominceranno i problemi. Tuttavia, cerco non soltanto di tenere
a bada la mia, peraltro modesta, reazione d’ansia, ma anche di non
mostrarla al bambino. Scherzo con lui quando gli propongo di mandare la
mamma nell’anticamera. La butto sul ridere e, infatti, lui sorride all’idea
della mamma che, dall’anticamera, origlia i nostri discorsi. Propongo,
insomma, nei limiti delle mie capacità, un modello positivo, che affronta
una situazione blandamente ansiogena senza farsi sopraffare dall’ansia.

pag. 258

L’ultima delle sedute con Chicco, già descritta, termina con un mio
tentativo di far riflettere il bambino sul fatto che a volte anche i nostri
pensieri, le nostre emozioni e le nostre paure (dunque eventi interni)
possono cambiare. A volte basta modificare alcune circostanze esterne per
vedere, per esempio, che anche la nostra ansia diminuisce. Abbiamo visto
che non è del tutto indifferente chi accompagna Chicco a scuola. Comincio
a cercare di farlo riflettere su questo chiedendogli che cosa ne pensa della
possibilità che qualche volta lo accompagni la sorella.
È vero che l’inizio non è dei più promettenti, dato che il bambino, dopo
un momento di perplessità, mi risponde con decisione:
“È impossibile”.
Ma è anche vero che piano piano le cose cambieranno.
La terapia proseguirà proprio coinvolgendo la sorella nell’accompagnare
Chicco a fare delle piccole passeggiate, in luoghi che in parte gli piacciono,
ma in parte gli producono ansia, come un centro commerciale non lontano
da casa sua.
Poi gli insegnerò a rilassarsi, usando sia tecniche di rilassamento
muscolare adattate alle necessità del bambino, sia tecniche immaginative.
Grazie a questa nuova capacità di rilassarsi, lavoreremo poi insieme con la
visualizzazione emotiva (di nuovo, una tecnica di controcondizionamento),
che consiste nell’associare in immaginazione uno stimolo fobico con uno
stimolo gratificante. A Chicco, per esempio, piacerà molto immaginarsi in
classe, con la mamma che nel frattempo è andata a lavorare, e la maestra
che lo interroga, gli dà un buon voto, e la sera, a cena, tutti commentano
con gioia questa giornata.
L’esposizione progressiva in vivo al rientro in classe avverrà spesso
grazie all’aiuto della sorella e, qualche volta, all’aiuto del padre. Tornare a
farsi accompagnare a scuola dalla madre sarà l’ultimo passo del
programma. Per fare tutto questo, naturalmente, continuerò a lavorare anche
con i genitori e la sorella, i quali arriveranno così a rendersi conto che gran
parte del lavoro “terapeutico” sul bambino è a carico loro, e a riflettere
sull’adeguatezza delle proprie modalità educative e sull’influenza del clima
familiare sui comportamenti di Chicco. Visiterò anche la scuola
regolarmente, in modo che le insegnanti siano preparate ad accogliere
Chicco nel modo migliore e preparino a loro volta i compagni. In questi
ultimi anni l’esposizione in vivo è sempre più spesso sostituita dalle nuove
tecnologie informatiche e così i computer sono usati per la terapia del
Disturbo d’ansia. Si parla in questi casi di “trattamento con realtà virtuale”
(Przeworski e Newman, 2006; Khanna, Aschenbrand e Kendall, 2007;
Meyerbröker e Emmelkamp, 2010; McCann et al., 2014).
Come è noto e come è stato detto tante volte anche in queste pagine,
nell’approccio comportamentale classico l’esposizione consisiste
nell’affrontare una situazione ansiogena piuttosto che cercare di fuggire da
essa. Potremmo dire, con una specie di gioco di parole, che l’esposizione
consiste nell’evitare l’evitamento. Con gli ultimi sviluppi della ricerca nel
campo della psicoterapia (si vedano, per es., Hayes, Strosahl e Wilson,
1999; Hayes e Strosahl, 2005; Luoma, Hayes e Walser, 2007; Vøllestad,
Nielsen e Nielsen, 2012) ci si è resi conto con sempre maggiore chiarezza
che non è importante evitare l’evitamento solo per quanto riguarda le
situazioni, gli stimoli ambientali, la realtà esterna. È almeno altrettanto
importante evitare anche l’evitamento dei pensieri e delle emozioni.
Ascoltare e accettare i pensieri e le emozioni aiuta il paziente con un
Disturbo d’ansia, e come vederemo nella prossima sezione, anche con un
Disturbo dell’umore, ad affrontare con maggiore serenità le situazioni
difficili che, inevitabilmente, la vita gli presentarà. Nel riquadro sottostante
è brevemente illustrato questo approccio che prende il nome di ACT. Il
lettore italiano può approfondire questi aspetti attraverso i lavori di Segal
(Irving e Segal, 2013) e Williams (William, Russell e Russell, 2008); si
veda anche Hayes, Stroshal e Wilson, 2010; Harris, 2011 e 2012; Hayes,
2012; Wilson e Dufrene, 2014. La terapia ACT risulta particolarmente
idonea all’età evolutiva grazie all’uso frequente di metafore, all’approccio
esperienziale e alla presenza di concetti come quello di prestare attenzione,
che spesso viene ripetuto ai bambini senza essere insegnato (e troppo spesso
in modo punitivo!) e che invece racchiude in sé il significato della
mindfulness: sintonizzarsi su un’esperienza scegliendo di portare
l’attenzione su di essa con un atteggiamento aperto e curioso ed essere
realmente presenti in quello che facciamo (Saltzman, 2012; Woidneck,
Morrison e Twohig, 2013). Nel capitolo 22 si può vedere come, a
conclusione del percorso terapeutico, Aurora arrivi quasi da sola ad
accettare alcuni suoi sintomi di ansia e a convivere serenamente con essi.

ACT
L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy la cui traduzione
italiana potrebbe essere “Terapia legata all’accettazione e
all’impegno”; Spagnulo, 2007) è una forma di terapia evidence-based
che mira ad aiutare i pazienti ad accettare i propri pensieri, le proprie
emozioni e dunque anche i propri sintomi. Molto più che una terapia,
l’ACT è talora indicata come una visione del mondo la cui filosofia
prende spunto da antiche tradizioni spirituali e religiose di origine
orientale tra cui il Buddismo, l’Induismo e lo Zen. Questo modello di
terapia, a differenza di molti altri, in primis quello comportamentale
da cui prende le origini, non si pone come obiettivo primario la
riduzione dei sintomi, quanto di insegnare ai pazienti un modo nuovo
di entrare in contatto con essi. Si ritiene infatti che la vera fonte di
disagio e di sofferenza psicologica sia il tentativo costante di
controllare, combattere e lottare contro i propri sintomi. Il fatto poi
che i sintomi molte volte si riducano, come diversi studi sembrano
dimostrare, non è dunque l’obiettivo della terapia ACT, ma spesso la
diretta conseguenza del diverso modo con cui il paziente impara a
rapportarsi ad essi.
Un concetto fondamentale nella terapia ACT è quello di azione.
Tuttavia nell’ACT l’azione è guidata dai valori e dagli scopi che
ognuno di noi si prefigge nella vita: accept toughts and feelings,
choose directions, and take action (accetta i pensieri e le emozioni,
scegli le priorità, agisci).
Se nella storia della terapia comportamentale la prima ondata della
psicoterapia fu caratterizzata dal comportamentismo e la seconda dal
cognitivismo, l’ACT rappresenta la cosiddetta terza generazione o
terza ondata (Third Wave) della terapia del comportamento e come
tale si propone di modificare la funzione e la relazione degli individui
con gli eventi psicologici mediante strategie come la mindfulness,
l’accettazione o la defusione cognitiva (Teasdale, 2003; Harris, 2009 e
2010).
Lo scopo dell’ACT è quello dunque di creare una vita ricca piena e
significativa e di accettare il dolore che essa comunque comporta. In
qualsiasi momento, persino in quelli più belli della nostra vita, è
possibile sperimentare dolore perché la nostra mente ci parla
continuamente, in sottofondo, a volte senza nemmeno che ce ne
rendiamo conto, e ci fa sperimentare dolore. Se non sappiamo gestire
efficacemente questo dolore, ma tentiamo di evitarlo, esso può farci
molto male e portarci a effetti autolesivi e autodistruttivi. Secondo
l’ACT sono due, fondamentalmente, i processi che rendono le persone
“bloccate” a tal punto da diventare ad esempio ansiose o depresse: la
fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale.
Con il termine fusione si fa riferimento appunto al fatto che a volte
siamo così dentro ai nostri pensieri da fonderci e confonderci con essi
e da non renderci più conto che noi “non siamo i nostri pensieri”;
come se non ci fosse più la giusta distanza da essi: è chiaro che in
questo caso si rischia fortemente che i pensieri governino i nostri
comportamenti e che si perda il contatto con l’esperienza del qui ed
ora, con quello che ci circonda.
Il secondo principio è l’evitamento esperienziale: noi quotidianamente
cerchiamo di scappare o di lottare contro le nostre emozioni o i nostri
pensieri negativi… e più scappiamo più questi si fanno sentire (Najmi
et al., 2010) e così noi dovremo ancor di più aumentare i tentativi per
neutralizzarli, in un circolo senza fine (Lorenzini e Sassaroli, 2000).
Imparare ad accettare senza giudicare né contrastare le emozioni
negative, per quanto spiacevoli possano essere, può consentire invece
di sentirsi stressati da queste in misura minore. È proprio tramite le
abilità di mindfulness, pilastro della terapia ACT, che i pazienti
possono imparare a prendere consapevolezza dell’esperienza interiore,
nel qui ed ora, senza valutazione o giudizi, ma con apertura e
recettività, lasciando che i propri pensieri vadano e vengano: come
diceva Kabat-Zinn (1990) “i pensieri sono solamente pensieri, non
rappresentano la realtà” e la consapevolezza di questo porta al
distanziamento emotivo da essi per dar loro finalmente il giusto status
di “pensieri”. La mindfulness può essere definita proprio come “uno
stato di coscienza o processo mentale caratterizzato da un’attenzione
consapevole, libera da valutazioni e focalizzata sul presente”
(Didonna, 2009).
Lo scopo della terapia ACT è aumentare la flessibilità psicologica,
ossia l’abilità di essere nel momento presente con piena
consapevolezza e apertura alla nostra esperienza e di intraprendere
azioni guidate dai nostri valori.
L’ACT è applicata con successo in molti disturbi dell’età evolutiva:
nella terapia dell’ansia, nei disturbi esternalizzati e anche come
intervento preventivo nelle scuole.

PROGNOSI
Qualche anno fa mi è capitato di seguire un giovane adulto, di circa
trent’anni. Si è trattata di un’esperienza per me non comune, dato che mi
occupo quasi esclusivamente di età evolutiva, ma è stata interessante perché
ho potuto vedere l’evoluzione clinica di un Disturbo d’ansia di separazione.
Paolo, nonostante l’età, venne da me al primo colloquio accompagnato dal
padre e non volle che il padre lasciasse lo studio. Mi raccontò che non
riusciva a stare in casa da solo né, tanto meno, a uscire senza avere il padre
vicino. La situazione si era drammaticamente aggravata qualche mese
prima, con la morte della madre, ma fin da bambino Paolo era stato così. Le
sue difficoltà erano tali che non era neppure riuscito a prendere la licenza
media. Se tentava (anche se semplicemente pensava!) di restare solo, si
sentiva “come in ebollizione”, lo stomaco gli si chiudeva, il cuore
accelerava i battiti fino a dargli l’impressione che sarebbe scoppiato, gli
pareva di perdere il controllo e che la testa andasse per i fatti suoi.
L’atteggiamento di Paolo nei confronti delle sue possibilità di
cambiamento è assolutamente negativo in questa prima seduta. Mi dice che
è stato così fin da bambino e che non riuscirà a combinare niente. Il padre,
seduto accanto a lui, contribuisce a mantenere alta questa convinzione
negativa: tratta effettivamente il figlio come un bambino e arriva a
sostituirsi a lui in molti momenti del colloquio, rispondendo al suo posto.
I metodi di intervento che ho utilizzato in questo caso non sono molto
diversi da quelli che ho descritto nel paragrafo precedente, anche se sono
adattati alle esigenze di un adulto. Prima di tutto concordai con Paolo un
aumento di minuti che avrebbe passato nello studio con me mentre il padre
lo aspettava fuori. Dalla seconda alla sesta seduta passai da 12 minuti
all’ora intera. Mi servivo di questa esperienza positiva per mostrare a Paolo
e a suo padre che alcuni risultati potevano essere raggiunti. Nel frattempo,
gli insegnai a tenere un diario di osservazione dell’ansia e a preparare una
gerarchia di uscite di casa che gli producessero un’ansia crescente (la
farmacia, la videoteca, il negozio di alimentari, il bar). Durante le prime
dieci sedute il solo pensiero di restare in casa da solo gli produceva un’ansia
così forte che decidemmo di accantonarlo e di lavorare sull’esposizione alle
uscite da casa. Lo feci provare prima in immaginazione e gli spiegai i
principi del controcondizionamento e dell’estinzione delle risposte d’ansia.
Poi programmammo cautamente le prove in vivo, all’inizio con la mia
presenza che fungeva da sostegno e da modello. Riuscì a raggiungere tutti
gli obiettivi della prima gerarchia fuorché il bar, dove temeva che gli amici
lo vedessero in uno stato di tensione eccessiva. Però dopo tre mesi di
lavoro, spontaneamente, mi fece la sorpresa di arrivare da solo al mio
studio. Ci furono alti e bassi e grosse difficoltà, soprattutto sugli obiettivi
connessi al restare a casa da solo e a raggiungere con il motorino un vicino
paese di mare (4 chilometri) dove egli stesso desiderava molto andare.
L’esposizione progressiva allo stare solo in casa per tempi crescenti era resa
problematica anche dalla paura che il padre non sarebbe stato ai patti e
avrebbe approfittato dell’insperata libertà per andarsene in giro per i fatti
suoi chissà per quanto tempo. Lavorai su questo con il padre, che in effetti,
dopo la morte della moglie, si sentiva come in prigione, sempre con questo
figlio alle costole. Gli spiegai i rischi che avremmo corso se non fosse stato
ai patti e, d’altra parte, i vantaggi che avrebbe ricavato se fosse stato
paziente ancora per qualche mese. Andai più volte in automobile con Paolo
avvicinandomi di chilometro in chilometro al vicino paese di mare. Le
prime volte che riuscimmo a raggiungerlo era talmente in ansia all’idea di
essere così lontano da casa e da suo padre che dovetti subito fare
retromarcia e tornare in studio. Dopo quattro o cinque volte riuscimmo a
parcheggiare e prendere qualcosa da bere in un bar. Durante esercizi di
immaginazione in studio, gli feci vivere più volte l’esperienza che al ritorno
da una delle sue uscite lui entrava in casa e suo padre, contrariamente a
quanto aveva concordato, era uscito. Lavorammo sulla percezione
dell’ansia, che calava dopo molte immaginazioni di questo episodio, e sui
metodi per fronteggiare questa esperienza se si fosse verificata davvero,
attraverso tecniche di problem solving. È forse il caso di specificare che
questa esperienza terapeutica si è svolta molti anni fa, quando i telefoni
cellulari non erano ancora diffusi e né Paolo né il padre ne possedevano
uno: oggi il telefono cellulare rappresenta, infatti, sicuramente uno dei
possibili strumenti da utilizzare in casi analoghi. Una volta fissai una seduta
con il padre e Paolo riuscì a restare a casa per tutto il tempo, quindi per più
di un’ora. Riuscì anche ad andare a tagliarsi i capelli da solo e a recarsi con
il motorino più volte, sempre da solo, nel vicino paese di mare, dove aveva
vecchi amici che ebbe così l’occasione di tornare a frequentare. In una
seduta in cui mi raccontava un pomeriggio particolarmente gratificante con
alcuni di questi amici, mi disse:
“È stato come alzarsi dalla carrozzella e camminare per la prima volta”.
Da allora, erano passati quasi due anni, ho lavorato a lungo sul tentativo
di portarlo a utilizzare queste nuove abilità di fronteggiamento dell’ansia
per iscriversi a una scuola serale che distava circa due chilometri e mezzo
da casa e a prendere un diploma, oppure per cercarsi un lavoro, ma senza
alcun successo.
Negli anni seguenti, ci furono alti e bassi.
Paolo usciva con qualche amico ma non aveva voglia di impegnarsi in
altre attività più produttive, ma anche più faticose per lui. Ebbe una prima
ricaduta in seguito a un incidente stradale del padre e tornò da me. Non fu
difficile riportarlo alle condizioni che ho descritto sopra, ma fu di nuovo
impossibile muoverlo da questo ozio nel quale diceva di trovarsi bene. Ebbe
una seconda ricaduta dopo la separazione della sorella dal marito, avvenuta
in modo violento. Non ho sue notizie da un paio d’anni, ma credo che abbia
sostanzialmente mantenuto le autonomie che aveva raggiunto senza riuscire
ad andare oltre.
Anche Chicco, dopo aver imparato a stare qualche ora a casa senza la
presenza della mamma, a fare qualche passeggiata con la sorella, a dormire
in camera da solo e ad andare a scuola e restarci tutta la mattina senza
particolari problemi, ha avuto una ricaduta grave in seguito a un cambio di
scuola, dalla quale è uscito con difficoltà e molta sofferenza. La madre,
inoltre, non è mai stata in grado di riprendere a lavorare in modo regolare,
perché la sua vicinanza è sempre utile, se non indispensabile, in troppe
occasioni.
I dati prognostici per il Disturbo d’ansia di separazione riportati dalla
letteratura non sono conclusivi, ma tutto sommato non si discostano molto
da queste due esperienze (Rutter, 1995; Van Hasselt e Hersen, 1995; Elliot e
Place, 2001; Victor e Bernstein, 2009; Altamura, Camuri e Dell’Osso,
2013). I pazienti trattati hanno buone probabilità di remissione dei sintomi,
ma il rischio di esacerbazione e ricadute rimane. I bambini con Disturbo
d’ansia di separazione possono, inoltre, sviluppare in età adulta altri
Disturbi d’ansia e difficoltà anche gravi dell’adattamento sociale.
1 Un altro interessante strumento diagnostico per la valutazione dell’ansia e della depressione in età
evolutiva è il TAD (Test Ansia e Depressione) (Newcomer, Barenbam e Bryant, 1995), valido per
soggetti di età compresa tra i sei e i diciannove anni. È uno strumento multidimensionale costituito da
tre scale – per l’alunno, per gli specialisti e per i genitori – ognuna delle quali fornisce informazioni
complementari per individuare l’entità dei problemi emozionali del ragazzo.
2 Vedi capitolo 1, nota 4.
3 Vedi capitoli 5 e 6.
4 Vedi capitoli 23 e 24.
5 Questa analisi ha mostrato una relazione di familiarità tra ansia e Disturbi depressivi in età adulta.
La terapia cognitivo-comportamentale e l’intervento farmacologico con inibitori della ricaptazione
della serotonina sono efficaci per trattare bambini e adolescenti con questi tipi di disturbi.
6 Questi autori sostengono che è essenziale innanzitutto che il bambino si riconosca come ansioso e
quindi distingua le proprie emozioni prima di affrontare un piano di ricostruzione di coping adeguato;
inoltre sono adatte tecniche di rilassamento e respirazione. Dato che poi il processo di
metacognizione può essere evolutivamente immaturo, e quindi si possono notare difficoltà
nell’interpretazione del proprio dialogo interno, è possibile utilizzare il metodo delle thought bubble
(le nuvolette dei pensieri tipiche dei fumetti) per aiutare i bambini a identificare i propri processi di
pensiero (Kendall, 2000).
7 Vedi capitoli 23 e 24.
8 Vedi capitolo 11
9 Vedi capitoli 7 e 8.
10 L’apprendimento vicario si verifica quando una risposta comportamentale è acquisita senza
bisogno di essere sperimentata personalmente (per es., attraverso l’osservazione di un’altra persona).
Per questo motivo, l’apprendimento vicario può essere chiamato anche “osservativo” ed è
strettamente legato al modellamento , perché può essere il risultato dell’osservazione di un
modello che viene rinforzato o punito per un certo comportamento.

pag. 258

11 Il bambino impara ad avere paura di qualcosa perché vede che i genitori hanno paura:
l’informazione viene trasmessa dal genitore al bambino senza bisogno che il bambino faccia nessuna
esperienza diretta.
12 Quando viene messa in atto la programmazione esplicita di un percorso di apprendimento o di
cambiamento terapeutico, si può parlare di istruzionismo, per intendere che è necessario istruire
l’allievo o il paziente affinché impari o modifichi un suo comportamento. Il costruttivismo può, in
questo senso, essere interpretato come il processo opposto: quando, per esempio, un bambino impara
da solo a leggere guardando le pubblicità e il fratello maggiore; oppure quando un paziente scopre in
modo autonomo la soluzione a un suo problema comportamentale o emotivo.
13 I compiti di esposizione possono essere immaginari o in vivo e possono servire entrambi dentro e
fuori dallo studio del terapeuta. Compiti a casa di esposizione sono essenziali per una buona
generalizzazione a una gamma di situazioni reali. Dopo l’esposizione, bambino e terapista possono
valutare la sua efficacia, per esempio utilizzando il Subjective Units of Distress (Wolpe, 1980) che
valuta i livelli di disagio soggettivo esperito dal paziente prima, dopo e durante l’esposizione.
Capitolo 15

Fobia specifica
Fabio Celi

LA STORIA DI ELEONORA
Eleonora è una bambina di nove anni e mezzo. I genitori sono venuti da me
perché ha difficoltà ad addormentarsi, si agita quando è il momento di
andare a letto, vuole la luce accesa, dice che sente dei passi, chiama il papà,
suda, trema, si riaddormenta solo se il padre va in camera con lei o lei nel
letto con i genitori. Sembra che in certi momenti, ma in realtà quasi solo la
sera, non abbia altri pensieri che la paura della morte (sua e degli altri),
delle malattie e dei ladri. Eppure – mi fa notare il padre, che fin dall’inizio
ha preso le redini del colloquio e che sembra il più coinvolto nella relazione
educativa con Eleonora – quando è fuori di casa è matura, autonoma,
assennata, cerca la compagnia di bambine più grandi con le quali si trova
bene e dalle quali è trattata da pari a pari. A scuola è molto brava, attenta,
coscienziosa (“Anche troppo?”, si chiede il padre, che sembra avere una
buona consapevolezza di alcuni aspetti psicologici della figlia). La cosa
strana è che in casa, invece, è tutta diversa. Sembra un’altra bambina. È
dipendente, ha bisogno di attenzione, se i genitori si occupano delle due
sorelline minori diventa nervosa e a volte addirittura cattiva. In casa è
sempre un po’ tesa e agitata, anche se il suo problema principale, quello per
cui i genitori sono venuti da me, è che ha paura del sonno.
Il padre, durante il primo colloquio, insiste molto su questa diversità
della bambina quando è fuori e quando è all’interno della famiglia. Mi
ripete che a scuola è un’allieva modello, piena di amici, sempre disposta a
dare una mano agli altri. Di pomeriggio fa ginnastica artistica a livello
preagonistico in una palestra della città, dove se la cava piuttosto bene ed è
assolutamente autonoma, nel senso che la madre la lascia all’inizio della
lezione e la va a riprendere alla fine. E poi a casa non si veste neppure da
sola! Mentre mi dice quest’ultima cosa, il padre guarda la moglie e mi
sembra che ci sia nel suo sguardo un velato rimprovero. D’altra parte
quando, poco dopo, raccoglierò qualche notizia su eventuali disturbi
mentali nelle due famiglie, la mamma mi dirà che lei è sempre stata molto
apprensiva, che in alcuni momenti della sua vita ha dovuto fare ricorso a
terapie con ansiolitici, che circa due anni fa, a seguito della morte del padre,
è stata particolarmente male e ha fatto un ciclo di sedute di biofeedback, e
che anche sua madre era così:1 e nel dirmi questo restituirà quello sguardo
al marito. Forse uno psicologo a orientamento comportamentista non
dovrebbe spingersi troppo avanti nell’interpretare gli sguardi, ma qui mi
sembra che il marito stia dicendo alla moglie che se continua a comportarsi
con Eleonora in un certo modo è chiaro che poi la bambina non crescerà
mai; e che la moglie gli risponda che se lei è così non può farci niente. Il
lavoro successivo con i genitori di Eleonora confermerà solo in parte questa
ipotesi iniziale, ma io penso che sia giusto formulare delle ipotesi, anche a
seguito di un’osservazione occasionale. L’importante è non innamorarsi di
queste ipotesi, ma servirsi di osservazioni sempre più precise per metterle
alla prova.
L’anamnesi della bambina è sostanzialmente negativa, anche se i primi
tre mesi di gravidanza sono stati “terribili”. C’è stata prima una minaccia di
aborto, poi un esame, probabilmente sbagliato, che sembrava rilevare la
presenza di toxoplasmosi: la mamma mi racconta che è stato un periodo di
“paure a non finire”. Il pediatra, che non ha nessuna possibilità di vedere le
crisi d’ansia di Eleonora (infatti, in ambulatorio, come da ogni altra parte
che non sia la sua casa, la bambina si comporta in modo assolutamente
adeguato), dice che è un po’ inappetente e leggermente sotto peso, ma che
non c’è nessun motivo di preoccuparsi di questo. D’altra parte, è stata
inappetente e “noiosa per il mangiare”, fin dai primi mesi di vita. Sul piano
fisico non c’è altro da segnalare.
A questo punto del primo colloquio con i genitori, cerco di chiarire e
approfondire i sintomi della bambina. I principali sembrano essere connessi
alla paura del buio e, soprattutto, di addormentarsi. Spesso Eleonora vuole,
la sera quando deve andare a letto, qualcuno vicino a lei, o per lo meno la
luce accesa. Nelle serate in cui si sente più tesa, pretende di dormire con i
genitori. Dice che ha paura, sente il cuore batterle forte e tutta un’agitazione
dentro. Pensa che potrebbe entrare in camera qualcuno e farle del male. A
volte pensa a dei ladri o a dei rapinatori. Altre volte sono personaggi di
fantasia. Le capita, per esempio, di sognare un Peter Pan che la spaventa,
oppure un calamaro gigante che ha visto in un film alla televisione qualche
settimana prima: in questi casi si sveglia di soprassalto e non riesce più a
riprendere sonno da sola. Sente la testa che le scoppia di mille pensieri e il
corpo tutto irrigidito. Si rigira nel letto cercando invano una posizione e il
sonno, ma il più delle volte deve chiamare il padre (sempre il padre), il
quale le accende la luce, resta un po’ con lei, la fa parlare e calmare e solo
così, faticosamente, Eleonora riesce a riaddormentarsi.
Non si può parlare di un esordio vero e proprio, perché, come abbiamo
visto, Eleonora è sempre stata una bambina timorosa, ma la situazione è
precipitata in seguito a due episodi, avvenuti a qualche mese di distanza
l’uno dall’altro. Il primo episodio fu la nascita della seconda sorellina, quasi
un anno fa. Eleonora aveva avuto qualche difficoltà ad accettare anche la
prima, di due anni minore: era stata a lungo gelosa e tuttora le due sorelle
non vanno certo d’accordo. Ma la nascita della terza bambina, che ora ha un
anno e mezzo, fu un vero e proprio dramma. Ne è gelosissima, fa di tutto
per distogliere l’attenzione dei genitori dalla sorella e per attirarla su di sé.
Come mi faceva notare il padre, arriva persino a sostenere di non essere
capace di vestirsi da sola, cosa assolutamente falsa. Una sera ha detto alla
mamma:
“Se anch’io mi facessi tutto addosso, mi dovresti lavare e cambiare”.
Il secondo episodio, qualche mese dopo, fu l’irruzione dei ladri, di notte,
in un appartamento due piani sotto quello di Eleonora, mentre i proprietari,
amici della bambina, dormivano. Eleonora continuava a ripetersi che
sarebbe potuto succedere a loro. In quel periodo voleva più che mai
qualcuno vicino per addormentarsi e diceva di sognare ladri tutta la notte.
Fu in seguito all’aggravamento del quadro dopo questo episodio che i
genitori decisero di venire da me.
Prima di chiudere il colloquio domandai loro se pensavano che ci fossero
altre cose importanti da dire, ma sinceramente la mia domanda era, più che
altro, routinaria e credevo che non sarebbe saltato fuori più niente di
interessante.2 Invece la madre, inaspettatamente, mi disse:
“È tutta colpa mia”.
Anche il marito la guardò con una certa meraviglia.
Chiesi alla signora, molto cautamente, che cosa intendesse dire.
Mi rispose che Eleonora doveva ringraziare lei per questi suoi disturbi.
Una sera era stata lei a permetterle di vedere un film alla televisione che le
era sembrata un’innocua avventura per ragazzi, e invece a un certo punto
era comparso un calamaro gigante che aveva spaventato tantissimo la
bambina e che era diventato nei giorni successivi un incubo notturno
ricorrente. Naturalmente questo episodio era troppo poco per
un’affermazione così pesante come quella che la mamma aveva appena
fatto. Restai un attimo in silenzio, guardando la signora con l’aria di chi è
pronto ad ascoltare dell’altro. Mi disse:
“E poi non è solo questo”.
“Che cos’è che le fa pensare di avere tante colpe?”.
“Ha succhiato l’ansia insieme al mio latte. Ancora prima, quando ero
incinta e ho avuto paura di aver abortito e poi, ancora peggio, ho avuto
paura di dover abortire perché non mi nascesse una bambina gravemente
malata…”.
Il marito la interruppe:
“Lì certo non era colpa tua, ma semmai dei dottori che si erano
sbagliati…”.
“Sì, ma anche dopo, chissà quante paure le ho trasmesso… Quante volte
le ho detto di non arrampicarsi sullo scivolo quando era piccola, di stare
attenta che poteva sbattere la testa e finire all’ospedale… E anche adesso,
tutte le sere, quando va a letto, penso che non ce la farà, che non riuscirà ad
addormentarsi, oppure che avrà degli incubi e si sveglierà piena di
angoscia… Pensa che lei non se ne accorga, dottore? Eleonora ha dei
problemi, ma è intelligente, capisce tutto, io sono sicura che me la legge
negli occhi tutta questa ansia e se la porta in camera con sé…”.
Il marito, per la prima volta durante il colloquio, taceva, forse un po’
imbarazzato, certamente preso alla sprovvista.
Le risposi che ero certo che Eleonora vedesse l’ansia negli occhi della
madre e che forse questo poteva contribuire un po’ al suo problema. Le
dissi però che credevo che darsi la colpa di tutto non fosse giusto, sia perché
non era quasi certamente vero, sia perché non serviva a niente, anzi poteva
solo peggiorare la situazione. Aggiunsi:
“Ora penso che prima di tutto dovrei vedere Eleonora e conoscerla, ma
poi, se le fa piacere, riprenderemo questo discorso, che è molto importante e
può essere la base di partenza per cercare di cambiare alcune cose e aiutare
la bambina”.
Noto qui, di sfuggita, che probabilmente un intervento di questo tipo non
era quello di cui la signora aveva più bisogno in quel momento. Forse la
signora avrebbe voluto trovare qualcuno che raccogliesse subito questa sua
angoscia, le permettesse di esprimerla ancora più a fondo e poi cominciasse
a lavorarci sopra. I limiti, anche di tempo, di un primo colloquio, però sono
noti e con quelle parole io cercai, per lo meno, di tenere una porta socchiusa
per un lavoro successivo.
Per fortuna gli ultimi accordi furono invece semplici e veloci, perché
entrambi i genitori erano già consapevoli del fatto che avrei voluto vedere
la bambina, ne avevano già parlato con lei presentandogli la cosa nel modo
giusto e la bambina non aveva mostrato nessuna difficoltà all’idea di
sostenere un colloquio con un dottore che avrebbe provato a darle una mano
per superare le sue paure.
Quando vidi Eleonora, infatti, mi parve addirittura contenta di essere
venuta da me. Non ebbe nessun problema a mettersi in relazione, a lasciare
subito nel corridoio il padre che l’aveva accompagnata, a spiegarmi che
sapeva benissimo che l’avevano portata da un psicologo dei bambini per
parlare delle sue paure e per vedere se si poteva fare qualcosa per superarle.
Fu dunque subito molto collaborativa. Forse, se proprio voglio concentrare
l’attenzione su alcuni piccoli elementi psicopatologici al di là delle fobie,
c’erano, in Eleonora, alcuni tratti che potremmo approssimativamente
definire ossessivi:3 questo atteggiamento di collaborazione così puntuale;
questo perfezionismo nel mettersi in relazione con me e nel cominciare
subito a lavorare (le chiesi di farmi un diario di osservazione e la settimana
dopo me lo portò compilato in modo ineccepibile e senza aver saltato
neppure un giorno); questo chiedermi più volte che cosa avremmo dovuto
fare insieme per superare il suo problema; persino la meticolosità di certi
disegni liberi nei quali, per esempio, i merli di un castello erano tutti
perfettamente uguali, a uguale distanza uno dall’altro, riempivano oltre
metà del foglio e avevano richiesto oltre mezz’ora per essere disegnati.
Paradossalmente, però, può succedere che i tratti ossessivi, se non si
trasformano in un vero e proprio disturbo che si sovrappone ad altri
Disturbi d’ansia, possono persino darci una mano nello svolgimento di un
programma psicoterapeutico e forse questo fu il caso di Eleonora, che già
nella prima seduta mi raccontò con precisione delle sue paure. Mi disse che,
di solito, scattavano verso sera (e penso adesso, mentre sto scrivendo queste
sue parole riprendendole dalla cartella clinica, quante volte ho sentito
questa storia dell’angoscia che scende insieme alle prime ombre della sera,
sempre diversa perché sempre diverse sono le storie di ciascuno di noi, ma
anche, nelle sue caratteristiche generali, sempre uguale a sé stessa
attraverso gli anni e attraverso i bambini). Le veniva allora in mente,
soprattutto se era in camera sua, soprattutto se era già a letto, da sola, con la
luce spenta, che un uomo avrebbe potuto entrare in casa, forse un ladro, e
rubare o fare del male a qualcuno dei suoi. A volte le veniva in mente un
pensiero ancora peggiore: che un ladro avrebbe già potuto essere in casa, e
aspettare solo il momento buono per saltar fuori e colpire. Questo le
provocava una grande angoscia. Si sentiva tesa e il cuore le balzava in gola.
Allora le bastava un niente, un piccolo rumore da una stanza vicina,
un’ombra, la forma strana che a volte prendono gli oggetti anche familiari
nella semioscurità, per sentire il bisogno di fare qualcosa per scacciare
questa paura, che diventava intollerabile. Doveva accendere la luce, o
andare in bagno a fare la pipì, o chiamare il papà perché le portasse un
bicchier d’acqua e si fermasse un po’ con lei. Certe sere queste paure la
prendevano con particolare forza, ancora prima di andare a letto, e allora
chiedeva di poter dormire con i genitori. Altre sere, invece, si addormentava
con relativa facilità, ma poi capitava che si svegliasse nel cuore della notte,
dopo un brutto sogno, tutta sudata, tremante e terrorizzata: in questi casi
chiamava il padre e lo pregava di fermarsi a dormire un po’ con lei.
Eleonora appariva perfettamente consapevole dell’irragionevolezza delle
sue paure anche se, come vedremo più avanti, ciò non è molto frequente nei
bambini. Durante questa prima seduta, che fu evidentemente molto
produttiva, tentai allora di esaminare anche il grado di consapevolezza della
bambina rispetto ai suoi rapporti con le sorelle. Appena affrontai
l’argomento, mi disse che non era affatto gelosa (ben prima che io le facessi
una domanda precisa a questo riguardo!). Però ammise che erano noiose,
soprattutto la più piccola, e che a forza di “rompere” attiravano sempre tutta
l’attenzione di papà e mamma.
Decisi di tentare, giocando un po’ d’azzardo, e le dissi:
“E tu allora, per avere un po’ di attenzione, ti fai prendere dalle paure la
sera”.
Parve un po’ contrariata da questa mia frase, ma decisa a rifletterci su.
Poi mi disse tre cose, tutte e tre molto interessanti, anche se non ricordo più
e non ritrovo nei miei appunti in che ordine. Mi disse che potevo aver
ragione; che di certo lei non lo faceva apposta; che sperava che sarebbe
riuscita a migliorare, perché lo desiderava davvero.
Le risposi raccogliendo le ultime due osservazioni. Le dissi che ero
sicuro che non lo facesse apposta e che pensavo proprio che saremmo
riusciti a inventare insieme qualche sistema per affrontare meglio le sue
paure. Le spiegai come fare un primo diario delle paure e a che cosa poteva
servire. Costruimmo insieme la griglia di osservazione e lei disegnò un
“termometro della paura” (Kendall e Di Pietro, 1995). Infine le diedi
l’appuntamento per la settimana successiva.
L’avverbio “infine”, però, non è quello giusto. Credevo di chiudere così
la seduta. Invece Eleonora prese il foglietto con la data e l’ora
dell’appuntamento, lo guardò e mi disse:
“Prima, quando ti ho detto che non sono gelosa delle mie sorelline, ti ho
detto la verità”.
Le feci cenno di sì aspettandomi che andasse avanti.
“Gelosa no, però mi piacerebbe restare bambina”.
“Come mai ti piacerebbe restare bambina?”.
“Perché i bambini giocano sempre, sono belli e sono coccolati. Io da
grande farò la maestra”.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Le caratteristiche fondamentali del disturbo di Eleonora, che ci servono per
arrivare alla formulazione di una diagnosi, sono tre (Rutter, 1995; House,
1999; Lambruschi e Fabbri, 2003; Meltzer et al., 2009; Ollendick, Allen,
Benoit e Cowart, 2011).
La prima è che la bambina ha una paura esagerata e sostanzialmente
irragionevole di situazioni circoscritte: il buio e l’addormentarsi da sola al
buio. Anticipo qui che il fatto che gli stimoli responsabili di provocare
paura siano circoscritti è importante per la diagnosi differenziale: se
Eleonora avesse paura in mille circostanze diverse, per esempio, sarebbe
probabilmente più corretto parlare di un Disturbo d’ansia generalizzata.
La seconda caratteristica è che l’esposizione a queste situazioni provoca
nella bambina una marcata risposta ansiosa: Eleonora sta male, il cuore le
batte forte, anticipa mentalmente eventi improbabili ma molto spaventosi,
come l’arrivo di un ladro e, alla fine, deve accendere la luce per sottrarsi a
quest’ansia.
La terza caratteristica è che quest’ansia fobica interferisce
significativamente con le normali abitudini della bambina: nei momenti
particolarmente acuti la vita serale dell’intera famiglia ne risulta
parzialmente sconvolta.
Queste sono le tre condizioni fondamentali per porre una diagnosi di
Fobia specifica secondo il DSM-5 e l’ICD-10. Nell’ICD-10 inoltre è
richiesta la presenza di sintomi vegetativi d’ansia e che almeno due di tali
sintomi si manifestino contemporaneamente.
In età evolutiva, oltre a queste tre condizioni, è necessario che i sintomi
persistano da almeno 6 mesi, criterio che abbiamo visto soddisfatto nel
nostro caso.
La Fobia specifica, come abbiamo osservato nel capitolo precedente,
rientra nella più ampia categoria dei Disturbi d’ansia e si caratterizza,
dunque, per una esagerata paura generata da stimoli relativamente
circoscritti. A seconda del tipo di stimolo che scatena la risposta fobica, il
DSM-5 distingue cinque specificazioni di Fobia specifica:
1. Animale (particolarmente frequente in età evolutiva);
2. Ambiente Naturale (come fobie per i temporali o per le altezze: frequente
in età evolutiva);
3. Sangue-Iniezioni-Ferite;
4. Situazionale (quando la fobia si manifesta in situazioni specifiche, per
es., su un autobus, o in galleria, o su un viadotto, o in ascensore; se
interpretiamo l’addormentarsi come la situazione specifica, sembra
questo il caso di Eleonora; questo tipo è frequente sia in età evolutiva sia
negli adulti);
5. Altro tipo.
La Fobia specifica può porre alcuni problemi di diagnosi differenziale
(Fabrizi, 2001). Abbiamo appena visto la questione della diagnosi
differenziale con il Disturbo d’ansia generalizzata, ma il problema può porsi
per quasi tutti i Disturbi d’ansia. In età evolutiva i due disturbi che forse più
di frequente possono creare dubbi diagnostici sono il Disturbo d’ansia di
separazione e la Fobia sociale. Nel Disturbo d’ansia di separazione le
risposte patologiche non si verificano di fronte a stimoli specifici come
l’addormentarsi o l’avvicinarsi di un animale, ma in tutte quelle situazioni
nelle quali il bambino deve allontanarsi dalle figure di attaccamento. Nella
Fobia sociale, come vedremo nel prossimo capitolo, ci possono, invece,
essere stimoli precisi che determinano il disturbo (per es., la scuola), ma in
questi casi all’origine dell’ansia ci sono le difficoltà causate da situazioni
relazionali (per es., una scuola dove non fossero presenti i compagni
potrebbe non determinare nessun disagio). Anche il Disturbo da stress post-
traumatico può porre qualche problema di diagnosi differenziale: per
esempio, nel caso di Eleonora, si potrebbe pensare che lo stress generato
dalla visita dei ladri al piano di sotto abbia determinato il disturbo. Questo,
tuttavia, non è corretto. Nel Disturbo da stress post-traumatico, infatti, il
bambino non ha in precedenza particolari problemi d’ansia, lo stress è
violentissimo e la patologia che si manifesta subito dopo, chiaramente
generata dall’evento stressante, è caratterizzata da un tentativo di rivivere,
in forma simbolica, l’episodio traumatico. Tutti questi elementi sono assenti
nel caso di Eleonora. Infine, si può porre un problema di diagnosi
differenziale con il Disturbo ossessivo-compulsivo: ma, in questo caso, lo
stimolo specifico, per esempio addormentarsi, non determinerebbe solo
generiche risposte ansiose, bensì anche precisi comportamenti ripetitivi e
ritualistici per tenere l’ansia sotto controllo, come vedremo nel capitolo 17,
in particolare nel caso di Alessandra che presenta interessanti analogie con
questo, ma ha una diagnosi decisamente diversa. Al di là dei problemi di
diagnosi differenziale, è comunque necessario tener presente che nella
Fobia specifica, come in generale nei Disturbi d’ansia, la comorbilità è
molto frequente (Kessler, Ruscio, Shear e Wittchen, 2010; Martín, Granero
e Ezpeleta, 2014; Cummings, Caporino e Kendall, 2014).4
In linea teorica, di fronte a un bambino con gravi reazioni ansiose in
seguito a stimoli specifici, potrebbe anche porsi un problema di diagnosi
differenziale con un Disturbo dello spettro dell’autismo, perché, come
abbiamo visto nei capitoli 5 e 6, l’ansia è una componente sintomatologica
tipica di queste patologie (Van Steensel, Bögels e Perrin, 2011). Tuttavia,
credo che il problema sia solo teorico. In pratica, infatti, la pervasività dei
Disturbi dello spettro dell’autismo, la loro gravità o, quantomeno, alcune
caratteristiche connesse con una perdita di contatto con la realtà e di
relazione con gli altri, rendono piuttosto difficile confondere le diagnosi.
Molto più rilevante, da un punto di vista pratico, è distinguere una Fobia
specifica propriamente detta dalle paure, anche intense, che sono molto
frequenti nei bambini e, in determinate fasi dello sviluppo, fisiologiche
(March, 1995; Meltzer et al., 2009). Le paure normali sono moderate,
transitorie e si riscontrano in una grande quantità di bambini di pari età. Le
fobie, invece, sono eccessive, disadattive e persistenti. Inoltre, in un recente
studio, Creswell, Murray e Cooper (2014) sottolineano che i bambini con
Fobia specifica si diversificano da quelli non fobici non tanto per la paura
provata, quanto piuttosto per il coping, ovvero le strategie che mettono in
atto per fronteggiare tale paura. Contrariamente a quanto avviene negli
adulti, nei bambini non è necessaria la consapevolezza
dell’irragionevolezza della fobia per porre la diagnosi, anche se a volte,
come nel caso di Eleonora, la consapevolezza può essere buona.
La prevalenza della Fobia specifica si aggira intorno al 10%, ma la
ricerca epidemiologica fornisce dati anche molto contrastanti a questo
proposito a causa delle difficoltà nel determinare la soglia per la valutazione
del disagio clinicamente significativo. È, in altre parole, molto difficile,
soprattutto nei bambini, decidere se una paura è normale e sostanzialmente
innocua o se deve essere considerata una fobia.
Tra i fattori eziologici predisponenti sono stati individuati la familiarità;
gli atteggiamenti educativi, con particolare riferimento al meccanismo della
trasmissione di informazione della paura dai genitori ai figli; gli eventi
traumatici in apparenza anche non particolarmente drammatici (Goodyer,
1996; Beidel e Turner, 1997; Le Doux, 1998; Hirshfeld-Becker et al., 2012;
Murray et. al., 2012; Keren et al., 2010). Inoltre in uno studio condotto da
Lewis-Morrarty et al. (2014) si evidenzia come uno stile di attaccamento
insicuro e una precoce inibizione sociale incrementino il rischio di
sviluppare un Disturbo d’ansia in età evolutiva. Nella mia esperienza
clinica, gli eventi che è più facile trovare al momento dell’insorgenza del
disturbo, che però quasi sistematicamente covava sotto la cenere anche
prima, sono la nascita di un fratellino; la morte di un parente, per esempio
un nonno, al quale il bambino era particolarmente affezionato;
un’ospedalizzazione; un peggioramento della situazione scolastica; la
separazione dei genitori: in quest’ultimo caso, ormai il più frequente, conta
molto non soltanto la violenza conflittuale con la quale la separazione è
gestita e fatta vivere al bambino, ma anche l’incapacità di parlare con il
figlio e di spiegargli in modo adeguato la situazione e di prepararlo a quello
che avverrà (Goodyer, 1996). Di solito, come abbiamo visto nel precedente
capitolo, questi eventi tendono a produrre un Disturbo dell’adattamento
piuttosto che un Disturbo d’ansia vero e proprio, ma non sempre è così.
Ho in mente Laura, una bambina che sviluppò una serie di Fobie
specifiche molto resistenti dopo la separazione dei genitori. In quel caso, il
padre sembrava aver fatto di tutto per non preparare adeguatamente la
figlia. La bambina mi raccontò che una sera l’aveva presa da parte e le
aveva detto:
“Ti piacerebbe avere un’altra casa?”.
Laura aveva risposto di sì, pensando che sarebbe stato bello avere una
seconda casa, magari al mare o in montagna.
Invece questo era stato l’ineffabile modo escogitato dal padre per
comunicarle che si sarebbe separato.
Durante una seduta molto triste, Laura, con l’atteggiamento di chi,
oltretutto, si dà la colpa di quello che è successo, quasi pensando che le
cose sarebbero potute andare diversamente se lei avesse risposto
diversamente a quell’assurda domanda, mi disse:
“Era meglio se gli rispondevo di no, che non volevo un’altra casa”.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO E


PROGNOSI
Già alla seconda seduta, Eleonora mi porta un diario di osservazione sul
quale, ogni sera, ha scritto una serie di cose che avevamo concordato
insieme (Johnson, 1999). Primo, come è andata. Secondo, quando ha avuto
paura. Terzo, che cosa ha determinato questa paura: avvenimenti particolari
prima di andare a letto, spettacoli televisivi visti, discorsi fatti con i genitori,
ma soprattutto pensieri. Quarto, qual era il livello della paura misurato con
il termometro da 0 a 10 che avevamo studiato insieme. Quinto, che cosa ha
fatto per fronteggiare la paura: accendere la luce, chiamare i genitori,
abbracciare forte un pupazzo di peluche che ha da tanti anni e che a volte le
fa coraggio. Sesto, se si è svegliata durante la notte. Settimo, perché si è
svegliata durante la notte: quali sogni o quali pensieri l’hanno spaventata e,
di nuovo, a che livello ha valutato la sua paura. Ottavo, che cosa ha fatto
per cercare di riaddormentarsi.
Il diario è tenuto molto bene. Da esso risulta che ha avuto bisogno tutte
le sere di chiamare il padre prima di addormentarsi. La paura, evocata da
pensieri anticipatori negativi, era mediamente valutata a livello 8. Per tre
volte si è svegliata durante la notte con un incubo. Gli incubi riguardavano
l’entrata di un ladro in casa (per due volte) e l’arrivo di un enorme Peter
Pan. Quest’ultimo è stato il più brutto. Eleonora ha valutato che la sua paura
aveva raggiunto il livello 10. Sembrava proprio che questo Peter Pan fosse
vivo, vero, vicino al suo letto, ed emanava una puzza orrenda, che dava alla
bambina la sensazione di non riuscire a respirare. Quella sera era riuscita a
riaddormentarsi solo andando nel letto dei genitori.
Parliamo di questo Peter Pan il cui pensiero ora, di giorno, nella
tranquillità del mio studio, non le procura nessuna angoscia. La bambina è
perfettamente consapevole del fatto che si era trattato di un sogno, che Peter
Pan è un personaggio di fantasia e che nessun Peter Pan era entrato né mai
sarebbe potuto entrare nella sua camera.
“Però l’altra notte non la pensavo così!”, mi dice.
Aggiunge:
“La paura mi fa perdere la testa. Non ragiono più. Di notte credo proprio
che ci sia qualcuno nella mia camera e devo accendere la luce e certe volte
anche scappare di là dai miei genitori”.
Le chiedo se ha ancora voglia di parlarmi e di farmi capire di più sui suoi
sintomi (o se si è stufata!) e, visto che non sembrano esserci problemi, le
somministro l’Inventario delle Paure (Kendall e Di Pietro, 1995), dal quale
emergono paure meno forti, ma sempre significative, per i luoghi
sconosciuti, le punture, i topi, l’allontanarsi da casa, la bomba atomica, i
ladri (ovviamente!), il terremoto, i tuoni, la guerra, gli zingari, le siringhe
per strada, gli scarafaggi.
Le chiedo anche se ha voglia di disegnare, e, mentre disegna,
continuiamo a chiacchierare. Comincio a spiegarle che, secondo me,
affrontare le paure è anche una questione di allenamento. Facciamo insieme
una serie di esempi di che cosa vuol dire allenamento: più uno fa una cosa
e, di solito, meglio gli riesce. Le domando se le viene in mente qualche
esempio di questo, qualcosa che sia capitato a lei. Ci pensa un po’, mentre
disegna con colori tenui e delicati un paesaggio di montagna, all’interno del
quale mette la sua famiglia: lei disegnata per prima, ma in secondo piano; le
due sorelle ancora più sullo sfondo; i genitori in primo piano, sorridenti
(vedi fig. 8, Tavole a colori). Dopo un po’ mi dice che un esempio, forse, le
è venuto in mente. La sua maestra di matematica è fissata con il calcolo
mentale veloce. A volte chiede ai bambini di fare delle operazioni senza
scriverle sul quaderno e vuole il risultato subito. All’inizio questo, per lei,
era molto difficile. Era troppo abituata a scrivere i numeri su un foglio per
fare le operazioni e se la maestra glielo impediva andava in tilt. Poi suo
padre l’ha fatta provare tante volte, prima con operazioni facili. Lei si è
accorta che ci riusciva ed è migliorata. Mi chiede se questo è un esempio di
allenamento. Le rispondo che non è un buon esempio di allenamento, ma un
ottimo esempio, perché fa capire come a forza di fare le cose si diventa non
solo più bravi, ma anche più sicuri di sé. Le dico che io credo che anche per
le paure sia un po’ così. Le chiedo se, all’inizio, non aveva anche un po’
paura del calcolo mentale. Ci pensa, poi mi risponde di sì e osserva
spontaneamente che ora ne ha di meno. Le racconto che a me è successa la
stessa cosa.
“Anche tu avevi paura?!”.
Sembra molto meravigliata, ma anche incuriosita da questo fatto.
“Non delle operazioni, ma di parlare davanti a tanta gente, per esempio
per fare una lezione o una conferenza”.
Questa mia storia la interessa molto. Le racconto che anch’io ho provato su
di me che cosa vuol dire allenamento. A volte un gruppo di maestre mi
chiamava per fare una lezione sulla psicologia dei bambini e io mi sentivo
molto emozionato: mi tremava un po’ la voce e avevo paura di fare brutta
figura. Però ho deciso di provare ugualmente e di farmi coraggio, ho fatto
una lezione, poi due, poi tre…
“Sai che cosa è successo?”, le ho chiesto. “Secondo te, la paura
aumentava o diminuiva dopo che avevo fatto un po’ di lezioni?”.
Lavoriamo per tutto il resto della seduta su questo. Non le è difficile
capire e accettare che l’ansia diminuisce se proviamo a esporci abbastanza a
lungo allo stimolo ansiogeno, anche se, naturalmente, con Eleonora non mi
esprimo in questi termini. Le chiedo di fare ancora il diario di osservazione
e di provare, quando la paura non è troppo grande, ad allenarsi a superarla,
così, per ora tanto per vedere che cosa succede (Beck, 1976; 1993).
Nella seduta successiva, il diario di osservazione mostra che le prime
due sere è riuscita ad addormentarsi da sola. Dopo, per tutta la settimana, la
paura è stata troppo forte e non ce l’ha più fatta. Sembra molto delusa di
questo. Lavoro, ovviamente, sul fatto che l’importante è averci provato e,
per ben due sere, esserci anche riuscita. Il resto verrà piano piano, ma per
ora io sono molto contento. Questo è, evidentemente, un intervento basato
sul modellaggio . Le altre tecniche che abbiamo visto fino a questo
momento5 sono l’osservazione, l’auto-osservazione e l’autocontrollo
(attraverso il diario e il “termometro della paura”6); l’esposizione 7
associata a un primo abbozzo di ristrutturazione cognitiva (vedi riquadro
alla pagina seguente): queste ultime tecniche sono intervenute quando le ho
spiegato che l’ansia non arriva secondo criteri del tutto imprevedibili, e
quindi ci si può allenare ad affrontarla per vederla diminuire (Beck, 1976;
Freeman e Greenvood, 1986; Beck, 1993).

pag. 6

pag. 151

pag. 136

pag. 365

Più avanti abbiamo lavorato ancora nella direzione del guardarsi dentro e
abbiamo provato prima ad ascoltare e poi a modificare il dialogo interno:
“Che cosa posso fare per cercare di stare più calma? Posso chiamare
disperatamente il mio papà, ma posso anche provare ad abbracciare il mio
pupazzo”. Quando Eleonora si rende conto delle possibili alternative ed è in
grado di scegliere la migliore a seconda del momento e del livello di paura
sta facendo anche un lavoro di problem solving .8 La ristrutturazione
cognitiva, più avanti, riguarderà anche alcuni pensieri catastrofici che è
meglio imparare a considerare altamente improbabili e che, in quanto tali,
vanno scartati dalle nostre alternative mentali.

pag. 328
RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA
Ci sono pensieri che non favoriscono un positivo processo di
cambiamento nel paziente (per es.: io sono nato così e non riuscirò
mai a cambiare). Ci sono pensieri che non aiutano a collaborare con il
terapeuta (per es.: perché dovrei provare a invitare un amico a uscire
con me se tanto mi risponderà di no?). Ci sono pensieri che non
aiutano a vedere in modo corretto gli obiettivi terapeutici (per es.: un
amico potrà anche uscire con me, ma sicuramente non ci
divertiremo). Ci sono pensieri che generano demotivazione (per es.: è
inutile che studi, perché comunque farò una brutta interrogazione);
ansia (per es.: se provo anche solo ad avvicinarmi alla classe,
sicuramente mi sentirò male); depressione (per es.: che senso ha
uscire, telefonare, cercarsi un lavoro, fare una passeggiata?).
La ristrutturazione cognitiva è una metodologia terapeutica che cerca
di modificare questi pensieri. Per ottenere questo risultato il terapeuta
aiuta il paziente a riconoscere i pensieri che lo fanno star male o non
lo aiutano a star meglio. Poi cerca di mostrargli che pensieri di questo
genere hanno, di solito, alcune caratteristiche ricorrenti che li rendono
pericolosi: sono esagerati (un conto è pensare non mi divertirò, un
altro conto è pensare sicuramente mi annoierò a morte e tornerò a
casa più triste e sfiduciato che mai); sono dicotomici (sì/no,
bianco/nero, tutto/nulla) e perciò assoluti (tutto quello che faccio è
sbagliato); sono caratterizzati da inferenze arbitrarie che, da piccoli
particolari, arrivano a conclusioni generali (non mi ha salutato, quindi
mi detesta: io infatti non piaccio mai a nessuno). Poi cerca di metterli
in discussione, di mostrare al paziente quanti errori questi pensieri
contengano e come sarebbe più ragionevole, più utile, più “sano”
provare a pensare in modo diverso.
Nel presente capitolo si può vedere come in un Disturbo d’ansia la
ristrutturazione cognitiva sia usata per correggere un’interpretazione
errata di un sintomo fisico. Se un bambino pensa, per esempio, che
l’aumento del ritmo cardiaco sia il primo segnale di un un malore
gravissimo che certamente lo porterà a sentirsi male, a svenire, a fare
brutta figura davanti a tutti, modificare questo pensiero può
contribuire a interrompere un circolo vizioso dell’ansia. Nel capitolo
16 la ristrutturazione cognitiva permette a Gabriele di modificare
alcune convinzioni errate connesse alle situazioni sociali. Nel
capitolo 23 il terapeuta cerca di insinuare, nella mente di Silvia, il
dubbio se sia proprio vero che lei è così antipatica. Qual è la prova
che tu sia così irrimediabilmente insopportabile agli occhi di tutte le
tue amiche? Come fai a sapere, senza neppure avere provato, che
nessuna accetterà un tuo invito? Queste sono domande tipiche della
ristrutturazione cognitiva, che non dovrebbe essere pensata come una
metodologia necessariamente a sé stante, ma che può essere uno
strumento che si integra in un approccio cognitivo-comportamentale
complesso. Una ristrutturazione cognitiva, per esempio, può preparare
il terreno a una esperienza di esposizione agli stimoli ansiogeni o a un
compito comportamentale svolto in modo più adeguato e più proficuo.

Dalla terza seduta iniziamo il rilassamento. Lavoriamo soprattutto sulla


respirazione, che sembra piacerle e riuscirle molto bene, e
sull’immaginazione di situazioni rilassanti (in casi come questo potrebbe
essere anche molto indicato un rilassamento in biofeedback).9 La letteratura
(Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006) suggerisce che la
respirazione diaframmatica e il progressivo rilascio della tensione
muscolare sono procedure utili al fine di ristabilire un alto arousal in
bambini ansiosi. In particolare, il biofeedback, il rilassamento, la
meditazione, l’immaginazione guidata e l’ipnosi vengono associati alle
terapie cognitivo-comportamentali per facilitare la percezione
dell’autocontrollo (Turk, Swanson e Tunks, 2008; Peris et al., 2014; Simkin
e Black, 2014; Kaiser, 2014). Durante l’immaginazione guidata, Eleonora
mi riferisce che ha visto un prato. Poi il Polo Nord: c’è Babbo Natale e, a
un certo punto, arriva un uomo che a volte Eleonora sogna e che le fa paura,
ma Babbo Natale riesce a mandarlo via. Trovo quest’ultimo particolare
molto interessante, da un punto di vista sia teorico sia pratico. Eleonora ha
praticamente reinventato da sola una ben precisa metodologia terapeutica
basata sul controcondizionamento in immaginazione: rilassamento-
situazione ansiogena-arrivo di un eroe che risolve la situazione ansiogena.
Io mi sono limitato a insegnarle a rilassarsi e visualizzare immagini serene.
Il lavoro che Eleonora ha fatto autonomamente è un bell’esempio di
costruttivismo, soprattutto se si pensa che tutto questo è avvenuto
all’interno di un programma di condizionamento-decondizionamento di per
sé molto comportamentale.
A fine seduta la rinforzo per quello che ha fatto e le assegno nuovi
compiti a casa: non solo il diario di osservazione con il tentativo di allenarsi
ad affrontare l’ansia, ma anche gli esercizi di rilassamento.
All’incontro successivo, Eleonora racconta di aver dormito due notti da
sola e di aver fatto il rilassamento tutti i giorni, anche più volte al giorno.
Iniziamo la seduta con nuovi esercizi di rilassamento e poi costruiamo una
gerarchia di difficoltà degli esercizi di allenamento:
1. andare a letto con mamma e papà nella loro camera: livello di difficoltà =
0;
2. andare a letto in camera sua con il papà che le tiene compagnia fino a che
non si sia addormentata: livello di difficoltà = 2;
3. andare a letto in camera sua con il papà che la accompagna, ma poi,
prima che si sia addormentata, se ne va: livello di difficoltà = 5;
4. andare a letto da sola, con il papà che viene solo se lei lo chiama: livello
di difficoltà = 7;
5. stare tutta la notte da sola: livello di difficoltà = 10.
Su questi dati costruiamo un istogramma che, seduta dopo seduta, ci darà il
livello di difficoltà totale che Eleonora ha superato in una settimana: un
tipico esempio di rinforzatore informativo .

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Lavoriamo sulle sue paure anche giocandoci sopra. La invito a inventare


delle storie, dove un bambino prima ha paura di qualcosa e poi trova il
modo per superarla. Quando il gioco riesce bene ne approfitto per lavorare
sul lieto fine attraverso una forma di modellamento simbolico. Quando
riesce meno bene provo a insegnarle che, in certi momenti di difficoltà, può
provare a ripetere dentro di sé che tanto non sono cose reali (nessun Peter
Pan e nessun calamaro gigante entrerà mai nella sua camera). Tutto questo
tende a favorire nella bambina lo sviluppo di autoaffermazioni e
autocontrollo attraverso il dialogo interno. Alcune ricerche (Suveg, Kendall,
Comer e Robin, 2006; Tan et al., 2012; Kullik e Petermann, 2013; Jacob,
Suveg e Whitehead, 2014) dimostrano l’utilità di procedure come queste,
centrate sul ruolo delle emozioni: esse affermano che i bambini con
Disturbo d’ansia sperimentano le emozioni in modo più intenso rispetto agli
altri, percependosi meno capaci di gestire situazioni emotivamente
provocanti.
Fisso un appuntamento con i genitori, che inizialmente non sembravano
molto disponibili a lavorare con me e preferivano che mi occupassi
esclusivamente della figlia. Ora però hanno cominciato a vedere qualche
piccolo risultato e può darsi che mi concedano un’apertura di credito.
Spiego loro che cosa ho fatto fino a questo punto con la bambina e faccio
presente che avrei bisogno del loro aiuto. Trasformiamo le schede di
osservazione e l’istogramma in una forma token economy che i genitori
condividono, modificata perché basata anche sull’auto-osservazione e
sull’autocontrollo . Fissiamo, di comune accordo, alcuni punteggi che
serviranno a Eleonora per guadagnare dei rinforzatori. I più semplici da
guadagnare saranno rinforzatori dinamici e consisteranno in attività che la
bambina gradisce fare con i genitori il sabato pomeriggio o la domenica. Un
punteggio molto alto le permetterà, invece, di realizzare il suo vecchio
desiderio di avere un cagnolino. Naturalmente spiegheremo poi bene a
Eleonora tutto questo.

pag. 13

pag. 151

pag. 136

In una serie di sedute successive con i genitori, lavoriamo anche ad altri


livelli. Forse il più importante di tutti è il tentativo di trasformare il senso di
colpa della madre in un’attitudine positiva al cambiamento. Quello che
cerchiamo di fare insieme è modificare la prospettiva, vedere magari le
stesse cose, ma da un’angolatura differente. La madre può dire: “È stata
tutta colpa mia”, ma questo, oltre a essere quasi certamente falso, serve solo
a farla star male. Oppure può dire: “Forse, se invece di comportarmi in
questo modo, d’ora in avanti, provassi a comportarmi in quest’altro…”.
Cerco di far cogliere alla mamma di Eleonora il fatto che questo secondo
modo di ragionare non soltanto ha più probabilità di essere vero, ma è più
utile. Non solo non la farà stare tanto male, ma forse produrrà anche dei
cambiamenti positivi. Naturalmente una ristrutturazione cognitiva di questo
genere ha bisogno di essere agganciata a cambiamenti reali. Uno di questi
può essere un diverso atteggiamento nei confronti della bambina rispetto
alle sue ansie e alla sua gelosia. Eleonora sta male davvero in certi
momenti, e questo non è in discussione. Tuttavia sta male anche per attirare
l’attenzione. Non concedergliela sarebbe pericoloso, perché ne ha bisogno e
i suoi sentimenti verso la sorellina minore sono molto forti. Ma
concedergliela quando sta male, quando fa i capricci, quando dice di non
essere capace di vestirsi da sola è sbagliato perché così le insegniamo a star
male, a fare i capricci, a dire che non sa vestirsi da sola per ottenere
attenzione. Proviamo a rovesciare tutto. Quando sta male diamole il minimo
di attenzione possibile. Lei stessa sta imparando a non chiederla più, e io
lavoro parallelamente con la bambina per andare avanti in questo
programma di allenamento nel fronteggiamento delle paure. Ma quando sta
bene, quando è coraggiosa, quando ha passato una notte tranquilla, quando
si veste da sola senza fare storie, allora tutta l’attenzione che le abbiamo
tolto le deve essere restituita, possibilmente con gli interessi. Essere matura,
autonoma, grande e coraggiosa deve diventare conveniente. Spiego ai
genitori che solo i comportamenti che funzionano, che ci portano qualcosa
di buono, sopravvivono. Se noi proviamo a far funzionare i comportamenti
di autonomia e di coraggio di Eleonora meglio dei suoi comportamenti
regressivi, questi ultimi tenderanno a farsi sempre meno frequenti, mentre i
primi diventeranno sempre più forti.10
Non è difficile vedere qui in azione i principi dell’estinzione e del
rinforzamento differenziale . È bene, tuttavia, che questi principi si
imparino e poi si usino con molta cautela, equilibrio e gradualità, senza
cadere nelle trappole del pensiero irrazionale: non “devo essere un genitore
perfetto”, ma “posso provare a migliorare”. I genitori possono imparare ad
avere comportamenti più adeguati, proprio come Eleonora può disimparare
ad avere paura. Di nuovo, come nel precedente capitolo, è importante
rimarcare l’aspetto educativo di un programma psicoterapeutico di questo
genere. Naturalmente, anche su questi ultimi aspetti, cercherò di lavorare
parallelamente con la bambina. Avevo già cominciato, forse
imprudentemente, fin dalla prima seduta. Da ora in avanti ragioneremo
insieme sul fatto che la sorellina attira molta attenzione da parte di papà e
mamma, ma anche Eleonora, se vuole, può imparare a prendersi la sua fetta.
Una fetta di attenzione si può guadagnare facendosi la cacca addosso
(esagero per farla ridere, per sdrammatizzare, per non trasformare una
relazione empatica in una noiosa lezione), si può guadagnare facendo finta
di non sapersi allacciare le scarpe o anche facendosi prendere da
un’angoscia vera la notte. Però ci sono tanti modi migliori per ottenere lo
stesso scopo!

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Nelle sedute con i genitori emergono anche problemi di coppia che si


ripercuotono nella relazione con le figlie: un esempio potrebbe essere
l’eccessivo coinvolgimento del padre nell’educazione di Eleonora, a scapito
della madre. Si tratta di temi sicuramente interessanti e anche di una certa
rilevanza nel caso specifico, ma troppo lontani dai temi di questo lavoro.
Alla decima seduta Eleonora mi porta un diario di osservazione in cui
riporta di aver dormito da sola cinque notti su sette. Inoltre,
l’autovalutazione dei livelli di difficoltà nell’affrontare le situazioni si è
abbassata mediamente di due punti. Sia la bambina sia i genitori sono
soddisfatti. Alla seduta successiva, le notti in cui ha dormito da sola sono
sette su sette. Il rilassamento va bene e si rivela molto utile. Lavoro ancora
sulle diverse modalità per ottenere ciò che si desidera. Mi dice che si sta
accorgendo che può avere l’attenzione e i premi dei genitori anche se si
comporta da bambina grande. Le ricordo quello che mi aveva detto durante
la prima seduta: che le sarebbe piaciuto restare piccola, che le piacciono i
bambini piccoli (non la sorellina, però!, e scherziamo su questo) e che da
grande farà la maestra. È molto colpita da questo ricordo. Le faccio notare
che aveva già capito tutto. Possiamo cercare di realizzare i nostri desideri
con mezzi sbagliati (come si fa a pensare di restare piccoli tutta la vita?),
oppure con mezzi giusti. Lei sta trovando quelli giusti: vestirsi da sola,
aiutare la mamma, dormire tutta la notte tranquilla senza bisogno di aiuto, e
poi, chissà?, diventare maestra.
Anche la token economy comincia a dare i suoi frutti. Mi racconta di
aver avuto per premio una bellissima gita domenicale, prima a piedi a
Montemarcello e poi al castello di Lerici. Oltre al resoconto verbale mi fa
un disegno tutto pieno di mare e di sole.
A fine anno scolastico dorme ormai da sola da molte settimane, con due
episodi di risveglio notturno nell’ultimo mese. Ha ottenuto la cagnolina
della quale è felice. Decidiamo di comune accordo di diradare le sedute a
una al mese e intanto Eleonora tenta di contrattare con i genitori il diritto a
farsi bucare le orecchie per mettersi gli orecchini “da grande”.
La rivedo saltuariamente fino al novembre dell’anno successivo e poi,
per tre anni, non ne ho più notizie. Ci eravamo lasciati con un colloquio
conclusivo in cui avevo detto sia a Eleonora che ai genitori che restavo a
disposizione se ce ne fosse stato bisogno. Ce ne fu bisogno, appunto, tre
anni dopo, a causa di una ricaduta. Aveva visto il film The beach in
televisione e ne era rimasta molto impressionata. Erano riprese le angosce
serali: batticuore, luce accesa, alzarsi cento volte dal letto per andare in
bagno senza nessuna necessità, ore passate su un divano del salotto perché
il sonno non arrivava, qualche risveglio notturno. Tuttavia, sei sedute “di
richiamo” in quattro mesi mi sembra che abbiano riportato più o meno le
cose a posto.
Anche in letteratura le ricadute sono descritte come piuttosto frequenti
(March, 1995; Beidel e Turner, 1997; Beesdo-Baum e Knappe, 2012) e il
terapeuta dovrebbe mettere in conto questa possibilità lasciando sempre una
strada aperta al bambino e ai suoi genitori nel caso si ripresenti la necessità
di una consulenza anche dopo che l’intervento psicoterapeutico poteva
considerarsi concluso. I dati prognostici parlano di almeno due casi su tre di
bambini con Fobia specifica che non hanno una remissione completa in età
adulta.11
1 Mentre alcuni studi (Victor, Bernat, Bernstein e Layne, 2007; Beidel e Turner, 1997; Hudson e
Rapee, 2001; Manassis e Hood, 1998; Hirshfeld-Becker et al., 2012) mostrano che stress genitoriale,
disturbi psicopatologici dei caregiver e disfunzioni familiari sono associati ad ansia nei bambini, altre
ricerche (Mash e Johnston, 1990; Dougherty et al., 2013; Paulus, Backes, Sander, Weber e von
Gontard, 2014) sostengono che lo stress genitoriale non sia direttamente correlabile all’insorgenza di
Disturbi d’ansia nei figli e appaia piuttosto correlato al loro temperamento, in particolare
all’inibizione comportamentale già presente in età prescolare, che appare un precursore
temperamentale importante.
2 Nel riquadro dedicato al primo colloquio con i genitori , si può vedere come sia importante,
alla fine del primo colloquio, prevedere un’ultima fase di ascolto libero prima degli accordi finali e
della chiusura. In questo modo si lascia ai genitori lo spazio per cose che, durante le fasi più
strutturate dell’incontro, potrebbero non essere emerse.

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3 Vedi capitolo 17.


4 Vedi capitolo 14 per approfondimenti e ulteriori riferimenti bibliografici.
5 Per la bibliografia generale dell’approccio psicoterapeutico vedi anche capitolo 14, paragrafo
“Linee di intervento psicoterapeutico”.
6 Il “termometro della paura” è una forma di auto-osservazione svolta in modo quasi giocoso. Si
insegna al bambino a misurare la sua ansia (o la sua paura) in una scala, di solito da 0 a 10 o da 0 a
100 a seconda anche delle sue capacità di comprensione, come se si trattasse della febbre, e a
riportare il punteggio su un termometro che il bambino può divertirsi a disegnare. In questo modo, se
il bambino disegna una serie di termometri dove, situazione dopo situazione, sono riportati i
punteggi, il termometro della paura può assumere anche le caratteristiche di un rinforzatore
informativo .

pag. 13

7 Alcuni studi (Ollendick et al., 2009; Ollendick e Davis, 2013; Fond e Franc, 2013) hanno
dimostrato l’efficacia della terapia di esposizione nelle fobie specifiche in età evolutiva anche in una
sola seduta, con effetti mantenuti al follow-up. Inoltre uno studio pilota di Vigerland et al. (2013),
suggerisce come, anche attraverso l’Internet-delivered CBT (ovvero il trattamento cognitivo-
comportamentale effettuato online), si ottengano risultati positivi nella riduzione della severità dei
sintomi. Bouchard (2011) invece suggerisce l’uso della realtà virtuale per l’esposizione, vista
l’efficacia dimostrata con i pazienti adulti.
8 Recenti ricerche (Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006) dimostrano che il training
per lo sviluppo delle abilità di problem solving è particolarmente indicato nel trattamento dei Disturbi
d’ansia in età evolutiva. D’altra parte, come abbiamo visto più analiticamente nel capitolo 14, già nel
1971, D’Zurilla e Goldfried hanno dimostrato come i compiti di problem solving favoriscano
l’acquisizione di abilità e tecniche non circoscritte a quelle insegnate ma generalizzabili a diverse
aree di problemi.
9 Vedi capitolo 14.
10 Per queste metodologie di lavoro con i genitori e la relativa bibliografia, vedi capitoli 11 e 13.
11 Esempi in letteratura di quanto affermato sono riconducibili agli studi di Brown et al. (2007),
Kolaitis (2012) e Ginsburg et al. (2014), che mostrano l’esistenza di una relazione di familiarità tra
Disturbi d’ansia dell’età evolutiva (Disturbo d’ansia generalizzata, Fobia specifica e Disturbo d’ansia
sociale) e Disturbi d’ansia e depressivi in età adulta.
Capitolo 16

Disturbo d’ansia sociale (Fobia


sociale)
Fabio Celi

LA STORIA DI GABRIELE
Gabriele ha quindici anni e non va più a scuola da due mesi. Durante il
primo colloquio i genitori mi raccontano che è sempre stato un allievo
bravissimo. L’anno precedente è uscito dalla scuola secondaria di primo
grado con la valutazione di “ottimo” e ha vinto anche un premio in denaro
di una Cassa di Risparmio locale. Da questo punto di vista, dunque, non
sembrava proprio che dovesse avere dei problemi. Ha sempre frequentato
regolarmente e anche quest’anno, in prima Liceo Scientifico, le cose erano
partite bene, anzi molto bene – specifica la madre –, con i voti nelle
interrogazioni e nei compiti in classe sempre oscillanti tra l’8 e il 9.
Se qualche problema era emerso in passato, era piuttosto un problema di
carattere. Fin da bambino Gabriele era un tipo poco deciso, lento e timoroso
nel fare amicizia, un po’ più piccolo della sua età. Su quest’ultimo aspetto
sia il padre sia la madre sentono il bisogno di specificare che si riferiscono
alla personalità di Gabriele e non certo alla sua intelligenza o al suo
rendimento scolastico. Il padre mi porta l’esempio del calcio. Qualche anno
fa sembrava che gli piacesse il gioco del pallone. Non si perdeva una partita
in TV, era un grande tifoso del Milan e, quando il padre portava a casa il
giornale, lui subito andava alle pagine dello sport a cercare le ultime notizie
sul suo Milan. Così avevano deciso di provare a iscriverlo in una piccola
squadra locale. Nel primo periodo, quando si era trattato solo di fare
esercizi preparatori e qualche allenamento, le cose erano andate piuttosto
bene. L’allenatore aveva detto che Gabriele si impegnava e pareva anche
piuttosto portato. Le difficoltà erano cominciate appena l’allenatore aveva
provato a farlo giocare, ed erano aumentate quando, dalle semplici partite
tra di loro fatte più che altro per farli divertire dopo gli allenamenti, si era
passati alle partite “vere”, con piccole squadre avversarie il sabato
pomeriggio. L’allenatore aveva provato a mandarlo in campo, ma,
contrariamente a quello che avviene con tutti i ragazzini, Gabriele preferiva
stare in panchina. Si tirava indietro. Sembrava come aver paura dello
scontro diretto. Sia l’allenatore sia il padre avevano provato a parlarne con
Gabriele. Era emerso che il bambino temeva di trovarsi esposto al giudizio
dei compagni, di poter essere in qualche modo ritenuto responsabile di un
eventuale insuccesso. Anche tecnicamente, l’allenatore sosteneva che in
partita giocava molto peggio, sembrava quasi che a volte cercasse di stare
lontano dal pallone per evitare di potersi trovare in una situazione difficile,
dove poi sarebbe stato giudicato male. I genitori si consultarono e decisero
che, dal momento che il calcio sarebbe dovuto essere un divertimento, tanto
valeva ritirarlo.
Il padre mi racconta questo episodio come l’unico in cui il figlio abbia
fatto pensare, in passato, di avere dei problemi. Per il resto sembra tutto a
posto. L’anamnesi è negativa, il pediatra ha detto che è un ragazzino sano e
che va mandato a scuola a tutti i costi, “anche con la forza, se necessario”, e
la madre ci tiene a farmi sapere che loro sono una famiglia “perfetta” (padre
libero professionista e madre casalinga), unita e senza problemi. Nessuno
dei due genitori ha mai sofferto di disturbi mentali, anche se entrambi si
definiscono come “un po’ nervosi”. Inoltre, si è verificato un episodio
tristissimo nella loro vita di coppia, ma tanti di quegli anni fa da potersi
ormai considerare una cicatrice rimarginata, per quanto sia possibile che
cicatrici così profonde si rimarginino del tutto. Oltre venti anni prima, il
loro unico figlio morì, per la cosiddetta “morte in culla”. Oggi dunque è
Gabriele il loro unico figlio e nel dirmi questo sembrano quasi chiedermi
una giustificazione preventiva se, inevitabilmente, l’hanno forse
iperprotetto.
Il rifiuto di andare a scuola è stato, dunque, un fulmine a ciel sereno in
una vita che sembrava scorrere regolare e tranquilla. È cominciato tutto per
delle banalità. Una mattina (“Era giovedì, me lo ricordo ancora”, dice la
madre) era tornato a casa amareggiato perché un professore, che fino a quel
momento gli aveva fatto intendere che sarebbe stato scelto per coordinare
un gruppo per una ricerca di scienze, aveva poi preferito un altro ragazzo di
un’altra classe. Proprio per quella sera il padre gli aveva trovato da tempo
due biglietti per una partita della Nazionale, ma Gabriele non aveva avuto
voglia di andare. Si era intristito e come chiuso in sé per la delusione che
questo episodio gli procurava, ma soprattutto gli dispiaceva il fatto che
aveva già raccontato a un paio di amici, come cosa ormai quasi certa, che
avrebbe fatto questa ricerca a stretto contatto con il suo professore e adesso
pensava alla brutta figura che lo aspettava e si dava dello stupido per non
essere stato zitto e non aver saputo aspettare che la notizia fosse certa. Poi
c’era stato qualche rimprovero da parte della professoressa di latino per
questioni molto banali ma che, di nuovo, lo avevano mortificato. Infine,
sempre in latino, un “non classificato” in un compito in classe a causa di un
passaggio di bigliettini tra compagni sembrava essere stata la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso. Era tornato a casa alle 11 del mattino, subito
dopo questo giudizio, perché gli si era chiuso lo stomaco e aveva sentito un
senso di soffocamento. Un sintomo simile si era ripresentato due giorni
dopo, una mattina in cui c’era un compito in classe di italiano. La
professoressa aveva appena letto i titoli dei temi, quando Gabriele sentì un
vuoto allo stomaco e chiese il permesso di tornare a casa. Da quel giorno
cominciò ad andare a scuola solo se non c’erano compiti in classe. Poi,
verso metà novembre, ci fu una settimana in cui ogni giorno era in
programma un compito in classe e, da quel momento, Gabriele smise di
andare a scuola del tutto. Riprovò dopo un periodo piuttosto lungo durante
il quale la scuola era rimasta chiusa per un’occupazione studentesca. Aveva
ricominciato a frequentare la classe da un giorno e mezzo. A metà mattina
del secondo giorno si era di nuovo sentito male e, da allora, non ha più
neppure riprovato. I genitori mi riferiscono che gli insegnanti sono
comprensivi, disponibili e pronti a fare tutto quello che è in loro potere per
aiutare il ragazzo a tornare a scuola, ma Gabriele dice che proprio non ce la
fa, che si sente soffocare, al mattino, alla sola idea di entrare in classe, che
gli viene il panico e anche quando, qualche volta, la sera, fa i migliori
propositi per l’indomani (e sembra sincero), poi questo senso di panico è
più forte di lui. Mi accordo con i genitori per vedere il ragazzo il
pomeriggio stesso, perché credo possa essere utile dare un segnale forte e
che non valga la pena perdere altro tempo.
Secondo Gabriele, che vedo appunto poche ore dopo, lo stimolo che ha
dato il via a tutto è stato quel giudizio negativo (a suo parere ingiusto) nel
compito in classe di latino. Il ragazzo non dà, invece, molta importanza ad
alcuni antecedenti, né prossimi, come la delusione di non essere stato scelto
dal professore per quella ricerca, né remoti, come la sua tendenza a tirarsi
un po’ indietro, fin da piccolo, in certe situazioni sociali in cui gli venivano
fatte richieste prestazionali precise. In realtà, fin da questi primi approcci,
Gabriele appare un ragazzino con qualche lieve difficoltà relazionale, ma
senza altri disturbi psicopatologici di rilievo oltre a quelli che lui stesso
riconosce. Mi racconta che, secondo lui, tutto è iniziato dopo quel
maledetto compito in classe di latino, durante il quale lui ha passato dei
bigliettini a due compagni in difficoltà. Mi sembra che sia ancora in una
situazione di conflitto rispetto a questo episodio. Da un lato pensa di aver
fatto bene a cercare di passare agli amici delle frasi difficili che lui era
riuscito a tradurre. Questo pensiero è reso particolarmente forte dalla
considerazione che in passato, per esempio alla scuola secondaria di primo
grado, non l’aveva mai fatto perché non ne aveva mai avuto il coraggio e
forse anche perché non aveva mai avuto in classe amici nel vero senso della
parola. Mi pare dunque di capire che Gabriele avrebbe voglia di essere
orgoglioso di quello che ha fatto. Mi pare anche che, ai tempi dell’episodio,
ci fosse in lui la speranza di costruire in questo modo relazioni più
significative all’interno della classe. Dall’altro, invece, sembra pentito. Se
non avesse avuto quell’idea, ora non si troverebbe in queste condizioni.
Ricorda nitidamente la mattina in cui la professoressa, infuriata, aveva
restituito i compiti in classe punendo quelli chiaramente copiati con un “non
classificato”. Cerco di fargli notare che a me un “non classificato” non
sembra un giudizio particolarmente negativo, da prendere tanto male.
Gabriele, però, mi fa gentilmente intendere che non ho capito niente. Lui
non è stato male per quel giudizio “del cavolo” (metto tra virgolette
un’espressione che, in realtà, non è esattamente quella usata dal ragazzo).
Lui si è sentito a disagio per la figura che aveva fatto, per l’ingiustizia che
stava subendo, per il rovello di quali potessero essere i pensieri dei suoi
compagni, perché li vedeva tranquilli e quasi indifferenti a quello che stava
succedendo, mentre lui stava così male. Stava effettivamente male da un
punto di vista fisico, mi racconta. Sentiva lo stomaco che gli si chiudeva,
una sensazione come se gli scoppiasse la testa, un’irrequietezza addosso che
gli faceva provare il bisogno impellente di alzarsi per distendere i nervi,
muoversi, prendere aria, non sentirsi più gli occhi addosso di tutti, uscire da
lì.
Concludo la prima seduta con il ragazzo parlando della sua famiglia, alla
quale sembra molto attaccato, e della sua vita extrascolastica che,
soprattutto in inverno, sembra un po’ povera.
“Tutti gli anni”, mi dice, “va sempre a finire nello stesso modo. In estate
mi diverto abbastanza, al mare sto con amici di fuori e mi trovo bene. Così
a settembre penso: adesso devo continuare a divertirmi, uscire, mettermi
d’accordo con qualcuno per andare al cinema…”.
“E invece?”.
“Invece va sempre a finire che poi la scuola mi prende”.
“Vuoi dire che ti prende troppo?”.
“Sì, mi prende troppo. Mi chiudo in casa a studiare… anche adesso, sai?,
studio, cerco di tenermi in pari, prima di sentirmi male avevo quasi la media
dell’8…”.
“E ci tieni molto a questi risultati”.
“Sì, un po’ ci tenevo, l’anno scorso ho vinto anche un premio, ma
soprattutto è per i miei genitori”.
“E a ritornare a scuola ci tieni?”.
“Eccome!”.
“In una scala da 0 a 10 quanto ci tieni? Quanto è alta la tua motivazione
a rientrare?”.
Mi risponde che è molto alta. Insisto per una valutazione quantitativa e
lui mi dice 8. Gli chiedo se allora sarebbe disposto a provare a rientrare in
classe, magari solo per qualche ora, magari solo in alcune situazioni
particolari. Cambia espressione. Si fa teso. Mi dice che il solo pensiero lo
mette in ansia. Ci riflette ancora un attimo e poi mi risponde francamente di
no. Che non è disposto a provare, in nessuna condizione. Mi dice che si è
sbagliato. La sua motivazione a rientrare in classe non supera il 7, ma la sua
speranza di riuscirci è vicina allo zero.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Se concentriamo la nostra attenzione soltanto sul sintomo principale, il caso
di Gabriele sembra simile a quello di Chicco descritto nel capitolo 14. È
chiaro che vi sono delle differenza dovute all’età, all’ovvio fatto che due
persone sono necessariamente diverse l’una dall’altra, ma esiste un punto
che, in apparenza, è comune alle due situazioni: Chicco e Gabriele non
riescono ad andare a scuola a causa dell’ansia che questo produce in loro.
C’è tuttavia, tra i due casi, una differenza molto rilevante. L’ansia di Chicco
sembra essere causata da una difficoltà a separarsi dai genitori (infatti, ha
difficoltà analoghe a stare in casa con la baby sitter o ad andare a spasso
con la sorella, mentre non ha difficoltà ad andare a scuola se la mamma
resta vicino a lui). In Gabriele la causa dell’ansia è molto diversa. Infatti
rimane, fin dai primi momenti, solo nello studio con me, passa da solo in
casa interi pomeriggi e il problema della scuola sembra legato al giudizio. Il
giudizio degli insegnanti (non è un caso che il ragazzo stesso dica che tutto
ha avuto inizio con un “non classificato” e sia proseguito quando c’erano i
compiti in classe), ma soprattutto il giudizio dei compagni. Vedremo nel
prossimo paragrafo come ciò sarà confermato, quando tenteremo un
approccio terapeutico, dalla gerarchia degli stimoli ansiogeni: una scuola
dove non ci fossero compiti in classe né compagni che lo guardano non gli
provocherebbe nessuna ansia particolare. Un aspetto fondamentale del
disturbo di Gabriele riguarda il fatto che lo stimolo ansiogeno è sempre di
natura interpersonale: il ragazzo ha paura di sembrare stupido di fronte ai
compagni. Altri ragazzi con disturbi analoghi hanno paura di non essere
all’altezza del gruppo, oppure, tipicamente, di arrossire: in realtà, la vera
paura non è tanto quella di diventare rossi, comportamento di per sé
“innocente”, quanto quella di essere visti diventare rossi. Conseguenza di
questi pensieri sarà, sul piano comportamentale, il tentativo di esporsi il
meno possibile a situazioni interpersonali come i giochi, le attività di
gruppo, la scuola.
Il quadro è dunque quello di un Disturbo d’ansia sociale o Fobia sociale
(stessa denominazione presente nell’ICD-10), dove però viene usato il
plurale “Fobie sociali”, ma si caratterizza per una paura marcata e
persistente per quelle situazioni sociali o prestazionali dove il soggetto è
esposto a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri (Gazelle,
Workman e Allan, 2009). Chi soffre di un Disturbo d’ansia sociale teme i
segni della propria ansia e il giudizio negativo che ne seguirebbe, come
appunto arrossire o fare brutta figura. I sintomi d’ansia più frequenti sono il
senso di soffocamento, le vampate, le palpitazioni, i tremori, il mal di testa,
l’impressione di morire. Nell’ICD-10 viene specificato, a differenza che nel
DSM-5, che almeno due sintomi d’ansia devono essere presenti
contemporaneamente in almeno un’occasione in associazione ad almeno
uno dei seguenti sintomi d’ansia: arrossire o tremare, timore di vomitare e
urgenza o timore di urinare o defecare. Inoltre l’ICD-10 specifica che i
sintomi di ansia devono essere limitati o predominare nelle situazioni
temute o nell’attesa di queste. Le paure maggiori riguardano solitamente
parlare in pubblico, andare alle feste, avere relazioni con persone di sesso
opposto, servirsi dei bagni pubblici, mangiare davanti agli altri (per es., alla
mensa scolastica), scrivere alla lavagna sotto gli occhi dei compagni,
leggere in classe, parlare in un gruppo di coetanei. Questo spiega perché, in
età evolutiva, la Fobia sociale possa così facilmente prendere le forme di
una fobia scolare. Il bambino, o il ragazzo, come nel caso di Gabriele,
sperimenta nella situazione sociale (e in quella scolastica in particolare) un
senso di fallimento, di umiliazione, di imbarazzo. Tutto questo esaspera la
sua autocritica e può creare un tipico circolo vizioso dell’ansia: ecco, sto
facendo brutta figura davanti ai compagni, questo mi manda in ansia, tutti
mi guardano e se ne accorgeranno, cosicché l’ansia aumenta il mio senso
di fare brutta figura e il mio senso di fare brutta figura aumenta l’ansia.
Nei bambini l’ansia deve manifestarsi nei contesti in cui sono presenti i
coetanei e non solo nell’interazione con gli adulti (criterio A). Nel DSM-5
si chiede di specificare se la paura è limitata al parlare oppure all’esibirsi in
pubblico. Gli individui che presentano Disturbo d’ansia sociale “legata solo
alla performance” hanno timori legati alla perfomance che risultano
tipicamente invalidanti soprattutto nella vita scolastica e professionale
qualora siano richieste prestazioni in pubblico. Gli individui con Disturbo
d’ansia sociale “legata solo alla performance” invece non temono né
evitano situazioni sociali in cui non devono esibirsi.
La Fobia sociale, nella sua particolare forma di fobia della scuola, ha due
picchi nel corso dello sviluppo (Golse, 1995; Beidel e Turner, 1997). Il
primo picco si verifica intorno ai cinque-sette anni, quando il bambino va a
scuola per la prima volta, e questa forma ha la prognosi migliore. Il secondo
si verifica con l’ingresso nell’adolescenza, approssimativamente tra i nove e
i quattordici anni. L’esordio adolescenziale ha una prognosi peggiore e
rappresenta la forma più comune di Fobia sociale in età evolutiva. Questo
avviene probabilmente perché l’adolescenza è il periodo nel quale lo scarto
tra le aspettative ideali e le realizzazioni è maggiore, o meglio, è il periodo
in cui c’è maggiore consapevolezza di questo scarto. Proprio
l’autoconsapevolezza, la tendenza a guardarsi dentro con particolare
attenzione, sembra un meccanismo cognitivo-emozionale importante nella
genesi di questo disturbo. Alcune ricerche evidenziano come i bambini con
Disturbi d’ansia sperimentino emozioni più intense e si percepiscano meno
competenti, nella gestione di situazioni emotivamente provocanti, rispetto a
bambini non affetti da questi disturbi (Suveg, Kendall, Comer e Robin,
2006). Anche l’inibizione comportamentale sembra essere un fattore di
rischio importante nella genesi del disturbo (Clauss e Blackford, 2012). Il
ragazzo con Disturbo d’ansia sociale riferisce spesso come, in situazioni
sociali stressanti, non solo si senta osservato, ma senta che si sta osservando
egli stesso. Per esempio, in una festa tende a stare in un angolo per carenze
di abilità sociali e per paura di fare brutta figura. Il bisogno di rimanere in
un angolo è connesso all’idea di farsi notare il meno possibile: eppure ciò
non basta a tranquillizzarlo, perché, anche se nessuno lo nota, è lui stesso
che si vede lì in un cantuccio, solo a fare la figura dello stupido. Si vede
come immagina che gli altri lo vedano e questo contribuisce a farlo star
male. In questo senso, il Disturbo d’ansia sociale rappresenta una tipica
reazione d’ansia a un eccesso di consapevolezza. Star bene in una classe o
durante una festa tra amici significa non osservarsi, pensare ad altro e
comportarsi, di conseguenza, in modo spontaneo. Cominciare a guardarsi e
ad analizzare che cosa si prova è già star male. Mi sembra interessante, a
questo proposito, notare come in alcuni dialetti italiani (tra i quali il mio)
per dire che un organo ci fa star male si dice che lo sentiamo: in massese,
per esempio, “mi fa male la testa” si dice proprio “mi sento la testa”. Se non
“mi sentissi” starei bene. Se non mi guardassi sarei a mio agio. Ma dato che
non riesco a non guardarmi e a non immaginarmi guardato, allora il mio
massimo desiderio durante una festa o durante un’interrogazione è quello di
diventare invisibile, di sparire.
Contrariamente a quanto avviene negli adolescenti, nei bambini molto
piccoli, di solito prima dell’ingresso nella scuola primaria, è molto facile
che non ci sia la capacità di cogliere e di descrivere con parole adeguate
queste sensazioni e il disagio che ne deriva. Alcuni studi (Gosch, Flannery-
Schroeder, Mauro e Compton, 2006) indicano i sette-otto anni come età
soglia per l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei propri
processi di pensiero e della capacità di prestare attenzione al proprio
dialogo interno. Prima di tale età possono verificarsi episodi di pianto ed
esplosioni di collera apparentemente immotivate, con il rischio di diagnosi
errate di Disturbo oppositivo provocatorio.
Il Disturbo d’ansia sociale, soprattutto quando prende la forma di un
rifiuto di andare a scuola, può apparire particolarmente irrazionale e
difficile da comprendere anche da parte dei genitori. Con l’andare avanti del
disturbo, cala l’empatia che l’ambiente circostante tende a dare a una
persona che soffre: e questo avviene proprio per la difficoltà a mettersi nei
panni di un bambino o di un ragazzo sano, intelligente e il più delle volte
bravo a scuola, che caparbiamente decide di non essere più in grado di
frequentare. I bambini con Disturbo d’ansia sociale, tipicamente,
cominciano ad agitarsi al mattino appena svegli, a dire che si sentono male
(a meno che non sia domenica), a piangere, a supplicare di non essere
portati a scuola. Cercano di divincolarsi, a volte proprio di scappare dalle
mani dei genitori, vengono presi da attacchi di nausea e vomito e
promettono, disperatamente e sinceramente (in quei momenti), che
andranno a scuola il giorno dopo. A volte la tolleranza da parte dei genitori,
che magari non capiscono che cosa stia succedendo e pensano che sia
meglio non insistere e lasciare in pace il figlio almeno per un po’, non fa
altro che peggiorare il quadro. I comportamenti di fuga e di evitamento
vengono rinforzati sistematicamente, un giorno dopo l’altro, e sarà poi
sempre più difficile mandarli in estinzione. Con questo non intendo affatto
dire che il ruolo dell’interazione genitoriale nella genesi e nel
mantenimento del Disturbo d’ansia sociale sia stato chiarito in modo
univoco e definitivo. La ricerca1 ha però messo in luce una correlazione tra
questo disturbo e un atteggiamento intrusivo e iperprotettivo da parte dei
genitori, unito, talvolta, a una riduzione dell’intimità affettiva familiare.
Un’altra correlazione spesso evidenziata è quella di un’eccessiva
valorizzazione degli studi e dei risultati scolastici da parte dei genitori, che
probabilmente favorisce nel figlio lo sviluppo di pensieri irrazionali del tipo
devo assolutamente essere uno scolaro modello: pensieri, a loro volta,
generatori di ansia. Recenti ricerche (Levinson et al.. 2014; Rukmini,
Sudhir e Math, 2014; Affrunti e Woodruff-Borden, 2014) infatti
sottolineano come il perfezionismo clinico (sia dei genitori che dei figli
stessi) abbia un’influenza negativa sullo sviluppo e il mantenimento del
Disturbo d’ansia sociale. Forse merita ricordare, a questo proposito, che una
delle prime cose che mi disse la mamma di Gabriele fu che il ragazzo aveva
vinto un premio come miglior studente dell’anno. Le ipotesi eziologiche,
d’altra parte, vanno ben al di là di queste considerazioni, come abbiamo già
visto nei due capitoli precedenti (Goodyer, 1996; Beidel e Turner, 1997; Le
Doux, 1998; Beesdo, Knappe e Pine, 2009). La famiglia può ancora essere
parzialmente “responsabile” del disturbo a causa di possibili meccanismi di
apprendimento vicario,2 nel caso di genitori a loro volta affetti da qualche
forma di Disturbo d’ansia o da qualche carenza nelle abilità sociali. In
particolare, in un recente studio, Murray et al. (2014) hanno evidenziato una
correlazione tra lo stile narrativo della madre (soprattutto per quanto
riguarda la comunicazione degli eventi ritenuti minacciosi) e il rischio del
bambino di sviluppare un Disturbo d’ansia sociale. In questi casi,
naturalmente, bisogna considerare anche le ipotesi genetiche legate alla
familiarità del disturbo (Scaini, Belotti e Ogliari, 2014; Natsuaki et al.,
2013). Tra le cause scatenanti di un Disturbo d’ansia sociale è inoltre
possibile trovare piccoli traumi specifici, come un cambio di casa, di città o
di scuola, una malattia con conseguente assenza prolungata, tensioni con un
insegnante o un compagno, un episodio encopretico avvenuto durante una
lezione, un episodio di bullismo, compagni che si divertono a sottolineare le
piccole inadeguatezze sociali di un bambino e a prenderlo in giro per
questo.
La prevalenza del disturbo non è facile da calcolare in modo univoco, a
causa dell’altissima percentuale, nei bambini e più ancora negli adolescenti,
di paure e difficoltà legate a situazioni sociali. Alcune ricerche riportano
punte anche superiori al 50%, per esempio nei dodicenni, ma sembra chiaro
che percentuali così alte non possano riferirsi a un disturbo mentale
propriamente detto. I dati più attendibili di prevalenza del Disturbo d’ansia
sociale negli Stati Uniti si aggirano intorno al 7%, mentre la prevalenza
media in Europa è del 2,3%, con una prevalenza maggiore delle femmine
rispetto ai maschi negli adolescenti e nei giovani adulti (American
Psychiatric Association, 2014).
Il Disturbo d’ansia sociale presenta con frequenza comorbilità con altri
Disturbi d’ansia, come abbiamo già visto nei capitoli precedenti, e con
sintomi depressivi, in particolare chiusura, disturbi del sonno e
dell’alimentazione.
La diagnosi differenziale che pone problemi maggiori è con il Disturbo
d’ansia di separazione. Nell’ansia di separazione, però, gli stimoli ansiogeni
sono connessi più a situazioni di allontanamento dalle figure di
attaccamento, come abbiamo visto nel caso di Chicco del capitolo 14. Nel
Disturbo d’ansia sociale, invece, tende a prevalere la paura di trovarsi sotto
i riflettori del giudizio degli altri e dei coetanei in particolare, come stiamo
vedendo nel caso di Gabriele. Per una corretta diagnosi di Disturbo d’ansia
sociale deve essere evidente che il bambino o il ragazzo non abbia problemi
con le figure familiari di riferimento, ma solo con estranei, siano essi adulti
o coetanei. Anche il Disturbo depressivo maggiore e il Disturbo depressivo
persistente possono creare qualche problema di diagnosi differenziale: in
questi casi, tuttavia, non è tanto l’ansia in primo piano quanto piuttosto un
senso di impotenza, un’incapacità a trarre soddisfazione dal rapporto con gli
altri (Zappulla e Lo Coco, 2000).
Esiste, infine, un problema diagnostico in relazione ai Disturbi di
personalità.
Il problema dei Disturbi di personalità nella psicopatologia dello sviluppo è
molto complesso e controverso. Alcuni autori arrivano a sostenere che la
diagnosi di Disturbo di personalità possa essere fatta solo per gli adulti,
anche se il DSM-5 limita questa regola assoluta al solo Disturbo antisociale
di personalità (Barnett e Macman, 1990; Bernstein et al., 1993; Rapaport e
Ismond, 2000) specificando che, per definizione, esso non può essere
diagnosticato prima dei 18 anni. Anche nel caso del Disturbo dipendente di
personalità il DSM-5 invita a una grande cautela per quanto riguarda la
diagnosi nell’età dello sviluppo, sostenendo che nei bambini e negli
adolescenti il comportamento dipendente può essere appropriato all’età. Per
quanto riguarda invece il Disturbo paranoide di personalità, il Disturbo
schizoide di personalità e il Disturbo schizotipico di personalità, il DSM-5
specifica che l’esordio nell’infanzia e nell’adolescenza è possibile.
Se si accetta la posizione radicale di non usare queste diagnosi per
bambini e adolescenti, la questione naturalmente cade da sola. Tuttavia,
poiché pare che esistano Disturbi di personalità che possono insorgere
anche durante l’infanzia e l’adolescenza, probabilmente è opportuno
accennarne anche in questa sede. Un Disturbo di personalità è un modo
rigido e pervasivo di pensare e di comportarsi, che si discosta in modo
significativo dai normali pensieri e dai normali comportamenti che ci si
potrebbe aspettare in un soggetto di quell’età e in quelle condizioni, e che
causa un disagio significativo o una vera e propria menomazione. Il
disturbo, per essere diagnosticato, deve manifestarsi in vari contesti e
protrarsi a lungo. Per esempio, una persona sempre chiusa nel suo mondo,
incapace di esprimere i suoi sentimenti in quasi tutte le situazioni, isolata,
senza amici, potrebbe avere un Disturbo di personalità, probabilmente
schizoide.
I Disturbi di personalità si dividono in tre grandi gruppi. Nel primo
gruppo (detto gruppo A nel DSM-5) troviamo le personalità caratterizzate
da stranezza ed eccentricità: il Disturbo paranoide di personalità (Disturbo
di personalità paranoide nell’ICD-10), il Disturbo schizoide di personalità
(Disturbo di personalità schizoide nell’ICD-10) e il Disturbo schizotipico di
personalità (Sindrome schizotipica nell’ICD-10). Nel secondo gruppo (detto
gruppo B nel DSM-5) troviamo le personalità caratterizzate da un’abnorme
amplificazione delle emozioni: il Disturbo antisociale di personalità o
Disturbo di personalità antisociale secondo l’ICD-10, il Disturbo borderline
di personalità o Disturbo di personalità emotivamente instabile, il Disturbo
istrionico di personalità o Disturbo di personalità istrionico e il Disturbo
narcisistico di personalità classificato nell’ICD-10 come “Altri disturbi di
personalità specifici”. Nel terzo gruppo, infine, che è quello che ci interessa
in particolare in questo contesto (detto gruppo C nel DSM-5), troviamo le
personalità caratterizzate da ansia e paura: il Disturbo evitante di
personalità o Disturbo di personalità ansioso di evitamento nell’ICD-10, il
Disturbo dipendente di personalità o Disturbo di personalità dipendente, e il
Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità o Disturbo di personalità
anancastico nell’ICD-10.
Anche gli studiosi e i clinici che ammettono la possibilità di utilizzare
queste categorie diagnostiche in psicopatologia dello sviluppo consigliano
una particolare cautela nel parlare di personalità nei bambini. Questa
cautela è principalmente dovuta al fatto che la personalità è, per definizione,
un tratto stabile nel tempo, rigido, poco adattabile e che tende a non
modificarsi con il modificarsi delle circostanze. Per esempio, se un
trentenne, dopo una lunga e importante relazione sentimentale conclusa in
circostanze traumatiche, attraversa un periodo di isolamento, si chiude per
qualche mese in se stesso per leccarsi le ferite piuttosto che cercare la
compagnia degli amici o nuove relazioni sessuali, non possiamo dire che
manifesti un Disturbo schizoide di personalità, perché queste caratteristiche
cognitive, emotive e comportamentali non sono sufficientemente stabili per
fare una diagnosi. Può darsi che quella persona stia pensando che ora ha
bisogno di un periodo di solitudine e di riflessione e poi, tra qualche mese,
cambi atteggiamento e affronti la situazione in un modo nuovo. È proprio
questa necessità di definire un tratto rigido e stabile nel tempo che rende
difficile parlare di personalità in età evolutiva, quando tutto è in
trasformazione. Tuttavia, vi sono alcuni Disturbi di personalità che possono
essere presi in considerazione nella psicopatologia dello sviluppo e, tra
questi, il Disturbo evitante di personalità. Esso si caratterizza per una
costante inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e di ipersensibilità
alla valutazione negativa, che portano a evitare quelle attività che implicano
relazioni interpersonali importanti per non essere disapprovati, ridicolizzati
o umiliati. Nella Fobia sociale può, dunque, porsi un problema di diagnosi
differenziale con il Disturbo evitante di personalità, anche se tutte le cautele
nell’uso di queste categorie diagnostiche in età evolutiva indirizzano, di
solito, verso la scelta di una diagnosi di Fobia sociale.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO E


PROGNOSI
Al termine della prima seduta cerco di evitare che l’incontro si concluda
con le affermazioni di Gabriele relative al fatto che la sua motivazione a
rientrare in classe non superi il 7, in una scala da 0 a 10, e che la sua
speranza di riuscirci sia vicina allo 0. Non credo che sia quasi mai una
buona idea finire una seduta lasciando una scia così forte di emozioni
negative, cariche a un tempo di ansia (devo assolutamente tornare a scuola)
e di depressione (non ci riuscirò mai).
Termino la prima seduta spiegandogli cosa penso della sua ansia e
perché gli ho domandato se era disposto a provare a rientrare in classe.
Sottolineo che non intendevo dire che lui deve tornare in classe, ma solo
cominciare a capire da che parte potremmo provare ad affrontare il
problema. Gli dico che il problema è affrontabile, che l’ansia e la paura si
possono disimparare, proprio come si possono imparare.
“Io credo che tu abbia imparato ad aver paura di entrare in classe”.
Sembra incuriosito da questa mia osservazione.
Aggiungo, sorridendo, che è incredibile quante cose si possano imparare
andando a scuola: a tradurre dal latino, a fare amicizia, ad aver paura dei
compiti in classe e del giudizio dei compagni…
Gli chiedo se crede che la paura e il coraggio si possano imparare.
Non mi risponde, ma è chiaramente perplesso.
Gli chiedo se, per esempio, crede che il coraggio di dire una cosa a un
amico si possa imparare.
Ha la stessa reazione.
Allora gli dico:
“Tu pensi che io abbia torto, vero?”.
Accenna, prudentemente, un “sì” con la testa.
“Pensi che abbia torto, ma non hai il coraggio di dirmelo”.
Mi fa di nuovo cenno di sì con la testa.
“Invece puoi dirmelo. Di sicuro non mi offendo. Prova a dirmi: Penso
che tu abbia torto”.
Esita.
“Coraggio. Dimmi: Penso che tu abbia torto”.
“Penso che tu abbia torto”.
“Hai visto?”.
Con un tono naturalmente scherzoso, aggiungo: “Ti ho fregato. Hai
imparato ad avere il coraggio di dirmi una cosa”.
Anche lui ora è ironico quando mi risponde:
“Penso che tu abbia ragione”.
Infine gli chiedo se ha voglia di tornare a discutere queste cose, visto che
per oggi si è fatto tardi. Accetta, e così ho già ottenuto qualche risultato.
Prima di tutto ho ottenuto un secondo appuntamento, che è sempre la cosa
più importante e lo è con gli adolescenti in particolare. Poi ho introdotto
con Gabriele alcuni concetti che noi abbiamo già visto nei capitoli
precedenti: la psicoterapia come un processo di apprendimento, la
modificabilità dell’ansia, la sdrammatizzazione di certi doveri assoluti.
Infine, ho gettato due semi: esposizione graduale (vedi riquadro
sottostante) e assertività, cioè coraggio di provare a fare le cose e di
esprimere le proprie opinioni, i propri bisogni, i propri sentimenti (Beidel e
Turner, 2000). Gli studi sull’assertività confermano come alti livelli di fobia
sociale correlino spesso con scarse capacità assertive (Larijani, Aghajani,
Baheiraei e Neiestanak, 2010; Watanabe, 2010). Per quanto riguarda invece
l’esposizione, abbiamo visto nel capitolo 14 sul Disturbo d’ansia di
separazione, e vedremo di nuovo nel capitolo 22 dove si parla di una
psicoterapia per un Disturbo d’ansia e nel capitolo 23 a proposito dei
Disturbi depressivi, come la cosiddetta “terza ondata” della psicoterapia
cognitivo-comportamentale mostri con molta chiarezza l’importanza che il
paziente si esponga non soltanto alle situazioni esterne ma anche ai segnali
interni che la mente gli manda.

DESENSIBILIZZAZIONE SISTEMATICA –
ESPOSIZIONE
La desensibilizzazione sistematica è una procedura di
controcondizionamento. Se uno stimolo (per es., fobico) produce una
risposta inadeguata (per es., ansia eccessiva), si può affrontare il
problema associando allo stimolo fobico un altro stimolo antagonista
dell’ansia (di solito, il rilassamento). Per un processo ben noto di
condizionamento classico, si ottiene così che lo stimolo che in
precedenza provocava ansia eccessiva ora non la provochi più.
Tutto questo è più facile da descrivere in teoria che da mettere in
pratica con un paziente che ha risposte d’ansia molto forti e molto
difficili da controllare. Per questo motivo, la desensibilizzazione
sistematica prevede di costruire insieme al paziente una gerarchia
degli stimoli ansiogeni e di cominciare il trattamento dagli stimoli che
producono meno ansia. Secondo il principio della gradualità che si
ritrova in molte metodologie comportamentali, si presenteranno via
via stimoli che determinano un’ansia crescente. La
desensibilizzazione sistematica, come suggerito da molti studi (per
es., Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006), si può
svolgere nello studio del terapeuta facendo immaginare al paziente le
situazioni che gli creano ansia e facendolo contemporaneamente
rilassare. In questo caso prende il nome di desensibilizzazione
sistematica in immaginazione. Oppure si può svolgere in una
situazione reale, come quando, nel capitolo 14, Paolo affronta vere
situazioni ansiogene. In questo caso, si chiama desensibilizzazione
sistematica in vivo.
Quando, come in quest’ultimo caso, lo stimolo ansiogeno non è
immaginato ma realmente presente, si parla anche di esposizione. La
tecnica dell’esposizione consiste dunque nell’esporre il paziente, per
lo più in modo graduale, agli stimoli che gli determinano ansia. Qui il
meccanismo di azione non è più il controcondizionamento, ma
l’estinzione. L’esposizione alla situazione ansiogena, infatti, fa sì che
le risposte di fuga e di evitamento non vengano più rinforzate
negativamente dalla riduzione dell’ansia.
Sempre nel capitolo 14, abbiamo visto Chicco che viene dapprima
sottoposto a una forma modificata di desensibilizzazione sistematica
per riuscire a parlare delle proprie paure e poi all’esposizione graduale
per imparare a entrare in classe staccandosi dalla madre. Viene usata
una metodologia di esposizione graduale allo stimolo ansiogeno anche
nel presente capitolo, quando Gabriele va prima in biblioteca e poi in
classe. Ad Alberto, invece, il cui caso verrà illustrato nel capitolo 17,
la desensibilizzazione sistematica in immaginazione serve per
preparare il terreno a tornare al campo di calcio dove aveva paura di
essere punto da una vipera. È chiaro che, poi, il ritornare davvero su
quel campo rappresenterà di nuovo una forma di esposizione.

Dalla seconda seduta in avanti, le tecniche principali che cerco di


mettere in atto sono proprio quelle dell’esposizione graduale e
dell’estinzione , che nella situazione naturale di Gabriele non si verifica.
I comportamenti di evitamento della scuola, infatti, vengono rinforzati dalla
cessazione dell’ansia e le risposte d’ansia emesse in classe non hanno mai
la possibilità di estinguersi perché non si presentano mai. Mi verrebbe da
dire che la psicoterapia è “tutta” qui.3 Di certo è da qui che cominciamo.
Riprendiamo il discorso dalla possibilità di rientrare in classe e Gabriele mi
dice che ci ha pensato. Crede che rientrare in classe sia impossibile, però, se
è importante almeno provare ad avvicinarsi a questo obiettivo (“Certo che è
importante!”, gli dico interrompendolo. “Credo che tu abbia centrato il
punto essenziale della questione”), allora lui forse potrebbe tornare a
scuola, magari per qualche ora, restando in biblioteca a studiare, purché non
ci siano contatti con i compagni. Definiamo meglio l’accordo. Mi impegno
a parlare con i suoi insegnanti e a organizzare la cosa. Crede che non sia un
problema se un paio di professori andranno a trovarlo in biblioteca, ma mi
ripete che, per ora, proprio non vuole incontrare i compagni di classe.
pag. 236

Preparare l’ambiente scolastico ad accogliere un bambino o un ragazzo


che sta cercando di rientrare è molto importante (Kendall e Di Pietro,
1995). È importante che gli insegnanti conoscano gli accordi tra l’allievo e
il suo terapeuta. È importante che li condividano e li rispettino. Sarebbe
pericolosissimo, per esempio, concordare con Gabriele un suo rientro in
biblioteca e poi esporlo a un professore che, sia pure per il suo bene, lo
incontra nel corridoio e cerca di convincerlo a entrare in classe, magari di
fronte a un gruppo di compagni. In alcuni casi, soprattutto con bambini più
piccoli, la preparazione dell’accoglienza può essere estesa anche agli alunni
della classe. Può essere utile spiegare loro che dovranno comportarsi in
modo amichevole ma non eccessivamente interessato ed evitare, per
esempio, di chiedere con insistenza e curiosità al compagno dove è stato e
che cosa ha fatto per tutto questo tempo.
Vado dunque a parlare con i professori di Gabriele, programmo la cosa e
lo richiamo. Dedico la terza seduta a insegnargli come fare un semplice
diario di osservazione di questo tentativo di andare in biblioteca. Comincia
così anche a familiarizzare con la misurazione del livello soggettivo di
ansia. Concordiamo che proverà per tre giorni e fissiamo subito dopo
l’appuntamento successivo.
Poco più sopra ho arrischiato un’affermazione del tipo “la psicoterapia è
tutta qui”, ma naturalmente essa non è completamente vera. Già dalla prima
seduta ho cercato di mettere in discussione alcune sue convinzioni e di
introdurlo all’assertività. In seguito, oltre che sull’esposizione alla
situazione ansiogena con la conseguente estinzione dell’ansia, che resta
comunque il nucleo centrale dell’intervento, lavorerò infatti anche su altri
tre obiettivi (Johnson, 1999).
Il primo obiettivo è quello di un incremento delle abilità sociali. Di solito,
questo si ottiene con metodologie di role playing , discussione in studio
e, di nuovo, esposizione in vivo alle varie situazioni, dove il ragazzo
mette alla prova le sue capacità. Gli obiettivi sono quelli classici di salutare
un compagno, iniziare una conversazione, portarla avanti, ascoltare, unirsi a
un gruppo, fare un invito, consolidare un’amicizia. Alcune ricerche
suggeriscono come il training per aumentare le capacità interpersonali e
l’insegnamento di strategie per non incorrere nell’evitamento di situazioni
ansiogene, se presentati unitamente a terapie di tipo cognitivo-
comportamentale, permettano un mantenimento di effetti positivi anche a
un anno dal trattamento (Newman, Castonguay, Borkovec, Fisher e
Nordberg, 2008; Vasey, Harbaugh, Buffington, Jones e Fazio, 2012).
Recenti studi (Sarver, Beidel e Spitalnick, 2014; Morina, Brinkman,
Hartanto e Emmelkamp, 2014) hanno utilizzato la realtà virtuale per far
sperimentare ai ragazzi con Fobia sociale i training per le abilità sociali e
hanno riscontrato come tale procedura, associata a sedute in vivo, ne
aumenti l’efficacia. In generale l’utilizzo del computer, come parte
integrante della terapia, sembra aumentare l’aderenza al trattamento da
parte dei bambini e soprattutto degli adolescenti (Kendall, Khanna, Edson,
Cummings e Harris, 2011).

pag. 259

pag. 365

Accanto a questo, e a questo strettamente connesso, il secondo obiettivo


riguarda una ristrutturazione cognitiva (Beck, 1976; Freeman e
Greenvood, 1986; Beck, 1993; Lambruschi e Fabbri, 2003). Nel caso di
Gabriele è stata breve, semplificata, e limitata a una modificazione di
alcune aspettative connesse sempre con situazioni sociali. Abbiamo
discusso sul fatto che, di fronte ad alcuni tentativi di ampliare le proprie
competenze relazionali, ci sono modi irragionevoli di vedere le cose. Per
esempio, se un obiettivo comportamentale è quello di accettare un invito,
non ha molto senso domandarsi: “Perché dovrei uscire un pomeriggio con
un gruppo di amici se tanto non mi divertirò?”. La domanda è posta in
modo sbagliato, perché l’obiettivo, per ora, non è quello di divertirsi, ma
quello di provare. È chiaro che divertirsi con gli amici è un obiettivo molto
più interessante che accettare un invito a uscire (magari, all’inizio, solo per
far contento lo psicologo). È altrettanto chiaro, però, che non ci si può
divertire con gli amici se prima non si prova per lo meno a uscire con loro.
Come si può ben vedere, tornano di nuovo in primo piano i grandi principi
della gradualità e della programmazione degli obiettivi per piccoli passi.
Qui non si tratta di insegnare a un ragazzo con Disabilità intellettiva Grave
a lavarsi le mani da solo. Pertanto, i contenuti terapeutici e lo stile della
relazione saranno molto diversi se lavoriamo con Gabriele oppure con una
persona con un handicap gravemente invalidante. Molti principi
metodologici, tuttavia, sono comuni, persino quando, come in questo caso,
il focus dell’intervento è una ristrutturazione cognitiva. Sottolineo tale
aspetto perché è piuttosto frequente sentir dire, soprattutto negli ultimi anni,
che le metodologie comportamentali sono sicuramente utili con le persone
disabili, con le quali altri approcci terapeutici risultano praticamente
impossibili, ma con soggetti che hanno disturbi emotivi, o d’ansia, o
dell’umore le cose sono molto più complesse, sfumate, sottili, e dunque le
rozze tecniche comportamentali si rivelano inutili quando non francamente
dannose. Si ha, insomma, la curiosa sensazione che ormai certe
metodologie vengano accettate come ultima spiaggia nei casi disperati:
quando gli altri non sanno proprio più che pesci pigliare, allora si abbassano
a consigliare un intervento comportamentale. Questo è il frutto di
un’ignoranza profonda nei confronti del metodo. Certo: chi pensa che la
terapia del comportamento consista nel dare uno zuccherino al paziente
quando emette una risposta corretta, inevitabilmente finirà per pensare che,
se un paziente ha qualche potenzialità in più di un cavallo, merita di essere
trattato diversamente e non ammaestrato. Chi invece conosce la terapia del
comportamento sa che essa ha bisogno, prima di tutto, di adattarsi alle
esigenze del paziente che si ha di fronte. Per esempio, ai bambini viene
offerta l’opportunità di guadagnare ricompense per i loro sforzi in modo da
poter incrementare l’emissione dei comportamenti adeguati; in particolare
si ritiene che i sistemi di ricompensa possano essere di aiuto nei casi di
bambini ansiosi per promuovere l’impegno nella terapia (Gosch, Flannery-
Schroeder, Mauro e Compton, 2006). Può darsi che su un cavallo funzioni
uno zuccherino (lo dico senza nessuna competenza specifica in questo
campo). Con Gabriele funziona, dapprima, il mio incoraggiamento ad
accettare un invito da parte di un amico. Poi funziona la soddisfazione di
averlo accettato. Poi funziona il progressivo estinguersi dell’ansia,
determinato dal fatto che il comportamento “accettare l’invito” si è ripetuto
un sufficiente numero di volte senza essere seguito da conseguenze ansiose
eccessivamente forti. Infine, funziona il fatto che, o prima o dopo, a forza di
uscire con qualche amico, capiti anche di passare un pomeriggio divertente.
Quel divertimento rinforza la risposta “accettare l’invito di un amico”,
rendendola più probabile in futuro. Quando Gabriele uscirà più spesso con
gli amici, avrà minori probabilità di provare ansia in quelle situazioni
sociali e maggiori probabilità di divertirsi. Se qualcuno senza sapere nulla
di tutto il lavoro terapeutico che c’è alle spalle, vedrà un pomeriggio
Gabriele allegro e contento, mentre scherza con gli amici sul lungomare,
penserà che gli esseri umani non hanno bisogno di zuccherini per crescere,
maturare, guarire. Invece ne abbiamo bisogno tutti. È soltanto che gli
zuccherini hanno, per ciascuno di noi, un nome diverso.

pag. 350

Faremo poi un lavoro analogo anche su altri piccoli comportamenti


sociali. Il lavoro, ovviamente, non sarà solo comportamentale ma anche,
come abbiamo visto sopra, centrato su un un modo diverso di
concettualizzare i nostri comportamenti e le nostre emozioni (Beck, 1976,
1993). Gabriele, per esempio, quando riuscirà a tornare in classe, avrebbe
voglia di salutare una ragazza che incontra nel corridoio e che conosce di
vista. È bloccato in questo non solo dall’ansia, ma anche da una serie di
pensieri disfunzionali: “Perché dovrei fare la figura dello stupido?”; “Tanto
non le piacerò mai”; “Perché dovrei infastidirla salutandola?”; “Lei non mi
guarda nemmeno”. Anche questi pensieri possono essere messi in
discussione, analogamente a quanto abbiamo visto a proposito
dell’accettare un invito da parte di un amico. Si può riflettere sul fatto che è
molto improbabile che salutare un coetaneo venga considerato un
comportamento stupido. Si può analizzare quali significati si nascondano
sotto l’idea “tanto non le piacerò mai”. Devo salutare soltanto le persone
che sono perdutamente innamorate di me? Devo considerare raggiunto
l’obiettivo soltanto se dopo il saluto lei mi salterà al collo per baciarmi
appassionatamente? Non potrei essere già contento se al mio saluto
risponderà con un saluto? E se anche non mi rispondesse, questo cosa
significa? Non può darsi che lei sia tesa o timida quanto me? È proprio vero
che il mondo si divide in due categorie: da una parte le persone sicure di sé,
brillanti e simpatiche a tutti, e dall’altra parte io? E poi, anche nel caso
piuttosto improbabile che dopo un mio saluto lei mi intimasse di non
permettermi mai più di rivolgerle la parola, cosa succederebbe? Sarebbe
davvero una catastrofe cosmica alla quale non potrei sopravvivere? Non è
peggio non provarci neppure? Meglio ancora sarebbe riuscire,
naturalmente, e magari diventare suo amico, ma tra non provare neppure e
avere per lo meno il coraggio di fare un tentativo, non è meglio avere il
coraggio di fare un tentativo? Non può darsi che un tentativo andato male
oggi, mi serva come esperienza per domani?
Vediamo in queste domande e nella discussione terapeutica che ne può
derivare molti principi teorici della ristrutturazione cognitiva e della
Terapia Razionale Emotiva (vedi riquadro sottostante).

pag. 350

TERAPIA RAZIONALE EMOTIVA


(o, quando si riferisce a una situazione educativa
piuttosto che terapeutica: Educazione Razionale
Emotiva)
Alcuni principi fondamentali della Terapia Razionale Emotiva sono,
per certi aspetti, simili a quelli della ristrutturazione cognitiva. Nella
ristrutturazione cognitiva classica, tuttavia, l’accento è posto
soprattutto sui pensieri. I pensieri vengono divisi in funzionali (che
contribuiscono a farci star bene, a collaborare meglio con la
psicoterapia, ad affrontare con maggiori probabilità di successo le
situazioni anche difficili) e disfunzionali (che contribuiscono a farci
stare male, a non collaborare con la psicoterapia, ad affrontare in
modo inadeguato le situazioni anche difficili). Nella Terapia
Razionale Emotiva, invece, non ci si limita a occuparsi dei pensieri
(che pure continuano a restare al centro dell’interesse del terapeuta),
ma si considerano anche le emozioni che da questi pensieri possono
scaturire.
I pensieri sono allora divisi in razionali e irrazionali. Un pensiero
razionale ha due caratteristiche. Prima di tutto tende a essere vero, in
quanto razionalmente dimostrabile. Ma, oltre a questo, tende a portare
con sé emozioni positive. Un pensiero irrazionale, al contrario, non
solo va contro la ragione, è tendenzialmente falso e comunque
indimostrabile, ma contribuisce a farci stare male. Un bambino deve
sostenere un’interrogazione. I suoi pensieri, poco prima che tocchi a
lui, possono essere di questo tipo: speriamo di fare una buona figura;
sarebbe una bella soddisfazione riuscire a prendere un voto discreto;
sicuramente anche papà e mamma sarebbero contenti; ieri mi sembra
di aver studiato abbastanza, con un po’ di fortuna (che non fa mai
male) potrei prendere qualcosa di più della sufficienza; poi
naturalmente anche la sufficienza non sarebbe la fine del mondo e se
anche andasse malissimo certo i miei genitori sarebbero un po’
delusi, ma, insomma, alla fine non mi uccideranno per questo e avrò
tempo per rimediare. Questi sono sostanzialmente pensieri razionali.
Sono ragionevoli e hanno buone probabilità di essere veri. Anticipano
eventi positivi probabili e non trasformano in una irreparabile tragedia
eventuali situazioni negative che, purtroppo, potrebbero anche
verificarsi. Sono capaci di non dividere il mondo in due
(l’interrogazione o sarà stupenda, o sarà pessima), ma prendono in
considerazione molte possibilità intermedie, proprio quelle che più
frequentemente si trovano nella realtà. Una serie di pensieri razionali
di questo tipo contribuisce a tenere il livello d’ansia del bambino
entro limiti ragionevoli. Probabilmente l’interrogazione verrà
affrontata con sufficiente serenità. Un altro bambino deve affrontare la
stessa interrogazione, ma purtroppo i suoi pensieri sono molto diversi:
non posso tollerare una brutta figura; se non mi ricorderò a memoria
tutti i nomi e tutte le date la maestra mi darà un votaccio e io non
avrò neppure il coraggio di presentarmi a casa; i miei non me lo
perdonerebbero; devo assolutamente concentrarmi al massimo e non
commettere errori; basta niente a rovinare un’interrogazione (un
vuoto di memoria, un colpo di sfortuna) e un’interrogazione rovinata
sarebbe una catastrofe. Questi sono esempi di pensieri irrazionali.
Sono falsi: chi ha detto che un’interrogazione non perfetta è
un’interrogazione catastrofica? Sono del tipo “tutto o nulla” (ma
un’interrogazione non può essere appena sufficiente?). Sono esagerati
e caratterizzati da un senso del dovere che non conosce limiti.
Finiscono così per anticipare eventi negativi che, di per se stessi, non
sono molto probabili (poi magari, paradossalmente lo diventano,
perché è difficile fare una interrogazione discreta in questo stato
d’animo). Ma, soprattutto, contribuiscono a far star male il bambino.
Veicolano emozioni negative, disadattive, a volte addirittura
distruttive. Probabilmente l’interrogazione verrà affrontata nelle
condizioni emotive peggiori.
La Terapia Razionale Emotiva consiste, dunque, nell’insegnare al
paziente a distinguere tra pensieri razionali e pensieri irrazionali, a
rendersi conto degli effetti negativi dei pensieri irrazionali e a
sostituire, per quanto possibile, i pensieri irrazionali con quelli
razionali. Nel capitolo 1, per esempio, Marco impara a distinguere tra
paure ragionevoli e irragionevoli. Nel capitolo 11 Lorenzo si rende
conto che non ha senso chiedere cose impossibili e pretendere di
avere tutto e subito; inoltre comincia a riconoscere alcune sue
emozioni e questo aumenterà il suo autocontrollo; intanto, anche i
genitori ridimensioneranno le loro aspettative e smetteranno di
pensare di dover essere genitori perfetti. Nel capitolo 14 è la mamma
di Chicco a modificare certi suoi pensieri e, in conseguenza di ciò,
certe sue emozioni nei confronti dei problemi del figlio e della
possibilità di affrontarli. Nel presente capitolo la consapevolezza, da
parte di Gabriele, dei rapporti tra pensieri ed emozioni permette al
ragazzo di acquisire un controllo emozionale maggiore. Nel capitolo
23, infine, Silvia impara a non trasformare sempre tutto, nella sua
mente, in una catastrofe.

Vediamo la capacità di acquisire una maggiore consapevolezza dei propri


pensieri, delle proprie emozioni,4 e dei rapporti tra pensieri, emozioni e
comportamenti. Vediamo il tentativo di uscire dalle trappole del pensiero
dicotomico del tipo tutto o niente, bianco o nero. Vediamo un progressivo
spostarsi delle emozioni in una posizione meno depressiva e più positiva, di
proposta e di speranza. Vediamo la possibilità di riconoscere alcuni pensieri
disadattivi, di metterli in discussione, di trovare pensieri alternativi migliori,
sviluppando alternative realistiche e la consapevolezza che le cose non
possono sempre andare esattamente come vorremmo (Ellis, 1993; Di Pietro,
1992, 1999, 2015). Parallelamente, è possibile sviluppare un lavoro
sull’autostima,5 sul fatto che è normale sentirsi tesi in alcune circostanze.
Tutti, chi più chi meno, hanno reazioni d’ansia che devono imparare a
fronteggiare. Nel lavoro di ristrutturazione cognitiva può essere importante
imparare a modificare un certo atteggiamento perfezionistico: abbiamo, per
esempio, visto quanta eccessiva importanza Gabriele e la sua famiglia
attribuissero ai voti scolastici. In questi casi, può servire imparare che non è
né possibile né utile pensare di tenere sempre tutto sotto controllo e
aspettarsi sempre e soltanto giudizi scolastici ottimi. Alcune ricerche
mostrano l’importanza di aiutare il soggetto a focalizzarsi sulle strategie di
coping che regolano i loro standard di perfezione nelle situazioni sociali
(Grover, Hughes, Bergman e Lindsey, 2006). Semplici diari di
osservazione, come quelli che abbiamo visto in questo caso e nei capitoli
precedenti, possono dare un grosso aiuto per il raggiungimento di questi
obiettivi e servono, inoltre, a focalizzare l’attenzione sul dialogo interno del
paziente e a modificare un locus of control eventualmente inadeguato: chi
ha detto che il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare? In realtà
l’ha detto Alessandro Manzoni, e nel caso di Don Abbondio, ormai anziano
e da sempre abituato a ragionare in un certo modo, era probabilmente anche
vero. Ma un ragazzo come Gabriele certo che si può dare un po’ di
coraggio, se ci prova!
Il terzo obiettivo sul quale abbiamo lavorato è stato quello
dell’interpretazione corretta dei segnali fisiologici anticipatori dell’ansia.
Alcuni autori (Biondi e Valentini 2014; Craske et al., 2014; McEvoy, Erceg-
Hum, Saulsman e Thibodeau, 2014; Shikatani, Antony, Kuo e Cassin, 2014;
Turk, Swanson e Tunks, 2008) sottolineano l’importanza e l’utilità di alcune
tecniche, quali il biofeedback, il rilassamento, la meditazione, la
mindfulness, l’immaginazione guidata e l’ipnosi in associazione alla terapia
cognitivo-comportamentale per aumentare la percezione di autocontrollo.
Che cosa succede quando Gabriele sente palpitazioni, tremori, nausea,
vertigini, formicolio, torpore? Che cosa vuol dire? Come vanno affrontati
questi segni? Qui il lavoro terapeutico consiste nell’imparare a riconoscere i
sintomi che anticipano e caratterizzano l’ansia; imparare che si tratta di
risposte fisiche che non devono generare particolare preoccupazione, ma
anzi possono essere utili perché ci avvertono in anticipo che potrà
verificarsi un problema; imparare a non farsi sopraffare da questi segni, ma
piuttosto affrontarli: con l’esposizione graduale, con le riflessioni interne
frutto della ristrutturazione cognitiva, se necessario con il rilassamento.
Dico “se necessario”, perché Gabriele ha imparato ad affrontare le
situazioni ansiogene e le risposte fisiologiche che l’ansia determina senza
bisogno di ricorrere a tecniche di rilassamento; queste, però, costituiscono
spesso uno strumento utilissimo nei Disturbi d’ansia, come abbiamo visto
nei precedenti capitoli. Tecniche di rilassamento e di respirazione, proposte
unitamente a una terapia di tipo cognitivo-comportamentale, rappresentano
dei validi aiuti in quanto sono in grado di alleviare i sintomi fisici dell’ansia
(Grover, Hughes, Bergman e Lindsey, 2006). Un lavoro analogo può essere
condotto anche sui sintomi più cognitivi dell’ansia, come il senso di
catastrofe imminente, la depersonalizzazione, l’impressione di diventare
pazzi. Il principio è sempre quello che è già terapeutico sapere che cosa ci
sta succedendo dentro, sapere perché ci succede, sapere che ciò che succede
a noi succede a tante altre persone e che non porterà a conseguenze
irreparabili.
Credo che mi sarà difficile dimenticare una ragazzina che, tanti anni fa,
trattai per un Disturbo di panico. Lavorammo sul rilassamento e sulla
ristrutturazione cognitiva che funzionarono in un tempo più breve di quanto
mi ero aspettato. Ricordo che durante una delle ultime sedute, mentre stavo
programmando la fine della terapia, lasciando contemporaneamente aperto
un spiraglio nel caso la ragazza avesse avuto nuovamente bisogno di
vedermi, le chiesi perché, secondo lei, il nostro lavoro aveva funzionato
così bene e velocemente. Nella mia esperienza, di solito, i pazienti
rispondono con difficoltà a questa domanda, riflettono a lungo, tentano
molte risposte diverse dando a volte l’impressione di procedere un po’ alla
cieca. Lei, invece, mi disse immediatamente, senza esitazione, che la cosa
più importante era successa nel corso della prima seduta, quando mi stava
descrivendo una delle sue sensazioni più gravi e impressionanti, la
sensazione di essere come staccata da sé stessa, che le aveva dato l’idea
terrorizzante che sarebbe diventata pazza. Nel riparlare con lei di questo
sintomo, avevo usato il termine “depersonalizzazione”. Mi aveva chiesto
che cosa volesse dire e io glielo spiegai, aggiungendo che è molto frequente
nelle situazioni di ansia acuta come quelle che lei a volte sperimentava. In
quel momento aveva cominciato a sentirsi guarita per metà. Una sensazione
terrificante e senza nome si era trasformata in un sintomo conosciuto,
studiato, frequente. Non sono così ingenuo da pensare che basti così poco
per “guarire” una persona, ma a volte un’interpretazione corretta di ciò che
ci accade dentro si rivela già un bell’aiuto.
Con Gabriele fu necessario, pertanto, lavorare sull’esposizione graduale
alle situazioni temute, sulle abilità sociali, sulle aspettative, sui pensieri
disfunzionali, sugli stili di attribuzione , sul riconoscimento dei segnali
dell’ansia.
pag. 540

Il piccolo contratto sulla frequenza in biblioteca funzionò bene, tanto che


lui stesso propose di continuare per un’altra settimana. Gli dissi che era una
buona idea, ma che sarebbe stata ancora migliore se avesse fissato altri
obiettivi un po’ più complessi, perché altrimenti c’era il rischio che si
fermasse a quel livello. Credo che non sia difficile vedere in questo
episodio l’applicazione di una tecnica di modellaggio . Durante la
settimana successiva portò da tre a quattro le ore giornaliere passate in
biblioteca e, sempre in biblioteca, fece due compiti scritti, precedentemente
concordati con due insegnanti. L’ansia, durante le ore in biblioteca, si
mantenne a livelli compresi tra 2 e 3 su 10. Dal momento che continuava a
temere qualsiasi contatto con i compagni a scuola e che questo mi sembrava
un ostacolo molto grosso sulla strada di un possibile rientro in classe, gli
proposi di telefonare di pomeriggio a qualche suo compagno, per farsi dare
i compiti, evitando di continuare a farsi sostituire in questo dalla mamma.
Non soltanto accettò, ma, facilitato dal fatto che questi contatti costituivano
anche una parte importante del nostro programma di abilità sociali, si recò
cinque volte nell’arco di due settimane a casa di due amici diversi a fare i
compiti.6 A questo punto gli proposi il rientro in classe, dicendogli che a
mio parere era pronto. Gli suggerii di cominciare con due ore, dalle 8:00
fino all’intervallo, ma lui obiettò che andare via all’intervallo lo avrebbe
messo in una posizione ancora più difficile nei confronti dei suoi compagni.

pag. 6

“Se ci vado, ci devo stare tutta la mattina”, mi disse.


Lavorai su questo: soprattutto sul fatto che questo devo non mi sembrava
particolarmente razionale. Gli dissi che pensavo che cinque ore sarebbero
state troppe e che in ogni modo i suoi compagni, dopo tutto questo tempo,
sapevano perfettamente che lui non stava bene e che aveva difficoltà a
restare in classe: non ritenevo questo tardivo segreto di Pulcinella
particolarmente intelligente. Un po’ credevo di avere ragione nel sostenere
queste idee; un po’ lo sfidavo.
Decise di cominciare dal lunedì successivo, ma il primo giorno fu un
dramma. Arrivò fin quasi davanti a scuola e poi dovette tornare indietro. Il
martedì entrò rispettando le due ore concordate e dal mercoledì cominciò
autonomamente ad aumentare il tempo di permanenza. Smise di
autovalutare il livello d’ansia sostenendo che non era più necessario. La
settimana successiva restò in classe tutta la mattina per tutte le mattine. Poi
si presentò il problema dei compiti in classe. Cercammo insieme una
soluzione e credemmo di averla trovata chiedendo al professore il permesso
di tornare in biblioteca nel momento del compito. In realtà non fu
necessario. Provò un’ansia molto forte, ma decise che avrebbe potuto
superarla e che questo gli avrebbe fatto bene.
“È stato il mio battesimo del fuoco”, mi disse quando mi raccontò questo
episodio.
Andò a una festa di compleanno di un compagno e si accordò con tre
amici, fra i quali due compagni di classe, per giocare un doppio a tennis.
Ebbe qualche delusione dal punto di vista di alcuni voti e temette di
ricominciare a stare male. Discutemmo sul significato di tutto questo. Verso
la fine dell’anno scolastico i suoi voti oscillavano dal 6 e mezzo al 9.
Utilizzai il 6 e mezzo per lavorare ancora sui pericoli del perfezionismo e
sull’importanza di imparare ad accettare, entro centri limiti, insuccessi
parziali e persino ricadute. Mi auguravo quanto lui che non ci fossero
ricadute, ma, nel caso si fossero presentate, le avremmo affrontate insieme
senza pensare, come dicevano i Galli di Asterix di cui Gabriele era un
accanito lettore, che il cielo ci sarebbe caduto sulla testa.
Durante un colloquio di controllo, verso la fine dell’anno scolastico, la
madre mi disse:
“È come prima”.
Sebbene non abbia mai più rivisto Gabriele, sono stato in grado, almeno
per tre anni, di fare un follow-up molto più preciso di quanto in genere non
riesca a fare quando perdo di vista i pazienti, perché la mamma è venuta
regolarmente ogni Natale, e qualche volta anche a Pasqua, a farmi gli
auguri, a raccontarmi che tutto andava per il meglio e spesso a portarmi un
regalino come per sottolineare quello che mi diceva e come era contenta di
come si erano risolte le cose.
Anche in letteratura è riportata una prognosi favorevole, per il Disturbo
d’ansia sociale in età evolutiva, nella metà circa dei casi. Nell’altra metà la
prognosi è sfavorevole per persistenti Disturbi d’ansia (in particolare,
Disturbi di panico) e, nei casi peggiori, intorno al 20-30%, anche per
difficoltà di adattamento sociale e per un’evoluzione in senso depressivo
(Cicchetti e Cohen, 1994; Van Hasselt e Hersen, 1995; House, 1999).
Nel caso di Gabriele, spero che l’aumento di abilità sociali, concomitante
alla capacità di affrontare le situazioni ansiogene, sia un fattore prognostico
favorevole. Da un punto di vista più generale intendo dire che in una Fobia
sociale gli obiettivi della psicoterapia non dovrebbero limitarsi alla
riduzione dei comportamenti fobici di evitamento e di fuga, ma prendere
anche in considerazione la costruzione di nuove abilità adattive. Per questo
motivo mi è rimasto ancora oggi un dubbio. Quando, durante un colloquio
di controllo, la madre mi disse che Gabriele era tornato come prima, avrei
dovuto prenderlo per un complimento, come in realtà feci, e
accontentarmene, oppure sarebbe stato meglio lavorare su questo e far
presente che tornare a scuola, in questi casi, non è tutto?
1 Vedi la discussione su questi argomenti nel capitolo 14, paragrafo “Inquadramento teorico e
ricerche”.
2 Vedi capitolo 14, nota 10.
3 Per la bibliografia generale dell’approccio psicoterapeutico vedi anche capitolo 14, paragrafo
“Linee di intervento psicoterapeutico”.
4 Perché si possa intraprendere un intervento per un disturbo come quello di Gabriele, e per i
Disturbi d’ansia in generale, è necessario che il bambino sia in grado di distinguere le proprie
emozioni e che si percepisca come ansioso (Gosch, Flannery-Schroeder, Mauro e Compton, 2006).
Recenti ricerche confermano che imparare a conoscere il proprio sistema emozionale, riconoscere le
emozioni, accettarle e sperimentarle rappresenti una parte fondamentale del processo terapeutico e
ottenere benessere (O’Toole, Mennin, Hougaard, Zachariae e Rosenberg, 2014). In uno studio di
Jusyte e Schönenberg (2014) inoltre si evidenzia come spesso i pazienti con Disturbo d’ansia sociale
distorcano o comunque interpretino sempre in termini di emozioni negativi espressioni facciali
ambigue.
5 Vedi più in dettaglio il significato e le possibilità di un lavoro sull’autostima nel capitolo 24.
6 Lo studio di Wood (2007) suggerisce che i cambiamenti e la riduzione dell’ansia nei soggetti
affetti da questo disturbo, conseguenti alla partecipazione a un programma di intervento cognitivo-
comportamentale, influenzano il funzionamento scolastico e sociale.
Capitolo 17

Disturbo ossessivo-compulsivo
Fabio Celi

LA STORIA DI ALBERTO
Alberto ha quasi quindici anni e ha perso il padre circa sei mesi prima,
investito da un camion mentre, in bicicletta, andava a lavorare. Vengono a
raccontarmi questa storia drammatica la madre, che però parla pochissimo,
probabilmente ancora chiusa nel suo dolore, e uno zio paterno, che fa molta
fatica a esprimersi, a causa di una forte balbuzie che lo costringe
continuamente a interrompersi e a riprendere il discorso da capo. La madre
e lo zio sono molto preoccupati per le “fobie” che Alberto ha manifestato in
questi ultimi mesi e che sembrano farsi più gravi di giorno in giorno, ma lo
zio mi spiega che il ragazzo ha sempre avuto dei problemi. Ripete, a questo
proposito, più volte il termine “fobia” in questa prima parte del primo
colloquio. Quando era più piccolo aveva paura a toccare il detersivo per la
lavatrice e per la lavapiatti. Questa paura, d’altra parte, era molto simile a
quella della madre, che, infatti, pretendeva che fosse il padre a mettere il
sapone nelle vaschette. Poi questa “fobia” è quasi del tutto passata, ma
soltanto per lasciare posto ad altre, forse ancor più strane. Per esempio, il
bambino aveva paura del mercurio. Una volta, quando aveva circa undici
anni, vide un termometro cadere a terra e rompersi. Ne rimase terrorizzato.
Disse alla madre che proprio pochi giorni prima la maestra aveva spiegato
come funzionava un termometro, che cos’era il mercurio e come si trattasse
di una sostanza tossica molto pericolosa. Sto cercando di riassumere, ma
anche di dare una forma e una logica a questo colloquio, naturalmente per
ovvi motivi di chiarezza. Mi rendo conto, però, che in questo modo
vengono meno l’ansia, la confusione, l’angoscia, l’incapacità, da parte dello
zio, di fare un discorso filato, chiaramente comprensibile, con un inizio e
una fine. La madre, d’altra parte, sta quasi sempre zitta, come ritirata in sé,
e si limita a intervenire per correggere il cognato su particolari tutto
sommato irrilevanti, come il fatto che la lezione sul mercurio doveva averla
fatta un professore e non una maestra perché Alberto, in quel periodo, era
già in prima classe della scuola secondaria di primo grado.
In ogni modo, ciò che emerge è che, dopo questo episodio del termometro,
Alberto cominciò ad avere mille paure, una più assurda dell’altra. Prima di
andare a letto doveva controllare che tra le coperte e sul cuscino non ci
fossero tracce di mercurio che avrebbero potuto contaminarlo; questo è un
comportamento piuttosto frequente in bambini con Disturbo ossessivo-
compulsivo, che spesso presentano disturbi legati al sonno proprio per i
rituali che interferiscono con l’addormentamento (Storch et al., 2007). I
genitori gli spiegarono che tutto questo non aveva senso:
“Chi vuoi che abbia messo del mercurio nel tuo letto?” gli dicevano.
Ma non serviva a niente. Alberto replicava che gli avevano spiegato a
scuola, e poi era andato anche a controllare su un’enciclopedia, che il
mercurio è chiamato anche “argento vivo” proprio per la sua capacità di
dividersi e infilarsi dappertutto. E, in ogni modo, il ragazzo non si limitava
ad avere la “fobia” della presenza del mercurio. Di fronte alle obiezioni dei
genitori, replicava che nel letto, ma anche nel tovagliolo quando erano a
tavola, avrebbero potuto esserci piccoli frammenti di vetro, quasi invisibili
ma pericolosissimi. Da qui nasceva la necessità di fare mille controlli,
sempre più accurati, che però non bastavano mai a rassicurarlo del tutto.
Lo zio insiste molto, nella prima parte del colloquio, su questo episodio
scatenante del termometro, per sottolineare che Alberto aveva già da tempo
qualcosa che non andava. Certo la morte del padre, per di più in circostanze
così drammatiche, ha fatto precipitare la situazione. Tutte le vecchie “fobie”
di Alberto sono riemerse e tutte contemporaneamente: i detersivi, il
mercurio, i vetri. Poi se ne sono aggiunte di nuove: le piante grasse e
spinose, dalle quali ora il ragazzo deve girare alla larga per paura di essere
punto, le vipere (ma non nel senso banale di provare ansia di fronte a una
vipera, ma in quello, ben più complesso, di essere ossessionato dall’idea
che una vipera potrebbe essere nascosta tra l’erba del giardino o tra i vasi
delle piante dell’appartamento), e infine il contagio di qualche non meglio
identificata malattia. Penso che sia utile, a questo proposito, tener conto del
fatto che i sintomi del Disturbo ossessivo-compulsivo cambiano nel tempo,
spesso senza alcun modulo chiaro di progressione, e molti bambini hanno
più di un sintomo contemporaneamente. Di conseguenza, numerosi soggetti
hanno sperimentato quasi tutti i sintomi classici entro la fine
dell’adolescenza (Rettew et al., 1992).
Questo è, adesso, ciò che maggiormente preoccupa lo zio e la madre. La
madre va al cimitero tutti i giorni e, nonostante le sue insistenze, non è mai
riuscita a convincere Alberto a seguirla, neppure una volta. Forse questo è il
momento di maggior partecipazione, anche emotiva, della madre al
colloquio. Piange raccontandomi di non essere mai riuscita a portare
Alberto a fare visita a suo padre. Il ragazzo, infatti, ha paura di contaminarsi
andando al cimitero. Lo zio non è in grado di spiegarmi con precisione che
cosa questo significhi, ma è evidente che il pensiero del cimitero e delle
malattie che si potrebbero contrarre andando in quel posto infetto terrorizza
il ragazzo.
Ma non è tutto. La paura di restare contaminato è tale che Alberto si
tiene a distanza dalla madre quando sa che si è recata al cimitero. Le gira
alla larga, come con le piante spinose e poi, per sicurezza, si lava le mani.

Alberto si lava le mani anche venti, forse trenta volte al giorno. Si lava le
mani quando, suo malgrado, è costretto ad avvicinarsi troppo alla madre
appena tornata dal cimitero. Si lava le mani quando, per aprire una porta,
deve toccare una maniglia che in precedenza è stata toccata dalla madre
tornata dal cimitero. Si lava le mani se gli viene in mente che potrebbe lui
stesso aver toccato un oggetto contaminato dal mercurio. Si lava le mani
quando lo assale la paura che frammenti di vetro, presi chissà come,
potrebbero essere rimasti tra le sue dita. Si lava le mani quando pensa che
potrebbe, mangiando, ingoiare uno di questi frammenti e strozzarsi. Tutto
questo non accadeva prima della morte del padre e invece adesso è
diventato terribile, tanto che ultimamente le sue mani sono piagate: a volte
quasi sanguinano per i continui lavaggi.
Questi, tutto sommato, sono gli elementi importanti del primo colloquio
con la madre e lo zio. Infatti, al di là dei sintomi che lo zio si ostina a
chiamare “fobie”, anche se vedremo più avanti come questo termine non sia
adeguato alla situazione, Alberto ha un’anamnesi negativa. È il
secondogenito di tre figli. Ha una sorella adulta, sposata, che abita
all’estero, e un fratello di undici anni. La madre, per quanto mi è possibile
ricostruire, ebbe una gravidanza regolare e un parto eutocico a termine. Le
prime tappe dello sviluppo del bambino furono regolari. Anzi, a questo
proposito lo zio interviene per dirmi che era un bambino “perfetto”:
mangiava e dormiva, rispettava sempre gli orari, non piangeva mai e
cresceva sano senza dare nessun tipo di problema. Anche il medico di
famiglia ha sempre detto che Alberto non ha problemi dal punto di vista
fisico e ha insistentemente consigliato questa consulenza psicologica.

pag. 49

Il bambino è andato al nido fin da piccolissimo perché sia il padre


(guardia carceraria) sia la madre (impiegata presso un commercialista)
lavoravano e non avrebbero saputo a chi lasciarlo.
Approfitto del fatto che il discorso è spostato sui genitori per raccogliere
anche qualche notizia su eventuali disturbi mentali nelle due famiglie.
Dovrebbe essere, in linea di massima, una domanda anamnestica di routine,
ma nei Disturbi d’ansia è particolarmente importante a causa della
familiarità così frequentemente riscontrata in questi casi. In effetti, sia la
madre sia il padre hanno sofferto di disturbi mentali. Abbiamo già
evidenziato qualcosa nella madre a proposito della paura dei detersivi:
approfondendo questo punto, emerge chiaramente che la madre ha sofferto
in passato di una forma ossessiva di Disturbo d’ansia, che, almeno
attualmente, sembra complicata da aspetti depressivi. Ricerche condotte su
questo argomento dimostrano come la presenza di una psicopatologia
ansiosa nei genitori sia correlata allo sviluppo di Disturbi d’ansia nei figli
(Beidel e Turner, 1997; Manassis e Hood, 1998; Hudson e Rapee, 2001;
Waters, Forrest, Peters, Bradley e Mogg, 2014), probabilmente non solo a
causa della familiarità ma anche per i conseguenti stili educativi che
sembrano giocare un ruolo importante nella genesi e soprattutto nel
mantenimento del disturbo (Peris et al., 2008). Studi recenti, infatti,
suggeriscono che la cosiddetta Family accommodation, ovvero
l’atteggiamento che la famiglia adotta di fronte al problema (come, per es.,
sostenere posizioni contraddittorie o rinforzare i pensieri e i comportamenti
disfunzionali) rappresenta un forte fattore di mantenimento al disturbo
stesso (Lebowitz, Scharfstein e Jones, 2014; Weidle, Jozefiak, Ivarsson e
Thomsen, 2014). Il padre, invece, per quello che riesco a capire, soffriva di
attacchi di panico e agorafobia e, forse, di un Disturbo di Tourette.1
La frequenza di Alberto al nido fin dai primi mesi di vita (riprendo a
questo punto la storia del bambino dopo averla brevemente interrotta per
raccogliere notizie sui genitori), rese poi particolarmente facile il suo
inserimento alla scuola dell’infanzia, dove le insegnanti non segnalarono
mai nessun problema particolare, neppure nel periodo della nascita del terzo
figlio, avvenuta quando Alberto aveva quattro anni. Forse qualche difficoltà
(ma non è facile ottenere queste informazioni) si è registrata alla scuola
primaria, non tanto nei primi anni, quanto intorno alla terza. A scuola il
bambino era molto bravo, attento, motivato, desideroso di apprendere e
autonomo. Arrivava a casa e, subito dopo pranzo, apriva il suo zaino e,
senza bisogno che nessun gli dicesse niente, cominciava a fare i suoi
compiti in silenzio, chiuso nella sua camera; non ne usciva, “neppure per
prendere un bicchiere d’acqua”, finché non aveva finito. Le lunghe ore
dedicate ai compiti, insieme agli interminabili rituali dedicati ai lavaggi e
alle ossessioni per germi e sporco, sono da considerarsi come i primi
campanelli di allarme (Dèttore, 2002). Da questo punto di vista non c’era
proprio niente da dire. In classe, però, tendeva a isolarsi, a starsene per i
fatti suoi. Ha sempre avuto pochi amici. Anche alla scuola secondaria di
primo grado, quando la madre andava a colloquio con i professori, questa
era la lamentela che sentiva più spesso. Un ragazzo diligente e interessato a
tutto (e, in particolare, assai interessato alla storia e alle scienze),
bravissimo in disegno, ma poco socializzato. Pare che gli insegnanti
sostenessero che non fosse timido, perché se veniva proposta una ricerca o
un compito da fare in gruppo, non si tirava mai indietro e dava il suo
contributo. Sembrava, però, che, al di fuori di questi momenti, se ne stesse
chiuso in un suo mondo, come preso da altri interessi o, forse, da altre
preoccupazioni. Lo zio insiste molto, a tale proposito, sul confronto con il
fratello minore, il quale, pur essendo più piccolo, è, al contrario, pieno di
amici, riceve cento telefonate al giorno, già chiede di uscire di pomeriggio
con i suoi compagni di scuola. Alberto invece, anche dopo i compiti, se ne
rimaneva spesso in camera sua, a leggere i fumetti e a disegnare.
Dopo la tragedia, poi, la chiusura è stata totale. Ora frequenta l’Istituto
d’Arte e praticamente esce di casa soltanto per andare a scuola. Lo zio
pensa che uscire gli farebbe bene, lo aiuterebbe a svagarsi, a pensare meno
a tutte quelle fissazioni che invece, chiuso in casa, non fanno che
aumentare. Chiedo se, visto questo isolamento, pensano che sarà un
problema condurlo da me. Entrambi mi rispondono di no. Hanno già parlato
al ragazzo, che non si è certo mostrato entusiasta, ma ha comunque detto
che verrà.

Viene, infatti, e cerca fin dai primi momenti di mostrarsi collaborativo. Mi


appare minuto, fragile, molto più piccolo della sua età, forse anche un po’
spaventato, dopo tutto ciò che gli è già successo, di questa ennesima
avventura. Alberto ha quasi quindici anni, ma, in certi momenti, mi sembra
di avere a che fare con un bambino. Fa di tutto per compiacermi. Risponde
alle mie domande, in questa prima fase ancora molto generiche. Mi
racconta della sua vita: sempre un po’ triste e un po’ solitaria e adesso, dopo
la morte del padre, più scura che mai. Mi porta, alla seconda seduta,
ordinatissimi in una cartellina rossa, i suoi disegni: meticolosi, perfetti, ma
anche questi a volte così infantili da fare un po’ tenerezza. Sono per lo più
personaggi di Walt Disney, disegnati con grande perizia, anche se senza
molta fantasia. Si apre ancora, quando mi racconta del suo sogno di
diventare un disegnatore di fumetti. Dal tono con il quale me ne parla,
capisco di essere, se non il primo, uno dei pochi con il quale si è confidato
su questo argomento. Glielo dico con chiarezza, con sincerità, perché siamo
ormai alla terza seduta e mi appare sempre più evidente che il suo desiderio
di collaborare e interagire con me ha però un limite che sembra invalicabile.
Il limite è costituito dai suoi disturbi, che probabilmente lo imbarazzano
fino al punto di non accettare mai di parlarmene. Possiamo parlare della
scuola, della sua famiglia (ma non del padre morto: ai miei cenni anche più
prudenti su questo argomento si ritrae come il collo di una tartaruga dentro
il suo guscio al minimo contatto), di come passa le domeniche e della sua
passione per il disegno e per i fumetti. Basta. Se provo a toccare i sintomi di
cui mi hanno parlato la madre e lo zio, mostra un atteggiamento per metà
imbarazzato e per metà triste, come se volesse dirmi: “Perché vuoi mettermi
in difficoltà con queste cose che mi fanno già tanto male?”.
Rispetto questo suo bisogno e, alla fine della terza seduta, ne sono in
qualche modo ripagato. Stiamo parlando del suo tempo libero: ne ha molto,
perché lo studio che la nuova scuola gli richiede non è molto e, dopo lo
studio, non gli resta gran che da fare.
“Non esci mai, di pomeriggio?”.
Mi risponde di no.
“Non hai fatto amicizia con qualche compagno di classe?”.
Mi risponde di nuovo di no.
Ho l’impressione che mi stia studiando.
“Non ne hai trovati di simpatici, oppure è proprio che preferisci restare
da solo?”.
Riflette un po’, prima di rispondere. Mi guarda. Credo che si stia
domandando se può fidarsi a dirmi la verità.
“Forse preferisco stare da solo”.
“Ho capito. Non ti va di uscire, fare amicizie nuove…”.
Cerco di dire questo con un tono indifferente: non nel senso che non mi
interessa ciò che mi sta raccontando, ma per tentare di comunicargli che
non lo sto di certo giudicando. Ormai mi sono fatto l’idea che ciò di cui ha
bisogno è essere rassicurato. Che mi stia studiando proprio per sapere se
può raccontarmi alcune cose, che forse lo metteranno in cattiva luce, senza
perdere per questo la mia stima.
“Non posso”, mi dice inaspettatamente.

E aggiunge:
“Non posso uscire con i miei compagni, fare amicizie nuove…”.
“Come mai?”.
Mi guarda, come per un’ultima esitazione. Poi tira fuori di tasca una
boccetta di profumo, di quelle che regalano come campioni pubblicitari.
“Vedi?”, mi chiede. “Era di mio padre. Devo sempre portarla in tasca
perché altrimenti credo che mi potrebbe succedere qualcosa. Poi, quando mi
sento male, tolgo il tappo e annuso un po’ di profumo, anche se ormai è
quasi vuota”.
“E quindi ti secca che i tuoi amici si accorgano di questo?”.
“Sì, non ho voglia di andare a raccontare in giro i miei problemi”.
“Credi di avere tanti problemi?”.
“Tantissimi. Non ce la faccio più”.
Ha ancora la boccetta in mano. È chiusa. Per me, in quel momento, è
però come se togliesse il tappo, e provasse a fare uscire tutte le sue angosce.
Mi racconta che lui è diverso dagli altri. A scuola ci va perché è
obbligatorio e perché vuole studiare e diventare un disegnatore, ma anche lì
se ne sta per i fatti suoi e non vorrebbe mai che un suo compagno scoprisse
che gira sempre con una boccetta di profumo in tasca e che ogni tanto deve
annusarla per contenere la sua angoscia. Così, appena terminate le lezioni,
preferisce andarsene a casa e non rischiare che qualcuno si accorga delle
sue fissazioni.
Mi racconta di quando lo zio gli si avvicinò, quel pomeriggio tragico, per
dirgli dell’incidente di suo padre. Lui lo sapeva già, se lo sentiva, è tutta la
vita che sente che qualcosa di brutto deve succedere, forse da un momento
all’altro, forse domani, e quella volta era successo davvero.
Mi racconta che deve lavarsi le mani un sacco di volte al giorno e si
vergogna all’idea che qualcuno gli guardi le mani, si accorga di come sono
rovinate e gli chieda spiegazioni. Qualche volta capita e lui allora inventa di
avere un’allergia, una specie di malattia della pelle, e poi cambia subito
discorso. Ma è chiaro che più sta da solo, più si chiude nel suo guscio, e
meno probabile diventa che qualcuno scopra la sua boccetta, le sue mani e i
suoi pensieri. In effetti, anche con me, in tre sedute, ha cercato di mostrarmi
le sue mani il meno possibile. È stato costretto a farlo quando mi ha portato
i suoi disegni o quando ha eseguito alcuni test, ma, per lo più, siede di
fronte a me ricurvo, con la testa incassata nelle spalle e con le mani sotto la
scrivania. Gli chiedo se ora me le vuole mostrare. Non solo lo fa, ma mi
sembra anche che lo faccia con un certo sollievo, come se gli giovasse poter
smettere di nascondere almeno una cosa. Le mani sono effettivamente
rovinate, ma questo lo sapevo già dal colloquio con lo zio e lo avevo già
notato. Non è questo il punto. Il punto è che Alberto comincia così ad
aprirsi con me. Sta imparando che non è affatto certo che lo aiuterò a
risolvere i suoi problemi, ma che, per lo meno, può raccontarmeli senza per
questo essere giudicato, essere preso in giro, diventare oggetto di
compassione o di eccessiva curiosità.
Tra la fine di questa terza seduta e la successiva mi racconterà di nuovo,
con angoscia e con mille particolari che sembrano tornargli in mente nel
momento preciso in cui me li sta raccontando, del giorno della morte del
padre, dei suoi pensieri in quel momento, delle sue paure, che ha sempre
avuto, ma che prima era riuscito alla meglio a controllare e da quel
pomeriggio, invece, sembrano averlo sopraffatto.
La più grave di tutte è probabilmente, adesso, la paura della
contaminazione. È grave perché Alberto si rende ben conto di quanto sia
assurda. Sa benissimo, razionalmente, che il mercurio non se ne va in giro
da solo per il mondo e che se anche, per caso, una goccia finisse sul
pavimento della sua camera, non potrebbe certo ucciderlo. È capace di fare,
razionalmente, considerazioni analoghe per i frammenti di vetro e per la
contaminazione da malattie mortali prodotta dalla vicinanza con la madre
che è stata al cimitero. In certi momenti, però, questa razionalità sembra
sgretolarsi, come franare: e allora una paura cieca prende il sopravvento.
Allora Alberto è preso dal terrore della contaminazione e deve fare qualcosa
per non soccombere. È per questo che si lava le mani. Gli sembra, in quel
modo, di annullare o di ridurre il rischio. Di nuovo sa bene, razionalmente,
che questo è assurdo, però, appena si è lavato le mani, sta meglio: l’ansia
tende a placarsi, gli concede un periodo di respiro, come di tregua. Ricorro
a questo termine perché la sensazione che ho, parlando con il ragazzo, è che
si tratti di una vera e propria guerra. A volte Alberto cerca di resistere, di
avere la meglio, di vincere. Dice a sé stesso che non deve assolutamente
cedere, che non ha senso, che è assurdo, che si sta rovinando, che oggi non
si laverà le mani fino all’ora di cena. Capita, a volte, che vinca una
battaglia, ma è raro e tutto sommato inutile. Sta malissimo durante tutto il
periodo in cui cerca di resistere e poi, prima o dopo, sa che ricomincerà a
lavarsi le mani, che l’angoscia avrà comunque la meglio. Il problema della
contaminazione è dunque particolarmente grave, soprattutto perché lo
costringe di continuo a questi comportamenti di lavaggio che lui stesso
giudica assurdi, dei quali si vergogna, che lo fanno star male, che lo
allontanano dagli altri e gli rovinano le mani, ma che non riesce a evitare.
Purtroppo c’è dell’altro. A volte l’angoscia si fa particolarmente
violenta. Il ragazzo viene travolto dal pensiero che, nonostante tutte le
precauzioni prese (ma che non sono mai abbastanza), ha sicuramente
ingoiato un frammento di vetro. Pensa che non gli resti che aspettare, da un
momento all’altro, di rimanere strozzato. Allora ha come l’impressione di
non esserci, come se il cervello se ne andasse per i fatti suoi. Anche questo
lo spaventa molto. Forse, in certi momenti, è la cosa che lo spaventa di più.
Teme, a volte, che siano i primi segnali del fatto che diventerà pazzo. Poi,
per la verità, di solito si tranquillizza. Si rende conto che sono sensazioni
con una durata piuttosto breve e che poi, per il resto del giorno, torna
l’Alberto di sempre, con le sue paure assurde e le sue fissazioni, ma con il
cervello al suo posto. Però, quando capitano, quei momenti sono tremendi:
proprio come se il corpo e la mente si staccassero.
Infine, ci sono i problemi, apparentemente più banali, ma in realtà tanto
importanti per la vita quotidiana. È sempre solo e soffre di questo. Non è
vero che gli piace disegnare chiuso nella sua camera e basta. Gli piaceva
anche giocare a calcio, e lo faceva, solitamente, con qualche amico più
piccolo di lui, fino a qualche anno fa. Ora ricorda di quando il padre lo
portava a un campetto dell’oratorio, nei momenti di libertà dal lavoro,
normalmente il sabato pomeriggio o la domenica mattina, e lo incoraggiava
ad andare a giocare. Mi parla di questo come di una felicità perduta. Mi
dice che già allora si rendeva conto di essere un bambino pieno di problemi,
di paure e di stranezze. Ma che era niente in confronto a come si sente
adesso, continuamente teso, in stato di allerta, in attesa del peggio. Così è
rimasto completamente solo. Gli piacerebbe ancora (eccome se gli
piacerebbe!) fare una partitella a calcio con gli amici (ancora di più gli
piacerebbe se fosse il papà ad accompagnarlo). A volte, a scuola, durante
l’intervallo, ascolta i suoi compagni fare programmi per il pomeriggio o per
la domenica. Lui se ne sta prudentemente in disparte perché ha paura che
qualcuno possa avvicinarsi e tentare di coinvolgerlo in uno di questi
programmi. Sa bene che sarebbe costretto a dire di no, che se dicesse di sì
finirebbe poi per fare una brutta figura e che è quindi più prudente rimanere
ritirato in buon ordine. Però, gli piacerebbe tanto provare qualche volta a
uscire con loro, rompere l’isolamento, divertirsi un po’ come fa suo fratello
tutti i giorni, che riceve cento telefonate e ha mille programmi e forse
addirittura una ragazzina che gli fa la corte. Si può riscontrare un’evidente
tonalità depressiva dietro questi pensieri. Alberto è scontento di sé. Pensa
che con un pochino più di volontà potrebbe vincere certe sue fissazioni e
con un pochino più di coraggio potrebbe uscire con qualche compagno, ma
non ci riesce. La solitudine e la tristezza si mordono la coda, si alimentano a
vicenda, e la sensazione è che l’abbiano come chiuso in gabbia. Così, non
gli restano che i suoi disegni perfetti, i suoi vaghi sogni e le sue angosce
invincibili.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
L’inquadramento diagnostico di Alberto, purtroppo, è piuttosto facile.
Dico “purtroppo” perché il suo disturbo è, probabilmente, tra i più
angosciosi e devastanti, e i vissuti di Alberto ci confermano come abbia un
impatto significativo nelle vite dei bambini e delle loro famiglie e come si
associ inevitabilmente a una disgregazione del funzionamento a scuola, a
casa e nei rapporti sociali.
Le caratteristiche principali sono tre (Dèttore, 2002; Mancini, Capo ed
Episcopo, 2007). La prima è, evidentemente, l’ansia. Fin dai primi momenti
del primo colloquio lo zio ha parlato con insistenza di “fobie”. Il termine,
da un punto di vista strettamente tecnico, è improprio, perché con fobia si
intende un disturbo nel quale l’ansia si limita a produrre, per lo più,
comportamenti di fuga e di evitamento. Abbiamo visto nei capitoli
precedenti, per esempio, come una Fobia sociale tenga lontano un ragazzo
dai suoi compagni di scuola, oppure come una Fobia specifica renda
difficile per una bambina andare a letto da sola. Qui vediamo, invece, che
c’è qualcosa di più della fuga o dell’evitamento, anche se è l’ansia a
generare tutti quei pensieri negativi nei confronti del mercurio, dei
frammenti di vetro, delle piante spinose e della contaminazione. Nel DSM-
5 infatti, il Disturbo ossessivo-compulsivo non rientra più nei Disturbi
d’ansia, ma rappresenta una nuova sezione a sé, insieme ai disturbi ad esso
correlati (Eapen e Crncec, 2014; Zulauf Logoz, 2014).
La seconda caratteristica del disturbo di Alberto è che i suoi sintomi non
si limitano a essere prodotti dall’ansia e a produrre, a loro volta, il tentativo
di allontanarsi o sfuggire dagli stimoli ansiogeni, ma generano anche
pensieri particolari, molto tipici e fonte di molta sofferenza. Il ragazzo non
ha soltanto paura del mercurio quando lo vede o quando ne viene a contatto:
è ossessionato dall’idea che potrebbe esserci del mercurio, anche se non lo
vede e non c’è nessuna ragionevole probabilità che il mercurio sia presente.
È ossessionato dall’idea che la madre potrebbe contagiarlo al ritorno dal
cimitero, anche se, razionalmente, sa bene che questo non può avvenire. È
ossessionato dall’idea che frammenti di vetro, sia pur invisibili, potrebbero
essere finiti sulle sue mani o nel piatto dove vi è il cibo che sta per
mangiare. È ossessionato dall’idea che, senza accorgersene, potrebbe
ingoiare qualcuno di questi frammenti e finire strozzato, oppure morire in
seguito, per le ferite che i vetri gli potrebbero procurare all’apparato
digerente. Si tratta di idee irragionevoli, irrealistiche, persistenti (ad Alberto
vengono centinaia di volte al giorno), inappropriate (Alberto sa che non
dovrebbe avere questi pensieri), intrusive (come se venissero a forza messe
dall’esterno dentro la sua mente: Alberto tenta di resistere, tenta di pensare
ad altro, si dice che sono idee senza senso, assurde e responsabili di un
disagio crescente, ma non c’è niente da fare, sono più forti di lui). Un
pomeriggio, durante una seduta, mi disse che gli avrebbe fatto piacere
mostrarmi il campo da calcio dove andava da bambino con suo padre.
Organizzammo la cosa e fu molto contento di mostrarmi quel posto che gli
suscitava tanti ricordi, sui quali poi avremmo lavorato a lungo nelle sedute
successive. A un certo punto io, per caso, mi trovai a camminare ai margini
del campo, dove l’erba era un po’ più alta, e mi accorsi che il ragazzo non
era più accanto a me. Lo chiamai, ma Alberto mi disse che non poteva
venire. Lo raggiunsi e gli chiesi perché. Mi rispose che nell’erba alta
avrebbe potuto esserci una vipera che avrebbe potuto morderlo. Il campo è
a poche centinaia di metri dal mare. Non ci sono vipere in quella zona e
Alberto lo sapeva bene: però il pensiero che “avrebbe potuto esserci una
vipera” era più forte di lui, era come indipendente dalla sua volontà. Questi
pensieri prendono il nome di ossessioni2 e rappresentano un elemento tipico
di questo disturbo che, proprio da esse, prende la prima parte del suo nome:
Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC).
La terza caratteristica concerne, appunto, le compulsioni. Quando l’ansia
prodotta dai pensieri ossessivi supera un certo livello, non può più essere
controllata né tenuta a bada (generando così una sofferenza troppo forte da
tollerare), allora Alberto ha una via di fuga: lavarsi le mani. Anche qui, su
un piano strettamente razionale, Alberto sa che lavarsi le mani non risolve il
suo problema, non gli eviterà il contagio con il mercurio (che non c’è) e
servirà solo a rovinargli ancora di più la pelle. Però deve farlo, perché se
non lo fa starà ancora peggio, mentre appena si lava le mani l’ansia,
momentaneamente, si placa. Dopo si pentirà di esserci cascato di nuovo, si
ripeterà che deve smetterla, farla finita, controllarsi, che così non può
andare avanti, che non ha senso e mille altre cose del genere. La
compulsione, però, avrà la meglio di nuovo e Alberto si laverà le mani una
volta di più. Le compulsioni possono essere definite come comportamenti
ripetitivi o azioni mentali che il paziente si sente obbligato a mettere in atto
in risposta a un’ossessione o secondo regole da applicare rigidamente.
Lavarsi le mani è un comportamento tipico di compulsione, che si trova di
frequente in questi disturbi, ma ce ne sono altri come controllare (per es.,
mille volte di aver chiuso il rubinetto del gas o la porta di ingresso a chiave)
o riordinare oggetti secondo schemi precisi e rigidissimi (per es., gli abiti e
le scarpe disposti secondo certe regole in camera da letto prima di
addormentarsi). A volte una compulsione, anziché in un comportamento
manifesto, può consistere in una serie di pensieri come contare oggetti o
recitare mentalmente una serie di parole. Le compulsioni sono finalizzate a
prevenire o a ridurre l’ansia, per lo più generata da un’ossessione, in modo
non realistico. Tipicamente, il tentativo di resistere all’ossessione tende ad
aumentare lo stato di tensione che alla fine si dissolve dedicandosi alla
compulsione. Tutto questo genera un circolo vizioso che diventa sempre più
angosciante e sempre più difficile da spezzare.
Per la diagnosi di Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il DSM-5 (o
Sindrome ossessivo-compulsiva secondo l’ICD-10) è necessario specificare
il livello di insight dell’individuo, ovvero la consapevolezza che le
ossessioni siano irragionevoli e che le compulsioni non servano, su un
piano di realtà, a risolvere il problema. I pazienti affetti da DOC si
differenziano notevolmente (Toro-Martinez, 2014; Walitza, 2014; Storch et
al., 2014; Thomsen, 2013): alcuni sono consapevoli dell’insensatezza delle
ossessioni e dell’esagerazione delle compulsioni (insight buono o
sufficiente) e possono essere imbarazzati nel manifestarle; altri invece sono
sicuri della veridicità dei propri pensieri, manifestando un insight
estremamente basso o nullo. Nel nostro caso, per esempio, abbiamo visto
che Alberto sa che è molto improbabile che ci sia del mercurio nel suo letto
e che comunque, se ce ne fosse, lavarsi le mani non servirebbe a salvarlo. Si
tratta di un aspetto importante, perché un buon insight è correlato con una
prognosi migliore (Jacob, Larson e Storch, 2014; Fontenelle et al., 2013).
La diagnosi deve essere completata dall’accertamento del fatto che i
sintomi provochino un marcato disagio e una significativa interferenza nella
vita quotidiana: ciò appare fuori discussione nel caso di Alberto, ma deve
essere tenuto in seria considerazione di fronte a sintomi più lievi o sfumati.
Scagli infatti la prima pietra chi di noi non ha proprio mai bisogno di
nessun rituale prima di andare a letto, o prima di un viaggio, o prima di
sostenere un esame. Quando, tuttavia, un piccolo rituale compulsivo non è
accompagnato da altri significativi problemi, non interferisce nella nostra
vita di tutti i giorni, ma si limita, magari, a darci una mano in alcuni
momenti difficili, non possiamo parlare di disturbo mentale.

Nell’ICD-10 viene fatta una distinzione tra ossessioni e compulsioni basata


sul fatto che si tratti di pensieri, idee o immagini (ossessioni) o atti, azioni
(compulsioni). Mentre dunque in base al DSM-5 le compulsioni possono
essere anche “ideative”, nell’ICD-10 tale possibilità viene esclusa parlando
appunto in questo caso di ossessioni.
Inoltre l’ICD-10 stabilisce che i sintomi, per l’attribuzione diagnostica,
debbano avere una durata minima di 2 settimane.
Il Disturbo ossessivo-compulsivo è frequentemente associato a sintomi
depressivi, come abbiamo visto anche nel nostro caso, ed è a volte possibile
la doppia diagnosi. Altrettanto frequentemente (soprattutto nei bambini) è
associato ad altri Disturbi d’ansia, in particolare a Fobie specifiche,3 Fobie
sociali4 e Disturbo d’ansia generalizzati,5 al Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività6 e a Disturbi specifici dell’apprendimento7 (March e
Leonard, 1996; House, 1999; Iacchia, 2003; Brady, 2014; Brem, Grunblatt,
Drechsler, Riederer e Walitza, 2014; Camuri et al., 2014; Huang et al.,
2014; Pallanti e Grassi, 2014). Altri studi invece, suggeriscono come il
“perfezionismo clinico” svolga un ruolo importante nello sviluppo e nel
mantenimento del Disturbo ossessivo-compulsivo negli adulti come nei
bambini (Reuther et al., 2013; Martinelli et al., 2014; Soreni et al., 2014). Il
perfezionismo va distinto dalla “salutare ricerca di eccellere” (Burns, 1993),
che è funzionale e positiva e spesso associata a soddisfazione personale, a
un aumentato senso di autostima, creatività ed entusiasmo, in cui l’errore è
visto come una possibilità di apprendimento. Il “perfezionismo malato”,
invece, è caratterizzato dalla paura di fallire, da un’insoddisfazione costante
per i propri risultati, da autocriticismo quando si sbaglia e da
interpretazione degli errori come indicatori di fallimento come essere
umano; il perfezionista si pone standard irrealistici e si sforza per
raggiungerli avendo spesso un’attenzione selettiva agli errori e non ai
successi, ha dubbi costanti sulla capacità di portare a conclusione un
compito in modo corretto e il timore delle critiche. L’Obsessive Compulsive
Cognition Working Group (1997) ha definito il perfezionismo “la tendenza
a credere che ci sia una soluzione perfetta per ogni problema, che fare
perfettamente (per esempio senza errori) non solo è possibile, ma anche
necessario, e che ogni minimo errore avrà serie conseguenze”. Nelle ultime
ricerche, inoltre, contrariamente a quanto si riteneva in passato, si ipotizza
una correlazione con il Disturbo di personalità ossessivo-compulsivo (De
Caluwé, Rettew e De Clercq, 2014; Starcevic e Brakoulias, 2014; Sun, Li,
Buys e Storch, 2014).
Sempre in passato, si pensava che tale disturbo fosse molto raro nei
bambini e, in generale, prima della pubertà. Negli ultimi anni la ricerca
epidemiologica sembra invece dimostrare che, anche in età prepubere, il
disturbo compaia con una certa frequenza: oggi si parla di una prevalenza
dall’1 al 4% con punte massime di incidenza a quindici e a venticinque anni
(Rutter, 1995; House, 1999; Rapaport e Ismond, 2000; Mancini, Capo ed
Episcopo, 2007; Tassin, Reynaert, Jaques e Zdanowicz, 2014; Wells, 2014).
Chacon et al. (2014) hanno riscontrato nel Disturbo ossessivo-compulsivo
con esordio prima dei 10 anni una più elevata frequenza di compulsioni di
tipo ticcoso, una maggior comorbilità con il Disturbo da tic e una minore
risposta al trattamento farmacologico.
Nei bambini e negli adolescenti il disturbo è spesso centrato sui rituali
dell’addormentamento e associato a pensieri di morte. I temi più ricorrenti
dei pensieri ossessivi sono la contaminazione (che abbiamo visto
ampiamente); l’aggressività (pensieri intrusivi di far male a qualcuno); la
sessualità vissuta per lo più come sporca e proibita (un ragazzo che veniva
da me era ossessionato dal pensiero di avere un rapporto sessuale con una
suora); la scrupolosità; la religiosità eccessiva; il bisogno, appunto
ossessivo, di confessione; l’ossessione per la simmetria. Le più frequenti
compulsioni sono invece centrate sul lavare e sul controllare (tanto che
alcuni distinguono due forme del disturbo: una detta appunto “di lavaggio”
e l’altra “di controllo”). Seguono il ripetere (per lo più una lista di parole
con funzione “magica”); il toccare; il contare; l’ordinare; l’accumulare; il
pregare (March e Leonard, 1996). La distinzione tra sintomi DOC e
comportamenti ossessivi e compulsivi normalmente presenti in età
evolutiva avviene in base alla frequenza, al contenuto e alla gravità,
considerando inoltre che una componente di pensiero magico è
normalmente presente nei bambini, associata a rituali superstiziosi. In
questo caso però le compulsioni non causano stress, ma al contrario
contribuiscono a dare un senso di controllo, efficacia e prevedibilità al
mondo (Leonard, Goldberger, Rapoport, Cheslow e Swedo, 1990).
È dimostrata una significativa familiarità del disturbo. Si trovano spesso,
nelle famiglie, importanti Disturbi d’ansia (e, ovviamente, il Disturbo
ossessivo-compulsivo prima di tutto); Disturbi depressivi e Disturbi da tic:
in particolare, si ipotizza che il Disturbo ossessivo-compulsivo e il Disturbo
di Tourette possano essere espressioni fenotipiche diverse di un unico
genotipo (March e Leonard, 1996; Grados, 2010; Mol Debes, 2013). A
quest’ultimo proposito, ricerche recenti hanno messo in luce una
comorbilità del Disturbo ossessivo-compulsivo non solo con il Disturbo di
Tourette, ma anche con il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività
(Pollak et al., 2009; Mathews e Grados, 2011; O’Rourke et al., 2011;
Lebowitz et al., 2012). Sono sempre rimasto colpito, non solo e non tanto
per averlo letto sui libri, ma soprattutto per averlo visto tante volte nella mia
pratica professionale, dalla enorme variabilità della gravità del disturbo.
Penso, da una parte, a un ragazzina di undici anni, Alessandra, che aveva
dei rituali di addormentamento connessi all’ossessione che un estraneo
sarebbe potuto entrare di notte nella sua camera e farle del male. Nel
ricostruire la storia avevo saputo che aveva sofferto da piccola di una forma
lieve di Disturbo d’ansia di separazione che non era mai stato trattato.
Adesso, invece, per tenere sotto controllo l’ansia che il pensiero
dell’estraneo le provocava, aveva bisogno di verificare che la persiana della
camera fosse chiusa, purché restassero sette sottili strisce aperte, dalle quali
i primi raggi del sole del mattino sarebbero arrivati a rasserenarla; che sotto
la scrivania non ci fosse nessuno nascosto; che dagli armadi fossero tolte
tutte le sciarpe, le cinture e le stringhe con le quali l’estraneo avrebbe
potuto, durante la notte, strangolarla; che nello zaino preparato per la scuola
non ci fosse il bianchetto, che lei stessa provvedeva a togliere per posarlo
sul tavolo da cucina per ricordarsi di riprenderlo la mattina a colazione,
perché aveva letto che il liquido del bianchetto è infiammabile e dunque
l’estraneo penetrato nella sua camera avrebbe potuto usarlo per darle fuoco.
Ci sono pochi dubbi che si trattasse dunque di un Disturbo ossessivo-
compulsivo, eppure la ragazzina era, da ogni altro punto di vista, normale,
serena, molto ben socializzata. Teneva ben nascosti, fuori dall’ambito
familiare, questi suoi problemi, che creavano invece a lei e alla famiglia un
disagio molto forte, e così nessuno, né tra i suoi amici, né tra i suoi
insegnanti, né tra i parenti avrebbe mai detto che aveva il sia pur minimo
disturbo psicologico. Anche nel rapporto terapeutico con me era
consapevole, ben orientata, collaborativa: lavorare con lei era facile,
piacevole e di grande soddisfazione.
D’altra parte, penso invece a un diciassettenne con un Disturbo
ossessivo-compulsivo così devastante da farlo spesso apparire folle, o, se
devo usare un termine meno impegnativo, fuori dalla realtà. Il nucleo
principale del suo disturbo sembrava connesso ad alcune modalità rigide di
studio. Sosteneva che per poter affermare di avere veramente studiato il
capitolo di un libro, doveva attenersi rigorosamente ad alcuni schemi.
Probabilmente la cosa era iniziata così, quasi come un “normale” metodo di
studio, con schemi che consistevano nel leggere il testo un paio di volte,
sottolinearne i passi salienti, riassumerli per iscritto e così via. Negli anni,
però, questi schemi si erano via via complicati fino ad assumere connotatati
mostruosi per complessità e rigidità. Quando lo vidi io (per poche sedute,
perché mi fu subito chiaro che non sarei riuscito ad aiutarlo; lo inviai poi a
uno psichiatra che mi confermò la diagnosi di Disturbo ossessivo-
compulsivo e lo trattò quasi esclusivamente con una farmacoterapia), la
necessità di applicare gli schemi si era estesa a ogni tipo di lettura.
Sosteneva che lo schema serve a dare valore alla lettura e che una lettura
senza schemi diventa inutile e serve solo a creare ansia. Per superare
quest’ansia aveva progettato di rileggere, applicando gli schemi, tutti i libri
della scuola primaria e della secondaria di primo grado che, all’epoca,
aveva letto senza applicare gli schemi. Inoltre, gli schemi si erano
progressivamente complicati nel senso che era necessario fare un numero
fisso di letture a voce alta, seguite da un numero fisso di letture silenti; era
poi necessario registrare quanto letto e riascoltarlo, di nuovo un numero
fisso di volte. Passava chiuso nella sua camera l’intera giornata per mettere
a punto schemi sempre più precisi e complessi.
“Abbandonare gli schemi potrebbe essere la morte”, mi disse.
Dal momento che si rendeva conto che non sarebbe mai riuscito a
realizzare il suo progetto di rileggere tutti i libri e che la cosa, oltre che
irrealizzabile, era anche assurda e serviva soltanto a farlo star male, cercava
adesso quello che chiamava un “superschema” in grado, in qualche modo,
di riassumerli tutti e di salvarlo da questa situazione. Era inoltre depresso,
completamente isolato da un punto di vista sociale e, sebbene conservasse
una “coscienza di malattia”, nel senso che si rendeva conto dell’assurdità di
questi schemi e del fatto che avrebbe dovuto abbandonarli, a volte, durante
il colloquio, i nessi con la realtà apparivano molto allentati.
Ho citato rapidamente questi due esempi perché si collocano su punti
molto distanti del continuum rappresentato dal Disturbo ossessivo-
compulsivo, all’interno del quale si possono trovare, da un lato,
manifestazioni quasi-normali o clinicamente molto lievi e, da un altro,
forme di disturbo mentale particolarmente gravi. Spero che i due casi
possano servire a dare un’idea dell’estrema variabilità di questo Disturbo
d’ansia particolarissimo. In letteratura è riportato di frequente come, in
alcuni casi molto gravi, il Disturbo ossessivo-compulsivo possa
rappresentare la zona di confine con disturbi a evoluzione psicotica (Tiryaki
e Ozkorumak, 2010; Bosanac, Mancuso e Castle, 2013; Zink et al., 2014;
nella terminologia del DSM-5, si veda la sezione Disturbi dello spettro della
schizofrenia e altri disturbi psicotici).

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO E


PROGNOSI
Il primo passo, con Alberto, fu quello di lavorare su un effetto secondario
del suo disturbo: l’isolamento sociale (Johnson, 1999 ; Hauschildt e Moritz,
2011). Questo era stato, d’altra parte, il primo motivo di disagio con cui il
ragazzo aveva cominciato ad aprirsi con me. Discutemmo a lungo della
possibilità di tentare di inserirsi un po’ di più nella vita della classe.
Discutemmo anche dei rischi che ciò poteva comportare, cercando però di
evitare la trappola dei pensieri catastrofici. Una volta preparato così il
terreno, sia da un punto di vista cognitivo-emotivo, sia con qualche
esperienza più comportamentale di role playing e di training assertivo,
provai ad assegnargli dei veri e propri compiti su questi obiettivi sociali
(Freeman e Greenwood, 1986; Beck, 1976, 1993; Mariano, 1996). In questa
prima fase della terapia fui fortunato. Un pomeriggio mi raccontò di una
uscita di qualche ora con un compagno di scuola con il quale stava
timidamente cercando di fare amicizia. Era la terza o quarta volta che
uscivano insieme. Passeggiando per la città avevano incontrato alcune
compagne del loro istituto e il suo amico aveva cominciato a parlare di
ragazze. Si erano scambiati qualche timida confidenza, per lo più da
ragazzini “imbranati”, impacciati, maldestri, nel senso che anche l’altro,
come Alberto, era piuttosto timido e non aveva nessuna esperienza con
l’altro sesso (ovviamente non era un caso che si fossero scelti). A un certo
punto, confidenza per confidenza, l’amico, con l’aria di chi sta per rivelare
un grande segreto, aveva tirato fuori dalla tasca un oggetto che lui chiamava
“scacciapensieri” che aveva comprato insieme ai genitori durante un
viaggio in Medio Oriente, molti anni prima, quando il padre e la madre
vivevano insieme e il divorzio, che avrebbe sconvolto la sua vita, era ancora
lontano. Raccontò ad Alberto che non si separava mai da questo oggetto,
che gli dava sicurezza sentire che lo aveva in tasca, che in certi momenti,
quando era particolarmente triste o nervoso, provava il bisogno di toccarlo
per rasserenarsi. Aggiunse che si sentiva molto scemo per questo, ma non
poteva farne a meno, e sperava che Alberto non lo avrebbe giudicato troppo
male. Per tutta risposta, Alberto tirò fuori di tasca la sua boccetta e gli
raccontò la sua storia. Era molto contento nel raccontarmi questo episodio,
che gli parve un grande passo avanti sulla strada della sua possibilità di
rompere l’isolamento, farsi qualche amico e accettarsi un po’ di più per
quello che era: un ragazzo sofferente con alcuni problemi psicologici che
valeva la pena di provare ad affrontare, ma non un mostro con disturbi
rarissimi e vergognosi.

pag. 259

In seguito fui meno fortunato, nel senso che non sempre la terapia andò
nella direzione che avrei desiderato. Per un certo periodo ebbe bisogno di
un supporto farmacologico e alla fine lo persi del tutto di vista. Ciò non
significa, però, che non riuscimmo a ottenere qualche risultato. Gli insegnai
i metodi di auto-osservazione e di analisi funzionale e lo invitai a
tenere in questo modo una specie di diario del suo comportamento inerente
al lavaggio delle mani. Potemmo così lavorare sulla presa di
consapevolezza delle situazioni che maggiormente gli creavano un’ansia
tale da indurlo a lavarsi le mani, e utilizzammo alcune metodologie di
“arresto del pensiero” che consistevano nell’imparare a dire a se stesso
“STOP” e interrompere la catena dei pensieri quando sentiva l’insorgere di
un’idea ossessiva e prima che l’ansia gli rendesse impossibile conservare il
controllo della situazione. Lo “stop del pensiero” può essere una strategia
utile anche per cercare di controllare il rimuginio, o worry, una modalità di
pensiero presente nel Disturbo ossessivo-compulsivo e nei Disturbi d’ansia.
Il rimuginio è, infatti, un fenomeno mentale che si accompagna all’ansia e
contribuisce al mantenimento del Disturbo ossessivo-compulsivo (Dar e
Iqbal, 2014). La sua caratteristica fondamentale è la ripetitività e la capacità
pervasiva di occupare lo spazio mentale. Il soggetto rimuginatore ha sempre
paura che le cose vadano male, ritiene di dover tenere tutto sotto controllo
ed è ossessionato dal timore di un danno irreparabile, con scarsa
rappresentazione di scenari concreti (Clark, 2005).

pag. 151

pag. 402
A volte provavamo questi esercizi in studio. Alberto si sdraiava sul
lettino per il rilassamento, si metteva comodo, a suo agio, con gli occhi
chiusi e io lo portavo a immaginare situazioni e soprattutto pensieri temuti
(“Ecco, ci potrebbe essere del mercurio, ora mi verrà in mente che ci
potrebbe essere del mercurio e perderò la testa dietro questo pensiero”), a
“urlare” immediatamente dentro di sé la parola “STOP” e a interrompere la
catena dell’ansia prima che fosse troppo tardi.
A casa, intanto, continuava l’auto-osservazione e io mi servivo dei dati
per costruire un grafico dell’andamento delle compulsioni e per rinforzarlo
quando questi dati mostravano un decremento. Cercai anche di insegnargli
ad autorinforzarsi imparando a riconoscere i suoi successi anche quando
questi erano parziali, molto limitati e sicuramente al di sotto delle sue
aspettative (a volte irrealistiche e irrazionali: non devo assolutamente mai
avere certi pensieri e non devo lavarmi le mani più di due volte al giorno).
In questo modo cercavo di introdurre nuove abilità di autocontrollo dei
comportamenti ossessivi e compulsivi che però, purtroppo, non vennero
mai del tutto acquisite (Beck, 1976; 1993).
Cominciammo poi, sia in studio sia all’esterno, esperienze di
esposizione graduale e modellamento . Mi ero procurato del
mercurio e, in una prima fase, Alberto riuscì a osservarmi mentre con una
penna giocavo con una grossa goccia di mercurio e la dividevo in tante
gocce più piccole senza provare ansia eccessiva e senza doversi
immediatamente lavare le mani. In questo modo, all’esposizione graduale e
al modellamento, cercavo di aggiungere anche una tecnica di prevenzione
della risposta, che consiste nell’impedire che il paziente emetta la risposta
disadattiva: in questo caso, la compulsione a lavarsi le mani. La risposta
non viene così rinforzata dall’immediata attenuazione dell’ansia e tende
dunque a estinguersi gradualmente.

pag. 365

pag. 258

Il modellamento fu anche molto utile in alcune circostanze esterne.


Riuscì, per esempio, a venire con me in un bar, ordinare un toast e
mangiarlo senza doversi lavare le mani e senza dover controllare che il
barista non avesse messo nel pane mercurio o frammenti di vetro.
Riuscimmo anche, dopo un certo lavoro di desensibilizzazione sistematica
in studio, a tornare al campetto di calcio dove mi aveva portato quella
prima volta e a passeggiare nell’erba alta. Purtroppo, invece, non riuscii mai
a esporlo direttamente al mercurio.

pag. 365

Nella tradizione della terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo


ossessivo-compulsivo si trovano anche le tecniche di desensibilizzazione
sistematica più strutturata – sia in immaginazione, sia in vivo –, il flooding,
i rituali obbligati e soprattutto il biofeedback, anche se prevalentemente
utilizzate su adulti piuttosto che in età evolutiva (Sanavio, 1978b; Dèttore,
2002; Deng et al., 2014). Più di recente, Williams et al. (2009) e Kircanski e
Peris (2014) hanno dimostrato attraverso una ricerca clinico-sperimentale
svolta su bambini e adolescenti l’efficacia della terapia cognitivo-
comportamentale per il Disturbo ossessivo-compulsivo, con particolare
riferimento alle tecniche di esposizione e prevenzione della risposta. Inoltre,
dal momento che la ricerca evidence-based conferma come spesso l’ERP
(Esposizione con Prevenzione della Risposta) risulti un trattamento di
difficile attuazione a causa di problemi “tecnici” – come la difficoltà a
ricreare in studio gli stimoli ansiogeni in grado di evocare l’ansia, la
difficoltà a seguire le istruzioni fuori dalla seduta e i problemi economici –
Vogel et al. (2014) hanno sottolineato anche l’efficacia dell’utilizzo di
videoconferenze e assistenza telefonica da parte del terapeuta durante il
trattamento ERP. Lo studio evidenzia tuttavia che anche metodologie di
intervento che tengano conto degli aspetti cognitivi dei piccoli pazienti e
lavorino sulla ristrutturazione mostrano una notevole efficacia. A
conclusioni analoghe, d’altra parte, erano già pervenuti, in Italia, sia Iacchia
(2003), che propone un lavoro centrato sulla dilazione della risposta,
l’arresto del pensiero, l’analisi dei pensieri intrusivi e l’accettazione delle
proprie emozioni, sia Mancini, Capo ed Episcopo (2007), che pongono
l’accento sulla ristrutturazione cognitiva con un particolare focus sul senso
di colpa: interessante a questo proposito è il lavoro che gli Autori fanno con
i bambini con Disturbo ossessivo-compulsivo quando chiedono loro di
quantificare (attraverso percentuali e grafici a torta) la responsabilità
personale che secondo loro hanno nel produrre eventi negativi (per
esempio: “In che misura dipende dal fatto che non hai toccato tre volte il
comodino prima di addormentarti se il giorno dopo ti andrà male
un’interrogazione?).
Uno studio pilota messo a punto da Armstrong (2011) ha evidenziato
l’efficacia del protocollo ACT (Acceptance and Commitment Therapy)
rivolto a soggetti in età evolutiva affetti da Disturbo ossessivo-compulsivo.
L’esito dell’intervento ha consentito una significativa riduzione della
frequenza delle compulsioni e sono state osservate riduzioni significative
anche per i comportamenti secondari. Un dato molto interessante che
emerge da questa ricerca riguarda la buona aderenza dei bambini e dei loro
familiari al trattamento: contrariamente all’ERP, che è ritenuta molto
impegnativa al punto che molti soggetti abbandonano, l’ACT non sembra
creare alcun disagio. Sempre secondo Armstrong, il fatto che l’ACT sia
ritenuto accettabile è probabilmente dovuto a una serie di fattori come, ad
esempio, l’utilizzo di metafore ed esercizi esperienziali che vengono
valutati flessibili e non direttivi. Per esempio, l’esercizio della torta al
cioccolato, in cui i pazienti sono invitati a non pensare a una torta al
cioccolato, può essere utilizzato per evidenziare l’inutilità dell’evitamento
esperienziale, mentre la metafora della guerra promuove l’accettazione
delle esperienze interne avversive incoraggiando il soggetto a “lasciare
andare la corda” della lotta contro le emozioni e iniziare a vivere.

pag. 333

La ricerca sulla prognosi del Disturbo ossessivo-compulsivo parla


genericamente di un 50% di possibilità di remissione quasi completa dei
sintomi (e purtroppo Alberto non è risultato appartenere a questa categoria:
lo incontro ancora, a volte, dopo molti anni, ci fermiamo per la strada e mi
racconta di sé, e non sta affatto bene). Tuttavia non è chiaro in che termini
stia il problema della ricaduta. Tali dati, inoltre, avrebbero bisogno di una
revisione continua, dal momento che negli ultimi anni la ricerca
psicofarmacologica in questo ambito ha fatto progressi tali che è possibile
pensare che molte forme di Disturbo ossessivo-compulsivo avranno in
futuro evoluzioni completamente diverse rispetto a quelle alle quali siamo
stati fino a oggi abituati (Dèttore, 2002). D’altra parte, studi molto più
recenti non sembrano fornire risultati significativamente diversi. Zellmann
et al. (2009) parlano ancora di un 50% di bambini e adolescenti che
continua ad avere un Disturbo ossessivo-compulsivo in età adulta, di un
20% che mantiene sintomi del disturbo, anche se in forma subclinica, e di
un 70% che soffre ancora di un qualche disturbo incluso nel DSM-5. Sono
invece oggi molto incoraggianti i dati di follow-up dopo la terapia
cognitivo-comportamentale, che sembrano indicare che l’efficacia di questo
intervento su bambini con Disturbo ossessivo-compulsivo si mantenga a 7
anni di distanza (O’Leary, Barrett e Fjermestad, 2009).
Questo mi fa tornare in mente la storia di Alessandra, alla quale insegnai
i metodi di auto-osservazione delle compulsioni (controllare la chiusura
della persiana, le sette strisce dalle quali fare entrare la luce del giorno, la
persona eventualmente nascosta sotto la scrivania, le sciarpe, le cintole e le
stringhe, il bianchetto). Come spesso succede nei casi meno gravi, già la
semplice esperienza di auto-osservazione produce una diminuzione nella
frequenza dei sintomi, probabilmente attraverso un’esperienza costruttivista
di autocontrollo. Il paziente si rende conto, anche solo osservando le sue
compulsioni e tenendo un diario da portare in terapia, che queste non sono
del tutto indipendenti dal suo controllo, non sono comportamenti estranei
che vengono dall’esterno e contro i quali non c’è niente da fare, ma
comportamenti che possono, per lo meno, essere riconosciuti e analizzati.
Fatto questo, fissammo insieme degli obiettivi a difficoltà crescente: non
guardare sotto la scrivania, controllare che la persiana fosse chiusa, ma non
contare più il numero di strisce lasciate semiaperte e così via. Alessandra
trovava molto divertente costruire le schede di osservazione sistematica, la
gerarchia degli obiettivi e i grafici dell’andamento del suo autocontrollo con
il computer. Da me, in seduta, studiavamo come fare le schede di
osservazione e Alessandra le salvava su un dischetto. Poi, a casa,
risistemava tutto e stampava le schede con la sua stampante a colori. I
rinforzatori sociali che potevo sistematicamente darle quando, la seduta
successiva, mi portava queste schede ordinate, coloratissime, e con qualche
buon risultato, sarebbero stati secondo me più che sufficienti per tenere alta
la sua motivazione ad andare avanti nel programma di autocontrollo su
obiettivi a difficoltà crescente. Inoltre, le avevo insegnato ad autorinforzarsi
con delle faccine sorridenti (i cosiddetti smile) da mettere a fianco di ogni
sera andata particolarmente bene: anche questo le piaceva molto e le dava
molta soddisfazione. Tuttavia, la madre era così contenta di vedere i
progressi della figlia (che valutava soprattutto attraverso la riduzione del
tempo necessario ad Alessandra per andare a letto e addormentarsi) che
spontaneamente, senza che io avessi concordato nulla con lei, la gratificava
in mille modi per questi miglioramenti. Un pomeriggio, in seduta, parlavo
con Alessandra di rinforzatori e premi e lei mi disse:
“Ma per me il premio più grande è vedere la mia mamma contenta”.
Sono passati un paio d’anni, Alessandra ha avuto alcuni episodi
distimici,8 soprattutto in relazione alla grave malattia invalidante di una
nonna alla quale era molto affezionata, ma i suoi progressi nel controllo dei
rituali di addormentamento si sono per ora mantenuti e non mi risulta ci
siano state ricadute.
Scrivevo queste parole nel 2002, quando lavoravo alla prima edizione di
questo libro. Sono passati altri 7 anni, Alessandra adesso studia Scienze
dell’Educazione e così mi capita di vederla perché ha bisogno di un libro o
di una “dritta” per un esame. Mi sembra che stia bene e per me è molto
bello vedere che a volte un vecchio paziente ha ancora bisogno di me, ma
per cose molto diverse da quelle legate a un’antica sofferenza.
1 Si tratta di un disturbo caratterizzato da movimenti involontari ripetitivi (tic a carico del capo e di
altre parti del corpo) accompagnati da tic vocali (suoni, grugniti, guaiti, colpi di tosse, parole). Forse
anche lo zio di Alberto ne è affetto e, come vedremo più avanti, c’è una relazione di familiarità tra il
Disturbo di Tourette e il Disturbo ossessivo-compulsivo.
2 Il termine “ossessione” deriva dal latino obsidere, che significa cingere d’assedio. L’etimologia
rende bene (molto meglio degli acronimi – oggi troppo di moda – come DOC) una caratteristica
fondamentale del sintomo e anche del disturbo. Non a caso ho la sensazione che Alberto combatta
una guerra contro sé stesso. Anche lui ha questa sensazione: tenta di resistere ai suoi pensieri, ma
finisce per cedere; le idee che lo cingono d’assedio sono più forti di lui.
3 Vedi capitolo 15.
4 Vedi capitolo 16.
5 Vedi capitolo 14.
6 Vedi capitolo 11.
7 Vedi capitoli 7 e 8.
8 Vedi capitolo 24.
Capitolo 18

Mutismo selettivo
Fabio Celi

LA STORIA DI MARTA
Il primo contatto con Marta avviene attraverso la pedagogista della scuola
dell’infanzia, che mi telefona e mi chiede un appuntamento per parlami di
una bambina. Già questo è un po’ strano per le abitudini della pedagogista,
che conosco da anni e che solitamente usa il telefono per parlarmi dei
problemi e delle difficoltà dei bambini della sua scuola.
Ho l’impressione che Marta rappresenti, però, un motivo di
preoccupazione speciale per la pedagogista, e questa impressione mi viene
confermata quando ci incontriamo. Il principale motivo di preoccupazione
riguarda la diagnosi e, conseguentemente, come comunicarla ai genitori.
Marta ha ormai cinque anni compiuti ed è una bambina strana; secondo lei e
secondo le maestre (che non hanno mai visto niente di simile), è una
bambina indecifrabile. Ha appena iniziato il suo terzo e ultimo anno di
scuola dell’infanzia (è la fine di settembre) e non parla. O meglio: nessuno
l’ha mai sentita parlare. Eppure non sembra una bambina autistica. La
pedagogista ne ha visti tanti, nella sua carriera, di bambini “psicotici”
(come ancora spesso si chiamano, soprattutto in ambiente scolastico, i
soggetti con Disturbo dello spettro dell’autismo): ne ha visti di più e di
meno gravi; alcuni, per esempio, erano capaci di parlare, anche se a modo
loro; altri, anche se non parlavano, mostravano in qualche modo la loro
intelligenza; altri ancora sembravano proprio fuori dal mondo. Marta, però,
è diversa, è completamente diversa; i bambini “psicotici”, infatti, hanno
tutti qualcosa di strano, di bizzarro, di inquietante, di fuori dalla realtà – mi
dice la pedagogista –, mentre Marta appare soltanto un po’ timida, un po’
intimorita dal rapporto con gli altri, peraltro come tanti altri bambini nella
scuola dell’infanzia, anche più riservati e isolati di lei. Però non dice una
parola. Mai. Nessuno ha mai sentito la sua voce.
La pedagogista sente il bisogno di aggiungere subito che la bambina non
ha praticamente frequentato la scuola il primo anno, forse perché all’inizio
piangeva, era a disagio e la mamma decise di non portarla più. Durante tutto
il secondo anno, cioè l’anno scorso, ha invece frequentato regolarmente, si
è ambientata sempre meglio, in alcune attività (come il disegno) è una delle
più brave e perciò le maestre si aspettavano che, da un momento all’altro, si
facesse coraggio e cominciasse a parlare. Ecco perché, finora, non hanno
avuto il coraggio di consigliare esplicitamente ai genitori di portarla da uno
psicologo. Non che non ci fosse il problema. Non che le maestre non se ne
fossero accorte: impossibile non accorgersi di una bambina che non dice
mai una parola; anche i compagni se ne sono accorti e, anzi, le maestre
hanno avuto il loro bel daffare per evitare che questo diventasse
un’occasione di scherno nei confronti di Marta. Ma proprio non sapevano
come spiegarlo alla madre. Gliene avevano parlato, naturalmente, più volte.
La madre, però, ostentava tranquillità, diceva che a casa parlava
tranquillamente (ma sarà vero?), certe volte anche troppo, che era serena e
andava a scuola volentieri e così le maestre non hanno mai trovato il modo
per consigliare una consulenza specialistica.
Poi è arrivata l’estate, è tornato settembre, hanno riaperto le scuole e
tutte loro speravano proprio che il problema si sarebbe risolto da solo.
Invece, siamo punto e da capo, l’anno prossimo Marta comincerà la scuola
primaria e non si può proprio continuare a far finta di niente.
“Non potresti venire in classe a dare un’occhiata?”.
Chiarisco che, naturalmente, non lo posso fare, come non posso fare
nessun’altra cosa se prima non ho parlato con i genitori e avuto la loro
autorizzazione a intervenire sulla bambina. Capisco, però, che questo mette
la pedagogista in difficoltà. Né lei né le maestre sanno cosa dire alla madre,
come giustificare la richiesta di una consulenza psicologica e come
giustificare perché proprio adesso. Come dicevo fin dall’inizio, è prima di
tutto la diagnosi che preoccupa la pedagogista. Che cos’ha Marta? Perché
non parla, pur sembrando intelligente e, a parte una certa timidezza,
perfettamente normale?
Gioco un po’ di anticipo e dico che, da quello che ho sentito fino a quel
momento, la bambina potrebbe avere un Mutismo selettivo. (I criteri
diagnostici adottati dal DSM-5 e dall’ICD-10 per poter porre una diagnosi
di Mutismo selettivo sono gli stessi. Nell’ICD-10 questo disturbo viene
riportato come Mutismo elettivo.)
Spiego alla pedagogista che cosa significa questa espressione e già mi
sembra che la cosa la tranquillizzi. Forse era il mistero del comportamento
della bambina a metterla in difficoltà. Il fatto che questo apparente mistero
abbia invece un nome, rappresenti un disturbo conosciuto e descritto,
attenua le incertezze e i dubbi. Infatti, a questo punto diventa più facile
concordare che le maestre parleranno alla mamma, le descriveranno il
comportamento di Marta, le diranno che avrebbero bisogno di qualche
consiglio su che cosa fare, anche in considerazione che l’anno prossimo la
bambina frequenterà la scuola primaria, e la inviteranno a prendere un
appuntamento con uno specialista.
Le cose si svolgono proprio come le abbiamo programmate.
La mamma di Marta viene da me da sola, chiarendo subito che il padre
non è potuto venire perché è sempre molto impegnato sul lavoro. Aggiunge,
sempre spontaneamente, che lei è venuta su richiesta delle maestre, che le
hanno segnalato un’eccessiva timidezza della bambina, e le hanno
consigliato di farla vedere da me.

Le chiedo se anche lei ha notato questa timidezza, ma la mamma mi dice


che a casa si comporta in modo normale, è estroversa e non sembra avere
altri problemi. Le domando allora se pensa che le maestre abbiano
esagerato nel chiedere questa consulenza. La madre riflette un po’ su questa
domanda e poi mi risponde di no, che non crede che le maestre, dal loro
punta di vista, abbiano esagerato. Marta, infatti, con i coetanei è molto
timida. Fuori dall’ambito familiare parla pochissimo e spesso a voce molto
bassa e, quindi, può capire che anche a scuola succeda qualcosa di simile e
che le maestre siano preoccupate.
La storia (gravidanza, parto, sonno, alimentazione, prime parole e
deambulazione) è negativa. Il pediatra (che conosco da anni: un uomo di
grandissima esperienza, ma un po’ all’antica) ha detto alla madre che la
bambina sta benissimo, non ha certo bisogno dello psicologo ed è
sufficiente che le maestre tentino di coinvolgerla. Anche il linguaggio, sul
quale concentro un po’ di più l’attenzione, è adeguato, con il solo piccolo
problema di un rotacismo, peraltro molto simile a quello del padre.
L’inserimento alla scuola dell’infanzia, il primo anno, fu molto
problematico:
“Sicuramente Marta è una bambina timida, lo è sempre stata, e quindi
proprio non si trovava con i compagni sconosciuti e non si voleva staccare
da me”.
La conclusione è stata che ha frequentato pochissimo durante il primo
anno, ma l’anno successivo, forse perché era cresciuta e diventata più sicura
di sé, la situazione è notevolmente migliorata. Ha iniziato fin quasi da
settembre a frequentare regolarmente e poi è andata sempre volentieri.
“Certo, questo lo vedo anch’io quando la accompagno o la vado a
riprendere, con i compagni non parla. Ma io credo che sia soprattutto
timidezza, che abbia come paura di farsi avanti”.
“Non parla con i compagni ma neppure con le insegnanti, vero?”,
chiedo.
“No, credo di no. Fuori casa è difficile che parli, a meno che non
incontriamo qualche parente o qualche amico di famiglia. Con gli altri
bambini, anche se sono amici di scuola, magari gioca, per esempio ai
giardini pubblici, ma parlare mai”.
Tutto il resto sembra nella norma e la mamma continua a sottolineare
che, se non fosse per questa paura di parlare, se qualcuno la vedesse
soltanto quando è al sicuro a casa, non sembrerebbe possibile neppure
pensare che Marta abbia dei problemi e debba essere portata dallo
psicologo.
In famiglia sono in quattro. Il padre lavora in una segheria di marmo
come operaio specializzato. La madre tiene la contabilità in un’altra azienda
di lavorazione del marmo. Hanno una figlia, maggiore di otto anni rispetto a
Marta, molto matura, con la quale la bambina va d’accordo e che a volte le
fa anche un po’ da mamma. In questi ultimi tempi, per esempio, le sta
insegnando le lettere dell’alfabeto e Marta si diverte molto e sembra anche
che impari.
L’ultimo argomento che di solito affronto durante il primo colloquio
con i genitori potrebbe rivelarsi, in questo caso, particolarmente
delicato. Si tratta di come preparare la bambina a un incontro con me. La
mamma mette subito le mani avanti e mi dice che non mi devo aspettare
che parli. Chiarisco e la tranquillizzo. Il fatto che non parli non è certamente
un problema per me: si tratta di vedere, però, che cosa dire alla bambina,
come spiegarle dove la stanno portando e perché. Il resto lo vedremo
momento dopo momento. Sicuramente, Marta entrerà insieme alla mamma,
magari le chiederò di disegnare o di fare un gioco qualsiasi dove non c’è
bisogno di linguaggio verbale.

pag. 49

La mamma sembra un po’ spaventata delle possibili reazioni della


bambina di fronte a un estraneo. Mi chiede se può dire alla figlia che noi
due siamo amici e che, quindi, verranno da me come si va a trovare a un
amico. Rispondo che mi rendo conto dei suoi timori, ma che questa non mi
sembra una buona idea. In linea di massima non mi sembra mai una buona
idea raccontare una bugia, che rende subito difficile l’instaurarsi di un
rapporto professionale di aiuto. Aggiungo che lei e il marito troveranno
sicuramente le parole migliori per Marta, che loro conoscono bene e che io
invece non ho mai visto, ma che alla bambina dovrebbe essere detta una, sia
pur piccola e semplice, verità. Per esempio, che sono un dottore che aiuta le
maestre a fare il loro lavoro, conosce i bambini, guarda i loro disegni, e poi
parla con le maestre.
L’approccio con Marta è molto difficile. La bambina non soltanto è
mutacica, ma decisamente coartata: almeno nella prima parte della seduta
resta sempre molto vicina alla mamma e relaziona, a gesti, solo con lei. Poi,
dopo aver preso un po’ di confidenza con l’ambiente, gira un po’ per il mio
studio, come se continuare a stare troppo a lungo seduta la mettesse a
disagio. Rifiuta un paio di volte (perché di più non insisto) di farmi un
disegno, e anche di colorare un album che le avevo mostrato. Fa invece
volentieri e con una certa competenza un puzzle di legno di Topolino: però
lavora a testa china, in totale autonomia e senza nessuno scambio
relazionale con me. Soltanto una volta, e sempre a gesti, chiede consiglio
alla madre per la collocazione di un pezzo, ma la madre le risponde che
deve cercare di fare da sola. Il linguaggio ricettivo è adeguato, nel senso che
con il dito è capace di indicarmi immagini e parti di immagini da un paio di
libri per la scuola dell’infanzia che le mostro. Anzi, ho la sensazione che
compiti più strutturati, dove io pongo delle domande precise (per es.,
“Dov’è il tetto?”) e lei deve limitarsi a dare delle risposte, la rassicurino e
che il suo comportamento diventi più adeguato, più attento e meno
oppositivo. A fine seduta mi risponde correttamente sì e no con cenni del
capo a semplici domande tratte dalle stesse illustrazioni (per es., “Questo
tetto è verde? E le finestre sono verdi?”).
Nella seduta successiva misuro il livello intellettivo, ovviamente con le
CPM1 che non richiedono l’uso del linguaggio verbale produttivo. La
bambina dà tutte le risposte per la sua età, con una prestazione esattamente
al 50° percentile. Mi ha portato anche molti dei disegni che è solita fare a
casa, come le avevo chiesto durante la nostra prima seduta. Li guardiamo
insieme e li lodo molto. Sembra rassicurata da questi miei giudizi positivi.
Quando le chiedo di nuovo se oggi ha voglia di disegnare mi risponde
affermativamente e disegna prima una bambina e poi una fata. Sono disegni
adeguati per l’età, molto ricchi di particolari e carichi di colore.
Chiedo anche una consulenza a un neuropsichiatra infantile che in quel
periodo lavora in uno studio accanto al mio e ha orari coincidenti con i miei
e che quindi, una volta presi accordi con la madre, può visitare la bambina
in modo molto naturale, facendola spostare solo di pochi metri da dove
ormai si è abituata a venire. Il risultato della visita è completamente
negativo.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
Durante il primo colloquio con la pedagogista fui probabilmente un po’
precipitoso. Da un punto di vista strettamente teorico è infatti evidente che
non si dovrebbe fare una diagnosi, non soltanto senza mai aver visto il
bambino, ma addirittura attraverso notizie imprecise raccolte da una
persona che le aveva ottenute per lo più di seconda mano dalle insegnanti.
Nel caso specifico credo di aver agito in quel modo perché mi sembrava che
la pedagogista avesse, in un certo senso, bisogno di essere tranquillizzata
per poter decidere poi con maggior freddezza che cosa fare: e mi sembrava
anche che dare un nome a tutti quegli strani problemi che lei e le maestre
vedevano nella bambina potesse aiutarla a placare almeno un po’ della sua
ansia e qualcuno dei suoi dubbi.
Poi, però, al di là di questo, e ribadendo che non si pone una diagnosi
psicologica senza l’osservazione diretta del bambino, avevo visto bene.
Marta, infatti, ha un Mutismo selettivo, disturbo che si caratterizza per una
incapacità di parlare in una importante situazione sociale (o anche più di
una). La più frequente e caratteristica situazione in cui il disturbo di
manifesta è la scuola e, per formulare la diagnosi, è necessario che lo
sviluppo e la comprensione del linguaggio siano adeguati e il mutismo non
sia dovuto ad altro disturbo mentale. In particolare, è necessario escludere
la presenza di Disturbo del neurosviluppo2 (in particolare Disturbi della
comunicazione) e di Disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi
psicotici.3
L’incapacità di parlare, inoltre, non deve essere semplicemente
determinata dall’imbarazzo per una situazione sociale difficile (per es., dal
fatto che il bambino si trovi per la prima volta in un gruppo di cui non
conosce i componenti); né dal disagio che si può creare per un senso di
inadeguatezza con il modo di parlare richiesto dalla situazione sociale (per
es., nel caso di un bambino immigrato che non ha ancora dimestichezza con
la lingua del nuovo paese); né da un disturbo dell’eloquio come la balbuzie.
Per completare la diagnosi è, come sempre, necessario che l’anomalia
interferisca con i risultati scolastici o lavorativi e con la comunicazione
sociale. La durata del disturbo, inoltre, deve essere di almeno un mese e non
limitata al primo mese di scuola, dove una certa inibizione del linguaggio
verbale è piuttosto frequente nei bambini timidi, ma spesso scompare da
sola quando il bambino ha preso confidenza con il nuovo ambiente.
L’incapacità di parlare in alcune situazioni, tipica del Mutismo selettivo,
può derivare dalla paura o dall’ansia creata da situazioni specifiche. Nel
DSM-5, infatti, è stato inserito tra i Disturbi d’ansia. D’altra parte, molto
spesso gran parte della sintomatologia del Mutismo selettivo può essere
spiegata come una forma di evitamento ansioso (Omdal e Galloway, 2008)
e la capacità di interpretare come manifestazioni ansiose le difficoltà del
bambino da parte dei genitori anziché “arrabbiarsi” con lui rappresenta
probabilmente un fattore prognostico positivo (Compare, Gorla e Molinari,
2006). Studi recenti sottolineano l’alta comorbilità con il Disturbo d’ansia
sociale (Lämsä e Erkolahti, 2013; Keeton e Crosby Budinger, 2012), mentre
Young, Bunnell e Beidel (2012) hanno studiato la differenza tra i due
disturbi da un punto di vista psicofisiologico: durante le interazioni sociali i
bambini con Mutismo selettivo mostrano livelli di arousal inferiore rispetto
ai bambini che presentano un Disturbo d’ansia sociale. Per gli autori inoltre
il mutismo rappresenta una strategia per abbassare i livelli di attivazione
scatenati dalla presenza di un’interazione sociale da affrontare.
Spesso si osserva in questi bambini una timidezza eccessiva e
patologica, una tendenza alla chiusura e al ritiro; l’affettività negativa
oppure l’inibizione comportamentale possono giocare un ruolo, così come
una storia genitoriale di timidezza, isolamento sociale e ansia sociale.
L’inibizione sociale dei genitori può fungere da modello per la reticenza
sociale e il mutismo (Ytzhak, Doron, Lahat e Livne, 2012). Inoltre, i
genitori di bambini con Mutismo selettivo sono stati descritti come
iperprotettivi oppure più controllanti rispetto a genitori con altri Disturbi
d’ansia o senza disturbi (DSM-5, 2014). Recenti studi (Alyanak et al.,
2013) sottolineano come l’intensità dei problemi emotivi e comportamentali
dei bambini con Mutismo selettivo sia spesso correlata con la presenza di
tratti ansiosi e/o depressivi nella madre. Si osservano anche dipendenza
ambivalente nei confronti dei genitori e concomitante ostilità. Forse per
quest’ultimo motivo il disturbo è spesso associato ad alterazioni del
comportamento, come scoppi di rabbia, comportamento appiccicoso nei
confronti delle figure di attaccamento e negativismo.
Sono stati anche osservati con una certa frequenza pregressi lievi disturbi
del linguaggio o dell’articolazione (anche nel caso di Marta, come abbiamo
visto). Questo può spiegare, a volte, il Mutismo selettivo come una forma di
evitamento generata dal bisogno di non esporsi a situazioni che potrebbero
mettere in cattiva luce il bambino (Manassis et al., 2007).

Non è stata dimostrata familiarità del disturbo, che si presenta con la stessa
frequenza nei due sessi. L’esordio è collocabile per lo più nel periodo della
scuola dell’infanzia.
Attualmente la ricerca suggerisce che probabilmente il Mutismo selettivo
abbia una base biologica con le sue radici nell’ansia (Bergman, Piacentini e
McCracken, 2002). Nonostante i ricercatori siano concordi nell’affermare
che risulti necessaria una ricerca più approfondita per provare la presenza di
fattori neurobiologici e forse genetici alla base del disturbo, vi sono già
svariate ragioni che favoriscono questa più recente concezione rispetto alle
teorie passate. In particolare, i bambini selettivamente muti trattati sotto il
profilo dell’ansia (seguendo protocolli basati sulla terapia comportamentale
e/o trattamenti farmacologici per l’ansia) sembrano avere più probabilità di
guarire o di compiere progressi significativi nel superamento del problema
(Shipon-Blum, 2010).
Per la diagnosi è quasi sempre necessario l’aiuto di colloqui con i
genitori e insegnanti, perché solitamente questi bambini non parlano
durante la consultazione. A volte è possibile, però, per lo psicologo
interagire con questi bambini utilizzando un intermediario, per esempio la
madre, con il quale essi parlano con voce bisbigliata. Inoltre, test non
verbali devono confermare il normale sviluppo intellettivo e del linguaggio
ricettivo. Abbiamo visto con Marta questi aspetti, essenziali anche per la
diagnosi differenziale.
I problemi di diagnosi differenziale si pongono, evidentemente, con il
Disturbo d’ansia sociale4, ma anche con i Disturbi della comunicazione5,
altri Disturbi del neurosviluppo e i Disturbi della schizofrenia e altri disturbi
psicotici6. In tutti questi casi, tuttavia, il sintomo principale e tipico non è la
totale assenza di linguaggio in situazioni specifiche, come invece avviene
per il Mutismo selettivo, che proprio da questo prende il nome. È stata
infine ipotizzata una possibile comorbilità tra Mutismo selettivo e difficoltà
di attenzione (Oerbeck e Kristensen, 2007).

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO E


PROGNOSI
Nel periodo della scuola dell’infanzia ho incontrato la bambina una decina
di volte con sedute distanziate di quindici giorni l’una dall’altra, ma
l’intervento principale è stato svolto attraverso la consulenza alla
pedagogista e alle maestre (Perini e Rollo, 1996; Ouvrir La Voix, 2012;
Ponzurick, 2012).
Il metodo principale con il quale abbiamo lavorato in classe è stata
l’osservazione sistematica e l’analisi funzionale7 (vedi riquadro alla
pagina seguente) (Mosticoni, 1999; Sturmey, 2001). Con la mia
supervisione, le insegnanti e la pedagogista hanno iniziato a osservare i
comportamenti di interazione sociale (non verbale, per ovvi motivi) di
Marta, dopo averli definiti insieme a me con la maggior precisione
possibile. Hanno imparato a mettere in relazione questi comportamenti con
gli stimoli antecedenti che sembravano provocarli: un particolare
compagno, una particolare attività, certe particolari circostanze didattiche
ed extradidattiche, ma soprattutto le modalità di interazione verbale delle
insegnanti stesse. Hanno analizzato quali conseguenze (positive e negative)
facevano seguito a questi comportamenti di interazione.

ANALISI FUNZIONALE
L’analisi funzionale è una particolare forma di osservazione
sistematica che non si limita a considerare il comportamento
manifestato dal soggetto, ma cerca di mettere in relazione questo
comportamento con gli antecedenti (gli stimoli che presumibilmente
l’hanno provocato) e le conseguenze (i rinforzatori che
presumibilmente lo mantengono).
Per esempio, nel capitolo 11 abbiamo visto che Lorenzo emette in
classe alcuni comportamenti aggressivi. Fare un’analisi funzionale di
questi comportamenti significa cercare di capire da cosa sono
preceduti (nell’esempio, dal fatto che i compagni gli chiedano in
prestito un oggetto) e da cosa sono seguiti (nell’esempio, dal fatto che
Lorenzo esce dalla classe).
L’analisi funzionale non è solo uno strumento di osservazione, ma
permette anche di impostare programmi di intervento. Quando, infatti,
ci si rende conto che certi stimoli sono responsabili di certi
comportamenti inadeguati, si possono modificare gli stimoli. Quando
ci si rende conto che certe conseguenze rinforzano il comportamento,
si possono modificare le conseguenze. Nel testo ci sono molti esempi,
oltre a quello di Lorenzo, di uso di analisi funzionale come strumento
di intervento. Nel capitolo 3 l’analisi funzionale permette di attribuire
ai comportamenti inadeguati di Michela un significato comunicativo.
Nel capitolo 5 serve allo psicologo per comprendere che non si
devono fare richieste troppo pressanti a Maurizia se non si vogliono
provocare nella bambina comportamenti inadeguati. Nei capitoli
dedicati ai Disturbi d’ansia permette di comprendere quali
meccanismi mantengano i comportamenti di evitamento e di fuga e di
agire di conseguenza sul piano terapeutico.
L’analisi funzionale non si applica esclusivamente ai comportamenti
inadeguati. Può servire anche per osservare comportamenti adeguati,
come si vede bene nel presente capitolo, dove viene usata dalla
pedagogista e dalle insegnanti di Marta per favorire le interazioni
della bambina con i compagni.

L’analisi funzionale così condotta ci ha mostrato che l’interazione


sociale di Marta era inibita (cioè resa meno probabile) da tentativi troppo
diretti da parte dell’insegnante (per es., “Coraggio, Marta, vai a giocare con
Daniele!”). Al contrario, la bambina era contenta quando, senza troppa
pressione, qualcuno (insegnante o compagno) si rivolgeva a lei. Essendo
ansiosa, Marta necessitava di un ambiente che la facesse sentire a suo agio e
rilassata senza costrizioni e pressioni da parte dell’insegnante, che
l’avrebbero solo fatta sentire ancora più a disagio e regredire ulteriormente.
Fare pressioni, costringere o addirittura punire sono tutti atteggiamenti
assolutamente controproducenti e inopportuni perché fanno sentire il
bambino selettivamente muto non accettato e di conseguenza ancora più
ansioso e a disagio.
Abbiamo allora programmato un tipo di intervento in classe che
prevedeva stimoli naturali di interazione come: la vicinanza fisica
dell’insegnante, blande richieste da parte di compagni particolarmente
sensibili, forme di lavoro cooperativo dove non fosse obbligatoria la
comunicazione verbale. Inoltre, ho cercato di dirigere l’attenzione degli
educatori sul fatto che l’analisi funzionale ci aveva mostrato che le piccole
e rare interazioni di Marta non erano seguite da rinforzatori sociali in modo
sufficientemente sistematico. Le insegnanti hanno riflettuto a lungo su
questo e hanno cercato mezzi adatti per rinforzare anche i timidi tentativi
della bambina in questo senso.
Naturalmente, gli educatori hanno continuato l’osservazione sistematica
e l’analisi funzionale anche durante il periodo dell’intervento. È stato così
possibile notare (e a volte far notare alla bambina) un netto aumento
dell’interazione sociale non verbale e una conseguente diminuzione dei
momenti di isolamento. Tuttavia, era ancora molto evidente che questo
dipendeva, in larga misura, dalla presenza della pedagogista in classe.
Durante questo lavoro con l’analisi funzionale, infatti, la pedagogista non si
era limitata a osservare prima e a modificare poi lo stile di interazione del
gruppo, ma aveva finito per instaurare con la bambina una relazione molto
significativa, forse al di là delle sue stesse intenzioni iniziali. Questo si
coglie anche durante le nostre sedute di supervisione. Dopo aver esaminato
i dati, gli stimoli, le risposte e i rinforzamenti, la pedagogista fa
affermazioni quali:
“Ora Marta sembra molto più normale di prima”.
Oppure:
“Ho come la sensazione che da un momento all’altro il linguaggio
potrebbe scattare”.
Un giorno, a seguito di tutto ciò, la pedagogista ha un’intuizione. Dà alla
bambina il suo numero di telefono e qualche giorno dopo la bambina le
telefona e parlano insieme!
Credo sia stata per lei una grande emozione, anche se l’obiettivo
terapeutico era tutt’altro che raggiunto. Per telefono e fuori dalla scuola è
molto diverso dal parlare in classe l’una di fronte all’altra, ma questo
episodio ha segnato una svolta. Abbiamo concordato di andare avanti in
questo modo, di continuare questi scambi telefonici; di coinvolgere di più,
in prima persona, le insegnanti della classe nella stesura dell’analisi
funzionale; di provare a porre alla bambina una richiesta esplicita di
interazione verbale. Nel frattempo, le interazioni non verbali in classe
diventavano sempre più frequenti e i momenti di isolamento tendevano a
scomparire. Si regolarizzavano le interazioni telefoniche e una mattina, a
bassa voce, Marta disse “ciao” alla pedagogista nel corridoio. Poi un “ciao”
sussurrato alla maestra entrando in classe.
La madre poi mi riferì che a casa, a proposito di questi due “ciao”, aveva
detto:
“Hai visto come sono stata brava?”.

Nello stesso periodo, in studio, anch’io svolgevo un programma di


avvicinamento prudente all’interazione verbale. Senza insistenza, come
abbiamo visto, l’avevo prima portata a disegnare e poi a giocare e lavorare
con me su compiti che non richiedevano il linguaggio da parte sua, ma nei
quali io parlavo molto e con tono particolarmente calmo e pacato, cercando
di avviare un processo di modellamento .
pag. 258

Quando viene inserita nella scuola primaria intensifico la frequenza delle


sedute e riprendo, con le nuove insegnanti, il lavoro che avevamo già fatto
alla scuola dell’infanzia. In studio ci dedichiamo moltissimo ad attività
didattiche di avviamento alla lettura (sempre senza che lei apra bocca) che
le piacciono, le riescono e attenuano il suo stato di tensione. Lavoriamo, ma
forse sarebbe meglio dire giochiamo, con diversi tipi di alfabetiere. È molto
brava e molto motivata nel riconoscimento di lettere, che io le chiedo di
identificare e lei indica correttamente: ciò mi permette di rinforzarla in
modo sistematico.
Consiglio anche alla madre di programmare qualche invito a casa di
compagni di scuola. La madre lo fa e mi riferisce che la bambina sembra
contenta. Svolge i compiti con la compagna che la madre ha fatto in modo
di invitare, giocano e si divertono. Ma Marta in quei pomeriggi non apre
bocca.
Sempre in studio, gli scambi relazionali aumentano di seduta in seduta.
La bambina appare sempre più tranquilla e rilassata con me. Quando a
scuola cominciano a lavorare sulla fusione di suoni, colgo l’occasione.
Ritagliamo insieme dei cartoncini della lettera F, della lettera B e delle
vocali e poi giochiamo a mettere insieme una consonante e una vocale.
Dopo molti di questi giochi le dico:
“Ora però leggi tu”.
Mi guarda con un’aria dubbiosa come se stesse domandandosi – per
l’ultima volta – se è il caso di tirar fuori la sua voce. Poi all’improvviso,
indicando i cartoncini che avevamo unito insieme sulla scrivania,
pronuncia:
“FA, FE, FI, FO, FU”.
Sono molto emozionato e la rinforzo con molta convinzione.
Le dico che è stata bravissima e che mi ha fatto molto piacere sentire la
sua voce. Poi penso che, per questa seduta, abbiamo già ottenuto anche
troppo e comincio a prendere accordi per il prossimo appuntamento.
Mi interrompe per esclamare:
“Ma non ho ancora finito!”.
Stavolta sono io che resto senza parole.
Lei, invece, indicando gli altri cartoncini, dice: “BA, BE, BI, BO, BU”.
Dopo questo episodio le nostre sedute sono caratterizzate da normali
conversazioni con una bambina di sei anni e mezzo che mi dice che a
scuola non parla perché si vergogna e perché ormai si è abituata così. Allora
concordo con le insegnanti la generalizzazione di questa abilità di
leggere, attuata attraverso un programma di modellaggio.

pag. 41

Il primo passo è leggere (nel frattempo, impara senza problemi a leggere


parole e frasi) da sola con una maestra in una biblioteca. Poi con una
compagna, poi con un piccolo gruppo, sempre in biblioteca. Il passo
successivo è leggere in classe, ma alla presenza di soli tre compagni, mentre
gli altri sono alle prove di una recita. Infine, dopo un paio di mesi, Marta
legge in classe senza particolari problemi. Il linguaggio verbale usato a
scopi di interazione sociale si sviluppa parallelamente e velocemente. Dopo
le vacanze di Natale interagisce verbalmente con quasi tutti i compagni.
In una delle nostre ultime sedute mi dice che ora parla di più perché ha
nuovi amici ed è più grande.
Concordo con la madre controlli ogni sei mesi che continuiamo a
eseguire per due anni e mezzo senza che emergano nuovi disturbi,
coerentemente con quanto la letteratura riporta sulla prognosi del Mutismo
selettivo (Leonard e Topol, 1993).
1 Vedi capitolo 1, nota 2.
2 Vedi capitoli 5 e 6.
3 Vedi capitolo 3.
4 Vedi capitolo 14.
5 Vedi capitolo 24.
6 Vedi capitolo 12.
7 La letteratura suggerisce inoltre trattamenti che includano la terapia di gioco non-direttiva in
ambiente educativo, in cui inizialmente non è richiesto al bambino di parlare, ma gradualmente si
crea il setting migliore perché possa cominciare a farlo quando se la sente (si tratta del cosiddetto
Selective Mutism Anxiety Reduction Therapy, o SMART, di Boggs, 2005); un lavoro che tenga conto
anche dei fattori cognitivi e affettivi (Bissoli, 2007); un pacchetto di metodologie di ispirazione
comportamentale e cognitiva che comprenda l’uso delle strategie di modellamento, gestione di ansia,
gestione delle contingenze, esposizione graduale e uso corretto del dialogo interno (Mendlowitz e
Monga, 2007; Reuther, Davis, Moree e Matson, 2011; Ooi, Raja, Sung, Fung e Koh, 2012; Oerbeck,
Stein, Pripp e Kristensen, 2014). Con un progetto di ricerca applicata, Luisetti, Berto, Conti, Fantoni
e Luisetti (2009) propongono questo tipo di intervento multimodale, secondo un modello ecologico
che tiene in considerazione gli ecosistemi in cui i bambini sono inseriti (familiare, scolastico e in
particolare dei pari), oltre alla interrelazione fra gli aspetti cognitivi, affettivo-emozionali e socio-
interpersonali. Lang, Regester, Mulloy, Rispoli e Neiestanak (2011), in uno studio su soggetto
singolo, hanno invece valutato l’efficacia di role play videoregistrati, dove la bambina potesse
sperimentarsi e osservarsi in diverse situazioni sociali (ordinare al ristorante, incontrare nuovi adulti
e giocare con bambini non conosciuti).
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 19

La storia di Stefano “Che ne sarà


della mia casa, che è la più bella del
mondo?”
Daniela Fontana, Fabio Celi

PRIMO: NON AFFOGARE INSIEME AL PAZIENTE

Ricevo una telefonata da un collega pediatra che conoscevo già da qualche


tempo e con il quale collaboravo e collaboro tuttora per il trattamento di
alcuni piccoli pazienti.
Lo sento agitato, teso, preoccupato; a ripensare dopo a quella telefonata,
era evidente che non mi stava per parlare di un bambino qualunque: quella
era una telefonata diversa dalle solite. Come poco dopo arriverà a dirmi
direttamente, mi stava chiamando per parlarmi di suo nipote. Un problema
che tocca più direttamente, che in particolare riguarda la propria famiglia,
mette in circolo emozioni più intense; ma sicuramente c’era dell’altro che
spiegava la tensione che sentivo.
Mi sembrava di cogliere che questa enfatizzazione emotiva avesse altre
origini: cominciava a intravedersi una pervasività dell’ansia nel parlare del
problema tale per cui la mia sensazione, mentre ascoltavo, non era più “mi
chiede un aiuto” ma “se non metto dei freni mi trascina in un vortice di
angosce”. Quella che durante la telefonata con lo zio pediatra non era
nemmeno un’ipotesi ma solo una vaga sensazione, comincia a diventare
qualcosa di più preciso e concreto dopo i primi contatti telefonici con i
genitori di Stefano.
La prima telefonata (così come molte delle successive) avviene con il
padre che mette in luce subito la sua preoccupazione “perché ormai sono
diversi giorni che il bambino non va a scuola”. La regolazione emotiva è
tutta in eccesso e la situazione viene presentata in modo
allarmato/allarmante: “Non sappiamo più come fare […] Anche mia
moglie, che soffre di depressione, ora sta di nuovo male”. Le modalità
relazionali con cui porta avanti la comunicazione ostentano sofferenza,
bisogno di accudimento e cura. Pur con queste sensazioni di pesantezza
arrivo in fondo alla telefonata, fisso l’appuntamento per l’inizio della
settimana successiva e così ci salutiamo. Due giorni dopo però il padre di
Stefano mi richiama: mi dice subito che le cose sono peggiorate (in due
giorni?), che ora né lui né la madre riescono più a farlo alzare dal letto al
mattino e poi mi chiede di poter anticipare l’appuntamento che avevamo
fissato e che sarebbe stato comunque agli inizi della settimana successiva
(si trattava dunque di anticipare di uno o due giorni al massimo). A questo
punto torno a sentire la sensazione del vortice che avevo avuto con il
pediatra al telefono: è come se mi stessero riversando addosso un peso che
finisce per togliermi il respiro. Mentre lo ascolto con queste sensazioni
dentro di me, cerco di trovare le parole per dare un po’ di ordine almeno
alle mie emozioni: dico al padre di Stefano che comprendo la loro ansia, ma
che non ho altri spazi e che forse non sarebbe nemmeno utile fare questo
spostamento. Gli dico che il nostro mestiere non è un mestiere d’urgenza,
che certamente non si devono aspettare che al primo incontro risolveremo il
problema come invece potrebbe fare un oculista che ti rimuove la scheggia
da un occhio e all’improvviso smetti di soffrire. Purtroppo nel lavoro con lo
psicologo ci vuole tempo e pazienza, perché dovremo insieme guardare
dentro a questo problema e cercare di capirlo; la fretta certo non ci
aiuterebbe.
Non so se queste parole siano più utili al padre di Stefano o a me: certo è
che mentre gli dico queste cose allo stesso tempo riesco a leggere dentro di
me una maggiore serenità. Nel rimettere a posto questi miei appunti e questi
miei ricordi, mi viene in mente, come una metafora, la situazione di una
persona che cerca di aiutare qualcuno che sta affogando: quest’ultimo
naturalmente è terrorizzato, gli sembra di essere trascinato via in un gorgo e
così si aggrappa al suo potenziale salvatore con una disperazione che finirà
per far affogare tutti e due. Si dice, di solito, che in questi casi i bagnini
sono addestrati a dare un pugno in faccia all’uomo che devono salvare: gli
faranno probabilmente molto male fino a farlo svenire, ma sarà il modo più
sicuro per cercare poi di riportarlo a riva vivo.
Finalmente viene il giorno del primo colloquio con i genitori.

pag. 49

Il padre e la madre di Stefano si presentano in anticipo: postura fissa e


immobile, visi pallidi e totale assenza, anche nel momento delle
presentazioni, di un minimo accenno di sorriso.
Il padre è la figura che più prende l’iniziativa mentre la madre se ne sta
in una posizione defilata, accenna solo qualche parola e spesso cerca il
contatto oculare con il marito come a chiedere sostegno, un aiuto che il più
della volte ha la sostanza del “dillo tu per me”.
Descrivono Stefano come un bambino intelligente, vivace, socievole,
molto sensibile. È sempre stato precoce e autonomo, dicono i genitori, e
non ricordano che Stefano abbia mai avuto alcun problema finora. Con gli
amici e i compagni di scuola è molto generoso e, se c’è da aiutare qualcuno
in difficoltà, si fa in quattro. Alla scuola per l’infanzia si è staccato dai
genitori senza difficoltà: andava al mattino e tornava a casa al pomeriggio
con il pulmino. Alla scuola primaria era uno dei migliori:
“Forse per questo”, confessa la mamma, “abbiamo avuto aspettative un
po’ alte rispetto alla scuola secondaria di primo grado”.1
Poi aggiunge:
“E invece… ora non c’è verso di portarlo a scuola”.

“Cosa è successo?”, le domando.


“Tutto è cominciato da una figuraccia che ha fatto in classe con la
professoressa di italiano, che l’avrebbe umiliato davanti ai compagni prima
di dargli un voto insufficiente. Stefano ci è rimasto malissimo: ha pianto in
classe e anche a casa”.
Da lì sarebbero cominciati i primi malesseri fisici: Stefano chiamava da
scuola e si faceva venire a prendere:
“Abbiamo fatto fare dal pediatra2 tutti gli accertamenti, ma è risultato
tutto negativo, a parte un’otite che stiamo curando”.
“Poi qualche giorno fa all’ingresso da scuola Stefano sembrava
assatanato, non si voleva staccare da noi; l’insegnante di italiano che ha
visto Stefano piangere davanti a scuola ha fatto di tutto per portarlo dentro,
compreso tirarlo per un braccio. Da quel momento in poi al mattino non si
alza più dal letto e non c’è verso di portarlo nemmeno davanti al portone
della scuola”.
Inizialmente su questi episodi sia il padre che la madre concentrano
molte delle loro spiegazioni, come se il problema appunto fosse solo dentro
quella scuola. I genitori ritengono che tra di loro ci sia una buona
comunicazione e in particolare la madre ritiene che a lei Stefano dica tutto.
Si descrivono come genitori comprensivi e non severi e dicono di aver
tranquillizzato Stefano in tutti i modi dopo la vicenda del brutto voto e della
figuraccia, per fargli capire che per loro non era successo nulla di grave.
Colgo l’occasione per raccogliere qualche informazione sulla loro
famiglia. Il padre è operaio metalmeccanico e la madre casalinga. Vivono
da sempre in una grande casa di campagna assieme ai nonni materni e alla
zia di Stefano, sorella della madre.
La nonna è una figura di particolare rilievo all’interno della famiglia: il
padre dice che è lei che comanda, che decide, che si impone e che ha
sempre ragione. Stefano è molto legato alla nonna: lei rappresenta il suo
punto di riferimento, è quella che lo difende anche a costo di disconfermare
apertamente la madre davanti a lui.
Il rapporto tra la madre di Stefano e la sua famiglia di origine viene
descritto come “non facile”: da una parte emerge una forte dipendenza,
dall’altra insofferenza ed emozioni dolorose.
Il padre di Stefano costituisce la sponda relazionale su cui la madre si
appoggia e su cui “scarica”, come dirà lui in seduta, le sofferenze, le
tensioni e le difficoltà.
Risultano disturbi ansioso-depressivi nella famiglia della madre: sia il
nonno materno che la mamma di Stefano hanno avuto diversi episodi
depressivi mai curati. La mamma di Stefano dice queste cose con il capo
chino, gli occhi lucidi e con un visibile imbarazzo. Mi faccio coraggio e le
dico:
“Immagino che venire qui da me non sia stato facile per voi”.
La madre forse si sente un po’ scoperta, fa cenno di sì con la testa e
abbassa gli occhi. Mi faccio ulteriormente coraggio e domando con lo
sguardo rivolto alla mamma che cosa temevano di più, e lei mi risponde:
“Mandarlo dallo psicologo poteva farlo sembrare malato”.

FINALMENTE CONOSCO STEFANO: IL PRIMO


COLLOQUIO CON IL PICCOLO PAZIENTE

Vedo Stefano la prima volta dopo qualche giorno dal primo colloquio con il
padre e la madre. Lo trovo seduto in sala d’aspetto con loro: mi colpisce il
suo sorriso pieno di vita e la discrepanza con i volti fissi e immobili dei suoi
genitori.
È un bel bambino moro, con gli occhi vispi e due simpatiche fossette
sulle guance. Accetta di entrare nel mio studio lasciando i genitori,
letteralmente terrorizzati, in sala d’aspetto. È un bambino adeguato, aperto,
collaborante. Mi racconta senza difficoltà dei suoi amici, del calcio che
frequenta già da diversi anni, della passione per gli animali. Parliamo anche
del perché è venuto da me.
“Non riesco più ad andare a scuola”.
La voce è velata di tristezza e il volto perde per un attimo la luce che
aveva prima. Spiega questa sua difficoltà raccontandomi dell’episodio della
professoressa di italiano:
“Mi ha tirato il braccio per farmi staccare dalla mia mamma”.
Me lo dice con un tono arrabbiato come se questo, ora, fosse per lui la
giustificazione a non provare nemmeno a ritornare a scuola. Sento che
posso continuare ancora su questo tema e che Stefano è in grado di venirmi
dietro. Comunque provo a condividere la mia idea con lui:
“Mi piacerebbe se provassi a immaginare per un attimo di essere davanti
a scuola quando stai per entrare. Possiamo fare questa prova?”.
Mi risponde di sì.
“Sei lì… con la tua mamma… Ormai è ora di entrare, i tuoi amici si
stanno avviando… Cosa stai pensando?”.
“Ho paura. Mi viene la nostalgia. Ora la mamma se ne va… Ho paura
che faccia un incidente in macchina oppure che si incendi la casa”.
Lo seguo perché parla con facilità e mi sembra molto coinvolto nel
raccontarmi le sue paure: io le legittimo, mi mostro incuriosita3 e allo stesso
tempo mi stupisco di quanto sia bravo a fare collegamenti con problemi
questa volta (e finalmente!) tutti fuori da scuola.
Poi, per spiegarmi la paura che la casa si incendi, mi racconta che circa
un anno prima stava giocando con il suo migliore amico a casa di lui
quando a un certo punto l’appartamento di sopra ha preso fuoco per un
guasto elettrico: hanno prima sentito odore di bruciato e poi il fuoco che si
diffondeva velocemente per le scale e sono riusciti a scappare con grande
terrore di tutti.
Evidentemente questo episodio ha rappresentato uno shock per Stefano:
da allora ha paura del fuoco e si preoccupa che al padre possa succedere
qualcosa di brutto quando è al lavoro. Si preoccupa anche quando la
mamma usa l’automobile e quando i suoi genitori escono di casa e fuori c’è
il temporale.

“E come fai quando ti vengono questi pensieri?”, gli domando.


“Telefono spesso ai miei genitori quando siamo lontani, così mi
tranquillizzo”.
Cerco di capire se e in quali altre circostanze avverte la nostalgia oltre al
momento in cui è a scuola. Stefano mi dice:
“Un po’ sempre. A casa di amici a fare i compiti ci vado, ma dopo un
po’ mi riviene la nostalgia. Anche a calcio ci vado, ma perché dura poco più
di un’ora…”.
Poi molto velocemente mi dà altre notizie tutte molto importanti: per
esempio che la mamma ultimamente mangia poco e lui si preoccupa, che a
scuola lo prendono in giro perché è un po’ robusto. Mi appunto tutto in
cartella, gli mostro quanto sono soddisfatta della nostra chiacchierata e delle
tante cose importanti che è riuscito a raccontarmi; gli dico che se ha voglia,
prima di salutarci, potremmo fare un gioco a sua scelta.
Il colloquio con Stefano finisce, ma dopo circa una decina di minuti dal
nostro incontro, quando riaccendo il cellulare, trovo un suo messaggio:
“Ciao sono Stefano mi hai aiutato molto rispondi”.
Non faccio neanche a tempo a finire di leggere che ne arriva un altro:
“Sono Stefano il bimbo di prima rispondi al messaggio che ti ho inviato
prima”.
Resto molto perplessa. È raro ricevere massaggi dai piccoli pazienti,
rarissimo che questo avvenga pochi minuti dopo la prima seduta e
assolutamente unica questa raffica che sembra non volermi dare tregua,
seguita da un’insistente richiesta di risposta (tanto insistente che io stessa
penso che sia meglio cedere a questa pressione per non giocarmi la
relazione con lui quando ancora non ho capito cosa stia succedendo: in
qualche modo, se posso riprendere la metafora del bagnino, questa volta
non ho il coraggio di dargli un pugno in faccia). Dunque gli scrivo:
“Ciao Stefano sono contenta che ti sei trovato bene. Speriamo insieme di
lavorare bene a presto”.
Ma anziché placarsi rincara la dose, e arrivano a raffica altri due messaggi:
“Ok sei bellissima e bravissima”.
“Io sono da Mc Donald e te dove sei?”.
Resto sempre più perplessa ma decido di rispondere cercando di “chiudere”
anche se nel modo più accogliente possibile: mi sto accorgendo che questi
messaggi rivelano aspetti relazionali di Stefano che non sono dettagli e sono
tutt’altro che secondari. Poi conoscerò Stefano, nei mesi sempre meglio, e
molte cose, piano piano, mi appariranno molto più chiare e riuscirò a
integrare questi aspetti all’interno di un quadro più preciso per poterci poi
lavorare. Rispondo:
“A casa. Buon McDonald e a presto. Un bacino”.
Seguiranno a raffica altri tre messaggi di Stefano.
“Anche a te buona notte”.
“Buona notte a te invece che un bacino un bacione”.
“Il mio cell è xxxx”.

PROVO A FARMI UN’IDEA PIÙ PRECISA:


L’APPROFONDIMENTO DELL’ASSESSMENT CON
STEFANO

Continuo a vedere Stefano dopo il nostro primo incontro altre quattro volte
da sola, prima di fissare uno spazio per i genitori per poter condividere ciò
che ho visto e stabilire con loro un piano comune di intervento.
Gli incontri con Stefano sono molto produttivi: il bambino continua a
raccontarsi e a portare nuovi e diversi elementi di sofferenza in parte
trascurati dai genitori.
Mi racconta di essere triste anche perché il suo migliore amico della
scuola primaria ora non lo cerca più e si è fatto altri amici e lo esclude dai
giochi. Lo incoraggio a cercare ancora altre cose che l’hanno fatto o lo
fanno ancora soffrire: lo vedo triste, troppo triste, come se ci fosse dell’altro
ancora da tirare fuori. Gli spiego che a me può dire tutto perché sono
vincolata al segreto professionale e che quindi non potrei mai riferire una
cosa se lui non mi autorizza.
A questo punto mi dice:
“Ti devo dire un segreto, ma questa cosa non si può dire assolutamente a
nessuno”. “Certo, stai tranquillo”.
“Hanno venduto la nostra casa”.
Ancora prima di esplorare i significati di un evento così importante
rimango sbalordita al pensiero che con i genitori tutto finora era stato
focalizzato solo sulla scuola: della casa e dei significati che la sua vendita
poteva aver avuto sull’intera famiglia, neanche una parola. Stefano invece
mi racconta che per lui tutto questo è molto doloroso: l’idea di non vivere
più con i suoi nonni e con la zia alla quale è molto legato, di lasciare i suoi
amici del quartiere che conosce fin da quando erano piccoli, di lasciare i
suoi animali (“Dove andrà a finire la mia tartaruga di terra che ora la
teniamo nel grande giardino che abbiamo?”). Lo seguo raccogliendo per
quanto possibile questo infinito elenco di tristezze, pensando che finora non
hanno certo avuto un contenitore; nessuno inoltre deve averlo aiutato a
costruire e a immaginarsi un futuro.
Mi racconta poi dei potenziali acquirenti che suonano per farsi mostrare
la casa, entrano e “fanno come se fossero a casa loro”.
“E tu?”, gli domando, “Tu che fai?”.
“Io sono lì che guardo”.
“E cosa vedi?”.
“Vedo tutti che piangono”.
Ma mentre siamo lì e Stefano rivive al rallentatore la scena dove gli
agenti immobiliari e i potenziali acquirenti entrano nella sua casa e sulla
sua casa esprimono commenti e critiche, c’è dolore (“perché me la possono
portare via”) ma anche rabbia (“come si permettono di giudicarla male che
per me è la casa più bella del mondo?”).
Da qui Stefano racconta anche alcuni incubi notturni molto collegati a
questa situazione: sono tutti in casa e gli adulti stanno litigando. Lui invece,
come fa spesso anche nella vita reale, origlia dalla porta e a un certo punto
entra in sala e dice: “Basta, smettete di litigare!”. Il nonno però a questo
punto dice che si è stufato di tutti, anche di Stefano, e scappa di casa.
Ricostruendo i pensieri che prendono Stefano quando è a scuola,
ritroviamo gli stessi temi portati avanti con molta angoscia e dolore: “Cosa
succede a casa? Gli agenti saranno venuti? Avranno comprato? La mamma
e la nonna staranno piangendo? Ci saranno ancora o avranno fatto le
valigie? E per andare dove?”.
Questo senso di angoscia traspare anche dal disegno della sua casa,
eseguito dal bambino durante una delle nostre prime sedute (fig. 19.1).
Emerge anche una scarsa comunicazione in famiglia: Stefano sente tanto
dolore, ma non c’è nessuno che sia disposto ad affrontare questi temi con
lui e che abbia il coraggio di parlargliene direttamente. Come mi dirà:
“Io le cose che so le so di nascosto, origliando”.
Figura 19.1 Il disegno della casa di Stefano (prospetto e piantina), con le scritte “venduto” in diverse
parti.

Decido di utilizzare il SAT (Separation Anxiety Test) (Attili, 2001) per


avere un’idea di come Stefano gestisce le emozioni di fronte a situazioni di
separazione dai genitori.
Il bambino si lascia coinvolgere nella dimensione emozionale, sa
discriminare le emozioni che tende a esprimere in modo amplificato, sia
nelle situazioni di distacco moderato che in quelle di distacco severo.
Già nella prima parte del SAT, strumento semi-proiettivo che misura le
caratteristiche di personalità in rapporto a ipotetiche situazioni di
separazione dai genitori, è possibile notare un forte coinvolgimento e una
identificazione quando si parla del bambino ipotetico (“avrà paura, come
me, per i genitori”).
Poi, ancora ai fini di valutazione, ho voluto provare ad allontanare
gradualmente Stefano dai genitori per osservare dal vivo le reazioni
emotive, cognitive e comportamentali del bambino e gli effetti sui genitori.
Abbiamo costruito e tarato assieme un termometro della paura e “giocato” a
misurarne la febbre in varie situazioni che implicavano il distacco (fig.
19.2).

Figura 19.2 Il termometro della paura.

Così prima abbiamo mandato i genitori al piano di sotto. Inizialmente la


paura nell’affrontare questa situazione era 30 poi, piano piano, Stefano si
accorgeva che si abbassava:
“Ora è scesa a 10 perché mi distraggo”.
Allora abbiamo provato a dire alla mamma e al babbo se potevano
attraversare la strada e andare all’Oviesse: la paura torna a salire a 35
“perché ci sono le macchine”. Quando Stefano se li immagina dall’altra
parte della strada la paura scende a 15 “perché hanno già attraversato”.
Quando la paura sale, Stefano sente che “il cuore va a mille”, ma poi si
accorge che se si fa coraggio e aspetta un po’ la paura scende e la situazione
diventa affrontabile.
Alcuni dei disegni che mi farà rappresentano i suoi timori che ai genitori
possa succedere qualcosa come un incidente in auto e che possano morire.
Queste preoccupazioni prendono a volte la forma di incubi notturni, come
nel disegno della figura 19.3, dove si può vedere un “prima” in cui i
genitori lo lasciano a casa di un amico e un “dopo” dove un terribile
incidente li coglie causando la morte della madre rappresentata a terra
sull’asfalto.
È interessante notare che, mentre i genitori di Stefano concentrano tutte
le ansie e le aspettative sulla scuola, sul fatto che il figlio non riesca a
entrare, che debba entrare “perché le assenze stanno aumentando”, Stefano
ritiene che loro non abbiano la minima idea che lui ha paura di staccarsi dai
genitori, che teme che gli possa succedere qualcosa di brutto e che dunque,
anche se in questo modo un po’ particolare, si sta preoccupando e quindi
“occupando” di loro.

Figura 19.3 La rappresentazione di un incubo di Stefano: i suoi genitori hanno un incidente stradale.

Non è un caso che, proponendo a Stefano una valutazione della sua


autostima familiare,4 essa risulti sotto l’area di “normalità”, coerentemente
con i dati ricavati dai colloqui che evidenziano la scarsa comunicazione
familiare, l’assenza di sintonizzazione emotiva con le figure genitoriali e,
più in generale, una evidente sofferenza intrafamiliare.

UNA PRIMA COSTRUZIONE DI SENSO CON I


GENITORI

Io sapevo il segreto della casa perché Stefano me lo aveva confidato. Dai


genitori neanche una parola. Il loro sguardo era unicamente proiettato
all’esterno, alle colpe che la scuola poteva avere, all’insufficienza che
Stefano aveva preso, alla professoressa di Italiano che aveva utilizzato con
lui modalità scorrette, alle molteplici richieste dirette e indirette che mi
rivolgevano per permettere a Stefano di ritornare a frequentare
normalmente la scuola.
In un colloquio, alla sola presenza dei genitori, domando loro com’è la
situazione in casa. Appaiono stupiti da questa mia domanda. Si guardano in
viso tra di loro e poi la madre mi risponde:
“Normale”.
Io però sapevo quello che Stefano chiamava “il segreto”.
“Normale in che senso?”, domando insistendo su questo punto.
Intanto li sento non solo stupiti, ma forse un po’ irritati da questa mia
curiosità. In fondo li stavo lentamente indirizzando a guardare cose che loro
non volevano vedere, non volevano raccontare o che comunque non
ritenevano significative.
“Che abbiamo i problemi che hanno tutti”, mi dice la mamma in modo
deciso come a voler ripristinare un equilibrio che forse sentiva che stava
perdendo.
Ma io vado avanti a cercare di dare voce ai silenzi e nel frattempo mi
sento molto vicina a Stefano, mi sembra di capire meglio la sofferenza che
deve procurargli il tenere per sé questo dolore, senza poterlo condividere e
senza poterne parlare. Mi sembra anche di capire meglio la rabbia che
aveva manifestato quando mi aveva detto che lui, per sapere quello che
accadeva, doveva origliare.
“E voi che dolori e sofferenze state attraversando in questo periodo?”.
Mamma e papà si tornano a guardare, come a dire “non abbiamo vie di
fuga”.
È il papà che prende la parola mentre la mamma abbassa lo sguardo.
“La casa dove stiamo è stata messa in vendita”.
Ecco; finalmente ci siamo. Siamo arrivati a guardare in faccia al
problema. È lì davanti a loro e fa molto male.
Il padre però regge il dolore: è stato lui a trovare le parole per dirlo, ora
mi guarda negli occhi e poi controlla ansiosamente la moglie, forse
aspettandosi che questo momento passi alla svelta per togliere a lei un
problema. Io invece gli chiedo:

“Che effetto le fa pensare che la casa dove siete stati finora è in vendita?”.
Il padre appare un po’ titubante e sembra volermi comunicare, sempre
volgendo lo sguardo verso la moglie, che certo tutto questo dolore se lo
sarebbe voluto risparmiare. Ma poi va avanti e dice, un po’ cautamente, che
lui è sempre vissuto con i suoceri e di questo ha sempre sofferto, e che non
gli dispiacerebbe l’idea di costruirsi una famiglia tutta sua. Domando la
stessa cosa alla mamma che mi risponde con un atteggiamento non
coinvolto, tradito subito dopo dalle lacrime che cominciano a scendere e
che la costringono ad abbassare il capo.
Ho la netta impressione che la vendita della casa abbia significati troppo
dolorosi per la mamma di Stefano, che meriterebbero di essere raccolti ed
elaborati più di quanto io non sia in grado di fare in quel momento. Gli dico
che forse anche Stefano sta sentendo questo dolore. I genitori sembrano
stupiti, quasi increduli di fronte alle mie parole; mi sembra quasi di leggere
nei loro volti il retropensiero “come è possibile? Facciamo di tutto perché
non se ne accorga…”. (Ma, per fortuna, non arrivano a dirmelo). A questo
punto, forse in modo un po’ direttivo, ritorno su Stefano. Dico loro che a
volte può succedere che un problema come il non riuscire più a stare a
scuola sia il risultato di sofferenze e preoccupazioni interne alle relazioni
familiari, e che su queste sofferenze dovremmo fermarci assieme. Propongo
loro alcune sedute con il bambino, con l’obiettivo di parlare tutti e quattro
delle cose che stanno succedendo.
“A volte i silenzi fanno male”, aggiungo.
So che per loro è difficile comprendere l’importanza di parlarsi; mi
accontento che per ora si fidino di quello che dico loro e accettino qualche
colloquio alla presenza di Stefano; contemporaneamente li ringrazio di
questa fiducia concordando un piano per affrontare il problema “scuola”.
CHE COS’HA STEFANO? L’INQUADRAMENTO
DIAGNOSTICO E LA CONCETTUALIZZAZIONE DEL
PROBLEMA

Diagnosi descrittiva
La diagnosi descrittiva che maggiormente si avvicina alla complessa
situazione di Stefano è quella che il DSM-5 (American Psychiatric
Association, 2013 - edizione italiana 2014) chiama Disturbo d’ansia di
separazione e che viene inclusa all’interno dei Disturbi d’ansia.
Infatti sono presenti tre elementi del criterio A:
1. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei
principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro
qualcosa di dannoso;
2. persistente riluttanza o rifiuto di andare a scuola o altrove per la paura
della separazione;
3. ripetute lamentele di sintomi fisici (per es., mal di testa, dolori di
stomaco, nausea o vomito).
Come indicato dal criterio B, l’anomalia dura da più di quattro settimane. Il
disturbo sta certamente causando disagio clinicamente significativo e una
compromissione dell’area scolastica ma anche sociale: infatti Stefano
comincia a vergognarsi a frequentare nel pomeriggio i suoi compagni di
classe o a incontrarli al catechismo o semplicemente per la strada. Tutto
questo non è meglio attribuibile ad altri disturbi (criterio C). Infine il
disturbo non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale (criterio D).
Al di là di questo Stefano ha tante altre cose che una semplice diagnosi
descrittiva, che non è altro che un elenco di sintomi, non mette in luce.

Diagnosi esplicativa
Stefano vive in una famiglia in cui la madre, nel momento in cui li conosco,
sta attraversando una fase di profonda crisi emotiva. La vendita della casa
che ancora non si è realizzata, ma che è per ora soltanto la prospettiva di un
cambiamento che prima o poi dovrà avvenire, risuona nell’universo mentale
della madre in modo molto angosciante e attivante. Per la madre di Stefano
la vendita della casa ha diversi significati: significa inizialmente
confrontarsi con le proprie modalità di reagire agli eventi, tipicamente
depressive, caratterizzate dalla sensazione di non riuscire a reggere e di non
farcela ad affrontare i cambiamenti.
Contribuisce a far precipitare la situazione, la sensazione percepita di
perdita di protezione, sia da parte dalla sua famiglia di origine, dalla quale
si dovrebbe distaccare, sia da parte del marito il quale in fondo, a voler
guardare proprio bene, sembra intravedere in questo cambiamento anche
degli aspetti potenzialmente positivi.
Tutto ciò accade in un contesto di assoluta non comunicazione: i vissuti
della madre vengono palesemente mascherati, ma Stefano li coglie, li
respira nell’aria e infine, per sapere quello che nessuno è in grado di dirgli,
finisce per origliare le conversazioni degli adulti.
Il padre non è in grado di costituirsi come mediatore degli equilibri della
madre e non è quindi capace di riequilibrare il sistema. Così finisce che in
famiglia non si parla della vendita della casa, né si parla di altri temi
connotati emotivamente in senso negativo, come se la sofferenza del solo
parlarne facesse scegliere implicitamente a tutti i membri della famiglia il
non detto. Una cosa cattiva è meglio tenersela per sé: questa modalità che
all’interno della famiglia è particolarmente significativa si ritrova a volte
anche nei rapporti dei singoli membri (ma soprattutto della madre) con
l’esterno, verso cui vige la regola implicita che bisogna, sempre e solo,
mostrare la faccia perfetta.
Nei rapporti con Stefano la mamma è da sempre molto normativa:
Stefano deve essere educato, deve chiamare la psicologa rigorosamente
“dottoressa”, come se l’atteggiamento più amichevole rappresentasse una
mancanza di rispetto, e ancora deve essere un bravo scolaro. All’interno di
questo contesto familiare il modo migliore che Stefano ha trovato nel tempo
per tenere il rapporto con la sua mamma è stato quello di assumere il ruolo
del bravo bambino: bello e perfetto in tutti i campi (e in particolare a
scuola) proprio come la mamma desiderava.
Poi a un certo punto, esattamente nel periodo in cui si decide per la
vendita della casa e quando vengono da me portandomi il sintomo più
evidente, qualcosa è cambiato: le strategie relazionali che prima
funzionavano non sono più sufficienti per ancorare a sé una mamma che è
immersa nell’elaborazione del suo dolore. Ecco allora che assistiamo a un
viraggio. Servono strategie relazionali più attive e amplificate, che riattivino
la mamma facendola preoccupare così tanto da distoglierla dal suo dolore e
permettano a Stefano di avere nuovamente il controllo della relazione: è
proprio qui che Stefano inserisce il sintomo. Non è un caso che il sintomo
che Stefano introduce, il non entrare più a scuola, abbia a che fare con la
performance scolastica e la visibilità sociale, colpendo dritto al cuore delle
priorità emotive della madre.
In questo periodo cambia proprio il rapporto con la mamma: Stefano
sente il bisogno di amplificare maggiormente i suoi segnali rispetto a
quanto avvenga per esempio con il padre, introducendo nel rapporto con lei
crescenti dosi di rabbia. La madre riporta, proprio in questo periodo, alcuni
comportamenti del bambino (come le urla e i tentativi di picchiarla) che a
una prima analisi vengono letti normativamente in senso negativo, ma che
in realtà non sono altro che un modo per scuoterla e distrarla dalle sue
sofferenze.
Stefano è riuscito per un lungo periodo ad ancorare la mamma
mostrandole la sua parte migliore. Ma adesso questo non funziona più come
prima: da un lato è sempre più difficile attivare la mamma e sedurla;
dall’altro a volte non è così facile mostrare la parte migliore quando nuove
difficoltà emergono all’improvviso. E allora, se non riesco ad attivarti, a
sentirti vicina facendoti contenta, se non riesco a sedurti con le mie doti che
pure ho ma che tu mostri in certi momenti di non vedere, allora ti picchio, ti
mordo, ti faccio star male, ti faccio vedere che sto male e ti costringo
coercitivamente ad accorgerti nuovamente di me (per usare la parole che ha
usato Stefano, lo schiaffo, il pugno e il morso servono a “sbranarla”).
Per ritornare alle strategie relazionali di Stefano, che potremmo definire
“strumentali” ad ancorare l’altro a sé, le troviamo identiche già dalla fine
della prima seduta, nella relazione con me. Difficile immaginare un
significato diverso per tutti quei messaggi in cui si chiede dove sono, cosa
sto facendo, mi si riempie di complimenti non solo per le competenze
professionali (“sei bravissima”) ma persino per le presunte doti fisiche (“sei
bellissima”) e ci si accerta che io (dopo pochi minuti) non solo non mi sia
dimenticata di lui (“sono il bimbo di prima”), ma persino del fatto che io
abbia il suo numero di cellulare (“il mio cell è xxx”). Quest’ultimo rilievo
non ha nessun senso nella realtà, dato che il numero resta memorizzato a
ogni messaggio, ma assume di nuovo un significato di garanzia per Stefano
che lui non sia per me una “ruotina di scorta”, ma una persona talmente
importante e al centro delle mie attenzioni tanto da avere il suo numero
nella memoria del mio cellulare e non solo.
All’interno di questa cornice, la prima difficoltà scolastica nella quale il
bambino sperimenta una disconferma diventa l’occasione per l’esordio del
problema che viene presentato dai genitori tutto in attribuzione esterna. Lo
spiacevole episodio scolastico non può essere considerato l’evento critico
che ha fatto scatenare lo scompenso: esso stesso può essere visto già come
un sintomo che Stefano in uno stato di profonda vulnerabilità non è stato in
grado di integrare.
D’altra parte è interessante notare che l’episodio accaduto a scuola
risulta molto importante per una concettualizzazione più completa del caso.
Emerge infatti in Stefano un’estrema attenzione al giudizio degli altri visti
come possibili agenti minaccianti l’immagine di sé.
Probabilmente anche a causa del fatto che Stefano è capitato in una
classe di allievi brillanti, gli succede più di una volta di non riuscire a dare
agli altri l’immagine di sé come del primo della classe: ciò lo fa soffrire e
questa sia pure piccola sofferenza si va a sommare con quelle più grandi già
descritte.
Tutti questi problemi insieme suggeriscono una via di fuga.
Se sto lontano dalla classe, lontano dalla scuola, al sicuro nella mia
casa… Anzi no, nemmeno la mia casa è del tutto sicura: meglio nella mia
camera, nel mio letto, sotto le coperte. Forse così mi salverò e riuscirò a
riavere il controllo sulla mia mamma.
In questa tempesta di emozioni non si può certo dare la colpa a una
insegnante, non saprei dire se più ignorante o più insensibile, di averlo
tirato dentro con maniere brusche e aver così prodotto il disturbo. I
problemi erano dentro Stefano, ma probabilmente quando il bambino ha
sentito che qualcuno dall’esterno, senza empatia, cercava di costringerlo a
fare qualcosa, ha deciso che lui avrebbe costretto tutti gli altri a fare il
contrario: si è divincolato dalla stretta dell’insegnante, è scappato a casa e
non si è più mosso di lì.

OLTRE LA DIAGNOSI: IL LAVORO


PSICOTERAPEUTICO CON STEFANO E LA SUA
FAMIGLIA
Il lavoro programmato con Stefano e la sua famiglia ha avuto come
obiettivo sovraordinato il tentativo di ammorbidire la qualità del legame di
attaccamento reciprocamente coercitivo tra i genitori e Stefano.
L’obiettivo generale è stato poi declinato in obiettivi specifici che sono
stati portati avanti non necessariamente in modo sequenziale, come invece
vengono di seguito esposti per ragioni didattiche.

Contratto educativo per riprendere una routine fatta di regole


Quando conosco Stefano sono già diversi giorni che non frequenta più la
scuola e il suo comportamento a casa diventa ben presto disregolato: si alza
all’ora che vuole e guarda la televisione fino all’ora di pranzo, nonostante i
rimproveri della madre. Il pomeriggio non va molto meglio perché la
vergogna per la sua difficoltà gli impedisce di telefonare ai suoi compagni
per prendere i compiti, con il risultato che dal punto di vista scolastico
rimane ogni giorno sempre più indietro e diventa sempre più difficile
pensare al ritorno a scuola.
I genitori nei suoi confronti le hanno veramente provate tutte, e tutte
insieme. Hanno provato ad arrabbiarsi con lui dicendogli che ora doveva
farla finita, hanno provato a parlargli con calma cercando di comprenderlo e
di aiutarlo, hanno provato ad assecondarlo in ogni richiesta nella speranza
che “accontentarlo gli avrebbe permesso di affrontare il problema e andare
a scuola il giorno dopo”.
Raccolgo tutte queste informazioni che mi rimandano al bisogno di
aiutare i genitori di Stefano ad avere una linea educativa ferma e coerente
nei confronti del figlio, improntata alla comprensione del disagio ma che
non finisca per produrre altri e nuovi problemi.
È venuto fuori un po’ per caso, parlando con Stefano e i suoi genitori, il
desiderio di avere un nuovo gioco elettronico: la PSP (PlayStation
Portatile). Il mio timore era che di lì a poco, sfiniti dalle insistenze di
Stefano e incapaci di reggere il senso di colpa già confessato per aver detto
un “no” al figlio, gli avrebbero comprato il gioco.
Quel giorno però davanti a Stefano non hanno ceduto alle sue sfinenti
richieste e così io ho approfittato della situazione per proporre al bambino,
una volta rimasti soli, un patto che a me sembrava interessante:
“Avresti voglia di provare a guadagnarti la PSP?”.
Stefano mi mostra un ampio sorriso che poi si spegne perché aggiunge:
“I miei genitori non saranno d’accordo”.
Gli dico che io non posso avere la certezza che questa mia idea andrà a
buon fine, che però se a lui piace ed è disposto a metterci un po’ di impegno
io ci avrei provato.
Quello che stavo tentando di fare con Stefano e la sua famiglia era
mettere un po’ di ordine in una situazione che stava diventando caotica.
Stefano sta a casa da scuola cercando, nell’unico modo che conosce, di
“curare” la relazione con la sua mamma; in questa fase il bambino
amplifica come può tutti i meccanismi di controllo con i genitori: è lui che
comanda e decide; questo fa sì che la loro relazione si carichi di tensioni
reciproche che, più che avvicinare, creano distanze emotive.
Abbiamo così cercato di costruire un percorso di avvicinamento graduale
a scuola che per la prima settimana prevedeva semplicemente il “rimettersi
in pari”: svegliarsi alle 8:00, studiare un paio d’ore, al pomeriggio chiamare
i compagni per poi eseguire i compiti assegnati.
Ogni giornata in cui Stefano rispettava le regole dava diritto a un pezzo
di un grande puzzle del videogioco. Quando il puzzle sarebbe stato
completato i genitori gli avrebbero comprato la PSP. Queste regole sono
state scritte su un contratto educativo firmato da Stefano, che si
impegnava a rispettarle; dai genitori, che si impegnavano a premiarlo
simbolicamente ogni volta che rispettava gli accordi e alla fine comprando
il gioco; e da me, che ero garante dell’accordo.

pag. 178

Stefano era molto motivato in questa specie di gioco. Lui non era
obbligato a fare certe cose, ma se le faceva veniva premiato.
In breve tempo il bambino ha ripreso la sua routine e si è messo in pari
con i compiti. In un certo senso il successo di questa strategia di token
economy stava nel garantire a Stefano il controllo della situazione senza
farlo sentire costretto e obbligato a compiere certe azioni. Nella figura 19.4
viene riportata una scheda di osservazione sistematica in cui gli obiettivi
comportamentali sono stati definiti giorno per giorno e il loro
raggiungimento veniva controfirmato dai genitori.
Figura 19.4 Contratto e osservazione sistematica del rispetto degli impegni controfirmata dai
genitori.

pag. 13

Nelle figure 19.5 e 19.6 sono riportati rispettivamente i tabelloni


all’inizio e alla fine del programma.
Figura 19.5 Il cartellone della PSP dove Stefano attaccava i pezzi che guadagnava quando rispettava
gli accordi.

Figura 19.6 Il cartellone terminato: l’ultima tessera incollata da Stefano.

Favorire la comunicazione tra i genitori e Stefano rispetto


alle proprie emozioni
Contemporaneamente a questo lavoro, abbiamo cominciato a parlare, tutti
assieme, di quanto stava avvenendo in casa. Solitamente dedicavo metà
seduta a Stefano per valutare come procedeva rispetto agli obiettivi
concordati, a discutere le difficoltà incontrate cercando di comprenderne il
significato e a programmare nuovi obiettivi; finita questa prima parte,
chiamavo i genitori, con l’unico obiettivo che tra tutti si cominciasse ad
attivare un canale comunicativo dove poter gradualmente lasciar fluire
qualche emozione.
Stefano fin da subito si è mostrato contento di poter fare entrare i suoi
genitori: non ha evidenziato particolari difficoltà a raccontarsi ed era
visibilmente curioso di sentire cosa i suoi genitori avrebbero detto.
All’interno di questo setting, Stefano ha affrontato i temi centrali del
problema: cosa sente quando si deve staccare dalla mamma; le sue paure
che le possa succedere qualcosa di brutto; la sua tristezza per la vendita
della casa. Poi ha domandato, questa volta direttamente ai suoi genitori:
“Che fine farà la mia tartaruga?”.

Inoltre ha detto di essere preoccupato perché “vedo papà che mangia troppo
e la mamma che non mangia più”.
Ad alcuni di questi temi Stefano ha avuto risposte rassicuranti. Ricordo
per esempio che il padre ha ripreso il discorso della tartaruga non appena
Stefano lo ha introdotto, tranquillizzando il bambino sul fatto che la
tartaruga Tilly avrebbero potuto darla al nonno e che lui sarebbe stato
capace di fargli un recinto dove sarebbe stata sicuramente bene.
Su altri temi invece le cose non sono state così facili: le rassicurazioni
non arrivavano spontanee e spesso i genitori di fronte alle stimolazioni di
Stefano cercavano frettolosamente di chiudere o di normalizzare oppure,
peggio ancora, rimanevano impietriti, dimostrando in ogni caso di essere
incapaci di raccogliere e restituirgli le emozioni in una forma che fosse per
il bambino accettabile. Qui cercavo di inserirmi, soffermandomi bene su
quello che Stefano stava esprimendo, rallentando i tempi, stimolando tutti a
stare in mezzo a queste emozioni che facevano loro così tanta paura. A
volte questa operazione riusciva; altre invece ho avuto la netta sensazione
che la sponda materna vacillasse troppo. È capitato un paio di volte che la
madre di Stefano si chiudesse in un pianto sofferto e silenzioso incapace di
esprimere verbalmente una qualunque cosa. Questi segnali sono stati per me
fonte di riflessione personale: sentivo che la mamma di Stefano aveva
bisogno di uno spazio suo e di un aiuto maggiore rispetto a quello che io
personalmente mi sentivo di garantirle. Poi di certo questo avrebbe aiutato
anche il lavoro che assieme avremmo potuto fare con e per Stefano.
Cominciamo ad avvicinarci a scuola (ma quante condizioni
avverse…)

Poi è arrivato il giorno in cui discutere di come affrontare il ritorno a


scuola. Ho spiegato a Stefano che per il momento ne avremmo solo parlato,
che però era fondamentale che nel pensare ad alcune situazioni lui provasse
a immaginarsi proprio lì e facesse lo sforzo di raccontarmi cosa provava. In
altre parole volevo costruire insieme a lui dei gradini che non doveva salire
subito, ma che speravo che prima o dopo ci sarebbero stati utili per
raggiungere la vetta con più facilità.
Per esprimere meglio l’intensità delle sue emozioni poteva, con un po’ di
fantasia, misurarne la “febbre” e dirmi fin dove arrivava o se la sentiva
scendere, utilizzando il nostro termometro, al quale era già abituato.
Così, poco alla volta, Stefano ha individuato varie situazioni a cui
corrispondevano intensità emotive molto diverse, arrivando a costruire una
gerarchia delle situazioni ansiogene (vedi desensibilizzazione
sistematica – esposizione ) con particolare riferimento alle situazioni
connesse con la scuola, da cui avremmo preso spunto per lavorare assieme.

pag. 365

Riporto qui di seguito la gerarchia elaborata dal bambino con accanto il


valore del termometro della paura su una scala da 0 a 100.

• Mentre sono in Trentino - Alto Adige con la 0


mamma e il babbo a sciare:
• Stare 15 minuti nel parcheggio della scuola: 20
• Entrare dentro al cancello della scuola: 30
• Entrare a scuola e stare 40 minuti nella mia classe 35
vuota:
• Andare nell’ora di educazione fisica: 40
• Andare nell’ora della professoressa di matematica: 45
• Andare nell’ora della professoressa di storia e 50
geografia:
• ….
• Andare nell’ora della professoressa di italiano: 90
• Fare tutte le ore in classe: 100

Stefano era visibilmente soddisfatto della gerarchia che era stata costruita,
grazie alla sua fantasia e come se fosse un gioco fatto assieme, con
bigliettini colorati messi in fila uno dopo l’altro sulla scrivania del mio
studio. Una volta terminata la gerarchia gli ho chiesto cosa ne pensava e lui
mi ha detto che pensava che almeno i primi gradini non erano poi così
difficili da provare a salire.
È stato così che abbiamo concordato di provare a salire il primo gradino:
stare 15 minuti nel parcheggio della scuola. Abbiamo poi provato a
immaginare la situazione ed è emersa la paura che i genitori, una volta
arrivati nel parcheggio, l’avrebbero costretto a entrare, cosa che ovviamente
ha fatto salire il termometro dell’ansia. Nella figura 19.7 è riportato l’ABC
cognitivo (Lambruschi, 2014) (vedi riquadro sottostante) relativo alla
situazione “sono nel parcheggio della scuola con i miei genitori”.

ABC COGNITIVO
Molte volte il sintomo del bambino viene descritto dai genitori o dal
bambino stesso come svicolato da un contesto preciso come se si
calasse in un vuoto. Il terapeuta può aiutare bambino e genitori a
ricollocare il sintomo all’interno della situazione relazionale in cui il
sintomo stesso si origina e si mantiene nel tempo.
Per fare questo risulta utile recuperare, nel modo più dettagliato
possibile, gli eventi antecedenti (A) e dunque il contesto nel quale il
sintomo si presenta: per esempio i luoghi, i momenti della giornata, le
attività, le figure significative presenti o assenti. A tale proposito è
utile indagare gli antecedenti ponendo domande come: Dove?
Quando? Con chi?
È utile inoltre indagare i pensieri e le emozioni (B sta per beliefs,
traducibile con “credenze”) che fanno parte dell’esperienza più
interna del bambino, ponendo domande come: Cosa hai pensato?
Cosa ti ha attraversato la mente? Come ti sei sentito? Che emozione
hai provato? Quanto misurava la tua emozione in quel momento?
Infine è necessario analizzare cosa è successo dopo, cioè quali sono
state le conseguenze (C), questa volta a livello comportamentale:
Cosa hai fatto? Cosa hanno fatto gli altri?
È importante notare che l’ABC cognitivo presenta analogie con
l’analisi funzionale (a volte chiamata infatti ABC, o ABC
comportamentale), ma non va confuso con questa. Nell’ABC
cognitivo l’enfasi è posta sul mondo interno del paziente, sui suoi
pensieri e sulle sue emozioni: tant’è vero che la B dell’acronimo
indica i beliefs e non, come nel modello comportamentale classico, i
behaviors.

pag. 402

Una tecnica tipicamente cognitiva e particolarmente utile in età


evolutiva per fare un ABC cognitivo approfondito è la cosiddetta
“moviola”, che consiste nel portare il paziente a ripercorrere e
ricostruire come al rallentatore un episodio significativo. Il paziente è
invitato a fermarsi su particolari anche minimi, a concentrare la sua
attenzione su un mondo interno fatto anche di immagini visive e
uditive e di rappresentazioni cinestesiche: in questo modo è più facile
che riesca ad articolare l’episodio in modo vivido come se fosse
vissuto nel momento in cui lo si racconta al terapeuta. Il risultato è
una nuova capacità di comprendere quali registri usa un bambino e
quali convinzioni gli si attivano in relazione a episodi critici.
Figura 19.7 Un primo esempio di ABC cognitivo fatto con Stefano.

Allora gli ho proposto di essere io ad accompagnarlo, e immaginando che


comunque sarebbe sorto il problema del distacco dalla mamma, gli ho
garantito che al massimo saremmo stati via per non più di 40 minuti. Anche
su questo abbiamo fatto un ABC cognitivo, come si può vedere nella figura
19.8.

Figura 19.8 Un secondo esempio di ABC cognitivo fatto con Stefano.

Come è possibile vedere dal secondo ABC cognitivo, rimossa la condizione


di insicurezza e garantito il rispetto dell’accordo, Stefano percepisce la
stessa situazione come più affrontabile e tollerabile. A dire il vero avrei
anche potuto lasciare ai genitori questo incarico, tuttavia ho preferito
gestirlo personalmente per una serie di motivi.
Prima di tutto volevo vedere con i miei occhi le reazioni cognitive, emotive
e comportamentali di Stefano e provare “in diretta” alcune operazioni di
ristrutturazione che non sarebbe stato facile trasferire subito ai genitori, ma
che avrei potuto spiegare loro meglio dopo aver provato che con Stefano
funzionavano.
In secondo luogo, non ero per nulla certa che sarebbero stati in grado di
gratificare Stefano per questo piccolo e iniziale passo, cosa che ritenevo
invece molto importante.
Ma purtroppo gli ostacoli e le difficoltà nel nostro percorso non sono di
certo mancati. Tanto per cominciare sono andata a scuola per far
comprendere alla preside e a alle insegnanti il motivo delle lunghe assenze
di Stefano (ormai erano più di 20 giorni che Stefano non frequentava), nel
tentativo di farle empatizzare con lo stato di disagio e di sofferenza che il
bambino stava sperimentando in quel periodo. In situazioni di questo tipo la
cooperazione tra le figure che a vario titolo ruotano attorno a chi sta
soffrendo è indispensabile per contribuire alla ripresa di un normale
percorso evolutivo.
Invece la sensazione che da quel primo colloquio mi sono portata a casa,
come da molti altri successivi, era che gli insegnanti di Stefano si erano già
costruiti una teoria su quello che era successo e non erano intimamente
disposti a modificarla.
“Stefano è un bambino viziato e capriccioso”, diceva la professoressa di
matematica.
E ancora:
“Stefano non è capace di reggere il confronto con una classe che ha
competenze ottime”, diceva la professoressa di italiano.
Ascoltavano i miei tentativi di fare loro vedere la parte di sofferenza di
questo bambino e del suo sistema familiare in quel momento, di far loro
capire che si trattava di un disturbo e non di un capriccio: mi ascoltavano, è
vero, ma lo facevano come chi è obbligato a farlo e poi, appena potevano,
quando da un generico concetto di collaborazione si trattava di accettare o
di fare concretamente certe cose, si nascondevano dietro rigide norme
burocratiche.
Così hanno sollevato problemi relativamente al fatto che il bambino
passasse alcune ore in biblioteca “perché deve stare dentro alla classe”
(quando l’alternativa a stare in biblioteca sarebbe stata tornare a casa); non
hanno accolto la proposta che Stefano potesse passare alcune ore con
l’insegnante di sostegno e il bambino certificato della sua classe perché
“l’allievo disabile si sarebbe potuto distrarre”.
Inoltre, non si perdeva occasione per sottolineare a me e alla famiglia
che “Stefano deve fare tutte le ore perché questa è la legge e se continua
così rischia di perdere l’anno, perché a noi si chiede una rendicontazione
del livello di maturazione del bambino nelle varie discipline”. Virgoletto le
esatte parole della dirigente scolastica perché ritengo che anche le parole
che utilizziamo quando parliamo abbiano un significato: quello che traspare
è un atteggiamento iperburocratico e totalmente contrario al primo principio
dell’accoglienza che non dovrebbe mai mancare, a maggior ragione
all’interno della scuola dell’obbligo. Il sostantivo “rendicontazione” è, nel
suo genere, un piccolo capolavoro.

Tuttavia, in mezzo a questo clima scarsamente accogliente Stefano riusciva,


settimana dopo settimana, ad aumentare le ore di frequenza in classe, come
è possibile vedere dal grafico della figura 19.9.
I progressi c’erano, ma era tutto così difficile, così faticoso, così sterile
da evocarmi l’immagine di un fiore che nonostante tutti gli sforzi non
avrebbe mai potuto sbocciare in un terreno così arido. Questa immagine
credo che possa bene rappresentare le emozioni che io come terapeuta stavo
vivendo in quel periodo: da una parte Stefano e la sua famiglia mi facevano
una grande tenerezza per la situazione che stavano vivendo, i progressi che
stavano facendo e la tenacia che stavano dimostrando; dall’altro lato
avvertivo il bisogno di aiutarli ma contemporaneamente, in quel contesto,
mi sentivo impotente.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso in questa situazione per nulla
facile è stata un ulteriore irrigidimento da parte della scuola che ha posto
Stefano e la sua famiglia di fronte a una drastica scelta:
“O il bambino entra e fa tutte le ore oppure dovete andare a casa. Qui
[intendendo nel corridoio o in biblioteca] non potete più stare”.
Questo fenomeno del circolo vizioso dell’ansia già pericoloso in sé
sembrava estendersi a tutto il sistema. Non era infatti solo la preside che
faceva con Stefano il conto alla rovescia (“Ancora 49 ore e sarai espulso”),
ma persino il personale non docente più di una volta aveva cacciato
dall’atrio della scuola la madre dicendole “Lei qui non può più stare”,
quando avrebbe dovuto essere del tutto evidente che la madre rimaneva
nell’atrio per favorire l’inserimento graduale di Stefano in classe.
Figura 19.9 Grafico delle ore che Stefano passa in classe nelle varie settimane.

Di fronte a questa espulsione, perché di una vera e propria espulsione si


trattava, ho capito che non c’era più niente da fare. Non potevo pensare che
un ambiente che pone la questione in modo così rigidamente e
pericolosamente dicotomico potesse essere un valido alleato per la riuscita
di un intervento psicologico che non si preannunciava già di per sé come
facile.
Paradossalmente la decisione del cambio di scuola, cosa mai semplice da
decidere, è stata in questo caso molto facile perché a noi non era rimasta
nessuna alternativa. L’imposizione di vincoli così rigidi aveva decretato la
fine di questa vicenda.
Tra l’altro c’è da considerare che mai così tanto come nei Disturbi
d’ansia, richieste pressanti, come possono essere quelle relative a un
numero minimo di ore sotto le quali non si potrebbe essere promossi alla
classe successiva, rischiano di immettere l’ansia in un pericoloso circolo
vizioso, vanificando un progetto di intervento psicologico che ha uno dei
suoi elementi portanti proprio nel reinserimento graduale e senza fretta del
paziente in classe.
Ci facciamo coraggio e ricominciamo da capo lavorando sul
pulito: la preparazione dell’ambiente

Stefano all’inizio non voleva cambiare scuola. Lì c’erano i suoi amici di


sempre, sentiva che alla fine tanti sforzi li aveva fatti e qualche risultato lo
aveva anche ottenuto. Per questo motivo è stato necessario affrontare più
volte il tema del cambio di scuola in modo da fargli capire che questa
decisione che prendevamo noi adulti per lui aveva lo scopo di permettergli
di vivere con più serenità e senza ansia eccessiva e ingiustificata la sua vita
scolastica. Era forse giusto che si ritrovasse a stare a casa quando invece
riusciva a fare circa l’ottanta per cento delle ore dentro la classe? E inoltre
come si era sentito quando ogni giorno gli ricordavano che doveva fare tutte
le ore in classe?
Abbiamo parlato tutti insieme e ho cercato di accogliere il più possibile
il dolore e il senso di rifiuto che una comunicazione espulsiva come quella
ricevuta dal vecchio ambiente scolastico aveva determinato su di lui,
cercando di evitare che questo, però, gli producesse una chiusura totale e gli
impedisse di guardare al futuro.
Inizialmente sono riuscita solo a ottenere da lui il permesso di andare a
vedere una nuova scuola, con la promessa che prima di prendere una
decisione di qualunque tipo ne avremmo riparlato assieme. Certo non
potevo aspettarmi molto di più in quel momento.
Ottenuta un minimo di condivisione con Stefano, è cominciata una
attenta preparazione dell’ambiente.
Per prima cosa questo ha significato parlare con il nuovo dirigente
scolastico, del suo disturbo, della sua storia nella precedente scuola e della
necessità di trovare un ambiente che fosse in grado innanzitutto di
accoglierlo senza fare pressioni che avrebbero esacerbato il disturbo.

L’atteggiamento del nuovo dirigente scolastico, non so se perché in passato


aveva avuto altri alunni con disturbi simili o semplicemente per una
maggior sensibilità umana, è stato fin da subito profondamente diverso. Ha
mostrato comprensione per il problema di Stefano garantendo a noi adulti e
alla famiglia che il bambino avrebbe fatto quello che poteva fare e che non
avrebbe di certo perso l’anno. L’importante era che Stefano fosse dentro
all’edificio scolastico: che fosse in biblioteca, con una bidella o con la
mamma nel corridoio, questo non importava. Di fatto era a scuola e sarebbe
stato considerato presente.
Ma la preparazione dell’ambiente non si è fermata qui. È stata
organizzata una riunione con tutti i nuovi professori di Stefano, il personale
della segreteria e persino i bidelli. Tale riunione aveva un duplice obiettivo:
da un lato, spiegare il problema di Stefano, che presto sarebbe arrivato nella
loro scuola e che prima di tutto aveva bisogno di essere accolto e accettato,
dall’altro condividere alcune linee comuni di azione.
Inoltre è stato fatto un incontro con i ragazzi, futuri compagni di classe
di Stefano, perché comprendessero e interpretassero in modo corretto le sue
difficoltà e, nei limiti del possibile, lo aiutassero.
L’impressione era che nella nuova scuola ci fosse il clima relazionale
giusto per sintonizzarsi con la sofferenza di Stefano e della sua famiglia e
per poterlo conseguentemente aiutare. L’ambiente era stato preparato
coinvolgendo proprio tutti, nella consapevolezza che ognuno avrebbe
potuto fare la sua parte in una situazione così complessa.

Il primo appuntamento al bar di fianco alla nuova scuola


(molte emozioni e un po’ di paura)

Il primo giorno nella nuova scuola ci eravamo accordati con Stefano e la


mamma che ci saremmo incontrati prima dell’orario di ingresso al bar di
fianco alla scuola.
Stefano sapeva di tutte le operazioni di preparazione che avevamo
compiuto nella nuova scuola, e ciò aveva prodotto in lui un effetto di
progressiva tranquillizzazione. Aveva inoltre anche avuto la possibilità di
fare un giro per vedere la scuola qualche giorno prima, quando i genitori
dovevano consegnare il nulla osta della scuola precedente.
Tuttavia quel giorno, almeno l’inizio, non fu per nulla facile. Eravamo
d’accordo che la mamma l’avrebbe aspettato al bar di fronte alla scuola e
Stefano sarebbe entrato con me, per conoscere la sua nuova classe.
L’ansia di Stefano quel giorno era molto elevata: in biblioteca, dove era
riuscito a entrare con me tenendo strette le chiavi della macchina della
madre come garanzia che non sarebbe scappata, è scoppiato in un pianto
dirotto accompagnato dal bisogno forte e impellente di chiamare
immediatamente la madre al cellulare.
Non fatico a riconoscere di aver provato in quei momenti una sensazione
di impotenza, come se non potessi veramente fare nulla se non aspettare che
Stefano si calmasse.

Mentre io mi accorgevo di non poter fare niente, l’ambiente ha fatto tutto il


resto.
La professoressa di italiano è arrivata in biblioteca mentre ancora
Stefano urlava come se fosse indiavolato, ha appoggiato le sue mani sulle
spalle del bambino e gli ha detto con fermezza e dolcezza:
“I tuoi compagni ti stanno aspettando per conoscerti, ci terremmo
veramente molto che tu venissi”, e poi dolcemente, non so neanche dire
come, lo ha portato in classe. Il suo braccio che cingeva Stefano aveva
contemporaneamente il significato di protezione e quello di
accompagnamento. Diceva: non hai nulla da temere, se verrai con me.
Non so dire come, ma quello che mi è sembrato evidente è che
l’insegnante invitasse Stefano a seguirla: l’invito fermo, ma relazionalmente
caldo allo stesso tempo, sembravano in quel momento una cosa sola ed
erano esattamente l’opposto dello strattonamento della professoressa di
Italiano descritto sopra e così importante per il mantenimento del sintomo.
Nella sua nuova classe i compagni avevano preparato una grande scritta
sulla lavagna (“Benvenuto Stefano!”) e per un’intera ora si sono presentati
raccontando al nuovo compagno un loro pregio e un loro difetto, mentre la
professoressa dirigeva i turni di parola da in piedi, tenendosi abbracciato
Stefano, stretto davanti al suo petto.

I PRIMI RISULTATI E I PRIMI CAMBIAMENTI

I cambiamenti di Stefano rispetto al rientro a scuola: i passi


dell’esposizione graduale
Sembra quasi un esperimento controllato: stesso bambino, stessa patologia,
stessa terapeuta, stesse indicazioni operative ma ambiente diverso.
In un ambiente dove non esiste più il dovere formale di entrare in classe,
dove le persone comprendono e interpretano il problema come una
sofferenza e non un capriccio, è più facile che l’ansia lentamente si sciolga.
Così è stato per Stefano. Non sto certo dicendo che appena inserito nella
nuova scuola non ci siano più stati problemi, anzi. Stefano comunque aveva
le sue ore in cui proprio non ce la faceva a entrare. E allora se ne stava fuori
dalla porta o dalle bidelle. Gli insegnanti e non solo gli insegnanti, anche i
compagni, lo cercavano in giro per la scuola prima di entrare in aula e
tentavano dolcemente di portarlo in classe, con il solito atteggiamento
accogliente e non giudicante. Alcune volte ci riuscivano e Stefano, sebbene
impaurito, mostrava di essere contento di essere stato cercato. Quando
capivano che proprio Stefano non ce la faceva, non insistevano e facevano
in modo di fargli avere la lezione o i compiti. Non parliamo poi degli
applausi che gli riservavano quando, dopo una serie di titubanze, riusciva a
entrare a metà ora.
La separazione progressiva di Stefano dalla mamma è sempre stata
molto delicata da gestire; Stefano continuava a tenere un forte controllo
verso la madre e temeva qualsiasi allontanamento: all’inizio doveva vederla
e non le bastava sentirla. Tuttavia, lentamente e mai in prima battuta,
dimostrava di accettare piccoli e graduali allontanamenti. Gli insegnanti
erano costantemente informati dei passaggi terapeutici che venivano
programmati insieme al bambino e si accorgevano dei piccoli progressi, per
esempio del fatto che Stefano non avesse più bisogno di avere le chiavi
della macchina della mamma, o del fatto che ora la mamma fosse seduta
dalle bidelle e non in piedi nel corridoio di fronte alla porta aperta della
classe. Le bidelle, dal canto loro, la intrattenevano chiacchierando e
alleviando sicuramente il peso e la fatica che sentiva a dover sostenere quel
ruolo. È significativo notare il diverso atteggiamento di accoglienza e
supporto di tutto il sistema non solo nei confronti di Stefano, alunno di
quella scuola, ma anche nei confronti della sua mamma.
Schematizzando, i passi dell’esposizione graduale (vedi
desensibilizzazione sistematica – esposizione ) programmati con
Stefano sono stati i seguenti.

pag. 365

1. Durante i primi giorni Stefano ha avuto bisogno che la madre fosse non
solo dentro la scuola, ma addirittura in piedi nel corridoio di fronte alla
porta della sua classe. Questo gli garantiva di poterla sempre vedere.
2. Progressivamente il bambino ha tollerato che la madre si sedesse nel
corridoio dove c’era la sua classe. Stefano di tanto in tanto usciva per
controllare che la madre fosse lì e poi rientrava in classe.
3. Successivamente assieme a Stefano abbiamo concordato che la mamma
si sedesse dalle bidelle nell’atrio centrale della scuola, quindi sempre più
distante dalla sua classe e da lui.
4. Il passo successivo è stato l’ulteriore allontanamento della madre nel
cortile della scuola. Fortunatamente eravamo già verso fine aprile e il
clima consentiva alla mamma di stare all’aria aperta e Stefano usciva
ogni cambio d’ora per andarla a salutare.
5. Il lavoro è proseguito concedendo alla mamma di stare fuori da scuola a
patto di tornare a ogni cambio dell’ora per farsi vedere.
6. Poi le visite a ogni cambio d’ora sono state sostituite su suggerimento di
Stefano da telefonate nelle quali il bambino si accertava velocemente che
fosse tutto a posto e poi tornava subito in classe.
7. A fine anno Stefano andava a scuola come tutti gli altri e la sua mamma
lo aspettava alle 13:00 fuori da scuola come tutti i genitori. Raramente
succedeva che avesse bisogno di sentirla per telefono, ma ovviamente il
bambino sapeva che non ci sarebbero stati problemi nel caso in cui ne
avesse sentito la necessità.

I cambiamenti emotivi di Stefano

Nel frattempo, nei colloqui Stefano si mostrava davvero più sereno: parlava
della sua nuova classe come se da sempre fosse stato lì, si sentiva accettato
e compreso per il suo problema, come è possibile vedere dalla pagina
riportata nella figura 19.10, che Stefano ha scritto durante un nostro
incontro.
In maggio ho ripetuto il test TMA5 che, come si può vedere nella figura
19.10, mostra come l’autostima del bambino fosse migliore in quasi tutti gli
ambiti (linea più alta), con un netto miglioramento per l’autostima
familiare. Quando assieme a Stefano abbiamo riletto le risposte che aveva
dato mesi prima (quando era in piena crisi) ha commentato, un po’
incredulo, questo miglioramento dicendo: “Stavo proprio male!”.
Figura 19.10 L’importanza dell’accettazione dal punto di vista di Stefano.

LA PRESA IN CARICO DELLA MAMMA DI STEFANO

La mamma di Stefano nel frattempo stava meglio: intorno a dicembre avevo


discusso con entrambi i genitori dell’utilità che la mamma si facesse aiutare
in un momento in cui le cose erano per lei veramente difficili e, anche se
inizialmente un po’ a fatica, la signora aveva accettato una forma di
sostegno psicologico che in primavera cominciava a dare i suoi primi frutti.
Stefano di questo era molto contento: che la mamma avesse uno psicologo,
come lo aveva lui, con il quale parlare lo tranquillizzava.
Spesso riflettevamo assieme sul fatto che, forse, poteva veramente stare
più sereno e allentare il controllo perché la mamma stava meglio e c’era
qualcuno che si occupava di lei. Questo per il bambino rimaneva comunque
un’operazione difficile, anche perché in fondo la mamma non l’aveva mai
vista così attiva come nel momento in cui lui, grazie al suo sintomo, le
aveva dato un ruolo.
Figura 19.11 I due tracciati del TMA: in basso quello di ottobre, in alto quello di maggio.

Stefano questo concetto lo aveva compreso così bene che un giorno, in una
seduta in cui eravamo tutti assieme, suggerì alla madre di fare domanda da
insegnante nella sua scuola, che era un modo per ridarle un ruolo che
lentamente, grazie ai suoi miglioramenti, stava perdendo; e la cosa,
evidentemente, preoccupava molto il bambino.
Riguardando la storia di Stefano e il lavoro fatto con lui e la sua famiglia
posso dirmi contenta, anche se non nascondo che non tutti i risultati sono
stati tanto soddisfacenti quanto il suo reinserimento a scuola e il distacco di
Stefano dalla mamma. In diversi momenti del nostro percorso, persino
quando le cose per Stefano stavano andando bene, ho temuto che
l’immobilismo, la passività e la stanchezza della mamma producessero il
riemergere di comportamenti attivanti che avrebbero potuto corrispondere a
un esacerbarsi della patologia.

FOLLOW-UP E NUOVI POSSIBILI SVILUPPI

Stefano ha finito l’anno scolastico mentre la mamma rimaneva a casa, senza


neanche la necessità di ricevere sue telefonate. Tali risultati acquistano
ancora più significato se pensiamo che nel frattempo la mamma a casa,
senza nessun ruolo e con il pensiero di dover cercare una nuova abitazione
(sono passati circa sei mesi dalla decisione di vendere la vecchia casa, e
ancora nessuno della famiglia ha avuto il coraggio di cominciare a cercarne
un’altra), si è nuovamente scompensata manifestando una sintomatologia
con attacchi di panico. Il bambino, di fronte a questo nuovo sbilanciamento
affettivo della madre, è stato capace di reggere, dando prova di aver
raggiunto un buon equilibrio psicologico, ma anche di aver migliorato la
comunicazione esplicita sulle emozioni critiche.
A fine anno scolastico i genitori, dopo il difficile percorso che si sono
trovati ad affrontare e con la sensazione di non essersi mai sentiti soli,
hanno voluto organizzare una festa per l’intera classe invitando alunni,
professori, bidelle, preside e psicologa.
E quella è stata veramente la festa di tutti: si percepiva tra i presenti la
voglia di festeggiare assieme per un successo che non era più solo di un
singolo, ma di un intero gruppo. Stefano ha poi passato una buona estate
alternando momenti in cui nel contesto familiare, più spesso nei rapporti
con la madre, manifestava comportamenti un po’ “sopra le righe”, che
venivano mal tollerati e sui quali abbiamo lavorato assieme. Da una parte il
lavoro è consistito, e consiste ancora attualmente, nella condivisione di
alcune regole comportamentali che i genitori hanno sempre faticato a
stabilire e mettere in pratica. Dall’altra continuo anche adesso ad affiancare
un lavoro di costante rilettura dei comportamenti di Stefano che
nascondono pur sempre un forte bisogno di controllo, un bisogno che i
genitori faticano a tollerare. È facile che aspetti di spigolosità e di
coercitività vengano mantenuti nei confronti dei genitori quando bambini
con Ansia di separazione cominciano a stare un po’ meglio: questi aspetti
d’altra parte sono coerenti con la loro struttura e con i loro bisogni di
controllo.
L’anno successivo, la ripresa della scuola è andata piuttosto bene.
Stefano stava in classe tutte le ore e gestiva bene anche l’ingresso di
professori supplenti verso i quali l’anno precedente manifestava diverse
insicurezze perché non erano al corrente del suo problema. C’è stato
qualche episodio di incertezza, verso metà ottobre, in cui Stefano lamentava
malesseri fisici non significativi da un punto di vista clinico, ma che
venivano mantenuti dall’atteggiamento della madre, la quale telefonava a
scuola preoccupata oppure andava a scuola per portarlo a casa.
Riflettendo insieme alla madre su questi episodi, è emersa la sua
sensazione di solitudine, che veniva colmata con il tentativo di riavvicinarsi
al figlio. Il costante contatto con la terapeuta della signora mi ha permesso
di raccogliere e rimandare a lei temi caratteristici della personalità della
madre di Stefano che meritavano di essere trattati.
In primavera Stefano ha manifestato il desiderio di andare in gita con i
compagni di classe, a Londra per cinque giorni. Abbiamo discusso
lungamente la cosa sia con Stefano, sia con i genitori, sia con gli insegnanti
e il preside. In effetti l’anno precedente, quando ancora era nella prima
scuola, Stefano aveva insistito per andare in gita con i suoi compagni di
classe. Ma quella gita aveva rappresentato purtroppo uno spiacevole
episodio perché il bambino, come era prevedibile, aveva avuto le sue crisi
di nostalgia e gli insegnanti, che si erano assunti la responsabilità di
tranquillizzarlo, avevano finito invece per fargli le valigie e farlo venire a
prendere dai suoi genitori. Ora Stefano stava bene, ma il pensiero di questo
non troppo lontano incidente riecheggiava ancora forte per poterlo ignorare.
Anche in questo caso la condivisione del problema ha rappresentato la
carta vincente. Gli insegnanti hanno compreso che per Stefano questo
avrebbe rappresentato una bella occasione di crescita: il bambino avrebbe
potuto dimostrare a sé e agli altri che ora ce la poteva fare. Erano
comprensibilmente un po’ spaventati dalla responsabilità che questa
decisione avrebbe implicato per loro. Avrebbero dovuto tranquillizzarlo,
sostenerlo, rassicurarlo se ci fosse stata una crisi e per tutta la durata della
crisi, ma in ogni caso avrebbero dovuto tenerlo, senza mandarlo a casa o
farlo venire a prendere dai genitori.
Stefano è partito contento, ha passeggiato con i suoi amici in autonomia
per una città straniera, si è fatto prendere da una piccola crisi di nostalgia
che è stata placata con lo stesso atteggiamento fermo e consolante di
sempre ed è tornato a casa dicendomi:
“Mi sento diverso. Questa esperienza mi ha dato più fiducia in me
stesso”.
Mentre erano a Londra ricevo sul mio cellulare un SMS, questa volta
dalla professoressa di Stefano, che credo sia significativo di questo clima di
condivisione che si è creato e che ha permesso a un bambino in difficoltà di
riprendere serenamente la sua strada:
“Stefano è fantastico, disponibile, tranquillo e felice. Bravi dottori avete fatto un buon
lavoro!”.
Confesso che nel ricevere questo messaggio ero certamente contenta per il
mio piccolo paziente, ma sinceramente anche per il significato che questo
riconoscimento aveva per me.
1 Stefano ha undici anni e mezzo e si è appena iscritto in prima classe della scuola secondaria di
primo grado.
2 Si tratta di uno specialista diverso dallo zio che mi ha fatto la prima telefonata.
3 Vedi capitolo 9, nota 3. Qui, oltre che in prima persona come in tutto il libro, la narrazione è al
femminile perché il lavoro clinico è stato svolto da Daniela Fontana.
4 Il test utilizzato è il TMA (Test di valutazione Multidimensionale dell’Autostima) di Bracken
(2003).
5 Vedi nota 3 del presente capitolo.
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 20

Interludio
Fabio Celi

30 dicembre 2008

Sto scrivendo queste righe durante le vacanze tra Natale e Capodanno.


Ieri mattina ho visto per la prima volta Davide, un ragazzino di prima
classe della scuola secondaria di primo grado. È entrato con la mamma;
aveva l’aria imbronciata e le sue prime parole, appena seduto, sono state:
“Quanto mi devo fermare?”.
“Quanto vuoi”, gli ho risposto.
Mi ha guardato con aria interrogativa. L’espressione del volto
comunicava chiaramente che non si fidava di quello che gli avevo appena
detto.
Ho aggiunto:
“Dimmi tu quanto ti vuoi fermare”.
“Dieci minuti?”.
Ho guardato l’orologio digitale che ho sulla parete di fronte a me, alle
spalle del paziente, e che di solito mi serve per controllare il tempo che
passa in seduta.
“Bene. Sono le 10:09. Alle 10:19 smettiamo e, se vuoi andare, ci
salutiamo e ci diamo un altro appuntamento. OK? Ora possiamo far uscire
la mamma e chiacchierare un po’?”.
Mi ha risposto di sì e abbiamo iniziato il colloquio.
Gli ho chiesto come mai aveva fretta di andarsene, se fosse stato portato
da me contro la sua volontà e se sapeva come mai era qui.
Mi ha risposto che era stato portato da me perché si comporta male in
casa e che non aveva una gran voglia di venire perché è in vacanza e si era
accordato di uscire con i suoi amici per fare un giro.
Gli ho ribadito che tra 9 minuti, se voleva, poteva andare e gli ho chiesto
se così sarebbe riuscito a vedere i suoi amici in mattinata. Sì, mi ha detto
che così ce l’avrebbe fatta e mi è sembrato rassicurato da questo: un’ombra
quasi di gratitudine è passata sul suo volto.
“Senti, allora ti hanno portato qui da me perché pensano che ti comporti
male a casa, ma stamani, se sei d’accordo, non parlerei di questo. Lascerei
gli argomenti negativi a un’altra volta e adesso userei il poco tempo che
abbiamo per conoscerci un po’. Quali sono le cose che ti piacciono, quelle
che fai volentieri?”.
Mi ha parlato degli amici e della breakdance. Poi gli ho chiesto di
descrivermi la sua famiglia. Curiosamente è partito dalla sorella, per poi
risalire a madre e padre. La sorella ha ventidue anni, frequenta una scuola
per parrucchieri e intanto, il sabato sera e durante le feste, lavora come
cameriera al ristorante Le regine.
“È quello in viale Mattei, tra l’autostrada e il mare?”.
“Sì, proprio quello”.
Lo conosco perché qualche anno fa avevo curato l’inserimento
terapeutico di un ragazzo Down dell’Istituto Alberghiero.
Dopo la famiglia, mi stava raccontando di quando esce con gli amici.
L’ho interrotto a metà di una frase, gli ho chiesto scusa e gli ho fatto notare
che erano le 10:19 e io ci tenevo a rispettare l’accordo. Davide era
perplesso, forse voleva almeno finire il discorso. Forse non si era reso conto
del tempo passato, forse non ricordava più il nostro patto.
Gliel’ho ricordato e gli ho ribadito che io ci tenevo a rispettarlo, ma che
se ormai voleva finire il discorso sugli amici, purché la decisione fosse sua,
poteva farlo; dopodiché ci saremmo accordati per un appuntamento in un
orario che non gli facesse perdere cose alle quali teneva.
A questo punto devo fare una confessione. Dovrebbero essere giorni di
vacanza anche per me e sono piuttosto stanco. Avevo fissato
quell’appuntamento alle ore 10 perché non ero riuscito a fare diversamente,
ma, in tutta sincerità, non mi sarebbe dispiaciuto se il colloquio fosse durato
davvero non più di 10 minuti. Naturalmente avevo fatto quella proposta
perché pensavo che fosse una strategia utile per cercare di costruire una
prima piccola alleanza terapeutica, ma anch’io avevo sotto sotto un mio
banale vantaggio. Invece siamo arrivati alle 11:45 perché Davide si è fatto
prendere da alcuni argomenti che evidentemente gli stavano a cuore, poi
abbiamo concordato un appuntamento per dopo l’Epifania e ci siamo
salutati.
Sono andato a pranzo con alcune mie colleghe, a mangiare pesce e frutti
di mare (forse era anche per questo che non avevo tanto la testa al lavoro,
ieri mattina). Al ritorno siamo passati da Lerici e ci siamo fermati sul porto
a prendere un caffè. Poi, lungo la strada di casa, sono passato da viale
Mattei.
Mi è venuta in mente la sorella di Davide (che naturalmente non
conosco). Ho rallentato, per non farmi sfuggire l’indicazione, sulla destra,
del ristorante Le Regine. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto andare,
scuriosare l’ambiente, annusare i profumi, immergermi in quell’atmosfera.
Non mi è neanche passato per la testa di farlo davvero, se non altro perché
avevo la pancia piena e non avrei saputo davvero cosa fare in un altro
ristorante, ma ho riflettuto sul fatto che interpreto il mio mestiere, ogni
volta, come l’inizio di una storia, di un pezzo di strada da fare insieme.
Avevo conosciuto Davide solo qualche ora prima, e già stavo
cominciando a provare a penetrare nella sua vita. Forse non è molto
“professionale” e di sicuro non è molto tecnico. Mi ricorda un po’ il modo
che ha Maigret di condurre le sue inchieste. Tutte le volte che si trova di
fronte a un nuovo caso il commissario non resiste alla tentazione di lasciare
il suo ufficio in quai des Orfèvres e comincia a gironzolare per le vie di
Parigi, nel quartiere dei protagonisti della nuova storia. Non è un caso che i
superiori lo rimproverino spesso per questo suo atteggiamento. Il capo della
polizia gli domanda perché non mandi i suoi ispettori a fare indagini e
interrogatori sul posto. Il giudice istruttore Camelieu, un ometto
impomatato e irrigidito nel suo ruolo, che Simenon a volte descrive come
un Funzionamento intellettivo borderline (anche se non usa questo temine
:-), oscilla tra l’incomprensione e lo scandalo, di fronte ai metodi del
vecchio commissario. Ma poi quello che succede, invariabilmente dato che
si tratta di romanzi, è che il vecchio commissario non “scopre” l’assassino
come in un giallo classico all’inglese. Lo incontra. Lo riconosce. Quando ne
ottiene la confessione questa in realtà è inutile, perché Maigret ha già
condiviso una parte così importante della sua storia, il profumo dei bistrot
che l’uomo frequentava, le chiacchiere della portinaia, l’arredamento e gli
odori della sua casa. Maigret sapeva già tutto, nello stesso modo attraverso
il quale noi sappiamo le cose di chi frequentiamo assiduamente da tempo.
Io non scopro invariabilmente l’assassino, né riesco a farlo confessare,
perché non sono un commissario né il personaggio di una serie di romanzi
di successo. A volte non scopro la patologia e spesso non riesco a farla
recedere. Però, passando accanto alla traversa del ristorante Le regine,
provo quel desiderio di scuriosare, di annusare, di conoscere, tipico
dell’inizio di ogni storia. Penso che la psicoterapia, di qualunque
orientamento, sia non solo ma anche la condivisione di una storia. Non
solo: il commissario Maigret si rivolge regolarmente ai colleghi della
polizia scientifica e legge con attenzione i referti del medico legale.
Analogamente, gli psicoterapeuti si servono delle loro tecniche e in questo
volume il lettore attento non faticherà a trovare differenze tra un approccio
cognitivo-comportamentale più classico che caratterizza i casi descritti da
Celi da uno più cognitivista tipico dei capitoli più curati dalla Fontana.
Ancora maggiori sarebbero le differenze se leggessimo i resoconti di una
psicoterapia di un freudiano o di un sistemico relazionale.
Tutto questo è importante, ma mi chiedo se avrebbe un senso al di fuori
della condivisione di una storia. Credo che quello che succede in una
psicoterapia, in ogni psicoterapia che abbia un significato, è che due
persone decidono di condividere un percorso. Si conoscono, si confrontano,
familiarizzano l’una con l’altra, accettano di passare un po’ del loro tempo
insieme. Non so ancora se Davide concorderà su questo punto. Non so se,
dopo l’Epifania, si presenterà al secondo appuntamento. Se deciderà di
rinunciare a un’ora con i suoi amici per passarla con me.
So solo che se lo farà, inevitabilmente, non potremo fare a meno di
diventare un po’ amici. Gli ortodossi, i teorici, i giudici istruttori alla
Camelieu chiameranno tutto questo, un po’ scandalizzati, “rottura del
setting”. Per me, quando una relazione psicoterapeutica funziona, è solo la
decisione condivisa di fare insieme un tratto di strada.
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 21

La storia di Enrico Quante paure…


Fabio Celi, Daniela Fontana

IL PRIMO COLLOQUIO CON LA MAMMA

Forse ha fatto in tempo a sedersi, forse si sta ancora sistemando sulla sedia
quando la mamma di Enrico mi dice che è in cura da otto anni per attacchi
di panico. Ha fatto qualche anno di farmacoterapia della quale ultimamente
riesce quasi sempre a fare a meno, mentre la psicoterapia, cominciata
appunto circa otto anni fa, continua. Anche i suoi due fratelli sono stati più
volte in terapia con ansiolitici, mentre dalla parte della famiglia del marito
non sono riferiti disturbi di natura psicologica o psichiatrica di nessun tipo.
Arrivata a questo punto la mamma si è seduta, ha cominciato a
familiarizzare con la situazione, e allora mi dice che è venuta da me per suo
figlio Enrico, che va in giro con una bottiglietta di chinotto “per quando gli
viene un po’ d’ansia”. Sembra che una volta il bambino avesse sentito il
nonno materno che, dopo pranzo, chiedeva del chinotto per digerire e che
quella frase lo avesse molto colpito.
Il padre, che non è presente al colloquio, torna di nuovo alla ribalta. La
mamma mi racconta infatti che lui cerca di risolvere il problema dicendo al
bambino: “Smettila con questa bottiglia”. Ma la cosa non funziona. I due
momenti peggiori per il bambino sono il distacco dalla mamma al mattino
quando deve andare a scuola e la ricreazione. Ha paura di vomitare e la
bottiglietta gli serve per tranquillizzarsi. Beve un goccio dalla bottiglietta di
vetro e si calma. A scuola, quando lavora e si concentra, sta meglio; sembra
invece che la ricreazione gli crei più difficoltà proprio perché gli viene a
mancare la sicurezza data dall’avere un compito preciso da svolgere, tanto
che ripete spesso una frase piuttosto insolita e triste per un bambino (Enrico
ha sette anni e qualche mese1 e fa la seconda classe della scuola primaria):
“La lezione dovrebbe durare otto ore”.
Chiedo com’è il rendimento scolastico e se ci sono altre cose che non
vanno. Tecnicamente, questo segna il passaggio dalle manovre di apertura
del primo colloquio , durante le quali ho lasciato parlare la madre
restando praticamente in silenzio, a domande più dirette per cercare di
mettere meglio a fuoco la situazione e il problema.

pag. 49

Enrico non ha difficoltà scolastiche. Però sembra che faccia tutto per gli
altri e che a lui interessi ben poco anche dei suoi risultati positivi. “Anche
gli ‘ottimo’ li prende per gli altri”, dice la madre.
Domando da quanto tempo è che sente il bisogno di questa bottiglietta. È
da qualche mese, perché tutto è cominciato alla fine dell’anno scolastico e
ora siamo a pochi giorni dalle vacanze di Natale. Dal momento che la
mamma ha una data di riferimento così precisa, le chiedo qualcosa di più
rispetto a un possibile evento traumatico legato agli attuali problemi del
figlio.
“Doveva fare la recita di fine anno”, mi racconta con una certa angoscia.
“Si stava preparando da settimane, ma quando la data ha cominciato ad
avvicinarsi mi ha detto che non voleva più farla. Mi ha chiesto per favore di
non mandarlo a quella recita. Io non sapevo cosa fare e ho cercato un
consiglio dal suo pediatra perché Enrico sembrava veramente in difficoltà,
diceva che non se la sentiva, che aveva paura di non essere pronto e di fare
una brutta figura davanti a tutti… Il pediatra mi ha consigliato di mandarlo.
Anche il padre ha insistito dicendo che erano tutte idee e che poi suo figlio
se la sarebbe certamente cavata benissimo. Così lo abbiamo mandato e ha
recitato la sua parte in modo perfetto.
La mamma, arrivata a questo punto del racconto, mi sembra come
mortificata. Mentre Enrico recitava la sua parte in modo “perfetto”, il padre
le faceva infatti notare che dunque aveva ragione lui, che non c’era motivo
di preoccuparsi e che le paure della mamma non erano altro che il segno
della sua debolezza.
Il problema è che però, appena finita la recita, Enrico ha detto di essere
stato malissimo. “Ho avuto una paura folle di strozzare”, ha spiegato alla
madre, “di vomitare, di sentirmi male”. Sembra che i sintomi siano
cominciati da lì.
Dopo, tutto è diventato difficile. È un problema persino portarlo al luna
park o al cinema, cioè fare cose che dovrebbero essere divertenti e gradite.
Non parliamo del catechismo. Va a scuola, sia pure con molte difficoltà,
perché andare a scuola è obbligatorio, ma tende a rifiutare tutte le
esperienze in qualche modo nuove o emozionanti. In termini tecnici
potremmo dire che mette in atto comportamenti di evitamento di fronte a
situazioni attivanti, che per qualche ragione gli producano emozioni più
forti di quanto non sia capace di controllare.
Adesso, al mattino, la mamma lo deve accompagnare fin sulla porta
della classe anziché lasciarlo al portone di ingresso della scuola, come il
regolamento vorrebbe. Credo che sia utile immaginare la situazione che si
crea in questo modo e, soprattutto, di cercare di guardarla con gli occhi dei
compagni di Enrico. I bambini vengono accompagnati davanti alla scuola.
Salutano i genitori, entrano nell’atrio, salgono le scale e se ne vanno in
classe. Enrico invece, con una bottiglietta di vetro in mano, piena di un
liquido marrone, entra nella scuola con la mamma a fianco, sempre con la
mamma attraversa l’ampio atrio, sale le scale e solo davanti alla porta della
sua aula si decide, sempre con quella strana bottiglietta in mano, a salutare
la mamma e a entrare in classe. Non è difficile rendersi conto
dell’immagine di stranezza, bizzarria, anormalità che produce una
situazione di questo genere. Ci sono inoltre giorni in cui, con tutta la buona
volontà della madre e di Enrico stesso, il bambino non riesce neppure ad
andare a scuola.
Cerco di approfondire quali sono i pensieri e le paure di Enrico che gli
rendono così difficile frequentare le lezioni in modo regolare e partecipare a
molte altre attività sociali. La mamma mi risponde di nuovo che crede che il
problema principale sia la paura di vomitare. Le viene anche in mente un
altro episodio, sempre di qualche mese prima. Il bambino era andato dal
pediatra per un persistente mal di gola. Il medico lo aveva sottoposto a un
tampone faringeo. Enrico aveva avuto la sgradevolissima sensazione di
vomitare ed era uscito molto turbato da questa visita, obiettivamente banale
e velocissima, ma soggettivamente percepita come molto invasiva.
Tutto, d’altra parte, sembra strettamente connesso con le relazioni
sociali. A casa il bambino sta bene, da solo e senza problemi. I problemi
cominciano, al contrario, quando si cerca di portarlo fuori. Solleva mille
difficoltà e appare evidente che la casa, per lui, è un luogo sicuro dove sta
volentieri probabilmente perché si sente protetto. Tra pochi giorni, per
esempio, andranno tutti in crociera per le vacanze di Natale, e lui sta già
facendo un sacco di storie perché non vorrebbe partire.
Raccolgo l’anamnesi. I primi dati sembrano tutti negativi, a indicare uno
sviluppo del tutto tipico: gravidanza regolare, parto eutocico a termine,
dimissioni in quarta giornata, primi mesi a casa tranquillo (“un bambino
facile da allevare, che mangiava e dormiva regolarmente”), prime parole e
la deambulazione autonoma intorno al compimento del primo anno. Poi,
però, la storia si complica. Viene fuori che ha dormito con la mamma fino
ai quattro anni e mezzo, anche se, in verità, sarebbe più corretto dire che
fosse la mamma che dormiva con lui, in una brandina di fortuna: ed è molto
significativo il commento che, del tutto spontaneamente, fa la signora a
questo proposito: “perché io non mi volevo staccare”. Ancora adesso, va a
letto con il rituale del biberon. La mamma gli prepara una camomilla
tiepida e gliela mette in un vecchio biberon, che il bambino porta a letto con
sé.
Una breve osservazione tecnico-teorica, che abbiamo già svolto in modo
simile in simili circostanze, ma che mi fa piacere ribadire. La mamma che
“non si vuole staccare” dal figlio e ancora adesso che ha più di sette anni gli
dà il biberon la sera per farlo addormentare si presterebbe a mille
approfondimenti. Mi chiedo quanti miei colleghi, ascoltando queste parole,
avrebbero seguito filoni di colloquio ritenuti preziosi. Penso anche che
qualcuno potrà leggere queste pagine, dove io tiro dritto fino agli accordi
finali, scuotendo il capo e pensando a quante occasioni ho perso con la mia
superficialità. Può darsi. Però io immagino il primo colloquio come una
galleria da scavare. L’obiettivo è sbucare in un tempo ragionevole dall’altra
parte. Fuor di metafora: concludere in modo da poter vedere il bambino per
il quale i genitori hanno chiesto il mio aiuto. Certo, durante questo scavo
posso incontrare filoni d’argento o persino d’oro che sarebbe un peccato
abbandonare. Benissimo: per oggi il mio compito è sbucare dall’altra parte
della montagna. Poi potrò sempre tornare sui miei passi a esplorare nuove
miniere.
L’inserimento alla scuola dell’infanzia è avvenuto senza problemi.
Invece la scuola primaria sembra proprio non piacergli. Non ci va
volentieri. È capitato più di una volta che, a metà mattina, facesse chiamare
la mamma per farsi venire a prendere perché si sentiva male e gli veniva da
vomitare. La mamma aveva preso accordi con il bambino e con le maestre a
questo proposito. Il “patto” era che Enrico avrebbe dovuto cercare di
resistere e di farsi forza, ma se proprio avesse sentito di non farcela,
avrebbe avvertito la maestra, la maestra avrebbe telefonato alla mamma e la
mamma sarebbe andata a prenderlo. Invece c’è stato un episodio nel quale
questi accordi sono stati violati. Il bambino ha avvertito la maestra, ma la
maestra non ha creduto che valesse la pena di telefonare. Enrico si è sentito
male e ha vomitato in classe, davanti a tutti. La maestra, in quell’occasione,
aveva agito sicuramente a fin di bene, ma purtroppo il risultato è stato
molto negativo. Più in generale: è un errore non rispettare un patto.
Quell’accordo poteva essere giusto o sbagliato, e se lo si riteneva sbagliato
si poteva non farlo. Ma, una volta concluso, un accordo va rispettato se non
si vuol perdere la fiducia di un figlio, o di un allievo, o di un paziente, con
conseguenze che, come in questo caso, possono anche essere piuttosto
gravi, come vedremo più avanti.
Il colloquio si sta avviando alla conclusione. La mia idea sarebbe quella
di finire la storia del bambino arrivando a oggi, e in particolare ai rapporti
con i coetanei, alle amicizie, alle eventuali attività extrascolastiche. Ma, a
partire da una nuova osservazione della madre sulla durezza educativa del
marito, arriviamo in modo quasi automatico a parlare della famiglia.
Abbiamo già, indirettamente, conosciuto il padre. Abbiamo già cominciato
a capire che è una persona forte e sicura di sé. Le notizie che raccolgo
adesso su di lui non fanno che completare il quadro. È un uomo molto
dinamico che, partito quasi dal niente e dopo una gavetta brevissima, ha
messo su un impero nel settore delle macchine per la lavorazione del
marmo. Poi, da lì, è passato alle macchine a controllo numerico e poi,
ancora, all’elettronica di consumo. Alla fine ha costruito un impero. È
spesso assente da casa, il più delle volte all’estero anche per più giorni di
seguito, a causa del suo lavoro, che porta avanti a ritmi sostenutissimi. Si è
fatto da solo e crede nella forza della volontà, dell’impegno, della fiducia in
se stessi. Questo gli rende particolarmente difficile comprendere suo figlio
ed empatizzare con lui. Alle prese tutti i giorni, da anni, con problemi di
ogni tipo, è convinto che le difficoltà vadano affrontate a viso aperto, con
coraggio, senza arretramenti e senza inutili dubbi. Le cose non mi vengono
dette con questa chiarezza dalla moglie e sono in parte il frutto di una mia
rielaborazione, ma quello che appare sicuramente molto chiaro in questo
tratto del colloquio è che il padre e la madre rappresentano, per moltissimi
aspetti, estremi opposti: dall’aggressività alla passività; da un atteggiamento
proattivo e ostentatamente ottimista pronto ad affrontare i problemi senza
tentennamenti a uno ripiegato su se stesso, sempre in difesa, caratterizzato
da dubbi e incertezze. La mamma tiene l’amministrazione di un grande
magazzino di casalinghi: un lavoro che la occupa poche ore la settimana e
la lascia per il resto del tempo quasi completamente dedita ai figli, oltre che
ai suoi disturbi emotivi; ma forse sarebbe meglio dire al figlio Enrico
perché le altre due, una di quattordici e una di diciassette anni, non
sembrano avere un particolare bisogno di lei. Mi sembra inoltre di cogliere,
fin da questo primo colloquio, la povertà generale della comunicazione in
questa famiglia, dove ognuno sembra fare per sé, a eccezione di Enrico e
della sua mamma: che lo comprende fin troppo, forse fino ad anticipargli i
problemi e le soluzioni.
Anche le relazioni sociali del bambino sono molto povere, come ci si
poteva aspettare. Gioca occasionalmente con i cuginetti più piccoli, ma per
il resto, di solito, tende a chiudersi in se stesso. Non gli piace nessun tipo di
sport. Hanno provato a proporgli qualche attività, ma ha sempre rifiutato.
Lo sport non gli interessa neppure da guardare in televisione. Inoltre, gli
orari della scuola a tempo pieno che frequenta non favoriscono attività
extrascolastiche. Tuttavia è evidente che Enrico non fa praticamente
nient’altro oltre ad andare a scuola, principalmente per una scelta e per
difficoltà sue.
Credo che sia arrivato il momento delle manovre conclusive. Riassumo
alla madre che mi sembra di aver capito che il problema principale del
figlio sia costituito da una serie di ansie che si manifestano quasi
esclusivamente in pubblico, si concentrano sulla paura di vomitare, ma
forse si estendono alla più generale idea di fare brutta figura. Il bambino
tenta di tenere a bada queste difficoltà girando con una bottiglia di chinotto
dalla quale beve qualche sorso quando sente sopraggiungere il vomito. Il
loro rapporto appare inoltre molto stretto ed Enrico fatica anche a entrare in
classe se la mamma non lo accompagna e non lo rassicura. Sta volentieri a
casa, dove si sente tranquillo e le sue relazioni sociali sono ridotte al
minimo. La mamma condivide questo mio breve riassunto e allora posso
procedere chiedendole se ha già preparato il figlio all’idea di venire da me,
o se dobbiamo discutere di questo aspetto.
Mi risponde che lo ha già preparato ed Enrico viene con l’aspettativa che
io faccia sparire il suo problema. Sembra molto determinato, secondo la
mamma, da questo punto di vista. Dice di sapere che “è un fatto di testa”,
ma di non essere capace di levarselo da solo. Una volta, durante una visita
pediatrica, spontaneamente, ha chiesto al dottore se poteva farlo operare al
cervello in modo da togliergli questa fissazione della bottiglia. Mi sembra
un episodio forte e un dato molto significativo. Esprime, da un lato, una
sofferenza acuta da parte del bambino: al punto da fargli preferire un
intervento chirurgico a questo dolore. Dall’altro lato sembra indicare uno
stile di attribuzione completamente esterno: “io non posso in alcun
modo intervenire sul mio problema ed è necessario il bisturi per portarmelo
via”.

pag. 540

Ci salutiamo. Mi restano, nella mente e nel cuore, queste ultime parole


della madre (“ha chiesto alla dottoressa di farlo operare al cervello”) dalle
quali sembra emergere una grande consapevolezza e un grande dolore per
un bambino di sette anni.

IL PRIMO INCONTRO CON ENRICO: QUANTE


SORPRESE…

Ci sono bambini che, quando arrivano al primo colloquio dopo che ho


parlato con i genitori, si presentano esattamente come me li immaginavo.
Può succedere, per esempio, che una mamma mi descriva un figlio agitato,
troppo esuberante, incontenibile sia a casa che a scuola e poi, appena il
nuovo piccolo paziente entra nel mio studio, mi rovesci addosso un fiume di
parole e, subito dopo, mi metta a soqquadro la scrivania. Questo, tra l’altro,
sottolinea l’importanza di cercare di mettere a fuoco il problema durante il
primo colloquio con i genitori per preparare l’ambiente nel migliore dei
modi possibili: o di “apparecchiare” la scrivania. Con questo ipotetico
bambino, per esempio, bisognerà far sparire il proprio computer portatile
nuovo al quale teniamo particolarmente; chiudere gli sportelli degli armadi
dei giocattoli, sgomberare la scrivania da timbri, cucitrici e altre possibili
tentazioni; mentre quando aspettiamo un piccolo paziente internalizzato,
che farà fatica a dire due parole e persino a guardarci negli occhi,
l’”apparecchiatura” sarà tutta diversa, e sulla scrivania metteremo fogli,
pastelli, pennarelli, qualche puzzle e qualche altro gioco, sperando di
attirare la sua attenzione e portarlo a fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Poi ci sono i bambini che rispondono alle prime descrizioni dei genitori
solo parzialmente, e costituiscono quindi, in un certo senso, delle piccole
sorprese.
Infine ci sono le sorprese totali, quei bambini che, appena entrano, ci
fanno pensare che abbiamo sbagliato cartella o ora dell’appuntamento.
Come avreste immaginato Enrico? Provate a rispondere a questa domanda,
ritornando con il pensiero a tutte le notizie raccolte nel paragrafo
precedente, prima di proseguire nella lettura.
Entra strillando che vuole che la mamma resti lì con lui. La accusa,
anche con parole pesanti per l’età, di averlo portato da me contro la sua
volontà. Le dice che è cattiva, che è una stronza, che sapeva benissimo che
lui non voleva venire… Fa brevissime risatine incongrue, del tutto fuori
contesto; l’ansia, che appare fortissima e probabilmente responsabile di
questa reazione così inattesa, gli dà inoltre un’espressione spiritata e un
contatto oculare così sfuggente da far pensare allo spettro autistico.
Questo primo approccio è per me imbarazzante e inquietante.
Enrico è agitato, provocatorio, ripete che non avrebbe voluto venire. Io
sono in difficoltà. Vorrei sottolineare meglio questo aspetto: banale in
apparenza, fondamentale in realtà. In un lavoro psicoterapeutico si è sempre
(almeno) in due. Così le emozioni in gioco sono sempre tra due persone:
perché anche il terapeuta è un essere umano, con i suoi limiti, con le sue
paure, i suoi sensi di inadeguatezza (il mio, in questo momento, è
elevatissimo), che entrano in gioco e si riverberano nei pensieri, nelle
emozioni e nei comportamenti dell’altro.

La relazione di aiuto
pag. 563

“Proprio non avevi nessuna voglia di venire”, gli dico, con un’ombra di
sorriso che cerca di comunicargli che mi sembra di aver capito questo, ma
che di certo non lo sto giudicando.
Mi guarda senza aggiungere altre parole.
“Puoi dirlo anche a me, sai? Puoi dirmelo. Proprio non avevi nessuna
voglia di venire, vero?”.
Con la testa fa un rapidissimo cenno di no. Ma sembra già più tranquillo,
anche se ci vuole qualche minuto, durante il quale mi limito a interagire con
lui in modo molto cauto, perché cominci, cautamente, a collaborare.
Gli domando se preferisce fare due chiacchiere o un disegno. Sceglie di
parlare. Gli chiedo di ricostruire la sua giornata.
L’evoluzione del colloquio, a cominciare da questo punto, è
sorprendente. Fino a un attimo prima il bambino era chiuso, oppositivo,
desideroso solo di essere da un’altra parte. Ho cercato di accogliere e non
giudicare queste emozioni. Ho usato una strategia tipicamente rogersiana di
risposta riflessa (Rogers e Kinget, 1965; Rogers, 1970; Charkhuff, 1989;
Rainieri, 2005; Rogers, 2012), rimandandogli indietro il suo desiderio di
non essere qui da me in questo momento. Strategie simili, che in stadi più
avanzati di una psicoterapia possono diventare anche molto raffinate, hanno
lo scopo di riflettere le emozioni profonde di un paziente e cercare di
interpretarle. In casi come questi sono invece molto prudenti e superficiali:
si limitano a rimandare indietro il semplice contenuto di una comunicazione
e sono spesso utilissime anche solo come stratagemma per uscire da
un’impasse, da un momento difficile o imbarazzante del colloquio. Adesso
sto cercando di riprendere il discorso con una domanda estremamente
generica e quanto più possibile neutra. Enrico avrebbe potuto, nella
ricostruzione di una sua giornata, raccontarmi o non raccontarmi qualunque
cosa. Invece parte dal mattino, quando si sveglia per andare a scuola. Subito
aggiunge che questo è un momento molto difficile per lui. Mentre si
prepara, l’ansia legata al pensiero di andare a scuola è molto forte. Usa
proprio il termine tecnico “ansia”. Aggiunge che un altro momento molto
brutto è quando, a ricreazione, la maestra gli dice “corri” o “gioca”.
Se il lettore ricorda il primo colloquio che ho fatto con la madre, noterà
qui una consonanza perfetta. La madre mi aveva detto che i due momenti
più brutti della giornata, per Enrico, sono il momento di andare a scuola e la
ricreazione: e adesso il bambino mi sta dicendo esattamente la stessa cosa.
Se poi il lettore ricorda anche le ingiunzioni paradossali o il cosiddetto
“doppio legame” di Watzlawick e Nardone (1997), troverà qui un’eco di
questo tipo di comunicazione. Enrico sembra, a qualche livello, rendersi
conto che gli si chiede una cosa quasi impossibile. Il bambino può infatti
ubbidire alla maestra quando gli viene chiesto di leggere a pagina 24; è più
difficile ubbidire quando gli si dice di correre e giocare. Ci mancherebbe
che gli venisse ingiunto di divertirsi e il paradosso sarebbe completo. È
quasi come ordinare a una persona di essere spontanea, o mostrargli un
cartello dove c’è scritto “vietato leggere questo cartello”.

La recita

Ma in questo colloquio Enrico ci darà ben altri motivi per stupirci.


Infatti, subito dopo aver parlato di queste ingiunzioni alle quali è così
difficile obbedire, arriva a raccontarmi della recita di fine anno. Gli lascio la
parola, così come sono riuscito frettolosamente ad appuntarla mentre lui
buttava fuori le sue emozioni con un’urgenza difficile da descrivere: “Era
successo che ero arrivato lì. Io non ci volevo andare, poi mi sono sentito
male, mi è venuto da vomitare, ce l’ho fatta a finirla ma è stato molto duro e
penoso. È più forte di me, non ce la faccio a togliermelo da solo, mi veniva
da piangere e io avrei preferito essere a casa”.
Forse il resoconto, se non fosse stato preceduto da quello della madre,
avrebbe potuto apparire non chiarissimo. Ma le emozioni sono lì davanti a
noi. Parliamo un po’ di questo episodio. Allora aggiunge che, da quella
volta, gli è venuta una gran paura di vomitare. Poi, probabilmente
ricordandosi della mia richiesta di qualche minuto prima, mi dice che
adesso, se per me va bene, è pronto per disegnare. Fa il disegno di un uomo,
come si può vedere nella figura 21.1, molto povero, un po’ tirata via, senza
ambiente, senza linea di terra. Sembra un compito fatto senza passione, “per
gli altri”, come mi ha detto la mamma durante il nostro primo colloquio:
cioè per accondiscendere a una richiesta, per far contento qualcuno.
Figura 21.1 Il disegno della figura umana fatto da Enrico in prima seduta.

Molto più interessante di quello che disegna mi sembra quello che


racconta mentre disegna:
“È quasi Natale”, mi dice, “e io sono preoccupato perché ci sarà un’altra
recita.”
Aggiunge che il fatto di non voler andare alla recita lo ha detto solo alla
mamma, “perché se queste cose le racconto al papà succede un casino. Con
il papà faccio finta di niente e quindi ce lo siamo tenuti per noi”.
La mamma, che fino a quel momento è rimasta in silenzio, interviene per
fargli notare che non è vero, che il papà non lo castiga mai.
Penso che a questo punto ci siano cose importanti da notare, prima di
proseguire nel racconto. Enrico mi sta facendo una richiesta di aiuto. Ha
paura di fare la recita di Natale. Ha paura di dirlo al padre. Ha paura che la
madre non capisca questo suo bisogno. Così ne parla con me, perché io
provi a fare qualcosa per lui. In realtà quello che sta cercando di fare è
rompere un cerchio di silenzio. La mamma mi aveva fatto capire che c’era
una povertà generale di comunicazione in questa famiglia, e adesso io posso
osservare in diretta questa povertà: “Con il papà faccio finta di niente e
quindi ce lo siamo tenuti per noi”. Persino la mamma, che di solito
comprende il figlio fin troppo bene, adesso sta al gioco del non detto: “non
è vero, il papà non ti castiga mai”.
Certo che il papà non lo castiga mai! Non ne ha bisogno. Non ne ha
motivo. Per cosa dovrebbe castigare Enrico, se Enrico non gli dice niente?
Ed Enrico non gli dice niente, infatti, per non farsi castigare; ma ha una
gran paura di questa nuova recita e vorrebbe tanto non farla.
Così, lo dice a me.2
Poi, subito dopo, tornano quelle risatine incongrue, apparentemente
immotivate, che mi avevano molto colpito all’inizio del colloquio e che gli
danno, a tratti, un’aria da spettro autistico. Gli chiedo come mai ride. Mi
risponde che gli viene da ridere perché non gli era mai capitato di disegnare
davanti a un dottore. Poi però sembra riflettere sul fatto che forse c’è
qualcosa d’altro che lo rende nervoso. Guarda la mamma e trova il coraggio
di dirle chiaramente, questa volta rivolgendosi direttamente a lei, che lui
non vuole fare la recita. La mamma tace, ma Enrico sembra in ogni modo
molto sollevato dal fatto di essere riuscito a dire questa cosa.

Prime manovre di valutazione del problema

Intanto il bambino continua a manifestare segni d’ansia durante il colloquio.


Glielo dico. Lui mi risponde di sì, che è vero, che spesso è in ansia perché
ci sono delle cose che “odia” e delle cose che “lo agitano”. Gli chiedo quali
sono le cose che odia di più (uso di proposito lo stesso verbo che ha usato
lui).
“Sono due. Farmi guardare la gola e andare dal dentista”.
“E quelle che ti agitano?”.

“Tutte le volte in cui ho vomitato in passato e poi mi è venuta questa roba


qua e io proprio non voglio farlo”.3
“E poi?”.
“Quando corro, quando mi agito e quando vado a scuola il mattino”.
Sto conducendo un vero e proprio assessment. Questo è decisamente
inconsueto durante un primo incontro, che viene di solito dedicato a
conoscersi e a familiarizzare. Credo che lo psicologo non dovrebbe, in
genere, avere fretta di arrivare a raccogliere dati concreti sui problemi del
paziente, ma qui Enrico, dopo un inizio decisamente difficile, mi viene
adesso dietro con una tale naturalezza da spingermi ad accelerare un po’. A
questo punto, tuttavia, è importante evitare l’errore, frequente durante le
procedure di valutazione, di concentrare tutta l’attenzione sul negativo, sui
sintomi, sulla sofferenza, sulle cose che non vanno.
Gli chiedo quand’è che sta meglio.
“Non mi viene quando lavoro e gioco da solo. Sono più tranquillo”.
Lo incoraggio di nuovo a cercare altri momenti in cui gli sembra di star
bene. Vado alla ricerca del positivo, un’operazione che dovrebbe
contraddistinguere moltissime fasi di un intervento psicoterapeutico.
“Quando ricomincia la lezione, quando si fanno giochi calmi e non si
corre e non ci si pista”.4
“Ti viene in mente altro?”.
“Quando sono a casa. Il sabato e la domenica”.
“E quand’è che ci pensi di più, che i brutti pensieri sono più forti?”.
“Quando faccio ricreazione e quando mi viene in mente la recita”.
“E quando fai lezione?”.
“Ci penso meno”.
“E ora qui da me?”.
“Ci penso meno”.
“E quando sei a scuola e ti prende l’agitazione, a cosa pensi?”.
“Qualche volta alla mamma”.
“E al papà, ci pensi?”.
“Mai”, con un tono che sembra non ammettere repliche.
“Com’è il tuo papà?”.
“Severo”.
“E la mamma?”.
“Molto più allegra”.5
E poi, spontaneamente, senza che io abbia fatto neppure un cenno
all’argomento:

“Peggiore di mio papà è mia sorella Francesca, perché è gelosa di me


perché io sono più intelligente”.
Possiamo notare che qui, con una sola frase, Enrico ottiene non solo lo
scopo di raccontarmi della gelosia della sorella e di denigrarla per la sua
minore intelligenza, ma con quel “peggiore” sottolinea in modo molto forte,
anche se indiretto, il suo giudizio negativo sul padre.
Torno alle mie procedure di assessment, ma sento anche il bisogno di
riprendere un argomento che ho appena trattato. Ripeto che è molto raro, e
quasi sempre un errore, fare un assessment rigoroso quando si è appena
conosciuto un nuovo paziente. La prudenza e la prioritaria necessità di
stabilire una relazione significativa dovrebbero scoraggiare il terapeuta
dall’avere fretta su questo punto. Il professionista che, di solito alle prime
armi, cominci con una specie di interrogatorio sulla lista degli antecedenti
che generano ansia, o, peggio ancora, proponga una tavola di osservazione
sistematica per “quantificare” comportamenti “definiti operazionalmente”
rischia di diventare la caricatura dello psicologo comportamentista e di
essere scambiato dal paziente per un ragioniere. In questo caso, tuttavia, le
cose sono procedute quasi da sole, per forza propria. Senza soluzione di
continuità Enrico è passato da una prima fase gravemente oppositiva,
durante la quale l’ansia per la situazione nuova aveva probabilmente il
sopravvento su tutto, a una in cui, spontaneamente, ha cominciato a
raccontarsi con molta precisione e, sempre più con l’avanzare del colloquio,
ha mostrato di fare volentieri questo lavoro.
Ho definito il nostro primo incontro sorprendente perché è caratterizzato
da una valutazione molto analitica di alcuni aspetti del problema, cosa già
molto rara. Ma c’è di più: terminerà addirittura con alcune sia pur brevi e
semplici manovre terapeutiche.
D’altra parte Enrico è un bambino sorprendente, per alcune capacità di
raccontarsi e persino di costruire da solo un suo percorso terapeutico, come
vedremo quando sarà lui stesso a propormi di usare una strategia di
dilazione della risposta.
Gli chiedo quali sono le situazioni che gli fanno venire paura di vomitare
e lui inizia di nuovo un piccolo racconto, come ha fatto poco fa con
l’episodio della recita:
“È ricreazione. La maestra dice ‘mancano 5 minuti’ e io già comincio ad
agitarmi, e dico ‘oddio’ ma non lo dico a nessuno. Le maestre mi chiedono
‘che cos’hai?’. E io dico ‘niente’ perché la mamma non vuole che lo dica.
Nell’intervallo anche se gioco sto male. I compagni pensano solo al calcio”.
Quante cose mi sta raccontando! Mi sta raccontando che la ricreazione è
il suo terribile antecedente e quando la maestra dice ai compagni che
mancano 5 minuti, sicuramente per dar loro una buona notizia e cercare di
farli star bravi ancora un po’, lui comincia a star male. Mi sta raccontando
dei sui pensieri anticipatori e del suo dialogo interno (“comincio ad agitarmi
e dico ‘oddio’”). E infine, forse la cosa più importante di tutte, mi sta
raccontando dei suoi silenzi, dei suoi non detti e di come tutto questo
appartenga a un copione familiare che, prima o poi, il terapeuta dovrà
aiutare a cambiare (“io dico ‘niente’ perché la mamma non vuole che lo
dica”). Enrico è proprio un paziente che sa guardarsi dentro.

Mi racconta infatti di altre situazioni che gli scatenano la paura di vomitare:


“la recita, le prove della recita; correre a ricreazione; la seconda B che mi
pistano6 perché sono dei maleducati; mia sorella quando mi prende in giro”.

Prime manovre di intervento

Mi sembra che, nel complesso, la seduta sia andata molto bene, soprattutto
se si considera com’era cominciata. Tuttavia non credo che possa finire qui.
Sono rimasti sospesi, come nell’aria, due temi che in qualche modo sento la
necessità di raccogliere.
Il primo è la bottiglia di chinotto, che il bambino ha davanti a sé. È
difficile che Enrico pensi che io non sappia nulla di questo suo problema.
Ma anche nell’improbabile caso che la mamma non me ne abbia parlato, la
bottiglia di vetro è lì sulle sue ginocchia, prova silenziosa ma evidente di
qualcosa del quale sarebbe brutto, da parte mia, non parlare neppure. Gli
chiedo se me la fa vedere. Gli dico che so che tenerla vicino a sé gli dà
sicurezza. Cerco, nei limiti delle mie capacità, di fare tutto questo con un
atteggiamento calmo e non giudicante. Gli comunico che, in ogni modo, a
me non fa paura parlarne. Enrico annuisce. Allora provo ad andare avanti;
solo un cauto, piccolo passo:
“Secondo te, se io provassi a spostare un po’ la bottiglietta, per esempio
appoggiandola sul lettino, cosa succederebbe?”.
Sembra incerto:
“Non so…”.
“Certo, è difficile saperlo prima di provare. Secondo te, possiamo
provare?”.
Mi risponde di sì.
Prendo la bottiglietta e, lentamente, la poggio sul lettino da rilassamento,
che dista dalla scrivania e dunque anche da noi due, poco più di un metro.
La bottiglietta resta in ogni modo perfettamente visibile, potrei dire a
portata di mano.
“Come ti senti, ora che la bottiglietta è sul lettino?”.
“Sempre uguale”.
“Benissimo. Ti senti sempre uguale. E se provassi a spostarla sullo
schedario, dietro l’orologio?”.
Di nuovo un po’ di incertezza, ma di nuovo mi risponde di sì.
Prendo ancora la bottiglietta e, ancora lentamente, la appoggio sopra lo
schedario. Guardo Enrico che mi sembra sereno. Gli sorrido e “nascondo”
la bottiglietta dietro l’orologio. Cerco di fare tutto questo con una modalità
che trasmetta calma e sicurezza. Senza fretta, senza ansia di raggiungere
risultati, senz’altro scopo che quello di provare e vedere cosa succede.
Adesso la bottiglietta dista due o tre metri, è alle spalle del bambino e non
può essere vista perché è nascosta dall’orologio.
“E ora che la bottiglietta è dietro di te, come ti senti?”.
“Sempre uguale”.

Mentre prendo la bottiglietta per restituirgliela gli dico che è stato


bravissimo, che non mi aspettavo di riuscire a fare tante cose in un’ora sola;
e gli chiedo se ha voglia di tornare. Mi risponde di sì e così, sebbene la
mamma sia ancora lì presente, mi accordo direttamente con lui per un
nuovo appuntamento.

Che cosa ho fatto?

Si possono vedere, in quest’ultima fase del colloquio, alcune metodologie


dell’approccio cognitivo-comportamentale classico messe in atto in modo
molto prudente e ancora embrionale.
Prima di tutto c’è sicuramente un’esposizione graduale (vedi
desensibilizzazione sistematica – esposizione ); lo stimolo ansiogeno in
questo caso è rappresentato dalla lontananza della bottiglietta: dunque, più
la allontano più espongo il bambino allo stimolo. Si può anche notare che
l’esposizione, prima che in vivo, è fatta in immaginazione (“Secondo te, se
io provassi a spostare un po’ la bottiglietta, per esempio appoggiandola sul
lettino, cosa succederebbe?”). Cerco di fare tutto questo con un
atteggiamento calmo, rilassato, per quanto possibile libero da ansia da
prestazione, per comunicare in qualche modo che credo che certe cose si
possano provare, che io sono disposto a provarci tranquillamente, che sarei
contento se riuscissimo, ma che certo non sarà la fine del mondo se non
riusciremo. Si tratta dunque di una forma di modellamento : espongo
Enrico a un modello in grado di prendere la bottiglietta e spostarla, e questo
modello può essere utile anche per la mamma, che è presente e assiste a
tutta la scena. Poi propongo al bambino un’auto-osservazione (“Come ti
senti, ora che la bottiglietta è sul lettino?”). E naturalmente gratifico i suoi
piccoli sforzi in modo sistematico attraverso rinforzatori sociali .

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La recita

La seduta è finita. Ho concordato un appuntamento direttamente con Enrico


perché apparisse chiaro il prima possibile che, almeno nelle mie intenzioni,
sarà lui il mio cliente, anche se la mamma è ancora lì accanto. Dunque ci
salutiamo e tutti e tre usciamo dal mio studio.
Tuttavia ho scritto poco fa che erano rimaste sospese, come a mezz’aria,
due questioni. La prima, quella della bottiglietta, l’ho affrontata. Resta
dunque il problema della recita di Natale, di cui Enrico mi ha parlato più
volte nel corso di questa nostra prima seduta. Cosa devo fare?
Mi trovo in una situazione di conflitto, nella quale è probabile che sbagli
qualunque cosa faccia. Potrei, seguendo la teoria, consigliare alla madre di
far fare la recita al figlio. La teoria, infatti, come spesso succede, è piuttosto
semplice: è necessario affrontare le situazioni ansiogene perché in questo
modo l’ansia tende a diminuire; evitarle, al contrario, rinforza l’ansia
negativamente. Si tratterebbe dunque di dare lo stesso parere che, alla fine
della prima classe della scuola primaria, diedero il padre e il pediatra. Già
questo mi allarma. Non voglio svolgere il ruolo di terzo uomo “forte” nella
vita di Enrico. Non voglio rischiare di essere responsabile di un nuovo
episodio potenzialmente in grado di scatenare nuove crisi emotive. Non
voglio che il bambino, che mi ha più volte chiesto aiuto su questo
argomento, senta che gli volto le spalle. Quest’ultima considerazione è
sufficiente a farmi escludere anche un’altra possibilità: quella di salutare
definitivamente mamma e figlio e non affrontare l’argomento. Non credo
proprio che questa famiglia abbia bisogno di altri modelli di non detto.
D’altra parte anche la teoria è semplice solo fino a un certo punto: sostiene
infatti che le situazioni ansiogene vadano affrontate, ma in modo paziente e
per piccoli passi. Ma il 23 dicembre, giorno della recita, è domani! Come
posso, in queste condizioni, programmare un’esposizione graduale?
Cerco allora di uscire da questa impasse uscendo dal mio studio, come a
sottolineare che la parte tecnica del nostro incontro è finita. Poi nel
corridoio mi avvicino alla madre e le dico che è rimasta in sospeso la
questione della recita. Enrico, ovviamente, si fa molto attento. Le spiego
che sono in difficoltà e non ho una risposta a questo problema. Aggiungo
che in teoria è un errore evitare al bambino le situazioni che lo mettono in
ansia, perché in questo modo diamo all’ansia la possibilità di diventare
sempre più forte. Sempre in teoria, dunque, dovrei suggerire di portare il
bambino alla recita. Enrico mi guarda con un’espressione tra il deluso e lo
spaventato. Tuttavia mi sembra che non ci sia tempo per programmare
come si deve questo tentativo, e in una situazione di emergenza forse è
meglio un atteggiamento prudente. Se da gennaio in avanti cominceremo a
vederci regolarmente è probabile che gran parte del nostro lavoro consisterà
proprio nel portare il bambino ad affrontare le situazioni che lo mettono in
difficoltà, ma io non me la sento di iniziare adesso e proprio con la
situazione più difficile.
Ci salutiamo. Forse ho sbagliato, ma, alla fine, tra l’opzione tecnica e
l’alleanza con il mio piccolo, nuovo paziente, ho scelto quest’ultima. Enrico
mi guarda con un’espressione molto diversa da quella di poco fa.
IL SECONDO COLLOQUIO: IL RITORNO DALLA
CROCIERA

Sembra contento di essere tornato da me.


È passato più tempo della settimana che di solito trascorre tra una seduta
e l’altra, perché è andato in vacanza. Mi racconta del suo viaggio, ma
intanto noto subito e gli faccio notare che è entrato da solo, lasciando la
mamma nel corridoio. In crociera ha portato sempre la bottiglietta con sé,
ma non l’ha quasi mai usata. Tutto sommato, sembra che le vacanze siano
andate meglio di come probabilmente temeva. Restano però, soprattutto nei
primi scambi di questo secondo colloquio, le risatine incongrue, il contatto
oculare sfuggente, l’eloquio monocorde, che generano nell’ascoltatore (o
per lo meno in me) un disagio sottile e indefinito, specchio probabilmente
del disagio relazionale del bambino.

Poi mi parla della recita:


“Non l’ho fatta”, mi dice, “ma mi sono pentito”.
Mi è difficile interpretare questa frase. Forse vuol dire che, magari
confusamente, si rende conto che dovrebbe cercare di affrontare le cose che
lo spaventano.
“E la bottiglietta?”, gli domando.
“Me la porto dietro quando esco di casa”.

Scelta degli obiettivi terapeutici


Credo che valga la pena ripartire da qui. Il bambino mi sembra abbastanza
grande, intelligente, consapevole e collaborativo per provare a condividere
con lui gli obiettivi della terapia.
“Senti, Enrico. Ho visto che hai deciso di ritornare e tra l’altro sei entrato
nel mio studio senza mamma. Sono molto contento di questo”.
Un sorriso orgoglioso.
“Adesso dovresti dirmi che cosa ti aspetti dal venire qui da me. Cosa ti
piacerebbe che riuscissimo a fare insieme?”.
Mi risponde che gli piacerebbe cercare di star meglio.
“Benissimo: vorresti cercare di star meglio. Cosa vuol dire per te star
meglio?”.
“Stare più allegro”.
“OK. Un obiettivo del nostro lavoro insieme potrebbe consistere nel
cercare di essere più allegro. Te ne vengono in mente altri?”.
Ci pensa un po’. Poi elenca:
“Non fare preoccupare la maestra che mi vede sempre triste. Fare
palestra con gli altri. Non portare la bottiglietta”.
Avevo ragione a pensare di potermi fidare di lui nella condivisione degli
obiettivi. Mi sembra che abbia detto cose molto interessanti: lavorare
sull’ansia (rappresentata dalla bottiglietta che deve sempre portare con sé);
sulle abilità sociali e le amicizie; sul tono dell’umore. Un quarto obiettivo,
quello di non far preoccupare la maestra, sembra connesso a un suo
problema di fondo, già emerso durante il primo colloquio con la mamma e
legato a un esasperato bisogno di compiacere gli altri.
Sull’obiettivo della bottiglietta c’è poco da dire: è molto chiaro e sarà
quello dal quale inizieremo l’intervento. Quello dello stare più allegro è
interessante perché il bambino, in questo momento, sembra più concentrato
sull’umore che sull’ansia e forse, in seguito, bisognerà approfondire la
questione. Poi c’è quel “non fare preoccupare la maestra” che la dice lunga
sul suo bisogno di compiacere gli altri, di apparire adeguato (ricordo
quando in prima seduta la mamma mi disse che anche i buoni voti a scuola
sembrava prenderli più per i genitori che per sé): tutti antecedenti cognitivi
che ci riportano nell’area della fobia sociale. E ritroviamo lo stesso nucleo
anche nel desiderio di fare palestra con gli altri: un comportamento
percepito come positivo e in qualche modo desiderabile, ma troppo difficile
da realizzare. La fobia sociale è spesso fatta di queste contraddizioni. Da un
lato vorrei inserirmi e apparire il più adeguato possibile. Dall’altro non ci
riesco, e meno ci riesco più appaio e apparirò inadeguato. Vorrei giocare
con i miei compagni o andare in palestra con loro, forse più che per il
divertimento per far vedere che non sono diverso dagli altri. Invece non
gioco e così tutti si accorgeranno che ho qualcosa che non va. I bambini
vengono lasciati sul cancello della scuola e io mi faccio accompagnare fin
sulla porta della classe: e così, di nuovo, tutti mi guarderanno. E poi giro
con questa strana bottiglietta di vetro dalla forma antiquata: un altro motivo
per avere mille occhi puntati su di me.
Non ci dimentichiamo che Enrico sente come molto forte, molto
doloroso questo suo problema, tanto da chiedere al pediatra una specie di
lobotomia per risolverlo. Anche a me, che stavo scherzando sul fatto che è
fortunato perché suo padre commercia in bellissimi prodotti di elettronica di
consumo che lui può avere gratis, replica:
“Fortunato sarai tu!”.
Lì per lì non capisco. Per un attimo penso che mi voglia dire che io sono
fortunato perché non ho un padre così. Gli chiedo:
“Perché?”.
E lui, sicuro:.
“Perché se riesci a curarmi te li regalo tutti!!!”.

Bottiglietta e termometro delle emozioni

Allora proviamo subito a fare qualcosa, naturalmente cominciando dalla


bottiglietta.
Forse “naturalmente” è un avverbio un po’ forte. Altri terapeuti
avrebbero forse cominciato dal senso di tristezza che sembra permeare un
po’ tutta la vita del bambino; oppure avrebbero avviato un programma di
abilità sociali, per portare Enrico a interagire di più e meglio con i
compagni e magari, alla fine, andare in palestra con loro. Ma a me la
bottiglietta sembra, da un lato, un ostacolo troppo grosso sulla via della
socialità e anche di un più generale miglioramento della qualità della vita;
dall’altro, rappresenta un’occasione troppo ghiotta per mettere a punto un
programma concreto dove, se tutto andrà bene, poter valutare i primi
miglioramenti e partire poi da questi per obiettivi nuovi. Così gli chiedo:
“Ma cosa significa per te questa bottiglietta?”.
“Mi serve per non essere agitato”.
“Ti serve per non essere agitato, benissimo. Ma ti senti sempre agitato?”.
“No…”.
“E ti senti agitato a volte di più, a volte di meno?”.
“Certo…”.
“Allora mi è venuta un’idea. Vorrei costruire insieme a te un
termometro”.
Mi sembra che mi ascolti con attenzione.
“Tu sai cos’è un termometro?”.
“Per misurare la febbre”.
“Perfetto. Io invece vorrei usare un termometro per misurare
l’agitazione”.

DALLA DIAGNOSI E DALLA FORMULAZIONE DI UN


OBIETTIVO ALL’INTERVENTO
PSICOTERAPEUTICO

La taratura del termometro


Chiedo a Enrico:
“Vuoi provare a costruire con me un termometro speciale per misurare la
tua agitazione?”.
Sembra quasi divertito nel rispondermi di sì.
“Allora, il nostro termometro immaginario ha 11 gradi: 0 vuol dire
nessuna agitazione, sto bene e sono tranquillo, sereno e rilassato; 10 vuol
dire un’agitazione tremenda, la più alta che abbia mai avuto in vita mia”.
Mi ascolta con attenzione ed è evidente che mi segue.
“Ora proviamo a usarlo. Da 0 a 10 quanto segna il termometro qui,
adesso?”.
“1”.
“1, benissimo. Quindi è molto basso”.
Vado avanti:
“Adesso, attenzione. Immagina di essere a scuola. È ricreazione. Quanto
segna il termometro?”.
Senza esitazione:
“10!”.
“Mamma mia, 10: il massimo. Proviamo ad andare avanti: la mattina
prima di andare a scuola quanto segna il termometro?”.
“10!”.
Com’era facile immaginare, Enrico è molto bravo in questo lavoro di
taratura. Teoricamente, una taratura può dirsi completa quando il paziente
trova il valore massimo e minimo del termometro. In questo caso io gli sto
dando qualche piccolo aiuto per arrivare a questo risultato, proponendogli
situazioni che immagino particolarmente ansiogene e situazioni che
immagino particolarmente tranquille. Se arriviamo a ottenere almeno uno 0
e un 10 questo lavoro può considerarsi concluso.
“E fare la recita?”, gli chiedo con il sorriso sulle labbra.
“Duemila!”, mi risponde prontamente, a indicare che è capace di
scherzare su questo argomento, non certo che non ha capito come
funziona il termometro.
“E qui, ora che stiamo facendo questo esercizio?”.
“Zero”.
“Molto bene: abbiamo trovato anche lo 0. E a casa, con la mamma e il
babbo il sabato e la domenica?”.
“Zero”.

L’esposizione graduale

Fatta la taratura, penso che possiamo andare avanti.


“Senti, Enrico, vorrei provare a fare piccoli spostamenti della
bottiglietta, come l’altra volta, ma adesso usando anche il termometro
dell’agitazione”.
“Va bene”.
“Se mettessi la tua bottiglietta sulla scrivania, quanto segnerebbe il
termometro?”.
“3”.
“3, benissimo. Allora possiamo provare?”.
“Proviamo”.
Mettiamo la bottiglietta sulla scrivania e poi invito Enrico a sedersi al
mio posto, davanti al computer.
“Adesso dovremmo andare a cercare in Internet qualcosa che ti piace
molto, qualcosa che desideri e che potresti guadagnare a mano a mano che
ti impegni ad allontanare la bottiglietta”.
Enrico cerca su Internet il gioco dei Power Rangers Rescue per
PlayStation 2. Sebbene sia piuttosto abile in questo tipo di lavoro, gli
occorrono comunque un po’ di impegno e un po’ di tempo. Mentre è
completamente assorbito da questa ricerca lo riporto al termometro delle
emozioni:
“E adesso a quanto è il termometro dell’agitazione?”.
Guarda la bottiglietta, che è rimasta allo stesso posto, con aria quasi
meravigliata, come se in quel momento a tutto stesse pensando fuorché al
chinotto.
“Allora, a quant’è il termometro dell’agitazione?”.
“A zero…”, mi risponde.
Credo che sia chiaro che ho fatto una manovra diversiva. Tecnicamente,
dal punto di vista dell’ortodossia comportamentale, la ricerca in Internet mi
serve per concordare un rinforzatore. Ma, in realtà, quello che succede è che
mentre Enrico è tutto preso in questa ricerca, la bottiglietta è come sparita
non solo dal suo campo visivo, ma anche dai suoi pensieri. È vero che
l’abbassamento da 3 a 0 del termometro potrebbe essere spiegato anche
attraverso un meccanismo di abituazione , ma credo che il
decentramento strategico7 determinato dall’interesse del bambino per il
videogioco abbia svolto un ruolo importante.

pag. 162

Visto che la cosa sembra funzionare, continuo nella stessa direzione.


Enrico ha trovato il gioco che cercava. Salviamo l’immagine della scatola e
la stampiamo in bianco e nero. Nel frattempo gli domando:
“E se adesso spostassi la bottiglietta sullo scaffale di fronte, a quanto
sarebbe il termometro?”.
“A zero”, mi risponde in modo frettoloso, come disinteressato (in realtà
è interessato ad altro).
“Allora posso spostarla”.
Non mi risponde. Interpreto il silenzio come assenso e metto la
bottiglietta su un ripiano della libreria. Enrico intanto ha stampato la
copertina del suo gioco, come si può vedere nella figura 21.2.
Figura 21.2 La copertina della scatola del videogioco che Enrico ha scelta come rinforzatore.

“Senti, Enrico: e se spostassi la bottiglietta nel corridoio?”.


“Zero!”.
“Bene, allora vado a metterla intanto che tu cominci a colorare il gioco
che hai scelto”.

Porto la bottiglietta nel corridoio. La mamma è lì seduta e vede questa mia


manovra. Non dimentichiamo che durante il nostro precedente colloquio la
mamma era presente e quindi ha già visto il mio graduale allontanare la
bottiglietta dal bambino e ne conosce il significato. Adesso vede che questa
progressione va avanti: la bottiglietta resta per qualche minuto nel corridoio
e suo figlio sembra intanto lavorare tranquillo nel mio studio.
Rientro. Enrico sta colorando la copertina dei Power Rangers (nella fig.
21.3 si può vedere il lavoro finito).
Figura 21.3 La copertina della scatola del videogioco che Enrico ha scaricato da Internet in bianco e
nero e ha poi colorato.

Gli chiedo a quant’è il termometro dell’agitazione e mi risponde “zero”.


Allora torno in corridoio, prendo la bottiglietta, gliela restituisco e gli
chiedo di raccontarmi che cosa è successo. Mi risponde che io ho spostato
la bottiglietta.
“L’ho spostata io, di mia iniziativa, o anche tu eri d’accordo?”.
“Ero d’accordo”.
“Bene. Allora possiamo dire che abbiamo spostato la bottiglietta?”.
“Sì”.
“E dove l’abbiamo messa?”.
“Fuori”.
“L’abbiamo subito portata fuori dallo studio?”.
“No. Prima più vicina”.
“Bravissimo! Prima più vicina e poi sempre più lontana. Secondo te,
perché?”.
“Sempre più difficile!”.
“Sempre più difficile: un’ottima risposta! E tu, come te la sei cavata?”.
“Bene”.
“Anche secondo me te la sei cavata molto bene, ma perché?”.
“Non lo so”.
“Secondo te perché te la sei cavata bene? Di chi è il merito?”.
“Del termometro”.
“Il termometro ti ha aiutato?”.
“Sì, rimaneva sempre a zero”.
“E poi, cos’altro ti ha aiutato?”.
“Tu”.
“Io? Perché, cosa ho fatto?”.
“Hai spostato la bottiglietta”.
“È stata un’idea solo mia o anche tu eri d’accordo?”.
“Ero d’accordo, te l’ho già detto”.
“Allora anche tu hai un po’ di merito?”.8
“Un po’. Forse sì”.
“Allora senti. Proviamo a spostarla ancora, sempre usando il
termometro?”.
“Va bene”.
“Dove potremmo metterla?”.
“Non lo so”.
“Se la portassi al piano di sotto?”.
“6”.
“Il termometro andrebbe a 6?”.
“Sì”.
“Beh, 6 mi sembra un po’ troppo. E se la portassimo in fondo al
corridoio?”.
“Zero”.
“Bene. Benissimo! Se in fondo al corridoio è 0, che cosa aspettiamo? Ma
questa volta vieni con me!”.
Usciamo insieme, lui con la sua bottiglietta in mano e io al suo fianco.
Di nuovo, la mamma ci guarda. Arriviamo fino alla fine del corridoio e
lasciamo lì la bottiglietta. Torniamo indietro, torniamo in studio, gli chiedo
quant’è il termometro, Enrico mi ripete che è 0 e allora io gli propongo di
andare a prendere la bottiglietta e far entrare la mamma per parlarle del
videogioco di cui ha scaricato da Internet e poi colorato l’immagine.
Noto che nel frattempo le risatine fuori contesto sono scomparse e di pari
passo è aumentato il contatto oculare e, nel complesso, l’empatia che ora
sembra caratterizzare la nostra relazione.

La token economy in studio

Facciamo dunque rientrare la mamma subito dopo aver recuperato la nostra


bottiglietta. Enrico le mostra il disegno colorato. Io spiego alla mamma che
avrei un’idea, ma vorrei discuterne sia con lei che con il bambino. La mia
idea è questa. Enrico mi ha detto che vorrebbe imparare, pian piano, a fare a
meno della bottiglietta e per ora è stato molto bravo. Ha allontanato la
bottiglietta sempre di più fino a portarla in fondo al corridoio. Io vorrei
andare avanti con questo programma e mi piacerebbe che Enrico fosse
premiato per i suoi sforzi. Per questo, gli ho fatto scegliere un gioco che gli
piace molto e abbiamo scaricato da Internet la copertina della scatola.
Adesso, se siamo tutti e tre d’accordo, io andrò in copisteria, farò ingrandire
questo disegno colorato fino a trasformarlo in un poster, poi lo farò
plastificare e infine lo taglierò in tanti pezzetti che diventeranno le tessere
di un puzzle. Tutte le volte che Enrico si impegnerà ad allontanare da sé la
bottiglietta guadagnerà qualche tessera. Quando il puzzle sarà completato, i
genitori gli regaleranno il videogioco.
Devo notare qui, per inciso, che a volte è più prudente programmare una
token economy e avere l’assenso dei genitori quando il bambino non è
presente, in modo da lavorare su eventuali obiezioni senza che il figlio
ascolti e rimanga magari deluso. Ma qui avevo già fatto un cenno alla
madre su questa procedura, avevo trovato un assenso pieno e la famiglia, di
sicuro, non ha problemi economici. In questo caso, infatti, ho dovuto porre
una particolare attenzione non tanto all’accertamento che alla fine della
token i genitori avrebbero comprato il rinforzatore di scambio, quanto ad
avere garanzia che non glielo avrebbero comprato prima.

pag. 13

Entrambi accettano dunque la mia idea. Tra la seconda e la terza seduta


mi faccio preparare da una copisteria il poster promesso, lo taglio in tante
tessere e lo trasformo nel puzzle che si può vedere, ricostruito, nella figura
21.4.

Figura 21.4 Il puzzle del rinforzatore di scambio, trasformato in un manifesto che poi attaccheremo
alla parete dello studio. Come si può vedere, nel videogioco c’è scritto “I miglioramenti di Enrico”,
mentre al posto del punto esclamativo una tirocinante creativa ha disegnato una bottiglietta rovesciata
e senza tappo dalla quale esce il chinotto!

Quando Enrico torna gli mostro la busta dove ho messo tutte le tessere
del puzzle plastificate e gli chiedo se è pronto per cominciare il nostro
gioco. Naturalmente è pronto: in verità non aspetta altro. Allora gli dico che
ci manca un termometro. Finora abbiamo usato il termometro
dell’agitazione solo a voce, ma adesso mi piacerebbe averne uno vero con il
quale lavorare. Io ne ho alcuni: sono disegni, o cartoncini, o piccoli
termometri giocattolo trasformati per questa necessità, ma propongo sempre
ai miei piccoli pazienti, se preferiscono, di disegnarne uno loro. Enrico mi
dice che preferisce disegnarne uno e, forse perché non è un grande artista,
forse per la fretta di cominciare, mi fa il termometro che si può vedere nella
figura 21.5.

Figura 21.5 Il termometro dell’agitazione disegnato da Enrico.

A questo punto siamo davvero pronti per cominciare.


“Coraggio. Se provi a mettere la bottiglietta sulla scrivania a quanto va il
termometro?”.
“A zero”.
“A zero, benissimo, allora mettila”.
Enrico mette la bottiglietta sulla scrivania.
“E se provi a metterla sullo scaffale dietro di te?”.
“Zero”.
“Ottimo. Allora prova a portarla sullo scaffale e appoggiala dove vuoi
tu”.
Enrico appoggia la bottiglietta sullo scaffale e torna a sedersi.
“E se tu la portassi nel corridoio?”.
“Zero”.
“Allora portiamola…”.
Vorrei far notare che ogni volta che la bottiglietta viene allontanata e l’ansia
rimane sotto controllo, la riprendo o invito il bambino a riprenderla. Questo
mi serve per evitare che, nelle prime fasi di un lavoro di esposizione
graduale, l’ansia salga al punto da costringermi ad andare a prendere
precipitosamente la bottiglietta rinforzando così il sintomo.
“Molto bene. Possiamo andare avanti?”.
Mi fa cenno di sì.
“E se portassimo la bottiglietta sul davanzale della finestra delle scale?”.
“2”.
“Agitazione 2? Benissimo! Allora proviamo a portarla sul davanzale
della finestra delle scale e vinci 2 pezzi del puzzle!”.
La portiamo. Torniamo in studio. Do al bambino le 2 tessere che si è
guadagnato e, mentre le incolla sul cartellone, gli chiedo a quant’è in quel
momento l’agitazione.
“Zero”.
“Ottimo. Allora finisci di incollare e andiamo a riprenderci la
bottiglietta!”.
Ma il “gioco” continua.
“E se ora la portassimo al piano di sotto?”.
“5!”.
“Caspita… 5 è molto… Però, se ti ricordi, la settimana scorsa era 6.
L’agitazione sta scendendo, caro Enrico. E poi.. c’è un’altra cosa
importante. 5 di agitazione vuol dire 5 pezzi di puzzle…”.
Mi guarda in silenzio. Io enfatizzo la parola “cinque” sventolandogli
sotto il naso la mia mano aperta a indicare il numero di tutte le mie dita.
Enrico non dice nulla, ma neppure obietta nulla.
“Allora, proviamo?”.
Mi risponde di sì. Ce ne andiamo al piano di sotto, dove c’è la segreteria
del Dipartimento di Salute Mentale. Scendendo le scale chiacchiero con
Enrico, tranquillamente, gli chiedo se il termometro è sempre a 5 e gli
ricordo che, appena risaliamo, avrà 5 tessere da attaccare sul suo puzzle.
Cerco di dire tutto questo con tranquillità, senza nascondere che sta facendo
un buon lavoro probabilmente per lui piuttosto difficile, ma senza
enfatizzare questa difficoltà, e soprattutto senza trasmettergli ansia da
prestazione. Quello che cerco di comunicargli implicitamente, mentre
scendiamo le scale e quando consegniamo la bottiglietta alle infermiere
della segreteria, è che io sono tranquillo: sono contento di quello che
riuscirà a fare e, se qualcosa non gli riuscirà, poco male.
Risaliamo le scale, entriamo nello studio, gli consegno le 5 tessere
guadagnate e lo stick per attaccarle e di nuovo, appena ha iniziato il lavoro,
gli chiedo a che livello sia il termometro dell’agitazione. Mi risponde che è
a 0. Gli dico che sono contentissimo che sia sceso così tanto e che appena
avrà finito di attaccare i 5 pezzi andremo giù a riprendere la bottiglia.
Un lavoro del tutto analogo continua nelle sedute successive.
Ci rivediamo la settimana dopo, tiro fuori la busta con le tessere e il
termometro che lui stesso ha disegnato e, in un certo senso, ricomincio da
capo.
“Allora, se proviamo a mettere la bottiglietta sulla scrivania a quanto va
il termometro?”.
“A zero”.
“Benissimo, allora mettiamola sulla scrivania”.
“E se provi a metterla sullo scaffale?”.
“Zero…”.
Sto semplificando, naturalmente. Una seduta di un’ora è certamente più
ricca di come sto descrivendo adesso questi nostri incontri. Il bambino mi
racconta, più o meno liberamente, come è andata la settimana; a volte
l’accento si sposta su altri obiettivi, come vedremo più avanti; si discute di
come stanno andando le cose; si condividono alcuni successi e (se ci sono)
alcune difficoltà con la madre; si fanno mille altre cose ovviamente non
tutte programmate ma frutto spesso del caso, dell’occasione del momento.
Sto dunque semplificando per ragioni espositive e didattiche anche se so
bene che in questo modo rischio di annoiare il lettore. Credo tuttavia che sia
una noia utile. Se il lettore pensa: “uffa, si ricomincia da capo con questa
storia della bottiglia?”, la mia risposta a questo suo pensiero è: sì. Si
ricomincia da capo con questa storia della bottiglia, seduta dopo seduta,
perché queste ripetizioni consolidano i progressi ottenuti. È per questo che
una certa noia può essere utile a chi legge questo testo per impadronirsi di
un metodo. Ci sono fasi di una psicoterapia, soprattutto quando si utilizzano
strategie cognitivo-comportamentali classiche, nelle quali sono necessari un
po’ di creatività e intuito clinico, una buona dose di empatia (che costituisce
sempre lo sfondo di ogni relazione di aiuto), e tanta tanta pazienza e
sistematicità: ripetere e ripetere le stesse mosse più e più volte per creare
apprendimento, poi superapprendimento e poi, attraverso modificazioni
successive, generalizzazione.
Ripetiamo dunque, seduta dopo seduta, questa specie di rito
dell’allontanamento della bottiglietta. Enrico, intanto, guadagna punti della
sua token economy e, come vedremo più avanti, riflette sui suoi
cambiamenti e ne diventa a volte l’attivo protagonista.

Nuovi sviluppi: la bottiglietta sempre più lontana e per un


tempo sempre maggiore

Una sera, siamo approssimativamente a fine gennaio, gli chiedo a quanto


andrebbe il termometro se portassimo la bottiglietta fino dentro il
bagagliaio della mia automobile, parcheggiata nella pinetina del
dipartimento.
Mi risponde 10.
Ha l’aria perplessa. Sono un po’ perplesso anch’io. Da un lato, avrei la
tentazione di provare. Dall’altro mi rendo conto che è un po’ un gioco
d’azzardo. Chiedo a lui che cosa vuol fare. Dal momento che è ancora
dubbioso gli faccio notare che è un bell’impegno, ma è anche vero che più
alto è il termometro più sono i pezzi che guadagnerà! Non bisogna neppure
dimenticare che Enrico è un paziente molto collaborante e tende a giocare
onestamente a carte scoperte, ma quando dice il valore del termometro sa
bene che più il valore è alto e maggiore sarà il suo guadagno: una certa
sovrastima è dunque umanamente inevitabile.
Alla fine decidiamo di provare.
Scendiamo le scale, il bambino con la sua bottiglietta in mano, io con tutte
le mie strategie di decentramento dell’ansia e di modellamento. Non è
sempre facile, tuttavia, essere un cosiddetto “modello competente”. Il
modello competente dovrebbe essere libero da ansia, mentre io, devo
ammetterlo almeno a me stesso, questa volta mi sento un po’ teso. Sarà
ansia da prestazione, perché la posta in gioco oggi è maggiore di altre volte.
Sarà il fatto che non sono certo di non avergli chiesto un passo più lungo
della sua gamba, ciò che sarebbe un errore. Sarà che, quando usciamo dal
dipartimento, mi accorgo che la pinetina è completamente buia. È normale,
data l’ora e la stagione, ma io non ci avevo pensato e questo buio non è del
tutto rassicurante. Ma ormai siamo in ballo e balliamo. Dico a Enrico che è
stato molto determinato ad arrivare fino qui e che ormai il più mi sembra
fatto. Gli chiedo come si sente aggiungendo subito, prima ancora che mi
risponda, che i 10 punti sono ormai quasi suoi. Gli faccio anche notare che
c’è un grosso vantaggio nel passo che abbiamo concordato stasera.
Lasceremo la bottiglietta al sicuro nel bagagliaio, chiuderò naturalmente a
chiave la mia automobile e così la bottiglietta sarà al sicuro. Dopodiché si
tratterà semplicemente di tornare in studio, attaccare i 10 punti (“il
videogioco si avvicina a grandi passi, con 10 punti è ormai praticamente
tuo!!!”) e potrà riprendere la bottiglietta.
Il terapeuta a indirizzo cognitivo-comportamentale, che fa suo il
principio generale della gradualità, non dovrebbe fare affidamento sul
proverbio secondo il quale la fortuna arride agli audaci. Ma stavolta ci va
bene. Mettiamo la bottiglietta nel bagagliaio. Nel risalire le scale Enrico è
un po’ teso, lo vedo ma non gli chiedo niente. Si distende chiaramente
quando gli do le tessere e la colla per sistemarle nel suo grande puzzle. È in
quel momento che gli domando il valore del termometro e il bambino, con
un orgoglio palpabile, al limite della strafottenza, mi risponde:
“Zero!”.
“Grande Enrico! Zero agitazione con la bottiglietta nella mia
automobile! Finisci di attaccare i tuoi pezzetti e andiamo a
riprendercela…”.
Inutile nascondere che quella sera mi sono sentito molto soddisfatto
anch’io.
Molto soddisfatto, ma con un problema nuovo. Ho raggiunto i lembi
estremi del mondo conosciuto e da qui in avanti, come scrivevano gli
antichi romani sulle loro carte geografiche sotto le rive mediterranee
dell’Africa, sunt leones… Questo significa che ho fatto quasi tutto quello
che è possibile fare dentro lo studio di un terapeuta. Anzi, sono andato
anche un po’ più in là, fino al parcheggio, ai confini della piccola pineta che
circonda il Dipartimento di Salute Mentale, ma non potrò fare molto di più.
In realtà c’è un’altra cosa che posso fare, che proviamo insieme e che ci
riesce piuttosto bene e con facilità. Finora, l’esposizione graduale è stata
fatta sulla dimensione della distanza (la scrivania, la libreria, il corridoio…)
e per quanto riguarda questa direzione abbiamo raggiunto un limite ormai
difficilmente superabile. Ma c’è un’altra dimensione sulla quale possiamo
ancora lavorare in studio. Tiro fuori il mio cronometro e concordo con
Enrico che da ora in avanti, quando lascerà la bottiglietta lontana, io lo farò
scattare e lui guadagnerà punti aggiuntivi per ogni 5 minuti che passerà in
studio a parlare e lavorare con me senza andare a riprendere la bottiglietta.
Ciò che riusciamo a ottenere in breve tempo è che la bottiglietta resta
regolarmente in segreteria o nella mia automobile per tutta la durata della
seduta, il bambino vince il suo videogioco e io, come faccio spesso in
situazioni di questo genere, incornicio il puzzle completato e lo appendo a
una parete: rinforzatore sociale per il mio paziente e stimolo per
intraprendere programmi simili per i nuovi piccoli pazienti che verranno da
me.

IL LAVORO PSICOTERAPEUTICO CONTINUA

Questo significa che il lavoro è finito?


Naturalmente no. Significa soltanto che l’esposizione che si poteva
realizzare in studio è quasi esaurita. Ma, da un lato, non c’è solo
l’esposizione graduale e, dall’altro, non c’è solo l’obiettivo di allontanarsi
dalla bottiglietta.

Nuovi sviluppi: entrare in classe da solo


Riprendo in mano gli obiettivi di cui il bambino mi aveva parlato durante la
nostra seconda seduta. Rivalutiamo insieme il significato dell’essere più
allegro, di non far preoccupare gli altri e lavoriamo soprattutto
sull’importanza delle abilità sociali, rappresentate dal desiderio di fare
palestra con i coetanei. Di comune accordo decidiamo che un buon
obiettivo potrebbe dunque essere: farsi lasciare dalla mamma davanti al
portone di scuola, come fanno tutti i suoi compagni.9
Sembra molto contento di questa nuova idea, che peraltro non ho avuto
io da solo ma abbiamo in un certo modo costruito insieme. Questa
motivazione nasce dalla consapevolezza che se vuole cercare di farsi degli
amici o per lo meno di interagire in modo più sereno e disinvolto con loro,
non aver più bisogno della mamma che lo accompagna fino in classe lo
aiuterebbe molto.
Chiamo in studio la mamma e concordiamo tutti e tre insieme un piano
di battaglia. Scegliamo un altro gioco per la PlayStation,10 facciamo un
altro puzzle, ma stavolta non sarò io a gestire in studio la procedura, ma la
mamma a casa. Per ottenere questo risultato concordiamo un vero e proprio
contratto educativo , che si può vedere nella figura 21.6.

Figura 21.6 La prima scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da solo.

pag. 178

Qualche osservazione tecnica e teorica.


Il contratto ricalca in molti aspetti l’esperienza già fatta in studio. C’è la
proposta di esposizione e il rinforzatore tutte le volte che l’esposizione
viene realizzata. Persino il rinforzatore di scambio è molto simile a quello
che abbiamo usato per allontanare la bottiglietta. Tutto questo ha un suo
senso: ci serviamo di un’esperienza positiva e ormai ben padroneggiata per
ottenere nuovi risultati.
Il contratto è fatto in una certa forma e con una certa ritualità. È scritto
con il computer e firmato sia dal bambino che dalla madre alla presenza
dello psicoterapeuta in duplice copia. Una copia viene portata a casa e
l’altra resta in cartella.
Il comportamento è descritto in modo chiaro ed espresso in positivo:
“Tutte le volte che Enrico si fa accompagnare a scuola dalla mamma o dal
papà solo fino al cancello e non fino alla porta…”. Come si vede, non c’è
scritto cosa il bambino non deve fare: l’accento è posto sul comportamento
che ci si aspetta da lui. Forse qualcuno noterà anche l’aggiunta “o dal
papà”: in realtà non risulta che il papà lo abbia mai accompagnato a scuola,
né sembra molto probabile, data l’organizzazione della famiglia, che lo
faccia in futuro. Ma non tocca allo psicologo prevedere l’impossibilità di
positivi sviluppi futuri. In modo altrettanto chiaro è descritto il rinforzatore:
2 tessere del puzzle.
Quello che manca, in realtà, è la regola di scambio, cioè l’esplicitazione di
quanti pezzi servono per guadagnare il premio: ma questa può essere fatta
solo dopo un periodo di osservazione, per valutare, in un periodo
prestabilito (che in casi come questi non dovrebbe superare il mese), dopo
quanto tempo, più o meno, si avrà il rinforzatore di scambio.
Si può infatti notare che il contratto è anche, contemporaneamente, una
scheda di osservazione sistematica. Madre e bambino vi devono annotare,
giorno dopo giorno, se il comportamento sia stato eseguito oppure no.
Questo permette di avere dati precisi sull’andamento del programma. Se
anziché in un setting psicoterapeutico fossimo in una situazione di ricerca
sperimentale, questi primi dati costituirebbero la linea di base (baseline),
ma in questo caso i comportamenti positivi non dovrebbero ancora essere
rinforzati e i rinforzatori arriverebbero solo in fase di trattamento. Non
credo che qui valesse la pena di perdere delle settimane per costruire una
baseline e fosse invece importante battere il ferro finché era caldo, cioè
cominciare subito il lavoro dal momento che Enrico sembrava
particolarmente motivato.
Ultima osservazione. Tutta questa procedura serve per superare il
confine costituito dallo studio dello psicologo. Il terapeuta può aiutare in
modo diretto un paziente a staccarsi dalla madre o da una bottiglietta per
un’ora e per qualche decina di metri, ma poi la vita vera del suo paziente si
svolge lontano da lui, in situazioni che nessuno psicologo può controllare se
non indirettamente. Una scheda di osservazione sistematica e un contratto
educativo servono proprio a stabilire una forma di controllo indiretto sul
comportamento, in questo caso, della madre e del bambino.
La scheda compilata della figura 21.7 mostra che il programma sembra
procedere bene, d’altra parte come durante la prima settimana. Qui, nei
primi tre giorni il bambino non ha guadagnato punti solo perché si è sentito
male.

Figura 21.7 La seconda scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da solo.

Madre e bambino, seduta dopo seduta, entrano insieme nel mio studio e
mi mostrano la scheda. Parliamo un po’ delle loro impressioni relative alla
settimana e poi io consegno le tessere guadagnate. Mi è capitato qualche
volta, in passato, di dare ai genitori tutto il materiale della token economy,
ma ho imparato con l’esperienza che si tratta di una procedura pericolosa.
Banalmente, qualche volta il materiale può andar perso, e questo è un
problema molto più grave di quando viene persa la scheda di una settimana.
Ma c’è a volte, soprattutto nei pazienti esternalizzati, un rischio ancora più
grave. Una giornata storta nella quale il bambino ha fatto un capriccio
particolarmente violento può indurre i genitori a distruggere tutto in un
momento di rabbia, vanificando così, per un solo episodio negativo, un
intero programma, che magari stava procedendo discretamente.
Andiamo dunque avanti, settimana dopo settimana, con queste
osservazioni sistematiche fatte a casa e la token economy gestita in studio.
La figura 21.8 mostra la terza scheda di osservazione sistematica e di
contratto educativo. Dopo l’esperienza positiva della prima settimana,
avevamo calcolato insieme che, approssimativamente, con questo ritmo, il
bambino avrebbe fatto circa 8 punti a settimana e dunque, per raggiungere il
premio in un mese o poco più, avrebbe avuto bisogno di 30 punti. Abbiamo
fatto un puzzle di 30 tessere e nella prima settimana di marzo l’obiettivo è
stato raggiunto.

Figura 21.8 La terza e ultima scheda del contratto educativo per aiutare Enrico a entrare in classe da
solo.

Le prime ristrutturazioni cognitive


Naturalmente, ci sono altre cose che si possono fare in studio oltre che
calcolare punti e distribuire token: si può parlare e riflettere sulle esperienze
fatte…
“Enrico, cosa sta succedendo?”.
“Che se mi impegno miglioro”.
È questa la risposta fortemente ristrutturata che mi dà il bambino durante
il lavoro con il contratto educativo.

pag. 178
Se prima provo ad allontanare la bottiglietta, e poi provo a lasciare la
mamma fuori dalla scuola e mi accorgo che ce la posso fare, le cose
cambiano. E cambia (credo che ogni lettore con un minimo di orecchio per
questi aspetti cognitivi lo abbia già colto) lo stile di attribuzione: dipende da
me. Si, certo, dipende dal termometro, dall’aiuto che mi dà Fabio, dai
giochi della PlayStation che i miei genitori mi comprano quando me lo
merito, ma prima di tutto dipende da me. Sono io il protagonista del mio
cambiamento:
“Se mi impegno miglioro”, mi dice Enrico durante una seduta nella
quale lavoriamo su queste ristrutturazioni cognitive e poi, con un’aria di
indescrivibile soddisfazione, aggiunge:

pag. 350

“Contrariamente a quello che dice mia sorella!”.


“E lo sai Enrico perché se ti impegni migliori?”.
Arriviamo pian piano a costruire insieme l’idea che se io vado avanti,
l’ansia non può far altro che arretrare. Di solito, con ragazzini di questa età
e anche più grandi, una delle metafore migliori per far passare questa idea è
quella sportiva, per esempio calcistica. In una partita è facile vedere che se
una squadra riesce ad andare avanti costringe inevitabilmente l’altra ad
arretrare.
Per Enrico questo genere di metafore rischia di essere troppo agonistico
e d’altra parte, non a caso, a lui del calcio e degli sport in generale non
importa granché. Dobbiamo dunque passare per altre vie, più razionali e
molto più adatte a lui: il bambino impara a rendersi conto che l’ansia
funziona così, viene avanti se io vado indietro e arretra tanto più quanto io
riesco ad avanzare.

Un’esperienza, nuovamente sorprendente, di costruttivismo

Le cose stanno andando complessivamente bene. Siamo arrivati alla metà di


marzo ed Enrico lascia la bottiglia fuori dal mio studio per tutto il tempo
della seduta, si fa accompagnare dalla mamma solo fino all’ingresso esterno
della scuola e questo, come vedremo tra poco, sta già cominciando a dare i
suoi primi frutti anche a proposito delle relazioni sociali all’interno della
classe.
Però un problema serio è rimasto.
Enrico continua ad andare a scuola con la curiosa bottiglietta di vetro del
chinotto, che sicuramente rimanda ancora ai compagni un’immagine di
bizzarria.
Una prima soluzione viene in mente a me. Provare a cambiare la
composizione del contenuto. Non più solo chinotto, ma un po’ di chinotto e
un po’ di acqua minerale. Enrico sembra d’accordo. D’altra parte credo che
sappia bene che la funzione antivomito del chinotto è molto più nella sua
testa di quanto non sia dentro la bottiglia. Così, di seduta in seduta,
cambiamo la composizione del cocktail, aumentando sempre di più la
percentuale di acqua. È anche questa una forma, graduale come quasi tutto
l’approccio cognitivo-comportamentale, di esposizione. Alla fine di questa
procedura, il risultato è che Enrico, quasi sempre, si accontenta di una
bottiglietta di acqua minerale in una normalissima bottiglietta di plastica.
Il vantaggio, soprattutto dal punto di vista dell’immagine sociale, è
evidente. Un conto è entrare in classe con una bottiglietta di chinotto. Una
cosa ben diversa è portare con sé un po’ d’acqua minerale.
I compagni, tuttavia, non entrano in classe con nessun tipo di liquido e
allora gli chiedo che cosa succederebbe, secondo lui, se andasse a scuola
senza bottiglia. La sola idea sembra farlo star male. Impallidisce. Non dico
che abbia una crisi di panico, ma certo è in grande difficoltà.
La sua prima risposta è:
“Vomiterei”.
Poi aggiunge:
“Il termometro mi andrebbe a 10. Anzi, di più”.
Sembra proprio spaventato da questa idea e tira fuori un pensiero che mi
verrebbe voglia di etichettare come da manuale, perché si tratta di un
pensiero che si trova appunto nei manuali di psicopatologia a proposito di
alcune forme di Disturbo ossessivo-compulsivo:
“Mi metterei a pregare”.
Ma l’elenco non è finito. Credo che gli venga in mente l’episodio
traumatico del quale mi aveva parlato la mamma durante il primo colloquio,
quando le maestre, nonostante i patti, non la chiamarono perché venisse a
prendere il figlio:
“Le maestre non crederebbero che sto male…”.
Poi sembra riflettere.
È come se dopo questa esplosione di ansia anticipatoria cominciasse a
calmarsi e a essere in grado di mettere in atto capacità di pianificazione e di
problem solving. Ci pensa ancora un po’ sopra e poi se ne esce con questa
frase:
“Però, forse, un’ora…”.
Non credo alle mie orecchie. Cerco di capire cosa vuol dirmi. Vuol dirmi
proprio quello che pensavo di aver capito. Nei libri di psicoterapia si
chiama “dilazione della risposta” e si usa in particolare nel Disturbo
ossessivo-compulsivo, ma non credo che Enrico abbia frequentato una
scuola quadriennale di specializzazione in psicoterapia cognitivo-
comportamentale.
E allora cosa sta succedendo?
Semplicemente Enrico sta provando a costruire da solo un suo percorso
per il superamento di un ostacolo. Ci sono due modi di intendere la
psicoterapia. Il primo la interpreta come un processo nel quale il terapeuta
svolge la parte del protagonista e dirige i comportamenti, i pensieri e le
emozioni del paziente. Potremmo chiamare questo approccio
“istruzionista”, anche se i suoi più radicali avversari lo chiamano spesso,
con una punta di disprezzo, “pedagogico”. L’altro, quello appunto degli
avversari, che potremmo chiamare “costruttivista”, vede il paziente come
un soggetto attivo del suo processo di cambiamento: un soggetto che trova
da solo strategie e soluzioni e, nei casi estremi, costruisce a partire da
un’unica realtà esterna che nessuna psicoterapia potrà cambiare, nuovi
significati rispetto a questa realtà (Dobson, 2002; Lambruschi, 2014).
Non amo le guerre di religione, né gli schieramenti contrapposti in modo
ideologico, rigido e pregiudiziale. Ci sono pazienti, particolarmente fragili o
in momenti particolarmente difficili della loro storia, che hanno bisogno di
una guida. Qui invece Enrico mi sta dando una lezione di costruttivismo
perché mi ha già superato e sta trovando da solo la sua soluzione. Mi sta
dicendo: non credo proprio di poter andare a scuola senza bottiglia, starei
troppo male. Però posso provare a farne a meno per un po’. Posso
dilazionare il momento in cui sentirò il bisogno di averla e di bere un sorso
d’acqua.
Cerchiamo allora di studiare insieme come potremmo fare, come
potremmo implementare questa strategia che, con espressione tecnica,
prende appunto il nome di dilazione della risposta. Io gli propongo di
mettere la bottiglietta nello zaino il mattino e di provare a impegnarsi a non
tirarla fuori fino, poniamo, alle 9:30. Purtroppo Enrico mi fa notare che
questa soluzione è impraticabile perché nella sua scuola, che è a tempo
pieno, lo zaino si lascia in classe fino al venerdì pomeriggio. Allora
cerchiamo insieme di risolvere il problema in un altro modo.
La figura 21.9 mostra la soluzione che abbiamo trovato.

Figura 21.9 La scheda di auto-osservazione relativa alla dilazione della risposta. Enrico cerca di
prendere la bottiglietta il più tardi possibile.

Come si può leggere nella scheda di auto-osservazione , Enrico si


impegna ad andare a scuola, mettere la bottiglietta dentro lo zaino appena
arriva e provare a usarla il più tardi possibile. L’auto-osservazione è svolta
in quattro momenti fondamentali della giornata scolastica: prima della
ricreazione, dopo la ricreazione, prima di andare in mensa, dopo la mensa e
dunque nel pomeriggio. È anche interessante notare che non si tratta di una
token economy perché al bambino piace l’idea che alle sue osservazioni
corrisponda un punteggio:11 se prenderà la bottiglia prima della ricreazione
non avrà diritto a nessun punto. Se la prende negli altri momenti i punti
saranno, rispettivamente, 1, 2 e 3.

pag. 151

Come si può vedere nella figura 21.9, dal 27 marzo Enrico non toglie più
la bottiglietta dallo zaino. Inoltre, in seduta, mi racconta che ha imparato a
metterla nella tasca del grembiule la mattina prima di andare a scuola. Poi,
appena in classe, la ripone nello zaino e la tira fuori solo se e quando ne
sente il bisogno. Inoltre, la bottiglietta, ormai, contiene il più delle volte
acqua e solo saltuariamente chinotto. Tutto questo produce come effetto che
adesso il bambino dà ai compagni un’immagine di sé molto diversa rispetto
a quando entrava in classe con una bottiglietta in mano e la mamma a
fianco.

Token economy a casa, contratti educativi e “Mother”


training

Come abbiamo visto, molti di questi risultati sono stati possibili perché non
mi sono limitato a lavorare con il bambino in studio. I tre strumenti che mi
hanno permesso di lavorare con il bambino “a distanza”, per obiettivi come
andare in classe da solo, sono stati l’osservazione sistematica del
comportamento, la token economy e il contratto educativo. Ma per il
loro uso è necessario programmare sedute di parent training , nel senso
che non si possono dare in mano strumenti di questo genere a un genitore
senza spiegare il loro uso in modo attento e supervisionarne gli effetti.

pag. 13

pag. 562

In questo particolare caso, non sono stato in grado di fare un parent


training, per lo meno non nel senso letterale del termine. Nei circa dieci
mesi della durata della psicoterapia con Enrico, sono riuscito a vedere suo
padre una sola volta ed è stato un colloquio difficilissimo, dal quale sono
uscito sconfitto. Con il massimo rispetto formale, ma anche la massima
determinazione, il papà di Enrico ha ribadito in modo unilaterale le sue
incrollabili convinzioni: l’inutilità sostanziale del lavoro dello psicologo e
la fiducia cieca che genitori forti e determinati, alla lunga, risolvano
qualsiasi problema di tipo psicologico, anche perché questi cosiddetti
“problemi” in realtà sono cose che non esistono.
Dunque, non sono riuscito a fare niente più che un “mother” training:
espressione che uso per ironizzare su me stesso e cercare di sdrammatizzare
il fatto che sono stato in grado di combinare qualcosa solo con la madre. Ho
spiegato alla mamma quello che avevamo ottenuto in studio e il significato
che tutto questo aveva secondo me. Poi ho chiesto la sua collaborazione per
fare qualcosa di analogo anche a casa. Abbiamo condiviso l’obiettivo, il
contratto e la scheda di osservazione. Questa parte è stata facile. La mamma
mostrava una grande fiducia in me (al contrario del marito!) ed era
comunque abituata da tempo a interagire con psicologi e psichiatri. Un po’
più difficile è stata abituarla a lavorare sul positivo. Ricordo che durante
una delle prime sedute con il bambino, quando lei aspettava in corridoio, ha
visto il figlio che posava la bottiglia, rientrava nello studio e poi usciva di
nuovo per andarla a riprendere. Credevo che sarebbe stata contenta di
questo. Invece quando a fine seduta sono uscito per salutarla, mi si è
avvicinata e mi ha detto all’orecchio, nell’illusione di non farsi sentire dal
figlio:
“Sa dottore, appena ha ripreso la bottiglietta, ha subito sentito il bisogno
di berne un sorso…”.12
Lì per lì, in quella situazione, non ho potuto raccogliere, ma quando ho
programmato una seduta solo per lei, l’ho portata a riflettere su questo
episodio. La mia narrazione era: “Enrico ha fatto un bel passo avanti! Ha
lasciato la bottiglietta nel corridoio per parecchi minuti!”. La sua, invece:
“Mio figlio non cambierà mai. Appena ne ha avuto la possibilità, ecco che
si è subito attaccato a una bottiglietta della quale non può fare a meno”.
Abbiamo lavorato su questo, e ci lavoreremo anche in seguito, a riprova
del fatto che certi risultati non possono mai essere dati per acquisiti una
volta per tutte. In ogni modo, messa di fronte a due letture così diverse della
stessa realtà, la mamma si è resa conto del suo “pessimismo”, come lo
chiamava lei, o forse sarebbe meglio dire della sua focalizzazione sul
negativo. Questo, d’altra parte, è un atteggiamento così frequente, come
abbiamo appena visto nella nota 12, che il terapeuta tutto dovrebbe fare
fuorché meravigliarsene. Ma c’è un’altra cosa che il terapeuta non dovrebbe
fare: colpevolizzare il genitore. Il genitore non è colpevole o, peggio,
cattivo, perché tende a portare la sua attenzione sugli aspetti problematici
del figlio, sul sintomo, su ciò che lo preoccupa. Semplicemente, è un essere
umano, con le sue paure e le sue debolezze. Un’altra parte del parent
training che in questo caso si è rivelata particolarmente facile è stata quella
relativa alla scelta dei rinforzatori di scambio. La mamma non mi ha mai
fatto nessun problema relativamente all’acquisto dei videogiochi. La sola
cosa sulla quale ho dovuto centrare la sua attenzione è stata non la garanzia
che il videogioco sarebbe stato comprato appena il figlio lo avesse
guadagnato, ma, al contrario, che non gli fosse comprato prima. Ma anche
su questo la mamma si è sempre mostrata collaborante. A pochi giorni dal
compleanno del figlio, tanto per fare un esempio, mi ha mandato un SMS
dicendomi che Enrico aveva chiesto un videogioco per la sua festa, e mi
chiedeva se poteva comprarlo. Le ho telefonato per dirle che apprezzavo
molto queste attenzioni, ma che se il bambino faceva il compleanno e
desiderava un videogioco ovviamente poteva riceverlo. L’unica accortezza
era che si trattasse di un videogioco diverso da quello scelto per il nostro
contratto.
Con l’andare avanti della psicoterapia, la mamma ha cominciato a
portarmi anche aspetti positivi del figlio, a cogliere qualche suo progresso.
Mi riferiva che le maestre, per esempio, si erano accorte del fatto che in
classe il bambino non si isolava più dai compagni, giocava con gli altri,
teneva la bottiglietta in tasca quando entrava in classe e la tirava fuori dallo
zaino di rado e soprattutto che, nel complesso, lo vedevano più sicuro di sé.

Nuove ristrutturazioni cognitive

Provo a chiedere direttamente a Enrico una spiegazione di questo sentirsi


più sicuro.
“Perché a ricreazione l’agitazione da 10 è passata a 0?”, gli chiedo.
Mi risponde:
“Perché non sapevo che potevo giocare con gli amici a temperatura 0.
Poi ho provato e mi sono accorto che mi riusciva”.
Qui il bambino mi sta dicendo molte cose. Le emozioni troppo forti, che
prima sembravano incontrollabili, si possono invece controllare, se si prova
e ci si abitua. Non sempre è facile, come mostra questo brano di colloquio:
“Oggi ho preso la bottiglietta dopo la mensa. Ho faticato 3. Pensavo di
avere lo stomaco rotto e anche di poter morire anche se credo che sono cose
pazze e non credo che sono cose che esistono. Quando ho preso la
bottiglietta nel pomeriggio ho detto ‘ora ce la posso fare’ e la paura è scesa
a 1”.
Non sempre è facile, dunque: ma con un po’ di fiducia, un po’ di
consapevolezza e un po’ di stile di attribuzione interno, ce la si può fare.
Questo appare tanto evidente che, in una seduta di fine aprile, è il
bambino stesso che mi propone, come nuovo obiettivo, di andare a scuola
da solo.

Enrico, la mamma e gli amici

Andare a scuola da solo! Gli dico che secondo me ha avuto un’idea molto
interessante, ma che una cosa così non possiamo discuterla noi due soli. Gli
chiedo se è d’accordo a far entrare la mamma e se vuole parlarLe lui di
questa nuova idea. Eccome se è d’accordo! La mamma entra, si siede, e il
figlio, senza troppi preamboli, le dice:
“Mamma, sei un’insicura, perché non mi mandi a scuola da solo?”.
La mamma, comprensibilmente, resta senza parole, ma accetta l’idea e
collabora lealmente al progetto. “Lealmente” non significa senza dubbi e
senza paure. Una volta di più, il bambino si è mostrato molto intuitivo
quando le ha detto che è lei a essere insicura, forse più di quanto non lo sia
lui stesso. In ogni modo, i risultati di questa condivisione non tardano a
venire. È vero che la casa e la scuola distano poche centinaia di metri, ma
comunque entrambi si mostrano molto bravi. Concordiamo che Enrico
proverà, il mattino, a prepararsi e a partire: e vedremo quello che succede.
Quello che succede è presto detto. Il bambino sembra molto contento di
questa fiducia che gli viene accordata e dall’autonomia che ne deriva, e
sembra andare a scuola (con la sua bottiglietta d’acqua nella tasca del
grembiule) senza particolari difficoltà. Quando in seduta parliamo di questo
mi dice che, in quei momenti, il termometro dell’ansia è a 0, mentre la
felicità è a duemila perché si sente grande.
Per la mamma le cose sono un po’ più difficili.
Durante le prime mattine è stata spesso tentata di convincerlo a frasi
accompagnare da lei e, mi racconta, si è trattenuta solo per il fatto che ne
avevamo a lungo parlato insieme e che, razionalmente, si rendeva conto che
in questo modo avrebbe fatto solo il male del figlio. Tutto questo non le ha
però impedito di spiarlo, per qualche mattina, andandogli dietro e
nascondendosi al riparo da una siepe, e in seguito cercando per lo meno di
seguirlo con gli occhi dal balcone della cucina.
Il pericolo maggiore, secondo la mamma, è costituito dal fatto che è
necessario attraversare una strada in un punto in cui è particolarmente
stretta, dietro una curva e dunque con poca visibilità. Mentre progettavamo
questo obiettivo le avevo fatto notare che, al mattino, quando i bambini
vanno a scuola, c’è sempre un pensionato inviato dal Comune che controlla
che le automobili si fermino per far passare gli alunni.
“E se l’uomo che fa attraversare la strada è malato?”, replica la mamma
durante quel nostro colloquio.
“Dall’inizio dell’anno quante volte è stato malato?”, le chiedo.
“Mai. E comunque c’è sempre un sostituto pronto!”.
Cerco di scherzare su questo, quasi prendendola in giro. Alcune piccole
ristrutturazioni cognitive, per esempio come in questo caso legate alle
cosiddette “catastrofi a bassa probabilità”, possono passare anche attraverso
un po’ di sana ironia.
Naturalmente ci sono argomenti anche più seri che possono essere messi
in campo in casi del genere. È vero, purtroppo, che in un programma di
autonomia sociale c’è sempre un margine di rischio. Ogni volta che un
genitore decide di dare spazio e fiducia a un figlio lo espone a dei pericoli,
più o meno grandi, più o meno probabili, ma che non possono essere mai
eliminati totalmente, almeno come ipotesi. E allora? E allora l’attenzione va
spostata dal possibile ma improbabile pericolo insito, per esempio,
nell’andare a scuola da solo o nell’uscire con un amico, al pericolo certo a
cui va incontro un figlio se queste esperienze gli vegono sistematicamente
negate.
Dico, per esempio:
“Le piacerebbe che Enrico, a vent’anni, non riuscisse ad andare in giro
senza la mamma a fianco?”.
È chiaro che si tratta di un’ipotesi volutamente esagerata, ma serve per
riflette sul fatto che non esiste un’educazione senza rischi. Si tratta di venire
fuori dal pensiero dicotomico (autonomia sì/autonomia no) e decidere,
giorno per giorno, quali rischi scegliere. Il pensiero “non devo
assolutamente far correre nessun rischio a mio figlio” è palesemente
irrazionale e il lavoro terapeutico dovrebbe gradualmente trasformarlo in
“cercherò di evitare rischi esagerati, ma anche di non tenerlo sempre nella
bambagia”. È così che si cresce.
E, a proposito di crescere: non sarà il caso di buttar via il biberon?
Anche su questo madre e figlio concordano, e anche questo avverrà con una
certa naturalezza. Ne parliamo, chiedo al bambino quanta ansia gli produce
l’idea di andare a letto senza biberon e la sua risposta mi pare abbastanza
decisa: 0.
Discutiamo sul fatto che un bambino che va a scuola da solo va anche a
letto senza biberon. Così un pomeriggio la mamma accompagnerà Enrico al
più vicino cassonetto della spazzatura e lì butteranno il vecchio biberon
senza ulteriori problemi. Io ho appena scritto: “senza ulteriori problemi”,
ma è interessante ascoltare la narrazione della madre di questo episodio:
“Abbiamo buttato via il biberon, poi però la notte ha bevuto da una bottiglia
d’acqua che si era portato sul comodino”. Ancora quella dannata virgola di
troppo!13 E, dopo la virgola, quella frase: “poi però la notte ha bevuto da
una bottiglia d’acqua che si era portato sul comodino”. A me sembra che
portarsi dell’acqua sul comodino per la notte sia un comportamento molto
normale. La mamma di Enrico, invece, deve fare ancora un po’ di strada per
imparare a mettere i punti fermi nelle sue narrazioni: “Abbiamo buttato via
il biberon.”. È arrivata la primavera. La scuola organizza una gita al
Cavallino Matto, un parco giochi a un centinaio di chilometri di distanza.
Madre e figlio sono molto perplessi. Ne parliamo tutti e tre insieme. Chiedo
il permesso di parlare anche con le maestre. Lo ottengo, anche se con molta
ansia da parte della mamma, che ha bisogno di mille rassicurazioni su come
condurrò questo incontro. Il colloquio con le maestre è rassicurante. Loro
non hanno dubbi sul fatto che il bambino dovrebbe e potrebbe andare in
gita. Il rapporto con i compagni è migliorato. I bambini notano ancora la
stranezza di questa bottiglietta (spesso ormai d’acqua, ma qualche volta
anche di chinotto) che di tanto intanto Enrico tira fuori dallo zaino, ma
hanno imparato ad accettare la cosa senza dargli peso, hanno notato i
miglioramenti del compagno e sicuramente non lo prendono in giro. Enrico,
da parte sua, appare molto più sicuro di sé, anche a ricreazione. Rimane un
atteggiamento di fondo come di paura per i cambiamenti: in questo periodo,
per esempio, stanno passando dal quaderno a righe a quello a quadretti e la
cosa lo mette in difficoltà, soprattutto dal punto di vista emotivo. Ma le
maestre pensano che adesso sia soprattutto la mamma a generare ansia. Per
questa benedetta gita al Cavallino Matto, per esempio, ha già fatto mille
telefonate e chiesto un occhio di riguardo per il figlio, se Enrico dovesse
andare.
Spiego alla madre che le maestre si sentono sicure del fatto che il
bambino non avrà problemi ad andare in gita con una classe nella quale
ormai si trova quasi completamente a suo agio e lavoriamo di nuovo sul
fatto che non facciamo il suo bene a frenare la sua autonomia e le sue
relazioni sociali.
Enrico va in gita, per fortuna. La mamma mi racconta che la mattina, al
risveglio, era molto agitato. Anche lei stessa riconosce che era molto
agitata. Però si sono fatti coraggio e quando il bambino ha visto i compagni
gli è passato tutto.
“A me un po’ meno, e sono rimasta in pensiero per tutto il giorno”.
“È stata molto in gamba… E quando Enrico è tornato?”.
“Era felice…”.
Le sorrido. Non credo siano necessari altri rinforzatori.
Oggi siamo tutti e tre in seduta. Ci sono molte cose positive delle quali
parlare, ma c’è anche questa bottiglietta: la situazione è migliorata, ma la
bottiglietta non è sparita del tutto. Chiedo al bambino:
“Come mai continui a portarla a scuola?”.
“Perché potrebbe succedermi qualcosa”.
“Ci sono due Enrico: il coraggioso e il fifone”.
“È vero”.
“E tu quale preferisci?”.
“Il coraggioso!”.
“E quante mamme ci sono?”.
“Due”.
“Raccontami”.
“Una gentile che mi fa fare quello che voglio e una arrabbiata che dà
noia”.
“Fammi capire meglio. Una ti fa fare quello che vuoi”.
“Sì”.
“La chiamiamo mamma 1, se per te va bene. La mamma 1 cede, ti dà
ragione, non ti controlla. È così?”.
“Sì, la mamma 1 è così”.
“E la mamma 2 com’è?”.
“La mamma 2 non mi compra il chinotto, quando glielo chiedo. La
mamma 2 non cede”.
“La mamma 1 cede e la mamma 2 tiene duro. Tu quale preferisci?”.
“La mamma 2”.
“Allora ringraziala la mamma 2, perché è lei che ti ha aiutato a buttare
via il biberon e ad andare in gita”.
Enrico la ringrazia.
Gli dico:
“La tua mamma è stata coraggiosa, sai? Perché anche lei aveva un po’
paura di questo Cavallino Matto…”.
Enrico sorride.
Mi rivolgo alla mamma:
“È vero che è stata brava, signora?”.
Un sorriso triste:
“Non abbastanza…”.
“Non abbastanza?”.
“Mi sento brava, ma non del tutto, perché sono stata aiutata. Così
nemmeno io sono completamente autonoma”.
Ma nessuno è completamente autonomo. Proviamo a lavorare un po’ su
questo. Anche l’autonomia, così intesa, è un pensiero dicotomico e
irrazionale, che ha bisogno di essere ristrutturato. L’autonomia completa
non esiste. Abbiamo tutti bisogno di aiuto e alcune persone vanno dallo
psicologo e gli psicologi vanno dal supervisore…
Poi prendo la bottiglietta di chinotto che oggi Enrico ha di nuovo portato
con sé. Gli chiedo se ha voglia di venire in bagno con me, svuotarla e
riempirla d’acqua, come in un rito. Lo facciamo, torniamo in studio e gli
domando:
“Cosa fa la mamma quando gli chiedi il chinotto?”.
“A volte me lo prende”.
“Secondo te fa bene?”.
“No”.
“Cosa dovrebbe fare?”.
“Dovrebbe darmi acqua”.
“Perché?”.
“Perché così faccio passi avanti”.
“E lei perché a volte cede?”.
“Mi prende il chinotto perché ha paura di farmi soffrire”.
“E tu invece potresti resistere?”.
“Potrei resistere”.
Grande Enrico! penso durante questa parte di colloquio. E intanto
guardo la mamma che ascolta in silenzio…

Il rapporto con il papà e il role playing

E il papà?
Il papà è negli Stati Uniti nel periodo in cui Enrico riempie di crocette le
schede di auto-osservazione e comincia ad andare a scuola da solo. Questo
è un dato di realtà, ma è anche una metafora. Il padre mi sembra così
assente dalla storia di questo bambino…
Un pomeriggio gli dico:
“Con le crocette stai andando benissimo, ma come mai non racconti
niente al papà?”.
“Il papà non c’è”.
“Si, ma lo senti per telefono?”.
“Sì, ci salutiamo, ma a lui queste cose non interessano”.
“Come fai a sapere che non gli interessano?”.
“Dice che non sono cose importanti”.
“Quando te lo ha detto?”.
“Lo dice sempre”.
“Ma gli hai raccontato che prendi la bottiglia molto tardi durante la
mattinata, e vai a scuola da solo…”.
“No”.
“Quindi lui queste cose non le sa ancora”.
“No”.
“Quindi non può dire che non sono importanti, se non le sa”.
Gli dico che potrebbe almeno provare. Ma è in imbarazzo. L’imbarazzo,
in parte, sembra derivare proprio dal fatto che il padre non lo gratifica mai
per questi suoi piccoli progressi. Probabilmente, più in generale, il bambino
ha imparato a tacere con il padre, perché il silenzio è rinforzato
negativamente molto più di quanto la comunicazione lo sia positivamente.
Ma in parte, come spesso succede, sembra anche che ormai non sappia più
come fare, tanta è la mancanza di abitudine.
Gli propongo un role playing della telefonata al padre. Io faccio il
padre; lo incoraggio e do importanza a quello che mi dice. In seguito parlo
con la mamma. Le spiego quello che abbiamo fatto. Le dico che sarebbe
bello se Enrico provasse a farlo davvero e il papà lo ascoltasse. Tutto
questo, me ne rendo conto, è tanto artificiale da dare, persino a me adesso,
mentre ci ripenso e scrivo queste parole, un senso di tristezza. Il papà,
avvertito dalla mamma, gli dirà, non so con quanta convinzione o invece
con quanta meccanica freddezza, che è stato molto bravo. Questa è come la
storia grigia di un fiore mai sbocciato. Ora so che è così, ma allora cosa
avrei dovuto fare? Non siamo in grado di predire il futuro e non abbiamo il
diritto, come terapeuti, di decidere a priori cosa non potrà sicuramente
succedere. A volte avviamo in modo freddo e artificiale un programma, ma
poi questo comincia a vivere di vita propria, modifica positivamente una
relazione, permette a un piccolo paziente di dare significati nuovi a quello
che fa. A volte non succede nulla. Credo che abbiamo comunque il dovere
di provare.

pag. 259

Una gerarchia degli stimoli ansiogeni e un nuovo contratto


Arrivati a questo punto avrei proprio voglia di togliere la bottiglia di mezzo:
definitivamente, se Enrico ci riuscisse.
Gli chiedo di fare una gerarchia degli stimoli ansiogeni. Apriamo un file di
testo e i due estremi li scrivo io:
“Lasciare la bottiglia in cucina mentre io sono in camera: TROPPO
FACILE!!!!!”
Sorride.
“Mettere la bottiglia su un missile spaziale e lanciarla per sempre sulla
luna: TROPPO DIFFICILE!!!!!”
Mi sembra che il gioco lo diverta. Sposto queste due frasi all’estremo del
foglio, come si può vedere nella figura 21.10, e poi gli cedo il mio posto
perché trovi situazioni intermedie da mettere nella gerarchia.

Figura 21.10 Gerarchia degli stimoli ansiogeni.

Sceglie, in ordine crescente di difficoltà:


• lascio la bottiglia in macchina e io vado dalla nonna;
• lascio la bottiglia a casa e io vado a giocare da mio cugino;
• lascio la bottiglia a casa e io vado a giocare in una piazza di fonte al mare
con gli amici che trovo lì;
• lascio la bottiglia a casa e io vado a scuola.
Sulla base di questa gerarchia facciamo una nuova scheda di auto-
osservazione che si può vedere nella figura 21.11.

Figura 21.11 Una nuova scheda di auto-osservazione per un nuovo obiettivo: fare a meno della
bottiglia.

Il guadagno dei punti è in funzione della difficoltà stabilita nella gerarchia.


In questo modo Enrico comincia una nuova auto-osservazione e si
attribuisce da solo i punti guadagnati. Le date della scheda mostrano che,
intanto, siamo quasi arrivati alla fine delle scuole.

pag. 151

Nella figura 21.12, su suggerimento della mamma, si vede che è stata


aggiunta anche la strategia del costo della risposta .
Figura 21.12 Nella scheda di auto-osservazione è stato inserito il costo della risposta: quando il
bambino esce con il chinotto perde 2 punti.

pag. 284

Di solito non ho molta simpatia per modalità di questo tipo, a causa del
fatto che sono centrate su aspetti negativi. Preferisco, tutte le volte che è
possibile, rinforzare comportamenti piuttosto che punirli. Ma qui la
proposta della mamma ha secondo me un significato molto preciso. Sembra
volermi dire: puniamolo, per favore, se prende il chinotto! Perché solo se so
che verrà punito, io riuscirò a non comprarglielo. L’interpretazione, così
senza prova, può sembrare azzardata, ma guardate i risultati di questa
scheda di auto-osservazione. Alla fine la mamma non gli ha comprato il
chinotto e così Enrico non ha subìto nemmeno una multa!
È arrivato giugno, come si può vedere nella figura 21.13, e perciò alla
scuola (che nel frattempo chiude) si sostituisce il mare, dove mamma e
bambino vanno regolarmente quasi tutti i giorni. La figura 21.13, quasi a
conclusione del nostro percorso, mi sembra molto interessante rispetto a ciò
che potremmo chiamare un processo di normalizzazione. Prima di tutto, ai
punti guadagnati non corrisponde più nessun premio. La token economy è
sparita e al rinforzamento simbolico si è sostituito un autorinforzamento
sociale: il bambino è orgoglioso dei punti che riesce a guadagnare, cioè dei
progressi che fa. Inoltre l’osservazione sistematica è cambiata: ora Enrico
autovaluta se è riuscito ad andare al mare con le bottiglie nella borsa frigo,
prenderne una quando ha sete e riporla nella borsa, che resterà
all’ombrellone dopo che lui ha bevuto. Quello che viene descritto in questa
scheda è, in altre parole, il comportamento tipico di qualsiasi persona che
decida di passare una giornata in spiaggia.

Figura 21.13 Una scheda di auto-osservazione del periodo estivo, dove il comportamento osservato
appare ormai molto “normale”.

La figura 21.14 mostra che questo comportamento, tra luglio e agosto, si


è praticamente consolidato. Enrico, come è esplicitamente richiesto nella
scheda, la compila da solo e, dal 4 agosto, anch’io me ne vado in vacanza.
Figura 21.14 L’ultima scheda di auto-osservazione del periodo estivo.

FOLLOW-UP

Me ne vado in vacanza, ma durante l’estate mi arrivano di tanto in tanto,


alcuni graditissimi SMS dalla mamma. Ne riporto tre qui di seguito.
Il primo dice:
“Siamo al parco giochi. Enrico si sta divertendo. È senza bottiglia!”.
Le rispondo che sono molto contento che le cose stiano andando per il
verso giusto anche con gli amici e che mi fa molto piacere ricevere queste
comunicazioni.
Il secondo dice:
“Oggi è andato con i cugini e la zia e non ha portato la bottiglia”.
Di nuovo, le invio un SMS di risposta simile al precedente.
Ma il terzo
“Va al mare sempre senza bottiglia, a volte vuol far vedere che è bravo, a
volte se la dimentica”
merita qualcosa di più di un messaggino di risposta. La chiamo. Mi
faccio raccontare in modo più esteso queste belle notizie, ma soprattutto mi
accerto che abbia compreso bene il significato di quel “a volte se ne
dimentica”. Conosciamo la sua propensione a vedere il negativo di molte
situazioni: non vorrei che anche in questo caso pensasse che la
dimenticanza della bottiglietta significhi che il programma non proceda
bene, con sufficiente consapevolezza. Chiariamo per telefono che, al
contrario, questa è una notizia particolarmente buona: certe abilità e (direi)
certe abitudini si stanno automatizzando, diventano naturali. Così, Enrico
va a giocare al parco o in spiaggia senza bottiglietta, perché questo per lui
non è più importante, è routine, non merita più neppure di essere ricordato.
Ci salutiamo e ci auguriamo reciprocamente buone vacanze.
Poi le vacanze passano e quando rivedo il bambino è autunno. È venuto
a trovarmi per raccontarmi le novità.
Le più significative mi sembrano due. La prima è che sta programmando
di andare in vacanza con un amico per Natale. Mi sembra francamente una
grande notizia.
Per la seconda lascio ancora a lui la parola:
“Ho scoperto che non mi serve più la bottiglietta, mi basta masticare un
chewing-gum”.14

Commentiamo insieme questa “scoperta” e poi cambio tema:


“E a scuola come sta andando?”.
Anche su questo argomento mi sembra che tutto proceda, con inevitabili
alti e bassi, piuttosto bene.
Gli chiedo:
“Chi ti ci accompagna?”.
E lui, con quell’espressione fin troppo sicura di sé quasi a dargli un’aria
da bulletto:
“Ti sembro il tipo che si fa accompagnare?”.
1 Ho portato più volte questo caso a lezione nelle scuole di specializzazione e spesso i giovani
colleghi mi hanno fatto notare la quasi coincidenza tra l’età del bambino e l’esordio della patologia
ansiosa della madre. Alcuni, durante le nostre discussioni, hanno anche avanzato a questo proposito
ipotesi suggestive. Io devo però confessare che mentre mi occupavo del caso non ci avevo pensato e
dunque non ho raccolto nessun dato né a favore né contro queste ipotesi.
2 Si spalanca qui un bel problema per il terapeuta. Enrico mi dice chiaramente che non vuole fare la
recita di Natale. Posso non ascoltare questa richiesta di aiuto? Sembra difficile. E allora devo
accoglierla? Ma cosa vuol dire accoglierla. Sostituirmi ai genitori e dire che non deve andare alla
recita? E ammesso che io possa fare una cosa del genere, questo non sarebbe incoraggiare un
evitamento? Vedremo a fine paragrafo il mio tentativo di uscire da questa situazione difficile.
3 Qui c’è una discrepanza, che non riuscirò a chiarire, rispetto al racconto della madre, che aveva
invece detto che il bambino ha vomitato una sola volta. Nel rileggere adesso i miei appunti penso che
una possibile ipotesi sia che Enrico, in realtà, abbia vomitato in classe una sola volta, ma il disagio
sia stato talmente forte che ora il bambino “se la racconta” come se gli episodi fossero stati invece
numerosi.
4 Dialettale: “non ci si picchia”.
5 Credo, alla luce delle cose che verranno dette e succederanno nelle sedute successive, di poter
interpretare questo aggettivo come “disponibile con me”.
6 Vedi nota 4 del presente capitolo.
7 Uso l’espressione nell’accezione della scuola di Palo Alto e della terapia breve strategica
(Watzlawick, 1979; Nardone e Watzlawick, 1990; Watzlawick e Nardone, 1997; Rampin e Nardone,
2002).
8 Sono evidenti, qui, manovre attribuzionali. Alcune vanno meglio, altre peggio. Va bene quando
cerco di far notare al bambino che la situazione dell’ansia è modificabile. È più difficile condividere
l’idea che in parte il merito del miglioramento è suo. Riusciamo comunque ad arrivare alla
convinzione che il miglioramento è possibile e determinato da eventi, come il termometro, sui quali
siamo capaci di esercitare un certo controllo.
9 Vediamo qui il passaggio da obiettivi molto rilevanti ma generici come essere più allegro, o troppo
difficili in una determinata fase di intervento come fare palestra con gli altri, alla definizione
operazionale, chiara e circoscritta, di un obiettivo ragionevole e dunque relativamente facile da
raggiungere.
10 Dal punto di vista della teoria della tecnica questo è un errore. La teoria vuole che il terapeuta
lavori per spostare il controllo dai rinforzatori di basso livello (molto concreti e artificiali, come un
rinforzatore tangibile) a quelli di più alto livello (come i dinamici e i sociali). Ogni volta che è
possibile, dunque, quando si replica una token economy, si dovrebbe cercare di passare da un
rinforzatore tangibile (un giocattolo) a uno, per esempio, dinamico come una gita. Qui ho scelto di
fare una seconda token praticamente identica alla prima perché mi sembrava che massimizzare la
probabilità di un secondo successo fosse particolarmente importante, perché non sarebbe stato facile,
per un bambino che non chiede altro che di essere lasciato in pace in casa, concordare un rinforzatore
dinamico, e infine perché mi sembrava che la soddisfazione intrinseca per quello che stavamo
facendo lasciasse ben sperare nel fatto che gradualmente sarebbe stato possibile lavorare solo
attraverso rinforzatori sociali.
11 Si tratta di un esempio evidente di passaggio da un rinforzatore estrinseco come la token a uno
intrinseco rappresentato dalla soddisfazione di migliorare.
12 Quando faccio lezione, racconto spesso episodi caratterizzati da quella che sono solito chiamare
la virgola di troppo. Un giorno, un bambino gravemente oppositivo provocatorio ubbidisce
finalmente alla maestra e, cosa che non capita quasi mai, svolge tutto l’esercizio di matematica
seduto al suo posto. Osservazione della maestra: “Ha fatto le operazioni assegnate, anche se il
compito era come al solito scorretto e disordinato”. Eccola, la virgola di troppo! E soprattutto ecco
quello che segue alla dannata virgola: invece che l’attenzione al positivo (ha fatto le operazioni), tutto
si concentra sul negativo. Ho un repertorio vastissimo di questi episodi, che non può essere contenuto
nello spazio di una nota a piè di pagina. Mi limito a citare ancora il bambino con un grave Disturbo
d’ansia di separazione, abituato a entrare in classe, quando andava bene, solo se la madre restava nel
corridoio, ben in vista, tutta la mattina. Mesi di lavoro e finalmente arriviamo a programmare
l’obiettivo “cinque ore in classe mentre la mamma aspetta fuori dalla scuola, facendo a piedi
compere nel quartiere”. Se lo raggiungessimo sarebbe veramente un gran risultato, tanto che quella
mattina resto in attesa di un SMS della madre per sapere come è andata. L’SMS arriva verso le ore
14:00, mentre sto prendendo un caffè con una tirocinante. Dice, letteralmente: “È stato in classe da
solo tutte e cinque le ore, ma se avesse visto all’uscita che faccia patibolare!”. La tirocinante non
crede ai suoi occhi e devo rileggerlo un paio di volte. Mi meraviglio della sua meraviglia. Non mi
avevi mai sentito, a lezione, raccontare della virgola di troppo? Eccola di nuovo: l’accento non è
sull’obiettivo raggiunto (cinque ore in classe da solo), ma sul pallore del volto. Tutto questo ha
conseguenze gravi. Se dico “Ha fatto le operazioni assegnate, anche se il compito era come al solito
scorretto e disordinato”, poi finirò per punire il bambino per il suo disordine. Se scrivo (e dunque
penso) “È stato in classe da solo tutte e cinque le ore, ma se avesse visto all’uscita che faccia
patibolare!”, poi dirò a mio figlio che sono preoccupata perché lo vedo pallido e gli chiederò se si
sente male quando sta troppo a lungo lontano da me. La psicoterapia è anche lavorare affinché le
virgole di troppo siano sostituite da bei punti fermi. “Ha fatto le operazioni assegnate.”: dunque gli
dirò che è stato bravo. “È stato in classe da solo tutte e cinque le ore.”: dunque gli proporrò di andare
a festeggiare da McDonald’s (posto che gli piace tanto e dove non viene portato quasi mai).
Sicuramente gli tornerà un bel colorito!
13 Vedi nota 12 del presente capitolo.
14 Ho discusso questo caso di Enrico in Master di psicoterapia nei quali erano presenti colleghi di
varia formazione. Più di una volta, psicoterapeuti psicodinamici mi hanno fatto notare che il ricorso
al chewing-gum rappresenta una sostituzione del sintomo, legato, come il precedente chinotto, alla
fase orale evidentemente non superata. A volte la loro conclusione è stata che in sostanza questo
dimostra che non è avvenuto nessun miglioramento significativo. Con il massimo rispetto per le
opinioni di tutti, osservo che se l’obiezione tende a sostenere l’ipotesi che Enrico non è ”guarito”, la
condivido in pieno. Ha di fronte a sé ancora molta strada da fare, e io non sono sicuro né che riuscirà
a farla, né che non ci saranno, lungo questa strada, ricadute e dolori. Ma nell’ottica cognitivo-
comportamentale, passare dal comportamento “andare in giro con una bottiglia di chinotto” al
comportamento “masticare del chewing-gum” rappresenta un progresso sostanziale, perché il
secondo comportamento è più adattativo e molto meno interferente con la vita sociale di un bambino
di otto anni.
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 22

Jack lo Squartatore e la principessa


Aurora
Fabio Celi

I genitori di Aurora sono sconcertati.


Non uso a caso questo aggettivo. Mi sembra che fino a poche settimane
fa la loro famiglia potesse essere rappresentata come un armonioso
concerto. Il papà e la mamma sono due professori universitari, abituati a
una tranquilla vita di studi. Aurora, 9 anni, è una bambina perfetta.
Intelligente, calma, educata, ubbidiente, bravissima a scuola, piena di amici,
anche se di fondo un po’ riservata, sana e sportiva. La sorella minore viene
definita come un po’ più vivace, ma certo questo è troppo poco per poter
parlare di una dissonanza. La figura 22.1 mostra la famiglia che Aurora mi
disegnerà durante uno dei nostri primi colloqui: in tanti anni di professione
e di disegni della famiglia non ricordo di averne visto uno composto con più
equilibrata maestria e, allo stesso tempo, con quell’uso parsimonioso dello
spazio che finisce per lasciare al bianco la parte indiscussa di protagonista,
probabilmente a indicare emozioni molto trattenute.
Figura 22.1 Il disegno della famiglia.

Vivono tutti e quattro in una bella villetta sul mare, circondati da un


giardino tanto ampio da poter quasi essere definito un parco. Molto verde,
molta serenità.
Eppure è proprio da qui, da tutto questo verde, da questa – col senno di
poi – pericolosa perfezione, che sbuca fuori il mostro. Non è una metafora.
Nella vita di Aurora e della sua famiglia è proprio un classico mostro a
mandare all’aria a un tratto tutta questa serena armonia. È un tiepido
pomeriggio d’estate. Aurora sta giocando nel suo ampio giardino con un
piccolo gruppo di bambini che sono venuti ad abitare da quelle parti per un
breve periodo di vacanza. Sono loro che le fanno notare che c’è qualcosa di
strano sotto uno strato di foglie vicino a un vecchio pioppo, che con il suo
fusto quasi bianco ha fatto tante volte da schienale ad Aurora, quando lei
era solita passare una buona parte del suo tempo a leggere libri sotto la sua
ombra. Anche questa è un’immagine di serenità che sembra a un tratto,
violentemente, appartenere al passato. Perché Aurora sposta le foglie; poi,
incitata dagli altri bambini che adesso non ho cuore di chiamare amici,
smuove un poco il terreno con le sue manine nude e rimane inorridita. C’è
un coltello insanguinato. Ci sono degli stracci: resti di un vestito anch’esso
insanguinato. I bambini tutti lì attorno, tutti complici, le spiegano che sono i
segni di un antico delitto. Un assassino cattivissimo, un mostro appunto,
che ha ucciso nella sua vita decine di donne e che tutti chiamavano Jack lo
Squartatore, era passato da lì, chissà quando; aveva consumato il suo
ennesimo delitto, ne aveva sotterrato i resti ed era poi scomparso chissà
dove.
Vorrei ripeterlo.
I genitori di Aurora sono sconcertati mentre mi raccontano, durante il
nostro primo colloquio questa storia. Ma lo sconcerto non nasce
dall’episodio in sé, che probabilmente in molti altri genitori avrebbe
determinato reazioni emotive molto forti di rabbia nei confronti di quei
bambini che avevano macchinato uno scherzo così stupido e così cattivo.
No no. Lo sconcerto è per la reazione della figlia. Pochi giorni dopo questo
episodio sono partiti tutti e quattro per un breve periodo di vacanza. Sono
andati a Vicenza e poi hanno fatto il giro delle ville palladiane. Aurora era
serena. Non aveva più parlato del brutto episodio. Aveva dormito in albergo
in camera con la sorellina, si era divertita e aveva mostrato un interesse
notevole – certamente maggiore di quanto ci si potrebbe aspettare in una
bambina di quell’età – per l’architettura neoclassica. Poi erano tornati a
casa e a me sembra di capire con molta chiarezza che i genitori si sarebbero
aspettati di riprendere la loro tranquilla esistenza di sempre. E invece – ecco
lo sconcerto – Aurora, fin dalla prima sera (cosa inaudita!), si era rifiutata di
andare a dormire nella sua cameretta con la sorella. Il papà e la mamma
avevano insistito, dicendole che questo suo comportamento era inspiegabile
e inammissibile. La bambina aveva cercato di obbedire.

pag. 49

Alle quattro del mattino si era svegliata in preda a un incubo. Urlava.


Diceva che aveva sentito dei rumori, delle urla, delle porte che sbattevano.
La mamma si era molto arrabbiata e l’aveva rimproverata con una certa
asprezza. Da quel momento Aurora si era rifiutata di rimanere in casa senza
i genitori vicino (non parliamo neppure di andare in giardino…); diceva che
aveva paura di restare da sola anche per pochi minuti in una stanza dove
non fossero presenti o il papà o la mamma. Se loro si muovevano lei li
seguiva. Se loro la invitavano a non fare queste storie stupide da bambina
piccola lei replicava che non riusciva a fare diversamente.
Io leggo lo sconcerto negli occhi di questo papà, di questa mamma, che
una vita familiare serena da sempre – ed essi pensavano probabilmente
serena per sempre – non ha abituato in alcun modo ad affrontare questa
dissonanza. Non che non abbiano reagito. Non che non abbiano tentato di
fare qualcosa. Lo hanno fatto a modo loro. Lo hanno fatto come erano
capaci: qualche giorno dopo le hanno di nuovo parlato severamente e
l’hanno costretta a tornare nel suo letto, nella camera insieme alla sorella.
La situazione è, se possibile, peggiorata. Ora non si addormenta se non nel
letto fra i due genitori. È tesa come un pezzo di legno, anche quando dome.
È calda. Si agita e cerca il contatto fisico. Si sveglia più volte durante la
notte. Di giorno segue di stanza in stanza uno dei due genitori come un
gattino impaurito (ma la similitudine è mia perché è quello che io sento
mentre i genitori mi raccontano tutto questo: dubito che loro sarebbero stati
capaci di questa metafora).
E poi a sconcerto si somma sconcerto: perché fuori casa Aurora non ha
nessun problema! È l’Aurora di sempre! Va la mare. Sembra serena. Gioca
con gli amici: quelli veri che frequenta da una vita, non il gruppetto di
bambini conosciuti qualche settimana prima che le hanno giocato quel
brutto tiro e che, essendo turisti, sono probabilmente già ripartiti…
Chiedo ai genitori se c’è qualche altra cosa di Aurora che li preoccupa, o
che li ha preoccupati in passato. Ma il punto sembra proprio questo. Che
non c’è mai stato niente. Mai nessuna preoccupazione. Mai nessun
problema. Né di sonno, né di alimentazione, né di socialità, né tantomeno
relativo alla scuola, dove la bambina è sempre stata bravissima e dove è
sempre andata volentieri.
Chiedo allora se può esserci dell’altro, non in Aurora, ma negli eventi di
queste ultime settimane o anche di questi ultimi mesi, che può aver turbato
loro o la bambina…
Si guardano. Sembrano riflettere. Ho quasi la certezza che se non avessi
posto io una domanda così diretta il nostro colloquio sarebbe finito senza
che loro mi dicessero niente di tre lutti che hanno colpito la famiglia in
quest’ultimo anno. La scorsa estate è morto il nonno paterno di Aurora. Un
mese fa la nonna materna. Sempre durante l’estate un gattino, che la
maestra aveva regalato alla bambina ancora cucciolo, è stato sbranato da un
cane. Chiedo degli altri due nonni: Aurora non li ha mai conosciuti perché
sono morti prima della sua nascita.
In cartella trovo un mio appunto, freddo come quest’ultima parte di
colloquio: “un’elaborazione del lutto rigida e tutta di testa”.
Non vorrei essere frainteso. I genitori di Aurora vogliono un bene
dell’anima alla bambina. Lo si capisce fin da subito da mille particolari e lo
si capirà ancor meglio con l’andare avanti della nostra storia. Il problema è
che ci sono molti modi di voler bene, come ci sono molti modi per essere
tristi. Non sempre farlo solo con la testa è il modo migliore.
Aurora è proprio come me l’aspettavo.
Educata, compiacente, carina, longilinea, collaborante e un po’ fredda.
La sola cosa che non mi sarei aspettato è che chiede di entrare con la
sorellina, come se questo le desse un po’ di coraggio in una situazione che
la sua riservatezza rende all’inizio leggermente imbarazzante. La sorellina,
dall’alto dei suoi cinque anni, ci aiuta molto. È più brillante, più aperta, più
sfacciata. È la prima a chiacchierare. È lei che rompe il ghiaccio. Poi si
mettono a disegnare, ciascuna su un proprio foglio che ho dato loro. Aurora,
naturalmente, lavora più concentrata e in silenzio, ma si vede che nel
complesso è a suo agio e a questo punto la sorellina può uscire.
Rimasta sola, a una mia domanda diretta mi dice subito che sa bene
perché è venuta da me. Mi racconta di Jack lo Squartatore senza
manifestare particolari emozioni. Mi spiega che adesso, durante la notte,
sente voci e passi nella casa ed è per questo che vuole dormire con i suoi
genitori.
Provo anche a ricostruire i suoi lutti. Mi parla subito del gattino che le
aveva regalato la maestra e che lei aveva chiamato Fulmine. Ne ha preso un
altro, mi dice, e l’ha chiamato Tuono. Dei nonni mi parla con più difficoltà,
con una riservatezza che mi sembra nascondere un dolore che non è capace
di riconoscere. A una mia domanda diretta nega che tutto questo possa
avere una relazione con le sue paure di oggi.
Sembra che sia permesso – che Aurora si permetta – di parlare solo di
Jack lo Squartatore e dare a lui la colpa di tutto.
Il resto è molto difficile, in questo esordio della nostra relazione.
È difficile trovare rinforzatori. Sembra che nulla la interessi. In realtà
non credo che sia così. Credo che anche il semplice raccontare di un
desiderio rappresenti un’emozione che la bambina non può concedersi. Alla
fine riesco a strappare “una vacanza al mare in Sardegna” alla quale sente il
bisogno di aggiungere immediatamente dopo che però sa già che ai suoi
genitori questa cosa non piace.
È difficile trovare un eroe che possa svolgere la funzione di personaggio
positivo e coraggioso con il quale identificarsi lungo il nostro percorso
terapeutico, secondo una strategia suggerita da Kendall e Di Pietro (1995)
per i bambini con un disturbo d’ansia. Anche qui, alla fine, con fatica,
riesco a strappare un genericissimo “Qualcuno che non abbia paura di
nulla”. C’è però una cosa che è peggio che difficile. Accettare anche solo
l’ipotesi di fare con me esercizi di rilassamento non è difficile. È
impossibile. I rinforzatori, come vedremo più avanti, finiremo per trovarli.
Anche il personaggio guida uscirà un po’ magicamente fuori dal suo nome
e sarà la Principessa Aurora: la protagonista della Bella addormentata
rappresenta in un certo senso (l’addormentarsi, serenamente nel suo letto)
uno dei nostri più importanti obiettivi di tutto il percorso terapeutico e forse
anche uno dei suoi più evidenti limiti, come vedremo. Ma il rilassamento
proprio no. Cedere il controllo, chiudere gli occhi di fronte a un estraneo e
lasciarsi andare le risulterà impossibile.
Riesce invece a raccontarmi dove sente la paura: al petto, con il cuore
che le batte forte; e sulla schiena, attraversata da un specie di brivido che la
fa formicolare. Riesce anche a raccontarmi la giornata di Aurora, quella
vera, e a confrontarla con la giornata della Principessa Aurora senza paura,
come talvolta, durante le nostre sedute, finiremo per chiamarla. Aurora il
mattino si sveglia; va al mare (di solito con il papà); sta al mare fino a sera;
cena, guarda la TV con i suoi genitori e poi aspetta che loro vadano a letto
per seguirli nel lettone e lì addormentarsi con una certa fatica; la sera, al
massimo, riesce a fare una corsa veloce fino in camera, al piano di sopra,
ma poi deve immediatamente scappare di sotto e tornare insieme al resto
della famiglia. La Principessa, invece, si sveglia e resta a casa da sola anche
tutto il giorno.
Credo che sia interessante riflettere un attimo sulla differenza delle
giornate di questi due personaggi. Il mio intento era quello di mettere a
confronto l’ansia, l’evitamento, la riduzione della qualità della vita di
Aurora con la serenità della Principessa, ma nei fatti emerge un quadro
molto diverso. La vita di Aurora è molto più ricca di quella della
Principessa senza paura. Aurora va al mare, si diverte, è circondata dal
calore dei suoi familiari. La Principessa, invece, ripeto le parole esatte usate
dalla bambina, “si sveglia e resta a casa da sola anche tutto il giorno”.
A questa immagine non posso fare a meno di pensare a Turandot, la
principessa di ghiaccio incapace di amare.
Qualche breve digressione teorica. Uno psicodinamico direbbe
probabilmente che la malattia sta portando alla bambina una serie di
vantaggi secondari. Un comportamentista direbbe che i sintomi di Aurora
sono sistematicamente rinforzati. Un cognitivista costruttivista, forse, si
esprimerebbe in un modo ancora diverso. Si domanderebbe: qual è il
significato di questi sintomi? Cosa sta cercando di dire Aurora, che con le
parole non riesce ad esprimere?
Mi piacerebbe ricevere un giorno, in regalo, un dizionario. Ma non un
dizionario inglese-italiano per tradurre qualche articolo di psicologia: quello
posso sempre comprarmelo. Mi piacerebbe avere un dizionario per tradurre
la parola “evitamento” con l’espressione “meccanismo di difesa”. Per
tradurre un antecedente remoto di un’analisi funzionale nel significato di un
sintomo. Prendiamo i lutti. Aurora ne ha avuti tre, in pochi mesi. Perché
non si è data il permesso di soffrire? E poi almeno due erano lutti importanti
anche per i suoi genitori. Perché neppure loro si sono dati questo permesso?
I lutti sembrano proprio un antecedente remoto: è infatti molto difficile
negare che abbiano svolto un ruolo nella genesi del disturbo. Mi interessa
poco se qualcuno preferisce inserirli all’interno di un sistema che dia
significato ai sintomi di Aurora. Mi interessa di più riuscire a spiegarmi le
cose, non dico chiaramente, che forse è un obiettivo impossibile nel nostro
mestiere, ma almeno in modo sufficientemente chiaro da poter aiutare una
bambina che soffre. E allora in questo tentativo di capire qualcosa mi
chiedo: perché neppure il gattino sbranato da un cane e trovato in garage
proprio dalla bambina, con tutto il dolore che quella vista le avrà
sicuramente provocato, perché neppure quello ha funzionato, è riuscito a
farla star male come certamente avrebbe avuto bisogno di stare? Come ha
reagito la piccola Aurora a questo lutto? Al gatto Fulmine ha sostituito il
gatto Tuono. Lo sanno tutti: dopo il fulmine viene il tuono. Lo sanno tutti:
morto un papa se ne fa un altro.
Ma questo era un cucciolotto, un batuffolo di pelo che le aveva regalato
la sua maestra!
Non era un nome. Non era un evento atmosferico che arriva e poi va via.
Non era un papa, distante sul suo trono d’oro, come la Principessa
Turandot. Eppure alla fine, per provare almeno un’emozione, e per
esprimerla, e per concedersi di stare male, è stato necessario uno scherzo
macabro, un accidente esterno. Altrimenti, la via di Aurora avrebbe
continuato a essere come quella della Principessa: che al mattino si sveglia
e resta a casa da sola anche tutto il giorno.
Mentirei se dicessi che queste considerazioni mi hanno consapevolmente
guidato nel mio lavoro psicoterapeutico. Alcune di queste considerazioni le
ho fatte durante il percorso con la bambina. Alcune le ho fatte dopo.
Alcune, addirittura, le sto facendo, o quanto meno mi si stanno chiarendo
adesso, mentre scrivo queste parole. Penso tuttavia che un percorso
terapeutico, anche un’auto-osservazione , anche una token economy ,
anche un parent training , o acquista un significato, o si inserisce in un
contesto che abbia un suo senso, oppure non arriverà ad avere una grande
efficacia. Pazienza se questa costruzione di senso non avviene prima di
programmare il percorso. Pazienza se non avviene con chiarezza e in modo
esplicito neppure durante. Pazienza, o forse addirittura meglio per certi
aspetti. Non credo che il lettore migliore sia quello che ha consapevolezza,
mentre legge, del fatto che un grafema a forma di S corrisponde al fonema
“s”, e che un grafema a forma di O corrisponde al fonema “o”, e che la
fusione di questi due fonemi forma l’unità fonemica sublessicale “so”, e che
un grafema a forma di L corrisponde al fonema “l”, e che un grafema a
forma di E corrisponde al fonema “e”, e che la fusione di questi due fonemi
forma l’unità fonemica sublessicale “le”, e che la fusione di queste due
unità sublessicali forma la parole “sole”. Penso che il lettore migliore sia
quello che di fronte alla sequenza di grafemi SOLE ne sente sulla pelle il
calore dei raggi, e rievoca una mattina di primavera quando con una
maglietta a maniche corte faceva due passi sulla battigia.

pag. 151

pag. 13

pag. 562

Non credo che l’autista più bravo sia quello che pensa che quando il
rumore del motore della sua automobile si fa troppo acuto significa che il
motore è troppo su di giri e quindi si deve passare da una marcia inferiore a
una superiore, e per far questo è necessario togliere il piede dal pedale
dell’acceleratore e premere a fondo il pedale della frizione, e subito dopo
cambiare la marcia e poi togliere il piede dal pedale della frizione e premere
sul pedale dell’acceleratore. Credo che un buon autista sia quello che
esegue dolcemente, automaticamente, queste operazioni e intanto, con la
mente libera da preoccupazioni troppo tecniche o troppo teoriche, può
godersi il panorama delle colline che passa davanti al parabrezza della sua
auto.
Non ricordo di aver mai detto esplicitamente ai genitori di Aurora
“dovete starle più vicini”. Però forse, piano piano, anche solo per dover
completare insieme alla figlia una scheda dove raccogliere i punti per un
cartellone di token economy, è successo che il papà, la mamma e la bambina
si siano in qualche modo avvicinati. Di sicuro non ho mai detto loro dovete
farle esprimere di più le sue emozioni e voi stessi dovete trovare il coraggio
di esprimerle. Penso che non avrebbero capito. Forse si sarebbero allarmati,
oppure si sarebbero offesi, oppure si sarebbero sentiti in colpa.
Provo a fare un ragionamento analogo anche per i risvolti, per certi
aspetti inattesi, che questa storia presenta a proposito del cosiddetto
comportamentismo di terza generazione. Io ho cercato di aiutare Aurora a
non scappare. A stare qualche minuto in giardino dentro il suo gazebo, e
qualche minuto dentro la sua paura. A sdraiarsi sul lettino della sua camera
ad aspettare. Aspettare cosa? Né io né lei lo sapevamo. Aspettare quello che
sarebbe successo. Non le ho insegnato in modo esplicito l’accettazione o la
defusione, perché tra l’altro credo che non ne sarei stato capace.
Però è successo. Non voglio anticipare l’e-mail, sorprendente, che la
bambina mi manderà alla fine del nostro percorso terapeutico e che mi
mette un brivido tutte le volte che la leggo o che mi capita anche solo di
pensarci. Ma mi sembra, in un paio di righe, una summa dell’ACT che
io di certo non avrei saputo fare. Un sintesi che è tutta sua. Perché Aurora, o
forse il nostro percorso insieme, è andato più avanti dei miei ragionamenti,
dei miei pensieri, delle teorie che padroneggio e che applico. In un certo
senso, anche se ovviamente all’interno delle tecniche di cui mi sono servito,
non è stato programmato. È successo.

pag. 333

Non posso fare a meno di citare qui, adesso, dopo queste mie
considerazioni forse un po’ confuse, un passo del discorso che von Karajan
fece in onore del collega Böhm in occasione di una cerimonia in cui Böhm
veniva insignito di una onorificenza. Quei due giganti della direzione
d’orchestra del Novecento sono uno di fronte all’altro. E uno dice all’altro:
“Tu hai in realtà, se posso dire così, unito la conoscenza, la capacità, la
volontà e il conseguimento degli obiettivi in un’unica persona. I maestri zen
nell’arte del tiro con l’arco1 non dicono, quando esercitano la propria
attività, io tiro la freccia, bensì la freccia si tira. L’azione è diventata una
cosa talmente scontata che non si deve aggiungere nulla. Quindi, nel tuo
caso, dovrei dire: la musica si fa da sé. E questo riflette una delle massime
più profonde della filosofia cinese: nel non agire si trova l’agire. Non
bisogna fraintendere. Prima tutto deve essere stato fatto, ma poi ogni cosa
deve compiersi da sé. Questa è la vera maestria! E ci vuole molto tempo per
raggiungerla.”
So bene di non avere nell’arte della psicoterapia neppure un frammento
della maestria che Böhm aveva nella direzione d’orchestra e so bene che
nessun von Karajan dirà mai di me queste parole. Ma mi è piaciuto citarle
perché mi sembra rappresentino in modo mirabile il passaggio dalla prima
ondata dell’approccio comportamentale, tutta tecnica e tutta attenzione ai
passi da compiere, alla terza ondata, dove anche la psicoterapia finirà,
almeno nei casi migliori, per “compiersi da sè”.
Basta.
Torniamo subito alla nostra piccola Aurora che da vecchio e un po’
incallito comportamentista dalla prima ondata non ho piacere lasciare
troppo a lungo con le sue angosce; e che vorrei aiutare il prima possibile a
staccarsi di nuovo, almeno un po’, dai suoi genitori e a riprendere almeno
un po’ della sua antica sicurezza.
Le chiedo, dunque, intanto di disegnare le sue paure.
Le figure 22.2 e 22.3 rappresentano il risultato di questa mia richiesta.

Figura 22.2 Aurora ha paura.


Vorrei che il lettore si soffermasse per qualche tempo a osservare con un
po’ di attenzione la figura 22.3. Come nel disegno della famiglia, anche qui
gli spazi vuoti prevalgono. Il centro della scena è bianco. Io lo immagino
livido: il bianco un po’ spettrale generato da quell’unica luce che viene dal
soffitto, da un lampadario che getta sul muro un’ombra inquietante. Le altre
ombre sono quelle della bambina e quella del coltello. Tutto mi sembra
rappresentato alla stesso tempo con straordinaria ma allo stesso tempo
glaciale maestria. Mi sembra un’emozione fortissima trasformata in una
scena di film. Come se solo così potesse essere riconosciuta. Ammetto che
l’altro disegno è meno bello ma più caldo, e quindi non voglio spingermi
oltre con interpretazioni che finirebbero per essere troppo spericolate. Due
cose mi sembrano comunque chiare. Aurora sta “usando” Jack lo
Squartatore per permettersi di avere emozioni negative, per esprimere
sofferenza. E poi questa sofferenza la disegna. In qualche modo, certo a
modo suo, ma sta cominciando a raccontarmela. Possiamo darci il permesso
di prenderne contatto insieme.

Figura 22.3 Jack lo Squartatore.

Cosa devo fare a questo punto? Cosa devo fare dopo aver raccolto,
commentato e lavorato su questi due disegni?
Modifico la domanda. Cosa deve fare a questo punto lo psicoterapeuta
comportamentista?
Deve cercare un aspetto positivo. Un punto di forza. Qualcosa che
funzioni nella vita del suo paziente. Se Archimede fosse stato uno psicologo
comportamentista avrebbe detto: “datemi un punto di appoggio e vi
rinforzerò il mondo”.
“Bene.” dico alla bambina. “E ora, se ne hai voglia, disegnami Aurora
serena e felice.”
La figura 22.4 rappresenta la risposta a questa mia richiesta. Aurora è
fuori di casa. Passeggia sul viale di fronte alla sua villetta e un albero che
sta cominciando a perdere le foglie segnala che l’autunno è alle porte. Il
disegno è pieno di movimento; il controllo formale è molto inferiore a
quello precedente, ma qui c’è vita. Sui jeans di Aurora sono ricamati due
cuori.

Figura 22.4 Aurora serena e felice.

Poi torniamo a parlare delle sue paure. Insieme, costruiamo una


gerarchia, che si può vedere nella figura 22.5. Accanto ad ogni situazione
mettiamo il valore del termometro dell’ansia, che in un attimo la bambina
ha imparato a usare. Ci sono cifre in rosso che indicano situazioni che
attualmente sono percepite come inaffrontabili. Ma ci sono anche cifre in
blu, che indicano che si può cominciare a lavorare per evitare l’evitamento,
secondo un’espressione che si può trovare meglio spiegata quando si parla
di ACT nel capitolo 14. È arrivato il momento di riprendere il discorso
dei rinforzatori. Jack lo Squartatore ha già permesso alla bambina di dire
che a volte sta male. Vediamo se ora le dà una mano anche ad ammettere
che ha dei desideri. Avere dei desideri è consentito. I desideri possono
essere espressi.

pag. 333

Figura 22.5 Gerarchia della situazioni endogene. Nella gerarchia originale, come è spiegato nel
testo, le cifre che indicano situazioni percepite come inaffrontabili sono colorate di rosso, mentre
quelle che indicano situazioni sulle quali la bambina sente di poter lavorare sono colorate di blu. Qui,
dato che la tavola è in bianco e nero, abbiamo racchiuso in un circolo le cifre rosse e in un quadrato
quelle blu.

La figura 22.6 illustra il nostro primo, piccolo successo. Buttiamo giù


insieme lo schema di un diario dove, pagina dopo pagina, Aurora scriverà le
cose che è riuscita a fare e i progressi che è riuscita a ottenere. A ogni
progresso corrisponde un punteggio, tanto più alto quanto più difficile è
stata l’azione compiuta. Io lavorerò con i genitori perché a questi punti
possa corrispondere qualcosa che Aurora desidera e che con i punti potrà
guadagnare.
Figura 22.6 L’elenco dei rinforzatori.

Ma Aurora, cosa desidera?


Il frontespizio del nostro piccolo libro diario rappresentato nella figura
22.6 è la risposta a questa domanda. Aurora desidera, nell’ordine, un lettore
MP3, una gita a Eurodisney, un viaggio in Sardegna, un libro della serie
Geronimo Stilton e i viaggi nel tempo, un altro gatto (c’è bisogno, in un
libro destinato a psicologi, di commentare questo desiderio?), un’escursione
su una montagna delle Alpi Apuane e un pelouche.
Così, con la bambina, possiamo iniziare il nostro viaggio.
Si tratta di un viaggio che non compiremo da soli.
Lavorerò in studio, quando potrò, con i genitori, e moltissimo attraverso
un intenso rapporto fatto di e-mail.
Dunque, mentre Aurora, con alti e bassi che, come vedremo, mi danno a
volte la sensazione di essere sulle montagne russe, va avanti che le sue
esposizioni alle situazioni ansiogene, il suo diario di auto-osservazione e i
suoi token, i genitori provano a mettersi un po’ in gioco nella relazione con
la figlia.
La figura 22.7 mostra una delle tante pagine del nostro diario: la
bambina resta da sola 10 minuti in giardino e guadagna un punto; oppure va
in bagno da sola di sera (quando viene buio comincia per lei il momento più
difficile della giornata) e guadagna 3 punti; e così via.

Figura 22.7 Una pagina del diario di autosservazione.

I genitori, intanto, mi raccontano che provano a “invitarla gentilmente”


(questa è proprio l’espressione che usano) a fare piccoli passi. Qualche
volta le cose procedono per il verso giusto, come si può leggere nell’e-mail
del 3 settembre (vedi fig. 22.8) dove è interessante anche concentrare
l’attenzione sul fatto che i genitori sono molto scrupolosi, molto attenti e
questo sarà un fattore positivo per tutta la terapia. Il rovescio della medaglia
è una certa freddezza emotiva con la quale sarà necessario confrontarsi.
Figura 22.8 Qualche piccolo progresso.

Qualche volta ci sono invece battute d’arresto o quanto meno alti e bassi,
come si può leggere nell’e-mail della figura 22.9 dove, a fronte dei
miglioramenti nell’andare in bagno da sola, ci sono difficoltà a stare nel
gazebo in giardino e queste difficoltà aumentano in modo vistoso la sera,
fino a provocare proteste e crisi di pianto.

Figura 22.9 Alti e bassi.

Discutere questi alti e bassi con i genitori rappresenta spesso


un’occasione preziosa. Lavoriamo insieme sul fatto che la bambina sembra
avere bisogno di attenzioni e di incoraggiamenti quando fa qualche passo
nella direzione dell’accettare le sue difficoltà e nell’affrontarle nei limiti del
possibile. Con il passare delle settimane il papà e la mamma sembrano
acquisire una certa consapevolezza che i problemi di Aurora fanno parte, in
un certo senso, di un “gioco relazionale” nel quale i protagonisti cercano,
ciascuno per la sua parte, di ristrutturarsi in modo da poter comunicare
qualcosa di più. Tutto questo procede con lentezza e con un’elaborazione
molto di testa.
C’è una giornata drammatica, subito dopo gli alti e bassi che ho appena
descritto, illustrata nell’e-mail di figura 22.10, che la dice lunga su queste
relazioni che hanno bisogno di trovare un nuovo equilibro, ancora molto
difficile. La mamma ha perso la pazienza. Ha costretto la bambina ad
andare al piano di sopra della casa. L’ha rimproverata perché Aurora non
era riuscita a farlo. Il papà si chiede se questo possa avere avuto un effetto
negativo sulla figlia, ma in realtà conosce già bene la risposta. In un
evidente stato di preoccupazione mi chiede anche una specie di prognosi…

Figura 22.10 Una giornata molto nera.

Per fortuna, con i loro inevitabili limiti, sono genitori in gamba, capaci di
comprendere e di imparare dai propri errori. L’e-mail della figura 22.11 è
talmente chiara a questo riguardo da non aver bisogno di commenti. Mi
limito a riportare l’ultima frase: “memori dell’altra sera, abbiamo subito
smesso di insistere”.
Figura 22.11 Sbagliando si impara (i cognitivisti direbbero: una perturbazione può riorientare in
modo strategico un paziente in difficoltà).

Aurora, intanto, va avanti nel nostro percorso e sembra molto contenta


del fatto che il suo papà, la sua mamma e io ci vediamo, ci parliamo, ci
scriviamo. Credo che sia contenta del fatto che ci prendiamo cura di lei.
Riempie il suo diario con scrupolo, anche se in certe giornate è vuoto. Ci
tiene a mostrarmelo, a commentarlo con me, a mettere in una cartellina
azzurra che le ho regalato sia le pagine delle schede di osservazione che i
token che intanto ha cominciato a guadagnare. E poi scatta un
comportamento di imitazione. È come se si domandasse: “perché i miei
genitori scrivono tante e-mail a Fabio e io niente?”.
Comincia così, anche con lei, uno scambio epistolare che in certi periodi
si fa piuttosto fitto. La figura 22.12 mostra la prima e-mail scritta dalla
bambina dopo che i genitori mi avevano chiesto se Aurora avesse lasciato
in studio da me la sua cartellina azzurra, perché non la trovava più a casa ed
era molto allarmata di questo.

Figura 22.12 Anche Aurora comincia a scrivermi…

Come si può leggere nel breve (e un po’ freddo) testo, Aurora mi racconta i
suoi progressi e tenta di programmare anche qualche obiettivo successivo.
Intanto il diario va avanti, i punti si accumulano e i genitori mi raccontano
di una buona giornata, in cui la figlia ha giocato in giardino con l’amica del
cuore con la quale si è aperta raccontandole delle sue paure, facilitata dal
fatto che anche la sua amica era andata da uno psicologo. La mamma,
intanto, ha potuto allontanarsi un po’ e Aurora è sembrata serena (vedi fig.
22.13).

Figura 22.13 Aurora sta meglio e apre uno spiraglio sulle sue emozioni con un’amica.

In realtà, purtroppo, dice la mamma, queste “sarebbero state” le buone


notizie di ieri, che non ho potuto mandarle perché mi era saltato il
collegamento internet. Oggi le notizie sono ben diverse. La bambina si è
intristita. Le è tornata la paura. Nell’e-mail riportata nella figura 22.14
Aurora non accetta di sentirsi dire dalla mamma che sta meglio e che la
paura le passerà. Replica al contrario che non è tanto sicura di questo e che
comunque ci vorrà molto tempo. Credo che stia dicendo alla mamma che ha
ancora bisogno delle sue prure e del calore relazionale che queste le
procurano.

Figura 22.14 Aurora sta cercando di dire alla mamma che ha ancora bisogno delle sue paure.

Parleremo a lungo con i genitori di questa interpretazione e circa un


mese dopo, come si può vedere nell’e-mail della figura 22.15, sembra che
tutto questo abbia dato qualche frutto, forse una consapevolezza nuova: di
fronte a un piccolo episodio di regressione in questa altalena di alti e bassi,
la mamma scrive: “Talvolta mi sembra che abbia paura di non avere più
paura”.

Figura 22.15 “Talvolta mi sembra che Aurora abbia paura di non avere più paura”.

Sembra anche a me, ma adesso per fortuna, non sono più solo. Durante una
seduta molto carica emotivamente la mamma sembra avere un insight e mi
dice:
“Adesso finalmente Aurora ha un po’ di attenzione da parte nostra.
Soprattutto durante la malattia della nonna le bambine sono state messe tra
parentesi. Il messaggio era: cercate di dare meno fastidio possibile che noi
dobbiamo occuparci della nonna. Fino al 21 luglio le bambine sono state
chiuse in un lager estivo”.
Usa proprio questa metafora terribile.
E Aurora, intanto?
Aurora sicuramente è motivata dai suoi punti che aumentano. La
bambina sicuramente vuole guadagnare i token per completare il suo primo
cartellone. Sicuramente non vede l’ora di arrivare al rinforzatore di scambio
che, in questa prima fase del lavoro terapeutico, è un libro di Geronimo
Stilton sui viaggi del tempo (vedi fig. 22.16). Altrimenti che
comportamentista sarei?
Figura 22.16 La prima token completata.

Ma sarei un vetero-comportamentista cieco se non vedessi, sia pure in


filigrana, che certi suoi miglioramenti hanno anche origini diverse.
Un pomeriggio mi racconta che i suoi genitori le stanno più vicini. Che
prima si sentiva trascurata. Che adesso, invece, per aiutarla a superare le sue
paure hanno anche pensato di portarla insieme a un’amica in un parco
giochi a fare un percorso di coraggio. E poi continua scrivermi. Nell’e-mail
della figura 22.17 mi racconta dei suoi nuovi progressi, dei suoi nuovi
obiettivi e delle sue nuove difficoltà.

Figura 22.17 Progressi, progetti e difficoltà.

Le difficoltà nascono dal fatto che abbiamo stabilito insieme un nuovo


passo importante: stare da sola per dieci minuti a letto. Non c’è riuscita ma
ci riproverà. Come si può vedere nell’e-mail mi scrive: “sarà per la
prossima volta”. Un bell’esempio di dialogo interno di autoefficacia. Anche
perché adesso ha preso gusto a guadagnare libri e DVD in funzione dei suoi
progressi e già sta pensando a un nuovo cartellone di token economy.
Lo progettiamo insieme. Le chiedo come vorrebbe il suo nuovo
cartellone e lei ne fa una bozza e sceglie anche un eroe delle cronache di
Narnia come immagine per i token, come si può vedere nella figura 22.18.
È contenta che io le permetta di costruire da sola e di personalizzare a suo
piacimento il cartellone che poi le preparerò.

Figura 22.18 Aurora progetta un nuovo cartellone di token economy.

Mentre disegna la bozza e scarica da internet il medaglione del


personaggio delle cronache di Narnia, penso a una tesi di laurea discussa
qualche settimana prima. Alcuni miei tesisti presentavano i progetti
psicoeducativi svolti, all’interno delle scuole, con token economy e che la
fantasia congiunta dei bambini e degli insegnanti avevano reso
particolarmente ricchi. Ne ricordo tre in particolare: in uno il
raggiungimento degli obiettivi di classe era rappresentato dalle tappe di
Ulisse per arrivare a Itaca. Nell’altro, il rinforzatore finale era costituito
dall’arrivo, in spiaggia, di un pirata che portava a tutti i bambini la patente
dove erano indicati gli obiettivi raggiunti e uno scrigno pieno di dobloni
d’oro di cioccolata. Nel terzo, i token erano metaforicamente delle note, e
finalmente non nell’accezione negativa che di solito si dà a scuola a questa
parola, ma nel senso musicale del termine: più i bambini si comportavano
correttamente e più note potevano essere poste su un pentagramma fino al
raggiungimento del rinforzatore finale, che consisteva nell’andare in una
sala di registrazione a incidere canzoni, tutti in coro tutti insieme.
Alla fine della discussione un professore che era in commissione,
rappresentante illustre della prima ondata del comportamentismo, mi prese
da parte. Mi disse che non capiva. Quello che fa funzionare la token
economy, mi spiegò, è il fatto che i token sono rinforzatori di primo livello
che rimandano a un rinforzatore di scambio di secondo livello. Punto. È
questo che funziona. A cosa serve tutto il resto? A cosa serve l’Odissea? A
cosa servono i pirati? A cosa servono tutti quei cartelloni pieni di metafore
e di colore e pentagrammi che si riempiono di note e che saranno costati
chissà quanto tempo ai miei poveri tesisti?
Risposi che sapevo anch’io qual è il principio attivo della token
economy. Anche il principio attivo di un farmaco è il prodotto chimico
posto al suo interno. Ma perché le case farmaceutiche rivestono la polverina
che contiene il principio attivo con una confettatura dolce, rosa e
gradevolmente scivolosa e dunque facile da ingoiare? Perché la confettatura
aumenta la compliance. Ingoiare una polverina amara che si appiccica sulla
lingua e sul palato e non va più né su né giù, non è la stessa cosa che
mettere in bocca un piccolo confetto rosa dal buon sapore. Prova a proporre
a una maestra di dare a un suo allievo un gettone grigio tutte le volte che si
comporta bene e di scambiare poi dieci gettoni con un giocattolino. Questa
proposta le si appiccicherà sul palato e non le andrà più né su né giù.
Un programma psicoterapeutico non dovrebbe solo essere corretto.
Dovrebbe essere condiviso. Dovrebbe essere dolce al palato. Come
vedremo tra poco, in un’e-mail Aurora mi chiederà: “Com’è il nuovo
cartellone? Spero che sia bello”.
Ecco cosa ha capito e ora ci insegna una piccola paziente, meglio di un
accademico: un programma psicoterapeutico dovrebbe essere bello.
In studio facciamo anche cose più tradizionali.
Per esempio un’esposizione graduale agli stimoli ansiogeni a intensità
crescente attraverso immagini di Jack lo Squartatore che ho scaricato da
internet, come si può vedere nella sequenza della figura 22.19.
Figura 22.19 (a-c) Sequenza di stimoli ansiogeni ordinati gerarchicamente per esperienze di
esposizione graduale.

La bambina sta sull’immagine, che dapprima la fa star male. Sta su


questa sofferenza. I comportamentisti di terza generazione direbbero: fa
spazio a questa sofferenza. Me ne parla. Si ascolta. Si accorge, come dirà lei
stessa, di aver scoperto che più sta nelle situazioni che le fanno paura e più
la paura cala.
Le cose hanno cominciato a prendere una direzione giusta. Aurora tende
a esporsi sempre di più, e con sempre maggiore convinzione. Manca un po’
la continuità e su questo dovremo lavorare. E poi manca l’obiettivo finale,
che appare per ora molto lontano: addormentarsi di nuovo sul suo letto.

Ma procediamo senza fretta, senza ansia da prestazione.


Costruiamo un nuovo diario dove la bambina deve annotare giorno per
giorno se ha fatto l’esercizio, quante volte l’ha fatto e quanti punti, di
conseguenza, ha guadagnato. L’esercizio, come abbiamo visto, consiste nel
rimanere da sola, a letto, per cinque minuti. È un esercizio che Aurora trova
all’inizio particolarmente difficile e che tende per questo a evitare. A letto
da sola l’ansia le aumenta e i minuti non le passano mai. In studio facciamo
una prova. Guarda quanto ti sembra lungo un minuto se disegni e quanto ti
sembra lungo un minto se stai lì a osservare l’orologio. Cosa ti insegna
questa esperienza? La bambina ne comprende subito il senso e così, come si
può vedere nella figura 22.20, viene invitata a portarsi in camera il
necessario per disegnare, o per leggere, o per fare qualsiasi cosa che la
decentri dal tempo che passa (o meglio che altrimenti sembra non passare
mai). Nella figura si vede che è stata introdotta anche una tecnica di costo
della risposta, che certamente non mi sarei potuto permettere con l’Aurora
delle prime sedute. Se salta più di un giorno la settimana l’esercizio salta
anche l’appuntamento con me. È bello essere diventato per lei un
rinforzatore!

Figura 22.20 Aurora comincia a stare a letto da sola per tempi crescenti.
Arriviamo così a completare anche il secondo cartellone di token
economy (vedi fig. 22.21) e la bambina guadagna il suo dvd, che tra l’altro
le servirà, d’ora in poi, per passare il tempo quando starà a letto da sola per
tempi crescenti, come racconta lei stessa nell’e-mail che si può vedere in
figura 22.22.

Figura 22.21 Seconda token economy.

Figura 22.22 Qualche progresso e qualche emozione.

Vorrei a questo punto proporre al lettore due esercizi di osservazione


sistematica. Il primo è banale: osservare i tempi in cui la bambina resta da
sola a letto. Anche il risultato dell’esercizio è banale: i tempi aumentano.
Siamo partiti da 5 minuti (che tra al’altro passavano con molte difficoltà) e
abbiamo superato il quarto d’ora.
Il secondo esercizio è meno scontato. Come si capisce dall’e-mail di
figura 22.22, io sto cercando di insegnare alla bambina a valutare anche le
emozioni positive e lei mi scrive che la sua gioia è arrivata a provato 100.
Così proviamo ora a misurare l’intensità di contenuto emozionale che
Aurora mette nelle sue comunicazioni con me. Suggerisco un aiuto: usare
come parametro il numero di punti esclamativi e di emoticon usate dalla
bambina. Sul piano del comportamento l’osservazione delle e-mail, come
abbiamo visto, suggerisce progressi di un certo rilievo. Ma il numero di
punti esclamativi e di emoticon è sempre, desolantemente, zero.
Eppure…

Eppure nel corso delle settimane era evidente che qualcosa si stava
muovendo anche sul versante emotivo: con la mamma, con il papà, con la
bambina stessa. E allora guardate l’e-mail di due giorni dopo, in figura
22.23: i punti esclamativi sono una fila ininterrotta che arriva quasi alla fine
della riga!!!!! Qualcosa sta succedendo, allora, anche da questo punto di
vista…

Figura 22.23 Qualche successo e tanta emozione.

E non è un caso, perché pochi giorni dopo compare un volto sorridente,


sia pure dietro gli occhiali scuri. Ma non è tutto. Nell’e-mail di figura 22.24
c’è anche un’ansia di venire all’appuntamento che la bambina non aveva mi
manifestato prima.

Figura 22.24 Adesso Aurora sorride.


Alcuni la chiamano relazione terapeutica. Tutti, o così io credo,
indipendentemente dall’orientamento teorico, concordano sul fatto che
questa che potrei definire motivazione a lavorare insieme sia il cemento
senza il quale nessuna costruzione potrà mai stare insieme. Ora abbiamo un
po’ di cemento che ci lega, la bambina ed io.
Sarà questo legame emotivo nuovo; saranno i token via via guadagnati e,
con i token, i libri e i dvd; sarà l’accorgersi, da parte di Aurora, che lo star
meglio non le allontanerà i genitori e, da parte dei genitori, che tutto devono
fare fuorché abbandonarla di nuovo in un lager proprio ora che sta un po’
meglio; sarà il mio lavoro esplicito su un’emozione positiva che le insegno
a riconoscere e a misurare; sarà chissà cos’altro che non so perché, come
diceva von Karajan e come dicono gli antichi maestri zen e i moderni
psicoterapeuti ACT, molte delle cose migliori finiscono per farsi da sole: sta
di fatto che il risultato, come si può vedere nella figura 22.25, è che adesso
Aurora fa l’esercizio di esposizione regolarmente tutti i giorni e raggiunge
anche i 40 minuti, durante i quali sta da sola sul letto con un’ansia che si
aggira sempre intorno al 55-50 ma anche una gioia che raggiunge sempre il
100 e le fa venir voglia di aggiungere uno smile alla sua scheda di
osservazione.

Figura 22.25 Di nuovo, Aurora sorride.

Costruiamo così, tutti insieme, l’ultimo grande passo. Di solito lascio


che bambini e genitori gestiscano a casa diari di osservazione e calcolo dei
punteggi, ma preferisco tenere per me i token e lavorare in studio con i
tabelloni di token economy. Ma è evidente che qui devo fare un’eccezione.
Per l’ultimo grande passo lascio i token al papà e alla mamma e regalo ad
Aurora una scatoletta azzurra dove dovrà, come in uno scrigno, conservare i
gettoni che via via riuscirà a guadagnare. Ci sono tre modi per guadagnare
un token. Il primo è continuare a esporsi alla solitudine e alle emozioni che
la solitudine le procurerà nel lettone dei suoi genitori. Il secondo modo è
ripetere lo stesso esercizio nel lettino in camera sua. Il terzo modo è
addormentarsi nel suo lettino. Credo che sia chiaro perché sento il bisogno
di programmare una token con tre percorsi diversi. Posso chiedere a una
bambina di provare a fare degli esercizi. Di provare a esporsi. Di restare per
tempi crescenti in una situazione o dentro un’emozione anche spiacevole o
persino un po’ dolorosa. Ma non posso chiederle di addormentarsi.
Prescrivere il sonno è come prescrivere il divertimento, o la gioia, o la
spontaneità. È una prescrizione paradossale. Il rischio è che più ti sforzi di
ottenere una di queste cose e più te ne allontani.
Il nostro patto sarà dunque, come credo apparirà chiaro più avanti dal
cartellone della nostra ultima token economy (vedi fig. 22.32): prova a
impegnarti nel rimanere sola sul letto. Già questo ti permetterà di ottenere
premi intermedi che ti sarai pienamente guadagnata comunque vadano le
cose. Se poi il risultato di questo sarà – come un “bonus”, direbbero i
terapeuti ACT – che ti addormenterai, tanto meglio. Non è questo che ti
chiedo, ma è quello che potrebbe succedere.
Figura 22.32 L’ultimo cartellone di token economy: Aurora si addormenta da sola in camera sua e il
portone dell’ultimo obiettivo si apre per mostrare il lettore MP3.

Succederà, infatti.
La figura 22.26 mostra i progressi nell’impegno visti dai genitori, che
sottolineano come l’esercizio del rimanere sola a letto stia andando bene e
talvolta venga svolto anche per più di un’ora, con un’ansia percepita che
non supera mai il livello di 55.
Figura 22.26 I progressi visti con gli occhi dei genitori.

La figura 22.27 mostra i progressi e la gioia visti con gli occhi (e forse,
finalmente, anche con il cuore) della bambina. Come si può vedere, sembra
che adesso l’accento emotivo si sia spostato dalle emozioni negative a
quelle positive: non solo la gioia percepita è maggiore della paura, ma quel
“SEMPRE” scritto in caratteri maiuscoli per indicare un livello di 100 che
sembra non cambiare mai è molto significativo al riguardo. E poi c’è la
speranza, che ho già avuto modo di commentare, che il nuovo cartellone sia
bello: una speranza che la dice lunga sul fatto che le emozioni si sono
infiltrate in un programma terapeutico svolto all’inizio in modo un po’
rigido e un po’ freddo.

Figura 22.27 “Com’è il nuovo cartellone? Spero che sia bello”.

Ma non è tutto. Quando le cose cominciano a procedere non solo sotto la


spinta motivazionale di un rinforzatore simbolico programmato, ma per
effetto di qualcosa di più interno e di più sentito, si cominciano a vedere
con molta chiarezza anche i primi effetti della generalizzazione . La
figura 22.28 mostra cosa succede quando un percorso comincia ad andare
avanti da solo. Una mattina Aurora si è svegliata molto presto, ma è tornata
a letto da sola. Non ha avuto bisogno di token aggiuntivi e, d’altra parte,
tornare a letto la mattina non faceva parte di nessun accordo. La bambina
l’ha fatto e basta, e i genitori parlano dell’episodio come di “una grossa
novità’”. Poi, con i loro mezzi, cognitivamente molto forti ed emotivamente
un po’ da principianti, mostrano di aver imparato a usare il rinforzamento
: “È stata adeguatamente festeggiata”, dicono. La generalizzazione
dispiega i suoi effetti. Come si vede nell’e-mail di figura 22.29, i genitori
sottolineano con evidente soddisfazione che la figlia insiste a voler tornare a
casa da sola dopo la Messa; che si è offerta spontaneamente di andare a fare
una commissione; che si è fermata a giocare in giardino con alcune amiche.

pag. 41

pag. 13

Figura 22.28 La generalizzazione.

Figura 22.29 Ora lo chiamano confidenzialmente Jack.


La mamma commenta che Aurora sembra aver ritrovato la voglia di
crescere e di diventare indipendente, “come faceva prima di Jack”. Si
esprime proprio così. Il mostro di qualche mese fa è diventato un amico.
Non è strano. Jack ha provocato molto dolore a tutta la famiglia nelle prime
settimane, ma poi ha finito per dare una mano a tutti nel comprendere cose
importanti e forse utili per il futuro. Non è strano nemmeno il fatto che se
Aurora sta emotivamente un po’ meglio abbia voglia di uscire da sola e fare
da sola un tratto di strada. Mentre leggo questa e-mail mi torna in mente
uno dei primi disegni che mi fece la bambina, dove si era rappresentata
appunto da sola nella via accanto alla casa, serena e con un paio di jeans
che adesso, con quei due cuoricini ricamati dietro il sedere, mi ricordano
che presto Aurora sarà una ragazzina. Crescere vorrà dire per lei anche
ritrovare il coraggio di staccarsi un po’ dalle figure della mamma e del
papà.
Succederà che riuscirà anche ad addormentarsi da sola.
Ormai lo sentiamo sia io che lei. Io le chiedo com’è andata (vedi lo
scambio di e-mail in fig. 22.30), quanti punti ha guadagnato, come si sente.
Lei mi risponde che fa l’esercizio in camera sua con molta tranquillità. Che
non è ancora riuscita ad addormentarsi ma è sicura che presto, “anzi molto
presto”, ci riuscirà (di nuovo, una bella prova di autoefficacia ). E poi
aggiunge che sta bene e si sente felice e serena. Non è tanto il fatto che
provi emozioni positive a colpirmi di questa sua risposta, quanto che mi
parli di emozioni, che le emozioni siano in primo piano, che Aurora abbia
imparato (almeno un po’) a riconoscerle e a raccontarle.
Figura 22.30 L’autoefficacia, ovvero: “sono sicura che ci riuscirò”.

pag. 182

Mi sembra che ci sia un’interazione stretta tra lo stabilirsi di una


relazione terapeutica e la capacità di parlare di emozioni oltre che di
comportamenti.
Nell’e-mail di figura 22.31 Aurora mi invita di nuovo, con insistenza, a
un suo saggio sportivo (la prima volta, colpevolmente, non ero andato
perché, troppo stanco, mi ero addormentato prima di trovare la forza di
uscire di casa) e di nuovo mi regala uno smile. Poi, nel post scriptum, mi
racconta anche che è tornata a casa da sola.

Figura 22.31 La relazione terapeutica: Aurora mi invita al suo saggio.

Arriva dicembre.
I genitori programmano una breve vacanza a Venezia. La bambina è serena.
Si diverte, si svaga e, come sempre, è molto interessata alle bellezze
artistiche e architettoniche che i genitori la portano a vedere. Poi tornano a
casa. Aurora è stanca del viaggio di ritorno, va nel suo letto e si
addormenta.
I genitori, prudenti, razionali, molto attenti alle mie prescrizioni e forse
anche (finalmente!) un po’ ottimisti e un po’ positivi, avevano già
provveduto a comprare il lettore MP3, premio finale della nostra ultima
token (fig. 22.32). Aurora è felice e me lo descrive con una dovizia di
particolari (come si può vedere nella figura 22.33) che potrebbe apparire
molto rigida, un po’ fredda, ma che a me sembra invece nascondere a fatica
un’eccitazione forte e piena di gioia. E poi mi raccomanda di nuovo di
arrivare puntuale al suo saggio!

Figura 22.33 Aurora descrivere il lettore MP3 che ha finalmente guadagnato.

Anche i genitori sono contenti e mi raccontano che adesso è tranquilla, e


non solo si addormenta da sola, ma sta spesso in casa senza neppure
accorgersi della mancanza della mamma e del papà, per tempi anche
superiori a prima che iniziassero suoi problemi (vedi l’e-mail di figura
22.34).

Figura 22.34 Anche i genitori vedono che Aurora sta bene.


Ascoltavo e leggevo queste belle notizie e pensavo al Veneto, dove questa
avventura era cominciata e si era conclusa. A Vicenza, subito dopo
l’episodio di Jack lo Squartatore, la bambina si era comportata in modo
apparentemente normale e solo tornata a casa aveva sconcertato i genitori
con le sue paure e tutti i suoi sintomi. In questi mesi anche i genitori hanno
fatto il loro percorso. Hanno preso contatto con il loro sconcerto e hanno
sempre lavorato con scrupolo sulle indicazioni che davo loro. Certo, la
rigidità di base è rimasta. Certo, la loro specialità è ancora la testa piuttosto
che il cuore e, nonostante tutto il cuore che hanno messo in questa
avventura, è impossibile che in qualche momento le caratteristiche di base
di questa coppia non riemergano. È interessante, a questo proposito,
soffermarsi un’ultima volta sul linguaggio usato dal papà. La bambina è
tranquilla e sembra non accorgersi neppure che è rimasta sola a casa. Il papà
è molto attento a cogliere questo progresso, ma non ripete “la prova”. Non
fa “un nuovo tentativo”. No: ripete “l’esperimento”. La sua capacità di
cogliere che la figlia “non era mai stata in casa da sola per un tempo così
lungo” e che questo “sia un ulteriore buon segno” è molto bella e, arrivati a
questo punto, carica di significati. Però sembra che, ancora per un attimo, il
papà sia tentato di pensare ad Aurora dentro un laboratorio di ricerca
piuttosto che dentro il fluire vero della vita.
Però, dopo lo sconcerto seguito alla gita a Vicenza di quest’estate,
adesso il ritorno da Venezia ha portato una gran bella sorpresa. È per questo
che io, in quei giorni di dicembre, pensavo al Veneto dove questa avventura
era iniziata e finita.

Invece sbagliavo.
Qualcosa, per me di molto significativo, doveva ancora succedere.
Passano le vacanze di Natale. In gennaio ci sentiamo, sia con la bambina
che con i genitori, e ci scriviamo. Le cose vanno piuttosto bene, più o meno
come quando ci siamo sentiti a fine dicembre. Mi segnalano solo un po’
d’ansia, per lo più serale e notturna. Mi dicono che a volte riemerge di
nuovo, ma non sembrano dare importanza a questa cosa che invece crea in
me un po’ di inquietudine. Così scrivo ad Aurora: “E la paura, adesso, come
va?”
La sua risposta (come si può vedere nell’e-mail di figura 22.35)
rappresenta per me una grande lezione.
Figura 22.35 “… di notte va e viene…”.

“… la paura??” mi chiede Aurora con due punti interrogativi.


Mi sembra che mi dica: “Fabio, cosa stai facendo? Ti preoccupi per
un’emozione?? Non starai mica cercando di suggerirmi un evitamento
esperienziale???”
E infatti aggiunge: “La paura di giorno non c’è, di notte va e viene, ma
per il resto va bene”.
Mi sembra che mi stia serenamente spiegando: “Fabio, vedi, io non sono
fusa con la mia ansia. Io sono Aurora, e sono riuscita a tornare nel mio
letto, ad addormentarmi, e a vivere serena di giorno anche senza i genitori
vicini. E poi c’è la mia paura, naturalmente, con la quale convivo”.
La paura di giorno non c’è,
di notte va e viene,
ma per il resto va bene.
Sembra una piccola poesia.
Invece per me, come ho già detto, è una grande lezione di ACT .
Aurora mi ha insegnato la defusione, l’evitamento dell’evitamento, la
capacità di accettare le proprie emozioni e di andare avanti nella ricerca dei
propri valori. “Tranquillo, Fabio,” mi sta spiegando Aurora. “Non mi sono
fusa con la mia paura, ma ci sto dentro, le do spazio, la faccio respirare e
andare e venire, e intanto mi addormento da sola nel mio letto, che è quello
che desideravo di riuscire a fare. E sto bene. Anzi Fabio, se tu avessi ancora
dei dubbi, se ancora tu fossi preoccupato, ti specifico non sto bene, ma
benissimo; e aggiungo a questa frase un’ultima interminabile fila di punti
esclamativi”.
pag. 333
1 È qui evidente il riferimento al lavoro di Herrigel (1975).
Parte sesta

Disturbi dell’umore

Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente: v. capitolo 23


DSM-5: Disturbi depressivi – Disturbo da disregolazione dell’umore
dirompente (F34.8)
ICD-10: Sindromi affettive persistenti di altro tipo (F34.8)

Disturbo depressivo maggiore: v. capitolo 23


DSM-5: Disturbi depressivi – Disturbo depressivo maggiore (F32) [al quale
si devono aggiungere una cifra o due cifre per specificare il livello di
gravità, l’eventuale presenza di caratteristiche psicotiche e l’eventuale
stato di remissione parziale o completa]
ICD-10: Sindromi affettive – Episodio depressivo (F32)

Disturbo bipolare: v. capitolo 23


DSM-5: Disturbo bipolare e disturbi correlati – Disturbo bipolare I (F31)
[al quale si devono aggiungere una cifra o due cifre per specificare il livello
di gravità, l’eventuale presenza di caratteristiche psicotiche e l’eventuale
stato di remissione parziale o completa] Disturbo bipolare e disturbi
correlati – Disturbo bipolare II (F31.81)
ICD-10: Sindromi affettive – Sindrome affettiva bipolare (F31)

Disturbo ciclotimico: v. capitolo 23


DSM-5: Disturbo bipolare e disturbi correlati – Disturbo ciclotimico
(F34.0)
ICD-10: Sindromi affettive – Ciclotimia (F34.0)
Disturbo distimico: v. capitolo 24
DSM-5: Disturbi depressivi – Disturbo depressivo persistente (Distimia)
(F34.1)
ICD-10: Sindromi affettive – Sindromi affettive persistenti – Distimia
(F34.1)

Disturbo dell’adattamento con umore depresso: v. capitolo 24


DSM-5: Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti – Disturbi
dell’adattamento Con umore depresso (F43.21)
ICD-10: Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – Reazione a
gravi stress e sindromi da disadattamento – Reazione depressiva breve
(F43.20)
Capitolo 23

Disturbo depressivo
Fabio Celi

LA STORIA DI SILVIA
Il primo colloquio con i genitori di Silvia si svolge in modo
tradizionale, prevedibile, senza scosse e senza sorprese, forse anche perché
la madre, come vedremo subito, è abituata ad avere a che fare con psicologi
e psichiatri.

pag. 49

Esordisce, infatti, dicendomi di essere stata oltre un anno in analisi da un


freudiano, dopo averne provati altri tre con i quali non si era trovata bene. È
sempre stata depressa. Nei momenti peggiori ha avuto bisogno di cure
farmacologiche, che però cerca di evitare per quanto possibile, un po’
perché teme possano farle male e un po’ perché è contraria alle medicine
per principio. Prima ancora di queste sue parole iniziali, mi colpisce
l’aspetto dimesso, sciatto, come di chi ha smesso di sperare e di darsi da
fare per qualcosa, fosse anche solo vestirsi in modo da piacere almeno a sé
stessa. Mi colpisce anche il confronto stridente con il marito, che ha invece
un aspetto curato ed esprime sicurezza di sé e persino un certo ottimismo
con l’espressione del volto: fino a questo momento, però, non ha ancora
parlato.
La madre, invece, dopo questa breve descrizione di sé nei termini di una
donna infelice e bisognosa di continue cure, comincia a parlarmi di Silvia.
La bambina ha quasi nove anni e, fin dalla scuola dell’infanzia, è stata una
bambina difficile, chiusa e sempre scontenta di sé.
“A pensarci bene”, mi dice, “è così fin da quando è nata”.
Il padre la interrompe. Mi sembra di capire che prenda la parola per
ridimensionare le affermazioni della moglie, ma che cerchi di farlo senza
ferirla: evitando, per quanto possibile, di contraddirla apertamente. Si limita
a dire che sì, Silvia è a volte, forse anche spesso, una bambina un po’ triste,
come spenta; ma che ha anche dei momenti in cui appare serena e
spensierata: una bambina, almeno nei suoi momenti buoni, come tutte le
altre.
La signora fa un cenno affermativo con il capo, ma continua per la sua
strada. Comunque, se alla fine si sono decisi a venire da me – dice – è
perché un paio di mesi fa, con l’ingresso alla terza classe della scuola
primaria, le cose sono precipitate. Probabilmente la colpa principale di tutto
è una maestra nuova, molto in gamba, molto preparata, ma che sottolinea
sempre le lentezze della bambina, che la sprona a fare meglio, a fare di più,
a non incantarsi sopra il quaderno (“Perché Silvia si incanta, questo è vero,
lo vedo tante volte anche a casa quando dobbiamo fare i compiti ed è
sempre un dramma: anch’io la sgrido, perdo la pazienza, certe volte gliene
dico di tutti i colori, lo so che sbaglio ma è più forte di me, e quindi capisco
anche la maestra che cerca di spronarla, ma sicuramente non è il modo
giusto per lei”). Le colpe, però, non sono solo di questa maestra che insegna
italiano. Sicuramente ha aggravato la situazione il fatto che la terza è una
classe difficile. Soprattutto la storia, la geografia e le scienze sono state un
dramma per la bambina fin quasi dai primi giorni di settembre. Negli anni
passati era un po’ diverso. È vero che bisognava sempre studiare un po’, ma
tutto era fatto in forma più leggera e quasi giocosa, mentre adesso la
maestra di antropologia pretende nomi e date e Silvia è andata in crisi. Si è
come spenta, piange per un nonnulla, è sempre o triste o arrabbiata. Dice
spesso che non vorrebbe più andare a scuola, che tutto è troppo difficile per
lei, che prende solo brutti voti ed è colpa sua. Non è più attirata da niente.
Niente la diverte più, mangia poco e lentamente, fa tutto lentamente e
questo manda, talvolta, la mamma fuori di testa: allora madre e figlia
litigano, se la prendono l’una con l’altra. Ci sono volte – mi dice la madre –
che è talmente agitata da sembrare proprio cattiva, “ma forse è anche vero
che sono io cattiva con lei”.
“Sì, ma poi parlagli di Sabrina”, la interrompe il padre.
“Certo che gliene parlo! È la cosa più importante: non penserai mica che
me ne sia dimenticata!”.
Mi spiega che, in realtà, la crisi di settembre è avvenuta per tre motivi,
tutti legati al rientro a scuola dopo le vacanze. Il primo è stato l’arrivo della
nuova maestra di italiano, severa ed esigente. Il secondo, le difficoltà legate
allo studio delle materie orali. Ma l’episodio più grave è stata la partenza di
Sabrina, una bambina dolce, piena di vita, sempre disponibile con tutti e
con la quale Silvia, di solito così timida, così riservata, così chiusa in sé, era
riuscita a fare amicizia. A volte facevano i compiti insieme, perché,
oltretutto, abitavano a pochi metri l’una dall’altra. A volte, mi dice il padre,
il sabato pomeriggio o la domenica mattina andavano loro tre a fare una
passeggiata fino al mare, di solito quando la mamma dormiva, ed era molto
bello. In quelle occasioni Silvia era quasi sempre particolarmente allegra.
Poi, durante l’estate, i genitori hanno saputo che il padre di Sabrina era stato
trasferito a Modena. Non avevano detto niente alla bambina, forse perché
era mancato loro il coraggio, e adesso si accorgono che molto
probabilmente era stato un errore. A settembre, il primo giorno di scuola,
Sabrina non c’era. Silvia l’aveva cercata e la maestra le aveva detto che non
sarebbe più venuta, che aveva cambiato città. A casa Silvia era rimasta in
silenzio per l’intero pomeriggio. Erano stati necessari dei giorni per poter
affrontare con lei l’argomento e spiegarle, almeno a grandi linee, ciò che era
successo. Il padre si esprime così (“a grandi linee”), perché Silvia non
voleva ascoltare nulla di questo argomento, quasi non voleva sentir parlare
di Sabrina, soprattutto nelle prime settimane, e tuttora non erano riusciti a
convincerla una volta a telefonarle. La madre aggiunge, con evidente
angoscia, che Silvia ha vissuto la partenza di Sabrina come una morte, che
parla di lei al passato (quelle rare volte in cui ha voglia di parlarne) e che
spesso le viene da piangere pensando a lei. Ormai è novembre e questa
storia va avanti da due mesi ed è una storia molto triste.
Intervengo dicendo che mi sembra di capire che adesso Silvia è molto in
crisi, ma che una certa tendenza alla tristezza l’ha sempre avuta e chiedo se
ci sono stati altri periodi particolarmente difficili come questi. I genitori
riflettono un momento su questa mia domanda. Poi la madre mi risponde
che crede che qualcosa del genere sia avvenuto durante l’ultimo anno della
scuola dell’infanzia e forse anche nei primi mesi della prima classe della
scuola primaria. Il padre sostiene di non ricordare nulla a proposito dei
primi mesi della scuola primaria, ma che verso la primavera dell’ultimo
anno di scuola dell’infanzia, in effetti, la bambina si era intristita un po’
come adesso. Diceva che le dispiaceva lasciare i suoi compagni e le sue
maestre e piangeva spesso. Oppure faceva grandi capricci apparentemente
senza motivo. Erano proprio scoppi di collera incontrollati. A volte, in
queste occasioni, sia di tristezza sia di aggressività, diceva di non volere
cambiare scuola. Diceva che nella scuola nuova dove i genitori volevano
mandarla le maestre erano cattive e si doveva imparare a leggere e lei non
era capace di leggere e aveva paura che non avrebbe mai imparato. La
madre interrompe il padre che mi ha raccontato quest’ultimo episodio,
dicendo che Silvia non affermava di avere paura, ma di essere sicura che
non sarebbe riuscita a leggere. E poi aggiunge che, comunque, è difficile
isolare episodi di maggiore o minore crisi della figlia, perché è sempre stata
una bambina difficile.
“Certo ora sta peggio”, aggiunge come parlando tra sé.
“La vede più triste e più chiusa del solito?”, le chiedo. “Le sembra che
attraversi un momento particolarmente difficile?”.
“Forse”. Ha un attimo di esitazione. “Ma abbiamo avuto tutti, sempre,
una vita difficile”.
Poi tace, come se ormai avesse detto tutto.
Dopo questo dialogo, risulta per me particolarmente facile ricostruire
l’anamnesi e la storia della bambina, con poche semplici domande alle quali
i genitori rispondono con facilità e con precisione.
Gravidanza regolare (benché passi un’ombra sul viso della madre,
mentre risponde a questa domanda), parto eutocico a termine e dimissioni
in quinta giornata. A dieci mesi un ricovero ospedaliero per un morbillo
preso in forma così violenta da spaventare anche il pediatra. A dodici mesi
mononucleosi. Per oltre un anno non ha mangiato e non è cresciuta – mi
dice la madre; il padre la corregge: “Mangiava poco e cresceva poco”. Ora
sembra una bambina di due anni più piccola. Prime parole intorno all’anno.
Deambulazione a sedici mesi e presenza, tuttora, di una motricità
impacciata a causa, a detta della pediatra, della muscolatura flaccida e
atonica. La pediatra ha sostenuto che la bambina è depressa e ha consigliato
di prendere in considerazione una terapia farmacologica, ma poi non se ne è
fatto nulla per le perplessità dei genitori, soprattutto della madre. Anche la
madre ha avuto Disturbi depressivi praticamente da tutta la vita, con alti e
bassi e periodi di relativo benessere. La madre di lei, a sua volta (la nonna
materna di Silvia), aveva non meglio specificati “esaurimenti nervosi” a
volte tanto forti da richiedere il ricovero in cliniche specializzate. Non me la
sento di approfondire in questo momento, ma penso che ciò significhi
Depressione maggiore e periodi passati in manicomio.
La storia di Silvia è una storia senza particolari episodi drammatici, ma
tutta un po’ grigia, con una tristezza di fondo. A due anni e qualche mese fu
inserita al nido perché la mamma doveva riprendere il lavoro. Ci andava
senza apparenti difficoltà e le educatrici dicevano che era sempre tranquilla,
ma un po’ isolata. Alla scuola dell’infanzia, invece, la bambina soffriva,
tornava a casa quasi tutti i pomeriggi dicendo che i suoi compagni erano
cattivi. Sembra che la prendessero di mira perché era più lenta degli altri,
più timida, più debole. La madre andava spesso a parlare con le insegnanti,
che da principio cercarono di rassicurarla dicendole che Silvia era una
bambina brava, tranquilla e senza problemi. In seguito però, dopo le sue
continue insistenze (la madre si preoccupava soprattutto del comportamento
dei compagni nei confronti di Silvia e voleva sapere che cosa facevano le
maestre per risolvere questo problema), persero la pazienza, le dissero che
non poteva interferire così nel loro lavoro, che doveva tranquillizzarsi e
avere fiducia e che se Silvia aveva dei problemi questi erano dovuti proprio
a quel suo modo di fare invadente e aggressivo.
In prima classe della scuola primaria le cose andarono ancora peggio.
Restava sempre indietro. Aveva alti e bassi e veri e propri periodi neri,
ma anche quando stava meglio sembrava avere come paura dei bambini.
Non solo non socializzava se non con enormi difficoltà, ma dava
l’impressione di non essere capace di difendersi dalle loro aggressioni
verbali. Forse le dicevano che era piccola, che era bassa, che era lenta… La
sola eccezione era rappresentata da Sabrina, una bambina splendida da ogni
punto di vista. Intelligente, vivace, amica di tutti e con tutti generosa, era
riuscita a stabilire con Silvia un bellissimo rapporto, che faceva molto bene
a Silvia. Adesso, invece, è di nuovo sola, sta sempre appiccicata alla
mamma e va mal volentieri a scuola, anche se dice che non la vuole
cambiare. I genitori non sanno ben spiegarsi questo punto. Silvia
piagnucola spesso il mattino, quando si deve preparare. Dice che la sua
scuola è brutta, che non le piacciono né le maestre, né i compagni, né le
cose che si fanno. Eppure quando, più di una volta, le hanno prospettato di
cercare una scuola nuova, la bambina si è rifiutata categoricamente. È
successo, un paio di volte, che la mamma abbia anche provato a insistere,
con il risultato di provocare in Silvia un vero e proprio attacco di collera,
finito poi in pianto.
Inoltre, mi dice la mamma, a scuola non impara niente. È arrivata in
prima che quasi tutti i suoi compagni sapevano già leggere, almeno qualche
parola. Lei si è dunque trovata subito spiazzata, in difficoltà, in ritardo. In
matematica è avvenuto qualcosa del genere e, fin dai primi mesi, sono
piovuti giudizi negativi. La mamma cerca di aiutarla a casa, di rispiegarle i
passaggi che non ha capito, ma serve a poco: il più delle volte soltanto a
litigare e a farla piangere.
“Oltretutto è così lenta”, mi dice la madre con un misto di ostilità e di
rassegnazione, “e le maestre glielo dicono sul muso, davanti a tutta la
classe”.

Un giorno, al parco, ha incontrato un compagno di scuola che le ha detto:


“Tu sei Silvia, quella che in classe sbaglia sempre tutto”.
Si possono immaginare le conseguenze di questi episodi sulla sua
autostima.
Parliamo poi della famiglia, composta da tre persone.
Il padre è dirigente in un’azienda privata; un lavoro che gli dà
soddisfazioni sia professionali sia economiche, ma lo impegna molto. La
madre è impiegata in un ente pubblico: un lavoro, al contrario, che la lascia
quasi sempre libera il pomeriggio, ma che ha scelto come un ripiego, che
non le piace, che la stanca e che fa molto mal volentieri. Ci sono forti
tensioni fra i due, che possono sfociare in litigi anche piuttosto violenti, per
lo più a causa delle continue lamentele di lei. Il marito si arrabbia perché
dice che deve farsi forza e smetterla di piangersi sempre addosso e di
vedere tutto nero. La moglie, d’altra parte, non si sente capita, sostiene che
lui sottovaluta sistematicamente i suoi problemi e che, comunque, quando
uno è depresso la forza non se la può dare neppure se lo vuole (anche il suo
analista glielo diceva sempre). A volte Silvia è presente a queste
discussioni. I genitori si rendono conto che la bambina ci soffre e che loro
sbagliano a comportarsi così, ma capita che sia più forte di loro. Altre volte
Silvia non solo è presente, ma è anche la causa dei litigi. Il padre perde la
pazienza quando vede la madre troppo esigente, per esempio sui compiti,
sempre centrata sulle cose che non vanno della bambina, mai disposta a
farle un complimento o un sorriso. Anche in questo caso la replica della
madre è che suo marito è troppo superficiale, non capisce fino in fondo le
difficoltà reali della figlia e comunque non c’è mai:
“Troppo facile arrivare a casa alle otto di sera e poi giudicare”.
Silvia è figlia unica. La mamma, dopo un attimo di esitazione, mi dice:
“Non desiderata. Io non volevo figli, dopo aver sofferto tanto nel
rapporto con mia madre. Silvia è nata dopo otto anni di matrimonio e io
sono rimasta incinta per sbaglio con l’idea che i bambini fanno schifo”.
Confesso che non riesco a raccogliere questa comunicazione e resto in
silenzio, come il marito, incapace di fare qualcosa di diverso dal lasciare
cadere l’argomento.1
Poi parliamo delle attività extrascolastiche di Silvia, che sono un altro
motivo di cruccio per la madre. Hanno fatto mille tentativi (danza,
ginnastica, psicomotricità, pianoforte e non so più cos’altro) e la bambina si
è stufata di tutto. Su tutto trova da ridire.
Anche la socialità fuori dalla scuola è povera e costellata da fallimenti. A
volte invita un’amica a casa, per giocare o per fare i compiti, ma poi non è
contenta, non si diverte. Ormai, da un paio di mesi, sembra proprio che non
riesca mai a essere felice e sappia solo lamentarsi: per il mal di testa o il
mal di pancia; perché il mattino prima di andare a scuola ha sonno e non ce
la fa ad alzarsi dal letto; perché il pomeriggio è sempre stanca e dice che i
compiti non le riescono perché sono difficili e perché lei non è capace.
Forse, a vederla adesso, dopo la partenza di Sabrina, si direbbe che felice
non sia stata mai.
Il tempo del nostro colloquio è quasi finito.
Riassumo la situazione ai genitori, per come mi sembra di averla capita e
per quelli che credo siano i punti salienti. In questi casi chiedo sempre se la
mia descrizione risulta corretta, se dico cose diverse da quelle che loro
hanno detto a me, o se trascuro aspetti che loro ritenevano invece
particolarmente importanti. Poi aggiungo che io ho cercato di ottenere le
informazioni a mio parere di solito più utili, ma che se loro pensano che vi
sia ancora qualcosa da dire, naturalmente possono farlo.2
È a questo punto che la madre mi dice che Silvia parla di Sabrina non
come se si fosse trasferita, ma come se fosse morta. È novembre e la cosa
va avanti ormai da quasi due mesi. È rimasta sola e le maestre sono
scontentissime di lei.
“E anch’io non ce la faccio più”, aggiunge.
“Sono capitate troppe cose insieme”, le dico.
Mi risponde:
“Piove sempre sul bagnato”.
Il padre interviene. Forse all’inizio è un tentativo, sicuramente
maldestro, per ridimensionare la cosa. Sostiene che non è proprio così, che
non è sempre così, che è sua moglie che tende a vedere le cose più nere di
come sono; ma in questo modo finisce per accusarla di essere lei, con il suo
pessimismo, a far spesso precipitare la situazione.
“I temporali sembra che tu li attiri”.
La madre lo guarda in silenzio: un silenzio triste e sprezzante; e non gli
risponde.
Concludo il colloquio con gli accordi su come vedere Silvia. I genitori
pensano di dirle che la porteranno da me perché io la conosca e poi li aiuti a
scegliere un’attività pomeridiana adatta a lei, che faccia volentieri, che la
diverta e la renda contenta. Discutiamo un po’ più nei dettagli questa idea e
poi ci accordiamo per l’appuntamento con la bambina.
Silvia è minuta, gracile, intimidita dall’ambiente nuovo del mio studio
che esplora lentamente con i suoi occhi piccoli, socchiusi come fessure, con
un’espressione attenta e intelligente, ma non curiosa come capita di solito ai
bambini in questi primi momenti. Resta subito da sola con me, dopo aver
fatto “ciao” alla mamma con la manina, ma questo mi sembra, piuttosto che
il risultato del fatto che si è rassicurata, l’effetto di una forma di fatalismo,
di rassegnazione: come se fosse disinteressata a quello che le avviene
intorno e sicura di non poterlo cambiare.3
Inizio l’interazione con qualche domanda sulla sua vita di tutti i giorni e
sulla scuola. Interagisce soltanto con risposte del tipo sì o no. Tiene gli
occhi bassi, ma non sembra a disagio. Piuttosto, come aveva detto la
mamma, appare come spenta. Le chiedo se le piace disegnare e se ne ha
voglia. Mi risponde di sì. Le dò l’occorrente e Silvia resta un po’ con lo
sguardo sul foglio, in silenzio. Le dico:
“Puoi disegnare quello che vuoi. Oppure preferisci che ti dia io qualche
idea?”.
“Posso disegnare una bambina?”, mi chiede.
“Certo!”.
“Anche una bambina inventata, che non esiste?”.
Le rispondo di sì, e anzi la incoraggio, dicendole che mi sembra
un’ottima idea.
Si mette a lavorare, se non proprio con piacere, con molto impegno.
Disegna in silenzio una bambina molto ben fatta, con una particolare cura
dei dettagli. È molto brava per la sua età. Glielo dico. Le chiedo quanto le
danno le maestre in disegno. Mi risponde che le danno “distinto”.
“Io ti avrei dato ‘ottimo!’ ”.
“Loro no”.
C’è molta tristezza in questi dialoghi che non riescono a decollare. Ora
ricordo che molti mesi dopo questo nostro primo colloquio, probabilmente
alla fine dell’anno scolastico, mi portò la pagella. Era molto delusa del
“distinto” in disegno, perché quella volta aveva veramente sperato
nell’“ottimo”. Commentò:
“Le maestre mi danno ‘distinto’ in disegno perché non sono brava nelle
altre materie”.
Mentre colora le chiedo se la bambina ha un nome.
Sorprendentemente, mi risponde:
“Si chiama Sabrina”, e lo scrive anche sul foglio, sotto la figura.
“Oh, che bel nome. E chi è Sabrina?”.
“Non esiste. Te l’ho detto”.
È evidente che su questo argomento, almeno per ora, ha chiuso. Io
naturalmente rispetto questo suo bisogno, ma metto in memoria il dato. Poi
mi viene in mente che i genitori le hanno detto che veniva da me perché io
la aiutassi a scegliere un’attività pomeridiana. Parliamo di questo. Il
problema è che non le piace nulla. Non la danza, che infatti ha già lasciato.
Non il tennis, dove il maestro le dice sempre che è una patata. (Le chiedo
se, secondo lei, dice davvero o per scherzare. Silvia mi risponde che forse
lo dice per scherzare, ma che questi scherzi non le piacciono.) Non il
pianoforte, dove c’è una maestra vecchia e noiosa che sembra sempre si
addormenti sulla tastiera da un momento all’altro.
Parliamo anche della scuola, delle sue maestre e dei suoi compagni e
questo nuovo argomento sicuramente non la aiuta ad alzare il tono
dell’umore. L’impressione di sofferenza, mentre parla di quasi tutti questi
argomenti, è aumentata dalla sua vocina flebile, che a volte sembra quasi un
miagolio, persino un lamento. In classe non ha amici, le maestre sono molto
severe e i compiti troppo difficili per lei, che non è molto brava in quasi
nulla. Riassumo queste informazioni in poche righe, ma non vorrei dare con
questo l’idea che mi siano bastati pochi minuti per raccoglierle. Le nostre
sedute sono fatte anche di lunghi silenzi, le interazioni di Silvia sono, per lo
più, monosillabi che devo conquistare con fatica domanda dopo domanda e
tutte queste cose emergono, in realtà, nel corso di diversi colloqui, molto
faticosamente.

Forse la cosa di cui parla più volentieri è un coniglietto bianco che gli ha
regalato il papà qualche settimana fa, al ritorno da un viaggio di lavoro. È
stata una bellissima sorpresa e la realizzazione di un suo antico sogno. La
mamma non è molto contenta di questo coniglio, perché dice che sporca e
dà molto da fare. La mamma è quasi sempre stanca. Il pomeriggio, quando
torna da lavorare, va a letto e lei fa i compiti da sola. Non le piace fare i
compiti da sola, si annoia, non le riescono e quando la mamma si sveglia lei
non ha mai finito. Così succede quasi sempre che la mamma si arrabbia e le
urla. Anche lei si arrabbia e litigano. Più che per i compiti scritti, litigano
per la storia e la geografia. Quando lei, nel ripetere, sbaglia qualche parola,
la mamma strilla e va a finire che Silvia sbaglia ancora di più, perché quegli
strilli non le piacciono e le fanno perdere la memoria. Dice di avere poca
memoria e di essere troppo lenta. Anche le maestre le dicono che deve
diventare più svelta e i compagni la prendono in giro. I compiti le fanno
anche venire il mal di testa, soprattutto la sera. Certe sere arriva il papà, è
quasi l’ora di cena e loro sono ancora a fare i compiti oppure a ripetere
storia e geografia. Il papà si arrabbia e dice che quella non è l’ora di fare i
compiti. Silvia non mi parla mai, almeno in queste prime sedute, dei litigi
tra padre e madre e sembra sempre che gli strilli e le arrabbiature dei
genitori siano rivolti contro di lei, e che la colpa sia sua.
Spesso arriva in seduta già stanca. Appoggia la testina sulla scrivania e
dà l’impressione di addormentarsi da un momento all’altro. Altre volte salta
proprio la seduta: la mamma mi telefona per dirmi che la bambina è troppo
stanca, o ha mal di testa, o mal di stomaco, o che sono rimasti troppo
indietro nei compiti. Altre volte ancora viene, ma ha un atteggiamento
mutacico che sembra francamente oppositivo. Mi chiede più volte di rifare
gli stessi giochi, per esempio alcuni semplici puzzle che sa eseguire
perfettamente a memoria. Mette a posto i pezzi con gesti lenti, come se
ognuno le costasse un’enorme fatica, oppure come se volesse prendere
tempo, evitare richieste diverse da parte mia.
Nei momenti migliori, invece, mi domanda se può disegnare e molte
volte fa il suo coniglietto, quando da solo, quando con lei o con tutta la
famiglia. C’è uno di questi disegni che mi colpisce particolarmente, tanto
che adesso sono in grado di descriverlo anche se non l’ho sotto gli occhi.
Lei e la mamma sono in salotto, dietro una tenda, disegnata con una trama
così fitta da farle sembrare come in gabbia, oppure prese dentro una rete di
pescatori. L’essere più libero della casa è il coniglietto bianco, che mangia
tranquillamente in cucina. Il padre non c’è. Mi spiega che è andato a
lavorare, aggiungendo che è quasi sempre a lavorare. Le dico che a volte,
per esempio il sabato pomeriggio o la domenica, è a casa. Silvia mi
risponde che però, in quei momenti, la mamma dorme…
Spesso, invece, i disegni che fa non le piacciono e allora li commenta molto
negativamente e poi li strappa prima ancora di averli finiti. Nel frattempo,
durante queste prime sedute, faccio alcune osservazioni di routine. Silvia
non mostra disturbi di comportamento degni di nota né deficit attentivi. La
sua intelligenza generale è lievemente superiore alla media e le sue abilità
scolastiche, in particolare lettura e scrittura, sono sostanzialmente adeguate.
Però subito si stanca, di tutto si annoia e fare queste prove è lungo e
faticoso. La bambina, nonostante un’evidente coartazione e una certa
chiusura relazionale, è orientata e sempre aderente alla realtà: una realtà che
descrive, tuttavia, come grigia, triste, senza mai un raggio di sole.

DALLA DESCRIZIONE DEL CASO


ALL’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
L’umore è un’emozione pervasiva e prolungata che colora la percezione del
mondo, recita il DSM-5,4 e i colori con i quali Silvia percepisce il mondo
sembrano tutti molto scuri: ombre, sembrano a volte, piuttosto che colori.
Per quanto per un corretto e conclusivo inquadramento diagnostico dei
problemi della bambina possano ancora restare molti dubbi, come vedremo
nel corso del capitolo, sembra intanto certo che si tratti di un Disturbo
depressivo secondo il DSM-5 (o Sindrome affettiva secondo la
classificazione proposta dall’ICD-10). L’ampia categoria di disturbi che
fino al DSM-IV-TR veniva etichettata con “Disturbi dell’umore” sono ora
distinti nel DSM-5 in due categorie: “Disturbo bipolare e disturbi correlati”
e “Disturbi depressivi” com’è riassunto, solo per quanto riguarda la
psicopatologia dello sviluppo, nella tavola sinottica del presente capitolo. I
disturbi presenti nelle due categorie sono accomunati dalla presenza di
umore triste, vuoto o irritabile, accompagnato da modificazioni somatiche e
cognitive; si differenziano invece per durata, distribuzione temporale e
presunta eziologia. Nel DSM-5, tra i Disturbi depressivi, è stato aggiunto il
Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente: un quadro clinico
caratterizzato da continua irritabilità che sfocia in gravi e periodiche crisi di
rabbia; in questo modo diventa più semplice distinguerlo dal Disturbo
bipolare all’interno del quale, fino a poco tempo fa, venivano fatti rientrare
da molti clinici bambini che avevano sia manifestazioni di mania classiche
ed episodiche, sia manifestazioni di irritabilità grave non episodiche, con un
inevitabile aumento dei tassi di diagnosi. Inoltre nel DSM-5 compare il
Disturbo depressivo persistente, come fusione del Disturbo distimico e del
Disturbo depressivo maggiore cronico presenti nel DSM-IV. Il Disturbo
depressivo persistente è un Disturbo dell’umore più lungo e più cronico
rispetto al Disturbo depressivo maggiore ed è caratterizzato da un umore
depresso presente per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, per
almeno due anni o almeno un anno nei bambini e negli adolescenti.5
Noi, tuttavia, in questo e nel capitolo successivo, ci occuperemo soltanto
dell’Episodio depressivo, del Disturbo depressivo e del Disturbo depressivo
persistente (Distimia), che sono i più frequenti e i più studiati nei bambini,
anche se in questi ultimi anni sembra esserci un interesse crescente per il
Disturbo bipolare in età evolutiva, non sempre facile da identificare a causa
della diversa espressività dei sintomi rispetto allo stesso disturbo in età
adulta, caratterizzato da importanti oscillazioni del tono dell’umore spesso
associate a comportamenti anche gravemente inadeguati (Masi, Toni, Perugi
e Traverso, 2003; Masi et al., 2006; Geoffroy, Jardri, Etain, Thomas e
Rolland, 2014; Lecardeur, Benarous, Milhiet, Consoli e Cohen, 2014).
Secondo alcuni recenti lavori, il Disturbo bipolare può arrivare a colpire
fino al 2% degli adolescenti e può essere trattato con una combinazione di
farmaci e interventi psicoterapeutici e psicoeducativi di matrice cognitivo-
comportamentale come automonitoraggio del tono dell’umore; problem
solving per le situazioni di stress; sedute di parent training; ristrutturazione
cognitiva focalizzata sulla capacità di identificare e contenere i pensieri
negativi; training di assertività; autocontrollo della regolarità del sonno;
lavoro sulle contingenze di rinforzo (Kmett Danielson, Feeny e Findling,
2004; DeFilippis e Wagner, 2013). È stato anche osservato (Romero et al.,
2009) che esiste una relazione tra eventi di vita negativi e variabili
demografiche e sviluppo di Disturbo bipolare in bambini e adolescenti.
Tornando al Disturbo depressivo maggiore, prima di fare una diagnosi di
Disturbo depressivo maggiore è necessario analizzare il concetto di
Episodio depressivo. Con questa espressione si intende una situazione
psicologica, emotiva e affettiva caratterizzata da umore depresso per la
maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni. Questa valutazione del tono
dell’umore non è mai facile e non lo è in particolare nei bambini, che
possono non essere capaci di esprimere a parole le loro emozioni e i loro
stati d’animo. In realtà, una valutazione di umore depresso dovrebbe essere
fatta dallo psicologo sulla base di quanto riporta il paziente durante i
colloqui, ma anche tenendo conto delle affermazioni e del giudizio di chi
passa con il paziente una buona parte del giorno (nei bambini, tipicamente, i
genitori). I resoconti soggettivi sono, di solito, del tipo mi sento triste, vedo
tutto in modo negativo, non ce la faccio più; mentre i sintomi osservabili
possono riguardare il tono lamentoso dell’eloquio; la facile e immotivata
irritabilità (specialmente nei bambini, ciò che a volte può rendere difficile,
come vedremo, la diagnosi differenziale con alcuni Disturbi del
comportamento); una riduzione marcata di interessi, voglia, desiderio o
piacere per quasi tutte le attività (detta anche anedonia); una facilità a
sentirsi affaticati, senza energia, come svuotati; sentimenti non realistici di
autosvalutazione e di colpa (con conseguenze anche gravi sull’autostima);
difficoltà a pensare, concentrarsi, portare a termine un lavoro; visione
pessimistica del futuro, con pensieri ricorrenti di morte e fino ad arrivare a
idee suicidali. Vi sono, inoltre, alcuni sintomi tipici dell’Episodio
depressivo, e della depressione in generale, che hanno la caratteristica di
potersi presentare in forme opposte: per esempio, insonnia ma anche
ipersonnia (in particolare, risvegli anticipati); oppure agitazione, ma anche
rallentamento psicomotorio; o infine significativa perdita di peso, ma anche
significativo aumento (nei bambini si può riscontrare, anziché la perdita di
peso, un’incapacità di raggiungere il peso normale, che ha lo stesso
significato diagnostico).6

Per porre diagnosi di Disturbo depressivo secondo i criteri del DSM-5 è


necessario almeno un Episodio depressivo completo della durata di almeno
2 settimane, ma spesso gli episodi sono più d’uno e la durata è maggiore.7
Nel DSM-5, rispetto alla versione precedente, vengono apportate alcune
modifiche: nella nota presente nel criterio A viene eliminata la dicitura
“Non includere deliri o allucinazioni incongrui all’umore” perché ritenuta
poco chiara; dal criterio B vengono eliminate le specificazioni relative
all’episodio maniacale che si ritrovano nel criterio C (ex criterio D con
modificazioni); infine viene eliminato il criterio E, relativo al lutto, perché
non esistono dati sufficienti che ne giustifichino la distinzione rispetto ad
altri fattori stressanti (Dacomo e Pizzo, 2012).
Inoltre, come vedremo meglio più avanti parlando della diagnosi
differenziale, è necessario che i sintomi non siano meglio spiegati con un
altro disturbo. Nei bambini, in particolare, il Disturbo depressivo si può
manifestare attraverso una vasta gamma di condotte: comportamenti
francamente aggressivi; un atteggiamento da bambino “troppo adulto” che
può trarre in inganno, dando l’impressione di dolcezza e maturità quando
invece nasconde una grande sofferenza inespressa; abulia, inerzia, testa tra
le nuvole e trasmissione della sensazione di trovarsi da un’altra parte con i
pensieri; dubbi continui anche sulle cose più semplici e quotidiane; dubbi
sulle proprie capacità; incubi frequenti; calo a volte improvviso e
apparentemente immotivato del rendimento scolastico (il che può porre il
problema della diagnosi differenziale con un Disturbo specifico
dell’apprendimento); timidezza, coartazione e ritiro sociale (il che può
porre il problema della diagnosi differenziale con i Disturbi d’ansia e, in
particolare, con la Fobia sociale); sfiducia nelle proprie capacità: non posso,
non ce la faccio, non lo so, sono stanco, non sono all’altezza;
iperdipendenza da una o più figure adulte.
Nel modello cognitivo-comportamentale della depressione infantile tutti
questi sintomi possono essere raggruppati in quattro grandi categorie (Beck
et al., 1987; Beck, 1993; Di Pietro, 1995, 1999).
Nella prima categoria troviamo i sintomi emozionali: l’umore disforico,
collerico o irritabile; l’anedonia; la tendenza al pianto; la perdita di allegria;
il non sentirsi amati; l’autocommiserazione.
Nella seconda categoria troviamo i sintomi cognitivi: una negativa
valutazione di sé; il senso di colpa; le difficoltà di concentrazione e di
decisione; l’ideazione morbosa (per es., sempre orientata verso pensieri e
preoccupazioni di morte).

Nella terza categoria troviamo i sintomi motivazionali: la chiusura sociale;


il peggioramento delle prestazioni scolastiche; l’ideazione e i
comportamenti suicidali.
Nella quarta categoria troviamo i sintomi fisici e neurovegetativi: il
facile affaticamento; il cambiamento dell’appetito e poi del peso; dolori e
malesseri; disturbi del sonno; il rallentamento o l’agitazione psicomotoria.
In Silvia abbiamo rilevato numerose fra queste caratteristiche
dell’Episodio depressivo: la bambina parla con un tono lamentoso difficile
da descrivere, ma molto evidente appena la si ascolta; è sempre triste e a
volte irascibile; viene descritta dai genitori come chiusa e scontenta di sé; il
suo rendimento scolastico appare al di sotto delle sue possibilità e Silvia
tende a darsi la colpa per questo; piange spesso, anche senza averne,
almeno in apparenza, particolari motivi e spesso si lamenta di stare male; è
isolata dal gruppo, soprattutto dopo il trasferimento della sua unica amica, e
si stacca dalla mamma con difficoltà; mangia poco e cresce poco; fa tutto
con lentezza e senza motivazione; sembra profondamente triste e come
rassegnata. Si possono avere dei dubbi sul fatto che questi sintomi
descrivano un Episodio depressivo completo e possano, pertanto, portare a
una diagnosi certa di Disturbo depressivo, ma non sul fatto che la bambina
presenti un disturbo dell’umore. Questi dubbi sono, in effetti,
particolarmente frequenti in età evolutiva, dove il quadro di un Disturbo
depressivo maggiore tende a non essere molto chiaro. Quando si ritiene che
i sintomi non siano sufficientemente numerosi e sufficientemente gravi per
una diagnosi completa di Disturbo depressivo, si può ricorrere alla diagnosi
di Disturbo depressivo persistente (o Distimia secondo l’ICD-10), come
vedremo nel prossimo capitolo. Qui, tuttavia, mi sembra che la depressione
sia evidente e i sintomi piuttosto chiari.
Nel Disturbo depressivo possono anche porsi, a volte, problemi di
diagnosi differenziale, prima di tutto con condizioni mediche responsabili di
un abbassamento del tono dell’umore (per es., sclerosi multipla, ictus,
ipotiroidismo). Una seconda difficoltà di diagnosi differenziale si può avere
con gli Episodi maniacali con umore irritabile oppure con gli episodi misti.
Inoltre è importante distinguere il Disturbo depressivo dal Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività8 e dagli altri disturbi del comportamento,9
dove l’umore è per lo più adeguato. Se l’umore depresso si presenta
soltanto nel contesto di un’astinenza da cocaina dovrebbe essere
diagnosticato come Disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci (in
questo caso cocaina). Infine, possono esserci problemi di diagnosi
differenziale con i Disturbi d’ansia.10 Nei Disturbi d’ansia, però, la
componente ansiosa prevale su quella depressiva e si possono più
facilmente evidenziare comportamenti specifici di evitamento. Un caso
tipico è quello del Disturbo d’ansia sociale,11 caratterizzata più dal bisogno
di tenersi lontani da situazioni interpersonali che creano disagio che non dal
disinteresse per gli altri, tipico invece dei Disturbi depressivi. Di fronte a un
abbassamento del tono dell’umore non particolarmente grave e
probabilmente dovuto a fattori scatenanti facili da individuare, può essere
più adeguata una diagnosi di Disturbo dell’adattamento12 con umore
depresso o addirittura di condizioni non patologiche come l’elaborazione di
un lutto o periodi di tristezza.13
Sono disponibili diversi strumenti psicodiagnostici in traduzione italiana
come il CDI (Children’s Depression Inventory)14 (Kovacks, 1988), il TAD
(Test dell’Ansia e della Depressione)15 (Newcomer, Baranbaum e Bryant,
1995), il BDI-II (Beck Depression Inventory-II) (Beck, Steer e Brown,
2006) e l’SDQ (Strenghts and Difficulties Questionnaire) (Goodman, 1997)
– scaricabili in versione italiana dal sito http://www.sdqinfo.com – che
possono aiutare per l’inquadramento diagnostico. Di più recente edizione
troviamo la batteria SAFA (Scale psichiatriche di Autosomministrazione
per Fanciulli e Adolescenti) (Cianchetti e Sannio Fencello, 2001) che
contiene sia la scala per la valutazione della depressione SAFA-D sia quella
che indaga la sintomatologia ansiosa che spesso è in comorbilità SAFA-A;
il Questionario per la valutazione della psicopatologia in adolescenza (Q-
PAD) (Sica, Chiri, Favilli e Marchetti, 2011) da somministrare a soggetti di
età compresa tra i 14 e i 19 anni. Infine ci sembra interessante citare la BPI
(Berkeley Puppet Interview) (Ablow e Measelle, 1995), una intervista
semistrutturata che utilizza due pupazzi a forma di cane per aiutare il
bambino a esprimere meglio il proprio vissuto: le scale che misura sono le
abilità scolastiche, quelle sociali e i sintomi (depressione-ansia,
aggressività-ostilità).

RICERCHE
In questi ultimi anni è stato più volte messo in luce il fatto che la
depressione infantile sia stata in passato sottodiagnosticata, mentre sembra
oggi che il fenomeno sia piuttosto diffuso (Kovacs, Gatsonic, Pollok e
Parrone, 1994; Marcelli, 1999; Cuijpers, van Straten, Smits e Smit, 2006;
Rocha, Zeni, Caetano e Kieling, 2013). Questo, probabilmente, dipende da
una serie di difficoltà nel porre diagnosi di depressione in età evolutiva e
nei bambini in particolare (Lima, 2004). La prima difficoltà è dovuta al
fatto che i sintomi della depressione nel bambino sono multiformi: come
abbiamo visto, e solo per fare alcuni esempi, essi spaziano dalle lamentele
somatiche, all’irritabilità, al ritiro sociale. Questi sintomi, che non si
riferiscono precisamente all’umore depresso, ma che possono indirizzare
verso una diagnosi in questo senso, vengono a volte chiamati anche
“equivalenti depressivi”, ma poi, nella pratica clinica, non è facile
distinguere una depressione da un sintomo che potrebbe invece suggerire un
disturbo del comportamento o un Disturbo d’ansia (Kazdin, 1990). Si tratta
di una difficoltà strettamente legata, come abbiamo visto, al problema della
diagnosi differenziale, in questi casi resa particolarmente complessa se si
considera che la descrizione standard del Disturbo depressivo è stata
delineata pensando agli adulti. Così, quando dobbiamo applicare questi
schemi diagnostici ai bambini, aumenta il rischio di errore. D’altra parte, la
ricerca ha mostrato una sostanziale continuità tra la depressione infantile e
quella in età adulta (Kashani, Holcomb e Orvaschel, 1986; Ryan et al.,
1987; Kashani, Allan, Beck, Bledose e Reid, 1997; Kolaitis, 2012). Studi su
campioni non clinici suggeriscono inoltre che i bambini e gli adolescenti
utilizzano stili cognitivi associati all’ansia e alla depressione simili a quelli
riscontrati negli adulti (Garber, Weiss e Shanley, 1993; Chorpita, Albano,
Heimberg e Barlow 1996; Hadwin, Frost, French e Richards, 1997). Ciò
rende particolarmente importante il tentativo, anche se talvolta difficile, di
una diagnosi precoce, sia a fini prognostici sia, soprattutto, a fini preventivi.
Si consideri, tra l’altro, che sembra ormai dimostrato un abbassamento, in
questi ultimi anni, dell’età di insorgenza del Disturbo depressivo.
La prevalenza del Disturbo depressivo maggiore in psicopatologia dello
sviluppo, pur con tutte le cautele che ho appena evidenziato sembra
aggirarsi in Italia intorno al 3% (Dacomo e Pizzo, 2012). Tuttavia, questi
dati sono particolarmente incerti, perché non è sempre chiaro, dalle
ricerche, se si riferiscano a un Disturbo depressivo completo o alla
presenza, nel bambino e nel preadolescente, di tratti depressivi, magari in
comorbilità con altri problemi come Disturbi dell’adattamento, del
comportamento o dell’apprendimento; o anche solo a difficoltà scolastiche
o familiari (Birmaher et al., 1996; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998;
Lewinsohn e Clarke, 1999), come si vedrà meglio più avanti e nei prossimi
tre capitoli.
La prevalenza sale poi in modo significativo se il bambino, o ancor più
l’adolescente, vive in comunità (5%), oppure è ospedalizzato (dal 20 fino
anche al 40%, a seconda dei motivi del ricovero: le percentuali più alte si
trovano nei problemi fisici cronici). Se tutti questi dati possono apparire
troppo alti o troppo pessimistici, si consideri che circa il 15-18% della
popolazione generale ha avuto almeno un episodio di depressione nel corso
della vita (Stark, 1995; Campo e Bridge, 2009).
Sembra ormai accertato che non è vero che la depressione sia più
frequente nei maschi che nelle femmine. In realtà, si osserva una maggior
frequenza nei maschi fino a circa i dodici anni, mentre dopo questa età si
registra un’inversione a favore delle femmine, con il picco più alto per le
ragazze nella media adolescenza. Axelson e Birmaher (2001) riportano un
rapporto maschi/femmine 1:1 in età infantile e 1:2 durante l’adolescenza; le
femmine non solo presentano sintomi depressivi in misura maggiore, ma
manifestano livelli di soddisfazione minori rispetto alle proprie
caratteristiche fisiche e livelli di autostima significativamente inferiori
rispetto ai coetanei maschi (Lewinsonhn e Essau, 2002). Forse questo può
essere spiegato con il fatto che nella nostra organizzazione sociale e
culturale il maschio adolescente tende ad affrontare lo stress attraverso
meccanismi di esternalizzazione delle emozioni, come riunirsi in gruppo e
basare la vita su azioni concrete. Le ragazze, invece, sembrano più portate a
ripiegarsi su sé stesse, a internalizzare, a sviluppare una relazione amicale
magari molto intensa, ma con una sola compagna, per poi trascorrere molto
tempo a chiacchierare con lei e analizzare le proprie emozioni
(McGuinness, Dyer e Wade, 2012). Alcuni autori hanno osservato
l’esistenza di una connessione temporale tra insorgenza dei sintomi della
depressione e comparsa del menarca (Patton et al., 1996) e, anche, altro
elemento rilevante sembra essere lo sviluppo cerebrale che inizia
mediamente prima nelle femmine (Lenroot e Giedd, 2006). In generale
sembra che le adolescenti femmine siano più frequentemente esposte a
esperienze stressanti rispetto ai maschi della stessa età (Hankin,
Mermelstein e Roesch, 2007).
La comorbilità è molto frequente con i disturbi del comportamento, in
particolare il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, e con il Disturbo
specifico dell’apprendimento: nel 34% dei bambini segnalati dalla scuola
per questi problemi si è riscontrato un Disturbo depressivo associato. Può
essere interessante notare, a questo proposito, che l’ICD-10 ha una
categoria studiata proprio per questi casi: si tratta del Disturbo della
condotta depressivo, che è tipico dell’età evolutiva ed è caratterizzato dalla
presenza di un Disturbo della condotta con una persistente e marcata
depressione dell’umore, evidenziata da eccessiva tristezza, perdita di
interesse e piacere per le attività, sentimenti di autoaccusa e disperazione e,
talvolta, disturbi del sonno e dell’appetito. Si può avere comorbilità anche
con la Disabilità intellettiva e, in genere, con le forme di handicap psichico
nelle quali esista la consapevolezza del problema. Tuttavia, l’aspetto più
importante e più studiato è quello della comorbilità tra Disturbo depressivo
e Disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo d’ansia di separazione e il
Disturbo d’ansia sociale, che sembra oscillare tra il 40 e il 70% (Cazzullo,
Lenti, Musetti e Musetti, 1998).
Il problema dell’eziologia è, come abbiamo già visto per molti altri
disturbi, aperto e controverso. È probabile che non esista una causa della
depressione, ma piuttosto siano presenti molte concause, molti fattori
favorenti o scatenanti. La ricerca ha isolato alcuni di questi fattori, che
possiamo dividere in quattro categorie (McGuffin e Katz, 1989; Radke-
Yarrow, Nottelman, Martinez e Fox, 1992; Pataki e Carsoln, 1995; Stark,
1995; Zobel, Yassouridis, Frieboes e Holsboer, 1999; Elliot e Place, 2001;
Verduyn, Roger e Wood, 2009).
Nella prima categoria troviamo i fattori biologici, in particolare quelli
biochimici come la diminuzione delle catecolamine (dopamina-
noradrenalina), la diminuzione della serotonina, disfunzioni endocrine (test
di soppressione al desametasone – DST), anomala risposta dell’ormone
della crescita – GH: tutti argomenti che esulano dagli scopi di questo
lavoro.
La ricerca sui fattori biologici, tuttavia, non ha fatto altro che aumentare
le prove a favore dell’importanza della seconda categoria di fattori causali,
che possiamo qui, un po’ genericamente, riassumere con il termine di
familiarità: disturbi psicopatologici nei genitori rappresentano un
importante fattore di rischio e la depressione, soprattutto della madre, è uno
dei dati più frequentemente riscontrati nel Disturbo depressivo del bambino.
Il 61% dei figli di genitori con Disturbo depressivo maggiore svilupperà un
disturbo psichiatrico durante l’infanzia o l’adolescenza e questi bambini
hanno un rischio quattro volte maggiore, rispetto ai propri coetanei senza
genitori affetti, di sviluppare un Disturbo dell’umore (Beardslee, Versage e
Gladstone, 1998). I figli di madri depresse presentano una maggiore
frequenza di pensieri e comportamenti suicidari rispetto ai loro coetanei
(Klimes-Dougan et al., 1999).
Accanto a questo, si può trovare anche con notevole frequenza una
madre con importanti Disturbi d’ansia e, in conseguenza, con atteggiamenti
iperprotettivi nei confronti del figlio. Lo abbiamo visto bene nel nostro
caso: la mamma di Silvia è depressa e tende inoltre a stare addosso alla
bambina con modalità che appaiono a volte francamente soffocanti. Se
questo è chiaro da un punto di vista clinico, dal punto di vista della ricerca
apre invece importanti problemi teorici, perché può diventare difficile
distinguere in che misura l’eziologia sia a carico del disturbo della madre, e
quindi possa essere etichettata tra i fattori di familiarità a origine biologica,
e in che misura sia, invece, connessa con lo stile educativo del genitore, e
debba dunque essere inquadrata tra le cause ambientali. Tuttavia, studi
controllati sui gemelli, anche allevati separatamente, hanno evidenziato una
significativa influenza della familiarità, con percentuali oscillanti tra il 10%
e il 50% (Stark, 1995).
La terza categoria di fattori causali è particolarmente importante per lo
psicologo, anche da un punto di vista pratico e terapeutico, come vedremo
nel paragrafo successivo. Si tratta di quella grande categoria di cause che
fanno riferimento alla storia personale del bambino. Prima di tutto, dunque,
alla sua educazione. Ciò non significa, naturalmente, sostenere che
un’educazione “sbagliata” possa produrre un disturbo depressivo, dal
momento che le cause di questo disturbo sono molte, complesse e in
interazione tra di loro. Significa che può contribuire alla sua insorgenza o
rendere più difficile il suo superamento. Possiamo trovare qui modelli
educativi troppo rigidi, con genitori oppressivi, estremamente severi e
soprattutto poco empatici, che pretendono un rispetto assoluto di alcuni
doveri e hanno difficoltà ad accettare le manchevolezze del figlio e a
sottolineare i suoi piccoli progressi. Altri elementi ad alto rischio della
storia personale del bambino sono, in primo luogo, il lutto, che non deve
essere inteso necessariamente come la morte di una persona vicina, ma che
può riguardare anche la perdita di un animale domestico particolarmente
caro al bambino, o addirittura, come abbiamo visto per la compagna di
Silvia, la separazione da un amico importante, che può arrivare a
rappresentare, da un punto di vista emotivo, un equivalente della morte.
Separazione e perdita sono i due grandi temi emozionali che stanno dietro a
molti Disturbi depressivi. Naturalmente si colloca al primo posto la perdita
di un genitore, ma risultano fattori molto importanti anche un genitore
ammalato, oppure lontano (per ragioni di lavoro, per una separazione o un
divorzio, o anche per una indisponibilità affettiva nei confronti del figlio).
A volte il contesto familiare è sfavorevole perché un genitore è
emotivamente distante dal bambino, e questo può avvenire per cause che
coinvolgono il genitore stesso, come un suo Disturbo depressivo, o una
grave preoccupazione, o un lutto in famiglia. In alcuni di questi casi
possono diventare drammatiche le interazioni tra più fattori. La morte di un
fratello, per esempio, può causare direttamente sul bambino un grave
abbassamento del tono dell’umore, ma è molto probabile che produca anche
nei genitori effetti analoghi: in questo modo, sul bambino ricadranno anche
i danni indiretti dovuti al fatto di avere due genitori che non hanno più, nei
suoi confronti, la serenità e la disponibilità affettiva di prima. Ci sono poi
gli effetti di violenze e abuso sul bambino (Lindert et al., 2014) e quelli di
malattie croniche (Agresta, 2001), soprattutto quando accompagnate da
ricoveri o assenze scolastiche prolungate, perdita delle relazioni amicali e
paura della morte. I primi studi sistematici sui rapporti tra depressione nel
bambino e condizioni sfavorevoli, soprattutto connesse alla separazione,
risalgono agli studi classici di Spitz (1946) e proseguono con i lavori
fondamentali di Bowlby, che hanno poi dato origine alle ricerche
sull’attaccamento.16 È vero che le relazioni tra modelli di attaccamento e
psicopatologia del bambino sono state forse più studiate nei Disturbi
d’ansia, come abbiamo visto nel capitolo 14. È vero anche che non sembra
esistere, attualmente, un’ipotesi di relazione univoca tra un particolare
modello di attaccamento patologico e la depressione nel bambino. Tuttavia,
possiamo dire che l’incapacità delle figure di attaccamento di porsi in
sintonia con gli stati emotivi del bambino è un elemento che si trova di
frequente nella ricerca come precursore di Disturbi depressivi (Morley e
Moran, 2011). Le condizioni di attaccamento più a rischio per lo sviluppo di
Disturbi depressivi sono quelle del modello insicuro o
disorientato/disorganizzato. Ricerche svolte sia con adulti (Mikulincer e
Shaver, 2007) che con bambini (Muris, Meesters, van-Melik e Zwambag,
2001) mostrano una relazione tra la presenza di sintomi depressivi e
l’attaccamento insicuro di entrambi i tipi, sia ansioso-resistente sia evitante.
Inoltre, la ricerca ha evidenziato una corrispondenza, con tassi intorno al
70-80%, tra equilibrio emotivo, affettivo e di attaccamento nei genitori ed
equilibrato sviluppo del bambino; mentre, al contrario, bambini
emotivamente e affettivamente in difficoltà tendono ad avere figure di
attaccamento distaccate, abbandonanti, oppure eccessivamente preoccupate
e invischianti (Stark, 1995; Cazzullo, Lenti, Musetti e Musetti, 1998).
Infine, sembra che un eccessivo carico scolastico rappresenti un importante
fattore di aggravamento di problemi legati all’umore del bambino,
soprattutto in presenza di un Funzionamento intellettivo borderline. Credo
che quest’ultimo elemento sia particolarmente importante per lo psicologo
clinico. Abbiamo già visto, nel capitolo 4, come il Funzionamento
intellettivo borderline rappresenti una condizione della quale lo psicologo
dell’età evolutiva si trova molto spesso a doversi occupare. Abbiamo anche
visto come i bisogni di questi bambini tendano a venire trascurati a causa
del fatto che i loro problemi possono non apparire subito evidenti o possono
essere sottovalutati. Se questo è vero per quei bambini che presentano
“solo” una difficoltà cognitiva, è vero a maggior ragione quando alla
difficoltà cognitiva se ne aggiunge una emozionale. Credo che molto
dipenda dall’inquadramento precoce e corretto. Infatti, dato che un bambino
con Funzionamento Intellettivo borderline non ha un disturbo mentale
propriamente detto, né può essere certificato per un sostegno scolastico,
rischia di passare per un bambino come gli altri, senza particolari bisogni e
senza particolari diritti. Può allora succedere che a scuola gli vengano
richieste prestazione in tutto e per tutto uguali a quelle dei compagni, che
lui non sia in grado di fornire queste prestazioni, ma che sia
sufficientemente intelligente e sensibile da rendersi conto di queste
difficoltà e di questa sua diversità non riconosciuta. Non bisogna poi
meravigliarsi se si crea un rischio di depressione. Un analogo discorso vale
per il Disturbo specifico dell’apprendimento, e spiega in parte la
comorbilità riscontrata tra queste categorie diagnostiche. Penso a quante
volte mi è capitato di sentire il racconto angosciato di una madre relativo a
un episodio per lei imprevisto, sorprendente e doloroso e che rappresentava
invece, per me, un triste déjà vu. A un certo punto, di solito di sera, spesso
di fronte a un quaderno con un compito particolarmente difficile, il bambino
comincia a piangere silenziosamente. La mamma chiede al figlio che cosa
stia succedendo. Il bambino risponde con una domanda, o con molte
domande tutte molto simili:
“Perché non mi riesce di leggere come fanno i miei compagni?”.
“Perché sono così più lento di loro?”.
“Perché non imparo?”.
“Perché sono tanto diverso?”.
Credo che, piuttosto che tante dotte e sterili discussioni diagnostiche sui
disturbi prevalenti, piuttosto che tante guerre, alle quali pure ho assistito, di
specialisti che passavano il loro tempo a negare la presenza di un Disturbo
specifico dell’apprendimento o a ignorare una Disabilità intellettiva per
concentrare tutte le loro attenzioni sui conflitti e sugli investimenti libidici
(e viceversa), sarebbe meglio ricordarsi dei rischi ai quali questi bambini
vanno incontro, non trascurare programmi che possano favorire il loro
inserimento scolastico o migliorare le loro prestazioni didattiche e, nello
stesso tempo, porre tanta attenzione alle emozioni e alle sofferenze che
possono manifestare.
Nella quarta e ultima categoria di fattori che possono favorire un
Disturbo depressivo troviamo i fattori psicologici, in particolare di tipo
cognitivo ed emozionale. Difficile trattarli in un capoverso di un paragrafo,
quando meriterebbero un intero trattato. Ancora più difficile distinguerli del
tutto dalla storia personale del bambino, che può essere fatta sì di eventi
esterni come un lutto o un abbandono, ma che dipende poi, profondamente,
da come questi eventi si modulano e risuonano all’interno di ciascun essere
umano. Tra questi fattori, comunque, si può contemplare, prima di tutto,
una reattività eccessiva, troppo intensa, troppo emotivamente caricata nei
confronti degli stressor ambientali. L’eccessiva reattività può determinare,
anche di fronte a problemi “oggettivamente” non molto gravi, un’angoscia
di abbandono, la sensazione di non essere più amato, un senso di colpa,
l’idea di non valere più nulla. Abbiamo visto un esempio di questo
fenomeno analizzando i sentimenti di Silvia e anche le ricadute
comportamentali di questi sentimenti quando l’amica Sabrina si è trasferita
a Modena. Un evento esterno, di solito considerato non particolarmente
drammatico (il cambio di città di un’amica), è stato rielaborato
cognitivamente e affettivamente: un’eccessiva reattività emozionale lo
trasforma in un lutto, una separazione definitiva, la prova che d’ora in
avanti nessuno potrà più essere mio amico perché io non valgo niente e non
merito di essere amato. Il modello cognitivo-comportamentale ha studiato
questi fenomeni di interazione tra eventi esterni e percezioni interne
dell’evento e le sue ricadute sui Disturbi depressivi. Lo studio è avvenuto
prima sugli adulti e ha portato alla formazione dei due grandi concetti di
“distorsione cognitiva negativa dell’interpretazione degli eventi” e di
“senso di impotenza appresa” (Seligman, 1975; Kendall, Stark e Adam,
1990). Poi si è dedicato ai bambini, evidenziando che nei soggetti a rischio
di disturbi depressivi si verifica, di frequente, una diminuzione di
rinforzamenti positivi provenienti dall’ambiente. Sembra che questo, da un
punto di vista cognitivo, sia il risultato di un’incapacità di produrre
esperienze piacevoli e di prevenire esperienze avversive. Tale risultato, a
sua volta, è responsabile di un aumento di comportamenti di fuga e di
evitamento di fronte sia a situazioni problematiche, sia a situazioni
potenzialmente positive: è inutile che inviti un mio amico a casa, tanto non
verrà e, se venisse, sicuramente non ci divertiremmo. Naturalmente, le
componenti cognitive ed emozionali che sto qui brevemente descrivendo
una dopo l’altra sono invece, nella realtà clinica, strettamente interconnesse.
Per esempio, l’incapacità di produrre esperienze piacevoli e i
comportamenti di fuga possono essere, a un tempo, causa ed effetto di
deterioramento della qualità delle relazioni interpersonali e di sentimenti di
svalutazione (non valgo niente, è chiaro che il mio amico non verrà:
nessuno si diverte con me). Svalutazione di sé e tendenza all’isolamento
sono caratteristiche ricorrenti nei bambini depressi. A queste si aggiungono,
e non di rado con queste interagiscono, la mancanza di strategie efficaci per
affrontare situazioni spiacevoli e una visione irrimediabilmente negativa del
futuro: sicuramente grigio e sicuramente immodificabile.
L’immodificabilità del futuro e, in genere, delle circostanze sfavorevoli
riconducono anche al concetto di stile di attribuzione (vedi riquadro
sottostante), già visto a proposito di tante altre patologie: questi bambini
tendono ad attribuire a cause che non possono essere cambiate i motivi dei
loro insuccessi e delle loro frustrazioni (sono sfortunato, sono antipatico, è
tutta colpa mia, non c’è niente da fare).
Tutto questo, evidentemente, è connesso anche all’autostima , che
può essere qui brevemente definita come il concetto che ciascuno di noi ha
di sé stesso, in relazione ai suoi successi, ai suoi insuccessi e anche alle sue
aspettative. Se, per esempio, un bambino desidera farsi un numero di amici
sufficiente per poter organizzare una partita di calcetto e riesce
effettivamente a diventare amico di sei o sette coetanei con i quali spesso, il
sabato, si ritrova per fare una partitella e divertirsi (qualche volta vincendo
e qualche volta perdendo), la sua autostima interpersonale sarà buona.
Questo esempio, pur nella sua banalità, illustra molti aspetti importanti
dell’autostima. Prima di tutto, che si tratta di un costrutto complesso, non
monolitico, ma formato da diverse componenti. Il bambino del nostro
esempio avrà probabilmente un’adeguata autostima interpersonale, ma
potrebbe averne una scolastica pessima. In secondo luogo, l’autostima
dipende dai risultati che riusciamo a ottenere. Se il nostro bambino non
riuscisse mai a convincere neppure un compagno ad andare a giocare con
lui, avrebbe quasi certamente una peggiore immagine di sé. Infine – e
questa è forse la cosa più importante – l’autostima dipende anche dalle
nostre aspettative. Noi potremmo vedere un bambino che, pur avendo solo
un paio di amici, ha un’adeguatissima autostima interpersonale e un altro
che ne ha sempre sette o otto a disposizione per le sue partite di calcetto, ma
che è quasi sempre scontento di sé. Come mai? Perché l’obiettivo del primo
bambino è quello di passare il sabato pomeriggio a giocare con il computer,
e due amici sono più che sufficienti. L’obiettivo del secondo, invece, non è
giocare a calcetto, ma vincere, entrare in una squadra di calcio vera, fare un
campionato, diventare un professionista. È chiaro che il tasso di
soddisfazione che riusciamo a provare per noi stessi dipende da quello che
ci chiediamo, dai nostri desideri, dalle nostre speranze. Un’insoddisfazione
continua, estesa a molte aree (interpersonale, scolastica, lavorativa,
sportiva, familiare…) e dovuta all’incapacità di raggiungere gli obiettivi
prefissati, può condurre a un Disturbo depressivo. Diversi studi mettono in
relazione una bassa autostima con una maggiore vulnerabilità di insorgenza
di disturbi depressivi e proprio per questo motivo diventa importante
promuovere una autostima positiva, soprattutto durante l’età critica
dell’adolescenza, come forma di prevenzione rispetto allo sviluppo della
depressione in età adulta (Rawana e Morgan, 2014; Steiger, Allemand,
Robins e Fend, 2014). Meno chiaro, o per lo meno lasciato ancora in dubbio
dalla ricerca, è il rapporto tra autostima e autoefficacia. L’autoefficacia può
essere definita come la percezione che abbiamo delle nostre capacità. Nel
campo specifico della depressione infantile, si è visto che l’autoefficacia
svolge un ruolo importantissimo dal punto di vista sia causale sia
terapeutico (Steca et al., 2014). I bambini che non credono di essere capaci
di fronteggiare le situazioni difficili hanno maggiori probabilità di
sviluppare un Disturbo depressivo. D’altra parte, imparare a fronteggiare
situazioni difficili, ma soprattutto modificare in questo modo la percezione
della propria abilità, migliora significativamente il tono dell’umore. Tra le
ormai infinite ricerche fiorite in questo campo, citerò quei lavori che
sembrano chiudere il cerchio dei quattro fattori predisponenti la
depressione. Abbiamo cominciato parlando dei fattori biologici, come se
questi fossero indipendenti dagli altri e immodificabili. Non è così. È stato
visto che un aumento di autoefficacia per la gestione delle situazioni
stressanti influisce positivamente sul funzionamento di alcuni
neurotrasmettitori: la sensazione di essere in grado di padroneggiare le
abilità necessarie per fronteggiare situazioni minacciose normalizza il loro
funzionamento. Questi studi hanno una rilevanza clinica enorme: non
soltanto per le indicazioni psicoterapeutiche che forniscono, ma anche
perché è stato dimostrato che la modificazione dei pensieri distorti connessi
all’autoefficacia diminuisce il rischio di ricadute future, che si hanno invece
dopo la sospensione dei farmaci quando la terapia si limita all’intervento
farmacologico (DeRubeis et al., 1990; Bandura, 2000).

pag. 56

STILE DI ATTRIBUZIONE
Un bambino ha fatto una buona interrogazione di scienze e ha preso
un buon voto. Alla fine dell’interrogazione si domanda: di chi è il
merito di quello che è successo?
Esempio ancora più significativo: un altro bambino, che oltretutto ha
un Disturbo specifico dell’apprendimento, ha fatto un cattivo compito
di aritmetica, ha ricevuto un giudizio negativo e pensa, magari non in
modo così esplicito, ma confusamente dentro di sé: di chi è la colpa di
questa ennesima figuraccia?
Le risposte che questi due bambini danno a queste domande
rappresentano i loro stili di attribuzione.
Forse il primo bambino pensa: parte del merito è stata mia; ieri mi
sono impegnato, ho studiato, ho preparato uno schema degli
argomenti principali e così ho fatto una buona interrogazione.
Forse, invece, il secondo bambino pensa: la colpa della figuraccia è
mia, che non sono portato per la matematica.
Lo stile di attribuzione è un costrutto metacognitivo (con importanti
sconfinamenti anche negli aspetti emozionali) che può essere definito
come il modo attraverso il quale noi attribuiamo il merito o la colpa
delle cose che ci accadono. Tornando all’esempio dei due bambini, il
primo potrebbe anche interpretare la causa della sua buona
interrogazione in modi diversi. Per esempio: sono stato fortunato.
Oppure: sono simpatico alla maestra. O ancora: l’argomento era
molto facile. Il secondo bambino, invece, potrebbe pensare: ieri ho
studiato poco.
Questi esempi mostrano che ci sono molti stili di attribuzione. Gli stili
di attribuzione possono essere divisi in interni (per es.: è colpa mia)
ed esterni (per es.: il compito era molto difficile). Oppure possono
essere divisi in stabili (per es.: sono nato sfortunato) e instabili (per
es.: non era la mia giornata). Ma la classificazione più importante,
perché più utile ai fini dell’intervento, è tra attribuzioni che possono
essere modificate dal soggetto e attribuzioni che sfuggono al suo
controllo. Sono attribuzioni modificabili: ieri mi sono impegnato, ho
studiato, ho preparato uno schema degli argomenti principali e così
ho fatto una buona interrogazione; oppure: ieri ho studiato poco.
Sono attribuzioni immodificabili: sono simpatico alla maestra;
l’argomento era molto facile; oppure: non sono portato per la
matematica.
Gli stili di attribuzione modificabili sono molto più adatti a portare un
bambino a impegnarsi di più nello studio o ad affrontare in modo
proficuo un percorso di cambiamento psicoterapeutico. Nel capitolo
7, per esempio, Andrea dovrebbe togliersi dalla testa si essere nato
cattivo lettore e sostituire a questa attribuzione quella molto più
costruttiva secondo la quale l’allenamento può migliorare le sue
prestazioni. Un meccanismo molto simile si può vedere nel capitolo
8, dove gran parte delle possibilità di recupero di Simona passano per
i suoi stili di attribuzione: solo quando la bambina penserà che i
successi e gli insuccessi dipendono anche da lei e dall’impegno che
metterà nel fare le cose, proverà a modificarsi. Nel capitolo 11 le
tecniche di rinforzamento, autorinforzamento e autocontrollo servono
anche a modificare gli stili di attribuzione di Lorenzo che si rende
conto che, se vuole, può imparare a controllarsi di più. Anche nella
sezione dedicata ai Disturbi dell’umore è possibile vedere il ruolo
giocato dallo stile di attribuzione: Silvia, nel presente capitolo, dovrà
cercare di modificare la sua idea di essere sfortunata e antipatica a
tutti indipendentemente da quello che fa. La maestra di Edo, nel
capitolo 24, si è resa conto che può aiutare il suo allievo mostrandogli
che, se vuole, se si impegna e li cerca, esistono modi per affrontare le
sue difficoltà e la sua tristezza.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


Il lavoro con Silvia è lungo e difficile. È oltre un anno che la seguo e molti
obiettivi devono ancora essere raggiunti. Il primo è stato fare in modo che
venisse alle sedute, se non proprio tutte le volte (confesso subito che
neppure questo primo obiettivo è stato completamente raggiunto!), almeno
con una buona regolarità; e se non proprio con entusiasmo, almeno con una
discreta motivazione.
A questo proposito propongo, a chi ne abbia voglia, un particolare tipo di
lettura del paragrafo, che può essere idealmente diviso in due parti. Nella
prima parte descriverò, senza usare termini particolarmente tecnici, quello
che ho cercato di fare con la bambina. Volendo, si può dunque leggere
questa prima parte provando a individuare le strategie terapeutiche che
sottostanno agli interventi descritti. Nella seconda parte descriverò i metodi
di intervento in un’ottica più teorica. Così, chi ha fatto questo tipo di lettura,
potrà poi trovare la “soluzione” della sua esercitazione e verificare quali
strategie terapeutiche è stato in grado di individuare.
Dunque, prima di tutto, ho cercato di invogliare Silvia a venire da me.
Ho osservato con attenzione quali cose, durante le prime sedute, mi
chiedesse spontaneamente di fare. Le attività più gradite alla bambina erano
solitamente tre: disegnare, fare puzzle (per lo più sempre gli stessi), giocare
con il computer. Le ho proposto io, spesso, queste attività. Poi, quando ho
pensato che sarebbe stata in grado di parlarne, ho ripreso in mano il disegno
di Sabrina che mi aveva fatto durante la prima seduta. Ne ho parlato io per
primo, serenamente, facendole capire con chiarezza che io sapevo e, se lei
aveva voglia di raccontarmi, a me faceva piacere ascoltarla. È venuta fuori
tutta la sua tristezza, che ho cercato di raccogliere e comprendere. Mi
faceva capire che la partenza di Sabrina era definitiva, e che lei non avrebbe
avuto una seconda possibilità. Mi faceva capire che, in fondo, neppure
cercava una seconda possibilità: che le era difficile persino avere il coraggio
di desiderarla. Mi faceva pensare a Pirandello (1993, p. 1157): “[…] quasi
di desideri prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa,
vana e pur dura; quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto
sbocciare”.
È dunque venuta fuori, dal disegno di Sabrina, tutta la sua tristezza. Però
abbiamo potuto parlarne, seppur con difficoltà, con cautela e molto
lentamente, seduta dopo seduta: e così è emerso anche qualcosa di cui la
madre non mi aveva fatto cenno. Si tratta di Lisa, un’altra compagna di
scuola con la quale, forse, a Silvia piacerebbe stringere un nuovo rapporto
di amicizia. Mille difficoltà si frappongono tra questo desiderio (tenue,
finalmente espresso, ma con quanta fatica) e la sua realizzazione. C’è il
senso di colpa per Sabrina, quasi come se si trattasse di un tradimento. C’è
la convinzione (forte, ma non incrollabile) di non piacere a Lisa. C’è la
paura che la mamma avrebbe da ridire se Lisa accettasse un invito a casa
(ma poi tanto non lo accetterà mai, di sicuro). C’è l’idea di essere così
scarsa, da un punto di vista scolastico, che nessuno avrà voglia di fare i
compiti con lei. Ci sono i dubbi forti, insistenti, se questo sia veramente un
suo desiderio o se, tutto sommato, lei non se ne stia più volentieri in casa da
sola, magari un po’ annoiata ma più tranquilla, più sicura.
Non ho ancora ottenuto nessun risultato dal punto di vista della
modificazione di comportamenti esterni e, anzi, credo che sia presto anche
solo per pensare di programmarli. Però parliamo di più. I nostri colloqui
sono fatti di un po’ meno silenzio, meno monosillabi e più interazione. A
volte glielo faccio notare. Le chiedo se anche lei se ne accorge e se le fa
piacere come fa piacere a me. Le dico che mi sembra che ci siano degli
argomenti dei quali parla più volentieri e forse Lisa è uno di questi. Me lo
conferma e allora provo a smontare alcune sue convinzioni. Per esempio:
“È proprio vero che Lisa non verrebbe mai un pomeriggio a casa tua?”.
Oppure, ovviamente con un tono scherzoso fino alla caricatura:
“Sei proprio così brutta, antipatica e puzzolente?”.
Resta spiazzata.
Ne approfitto per rincarare la dose:
“Puzzolente sicuramente sì. Lo sento anche adesso. È un bel po’ che non
ti lavi”.
Naturalmente questa non è né la prima seduta, né la prima volta che
saggio la sua reazione ai miei scherzi. Mi è già capitato più volte di caricare
un suo presunto difetto prendendola in giro per questo in modo così
esagerato e maldestro da provocare una sua reazione, del tipo:
“Non è vero!!! Io non sono puzzolente…”.
“Allora forse Lisa potrebbe anche venire, un pomeriggio…”.

Come abbiamo visto, ci sono però anche altri problemi che rendono
difficile pensare di poter invitare Lisa a fare i compiti. Per esempio, c’è la
mamma, dalla quale Silvia si separa con difficoltà e che sembra non avere
una gran voglia di trovarsi con altre bambine per casa. Poi c’è il problema
della sua autostima scolastica. Qui Silvia è veramente convinta di non
valere niente e, per la verità, anche le maestre non la aiutano molto in
questo. Però possiamo per lo meno parlarne. Dopo un paio di mesi Silvia si
apre molto sui suoi rapporti con la madre, anche se lo fa, naturalmente, a
modo suo, con un tono lamentoso, e con espressioni brevi, implicite, da
vittima che non ha neppure il diritto o il coraggio di parlare in modo chiaro.
La mamma le sta troppo addosso. Le sta addosso nei compiti. Passano su
quei libri e su quei quaderni interi pomeriggi e anche dopo non è mai
contenta. Non c’è un momento di pace (a meno che la mamma non dorma).
Non la mattina, quando le strilla di sbrigarsi, che è tardi e arriveranno in
ritardo a scuola. Non di pomeriggio, quando i compiti non vanno mai bene
e non finiscono mai e non c’è nemmeno il tempo per vedere un cartone
animato. Non la sera, perché bisogna sempre ripassare qualcosa che è
rimasto indietro. E per la mamma ancora non basterebbe e la vorrebbe
mandare a lezione. La mamma le sta addosso anche impedendole di andare
a scuola da sola. Poi ci sono le maestre che le dicono sempre che è lenta,
che deve impegnarsi di più, mettercela tutta e migliorare.
Tutto questo, al di là del rapporto con Lisa, mi dà lo spunto per lavorare
in molte direzioni. Per esempio, su cosa pensa Silvia delle idee della madre.
Abbiamo chiarito che la sua mamma le sta molto addosso, ma non può darsi
che anche lei si stacchi malvolentieri dalla mamma? Abbiamo chiarito che
la mamma non è mai contenta dei compiti, ma Silvia è contenta? La
mamma e le maestre pensano che Silvia sia molto lenta, ma lei non pensa
un po’ la stessa cosa? E poi prova mai a cercare di fare le cose da sola e
magari un po’ più velocemente? Quando Silvia risponde che lei non riesce a
fare i compiti da sola le insinuo il dubbio: è proprio sicura? Ha mai
provato? E, sull’andare a scuola da sola: d’accordo che la mamma non ce la
manda, ma lei ci andrebbe?
Intanto continuiamo a lavorare sull’invito di Lisa a casa. Silvia – è
passato qualche mese – ha un po’ cambiato alcune idee su di sé e sulle sue
possibilità. Cominciamo a pensare che potrebbe anche provare a invitarla.
Meglio per fare i compiti o meglio per giocare? Insieme a Silvia decidiamo
che forse la soluzione migliore sarebbe provare a invitarla per tutte e due le
cose, un giorno in cui non è previsto il rientro pomeridiano. Naturalmente
bisognerà parlarne prima con la mamma. Una possibilità sarebbe che
parlassi io, l’altra che fosse lei a parlarle. Silvia preferirebbe la prima
soluzione. Ci accordiamo che io le preparerò il terreno, anticipando alla
mamma quali sono le nostre idee, ma che poi anche lei si farà coraggio e
farà la sua parte.
Poi facciamo qualche prova. “Che cosa potresti dire a Lisa?”. Ricordo
che Silvia ha una voce flebile, che le dà un’intonazione lamentosa, come di
gattino ferito. Lavoriamo anche su questo:
“Coraggio, prova a dire: io mi chiamo Silvia”.
All’inizio è riluttante. Forse un po’ si vergogna, un po’ pensa di non
essere all’altezza, un po’ le sembra una cosa stupida. La butto in ridere, la
trasformo in un gioco. Ripeto io la frase con molte voci diverse. Cerco di
sdrammatizzare la situazione. Le faccio di nuovo ripetere la frase. La
correggo, naturalmente senza nessuna connotazione punitiva, ma anzi
sottolineando i progressi. Le chiedo di esagerare, facendo la voce grossa
come se fosse un orso, oppure provando a imitarmi. Poi passiamo, con modi
analoghi, a provare frasi di invito per Lisa. Poi cerco di chiarire quello che
mi aspetto da lei. Non certo che Lisa accetti l’invito, e ancora meno che si
divertano come pazze, se Lisa verrà. Io vorrei solo vedere Silvia che ci
prova, sarei molto contento di sapere che ci ha provato e penso che anche
lei potrebbe già essere contenta di questo. Non sembra molto convinta, ma,
se non altro, ha capito il mio punto di vista. Le chiedo anche di fare un
semplicissimo diario di questi suoi eventuali tentativi, ma non ne vuole
sapere. Dice che non ne ha voglia, che sicuramente sarà stanca e piena di
compiti e che scrivere le fa fatica.
Non è la sola difficoltà di questo periodo e di questo programma. A
volte, come già dicevo, salta una seduta. Altre volte arriva talmente stanca,
come svuotata, che è difficile tirarle fuori anche qualche parola. Cerco di
avere pazienza e di rispettare i suoi ritmi. (Riassumo molto questa storia,
per ovvie ragioni di spazio, ma è importante sapere che, nelle realtà, le cose
sono andate in modo molto più lento, tortuoso e difficile.) Però parla con la
mamma (dopo che le avevo parlato io). Invita Lisa a casa, più di una volta,
e anche Lisa invita lei. A volte fanno i compiti insieme (peccato che poi, la
sera, la mamma non sia mai contenta e le faccia rifare molte cose e, una
sera particolarmente drammatica, le strappi tutta la pagina e la faccia
ricominciare da capo). Giocano insieme. Escono a comprare il gelato sul
mare qualche sabato pomeriggio con il papà di Silvia e un sabato sera la
bambina va a dormire dall’amica e passa la domenica con lei (ma tralascio
di raccontare qui la fatica dell’intervento sulla madre per preparare questo
episodio).
Non posso però evitare di accennare almeno genericamente al fatto che
ho lavorato tanto, soprattutto all’inizio, sia col padre sia con la madre.
Insieme abbiamo discusso di alcuni atteggiamenti che potevano essere
particolarmente pericolosi per la bambina: i loro litigi in sua presenza,
prima di tutto; l’eccessiva insistenza sul carico scolastico; l’eccessiva
sottolineatura delle inadeguatezze di Silvia (da parte della madre) e delle
inadeguatezze della madre (da parte del padre); l’importanza di favorire
nella bambina ogni tentativo di distacco e di autonomia, anche nella banale
quotidianità dei compiti (ho provato, con successo parziale, a insegnare, per
esempio, alla madre ad andare a preparare il caffè mentre Silvia provava a
studiare da sola, oppure ad assegnarle qualcosa di facile da fare mentre lei
dormiva e, in sostanza, ad allontanarsi gradualmente da lei); il bisogno della
bambina di stringere qualche nuovo rapporto di amicizia e di fare qualche
esperienza gratificante, per esempio il sabato pomeriggio o la domenica
(benissimo con il padre, meglio ancora, qualche volta, con i due genitori
insieme). Ho detto che ho lavorato con i genitori soprattutto nel primo
periodo della terapia, perché poi sono riuscito ad appoggiarli a una collega
che si è occupata di loro e con la quale interagisco con una certa frequenza.
Un lavoro analogo, anche se, devo confessarlo, non sistematico come
sarebbe necessario, ho cercato di farlo con le maestre. Dopo aver
ovviamente ottenuto l’autorizzazione dei genitori, sono andato a scuola e ho
spiegato, a grandi linee, quali fossero, a mio parere, i principali problemi
della bambina e quali, di conseguenza, le sue necessità: creare occasioni per
farle fare esperienze di successo; favorire lo scambio di relazioni sociali,
anche attraverso esperienze di piccoli gruppi di compagni nei quali ognuno
potesse dare un suo contributo al raggiungimento di obiettivi comuni;
evitare l’eccessiva sottolineatura delle sue inadeguatezze, soprattutto
davanti alla classe e soprattutto per quanto riguarda la sua lentezza,
problema che la bambina sente molto e molto dolorosamente; tenere il più
possibile conto degli effetti pericolosi di un eccessivo abbassamento
dell’autostima e provare a porvi rimedio attraverso richieste equilibrate;
incoraggiare la madre a fidarsi delle possibilità della bambina e a favorire la
sua autonomia.
Sulla fiducia in sé stessa, nelle sue capacità, in particolare scolastiche,
abbiamo lavorato anche nelle sedute con Silvia. Le chiedevo spesso di
portare i quaderni. Li guardavamo e li commentavamo insieme. Non
fingevo che non ci fossero pagine brutte, giornate particolarmente nere e
nelle quali aveva scritto male e poco. In quei casi discutevamo di che cosa
era successo. Di come lei si era sentita. Di come avevano reagito le
insegnanti e di cosa avrebbe potuto fare, in situazioni future simili, per
affrontare meglio il problema di una giornata storta. Naturalmente mi
soffermavo di più sulle giornate migliori. All’inizio, per lei, era difficile
persino riconoscere queste giornate e queste pagine buone. Molte volte le
ho fatto notare che una giornata buona non è una giornata in cui tutto è
andato in modo perfetto, le maestre le hanno dato “superextraottimo” alla
fine di ogni esercizio, gli esercizi erano cento, lei li ha fatti tutti senza
nemmeno un errore e li ha scritti tutti senza nemmeno una sbavatura e li ha
svolti tutti così in fretta che ha finito per prima e così ha guadagnato cento
“superextraottimi” (di nuovo caricavo molto questi esempi, per renderli
ridicoli e farla sorridere). Le giornate buone sono quelle diverse dalle
giornate cattive. Se nelle giornate cattive va tutto storto e un giorno una
cosa va dritta, quella è una giornata buona. Se poi va dritta non per caso, ma
perché Silvia si è impegnata di più e ci ha creduto, allora quella non è una
giornata buona, ma una giornata ottima, perché impegnarsi e crederci è
ancora più importante che riuscire.
Tutto questo – l’ho già detto, ma preferisco ripetermi piuttosto che
rischiare di dar l’impressione che la psicoterapia con una bambina depressa
possa seguire un andamento lineare e segnare miglioramenti progressivi e
costanti – si svolge fra alti e bassi, ripiegamenti su di sé, momenti tristi
elaborati emotivamente nel modo peggiore, comportamenti inadeguati dei
genitori e lunghi silenzi in seduta, momenti di oppositività, sensazione che
tutto il lavoro fatto fino a quel momento sia stato inutile. Quando sono
proprio in crisi per uno di questi momenti, di solito le chiedo del suo
coniglietto bianco. Di questo ha quasi sempre voglia di raccontare. Questo
le illumina quasi sempre, almeno per un attimo, il volto. Serve, anche se
dietro rimane tanta sofferenza, a riaccendere almeno un poco la relazione.
Un altro argomento con il quale lavoro nei momenti di stallo è quello di un
centro sportivo polivalente, dove va anche Lisa, in cui non si fa un’attività
specifica e men che meno a livelli agonistici, ma si può passare dalla
pallavolo alla ginnastica artistica, senza troppe pretese, senza nessuna
aspettativa particolare e in un’atmosfera giocosa e amichevole, favorita
anche dalla presenza di insegnanti-allenatori molto giovani e pieni di
entusiasmo. Cerco, in ogni modo, di tenere alta la motivazione di Silvia a
questa esperienza perché penso che sia importante. Ascolto con particolare
interesse quello che ha da raccontarmi su questo argomento e le dico che mi
dà molta soddisfazione sapere che abbiamo trovato un posto dove va
piuttosto volentieri (è sempre prudente che non esageri, altrimenti replica
subito che non è vero e che quel posto non è affatto bello come io
sostengo).
Infine – poiché non vorrei cadere anch’io nell’atteggiamento depressivo
che sto descrivendo – mi piace parlare ancora una volta di Sabrina. Piano
piano abbiamo scoperto che Sabrina esisteva ancora, era viva, abitava a
Modena e poteva essere chiamata al telefono. Silvia ha imparato che poteva
anche scriverle, che era capace di farlo, che dipendeva da lei. Lo ha fatto.
Sabrina, naturalmente, le ha risposto. L’attesa delle sue lettere e di qualche
sua telefonata è diventata un motivo di piccole gioie. A volte mi ha portato
in seduta alcune di queste lettere di Sabrina. Altre volte, in seduta, abbiamo
scritto noi a lei. In estate si sono riviste e credo vi siano stati momenti molto
belli.

Allora: siete riusciti a svolgere l’esercizio? Avete trovato la soluzione o,


meglio, qualche risposta?
I lavori teorici sulla depressione infantile, allorché trattano la tematica
dell’intervento, parlano innanzi tutto della prevenzione. Intendono, di
solito, con questo termine il fatto che molti fattori di rischio, in particolare
familiare e ambientale, possono essere controllati per evitare o per lo meno
diminuire il rischio di insorgenza di Disturbi depressivi. Questo è
naturalmente molto interessante e utile in progetti, per esempio, di
Educazione Razionale Emotiva a scuola e con i genitori, ma purtroppo non
è stato possibile con Silvia, che aveva già un disturbo importante quando
l’ho vista per la prima volta.
Un secondo aspetto generale che si trova spesso a proposito
dell’intervento sui Disturbi depressivi è l’incoraggiamento dell’attività
fisica: abbiamo visto che questo è stato, invece, un obiettivo del mio lavoro
con Silvia, in un certo senso facilitato dal fatto che anche i genitori erano
consapevoli, fin dal primo colloquio, dell’importanza che la figlia si
dedicasse con costanza a qualche attività pomeridiana. Dico “in un certo
senso”, perché tale consapevolezza da parte dei genitori non si era mai
trasformata in un atteggiamento educativo coerente. In realtà, era successo
molte volte in passato che la bambina avesse iniziato qualche attività per
poi interromperla appena se ne stancava (cioè, per lo più, quasi subito).
Questo era molto negativo, perché dal punto di vista dell’attività fisica non
produceva nessun risultato apprezzabile, dal momento che in realtà la
bambina non si impegnava in nulla, mentre un’attività fisica ha un senso e
serve se è condotta con un minimo di continuità. Soprattutto, però, questo
continuo iniziare e abbandonare ogni esperienza al primo momento di noia
o di stanchezza era dannoso per una bambina che aveva, invece, bisogno di
imparare a fare proprio il contrario. A formulare qualche piccolo obiettivo.
A darsi da fare per cercare di raggiungerlo. A non scoraggiarsi troppo alle
prime difficoltà. A superare almeno un banale ostacolo. A fare esperienza
del fatto che, se ci si impegna in qualcosa con una certa continuità, qualcosa
si può anche ottenere in cambio. A trarre un minimo di soddisfazione e di
piacere da questo impegno. Abbiamo visto come quel centro sportivo
polivalente, frequentato anche dalla compagna di scuola, abbia
rappresentato una discreta occasione per fare almeno qualcuna di queste
esperienze “terapeutiche” per lei. Il centro aveva caratteristiche che lo
rendevano particolarmente adatto: varietà di stimoli, entusiasmo degli
istruttori, richieste prestazionali ragionevoli.
Penso, tuttavia, che questo non sarebbe bastato per ottenere un minimo
di sistematicità da parte di Silvia se io non avessi aggiunto un uso
sistematico del rinforzamento . Nel corso di questo libro, il significato
del rinforzamento è stato più volte sottolineato. Qui possiamo osservare
come il rinforzamento sociale e informativo sia stato usato per aumentare la
motivazione di Silvia a frequentare il centro polisportivo. Prima ancora,
abbiamo impiegato strategie di rinforzamento per aumentare la probabilità
che Silvia venisse da me (in questo specifico caso, è stata usata una tecnica
di rinforzamento dinamico che consiste nell’utilizzare attività che appaiono
gradite a un bambino per rinforzarne altre che si verificano invece più di
rado). Il rinforzatore è servito anche per aumentare l’interazione verbale e
per favorire lo sviluppo di comportamenti adeguati nella relazione con Lisa,
fin dalle prime prove in studio. Su quest’ultimo punto è interessante notare
che, come spesso succede quando un programma terapeutico funziona,
piano piano l’uso del rinforzamento estrinseco diventa inutile, perché il
comportamento appreso e consolidato finisce per rinforzarsi da sé: quando
Silvia è stata invitata a casa dell’amica, ha dormito un sabato sera da lei, si
è divertita, si è sentita grande e capace di staccarsi almeno parzialmente
dalla madre, era così contenta che le gratificazioni esterne dello psicologo
sono diventate del tutto inutili.

pag. 13

pag. 13

Accenno brevemente anche al fatto, già rilevato tante volte nella storia
dei casi di questo libro, che il rinforzamento è stato qui sempre usato in
associazione al modellaggio : certo non ho chiesto a Silvia, durante la
prima seduta, di andare a dormire a casa dell’amica e passare un intero fine
settimana con lei: ci siamo avvicinati all’obiettivo gradualmente.

pag. 6

Questa strategia terapeutica, associata a prescrizioni comportamentali


che il bambino tenta di mettere in atto a casa, tra una seduta e l’altra,
prende anche il nome di “compito graduato”. Il lavoro per portare la
bambina a consolidare il suo rapporto con l’amica ne è un buon esempio.
Prima ho preparato il terreno attraverso metodi cognitivi ed emotivi. Ho
usato una forma di ristrutturazione cognitiva per insinuarle il dubbio
che lei fosse davvero così antipatica. In queste circostanze, come in molte
altre, ho cercato di assumere un atteggiamento scherzoso, che a volte serve
per rinforzare qualche prestazione particolarmente ben riuscita e, più
spesso, per sdrammatizzare qualche situazione altrimenti troppo ansiogena
o pesante. La ristrutturazione cognitiva prepara il terreno alla messa in atto
del compito graduato anche attraverso la messa in discussione
dell’impossibilità di raggiungere l’obiettivo (è proprio vero che tanto Lisa
non verrà?), ma anche per mettere in dubbio l’idea di una catastrofe
irreparabile se le cose si mettessero male (ma se poi anche non venisse,
sarebbe davvero così terribile, così catastrofico, così insopportabile?).

pag. 98

pag. 350

Qui interagiscono, in realtà, molti elementi psicoterapeutici diversi. La


ristrutturazione cognitiva si integra con una forma di Terapia Razionale
Emotiva , durante la quale si tentano di smontare alcune idee irrazionali
e paralizzanti connesse appunto al senso di catastrofe irreparabile nei
confronti di un evento obiettivamente banale (Ellis, 1984, 1993; Di Pietro,
1992, 1999, 2014). L’uso dei metodi della Terapia Razionale Emotiva
sottosta anche ai tentativi di evitare un pensiero dicotomico del tipo “bianco
o nero”, “perfetto o disastroso”. Questa terapia è stata applicata quando
abbiamo pensato a come avrebbe potuto reagire l’amica a un invito, ma
anche durante l’osservazione e il commento in comune dei quaderni di
scuola.

pag. 370

Tuttavia, strategie di questo genere ottengono i risultati migliori quando


sono continuamente e, direi impercettibilmente, associate a tecniche
comportamentali di modellaggio. Per esempio: che cosa devo aspettarmi
quando invito Lisa? Che, la prima volta che la invito, Lisa mi risponda
entusiasticamente di sì, che venga a casa mia, che ci divertiamo un mondo
fino alle otto di sera e che poi la mamma, contravvenendo a ogni regola, la
inviti a cena e ci permetta di continuare a giocare fino a mezzanotte? No!
Che cosa devo aspettarmi da una verifica di matematica? Che il compito sia
corretto come quello della prima della classe, ordinato da sembrare un libro
stampato e premiato dalla maestra con un “superextraottimo” scritto in
rosso e grande come un’intera pagina di quaderno? No! Posso, intanto,
essere contenta di averci provato. Di aver chiesto a Lisa di venire un
pomeriggio a giocare, di aver fatto qualche esercizio di matematica un po’
meglio del solito. Tutto questo, alla lunga, avrà effetti positivi anche
sull’autostima, perché tenderà a ristabilire un più corretto e realistico
equilibrio tra aspettative e risultati ottenuti.
Preparare il terreno al compito graduato di invitare Lisa a casa ha
rappresentato anche un lavoro sullo stile di attribuzione . È proprio vero
che, se Lisa dice di no una volta, non si può fare niente per cambiare la
situazione? È proprio vero che, se la mamma si arrabbia perché
l’esecuzione dei compiti è sempre troppo lenta e non lascia mai un po’ di
tempo per invitare un’amica a casa, la colpa è sempre solo della mamma
troppo esigente, o dei compiti troppo difficili, o di Silvia che è nata lenta e
sempre lenta sarà? Non c’è un altro modo di vedere le cose? Non può darsi
che, dandosi da fare, si possa cercare di svolgere i compiti un po’ più in
fretta? Non può darsi che, anche se Lisa, la prima volta, risponde che non
può venire, magari perché il mercoledì ha un impegno, si possa trovare un
altro modo, un altro giorno, un altro orario per accordarsi e passare un
mezzo pomeriggio insieme? Ho cercato di lavorare a lungo per modificare,
almeno parzialmente, quest’idea di Silvia, disperata, che tanto le cose vanno
come vogliono loro. Le cose vanno come vogliono loro e, a volte, un
pochino, come vogliamo noi, specialmente se ce la mettiamo tutta.

pag. 540

A questo punto il compito graduato può cominciare. Abbiamo usato il


role playing per migliorare il tono di voce e per trovare le parole giuste.
Poi Silvia ha parlato sia con la madre sia con l’amica ed è stata rinforzata,
prima da me e poi dall’ambiente naturale, per questo. Quando si lavora con
i compiti graduati nei Disturbi depressivi si cerca, prima di tutto, di
interrompere la spirale della passività, tipica del bambino depresso. Un
compito graduato che funziona gli mostra che non è vero che lui non può
fare niente e che la prova del fatto che lui non può fare niente è che, infatti,
non sta facendo niente. Un compito graduato che funziona tende a
interrompere questo circolo vizioso della profezia che si autoavvera. Tu
puoi fare qualcosa. Prova.

pag. 259

Una volta provato, il compito si trasforma da una semplice prescrizione


comportamentale a una occasione per un nuovo intervento cognitivo. Si
può, cioè, fare riflettere il bambino su quello che ha fatto. Su che cosa gli è
riuscito e perché. Sulle difficoltà che ha incontrato e su come potrebbe fare
per superarle in futuro. Ecco un esempio di problem solving. Ecco anche, di
nuovo, la modificazione di uno stile di attribuzione: non è vero che le cose
buone dipendono sempre da fattori esterni e specifici, e quelle cattive
dipendono sempre da fattori interni stabili e immodificabili!
Nei compiti graduati sarebbe buona norma far lavorare il bambino anche
con semplici diari di auto-osservazione , che servono per monitorare e
poi modificare l’autoefficacia, per aumentare l’autocontrollo, per imparare a
riconoscere le proprie emozioni.

pag. 151

Questo lavoro può essere fatto anche attraverso giochi di educazione


emotiva (Kendall e Di Pietro, 1995). Un esempio è l’indovinello delle
emozioni: ci sono tante carte dove sono descritti tanti stati emotivi; il
bambino ne pesca una, la legge e simula con l’espressione del volto
l’emozione descritta nella carta. Con lavori di questo genere si impara a
conoscere le proprie emozioni e a modificare quelle che ci fanno star male.
Tutto questo, come abbiamo visto, non mi è riuscito con Silvia, ma il
compito graduato ha comunque prodotto qualche risultato interessante. Ha
permesso alla bambina (e a me) di lavorare su una ristrutturazione cognitiva
non più basata soltanto sul colloquio, ma anche su eventi concreti che lei
stessa aveva contribuito a modificare. Le ha permesso di stabilire relazioni
positive con un coetaneo e, in un certo senso, anche con la madre. Ha aperto
la strada ad altre relazioni potenzialmente positive nel centro sportivo
polivalente. Il lavoro sulle telefonate e le lettera a Sabrina è, in un certo
senso, un altro esempio di compito graduato.
È noto come lo sviluppo di relazioni positive con coetanei e adulti e di
interessi verso l’esterno rappresentino obiettivi importantissimi in molti casi
di Disturbo depressivo. A volte, per ottenerli, si può lavorare anche con
tecniche di rilassamento e di immaginazione positiva, che consistono
nell’insegnare al bambino a immaginare situazioni gratificanti che
potrebbero essere raggiunte con un po’ di impegno da parte sua, mentre il
bambino si trova in uno stato di rilassamento e di tranquillità emotiva.17
Nel caso di Silvia abbiamo poi visto un intervento diretto sui genitori e
sulla scuola.
Per quello che riguarda i genitori, l’intervento, in alcuni fasi del
trattamento, ha preso la forma di un vero e proprio parent training . I
suoi obiettivi fondamentali sono stati quelli di cercare di favorire nel
rapporto con la figlia le occasioni di gratificazione; di lavorare sulla sua
autostima; di lavorare sul distacco, soprattutto dalla figura materna; di
lavorare, di conseguenza, sull’autonomia; di ridurre, per quanto possibile, le
esperienze negative almeno in famiglia (per es., i forti litigi davanti a
Silvia); di aumentare, al contrario, per quanto possibile, le esperienze serene
e fonti di gioia, come un’uscita domenicale tutti e tre insieme in un luogo
gradito alla bambina. Il sostegno ai genitori si è poi trasformato in una
psicoterapia di coppia, svolta da una collega, con la quale è rimasto,
peraltro, un importante rapporto di collaborazione del quale, naturalmente, i
genitori sono al corrente. Essenziale è sempre, nel lavoro con i genitori, il
coinvolgimento in un ruolo educativo più positivo e non la sottolineatura
delle inadeguatezze passate. Abbiamo visto mille volte come la
sottolineatura delle inadeguatezze passate serva quasi unicamente a creare
senso di colpa. Se lo ripeto qui, non è solo perché penso che si tratti di una
questione molto importante in generale, ma anche perché creare senso di
colpa in un genitore (probabilmente depresso) di un bambino depresso
sarebbe proprio il colmo del paradosso.

pag. 562

Per quanto riguarda la scuola, molti obiettivi programmati con le


insegnanti (anche se non sempre raggiunti) sono stati simili a quelli che
abbiamo appena visto per i genitori. Qui, in più, abbiamo cercato di
sfruttare le potenzialità di interazione offerte dalla classe, per lavorare
anche su un aumento di abilità sociali, soprattutto attraverso la costruzione
di gruppi cooperativi (Johnson, Johnson e Holubec, 1996; Cohen, 1999;
García-Huidobro, Skewes, Barros, Pizarro e Gawinski, 2013).
Resterebbe da rimarcare un’ultima, importantissima strategia terapeutica
che forse qualcuno ha intravisto nel mio lavoro con Silvia (bravo chi c’è
riuscito, perché era la più difficile!). Durante il primo colloquio, la bambina
disegnò Sabrina, la sua compagna “perduta”. Molto tempo dopo, io ho
ripreso in mano quel disegno e abbiamo, insieme, cominciato a parlare delle
emozioni che tutto ciò le suscitava. Ho cercato di darle ascolto, comunicarle
interesse e comprensione, e favorire così la produzione di contenuti ed
emozioni ancora più profondi.
Solo alla fine è arrivato un comportamento, un’azione: telefonare e
scrivere a Modena all’amica. Se qualcuno avesse incentrato l’attenzione
solo su quel momento, avrebbe potuto prenderlo per il risultato di una
tecnica di compito graduato, quale, in effetti, parzialmente era. Solo
parzialmente, però, perché dietro c’è stato tutto un lavoro che potremmo
chiamare rogersiano, o centrato sulla relazione di aiuto e sull’empatia, e
del quale faccio qui solo un cenno perché lo vedremo più diffusamente nel
prossimo capitolo: prestare attenzione, ascoltare, rispondere al contenuto e
alle emozioni che l’altro ci offre, facilitare nell’altro la comprensione di ciò
che gli succede dentro e infine, solo infine, sospingerlo quasi
impercettibilmente verso un’azione che, a quel punto, egli stesso è quasi
autonomamente in grado di programmare ed eseguire da solo.

pag. 563

Negli ultimi anni i trattamenti dei Disturbi depressivi nei bambini e negli
adolescenti sono sempre più caratterizzati da una forte integrazione fra le
teorie cognitivo-comportamentali e le teorie relative alle emozioni: stanno
infatti assumendo sempre più centralità nel lavoro clinico costrutti quali la
comprensione delle emozioni, la regolazione emotiva e l’intelligenza
emotiva (Manaresi e Paloscia, 2014). Molti trattamenti, che qui verranno
solo accennati, prevedono il coinvolgimento attivo dei genitori, data la forte
influenza rilevata dal contesto familiare nell’esordio prima e nel
mantenimento poi dei disturbi depressivi e bipolari.
Per il trattamento della depressione in età prescolare è stato sviluppato il
Parent Child Interaction Therapy-Emotion Development (PCIT-ED), che
utilizza tecniche comportamentali e terapie basate sul gioco per migliorare
la qualità della relazione genitori-figli, per promuovere la sintonizzazione
emotiva e la capacità di educare in modo efficace il bambino (Lenze,
Pautsch e Luby, 2011).
Per bambini di scuola primaria troviamo l’ACTION Treatment Program
(Stark et al., 2008; Stark, Streusand, Krumholz e Patel, 2010), ritenuto uno
degli interventi evidence-based tra i più importanti in questo campo (Weisz
e Kazdin, 2010). Il programma è costituito da venti incontri di gruppo e due
individuali della durata di circa un’ora e trenta. Un importante obiettivo che
si pone il programma è aiutare i bambini a riconoscere i problemi e trovare
adeguate strategie di problem solving per poterli affrontare. In parallelo, è
previsto un intervento con i genitori mirato ad aiutarli a riconoscere e
valorizzare gli sforzi dei bambini e a trasmettere loro la sensazione di essere
amati e apprezzati e degni di valore. Altro obiettivo è quello di migliorare il
tono affettivo dei membri della famiglia per renderlo più caldo, empatico e
meno distanziante.
Sempre per l’età della scuola primaria, assieme ai programmi di terapia
cognitivo-comportamentale per bambini sviluppati da Stark, troviamo la
Contextual Emotion-Regulation Therapy (CERT), che è un trattamento
basato sul miglioramento delle capacità di regolazione del distress e della
disforia (Kovacs e Lopez-Duran, 2012). La CERT ipotizza che
un’autoregolazione deficitaria del distress e della disforia preceda l’inizio
della depressione e si pone dunque l’obiettivo di modulare la risposta al
distress in modo da ridurre la possibilità di scivolare in uno stato
depressivo.
La Mindfulness-Based Cognitive Therapy per bambini (MBCT-C) è una
psicoterapia di gruppo che aumenta la consapevolezza dei bambini rispetto
a pensieri, sensazioni ed emozioni che si sperimentano nel momento
presente, e che non andrebbero giudicate o evitate ma semplicemente
accettate per quelle che sono (Lee, Semple, Dinelia e Miller, 2008; Semple,
Lee, Rosa e Miller, 2010).
Per il trattamento delle forme lievi e lievi-moderate di depressione
maggiore negli adolescenti si utilizzano: una forma di terapia cognitivo-
comportamentale che è un adattamento della terapia cognitiva di Beck
sviluppata per gli adulti (Brent e Poling, 1997); la terapia di gruppo
Adolescent Coping with Depression (CWD-A) (Kahn e Kehle, 1990); la
terapia interpersonale per adolescenti (IPT-A) particolarmente efficace con i
pazienti più gravi che presentano depressione in comorbilità con l’ansia; la
Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) che aiuta a sviluppare uno
stato cognitivo di consapevolezza per affrontare gli eventi stressanti fisici
ed emotivi quotidiani (Biegel, 2005).

A proposito di quest’ultimo strumento è importante sottolineare che la


Mindfulness può essere concettualizzata all’interno dell’Acceptance and
Commitment Therapy (ACT) (in italiano “Terapia di accettazione e di
impegno nell’azione”), che fa parte delle psicoterapie cognitivo-
comportamentali cosiddette di “terza generazione” (Hayes e Brownstein,
1986; Hayes e Wilson, 1994; Hayes, Boyd e Sewell, 2011) e che trova
applicazione non soltanto nei diturbi d’ansia, come abbiamo visto nei
capitoli precedenti, ma anche nei Disturbi depressivi. L’obiettivo
fondamentale di questo approccio ai disturbi della sfera emozionale non è
infatti la riduzione dei sintomi, ansiosi o depressivi che siano, quanto
piuttosto la modificazione della relazione con i nostri pensieri e le nostre
emozioni negative, che solo di conseguenza può comportare una riduzione
della sintomatologia. Come per l’ansia, anche per la depressione i principi
fondamentali su cui si basa l’ACT sono sei: la defusione (distacco dai
pensieri e dalle convinzioni dolorose), l’accettazione (accettare anziché
reprimere le emozioni che si sperimentano), il contatto con il momento
presente (rimanere in contatto con ciò che si sta vivendo invece che
rimuginare sul passato o preoccuparsi del futuro), il sé osservante (che
consente di essere attenti a ciò che si sente, si pensa e si sta facendo in ogni
momento), i valori personali (l’entrare in contatto con i propri valori) e
l’azione impegnata (lo spendere le proprie energie per perseguirli).

PROGNOSI
Nonostante l’enorme difficoltà di studi di questo genere, la ricerca converge
attualmente sull’idea che un Disturbo depressivo durante l’infanzia aumenta
in modo significativo la probabilità dell’insorgenza di una depressione in
età adulta. Questo, tuttavia, non sembra valere se nella storia del bambino è
presente un solo Episodio depressivo. Il DSM-5 elenca tra i fattori di rischio
che comportano una prognosi peggiore per il Disturbo depressivo i fattori
temperamentali, ambientali e genetici, mentre nel Disturbo bipolare i fattori
genetici e fisiologici sembrano essere prevalenti con un aumento del rischio
medio di insorgenza maggiore di 10 volte tra parenti di individui con
Disturbo bipolare I e Disturbo bipolare II. Per quanto riguarda i Disturbi
depressivi in età evolutiva, vengono riportati tassi di recidiva del 40% dopo
un primo episodio depressivo (Birmaher et al., 2004); circa il 50% rimane
clinicamente depresso a 12 mesi e tra il 20-40% a 24 mesi, con molti di
questi pazienti che presenteranno depressione in età adulta (Kessler et al.,
2005).
Per quanto riguarda invece i Disturbi bipolari, la prognosi è molto legata
alla presenza di disturbi in comorbilità, alla gravità del quadro clinico e alla
risposta al trattamento farmacologico. Generalmente il Disturbo ciclotimico
ha un decorso migliore del Disturbo bipolare e, tra questi ultimi, il Disturbo
bipolare I presenta migliori esiti rispetto al Disturbo bipolare II (Manaresi e
Paloscia, 2014). Non è difficile rendersi conto di come, da questi studi,
emerga tutta l’importanza di un lavoro preventivo durante l’infanzia, che
probabilmente andrebbe attuato con la stretta collaborazione delle scuole,
per esempio attraverso programmi di Educazione Razionale Emotiva sui
bambini e di consulenza ai genitori.
I fattori prognostici più favorevoli, nel caso di un Disturbo depressivo in
età evolutiva, sono un alto livello di autostima; una buona abilità
nell’affrontare le situazioni potenzialmente stressanti; buoni risultati
scolastici; interessi esterni gratificanti; relazioni buone e significative con i
coetanei. Queste affermazioni possono apparire banali, o anche
autocontraddittorie. Si potrebbe, infatti, obiettare: è ovvio che se un
bambino ha, per esempio, buone occasioni di divertirsi fuori casa e con gli
amici avrà, a parità di altre condizioni, una prognosi migliore per futuri
Disturbi depressivi. Oppure, si potrebbe obiettare che un bambino con tutte
queste caratteristiche non può neppure essere considerato un bambino
depresso. Tuttavia, tali osservazioni sono importanti sia a livello terapeutico
sia, di nuovo, preventivo. Purtroppo un Episodio depressivo può colpire
chiunque, tanto che si afferma, a volte, che la depressione è il raffreddore
della psicopatologia (Seligman, 1975). Una volta però che un bambino
abbia avuto un Episodio depressivo, questi dati ci indicano che, se
riusciamo a lavorare su di lui per migliorare le interazioni sociali,
l’autostima, le abilità di coping e il rendimento scolastico (per fare solo
alcuni esempi), abbassiamo la probabilità di una recidiva e, di conseguenza,
dello sviluppo di una depressione in età adulta (Stark, 1995; Fabrizi, 2001).
Purtroppo nelle forme depressive gravi, dove nessuno degli elementi
prognosticamente favorevoli è presente, il rischio di ricaduta in un nuovo
Episodio depressivo arriva fino al 60%. Inoltre, è stato descritto il
fenomeno secondo il quale anche quando non ci sono ricadute vere e
proprie, un Disturbo depressivo non trattato in età evolutiva porta spesso al
rischio a lungo termine di malfunzionamenti nelle aree sociali e
interpersonali e un senso di insoddisfazione nei confronti della vita.
1 Inutile dire che si tratta di un grave errore. Una frase di questo genere, così importante e così
carica di emozioni, avrebbe sicuramente meritato ben altro trattamento. Certamente non il silenzio,
né l’imbarazzo o addirittura la paura con la quale invece è stata accolta.
2 Vedi capitolo 15, nota 2.
3 Sembra lo stesso atteggiamento che la bambina ha mostrato anche nei confronti di un possibile
cambio di scuola: come se pensasse che tanto è tutto inutile.
4 La citazione è tratta dal Glossario dei termini tecnici (American Psychiatric Association, 2014, p.
965).
5 Nell’ICD-10 si parla di Sindromi affettive; in questa categoria rientrano: l’Episodio maniacale, le
Sindromi affettive bipolari, gli Episodi depressivi, le Sindromi depressive ricorrenti, le Sindromi
affettive persistenti, le Altre sindromi affettive e, infine, le Sindromi affettive non specificate.
6 I criteri diagnostici proposti nell’ICD-10 per l’Episodio depressivo, contengono 10 item, diversi
dagli item del DSM-5 (il calo dell’autostima è separato dai sentimenti di colpa inappropriati). L’ICD-
10 fornisce set di criteri separati per ogni livello di gravità di un Episodio depressivo maggiore.
Inoltre, per poter fare diagnosi di Episodio depressivo maggiore, secondo l’ICD-10 è richiesto che vi
siano almeno 2 dei seguenti sintomi: umore depresso, perdita di interesse e ridotta energia (per gli
episodi depressivi lievi e moderati) e tutti e 3 per gli Episodi depressivi gravi.
7 Oltre alle differenze nella definizione dell’Episodio depressivo maggiore, i criteri diagnostici
presenti nell’ICD-10, prevedono una diversa soglia per definire quando il disturbo si caratterizza
come episodio singolo rispetto a 2 episodi ricorrenti separati. In base all’ICD-10 è necessario che vi
sia un periodo di almeno 2 mesi libero da sintomi significativi di alterazione dell’umore tra gli
episodi, mentre nel DSM-5 è richiesto un intervallo di almeno 2 mesi consecutivi durante il quale
non risultino soddisfatti i criteri per un Episodio depressivo maggiore.
8 Vedi capitolo 11.
9 Vedi capitolo 12.
10 Vedi capitoli 14, 15, 16 e 17
11 Vedi capitolo 16.
12 Vedi capitolo 16.
13 Vedi capitolo 26.
14 Il CDI è un questionario per la misurazione della depressione in età evolutiva. Il paziente deve
scegliere, tra alcune semplici affermazioni, quella che meglio descrive i suoi sentimenti attuali. Per
esempio: “Io mi sento triste / Molte volte sono triste / Io sono sempre triste”; oppure: “Tutte le cose
spiacevoli accadono per colpa mia / Molte cose spiacevoli accadono per colpa mia / Le cose
spiacevoli di solito non accadono per colpa mia”. Il punteggio finale ottenuto sommando i singoli
punteggi di ogni domanda viene confrontato con i dati normativi e fornisce un indicatore della
depressione del bambino o dell’adolescente.
15 Il TAD è un questionario per la misurazione di questi due fattori emotivi in soggetti di età
compresa tra i sei e i diciannove anni. Il paziente deve rispondere “vero” o “falso” ad alcune semplici
informazioni come “Ho paura di perdere le mie amicizie”, oppure “Non ho voglia di mangiare”. Il
punteggio finale ottenuto sommando i singoli punteggi di ogni domanda viene confrontato con i dati
normativi e fornisce un indicatore dell’ansia e della depressione. Un aspetto particolare di questo
strumento è che tiene conto del fatto che non sempre il bambino è in grado di rendersi conto e
autovalutare in modo attendibile certi suoi stati d’animo e che, spesso, reazioni emotive particolari si
verificano di più in alcune circostanze ambientali che in altre. Per questo motivo, Il TAD prevede
anche un questionario per i genitori, con affermazioni del tipo “Lamenta spesso dei malesseri”,
oppure “Ha un buon carattere”, e uno per gli insegnanti, con affermazioni del tipo “Appare spesso
stanco e svogliato”, oppure “Si demoralizza facilmente”.
16 Vedi capitolo 14.
17 Vedi capitolo 13.
Capitolo 24

Disturbo depressivo persistente


(Distimia)
Fabio Celi

LA STORIA DI EDO
La mamma di Edo si è separata 15 mesi fa e il padre ha una convivente, di
sicuro già sua amante da molto tempo prima della separazione. Adesso in
casa ci sono un sacco di problemi, prima di tutto economici, perché l’ex
marito non passa mai alla signora la cifra stabilita nei modi stabiliti: quando
ritarda nei pagamenti, quando dice che è stato un mese difficile e decide di
ridurre la quota, quando trova un pretesto per una litigata furiosa e si rende
irreperibile per settimane. La madre ha dovuto accettare il primo lavoro che
ha trovato: un lavoro che la costringe a orari pesanti e imprevedibili. A volte
si sveglia alle cinque del mattino e rincasa per l’ora di pranzo; altre volte è
fuori tutto il pomeriggio. “La conseguenza è che Edoardo, invece di perdere
solo il padre (che non vede quasi mai), ha perso anche la madre”, mi dice la
signora durante il nostro primo colloquio.
La signora ha l’aria stanca, sciupata, di chi sembra aver rinunciato a
lottare.
Mi dice che Edo non ha accettato la separazione dei genitori. Può
succedere che abbia vere e proprie crisi di disperazione; oppure che
manifesti la sua rabbia e la sua tristezza con coliche d’aria, due ricoveri
ospedalieri per malesseri acuti non meglio definiti e poi risoltisi in nulla, un
episodio di enuresi a scuola, un periodo di qualche settimana, lo scorso anno,
di rifiuto della scuola.
Frequenta la quinta classe della scuola primaria e le maestre lo vedono
peggiorato.
“Era un ragazzino proprio in gamba. Me lo dicevano sempre. Era la mia
più grande soddisfazione”.
La mamma fa un cenno al fatto che le sembrava ci fosse qualcosa di
miracoloso nella diligenza e nel rendimento scolastico di Edoardo. Il fratello
maggiore, ora ultraventenne, era sempre stato un disastro, aveva smesso
presto di studiare e aveva scelto di fare il marinaio. Il padre, camionista, non
ricorda di averlo mai visto con un libro in mano. A lei, forse, studiare
sarebbe anche piaciuto, ma erano sei sorelle e certamente i suoi genitori non
si potevano permettere di mandarle a scuola oltre la fine della secondaria di
primo grado. Invece il suo Edo era interessato a tutto, faceva i compiti da
solo, preparava le interrogazioni a volte andando anche in biblioteca con
qualche suo compagno e poi si offriva volontario e prendeva sempre i voti
migliori. Adesso va a scuola svogliato, come se fosse già stanco appena si
sveglia. Talvolta, il mattino dice che ha mal di testa o mal di stomaco.
“Non credo che siano scuse, perché capita che lo dica anche la domenica
e poi se ne resta rannicchiato davanti alla televisione, ma sembra che non
guardi nemmeno quello che c’è”.
Anche a scuola le maestre dicono che spesso ha lo sguardo perso, la testa
da un’altra parte. Una delle tre maestre lo conosce fin dalla prima classe
della scuola primaria, ed è molto in gamba. Anch’io conosco piuttosto bene
la maestra perché seguo da tempo un altro bambino suo allievo. Quando le
andrò a parlare mi racconterà che è riuscita a farsi dire da Edo che cosa lo
tormenta, perché non ha più voglia di studiare, perché a volte sembra che
non sia nemmeno in classe, ma chissà dove. Edo le ha detto che pensa a suo
padre, ma la maestra non è stata capace di andare oltre e ora non sa come
aiutarlo.
Chiedo alla madre se Edo vede suo padre, se lo cerca, se almeno si
sentono per telefono, come sono i suoi rapporti con lui. Devo precisare che
questo primo colloquio non segue un andamento molto standard. Forse
ciò deriva dal fatto che, fin dalle prime parole della madre, dopo le mosse di
apertura e durante la libera esposizione del suo punto di vista, credo di aver
già capito gli aspetti essenziali della questione. Questo non è un modo molto
rigoroso di procedere, ma forse sono almeno parzialmente giustificato dal
fatto che mi sono capitati nella mia vita professionale moltissimi casi simili a
questo e così faccio ricorso alla mia esperienza precedente e mi permetto di
condurre il colloquio in modo un po’ più libero. Naturalmente dovrei, per lo
meno, essere pronto a cambiare direzione e strategia appena mi accorgessi
che le cose sono diverse dalle mie prime ipotesi. Chiedo dunque alla signora
se e come il bambino vede suo padre.

pag. 49

Mi risponde che teoricamente lo dovrebbe vedere ogni quindici giorni,


per l’intero fine settimana. In pratica, le cose sono molto più complicate. A
volte il padre non si fa vivo. A volte è Edo che parte volentieri, entusiasta
che sia arrivato il momento di incontrarlo e poi subito il sabato sera, magari
dopo cena, telefona alla mamma perché vuole essere riportato a casa. Altre
volte proprio non ci vuole andare. È una situazione molto confusa e molto
difficile. Di solito, quando non ci vuole andare è perché hanno litigato per
telefono. Il padre spesso gliene dice di tutti i colori, non si sa nemmeno
perché, e allora il bambino giura di non volerlo vedere mai più. Poi è lui
stesso che lo cerca, che si dispera se il padre non telefona, che chiede alla
madre di portarlo da lui. Quando invece gli prendono le crisi del sabato sera
e vuole ritornare a casa, può darsi che sia malinconia, dispiacere di lasciare
sola la mamma, ma anche, a volte, il fatto di essere stato trattato male dalla
convivente del padre. D’altra parte, Edo la odia. Le attribuisce la colpa per
tutto ciò che è accaduto e capita che urli e inveisca contro di lei.
Da qualche mese a questa parte, infatti, Edo sa essere anche molto
violento, mentre è sempre stato un bambino sensibile e dolcissimo. È
incoerente anche nel comportamento con la mamma. A volte è affettuoso e
indifeso da far tenerezza come un bimbo piccolo. Sul divano, davanti alla
televisione, le si butta addosso e vuole essere coccolato. Poi magari si mette
a piangere, così, spesso senza un’apparente ragione. A volte, invece, perde la
pazienza per nulla. Inveisce contro la madre, arriva a darle la colpa di non
essere riuscita a trattenere il padre con sé.
“Sei peggio della Mirka che se l’è portato via”, le dice nei momenti
peggiori.
Mi tornano in mente le parole della madre quando, quasi all’inizio del
colloquio, mi ha detto che Edo manifesta la sua rabbia e la sua tristezza con
coliche d’aria e altri malesseri fisici. Credo che la madre non sappia bene
definire, neppure a sé stessa, se il problema del figlio sia la rabbia o la
tristezza. Più il colloquio prosegue, più mi sembra di capire che c’è nel
bambino un rancore contro tutti, sordo e doloroso.
Edo ricorda ancora quel venerdì maledetto che il padre lo accompagnò a
scuola e gli disse che sarebbe passato a prenderlo verso l’una e invece non è
più tornato: Edo, del tutto irrealisticamente, spera ancora che il padre ritorni
e la madre non sa darsi pace per questo.
Neppure la madre, d’altra parte, sta bene. È in cura da uno psichiatra
perché, circa un anno fa, ha avuto un Disturbo da attacchi di panico in un
supermercato. È stata in Pronto Soccorso, ricoverata per accertamenti, e poi
è stata curata con antidepressivi. Ora sta un po’ meglio e lo psichiatra ha
cominciato a scalare la terapia farmacologica, ma vedere Edo in queste
condizioni certamente non la aiuta.
Raccolgo un po’ di anamnesi e un po’ di storia del bambino.
Dopo una gravidanza tormentata per gravi contrasti con il marito,
Edoardo è nato prematuro con taglio cesareo. Sembra che ci sia stata una
certa sofferenza fetale con qualche difficoltà respiratoria transitoria limitata
alle prime 12 ore. Poi il decorso è stato regolare. Il bambino ha trascorso
circa un mese in incubatrice, quindi è stato dimesso. Una volta a casa,
l’alimentazione e il sonno sono stati regolari e deambulazione e prime parole
sono comparse poco dopo l’anno. Intorno ai due anni e mezzo è stato
ricoverato d’urgenza per un’appendicectomia. La madre riferisce questo
episodio come molto drammatico. In ospedale le hanno quasi strappato il
bambino di mano perché dicevano che non c’era tempo da perdere e quando
glielo hanno restituito, dopo un tempo che a lei parve lunghissimo e dopo
un’attesa che le sembrò insopportabile, pareva che non si svegliasse più
dall’anestesia. La madre era sola, “naturalmente”, perché il marito, come al
solito, era in giro chissà dove.
A tre anni è andato alla scuola dell’infanzia e da quel momento non ci
sono più stati problemi. Subito inserito, andava volentieri, era bravo, giocava
con tutti, faceva disegni bellissimi e le maestre si complimentavano con la
madre ogni volta che andava a prendere il bambino.
Alla scuola primaria è stata la stessa cosa, fin dai primi giorni. Soltanto in
questo ultimo anno è molto peggiorato. Le maestre sostengono che in classe
il profitto, pur essendo ancora più che sufficiente, è molto calato, ma
soprattutto evidenziano altri motivi di preoccupazione: si vede che è assente,
soffre e tende a isolarsi dai compagni, proprio lui che non ha mai avuto
problemi di socialità e che era amico di tutti.
Il pediatra sostiene che, dal punto di vista fisico, è tutto negativo.
Ultimamente, vi è soltanto il problema di una tendenza all’obesità,
determinata dal fatto che, anche a parere della mamma, Edo ha cominciato a
mangiare in modo disordinato, spesso fuori pasto, a volte con una voracità
che non aveva mai avuto. Il punto di vista del pediatra è che tutto ciò (la
tristezza, gli scoppi di aggressività, la fame smodata) rappresenti la reazione
alla separazione, che sia giusto chiedere la consulenza di uno psicologo, ma
che i problemi tenderanno a diminuire con il tempo e probabilmente
finiranno per risolversi del tutto.
Il padre è un camionista, la madre era casalinga e ora, per mantenere sé
stessa e il figlio, è costretta a lavori saltuari. Edoardo ha un fratello maggiore
che vede pochissimo (e del quale, soprattutto in questi ultimi tempi, sente
molto la mancanza) perché si è imbarcato.
Secondo la madre non dovrebbero esserci problemi a portarlo da me, né
sembra necessario prepararlo perché è già andato una volta, senza difficoltà,
dallo psichiatra presso il quale è in cura la signora ed è stato proprio lui a
fare il mio nome per una consulenza psicologica.
In effetti, il primo approccio con Edoardo è molto facile. Direi, sapendo
quello che emergerà poco dopo, che il bambino all’inizio inganna: sembra
equilibrato, estroverso, sereno. È cicciottello ma non obeso, come alcune
parole della madre avrebbero potuto far pensare. Mi parla solo di qualche
litigio con la mamma che lo fa arrabbiare e della nostalgia per il fratello che
non vede mai e che non gli scrive neppure le cartoline che lui desidererebbe
tanto ricevere da ogni parte del mondo. A scuola ha tutti “buono” e un
“distinto” in scienze.
Gli chiedo del papà. Gli chiedo se ha voglia di parlarmene.
“Sì, lo vedo ogni quindici giorni e a volte ci sono delle tensioni”.
“Tensioni?”.
Mi risponde che a volte, il sabato, quando è da lui, di notte, piange di
nascosto pensando alla mamma. Mi dice che in quei momenti avrebbe voglia
di telefonare alla mamma e farsi venire a prendere. Ma naturalmente non
può farlo nel cuore della notte. Mi dice anche che certi sabati la nostalgia gli
prende anche prima di cena. Qualche volta riesce a chiamare la mamma per
farsi venire a prendere e spesso, in quei casi, il papà si arrabbia molto con lui
e gli giura che non si vedranno mai più. Ha un groppo alla gola mentre me lo
racconta. Altre volte invece non può chiamare perché il padre non vuole e gli
tocca restare lì tutta la notte.
“Sei molto arrabbiato con il tuo papà”.
Tira fuori molta della sua rabbia durante la fine del primo colloquio, non
soltanto contro il padre. Si scatena anche contro Mirka, che glielo ha portato
via e la chiama “una rubafamiglie”. Mi dice che spesso, nel pensare queste
cose, gli viene da piangere. A volte piange anche quando è a casa del padre.
Il padre non vuole. Gli dice:
“Tanto è inutile piangere, Edo. Sto bene con la Mirka e a casa non ci
torno più”.

“Io invece quella volta lì ho pianto tanto, non dormivo, ero in crisi, mi
venivano le vampate, davo i colpi al pavimento, avrei voluto spaccare gli
oggetti, farmi male e finire anche all’ospedale. Una volta ci sono finito
davvero, perché mi sono sentito male. Una volta ho anche picchiato la
mamma perché il babbo mi aveva detto che era stata colpa sua se si erano
lasciati”.
Spesso mi sembra di avere a che fare con un bambino molto più grande
dei suoi dieci anni e mezzo.
“Andava tutto così bene quando il babbo era lì con noi. A casa, mentre si
mangiava, scherzavamo…”.
“A volte, quando sono a tavola, mi sembra ancora adesso di vederlo
lì…”.
Mi parla ancora del fratello, così lontano. Mi dice che secondo lui è
scappato, perché ha messo incinta una ragazza, ma non crede che la voglia
sposare. Ora lei ha una bambina di sei mesi:
“Chissà se mi riconoscerà come suo zio, non mi vede mai…”.
Infine, sembra come farsi coraggio, sembra rendersi conto che il tempo
della seduta sta per finire, sembra quasi aver paura che potrebbe non esserci
un’altra occasione. Mi racconta del venerdì che suo padre lo accompagnò
fino a scuola. Non sono capace di rendere qui, per iscritto, l’angoscia di
questo momento. Gli disse che sarebbe venuto a riprenderlo all’uscita. Gli
disse di aspettarlo, lì davanti al cancello della scuola, perché forse avrebbe
tardato qualche minuto. Edo era così contento quel giorno. Era venerdì.
Rimaneva ancora il sabato e poi avrebbe potuto riposarsi; anche suo padre
sarebbe stato a casa e forse sarebbero andati a pescare insieme. Lui lo
aspettò, davanti al cancello della scuola. Lo aspettò a lungo. Rimase solo con
la bidella fino alle due. Poi la bidella telefonò alla mamma perché doveva
andare via. La mamma le chiese il favore di accompagnarlo a casa. Quando
Edo entrò, vide la mamma che piangeva. Il tavolo di cucina non era neppure
apparecchiato e sopra c’era solo un bigliettino.

CONSIDERAZIONI TEORICHE E INQUADRAMENTO


DIAGNOSTICO
In passato il disturbo di Edo sarebbe stato definito “nevrosi depressiva” o
“depressione reattiva”.
La prima espressione, più antica, faceva riferimento alla vecchia divisione
tra nevrosi e psicosi e indicava, dunque, una depressione meno grave di
quella psicotica.
La seconda espressione, più recente, si riferiva al fatto che il disturbo,
anziché avere un’origine interna, si era determinato come reazione a eventi
esterni negativi.
Oggi, quasi del tutto abbandonata la vecchia terminologia di psicosi e
nevrosi, anche il concetto di reattivo è stato messo, per molte ragioni e con
molte discussioni, in disparte. Così, nella categoria che il DSM-5 chiama dei
Disturbi depressivi dell’umore, un quadro come quello di Edo viene
chiamato Disturbo depressivo persistente (o Distimia secondo la
classificazione proposta dall’ICD-10). Mi rendo conto che questo modo di
riassumere le cose è un po’ approssimativo e impreciso, ma in
psicopatologia dello sviluppo ha una sua ragione di essere, perché in realtà
quello che vediamo in Edoardo è proprio una forma attenuata di depressione,
non così grave come il Disturbo depressivo maggiore, ma neppure del tutto
spiegabile semplicemente come reazione provvisoria alla separazione dei
genitori, perché in questo caso la diagnosi più corretta sarebbe di Disturbo
dell’adattamento con umore depresso.
Il Disturbo depressivo persistente è pertanto rappresentato da un quadro
depressivo cronico, non grave come quello del Disturbo depressivo
maggiore, ma in cui l’umore depresso (o, specificamente per i bambini,
irritabile) è evidente, nei bambini, per la maggior parte del giorno quasi tutti
i giorni per almeno 1 anno (negli adulti sono necessari 2 anni per la
formulazione della diagnosi). Inoltre nel DSM-5, a differenza di quanto
avveniva nella versione precedente del Manuale, viene specificato che
durante l’anno (2 per gli adulti) di malattia possono essere presenti anche i
criteri per un Episodio depressivo maggiore. Se dunque vengono soddisfatti i
criteri per un Disturbo depressivo maggiore durante l’episodio di malattia
dovrebbe essere posta la diagnosi di Disturbo depressivo maggiore.
Altrimenti, è giustificata la diagnosi di Disturbo depressivo persistente (con
o senza specificazione). Nel DSM-5, come già abbiamo visto nel precedente
capitolo, il Disturbo depressivo persistente rappresenta dunque l’unione del
Disturbo Depressivo Maggiore Cronico e del Disturbo Distimico che erano
così definiti nel DSM-IV (Devanand, 2013); anche nell’ICD-10 gli Episodi
depressivi maggiori possono invece essere presenti, seppur “molto pochi”, e
il Disturbo distimico può seguire un Episodio depressivo senza un periodo di
remissione completa.
Gli altri sintomi possono essere l’agitazione psicomotoria, soprattutto nei
più piccoli, l’aggressività, le lamentele somatiche, lo scarso appetito o
l’iperfagia (come nel caso di Edoardo), l’insonnia o l’ipersonnia, la scarsa
energia, la bassa autostima, la difficoltà di concentrazione e i sentimenti di
disperazione. Come sempre, per porre la diagnosi di questo disturbo è
necessario che sia presente un disagio significativo o una compromissione
sociale o scolastica o di altre aree importanti per la vita del bambino.
Spesso molti sintomi, soprattutto cognitivi ed emozionali, non vengono
riferiti spontaneamente, ma soltanto se lo specialista pone domande dirette:
abbiamo visto questo aspetto nel primo colloquio con Edoardo, quando il
disagio è emerso solo dopo che ho affrontato il problema del padre. Per
questi motivi, la diagnosi risulta molto facilitata se si possono disporre di
informazioni provenienti dall’esterno, in particolare dai genitori e dagli
insegnanti.
Il Disturbo depressivo persistente (Distimia) mostra una prevalenza tra lo
0,6-1,7% in età prepubere e di circa il 4-5% in età adolescenziale. La
prevalenza nel corso della vita calcolata intorno ai 20 anni è di circa il 20%
(Manaresi e Paloscia, 2014; Klein, Dougherty e Olino, 2005). L’esordio è di
solito insidioso (cioè difficile da diagnosticare) e precoce (cioè prima dei 21
anni), e in questo caso è associato a una probabilità più alta di comorbilità
con i Disturbi di personalità e i Disturbi correlati a sostanze.

LINEE DI INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO


Durante una seduta successiva a quella che ho descritto nel primo paragrafo,
Edo mi racconta l’ultima che il padre gli ha combinato.
Era giovedì grasso. Il mattino, mentre si preparava per andare a scuola,
gli ha telefonato per dirgli che nel pomeriggio sarebbe passato a prenderlo da
casa per portarlo al Carnevale in piazza. Edo ha passato tutta la mattina, in
classe, pensando ai jeans strappati e colorati che si sarebbe messo e a che
cosa avrebbe fatto con suo padre nel pomeriggio. All’ora di pranzo il padre
gli ha telefonato di nuovo per dirgli che aveva da fare e che quindi non
poteva più passare a prenderlo.
“Per la Mirka, però, non aveva da fare”, mi dice il bambino.
Lui, infatti, ha avuto il permesso dalla mamma di andare in piazza da solo
e lì ha incontrato il padre con la convivente.
Dato che aveva appuntamento con i suoi compagni di classe, portava con
sé una bomboletta di schiuma con la quale aveva in programma di
ingaggiare una battaglia con una classe rivale. Ha regalato la bomboletta al
primo bambino che ha incontrato, è tornato a casa e ha passato il pomeriggio
del giovedì grasso da solo in camera sua.
C’è un forte senso di solitudine, oltre a tutti gli altri sentimenti facili da
immaginare, in questo racconto di Edo e, in genere, nella sua vita di questo
momento. Mi sembra che la solitudine e il rimpianto (che poi sono due modi
appena un po’ diversi per esprimere separazione e perdita: i due grandi temi
dell’umore depresso) emergano, nel corso delle nostre sedute, quasi ogni
momento. Mi sembra anche che questo debba essere il focus della
psicoterapia con Edoardo.
Preferisco prima sgombrare il campo da un possibile equivoco, per poi
riprendere da questo punto il nostro discorso. Non penso che, soprattutto con
un bambino, si possano ottenere risultati significativi esclusivamente
facendolo parlare, facendogli esprimere le sue emozioni e facendolo
riflettere su di esse. Penso, al contrario, che se un bambino tende a chiudersi
in casa perché si sente triste e crede che sia inutile uscire e cercare di andarsi
a divertire perché tanto lui, ormai, non si divertirà più, dovremmo cercargli
delle occasioni per uscire e per divertirsi. Il bambino dovrà per lo meno
provarci, prendere aria, riscoprire che si può anche fare qualcosa di diverso
dal passare una domenica pomeriggio davanti alla TV. Questo è solo un
esempio, ma mi serve per ribadire un punto che a me sembra fondamentale.
Anche quando, come nel caso di Edo, gli aspetti principali dell’intervento
hanno ruotato intorno al metodo rogersiano dell’ascolto e della
comprensione empatica, questo non significa che strategie comportamentali
e cognitivo-comportamentali non possano essere usate in associazione. So
bene che alcuni ritengono gli interventi non direttivi delle cosiddette “terapie
centrate sul cliente” incompatibili con le tecniche interventiste del
comportamentismo. Ritengo, al contrario, che anche la tecnica
apparentemente più fredda e meccanica (se la leggiamo applicata su un
animale da laboratorio all’interno di una ricerca sperimentale) possa poi
essere stemperata in una relazione empatica che lascia all’altro il massimo di
libertà che l’altro, in quel momento, è in grado di assumere.

Ciò significa che durante la terapia con Edoardo mi è capitato mille volte di
usare il rinforzamento , per esempio sottolineando con mia soddisfazione
i risultati positivi che, per lo più da solo, era riuscito a raggiungere. Ho usato
il modellaggio , che è consistito innanzitutto nell’evitare di fissare subito
obiettivi troppo difficili e perciò irrealistici. Ho usato le prescrizioni
comportamentali e i compiti graduati, che per lo più Edoardo, grazie alle
sue risorse e all’intesa che si era stabilita tra di noi, era in grado di darsi da
solo. Ho proposto a Edoardo l’auto-osservazione e ho lavorato con la
madre attraverso metodi di parent training (vedi riquadro sottostante): non
so quante volte ho discusso con lei il bisogno del bambino di gratificazioni e
di relazioni interpersonali; il fatto che molti suoi comportamenti aggressivi
fossero determinati dal suo sentirsi schiacciato da conflitti padre-madre più
grandi di lui; l’importanza che la mamma adottasse, per quanto possibile,
uno stile educativo basato su affetto e fermezza piuttosto che il contrario!

pag. 13

pag. 6

pag. 98

Sono intervenuto sull’ambiente scolastico, favorito dal poter lavorare con


una maestra comprensiva e collaborante (Santinello e Canna, 1998). Sono
intervenuto anche sull’autostima del bambino, sulla sua autoefficacia,
sui suoi stili di attribuzione , sui suoi pensieri irrazionali e sulle sue
emozioni disfunzionali: ma tutto questo inserito e integrato in un lavoro
basato sulla relazione di aiuto (Rogers e Kinget, 1965; Rogers, 1970;
Carchuff, 1989; Lazzari e Masino, 2007).
pag. 56

pag. 540

PARENT TRAINING
In alcune forme classiche di psicoterapia del bambino, i genitori non
vengono praticamente mai coinvolti nel processo psicoterapeutico.
Tutto il lavoro si concentra sulla relazione e sull’analisi della relazione
tra lo psicologo e il bambino. Qualcosa di simile avviene in queste
forme di psicoterapia anche nei confronti degli insegnanti, che non
vengono consultati, ma lasciati ai margini del processo di
cambiamento.
L’approccio comportamentale, invece (insieme, ovviamente, a quello
sistemico relazionale), è molto sensibile alle influenze che l’ambiente
ha sul bambino. Il terapeuta comportamentale è consapevole che per
ottenere risultati significativi e generalizzabili è necessario che alcune
procedure, alcuni stimoli e alcune strategie di rinforzamento non
vengano utilizzati soltanto nel suo studio, ma anche nell’ambiente in
cui il bambino vive. È da questa sensibilità all’ambiente naturale che
nasce il parent training, una strategia di coinvolgimento dei genitori
nel processo educativo, riabilitativo e psicoterapeutico. Gli obiettivi
fondamentali del parent training sono cinque:
1. imparare a comprendere e a circoscrivere il problema del figlio;
2. imparare che il problema può essere affrontato;
3. imparare che ci sono strategie più adeguate di altre per affrontarlo,
conoscere queste strategie, scegliere le migliori e metterle alla prova
(come si può vedere nel lavoro con i genitori di Andrea nel capitolo
7);
4. modificare l’atteggiamento verso il problema del figlio, acquisendo
la consapevolezza che le cose, entro certi limiti, possono essere
cambiate;
5. trasformare il senso di colpa (sempre in agguato tra i genitori di
bambini difficili, e spesso di origine tristemente iatrogena) in
consapevolezza che gli eventuali errori del passato possono servire
per comportarsi in modo più corretto in futuro, come si può vedere
nel lavoro con la mamma di Silvia nel capitolo 23.
Il parent training non si limita agli interventi comportamentali nei
confronti dei genitori, ma prevede anche un lavoro sugli aspetti
cognitivi (legati, per esempio, al loro senso di autoefficacia e ai loro
stili di attribuzione), e su quelli emozionali (come si può vedere nel
lavoro con la mamma di Simona nel capitolo 8 oppure, quando, nel
capitolo 11, un approccio razionale emotivo ha cambiato alcuni
convincimenti del papà e della mamma di Lorenzo sul fatto, per
esempio, di dover essere genitori perfetti). Quando il lavoro
sull’ambiente del bambino, dalla situazione familiare si estende a
quella scolastica attraverso l’applicazione di strategie psicoeducative
sempre di matrice cognitivo-comportamentale, prende il nome di
teacher training (Celi e Fontana, 2007).

E così, adesso, siamo pronti a parlarne, di questa relazione di aiuto (vedi


riquadro sottostante), dopo aver chiarito che non è necessario, e nemmeno
utile, immaginarla come una terapia che escluda tutti quegli interventi
tecnici a cui ho fatto un rapido cenno e che sono, anch’essi, tanto importanti
nei Disturbi depressivi, come si può vedere in modo più particolareggiato nel
precedente capitolo.

RELAZIONE DI AIUTO
(o approccio rogersiano, o terapia centrata sul cliente)
Nel presente capitolo è descritta in modo piuttosto dettagliato una
relazione di aiuto con Edo, bambino con Disturbo depressivo
persistente. Una caratteristica interessante di questi interventi è che
possono dare l’impressione di non servirsi di tecniche terapeutiche
specifiche. Si può pensare, per esempio, che uno psicoanalista
interpreterà i sogni di un paziente oppure, se il paziente è un bambino,
interpreterà i suoi disegni e i suoi giochi in modo da far emergere
materiale rimosso. Si può pensare che un comportamentista rinforzerà
le risposte corrette del suo paziente. Naturalmente nella pratica clinica
le cose non sono mai così schematiche, ma, in linea generale, si ritiene
che a un approccio teorico corrisponda l’utilizzo di tecniche specifiche.
Nei metodi basati sulla relazione di aiuto si può, invece, avere
l’impressione opposta: che il terapeuta proceda senza servirsi di
strumenti predeterminati, ma come navigando a vista.
Si tratta di un’impressione falsa, che coglie tuttavia un aspetto
essenziale di questo approccio: la precedenza data agli aspetti
relazionali. È come se il terapeuta dicesse a sé stesso: prima di tutto mi
sta a cuore il paziente in quanto persona, unica e diversa da tutte le
altre, e mi interessa entrare in sintonia con lui, poi si vedrà.
La relazione di aiuto è una metodologia di intervento che tende a dare
la precedenza alla costruzione di un particolare rapporto con il
paziente, detto “empatico”: cioè orientato a mettersi nei panni
dell’altro, a comprenderlo, in qualche modo a soffrire con lui. Ma non
è vero che così non si seguano regole e non si utilizzino strumenti. In
realtà questo approccio, detto anche rogersiano dal nome del suo
fondatore (Carl Rogers), o terapia centrata sul cliente, ha degli
obiettivi precisi e si serve di metodi specifici per raggiungerli. Gli
obiettivi principali di una relazione di aiuto sono tre. Il paziente:
1. dovrebbe imparare a guardarsi dentro;
2. dovrebbe imparare a comprendersi;
3. dovrebbe partire da questa comprensione di sé per agire nel modo
migliore.
I metodi principali che lo psicoterapeueta può mettere in atto sono
quattro, come di nuovo si può vedere nel presente capitolo:
1. prestare attenzione al paziente;
2. rispondere a ciò che il paziente dice, ma anche alle emozioni
sottostanti;
3. personalizzare queste risposte in modo da produrre una
comprensione empatica;
4. avviare il paziente al suo percorso di cambiamento.
Il lavoro fatto con Edo nel presente capitolo non è l’unico esempio di
relazione di aiuto che è possibile trovare nel testo. Al contrario, molte
interazioni terapeutiche, anche quando utilizzano esplicitamente
tecniche cognitivo-comportamentali di intervento, sono improntate ai
principi della relazione di aiuto, come si può vedere nel capitolo 14 nei
primi approcci tra il terapeuta e Chicco; o nell’interpretazione dei
comportamenti problematici di Eleonora nel capitolo 15; o nella
gestione di un compito graduato quando Silvia, nel capitolo 23, prova
a telefonare a Modena all’amica Sabrina.
Anche nei colloqui con i genitori è possibile vedere come l’attenzione
al rapporto sia spesso in primo piano (come nel caso della mamma di
Marco nel capitolo 1) fino, a volte, anche a stravolgere le consuete
modalità di raccolta dei dati.
Questi esempi dovrebbero servire anche a mostrare come non sia
sempre necessario interpretare le metodologie della relazione di aiuto
come tecniche a sé stanti, né, tanto meno, come modalità di intervento
che, per la loro non direttività, sono incompatibili con l’approccio
cognitivo-comportamentale. In realtà, ci sono modi di interpretare
l’approccio cognitivo-comportamentale particolarmente attenti alla
relazione nei quali l’integrazione con forme di terapia centrata sul
cliente può essere molto fruttuosa.

Dicevo che ci sono, in Edo, due emozioni ricorrenti, che sembrano fare da
sfondo a tutta la sua vita attuale e darle quel colore triste che accompagna le
sue giornate: la solitudine e il rimpianto.
La solitudine ha molte facce. Edo è solo, prima di tutto, perché ha perduto
suo padre. Poi è solo, perché anche sua madre non è più quella di prima:
lavora, e questo la porta spesso lontana da casa e da lui; e poi, neppure come
disponibilità personale è più la mamma a cui era abituato o che per lo meno
ora ricorda: è nervosa, preoccupata, distante e, come se non bastasse, Edo sa
benissimo che, sia pure senza volere, lui è in parte responsabile di questo,
con i suoi scoppi di collera, con i suoi cali di rendimento scolastico, con le
sue crisi di pianto. Infine, è più solo anche in classe, con i suoi amici che non
ha più voglia di frequentare, e persino con le sue maestre rischierebbe di
restare isolato perché capita, purtroppo, a tutti, a meno che non stiamo molto
attenti e non impariamo a guardarci dentro e a non rispondere in modo
troppo impulsivo alle nostre emozioni, di allontanarci un po’ da chi non ci dà
più le soddisfazioni di una volta. Edoardo, certo, in questo ultimo anno, non
ha più dato alle maestre (come alla mamma, come agli amici) le
soddisfazioni di una volta: meno male che in questo caso specifico le
maestre sono in gamba, hanno capito e cercano di stargli vicino.
Il rimpianto è il risultato di tutte queste nuove solitudini. Edo mi racconta
di quando era piccolo, e la domenica, in estate, qualche volta andavano al
mare tutti insieme, il papà, la mamma e il fratello grande. Ricorda ancora
che aveva un costumino giallo e si domanda che fine avrà fatto quel
costumino, ma io penso che si stia domandando dove sono andati a finire
tutti quei giorni sereni. Penso anche che molti di questi ricordi, come quasi
sempre succede, siano colorati da una luce idealizzata e un po’ irrealistica,
perché la mamma mi ha detto più volte che la loro vita familiare non è mai
stata molto serena, che il padre era a volte violento e spesso assente, ma
certo adesso va peggio e il meccanismo del rimpianto funziona proprio così:
seleziona le parti migliori del passato, le confronta con il grigio dell’oggi e
fa da anticamera alla depressione.
Un approccio terapeutico centrato sulla relazione di aiuto consiste
proprio, prima di tutto e forse principalmente, nel far emergere questo
insieme di emozioni. Non è facile per un bambino raccontare certi
sentimenti. Forse, ancora più in profondità, non è facile neppure rendersi
conto di averli.
Il primo passo per il terapeuta consiste dunque nel mettersi lì, sereno per
quanto è possibile, e prestare attenzione alle parole del bambino che ha di
fronte. Questo rappresenta l’embrione dell’empatia. Io sono qui. Sono qui
per ascoltarti, qualunque cosa tu abbia voglia di dire. Quello che mi racconti
mi interessa ed è per questo che resto molto in silenzio e ti guardo negli
occhi e ti dò (quasi: cerchiamo di evitare di cadere noi per primi nei pensieri
irrazionali del terapeuta perfetto) tutta la mia attenzione e (quasi) nulla di
quello che dirai mi scandalizza, mi fa schifo, suscita in me critiche violente o
giudizi negativi che possano bloccare il tuo desiderio di parlare con me, di
raccontarmi le tue storie, i tuoi pensieri, le tue emozioni. Questo
atteggiamento farà raccontare al bambino più cose di quanto lui stesso
avrebbe mai pensato e previsto.

Il secondo passo, per il terapeuta, è quello di rispondere a questi racconti, a


queste storie, a questi pensieri, a queste emozioni. A volte basta poco per
rispondere, per ribadire: “Stai tranquillo che ti sto ascoltando e, se ne hai
voglia, puoi andare avanti”. Di rado servono grandi discorsi. Spesso i lunghi
e dotti discorsi uccidono l’empatia che stava cominciando a nascere, di cui
l’altro aveva tanto bisogno. Durante il primo colloquio, se ricordate, ho
chiesto a Edoardo se avesse voglia di parlarmi del suo papà. Questa è stata la
nostra brevissima interazione:
“Sì, lo vedo ogni quindici giorni e a volte ci sono delle tensioni”.
“Tensioni?”.
Brevissima, ma sufficiente per aprire un nuovo canale di comunicazione:
“A volte, di sabato, quando dormo da lui, piango di nascosto pensando
alla mamma…”.

Faccio una piccola digressione che mi sembra utile in questo contesto.


Ricordo una mia esperienza di supervisione a un gruppo di infermiere
pediatriche in tirocinio in un reparto di cardiochirurgia infantile. Parlavamo
dell’empatia e della relazione di aiuto. Discutevo del fatto che spesso la fase
dell’ascolto e quella successiva, della comprensione (che vedremo tra un
momento), sono particolarmente delicate. Sembra che basti così poco per
tenere aperta una comunicazione, e invece spesso noi tendiamo a mettere in
atto delle barriere: per ignoranza, ma ancora di più per un nostro bisogno.
Una ragazza portò un esempio.
“Sono nel corridoio di fronte alla porta di ingresso della sala operatoria”,
mi disse. “La mamma di un bambino che è entrato da ore passeggia su e giù
e ogni tanto mi lancia uno sguardo. A un certo momento sembra farsi
coraggio, si avvicina e mi chiede:
“Durerà ancora molto l’intervento?”.
Dissi alla tirocinante che mi sembrava un buon esempio e discutemmo in
quanti modi si possa rispondere a questa domanda. Naturalmente si possono
dare delle non-risposte: “Non ne ho la minima idea”, “Non vede che ho da
fare?”. Ma fin qui è troppo facile capire che certe risposte bloccano la
comunicazione e uccidono l’empatia prima ancora che sia nata. Più difficile
è rendersi conto subito (fin che siamo in tempo) che anche certe risposte, che
sembrano formalmente ineccepibili, non comunicano una comprensione
empatica e interrompono quindi la relazione di aiuto.
Un’infermiera neodiplomata, fresca di studi e apparentemente sicura di
sé, potrebbe rispondere:
“Interventi di questo genere hanno una durata media di tre ore e mezzo,
ma non sono rare le complicanze che possono portare la durata anche oltre le
cinque ore”.
È una risposta, questa?
Sì, secondo la definizione di risposta di un qualsiasi dizionario di italiano
lo è.
Rappresenta, però, una comprensione empatica, che comunica all’altro
“Ti ho ascoltato con attenzione, credo di aver capito che cosa, proprio tu,
proprio in questo momento, mi volevi dire e sono interessato ad ascoltarti
ancora”?

Direi proprio di no. Una risposta di questo genere produrrà, probabilmente,


in quella povera madre angosciata un’ultima, flebile, interazione verbale:
“Grazie”.
E la relazione d’aiuto risulterà chiusa, finita, esaurita.
Durante quella supervisione discutemmo anche perché ci capita di dare
risposte che scoraggiano la prosecuzione di una relazione di aiuto e
scoprimmo che, a volte, lo facciamo per noi stessi. Per far vedere che siamo
bravi (io conosco alla perfezione la durata media di tutti gli interventi di
cardiochirurgia pediatrica); perché abbiamo bisogni nostri che sono più
importanti di quelli degli altri (chiudiamola qui, che ho un sacco di cose da
fare prima che finisca il turno); oppure, ed è un’eventualità più insidiosa e
più frequente di quanto non siamo disposti ad ammettere, perché non
saremmo in grado di reggere all’emozione e all’angoscia che emergerebbero
se andassimo avanti nella relazione. Vi sono molte altre barriere alla
comunicazione e alla relazione di aiuto, ma questa è forse la più importante;
forse quella giovane infermiera pediatrica aveva paura di ciò che avrebbe
potuto raccontare la madre: l’abisso di disperazione per un figlio gravemente
cardiopatico, il fantasma della morte di un bambino… Così si è rifugiata
dentro il suo sapere professionale e si è salvata.
Alla fina di questa discussione, le tirocinanti mi chiesero:
“E allora che cosa avremmo dovuto rispondere?”.
Io non so che cosa avrebbero dovuto rispondere in quel caso. Nessuno
può saperlo con certezza, perché non esistono due interazioni uguali, che
abbiano lo stesso significato e sottintendano lo stesso bisogno. Però,
possiamo almeno imparare a evitare gli errori più grossolani che bloccano la
comunicazione e provare a comprendere il significato che in quel momento,
per quella madre, aveva quella domanda.
La madre voleva veramente conoscere la durata media dell’intervento di
cardiochirurgia a cui suo figlio era sottoposto? Non è più probabile che
volesse qualcosa d’altro? Si sarebbe allora potuto tentare di comprendere
questo “qualcosa d’altro” e di assecondarla.
“Durerà ancora molto l’intervento?”.
“È difficile, vero?, stare qui fuori, senza avere notizie di ciò che sta
succedendo di là…”.
“È dura, è dura: se sapesse, noi veniamo da un paesino vicino Napoli e il
nostro dottore ci ha mandato quassù perché ha detto che era l’unica speranza
per il nostro Stefano… E qua non conosciamo nessuno…”.
Forse i guardiani della purezza del setting psicoterapeutico si
scandalizzeranno all’idea che si possa fare una psicoterapia nel corridoio di
un ospedale, davanti alla porta della sala operatoria (e, per di più, da parte di
una infermiera tirocinante!) e, probabilmente, hanno ragione. Allora non
chiamiamola psicoterapia. Però, sono tanti i modi per dare un po’ di sollievo
a un essere umano.
Il terzo passo del processo della relazione di aiuto consiste, dunque, nel
personalizzare la risposta da dare dopo l’ascolto, e nel produrre così una
comprensione empatica. Torniamo, a questo punto, al dialogo con Edo.
“Sì, lo vedo ogni quindici giorni e a volte ci sono delle tensioni”.
“Tensioni?”.
“A volte, di sabato, quando dormo da lui, piango di nascosto pensando
alla mamma…”.
“Ti viene nostalgia della mamma…”.
“Mi viene voglia di telefonarle, di farmi venire a prendere, anche se è
notte”.
“E di notte non puoi chiamarla”.
“No, tante volte non posso chiamarla nemmeno di giorno, perché il papà
non vuole, si arrabbia, mi urla, mi giura che allora, se faccio così, non ci
vedremo mai più”.
“Sei molto arrabbiato con il tuo papà”.
“Tanto. E con la Mirka ancora di più”.
Con bambini piccoli, che non riuscirebbero a usare il linguaggio verbale
come strumento di comunicazione a questo livello, si possono raggiungere
obiettivi analoghi attraverso una terapia di gioco. Giocando, a volte con
giocattoli di loro scelta, altre volte con figurine messe a punto dal terapeuta
(per es., per favorire il riconoscimento delle emozioni), più spesso con
burattini, è possibile aiutare il bambino piccolo prima ad analizzare e poi a
comprendere alcuni suoi problemi e alcune sue emozioni e a modificare, di
conseguenza, convinzioni e comportamenti. La cosiddetta “terapia di gioco
cognitivo-comportamentale” permette anche l’apprendimento di abilità di
problem solving e di coping (affrontare in modo più adeguato la rabbia,
la frustrazione, la tristezza).

pag. 328

Un bambino di età prescolare, per esempio, triste a causa della


separazione dei genitori, aveva cominciato a frequentare malvolentieri la
scuola dell’infanzia, dove picchiava i compagni e rischiava di restare
emarginato dal gruppo; talvolta, cercava anche di aggredire la madre.
Durante le sedute di gioco fece le stesse cose con i burattini e allora il
terapeuta gli insegnò a far verbalizzare ai burattini le loro rabbie e le loro
frustrazioni, piuttosto che metterle in atto. Il bambino arrivò a far
verbalizzare a un burattino che aveva voglia di picchiare la mamma: “Ho
paura che tu mi lasci”, e questo permise al terapeuta di lavorare su questa
paura e di mostrare al bambino che poteva esprimerla, invece di restarne
prigioniero. Il bambino imparò a relazionare diversamente con la madre e
anche le maestre riferirono un netto miglioramento comportamentale (Knell,
1998; Fristad, Verducci, Walters e Young, 2009).
Edoardo, naturalmente, sia per l’età sia per le sue ottime capacità
linguistiche e la sua generale maturità, non aveva nessun bisogno di ricorrere
a metodi diversi da quelli della comunicazione verbale, ma il processo della
relazione di aiuto non è stato molto diverso.
Il quarto e ultimo passo di questo processo, infatti, consiste proprio
nell’iniziare il cambiamento. Quando il bambino impara a guardarsi dentro e
a comprendersi, allora anche i suoi comportamenti possono modificarsi,
migliorare, diventare più adeguati, più ragionevoli, più adattivi, meno
impulsivi. Durante le nostre sedute sono emersi molti fatti ma anche molte
emozioni, e su queste emozioni, in particolare, abbiamo lavorato.
Parlavamo del padre che non lo chiama e non si fa trovare al cellulare, e
di che cosa questo significa per lui e di come poteva affrontare questi
momenti difficili.

Parlavamo della madre che perde la pazienza per nulla e lo sgrida per tutto.
Edo riusciva a rendersi conto che ciò avveniva, in parte, anche a causa sua.
Capiva che avrebbe potuto essere più ubbidiente perché a volte, quando fa
così, merita di essere sgridato. Ha imparato anche a dirmi che stava male per
questo, che si sentiva la colpa addosso e forse alla fine reagiva contro la
madre per non pensare.
Abbiamo parlato ancora del padre: di quando fece la Prima Comunione e
lui non comparve nemmeno un momento, nemmeno in chiesa, nemmeno per
un saluto. È riuscito a dirmi non soltanto come si era sentito in quella
giornata tristissima, ma anche come si sentiva certe volte, quando avrebbe
voluto dirgli che cosa pensava di lui. Quando avrebbe voluto dirgli in faccia
che era uno stronzo e che lui il sabato e la domenica a casa sua e della Mirka
non ci voleva più andare. Abbiamo scoperto insieme che, a volte, ne
combinava una delle sue e poi si chiudeva in camera da solo perché avrebbe
voluto dire certe cose a suo padre (e anche a sua madre) e non ci riusciva.
Abbiamo scoperto insieme come questo lo facesse sentire schiacciato.
Abbiamo lavorato anche su qualche minima abilità assertiva e di
comunicazione, per lo meno nei confronti della madre, alla quale sentiva di
poter trovare il coraggio di dire certe cose.
Abbiamo parlato del fratello lontano, e della nipotina che avrebbe tanto
voluto vedere. Abbiamo cercato, per la verità senza trovarne, soluzioni
anche a questo problema.
E poi abbiamo parlato della scuola, delle note di comportamento che gli
affibbiavano, di che cosa gli succedeva dentro quando non riusciva più a
controllarsi e di come reagiva poi a casa, spesso disperandosi e chiudendosi
in camera. In quel caso siamo riusciti a trovare insieme qualcosa di diverso
da fare, dopo aver compreso i meccanismi che lo portavano a sentirsi così.
Siamo, in sostanza, riusciti a iniziare un percorso di cambiamento.
Non parlavamo soltanto durante la seduta. Parlavamo anche a distanza,
attraverso un semplice diario che avevamo chiamato “dei fatti brutti e belli”,
che lui teneva e sul quale mi raccontava ciò che gli succedeva e ciò che
provava.
Spesso veniva in seduta con le figurine dei Pokemon. Aveva voglia di
giocare con me. Poteva essere un modo per non affrontare argomenti di cui
si vergognava o che erano troppo dolorosi. Oppure poteva essere un bisogno
di consolidare la relazione, di fare insieme a me proprio quelle cose che gli
piacevano di più. Cercavo di fargli notare queste diverse possibilità. Ne
parlavamo insieme.
Altre volte riusciva a portarmi, come un regalo, una bella notizia, una
giornata serena, spensierata, forse persino felice, come la gita scolastica al
Museo Egizio di Torino, dove si era comportato bene e divertito tanto e
aveva assaporato con gli amici una gioia antica di stare insieme che non
provava da tempo. Cercavo di ricambiare, come potevo, questi regali.
Durante una seduta particolarmente profonda mi ha raccontato –
l’impressione per me è stata quasi che mi confessasse – il desiderio che a
volte lo prendeva, e per il quale poi si vergognava e si dava dello stupido,
che la mamma e Mirka diventassero amiche. Abbiamo lavorato a lungo su
ciò che questo poteva significare, sui suoi dubbi, sui suoi bisogni inespressi.

Durante quella stessa seduta mi ha detto:


“Cento volte, quando sono a letto, penso: ma chi ce l’avrà la ragione, la
mia mamma o il mio babbo?”.
Durante quella stessa seduta ha eseguito un gioco di frasi da completare:

“Io mi chiamo… Edoardo e a scuola… sono un po’ duro”.


“La domenica…, quando non ho da fare i compiti o da studiare, vado alla
messa”.
“Oggi… è lunedì e sono dal Dottor Fabio Celi perché ho dei problemi di
famiglia”.
“La cosa che mi fa più arrabbiare o diventare triste… è che mio babbo
non mi chiama”.
“La cosa che mi rende più felice è… quando rivedrò mio fratello”.
“Io, quando sono solo…, gioco alla PlayStation e penso alla mia mamma
che pensa al mio babbo e dice sempre chissà dove sarà e cosa starà facendo
adesso”.
“Il mio desiderio più grande… SE LA MIA FAMIGLIA SI
RIMETTESSE INSIEME (scritto in stampatello maiuscolo, in rosso, a
caratteri cubitali)”.

Durante quella stessa seduta ha voluto disegnarmi di nuovo la sua famiglia


(vedi fig. 9, Tavole a colori). Mi ha chiesto di non guardare. Ha diviso il
foglio in due. Da una parte ha disegnato lui e la madre che, con i fumetti, si
dicevano qualcosa. Dall’altra solo suo padre, con le corna di un bue, che
muggiva. Poi ha scritto velocemente qualcosa sul retro e mi ha chiesto
precipitosamente di andare in bagno, come se avesse voluto scappare. Dietro
il disegno c’era scritto: “Fabio, grazie con tutto il cuore”.
Parte settima

Gli altri bambini

Problema relazionale: v. capitolo 25


DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Problemi relazionali – Problema relazionale genitore-bambino (V61.20)
ICD-10: Situazioni psicosociali anomale associate – Life events acuti –
Modalità alterate di relazioni familiari (Z61.2)

Non collaborazione al trattamento: v. capitolo 25


DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Mancata aderenza al trattamento medico – Mancata aderenza al trattamento
medico (V15.81)
ICD-10: Storia personale di fattori di rischio non classificati altrove – Storia
personale di non-compliance a trattamenti e regimi medici (Z91.1)

Lutto non complicato: v. capitolo 25


DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Altri problemi correlati al gruppo di sostegno primario – Lutto non
complicato (V62.82)
ICD-10: Problemi di altro tipo correlati al gruppo primario di supporto,
incluse le circostanze familiari – Scomparsa e morte di un membro della
famiglia (Z63.4)

Problema relativo all’istruzione: v. capitolo 25


DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Problemi relativi all’istruzione – Problema relativo all’istruzione (V62.3)
ICD-10: Problemi correlati all’istruzione (Z55)
Funzionamento intellettivo borderline: v. capitolo 4
DSM-5: Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica –
Mancata aderenza al trattamento medico – Funzionamento intellettivo
borderline (V62.89)
ICD-10: v. capitolo 4, nota 5
Capitolo 25

I bambini che è difficile trovare sui


libri
Fabio Celi

Mi capita a volte, durante gli esami di psicopatologia dello sviluppo, di fare


domande delle quali poi, in un certo senso, mi pento: o per le quali sento
quasi il bisogno di chiedere scusa allo studente. Sono domande sui Disturbi
dell’adattamento (o “Sindromi da disadattamento” secondo l’ICD-10) o,
ancora peggio, sui Codici V del DSM-5.
Perché subito dopo mi dispiaccio, al punto di desiderare di giustificarmi?
Perché non ho simpatia per gli insegnanti che interrogano sulle note a piè di
pagina, che mettono gli studenti in difficoltà, che non si rendono conto che
anche la valutazione dovrebbe svolgere una funzione formativa, dovrebbe
cercare di partire dalle cose che lo studente sa, dai suoi punti di forza, da ciò
che, almeno all’inizio, può metterlo a proprio agio.
E allora, come mai mi comporto così?
Credo che ciò avvenga perché passo una piccola parte del mio tempo a
insegnare la psicopatologia dello sviluppo e una grande parte a lavorare con
i bambini in difficoltà. Così, se è vero che i Disturbi dell’adattamento e i
Codici V del DSM-5 rappresentano inevitabilmente in un manuale
argomenti secondari, se non proprio note a piè di pagina, nella pratica
clinica dello psicologo questi bambini, che è difficile trovare sui libri, sono
tantissimi, forse addirittura la maggioranza e di certo hanno tanto bisogno
del nostro aiuto.
Ma chi sono questi bambini?
Uno l’abbiamo conosciuto nel capitolo 4. È Gabriella, che ho portato
come esempio di un Funzionamento intellettivo borderline. Contro ogni
regola, le ho dedicato un intero capitolo, inserito nella sezione delle
Disabilità intellettive. Il Funzionamento intellettivo borderline non è infatti
un disturbo mentale, ma appartiene proprio a quelle condizioni che possono
essere oggetto di attenzione clinica pur senza costituire un vero disturbo e
che il DSM-5 etichetta, appunto, tra i cosiddetti Codici V. Se qualcuno
volesse farsi un’idea anche visiva di cosa intendo per “bambini che è
difficile trovare sui libri”, potrebbe andare a leggere la parte dedicata al
Funzionamento intellettivo borderline sul DSM-5. Si accorgerà così che, su
un totale di oltre 1000 pagine, sono dedicate all’argomento solo sette righe
e mezzo, inserite a loro volta in un capitoletto intitolato, appunto, “Altre
condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”, composto di
14 pagine.
Quattordici pagine in tutto: eppure torno con la memoria ai miei
ventidue anni di pratica professionale e penso a quanti ne ho incontrati di
bambini in quelle “condizioni”.
Penso, per esempio, a Nicola, che frequentava la seconda classe della
scuola secondaria di primo grado: mi venne portato dalla madre e io non
capivo neppure bene perché. La madre mi raccontò, prima di tutto e come
se questo fosse di gran lunga il suo principale problema, delle gravi tensioni
tra lei e suo marito e del lento e tristissimo logoramento del loro
matrimonio. Nicola, certo, ne risentiva, ma mi apparve subito, appena ci
incontrammo, un ragazzino normale. Aveva un livello intellettivo adeguato
all’età. Era molto sensibile, diventò in poche sedute “mio amico” (così mi
diceva sempre) e ricordo che una volta mi portò una sua poesia dove
parlava di me. Gli piaceva giocare con un puzzle di polistirolo composto
dagli animali dello zoo: ci divertivamo a farlo a turno mille volte
cronometrandoci i tempi, sfidandoci, e segnando sul retro, con un
pennarello, i nostri record. Si divertiva e parlava con me di tutto. Questo,
naturalmente, rendeva la sua relazione con me particolarmente facile (oltre
che la mia con lui), ma anche le sue abilità sociali all’esterno, per esempio
con i suoi compagni di classe, risultavano adeguate. Non aveva Disturbi da
comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta.
Non andava particolarmente bene a scuola e a casa, a volte, si intristiva un
po’: capitava allora che avesse poca voglia di vedersi con gli amici, o di
andare in palestra, o di fare i compiti. Tutto qui. Nicola è stato uno dei miei
primi pazienti, contemporaneo a Marco, il bambino di cui parlo nel capitolo
1. Eppure ricordo bene, anche se a tanti anni di distanza, i miei pensieri, le
mie emozioni e le mie difficoltà di allora. Con Marco, pur tra mille
problemi, mi sentivo relativamente sicuro. Per lo meno sapevo con chi
avevo a che fare (un bambino con Disabilità intellettiva) e dunque perché
mi occupavo di lui. Ma con Nicola? Qual era il senso delle nostre sedute?
Con i criteri diagnostici di oggi, diremmo che Nicola non aveva un disturbo
mentale. Neppure lieve, o sfumato, o transitorio, come potrebbe essere, per
esempio, un Disturbo dell’adattamento. Per una diagnosi di questo tipo gli
mancava anche una vera e propria reazione di disadattamento e persino un
fattore stressante specifico come la separazione dei genitori. Gli mancavano
manifestazioni di ansia, o umore depresso, o alterazione della condotta tali
da giustificare queste etichette. Con i criteri diagnostici di oggi, forse la
soluzione migliore sarebbe fare riferimento ai Codici V, in particolare quelli
relativi ai Problemi relazionali e, forse, al Problema relativo all’istruzione:
cioè, a una “nota a piè di pagina”. Eppure aveva bisogno di essere aiutato.
Cercai di mettermi in una relazione empatica con lui; di portarlo a chiarirsi,
insieme a me, i suoi motivi di disagio, di insoddisfazione, a volte di una
vaga tristezza. Cercai di intervenire, direttamente su di lui, sulla scuola e
sulla famiglia, per aumentare un poco la sua motivazione scolastica e il suo
rendimento.
Oppure penso, ancora solo a titolo di esempio, a Massimo, nato con una
grave malformazione fisica che l’ha costretto, fin dai primi anni di vita, a
una serie di interventi chirurgici al volto: dolorosi, terribilmente ansiogeni
per lui e per i suoi genitori, responsabili di lunghi periodi di assenza dalla
scuola e di isolamento sociale. Tutto questo, comprensibilmente, faceva
soffrire molto Massimo e la sua famiglia e credo che rendesse utile un
lavoro psicologico di counseling. Questo lavoro consisteva, a volte, solo
nello stargli vicino. Altre volte diventava un po’ più tecnico: aiutarlo a
superare certe paure, per esempio per gli aghi da endovena, che nel corso
degli anni e intervento dopo intervento hanno finito quasi per terrorizzarlo.
Così abbiamo lavorato sul rilassamento e l’immaginazione positiva, benché
Massimo non presentasse un Disturbo d’ansia. Si potrebbe discutere a lungo
sul suo inquadramento diagnostico: di nuovo rintracciabile nei Codici V, in
particolare forse nella Mancata aderenza al trattamento medico, visto che a
un certo punto non ne poteva più di iniezioni o di flebo? Oppure, meglio, in
un Disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti? Forse
questa seconda soluzione appare più ragionevole. Massimo alternava
sicuramente momenti d’ansia (soprattutto prima di un nuovo intervento) a
cali del tono dell’umore (soprattutto dopo, quando deve faticosamente
riadattarsi alla vita sociale e scolastica di tutti i giorni). Sicuramente gli
eventi stressanti ci sono, sono ripetuti nel tempo ed è ragionevole aspettarsi
che determinino condizioni croniche di disagio.
Ma, alla fine, sono veramente queste discussioni diagnostiche la cosa più
importante? Io credo che la cosa più importante sia che questi bambini, che
è difficile trovare sui libri e anche negli studi di un neuropsichiatra infantile,
perché non hanno disturbi mentali evidenti, sia invece molto facile trovarli
negli studi degli psicologi, perché hanno tanto bisogno di qualcuno vicino.
Ho cercato di stare al fianco di Massimo e dei sui genitori, di andare a
scuola per discutere con gli insegnanti cosa fare per lui al suo rientro dopo
assenze lunghe e dolorose. Spesso, spessissimo, nella mia esperienza
professionale, mi sono reso conto di come il lavoro dello psicologo clinico
dell’età evolutiva consista proprio, tante volte, nell’occuparsi delle “note a
piè di pagina”. (Così, dato che un caso me ne ricorda un altro in una catena
che potrebbe farsi lunghissima, ora Massimo mi fa venire in mente Martina,
che non ha ancora dieci anni, ma che da quasi tre è in dialisi. Qualche sua
compagna di scuola – quando Martina può andare a scuola – la invidia
perché è l’unica ad avere il cellulare e non sa che lei ha il cellulare per poter
essere rintracciata in ogni momento il giorno che, finalmente, ci sarà un
rene nuovo per lei. Io, intanto, faccio per lei e per sua madre quello che
posso, ma soprattutto penso: “In bocca al lupo, Martina, che quella
telefonata ti arrivi ancora prima che questo libro che sto finendo di scrivere
venga pubblicato”).
Penso, infine, a Francesca. Entra spaventatissima la prima volta nel mio
studio insieme alla madre, che l’aveva portata per sbaglio con sé. La madre
comincia subito a raccontarmi, con la bambina presente, del dramma,
qualche mese prima, della morte del marito, finito sotto un treno, forse
suicida. Fatico, durante quella prima seduta, a contenerla e a impedirle per
lo meno di dire, di fronte alla figlia, cose troppo drammatiche e disperate.
Seguono molte altre sedute con la bambina che, di nuovo, non presenta
disturbi mentali, né cognitivi, né comportamentali, né emozionali.
Probabilmente potrebbe essere inquadrata, tra i Codici V, nel Lutto non
complicato. Certamente le è stata utile una relazione di aiuto che la
incoraggi a parlare delle sue tristezze, a trovare qualche nuovo motivo di
gioia (una passeggiata con un’amica, l’iscrizione a un corso di chitarra, una
gita sulle Apuane con un gruppo parrocchiale) e anche il coraggio per
andare, per la prima volta, a portare un fiore sulla tomba del padre.
Nei capitoli 14, 23 e 24 abbiamo visto che cosa sono i Disturbi
dell’adattamento. I Codici V si riferiscono a situazioni ancora meno gravi,
ma vengono pur sempre definite dal DSM-5 come condizioni che possono
essere oggetto di attenzione clinica proprio per sottolineare che riguardano
persone che possono aver bisogno di aiuto.
Per lo psicologo che si occupa di bambini, forse le situazioni più
importanti sono connesse con i Problemi relazionali (soprattutto il Problema
relazionale genitore-bambino e il Problema relazionale tra fratelli); i
Problemi di maltrattamento e trascuratezza infantili; la Mancata aderenza al
trattamento medico; il Comportamento antisociale del bambino o
dell’adolescente; il Funzionamento intellettivo borderline; il Lutto non
complicato; il Problema relativo all’istruzione. Naturalmente, quando ci
sono le condizioni per una diagnosi completa di disturbo mentale, non si
usano questi codici. Per esempio, se siamo in presenza di un Disturbo da
deficit di attenzione/iperattività e da comportamento dirompente, del
controllo degli impulsi e della condotta non si farà diagnosi di
Comportamento antisociale; analogamente, di fronte a un Disturbo
specifico dell’apprendimento non si farà diagnosi di Problema relativo
all’istruzione.

Oggi Nicola, di cui ho parlato all’inizio di questo capitolo forse troppo


breve, ha trentacinque anni, lavora, ha una moglie, un figlio e un’altra
bambina in arrivo. Viene a volte a trovarmi “per amicizia” (come già diceva
quand’era un ragazzino che andava male alle medie): cioè per fare due
chiacchiere con me. Altre volte viene per un piccolo problema, per un
dubbio, per un consiglio: ne parliamo e cerco ancora, come posso, di dargli
una mano.
Mi capita con quasi tutti i miei piccoli pazienti, ma forse con questi
ancora di più, di chiedermi che cosa avrò fatto per loro, che cosa sarebbero
oggi se io non ci fossi stato. Forse in futuro dovremmo raffinare meglio le
tecniche per la valutazione dell’efficacia degli interventi psicologici. Oggi
non ho risposte a questa domanda così difficile.
Mi chiedo anche, a volte, soprattutto nei momenti di stanchezza, se non
sia meglio così. Se non resterei troppo deluso dal conoscere con precisione
quanto piccolo o irrilevante sia stato il mio contributo alla qualità della vita
delle persone di cui mi sono occupato. Poi però incontro Nicola e lo vedo,
se non altro, contento di chiacchierare ancora con me, anche delle vecchie
cose che abbiamo fatto insieme. Incontro di nuovo anche Marco, come
quando ho iniziato a scrivere questo libro. Marco è l’ex bambino del
capitolo 1, che mi racconta, con un sorriso che non sono capace di
descrivere, che alla fine, dopo tanta fatica, ha preso la patente.
E allora, se non altro, sono contento per loro.
(Ma poi, se trovo il coraggio di guardarmi dentro con un po’ di sincerità,
sono contento anche per me.)
DALLA PSICOPATOLOGIA ALL’INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

Capitolo 26

La (breve) storia di Matteo Vivere le


emozioni
Daniela Fontana, Fabio Celi

IL PRIMO COLLOQUIO CON I GENITORI

Si presentano insieme al primo colloquio la mamma e il papà di Matteo.

pag. 49

Matteo ha nove anni e frequenta la quarta classe della scuola primaria. I


genitori fanno risalire i problemi del bambino alla morte del nonno paterno,
avvenuta tre anni prima. Mi raccontano di avere detto subito a Matteo che il
nonno era malato e che avrebbe potuto morire. La malattia del nonno è
durata quasi due anni e così la morte, in teoria, ha trovato Matteo preparato.
La mamma mi dice:
“Sono stati due anni in cui Matteo ha seguito dall’inizio alla fine la
sofferenza del nonno”.
Domando ai genitori:
“E poi come ha reagito alla sua morte?”, con l’intenzione di arrivare a
farmi un’idea sui sintomi di disagio che il bambino manifesta. La risposta
che mi arriva è sintetica, ma anticipa con molta molta chiarezza quello che
più tardi potrò vedere con i miei occhi:
“Nessuna reazione immediata. Si è come gelato”.
Poi vanno avanti dicendo che ora non accetta di andare con loro al
cimitero ed è molto arrabbiato perché i genitori non lo hanno portato al
funerale. Fino a questo punto è stata prevalentamente la mamma a
raccontare, però ora il padre sente il bisogno di aggiungere qualcosa di suo:
“Alla luce di queste reazioni, se tornassi indietro io non lo porterei
ugualmente al funerale”.
Lo dice con un tono piuttosto deciso, quasi come se sentisse il bisogno di
ripristinare un equilibrio che cominciava a vacillare. Mi incuriosiscono
queste parole e cerco allora di comprendere il suo punto di vista, di capire
che cosa stia alimentando questa convinzione, di dargli lo spazio necessario
per potersi aprire e raccontare che cosa lo spaventa, che cosa teme. Il padre
mi guarda come a cercare un po’ di approvazione ad andare avanti, la trova,
e aggiunge:
“Non volevo fargli vedere il nonno morto e le mie reazioni”.

La mamma prosegue raccontando che ora Matteo le dice:


“Tu lo sai perché sono così”.
Le domando:
“Perché ora Matteo com’è?”.
“È spesso triste e chiuso”.
“E prima invece com’era?”.
“Prima non dava nessuna preoccupazione”.
Mi raccontano che a Matteo dà fastidio parlare del nonno e proprio non
vuole ascoltare quando in casa si prova a parlarle di lui. Sostengono che “il
bambino non ha superato il lutto”.
Ci sono momenti nei quali al terapeuta è richiesto un certo coraggio.
Naturalmente, come sapeva bene già Aristotele oltre due millenni fa, il
coraggio è una virtù che deve sempre guardarsi dal pericolo di diventare
imprudenza e anche lo psicoterapeuta può sottovalutare questo pericolo e
sbagliare. Ma, sempre per dirla con il filosofo greco, il coraggio deve fare
anche i conti con la vigliaccheria, e riuscire, se vuol rimanere una virtù, a
tenersi in una posizione mediana. Di fronte all’osservazione dei genitori
secondo i quali il figlio non avrebbe superato il lutto, ho pensato che
valesse la pena di avere un po’ di coraggio, che in psicoterapia significa
spesso scuotere il paziente, o, come dicono i cognitivisti, perturbarlo. Per
fare questo bisogna scegliere il momento, e, almeno in teoria, aver chiaro
che questa scossa non deve servire per provocare dolore fine a sé stesso, o
una confusione che porterà il paziente a non capire più nulla. Al contrario
(questo sta diventando il capoverso dei filosofi greci) deve essere come la
torpedine del metodo maieutico di Socrate, che dava una scossa ai suoi
allievi perché questi si rendessero conto di qualcosa che non andava nei
loro ragionamenti e, da lì, cominciassero a vedere una verità nuova.
I cognitivisti (Veglia, 1999; Lambruschi, 2014; Bara, 2005-2006)
chiamano tutto questo “perturbazione strategicamente orientata”. Provo
dunque a perturbare i genitori e, di fronte all’osservazione che Matteo non
ha superato il lutto, li provoco con una domanda un po’ forte:
“E voi l’avete superato?”.
Il padre mi guarda. Sembra riflettere. Sembra che la scossa elettrica della
torpedine sia andata a segno. Mi risponde di non aver pianto quando è
morto il padre e di non averlo mai fatto neanche dopo. Poi aggiunge:
“Mia moglie invece sembrava più spaventata”, e lo dice con un tono di
lieve critica per le reazioni di lei. La mamma di Matteo si inserisce nel
discorso:
“Io ho pianto tante volte e adesso spiego al bimbo che è naturale
piangere”.
“E lui come reagisce?”.
“Non vuole sentirne parlare. Va giù in cortile e gioca con gli amici”.
Già da questa iniziale interazione è evidente come i genitori di Matteo
abbiano diverse modalità di gestire le proprie emozioni, due modi molto
distanti l’uno dall’altro: il padre non si concede di piangere la morte di suo
padre e attribuisce ai pianti materni una connotazione negativa, di spavento,
come a sottolineare una debolezza di lei che invece si lascia attraversare
dalle lacrime e ritiene questa una cosa normale. E si comincia già a
intravedere la difficoltà di Matteo a stare in mezzo ad alcune emozioni da
cui scappa frettolosamente, perché, forse, guardarle gli fa troppo male.

Il colloquio prosegue e i genitori descrivono Matteo come leader:


“Ha amici dappertutto fuori casa, a scuola, è lui che comanda, tutti lo
cercano, molto più del fratello”.
“Quanti anni ha il fratello?”, domando.
“Quattordici”, risponde la mamma e aggiunge immediatamente: “Lui ha
pianto subito”.
Non emerge nessun altro problema nella ricostruzione della storia e dai
dati anamnestici raccolti, a parte un vomito comparso da qualche mese. Il
sintomo si manifesta quasi tutte le mattine (ma solo nei giorni feriali) e il
pediatra lo ha definito “vomito psicogeno”, intendendo con questa
espressione che il disturbo non ha nessuna causa organica, ma sembra il
frutto di un disagio di natura psicologica. I genitori di Matteo attribuiscono
questo problema all’apparecchio per i denti che il bambino porta da qualche
mese, ma ipotizzano anche che possa in qualche modo essere collegato a
una certa sofferenza per una nuova insegnante che al bimbo proprio non
piace. Infatti, pare che diversi suoi compagni, come lui, stiano manifestando
disagi come mal di testa e mal di pancia durante le ore di questa nuova
insegnante.
Raccolgo velocemente qualche informazione sulla famiglia: il padre è
segretario di una azienda dove lavora part-time solo il mattino, mentre la
madre gestisce in proprio una gelateria ed è molto più impegnata del marito.
Matteo passa dunque gran parte del suo tempo con il papà, con il quale ha
un legame preferenziale, tanto che avrebbe già chiarito che se i genitori un
giorno dovessero divorziare lui starà con il padre. La mamma si descrive
come una persona molto emotiva e racconta di aver sofferto molto quando
la madre di lei se ne è andata di casa per stare con un altro uomo in America
del Sud e non è mai più tornata. Matteo avrebbe espresso più volte il
desiderio di conoscerla e lei gli ha spiegato che sarà molto difficile che
questo sogno si possa realizzare perché sono anni che non hanno più sue
notizie.
Non emergono disturbi mentali in famiglia né da parte della madre né da
parte del padre.
Mi avvio verso la conclusione del colloquio spiegando come di solito
funziona la prima seduta con il bambino. Mentre parlo, però, mi accorgo
che il padre di Matteo mostra inaspettati segnali di ansia che raccolgo e gli
rifletto:
“Mi sembra di sentirla un po’ preoccupato…”.
Emerge la paura da parte del padre che il bambino, che ha descritto fino
a un attimo prima come adeguato e maturo, non sia all’altezza della
situazione e in particolare che possa piangere se rimarrà da solo in seduta.
Gli dico che se il bambino lo desidera o mostrerà di averne bisogno, il padre
potrà entrare nello studio con me. Il padre si mostra molto rassicurato e
rasserenato da questa soluzione, che tra l’altro utilizzo in modo routinario
con tutti i genitori per prepararli al momento in cui incontrerò i loro figli.

L’INCONTRO CON MATTEO

Così arriva il giorno in cui conosco Matteo.


Lo vedo nel corridoio pronto a entrare da solo, mentre il padre rimane
fuori con l’aria un po’ dispiaciuta di chi si sente escluso.
Il primo approccio con il bambino è particolarmente facile: Matteo è
estroverso e sembra a suo agio nello studio, nonostante sia solo. Gli faccio
scegliere se vuole fare un gioco, un disegno, oppure se preferisce
cominciare chiacchierando, e lui sceglie di farmi un disegno di lui al mare
(fig. 26.1), nello stabilimento balneare che frequenta durante l’estate.

Figura 26.1 Il primo disegno di Matteo.


Mentre disegna parla con me e a un certo punto, alla mia domanda
“Dov’è la mamma?”, mi risponde:
“È al cimitero…”, e subito dopo aggiunge: “Ma io non ci voglio andare”.
Colgo l’occasione per fermarmi un attimo e raccogliere quella che mi
sembra una buona apertura rispetto al problema per il quale mi è stato
portato e gli chiedo se sa il motivo per cui è venuto da me. Matteo mostra
su questo una piena consapevolezza:
“Sono qui per la morte del nonno”.
Manifesto la mia soddisfazione per la sua capacità di raccontare e poi
cerco di farlo parlare liberamente per conoscere i suoi interessi e le cose che
gli piacciono e quelle che non gli piacciono e, più in generale, per cercare di
stabilire con lui una relazione significativa.
Mi racconta del fratello con il quale litiga spesso, della sua passione per
il tennis e per il calcio, dei giochi che ama fare con gli amici, come
nascondino e palla avvelenata quando fuori c’è bel tempo, della PlayStation
quando è costretto a stare chiuso in casa e del wrestling cha ama guardare in
televisione.
Decido allora di ritornare sulle emozioni e gli chiedo se mi sa trovare
delle situazioni in cui si è sentito allegro e contento. Ci pensa un po’, poi mi
dice:
“Qui ora”.
Un bel modo per iniziare una relazione in prima seduta, penso. Matteo
aggiunge:
“A giocare con la PlayStation e a guardare i cartoni animati”.
Lo rinforzo per questa sua capacità di raccontarsi. Il bambino va avanti:
“A giocare a pallone con i miei amici in piazza Pellerano. Al mare”.
Mi sembra che stiamo andando molto bene. Allora provo adesso a farmi
raccontare episodi in cui si è sentito triste:
“Quando mi si è rotta la bici”.
E poi:
“Quando ho avuto la varicella”.
Aspetto per vedere se riesce a trovare episodi più significativi, ma ora lo
sento faticare. Durante tutto questo primo colloquio, ma in particolare
quando tocchiamo punti significativi, Matteo giocherella un po’
nervosamente con gli oggetti che trova sulla scrivania. Giocherella per non
guardare, per non sentire, per non soffrire: il suo disagio è palpabile.
UNA PSICOTERAPIA SENZA AGGETTIVI

Interrompo in questo punto la storia di Matteo per raccontarne una mia.


Quando abbiamo deciso di inserire in questo testo di psicopatologia dello
sviluppo anche capitoli dedicati dalla psicoterapia, sono stato a lungo
incerto se e come modificare il sottotitolo. La logica avrebbe voluto che,
accanto a “storie di bambini”, ci fosse scritto “e psicoterapia cognitivo-
comportamentale”. Questa scelta sarebbe stata abbastanza coerente con il
racconto delle storie di Patrizia, di Giulio, di Stefano, di Enrico e forse
anche di Aurora. Ma se il lettore avrà voglia di andare avanti con la storia di
Matteo si accorgerà che ben difficilmente il lavoro fatto con lui può essere
etichettato come cognitivo-comportamentale. In realtà, cosa abbiamo fatto
insieme, lungo le cinque sedute che saranno descritte più avanti?
Abbiamo parlato, abbiamo tirato fuori e raccolto emozioni: allora si
trattava di una psicoterapia rogersiana? Ci siamo reciprocamente, più volte,
anche attraverso errori che non sono riuscito a evitare, perturbati, e in
questa perturbazione è entrato prepotentemente anche il papà, come
vedremo tra poco: era forse una psicoterapia cognitiva? Oppure, dal
momento che la parte più significativa della strada l’ha percorsa Matteo da
solo, facendo ricorso alle sue straordinarie risorse interne, il nostro è stato
un lavoro costruttivista? In una seduta indimenticabile Matteo ha persino
fatto libere associazioni tra il suo vomito psicogeno e l’intolleranza del
padre per i crostacei: che, inconsciamente, io sia diventato un freudiano?
La risposta è che non lo so.
Vado oltre: la vera risposta è che sono contento di non saperlo. Abbiamo
alla fine deciso di sottotitolare questo libro Storie di bambini e di
aggiungere, semplicemente, la parola “psicoterapia” senza aggettivi.
Qualcuno penserà che questa mancanza di aggettivi sia una resa. Il mio
punto di vista è che si tratta di un sogno. So bene che la sua realizzazione,
se mai avverrà, è molto lontana. Ma il sogno è proprio quello di una
psicoterapia tanto rispettosa nei confronti del paziente e delle conoscenze
teoriche e tecniche della ricerca, quanto indifferente alle idiosincrasie e alle
ossessioni delle varie scuole. Non esiste una terapia medica ippocratica, o
pasteuriana o fleminghiana. Credo che da un’analoga perdita di aggettivi,
anche la psicoterapia potrebbe avere molto da guadagnare.
Durante questo primo colloquio, dunque, sento che ci sono temi
particolarmente significativi che sembrano far male a Matteo, che infatti in
certi momenti giocherella nervosamente con gli oggetti che trova sulla
scrivania o si agita sulla sedia: come dicevo, probabilmente per non
guardare, per non sentire, per non soffrire.
Io però provo ad andare avanti prestandogli le parole per entrare in pieno
dentro questo tema che visibilmente lo fa star male:
“… Forse sei triste anche quando pensi al nonno”.
Segue un po’ di silenzio, Matteo abbassa gli occhi e tocca diversi oggetti
sulla scrivania, proprio come sentisse il bisogno di occuparsi d’altro.
”Ti viene in mente qualche ricordo del nonno?”.
Matteo, sempre più irrequieto con le mani, dice:
“Quando giocavo con lui e quando gli ho fatto vedere che sapevo andare
in bicicletta”.
“Sei bravissimo, Matteo. Mi sapresti dire se ci sono momenti in cui ci
pensi di più?”.
“Quando è Natale”.
“Quando è Natale cosa fai?”.
“Mi sdraio e penso”.
Mi racconta poi dei due nonni che gli restano; io lo ascolto e alla fine
aggiunge anche che ha una nonna che però se ne è andata lontana e che lui
vorrebbe conoscere anche se gli hanno detto che è una cosa impossibile.
La seduta volge al termine, mentre mi accorgo di provare una certa
soddisfazione per le cose che sono emerse con Matteo. La sensazione è che
lui abbia sinceramente voglia di affrontare il problema che lo fa stare male,
ma che il suo vocabolario emotivo sia molto povero. A un certo punto,
mentre chiacchieriamo, gli chiedo se sa dirmi il nome di qualche emozione
e lui mi dice di no, che non le conosce. Allora provo ad aiutarlo dicendogli:
“Felicità è una emozione. Te ne vengono in mente altre?”, ma lui non sa
(o non vuole?) proseguire. Il suo vocabolario emotivo è povero, ma ancora
prima la mia sensazione è che abbia bisogno di prendere contatto con
alcune emozioni, soprattutto quelle negative come la tristezza.
Finiamo la seduta con un gioco al computer che Matteo fa con grande
piacere e divertimento: si tratta di un flipper elettronico che finirà per
diventare un protagonista della nostra breve storia.
IL SECONDO COLLOQUIO

Durante la settimana la tirocinante specializzanda1 che ha seguito insieme a


me il colloquio con i genitori e il primo colloquio con il bambino mi aiuta
preparandomi con molto scrupolo del materiale che riteniamo potrà esserci
utile nel lavoro. In particolare, mi ritrovo in cartella, pronte per l’uso, un
buon numero di schede tratte da un lavoro classico di Di Pietro (1999) sulle
emozioni. È interessante, e molto significativo della mia storia con Matteo,
il fatto che non ne userò mai nemmeno una. Sono ancora tutte lì, intonse,
nella vecchia cartella che ho ripreso in mano per preparare questo capitolo.
C’è invece un’altra pagina che la tirocinante mi ha preparato e che si
rivelerà utilissima: è un foglio scaricato da Internet che riporta tutte le
istruzioni necessarie per giocare con competenza al flipper elettronico. Ma
la mia scrupolosa tirocinante ha fatto ancora di più per prepararsi alle
sedute successive con il bambino. Durante la settimana ha chiesto a un
amico esperto di giocare con lei a flipper con il computer, in modo da
prendere la mano con il gioco.
Tutto questo mi sembra una metafora di alcuni significati profondi della
psicoterapia. La psicoterapia, infatti, non è solo applicazione di metodi: e a
volte, come in questo caso, non lo è affatto. È anche interesse per gli
interessi e per la vita dell’altro.
Al secondo incontro Matteo entra sempre senza il padre chiedendo fin da
subito di fare un’altra sfida al gioco al computer con cui la volta scorsa ci
eravamo salutati.
Gli dico che certamente l’avremmo fatta e che sono giorni e giorni che la
mia specializzanda e io ci stiamo preparando per poterlo sconfiggere.
Matteo ride, si siede e cominciamo a chiacchierare. Intanto disegna (fig.
26.2).
Figura 26.2 Matteo disegna un delfino durante il nostro secondo colloquio.

Gli chiedo come è andata la settimana e lui mi risponde:


“Bene!”, cominciando a giocherellare con gli oggetti che trova sulla
scrivania e a muoversi sulla sedia.
Gli chiedo di raccontarmi una cosa bella che gli è successa.
Lui ci pensa un po’ e poi, con l’aria furba, mi risponde:
“Una mia amica si è fatta male a un braccio”.
“È una cosa bella?”.
“Io la odio”.
“Ah, allora capisco!”, gli rispondo; e insieme ridiamo di questo.
Gli chiedo poi di pensare a situazioni in cui si è sentito triste o
arrabbiato; lui mi risponde frettolosamente che non gli è mai successo,
quasi a voler chiudere il discorso. Lo sento sfuggente, come se non si
volesse aprire. Per un attimo mi viene in mente di tirar fuori le schede di
educazione emotiva di Di Pietro. Poi ci ripenso. Riprendo in mano i miei
appunti e con un tono di voce basso e caldo, lentamente, gli ripropongo il
ricordo del suo nonno che lui mi aveva riportato la scorsa volta, quello in
cui loro due giocavano insieme.
Matteo mi guarda e mi ascolta e ora mi sembra proprio che stia
ripensando al nonno. Segue un po’ di silenzio. Di nuovo mi guarda. Cerco
di incoraggiarlo con un cenno del capo e lo invito a raccontami un altro
ricordo.
“È Natale…” (trovo impressionante quest’uso del verbo al presente, come
se avesse di nuovo la scena davanti a sé, viva), “Lui arrivava con la vespa e
il carretto dietro. Era vestito da Babbo Natale e il carretto sembrava la slitta
ed era pieno di regali”.
Lo ascolto. Sento che questo ricordo così caldo e dolce mi commuove.
Matteo si muove molto sulla sedia, ma mantiene il contatto oculare e mi
parla di questo ricordo con un’ombra di sorriso sulle labbra.
Lo guardo in silenzio. Sono certo che ha colto il mio interesse e le mie
emozioni.
Poi, dopo poco, del tutto spontaneamente, arriva un secondo ricordo:
“Ero piccolo, andavo ancora all’asilo. Il nonno mi veniva a prendere
all’uscita verso le quattro… Sai dove? All’asilo dell’Immacolata, quello
vicino al fiume…”.
Faccio cenno che ho capito benissimo di quale asilo si tratta e che può
continuare. La sensazione, netta e per certi versi impressionante, è che sia
stato tolto un tappo e adesso tutto possa fluire, tutto possa succedere.
“Ero così contento quando lui mi veniva a prendere…”.
“E cosa facevate insieme?”.
“Se c’era un po’ di sole mi portava sull’argine del fiume,
chiacchieravamo, mi insegnava a lanciare i sassi il più lontano possibile e
guardavamo i vecchietti che pescavano o giocavano a carte sotto una
baracca”.
Lo vedo molto coinvolto nel ricordare il suo nonno e ho l’impressione
che sia quasi stupito di aver ripescato nella sua memoria e nel suo cuore
questi ricordi e ancor di più di riuscire a raccontarli.
Intanto mi accorgo che la tirocinante che è nello studio con me ha gli
occhi umidi per l’emozione: lo faccio notare a Matteo con l’intento di fargli
vedere che ci si può commuovere, ci si può emozionare, e in certe occasioni
si può anche piangere.
Matteo la guarda. Ha due occhietti vispi che adesso, nello scrivere queste
parole a distanza di anni dall’episodio, ritrovo intatti nei miei ricordi.
Quando il bambino scopre la commozione negli occhi della tirocinante mi
torna a guardare con il sorriso sulle labbra come a dire “allora si può!”, e
poi mi scruta come a cercare anche nel mio volto qualche analoga reazione.
Gli dico che sono commosso anch’io, che se fa attenzione può vedere
che anch’io ho gli occhi più lucidi rispetto a prima e la voce un po’ rotta.
Mi ascolta incuriosito, con il sorriso sulle labbra e gli occhi pieni di luce.
Poi gli domando:
“Cosa provi ora a pensare al nonno?”.
“È un bel ricordo”.
Penso che sia una risposta bellissima. Dico:
“Si, sono proprio bei ricordi”.
Il colloquio è lento, ci sono lunghi silenzi in mezzo, nei quali stiamo
entrambi senza fatica.
“Ti fa piangere ricordare?”.
Mi dice di no e mi sembra sincero.
“Non ho parlato con nessuno di questi ricordi”.
Gli chiedo come mai secondo lui non ne ha parlato con papà e lui mi
risponde che non gli viene in mente; allora gli chiedo se gli può sembrare
una buona idea fare entrare anche il suo papà la prossima volta per parlare
insieme a lui di tutto questo. Mi dice di sì e sembra contento della proposta.
Credo di aver ottenuto tanto in questa seduta, di avergli chiesto e tirato
fuori ricordi lontani e mai condivisi, emozioni calde e commoventi.
Mi fermo qui.
Mi sembra che Matteo abbia bisogno di fermarsi qui e gli dico che
secondo me per oggi abbiamo parlato molto di queste cose: ora tocca a lui
decidere che cosa vuol fare. Sembra sollevato di poter cambiare discorso,
ma allo stesso tempo contento di averlo potuto affrontare. Ha ancora voglia
di chiacchierare e mi racconta che in classe è pieno di fidanzate ma a lui
piace Caterina, una bambina che incontra quando lei viene in villeggiatura
al mare. Poi mi parla di calcio. È tifoso della Juventus e allora io gli dico
che domenica andrò allo stadio a vedere Parma-Juventus. È molto
interessato a questo e si fa promettere che la prossima volta gli racconterò
come è andata la partita. Mi chiede poi di fare una sfida al flipper
elettronico sul computer, che finisce in pareggio; quando gli annuncio che
ormai è ora di salutarci guarda dispiaciuto l’orologio appeso alla parete e mi
dice che sono le 15:55, lasciandomi chiaramente intendere che gli stavo
rubando 5 minuti di tempo. Io e la tirocinante ridiamo per questa precisa
puntualizzazione (e ride anche lui con noi) e concordiamo che nei 5 minuti
che restano potrà allenarsi con lei per la sfida che faremo tutti e tre la volta
prossima:
“Chi vince quella vince tutto!”, gli dico, e così ci salutiamo.
UNO SCAMBIO CON IL PADRE DI MATTEO

Nel corridoio Matteo incontra il padre, chiacchierano un po’ tra loro, con un
atteggiamento complice, e poi il padre mi dice che vorrebbe dirmi due
parole. Ho qualche minuto. Propongo al bambino di fare un’altra partita al
flipper elettronico con la tirocinante e ricevo il papà in uno studio libero.
Il papà ha voglia di scambiare le sue impressioni rispetto ai primi due
colloqui con il figlio. Mi spiega che ha visto il bambino uscire proprio
contento dai nostri incontri e che Matteo gli ha detto che sono uno con cui
si può parlare e raccontare di tutto. Per chiarire meglio le sue impressioni
mi racconta che a casa mi chiamano “Fabio” anziché “dott. Celi”, e subito
si scusa per questa apparente mancanza di rispetto sulla quale io
ovviamente sorrido; dice che mi chiamano per nome perché è Matteo a
chiamarmi così e poi perché a loro non piace sottolineare il fatto che Matteo
vada dallo psicologo. Invece, mi racconta che qualche sera fa erano a cena
con amici e Matteo ha parlato di me e uno di loro ha chiesto chi fosse
questo “Fabio”. Il bimbo, senza esitazione e con orgoglio, ha risposto: “È il
mio psicologo!”.
Ovviamente tutti questi feedback mi fanno piacere, ma la cosa che
sembra più rilevante e prognosticamente favorevole è sapere dal padre di
Matteo che nell’ultima settimana ha cercato di parlare di più con il figlio, e
sebbene ritenga di essere ancora all’inizio, gli pare che questo per loro sia
molto positivo e spera di poter continuare su questa strada.
Mi mostro molto contento e gli confermo che penso anch’io che questo
possa essere un bene per loro. Colgo così l’occasione per proporgli una
seduta a tre insieme al figlio. Lo diciamo anche a Matteo e tutti e due
accettano volentieri l’idea.

UNA SEDUTA SBAGLIATA

Non tutte le ciambelle riescono con il buco, si dice.


L’espressione significa che prima o dopo capita a tutti di sbagliare e
sarebbe irrazionale2 pensare il contrario, anche se è chiaro che
preferiremmo che questo non avvenisse o almeno avvenisse piuttosto di
rado.
Quel pomeriggio buio di autunno inoltrato Matteo entra nel mio studio
da solo, come sempre, e con il sorriso sulle labbra. Si siede e mi racconta
spontaneamente del compleanno di un suo amico dove si è divertito molto e
mi riporta un episodio in cui ha provato allegria: quando ha invitato un suo
compagno di classe a casa sua a mangiare pollo e patate fritte, che sono il
suo piatto preferito, e si sono divertiti a giocare e a fare qualche compito
(pochi, aggiunge con ironica soddisfazione, in confronto ai tanti che
avevano).
Sento sempre di più che la mia relazione con il bambino è buona:
abbiamo stabilito una nostra routine fatta di un’apertura e di una chiusura
che Matteo gestisce attivamente raccontandomi di sé con evidente piacere, e
di una parte centrale che dedichiamo alla tristezza, dove Matteo ha bisogno
di maggiore guida esterna, ma che lentamente e progressivamente accetta di
condividere.
Gli chiedo se nei giorni precedenti ha pensato al nonno e lui mi dice di
no, che non gli è capitato. Solo a quel punto, quando comincio a vederlo un
po’ distante, mi viene in mente il nostro accordo della seduta precedente.
Gli dico che la volta scorsa avevamo deciso di fare entrare con noi anche il
papà e gli rimando la possibilità di dirmi che ha cambiato idea, che non ha
voglia di parlare tutti assieme (ma forse, penso adesso, sono io che ho
improvvisamente voglia di tirarmi indietro, come se non me la sentissi di
gestire questa situazione). Invece Matteo ribadisce che vuole che il papà
entri con noi, proprio come eravamo d’accordo.
Prima di farlo entrare però mi dice:
“Io al cimitero non ci voglio andare, perché non voglio piangere davanti
a papà”.
Cerco di capire meglio che cosa impedisca a Matteo di piangere davanti
al papà e perché scelga proprio quel momento per dirmi una cosa così
importante. Nel frattempo mi torna in mente la prima seduta in cui il padre
di Matteo mi aveva detto con orgoglio di non avere mai pianto e aveva
manifestato un atteggiamento di evidente critica e svalutazione verso le
“debolezze emotive” della moglie.
“Forse non vuoi piangere davanti a papà perché il papà non piange
mai…”.
Matteo si illumina in viso e mi fa cenno di sì con il capo.
Poi facciamo entrare il padre.
Matteo è contento e anche un po’ agitato per l’emozione.
Il padre entra, molto controllato come sempre, e appena si siede dice che
recentemente lui e Matteo hanno parlato di più.
Il viso di Matteo si spegne e subito dopo il bambino dice al padre:
“Non è vero! Noi non parliamo mai…”.
Il padre, in visibile imbarazzo, nega e cerca di riportare tutto alla
normalità:
“Ma se l’altro giorno abbiamo anche parlato del nonno. Sembra davvero
che io e te non parliamo mai”.
Mi inserisco tra loro rivolgendomi al bambino:
“Il papà dice che avete cominciato a parlare…”.
Ma Matteo non sembra davvero d’accordo su questo. Però non me lo
dice apertamente, non replica alla mia affermazione e resta per un po’ in un
silenzio ostinato. Poi si rivolge nuovamente al padre:
“Io non ti ho mai visto piangere mentre la mamma piange”.
Il padre ribatte:
“Lei piange per tutto”.
A questo punto Matteo, sconfortato (mi verrebbe voglia adesso di
scrivere “sconfitto”: ma perché in quel momento non l’ho capito?), abbassa
gli occhi e tace.
Il silenzio si fa pesante, almeno per me, e così sento il bisogno di
raccontare al papà che durante i nostri incontri abbiamo cercato nel passato
alcuni bei ricordi del nonno e gli chiedo se può aggiungerne uno dei suoi.
Mi sembra, in quel momento, di avere una nuova opportunità per creare
un po’ di sintonia emotiva che finora non sono certo riuscito a ottenere.
Il papà ci pensa e Matteo sembra un po’ riattivarsi, forse per la curiosità (o
la speranza?) di quello che il padre potrebbe dire.
Il papà ci racconta che si ricorda di certe mattine in cui il nonno
svegliava tutti molto presto perché aveva bisogno di aiuto per sistemare il
garage.
Matteo resta in silenzio, sembra molto deluso da questo ricordo così
poco caldo ed emozionante. Allora gli chiedo in quali occasioni abbiano
parlato del nonno e lui non mi risponde. Di nuovo quel silenzio pesante.
Non trovo altro da fare che porre al padre la stessa domanda. Mi risponde,
guardando il figlio come per contraddirlo e mostrargli che ha ragione lui:
“Ne abbiamo parlato anche ieri…”.
Ma Matteo gli finisce la frase:
“Si’. Discutevate una questione di indennità con lo zio…”.
Il colloquio resta così, come sospeso, e sembra finire per la stanchezza di
tutti.

IMPARARE DAI PROPRI ERRORI

La scelta di raccontare la seduta “sbagliata” che ho fatto con Matteo nasce


dal desiderio di dare l’opportunità al lettore di vivere realmente quello che
può avvenire dentro a un processo terapeutico, che per definizione è
imperfetto e fatto di passi avanti, sbavature, momenti di impasse e, quando
tutto va bene, recuperi.
Fortunatamente, accanto al detto delle ciambelle che non sempre
riescono con il buco, esiste anche il detto secondo cui sbagliando si impara
e spesso i nostri piccoli pazienti ci insegnano dove sbagliamo, se siamo in
grado di ascoltarli, e ci indicano la strada per poter recuperare.
Matteo voleva condividere con il padre certe emozioni, ma aveva
bisogno che io conducessi il colloquio molto più di quanto ho fatto; e che
soprattutto lo conducessi in una direzione rispettosa del bisogno del
bambino. Ho cercato di capire tutto questo riflettendo a freddo sulla seduta
e rendendomi conto che avevo inanellato, uno dopo l’altro, diversi errori.
Prima di tutto, come dicevo, studiando gli appunti e discutendoli con la
tirocinante che aveva assistito al colloquio, ho avuto la netta percezione di
non aver mediato per nulla la relazione tra lui e il padre.
Andrei oltre: nei pochi scambi in cui ho provato una mediazione sono
stato dalla parte della razionalità del padre anziché dalla parte delle
emozioni di Matteo, di cui invece mi sarei dovuto prendere cura. Devo
molto ai cognitivisti costruttivisti dell’età evolutiva come Strepparava e
Iacchia (2012) e Lambruschi (2014) per queste considerazioni.
Matteo mi stava comunicando in tutti i modi possibili che aveva bisogno
prima di vedere che il padre si emozionava e si commuoveva, per poi
permettersi di farlo anche lui. Questo era il messaggio che il padre avrebbe
dovuto comprendere ed era a lui che io avrei dovuto rivolgermi. Quando il
bambino, con parole che troppo tardi ho capito essere una richiesta (quasi
disperata) di aiuto, ha detto: “Non è vero! Noi non parliamo mai…”, io tutto
avrei potuto fare, ma non mettermi dalla parte del padre dicendogli: “Il papà
dice che avete cominciato a parlare…”.
Come sarebbe più bello ed empatico e più giusto se mi fossi rivolto al papà:
“Ascolti suo figlio. Le sta dicendo che forse avrebbe bisogno di vedere
che lei si apre con lui, a costo di soffrire insieme”.
Oppure, rivolto al bambino:
“Matteo, diglielo bene a papà, che hai bisogno di vedere che anche lui si
emoziona”.
O, meglio ancora, avrei potuto dire tutte e due le cose, ma quel giorno,
per una serie di motivi, non mi è riuscito.
Ma non è tutto. La seduta finisce senza il consueto spazio libero e senza
parlare della partita Parma-Juventus che si era giocata in settimana e che gli
avevo promesso di commentare perché andavo a vederla. Mi dimentico
persino della sfida al flipper su computer che avevamo concordato e del
fatto che proprio quel giorno si sarebbe addirittura dovuto disputare la bella.
Gli accordi erano stati così chiari: “Chi vince quella vince tutto!”…
E invece quella sera ce ne siamo tornati a casa tutti quanti sconfitti.

UNA SEDUTA PER RECUPERARE

Prima di tutto, subito dopo queste riflessioni chiamo il padre nel tentativo di
riprendere in mano la situazione e recuperare gli errori commessi. Discuto
con lui della seduta, del bisogno di Matteo di vedere nel padre, con il quale
ha un legame così stretto e così importante, le emozioni in qualche modo
espresse per potersi permettere di esprimerle a sua volta. Rispetto al
“parlare del nonno” è stato interessante vedere che avevano idee
contrastanti: il padre diceva che parlavano del nonno e Matteo diceva che
non parlavano mai del nonno. Gli faccio notare che entrambi avevano
ragione perché ognuno di loro interpretava il “parlare del nonno” in modo
diverso.
Era evidente che per Matteo parlare di “indennità”, cioè di una questione
legale, freddamente burocratica, non era “parlare del nonno”: lui aveva
bisogno di altro. Il padre di Matteo mi dice che comprende questa esigenza
e che anche se hanno avuto due modi diversi di esprimere le loro emozioni,
pensa che si tratti di emozioni in fondo molto simili.
Poi incontro di nuovo Matteo assieme al padre, la settimana dopo, e
dedico l’intera seduta a cercare di recuperare ciò che sentivo che avevamo
perso.
Lascio al bambino tutto lo spazio di cui credo abbia bisogno per parlare
di quello che vuole e intanto io gli dico con chiarezza che penso di aver
fatto un sacco di pasticci e di errori nel nostro incontro precedente. Gli
chiedo se è d’accordo, se se ne era accorto.
“Ti sei scordato della Juventus!”, mi dice con quei suoi occhi che ridono.
È vero. La volta scorsa mi ero dimenticato che gli avevo promesso che
avremmo parlato della partita che andavo a vedere a Parma, anche se
sapevo che a lui questo stava molto a cuore.
Gli confesso che purtroppo la partita non era l’unica cosa di cui mi ero
dimenticato nel nostro precedente incontro e mentre lo dico lo guardo, per
vedere se riconosce altri miei errori.
“Il flipper!”, mi dice.
Gli sorrido e gli faccio cenno di sì con il capo. Gli chiedo poi di dirmi,
come se fosse un processo nei miei confronti, come si è sentito, cosa non gli
è piaciuto, secondo lui cosa ho sbagliato. E intanto, con molta facilità,
stiamo parlando della nostra “seduta sbagliata” e in qualche modo gli sto
chiedendo scusa, e lui mi sta dando un’altra opportunità.
Mi racconta che ultimamente è ricomparso il vomito al mattino prima di
andare a scuola e poi mi parla dell’intolleranza ai crostacei del padre, come
se le due cose fossero in qualche modo collegate.
Ha ancora voglia di aprirsi e per fortuna, questa volta, lo ascolto
attentamente.
Il padre interviene e dice:
“C’è un legame molto stretto tra me e Matteo: pensi che io ho
un’intolleranza ai crostacei che a lui piacciono molto e quando ci sono
scampi o gamberoni per cena mi chiede il permesso di mangiarli”.
Mi sembra che il chiedere il permesso al padre per mangiare i crostacei
non sia molto diverso dal bisogno di Matteo di sentirsi legittimato dal padre
a esprimere le sue emozioni.
Adesso è Matteo che ascolta attentamente il papà.
Il padre poi mi racconta che Matteo, usciti dall’ultimo incontro, gli ha
rinfacciato di aver detto di avere pianto, quando lui invece non l’ha mai
visto piangere.
Allora il padre gli spiega che lui intendeva dire che ha pianto in
ospedale, da solo, come di nascosto, quando Matteo non c’era; e così si
chiariscono su questo punto. Poi, guardando Matteo con un’aria di intesa,
mi dice che l’altro giorno ha raccontato per la prima volta a Matteo che
quando lui era piccolo e aveva solo quattro anni, gli è morta una nonna a
cui lui era molto affezionato.
Dice di non avere mai pianto per la morte della nonna, di non essere
riuscito a esprimere il suo dolore, nonostante lo avesse dentro, e per questo
è diventato balbuziente.
“E sa cosa mi ha detto Matteo?”, mi chiede il padre.
“Se il nonno ti portava dallo psicologo non diventavi balbuziente!”.

FINALMENTE INSIEME!

All’incontro successivo Matteo chiacchiera più del solito, sembra


particolarmente allegro e contento.
Mi colpisce l’aria furbetta che ha fin dal primo momento in cui si siede,
l’aria di chi ha una sorpresa in serbo e fatica a tenere il segreto.
Condivido con lui queste mie impressioni e mi fa cenno di sì, che è vero.
Mi racconta allora che in salotto, sopra la televisione, è comparsa una
fotografia del nonno che non c’era mai stata prima. Lui l’ha vista, si è
commosso e ha pianto.
Penso che sia proprio bello quello che mi sta raccontando e glielo
comunico.
Ma Matteo mi dice che c’è dell’altro, che la sorpresa non è finita qui.
Lo ascolto attentamente.
Mi dice che la cosa più bella è stata alla sera quando è tornato a casa il suo
papà.
Matteo ha avuto voglia di raccontare al papà che quella fotografia lo
aveva commosso e lo aveva fatto piangere.
“E allora come è andata?”, gli domando.
“Lui mi ha abbracciato e abbiamo pianto insieme”.

LE STORIE NON FINISCONO…

Nella seduta successiva i genitori, in particolare la madre, descrivono


Matteo, in questo periodo, come molto migliorato: sereno e allegro proprio
come una volta.
Con tutta probabilità anche Matteo si sta rendendo conto che le
motivazioni che lo avevano portato da me stanno venendo meno: infatti
esordisce chiedendomi un nuovo appuntamento perché dice che gli piace
parlare. Mi sembra che questo abbia due significati. Da un lato il bambino
mi sta dicendo che d’ora in avanti verrà per chiacchierare con me e magari
per giocare con il flipper elettronico, ma non più perché ha bisogno di
essere aiutato.
Ma dall’altro c’è forse anche un significato più profondo, legato alle sue
difficoltà con le separazioni, con il distacco. Forse quello che mi sta
dicendo è: continua a fissarmi appuntamenti, anche se non ne ho più
bisogno, perché le perdite, come tu sai bene, mi fanno soffrire molto.
Così vedrò Matteo altre tre volte per rispondere in parte a questa sua
esigenza, ma con l’obiettivo di gestire il distacco, cosa che con lui non è
stata facile.
In questi ultimi incontri Matteo ha sempre molta voglia di raccontarmi di
sé e mi riporta spesso momenti felici: mi racconta degli amici che incontra
in piazza, di certe domeniche passate con mamma e papà in allegria, di un
pomeriggio in cui, sempre con mamma e papà, sono andati da Incaba, un
negozio di giocattoli grande quasi quanto un paese, e dell’ansiosa attesa
delle vacanze di Natale, quando rivedrà Caterina, la bambina di cui è
innamorato.
Alle volte capita qualche momento di rabbia, soprattutto con il fratello
con cui non va d’accordo, che Matteo mi racconta senza difficoltà; mi parla
anche, spontaneamente, di un episodio di pianto, quando ha sentito alla
televisione la notizia della morte di uno dei suoi eroi del wrestling. Mentre
me lo racconta è evidente che a questo pianto non dà più una connotazione
negativa, che non gli crea conflitto sentire un’emozione di tristezza: ha
pianto perché si sentiva di piangere. Poi si è asciugato gli occhi e ha ripreso
a giocare.
Mi dice che da quando abbiamo parlato assieme al suo papà e dopo che
loro due hanno pianto, lui non si sente più arrabbiato.
Il vomito non è più comparso: al mattino la mamma apre le finestre
prima che lui si sieda per fare colazione:
“Era quell’odore di latte bollito che mi dava fastidio…”.
E, ovviamente, in quegli incontri facciamo altre sfide al computer, con il
nostro ormai mitico flipper elettronico.
Poi ci salutiamo, dopo aver chiarito che la mia porta sarebbe stata sempre
aperta per qualunque problema, anche se io speravo di rivederlo solo per un
saluto e per due chiacchiere come tra vecchi amici.
Lui, con gli occhi un po’ umidi dall’emozione per il distacco, mi fa
cenno di sì e mi chiede di poter venire a Natale per farmi gli auguri. A
Natale non lo vedrò, ma verrà a trovarmi subito dopo le vacanze per portare
alla specializzanda e a me due bellissimi regali e per dirmi, tra le altre cose,
che “si è messo” con Caterina. Di nuovo, i suoi occhi sorridono.

Raccontata così, e troncata in questo punto, più ancora che una storia a lieto
fine sembra una favola.
Invece le storie non finiscono e questa non è una favola e dunque, come
in tutte le storie vere, ci saranno, nella vita di Matteo come in quella di
ciascuno di noi, giorni di pioggia e forse anche di temporale, e momenti
bui, e lutti e tristezze e forse anche occasioni di disperazione. Nessuno
psicoterapeuta può evitare tutto questo, né questo è il compito di nessuna
psicoterapia. La speranza è che quando i momenti di tristezza verranno,
Matteo sia capace di riconoscerli, accettarli, esprimerli e, quando sarà
necessario (ma questo non vale solo per lui, ma per tutti noi), emozionarsi e
piangere.
1 Vedi capitolo 9, nota 3.
2 Uso questo aggettivo non solo nella sua accezione comune, ma anche con il significato tecnico che
gli attribuisce la teoria della Terapia Razionale Emotiva di Ellis. Ci sono pensieri, chiamati appunto
irrazionali, che fanno star male un paziente. “Devo sempre prendere solo buoni voti a scuola,
altrimenti mi sento un fallito” è un esempio di pensiero irrazionale (Di Pietro, 2013). Ma ci sono
anche pensieri che fanno star male uno psicoterapeuta: “Devo assolutamente essere un terapeuta
perfetto” è uno di questi. Credo pertanto che sia utile, talvolta, raccontare a colleghi errori e
fallimenti (io su questi temi avrei materiale per un libro di mille pagine). Non solo perché dagli errori
si può imparare qualcosa. Ma anche perché è emotivamente sano pensare che nessuno può essere un
terapeuta perfetto, ma tutti possono cercare di correggersi e migliorare.
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TAVOLE A COLORI

Figura 1 (vedi cap.1, pag. 8) Un disegno di Marco fatto in occasione del Natale. Si può vedere il
livello di completezza della figura umana e una generica povertà di forme e contenuti.
Figura 2 (vedi cap. 3, pag. 35) Disegno della figura umana di Michela, dal quale appare evidente il
grave ritardo della bambina.
Figura 3 (vedi cap. 5, pag. 70) Uno dei primi disegni di Maurizia. Con difficoltà, si possono scorgere
figure umane sia nella grande immagine centrale che nelle due più piccole in basso a destra. L’intero
foglio è poi riempito di forme e colori esplosivi.
Figura 4 (vedi cap. 6, pag. 101) Un disegno di Luciano, rigido e “freddo” come lui.
Figura 5 (vedi cap. 11, pag. 241) Uno dei primi disegni di Lorenzo, dove la destrutturazione è
evidente.
Figura 6 (vedi cap. 11, pag. 241) Un disegno di Lorenzo dopo i primi mesi di lavoro: ora un maggior
autocontrollo permette al bambino di disegnare figure ben riconoscibili.
Figura 7 (vedi cap. 11, pag. 241) Un disegno di Lorenzo dopo oltre un anno di terapia: molto più
controllato e ricco di particolari.
Figura 8 (vedi cap. 15, pag. 348) Il “sereno” disegno della famiglia di Eleonora.
Figura 9 (vedi cap. 24, pag. 570) Il disagio della famiglia di Edo, dove appare evidente la diversa
qualità delle relazioni tra bambino e mamma e bambino e papà.

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