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IL TEMPO, LA MEMORIA

E
IL RICORDO NELL'ARTE
EDVARD MUNCH E IL RICORDO:
L’ESPERIENZA INFANTILE DELLA PERDITA
A margine di una delle copie del Grido, Munch scrisse:
"Solo un folle poteva dipingerlo".

Questa notazione ci fa pensare che non fosse un folle chi


poteva porsi di fronte ad una tale rappresentazione della
disperazione e osservarla criticamente. Certo era
qualcuno che lottava strenuamente dentro di sè con le
rappresentazioni dell'irrapresentabile, del dolore e delle
sue parti psicotiche, i frammenti che affiorano alla
superficie della tela come residui di mondi esplosi, di
materia psichica collassata. I buchi neri della memoria
angosciata di Munch allora diventano pulsione verso il
fare arte, nel ricordo soggiorna l'intera produzione di
questo magnifico artista, che attraverso il dolore ha
riscoperto la sua interiorità attraverso la catarsi della L’Urlo (titolo originale: Skrik) fu realizzato nel 1893 su
pittura! cartone con olio, tempera e pastello
Edvard Munch (1863-1944) è un pittore norvegese,
importante precursore della corrente artistica
dell’espressionismo. Munch visse una vita tragica, che
influenzerà pesantemente il suo pensiero e il suo modo di
fare pittura. I principali temi da lui trattati sono il ricordo,
l’angoscia, il male di vivere e la morte. Quest’ultima in
particolare accompagnerà l’intero arco della sua esistenza.
Nel dipingere i suoi quadri egli si allontana progressivamente
dal realismo, utilizzando una tecnica piuttosto nervosa. Tra le
sue maggiori fonti abbiamo l’Art noveau, la pittura simbolista
e i pittori post- impressionisti (Van Gogh, Toulouse-Lautrec,
Gaugin). Utilizza colori evocativi, stesi con pennellate lunghe,
ondulate e ripetute, talvolta apparentemente trascurate.
Anticipa l’espressionismo per diversi aspetti: la tendenza a
fare aloni intorno alle teste dei personaggi per indicarne lo
stato d’ansia, i cieli rossastri che simboleggiano la pazzia, le
fughe prospettiche vertiginose che indicano il desiderio di Accanto al letto, vi è una figura femminile (che potrebbe
evasione e i confini ambigui tra figura e sfondo per esaltare il essere la madre rappresentata sotto forma di ricordo,
poichè già trapassata) ripiegata su sé stessa che soffre a
contatto con la realtà interiore.
causa della morte imminente della malata, mentre
quest’ultima, assume un atteggiamento di quieto distacco,
di accettazione del suo destino. Le due sono unite dal
gesto delle mani che si stringono a vicenda, tuttavia
Bambina malata (Sorella Sophie), 1885-1886, olio su tela, queste sembrano quasi cancellate, come se quel gesto
Oslo Galleria Nazionale. fosse stato consumato dalla sua impotenza a trattenere.
Il Ricordo della Vita, la Memoria della Morte
La vicenda infantile di Edvard Munch ha segnato profondamente la sua opera, in particolare nella fase
iniziale e centrale della sua produzione. Assistere a cinque anni alla morte per tubercolosi della madre, gli
aspetti cruenti della scena, sono immagini intagliate nella memoria, e riattivate dal ripetersi della stessa
situazione nove anni più tardi, alla morte della sorella Sophie. Prendiamo in considerazione il dipinto La
madre morta e la bambina.
Sullo sfondo della scena vi sono i parenti, a sinistra scorgiamo le sagome di due
donne, Inger e Laura, mentre di fianco, oltre alla figura di Munch stesso, vi
sono anche il padre e il fratello Andreas, entrambi ormai deceduti rispetto agli
anni in cui venne realizzata l’opera. Proprio per questo motivo i personaggi
sullo sfondo sono rappresentati in bianco e nero, come per alludere alla loro
condizione, come se fossero fantasmi. Vi è però un eccezione: sebbene pure la
sorella Sophie fosse già morta, viene rappresentata in primo piano, con abiti e
capelli dai colori accesi. La sua figura viene quasi inglobata dal letto della
madre, a causa della presenza di un alone rosso sul pavimento, della stessa
tonalità del vestito della bambina. La madre, distesa nel letto con gli occhi
chiusi, è appena abbozzata e ha la funzione di separazione tra i due piani.
Rimane Sophie la vera protagonista della scena: essa si gira verso lo spettatore
con occhi sbarrati, portando le mani alle orecchie, stesso gesto che troviamo
La madre morta e la bambina, 1897-
nell’opera più conosciuta di Munch, “Il grido”. La bambina cerca di tapparsi le
1899, olio su tela, Oslo Munch Museet.
orecchie per difendersi dal rumore interiore provocato dal dolore per la morte.
Con questi esempi abbiamo dunque capito che la
memoria, per Munch, è fonte di creazione artistica:
"Non dipingo mai ciò che vedo, ma ciò che ho visto"
ed è la fonte interna della creatività, una memoria
da recuperare, da chiarificare passo passo,
frammenti di vita di cui dolorosamente
riappropriarsi, attraverso un lavoro che permetta di
non restare soverchiato dalla persecutorietà di cui
possono tingersi "le più piccole cose" che non ci
sono più. Concludiamo con una frase dello stesso
Munch:

“…E vivo con i morti, con mia madre, mia sorella,


mio nonno e mio padre, soprattutto con lui. Tutti i
ricordi, le più piccole cose, vengono alla
superficie...".

Edvard Munch "Malinconia" (1894).


STOP: L’Enigma dell’Ora di de Chirico
L’Enigma dell’ora fu dipinto da Giorgio de
Chirico (1888-1978), fondatore della
Metafisica italiana, nel 1911. In questo
dipinto osserviamo come l’intero spazio
della tela venga occupato da un porticato
ad arcate, che si affaccia su una grande
piazza e nella cui ombra si scorge un uomo
che aspetta immobile. I raggi del sole
pomeridiano investono una misteriosa,
enigmatica figura vestita di bianco, ferma
nello spazio aperto, accanto a una vasca
che si apre nel terreno, come una tomba,
ed è probabile simbolo di morte. Il portico,
nettamente distinto dal corpo superiore in
muratura (dove si intravede una terza
figura, girata di spalle), ricorda quello di
Brunelleschi per l’Ospedale degli Innocenti. Giorgio de Chirico, Enigma dell’ora, 1911. Olio su tela, Firenze,
Collezione privata.
Sia il titolo dell’opera sia l’orologio al centro
dell’immagine rimandano al tema fondamentale
del dipinto: quello del tempo, a sua volta collegato
alla dimensione dell’enigma, del mistero. L’orologio
segna le 14.55 ma le ombre lunghe indicano,
chiaramente, che la scena è immaginata nel tardo
pomeriggio e comunque a un’ora crepuscolare.
Non vi è quindi corrispondenza fra il tempo
segnato dallo strumento meccanico e il tempo
della vita, dell’esistenza. Un tema che il surrealista
Dalí avrebbe ripreso in un suo celebre capolavoro,
La persistenza della memoria. De Chirico, insomma,
vuole qui riflettere sulla dimensione metafisica del
tempo, sulla condizione filosofico-esistenziale
dell’eterno presente, ossia del tempo vuoto, del
tempo sospeso.
Salvador Dalì:
La deformazione del tempo e la memoria come
ricordo
In questo dipinto di Salvador Dalì il tempo, inteso
nella razionale successione di istanti
meccanicamente determinati, viene messo in crisi
dalla memoria umana. La dilatazione o la
contrazione del senso del tempo è una
caratteristica che dipende dalla singola
individualità, ma è sensazione certamente
universale quella di avvertire lo scorrere del tempo
secondo metri assolutamente personali.L’opera,
dal titolo originario Gli orologi molli, è stata
ribattezzata La persistenza della memoria.
Dalì, infatti, per dare una forma diversa a cose reali
si serve delle interpretazioni della memoria e delle
deformazioni ulteriori fornitegli da un ricorso
cosciente ai ricordi modificati dal tempo.
Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931, olio su tela
Museum of Modern Art -New York
Il tempo è simboleggiato in modo abbastanza esplicito dagli
orologi, elementi deformabili e deformanti che indicano, in ultima
analisi, l’irrealtà dell’esistenza. Questi tre orologi sul punto di
sciogliersi al sole – mentre un quarto, ancora chiuso nel suo
coperchio dorato, è assaltato da un cumulo di formiche brulicanti
– rappresentano l’aspetto psicologico del tempo, il cui trascorrere,
nella soggettiva percezione umana, assume una velocità e una
connotazione diversa, interna, che segue solo la logica dello stato
d’animo e del ricordo.
Quindi tema centrale risulta la dimensione fluida del tempo che
evidenzia la percezione soggettiva. Il tempo non è qualcosa di
assoluto, ma è un continuo fluire, in cui il passato, si unisce con il
presente in un continuo divenire. Se quindi il tempo assoluto è
quello scandito dall’orologio in ore, minuti, secondi, la percezione
individuale del tempo è invece molto elastica, imprescindibile
dalla memoria, dal sogno e dall’inconscio. La deformazione delle
immagini è un mezzo per mettere in dubbio le facoltà razionali,
che vedono gli oggetti sempre con una forma chiara e definita. In
La persistenza della memoria, gli orologi si sciolgono e si adattano
alle superfici su cui vengono posti, Dalí invita così l’osservatore a
riconsiderare la relazione tra la dimensione del tempo e della
memoria, nella quale il prima e il dopo si contaminano
mutuamente.
Destino: una favola surrealista
Si tratta di un corto d'animazione prodotto nel
2003 dalla Disney. Il progetto risale al 1945
quale risultato della collaborazione tra Walt
Disney e Salvador Dalì, con le musiche eseguite
dal compositore messicano Armando
Dominguez. Narra di una fanciulla alla ricerca
del suo amore, il Tempo, attraverso i surreali
spazì dei deserti di Dalì. I disegni e i bozzetti
preparativi di "Destino" vennero realizzati
dall'artista degli studios della Disney John
Hench e dallo stesso Dalí in otto mesi, tra il
1945 e il 1946. Buona visione (e comprensione).
https://www.youtube.com/watch?v=IOjDjLqu8O4
...Ma il suo sguardo vibrante è diretto verso una piramide
di pietra, davanti a lei, nella quale è inscritta una statua
raffigurante Crono. Il tempo. La donna scuote la testa,
raccoglie i pensieri. Chiude gli occhi. Il destino...
Renè Magritte: La Memoria è Individuale
Il soggetto è chiaramente comprensibile, ma
l’associazione con il titolo complica tutto. L’idea che la
memoria sia una testa di statua dal sopracciglio
insanguinato, che dà le spalle al mare, è bellissima,
ma qual è il significato? Come per tutte le opere di
questo autore, l’interpretazione sicuramente non è
univoca.
(IPSE DIXIT)
“il quadro non è la rappresentazione delle idee
seguenti: quando noi pronunciamo la parola memoria,
noi vediamo che corrisponde all’immagine di una
testa umana. Se la memoria può occupare un posto
nello spazio, non può essere che all’interno della testa.
Allora la macchia di sangue può suggerire in noi la
supposizione che la persona di cui vediamo il viso sia
stata vittima di un incidente mortale. Infine, si tratta
di un avvenimento del passato, che resta presente nel
nostro spirito grazie alla memoria.”
La Memoria, Renè Magritte, 1940-48 circa.
La spiegazione di Magritte è abbastanza sibillina: ci dice cosa il quadro non è, ma non cosa
rappresenti. La negazione è uno degli artifici utilizzati dai surrealisti per innescare
nell’osservatore il sentimento di straniamento, come nel celeberrimo caso del quadro di una
pipa che riporta la dicitura Questa non è una pipa. Esistono comunque alcune possibili
interpretazioni del significato di questi quadri. La prima parte dagli elementi rappresentati:
• la testa di statua che sanguina può significare che quando un ricordo doloroso riaffiora
riapre una ferita, anche se ormai è passato tanto tempo e quell’esperienza era talmente
sepolta nella memoria che chi l’aveva vissuta pensava di essere diventato insensibile
(come la testa che è di pietra);
• i campanellini rappresentano per Magritte Gilly, il paese della sua infanzia, che nella sua
memoria di bambino risuonava del tintinnio dei sonagli attaccati ai finimenti dei cavalli che
ne percorrevano le strade, tirando il carro del padre;
• la foglia verde, così come la rosa, possono indicare il fatto che la memoria è qualcosa di
vivo, in contrapposizione alla statua di pietra inerte;
• la presenza di un drappo di stoffa o del muro di legno possono far pensare all’idea del
muro che nella nostra testa a volte viene eretto intorno ai ricordi più dolorosi.
• Dato il titolo, tutto porta a pensare che il tratto
comune a tutte le versioni sia l’esistenza di un
ricordo talmente doloroso da far sanguinare anche
la pietra e che, quando torna alla mente, è come
una ferita che si riapre.
• La seconda interpretazione si concentra sul fatto
che gli schizzi di sangue sulla fronte della statua
sembrano provenire da un corpo esterno,
probabilmente ucciso in modo violento. La testa
ha assistito muta ed impassibile all’omicidio, di cui
conserverà la memoria senza poterla comunicare a
nessuno. La statua, come l’arte, non può fare altro
che starsene a guardare mentre gli uomini si
massacrano a vicenda, con una macchia di sangue
come ricordo indelebile.
• Ha scritto Magritte stesso: “Cosa rappresenta
questo quadro? È colui che guarda che
rappresenta il quadro, i suoi sentimenti e le sue
idee rappresentano il quadro”. “Fils de l’homme” Renè Magritte , olio su tela,
1964, collezione privata.
Andy Warhol: Conservare il Tempo
A metà del Novecento, uno degli artisti più rappresentativi
della contemporaneità inaugurò un progetto monumentale
omaggio all’idea della memorizzazione del reale. È a
partire dagli anni 50 che Andy Warhol iniziò a conservare
dentro a scatole di cartone le reliquie del suo tempo: ritagli
di giornale, fotografie, buste della corrispondenza,
cartoline, business card, album piccoli oggetti. L’immagine
fotografica è la protagonista di questa prova di forza che
Warhol imbastisce contro l’azione distruttrice del tempo:
fototessere, polaroid, foto serigrafie, foto stampate in
rotocalchi e quotidiani, copertine di riviste. Una specie di
testamento spirituale per l’artista contemporaneo che più
di ogni altro ha desiderato annullarsi nell’abbraccio
massificante della macchina, che ha invidiato il potere di
memorizzazione infinito del procedimento fotografico. È un
po’ come se Warhol avesse intuito prima di tutti che la
nuova forma simbolica dell’età contemporanea, o più
precisamente l’era dei computer, stava nel principio del
database. Tutto il fotografato si configura quale immenso
repertorio visivo cui attingere come da un’estesa e
Le capsule del tempo: A partire dal 1974, Andy Warhol riempì sconfinata memoria collettiva.
610 scatole con i suoi affetti personali, le sigillò e le conservò.
DIANE ARBUS E NAN GOLDIN:
Fotografia come attestazione della cruda realtà
La fotografia intesa come ricordo-testimonianza assume toni angoscianti tratti da eventi
autobiografici nella produzione di Diane Arbus (New York, 1923-1971) e Nan Goldin
(Washington, 1953), che fotografano le diversità, i derelitti, i malati di AIDS, ponendo così
una lente di ingrandimento sulla tragicità dell’esistenza umana. In una fotografia a colori di
Nan Goldin (Picnic on the Esplanade, Boston, 1973), si preannuncia l’ossessione di dover
documentare la storia, i rituali sociali, la vita di gruppo e le esperienze biografiche che, nel
corso degli anni, l’AIDS e la tossicodipendenza strapperanno a Nan Goldin come alla Arbus
molte di queste amicizie fotografate.
Il Ricordo: da Analogico a Digitale
Alla fine del secolo scorso abbiamo assistito ad una crescita esponenziale di attenzione sulla questione
della memoria e della conservazione. Mentre l’arte si faceva sempre più effimera in risposta alla caduta
dei valori e dei principi cardine che governano la vita dell’uomo, quali religione, morale, ecc., crescevano
gli interrogativi sulla memoria e il lasciare traccia di quanto fatto. In tutto ciò le nuove tecnologie
(Fotografia in primis) hanno avuto un ruolo importante in una duplice accezione: in positivo, dando
maggiori possibilità di memorizzazione, e in negativo contribuendo alla caduta dei valori dell’arte e
creando una dimenticanza per sovrabbondanza di memoria. Parallelamente si è assistito ad un aumento
delle attenzioni sul corpo, soprattutto quello dell’artista. Per quest’ultimo, infatti, il corpo è lo strumento
principale dotato di un proprio sapere, dunque luogo della memoria poiché la sensorialità, le esperienze
emotive e cognitive sono custodite nei movimenti e nei gesti e nell'esposizione del corpo stesso
dell'artista.
In Ricordo di Gina Pane:
Il Corpo e Il Sangue dell'Arte
Gina Pane è un’artista francese, una delle più grandi
rappresentati della cosi detta body art. La sua
performance più nota è Azione sentimentale del 1973.
Presso la Galleria Diaframma di Milano, l’artista si
presente di fronte a un pubblico esclusivamente
femminile vestita di bianco, con un bouquet di rose
rosse dal quale stacca le spine per conficcarsele in un
braccio. Dall’arto colano rivoli di sangue, le rose rosse
vengono sostituite da rose bianche. Si incide il palmo
della mano con una lametta e attraverso la propria
sofferenza incanala la sofferenza altrui e la lascia
fluire. La sposa si è purificata attraverso il contrasto
tra sangue e candore, è libera di amare e farsi amare,
attraverso il suo sangue pulisce il dolore e i ricordi
degli altri.

“Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il


mio sangue, è per amore vostro: l’altro.”
Marina Abramovic: “La performance è essere nel presente”
Una donna, vestita di un semplice abito bianco,
siede tra centinaia di ossa di mucca, mentre le
pulisce dal sangue residuo e intona delle cantilene.
La testa bassa, lo sguardo stanco e l’odore di
putrido. Questo è lo scenario che si trovava di
fronte il visitatore del Padiglione della Serbia
durante la Biennale di Venezia del 1997, l’evento
italiano più importante di arte contemporanea in
cui, in diverse sedi, vengono esposte le opere degli
ultimi artisti sulla scena mondiale, tra emergenti e
ben consolidati.Non un quadro dunque, ma
un’azione esibita di fronte ad un pubblico. Ciò che
l’artista fa è arte. Il corpo stesso dell’artista diviene
il medium artistico, lo spettatore lo ammira o, altre
volte, può intervenire e dialogare con l’azione in
corso. Tale pratica pone le sue radici nella grande La performance si intitola Balkan Baroque, in ricordo delle
vitalità del panorama teatrale degli anni sessanta, vittime della guerra dell’ex Jugoslavia conclusasi due anni
dal quale nacque l’espressione Body Art, che prima; l’artista diviene emblema della purificazione, come se il
racchiude, tra le altre cose, anche la performance. proprio pulire le ossa macchiandosi di rosso fosse un rito
d’espiazione della colpa.
Body Art: Quando il Corpo entra nell'Arte
A dire il vero, questo è solo uno dei tantissimi esempi di opere
di Marina Abramovic (1946) che da sempre sperimenta, e
continua a farlo, le possibilità del corpo come espressione di
idee e sensazioni, memoria e ricordo. In linea generale
potremmo dire che il suo lavoro affronta sempre tematiche
quali il dolore, il limite, le relazioni tra corpo privato e altrui.
Nel 1977 si pose nuda sullo stipite della porta d’ingresso d’una
mostra, mentre su quello opposto si trovava il suo compagno,
Ulay, anch’egli nudo (Imponderabilia, eseguita a Bologna). Il
visitatore che voleva vedere l’esposizione nella sala doveva
necessariamente passare tra quei corpi, con non poco
imbarazzo. E non essendoci abbastanza spazio per attraversarli
frontalmente, era obbligato a scegliere verso quale lato girarsi,
così che di profilo potesse più agevolmente passare. Era un
lavoro che affrontava l’intimità, il significato della pelle, il fatto
stesso di muoversi per vivere l’esperienza d’arte; chi stava fuori
non poteva dire davvero di aver visto l’opera dell’Abramovic.
Imponderabilia, 1977
C’è un’altra perfomance dell’artista, The artist is present (2010), in cui la
partecipazione del pubblico fu fondamentale. Marina era seduta da un
lato del tavolo, al centro di una sala del MoMa di New York, in attesa che
qualcuno si sedette dalla parte opposta. La fila dei visitatori fu a dir poco
impressionante, c’era addirittura gente che si appostava a dormire fuori
“Rhythm”, 1974

dal museo per poter vivere l’esperienza dell’Abramovich. Dopo essersi


appropriati della sedia tanto attesa, iniziava un fisso sguardo tra l’artista e
il visitatore, che spesso scatenava in lui lacrime di commozione, di
fragilità, come se riconoscesse in lei una sincera genuinità nel suo stare.
Nessuno poteva toccare o parlare all’artista, la performance fu per tutti i
tre mesi, sei ore al giorno, molto intensa.
The artist is present, 2010

Ricordiamo inoltre quando nel ’74 addirittura


svenne per la mancanza di ossigeno in una
stella di fuoco, nell’88 la performance cui
diede l’ultimo abbraccio d’addio al suo ex-
compagno Ulay sulla muraglia cinese,o Rhytm
0 in cui il pubblico poteva scegliere con quali
oggetti intervenire sul corpo dell’artista, tra
cui anche una pistola.
Quando Marina Abramović e Ulay hanno
commosso il mondo dell'arte fino alle lacrime
https://www.youtube.com/wat
ch?v=j4f4-9osaeg

La sorpresa, quindi il sorriso di lei, gli occhi di lui che inizialmente non si lasciano catturare chiudendosi
ripetutamente in un turbinio impacciato.
La forza della performance attraverso di loro cresce esponenzialmente, fino a che il ricordo si impossessa
dell'artista, rompendo le regole ferree da lei stessa imposte.
Si lascia andare, si sporge verso di lui, l’emozione che ormai è quasi realtà palpabile prende dunque forma
e diventa contatto. Marina non è più arte, è umana!
Chiharu Shiota: Trama e Ordito della Memoria
Artista giapponese, classe 1972.Le sue installazioni affrontano i
grandi temi esistenziali dell’uomo come la memoria e l’oblio,
l’appartenenza e l’identità, la paura e la solitudine, la nascita e la
morte. L'impatto con le sue opere è strabiliante. Shiota utilizza fili di
lana nera che intreccia in un lungo processo, fino a condensarli in
una fitta tessitura, rendendo lo spazio impenetrabile. L’installazione
racchiude un tavolo e una sedia, magari un pianoforte, un soprabito,
un interno di una casa. Si creano così immagini tridimensionali,
scenografie in cui oggetti di uso quotidiano perdono la loro
funzionalità a favore di un valore emotivo e simbolico. Lo spazio
tridimensionale diventa per l’artista la tela sulla quale dipingere
un’immagine che nasce da un immaginario intimo e privato ma che
nella trasposizione acquisisce una dimensione universale, una
simbolicità poetica che si rivela al visitatore in tutta la sua forza
espressiva. I ricordi sono così intrappolati nella fitta trama del filo
nero un po' come nella nostra mente.

“La creazione di fili è un riflesso dei miei sentimenti. Un filo può


essere sostituito dal sentimento. Se nel tessuto qualcosa risulta
essere brutto, attorcigliato o annodato, quelli devono essere stati i
miei sentimenti quando stavo lavorando.”
Chiharu Shiota
Chiharu Shiota,
Mostra
Infinity, 2012

Le architetture, gli spazi, i vestiti che indossiamo, le cose a cui siamo legati emotivamente e con cui solitamente tendiamo a
identificarci, col tempo si impregnano invisibilmente di significati inconsci di cui tuttavia non abbiamo sentore.

Abbandoniamo oggetti in disuso perché ormai logori, lasciamo un luogo per trasferirci in un altro, ma una parte di noi resta in
tutte le cose che ci sono appartenute e negli spazi che abbiamo abitato. Attraverso la materialità delle cose costruiamo i nostri
ricordi, alcuni dei quali restano a lungo con noi, in una sorta di simbiosi nostalgica e reciproca.
Gabriel Orozco e l’Effimero

Breath on Piano, 1993


Un artista che si stupisce delle piccole cose, poeta di ciò che svanisce o di quel che si accumula. Si tratta di
Gabriel Orozco, un simpatico messicano nato nel 1962 e tutt’ora attivo.Questa fotografia è indubbiamente
ricca di poesia, il forte sfocato, la luce mattutina della finestra e la superficie lucida del pianoforte evocano
una bellissima atmosfera in cui vive il soffio d’alito dell’artista. Se da un lato può essere letta come mera
documentazione di ciò che svanisce (la cui interpretazione sembra essere troppo fredda e meccanica),
dall’altro la possiamo leggere come una riflessione sull’utilizzo del mezzo fotografico, che qui viene
definito come l’unico in grado di “immortalare” l’evento effimero.
Rimanendo nell’ambito della traccia, questa è forse la mia opera preferita
dell’artista. Si tratta di una palla di creta fresca del peso dell’artista che egli fece
rotolare per le strade della città di Monterrey. Fu una vera e propria performance.
Inevitabilmente, la massa ha iniziato a catturare la sporcizia dei marciapiedi, i
rifiuti, la polvere, le foglie secche, su di essa sono rimaste impresse le forme dei
tombini e degli ostacoli che ha trovato lungo il tragitto. E’ un’opera che ci parla di
memoria: ciò che è privato (immaginiamoci la sfera come il corpo dell’artista,
ricordandoci l’analogia di peso) si mescola concretamente con le vite pubbliche,
con le tracce di chi è passato, che vengono tutte raccolte in un solo oggetto.
Nelle sue esposizioni, Orozco presenta la palla di creta vera e propria.

Yelding Stone,1992
Christian Boltanski: i Mille volti del Tempo
Christian Boltanski si focalizza sul concetto
di memoria, non intima ma collettiva, e lo
fa avvalendosi di oggetti, ritagli, frammenti
come ultime testimonianze tangibili della
presenza storica umana. La sua ricerca
artistica è confluita nel movimento della
Narrative Art, sorto sul finire degli anni
Sessanta che pone al centro l’immagine –
video, fotografica, ecc – come unica
essenza del messaggio, un muto rapporto
tra l’opera e lo spettatore. Ma è altrettanto
interessante un certo richiamo al
movimento poverista e questo si denota
nelle installazioni al neon unite ai materiali
metallici e stoffe, oltre che alla sfera
concettuale che chiaramente gli
appartiene.
Fin dai suoi primi lavori l’artista si rivolge al recupero
mnemonico della propria infanzia, ma senza riferirsi
direttamente ad essa. Quei volti di bambini che egli ha
recuperato all’interno delle sue opere, tutti sono Christian
Boltanski. Tutti quegli occhi insieme vanno ad incanalarsi
all’interno di una comune esperienza di cui sono stati attivi
testimoni. Boltanski difatti nasce a Parigi quando il secondo
conflitto non era ancora giunto al termine, nel 1944, in una
città assediata dai tedeschi e che ha sofferto delle tragedie e
degli stravolgimenti tra i più difficili della storia. Infatti, egli
traspone la sua esperienza in quella di un normale bambino
della sua età, cresciuto all’interno di una famiglia normale. In
questo modo l’artista pone l’accento sui concetti di normalità
e perfezione, che si scontrano con un fattore di forte
relatività in un contesto tragico come quello vissuto nella
propria infanzia. È di fondamentale importanza per Boltanski
fare riferimento ad un comune senso di appartenenza.
Attraverso la sua attività artistica, egli ha da sempre portato
un importante messaggio diretto agli uomini, quello di
aggrapparsi alla propria memoria unica e personale, poiché
al di là della Storia siamo noi stessi i custodi del nostro
passato. Quegli occhi fissi e indagatori posti lungo le strade
della città hanno appunto lo scopo di concentrare
l’attenzione su di sé, sono immagini che conservano il potere
di svelare memorie passate, comuni ma archiviate.
L'oblio dell'Anima: Il Recupero della Memoria
Christian Boltanski ha realizzato “Monumenta” in
ricordo per le vittime della Shoha : quello più
impressionante fu forse il Grand Palais di Parigi: nel
2010 Boltanski lo svuotò, fece spegnere il
riscaldamento, raggelandolo, e costruì una sorta di
muro formato da innumerevoli scatoloni di latta
numerati, e sovrapposti. Al di là del muro, ventitré
rettangoli costituiti da vestiti sovrapposti, ordinati
su tre file. Intorno, pali di ferro e luci al neon: come
in un campo di sterminio. Avanzando ancora,
mentre gli altoparlanti diffondevano il ritmo
ossessivo di un corale battito cardiaco, ci si trovava
al cospetto di una visione sconvolgente: una
montagna di vestiti alta venti metri, dalla cui cima
un braccio meccanico attingeva continuamente,
prelevando alcuni capi che poi faceva ricadere. La
mano della morte, o del caso. E il destino di ogni
singolo uomo. Il titolo dell’opera era la parola
francese Personnes: che letto significa ‘persone’,
ma che, pronunciato, suona come ‘nessuno’.
LA MEMORIA E LA SUA PERDITA
Forse per questa forza inaudita che l’oblio sta segretamente
conquistando, il tema della perdita della memoria è così
centrale nella ricerca artistica contemporanea. Prendiamo un
ambito che negli ultimi anni è letteralmente “esploso”, fino a
configurarsi come un vero e proprio genere: quello dei lavori
relativi a luoghi abbandonati (e dimenticati). Lavori spesso di
grande fascino, benché la sovraesposizione mediatica di
ospedali psichiatrici in rovina e stabilimenti termali ormai
deserti rischi di stancare lo spettatore: di luoghi abbandonati
abbondano i musei e gli spazi espositivi, i siti Internet, le gallerie
fotografiche dei quotidiani online. Tra i lavori di artisti italiani,
merita ricordare l’Atlas Italiae di Silvia Camporesi, mentre molte
opere interessanti giungono dall’ex blocco sovietico, dove la
sostituzione di una civiltà a un’altra verificatasi una trentina
d’anni fa ha condotto a una fioritura di straordinari luoghi inutili:
si può menzionare il “documentario poetico-sperimentale”
Monument (2015) di Igor Grubić, composto da nove ritratti di
imponenti memoriali di cemento sparsi per la ex Jugoslavia, e
dimenticati tra le selve e i pascoli; o le bellissime istantanee che
il giovane fotografo russo Danila Tkachenko ha dedicato alle
monumentali infrastrutture sovietiche che giacciono
abbandonate in aree remote, in un paesaggio ghiacciato dove
tutto è bianco.

Silvia Camporesi, Kirigami da Atlas Italiae,2017


Jaon Jonas: L'Identità Celata
La pratica performativa della Jonas ruota principalmente attorno all’autoritratto (nonostante a volte utilizzi
esclusivamente giovani attori), alla maschera e all’intreccio primitivo che l’uomo vive con la natura. Nei suoi video
impersona sempre personaggi immaginari, coprendosi la faccia con maschere autoprodotte che molto ricordano la
nera Africa. Vestita di larghi abiti leggeri, sfrutta il riflesso di specchi per mostrare ciò che sta attorno a lei,
osservando i riflessi della luce dell’immagine modificata dalla superficie irregolare dello specchio. La location può
essere un bosco, oppure la sua casa di legno, in cui vive con il proprio fedele cane, spesso attore dei suoi film. Le sue
performance indagano l’identità, molte di esse sembrano alludere alle pratiche sciamaniche in cui con bastoni,
carboncini e gesti esagerati si muove nello spazio. Uno dei suoi lavori che preferisco è quello in cui lei è seduta su
una sedia, coperta completamente da un grande lenzuolo di carta bianco, dal quale fuoriesce solo la sua mano che,
con un carboncino nero in mano, ricalca le forme del suo corpo lasciando la traccia più essenziale di sé. Le sue
esposizioni, inoltre, sono delle vere e proprie installazioni, in cui il video proiettato si intreccia con disegni alle pareti,
reperti di varia natura esposti in vetrine o semplicemente appoggiati a terra, coni di carta fotografica, in modo tale
che ogni lavoro “disturbi” il suo vicino.
Luigi Ontani: la Pluralità dell'Essere
Luigi Ontani è protagonista di molte delle sue opere, nel senso che gli è
sempre piaciuto rappresentarsi in vesti altrui. All’inizio degli anni 70’ le “vesti”
non erano sempre presenti, come nella serie fotografica Le prigioni,
gigantografie a grandezza naturale, colorate a mano, dove è completamente
nudo. Pioniere italiano non solo per le sue gigantografie a cui infonde una vena
narrativa, ma anche per le sue opere in video e le sue performances, che
partono dalla fine degli anni 60. Nel corso degli anni, Ontani ha interpretato in
prima persona tutti gli dei dell’Olimpo, vari santi di provenienza indiana o
semplicemente immaginati, immedesimandosi persino in Cristo con una
corona di spine.

“Io mi sono nutrito di memoria, della storia, dell’allegoria quindi di archeologia,


all’antico al moderno per essere poi eventualmente, spero, per eccezione
contemporaneo. Quindi l’attualità mi crea a volte delle piccole insofferenze,
non userei il termine nausea.”

“Mi sono compiaciuto di alterità, tutte le dualità, le trinità, le trilogie, il doppio,


ho cercato di esprimerlo sotto il segno del simulacro (…) un viaggio d’identità
conservando la mia fisonomia, giocando su degli elementi simbolici,
elementari minimi e trasformando e dedicando all’altrui identità una mitologia
appunto di tempo infinito, eventualmente rifinito e definito secondo anche
degli elementi di semplicità. E ho proiettato le mie fantasie proprio per non
vivere un elemento di condizionamento della quotidianità. “
UGO SPAGNUOLO: Imbottigliare il Contemporaneo
Sigillare la memoria storica è anche la pratica di Ugo Spagnuolo
(Roma, 1964), in cui l’emblema della bottiglia ha una funzione
apotropaica ben designata: le memorie al loro interno vengono
catturate e chiuse ermeticamente dal pubblico, che diventa parte
integrante dell’opera. Attraverso un lavoro di Street Art presso la
fermata della metropolitana Porta Furba della linea A Roma,
Spagnuolo ha realizzato un murale, Vuoti di memoria (2018), di
oltre 400 mq, in cui sono stati immortalati diciotto personaggi
storici del quartiere romano colti nell’attimo in cui sigillano una
bottiglia che diventa un contenitore di memoria. Il rito della
sigillatura delle bottiglie, fortemente simbolico, è il luogo in cui si
paralizzano icone e reminiscenze, dove si assolve sul piano
culturale al concetto di “presenza” espresso da Ernesto De Martino,
la capacità cioè di riportare alla luce quelle esperienze personali e
collettive che la tradizione rievoca per rispondere pienamente a
una crisi, che è data poi dall’incomprensibilità dell’uomo verso la
morte, percepita come scandalo, come spazio straniero. Il vuoto di
memoria diventa, per Spagnuolo, uno spazio da colmare,
attraverso le testimonianze, i ricordi di passanti e di viaggiatori che
ogni giorno compiono un percorso personale nella geografia
complessa della contemporaneità.
Maria Grazia Carriero,
Attraversa-menti,
MARIA GRAZIA CARRIERO:
Taranto 2018
Conservare per Ritrovare
Maria Grazia Carriero (Gioia del Colle, 1980), crea per la
residenza artistica Public Scape Taranto una installazione,
attraversa-menti (2018), in cui conserva in contenitori di vetro
le memorie del capoluogo ionico. Una città complessa,
profondamente studiata dalla Carriero per anni, prima con la
fotografia da reportage, poi oggi attraverso i differenti
linguaggi dell’arte contemporanea. La Carriero percorre una
geografia a ritroso dalla quale coglie sapientemente gli oggetti
di vite passate e di architetture morenti: dai pezzi di calce di
case disabitate a piante spontanee nate sui muri bianchi che
divengono residenza del nulla, in cui il tempo e la natura
cancellano i contorni e ne modificano la storia, i confini e le
stratificazioni. In questa pratica, non solo si conservano le
memorie fisiche e geografiche, ma anche e soprattutto le
memorie individuali, fatte di pratiche magiche, di preghiere e
di saperi popolari, di lettere e di strumenti del lavoro dei
pescatori del luogo. Un rito, quello di Maria Grazia Carriero,
che vede nell’attimo del cogliere e del conservare la paura di
perdere la storia, l’ossessività di voler ricordare al pubblico
l’inesorabilità del tempo che tutto distrugge e assottiglia e
quindi il compito dell’artista di dover restituire alla
contemporaneità il passato anche nella sua tragicità.

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