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PAOLO LOMBARDI

UN MITO SOLARE
Otto Rahn dai catari alle SS
In copertina: illustrazione di Gérard Goffaux
(su gentile concessione dell’autore).

ISBN 978-88-7814-888-8
e-ISBN 978-88-7814-889-5
© 2018 All’Insegna del Giglio s.a.s. – Firenze
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Firenze, dicembre 2018
Stampa, Tecnografica Rossi
PAOLO LOMBARDI

UN MITO SOLARE
Otto Rahn dai catari alle SS

All’Insegna del Giglio s.a.s.


Indice

Premessa, di Stefano Bettini . . . . . . . . . . . . . 7

1. Interludio 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
2. L’inizio (1904-1931) . . . . . . . . . . . . . . 15
3. Alla ricerca del Graal (1930-32) . . . . . . . . . . 23
4. Le grotte (1930-1933) . . . . . . . . . . . . . . 35
5. Crociata contro il Graal (1933-34) . . . . . . . . . 49
6. Al servizio del Reichsführer-SS (1935-1937) . . . . . . 61
7. Al servizio del Reichsführer-SS II (1936-1937) . . . . . 73
8. La corte di Lucifero (1937) . . . . . . . . . . . . 81
9. Il cerchio si stringe (1937-38) . . . . . . . . . . . 101
10. La fine (1939) . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
11. Interludio 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . 115
12. Epilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117

Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . 123
7

Premessa

Non è facile per uno storico cimentarsi con un personaggio come Otto
Rahn. Non è facile, soprattutto, tentare di ricostruire una biografia del perso-
naggio aderente al vero e in grado di aggiungere qualcosa a quelle firmate da
Hans-Jürgen Lange e (in seconda istanza) da Mauro Baudino. Paolo Lombardi
era consapevole di tutto ciò sin dall’inizio e aveva ben presenti i problemi che
avrebbe incontrato lungo il cammino, a cominciare dalle lacune difficilmente
colmabili nell’ambito delle fonti primarie. I materiali biografici su Rahn sono
scarsi e Lombardi si è così sentito costretto a ricorrere a invenzioni letterarie, ri-
portando dialoghi probabilmente mai avvenuti ma senz’altro attinenti a quanto
i protagonisti devono essersi detti negli incontri fra loro intercorsi: costruendo
il testo come un ibrido fra un lavoro di storia e una biografia romanzata; dando
vita a una storia finzionale il più possibile aderente allo svolgimento dei fatti.
Il terreno non è privo di insidie. Con Rahn, infatti, c’è da affrontare per
prima cosa l’alone di mistero esoterico che ha accompagnato il personaggio
nel corso della sua vita e, ancor più, dopo la sua morte, avvenuta essa stessa in
circostanze mai sufficientemente chiarite.
Le stesse tesi di Rahn (la sua sintesi fra catarismo, antichi riti pagani e po-
esia occitana; le sue convinzioni sul Graal come pietra appartenuta all’angelo
decaduto Lucifero e sul ruolo «oscurantista» giocato continuativamente dalla
Chiesa di Roma) furono peraltro solo in parte fondate su documenti attendibili
e, per il resto, affidate a un intreccio di casualità avvertite come fatalità e segni
del destino.
Insomma un compito delicato per uno storico scrupoloso e poco incline
a indulgere al sensazionalismo ma costretto qui a far luce sul passaggio fra il
neocatarismo della Crociata contro il Graal e l’adesione dell’autore alle SS di
Himmler che sottostà alla stesura de La corte di Lucifero.
La biografia di Rahn può essere sinteticamente suddivisa in tre periodi. Il
primo è quello precedente alla pubblicazione della Crociata contro il Graal, in
cui il nostro si dedica appassionatamente alla ricerca delle connessioni fra il ca-
tarismo e il Graal, e in cui rielabora la propria tesi di laurea su von Eschenbach
alla luce delle visite a Montségur e delle spedizioni nelle grotte del Sabarthez;
il secondo è quello compreso a grandi linee fra il 1934 e il 1936 con l’ascesa
sociale di Rahn che, in seguito alla pubblicazione del suo primo libro, si ri-
trova ad essere «uno degli scrittori più celebri d’Europa», a vantare il sostegno
8 Un mito solare

di studiosi e personalità influenti e infine a entrare nelle grazie di Himmler e


aderire alle SS. Il terzo periodo è infine quello degli ultimi tre anni di vita che
vede l’emergere dei problemi legati non solo alle tendenze sessuali del nostro
ma anche alle rivalità interne dell’apparato di potere nazista, in particolare a
quei circoli vicini a Himmler impegnati a ri/costruire le radici occulte della
stirpe ariana.
Le suddette tre fasi sono il fulcro dell’indagine svolta da Lombardi e c’è qui
poco da aggiungere. C’è invece molto da dire su ciò che accade dopo la morte
di Otto Rahn, quando a più riprese il personaggio reale si trova ammantato di
un alone mistico/misterico che va a fondersi con l’immaginario proprio delle
interpretazioni esoteriche del nazismo fino a trasformare il Rahn storico in
un’autentica icona pop con tanto di comparse non solo in saggi scientificamen-
te poco attendibili (di alcuni dei quali si dirà sotto) ma anche nella letteratura
fantasy o pulp e nei fumetti. Fino a diventare secondo alcuni l’ispiratore princi-
pale dell’Indiana Jones di Spielberg (o, quantomeno, del malvagio Arnold Toht
ne I predatori dell’arca perduta).
L’autentico cacciatore del Graal era un nazi! Cosa c’è da sorprendersi se una
simile premessa abbia reso Rahn un personaggio ideale di un film artificialmen-
te evocativo come The Secret Glory di Richard Stanley (2001), di una cospicua
serie di detective stories (fra queste: The Eye of Ra di Jeanne D’Août, The Judas
Apocalypse di Dan McNeil, Citadel di Kate Mosse, Sorcerer’s Feud di Katharine
Kerr, The Pale Criminal di Philip Kerr, Blood Lance di Craig Smith e un volume
della serie Tom Crow titolato Blood on the Clyde), di brani musicali di dance
elettronica (come Requiem für Otto Rahn del gruppo austriaco Allerseelen op-
pure Otto Rahn della band australiana Snog, con la peculiare strofa «Il passato
non è una reliquia ma un labirinto, oltre i posti di blocco e la foschia cultu-
rale») o di vari numeri del fumetto italiano Martin Mystère (ad es.: il n. 121
imperniato sul tesoro dei Catari, il 292 titolato Il sole nero e l’Album Gigante
1 del 1995 con racconti legati alle varie leggende sul Graal). Del resto a Rahn,
l’uomo che ha «dedicato la vita a meditare con alto rigore sulla natura europea
e ariana del Graal» fa riferimento anche Umberto Eco ne Il Pendolo di Foucault
(da cui è tratta la citazione). Se non bastasse poi la ricerca del Graal a rendere
irresistibile l’appeal pop di Rahn vi sono innumerevoli altre componenti. Tante
cose, magari non vere e neppure verosimili, che hanno cominciato a trapelare
sulla sua vita come sulla sua morte o presunta tale.
Una fra le tante leggende riguarda le testimonianze di coloro che giurano di
aver visto Rahn nella villa dell’abate Saunière a Rennes-le-Châteaux, sottinten-
dendo naturalmente i legami fra il nostro, i Cavalieri Templari e quel Priorato
di Sion reso (sin troppo) celebre da Il codice da Vinci di Dan Brown.
C’è addirittura chi ha sostenuto che Rahn abbia solo inscenato il suo sui-
cidio… ipotesi suggestiva che, da Elvis a Tupac, ha in genere accompagnato la
Premessa 9

scomparsa delle rock star più famose. Come nel caso di molte star della cultura
popolare, anche su Rahn esistono molteplici leggende sulla sua seconda vita.
In una di esse (dovuta a Christian Bernadac e fondata su somiglianze im-
probabili e sull’‘incredibile’ coincidenza secondo la quale i due uomini avreb-
bero avuto la medesima segretaria in tempi diversi) Otto Rahn riapparve qual-
che anno dopo il 1939 nelle vesti di Rudolf Rahn come collaboratore di Karl
Wolff, plenipotenziario delle SS a Salò. In un’altra versione (suffragata dalla
giornalista televisiva Yura Nonvoselov) Rahn si è reincarnato in un cittadino
russo. Secondo un libro di recentissima pubblicazione – Der Weg in die innere
Welt: Die Heimkehr des Otto Rahn di Ariane Beyer – il redivivo Rahn ha parte-
cipato invece nel 1943 alla costruzione dei V7 (i fantomatici dischi volanti del
Terzo Reich) per poi dedicarsi in incognito alla conquista del mondo attraverso
l’ascesa del misterioso Ordine di Thule.
Come se non bastasse, a incoraggiare chi ama speculare e infiorettare sulla
figura di Rahn ci sono poi tutti gli aspetti esoterici e misteriosi collegati al neo-
paganesimo nazista; aspetti che, a partire quantomeno dalla pubblicazione de Il
mattino dei maghi di Bergier e Pauwels nei primi anni Sessanta, hanno generato
un vero e proprio genere letterario nel quale è labile il confine fra ricostruzione
fantasiosa di eventi con un loro fondamento di autenticità e deliranti invenzioni
che fondono (e confondono) miti, storia e le più strampalate assurdità.
Questo genere di speculazioni ha attinto a man bassa dalla cosmogonia vi-
sionaria di Hörbiger, dall’ariosofia di Guido von List o dai testi di Rudolf von
Sebottendorf, ma anche dalla vita reale di personaggi come Wiligut o lo stesso
Himmler: basti pensare al ruolo decisivo avuto dal Reichsführer delle SS nella
fondazione e nella gestione della Ahnenerbe (le cui attività, inclusa la celebre
spedizione in Tibet del 1938/39, sono storicamente ben documentate). E si po-
trebbe continuare con ulteriori esempi chiamando in causa il Graal stesso, visto
che ancora oggi c’è chi continua a sostenere che, nel ’44, il massacro nazista
della popolazione di Oradur-sur-Glane fu dovuto proprio alla ricerca di tale
reliquia (un tema questo divenuto di grande attualità dopo la pubblicazione de
Il mattino dei maghi e di Nouveaux Cathares pour Montségur di Marc Augier alias
Saint-Loup nel 1965; riportato quindi in auge nel ’91 da Howard Buechner che,
nel suo Emerald Cup-Ark of Gold, traccia un fil rouge fra le ricerche di Rahn e le
presunte missioni di Otto Skorzeny nei Pirenei francesi).
Molti autori si sono spinti ben oltre la rielaborazione sensazionalistica di
temi come quelli appena rammentati o di altri analoghi. Hanno tracciato linee
di contatto fra il catarismo o le varie ipotesi sugli iperborei e i temi più disparati:
i già citati dischi volanti di fabbricazione nazista, Neu Berlin e le altre presunte
basi segrete del Terzo Reich in Antartide, la società segreta del Vril che attinge
energia da un punto invisibile della Galassia noto come “Sole Nero” (che si dice
essere stato profetizzato dai Maya ma che non è mai nominato da Sir Edward
10 Un mito solare

Bulwer-Lytton in The Coming Race del 1871, dove il concetto di Vril è introdotto
e descritto come una sorta di peculiare fluido elettrico), la profezia del terzo
Sargon e la magia nera segreta dei Lama Tibetani.
Fiumi d’inchiostro! Versati da autori come i citati Saint Loup, Beyer e Ber-
nadac, o come Jean-Michel Angebert, Wilhelm Landig, Erich Halik, Rudolf
J. Mund, Miguel Serrano e Rudiger Sünner (quest’ultimo anche regista del do-
cumentario Schwarze Sonne). Scrittori accomunati in genere da una presenta-
zione decontestualizzata del nazismo, improntata a idee millenaristiche e del
tutto silente (se non accondiscendente) sulla realtà brutale di un regime volto
all’assassinio e alla violenza gratuita.
Nei testi di questi scrittori (e, talvolta, persino in quelli di autori più accredi-
tati quali Giorgio Galli, Nicholas Goodrick-Clarke, René Alleau o James Webb)
la figura di Rahn appare quasi sempre come quella di un personaggio fascinoso
votato all’esoterismo e all’occultismo e in qualche modo fondamentale sia come
ricercatore che come agente attivo nella diffusione di una pseudo-spiritualità
eroica di stampo ariano.
In effetti la contraffazione del passato di cui parla Lombardi a proposito
di Rahn è servita da esempio a molte opere successive, mentre è indubbio che
svariate pagine de La corte di Lucifero anticipino temi cari al realismo magico
(primo fra tutti quello di Thule che ha una sua centralità nel testo di Rahn). È
arduo però voler vedere nelle rielaborazioni di testi classici assemblate da Rahn
una qualche vocazione occultista.
Lombardi è stato bravo a mantenere la lucidità intellettuale, a non indulgere
verso le innumerevoli suggestioni costruite sul personaggio Rahn. Nel presen-
te libro viene fuori così un Rahn meno personaggio e più persona; un Rahn
umano, forse troppo umano, incapace di mascherare adeguatamente la propria
personalità e le proprie debolezze e pertanto inevitabilmente destinato a una fine
ingloriosa nell’ambito dei giochi di potere interni alle Schutzstaffel.
Stefano Bettini
11

1.
Interludio 1

Montagna Wilder Kaiser

La nevicata era cessata, così come il vento, e ora una luna gialla e
rotonda sembrava attaccata al cielo con una puntina da disegno tanto
spiccava nel buio.
La morte per ipotermia non è una morte dolorosa. Quando la tem-
peratura scende oltre un certo limite, iniziano i brividi, la parlata diventa
lenta e difficoltosa, il polso rallenta, il respiro diventa pigro e superficiale.
La coscienza sembra annegare nel buio, e la confusione diventa massima;
in alcuni casi, è capitato che chi fosse stato colpito da ipotermia grave av-
vertisse caldo, e tentasse di strapparsi i vestiti di dosso. Il più delle volte,
però, prevale la sonnolenza e una strana forma di letargia.
Otto Rahn aveva già superato da molto tempo quei primi stadi.
I brividi erano cessati da parecchio, anche grazie a una bottiglia di
cognac che ora giaceva vuota accanto a lui. Da quante ore era lì, disteso
nella neve e appoggiato al tronco di un albero? Aveva perduto la co-
gnizione del passare delle ore, e persino aprire gli occhi e fissare la luna
richiedeva uno sforzo insostenibile. No, meglio tenere gli occhi chiusi e
lasciare che le immagini fluttuassero liberamente. Ormai aveva smesso
anche di cercare la seconda bottiglia di cognac, che doveva essere ancora
mezza piena. Per un po’ aveva allungato il braccio, cercando a tentoni nel
buio l’involucro di vetro. Anche quell’impegno scoordinato, ora, sembra-
va impossibile e comunque non necessario. Il cognac aveva già compiuto
il proprio lavoro, e tutto quello che restava era solo il fatto di lasciarsi an-
dare, di farsi sommergere da quella spossatezza estrema che gli fiaccava le
membra e che gli rendeva difficile il filo dei pensieri. Tanto valeva lasciarli
andare liberamente, senza tentare di dirigerli, in una rapsodia che, come
un treno in corsa, andava a cento chilometri l’ora.
Rahn riusciva tuttavia a mantenere ancora una qualche forma di ordi-
ne nei pensieri, segno forse che la fine non era così imminente, che non
12 Un mito solare

era l’ultimo arrendersi e abbandonarsi. Qualche brandello della mente di


Rahn, qualche parte della sua anima intorpidita dal freddo e dal liquore,
ancora funzionava normalmente.
Come si era giunti a quel punto?, sembrava chiedersi quella parte
dell’anima di Rahn ancora vivente. Qual’era la svolta che aveva condotto
Rahn alla montagna del Wilder Kaiser, per rintanarsi a morire? A fatica,
l’anima distrutta di Rahn riusciva ancora a immaginarsi il Graal, quel
simbolo di fede e di spiritualità, un simbolo di vita, se mai ce n’era stato
uno. Era quello il punto di partenza. Com’era possibile che poi tutto si
fosse rovesciato, che tutto avesse cospirato per arrivare a quel momento,
sul Wilder Kaiser, a quel momento di morte? Era difficile da capire.
Rahn emise un sospiro.
La luna gialla non si muoveva, proprio come se fosse stata appuntata
lassù nel cielo nero e ora limpido come su un foglio di carta carbone, o
forse era l’immagine di qualche tempo fa che ancora languiva dietro le
palpebre chiuse di Rahn, che proprio non riusciva a concepire la fatica
di aprirle. Anche il vento sembrava cessato, e dopotutto era più semplice
giacere lì, immoto nella neve, in un lago di stanchezza, che tentare una
qualsiasi mossa pesante come centomila macigni.
Le immagini, però, continuavano a flottare dietro le palpebre chiuse,
indisturbate dalla luna e dalla mancanza di vento. Si presentavano lì, da
sole, senza bisogno di nessun sforzo. Dicono che chi sia sul punto di mo-
rire riveda tutta la propria esistenza, e si tratta di un’invenzione, perché
chi è sul punto di morire sente solo l’imminenza della fine e il rimpianto
del proprio essere che di lì a poco non sarà più, e non ha tempo né ener-
gie per oziose rassegne. Questo era vero anche per Rahn. No, quello che
gli accadeva era piuttosto che qualcosa della sua anima era ancora vivo,
non si era arreso, e cercava un filo per capire, per comprendere, e se era
possibile per accettare e riscattare. La mente di Rahn non aveva ancora
capitolato, si sforzava, come sempre, di intrecciare fili, intessere dati, ri-
cavare storie. Quello era Rahn e lo sarebbe stato fino all’ultimo. Il lavorio
segreto continuava, forse persino sotto la soglia della coscienza ottenebra-
ta di Rahn, le immagini passavano e si soffermavano. Ma forse non erano
immagini, immagini del passato… ricordi. L’anima di Rahn ritesseva il
filo dei ricordi, alla ricerca di un senso, di una trama che spiegasse come
tutti quei momenti, nel tempo, fossero poi sfociati in quell’atto finale,
nel buio del monte Wilder Kaiser. Rahn era stato abituato a lungo a fare
quel lavoro per enti a lui esterni; ora rivolgeva questo stesso incessante
Interludio 1 13

fervore, fosse per antica abitudine o per trovare un significato finale, ver-
so se stesso.
La luna immobile in cielo era ignara di quest’attività segreta, clande-
stina. Forse si trattava di un’attività ignota persino alla coscienza dello
stesso Rahn. Finché questa era stata vigile e guardinga, non tutto ciò che
era accaduto poteva diventare ricordo; contenuti minacciosi e pericolo-
si non potevano venire ammessi, neppure di fronte a se stessi. Era una
funzione difensiva che permetteva di ignorare su di sé cose che non si
volevano sapere, e che venivano respinte nell’indistinto e nell’ombra. Ma
non erano indistinte. Ora quelle rammemorazioni eludevano la severa
guardia della coscienza indebolita e potevano liberamente fluttuare, una
storia che in altre circostanze non sarebbe emersa.
C’era dell’ironia in fondo; Rahn aveva sempre fatto vanto della sua
capacità di restituire storie che qualcuno aveva tentato di cancellare. Ora
toccava a lui, in quei momenti decisivi, su quella montagna innevata che
forse stimolava anch’essa quei ricordi; tutti i passaggi che erano stati un
passo avanti verso la conclusione che ora affrontava.
C’era una luce gialla, fosca. Le immagini apparivano come lampi.
Con gli occhi della mente, Rahn riviveva ogni scena…
15

2.
L’inizio
(1904-1931)

Della sua infanzia, Otto Rahn non ricordava molto o ne parlava di


rado. Era nato nel 1904 nell’Odenwald, a Michaelstadt, e la cosa gli era
sempre sembrata un segno del destino, visto che si trovava del luogo nei
cui pressi, secondo la vecchia mitologia, Sigfrido aveva ucciso il drago.
Più tardi lo stesso Rahn ebbe a dire che Parsifal, Sigfrido e Odino erano
stati i suoi padrini. Era stato un cammino predestinato, di cui questa
nascita nei luoghi della leggenda era stata una spia precoce? O più pro-
babilmente era stata la madre Clara a interessarlo ai miti e alle epopee,
visto che la città di Michaelstadt era quella della famiglia di costei, e che
Clara era dedita a letture di testi consacrati alla mitologia e alle dottrine
esoteriche? Certo i genitori erano molto religiosi; appartenevano alla fede
evangelica, e come tale educarono il piccolo Otto. Dal 1914 la famiglia
si trasferì a Giessen, abbandonando la sede del mito. O forse era Rahn
che proiettava all’indietro, fin nella sua infanzia, interessi e preoccupa-
zioni che sarebbero nate solo dopo. La scuola, ad esempio, lo annoiava
profondamente, e in particolare lo annoiava l’insegnamento della storia.
Le cose potevano però essere altrimenti; poteva anche darsi che l’uomo
Rahn rimandasse all’indietro, sul giovane Rahn, la sua antipatia, cresciu-
ta con la maturità, per una storia priva di poesia, degna di un maestro di
scuola catarroso (come Rahn disse davvero poi nel 1933). Una storia con
premesse poetiche? Ma una scienza perfetta, una perfetta conoscenza del
passato, non deve forse essere poetica?
Veramente la pensava così il giovane Otto Rahn, o era il maturo Otto
Rahn che ricostruiva così un percorso che ora sembrava già incanalato
verso la sua conclusione fin dall’inizio, ma che all’epoca sembrava ancora
aperto a ogni suggestione e a ogni possibile direzione? O forse erano stati
gli studi universitari iniziati nel 1922 a Giessen, dapprima, e poi a Fribur-
go (Rahn si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, per precisa volontà
del padre, cancelliere presso un tribunale) a riorientare i suoi interessi?
16 Un mito solare

Certo è che la vita universitaria gli aveva rivelato molto su se stesso. Rahn
era un uomo assai riservato, schivo per certi versi, eppure desideroso di
attenzione e accettazione. Le relazioni non venivano facili, a meno che
non potesse essere certo di fare bella figura (il che, grazie alla parola lesta
e alla appassionata presentazione che non mancava mai di fare delle pro-
prie idee, capitava spesso). Desiderio e ritrosia combattevano in lui come
due anime in dissidio, come forse era naturale nel rampollo della severa
fede evangelica. Malgrado ciò, la natura di quel desiderio gli fu rivelata
appieno durante i primi anni universitari, quando incontrò due persone
che ebbero importanza nella sua vita. La prima persona era uno studente
come lui. La seconda persona era l’artista e poeta Albert Rausch.
Rahn aveva incontrato Rausch a Giessen, ed era rimasto subito col-
pito dall’anticonformismo di quest’ultimo. Rausch era audace come
scrittore, anche se sotto lo pseudonimo Henry Benrath, e come uomo;
non aveva timore nel riconoscere apertamente le proprie tendenze
omosessuali e amava circondarsi di ragazzi giovani. Rahn trovò in lui
un mentore e osò andare oltre la propria abituale riservatezza, anche
quando Rausch si era trasferito a Parigi a lavorare per la Croce Rossa.
Aveva avidamente letto il romanzo di Rausch Eros anadyomenos che lo
aveva entusiasmato e trovava nell’artista più anziano (nel 1924, Rausch
aveva cinquantadue anni) una figura cui appoggiarsi e a cui chiedere
consiglio e aprire il proprio cuore dilaniato. Fu l’inizio di un’amicizia e
di un rapporto epistolare che, iniziato nel 1927, sarebbe proseguito per
sette anni. Rausch fu anche un sostegno per Rahn quando, nel 1925,
dovette interrompere gli studi a causa di serie difficoltà economiche, un
problema che lo avrebbe tormentato a lungo nella sua vita. Abitò pres-
so camere affittate, pensioncine, insomma dove capitava e sbarcava il
lunario come poteva, lavorando come commesso viaggiatore per alcune
case editrici, come la Deutsche Verlagsanstalt, il che lo esponeva a una
vita vagabonda, in continuo viaggio per tutta la Germania, Bremerha-
ven, Oldenburg, Hannover, Berlino, Aachen. Si trattava di un’esistenza
raminga, faticosa. Lo stesso Rahn scrisse a Rausch, il 27 febbraio 1928,
«Si è così stanchi di viaggiare e di correre avanti e indietro, che si è con-
tenti di mettersi a letto». Finalmente, nell’agosto di quello stesso anno,
la casa editrice Sieben-Stäbe di Norden fece balenare la possibilità di
fornire a Rahn, a partire dall’autunno successivo, un automobile per i
suoi viaggi. Piccoli passi e piccoli avanzamenti. Per il momento non era
possibile fare altro.
L’inizio 17

Oltre ai turbamenti dell’esistenza economica c’erano quelli del cuore.


All’inizio di ottobre 1927, Rahn scrisse a Rausch da Amburgo, dove aveva
seguito lo studente Otto Hofferberg, di cui si era invaghito a Giessen e
che gli aveva pienamente rivelato la natura dei suoi sentimenti, il secondo
incontro rivelatore. Nella lettera a Rausch, Rahn si apriva completamen-
te, come non era facile che facesse, e si abbandonava a espressioni chiare
nei confronti di Hofferberg: «L’ho amato tanto, come nessun altro, né
prima né dopo». Il cuore che si affacciava alla scoperta della propria sensi-
bilità amorosa traboccava fuori dalla riservatezza imposta della secca fede
evangelica. «Per prima cosa mi sono messo a cercare la strada dove abita.
Ho camminato avanti e indietro per quasi un’ora, sono salito sulla scala
su cui lui sale così spesso, ho guardato attraverso la finestra della sala da
pranzo a pianterreno (conosco dai suoi racconti tutti gli angoli della casa
fin nei minimi particolari) e così ho fatto tutti i giorni. Se guardo le navi
nel porto mi vengono in mente i castelli in aria che ci costruivamo nella
nostra grande amicizia. A farla breve, sono semplicemente impazzito».
La delusione era stata anche maggiore, quando Rahn aveva appreso
dal padre di quest’ultimo che il figlio non si trovava a Amburgo, bensì
a Göttingen, dove aveva trovato un posto di assistente alla Facoltà di
Veterinaria. A Rahn non era rimasto che struggersi per ore passeggiando
avanti e indietro di fronte alla casa dell’amato. Che cosa fare? In una si-
tuazione come questa, l’aiuto di Rausch diventava indispensabile. E Rahn
aggiungeva righe su righe nella sua lettera da Amburgo. «Che devo fare?
La imploro, mi dia un consiglio. Quasi quattro anni fa, stupidamente,
non lasciai, in parte era colpa mia, che l’amicizia sbocciasse. Quanto mi
pento della mia stupidaggine. Oggi mi tormenta il pensiero che lui possa
avere trovato un altro amico. Su questa faccenda devo fare chiarezza ad
ogni costo. Devo scrivergli, devo andare a Göttingen? Mi porta rancore,
lo so. Mi dia un consiglio. Lei è il primo a cui consento di entrare nella
mia vita amorosa…».
Rausch era più di un appoggio durante questi turbamenti. Era anche
un intellettuale affermato, pieno di contatti, contatti che era disposto
a usare per aiutare Rahn, e Rahn cercava di ricambiare come poteva.
Rausch si interessava alla storia degli imperatori tedeschi in Italia e su
consiglio di Rahn aveva inviato i suoi saggi sull’argomento a un agente
letterario di Beuthen, Evers. Quindi il rapporto tra Rausch e Rahn non
era a senso unico. Nel frattempo Rahn cercava di migliorare le sue con-
dizioni economiche. All’inizio del 1928 si trovava a Berlino e aveva preso
18 Un mito solare

a collaborare con l’industria cinematografica. Revisionava copioni per la


casa di produzione Lux Europa e cercava ancora di piazzare i saggi italiani
di Rausch presso qualche editore. Quindi tornò a casa dei suoi, che si era-
no trasferiti a Lorch, e riprese a frequentare l’università, abbandonando
però i corsi di giurisprudenza. Prese a frequentare le lezioni di filologia
a Heidelberg e trovò molto interesse nelle letture del professor Friedrich
Guldenfinger. Guldenfinger era professore di letteratura e di storia, ed
era riuscito a infrangere la diffidenza originaria di Rahn per questa mate-
ria, perché Guldenfinger riteneva che la storia avesse più a che vedere con
l’estetica che con la nuda raccolta di fatti, e quest’approccio soddisfaceva
lo spirito di Rahn. L’unità dell’artista e della sua opera era un’esigenza che
non poteva non esigere appagamento, persino nella disciplina storica;
non a caso, Guldenfinger era un membro della cerchia che si era raccolta
attorno al poeta Stefan George. Per una curiosa coincidenza, ai corsi del
professor Guldenfinger attendeva anche un altro studente che poi sareb-
be diventato celebre: Josef Goebbels.
Forse Guldenfinger ricordava a Rahn il suo vecchio professore del
ginnasio frequentato a Giessen, il barone August von Gall, il primo che
avesse parlato a Rahn del mito del Graal. Di certo il Graal rimase tra
gli interessi principali di Rahn, che ora progettava una tesi su Wolfram
von Eschenbach, il poeta tedesco che nel XIII secolo aveva scritto il
celebre poema cavalleresco sul Graal, il Parzival, a partire dalla cui ispi-
razione Wagner aveva composto il libretto del Parsifal. La fascinazione
del mito concepita nell’Odenwald continuava. Nonostante l’interesse
per questi argomenti, però, Rahn non riuscì a completare gli studi. Per
altri aspetti, tuttavia, la vita gli sorrideva di nuovo. Nella seconda metà
del 1928 un diciannovenne ginevrino venne a pensione dai genitori di
Rahn, allo scopo di perfezionare il proprio tedesco: Raymond Perrier.
Per la famiglia, si trattava di un sostegno economico insperato e ben-
venuto, ma per Otto si rivelò qualcosa di più. Rahn non poté resistere
alla tentazione di scriverne a Rausch in un biglietto del novembre 1928
spedito da Lorsch: «I miei genitori posseggono una graziosa casetta nei
pressi della Bergstraße. Anche il cuore è servito. 19 anni, bello, molto
bello, e di Ginevra». Le timidezze che erano affiorate durante il proble-
matico rapporto con Hofferberg sembravano del tutto superate; il 25
marzo 1929, in una nuova lettera a Rausch, Rahn annunciava una pros-
sima gita in bicicletta a Echzell assieme a Perrier. Il legame era sboc-
ciato. Rahn e Perrier trascorsero insieme parecchi mesi a Heidelberg,
L’inizio 19

poi, dopo una nuova interruzione degli studi cui andò incontro Rahn,
a Ginevra. Furono ancora mesi beati, prima che la crisi economica
dell’ottobre del 1929, annunciata dal venerdì nero della borsa di New
York, compromettesse quella beatitudine. Nel novembre 1929 Rahn
e Perrier erano a Berlino e la crisi si faceva sentire. Rahn cercava di
mettere insieme il pranzo e la cena con una serie di lavoretti estem-
poranei: supplente in una scuola elementare, traduttore, correttore di
bozze, commesso di negozio, comparsa in un film, maschera nei cine-
ma… Più spesso, disoccupato. Per fortuna poteva pur sempre contare
sull’aiuto e sul sostegno di Rausch. E la relazione con Perrier procedeva
ancora nel migliore dei modi, e ormai Rahn si sentiva abbastanza sicuro
da scrivere apertamente a Rausch che «conviviamo insieme ormai da un
anno e ci amiamo più che mai», e da inserire biglietti scritti da Perrier
stesso nelle sue lettere a Rausch. In un biglietto inserito nella lettera del
25 novembre 1929, Perrier aveva scritto (in francese): «Il periodo del
mio amore per Otto è il più felice della mia breve esistenza; egli mi dice
sempre che non avrebbe potuto costruire la nostra amicizia senza la sua
influenza e i suoi consigli, che hanno ispirato la sua anima confusa».
Pure, la felicità del cuore da sola non bastava nelle durezze dell’esisten-
za; a settembre 1930 Rahn e Perrier dovettero lasciare Berlino e recarsi
dapprima a Nyon, abitando dai genitori di Raymond, poi di nuovo a
Ginevra, dove Rahn riuscì a trovare un impiego come insegnante in
una scuola privata cattolica, un liceo linguistico. Questo lavoro non
entusiasmava Rahn, che approfittò per concedersi una vacanza di sei
settimane a Parigi a fine 1930, periodo nel quale, avendo sviluppato
«una certa routine nell’insegnare agli idioti» (come scrisse di suo pugno
nel febbraio 1931 a Albert Rausch), progettò di cambiare vita e attività
aprendo a Ginevra una casa editrice specializzata nella pubblicazione di
letteratura tedesca e francese. «Il mio programma si sta concretizzando,
e un amico avvocato sta per fondare a questo scopo una società di capi-
tali», scriveva ancora Rahn. Si trattava di un’altra chimera, come ce ne
sarebbero stato tante nella vita di Rahn. I capitali non c’erano proprio,
anche se Rahn si diceva convinto che «il denaro c’è». Forse il denaro
c’era, ma la casa editrice non ci fu mai, ennesima svolta decisiva nella
vita di Rahn che non riuscì mai ad attuarsi.
C’era tuttavia una passione inesausta, che neppure Rahn poteva per-
mettersi di abbandonare: quella della leggenda del Graal. Questa passio-
ne era condivisa con un altro giovane uomo che Rahn aveva conosciuto
20 Un mito solare

nel 1929, durante il periodo berlinese: Paul Ladame. Paul Alexis Ladame,
anch’egli svizzero, era allora studente a Berlino. Aveva una forte incli-
nazione per il mito del Graal e una altrettanto grande fascinazione per
un’oscura eresia francese del XIII secolo: il catarismo. Un intero nuovo
mondo si apriva dinanzi agli occhi di Rahn: quale rapporto ci poteva
essere tra il Graal e gli eretici catari? I catari, sempre i catari. Rahn, che li
aveva già incontrati come vittime dell’inquisitore Konrad di Marburgo,
quasi un conterraneo di Rahn (dopotutto, Michaelstadt non distava mol-
to da Marburgo), ne parlava continuamente, anche con Perrier, anche
lui avviato a diventare un esperto di catarismo, come più tardi sarebbe
diventato un esperto in genealogica.
Si trattava di una credenza dualistica. Due principi, il bene e il male,
la luce e le tenebre, esistevano da sempre, o così credevano i catari.
Ciascuno di questi principi aveva creato il suo mondo. Del resto, il
Vangelo di Giovanni non aveva avvertito chiaramente che il regno di
Cristo non è di questa Terra? Lo stato materiale è malvagio, corrotto,
e chi appartiene al mondo spirituale sta nel primo come in una prigio-
ne. Da questo punto di vista, i catari non credevano alla Trinità. Non
c’era dubbio che la salvezza dal giogo del mondo della materia passasse
attraverso Cristo; ma non c’era neanche dubbio che Cristo, creatura di
puro spirito, non avesse potuto rivestire davvero fattezze terrene, facen-
dosi carico della corruzione della carne. Era evidente che Cristo aveva
assunto sembianza umana, ma non nella realtà, bensì nell’apparenza.
Allo stesso modo, i catari leggevano la Bibbia in maniera particolare,
ritenendo che la storia della creazione del mondo materiale esposta in
Genesi fosse stata grossolanamente fraintesa dalla Chiesa di Roma. Ciò
che era narrato in Genesi non era la cronistoria della creazione del-
le cose contenute nell’universo, ma un racconto simbolico. Per i figli
dello spirito, costretti a esistere in un mondo perverso e inquinato, la
speranza era diventare perfetti nello spirito (o perfecti, come dicevano i
catari), vivendo secondo l’etica insegnata dal Nuovo Testamento e dal
Vangelo di Giovanni in particolare: il rifiuto dell’adulterio, dell’omici-
dio, del furto, della menzogna e dei giuramenti. Il rifiuto di nutrirsi di
carne, di uova e di formaggio. E soprattutto il rifiuto dei modi di vita
e degli insegnamenti tratti dalla Chiesa di Roma, che sprofondavano
sempre più chi li seguiva nella miseria del mondo materiale. Chi tra i
catari non riusciva ad attuare del tutto questa vita austera e rigorosa,
rimaneva nel rango di semplice fedele. Gli altri, i più fortunati, i più
L’inizio 21

forti, raggiungevano il grado dei perfecti attraverso un rito particolare,


detto consolamentum, per iniziare un percorso di duro ascetismo, in cui
rinunciavano ai beni terreni e si vestivano di una lunga tonaca nera.
I perfetti conducevano un’esistenza raminga, viaggiando di comunità
catara in comunità per predicare e portare la parola divina.
Rahn aveva già assimilato queste cose. Ma il Graal? In che momento
entrava nella storia di questa comunità di eretici? Non c’era dubbio nem-
meno che i poeti trovatori provenzali che nel XIII secolo avevano esaltato
l’amore non si riferissero all’amore fisico tra un uomo e una donna. Ciò
era vero solo in apparenza, ma la realtà cui alludevano gli antichi poeti
era altra. Questo Rahn lo aveva ben chiaro. Lo scrisse esplicitamente a Al-
bert Rausch in una lettera dell’inizio del 1924: «Lei, come autore di Eros
anadyomenos, dovrebbe meglio di altri sapere avvicinare al nostro tem-
po il concetto di Minne [l’amor cortese trattato dai poeti cari a Rahn].
Che cos’è, allora, Minne? Minne è una virtù che rende buoni i cattivi e
migliori i buoni, afferma il trovatore Wilhelm Montanhagol. La Minne
deve essere pura, come una preghiera. La Minne esclude l’amore fisico e
il matrimonio. Minne non è amore, come eros non è sesso! Questa Minne
è più vicina alla morale di un Platone, di un Democrito o di Epicuro che
alla morale cristiana. Essa privilegia per la prima e unica volta in Occi-
dente un tipo in certo qual modo sovrasessuale di umanità uomo/donna
e donna/uomo. Lei saprà esprimersi in modo più misurato».
Era un modo per riconoscere a Rausch un ruolo, in una certa qual
maniera, di maestro d’amore. Ormai Rahn lo considerava così. Ed era
anche un modo per rivendicare una vicinanza tra le tematiche dei poeti
medievali provenzali e le idee dei catari. Si trattava di un legame ideale
che ormai Rahn intravvedeva con certezza. Pure, era difficile capire come
stessero insieme tutte queste cose: qual’era il legame tra i catari, i poeti
trovatori e il Graal? Rahn si sentiva sull’orlo di scoperte importanti, ep-
pure queste scoperte, al momento, gli sfuggivano tra le dita, come sabbia
impalpabile.
Rahn tuttavia sapeva anche un’altra cosa. In Francia, proprio nelle
regioni provenzali dove un tempo avevano vissuto i catari, e in partico-
lare in Occitania, alcune idee catare erano rinate. Vi erano uomini che
ritenevano che recuperare queste ultime fosse indispensabile per uscire
dai conflitti e dalle asperità dei tempi attuali. Si trattava di veri e propri
neo-catari. Se costoro scavavano nella storia di quell’antica eresia, per dis-
seppellirne idee e gesta, che cosa era più naturale che rivolgersi a loro per
22 Un mito solare

chiarire punti, per focalizzare fatti, per scoprire legami tra quelle oscure
vicende medievali?
Qui Rausch poteva essere d’aiuto. Poiché viveva a Parigi, conosceva
bene un romanziere di Tolosa, Maurice Magre, che si era occupato di
molte cose in vita sua, e in particolar modo del catarismo e della leggenda
del Graal. E conosceva ancora Antonin Gadal, uno storico delle religioni
che lavorava su quei medesimi temi, e che aveva fama di essere una robu-
sta autorità in materia. Rausch non avrebbe avuto difficoltà nel mettere
in rapporto Magre e Gadal con Rahn, se quest’ultimo lo desiderava, e
anche Ladame. Certo sarebbe stato necessario compiere un viaggio in
Francia. A quanto pare, tuttavia, Rahn non aveva nessun problema a
spostarsi e anche Ladame non sembrava avanzare contrarietà. La pista
del Graal, se Rahn era deciso a percorrerla, passava necessariamente per
un soggiorno francese.
23

3.
Alla ricerca del Graal
(1930-32)

La primavera esplodeva a Parigi; era maggio, il maggio glorioso, ed


era primavera anche alla locanda Closerie des Lilas, il caffè aperto sul
Boulevard du Montparnasse tanto amato da artisti e poeti. Non era in-
frequente trovare ai suoi tavolini Verlaine o Apollinaire oppure i pittori
del Bateau-Lavoir, o ancora Modigliani, Picasso, Breton, Hemingway.
Non era neppure infrequente trovarvi esponenti della cultura esoterica,
tanto radicata a Parigi, come il misterioso alchimista Fulcanelli. Dun-
que la Closerie des Lilas era un locale ricercato e vivace, e discussioni
intellettuali e artistiche di un livello sbalorditivo si svolgevano all’interno
delle sue mura e nel dehors, che risuonavano di concetti e di idee artisti-
che, letterarie e politiche, talora più che dentro le volte dell’Università.
Persino Lenin durante il suo soggiorno parigino si era seduto ai tavoli di
fronte alla statua del maresciallo Ney con la spada sguainata. La Closerie
des Lilas era perciò avvezza alle dispute e ai confronti, e anzi se ne faceva
una gloria.
In quel maggio 1930, però, un tavolo ospitava una discussione che era
insolita persino per gli standard eccezionali della Closerie des Lilas. Al ta-
volino sedevano quattro figure: un uomo dalle caratteristiche sopracciglia
ben marcate e dai capelli scuri accuratamente divisi da una scriminatura
centrale che spiccavano sul suo volto lievemente grifagno e dagli occhi
scuri brillanti (era Maurice Magre, il romanziere). Alla sua destra stava
un uomo dalla fronte alta e dagli occhiali rotondi, ben vestito, con un’a-
ria vagamente professorale. Il suo nome era Antonin Gadal. Di fronte a
loro sedeva Paul Ladame, affascinato dalla conversazione. Questo, in sé e
per sé, non era un fatto straordinario; straordinario era l’argomento della
conversazione, dato che almeno tre degli uomini seduti a quel tavolo
erano esperti conoscitori di una oscura eresia del XIII secolo, il catari-
smo, e aperti propugnatori delle idee ispiratrici di quella eresia. Questo
era un solo aspetto della straordinarietà di quell’incontro al tavolo della
24 Un mito solare

La Closerie des Lilas alla fine degli anni Venti.

Closerie, l’altro fatto era l’identità stessa del quarto interlocutore, un bo-
che, un tedesco, un rappresentante di quella nazione che era la nemica
giurata della Francia. Eppure i quattro, se discutevano animatamente, lo
facevano però senza alcuna animosità. Forse cose del genere erano possi-
bili soltanto in luoghi come la Closerie, con la sua atmosfera cosmopoli-
ta. Il quarto interlocutore era Otto Rahn.
Rahn aveva conosciuto Magre tramite Rausch, che aveva molti con-
tatti a Parigi, e ora era lì, in quel maggio glorioso, a colazione con due
dei maggiori esponenti di quella che avrebbe potuto definire la corrente
neo-catara. Era sinceramente ed enormemente interessato, e l’amico Paul
Ladame, che l’aveva seguito a Parigi, lo osservava pensoso. Rahn pendeva
sinceramente dalle labbra di Gadal e Magre, sembrava, pensava Ladame,
un bambino che ascolta le gesta di re e imperatori, credendo tutto e tutto
seguendo. Era senza dubbio nel suo elemento, mentre seguiva i racconti
di Magre e Gadal sui catari, sul loro tesoro, sul Graal. Era al vertice dei
suoi interessi e dei desideri, e l’impasto di storie, di miti e di leggende era
in fin dei conti ciò che lo interessava di più.
«Fu il vescovo Niceta» – stava dicendo Magre – «a improntare il
catarismo in Occitania, portando un documento scritto della sua dot-
trina. Questo documento fu mostrato al concilio cataro che si tenne a
ALLA RICERCA DEL GRAAL 25

Saint Félix nel 1167, ma entrò poi a far parte del tesoro dei catari cu-
stodito nella rocca di Montségur. Era lì che i catari custodivano il loro
tesoro, nella fortezza costruita da Simon de Péreille come loro rifugio».
Anche Ladame ascoltava affascinato. Sapeva che Magre e Gadal si sfor-
zavano, cortesemente, di rivangare nomi, date, fatti, per permettere
a lui, che pur appassionato alla materia era il meno a conoscenza di
quegli eventi lontani nel tempo, di seguire la conversazione e pren-
dervi parte, da pari a pari. Certamente Magre, Gadal, e anche Rahn,
erano sufficientemente addentro alla materia per non avere bisogno
di rimarcare passaggi che invece erano ignoti a Ladame. Era garbato
da parte loro. Era però affascinante anche solo ascoltare la passione
testimoniata da quei distinti signori; sembrava incredibile, quasi surre-
ale, credere che la via di uscita dalla crisi dell’Europa, di quell’Europa
frantumata dalla depressione economica, dai risorgenti nazionalismi,
piegata dalle masse affamate dei disoccupati, dall’estremismo politico,
dalla dilagante violenza nelle strade, giacesse così lontana nel passato;
sembrava impossibile credere che la via di uscita da quella crisi si tro-
vasse nel ritorno ai principi che avevano mosso l’Occitania francese
ad abbracciare, nel tredicesimo secolo, l’oscura eresia catara. Sembrava
incredibile. Eppure Ladame percepiva l’energia nelle parole di Magre e
di Gadal; percepiva, come una dinamo nascosta e potente, la saldezza
delle loro convinzioni che si irradiava come una corrente intesa ad
abbracciare tutta Europa. La società della Linguadoca del tredicesimo
secolo ispirata alle credenze catare, una società aperta, democratica,
inclusiva, che aveva spaventato una Chiesa romana oscurantista che
aveva tentato, con successo, di cancellare l’origine di quello spavento
istituendo una crociata, la crociata contro gli albigesi, era davvero il
modello che avrebbe tratto l’Europa fuori dalle secche della crisi sociale
e spirituale che la attanagliava? Ladame non lo sapeva, e tuttavia era
affascinante ascoltare la certezza morale profonda e irremovibile con
cui Gadal e Magre argomentavano per il sì. A quel tavolo sembrava che
una cosa del genere fosse possibile, e quasi Ladame giungeva a crederlo.
Senza dubbio, pensava, lo credeva Rahn.
«Nonostante la crociata» – continuava Magre – «il cuore degli eretici
è inconquistabile. Con la crociata si è voluto cancellare la civiltà catara
e sostituirvi quella oppressiva della Chiesa romana. Eppure la civiltà
catara non è morta; solo, si trova come in un sonno, ma alla fine risor-
gerà. Soprattutto se ritornerà alla luce il tesoro che i catari custodivano
26 Un mito solare

a Montségur». «Il tesoro», mormorò Rahn. E Magre riprese: «Ah, sì, il


tesoro. Vi saranno certo stati i manoscritti di Niceta che custodivano il
Verbo divino, contro i manoscritti contraffatti della Curia romana, tut-
ti incentrati sulla continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Come lei
sa» – fece Magre guardando verso Ladame – «il castello era un rifugio
dei catari e fu attaccato nel 1243. Per più di un anno la rocca resistette
all’assedio dei crociati, garantendo sicurezza ai catari che vi si trovavano
e al tesoro che vi era custodito. Ma alla fine dovette arrendersi. Quattro
cavalieri catari riuscirono però ad allontanarsi dal castello senza essere
visti dai crociati, e a portare in salvo il tesoro nelle grotte della regione,
dove lo nascosero agli invasori. I cavalieri, si dice, avevano nome Amie-
lacart, Possevin, Hugues e Alfaro. Erano forti e coraggiosi, e furono for-
tunati. Con una sortita notturna, arrampicandosi per sentieri impervi
e secondari, senza luce e rischiando a ogni passo la vita, riuscirono a
beffare i nemici e a raggiungere le grotte, e qui nascosero ciò che erano
riusciti a salvare dal castello. I manoscritti di cui dicevo e il tesoro più
prezioso: il Graal».
Quindi c’era un tesoro. Von Eschenbach non vi aveva fatto cenno, ma
si poteva pensare che non avesse voluto rivelare questo particolare. C’era
un tesoro dei catari. Come non sentirsi eccitati dinanzi a quella prospet-
tiva, alle possibilità che apriva. Fama e gloria, gloria e fama… Un tesoro
nascosto che aspettava solo di essere scoperto, e all’interno del tesoro la
cosa più preziosa di tutte, una leggenda che aveva superato i secoli, un
mito, una cosa straordinaria: il Graal.
A questo punto l’attenzione di Rahn divenne massima.
«Le è certo noto che in von Eschenbach il Graal era custodito nel ca-
stello di Montsalvat. Io credo che quel castello fosse in realtà Montségur.
Io credo che il Graal fosse uno smeraldo che conteneva un liquido, il più
raro e il più prezioso pezzo del tesoro cataro».
«In una grotta di Ussat, chiamata la grotta dell’Acacia» – intervenne
Gadal – «vi è un simbolo iscritto nella roccia. Quel simbolo esprime il
cammino del Graal, il cammino della trasformazione del singolo essere
umano che si avvia a diventare spirito divino. Questa era la credenza dei
catari».
«Le grotte della regione di Sabarthez erano i santuari naturali del ca-
tarismo pirenaico. Quelle grotte erano i luoghi di iniziazione dei catari
e divennero le loro fortezze, o come dicevano loro, le spulgas. Le grotte
di Lombrives, in particolare, divennero la sede di un vescovo cataro. Gli
ALLA RICERCA DEL GRAAL 27

adepti salivano sulle montagne del Sabarthez per un sentiero polveroso


fino all’accesso al complesso delle grotte, a Ornolac, attraversando un
blocco di granito, un cerchio druidico, oltre il quale si apriva una porta,
fino a una galleria naturale, detta la Chapelle, dove l’acqua gocciolava in
un catino naturale da un gruppo di stalattiti. Al centro di quella galleria si
apriva una nuova porta, e da quella iniziava il percorso che avrebbe por-
tato l’adepto di grotta in grotta, attraverso la vita comune della comunità
catara, fino a che, al termine di quattro anni, il viaggio iniziatico sarebbe
stato completo e l’adepto avrebbe raggiunto la perfezione. Era nelle grot-
te che si svolgeva l’iniziazione dei catari».
«E il Graal», mormorò Rahn, che non riusciva a saziarsi di quella pro-
spettiva.
«Il Lapis ex coelis, la pietra caduta dal cielo. Quando Lucifero rovinò
sulla terra, dopo la caduta, un’ala della sua corona di luce urtò contro
un astro e si spezzò, cadendo sulla terra. La Pietra è un frammento della
corona originale. La luce della Gnosi fu appunto per questo chiamata,
per via di allegoria, Lapis ex coelis.»
Nelle parole di Gadal la civiltà atlantidea, quella indiana, quella per-
siana, quella babilonese, quella egiziana, si erano rifuse nelle credenze
gnostiche e manichee che erano sopravvissute in Oriente dopo l’avvento
della Chiesa romana che aveva tentato di cancellarle, e che erano state
portate in Occidente tramite Niceta. Era un affresco storico potente e
affascinante. Il meglio delle dottrine e delle conoscenze dell’antico passa-
to, il precipitato di una saggezza secolare, tramandata di civiltà in civiltà,
era sopravvissuto al tentativo di obliterarlo compiuto da un’ortodossia
soffocante e autoritaria, e aveva trovato modo di passare in Occidente e
rivivere nella Francia del tredicesimo secolo, fondando una nuova civiltà,
ricca, aperta e tollerante. Ancora una volta, l’ortodossia aveva provato
a risospingere nell’oblio queste idee, che tuttavia avrebbero trovato di
nuovo la strada verso la luce. E quanto al Graal, aggiungeva Gadal, non
si trattava di un semplice oggetto, ma era qualcosa di più; era un simbolo,
era il cammino che il singolo doveva compiere per diventare tutt’uno con
lo spirito divino e bruciare le scorie di questo mondo. Era questa la sal-
vezza annunciata dal Graal e il modo per salvare una civiltà ormai avviata
verso la negazione di se stessa e lo sfacelo. La luce di questa saggezza si
diffondeva di nuovo, e indicava la via della rinascita a un’Europa stanca e
in decomposizione, sprofondata ormai nel baratro. Questo doveva essere
ben chiaro.
28 Un mito solare

L’intreccio di storia, di racconti, di leggende, era irresistibile per Rahn.


Gli occhi gli si erano accesi e brillavano. Eppure il riferimento a von
Eschenbach aveva attizzato in lui una curiosità ancora più grande. Quale
era, chiese, il ruolo dei poeti trovatori che avevano elaborato la leggenda
del Graal? Von Eschenbach era a lui ben noto. Che rapporto avevano
quei poeti con i catari?
Fu Magre a rispondere, in fondo contento di quella domanda. La
cultura dell’Occitania sfuggì alla dominazione romana nascondendosi
sotto la maschera della galanteria e dell’amor cortese. Ciò che non poteva
essere detto apertamente, a causa della protervia del potere romano, fu
detto in modo velato. In questa maniera, furono i poeti trovatori i veri
araldi dell’eresia catara e i suoi banditori. Sotto il travestimento dell’amor
cortese, il loro vero tema fu la dottrina religiosa dei catari, che essi propa-
gandarono in modo inesausto di contro alla falsa fede romana. Si trattava
di un fatto che era ben noto a Joséphin Péladan, autore di una mono-
grafia nel 1906 sulla poesia occitana. Péladan aveva già segnalato che von
Eschenbach, nella sua composizione del suo poema sul Graal, si era basa-
to su un modello precedente, quello del trovatore provenzale Guyot. In
questo modo, i temi della cultura francese erano penetrati in Germania,
e poi erano ritornati in Francia tramite i seguaci di von Eschenbach. Era
così che queste idee religiose si erano conservate al di là della persecuzio-
ne romana. E del resto Péladan aveva già intuito che il Montsalvat citato
da von Eschenbach come il luogo di conservazione del Graal era in realtà
un’allusione a Montségur. Rahn avrebbe proprio dovuto leggere l’opera
di Péladan. Non aveva tuttavia bisogno di procurarsela alla Biblioteca
Nazionale; si sarebbe incaricato lui, Magre, di fargliene avere una copia.
Ciò che era prezioso per Rahn non era soltanto il torrente di cono-
scenze che Magre e Gadal gli riversavano; vi era anche un’utilità pratica.
Gadal era direttore dell’Ufficio Generale del Turismo di Ussat, una delle
località in cui si trovavano le grotte del Sabarthez, e questo avrebbe per-
messo a Rahn di accedervi senza difficoltà. C’era però un terzo perso-
naggio che avrebbe potuto essere altrettanto favorevole, anche se non
era, al momento, presente. Si trattava di Déodat Roché, magistrato a
Carcassonne, il cui padre si era molto interessato all’antico culto per-
siano di Mitra. Roché era un’altra autorità locale sul catarismo, che era
stato oscurato con violenza e menzogna dall’Inquisizione. La legittimità
storica del catarismo risiedeva nella sua continuità storica rispetto alle
credenze stabilitesi in Oriente, che erano state alle fonti delle credenze
ALLA RICERCA DEL GRAAL 29

A sinistra Antonin Gadal e a destra Déodat Roché.

catare, in particolare gnosticismo e manicheismo, giunti in Occidente


assieme al tesoro dei catari, che anche per Roché aveva trovato ricetto a
Montségur. All’interno di questo tesoro si trovava anche il Graal; anche
se a giudizio di Roché il vero tesoro custodito dai catari non era il Graal,
calice o pietra che fosse, bensì l’antica letteratura che legava il catarismo
alle originarie credenze dei primi cristiani, poi radiate dall’ortodossia ro-
mana. Queste credenze erano dualiste; la divinità abbozzata nel Vecchio
Testamento non era il Dio di Gesù, così come il Nuovo Testamento lo
dipingeva; era piuttosto la divinità inferiore degli gnostici, il dio creato-
re del mondo materiale che aveva precipitato lo spirito nell’abisso della
materia e che pretendeva di venir adorato come unica divinità. L’antico
gnosticismo non credeva all’unità di Vecchio e Nuovo Testamento, che
invece era diventato il dogma della Chiesa di Roma. Questa tradizione
dualista, che distingueva nettamente il mondo dello spirito da quello del-
la materia, era sopravvissuta alla persecuzione romana per rinascere nella
Francia del tredicesimo secolo. Anche allora una nuova crociata e una
nuova persecuzione erano sorte, contro la rinascita dell’antica fede mai
del tutto domata. Una terza rinascita, in tempi spiritualmente bui come
quelli attuali, era imminente. Roché, che aveva molto approfondito i
rapporti del catarismo con le credenze religiose dell’antichità protocri-
stiana, godeva di molta stima. Magre esortava senz’altro Rahn a rivolgersi
a lui, soprattutto se avesse deciso di visitare le grotte del Sabarthez.
30 Un mito solare

Di fronte a tutte queste conferme, Rahn provava una febbrile esalta-


zione e un lieve capogiro. Dunque i catari francesi erano gli eredi di una
storia che un potere autoritario aveva cercato di cancellare; gnostici, ma-
nichei, culti misterici, druidi, tutto si fondeva e si coagulava nella forma-
zione di una tradizione storica continuata nel tempo, nonostante i mas-
sicci tentativi di obliterazione. Questa tradizione era passata da Oriente a
Occidente e aveva viaggiato con i Galli, che, come Magre informò Rahn
riprendendo la tesi da Péladan, avevano saccheggiato il tesoro di Delfi, in
Grecia, sede dell’antico oracolo della Pizia, per poi riportare il bottino in
Francia e gettarlo in un lago. Idee e oggetti erano stati protagonisti di una
traslazione da Oriente a Occidente, passando attraverso i druidi per poi
giungere fino ai catari, i più maturi eredi di quella tradizione. I catari ave-
vano a loro volta diffuso il loro credo tramite trovatori come il misterioso
Guyot e von Eschenbach. Il quadro storico che si dipanava era magnifi-
co, portentoso. Tutto convergeva, tutte le prove indicavano l’esistenza di
una tradizione originaria e sotterranea, oggetto di continui attacchi che
la costringevano a inabissarsi e a scomparire, ma che finiva ogni volta per
riemergere tenacemente, ricorrente e indomabile. A quanto pareva, Rahn
si trovava sul limitare di una di quelle faglie storiche che delimitavano il
momento della risalita. Come non essere orgogliosi e come non cogliere
questa opportunità?
Un punto però tormentava ancora Rahn.
Se il Graal, in qualche modo, era penetrato nella storia catara, di-
ventandone un ingrediente essenziale; se Wolfram von Eschenbach, il
vecchio poeta oggetto della tesi di laurea di Rahn, aveva rielaborato i
materiali provenienti dal misterioso trovatore Guyot e aveva oscuramen-
te accennato alla fortezza di Montségur, mascherandola sotto l’allusivo
nome di Montsalvat, ma in realtà sapendo bene che i catari erano i veri
e soli depositari e protettori del Graal, quest’ultimo che cosa rappresen-
tava? Era una coppa, come voleva von Eschenbach? Una gemma, uno
smeraldo saltato via dalla corona di Lucifero alla caduta e che in qualche
maniera rimandava al dualismo tra luce e tenebre, tra materia e spirito,
e alla loro comunione finale nel petto del cataro giunto alla perfezione,
che avrebbe passato il ponte tra la materia e lo spirito? Era un simbolo
più che un oggetto, come sembrava incline a credere Gadal? Oppure era
un’allusione alle pergamene che riportavano gli antichi testi sopravvissu-
ti alle catastrofi dell’antichità e del tredicesimo secolo e che aveva con-
servato l’antica e quasi dimenticata fede, come invece sembrava pensare
ALLA RICERCA DEL GRAAL 31

Roché? Qual’era la natura di questo sfuggente tesoro dei catari? Sembra-


va a Rahn che vi fosse un’unica maniera di saperlo.
«Se i manoscritti dei catari sono stati salvati dall’assedio di Montségur»
– stava dicendo Magre – «e se sono stati portati in salvo, dovrebbero tro-
varsi sottoterra, nella grotta di Ornolac».
«Sono d’accordo», disse Rahn. «È là che bisogna cercare. Se esiste un
tesoro dei catari, si trova certamente in quelle grotte».

La fiamma ardeva nel camino, e diffondeva ovunque un piacevole calo-


re e gradevoli riflessi rossastri sulle pareti in antica pietra. Benché l’inver-
no fosse ancora distante e benché si fosse nel sud della Francia, il castello
di Lalande, dimora della contessa Miryanne de Pujol-Murat, presso Car-
cassone, esigeva, soprattutto la sera, una qualche forma di mantenimento
della temperatura. In ogni caso i giochi di luce, prodotti dal fuoco che
ardeva nel camino sontuoso, rendevano l’atmosfera ancora più suaden-
te, cosa cui contribuivano anche i mormoranti crepitii della fiamma. La
contessa riposava in una sedia presso il camino, intenta a un lavoro a ma-
glia; la sua figura robusta, le gambe avvolte in una coperta, le abili mani
instancabili che lavoravano senza interruzione. Il lavorio non le impediva
tuttavia di godere la conversazione con il suo ospite, che si trovava nella
sedia dirimpetto alla sua e che teneva un libro in mano che leggiucchiava
ogni tanto. Egli stesso era affascinato dai racconti della contessa, e pareva
avere nei suoi confronti una sorta di trasporto incantato, così come lei
lo aveva per lui. Era sorprendente come la contessa avesse preso a ben
volere quel giovane tedesco, inviatole da Maurice Magre, che sembrava
condividere i suoi stessi entusiasmi per la storia dell’Occitania e per la
saga dei catari. La simpatia immediatamente sorta nella nobildonna per
quel suo strano ospite era arrivata addirittura a spingerla a dotarsi di un
pianoforte, perché egli potesse svagarsi a suonare, e che ora si trovava lì in
quella stessa stanza, anche se al momento inutilizzato; o al permettergli di
servirsi della sua automobile, compresa di autista, nei suoi spostamenti. Il
lusso di un automobile, specie nel 1930, specie nell’Occitania, era qual-
cosa di molto raro; ma l’ascendente di quel tedesco sulla contessa arrivava
a tanto. Lui la intrigava con le sue curiosità sui catari e soprattutto sulla
grande Esclarmonde di Foix, figlia del conte di Foix, Ruggero Bernardo,
l’adepta dei catari che era arrivata alla perfezione e che aveva ordinato la
ricostruzione del castello di Montségur. Myrianne si riteneva una lontana
discendenza di Esclarmonde, questa formidabile seguace del catarismo, e
32 Un mito solare

persino una sua reincarnazione. Ogni tanto le pareva di vederla lungo le


mura del suo castello, e un ulteriore motivo di benevolenza verso quello
strano tedesco era il fatto che lui non la canzonasse quando raccontava
cose del genere. Myrianne era infatti incline a credenze e pratiche esote-
riche. Si diceva che facesse parte del circolo dei misteriosi Polaires, una
setta stanziata a Parigi e il cui capo era Zam Bhotiva (il musicista italiano
Cesare Accomani). La Confraternita dei Polari credeva che il Graal si
trovasse nell’Occitania pirenaica e che il recupero del tesoro dei catari
avrebbe dischiuso le porte a una nuova età dello spirito, oltre a credere
molte altre cose, non tutte ragionevoli. Sarebbe stato in effetti naturale,
per una personalità come quella della contessa, con il suo odio per Roma,
unirsi a quella confraternita: Myrianne credeva che le urla degli uccelli
notturni altro non fossero che le maledizioni delle anime perdute dei
catari soppressi dall’Inquisizione che, al di là dei secoli, maledicevano i
loro carnefici romani. La tentazione di riabilitare quegli antenati contro
l’infamia della damnatio memoriae a cui l’Inquisizione romana li aveva
condannati, era stata una tentazione irresistibile per la contessa. E tutta-
via, ormai l’età avanzata non le consentiva più di impegnarsi in un simile
sforzo; forse Rahn, giovane ed entusiasta della spiritualità catara, avrebbe
voluto prendere il suo posto? Era possibile sperarlo? La fiduciosa contessa
credeva di sì.
Un motivo aggiuntivo di benevolenza era che Rahn non obiettava
mai quando Myrianne esplodeva in un’invettiva antiromana o si per-
deva in un sogno romantico di riabilitazione di eretici giustiziati ormai
otto secoli prima, né quando si pretendeva come la reincarnazione di
Esclarmonde, ma si limitava ad ascoltarla con cortesia e interesse, come
se condividesse con lei questo suo sogno inquieto (o così almeno lei
sperava), così come la ascoltava con la medesima cortesia e con il me-
desimo interesse quando Myrianne richiamava miti e leggende di quel-
la terra occitana così tanto amata. Era appunto uno di quei miti che
Myrianne raccontava quella sera, mentre industriosamente lavorava a
maglia e Rahn di tanto in tanto sollevava dal libro gli occhi per meglio
ascoltarla e per godere dell’incanto del fuoco. Myrianne era tornata a
uno dei suoi soggetti preferiti, Esclarmonde de Foix, e Rahn la guar-
dava ogni tanto intento, come se quell’intreccio di realtà e di leggende
fosse un vino raro e prezioso, al quale abbeverare un’avidità mai spenta,
mai placata. Myrianne aveva idee proprie sul Graal, che riteneva fosse
una pietra caduta dalla corona di Lucifero al momento della Caduta,
ALLA RICERCA DEL GRAAL 33

che Roma, promuovendo con la crociata contro i catari la guerra contro


il Graal, aveva invano tentato di «romanizzare» facendone una cop-
pa che avrebbe contenuto il sangue di Cristo versato durante l’ultima
cena. E anche questo interessava Rahn. Myrianne tuttavia quella sera
aveva scelto di narrare la maniera in cui Esclarmonde aveva salvato il
Graal dopo la caduta di Montségur.
«Lei sa», diceva Myrianne, «che il picco di San Bartolomeo viene chia-
mato dagli Occitani «Tabor». Quando le armate di Roma, le armate di
Lucifero, vennero ad assediare il castello di Montségur per riprendersi il
Graal appartenuto al loro capo, quel gioiello, avvenne allora un miracolo.
Nel momento più critico, in cui tutto sembrava perduto, Esclarmonde
si trasformò in colomba. E venne giù dal cielo, calando sul monte Tabor.
Lo fendette con il becco e nella spaccatura che si era aperta per la forza
del suo colpo, gettò il gioiello nella montagna. Questa allora si richiuse
e fu così che fu salvato il Graal e fu sottratto alle schiere di Lucifero. La
vendetta di queste ultime fu terribile. Tutti i catari di Montségur vennero
bruciati. Ma quando Esclarmonde seppe che il Graal era al sicuro, salì
sulla vetta del Tabor, assunse di nuovo la forma di colomba bianca e volò
via verso le montagne dell’Asia. Esclarmonde non morì. Vive ancora lag-
giù, nel paradiso terrestre».
La fine della storia la commosse lievemente, come faceva sempre.
Rahn si limitò a sorridere nel crepuscolo del fuoco, come una divinità
benevola. Poi, pratico, fece una richiesta. «Mi piacerebbe vedere il castel-
lo di Montségur, e magari anche Foix. Potrei prendere a prestito la sua
automobile?»
«Certamente», disse Myrianne. «Con il mio autista. Per combinazione
è anche lui tedesco. Si chiama Joseph Widegger».
35

4.
Le grotte
(1930-1933)

Sulla via delle grotte che un tempo erano state il rifugio dei catari, e
forse il luogo di conservazione del loro tesoro, un’altra tappa si impo-
neva: il castello di Lavanet, il cui signore, un industriale a nome Arthur
Caussou, si diceva possedesse una ricca collezione di oggetti appartenuti
ai catari e provenienti da Montségur. Caussou si interessava anche dei
trovatori francesi, e anche questo attraeva Rahn, che attraverso il libro di
Péladan prestatogli da Magre, intravedeva ormai un legame stretto tra i
poeti dell’amor cortese e la diffusione delle idee catare. Caussou forse ne
sapeva qualcosa di più. Una visita, preannunciata dal solito intervento
degli amici Magre e Gadal, era necessaria.
Caussou apparve a Ladame, che aveva accompagnato Rahn, una sorta
di vecchio saggio carico di anni, o così amava presentarsi. Stranamente,
Rahn lo presentò come Monsieur Rives (più tardi Ladame scoprì che
Rahn aveva conosciuto Antoinette Rives, figlia di Caussou, a Parigi; che
la Rives lo aveva messo a sua volta in contatto con Isabelle Sandy, una
scrittrice che viveva a Foix, e che entrambe erano state vittime dello stra-
no fascino che Rahn sembrava esercitare sulle donne, pur nella diversità
delle sue inclinazioni. Come la contessa Pujol-Murat, sia la Rives che la
Sandy avevano concepito un forte affetto per Rahn, lo avevano sostenu-
to economicamente. La Sandy scrisse persino un articolo elogiativo di
Rahn). Ladame era tuttavia uno scettico in tema di esoterismo. La col-
lezione di cimeli catari di Caussou, che subito fu disposto a mostrare ai
due ospiti, non lo impressionò, mentre Rahn si entusiasmò rapidamente,
in particolare di fronte a una colomba di argilla che senza dubbio doveva
ricordargli la storia di Esclarmonde narratagli da Myrianne Pujol-Murat,
e a una seconda colomba scolpita in pietra. C’era poi il legame dei catari
con i poeti trovatori, che ammaliava ancora di più Rahn.
«I poeti dell’Occitania», ragionava Caussou di fronte a un Rahn af-
fascinato e a un Ladame più freddo, «cantavano dell’amore verso una
36 Un mito solare

dama in carne e ossa, una fanciulla di alto lignaggio e tale da meritare


il loro amore. Questa fanciulla, tuttavia, non era che uno schermo, una
maschera. Il vero oggetto del loro amore era piuttosto una cosa di cui
non potevano parlare liberamente: la divina sapienza, quella che gli
antichi gnostici chiamavano la Pistis Sophia. Era questa divina sapien-
za la dottrina cui gli antichi poeti veneravano, sotto false spoglie, per
non cadere vittime dell’Inquisizione. L’antica dottrina gnostica riviveva
nelle credenze catare e si diffondeva negli scritti dei poeti, ben nascosta
sotto il velame dell’amor cortese, ma anche ben chiara a chi ne sapesse
decifrare il velo».
Ladame avvertiva l’entusiasmo crescente di Rahn. Se i poeti trovatori
erano i veri diffusori delle dottrine catare nei loro poemi, se il misterioso
poeta provenziale Guyot era stato il maestro e l’iniziatore di Wolfram von
Eschenbach alle primitive e venerande idee delle antiche tradizioni spi-
rituali e religiose, poi obliterate dall’ortodossia romana, allora il legame
tra i poemi del Graal e il catarismo era confermato. Nei poemi sul Graal
si nascondeva per allusioni il tesoro dei catari; una dottrina scampata alle
persecuzioni, originaria e indomabile, che risorgeva nell’Occitania del
tredicesimo secolo, e forse anche un tesoro di scritti antichi creduti per-
duti e di oggetti favolosi. La chiave per scoprire la vera natura di questo
tesoro stava nelle grotte del Sabarthez. L’impazienza divorava Rahn.
La conversazione prese tuttavia una direzione inaspettata quando
Caussou prese a interrogare Ladame intorno alle sue provenienze familia-
ri, chiedendo se per caso non fosse originario della Linguadoca. Ladame
sapeva che una sorta di leggenda familiare esisteva a questo proposito,
ma che non era in alcun modo verificabile, e lui stesso non le dava mol-
to peso. L’unica cosa certa era che nel XVI secolo, il nome Ladame si
scriveva La Dame. La rivelazione suscitò il massimo ardore in Caussou.
«Ecco!», esclamò. «Di nuovo la Dama, che come ormai abbiamo stabilito
è la divina sapienza, la Pistis Sophia! Il vostro stesso nome vi attesta come
un cataro. Più catari di così, non lo si potrebbe essere». Ladame non
sembrava essere persuaso del fatto, che gli appariva essere una pura coin-
cidenza. Ma Caussou, ormai lanciato dall’entusiasmo, non si fece deflet-
tere. «Ma a parte l’origine della Linguadoca, da dove viene effettivamente
la vostra famiglia in tempi più recenti?», chiese ancora. Un po’ seccato da
questo interrogatorio sugli albori del suo ramo gentilizio, Ladame rispose
che veniva da una cittadina nel dipartimento della Creuse, detta Le Sou-
terraine. La risposta, inaspettatamente, mandò l’entusiasmo di Caussou
Le grotte 37

al settimo cielo. «Vedete dunque!», esclamò eccitato. «La Sotterranea è


il nome che è stato dato alla serie di rifugi, per lo più grotte, nei quali
ripararono i catari dalla crociata dell’Inquisizione!»
Secondo Caussou esisteva una catena nascosta di rifugi, nei quali i
catari sopravvissero alla persecuzione e che mantenevano i contatti tra
di loro grazie ai vagabondi poeti trovatori, che servivano da messaggeri e
che mantenevano in funzione la segreta rete dei catari. Per qualche moti-
vo, che Ladame non riuscì a capire, Caussou era convinto che a loro volta
i trovatori fossero in contatto con i cavalieri templari. I catari, le cui con-
vinzioni rifiutavano l’uso della violenza, non potevano difendersi in com-
battimento contro i loro nemici. A questo erano deputati i templari, che
invece non avevano di questi scrupoli morali, e che costituivano l’esercito
difensivo dei catari. Non a caso i templari non avevano preso parte alla
crociata dell’Inquisizione; si erano rifiutati di battersi contro i catari…
In ogni caso, tutto nella storia familiare di Ladame, a cominciare dal suo
stesso nome, lo sospingeva verso il campo cataro; certo non poteva non
confessarsi egli stesso un cataro e un discendente diretto dei catari.
A questo punto, Ladame faceva fatica a trattenere le risate.
Rahn invece ascoltava rapito. Da ogni conservazione tenuta, quelle a
Parigi, quelle al castello di Lalande, questa con il nuovo amico Caussou,
veniva formandosi in lui una certezza; si trovava in presenza di una storia,
una storia segreta e sotterranea, in cui innumerevoli fili si intrecciavano.
Le antiche credenze gnostiche, manichee e pitagoriche si erano in qual-
che modo fuse, erano sopravvissute in Oriente scampando alla forma-
zione dell’ortodossia imposta con la violenza dalla Chiesa di Roma, ed
erano migrate in Occidente conservate dai druidi fino a che avevano im-
pregnato di sé la civiltà occitana del tredicesimo secolo nei suoi prodotti
più preziosi: la poesia dei trovatori e le leggende relative al Graal. Contro
questa civiltà era insorta ancora una volta la violenza e l’intolleranza della
Chiesa di Roma, che aveva tentato di cancellarne le tracce indicendo
una crociata. Eppure quelle antiche idee erano sopravvissute in qualche
maniera, sprofondando nelle grotte del Sabarthez, fino a riemergere ades-
so, sotto i suoi occhi. Era immensamente eccitante essere parte di quel
movimento di riemersione, in cui un passato cancellato si manifestava
improvvisamente riportando alla luce ciò che la violenza degli uomini
aveva tentato di occultare. Ma che cosa riemergeva, esattamente? Tutti gli
indizi portavano alle grotte del Sabarthez. Se c’erano risposte, dovevano
essere cercate là.
38 Un mito solare

L’appuntamento di Rahn con Ladame era a Ussat-les-Bains. Un taxi


li avrebbe portati all’inizio del sentiero montano percorrendo il quale si
arrivava alla grotta di Ornolac. Rahn si era raccomandato di indossare
un vestiario adeguato per un percorso alpestre impegnativo, dato che
per raggiungere la grotta occorre superare una pendenza assai ripida:
maglioni pesanti, scarpe chiodate, zaino ben provvisto di attrezzature
da speleologo e di cibarie. Si trattava probabilmente di suggerimenti
superflui; Ladame era fratello di un ingegnere minerario, ed era avvezzo
all’uso di funi, placchette e ancoraggi, così come sapeva bene quale at-
trezzatura fosse necessaria per un’escursione in alta montagna. Lo scru-
polo di Rahn nascondeva la necessità di mostrare chi fosse veramente a
guidare la spedizione? Ma Ladame non era disposto a prendersela per
così poco, né a guastarsi il divertimento.
La salita era acerba ma l’età giovane e l’entusiasmo sostenevano i
due, curvi sotto gli zaini pesanti, e la magnifica vista delle gole dell’A-
riége ricompensava della fatica. Ci vollero ore per arrivare in cima e
quando ciò avvenne, i due erano stanchi e grondanti. Prima di avventu-
rarsi nella grotta si concessero un ristoro bagnandosi nelle acque fresche
di una sorgente, senza imbarazzo. Del resto, l’atmosfera innocente, la
gioia dell’impresa compiuta e l’eccitazione dell’imminente esplorazione
delle grotte tolsero ogni insicurezza. In più Ladame voleva festeggiare
l’evento a modo suo; cavò dalla tasca una fiaschetta, di quella che i
francesi usavano per il pastis. Non si trattava di pastis; da bravo svizzero,
Ladame preferiva bevande più particolari.
La fiaschetta era piena di assenzio.
L’amaro assenzio era bevuto impregnando una zolletta di zucchero
con un apposito cucchiaino. La zolletta era quindi posata sulla lin-
gua, dove piccoli sorsi d’acqua la scioglievano trascinando con sé nello
stomaco il liquore aspro e forte. Rahn non era a quei tempi un gran
bevitore, o così lo reputava Ladame, eppure sorbì volentieri l’assenzio.
Non c’era bisogno dell’altissima gradazione alcolica dell’assenzio per
renderlo entusiasta, felice com’era della vicinanza della grotta e dei suoi
misteri che lo aspettavano. Il liquore però contribuì a sciogliergli la
lingua, e allora si mise a raccontare dell’impresa che li aspettava oltre
l’ingresso della grotta. Lo scopo, raccontava Rahn, era trovare il Graal,
scoprirne il segreto, che senza dubbio i catari dovevano avere cono-
sciuto. Quel segreto, la vera chiave della civiltà dell’Occidente, doveva
nascondere una dottrina capace di riunire tutta Europa, quell’Europa
Le grotte 39

divisa e oppressa dal peso delle guerre; solo il sapere dei catari avreb-
be permesso di superare quelle divisioni, riunendo tutte le regioni del
continente sotto un’unica bandiera europea e sotto un unico credo,
una fede tollerante e talmente aperta che tutti in essa avrebbero potuto
ritrovarsi. Questa fede era quella catara, o, per meglio dire, l’antica
credenza originaria del primo cristianesimo. Rahn parlava e parlava,
sempre più infervorato.
Ladame ascoltava, e forse pensava che era l’assenzio a parlare in
Rahn. E tuttavia, non si trattava di una magnifica avventura, sotto un
cielo glorioso, alla ricerca di un tesoro che forse non c’era, ma che
valeva comunque la pena di cercare? Forse si trattava di un desiderio
infantile, quello di restituire al mondo ciò che era stato perduto, e così
conquistare fama e gloria; forse il desiderio di Rahn era infantile. Ma
dopotutto che cosa importava sotto quel sole glorioso e quel paesaggio
maestoso? Quando Rahn, accaldato dalla foga del discorso e dal liquo-
re, si fu ripresero, si alzarono e si avviarono alla grotta e ai suoi misteri.
L’apertura della grotta di Ornolac dava su una corte circolare. Al
centro della corte si trovava un blocco di granito, che Rahn identificò
con il cerchio druidico di cui aveva parlato Gadal. La pelle gli si ten-
deva per l’eccitazione e gli occhi gli si erano fatti brillanti. La grotta
prometteva subito di ammaliarlo con le sue meraviglie. La presenza dei
catari era avvertita come ossessiva e assillante.
La volta era immensa.
Oltre il blocco di granito si trovava una grande porta, in lieve pen-
denza, che a sua volta dava su molte altre aperture. Il brivido dell’ec-
citazione si accompagnava alla caduta della temperatura via via che si
inoltravano nel vasto complesso. Rivoli d’acqua sgorgavano dalle pareti
e l’umidità segnava l’ambiente mentre le lampade a carburo illuminava-
no il percorso. Alla fine giunsero in una grande galleria naturale, dove
l’acqua gocciolava, in un catino naturale, da un gruppo di stalattiti e
dove, attraverso una diaclasi, una fenditura nella roccia, la luce sola-
re pioveva morbida nell’ambiente. Rahn conosceva il nome di questa
galleria, rivelatogli da Gadal: si chiamava La Chapelle, ove prendeva le
mosse il viaggio iniziatico dei nuovi adepti catari verso la perfezione. Al
centro della galleria, di fronte al catino naturale, si trovava una grande
pietra piatta, volta verso Oriente. Da un lato, avvolta nella morbida
luce del pomeriggio, si trovava una vasca semicircolare: la Fount Santa.
Tutto combaciava. I catari erano stati qui.
40 Un mito solare

Rahn nella grotta di Ornolac nel 1932.

La grotta dell’Ermite entusiamò Rahn, che pure aveva già esplorato


molte grotte. Le pareti erano ricolme di graffiti e di segni misteriosi,
segno che non soltanto le caverne erano state abitate, ma erano state
anche la dimora di riti impenetrabili. Un’ulteriore riprova stava nel
tappeto di ossa che si trovava sul pavimento della grotta, ossa che Rahn
spostava con le sue mani allo scopo di non calpestarle. Le concrezioni
erano meravigliose: stalattiti, stalagmiti sorgevano ovunque; e alle pa-
reti arcani drappi di pietra sembravano opera di misteriosi ricamatori
e svettavano su uno sfondo celeste richiamando alla mente le delicate
branchie di un pesce. La grotta era molto più bassa di quella di Ornolac
e alternava zone di luce a zone di assoluta oscurità. Occorreva talora
scavalcare vene di basalto per proseguire e in altre parti non era possi-
bile stare eretti. Ogni tanto un battere di ali segnalava che il passaggio
di Rahn aveva disturbato un pipistrello. Alla fine fecero ritorno verso
la fenditura da cui si accedeva alla grotta, verso la piena luce del gior-
no. Non avevano ancora trovato niente, ma il cuore di Rahn palpitava
Le grotte 41

rapido di speranza. La caccia non era che all’inizio e molte altre grotte
attendevano solo di essere esplorate.
Era una limpida giornata d’inverno, come ce ne sono in montagna,
e accompagnato da un uomo di colore a nome Habdu (che talora pre-
sentava come un domestico, ma che in realtà era il barista senegalese
dell’hotel Les Marroniers), Rahn stava percorrendo il pendio scosceso
da cui si accedeva alla grotta di Fontanet. Era la prima volta che visitava
quella grotta, la cui entrata era gigantesca, ma che dopo pochi metri
si riduceva a un corridoio dell’altezza di un uomo, largo però almeno
due metri. Prima di entrare, Rahn e il suo domestico avevano attinto
l’acqua per le lampade a carburo da una sorgente lì presso, e le avevano
accese. Per due chilometri si avventurarono all’interno, cercando atten-
tamente nelle pareti e nel soffitto iscrizioni o oggetti. Alla fine il corri-
doio sfociò in una sala piuttosto alta, dove una grande forma animale
era stata scolpita nella pietra: un cane gigantesco. Un nuovo mistero.
Il cuore di Rahn accelerò per l’eccitazione. Spostando le pietre attorno
alla figura del cane si rivelò una stretta apertura, strisciando dentro la
quale Rahn sbucò in una sala molto alta, almeno una decina di metri,
e larga trenta. Le pareti erano annerite dall’umidità, nella luce tremula
delle lampade a carburo, si udiva un grosso rombo, come di tuono.
Occorse un po’ per capire che si trattava del rumore emesso da un fiu-
me sotterraneo che scorreva attraverso una forra dentro la pietra. Rahn
toccò con curiosità le pareti della grotta e ritrasse le dita annerite. Non
era umidità! Le pareti della grotta erano state annerite dalla fuliggine!
Qui c’era stato un grosso incendio. E infatti, a ben vedere, anche sul
pavimento si ritrovavano tracce di fuoco.
Al centro della sala si trovava un grande tumulo di terra. Rahn si
avvicinò per esaminarlo. Poteva essere una sepoltura? Rahn estrasse la
vanghetta dallo zaino e cominciò a scavare. Sì, era una sepoltura. Comin-
ciarono ad apparire ossa e teschi, molti di cane, e subito dopo vasi e armi
e oggetti, evidentemente parte del corredo funerario. Rahn, con il fiato
mozzato dallo scavo e dall’emozione, riteneva che si trattasse di un luogo
sepolcrale dei Celtiberi, una camera funeraria, dedicata al loro dio della
morte, Dispater. Questo gli richiamò la statua del cane che si trovava
nella sala precedente. Gli antichi greci ritenevano che il regno dei morti
fosse custodito da un cane, Cerbero. Anche i Celtiberi potevano credere
una cosa simile. Una prova ulteriore della traslazione delle credenze da
Oriente a Occidente. Il mito di Cerbero era giunto fino ai Pirenei. La
42 Un mito solare

statua nella sala precedente della grotta lo provava. Che altro ancora po-
teva essere giunto?
Per proseguire, occorreva raggiungere un’apertura a due metri di al-
tezza. Habdu era molto alto; Rahn gli salì sulle spalle, si tirò su per
l’apertura, poi aiutò Habdu a salire a sua volta. Proseguirono, spingen-
dosi sempre più nelle viscere della montagna, sempre accompagnati dal
rombo dell’acqua, così forte che a volte faceva tremare le pareti. Tutta-
via, nulla di tutto ciò sembrava minaccioso, fino a che Rahn notò che
il rumore si spostava e che un rigagnolo cominciava a filtrare attraverso
la roccia porosa. Ben presto il rigagnolo si fece un getto d’acqua, quin-
di un torrente. Che cosa stava succedendo? La forra aveva ceduto e il
fiume sotterraneo aveva iniziato a invadere la grotta? Occorreva tornare
indietro al più presto. Rahn e Habdu si affrettarono indietro bagnati
dai getti di acqua che ormai zampillavano con violenza dalle pareti e dal
soffitto, sussultando per l’urto dell’acqua gelida nel tentativo di rigua-
dagnare la sala funeraria da cui avevano proceduto. Quando vi arrivaro-
no, però, tra sospiri e brividi per il contatto gelido dell’acqua, la sala era
già piena di liquido fino alle ginocchia. Avanzare costava fatica perché
il livello saliva rapido. In un batter d’occhio salì alle ascelle e Rahn era
costretto a levarsi in punta di piedi per poter respirare. La sconvolgente
rapidità con cui tutto era accaduto rendeva il terrore ancora più oppri-
mente. La felicità della scoperta del sito funerario si era rovesciata, nel
volgere di pochi minuti, nell’incubo di diventare un elemento perma-
nente di quel sito, senza capire né perché né come ciò fosse divenuto
possibile. E l’acqua saliva ancora. Habdu prese allora Rahn e lo fece
salire sulle proprie spalle mentre stoicamente affrontava l’acqua ancora
in salita, mentre lottava per avanzare con pena verso l’altra sala da cui
erano giunti. Rahn teneva la lampada levata in alto, ormai unica fon-
te di luce. Poi l’acqua si fermò quando ormai era arrivata alla gola di
Habdu. Per il momento erano salvi, ma dovettero aspettare ancora tre
ore, finché l’acqua iniziò a defluire. Per quel momento, la lampada si
era ormai spenta e tutto ciò che restavano erano alcuni fiammiferi che
Rahn aveva salvato tenendoli nell’altra mano. Seguirono penose ore di
attraversamento di pozzanghere e strati di fango, alla luce debole dei
fiammiferi rimasti, fino a che giunsero all’entrata della grotta. Allora
capirono che un violento temporale si era abbattuto sulla montagna e
che la pioggia era percolata attraverso la roccia porosa raccogliendosi
nei recessi e formando violenti ruscelli. Quando infine il temporale era
Le grotte 43

Rahn nella grotta di Bethlehem.

cessato, l’acqua era defluita via, così come si era raccolta. Questo era
il motivo per cui gli abitanti del luogo ritenevano tanto pericolosa la
grotta di Fontanet. E di questa strana avventura e del pericolo corso
da Rahn e dal suo accompagnatore, non c’era nessuna prova, e l’unico
testimone era stato la statua del cane infernale che tanto entusiasmo
aveva acceso in Rahn solo poche ore prima.
Joseph Mandement, presidente del sindacato di iniziativa turistica di
Ussat-les-Bains, il piccolo comune situato nel dipartimento dell’Ariège,
nel dicembre 1932 aveva ricevuto una lettera da Déodat Roché. Déodat
era incline a essere un seguace delle teorie del signor Rudolf Steiner; ma
anche così, aveva poca pazienza per i peggiori deliri delle sette esoteriche
44 Un mito solare

e in particolare per quella dei Polaires. Nella lettera citava uno scritto di
Monsieur Luc, presidente della Corte d’Appello di Pau, grande comune
dell’Occitania, che nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario aveva
citato le teorie di un certo Otto Rahn sulla presenza del Graal nei Pi-
renei, e in particolare il racconto di come Esclarmonde aveva salvato il
Graal dalle grinfie dei crociati. Rahn aveva attribuito il racconto a un
ottuagenario pastore incontrato sul monte Tabor. Eppure io so per certo,
osservava Roché, che è stata Myrianne Pujol-Murat a raccontare questa
storia a Rahn. Che ne è, allora, del misterioso pastore ottuagenario? Sen-
za contare altre stranezze di Rahn…
La lettera aveva fatto pensare Mandement. Che ci faceva un tedesco,
all’inizio degli anni Trenta, in Occitania? Poteva essere una spia? Certo
il signor Hitler, a quanto dicevano, non aveva nessuna simpatia per i
francesi. Che ci faceva un tedesco lì? E che rapporti aveva con l’occul-
tista Myrianne Pujol-Murat e con la setta dei Polaires, ossessionati dalla
presenza del tesoro dei catari nelle grotte del Sabarthez? Nel numero del
3 marzo 1932, il giornale di Tolosa, La Dépêche, aveva pubblicato un arti-
colo in cui si citava esplicitamente un tedesco, un certo signor Rams, che
guidava un gruppo di Polaires ad attuare alcuni lavori di scavo nella zona
di Ussat. A che cosa mirano queste ricerche, si chiedeva il giornale? Che
cosa cerca il misterioso signor Rams o, fuori dall’equivoco linguistico,
Otto Rahn? Era un cercatore di tesori, il signor Rahn… oppure una spia?
Antonin Gadal rispose al giornale, protestando che nella zona non c’era
proprio nessun scavo in atto, e sicuramente non vi erano Polaires, e difen-
dendo l’onorabilità di Rahn. Poi fu Rahn stesso a rispondere, negando di
essere una spia e affermando di essere un semplice scrittore.
Tuttavia, erano cose che facevano pensare. E Mandement, che con-
divideva i dubbi di Roché, voleva vederci chiaro. Meglio dunque tenere
d’occhio le grotte, cosa facile per il presidente del sindacato di iniziativa
turistica, e cercare di capire quale fossero gli intendimenti dello stra-
no signor Rahn. Per questo Mandement stava effettuando un giro di
ispezione nelle grotte della zona. Fosse un caso, o fosse un sesto senso,
si imbatté in uno stravagante personaggio nella grotta di Lombrives, la
più grande. Lo colse di schiena, così che l’altro non poté vederlo men-
tre avanzava a passi felpati e si disponeva dietro un rientro nella roccia
per poterlo osservare senza essere scoperto. Lo strano personaggio, che,
senza dubbio, era Otto Rahn in persona, aveva preso in mano una serie
di gessetti. A quanto pare stava disegnando la forma di un albero sulla
Le grotte 45

parete rocciosa. Stava falsificando un graffito? A questo punto Mande-


ment non ci vide più…
Rahn stava ripassando con il gesso la figura che, ne era certo, era la
rappresentazione dell’albero del mondo, pieno di adrenalina per avere
scoperto la prova di una contiguità tra la cultura nordica con il suo mito
dell’Albero del Mondo, il frassino Yggdrasil, e quella occitanica, quando
udì un calpestio dietro di sé. Fece appena in tempo a girare la testa quan-
do ricevette un formidabile pugno sul naso.
Nonostante le difficoltà che derivavano dall’essere straniero e in par-
ticolare tedesco, cosa che suscitava diffidenza tra i montanari della zona,
Rahn provò davvero a integrarsi nella comunità. La convinzione febbrile
di essere sul punto di effettuare scoperte storiche sconvolgenti, destina-
te a proiettarlo nell’empireo della fama e della fortuna; il desiderio di
lasciarsi alle spalle un periodo di lavori temporanei e casuali, di forte
dipendenza dai prestiti di amici e conoscenti; la determinazione ad ab-
bandonare un’esistenza precaria e ad acquisire una posizione sociale ri-
spettata e dignitosa, tutto lo spingeva a fare della regione di Ussat la sua
base di operazioni e la fonte della sua nuova rispettabilità. Quest’urgenza
che lo muoveva non era sfuggita all’amico Paul Ladame, più volte venuto
a trovarlo a Ussat, dove Rahn alloggiava presso la pensione Bernadac,
per accompagnarlo nelle sue escursioni nelle grotte. La frenesia che con-
duceva Rahn a compiere esplorazioni speleologiche, a raccogliere miti,
leggende, dati storici, a elaborare ipotesi, in vista della composizione di
un’opera, che, senz’altro, non poteva che preludere alla ricchezza e alla
celebrità, non sfuggì nemmeno a Jean Baptiste Fauré-Lacaussade, il poeta
di Tarascon-sur-Ariège che Rahn aveva conosciuto nel 1931 e incontrato
numerose volte. Fauré-Lacaussade era stato colpito dal fatto che Rahn
parlasse poco di sé, e invece la sua conversazione si spingesse ossessiva-
mente sul soggetto dei catari, alternando tra storia, leggenda, mito, in
cui tutto si univa a tutto, in un vertiginoso vorticare. Era come, rifletteva
Fauré, se per Rahn valesse più la qualità del racconto che la veridicità
storica. Era come se Rahn fosse un fanciullo, con la fantasia piena di leg-
gende e di racconti favolosi, un fanciullo che stava volentieri a ascoltare
storie cui aderiva con la parte più intima di sé, eccitato e preso. Allo stes-
so Fauré, Rahn chiedeva avidamente racconti sulle gesta di Carlo Magno,
in particolare sulla grande battaglia di Pré Lombard, ma non domandava
mai nulla sulle prove documentarie degli eventi di quello scontro. No,
Rahn era pago di bei racconti, tanto meglio se erano incentrati su Carlo
46 Un mito solare

Magno, che era un soggetto che gli interessava, ma avrebbero potuto


essere altrettanto facilmente incentrati sugli indiani, come nei racconti
del signor Karl May…
Quest’innamoramento per una storia segreta, quella dei catari, in cui
si annodavano tanti fili, quest’infatuazione che sembrava una sicura rotta
per un approdo alla terra della fama e della gloria, questo desiderio di
riscattare una vita di stenti e di espedienti come quella che aveva condot-
to sino ad allora, spinse Rahn a un passo importante: nel maggio 1932
acquistò i diritti di gestione per un triennio dell’hotel Les Marronniers
di Ussat impegnandosi a versare quindicimila franchi al proprietario,
Antoine Arquès. La vita dell’albergatore tuttavia non esauriva le attività
di Rahn, che continuava a esplorare le grotte della zona, a volta accom-
pagnandosi all’amico Paul Ladame, e aveva preso a battere a macchina
una prima stesura del progettato libro sui catari e sul loro tesoro. Lada-
me osservava preoccupato l’amico, che gli appariva nervoso e inquieto,
entusiasta dei catari e delle sue ricerche, e convinto di avere fatto una
delle scoperte più importanti della storia. Rahn stava lavorando al ma-
noscritto di un libro, di cui aveva già deciso il titolo, Crociata contro il
Graal, riferimento alla crociata indetta dalla Chiesa di Roma per spazzare
via il catarismo e impossessarsi del tesoro dei catari. La conversazione
di Rahn tornava incessantemente su questi avvenimenti, così come su
ingenue vanterie relative alla sua nuova attività di albergatore. Persino
stelle come Joséphine Baker, di passaggio dalla regione diretta verso Pari-
gi; come Marlene Dietrich, si erano fermate al suo albergo. Chissà se era
una delle tante bugie che Rahn raccontava anche a se stesso. Di una cosa
solo Rahn non parlava con l’amico Ladame: delle difficoltà finanziarie
che stava attraversando.
La gestione dell’albergo esigeva un capitale iniziale, che Rahn non
aveva; e per far fronte alle necessità dell’attività ricorreva al credito e
impetrava prestiti dagli amici come Gadal. Rahn era convinto che le
difficoltà fossero momentanee; il successo del suo libro avrebbe aperto
la strada a chi, desideroso di affrontare il cammino del Graal, si sarebbe
dedicato all’esplorazione delle grotte, e avrebbe fatto base all’hotel Les
Marronniers. Anche questa, forse, era una favola come quelle che Rahn
amava tanto; la realtà dei quindici chili di pane che prelevava quotidia-
namente dal fornaio per far funzionare il ristorante dell’albergo, invece,
esigeva pagamenti non più ulteriormente rimandabili. Il dissesto finan-
ziario avvenne quasi subito. All’inizio di ottobre 1932, appena cinque
Le grotte 47

mesi dopo l’inizio dell’attività, Rahn fu citato per debiti di fronte al


tribunale di Foix; il signor Arquès non aveva ricevuto la prima rata
dell’affitto stipulato a maggio, cinquemila franchi che Rahn non aveva
e che non poteva procurarsi. Di fronte alle contestazioni dei debitori e
alle richieste di garanzie avanzate dal giudice, Rahn aveva una sola cer-
tezza: quella del libro che stava scrivendo e con i cui proventi avrebbe
presto ripagato i debiti. Egli stesso calcolava che i proventi della sua
opera avrebbero superato i centomila franchi, più che sufficienti per
ripagare i debiti. Nel frattempo i creditori si accanivano sui suoi magri
averi: il suo apparecchio fonografico e la macchina fotografica erano già
stati venduti…
Sul numero del 2 novembre 1932 degli Archives Commerciales de la
France, a pagina 5466, comparve l’avviso della dichiarazione di falli-
mento di Otto Rahn, professione albergatore, a cura del tribunale di
Foix. A Rahn non rimase che riparare a Parigi, per poter lavorare con
un po’ di ritrovata calma al proprio libro – a Ussat non era proprio più
possibile – e per impetrare aiuto ai suoi abituali finanziatori, a Gadal,
alla contessa Pujol-Murat. In fondo, in altre circostanze si era trovato in
difficoltà economiche, ed era sempre riuscito a cavarsela. Le altre volte,
però, non c’era un processo di mezzo; e di fronte alle intimazioni del
giudice, Rahn non poteva che rispondere con vaghe promesse relative
ai proventi futuri del suo libro, e all’indignazione per come veniva trat-
tato. Persino la sua macchina da scrivere era stata venduta! Questa era
una vera soperchiera! Uno scrittore ha bisogno della sua macchina da
scrivere. Come si può pretendere che possa ripagare i debiti, se non lo
si fa lavorare?
La fine fu repentina. Il 6 ottobre 1932, quando il tribunale di Foix ave-
va dichiarato il fallimento dell’impresa di Otto Rahn, poiché egli aveva
già lasciato Ussat, aveva anche emesso a suo carico un decreto di arresto
e un ordine di espulsione dalla Francia. L’ordine di espulsione si giusti-
ficava solamente tenendo conto che i sospetti sull’attività di Rahn come
spia tedesca erano riemersi. Rahn era tuttavia ancora deciso a lottare. In
una lettera a Gadal datata 20 novembre 1932, annunciava di avere firma-
to un contratto per le edizioni tedesca, inglese e francese del suo libro.
Con gli anticipi dell’editore sarebbe riuscito a saldare i propri debiti. Nel
frattempo, però, la sua situazione era più grave che mai. Rahn lamentava
di avere calzini bucati che lavava ogni due giorni, un solo colletto per
la camicia, e di avere subito il furto del cappotto e delle scarpe. Ma la
48 Un mito solare

miseria dovrà ben finire, mio Dio!, si sfogava. A causa del mandato di
arresto, poteva tornare a Foix soltanto con il favore delle tenebre. Ormai
Rahn si paragonava apertamente ai catari, perseguitati e martirizzati. Il
20 dicembre 1932 Rahn tornò a Ussat; gli era necessario far convalidare il
proprio passaporto dal sindaco della città di residenza. Ne approfittò per
prendere parte a una seduta del processo, che era ancora in corso. Il giu-
dice gli domandò un acconto per risarcire il personale dell’albergo. Rahn
offrì come garanzia il contratto del suo libro. Questa garanzia sembrò
misera al giudice, che la ritenne insufficiente. Rahn fece allora riferimen-
to a un articolo che avrebbe in breve pubblicato, e che gli sarebbe stato
pagato. Il giudice domandò quando sarebbe uscito. Rahn si disse certo
che sarebbe uscito molto presto. Il giudice si mise a ridere: «Qua conta
solo la liquidità», disse.
Eppure Rahn, persino in queste circostanze spiacevoli, non perse di
vista i suoi obiettivi. La deviazione a Ussat e a Foix gli era costata, ed egli
se ne lamentava in una lettera a Gadal, principalmente perché questo
gli impediva di restare a Parigi e approfondire la questione del culto di
Apollo a Delfi. Rahn riteneva che il tesoro di Delfi fosse stato portato via
dai Celtiberi durante la loro invasione della Grecia, e che fosse finito a
Carcassonne assieme al tesoro di Salomone che i Goti avevano portato
via da Roma quando la saccheggiarono. Era per questa via che il tesoro
dei catari si era formato.
All’inizio del 1933, Rahn lasciò la Francia per tornare in Germania.
49

5.
Crociata contro il Graal
(1933-34)

Nella primavera del 1933 Rahn si stabilì a Berlino. Tornava sconfitto


dalla Francia, e tuttavia nella nuova Germania del cancelliere Hitler non
sembrava avere problemi di ambientazione. Prese senza indugio la tessera
della Reichsverband deutscher Schriftsteller, l’Associazione degli scrittori
tedeschi, creata dal nuovo regime per «germanizzare» le istituzioni cultu-
rali e purgarle delle influenze straniere, in primo luogo quelle ebraiche.
I primi roghi dei libri perniciosi erano già avvenuti, il 10 maggio 1933
anche a Berlino, in Opernplatz. Eppure le cose per Rahn si volgevano al
meglio. Grazie alle sue avventure nei Pirenei, stava diventando un perso-
naggio. La radio lo cercava volentieri e gli dava spazio. E aveva un editore.
Nella sede della casa editrice Urban, di Friburgo, nell’autunno 1933,
era comparso uno strano personaggio, privo di cappotto, e che portava in
testa soltanto un basco per difendersi dalle intemperie. Disse di essere il
dottor Otto Rahn. Disse che aveva un manoscritto e chiese di illustrarlo.
Ancora una volta le gesta dei catari ispirarono Rahn, che ritrovò tutta la
sua eloquenza. Parlò a lungo degli argomenti del libro, entusiasmando
persino le segretarie di redazione che si erano fermate a ascoltarlo con
occhi brillanti, avvinte dall’energia della narrazione. Quella sera Rahn
uscì dalla casa editrice con un contratto in mano, che gli consentiva di
consegnare la stesura definitiva del libro entro un anno.
La Crociata contro il Graal esigeva di rifondere insieme molti mate-
riali diversi, e occorreva lavorarci ancora oltre alle cure che già in Fran-
cia erano state impartite all’opera. La spina dorsale della storia era però
chiara a Rahn: la saga dei catari e quella del Graal si fondevano, grazie
ai poeti medievali. Era stato il poeta provenzale Guyot, evidentemente
autore nel dodicesimo secolo di un poema su Parsifal non giunto fino
a noi (cosa non inaspettata vista la sua collocazione in un periodo in
cui si bruciavano sia i libri degli eretici che gli eretici stessi), che aveva
elaborato la leggenda del Graal poi ripresa da Wolfram von Eschenbach.
50 Un mito solare

Von Eschenbach aveva velato i luoghi occitani in cui si era svolta la vi-
cenda del Graal sotto nomi falsi ma allusivi: Montségur era diventata
Montsalvat, Esclarmonde il personaggio di Répanse de Schoye, la zia di
Parsifal. Tutto indiceva a credere che von Eschenbach avesse modificato i
nomi, ma che si fosse ispirato alle vere vicende dei catari occitani. Rahn
vedeva ormai, con gli occhi della mente, il gigantesco ponte che aveva
unito Oriente e Occidente nell’unità delle credenze elaborate al tempo
del primo cristianesimo, e che poi erano approdate in Occitania. Per
recuperare appieno questa traslazione culturale, per coglierne il pieno
significato, occorrevano competenze le più diverse; linguistiche, certo,
ma anche letterarie, anche teologiche, storiche, artistiche, e persino spele-
ologiche. Occorreva dominare molti linguaggi, ed era così che gli antichi
poeti acquisivano la nobiltà diventando cavalieri… Più che ai trovatori,
Rahn pensava a se stesso, e si vedeva ormai come un artigiano-poeta che
attraverso la padronanza del verbo si era avviato alla conquista della vera
nobiltà e all’ascesa nell’empireo della fama… La storia inseguiva la verità
da Oriente a Occidente, proseguendo dalla città francese di Olmes fino
alle grotte del Sabarthez, quello che Rahn, e Gadal prima di lui, chiama-
va il sentiero dei catari, fino alla grotta di Lombrives, nell’antichità tempio
al dio sole adorato dai Celtiberi. Lavorare febbrilmente bastava forse ad
allontanare il ricordo spiacevole degli ultimi mesi in Francia, ma a Rahn
occorrevano anche stimoli, occasionalmente un pubblico. Di fronte ad
ascoltatori attenti e interessati, i suoi spiriti si elevavano, ed egli si in-
fervorava e dava forse il meglio di sé. In mancanza di altro, si rivolgeva
anche alle segretarie della casa editrice Urban, che stravedevano per lui,
e a cui Rahn leggeva i suoi dattiloscritti. Compite, attente, le redattrici
lo seguivano nelle sue letture, così prese da osare avanzare persino alcune
domande. Il quieto ufficio di Friburgo era diventato una palestra intel-
lettuale, dove il giocoliere Rahn si esibiva nei suoi salti mortali attraverso
la storia di fronte a spettatori frementi. Le domande gli permettevano
di concentrarsi su alcuni punti (Rahn aveva la tendenza a divagare) e lo
spronavano.
Alcune domande furono poste più volte, ad esempio quella relativa
alla grotta di Lombrives, la più nota. Rahn sorrideva, e non si adontava
mai. Questa grotta, per la sua vastità, era detta La Cattedrale, spiegava
senza tensione. Un vero regno sotterraneo, in cui storie e leggende si era-
no rifugiate per scampare a un mondo vuoto e ordinario. I catari avevano
appunto dipinto un sole e una luna sulle pareti della grotta, al cui centro
Crociata contro il Graal 51

si trovava una gigantesca stalagmite a forma di martello, che veniva chia-


mata la tomba di Ercole. A questo punto Rahn, con il cervello in fiamme,
citava i versi di Silio Italico, nei quali la tomba di Ercole diventava vera-
mente il luogo sepolcrale di quell’eroe, mentre i Pirenei avrebbero preso il
nome dal perduto amore di Ercole, Pirene, che vi era stata sepolta. E non
si trattava solo di Silio Italico, si infiammava Rahn. In effetti, anche altri
autori latini, come Plinio, ritenevano che i primi abitanti della Spagna
fossero persiani emigrati dal Caucaso verso Occidente, mentre secondo
Dione Cassio i primi abitanti dei Pirenei sarebbero stati i Bebrici, gli
antichi abitanti della Bitinia presso i quali si erano svolte le vicende della
nave Argo e della ricerca del Vello d’Oro. Se ben compresi, i nomi propri
di luoghi e di persone raccontavano una storia nella quale, verso il terzo
secolo avanti Cristo vi era stata una migrazione dal Caucaso verso la Spa-
gna, durante la quale i Bebrici si erano insediati nella regione Pirenaica. A
questo punto, forse le segretarie cominciavano ad avere qualche difficoltà
nel seguire il filo tortuoso dell’excursus; ma Rahn non se ne curava più,
ormai ammaliato dal corso stesso dei suoi pensieri. Adesso egli ricordava
un’iscrizione a Maga dove Ercole aveva il titolo di protoguida; un indizio
che il mito della venuta di Ercole nei Pirenei avrebbe potuto essere un
mito modellato su un principe fenicio che aveva guidato questa migra-
zione dalla città di Tiro, città ove veniva adorato il dio Baal. Nei Pirenei,
Baal era diventato A-Bel-Lio: Apollo, il dio della luce e del sole… Non
ne convenivano anche le segretarie? E queste ultime, immancabilmente,
non potevano che concordare che le conclusioni di Rahn (per quello che
avevano potuto seguire) erano inappuntabili.
Altre volte era Perrier il testimone della inarrestabile volontà di Rahn
di unire miti a miti, leggende a leggende, andando ormai oltre le idee
dei suoi amici francesi legati alle memorie catare; ormai le connessioni si
moltiplicavano, dando vita a una storia segreta ed esaltante, e già Rahn
squadernava di fronte agli occhi di Perrier una congiunzione tra la leg-
genda del Graal e quella della ricerca del Vello d’oro, portato sui Pirenei
dai migranti della Bitinia; molti alchimisti infatti chiamavano Vello d’oro
la Pietra Filosofale, e in von Eschenbach il Graal era appunto una pietra.
Il mito del Vello d’oro alludeva dunque a una trasformazione alchemica
che era al contempo anche una trasformazione spirituale, quella simbo-
leggiata dalla lapis ex coelis che costituiva il Graal. Le possibilità erano im-
mense, le ramificazioni incalcolabili, Perrier non poteva che ammetterlo.
E Perrier, come era naturale, assentiva gravemente.
52 Un mito solare

Miti finora ritenuti distanti e distinti, se uniti insieme, rivelavano un


materiale esplosivo, una diversa concezione della storia, dell’evoluzione
delle culture, di una vita umana differente e non ancora concepita.
Ciò che interessava qui Rahn era il dualismo tra luce e tenebra, che
era in fondo il concetto cardine del catarismo. Rintracciando il culto so-
lare portato nelle regioni pirenaiche dagli antichi migranti del Caucaso,
Rahn rintracciava, voleva rintracciare, gli antichi prodromi che avevano
costituito le colonne sulle quali era stata costruita la civiltà occitana. Se
Perrier domandava chi fosse stato a tenere viva la religione solare nelle
regioni pirenaiche, Rahn rispondeva paziente che erano stati i druidi a
mantenere vivo l’antico culto solare, il dualismo tra la luce e il buio, tra
lo spirito e la materia. Secondo i drudi Celtiberi, era stato il dio della
morte, Dispater, a creare il mondo materiale, Dispater che era l’equi-
valente del greco Plutone. I Celtiberi erano dunque eredi di una civiltà
antica e raffinata, quella dei Persiani, dalla quale avevano ricevuto le pro-
prie credenze dualiste (divennero politeisti solo in seguito alla conquista
da parte dei Romani) cui rimasero fedeli e che conservarono nelle loro
inaccessibili roccaforti pirenaiche. La fede dualistica che essi mantenne-
ro, riteneva Rahn, era quella originaria persiana mazdaista. Una prova
ulteriore dell’origine persiana del culto celtibero di Abellio era costituita
dalle svastiche che si trovavano incise nelle valli pirenaiche.
Fin qui la storia concepita da Rahn era sufficientemente grandiosa,
tale da sconvolgere tutti i libri di storia. Ma il resto era semplicemente
inconcepibile. Gesù Cristo non fu il fondatore della religione cristiana,
anzi non fu il fondatore di nessuna religione; il suo intento era quello di
soddisfare le aspettative messianiche del suo popolo. La Chiesa nacque
solo in seguito, nel pieno travisamento del ruolo di Gesù. La nascita
di una spiritualità intollerante e lontana dalle credenze originarie non
poteva che portare a uno scontro. I seguaci dell’antica dottrina non po-
terono che rifugiarsi nelle caverne. A poco a poco, dai druidi emersero i
catari. L’interpretazione dualistica della Bibbia data dai catari non pre-
vedeva che vi fosse un dio creatore del mondo materiale. Se creazione
materiale vi era stata, essa non poteva che essere l’opera di una divinità
inferiore e limitata, Lucifero. Allo stesso modo, Gesù, per essere vero
Dio, non poteva albergare in sé la materia. La Sua era solo l’apparenza
di un uomo. Catarismo e cristianesimo romano, nella visione di Rahn,
non potevano essere più distinti; il catarismo, impasto di mazdaismo,
orfismo e pitagorismo, non poteva che attecchire in Occitania, la terra
Crociata contro il Graal 53

dove si era conservata tanta parte delle antiche dottrine religiose. Così
i catari avevano costruito i propri templi nelle caverne del Sabarthez.
Quanto al castello di Montségur, un tempo era il tempio della dea
Bellissena, l’equivalente celtibero della divinità greca Astarte/Diana,
compagna del dio solare Abellio. Si trattava di un tempo sacro ai dru-
idi, come quelli che esistevano a Mirepoix, o a Lavelanet. Molti dei
simboli con cui Astarte era raffigurata, l’alloro, o una colomba, erano
infatti presenti nei graffiti che i catari avevano inciso sulle pareti delle
caverne. Quanto al Graal, Rahn aveva concluso che non si trattasse del-
la coppa usata durante l’Ultima Cena (riteneva invece che questa fosse
una «romanizzazione» dell’originaria simbologia del Graal e una sua
sterilizzazione, un modo per renderla innocua), né tanto meno di una
reliquia cristiana, quanto piuttosto di un simbolo ereticale della fede
catara, fondata su principi di tolleranza religiosa e di libertà spirituale:
i fondamenti stessi dalla cavalleria, che infatti in nessun altra parte di
Europa era fiorita come in Occitania.
Ma già la vendetta di Roma si preparava. Dal concilio di Tours del
1163 iniziava la reazione cattolica, che poi prese corpo dopo il concilio
Lateranense del 1179 con l’indizione della crociata. Il 24 giugno 1209 le
file crociate lasciarono Lione per spingersi in direzione di Tolosa, allo
scopo di distruggere l’unica civiltà – Rahn quasi si commosse mentre
vergava queste parole – degna erede della semplicità e della grandezza
degli antichi, estinguendo al contempo il fiore costituito dalla tradizione
poetica occitanica, che era il cuore della fede catara. Le armate di Luci-
fero muovevano guerra ai catari, per riprendere al loro capo il Graal, il
simbolo stesso della religione catara.
Non si trattava tuttavia solo di quello che era accaduto in un lonta-
no passato, pensava Rahn chino sulle sue carte, anche se quel racconto
gonfiava il petto del lettore e riempiva il suo animo di stupefazione e di
rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non era stato. No, il
passato riemergeva e prefigurava un futuro diverso. Era quella speranza
per il futuro la cosa importante. Il futuro era più importante del passa-
to. Questo pensiero piacque a Rahn, ed egli lo annotò per utilizzarlo in
qualche testo. Per uno studioso ben dotato di immaginazione e ricco di
spirito artistico, abbeverarsi a quelle lontane fonti significava dispiegare
un futuro luminoso, in cui tutti i popoli di Europa sarebbero stati uniti
in un unico credo, tollerante e inclusivo. E allora il Graal sarebbe risor-
to dalle tenebre delle grotte del Sabarthez. Questa certezza lo spronò di
54 Un mito solare

nuovo a compulsare le sue carte mentre già pensava all’edizione francese


della Crociata contro il Graal.
Alla metà del febbraio 1934, la Germania era molto cambiata, sotto il
governo del signor Hitler, ma la sala da tè del Kaiserhof, il grande hotel
sulla Wilhelmstraße (la cosiddetta strada dei ministeri), non era cambiata
affatto. Si radunavano ancora politici, uomini di partito (anche se di un
partito solo, ormai), intellettuali. Del resto, a poca distanza dall’albergo
si trovava la Cancelleria del Reich, la Reichskanzlei, il cuore del nuovo
potere. Quale migliore occasione del Kaiserhof per mettersi in mostra e
attirare su di sé gli sguardi? Lo stesso Hitler aveva rilasciato interviste e
incontrato persone al Kaiserhof, il luogo adatto per incontri mondani
e meno mondani del mondo dorato berlinese. Nonostante la consueta
vivacità, tuttavia, pochi tavoli erano più animati di quello dove, in quel
pomeriggio di metà febbraio, sedevano quattro persone, due delle quali
almeno avevano già raggiunto una certa notorietà mentre un terzo era
sulla rampa di lancio. Su un lato del tavolo sedeva la nota giornalista e
scrittrice Grete von Urbanitzky, da un anno venuta a risiedere dalla capi-
tale del Reich, che da un po’ di tempo simpatizzava verso il movimento
nazionalsocialista e che, per un curioso destino, si trovava a condividere
con il capo di quel movimento, e attuale cancelliere, un’origine austriaca
che coincideva con la città di partenza di entrambi: Linz. Il nuovo can-
celliere non amava infatti il pensiero di essere nato a Branau am Inn e
preferiva citare Linz come sua patria. Questo però non contava al tavolo
in questione, dove, all’altro capo, sedeva Adolf Frisé, anche lui giornalista
freelance a Berlino e già allora in contatto con Robert Musil. I due era-
no tuttavia sommersi dalla scrosciante ed entusiasta eloquenza del terzo
commensale, che si stava affacciando alla ribalta e che evidentemente go-
deva appieno, come un torrente gonfio di piogge primaverili, della pro-
pria nascente notorietà. I due ascoltavano affascinati il terzo commensale
narrare delle proprie avventure nelle grotte dei Pirenei, dell’affascinante
mistero del Graal, della storia perduta e ora ritrovata dell’anima stessa
della civiltà europea.
Il terzo commensale era Otto Rahn.
Rahn sembrava perfettamente a suo agio, compunto nel ruolo di nuo-
vo enfant prodige della cultura tedesca. Il periodo di stenti, di lavoretti
malpagati, di dipendenza dalla benevolenza altrui, sembrava finito. An-
cora una volta, Rahn si era rimesso in piedi. Il disastro di quegli ultimi
mesi in Francia, la rottura di tante amicizie, di solito a causa di problemi
Crociata contro il Graal 55

economici, come quella con la contessa Pujol-Murat, al cui autista Rahn


aveva tentato di scroccare denaro in prestito, senza contare i tanti segni
di sfiducia e di diffidenza mostrati dai montanari dei Pirenei, o di aperta
ostilità come quella di Mandement (cui però Rahn aveva perdonato l’as-
salto nelle grotte), erano ormai alle spalle. Rahn poteva ora vantare nuo-
ve amicizie, come quella recente con Sven Schacht, il figlio di Hjalmar
Schacht, presidente della Reichsbank che di lì a qualche mese sarebbe sta-
to il nuovo Ministro dell’economia di Hitler. Né si trattava solamente dei
nuovi contatti che Rahn era riuscito a instaurare. Le stazioni radio erano
incuriosite dalle sue avventurose scorribande speleologiche e lo intervi-
stavano volentieri a quel proposito, e anche le riviste facevano a gara per
conquistarsi i resoconti delle sue avventure francesi alla ricerca del tesoro
dei catari. Un articolo era comparso sulla rivista Berliner Illustrierten, e al
momento egli stesso stava componendo un altro saggio per la Frankfurter
Zeitung, con argomento Heinrich Minneke, un prevosto della congre-
gazione cisterciense di Neuwerk che nel 1224 era stato condannato al
Sinodo di Hildesheim per avere sostenuto che il matrimonio era inutile
e che il diavolo, un giorno, sarebbe stato reintegrato nella grazia di Dio.
Il giudice di Minneke era stato il vescovo e inquisitore Konrad di Mar-
burg, che aveva condannato Minneke come cataro e come luciferiano. Si
trattava soltanto di un altro episodio della guerra romana contro il Graal.
Non erano tuttavia mancati attacchi alla Crociata contro il Graal. Rahn
aveva dovuto difendersi con le unghie e con i denti dalla recensione nega-
tiva, assai negativa, di Ludwig Pfandl, uscita sulla rivista Die literarische
Welt sul numero di settembre 1933. L’obiettivo di Pfandl era in primo
luogo la convinzione di Rahn che le idee della setta dei catari, e quelle
dei trovatori tedeschi legati al tema dell’Amor cortese, coincidessero; anzi
che nel patrimonio ideale dei poeti al centro stesse il mito del Graal. Era
il cuore della ricostruzione di Rahn. Pfandl, velenosamente, aveva accu-
sato Rahn di non avere capito nulla della cultura del XIII secolo, di avervi
guardato con gli occhi di un uomo che scriveva nel 1933, e di avere inven-
tato un passato favoloso che non era mai esistito. La storia raccontata da
Rahn sulla crociata contro i catari, una storia di eroismo fideistico da un
lato, e di malvagia stupidità dall’altro, a Pfandl pareva incoerente e pue-
rile, mal sostenuta dalle fonti, velata di sensazionalismo più che di preci-
sione storica. La vicenda delle regioni occitane non affondava le radici in
una lotta antidogmatica contro il fanatismo religioso, lotta perduta dai
seguaci della tolleranza; bensì in una lotta tra il separatismo tipico delle
56 Un mito solare

regioni della Provenza, gelose delle proprie prerogative autonomistiche


tipicamente feudali, e quelle del nord semigermanico, con la loro ten-
denza all’accentramento di poteri. Rahn insomma aveva completamente
frainteso il senso dello scontro in atto nell’Occitania del XIII secolo.
Lo stesso valeva per il mito del Graal, che Rahn aveva avvicinato in-
cautamente alle credenze catare. La verità, secondo Pfandl, era che il
racconto del Graal non aveva nulla a che vedere con la setta catara. Al
contrario; secondo Pfandl, il senso del Graal e la vicenda catara erano in
aperto contrasto tra loro. Per dimostrare il legame tra il Graal e i cata-
ri, Rahn invocava la leggenda secondo cui quattro cavalieri, con grande
rischio personale, avevano portato via il tesoro dei catari (nel quale era
appunto compreso il Graal) dal castello di Montségur, e il racconto di
qualche vecchio pastore. Nessuna fonte sosteneva queste leggende. Rahn
si arrampicava sugli specchi per annettere al catarismo il carattere speci-
fico del Graal e presentare i catari come i veri detentori e custodi di quel
mito. Si trattava, nel migliore dei casi, di un’ipotesi priva di qualunque
prova a sostegno.
Pfandl aveva mescolato questo veleno in mezzo a qualche osservazione
benevola sulle capacità interpretative di Rahn, ma il danno era evidente.
Rahn non poteva non replicare. Lo fece in una lettera alla medesima
rivista, spedita da Francoforte, ove rivendicava il fatto di essersi basato
sulla migliore delle fonti, il Parzival di Wolfram von Eschenbach. Era
da von Eschenbach stesso che Rahn aveva desunto la certezza che il rac-
conto del Graal era ambientato in Provenza, passando ai poeti tedeschi
per il tramite del trovatore provenzale Guyot. Era stato von Eschenbach,
per il tramite di Guyot, a stabilire che il Graal non era la coppa dell’ulti-
ma cena, bensì una pietra custodita nel castello di Montsalvasche, ossia
Montségur. La stessa geografia dei luoghi confermava la trasposizione
operata da von Eschenbach, che alludeva nel suo poema alla fontana Sal-
vasche, contenuta in una grotta al centro della quale si ergeva un altare.
Non era del tutto evidente che si trattava della grotta di Fontanet, al cen-
tro della quale si ergeva una stalagmite che era appunto chiamata l’Altare?
Non era del tutto evidente che Guyot aveva visto quella grotta e l’aveva
descritta, e che von Eschenbach aveva desunto da lui quella descrizione,
limitandosi a cambiare leggermente i nomi ma mantenendo la riconosci-
bilità dei luoghi? Tuttavia Rahn non voleva solo rivendicare alla propria
opera la dignità di un serio lavoro intellettuale; voleva anche sottolineare
l’aspetto artistico e quello morale. Come scrisse alla fine della lettera,
Crociata contro il Graal 57

l’interpretazione da lui data esigeva competenze del tutto diverse e spesso


estranee tra loro. Solo un eccezionale avventuriero intellettuale capace
di una fervida immaginazione e dell’audacia necessaria per giustapporre
dati di provenienza così disparata poteva venire a capo di una vicenda
tanto complessa. Quell’individuo eccezionale era lui stesso, Rahn, o al-
meno così egli intravvedeva se stesso nelle ultime righe della sua lettera al
Die literarische Welt: «Il catarismo era un’eresia; solo la teologia offre una
chiave per decifrare la sua mistica misteriosa. Solo lo storico della cultura
è all’altezza di delineare l’ascesa e il declino della cultura romanza. Solo
lo storico della letteratura può ritrovarsi nelle epopee di re Artù, Perceval,
Galaad e Titurel. Le grotte, che per me sono state i documenti più im-
portanti, ma anche i più difficili e pericolosi, richiedono uno speleologo e
uno studioso della preistoria. E l’apriti Sesamo per penetrare nella cerchia
mitico-mistica del Graal è concesso solo all’artista. Siate indulgenti se mi
dovesse mancare l’uno o l’altro presupposto. Ma non volevo niente di
più che condurre i miei contemporanei verso una terra inesplorata, che
ho dischiusa con l’aiuto di una corda, di una lampada da minatore e di
un lavoro diligente, e raccontare agli uomini di oggi il martirologio degli
eretici del tempio».
Tutto ciò era ormai alle spalle in quel maggio del 1934, all’hotel Kai-
serhof, dove Rahn poteva godere di un giorno di gloria in una scelta
compagnia, mentre beveva il tè caldo e dolce, fidando nella bontà delle
proprie tesi, nella saldezza delle proprie competenze e nella giustezza del-
le proprie posizioni.
L’entusiasmo e l’eccitazione di Rahn, che saltava da un argomento
all’altro, ora tornando indietro per illustrare un concetto di cui origina-
riamente si era dimenticato di dire, ora diffondendosi su un argomento
diverso per il quale gli si era appena presentato il destro, non sfuggiva a
Frisé, che osservava pensosamente il volto accesso di Rahn su cui per-
cepiva l’intensa esaltazione dovuta allo spalancarsi, proprio lì, nella sala
da tè del Kaiserhof, di possibilità inaspettate. Non era difficile, rifletteva
Frisé, credere che quello fosse il sogno di quel curioso, a suo modo affa-
scinante, compagno di tavolo che finalmente e all’improvviso si stava per
realizzare, proprio mentre Rahn insisteva con ardore sul fatto che il suo
libro era sulla bocca di tutti. La sala affollata del Kaiserhof, così stipata
di personaggi cospicui, era la realizzazione della scena tanto desiderata,
il trampolino per il grande salto verso il mondo elevato e superiore che
Rahn aveva così disperatamente bramato e che ora, dopo tanta esclusione
58 Un mito solare

patita, sembrava a portata di mano. E anche questo era evidente sul volto
di Rahn. Ciò che sfuggiva a Frisé, e che non traspariva sotto il lieve ros-
sore che imporporava la faccia dell’esaltato Rahn, era il fatto che costui
era di nuovo in difficoltà economiche. Gli anticipi dell’editore erano valsi
a pagare i debiti contratti in Francia, ma non a sostenere lo stile di vita
bohémien di Rahn e il suo incallito vizio del fumo, ed egli di lì a poco
avrebbe dovuto lasciare Berlino e riparare a Heidelberg e avrebbe lamen-
tato: «Ero senza il becco di un quattrino, avevo debiti, non mi spedivano
gli onorari e avevo perduto un sacco di tempo inutilmente per prepara-
re collaborazioni radiofoniche». Non era raro che lasciasse al tabaccaio
parecchie copie del suo libro in compenso delle stecche di sigarette che
avrebbe avidamente consumato in pochi giorni. Ancora una volta si sa-
rebbe dovuto appoggiare ai prestiti degli amici, come Joachim Kohlhaas,
che Rahn andò a trovare a Bressanone a novembre del 1934 e che gli pre-
stò 200 marchi, metà dello stipendio mensile di un operaio del tempo.
L’unico sfogo era scrivere all’amico francese che gli era rimasto fede-
le, Antonin Gadal, rievocando i bei momenti passati in Occitania, ma
anche quelli brutti. «Mi ricordo ancora con orrore della terribile musica
che dovevo sopportare giorno e notte ai «Marronniers». Mi figuro già le
espressioni dei miei visitatori suggestionati dallo spirito del mio libro e
costretti poi ad ascoltare questa «musica da negri», indegna finanche di
un moderno stabilimento balneare. Se si pensa che questa musica morti-
fica un luogo che un tempo era la sede del Graal!». Che era un modo per
segnare una cesura, una presa di distanza. Forse il periodo passato in Oc-
citania era stato davvero il periodo più bello della vita di Rahn, il periodo
in cui tutte le possibilità erano aperte, i tesori tutti a portata di mano.
Eppure, dopo il ritorno in Germania, sempre più emergevano anche i
punti oscuri di quel soggiorno, le ostilità incontrate persino tra coloro
che si consideravano i seguaci degli antichi catari: Roché, Mandement. O
forse era il clima tedesco in cui Rahn ripensava a quella strana esperien-
za, e che lo esponeva a valutazioni diverse. Quello che allora sembrava
entusiasmante senza alcuna riserva, ora appariva distante e problematico.
Se un tempo Rahn aveva deciso di stabilirsi definitivamente in Francia
e di intraprendere la carriera di albergatore a Ussat, ora, nelle lettere a
Gadal, oscillava con rapidità tra il desiderio di riprendere la vita francese
e la coscienza del fatto che il centro della sua nuova esistenza e della sua
nuova notorietà era in Germania. «Il mio libro è atteso in Germania con
grande impazienza», scriveva ancora a Gadal, salvo subito dopo tornare a
Crociata contro il Graal 59

interrogarsi se fosse possibile stabilirsi definitivamente in Francia. Subito


dopo, però, questo nuovo angoscioso interrogativo veniva sostituito da
una diversa, possibile decisione, quando da Bressanone Rahn scriveva a
Gadal: «Ho deciso di tornare quanto prima in Germania. Là cercherò
di mettere insieme la somma necessaria per vivere all’estero, a Ussat o
a Bressanone. Attualmente sto scrivendo un romanzo dal titolo Laurin,
che si svolge in parte nella foresta dell’Ariége. Forse mi daranno il per-
messo proprio grazie a questo romanzo».
Questo continuo rovello, questa permanente oscillazione tra strade
diverse tutte ugualmente possibili, ma nessuna delle quali perseguita con
decisione, non nasceva da un’insincerità di sentimento ma da una debole
determinazione della coscienza. Il desiderio di ritornare a un’esperienza
gratificante come quella occitana si scontrava di fatto contro il decreto
di espulsione emesso contro di lui (nonostante il fatto che avesse comin-
ciato a ripagare i propri debiti); contro le inimicizie che si era lasciato
in Francia (nonostante il fatto che incaricasse Gadal di recare i propri
saluti a Mandement, che gli aveva rotto il naso nelle grotte del Sabar-
thez); nonostante il fatto che le norme valutarie tedesche imposte dal
nuovo governo impedissero di esportare il proprio patrimonio in paesi
stranieri. O, ancora, con l’assurda speranza che i sospetti contro la sua
persona come spia tedesca venissero cassati solo per il fatto di aver conce-
pito l’idea (un altro vano progetto) di scrivere un romanzo parzialmente
ambientato in una foresta occitana. O forse tutti questi fatti emergevano
fiaccamente alla coscienza di Rahn, ed egli escogitava dunque, a guisa di
schermo e di compensazione, altre possibili mete, come Bressanone. Al-
tre volte ancora, spettatore degli sconvolgimenti che la nuova Germania
di Hitler attraversava, faceva chiare allusioni a «gli eventi sanguinosi di
cui sono stato testimone», come scrisse in una lettera a Gadal alla fine di
dicembre 1934, un chiaro riferimento alla Notte dei Lunghi Coltelli, e
che lo inducevano a prendere in seria considerazione l’idea di «lasciare il
mio turbolento paese». Eppure, per quanto chiari fossero questi senti-
menti, poi Rahn non faceva nessun sforzo concreto per lasciare il proprio
paese, tanto che in una successiva lettera del febbraio 1935 si sentiva in
dovere di giustificarsi di fronte a Gadal, dicendo «Ho solo rimandato il
mio viaggio in Francia», a Gadal, che non chiedeva nessuna giustificazio-
ne e scrivendo al quale, in fondo, Rahn si giustificava solo di fronte a se
stesso. E tuttavia in quelle missive si introducevano segni di antisemiti-
smo, segno che Rahn non era poi così insensibile né così spaesato rispetto
60 Un mito solare

alla temperie della nuova Germania. Le difficoltà che trasparivano nelle


lettere a Gadal erano difficoltà che si era già palesate anche se sotto forme
diverse, e ogni volta Rahn, con una piroetta da ballerino, era riuscito
a tirarsene fuori, lasciando macerie dietro di sé ma sempre liberandosi.
Quest’abilità non gli era venuta meno; e anche questa volta, sarebbe riu-
scito a trarsi d’impaccio, anche se la maniera, per coloro che lo conosce-
vano, si sarebbe rilevata inaspettata.
Nulla di tutte queste cose, destinate ad avvenire di lì a qualche mese,
traspariva tuttavia in quel pomeriggio al Kaiserhof, dove Rahn si godeva
il tè e l’attenzione di quel pubblico scelto, con la rassicurante sensazione
di avercela fatta, di essere sul punto di entrare in un mondo che fino a
quel momento lo aveva escluso, grazie alle sole proprie forze e nonostante
tutta una pletora di ostacoli e di affanni. Era il momento del riconosci-
mento, dell’ammissione, snodatasi attraverso il passaggio nelle grotte del
Sabarthez, così come attraverso quelle stesse grotte i nuovi adepti catari
venivano iniziati alla perfezione del loro credo. In quel trionfante mo-
mento, sotto gli occhi appena un po’ stupiti di Frisé, che forse si rendeva
conto dell’importanza di quell’attimo, Rahn sentiva che la propria vita
aveva raggiunto una svolta. La direzione di quella svolta, che si sarebbe
manifestata di lì a poco, forse avrebbe meravigliato perfino lui.
61

6.
Al servizio del Reichsführer-SS
(1935-1937)

Era luglio 1936, e a Berlino erano in pieno svolgimento le preparazio-


ni per i Giochi Olimpici che dovevano iniziare il 1 agosto. La città era in
fermento; il governo non lesinava spese per garantirsi un’adeguata ribalta
internazionale, costruendo impianti all’avanguardia e soprattutto inven-
tando cerimonie che unissero idealmente la Germania nazista all’antichi-
tà classica; per la prima volta fu introdotto il viaggio della fiamma olim-
pica da Olimpia a Berlino, ideato da Carl Diem, che ne parlava come di
un legame tra antichità e modernità, in un nodo storico e razziale che
collegava direttamente la Germania del Reich alla Grecia antica. Diem
si era ispirato al racconto di Plutarco, che nella Vita di Numa Pompilio
aveva descritto il rito dell’accensione del fuoco a Olimpia. Il 20 luglio,
dunque, la fiaccola olimpica era stata accesa a Olimpia, e sarebbe giunta
dopo 3000 chilometri, trasportata da 3400 corridori, fino all’erede di
Olimpia, Berlino, dove rivivevano i sogni di perfezione fisica e spirituale
dell’antica razza greca.
Si trattava di idee gigantesche, che stupivano il mondo, e Berlino si
era presto riempita di giornalisti esteri che spiavano non solo la trasfor-
mazione fisica di Berlino, dedita a opere colossali, ma anche la vicenda
spirituale che quella trasformazione raccontava. Le smisurate coreografie
(la messa in scena dell’Orestea di Eschilo all’Opera di Stato di Berlino;
il ricevimento delle varie delegazioni olimpiche nazionali che Hermann
Göring volle svolgere proprio sotto l’Ara di Pergamo; le sfilate dei fi-
guranti tedeschi in costumi greci) mentre dilettavano, suggerivano al
contempo, non troppo velatamente, la stretta parentela tra la classicità
antica e le intenzioni del nuovo Reich, deciso a far rivivere l’antico splen-
dore di una razza, quella greca, che aveva incarnato il meglio dell’uma-
nità. Il mito ariano riviveva. Si trattava di un’atmosfera fantastica, che
galvanizzava e cui era difficile sottrarsi. In quei momenti sembrava di
rinascere in uno dei momenti d’oro dell’umanità, almeno così il regime
62 Un mito solare

voleva che sembrasse; e persino gli scafati giornalisti stranieri sarebbero


soggiaciuti, in larga parte, a quell’incanto.
Tuttavia in quella fine di luglio, anche se i preparativi fervevano e
già facevano intuire la gigantesca esaltazione che di lì a pochi giorni
avrebbe preso piede, i Giochi non erano ancora cominciati, ed era pos-
sibile godersi una passeggiata tra le strade più belle di Berlino, senza
ancora cedere del tutto all’eccitazione che presto sarebbe sopraggiunta.
Una delle mete predilette era il Kurfürstendamm, il lungo viale che
attraversava il quartiere di Charlottenburg, uno dei preferiti dei berli-
nesi (che però lo chiamavano Ku’damm) per la sua concentrazione di
caffè, di teatri, di cinema e gallerie d’arte. Certo, sotto il serioso nuovo
regime il viale aveva perso parte delle attrazioni che ancora alla fine
degli anni Venti lo caratterizzavano, i circhi, gli spettacoli di strada, le
esposizioni delle avanguardie artistiche che avevano fatto del Ku’damm
una delle strade più celebri di Berlino. Molti dei proprietari dei caffè
letterari e delle gallerie d’arte erano ebrei, e costoro avevano lasciato la
Germania oppure i loro locali erano stati arianizzati. Spesso le attrazio-
ni arianizzate non duravano tuttavia a lungo. In ogni caso, alle vecchie
glorie del Ku’damm degli anni Venti, si erano sostituiti i nuovi artisti
del regime: Zarah Leander, Leni Riefenstahl. Un mondo vecchio si
inabissava e un nuovo mondo, giovane e forte, emergeva: alla vecchia
arte che di lì a un anno sarebbe stata dichiarata degenerata e ritirata da
tutti i musei, subentrava un’arte fresca ed energica, ispirata ai modelli
della classicità, come quella dello scultore Arno Breker. Così, mentre
nuove stelle sorgevano, il Ku’damm manteneva parte del suo fascino e
della sua gloria.
Era proprio sul Ku’damm che passeggiava Paul Ladame, inviato a Ber-
lino come giornalista per coprire i Giochi Olimpici, approfittando del
bel tempo e della pausa temporale prima dell’apertura delle Olimpiadi.
Si dirigeva verso l’estremità est del grande viale, verso la chiesa Kaiser
Wilhelm, e aveva da poco passato l’incrocio con la Joachimtaler quando
improvvisamente gli si parò davanti un uomo vestito con l’uniforme del-
le SS, la banda rossa con la croce uncinata al braccio. Era impossibile non
riconoscerlo dopo le avventure vissute insieme in Occitania. Quell’uomo
era Otto Rahn.
Ladame era sorpreso e scioccato. Non ricordò neppure di salutare
Rahn, e subito gli sgorgò dal cuore una sorta di grido: «Ma Otto, che
cosa ci fai in quell’uniforme?».
Al servizio del Reichsführer-SS 63

Rahn sembrava a disagio; si fermò inquieto, e guardò a destra e a sini-


stra prima di rispondere: «Mio caro Paul, si deve pur mangiare».
Forse Rahn era da qualche tempo che mangiava. Nell’estate del
1934, Frisé lo aveva incontrato a Bressanone, quando aveva letto il sag-
gio su Minneke e lo aveva invitato presso di sé. Rahn era stato felice di
acconsentire, anche se nella sua maniera strana (dopo un lungo silen-
zio, aveva improvvisamente inviato un telegramma da Milano annun-
ciando il suo arrivo) e, già che c’era, ne aveva approfittato per chiede-
re un prestito al povero Joachim Kohlhaas. Poi lo aveva incontrato di
nuovo a Berlino, a metà aprile del 1935, e Rahn anche in quell’occasio-
ne indossava l’uniforme delle SS. La cosa aveva stupito e imbarazzato
Frisé e Rahn si era dimostrato molto nervoso; deglutiva e parlava molto
velocemente. Adesso Frisé capiva meglio alcune allusioni che Rahn si
era lasciato sfuggire a Bressanone nel 1934, quando improvvisamente,
dopo avere lamentato le sue perenni difficoltà finanziarie, aveva riferito
di sentirsi in pericolo di vita, accennando oscuramente alle epurazioni
seguite al tentato putsch di Röhm. Che cosa poteva significare? Come
poteva Rahn essere coinvolto in quell’affare sanguinoso della Notte dei
Lunghi Coltelli? Forse che Rahn aveva già contatti con le SA di Röhm
che in quell’occasione erano state decimate nei propri vertici? Frisé ri-
cordava il discorso di Hitler al Reichstag dopo gli avvenimenti luttuosi
di quella purga, in cui costui aveva a lungo insistito sulla turpitudine
morale di Röhm e della sua cerchia, eliminare la quale era stato un do-
vere civico. Frisé conosceva gli orientamenti sessuali di Rahn. Era per
quello che si sentiva in pericolo di vita? O si trattava di un’invenzione
dell’ipersensibile Rahn, che amava reinterpretare tutto come se riferito
a se stesso e convincersi di cose e fatti mai accaduti se ciò avvantaggiava
il suo senso estetico? Una bella storia, anche se mai avvenuta, non va-
leva più di una brutta storia? Con Rahn non si poteva mai sapere. E in
fondo, non aveva lo stesso Rahn protestato a più riprese, quella volta,
di essere, dal punto di vista politico, una «pagina immacolata»? Come
giustificare tutto questo e ammettere che Rahn avesse contatti con le
SA, che sembravano così distanti, con la loro violenza feroce e con la
loro scarsa considerazione per la cultura, dal mondo cataro vagheggiato
da Rahn? Non sembrava possibile.
Rahn tuttavia riservava ulteriori sorprese. All’inizio di maggio 1935,
Frisé ricevette una telefonata da Otto Rahn, che lo invitò nel suo nuo-
vo appartamento di Tiergarten. Frisé, che aveva accettato, era stupito e
64 Un mito solare

dubbioso, mentre percorreva in S-Bahn il tragitto verso l’elegante quar-


tiere di Tiergarten. Come aveva fatto Rahn a procurarsi il suo indirizzo
e il suo numero di telefono? Come aveva saputo rintracciarlo? Questi
pensieri lo agitavano, mentre il treno attraversava Charlottenburg per
giungere alla stazione di Tiergarten, che ancora consisteva in una piat-
taforma coperta da un vecchio capannone, ma che di lì a poco sarebbe
stata coinvolta nei grandi lavori urbani del 1936. Il capannone sarebbe
stato demolito e sostituito da una costruzione a tetto sostenuta da sup-
porti d’acciaio. La ristrutturazione avrebbe però coinvolto l’intera area,
da ricostruire secondo i canoni della magniloquente architettura nazista.
L’appartamento di Rahn si trovava in un seminterrato, ed era stato un
tempo l’abitazione dell’ex-portiere dello stabile. Tuttavia, per modesto
che fosse, era pur sempre un’abitazione in un quartiere di prestigio, e
rispetto ad altri luoghi dove Rahn aveva abitato era un paradiso, un buco
di lusso… Rahn aprì a Frisé, che entrò nell’appartamento e notò subito
che non erano soli. Seduto a un tavolo ingombro di libri e di carte si
trovava un giovanotto, che Rahn presentò come «il mio segretario». Al
telefono aveva detto che si trattava invece del «suo aiutante». Il segretario,
o aiutante che fosse, era in abiti civili, come del resto Rahn; niente uni-
formi, stavolta. Frisé pensò subito che il termine “aiutante” era alquanto
improprio…
Si accomodarono e Rahn si dispose a raccontare la storia dei suoi
contatti con le SS di Himmler. La storia che raccontò era alquanto curio-
sa. Disse che dopo la pubblicazione dell’edizione francese della Crociata
contro il Graal si trovava a Parigi, in condizioni spirituali alquanto pe-
nose e afflitto dai soliti problemi finanziari. Lo angustiava la sostanziale
indifferenza del pubblico francese verso la sua opera; lo rattristava il fatto
che un’opera per la quale aveva tanto sofferto e rischiato, e che nei suoi
desideri avrebbe dovuto essere la chiave per la ricchezza e per la fama,
arrancasse nella sostanziale freddezza. Neppure gli amici francesi sem-
bravano avere intenzione di venire in suo soccorso. Fu allora, in quelle
tenebre, che gli giunse un telegramma inaspettato, che non solo si con-
gratulava con lui per i suoi sforzi, ma che gli prometteva un’elargizione
di mille marchi al mese, perché potesse continuare i suoi studi e scrivere
un secondo lavoro. Il telegramma non era firmato, ma sembrava serio;
tutto quello che Rahn doveva fare era presentarsi a un indirizzo di Berli-
no, e la cosa sarebbe stata fatta. Rahn non aveva nulla da perdere. Prese
il primo treno per Berlino e si presentò all’indirizzo indicato, dove trovò
Al servizio del Reichsführer-SS 65

ad aspettarlo un uomo dagli occhiali rotondi di acciaio e dai capelli corti,


molto miope e con una certa pancetta, che parlava con voce sommessa
e affettata, ma tale da non ammettere repliche. Quell’uomo portava un
paio di corti baffetti, ed era il capo delle SS: il Reichsführer Heinrich
Himmler che arruolò sui due piedi Otto Rahn. Quando Frisé, sconcer-
tato, interrogò Rahn sulla sua reazione al momento in cui aveva scoperto
che era stato proprio Himmler a invitarlo, questi si mostrò piccato: «Che
cosa avrei dovuto fare, scaricarlo?».
Il racconto pareva assurdo a Frisé; certo, Himmler era alla continua
ricerca di intellettuali da annettere alla sue SS e a cui dare specifici com-
piti di ricerca nell’ambito dei suoi scopi. Eppure sembrava impossibile
che Rahn si fosse convertito così, sui due piedi, al credo di Himmler. La
passione razziale, la fede nella superiorità della razza nordica del signore
delle SS era ormai ben nota. Come poteva uno come Rahn, già quasi
convinto di essere un successore dei catari, pacifisti e tolleranti, entrare
al servizio di un Himmler? Di un Himmler noto per la sua passione per
oggetti antichi ritenuti di potere? Il Graal, il simbolo della fede catara,
davvero poteva essere ridotto a un oggetto, un feticcio importante da
custodire nei capaci forzieri di Himmler? Ed era davvero Himmler, di
tutte le persone, il principale alleato di Rahn nella lotta contro le forze di
Lucifero che avevano tentato di cancellare dalla storia i valori della civiltà
occitana, aperta e inclusiva, con il ricorso alla forza bruta di una crociata?
Come si poteva credere una cosa del genere? Il cervello di Frisé avvampa-
va, prendeva fuoco, e il sangue gli batteva dolosamente sulle tempie. Già
da tempo egli aveva giudicato Rahn uno per il quale la qualità della storia
e del narratore valeva più che la verità. Era ancora un fanciullo, la testa
piena di racconti e leggende, ipnotizzato e accecato da mitologie mal
comprese. Uno stupore fanciullesco. Ma a un fanciullo si poteva ancora
volere bene. E tutto questo, ora? Quest’uniforme, quest’appartamento, il
pugnale alla cintura che recitava Meine Ehre heißt Treue?
Questa strana, inaspettata metamorfosi non poteva ridursi al breve
volgere di un viaggio in treno innescato da un telegramma pervenuto
in un momento di crisi. Ci doveva essere stato un avvicinamento, una
maturazione. Non poteva essere precipitato tutto così all’improvviso. A
meno che non fosse un’altra delle bugie che Rahn era solito raccontare a
se stesso, quella di uno studioso brillante ma incompreso, in cui, in un
momento particolarmente cupo, uno degli uomini più potenti della nuo-
va Germania aveva all’improvviso allungato una mano, riconoscendone
66 Un mito solare

il genio e sollevandolo all’altezza che meritava. Questo spiegava l’appar-


tamento al Tiergarten, la nuova fierezza dell’uniforme da ufficiale delle
SS, la sensazione di essersi salvato, di avercela fatta. In fondo, perché
Rahn l’aveva invitato al Tiergarten se non per mostrargli la sua nuova
posizione? Era differente dall’incontro nella sala da tè del Kaiserhof, do-
vuto alla gloria letteraria del momento che poteva anche rapidamente
passare. La nuova condizione di Rahn era permanente, comportava l’ap-
partenenza a un movimento, un’uniforme che non passava con la stessa
rapidità delle glorie effimere dell’ultima stagione editoriale… Era quella
la ragione di tutto? Oppure era semplicemente lo sventato Otto Rahn, lo
sconsiderato Otto Rahn, che semplicemente si dava, senza riserve, a chi
mostrava di apprezzarlo, ignaro dei rischi a cui si esponeva? Era Himmler
che, astuto come un animale, aveva saputo far breccia nell’animo di Rahn
e conquistarlo alla sua causa?
Ma con Rahn poche cose erano nette fin dall’inizio.
Rahn intanto gli narrava delle sue ultime direzioni di ricerca, gli nar-
rava dell’inquisitore Konrad di Marburgo, sul quale si stava concentran-
do, egli stesso cacciatore di eretici catari e di adoratori di Lucifero, che
forse erano essi stessi catari (almeno nelle parole di Konrad di Marbur-
go), mentre Frisé faceva sempre fatica ad ascoltare ora che gli sembrava
che la pressione nel suo cranio aumentasse di momento in momento. La
verità di quel momento bruciava nel cuore di Frisé; e gli pareva che, in
mezzo a mille bugie, una cosa ora risultasse chiara nel modo più lampan-
te: che nonostante le migliori intenzioni, ci si potesse sviare con facilità;
che la capacità degli uomini di raccontare bugie a se stessi era più grande
di ogni anelito alla verità, soprattutto su di sé; e che non esistesse nessun
mito, per quanto positivo e attraente, che non potesse essere rovesciato
con facilità nel suo contrario.
Per quanto Rahn già indossasse un’uniforme da ufficiale delle SS, non
era un ufficiale e in realtà non era ancora una SS, benché facesse già parte
dello Staff di Himmler fin dalla primavera 1935. Solo il 12 marzo del
1936 fu iscritto nel registro delle SS con il numero di matricola numero
276208; e il suo primo incarico fu quello di tracciare un albero genealo-
gico della famiglia Himmler. Tuttavia collaborava ormai da tempo con le
SS; Himmler lo aveva messo al servizio del suo protetto Karl Wiligut, e la
benevolenza del signore delle SS non mancava di prenderlo di mira, visto
che a poco più di cinque settimane dalla sua iscrizione nelle SS ricevette
la sua prima promozione. Il rapporto con Wiligut era tuttavia strano.
Al servizio del Reichsführer-SS 67

Karl Maria Wiligut era un austriaco, nato nel 1886, che dopo una bril-
lante carriera militare (aveva raggiunto il grado di colonnello durante la
Grande Guerra) si era convertito all’esoterismo ed era entrato a far parte
di vari circoli segreti dediti a dottrine mistiche e misteriosofiche. Di quel-
le sette pullulava il mondo austro-germanico negli anni Dieci e Venti.
Però, secondo Theodor Czepl, che era andato a trovare Wiligut e che ave-
va trascorso con lui tre settimane, era un esoterista sui generis; era davvero
convinto di essere il Re Segreto della Germania e che la Bibbia fosse stata
originariamente scritta in tedesco, e che solo maliziose traduzioni volte
a snaturarla l’avevano ridotta nelle attuali condizioni. Da questi segreti
convincimenti, Wiligut era stato spinto all’impegno politico: nel 1920
aveva fondato un giornale antisemita e anticattolico, Der Eiserne Besen.
Quest’impegno era durato fino al 1924, quando la moglie Leuts von Teu-
ringen, lo fece internare in manicomio fino al 1927. Nel 1932 Wiligut era
emigrato a Monaco di Baviera grazie all’amicizia con Frieda Dorenberg,
membro del partito nazista, che gli trovò un posto da docente presso un
circolo esoterico. Fu tramite un comune amico, il giornalista Richard
Anders, che nel gennaio del 1933 Wiligut conobbe Heinrich Himmler.
Himmler fu subito affascinato dal personaggio; dal novembre 1933 aprì
per lui un’apposita ripartizione dell’Ufficio Razza e Insediamento delle
SS. Quest’ufficio aveva il compito di vagliare la purezza razziale di coloro
che richiedevano di iscriversi alle SS, all’interno delle quali non erano
permessi sangue corrotto e macchie nella propria ascendenza. La sezio-
ne affidata a Wiligut, denominata Dipartimento di Preistoria e Storia
Primitiva, aveva in particolare l’incombenza di studiare i prodromi della
razza ariana e del suo insediamento nei territori tedeschi. Fino all’inizio
del 1935 Wiligut diresse la propria sezione da Monaco; poi si trasferì a
Berlino, in un appartamento fornitogli da Himmler, che gli trovò anche
una dama di compagnia (ma forse sarebbe stato più giusto definirla una
badante), Gabriele Winckler-Dechend. Fu allora che Wiligut divenne
anche membro dello Staff personale di Himmler.
Fin dai sui primi contatti con le SS, Rahn fu assegnato al Diparti-
mento di Preistoria di Wiligut, che quindi era il suo diretto superiore.
Frequenti erano quindi i contatti con Wiligut, che Rahn andava a tro-
vare quasi tutte le sere. Wiligut si interessava molto delle ricerche sul
Graal e sui catari, e ne riferiva a Himmler, che a sua volta mostrava
molto interesse. Inoltre Wiligut credeva che l’originaria religione tede-
sca fosse una forma particolare di cristianesimo detta Irminismo, molto
68 Un mito solare

diversa dalla religione di Odino descritta nell’Edda di Snorri. L’Irmi-


nismo era stato soppiantato con la forza dal politeismo germanico e
poi dal cristianesimo romano, ma aveva contenuto la forza dell’antica
credenza ariana, eredità ancestrale della nazione tedesca che era sta-
ta irrimediabilmente inquinata dal «sangue nero del sud». La perdita
dell’antica cultura ariana che si esprimeva nell’Irminismo era stata un
colpo non solo spirituale, ma razziale. E tuttavia tracce di quest’antico
sapere erano sopravvissute come una sorta di dottrina segreta, accessi-
bile soprattutto ai poeti.
C’era dunque molto nel discorso di Rahn che poteva interessare Wili-
gut e le discussioni si protraevano in quelle serate di visita a casa di quello
che molti chiamavano, con rispetto, il colonnello.
Oltre a ciò, Rahn si dimostrava un sottoposto deferente. Quando gli
si rendeva necessario spostarsi per approfondire le ricerche genealogiche
sulla famiglia Himmler e compiere un viaggio di studio, non mancava
mai di chiedere il permesso a Wiligut, permesso che immancabilmente
seguiva. C’era tuttavia qualcosa che forse sfuggiva a Rahn; con l’ascesa di
Wiligut nelle SS, il mito dell’antica sapienza ariana, combattuta e sop-
piantata dai romani che, estranei a quella tradizione, vi avevano sostituito
i loro idoli dapprima, e il cristianesimo ortodosso poi, ma che era sul
punto di venir riscoperta e risorgere, si stava rapidamente trasformando
in un sistema di potere. I rituali degli antichi germani, riprogettati da
Wiligut, stavano diventando i rituali delle SS, che Himmler intende-
va adottare nella nascente accademia delle SS, il castello di Wevelsburg,
presso Paderborn, che Himmler aveva rilevato dai vecchi proprietari e
che intendeva ristrutturare come scuola di formazione delle SS, dove la
nuova élite razziale si sarebbe imbevuta degli antichi valori razziali tra-
mite l’esecuzione degli originali riti ariani. L’architetto di questa ristrut-
turazione sarebbe stato Wiligut. In questo modo Himmler intendeva
plasmare la forza delle SS, trasformandola in una coesa falange di uomini
fortificati nel corpo e ben ammaestrati nell’anima alle credenze ariane
originarie, uomini che fosse giunto il momento si sarebbero impadroniti
di tutta Europa fondando il Reich dei mille anni, cuore e vita del nuovo
potere nazista. Lo stesso Rahn, nell’estate del 1937, avrebbe passato un
periodo al castello di Wevelsburg.
In ogni caso, Rahn si teneva in esercizio ed eseguiva i suoi compiti,
da sottoposto rispettoso, per Wiligut e soprattutto per Himmler. Nel
settembre del 1935 chiese a Wiligut il permesso di recarsi nel Westerwald
Al servizio del Reichsführer-SS 69

per alcune ricerche relative al nuovo libro, di cui svelava il titolo prov-
visorio: Montsalvat e il Golgotha; intendeva visitare le rovine del castello
di Wildenberg, dove riteneva che von Eschenbach avesse dimorato per
un certo periodo di tempo, e che veniva chiamato «il castello del Graal
nell’Odenwald» perché sarebbe servito a von Eschenbach come modello
per la descrizione del castello di Montsalvage. Inoltre intendeva vedere la
grotta di Lichtweis, vicino a Wiesbaden, e infine il castello di Sporken,
luogo di nascita, secondo la leggenda, dell’imperatore Nerone. La cosa
curiosa era che, mentre chiedeva il permesso, Rahn raccomandava a Wi-
ligut la massima segretezza (che ovviamente non si estendeva a Himmler)
su questi progetti. Il permesso giunse, Rahn compì questo viaggio e il 19
ottobre 1935 inviò una dettagliata relazione a Himmler. Ligio alle sue
ricerche, che tanto interessavano Himmler, Rahn tuttavia non scordava
i suoi doveri verso il Reichsführer, in particolare l’incarico relativo alla
compilazione dell’albero genealogico di quest’ultimo. Himmler era in-
teressato in modo specifico ai rapporti della sua famiglia con quella Pas-
saquai, una casata della Savoia di cui riteneva che una esponente, Maria
Magdalena Passaquai, nata nel dicembre del 1775, fosse stata sposata al
suo bisnonno. Himmler aveva già scoperto che i genitori di Maria Mag-
dalena erano Johann Michael e Maria Katharina Passaquai. Tuttavia, vi
era traccia anche di un altro Passaquai, un certo Sebastian Albert. Chi era
costui? Era in relazione con il ramo della famiglia cui apparteneva Maria
Magdalena? Per le SS le questioni genealogiche non erano una questione
di poco conto, ma un fatto della massima importanza. Rahn nel marzo
del 1936 si recò nella Svizzera francese per approfondire questi temi e
riuscì a farsi autorizzare la presenza di Raymond Perrier quale aiutante.
Grazie a questi suoi pronti servigi, Rahn era nelle benevolenze del
Reichsführer; alla fine del 1936, Himmler lo invitò al ristorante assieme
ad alcuni dei più potenti uomini della Germania. Il pranzo si svolse al
locale gestito da Otto Horcher sulla Lutherstraße, il locale preferito an-
che da Hermann Göring. Al tavolo, oltre Himmler e Rahn, sedevano
Reinhard Heydrich, il capo del servizio segreto delle SS e braccio destro
di Himmler; Werner Best, che allora lavorava all’Ufficio Centrale dei
Servizi di Sicurezza del Reich e che era destinato a una splendida carriera;
Karl Wolff, il capo dello Staff personale di Himmler, forse uno dei pochi
uomini cui il Reichsführer era davvero affezionato; Jean Marie Musy,
il politico svizzero che in quell’anno aveva fondato l’Azione Naziona-
le Svizzera contro il comunismo e che aveva stabilito un solido legame
70 Un mito solare

con Himmler. Questi uomini costituivano i vertici delle SS, un potere


crescente in Germania e dotato ormai di contatti internazionali, come
provava la presenza di Musy. A Rahn tornava in mente un tè preso al
Kaiserhof qualche anno prima, il primo segno della sua ascesa nei circoli
intellettuali. Ma il pranzo da Horcher faceva impallidire quell’evento,
che certificava l’intimità di Rahn con l’élite del regime tedesco. La stra-
da compiuta dal disastro finanziario di Ussat era tanta. Rahn ricordava
ancora con indignazione il periodo in cui i suoi beni venivano venduti
all’asta senza che neanche ci si degnasse di consultarlo, persino i suoi
strumenti di lavoro, senza i quali come avrebbe potuto pagare i debi-
ti… L’umiliazione di viaggiare di notte per non essere riconosciuto…
Rahn ricordava bene quelle mortificazioni ormai completamente supera-
te dall’appartenenza alla crema razziale e culturale della nuova Germania
e dalla gloria di quel pranzo al ristorante di Horcher, di cui un tempo
non avrebbe mai potuto neppure pensare di varcare la soglia. Nel foglio
matricolare che si trovava nel fascicolo del suo arruolamento nelle SS,
datato 18 marzo 1936, Rahn aveva scritto di suo pugno: «Prima della
presa del potere, ho scritto all’estero, dove ho risieduto parecchi anni
senza alcuna informazione sugli sviluppi politici e sugli obiettivi ideolo-
gici del NSDAP, un libro e saggi che sono oggi patrimonio spirituale del
nazionalsocialismo e che hanno determinato la mia chiamata nello Stato
maggiore del Reichsführer». L’appartenenza a quel patrimonio spirituale
veniva sottolineata nella partecipazione a quella scelta tavolata. Pur senza
cognizione alcuna della situazione tedesca, Rahn si era spontaneamente
volto verso la temperie spirituale nazista, di cui rivendicava ora di avere
fondato parte del patrimonio culturale. Questo era il suo merito. Merita-
va di stare nello Staff personale di Himmler e a quel tavolo.
Eppure, nonostante il trionfo di quel giorno, quel pranzo fu la se-
greta occasione dei futuri guai di Rahn. Vi presenziava infatti anche
Franz Riedweg, il medico svizzero che era anche un attivista nel Fronte
Nazionale svizzero, filonazista. Mentre pranzavano, Himmler propose a
Riedweg di arruolarsi nelle SS come medico militare. Quella sembrava
una richiesta innocua; eppure di lì a un anno gli effetti di quella propo-
sta si sarebbero dimostrati rovinosi per Rahn…
Tuttavia, anche l’ascesa nell’empireo delle SS non era scevra di pe-
ricoli. Wiligut non era privo di nemici, nonostante godesse del favo-
re di Himmler. Karl Wolff non amava Wiligut, e di lì a qualche anno,
quando scoprì i trascorsi manicomiali di Wiligut, se ne servì contro di
Al servizio del Reichsführer-SS 71

lui, riuscendo a farlo pensionare da Himmler. Ma non c’era bisogno di


aspettare pochi anni, visto che Wiligut soffriva già l’ostilità dentro le SS.
Un ufficio rivale e antagonista, l’Ahnenerbe, ossia la Società di Ricerca
per l’eredità ancestrale, fondata nel luglio 1935 dallo stesso Himmler,
dal ministro per l’agricoltura Walther Darrè e dall’etnologo Hermann
Wirth, esisteva all’interno dello stesso Staff personale del Reichsführer,
e si occupava di ricerche sulle origini della razza e della cultura ariana,
e in particolare del ritrovamento di tutte le testimonianze possibili sulla
presenza di tale razza nei tempi più remoti. Lungi dal detenere il mo-
nopolio su questo tipo di ricerche, il dipartimento di Wiligut soffriva la
concorrenza dell’aggressiva Ahnenerbe, pronta a sottrarre risorse e favore
ai rivali. Quando nel luglio del 1936 le SS decisero di intraprendere una
spedizione in Islanda, alla ricerca delle radici della religione politeistica
degli antichi Germani basata sul culto di Odino, così come veniva de-
scritto nel poema Edda di Snorri Sturluson, che qualcuno considerava
l’Omero scandinavo, Wiligut non fu annoverato tra i partecipanti, che
pure contavano molte figure intellettuali di spicco nelle SS, come Paul
Burkert, che aveva già viaggiato in Islanda e che dunque poteva essere
considerato un esperto, e come Hans Peter des Coudres, che era bibliote-
cario a Wevelsburg. Se però Wiligut non venne preso in considerazione,
nella lista dei membri della spedizione figurava il nome di Otto Rahn.
Il viaggio in Islanda non fu propizio. Rahn non legava troppo con
le altre SS, eccezion fatta per des Coudres, dei cui orientamenti sessuali
simili ai suoi Rahn si era subito accorto. Nel clima un po’ da caserma che
si era creato sulla nave, Rahn non si trovava a suo agio, e agli altri non
era parso vero di farne subito il bersaglio dei propri dileggi. Gli avevano
perfino inciso un teschio e una croce sulla porta della cabina. Anche l’I-
slanda si rilevò una delusione: Rahn era convinto di poter trovare tracce
delle antiche credenze religiose germaniche, fondate sulla natura: i sacri-
fici alle fonti e agli alberi, nell’interpretazione di Rahn, perpetrati dalle
arcaiche tribù germaniche, diventavano il legame che univa gli uomini
in quanto comunità. Ma come ritrovare tracce di quei culti in una terra
spoglia come l’Islanda? All’arrivo, egli scoprì con orrore che in Islanda
non c’erano alberi. Le stesse autorità islandesi non concessero agli esplo-
ratori il diritto di scavare ove volessero. Ben presto fu chiaro che sarebbe
stato impossibile trovare un sostegno alla tesi che i miti narrati da Snorri
avessero preso forma e vita in Islanda. Giusto per soddisfare Himmler e
dimostrare che la spedizione non era stata un completo fallimento, una
72 Un mito solare

caverna islandese fu identificata come il luogo di un antico tempio dove


gli abitanti adoravano Odino e il dio Thor, benché risultasse poi chiaro
che in realtà la caverna era stata abitata soltanto dal XVI secolo in poi. La
spedizione in Islanda non rimase certo negli annali della ricerca ancestrale
come uno degli episodi più gloriosi, e lo stesso Rahn non ricordò quel
viaggio con particolare piacere. Eppure, in qualche modo, anche quel
fallimento non fu completo; des Coudres rivelò a Rahn di essere sposato,
ovviamente un matrimonio di copertura al cui schermo sopravvivere in
una nazione e in un ambiente, quello delle SS, in cui l’omosessualità era
punita come un crimine spregevole tramite il famigerato articolo 175 del
codice penale. Questa rivelazione, a cui forse Rahn non aveva pensato,
mise in moto la sua immaginazione…
73

7.
Al servizio del Reichsführer-SS II
(1936-1937)

Nella primavera del 1937, nell’ufficio di Himmler alla Prinz-Al-


brecht-Straße c’era il capo e non da solo. Con lui, a condividere in
quel momento la stanza, era il suo dirigente dello Staff personale, Karl
Wolff, cui ogni tanto Himmler si indirizzava con il vezzeggiativo di
caro lupacchiotto. Era un indice di rara intimità, e il segno di un rappor-
to che sembrava incrollabile. Persino nelle sale dell’ex-hotel a cinque
piani Prinz-Albrecht non erano molti quelli che potevano vantare una
simile dimestichezza con il Reichsführer-SS. Wolff, tuttavia, ne gode-
va, e approfittava della presenza del capo, che di solito si trovava invece

Karl Wolff (al centro della foto) e a destra Himmler.


74 Un mito solare

sul suo treno speciale accompagnato dal generale Berger. A Himmler


piaceva essere amabile, ma Wolff sapeva per esperienza che Himmler
poteva essere, e anzi di solito era, gradevole e insieme terribile.
L’argomento della conversazione, che sembrava mettere Himmler di
buonumore, era Otto Rahn, la cui recente ascesa aveva stupito molti.
Il Reichsführer era nella fase gradevole, quindi tanto valeva avvantag-
giarsene e cercare di chiarire un po’ la faccenda. Wolff aveva udito la
faccenda del misterioso telegramma inviato a Parigi che prometteva
mille marchi al mese allo spiantato Rahn. Himmler, che si vantava di
sapere tutto delle sue SS, sorrise sotto i baffi.
«In realtà è stato Wiligut a segnalare alla mia attenzione il giovane
Rahn. Anzi, non è stato Wiligut, bensì la signorina Gabriele Winc-
kler-Dechend, che, come certo sa, ho incaricato di… eh… assistere il
colonnello Wiligut. La signorina Gabriele è un’accanita lettrice, e sul
suo cachet di lettura deve essere comparsa la Crociata contro il Graal,
che deve averla completamente affascinata. La ragazza è intelligente;
segnalò il libro a Wiligut, che a sua volta intuì le potenzialità di Rahn
per noi, e mi informò della cosa. Io mi fido del giudizio di Wiligut,
e dunque lo incaricai di ritrovare Rahn e di fare rapporto sulla sua
situazione».
Il Reichsführer guardò un attimo fuori dalla finestra, distrattamen-
te, e poi riprese. «Dal rapporto di Wiligut appresi che le cose andavano
assai male per Rahn. La Francia gli aveva rifiutato un visto, e il suo edi-
tore si era guastato con lui. Presi allora l’iniziativa di invitarlo a Berlino
e Rahn – che giovane intelligente! – accettò subito. Ma non venne da
me; andò da Wiligut. Wiligut non c’era, ma Rahn trovò la signorina
Gabriele, e questo fu un colpo di fortuna, perché subito i due legarono
e discussero per molte ore. Quando Wiligut rientrò, non c’era già più
dubbio che costui fosse dei nostri. Ma a quel punto, che fare di Rahn?
Portarlo subito qui, o tenergli la briglia un po’ sciolta e lasciarlo a Wi-
ligut? Questa seconda decisione si rivelò saggia; Rahn potè proseguire
le sue ricerche mentre al contempo cominciava a effettuare compiti
specifici, per i quali, devo dire, ha già ottenuto qualche risultato…»
Quindi il racconto del telegramma a Parigi non firmato era un’in-
venzione. Wolff lo aveva già sospettato. Non essendo uno storico e un
filologo, tuttavia, Wolff non capiva perché Rahn fosse così importante.
In fondo, nell’Ahnenerbe vi erano già molti storici e filologi. Che cosa
cambiava un nome in più? Fu Himmler a chiarirgli il punto.
AL SERVIZIO DEL REICHSFÜHRER-SS II 75

«Voi sapete, Wolff, che la dottrina nazionalsocialista e il cristianesimo


sono su due binari opposti. Voi sapete che dopo aver schiacciato i nostri
nemici comunisti, socialisti e massoni, ora sono i cristiani, e i cattolici in
particolare, i nostri prossimi avversari. Senza dubbio ricordate quello che
ho detto nel marzo del 1936 al consiglio di stato prussiano sui gesuiti,
impegnati in una lotta per il potere mondano e del tutto tesi a giustificare
la menzogna come metodo di lotta in una maniera per noi incompren-
sibile, sulla scorta della teoria della riserva mentale. Il nostro programma
per l’eliminazione delle radici biologiche della criminalità è imperativo.
Se si crede, come noi nazionalsocialisti crediamo, che la criminalità non
sia una tara morale, ma razziale, qualcosa di connaturato, allora bisogna
agire di conseguenza, ed eliminare tutti i portatori del sangue corrotto il
cui esito è il comportamento criminale. Bene, quando daremo attuazione
a questo programma volto a estirpare dalla comunità il ceppo stesso della
criminalità, chi credete che protesterà e si opporrà a noi?»
Wolff sapeva a che cosa si riferisse il Reichsführer. Dopo la distruzione
del partito comunista, completata nel 1935, quando Gestapo e Servizio
segreto delle SS si erano concentrati sull’opposizione intellettuale al nazi-
smo, i preti politicizzati erano stati identificati come un nemico principa-
le, secondo soltanto a ebrei e massoni. Già alla fine di quell’anno, 70 preti
e religiosi erano stati arrestati e processati (e ovviamente condannati) per
varie violazioni di legge; e il partito aveva iniziato una campagna contro
le organizzazioni giovanili cattoliche, in modo da ridurre le loro attività
al settore meramente religioso. Una contemporanea campagna avviata
attraverso la Camera per la stampa del Reich aveva eliminato parte della
stampa cattolica tramite l’emanazione di appositi regolamenti, taglian-
do le unghie a quelli che Himmler considerava i rappresentanti della
«cristianità asiatica». I principi creduti dai cristiani non erano secondo
Himmler di provenienza ariana; si trattava piuttosto di principi intesi
all’inquinamento razziale, intesi a spezzare la spiritualità originaria dei te-
deschi e a corromperne il sangue. Essi provenivano dalle steppe dell’Asia
brulicanti di mezzosangue piuttosto che dal puro Nord.
Nella visione di Himmler, il cristianesimo era nemico della purezza
del sangue ariano. La dimostrazione più lampante di ciò era stata la caccia
alle streghe in Germania, attraverso la quale l’Inquisizione romana aveva
condannato a morte centinaia di migliaia (così credeva il Reichsführer)
di donne dal buon sangue tedesco, colpevoli unicamente di condivide-
re le credenze dei propri antenati. Per denunciare quest’operazione di
76 Un mito solare

snaturamento biologico, a scopo di propaganda ideologica, Himmler


aveva ideato il più bizzarro dei suoi progetti; nel 1935 aveva dato origine
al progetto Hexen, Streghe, costituendo nell’ambito del Servizio segreto
delle SS la Commissione speciale sulle streghe. Lo scopo della Commis-
sione era redigere un archivio il più possibile completo sulla persecuzione
delle streghe, compilando rapporti che riportassero il nome della strega
processata, l’anno del processo, il giudizio emesso, la data di esecuzione
e così via. Ai quattordici dipendenti assegnati alla Commissione erano
stati affidati in un primo momento duecentosessanta tra archivi e biblio-
teche ove fare ricerche in proposito. I ricercatori operavano accedendo ai
fondi librari facendosi passare per studenti universitari (a questo scopo
erano state stampate dalle SS false malleverie universitarie dell’ateneo di
Lipsia). Le ricerche dovevano avvenire secondo criteri geografici; occor-
reva dapprima battere un territorio omogeneo e poi, via via che i dossier
venivano completati, erano raccolti in filze in ordine alfabetico sotto il
nome della regione. Con grande gioia di Himmler, la prima ricerca era
stata completata il 12 agosto 1935. L’interesse del Reichsführer non era
del tutto disinteressato. Egli sospettava che una sua antenata, della fami-
glia Passaquai, fosse appunto una strega bruciata.
L’inizio della lotta propagandistica contro i cattolici, però, non poteva
aspettare il completamento del progetto, che avrebbe richiesto anni. Fino
ad allora non si sarebbe potuto accusare, prove alla mano, i cattolici di
avere assassinato centinaia di migliaia di persone innocenti al puro scopo
criminale di depauperare il sangue tedesco e minare alla radice la cultura
ariana delle popolazioni germaniche. Si potevano tuttavia utilizzare mez-
zi più astuti. Himmler aveva arruolato lo scrittore tedesco Friedrich Nor-
folk perché redigesse su questi temi un romanzo destinato al pubblico
giovanile e popolare e divulgasse queste idee. Norfolk si era fatto prende-
re la mano dall’entusiasmo, e aveva progettato di scrivere un’intera trilo-
gia, il che allungava decisamente i tempi oltre le intenzioni di Himmler.
Himmler sapeva che lo stesso Hitler condivideva l’idea che Inquisi-
zione e roghi delle streghe fossero i mezzi con cui la Chiesa di Roma,
in cospirazione assieme agli ebrei, aveva snaturato l’originario messaggio
cristiano, che nei suoi primi tempi coincideva perfettamente con le idee
ariane. Hitler tuttavia non era disposto a entrare in conflitto aperto con
la Chiesa cattolica. In nome della pace sociale, la resa dei conti doveva
venire rimandata. Un giorno sarebbe venuta la guerra, per la quale la
Germania già si stava preparando, e sarebbe stata una guerra di sterminio
AL SERVIZIO DEL REICHSFÜHRER-SS II 77

biologico. Allora, dopo la vittoria, tutti i conti sarebbero stati pagati.


Fino ad allora, tuttavia, ogni tentativo di dividere la comunità tedesca
doveva essere sospeso e rinviato.
Dunque Himmler poteva processare qualche prete che parlava troppo
o che flirtava con l’opposizione antinazista; poteva perseguitare qualche
organizzazione cattolica e chiudere qualche settimanale; ma di aprire una
campagna in grande stile e definitiva, quella che i nazisti chiamavano una
Kulturkampf, non si parlava proprio, almeno fino a che il ciclo bellico
non si fosse concluso – e non era ancora incominciato.
Tuttavia, c’erano altri modi.
Era qui che il giovane Rahn era venuto al momento giusto, spiegava
pazientemente il Reichsführer a Wolff. La sua intuizione che la Chiesa
di Roma avesse bandito una crociata, un’armata delle tenebre, contro
il Graal, contro la civiltà occitana basata sui leali e onesti principi della
religione ariana originaria, era quello che ci voleva ora che le streghe bat-
tevano il passo e che i cattolici non potevano essere affrontati direttamen-
te. In fondo, le idee neo-pagane di Himmler erano alquanto confuse, e
fondevano assieme miti nordici ispirati all’antica mitografia dell’Edda di
Snorri con teorie molto più recenti. Occorreva dare una veste a questa
fusione di idee discordanti, una veste unitaria che ricomponesse la storia
di un passato in cui non solo queste idee erano state maggioritarie, ma
erano state obliterate a causa di un intervento esterno e violento, com-
piuto da cattolici ed ebrei. Per compiere una simile operazione occorreva
un uomo che avesse vaste conoscenze e ampia immaginazione per ab-
bracciare un quadro storico immenso e dominarlo in un’unica, fulgida
creazione. Quell’uomo era Otto Rahn.
Rahn nella Crociata contro il Graal aveva già dimostrato di essere l’uo-
mo giusto per il lavoro. Certo, c’era qualcosa da aggiustare. L’idea che le
primitive idee dualistiche fossero di provenienza asiatica, anziché nordi-
ca. Il ruolo degli ebrei nella distruzione delle idee catare, che non era stato
ancora a sufficienza sottolineato. Non c’era però dubbio che Rahn fosse
sulla strada giusta; del resto non aveva scritto lui stesso, sul proprio foglio
matricolare, che aveva scritto il suo libro all’estero senza alcuna cognizio-
ne sugli sviluppi politici e sugli aspetti ideologici del nazionalsocialismo?
Dunque si rendeva conto che, tagliato fuori com’era dai contatti con la
madrepatria, alcune conclusioni si erano rivelate fuori di sesto. Tuttavia,
era stata una buona idea quella di lasciargli briglia sciolta, e di permetter-
gli di proseguire nelle sue ricerche sotto lo sguardo distante ma attento di
78 Un mito solare

Wiligut. Del resto, il fatto che si orientasse verso la stesura di un libro in


cui la contrapposizione tra Graal e Golgotha emergeva sin dal titolo, non
significava forse che Rahn era sulla buona strada? Non sarebbe stato ne-
cessario fare alcuna pressione, eccetto forse sui tempi della pubblicazione,
che dovevano coincidere con i programmi propagandistici di Himmler.
Wolff cominciava ad avere chiara la direzione in cui il suo capo andava
a parare. Soltanto, si domandava se questo favore volesse dire che Rahn
aveva un ruolo privilegiato nelle SS e che dunque sarebbe stato esentato
dai normali servizi. Al che Himmler rispose che no, il privilegio stava nel
fatto di appartenere già all’élite del sangue e della nazione tedesca. Rahn
aveva il suo ruolo nelle SS, ma ciò non comportava il fatto che fosse eso-
nerato dal compiere i normali servizi del suo corpo. Al contrario: pregava
Wolff di inviare Rahn per un turno di servizio al campo di concentra-
mento di Dachau. Wolff appuntò un promemoria e visto che era arrivato
al punto dei doveri dell’SS Rahn arrischiò di accennare all’argomento più
spinoso: quello delle tendenze sessuali di Rahn.
Non fu come si aspettava; fu lui, Wolff, a rimanere sorpreso, perché
Himmler non sembrò colto alla sprovvista dalla rivelazione. Dopotutto,
quella di Himmler di sapere tutto delle sue SS forse non era una vuota
vanteria.
Himmler sorrise benevolmente. «Senza dubbio», disse, «Lei ricorda il
mio discorso a Bad Tölz dello scorso febbraio». Wolff in realtà non ricor-
dava nulla, ma poiché pensava che non fosse una buona idea ammetterlo
di fronte al capo, si limitò ad annuire, fidando nel fatto che Himmler
avrebbe spontaneamente rievocato quel discorso. Il suo istinto burocrati-
co non lo tradì. Il Reichsführer sembrò tornare con la mente agli eventi
di quel febbraio. In quell’occasione, Himmler aveva sostenuto che nella
Germania del 1933 vi erano all’incirca due milioni di omosessuali, ossia
dal sette al dieci per cento della popolazione. Si trattava di un fatto che
attentava alla vita stessa della nazione, in quanto distruttore dei fonda-
menti dello stato. Oltre a ciò, valutava Himmler, gli omosessuali erano
persone di minor valore, perché codardi e inclini ai disturbi mentali ol-
tre che ricattabili. È quindi compito dello stato combattere l’omoses-
sualità, aveva concluso Himmler, e solo nelle SS questo compito poteva
essere intrapreso con il necessario vigore. Nelle SS si verificavano ogni
anno tra gli otto e i dieci casi di omosessualità, da trattare in campo di
concentramento. Vi erano tuttavia delle attenuanti: il ruolo della Chiesa
nella diffusione dell’omosessualità, con il suo disprezzo verso le donne,
AL SERVIZIO DEL REICHSFÜHRER-SS II 79

dimostrato dalla caccia alle streghe; e il segregare i giovani nei seminari,


veri e propri club dell’omosessualità. Il disprezzo verso le donne, culmi-
nato nella caccia alle streghe, era nondimeno il fatto peggiore; la Chiesa
sapeva molto bene, aveva sbottato Himmler, perché aveva bruciato tutte
quelle donne, in quanto leali, da un punto di vista emozionale, alla vec-
chia dottrina e istintivamente impreparate ad abbandonarla; mentre gli
uomini, legati al pensiero logico, erano già giunti a fare i conti con la
nuova realtà.
Eppure, quando le riflessioni di Bad Tölz si erano trasformate nelle
linee guida sulla materia pubblicate sulla rivista delle SS, Das schwarze
Korps, nel marzo del 1937, il risultato era stato stranamente privo di du-
rezza. Solo il due per cento di tutti gli omosessuali, proclamavano le linee
guida, sono realmente anormali. Tutti gli altri, con l’aiuto di opportune
terapie e di misure educative, oltre che raffrenati con il timore della pena,
potevano essere aiutati a essere redenti dal proprio vizio. Himmler stesso,
due mesi dopo, quando aveva indirizzato alla polizia criminale le proprie
direttive per la lotta all’omosessualità e all’aborto, si disse certo che la
vasta maggioranza degli omosessuali poteva venir trasformata in uomini
normali. Questo però non poteva valere per le SS, che essendo un’élite
non potevano venir valutate come se fossero persone normali. Per le SS
era obbligatorio dare il buon esempio. La lenienza che Himmler racco-
mandava alla polizia criminale verso i semplici cittadini, da trattare come
recuperabili, non poteva valere per le SS. C’era l’esempio di Kurt Wittje,
un vecchio combattente, un nazista della prima ora, che aveva condiviso
con i camerati i primi tempi del nascente partito nazista, quando la gloria
era grama e il potere molto lontano. Wittje era stato fino al 1935 il primo
direttore dell’Hauptamt delle SS. Himmler lo aveva deferito alla Corte
dell’Arbitrato delle SS, che aveva condotto un’inchiesta da cui Wittje
era uscito pulito. Himmler non era tuttavia rimasto soddisfatto. Aveva
scritto di suo pugno un documento di sette pagine, una critica devastan-
te delle conclusioni raggiunte dalla Corte, e alla fine aveva allontanato
Wittje dalle SS nella convinzione che l’omosessualità di Wittje fosse stata
definitivamente provata. L’intero fascicolo a carico di Wittje era stato
inviato alla Corte come modello da seguire in futuro in casi del genere;
Himmler non aveva resistito alla tentazione di impartire una lezione ai
membri della Corte.
Il caso Wittje era scottante, perché Hitler stesso era venuto a cono-
scenza, avvertito dal ministro della guerra, Blomberg, del fatto che Wittje
80 Un mito solare

era stato congedato dalla Wermacht a causa di quella malattia. In un


primo momento, Himmler, che tendeva sempre a difendere le sue SS
nei confronti degli altri, aveva attribuito i comportamenti di Wittje a un
uso eccessivo di alcol, e così aveva ammonito il sottoposto a moderarne
le quantità ingerite. Nonostante l’avviso, Wittje non si era emendato, e
Himmler l’aveva rimosso dalla carica all’Hauptamt fin dal maggio del
1935. Ulteriori comportamenti scandalosi erano stati imperdonabili, e
a quel punto Himmler aveva imposto tutto il proprio potere alla Corte
dell’Arbitrato.
Himmler non aggiunse altro, e dimostrò di considerare chiusa la fac-
cenda. Tuttavia, c’erano dei sottintesi, che non sfuggivano a Wolff. Non
c’era dubbio che Rahn fosse in mezzo all’errore. Tuttavia, finché celava
i suoi mancamenti, mostrava di rendersi conto di essere su una strada
sbagliata, e doveva essere considerato recuperabile. C’era solo da sperare
di non doverlo ammonire a moderare l’abuso di alcol.
A questo punto Wolff aveva la sua risposta.
81

8.
La corte di Lucifero
(1937)

Resistere alle richieste del Reichsführer-SS non era facile per nes-
suno, e per Rahn meno di tutti. Egli sapeva di dovere la sua attuale
posizione e il suo benessere alla benevolenza di Himmler, che ora era
ansioso di proseguire la sua campagna anticristiana seppure con mezzi
non eccessivamente cruenti. Occorrevano idee; ed era proprio ciò che
Himmler si aspettava da Rahn. Occorreva una seconda opera di Rahn,
che ampliasse e approfondisse il percorso iniziato nella Crociata contro
il Graal. Ma dove cominciare?
Per un periodo, Rahn era stato irresoluto. Aveva pensato di dedicarsi
all’inquisitore Konrad di Marburgo. In fondo, era stato un cacciato-
re di catari, quindi in un certo senso un crociato egli stesso contro
l’antico credo che era rivissuto nel catarismo. Poi aveva pensato a un
altro approccio, e a un titolo: Montsalvat e il Golgotha. Erano idee
che sembravano brillanti, ma che poi si smorzavano come lumi privati
del combustibile, languendo lentamente e poi sparendo. Rahn girava a
vuoto. Lo soccorse un ricordo: Konrad di Marburgo era stato il primo
a trovare il legame tra i catari e l’adorazione di Lucifero. Se come aveva
sospettato l’inquisitore di Marburgo i catari adoravano segretamente
Lucifero, allora la prospettiva della Crociata contro il Graal poteva ve-
nire rovesciata. Le armate crociate non rappresentavano le truppe di
Lucifero, decise a riconquistare il tesoro dei catari (il Graal, innanzi-
tutto) al loro capo. Al contrario: Lucifero militava dalla parte dei catari.
Era Lucifero, il dio della luce, a essere oggetto del culto dei catari; i
crociati adoravano piuttosto il dio che aveva creato il mondo materiale,
il dio inferiore degli Gnostici. L’estromissione di Lucifero dal cielo era
stata ingiusta, e velava appena un altro fatto: che il nascente cristiane-
simo romano, in combutta con gli ebrei, aveva snaturato il dio della
luce, facendone un demone, un angelo caduto. La caduta di Lucifero
era l’arma con la quale l’antica religione originaria era stata sovvertita,
82 Un mito solare

sostituita da un’altra religione posticcia che aveva avvelenato e trali-


gnato l’anima dell’Europa. Quest’intuizione galvanizzò Rahn, lo spinse
sempre di più a identificarsi con quei catari in cui ormai riconosceva
gli eredi di un retaggio ereticale, i luciferiani di Konrad di Marbur-
go, che invece rappresentavano l’originario spirito popolare tedesco. «I
miei antenati erano pagani, e i miei progenitori eretici», pensava Rahn.
Questo pensiero lo sospingeva, ed egli intuiva ora verità che senza dub-
bio sarebbero state gradite al Reichsführer.
Vi era tuttavia implicazioni che ancora lo sgomentavano. Era possi-
bile concepire una storia spirituale d’Europa così audace, in cui gli ado-
ratori del diavolo e quelli di Dio si scambiavano di posto? Era corretto
invertire tutte le narrazioni, e raccontare una storia segreta d’Europa,
in cui un immane tradimento aveva cercato di cancellare tutte le tracce
delle antiche credenze religiose originarie, di snaturare il popolo tede-
sco irretendolo in idee allogene e privandolo della sua forza interiore?
Dove erano le prove di questo tradimento? Il compito sembrava im-
mane, e il materiale a disposizione scarso e congetturale. Pure, non era
vero quello che la nuova Germania aveva dimostrato? Che la verità, più
che una questione di una serie di coerenze astratte, di prove forse vere
sul piano logico, ma prive di intima coesione e di calore spirituale, era
una questione di forza di volontà? Che bastasse essere pari a quel che
si doveva e voleva essere, per fondare una verità superiore a qualsiasi
verità dialettica? Che il trionfo della verità fosse più il trionfo della vo-
lontà che l’affermazione di sterili argomentazioni prive di vigore? Intere
branche erano nate in quella Germania, una volta che si era attestato
come vero il criterio della superiorità biologica e razziale. Intere narra-
zioni della storia mondiale, nelle università tedesche, erano state capo-
volte alla luce di questo principio. Forse non c’erano prove esteriori del
fatto che i trovatori erano stati i propagandisti dell’eresia catara, ma che
cosa importava ciò di fronte alla schiacciante certezza estetica e morale
che un tale adempimento era necessario?
Fu allora che si sovvenne di quanto aveva già appreso durante la
stesura della sua prima opera: il futuro è più importante del passato. La
storia che si sarebbe accinto a narrare non era semplicemente la rappre-
sentazione di un passato obsoleto; era l’indicazione di un mutamento
spirituale per il futuro, in cui il futuro prendeva atto che il passato
non era ciò che aveva sempre creduto, che le cose stavano altrimenti,
e in questa presa di coscienza si modificava per sempre e si accingeva a
La corte di Lucifero 83

nuove aperture. Allora Rahn comprese che era possibile narrare ciò che
aveva appreso e vissuto durante le sue ricerche in Occitania e nelle bi-
blioteche francesi, persino le ricerche durante lo sfortunatissimo viag-
gio in Islanda, come una sorta di pellegrinaggio, un viaggio iniziatico,
in cui passando attraverso la riscoperta del passato si dischiudeva, pas-
sando per il contatto con il Graal, un futuro diverso. L’apprendimento
del vero retaggio del passato trasformava il viaggiatore, e lo rendeva
disponibile a plasmare un futuro diverso per l’Europa. Ora Rahn com-
prendeva esattamente la natura del proprio cammino, una quest che
lo aveva condotto sino al punto in cui stava adesso, consapevole delle
proprie radici eretiche e disposto a contemplare un futuro che a questo
punto, ai seguaci del dio creatore dell’universo materiale, non poteva
che apparire ereticale. Ciò suggerì più tardi anche un titolo: La corte di
Lucifero. Da un lato Lucifero, primitivo dio della luce, e i suoi segua-
ci, decisi e orgogliosi tenutari delle credenze di un tempo; dall’altra la
nuova corte del Reichsführer, l’élite di coloro che si interessavano a quel
passato per riviverlo e riscattarlo.
Pensò poi alle conversazioni che aveva avuto con Wiligut, in quel-
le sere in cui andava a trovare il suo superiore. Rammentò quando
Wiligut aveva sostenuto che vi era un antenato di tutti i Germani,
Teut, un esperto di rune che aveva conosciuto la verità circa la divinità
ancestrale, Gotos, e le sue leggi divine iscritte nel sangue teutonico.
Rammentò ancora quando Wiligut si era scagliato contro il «sangue
nero del sud», i romani, che avevano cancellato gli insegnamenti di
Teut. I romani, estranei a questa tradizione, avevano imposto i loro dei
e avevano soppresso il Gotos teutonico, e considerato la vera tradizione
germanica come una forma di paganesimo e stregoneria, privando così
i Teutoni della loro eredità ancestrale che era però sopravvissuta come
un sapere segreto per coloro che erano rimasti fedeli al sangue e alla
verità dei loro antenati, e in particolar modo nei poeti, nei vati, che
avevano velato quella verità nei loro problemi per tramandarla sotto il
naso dei romani. Rahn rammentò tutto questo e sorrise compiaciuto.
La direzione cui doveva rivolgere lo sguardo gli era ora chiara. Un tap-
peto di frammenti sparsi prendeva forma e si univa a formare un’unica
immagine, passando dal composito a una configurazione unitaria, più
grazie all’intuizione artistica che all’opera del freddo intelletto. Una
verità che riscaldava il cuore e appagava l’immaginazione, più che una
sterile falsariga astratta. Una verità di cui aveva bisogno.
84 Un mito solare

Rahn sorrise compiaciuto. Era pronto per scrivere il suo nuovo libro.
La scrittura del libro esigeva che Rahn presentasse la vicenda come
una sorta di diario di viaggio, iniziato in Germania, proseguito in Fran-
cia e terminato in Islanda, esperienza che aveva portato a compimento
la sfera perfetta del pellegrinaggio spirituale di Rahn in una convergen-
za finale che avrebbe completato il racconto come l’ultima tessera di un
mosaico, rivelando compiutamente la figura fino a allora incompleta.
Rahn rievocava gli studi in Germania, dove si era appassionato a Wol-
fram von Eschenbach, e poi i soggiorni francesi, così significativi. Era
stato incontrando il signor Rives (Rahn continuava a chiamare così Ar-
thur Caussou) che aveva appreso il legame tra i poeti occitani e i catari
e che aveva compreso che la poesia occitana faceva parte dell’eredità
culturale germanica; era stato incontrando la contessa Pujol-Murat che
aveva riflettuto sulla guerra della croce romana contro il Graal, la pietra
caduta dalla corona di Lucifero che invano i cattolici romani avevano
tentato di cristianizzare trasformandola nel calice dell’ultima cena di
Gesù. Da tutte queste tappe del suo viaggio, Rahn riteneva di aver
imparato un fatto importante: che Parsifal significa “trafitto nel cuore”.
In occitano, lo stesso concetto si esprimeva con la parola “Trencavel”.
Dunque il visconte di Carcassonne, Raymond Roger Trencavel, una
delle vittime della crociata contro i catari, era Parsifal. Von Eschenbach,
raccontando la sua storia del Graal, aveva alluso ad avvenimenti re-
almente accaduti, senza dubbio attingendo dal misterioso poeta pro-
venzale Guyot. Il poema di von Eschenbach era dunque apertamente
ispirato agli avvenimenti dei catari, allora investiti da quella che ormai
a Rahn pareva una violenta e intollerante affermazione della religiosità
vetero-testamentaria volta alla cancellazione degli scritti e dei canti po-
etici con cui gli eretici mantenevano viva una religiosità diversa e più
antica. La leggenda del Graal era appunto uno di questi canti.
La tappa successiva di questo viaggio era stata il Sabarthez, nel cui
complesso speleologico Rahn sperava di trovare traccia della Corte di
Lucifero, la lega di tutti coloro che ritenevano che la divinità del Vec-
chio Testamento non potesse essere il proprio dio. Fu in quelle grot-
te che Rahn trovò le iscrizioni e i graffiti dei catari: la nave orientata
verso il sole, da intendersi come la nave dei morti; l’albero della vita,
la colomba scolpita nella roccia. Di qui una seconda rielaborazione, l’i-
dentificazione della mitologia greca con quella nordica, cosa che dimo-
strava che, originariamente, gli antichi greci erano una razza nordica.
La corte di Lucifero 85

Nell’intersecarsi di antichi miti greci con credenze catare, dimostrati


dal fatto che nelle grotte si trovava la tomba di Ercole, veniva messa in
chiaro l’identificazione di Lucifero con Apollo, dio della luce. Apollo,
Lucifero… in fondo i catari interpretavano la caduta dal cielo lucife-
riana come un allontanamento illecito, perpetrato dalla divinità vetero-
testamentaria, il falso dio venerato da ebrei e da cattolici.
Esistevano altri indizi. Rahn rievocava la leggenda secondo la quale
Maria Maddalena, Maria e Giuseppe d’Arimatea erano sbarcati a Mar-
siglia, fuggiaschi dalla Palestina, portando con sé il Graal, il piatto in
cui Gesù aveva mangiato l’agnello sacrificale durante l’ultima cena; il
piatto che era servito, sul Golgotha, per raccogliere il sangue di Gesù.
Si trattava, rifletteva Rahn, di una rielaborazione della Chiesa di Roma,
che intendeva piegare in senso giudaico e cristiano cattolico il vero
senso del racconto del Graal. Non si trattava del solo tentativo di velare
il racconto del Graal, sfigurandolo. Il deforme amore cortigiano vagheg-
giato dai cavalieri spagnoli, tra i quali, con sicuro spirito conciliatorio
nei confronti di Himmler il cui atteggiamento verso i gesuiti gli era
ben noto, Rahn riponeva in prima fila Ignazio di Loyola, non era forse
una parodia della cavalleria spirituale cara ai catari? E Montserrat, in
Spagna, non rivaleggiava forse per l’onore di essere il vero castello del
Graal, una sozza, immonda parodia della fedele e verace Montségur?
Tutto faceva gioco nel tentativo di Roma di sradicare il sangue germa-
nico dalla Francia meridionale, dall’Occitania catara, da quella corte di
Lucifero che era in effetti composta da gente di sangue nordico e che
non aveva bisogno di mediatori romani nella ricerca del divino. Rahn
aveva compiuto un passo importante; alla sua mente febbrile, che quasi
si consumava nel tenere insieme dati, leggende, intuizioni artistiche, la
crociata contro i catari ora non appariva più solo una mossa dall’intento
religioso. No, si trattava di un crimine più sinistro ed efferato, un com-
plotto, un tentativo di strangolare e cancellare il sangue tedesco. Non
spettava a lui fare ulteriori deduzioni. Ma non sarebbe stato difficile a
Himmler ricavare un parallelo con il Trattato di Versailles, il moderno
equivalente dell’antica crociata, l’ultimo ritrovato delle nazioni corrotte
dal giudaismo e dal cattolicesimo per cancellare la purezza del sangue
nordico, disperderlo e annegarlo nel meticciato e nella contaminazio-
ne? Si trattava sempre della vecchia storia; l’eterna lotta del sangue puro
per non annegare in un mondo ostile e corruttore. Nella nuova visione
di Rahn, la storia narrata dall’antico racconto del Graal era questa.
86 Un mito solare

Dopo la Francia, l’Italia; il racconto della Corte di Lucifero scorreva


sotto le dita di Rahn, ormai tenute scarsamente a freno e anzi lanciate
come segugi che avvistavano la preda. E la rievocazione dei viaggi in
Italia, a Milano, sulle tracce delle false tesi bibliche di Agostino di Ippo-
na, il quale voleva che l’eredità di Abele fosse contenuta nella sola stirpe
di Sem. Questa tesi appariva oscena e inquietante a Rahn, che riteneva
che Agostino l’avesse sostenuta solo perché ciò avrebbe permesso al
popolo di Israele e all’imperialista Chiesa di Roma di rivendicare la
sovranità del mondo come parte dell’eredità di Abele. Il mondo, osser-
vava cupo Rahn, diventava così una città del dio vetero-testamentario.
Quale prova maggiore dell’empia alleanza tra ebrei e cattolici romani
per tentare di impadronirsi del mondo? In realtà, Rahn non riusciva a
ricordare se quando era giunto a Milano la pensasse già così, o se era
il Rahn di oggi, dell’adesso, a ricordare in questo modo l’episodio al
posto del Rahn di allora. Ma forse era una cosa priva di importanza. Se
il passato non è che la storia ricostruita dall’intuizione di chi la rico-
struisce, forse non aveva importanza. L’importante era ciò che il passato
suggeriva, ossia che c’era stato un tentativo da parte di Agostino di far
discendere la razza nordica, i Goti, da Caino. Invece essi discendevano
da Lucifero. Non era più possibile comprendere tutti questi avveni-
menti prescindendo dalle questioni razziali, dal fatto che c’era una lotta
per la supremazia biologica in corso, in cui tutte le armi, in primo
luogo quella della contraffazione storica, erano buone. E poi, dopo Mi-
lano, Verona, Bolzano, e poi ancora Ginevra e il ritorno in patria, dove
Rahn aveva riflettuto sul fatto che il vero Christos era il sole deificato,
e non Gesù, che era un ebreo; e sull’anti-dio, ossia sulla debolezza, che
negli uomini prende la forma della menzogna e del dubbio. I catari tut-
tavia non erano stati deboli, avevano resistito fino all’ultimo; e alla fine
l’Occitania era stata distrutta. Sì, i catari non avevano tradito il proprio
sangue puro; erano rimasti fino all’ultimo un popolo indipendente dal-
la Palestina e da Roma, senza bisogno di una purificazione da parte di
un’ideologia ebraica.
Il pellegrinaggio spirituale si componeva sotto le dita di Rahn, sot-
to il tonfo dei tasti della macchina da scrivere, mentre egli svelava a
se stesso, e poi a Himmler, e quindi al mondo, il senso della propria
avventura umana. Il viaggio riprendeva, si complicava, e ora puntava
a Nord, il polo spirituale sotto il quale si era dipanata l’intera storia
del catarismo, migrato da Est fino alle regioni dei Pirenei francesi. Il
La corte di Lucifero 87

pellegrinaggio non poteva che concludersi a Nord, nella Thule dell’an-


tico esploratore greco Pytheas, l’Islanda. Il viaggio con la nave Gullfos
del 1936 era l’ultimo tratto compiuto verso la Corte di Lucifero. Eppu-
re anche in quel momento Rahn non poteva fare a meno di rammen-
tare quale delusione fosse stata l’Islanda, che avrebbe dovuto essere un
paesaggio nordico degno delle vicende di cui era protagonista. Al posto
di alberi, foreste e radure e campi, invece, Reykjavik non si era rivelata
altro che un abitato di case separate da negozi, da cinema: una copia
di qualunque agglomerato urbano europeo, al suo peggio. Dov’era la
robusta radice del sangue nordico? Dov’era il legame quasi simbiotico
con la natura, fondato sull’appartenenza del sangue alla terra? Rejkya-
vik sembrava una qualunque città europea. Se il mito era la rivelazione
di un passato distante, distante ma non dimenticato, in cui l’uomo si
pone direttamente e senza bisogno di mediazioni sotto il mondo divi-
no, dov’era quel mito a Reykjavik?
Anche così, però, era possibile riflettere, se non stimolato diretta-
mente dall’ambiente, almeno negativamente. Il mito, rifletteva Rahn,
non ha nulla a che vedere con la fede; avviene quando la presenza di
qualcosa di numinoso è stata cancellata, e l’uomo compensa riponendo
fede in qualcosa di cui non è più possibile trarre una sperimentazione
diretta. E questa è la fede. Nel mito invece la presenza non è perduta,
ma è sempre attuale, e dunque non è mito una semplice riproduzione
poetica, bensì la percezione che l’uomo ha di sé nell’immagine divina.
Il mito nasce quindi da un’immaginazione divina, e non umana, come
percezione delle proprie forze psichiche quali manifestazioni all’interno
del mondo divino. Volontà, forza d’animo, non sono il sottoprodotto
di certi impulsi del cervello; nel mito sono l’apparizione di un ordine
divino che si propaga in quello umano. Ora a Rahn sembrava di scorge-
re un punto di vista più profondo. Nel mito, l’umanità si apre al divino,
al cosmo. È nel mito che un’orda primitiva diventa umana, diventa una
comunità e un popolo. È dal mito che nasce il culto, che non è una
semplice relazione tra l’uomo e il divino, ma che è il porsi al servizio
dell’universo in quanto adesione volontaria a un potere cosmico. Il cul-
to a sua volta si compendia nel suo atto culminante, che è il sacrificio.
Il sacrificio non sorge da un’egotistica affermazione di sé nel tentativo
di cattivarsi un potere, bensì da una ricchezza interiore che desidera
manifestarsi agli altri nel dare vita a qualcosa. La vita umana stessa è
il grande falò sacrificale in cui elementi e spiriti della natura e spiriti
88 Un mito solare

divini partecipano assieme; nel sacrificio, nel gesto disinteressato, l’uo-


mo diventa simbolo dei poteri creativi, così come il sole sacrifica se
stesso inondando la terra dei propri raggi benefici. I sacrifici perpetrati
dagli antichi Germani agli alberi, alle fonti, pensava Rahn la cui mente
lavorava a rotta di collo, avevano questo senso – e la natura diventava
il legame che univa questi uomini in quanto comunità. Nel sacrifi-
cio, lungi dall’affermare se stesso in quanto portatore di un interesse
particolare, l’uomo si affermava come unito ai poteri divini in quanto
puro e distaccato, anche se questo distacco da sé valeva come unione
ancora più stretta con la comunità. Questa comunione del gruppo nel
sacrificio era appunto l’unità che i missionari romani avevano distrutto,
quando avevano distaccato natura e umanità. E di questa frattura soffre
appunto l’individuo moderno, oramai isolato dai suoi legami con il
cosmo e con il sangue; e il crepuscolo del sangue annuncia appunto
il crepuscolo degli dei, ciò che l’Edda di Snorri aveva chiamato il cre-
puscolo degli dei, la Götterdämmerung. Il sangue, rifletteva Rahn, ha
ormai perso il suo significato spirituale; si è disseccato; gli antenati sono
stati resi silenziosi. Allo stesso modo, la divina saggezza dei miti è stata
sostituita dal meccanico intelletto. Questa nota melanconica, questa
mestizia su un mondo già svanito, non era però il finale definitivo della
Corte di Lucifero, che terminava con un annunzio; è già giunto l’uomo
capace di instillare di nuovo il vero spirito della comunità negli uomini
che erano stati resi individualisti. Tutto finisce, ma tutto ricomincia di
nuovo, e il mito risorge se viene l’eroe capace di riscoprire il valore del
sangue e di avviare un nuovo ciclo nella vita del popolo. Rahn sorride-
va. Non c’era bisogno di sottolineare chi fosse quell’eroe. Era certo che
il Reichsführer-SS avrebbe inteso tutto perfettamente. Era il momento
di porre termine all’opera.
Come sempre, alla fine di un lavoro Rahn si sentiva dolcemente me-
lanconico. La soddisfazione per il compito svolto si univa alla nostalgia
di un’opera che era nata, si era sviluppata e aveva ora completato il suo
ciclo. Restava un po’ di lavoro, ma si trattava di operazioni routinarie:
verifica delle fonti, correzioni di refusi. La parte creativa si era ormai
conclusa, e l’energia che l’aveva sostenuta, dispersa. Quella dispersio-
ne, sospettava, era ciò che rendeva così melanconica la conclusione di
un’opera. Pure, c’era molto di cui essere soddisfatti. L’idea che fosse il
mito quella malta attraverso la quale un popolo si cementava in comu-
nità, e in particolare il mito del sangue, ne era certo, avrebbe molto
La corte di Lucifero 89

interessato il Reichsführer-SS. Non il meccanico intelletto, ma il mito.


Una comunità non si fondava su astratti ragionamenti né su formule
giuridiche, ma nella compartecipazione di tutti alla stessa forza che
animava il cosmo stesso – era un’idea degna del Signore delle SS, che
già, su imbeccata di Wiligut, stava elaborando i miti e i riti che dove-
vano cementare la comunità delle SS e che era intenzione di Himmler
far svolgere a Wevelsburg. L’opinione che questo modo di procedere
fosse l’autentica via degli antichi Germani, la cui purezza di sangue le
SS intendevano eguagliare e, se possibile, superare, come poteva non
interessare Himmler?
E tuttavia c’era più di questo, Rahn lo sentiva acutamente. Se il mito
doveva per forza estrinsecarsi in un culto, e il midollo del culto doveva
per forza essere il sacrificio, allora l’essenza della partecipazione alla
comunità doveva essere il prendere parte al sacrificio. Questo era chia-
ro. Era nel sacrificio che il singolo si estraniava da sé e diventava parte
dell’immensa forza del potere cosmico che a sua volta si riverberava
sull’intera comunità. L’intera comunità di popolo. Ciò accadeva fino
al tempo degli antichi Germani, prima che i missionari romani can-
cellassero le antiche credenze e trasformassero il popolo in una massa
di individui solitari e impotenti. E tutto ciò poteva tornare, se solo si
avesse la forza di ascoltare la primitiva voce del sangue. Che cosa tor-
nava, però? E chi o che cosa si doveva sacrificare per rinsaldare l’atavico
legame comunitario e riscoprire la forza del sangue? Chi o che cosa do-
veva pagare il prezzo del sacrificio perché la comunità dovesse tornare a
essere quell’unità psichica unita dalla ferrea legge del sangue, uscendo
da quella condizione di isolamento spirituale in cui il tradimento degli
ebrei e dei cattolici romani l’aveva gettata? Chi o che cosa?
Erano tuttavia pensieri opprimenti, e alla fine Rahn era contento
che trarre le conclusioni toccasse in ultima analisi ad altri. Egli era un
ricercatore, un mitografo, che recuperava relitti della storia e li forgiava
in una nuova forma, secondo le esigenze psichiche della comunità cui
apparteneva, ma non era tenuto a sondare fino in fondo gli esiti del
mito che esponeva. Il significato del mito stava nell’essere racconta-
to. Chi ne volesse trarre maggiori esiti, doveva accomodarsi. Ciò non
riguardava lui, Rahn. Si scosse di dosso questi pensieri soffocanti con
una scrollata di spalle. Ed era segretamente lusingato dal sapere che il
Reichsführer-SS avrebbe apprezzato il suo lavoro, e che sarebbe salito
nella considerazione di Himmler; perché in fondo gli piaceva il suo
90 Un mito solare

appartamento al Tiergarten, gli piaceva indossare un’uniforme che su-


bito gli dava riconoscimento e potere; gli piaceva persino l’opportunità
che il suo segretario avesse la facoltà di prenotare a piacimento due posti
al cinematografo senza temere rifiuti né pagare supplementi; e la Corte
di Lucifero sembrava il modo migliore di assicurarsi tutto ciò.
L’istinto di Rahn non si ingannava. Himmler apprezzò La cor-
te di Lucifero. Il libro uscì l’11 aprile 1937 presso i tipi dell’editore
Schwarzhäupter di Lipsia. Himmler stesso ne ordinò cento copie, più
altre dieci in edizione di lusso, stampate su pergamena e rilegate in
pelle di scrofa. Una di queste copie fu donata dallo stesso Himmler al
Führer, Adolf Hitler, per il compleanno di quest’ultimo. Il 25 aprile
1937, sul Völkischer Beobachter uscì una recensione del libro, e nello
stesso mese Rahn ebbe una nuova promozione nei ranghi delle SS. La
cosa marciava.
L’apprezzamento di Himmler non bastava a evitare tutte le critiche.
Era già accaduto con la Crociata contro il Graal; si ripeté anche con la
Corte di Lucifero. Nell’estate del 1937, Rahn visitò Gabriele Winckler-
Dechend, novella sposa, nella sua casa di famiglia di Costanza. Ebbe
una sgradita sorpresa: non si trattava dell’unico ospite, perché erano
già giunti anche Heinz Pehmoller e signora. Pehmoller era un intimo
amico del marito di Gabriele, e la sua presenza non era sorprendente.
Pehmoller era anche un insegnante e un dirigente della Hitler Jugend,
il movimento giovanile nazista, con forti interessi storici, in particolare
relativamente al mito del Graal. Sfortuna volle che Rahn e la moglie
di Pehmoller si trovassero antipatici sin dall’inizio, e un’atmosfera di
tensione si diffuse subito per tutti gli ambienti. La signora Pehmoller,
come ebbe poi a dire la stessa Gabriele, «non era veramente una di
noi», e le conversazioni alternavano continui battibecchi e punzecchia-
ture con Rahn, risultando molto difficili da sostenere. Peggio ancora,
lo stesso Pehmoller ingaggiava volentieri Rahn sulle tematiche care a
quest’ultimo, mantenendo sempre un punto di vista molto critico. Il
nodo non erano le conclusioni raggiunte da Rahn nei suoi libri, quanto
i metodi da lui usati per raggiungere quelle conclusioni. Pehmoller era
perplesso e scettico. Che cosa avevano a vedere i catari con il Graal?
Si trattava di due vicende distinte: le leggende del Graal non facevano
alcun cenno ai catari, anzi li ignoravano decisamente. Rahn ribatteva
di essersi abbeverato alle sorgenti migliori, a von Eschenbach e alla sua
fonte perduta, il poeta Guyot. Costoro facevano continue allusioni alle
La corte di Lucifero 91

vicende vissute dai catari. Persino i singoli personaggi dei loro poemi,
sotto un nome appena velato (ma chi fosse in grado di dipanare il sot-
tile velo della metafora, percepiva immediatamente la solida realtà cui i
poeti trovatori avevano voluto accennare) rinviavano agli avvenimenti
occorsi durante la crociata contro gli albigesi e l’assedio della rocca di
Montségur. Le allusioni erano troppe e puntavano tutte in un’unica
direzione.
Pehmoller però non era persuaso. «Si tratta, appunto, di allusioni, di
ipotesi», ribatteva. «Si tratta di ipotesi fondate su somiglianza linguisti-
che, su coincidenze, come il fatto che nel poema di von Eschenbach si
parli di un altare cui venne condotto Parsifal, e l’altro fatto che in una
grotta dei Pirenei si trovi una stalagmite chiamata l’Altare. Ma che cosa
prova che le due cose coincidano? Ciò può essere vero solo per ipotesi;
ma, dopotutto, un’ipotesi non è una prova».
Insinuazioni maligne di questo tipo irritavano Rahn, che ricorre-
va alle idee di Péladan, di Magre, secondo cui i poeti trovatori erano
appunto gli agenti, i portavoce dell’eresia catara. Come si poteva non
ritenere che la loro materia fosse appunto la vicenda subita dai catari,
e il possesso del loro tesoro? Anche questo però suscitava le perplessità
di Pehmoller, con grande disappunto di Rahn. Pehmoller non si ca-
pacitava come fosse possibile pervenire a risultati certi con un simile
materiale. La leggenda di Ercole e della sua innamorata Pirene; il tesoro
di Salomone saccheggiato a Roma dai Visigoti e poi portato in Francia
(e dopo ancora gettato in un lago); i poemi sul Graal; una congerie di
materiali diversi, provenienti dalle fonti più disparate, veniva rifuso as-
sieme a creare una storia unitaria e consistente. La consistenza di questa
storia si fondava però solo sulla giustapposizione di eventi, notizie sto-
riche, racconti la cui unità spesso era garantita solo da una somiglianza
superficiale. Così si finiva più dalle parti del racconto che della storia,
del mythos piuttosto che del logos. Non esisteva nemmeno una prova
che i catari avessero anche solo conoscenza del termine Graal.
Era, in fondo, la stessa critica che gli era stata mossa dalle colonne
della Revue du Tarn, che nel numero del 15 marzo 1935 aveva pubblica-
to una recensione, a firma L. Charles-Bellet, della traduzione francese
della Crociata contro il Graal, traduzione che tanto Rahn aveva sperato
che gli portasse onori e ricchezze. Pure, il recensore sembrava avere
parole blandamente derisorie verso l’uomo «che era andato a ricercare
nelle valli e nelle caverne dei Pirenei dell’Ariége la nascita dei miti che
92 Un mito solare

avevano dato forma all’anima germanica», e concludeva che «il lega-


me che tiene insieme queste leggende ci pare molto tenue. Ma se la
concezione del libro ci sembra confusa, il racconto è ricco di dettagli
pittoreschi». Per non parlare della recensione di Jacques Boulenger su
Le Temps del 15 marzo 1935, che accusava la Crociata di essere un libro
fumoso e oscuro, di trattare in modo romantico una questione che in-
vece avrebbe dovuto essere discussa con grande attenzione agli equilibri
delicati della critica, e che addirittura imputava all’autore di essere a
totale digiuno della storia francese. Era una coltellata al cuore. Queste
osservazioni ferivano Rahn, che si sentiva accusato di avere condotto
conclusioni illogiche, che si vedeva attaccato proprio nella sua più inti-
ma credenza, ossia che la storia non potesse essere solo il prodotto del
freddo e astratto intelletto, atteggiamento che egli attribuiva a maestri
di scuola catarrosi. La bellezza e la profondità del mito serviva a cemen-
tare i legami della comunità; che uso ci sarebbe dovuto essere per una
storia logicamente coerente ma impersonale e astrusa? A chi sarebbe
mai servita? Non a caso, i migliori apprezzamenti venivano dalla comu-
nità delle SS, di cui ormai Rahn portava volentieri l’uniforme.
L’uniforme delle SS piaceva a Rahn, gli concedeva prerogative prima
inaspettate. C’era in primo luogo la frequentazione delle alte sfere del
regime, come Himmler e Heydrich, con la memorabile giornata tra-
scorsa al ristorante Horcher. C’erano tuttavia anche le serate a casa di
Wiligut, frequentata da altri personaggi cospicui, come il conte Ernst
zu Reventlow, vicepresidente del Movimento per la Fede Tedesca, un
aristocratico dello Schleswig-Holstein che si era distinto in marina du-
rante la prima guerra mondiale (era capitano di vascello), aveva fatto
parte dei Freikorps durante la guerra civile tedesca e si era poi iscritto al
partito nazista nel 1927. C’era l’antropologo Hans Günther, cattedra-
tico all’Università di Jena prima e a Berlino poi, il vero nume tutelare
dell’antropologia razziale cara al regime. C’era Hermann Wirth, l’et-
nologo che era stato nel 1935 uno dei fondatori della Ahnenerbe (gli
altri due essendo Heinrich Himmler e Walther Darrè) e che ne fu il di-
rettore generale per i primi due anni di vita della fondazione. Vi erano
poi diversi colleghi dell’Ufficio Razza e Insediamento delle SS: Walter
Lienau, Horst Rechenbach, Rudolf Proksch. Ancora, vi era Herbert
Backe, allora Segretario di Stato al Ministero dell’Alimentazione retto
da Walther Darrè. Grazie all’apprezzamento del Reichsführer-SS, Rahn
si era procurato qualcosa di più che un’uniforme e un appartamento
La corte di Lucifero 93

(per quanto confortevole) al Tiergarten; si era guadagnato un’entra-


tura in circoli altrimenti inaccessibili. Era attraverso questi canali, che
all’inizio di gennaio 1938 Rahn fu invitato a tenere una conferenza a
Dortmund, ospite dell’associazione Dietrich-Eckart, sui temi del Graal
e di Lucifero, conferenza che ebbe una favorevole recensione sul gior-
nale Rote Erde, il quale concludeva così il pezzo: «Kurt Eggers, addetto
culturale dell’associazione, concluse la serata con il saluto: Lucifero, a
cui fu fatto torto, io ti saluto».
Che il mito concotto da Rahn fosse apprezzato maggiormente nella
comunità delle SS, ebbe una riprova proprio nella recensione che Wolff
Heinrichsdorff condusse relativamente a questa conferenza: Rahn ave-
va delineato un’immagine di Lucifero in un linguaggio così appassiona-
to e stringente, che non era possibile concepire una maniera più com-
movente ed esplicita. Nonostante il discorso avesse toccato materiali
storici complessi, fortemente eruditi, la platea era rimasta totalmente
affascinata e aveva bevuto ogni parola. Si era trattato, scriveva Heinri-
chsdorff, di una riconsiderazione largamente convincente di fatti storici
già noti, posti sotto una nuova luce; e Rahn era stato estremamente
abile nell’evitare le secche di un razionalismo vecchio stampo per gui-
dare gli ascoltatori verso le fonti di un desiderio genuino di libertà e
un’autentica vicinanza alla natura.
Forse c’era un’altra strada. Di lì a poco Simone Weil, la giovane
filosofa francese (era del 1909, cinque anni inferiore a Rahn), destinata
a una carriera luminosa e intensa, ma breve, scoprì i catari. La Weil
si interessò sin dal 1939 al manicheismo, ma non conosceva in modo
approfondito il catarismo. Furono gli scritti di Déodat Roché a rivelar-
glielo. Nel 1941, Simone Weil entrò in contatto epistolare con Roché.
«Da molto sono vivamente attratta dai catari», scrisse a Roché nel gen-
naio del 1941, «anche se conosco ben poco di loro. Una delle ragioni
principali di questa attrazione è la loro opinione sull’Antico Testamen-
to. Non sono mai riuscita a capire come uno spirito ragionevole possa
considerare lo Yahweh della Bibbia e e il Padre invocato nell’Evangelo
come un solo e medesimo essere. L’influenza dell’Antico Testamento
e quella dell’Impero romano, la cui tradizione è stata continuata dal
papato, sono a mio avviso le due cause essenziali della corruzione del
cristianesimo».
Anche Simone Weil, come Roché, come Rahn, cercava nei principi
dei catari la risposta a una crisi spirituale; e trovava nella tradizione
94 Un mito solare

Il pezzo di Wolff Heinrichsdorff sulla conferenza di Rahn a Dortmund.

culturale dell’Occidente una cesura, una lacuna imposta con la forza,


che era alla radice di quella crisi. Le sue conclusioni erano tuttavia
molto diverse da quelle di Rahn. Poco più di un anno dopo, all’inizio
del 1942, la Weil pubblicò due saggi sul significato e sull’importan-
za dell’esperienza catara. Non vi si faceva parola del Graal. Piuttosto,
l’autrice sottolineava a lungo la continuità tra la civiltà mediterranea
antica e quella occitana della Francia del XIII secolo. La crociata contro
gli albigesi era stata più di uno scontro religioso, più dell’eliminazione
La corte di Lucifero 95

di una possibilità storica; in nome della salvaguardia dell’unità di una


dottrina, quella della Chiesa romana, si era obliterata l’ultima civiliz-
zazione basata su libertà, obbedienza e amore. Al posto della possibile
civiltà provenzale, si era affermata una società unita nel dogma e nel
potere centralizzato, che apriva, a sua volta, al totalitarismo. C’erano
pochi dubbi che nelle aspre parole di Simone Weil che accusava l’Im-
pero romano, e il papato poi, di avere sovvertito il lascito più autentico
della cultura antica, il sogno di una comunità di uomini uguali tra loro
e uniti da legami volontari e non calati da un potere superiore e crude-
le, aprendo la strada al totalitarismo, l’allusione al governo nazista del
signor Hitler fosse diretta e voluta. Davvero la crociata contro i catari
era stata una delle radici storiche dell’avvento del fascismo? Simone
Weil, che scriveva mentre la Francia era ancora dominata dal governo
militare tedesco e da quello di Vichy, militante attiva contro quest’ulti-
mo, sembrava convinta di questa eredità.
Quella provenzale, nei due saggi del 1942, fu una civiltà, che avreb-
be potuto costituire con il tempo un secondo miracolo, come quello
della Grecia antica, raggiungendo un grado paragonabile di libertà spi-
rituale. Quella civiltà fu però uccisa sul nascere, e l’intero bacino del
Mediterraneo fu condannato alla sterilità ideale, come già era accaduto
all’epoca in cui le insegne degli imperatori romani si erano diffuse con-
quista dopo conquista, fino a raggiungere le dimensioni di un impero.
Eppure l’Occitania era riuscita a riscattarsi da questo destino, proprio
per la sua collocazione; in essa affluivano le influenze arabe dall’Arago-
na, e tramite queste ultime il «genio della Persia», così che i catari furo-
no gli eredi del pensiero platonico, del buddismo, dei druidi: un fiore
nato inopinatamente in un paesaggio desertificato dal dogmatismo e da
un pensiero ossificato.
Simone Weil, come Otto Rahn, pescava dai materiali più vari,
per costruire la propria immagine dei catari. Davvero gli uomini di
Montségur erano seguaci di una sintesi tra manicheismo e buddismo?
Possibile che signorotti e tessitori dell’Occitania del XIII secolo fossero
adepti dell’Accademia di Platone? Pure, il dubbio non sembrava mai
sfiorare né la Weil e nemmeno Rahn. Al di là della somiglianza dei
metodi, tuttavia, le conclusioni non potevano essere più diverse. Lo
specifico della cultura greca, secondo la pensatrice francese, era l’idea
di mediazione tra Dio e l’uomo. La Grecia aveva lavorato a costruire
ponti tra l’umanità e il divino; ma quest’opera era andata perduta con
96 Un mito solare

la conquista romana, quando Roma aveva conquistato tutti i paesi che


condividevano questo clima intellettuale, imponendo le proprie leggi e
il proprio credo, tutti i paesi tranne uno. La rivelazione di Israele, che
consisteva nell’unità di Dio, era collettiva, e fu l’unica a poter resistere
al livellamento imposto dall’Impero, e a mantenere e covare quel po’ di
spirito greco che ancora sopravviveva nell’area mediterranea, fino a che
l’idea di mediazione coltivata dai greci si incarnò nella pienezza della
realtà con l’avvento di Gesù Cristo. La vocazione greca divenne così la
mediazione cristiana. Anche questa filiazione fu ostacolata dall’Impero,
e solo l’arrivo dei barbari pose fine a quest’ostacolo. Fu allora il rina-
scimento romanico, avvenuto quando le influenze orientali ripresero a
circolare liberamente. Lo spirito greco rinacque allora sotto la forma
cristiana, che, nelle parole nella Weil, ne costituiva l’inveramento. Le
influenze indiane, persiane, egiziane e greche, che allora fluivano, per-
misero il formarsi della civiltà occitana. Secoli e secoli passavano nelle
righe vergate dalla Weil, interi percorsi storici si agitavano e trascorre-
vano, in un trascorrere che trovava significati sempre più profondi, e
trascurava sempre più difformità e differenze.
Il catarismo fu dunque l’ultima viva espressione, in Europa, dell’an-
tichità pre-romana, e i catari furono gli ultimi fedeli seguaci della
grande civiltà ellenica. Con la scomparsa della civiltà occitana, fu per-
sa l’ultima pallida e confusa immagine della vocazione sovrannaturale
dell’uomo, che consisteva nell’amor cortese. La Weil identificava l’amor
cortese dei poeti provenzali con l’amore platonico, così come narra-
to da Platone nel Simposio. I poeti trovatori concepivano l’amore pla-
tonico sotto forma di amor cortese, ma si trattava esattamente dello
stesso tipo di amore: un amore senza concupiscenza, che non tende
alla degradazione e alla costrizione verso un altro essere umano, ma
che è pari all’amore che Dio prova per la propria creazione. Un simile
amore, nella sua pienezza, è amore di Dio attraverso l’essere umano
amato, uno dei ponti tra l’umanità e Dio. C’è da dubitare che Simone
Weil conoscesse le opere di Otto Rahn; e senza dubbio le opere della
prima giunsero troppo tardi per il secondo. E tuttavia non c’è dubbio
che nell’interpretazione dell’amor cortese come qualcosa di superiore al
semplice amore umano, vi fossero molti punti di contatto.
I contatti però si stemperavano. Simone Weil non si ritenne mai una
catara. Per costei, il valore della figura di Gesù Cristo restava pienamen-
te intatto. Rahn invece auspicava una continuità persino familiare, di
La corte di Lucifero 97

clan, con gli antichi eretici. Perché altrimenti il richiamo ai progenitori


pagani e agli antenati eretici? Se Simone Weil ricercava nelle antiche
vicende dei catari la possibilità di una verità morale, di un punto fer-
mo dello spirito, Rahn vi cercava invece un’identificazione persona-
le, un luogo di appartenenza. Non si trattava forse della lontananza
maggiore. Ripercorrendo quelle antiche vicissitudini, Simone Weil vi
scorgeva le possibilità di avvento di una cultura totalitaria, nata sulle
ceneri di un clima egualitario e tollerante. Lo spirito imperiale aveva
distrutto gli ultimi frammenti dell’umanesimo greco, e aveva aperto la
strada al dominio dei vari Hitler, veri eredi di quello spirito imperiale
freddo e omicida che aveva spazzato via tutto ciò che gli si opponeva.
Ripercorrendo gli effetti di quelle antiche storie, nel disseppellirne il
profondo significato spirituale, Simone Weil confermava a se stessa la
propria opposizione al fascismo e al nazismo, contro cui già militava
apertamente. Il totalitarismo nasceva quando le ultime vestigia di civil-
tà inclusive e ugualitarie sparivano; ad esse si sostituiva la concezione
dell’altro come nemico, come avversario che si può impunemente uc-
cidere con piena giustificazione. Questa visione sostanziava il nazismo;
esso non poteva che discendere da quell’ideologia imperiale che aveva
avvistato nei catari i propri nemici naturali. L’ombra dei luttuosi avve-
nimenti di Montségur si proiettava lunga nella storia, fino a produrre i
fenomeni moderni dal nazismo e del fascismo, mostri però provenienti
da una lunga gestazione. Nessuna di queste idee sfiorava minimamente
la mente di Rahn, per il quale la vicenda dei catari alla fine si inseriva
in una lunga lotta, in una contrapposizione tra due principi, quello
della luce e quello delle tenebre, che alla fine si identificavano con due
razze. Era in fondo il pensiero dominante di Adolf Hitler, per il quale il
significato ultimo di ogni vicenda umana era la lotta; e da quella lotta,
solo i più forti potevano uscire vincitori. Partendo da due posizioni si-
mili, in cui molti elementi erano comuni, Weil e Rahn ne deducevano
due conseguenze opposte, percorso che per Rahn significava scoprire
sempre più convintamente convergenze con il «patrimonio spirituale
del nazionalsocialismo».

Tuttavia, anche in patria, Rahn non riusciva a ritrovare un’accetta-


zione piena e priva di riserve dei suoi metodi e delle sue conclusioni.
Le critiche di Pfandl, le incomprensioni di Pehmoller erano lì, a ricor-
dargli che in fin dei conti egli era sempre un outsider. Se gli Pfandl,
98 Un mito solare

i Pehmoller, non riuscivano ad apprezzare la bellezza e la forza della


visione storica di Rahn, nell’ambiente delle SS c’era tuttavia chi sapeva
fissare lo sguardo più a fondo e scorgere il rinnovamento delle vecchie
concezioni ossificate che Rahn intendeva proporre. Il riferimento di
Heinrichsdorff al desiderio genuino di libertà e alla vicinanza alla natu-
ra era in fondo, per quanto forse poco comprensibile per chi non avesse
assistito alla conferenza, profondamente soddisfacente. Liberarsi delle
vecchie concezioni inventate dagli ebrei e dai romani per conculcare
la libertà dei popoli del Nord era in effetti un’esperienza liberatoria,
una sorta di rinascita, un’uscita di sicurezza da una cultura inventata
apposta per imprigionare lo spirito e renderlo schiavo. Heinrichsdorff
lo aveva capito, Pfandl e Pehmoller, nella loro cieca fedeltà al raziona-
lismo, no. Nelle SS era ancora possibile quest’esperienza di rinascita.
L’uniforme garantiva questa possibilità.
Non era tutto lì. L’uniforme gli garantiva anche l’appartenenza a
un’élite, la sicurezza di non essere più un signor nessuno contro cui era
possibile fare qualunque soperchiera, come gli era accaduto in Francia.
In fondo, rivendicando l’adesione a un passato di eresia, Rahn riven-
dicava un posto alla Corte di Lucifero, alla corte del Signore delle SS.
Il ruolo di cortigiano non gli dispiaceva, come si vide poi nell’affaire del
20 agosto 1937, quando Rahn, che si trovava a Homberg come invitato
alle nozze della signora Hartmann, provocò una rissa con un militare
della Wehrmacht, il tenente Horst Buchrücker. Il tenente ebbe poi a
ricordare: «Faceva dell’ironia sulla Wehrmacht e sul fatto che io non
facessi parte del partito. Si sentiva declassato, dal momento che ero
anch’io in uniforme. Mi minacciò ad alta voce, dicendo che si sarebbe
rivolto altrove per agire contro di me. Mi fece un’impressione molto
strana. Probabilmente si sentiva a disagio nel nostro gruppo. Aveva cer-
to delle aderenze, ma non so quali. Si capiva che voleva salire molto in
alto».
Un altro strano episodio era accaduto a Albert von Haller, l’editore
di Lipsia della Corte di Lucifero, che era stato invitato da Rahn a un
caffè nella Potsdamer Platz di Berlino. Quando arrivò, von Haller, che
era a conoscenza dei problemi finanziari di Rahn, lo trovò seduto a un
tavolo con due ufficiali delle SS. Rahn parlò dicendo che si trovava in
cattive acque, e che era suo dovere, di von Haller, aiutarlo, mentre gli
ufficiali commentavano dicendo che Rahn aveva ragione, che era un
dovere patriottico, proprio di un buon tedesco, quello di intervenire
La corte di Lucifero 99

a favore di Rahn che dopotutto aveva contatti stretti nientemeno che


con il Reichsführer delle SS, Heinrich Himmler. Von Haller a questo
punto aveva preso il cappello e se ne era andato. Un tentativo di ricat-
to perpetrato sfruttando l’appartenenza alle SS? Fatto sta che dal quel
momento von Haller si ripromise di non avere più contatti con Rahn.
Episodi piccoli, forse, ma che costituivano la spia di un atteggiamento
verso l’uniforme, che Rahn non esitava a sfruttare a proprio vantaggio.
Avere avuto avi pagani e antenati eretici era un paio di maniche; ma per
il presente l’appartenenza alla Corte contava di più. Rahn proiettava
all’indietro un’adesione dell’oggi, facendone una questione di eredità
storiche mai verificate? Con Rahn non si poteva mai sapere.
Non si poteva mai sapere.
101

9.
Il cerchio si stringe
(1937-38)

Gli articoli e le recensioni per la sua nuova opera, l’essere entrato nella
cerchia delle benemerenze del Reichsführer-SS, erano cose che pur con-
tavano. Eppure c’era in Rahn una sorta di inquietudine, di insofferenza,
che gli impediva di godersi pienamente l’appartenenza al mondo dorato
dell’élite (i fagiani dorati, come li chiamavano gli ironici berlinesi) e che
lo rendeva uno spostato, un pesce fuor d’acqua. Questo curioso stato
d’animo non era sfuggito all’acuto Frisé, che aveva continuato a frequen-
tare Rahn e che aveva notato la strana ossessione di quest’ultimo, che lo
spingeva, ogni qual volta incontrava in un locale qualche pezzo grosso o
del partito o del suo stesso corpo ubriaco e avvinto a donnacce di ogni
tipo, pitturate come bagasce, a sentirsi in dovere di rampognare il suo
interlocutore anzi la coppia, senza ritegno, richiamandola all’ordine e al
contegno in nome del proprio capo, Himmler, ammonendo contro ogni
tentativo di insozzare l’uniforme e insomma richiamandosi al decoro,
alla dignità, a un comportamento serio.
Di solito il richiamo a Himmler scatenava la peggiore ilarità o la mag-
giore derisione.
Era già accaduto durante lo sfortunato viaggio in Islanda che Rahn si
fosse dimostrato incapace di relazionarsi con i suoi camerati delle SS, per
essere oggetto di scherno e di dileggio. Tutto ciò si ripeteva adesso a Ber-
lino senza che Rahn riuscisse a frenare i suoi comportamenti, che certo
non gli procuravano molti amici. O forse Rahn avvertiva oscuramente
di essere fuori posto, un outsider che grazie alla protezione di Himmler
era riuscito a scalare la gerarchia delle SS fino a giungere in alto, in un
luogo dove l’aria era molto rarefatta e dove c’erano molte mani pronte
a ricacciarlo in basso per prenderne il posto… Occorreva molta cautela,
come aveva suggerito a Bad Tölz lo stesso Reichsführer-SS nel febbraio
del 1937. Forse Rahn, stranamente ipersensibile e sempre sopra le righe,
non era capace di essere cauto.
102 Un mito solare

Nell’agosto del 1937 si avvertì la prima avvisaglia di un mutamen-


to nella marea della fortuna. In un processo a un membro del partito,
oltre che sottotenente delle SS, Karl Arolsen, fu coinvolto anche Otto
Rahn, per alcune parole gravemente oltraggiose. Rahn si difese dicendo
che aveva pronunciato quelle parole in stato di ebbrezza. Ed era vero
che ormai beveva troppo; però anche il bere non era in fondo che una
spia di quell’inquietudine che lo segnava e che lo spingeva a comporta-
menti imprudenti. Himmler era stato chiaro: le SS dovevano essere un
esempio, un modello, per tutti gli altri membri della comunità popolare.
Per essere l’aristocrazia del sangue tedesco, un SS doveva meritarsi con il
proprio agire una tale elezione. Quindi una caduta in un SS-Mann era
doppiamente riprovevole e ciò era ancora maggiormente vero per coloro
che si trovavano più in alto nei ranghi delle SS. L’indisciplina e la non
padronanza di sé, che già mal si tolleravano in un SS di basso rango,
erano ancora più rilevanti in una di rango elevato. Il castigo da infliggere
doveva essere dunque esemplare.
Lo fu: Rahn fu degradato e si dovette impegnare per due anni a vivere
da astemio. Gli fu inflitto, come pena aggiuntiva, un turno di quattro
mesi di servizio presso il campo di concentramento di Dachau, da inizia-
re il primo settembre 1938 agli ordini del comandante del campo, The-
odor Eicke, presso il gruppo SS Oberbayern. La presentazione di Rahn
fu poi posposta al primo ottobre. Dachau era allora già in funzione da
quattro anni ed era il prototipo dei lager nazisti. Pure, Rahn non sembrò
avere riportato scrupoli da quel contatto con il vero volto del regime.
Quando andò a trovare Gabriele Winckler-Dechend a Monaco (allora lei
si era sposata e aveva abbandonato l’appartamento di Wiligut) non fece
cenno ai crimini che si svolgevano a Dachau. Al contrario; tutto si svolse,
come disse poi Gabriele, in modo assai metodico. E in quell’occasione
Rahn indossava l’uniforme e Gabriele lo vide per la prima volta così. Non
sembrava l’atteggiamento di un uomo sconvolto da quanto aveva visto.
Vi era un’ulteriore conferma nel rapporto inviato dall’Hauptsturmführer
delle SS, Kurtz, capo della settima centuria della divisione Oberbayern di
stanza a Dachau: «l’SS-Mann Rahn si è applicato con la più grande dili-
genza, tanto che, dopo due settimane, ha potuto essere assegnato come
aiuto-istruttore. Il suo comportamento, all’interno e all’esterno del ser-
vizio, è stato irreprensibile, e Rahn si è dimostrato un buon esempio per
tutti i camerati». Non si poteva dire che Rahn non ce la mettesse tutta. E
forse aveva capito la lezione.
Il cerchio si stringe 103

Non si trattava però solamente del caso Arolsen. Il 24 settembre 1938


fu inviato a Karl Wolff, capo dello Stato Maggiore personale di Himmler,
una copia di un articolo uscito sul giornale svizzero Tages-Anzeiger für die
Stadt Zürich, che a sua volta riprendeva un pezzo della Neue Züricher Zei-
tung. Oggetto delle attenzioni dell’articolo era il dottor Franz Riedweg,
uno dei partecipanti al pranzo al ristorante Horcher di Berlino, che aveva
segnato forse il punto più alto delle fortune di Rahn. Da un annuncio
matrimoniale pubblicato sulla rivista delle SS Das schwarze Korps, e da
altre fonti i giornali svizzeri avevano scoperto che Riedweg era un alto
ufficiale e medico militare delle SS presso il reggimento Deutschland. Al
contempo però Riedweg era anche segretario del Comitato federale sviz-
zero di azione per le proposte di difesa. Com’era possibile che un uomo
che ricopriva cariche simili nel proprio paese svolgesse al contempo com-
piti presso le SS tedesche, che erano un’associazione combattentistica? Ce
n’era abbastanza perché qualcuno chiedesse che Riedweg venisse privato
della cittadinanza svizzera, cosa che in effetti i giornali svizzeri, in parti-
colare il Luzerner Tageblatt, caldeggiavano, scrivendo con chiarezza che
«è ormai tempo di creare le premesse giuridiche per privare della citta-
dinanza concittadini di tale dubbia qualità». Altri giornali si spingevano
oltre, tacciando Riedweg di «assenza di senso politico» e di «smania di
ambizione».
Il caso stava diventando imbarazzante per le SS, che sottoposero a
Himmler una proposta per l’espulsione di Riedweg. Himmler rispose
con una nota il 30 settembre 1938 in cui scriveva seccamente: «Non ci
penso affatto ad allontanare il dottor Riedweg dalle SS».
Lo scandaluccio rientrava. Tuttavia, a muovere le acque era stata
anche una dichiarazione di Rahn sull’entrata di Riedweg nelle SS, in
cui giudicava quest’ultimo «uno molto ambizioso dal carattere non ir-
reprensibile»; in pratica, un arrampicatore sociale. La dichiarazione di
Rahn nocque molto a Riedweg nei suoi rapporti con la stampa svizzera,
e fu allegata alla documentazione inviata a Karl Wolff il 24 settembre.
Per ricostruire i rapporti tra Riedweg e Rahn non deve esserci voluto
molto all’abile capo dello Staff personale di Himmler. A mettere in
contatto diretto Rahn e Riedweg fu un professore svizzero, Alfred Sch-
mid, che fin dal 1935 era in contatto epistolare sia con Rahn che con
Gabriele Winckler-Dechend, e forse più che epistolare. Schmid si era
trasferito da Basilea a Berlino per sfruttare i brevetti di alcune scoper-
te chimiche e aveva comprato una grande proprietà nel quartiere di
104 Un mito solare

Dahlem, ma in realtà era emigrato anche per sfuggire ad alcuni scandali


sessuali che si era lasciato dietro le spalle in Svizzera. Rahn visitava spes-
so, talora anche in compagnia di Raymond Perrier, la casa di Schmid.
Le liaisons omosessuali di Schmid erano ben note a Wolff. Che dire
dunque di Riedweg, che aveva le stesse tendenze? Che dire di Rahn, in
rapporto con tutti e due?
Himmler aveva avuto parole di tolleranza per la repressione dell’omo-
sessualità, ma non nel caso delle SS, che dovevano dare il buon esempio.
Un SS-Mann non si doveva certo infilare pubblicamente in comporta-
menti equivoci. Himmler non era solito buttare a mare coloro che gode-
vano delle sue grazie, ma costoro si dovevano mettere in condizione di
non costringere il Reichsführer-SS a perdere la faccia nel suo sostegno.
C’era bisogno di incappare in uno scandalo sollevato dai giornali svizze-
ri? Per fortuna nulla era trapelato, ma lo stesso Riedweg si era sposato,
nientemeno che con la figlia del generale Blomberg. Un matrimonio di
schermo? Forse, ma lo schermo magari era la politica giusta. Non aveva
fatto così anche il bibliotecario di Wevelsburg, Hans Peter des Coudres,
con cui Rahn aveva parlato all’epoca del viaggio in Islanda? Rahn si tro-
vava adesso su un territorio scivoloso e accidentato, sul quale mettere
un piede in fallo e cadere era un rischio sempre più concreto. Occorreva
trovare un rimedio.
Il rimedio poteva essere un matrimonio di schermo. Un’opportunità
c’era. Nell’agosto del 1938, Rahn era stato in vacanza nella Foresta Nera,
in un paese a nome Muggenbrunn, dove aveva concepito una stretta ami-
cizia con il calzolaio del posto, Stubanus. In un negozio di Muggenbrunn,
Rahn conobbe una donna di nazionalità svizzera, Asta Baeschlin. Lei era
molto interessata ai temi del catarismo e del Graal, e lui aveva sempre
avuto facilità nello stringere conversazioni con figure femminili, con Ga-
briele Winckler-Dechend, con la contessa Pujol-Murat, anche se poi i
rapporti si erano guastati a causa delle questioni finanziarie. La vecchia
magia funzionò anche con Asta Baeschlin. Iniziarono a frequentarsi con
assiduità crescente, e Rahn parlava a ore del Graal, dei druidi, degli dèi
greci e di come erano giunti nel Pirenei, infervorandosi nel corso dell’e-
sposizione come sempre gli accadeva. Ogni tanto si rivolgeva anche ad
Anna, chiedendole di dove fosse, se fosse interessata a collaborare alle
sue ricerche e a trasferirsi in Germania. Rahn gettava l’esca, la muoveva
delicatamente, con il suo tipico entusiasmo momentaneo e il suo but-
tarsi nelle cose a capofitto. Piano piano la storia della Baeschlin venne
Il cerchio si stringe 105

fuori. Si era separata dal marito assieme al suo bambino, che allora aveva
cinque anni. Il motivo del fallimento del matrimonio della Baeschlin era
dovuto ai rovesci finanziari, e ai successivi debiti. Questa canzone Rahn
la conosceva bene. Si trattò di un corteggiamento, per quanto ambiguo?
In fondo Rahn sapeva essere affascinante, con le sue storie di cavalieri
e poeti vagabondi. Asta Baeschlin tuttavia non sembrava convinta. Era
coinvolta in un divorzio, e Rahn comunque, per quanto galante, teneva
le distanze da lei. Della cosa lei era molto grata, viste le sue condizioni del
momento. Inoltre Rahn le aveva fatto una curiosa impressione, quando si
era presentato da lei con quello che l’aveva introdotto come il suo amico
Raymond Perrier. I due erano poi spariti per giorni, eppure Asta, che non
era un’ingenua, aveva visto qualcosa nell’intimità tra i due, qualcosa che
andava oltre l’amicizia. Del resto, anche Rahn non aveva fatto mistero
della sua appartenenza alle SS, forse nel tentativo di far pesare la propria
importanza e la propria posizione nel regime tedesco. Asta era nel pieno
di un divorzio, con la susseguente battaglia per l’affidamento del figlio, e
certo non aveva il desiderio di inasprire l’ex marito legandosi a un mem-
bro delle SS. Lo stesso Rahn, poi, viveva a Muggenbrunn in condizioni
di ristrettezza, e non nuotava certo nell’oro. Era appena il caso di ripete-
re una situazione, quella del precedente matrimonio, che era naufragata
così dolorosamente?
Si trattava di una situazione ambigua, come spesso accadeva quando
c’era di mezzo Rahn. Quando, qualche giorno dopo, Asta rivide Rahn e
Perrier, quest’ultimo stava per lasciare Muggenbrunn, e Rahn piangeva
a dirotto. Sebbene Rahn non le facesse alcuna proposta di matrimonio
(o così Asta ricordava anni dopo), le era diventato chiaro che egli vo-
leva soltanto un matrimonio di facciata, che egli non era interessato a
lei come donna. Rahn voleva un matrimonio schermo, come quello di
Riedweg o di des Coudres? Era quella la soluzione escogitata da costui
per trarsi d’impaccio dalle sue difficoltà e mettersi a posto con le SS?
Era difficile muoversi tra tutte quelle ambiguità, tra quei non detti,
tra i ricordi successivi contrastanti tra loro. Quello che c’era di certo,
è che il 4 dicembre 1938 Rahn aveva scritto all’Aiutante di campo del
Reichsführer-SS, Ludolf von Alvensleben, facendo riferimento a una
precedente missiva, in cui esponeva i suoi progetti di matrimonio con
Asta Baeschlin. A quanto pareva Himmler, informato della cosa, aveva
approvato senz’altro la cosa e anzi aveva invitato Rahn ad affrettare
il più possibile lo sposalizio. L’esca aveva avuto fin troppo successo e
106 Un mito solare

Otto Rahn con Asta Baeschlin.

ora Rahn doveva spiegare come mai non era stato possibile un «matri-
monio rapido come un fulmine», come si era espresso Himmler. Asta
Baeschlin alla fine della vacanza era ritornata in Svizzera. Rahn si trin-
cerava dietro il servizio attivo che aveva dovuto svolgere; dietro alcuni
lavori improrogabili, come la preparazione della nuova edizione della
Corte di Lucifero; del ritardo nel divorzio di Asta Baeschlin, che non
si era ancora legalmente concluso. Tuttavia, Rahn si allargava ancora
sul suo futuro matrimonio, e annunciava a von Alvensleben (che, era
sicuro, avrebbe poi riferito tutto a Himmler) che la Baeschlin, contro il
volere dei suoi stessi genitori, aveva preferito lui, Rahn, benché spian-
tato, a un ricco principe dal nome illustre; e che quella che chiamava
apertamente «la mia fidanzata» l’avrebbe raggiunto il prossimo Natale
per discutere di tutto. Si trattava di aspettare ancora un poco. La be-
nevolenza di Himmler era ancora disponibile. Il 12 dicembre 1938 a
Rahn era stato concesso un congedo da ulteriori turni di servizio attivo
per permettergli la revisione della Corte di Lucifero. Ed effettivamente
nel febbraio 1939 Rahn aveva trasmesso a Himmler un manoscritto
riveduto del suo libro. Questa parte della lettera di Rahn non era una
menzogna. Ma che dire del resto? Rahn era stato sempre incline alle
Il cerchio si stringe 107

bugie, alle quali credeva lui stesso prima degli altri; questa volta però
il suo involucro difensivo, con il quale difendersi dalle difficoltà che
cominciavano ad affiorare verso di lui all’interno delle SS, rischiava di
disfarsi nelle sue mani. Se le SS erano un’élite, un ordine simile a quello
dei Templari, come Rahn si era convinto che fossero, erano straordina-
riamente intolleranti e inflessibili. Circuito nella rete delle sue fantasie
e delle sue bugie, ora Rahn era in trappola. Non aveva l’ipocrisia e il
cinismo di des Coudres o di Riedweg, che riuscivano a recitare più ruoli
contemporaneamente e a salvare le apparenze. No, Rahn, nevrasteni-
co e pasticcione, non possedeva quella qualità che rendeva possibile
alle SS credere di essere un’élite mentre, nel loro vero essere, erano
individui del tutto diversi da quello che professavano. Per mantenere
vera quest’apparenza, di fronte agli altri ma soprattutto di fronte a se
stessi, occorrevano doti che Rahn dimostrava di non avere. Si difende-
va con le armi del debole, la doppiezza e il sotterfugio. Adesso quelle
armi avevano perso l’affilatura ed egli si trovava a dipendere totalmen-
te dall’aiuto del Reichsführer-SS, aiuto che, nel caso di uno scandalo,
non sarebbe durato troppo. Per il momento, poteva ancora contare
sull’appoggio di Himmler, visto che l’11 settembre 1938 era stato ancora
promosso, salendo fino al grado di Obersturmführer (comandante di
compagnia) delle SS. Ma di lì, era un’incognita. Tutto si trasformava
e perdeva forma. La stessa idea dell’eresia catara, pegno di una civiltà
universale e pacifica, si era trasformata nei sogni di dominio razziale di
Himmler, dal quale erano esclusi gli appartenenti a razze inferiori. La
rinata civiltà nordica, che inutilmente ebrei e cattolici romani avevano
cercato di obliterare, si affermava con vigore e relegava nei campi di
concentramento oppositori e nemici della razza. Rahn ne sapeva qual-
cosa. Nel novembre del 1938 si trovava al campo di Buchenwald dove
poté osservare gli ebrei internati dopo la Notte dei Cristalli. Eppure la
cosa non sembrava avergli fatto un particolare effetto, o almeno non
ne aveva fatto parola con nessuno. Come si accordava tutto questo con
l’originario ideale di tolleranza dei catari? Labirinti dentro labirinti, che
si perdevano l’uno dentro l’altro e da cui non sembrava più possibile
uscire.
Il cerchio si stringeva, e non solo attorno a Rahn. Le SS avevano preso
a regolare i conti interni, e a eliminare coloro che non si confacevano al
nuovo ideale imposto da Himmler di contadini-guerrieri ben affondati
nel loro passato ancestrale e razziale. Nel novembre del 1938 toccò anche
108 Un mito solare

a Wiligut. Wolff, che non lo aveva mai amato, aveva scoperto il passato
manicomiale tra il 1924 e il 1927 dell’ex protetto del Reichsführer-SS.
La rivalità tra Wiligut e l’Ahnenerbe finiva con il trionfo di quest’ulti-
ma, ora che il punto debole nell’armatura di Wiligut era stato trovato.
Dì lì a meno di un anno, l’ufficio di Wiligut sarebbe stato sciolto e lui
stesso posto in congedo forzato. Himmler gli risparmiò il campo di con-
centramento e lo affidò alle cure di una fidata badante, a Aufkirchen
prima, e a Goslar poi, in una sorta di esilio. Se questo era accaduto al
potente Wiligut, al fidato consigliere di Himmler che aveva costituito
per quest’ultimo l’intero rituale delle SS, che cosa poteva accadere a
Rahn? Al nevrastenico, ipersensibile Rahn, così lontano dall’immagine
dell’SS-Mann tutto durezza e onorabilità? Come giustificare i contatti
con Alfred Schmid, di cui si diceva che la casa di Berlino-Dahlem avesse
un’apertura celata che conduceva alla sua camera, così che quando Rahn
veniva a visitarlo, potesse segretamente accedere a lui? Come giustificare
i rapporti con Raymond Perrier, che Rahn aveva persino arruolato come
suo aiutante nelle ricerche relative all’albero genealogico di Himmler, e
che il 26 agosto 1938 aveva personalmente scritto al Reichsführer-SS un
biglietto di ringraziamento? Come giustificare tutto ciò, ora che la storia
di copertura con Asta Baeschlin era saltata, e che la verità veniva a galla?
Come avrebbe preso Himmler tutto ciò, quell’Himmler che si diceva
avesse fatto fucilare il proprio stesso nipote, omosessuale, dopo averlo
ammonito più volte a emendarsi senza che lo sventurato giovane avesse
potuto o voluto accontentare il potente zio? Pure, già più volte in passato
Rahn si era tolto di impaccio da situazioni scabrose. Occorreva un’alzata
di ingegno, che gli consentisse ancora una volta una via d’uscita.
109

10.
La fine
(1939)

La via d’uscita alla fine non si era trovata, o almeno quella trovata era
alquanto tortuosa e stretta. Il 28 febbraio 1939 Rahn scrisse un biglietto
a Karl Wolff da Tegernsee, in cui scriveva di essere «costretto a pregarla
di appoggiare presso il Reichsführer-SS il mio immediato congedo dalle
SS. I motivi di questa mia richiesta sono di natura così grave che potrò
esporli a Lei soltanto a voce. A tale scopo verrò a Berlino nei prossimi
giorni e mi presenterò a Lei». Il biglietto si concludeva con il solito salu-
to: Heil Hitler.
Si trattava dell’unica strada possibile rimasta. Se le SS dovevano dare
il buon esempio, se in quanto aristocrazia razziale dovevano essere di
ammaestramento per tutto il resto del popolo tedesco, non restava che
separarsi da loro. L’ipocrisia di Himmler, che aveva decretato che le SS
colpevoli di omosessualità dovevano essere degradate, allontanate e poi
consegnate alla giustizia, e poi ancora, dopo avere scontato la pena inflit-
ta loro dal tribunale, dovevano essere internate in campo di concentra-
mento e poi fucilate in caso di fuga, ma che poi era disposto a tollerare
i vari Riedweg e i vari des Coudres, purché la loro macchia rimanesse
celata, non bastava più in caso di emersione pubblica di fatti riprovevoli.
Il partito aveva ormai fatto della lotta all’omosessualità un mezzo per
regolare i conti al proprio interno. Non c’era nulla di meglio, per dan-
neggiare un avversario politico, che far trapelare sul suo conto accuse di
essere un invertito. Nel febbraio del 1938, le SS avevano saputo fare buon
uso di calunnie del genere per spezzare la carriera del generale Werner
von Fritsch, il comandante della Wermacht. Le accuse erano poi cadute
ma von Fritsch era ormai compromesso, e non venne mai reintegrato nel
suo ruolo, nel quale era stato sostituito da Walther von Brauchitsch, più
malleabile verso le politiche di Hitler che prevedevano, non appena la
Germania fosse stata pronta, una guerra a Est.
110 Un mito solare

In un articolo di quell’anno, uscito su Der Hoheitsträger a firma del


giurista Rudolf Klare e intitolato Gli omosessuali come problema politico,
si accusavano gli omosessuali di corrompere ogni valore della comunità
popolare tedesca; si chiedeva contro di loro un inasprimento delle pene
già draconiane; e si segnalava il pericolo estremo costituito da costoro per
la Germania, in quanto «per gli omosessuali il tradimento, lo spergiuro,
la mancanza di parola sono senza limiti». Persino un uomo potente come
Himmler, che non amava ingerenze esterne quando si tratta delle sue SS,
doveva tener conto di questo clima.
Tuttavia si trattava di una questione spinosa. In fondo Rahn era un
uomo dello Staff personale del Reichsführer-SS, un uomo che non po-
teva essere congedato con leggerezza. La decisione spettava a Himmler.
Wolff gli sottopose il biglietto. Himmler lo lesse, rifletté sulla faccenda,
rifletté su quello che avrebbe potuto succedere se la vicenda di Rahn
fosse giunta alle orecchie di Bormann, il capo del partito e giocatore di
peso nella lotta per il potere all’interno del regime, valutò il carico che
una simile notizia avrebbe avuto contro di lui, Himmler, e poi si limitò
a scarabocchiare con la matita un laconico Sì sul biglietto, e ad apporre
la sua firma.
Il 17 marzo 1939, con effetto retroattivo dal 22 febbraio, Rahn fu
congedato dalle SS.
Si trattava di coprire le tracce. Il legame di Rahn con le SS si era
rotto, ma Rahn restava testimone possibile d’accusa contro le SS che
avevano permesso un simile scandalo nelle proprie file. Una traccia era
stata coperta ma le altre restavano intatte, e non dovevano portare allo
Staff personale del Reichsführer-SS. Se c’era una cosa che Himmler aveva
dimostrato, in quella terribile estate del 1934, quando in ballo c’erano
i camerati di un tempo, le SA, che avevano accompagnato la scalata al
potere del partito nazionalsocialista e l’avevano portato al vertice dello
stato quasi sulle proprie spalle, era la disponibilità a sacrificare le pedine
di questo gioco se era possibile trarne un guadagno. Per restare a galla
occorrevano la purezza del sangue, quanto meno supposta; una facciata
irreprensibile; radicalità nelle idee e negli atteggiamenti. Rahn aveva in-
tuito le regole del gioco e aveva fatto carriera grazie ad esse, ma ora aveva
commesso un grave errore, e le regole del gioco non erano più a suo
favore; erano esse a giocare lui, come prima era stato lui a giocare loro.
La situazione, però, si era ribaltata, e occorrevano rimedi drastici. Rahn
avrebbe capito.
La fine 111

Rahn non capiva. Si presentò a Dortmund a casa di Kurt Eggers,


l’addetto culturale dell’associazione Dietrich-Eckart, che l’aveva invita-
to in città per la conferenza del gennaio 1938, quando ancora il futuro
era roseo. Si presentò inaspettamente, senza annunciarsi, in condizioni
terribili. Eggers aveva già conosciuto Rahn come un uomo nervoso,
tendente alla nevrastenia, ma rimase impressionato dallo sconvolgi-
mento di quest’ultimo, dall’improvviso e notevole dimagrimento, che
andava oltre quanto aveva imparato in precedenza. Rahn raccontò una
strana storia. Raccontò che le SS lo avevano messo di fronte a un ulti-
matum, e che ora gli restava soltanto la scelta se finire i suoi giorni in
un campo di concentramento, o inscenare, decentemente, la propria
morte. I presenti a casa di Eggers rimasero attoniti e ricordarono a
lungo le parole di Rahn. «È la fine. Sono braccato dalle SS», esclamò.
«Sono accusato di omosessualità. Mi hanno lasciato la scelta, o in un
campo di concentramento, o il suicidio, una morte eroica nelle mon-
tagne. Non esiste altra possibilità». Dopo questa scena terribile, Rahn
ripartì, un fantasma nella notte, in preda a un’agitazione incontenibile.
Pure, a Rahn non mancavano amici, anche in quella situazione di-
sperata. Eggers aveva incontrato il vecchio editore di Rahn, von Haller.
Quest’ultimo era riuscito a procurarsi, chissà come, un passaporto con
un visto per la Francia. Nonostante il brutto scherzo che Rahn gli aveva
giocato nel caffè della Potsdamer Platz, l’editore lo aveva perdonato o
almeno era abbastanza angosciato nei suoi confronti da esporsi in pri-
ma persona per aiutarlo. Non era un fenomeno insolito; molti avevano
perdonato a Rahn cose che verso altri sarebbero sembrate inescusabili.
Von Haller levò il passaporto dalla tasca in cui lo teneva segretamente
riposto. Forse era possibile farlo avere a Rahn… «Lei è pazzo!», aveva
sbottato Eggers. «Crede forse che le SS lo perderebbero di vista anche
solo per cinque minuti? Sono già davanti a casa mia e sa benissimo
quel che succederà. Se lei lo facesse, a Rahn non servirebbe e lei stesso
finirebbe in un campo di concentramento».
Tutte le porte si chiudevano. Rahn era ormai in fuga per tutta la
Germania. L’8 marzo 1939 era a Friburgo, dove era andato a trovare
Otto von Vogelsang, l’editore della Crociata contro il Graal. A Vogel-
sang era apparso, stranamente, ottimista e sereno. Fu un incontro breve.
Quella notte stessa prese un treno notturno per Monaco, e il 12 marzo
era arrivato a Kufstein. La fuga si spezzava, diventava erratica, o forse
invece acquistava momento e direzione, come se Rahn avesse ormai
112 Un mito solare

valutato la situazione e avesse preso la propria decisione. Gli restavano


pochi giorni di vita. Da Kufstein era proseguito verso Söll, prendendo
l’autobus che passava attraverso Neuhaus. Söll era situata al margine
di un altopiano, una stagione climatica ben nota per le escursioni sulle
vicine e imponenti montagne del Wilder Kaiser e della Hohe Salve. A
metà marzo, tuttavia, c’era un metro di neve. Su un pendio del Wilder
Kaiser, presso il torrente Kitzgraben, c’era un vecchio maso, vicino al
quale si trovava una colonna posta a ricordo della grande peste che nel
1630 aveva devastato la zona. Si dice che il vicino monte Eibergkopf,
visibile dal Wilder Kaiser, ricordi per le forme le montagne pirenaiche
di Ussat-les-Bains.
Un tardo pomeriggio, tre bambini della famiglia Maier videro Rahn
che si arrampicava lentamente verso il maso solitario, arrancando nella
neve. Era vestito da un cappotto e prima di raggiungere il maso, a una
trentina di metri, si era fermato a guardare l’orologio che portava al
polso. Ai bambini era parso un orologio d’oro. Poi si era avviato verso
il torrente, prendendo un sentiero attraverso il quale la famiglia Maier
portava le mucche ad abbeverarsi, sparendo alla vista.
Era l’ultima volta che qualcuno aveva visto Rahn vivo.
Il corpo era stato trovato l’11 maggio 1939, sotto un albero accanto
al torrente, avvolto nel cappotto. Accanto al corpo si trovavano due
bottiglie, una delle quali era ancora mezza piena.
Il certificato di morte fu vergato solo il 3 giugno 1939, a cura del
funzionario dell’anagrafe di Söll, Johann Ortner. La data della morte
era stimata tra il 13 e il 14 marzo 1939. Per una curiosa e forse invo-
lontaria ironia, il certificato vergato dal solerte funzionario riportava la
circostanza che «il defunto non risultava sposato».
La sua opera invece gli sopravvisse. In una lettera datata 23 ottobre
1943, il capo dell’Ufficio del Ministero del Reich per la propaganda,
Naumann, scrisse a Karl Brandt per rassicurarlo circa l’interessamento
di Himmler di una nuova edizione de La corte di Lucifero. Entrambi,
sia Naumann che Brandt, erano uomini delle SS. Naumann fu felice
di assegnare la quantità di carta (un bene allora razionato, e da non
impiegare alla leggera) necessaria per una tiratura di diecimila copie del
libro e accontentare così i desideri di Himmler, non senza omettere una
nota finale di valutazione del libro, che era un’allusione alla vicenda di
Rahn, di cui Naumann teneva a far sapere di essere stato a conoscenza:
«Se il Reichsführer-SS ritiene con questo risolta la questione personale
La fine 113

dell’autore, per la sezione competente vale esclusivamente il significato


culturale e politico del libro».
Brandt fu così gentile da rispondere a Naumann il 2 novembre
1943, preoccupandosi di chiarire che le vicende connesse alla sorte di
Rahn non dovevano in nessun caso essere discusse. «Delle circostanze
relative alla morte di Rahn, parleremo meglio nella prossima riunione.
Il  Reichsführer-SS conosce tutti i particolari del fatto, che considera
particolarmente tragico. Non era possibile fare più di quanto Rahn non
abbia fatto con la sua morte per espiare le proprie colpe nei confronti
delle SS. Forse lei potrà dare disposizioni perché degli errori commessi da
Rahn non si parli mai più».
Rahn e i suoi errori erano stati seppelliti e non se ne doveva più par-
lare.
Il mito da lui creato, e ancora utile alle SS, poteva invece sopravvivere.
115

11.
Interludio 2

Montagna Wilder Kaiser

La rapsodia dei ricordi era conclusa. Forse il senso ultimo di tut-


ta la vicenda era chiarito, ma non c’era quasi più nessuno a poterlo
apprezzare. Dell’anima di Rahn restava solo una minuscola zattera in
un mare di tenebra. La storia si concludeva, ma senza uno spettatore.
Forse era meglio così, che non vi fosse uno sguardo finale, definitivo;
forse era meglio che ognuno si affidasse a un senso proprio a uno
sguardo particolare, e così la storia si sarebbe potuta dipanare in dire-
zioni ancora impreviste. A Rahn non importava più.
Restava solo la forza per un’ultima immagine, che però non ri-
guardava il passato, i catari, il Graal o le persone che avevano con
Rahn condiviso quella strana ricerca, e quel che ne era seguito. Come
ombre, costoro avevano abbandonato il palcoscenico. Ciò che vedeva
Rahn era una luce immensa, abbagliante, rossa come un fuoco infer-
nale. Per un momento quella luce abbagliò la vista mentale di Rahn
ed egli se ne ritrasse. Poi l’immagine cominciò a prendere forma e a
mettersi a fuoco. Non si trattava di un’unica luce indistinta; si trattava
di migliaia di piccole luci, che tutte emettevano un minuto bagliore
rosso fiamma. Qualcosa bruciava, in una pianura smisurata. Le picco-
le fonti erano file e file e file; milioni forse. Piccoli punti neri da cui si
sprigionava quella crudele fiamma rossa. Era difficile dire che cosa fos-
sero. Forni, forse; ecco, si doveva trattare di forni, a perdita d’occhio,
in un numero tale da comporre un unico, immenso e terribile fulgore,
tanto grande da sembrare capace di coprire un intero continente. Un
fuoco continentale.
Fu l’ultima visione di cui l’anima di Rahn fu capace, mentre quella
piccola zattera si inabissava, sprofondava nella tenebra: una scrollata
di spalle dell’eternità.
117

12.
Epilogo

Il Reichsführer era nel suo ufficio, assorto sul fascicolo di Otto


Rahn. Il sapere tutto delle sue SS, cosa di cui si era sempre vantato,
ora gli riusciva stranamente doloroso. Era un peccato che il giovane
Rahn non fosse stato più discreto. Avrebbe avuto tutte le possibilità
aperte; e invece… Sì, era davvero un peccato che un uomo capace
di opere storico-scientifiche così audaci e così permeate dello spirito
nazionalsocialista fosse stato tolto dalle disponibilità delle SS. Che
cosa avrebbe potuto fare Rahn, in futuro, ora che la lotta con i nemici
del Reich si avvicinava come una vertigine? Che cosa avrebbe potuto
fare all’Ufficio Razza e Insediamento? Chiuse le carte con un vago
rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e che non era più, e
dettò a Wolff un appunto per un necrologio da far pubblicare sulla
rivista delle SS, Das Schwarze Korps. Se non altro, era ancora possibile
onorare Rahn come un SS-Mann, un membro leale e stimato dell’ari-
stocrazia tedesca del sangue. L’uomo era scomparso, ma se ne poteva
ancora salvaguardare la memoria. Wolff avrebbe provveduto. Non era
possibile fare altro.

Il necrologio di Rahn pubblicato da Karl Wolff.


118 Un mito solare

Il Reichsführer mise via il fascicolo. Era un peccato ma così era-


no andate le cose. Ora era necessario abbandonare i sentimentalismi
e concentrarsi sui compiti presenti e in particolare quelli relativi ai
nemici del Reich e del sangue tedesco, con cui la resa dei conti era
ormai imminente. Di lì a poco la lotta sarebbe proseguita su oriz-
zonti più vasti, sarebbero bastati pochi mesi. Rahn non c’era più, ma
aveva indicato i modi e i tempi con cui i nemici del sangue tedesco
avevano tentato di cancellare la coscienza che i tedeschi avevano di sé
e di confondere e annientare lo spirito ariano. Da questa rivelazione,
il Reichsführer avrebbe saputo trarre buone indicazioni e opportune
ispirazioni per la lotta incombente.
Dopotutto, il futuro era più importante del passato.
119

Postfazione

Il presente lavoro non costituisce una vera biografia di Otto Rahn, per
quanto attinga materiale da coloro che invece meritano molto di più il
titolo di biografi, come Hans-Jürgen Lange o come Mario Baudino. Tut-
tavia, una biografia soddisfacente di Rahn al momento non esiste, e forse
non esisterà mai, data l’incompletezza delle fonti e la contraddittorietà
dei materiali esistenti, oltre che per altri motivi di cui dirò. Nonostante
ciò, gli eventi narrati sono accaduti realmente, anche se talora non nella
maniera in cui sono raccontati in quest’opera. Ad esempio, è quasi certo
che Antonin Gadal non abbia preso parte all’incontro alla Closerie des
Lilas, anche se le idee che gli vengono fatte esprimere sono realmente sue.
Analogamente, per quanto sia vero che Adolf Frisé sia stato invitato da
Rahn al suo appartamento in Tiergarten, le reazioni che gli ho attribuito
non furono le sue né avvennero in quell’occasione. È tuttavia vero che
molti dei giudizi espressi circa gli atteggiamenti di Otto Rahn sono stati
veramente formulati da suoi conoscenti anche intimi, benché non sem-
pre siano stati ascritti a coloro che li hanno realmente espressi – per moti-
vi di economia narrativa, e anche per rendere i vari passaggi più gradevoli
al lettore. Da questo punto di vista, i protagonisti di questa storia sono
appunto personaggi di un racconto, e non coincidono esattamente con
le persone reali di cui portano i nomi. Chi volesse tuttavia documentarsi
sulle vere reazioni di Frisé può compulsare il suo romanzo autobiografico
Der Beginn der Vergangenheit (uno dei personaggi è Otto Rahn), mentre
le idee di Magre sono state riprese dai suoi romanzi Le sang de Toulouse e
Le trésor des Albigeois. Quanto al libro di Péladan citato da Magre e da lui
prestato a Rahn, si tratta di J. Péladan, Le secret des Troubadors: de Parsifal
à Don Quichotte.
Per il resto, tuttavia, non vi sono state manipolazioni narrative. L’i-
dea che il ritorno al catarismo sarebbe stato la salvezza dell’Europa fu
realmente una corrente importante di pensiero degli anni Trenta del XX
secolo, e ispirò intellettuali del calibro di Simone Weil, che giunse a in-
travvedervi l’ultima propaggine del mondo spirituale più alto mai esi-
stito, quello della cultura greca al tempo di Platone, in qualche modo
120 Un mito solare

fatto proprio dai catari. Simone Weil condivise inconsapevolmente mol-


te delle conclusioni cui era giunto anche Rahn, l’idea che le influenze
indiane, persiane, egiziane e greche avessero permesso la fioritura della
civiltà occitana, che Antico e Nuovo Testamento fossero assolutamente
discordanti tra loro, e che il recupero dell’Antico Testamento effettuato
dalla Chiesa di Roma fosse uno dei motivi di fondo della corruzione del
cristianesimo; tuttavia, per una forma di ironia storica, trasse da tutto
ciò una conclusione assolutamente opposta a quella di Rahn, ossia che la
riscoperta dei valori catari fosse il miglior antidoto alla contaminazione e
alla spiritualità totalitaria nazista. Le opere dedicate dalla Weil ai catari e
al significato della loro vicenda si trovano nel IV tomo, volume I, (inti-
tolato Écrits de Marseille) delle Oeuvres complètes, Gallimard, Paris, 2009,
ma sono disponibili per il lettore italiano anche in S. Weil, I catari e la
civiltà mediterranea, Marietti, Genova-Milano, 2010 (ma sarebbe bene
unire anche la lettura di S. Weil, Le origini dell’hitlerismo, Meltemi, Sesto
San Giovanni (MI), 2017). Quanto al neo-catarismo, esso esiste tuttora
e gode di buona salute, anche se non costituisce una forma culturale
monolitica e completamente omogenea. Gli stessi suoi autori di pun-
ta hanno avuto percorsi diversi; Gadal si è avvicinato all’esoterismo dei
Rosacroce, mentre Déodat Roché, scomparso nel 1978, fu anche affiliato
alla Massoneria. Per chi volesse approfondire le idee degli antichi catari,
e lo sviluppo del neo-catarismo attuale, ho trovato molto utile il libro di
Malcolm Barber, The Cathars. Dualist heretics in Languedoc in the High
Middle Ages, Routledge, New York and London, 2013. Per quanto riguar-
da il Graal e la sua complessa storia, rimando a F. Cardini, M. Introvigne,
M. Montesano, Il santo Graal, Giunti, Firenze, 1998; e F. Zambon, Meta-
morfosi del Graal, Carocci, Roma, 2012.
Anche quanto narrato riguardo al Progetto streghe concepito da Hein-
rich Himmler è vero. Il lettore troverà maggiori ragguagli (anche nei con-
fronti dei rapporti di Himmler verso Otto Rahn) nell’eccellente biografia
di P. Longerich, Heinrich Himmler, Oxford University Press, Oxford,
2011. Per gli atteggiamenti anticattolici (e neopagani) di Himmler, da ve-
dere anche R. Steigmann-Gall, The Holy Reich. Nazi Conceptions of Chri-
stianity, 1919-1945, Cambridge University Press, Cambridge, 2004; e E.
Kurlander, Hitler’s Monsters. A Supernatural History of the Third Reich,
Yale University Press, New Haven and London, 2017.
Come per Rahn, anche le biografie esistenti su Karl Wiligut non
sono di grande qualità. Mi limito a segnalare al lettore K. Moynihan, S.
Postfazione 121

Flowers, Karl Maria Wiligut. Le Roi secret, Camion Blanc, Rosières-en-


Haye, 2008. Sulle attività del reparto Ahnenerbe, da vedere H. Pringle,
The Master Plan. Himmler’s Scholars and the Holocaust, Hyperion, New
York, 2006. Sull’Ufficio Razza e Insediamento, che con la guerra a Est
divenne un fattore importante per le selezioni razziali operate dai nazisti
e un organo importante nella perpetrazione del disegno razziale delle
SS, da vedere I. Heinemann, Rasse, Siedlung, deutsches Blut: das Rasse –
und Siedlungshauptamt der SS und die rassenpolitische Neuordung Europas,
Wallstein, Göttingen, 2003.
Otto Rahn è stato di recente protagonista di una sorta di rinascimen-
to. Le sue opere, dimenticate da decenni, sono state ristampate in più
lingue, ed egli stesso è stato oggetto di rinnovati interessi esoterici. Non
tutta la letteratura che è stata prodotta a questo proposito è tuttavia di
livello; esiste persino un biografo che ha sostenuto che in realtà Rahn non
fosse morto nel 1939, ma che avesse finto la propria morte prendendo
le mentite spoglie di Rudolf Rahn, ambasciatore presso la Repubblica
Sociale Italiana. A quanto pare, il fatto che Rudolf Rahn fosse nato ben
quattro anni prima di Otto Rahn non è stato evidentemente ritenuto un
ostacolo al raggiungimento di questa conclusione.
Lo strano destino di Rahn trasformatosi, nel dopoguerra, in una vera
icona pop come fascinoso ricercatore di rare reliquie e come esoterista
e occultista (cosa che non fu mai veramente) è già stata ampiamente
tratteggiata nella premessa e non c’è bisogno di insistervi. Preme invece
sottolineare qui l’operazione che questa letteratura ha, in fondo, compiu-
to. Presentando le SS come un’organizzazione dedita a ricerche mistiche
e a fenomeni misteriosi del passato ha decontestualizzato il nazismo, po-
nendolo su uno sfondo di pseudo-spiritualità eroica e improntata a idee
millenaristiche. Le SS insomma, grazie alle ricerche di Rahn ma anche
a quelle della Ahnenerbe, sarebbero stati portatrici di una sorta di spiri-
tualità new age ante litteram (il lettore che volesse approfondire questo
punto, può utilmente compulsare N. Goodrick-Clarke, Black Sun. Aryan
Cults, Esoteric Nazism and the Politics of identity, New York University
Press, New York, 2002). È stata questa una delle vie per le quali il ne-
onazismo si è rigenerato ed è sopravvissuto fino ai giorni nostri, dando
al Terzo Reich una specie di allure che ovviamente finisce per obliterare
totalmente la natura genocida e assassina di quel regime. Per compren-
dere che cosa veramente fossero le SS, più che tutta la varia letteratura
descritta nella Premessa, val meglio leggere il pamphlet di Himmler, Die
122 Un mito solare

Schutzstaffel als antibolschewistiche Kampforganisation o anche la Denk-


schrift über die Behandlung der Fremdvöllkischen im Osten, (ma per chi
volesse una lettura meno impegnativa, esiste il libro di Herbert Ziegler,
Nazi Germany’s New Aristocracy: The SS Leadership, 1925-1939, Princeton
University Press, Princeton, 2014) in cui è chiaro che l’interesse anti-
quario per le reliquie degli antichi popoli ariani non era un’attività a sé
stante ma una delle parti non separabili di una teoria (e di una prassi) che
prevedeva lo sterminio dell’intera popolazione ebrea d’Europa e di mi-
lioni di sottouomini dell’Est. Che questo regime e la sua ideologia fossero
intrinsecamente assassini lo sperimentò anche Otto Rahn, che infatti ne
rimase ucciso; la volontà di resuscitarlo sotto le spoglie di Rudolf Rahn
è solo l’ennesimo tentativo di rendere quel regime diverso da quello che
in realtà fu.
Non si tratta tuttavia di un destino toccato al solo Rahn. Un simile
fato è capitato anche ad Aleister Crowley, il famoso (e famigerato) mago
inglese la cui vita turbolenta si spense nel 1947, ma che poi divenne una
delle icone dell’immaginario della musica rock, fino ad approdare alla
copertina del celebre album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club
Band. Quindi sono qui presenti dinamiche culturali più ampie che van-
no oltre la sola figura di Otto Rahn.
A quanto pare anche la morte di Rahn, così come la sua vita, continua
a essere involta in trame complesse e leggendarie, delle quali, tuttavia,
pochi hanno inteso dissipare l’intreccio per cogliere ciò che avveniva dav-
vero, vale a dire il fatto che sempre più la vicenda dei catari si allontanava
all’esistenza reale di queste persone, per avviarsi verso una costruzione
nella quale il catarismo concreto diventava sempre più catarismo fanta-
smatico, della memoria, ossia ciò in cui Rahn credeva, ma differente dal
primo, per quanto ancora legato ad esso. E che questa costruzione obbe-
diva alla finalità di assecondare una linea politica, quella di Himmler, che
sarebbe sfociata nel genocidio.
123

Indice dei nomi

A Brauchitsch von, W., 109 Eschenbach von, W., 7,


Breker, A., 62 18, 26, 28, 30, 36,
Abellio, divinità, 52-53
Breton, A., 23 49-51, 56, 69, 84,
Accomani, C., 32
Buchrücker, H., 98 90-91
Agostino, santo, 86
Buechner, H., 9 Esclarmonde de Foix,
Alleau, R., 10
Bulwer-Lytton, E., 10 31-33, 35, 44, 50
Alvensleben von, L., 105
Burkert, P., 71
Anders, R., 67
Angebert, J.-M., 10 F
Apollo, divinità, 48, 51, C Fauré-Lacaussade, B., 45
85 Cardini, F., 120 Frisé, A. 54, 57-58, 60,
Arolsen, K., 102-103 Carlo Magno, imperatore, 63-66, 101, 119
Arquès, A., 46 45 Fritsch von, W., 109
Astarte, divinità, 53 Caussou, A., 35-37, 84
Augier, M., 9 Charles-Bellet, L., 91 G
Coudres des, H.P., 71-72,
B 104-105, 107, 109 Gadal, 22-30, 35, 39,
Craig, S., 8 44, 46-48, 50, 58-60,
Baal, divinità, 51 119-120
Crowley, A., 122
Backe, H., 92 Gall von, A., 18
Czepl, T., 67
Baeschlin, A., 104-106, Galli, G., 10
108 Giovanni, evangelista, 20
Baker, J., 46 D Giuseppe di Arimatea, 85
Barber, M., 120 Darrè, W., 71, 92 Goebbels, J., 18
Baudino, M., 7, 119 Democrito, 21 Goodrick-Clarke, N.,
Bellissena, divinità, 53 Diem, C., 61 10, 121
Berger, G., 74 Dietrich. M., 46, 93, 111 Göring, H., 61, 69
Bergier, J., 9 Guldenfinger, F., 18
Bernadac, C., 9-10, 45 Günther, H., 92
Best, W., 69 E
Guyot, poeta, 28, 30, 36,
Beyer, A., 9-10 Eco, U., 8 49, 56, 84, 90
Blomberg von, W., 70, Eggers, K., 93, 111
104 Eicke, T., 102
Bormann, M., 110 Epicuro, 21 H
Boulenger, J., 92 Ercole, 51, 85, 91 Habdu, barista, 41-42
124 Un mito solare

Halik, E., 10 M Péladan, J., 28, 30, 35,


Haller von, A., 98-99, 111 91, 119
Magre, M., 22-26, 28-31,
Heinemann, I., 121 Péreille, de, S., 25
35, 91, 119
Heinrichsdorff, W., Perrier, R., 18-20, 51-52,
Mandement, J., 43-45,
93-94, 98 69, 104-105, 108
55, 58-59 Pfandl, R., 55-56, 97-98
Hemingway, E., 23
Maria Maddalena, 85 Picasso, P., 23
Heydrich, R., 69, 92
May, K., 46 Pirene, 51, 91
Himmler, H., 7-9, 64-71,
McNeil, D., 8 Platone, 21, 95-96, 119
73-81, 85-86, 89-90,
92, 99, 101-110, 112, Minneke, H., 55, 63 Plinio, C., 51
120-122 Modigliani, A., 23 Proksch, R., 92
Hitler, A., 44, 49, 54-55, Montanhagol, W., 21 Pujol-Murat de, M., 31,
59, 63, 76, 79, 90, Montesano, M., 120 35, 44, 47, 55, 84,
95, 97, 109, 120 Mosse, K., 8 104
Hofferberg, O., 17, 18 Moynihan, K., 120
Hörbiger, H., 9 Musil, R., 54
Musy, J.-M., 69-70
R
Horcher, O., 69-70, 92,
Rahn, O., 7-13, 15-22,
103
24-33, 35-60, 62-72,
N
74, 77-78, 80-99,
I Naumann, dottor, 101-113, 115, 117-122
Ignazio di Loyola, 85 112-113 Rahn, R., 9, 121-122
Introvigne, M., 120 Nerone, imperatore, 69 Rausch, A., 16-19, 21-22,
Niceta, vescovo, 24, 24
26-27 Rechenbach, H., 92
K Norfolk, N., 76 Reventlow zu, E., 92
Kerr, K., 8 Riedweg, F., 70, 103-105,
Kerr, P., 8 O 107, 109
Klare, R., 110 Riefenstahl, L., 62
Kohlhaas, J., 58, 63 Odino, divinità, 15, 68, Rives, A., 35, 84
Konrad di Marburgo, 20, 71-72 Roché, D., 28-29, 31, 44,
55, 66, 81-82 Ortner, J., 112 93, 120
Kurlander, E., 120 Röhm, E., 63
P
L Parsifal, 15, 18, 49-50, S
Ladame, P., 20, 22-26, 84, 91, 119 Salomone, re, 48, 91
35-39, 45-46, 62 Passaquai, famiglia, 76 Sandy, I., 35
Landig, W., 10 Passaquai, J.M., 69 Saunière, B., 8
Lange, H.-J., 7, 119 Passaquai, M.K., 69 Schacht, H., 55
Leander, Z., 62 Passaquai, M.M., 69 Schacht, S., 55
Lenin, V., 23 Passaquai, S.A., 69 Schmid, A., 103-104, 108
Lienau, W., 92 Pauwels, L., 9 Sebottendorf von, R., 9
List von, G., 9 Pehmoller, H., 90-91, Sigfrido, 15
Longerich, P., 120 97-98 Silio Italico, 51
INDICE DEI NOMI 125

Skorzeny, O., 9 U Winckler-Dechend, G.,


Snorri, S., 68, 71, 77, 88 67, 74, 90, 102-104
Urbanitzky von, G., 54
Stanley, R., 8 Wirth, H., 71, 92
Steigmann-Gall, R., 120 Wittje, K., 79-80
Steiner, R., 43
V
Wolff, K., 9, 69-70,
Stubanus, calzolaio, 104 Vogelsang von, O., 111 73-75, 77-78, 80,
Sünner, R., 10 93-94, 103-104,
W 108-110, 117
T Webb, J., 10
Weil, S., 93-97, 119-120
Teuringen von, L., 67 Widegger, J., 33 Z
Teut, divinità, 83 Wiligut, K., 9, 66-71, 74,
Thor, divinità, 72 78, 83, 89, 92, 102, Zambon, F., 120
Trencavel, R., 84 108, 120-121 Ziegler, H., 122
PAOLO LOMBARDI è stato presidente del € 18,00
Centro di Studi Storici di Psicoanalisi e
ISBN 978-88-7814-888-8
Psichiatria di Firenze. Nel 1998 ha vinto e-ISBN 978-88-7814-889-5
il premio Castiglioncello con Il filosofo e
la strega. I suoi ultimi libri sono Un altro

MONSTORIA-10
Seicento (2011), Un segreto ricomporsi.
Albert Speer dalla memoria individuale alla
storia (2013) e, con Gianluca Nesi, Sangue e
Suolo. Le radici esoteriche del Nuovo Ordine
Europeo nazista (2016)

Nell’Europa della fine degli anni Venti, attanagliata dalla crisi economica e sociale,
dalla dilagante violenza nelle strade, dall’avvento del fascismo, un pugno di
intellettuali francesi identificò la via di uscita nel ritorno ai princìpi di un’oscura
setta ereticale francese del XIII secolo: i catari. Quel ritorno avrebbe assicurato
la nascita di un’Europa unita, tollerante, pacifica. Fu un sogno che attrasse
molti, persino figure del calibro di Simone Weil, fino alla venuta di Otto Rahn,
un mitografo tedesco che riunì il racconto dei catari alla leggenda del Graal.

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