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oesia e musica. Una storia che ha radici antiche, una storia lunga e tor-
tuosa, che racconta di un rapporto indissolubile e mai pacifico, pacifica-
to, di una tensione e un concertare continuo che ha generato bellezza da
bellezza, sviluppandosi nei secoli con modi sempre diversi e affascinanti, dove le
ragioni, la forza, la fascinazione dell’una e dell’altra arte si alternavano ora nel so-
praffarsi ora nel fondersi armonicamente in un’unica espressione artistica.
Di questa storia ho preso un frammento abbastanza recente, ma nella con-
vinzione che mettere a fuoco una parte sia comunque sempre utile per capire il
tutto, visto che ad emergere sono spesso le stesse questioni, sebbene formulate in
modi diversi. Questo non significa che il dato particolare sia solo un pretesto per
studiare altro: cercando la totalità nel particolare si impara ad apprezzare di più
quel particolare, la sua personale bellezza, e questo credo valga per ogni piccola
storia, inevitabilmente inserita in una storia più ampia.
Si intrecciano due fili principali in queste pagine, sintetizzati nel titolo: il
problema generale del mettere in musica poesia non per musica, e una sua decli-
nazione particolare, l’intonazione delle poesie di Giovanni Pascoli in Italia tra Otto
e Novecento. Ho cercato di tracciare un percorso il più chiaro possibile, senza pe-
rò appianare le tortuosità che strada facendo emergevano, e lasciando intrecciare,
nei limiti del possibile, i tanti altri fili che man mano si aggiungevano ai due prin-
cipali. Questo approccio ha inevitabilmente portato all’alternarsi e intersecarsi di
ricerca storica (nella quale ho dato un ampio spazio alla voce dei protagonisti del
tempo), approfondimenti musicali e letterari e riflessioni teoriche, che si comple-
tano a vicenda.
Un ultima annotazione, infine, di carattere più personale, ma non per questo me-
no importante: in questa tesi ho avuto la fortuna di poter congiungere due grandi
passioni della mia vita, la poesia e la musica. Ritengo sia un dato fondamentale,
perché senza di esso, senza il primo movimento del cuore verso qualcosa che ci
appassiona, ogni lavoro perde di interesse, si fa arido e in fondo inutile, per sé stes-
si e per gli altri.
1.
-
n un articolo del 1908 intitolato I versi per musica, Ildebrando Pizzetti — par-
1
P 1914a, pp. 271-272.
2
Ivi, p. 272. L’insistere di Pizzetti sui versi brevi è vero solo in parte, in quanto a partire
dagli anni Settanta dell’Ottocento aumenta l’uso dell’endecasillabo sia nella lirica da camera che
nell’opera (v. , Alla conquista dell’endecasillabo: qualche riflessione su metrica poeti-
ca e strutture musicali nella lirica italiana dell’Ottocento, in 2002, pp. 117-130).
3
Basti solo pensare alle tante versioni per mandolino e pianoforte delle romanze otto-
centesche.
4
Ibidem.
. -
Essi non chiedono al testo poetico che di potervi adattare delle melo-
die preformate, o che esso possa adattarsi alle loro melodie preforma-
te, che è la stessa cosa: perciò non solo non può importar niente, a lo-
ro, che il testo poetico sia bello («le nostre melodie» dicono i musicisti
«sono belle per sé stesse») ma dinanzi a un testo poetico veramente
bello essi si sentono quasi intimoriti, sentono confusamente che biso-
gnerebbe svolgere le loro melodie seguendo lo svolgimento della poe-
sia, e come a far questo non ci sono avvezzi, e lo trovano fors’anche
troppo faticoso, essi dicono che la poesia per musica deve essere tale da
lasciare “libero il corso” allo svolgimento della melodia, e che non de-
ve costringere il musicista a essere il suo servo obbediente. Il che, in al-
tre parole, vuol dire che la poesia per musica non deve avere nessun si-
gnificato, e non deve essere espressiva per se stessa.5
Eccoci dunque al cuore del problema: di fronte a una poesia bella il musici-
sta non può restare indifferente, ma deve fare la fatica di ‘adeguare’ la propria mu-
sica a quella della poesia, mettendosi in gioco in quel perenne incontro-scontro di
due musiche, di due ritmi, che nascono indipendenti e vengono uniti a posteriori.
Pizzetti — dopo aver proclamato l’obbedienza della musica di fronte alla poe-
sia (ma bisogna capire di che tipo di obbedienza si tratta) —, finisce per sancire la
superiorità dell’espressione musicale nei confronti di quella poetica; è il suo modo
personale per dire che la musica arriva dove la parola non può arrivare:
5
Ivi, p. 274.
all’infuori della poesia che non esprime nessun sentimento — che non è
poesia —, o di quella che vuole esprimere dei concetti filosofici, politici
o economici o scientifici — che non è poesia —, o, in fine, della poesia
cattiva — che è poesia solo in parte — della poesia non per musica non ce
n’è e non ce ne può essere.7
6
Ivi, p. 276-277.
7
Ivi, p. 277.
8
Con le inevitabili differenze, in quanto Pizzetti (esprimendo in questo un nazionalismo
diffuso e un’accoglienza parziale del Simbolismo francese da parte del mondo culturale italiano)
prende comunque le distanze da quella che da varie parti veniva definita, non proprio positiva-
mente, arte decadente, mettendo in evidenza quella marcia in più che avrebbe lo spirito italiano,
ovvero una maggiore ‘umanità’. Tali riserve comunque non eliminano la grande importanza che la
musica francese, in questo caso la lirica da camera, ha avuto nel proporre modelli alternativi e nello
stimolare i musicisti italiani del tempo; basta guardare i tanti articoli e le recensioni che, all’inizio
del Novecento, vengono dedicati alla musica francese.
. -
L
a ragione principale per cui in Francia dalla metà dell’Ottocento si è realiz-
zato un più stretto rapporto tra musica e poesia è riassumibile in una sola
parola: Simbolismo. Si potrebbe anche dire che quell’abbraccio così affasci-
nante e a tratti morboso tra poesia e musica, quella rete di rimandi e allusioni tra
le due arti, tanto tendente alla purezza dell’Assoluto quanto ambiguamente ine-
stricabile, è la caratteristica principale di quel movimento culturale. A questa u-
nione — sempre mai del tutto compiuta — si riferiva Paul Valéry affermando che
«ciò che fu battezzato come simbolismo, si riassume, molto semplicemente,
nell’intenzione, comune a parecchi gruppi di poeti, di riprendere alla musica il lo-
ro bene»;9 di questa unione hanno parlato in vari modi quasi tutti gli artisti del
tempo, chi teorizzando con grande consapevolezza (Verlaine e Mallarmé su tutti),
chi quasi inconsapevolmente, come Giovanni Pascoli, il quale, nel 1908, metteva
tra le righe di una lettera al caro amico Alfredo Caselli (nella quale declinava un
invito a scrivere un libretto d’opera) affermazioni di questo genere:
9
Cit. in J 1980, p. 41 (la fonte della citazione è P ff, Variété, Paris:
Gallimard, 1924, p. 97).
10
Lettera di Giovanni Pascoli ad Alfredo Caselli del 26 settembre 1908, riportata in P-
1968, pp. 803-804; il passo è citato anche in . P 1961, pp. 879-880 e in 1994,
p. 7.
11
Elio Gioanola sottolinea «la valorizzazione estrema della musica e della poesia lirica,
perché sono le due forme d’arte più spontanee, più ‘irrazionali’, più vicine a quell’intimità miste-
riosa dello spirito che non può essere afferrata ed espressa con precisione di forme e di parole. Vie-
ne meno, ed è questa la più importante rivoluzione nella storia dell’arte moderna, la convinzione
che la parola si esaurisca nel suo significato razionale […]. La parola poetica insomma tende a per-
dere in significato e ad acquistare in allusività: si capisce ora perché la poesia del decadentismo sia
essenzialmente simbolica e musicale. Perdendo la parola il suo peso semantico (la sua denotazione,
il suo significato), tende a proporsi come rivelazione, accenno, notazione musicale», G
1991b, p. 10.
. -
incerti: il poeta vuol fare musica con le parole, il musicista ha la pretesa di comple-
tare e oltrepassare con la sua arte le parole del poeta.
Dunque, la «questione generale» che Pascoli pone come rifiuto per un lavoro
quale un libretto per musica può essere anche letta come un condensato del Sim-
bolismo. È una questione, comunque, tutt’altro che scontata e priva di ambiguità,
in parte per la debole capacità teorica del poeta, in parte per il contesto in cui la
frase è stata scritta, o, semplicemente, perché l’ambiguità appartiene ad ogni rifles-
sione di questo genere.
Innanzitutto si deve notare come la «misteriosa regione» in cui la musica è
padrona sia definita come «dell’altra poesia»: musica e «altra poesia» non sono,
dunque, la stessa cosa, ma quest’ultima assume i connotati metafisici di un enig-
matico Altro, che la musica sembra rendere più tangibile che la poesia. Mallarmé
diceva che «la Poesia, vicina l’idea, è Musica per eccellenza»;12 Pascoli, invertendo i
termini del discorso, sembra dire che la musica, vicina l’idea, è poesia trascenden-
te. In ogni caso, se la musica si trova al di là della poesia (il cui regno è quello della
«realtà pensabile») ed esprime qualcosa di misterioso cui la stessa poesia aspira, il
poeta sembra essere destinato a non poter entrare in quel regno.
C’è poi da tenere presente che l’osservazione fatta dal poeta nasce da una
sollecitazione molto pratica, ovvero scrivere un libretto per un’opera (Pascoli, si
sa, non è mai stato un gran teorico). Scrivere un libretto significava abbandonare
gran parte delle proprie ambizioni poetiche per obbedire a esigenze musicali detta-
te da altri, spostando il rapporto tra poesia e musica da un livello di tipo allusivo-
analogico a uno di tipo metrico-accentuativo. Visti i numerosi tentativi falliti di
scrivere libretti operistici, è evidente che la dimensione del librettista stava piutto-
sto stretta a Pascoli, e non perché egli non sia attento al problema metrico
(tutt’altro!), ma perché le questioni metriche che deve affrontare un librettista so-
no condizionate dalle esigenze musicali: ci sono schemi strofici, versi che non tol-
lerano eccezioni o sfasature, altrimenti musica e poesia non vanno più assieme.13 È
12
Cit. in J 1980, p. 43 (la fonte della citazione è , Varia-
tions sur un sujet, in Œuvres complètes, Paris: Gallimard, 1945, p. 381).
13
Non che la corrispondenza tra accento poetico e accento musicale venga meno, ma c’è
una insofferenza diffusa verso schemi rigidi che, assecondando la quadratura della frase, costringo-
no ad una regolarità metrica che alla musica stava sempre più stretta e che i poeti stessi lentamente
stavano abbandonando (o, come Pascoli, corrodendo dall’interno).
un altro rapporto tra poesia e musica che la frase di Pascoli sottende: un rapporto
più profondo, che non si fermi al solo aspetto accentuativo, alla pur importantis-
sima corrispondenza metrica, ma vada alla ricerca di altre corrispondenze, più al-
lusive e misteriose; un rapporto in cui le due arti, superficialmente allontanandosi,
paradossalmente sono più vicine che mai. Da un certo punto di vista Pascoli e gli
altri poeti simbolisti non hanno fatto altro che portare alla massima espressione la
convinzione di ogni tempo secondo cui la poesia altro non è che ‘musica con le
parole’:14 in molti periodi questo ha voluto dire la sostanziale indipendenza della
‘musica con le parole’ dalla musica tout court, salvo unirsi attraverso una poesia
per musica variamente resa docile alle esigenze musicali (e, quindi, considerata in-
feriore alla poesia tout court); nel periodo preso qui in esame, invece, questa poesia
con spiccate tendenze musicali è stata la poesia preferita dai musicisti.
Dalla riflessione di Pascoli si può, infine, trarre un’altra «questione generale»
(già più o meno implicitamente emersa in queste pagine), assolutamente fonda-
mentale per tutta la sua poetica, ma non solo: intendo dire che se la poesia non
può entrare nel regno della musica, può però creare nel suo regno una sua musica.
In altre parole, a me sembra che la ragione nascosta della difficoltà di Pascoli nello
scrivere un libretto (cioè poesia per musica nel senso più tradizionale del termine)
stia nel fatto che egli — da poeta — nella poesia immette già una sua musica, con la
quale prova ad entrare nella «misteriosa regione dell’altra poesia». Anche Pascoli,
dunque, appartiene alla schiera dei poeti che, come diceva Valéry, hanno tentato
di «riprendere alla musica il loro bene».
14
È un topos senza tempo, la «convinzione, che qua e là affiora nel pensiero di tutti i poe-
ti […] che la parola non sia sufficiente ad esprimere la pienezza dell’essere. […] Ora si sa che tutto
ciò che la lingua naturale non può dire può tuttavia venir detto o suggerito da usi eccezionali del
linguaggio naturale stesso, e cioè mediante quella espressività non convenzionale che costituisce il
linguaggio della poesia, ma ciononostante anche la lingua poetica appare spesso insufficiente: “Lin-
gua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno” esclamava Leopardi […]. Il ricorso ad un linguag-
gio non convenzionale nell’ambito del linguaggio naturale apre il ricorso ad altri linguaggi, questa
volta eterogenei: arti figurative, danza, e soprattutto la musica. […] La musica può inserirsi nelle
deficienze espressive del sistema linguistico, può colmarne i vuoti», P 2002a, pp. 136-137.
. -
O
ggi si è ormai affermata una lettura che inserisce Pascoli all’interno
dell’esperienza del Simbolismo europeo — rilevando criticamente i tratti
comuni e le sostanziali differenze rispetto ad esso — ma per lungo tempo
(a cominciare dai giudizi dei contemporanei del poeta) la valenza simbolista della
sua poesia è stata ridotta o addirittura neanche presa in considerazione.15 Esempla-
15
Vero è che neanche Pascoli aveva una consapevolezza così chiara del valore della sua
opera, come rilevato da vari critici: Walter Binni parla di un Decadentismo inconsapevole (
1936), Debenedetti di «rivoluzione inconsapevole» ( 1979), mentre Contini lo defini-
sce un «rivoluzionario nella tradizione» ( 1958). Recentemente la sintesi più chiara sui
rapporti tra Pascoli e il simbolismo è stata formulata da Giuseppe Nava: «Leggere Pascoli oggi è
possibile solo collocandolo nel quadro del simbolismo europeo, di cui condivide i tratti di fondo,
culturali e stilistici: a) la reazione alla civiltà industriale e alla ragione tecnologica; b) l’elevazione
della funzione poetica ad attività privilegiata; c) l’assunzione della poesia a surrogato della religio-
ne; d) la ricerca della totalità nel frammento, come rivelazione o apparizione intermittente di senso
nelle cose, e relativa delusione; e) l’uso del simbolo come procedimento di fondo, a volte intreccia-
to con modi allegorizzanti per la peculiarità della situazione italiana e il recupero personale di Dan-
te; f) l’adozione dell’analogia come strumento di percezione e tecnica costruttiva; g) la tendenza
accentuata allo slittamento della poesia verso la musica: rime, timbri, consonanze e assonanze, ri-
prese; h) la soggettivizzazione degli elementi grammaticali e sintattici: animazione delle preposi-
zioni, spiritualizzazione delle congiunzioni, ricreazione sentimentale degli avverbi, poeticizzazione
delle forme nominali, secondo il modello d’analisi spitzeriano delle innovazioni sintattiche del
simbolismo francese. Tratti differenzianti rispetto al modello simbolista sono: a) la persistenza
d’un elevato tasso di referenzialità, per effetto della tradizione italiana e della cultura naturalista; b)
il privilegiamento della mentalità primitiva e della dimensione magico-animistica; c) il rapporto
forte con le letterature classiche, sia pure attualizzate; d) la limitata problematizzazione delle possi-
bilità della poesia nella modernità, e più in generale l’inadeguatezza della coscienza critica, anche
per il ritardo culturale italiano; e) il recupero d’una improbabile funzione civile del poeta, sul mo-
dello carducciano e dannunziano; f) le concessioni al patetismo e al pietismo in un rapporto di re-
ciproco condizionamento col pubblico dei lettori. [...] Solo ricollocando Pascoli nel contesto sim-
bolista si possono superare le forti limitazioni crociane, la sua lettura come poeta dell’infanzia e del
mondo rurale nel ventennio fascista, la contaminazione spesso indebita di poesia e autobiografia
nelle interpretazioni psicologizzanti, l’accusa di ideologismo piccolo-borghese di anni recenti; e si
re a questo proposito è, tra i primi giudizi formulati sulla poesia di Pascoli, quello
del 1892 di Gabriele d’Annunzio, il quale esaltava le grandi doti di verseggiatore del
suo collega, ma non riusciva a cogliere la musicalità e la profondità che quei versi
nascondevano:
potrà condurre fino in fondo, sul piano interpretativo e storico-culturale, la rivalutazione del poeta
avviata verso la metà degli anni Cinquanta», ⁿ 1999, pp. 703-704.
Ovviamente non si deve cadere nell’errore di ridurre Pascoli solo a poeta simbolista: più
interpretazioni non si escludono, ma, casomai, si completano a vicenda. Per usare ancora le parole
di Nava, «si tratta [...] di quella potenzialità di fruizioni diverse, e di fraintendimenti creativi, che la
poesia pascoliana, come ogni vera poesia, contiene in sé e che ha fatto leggere di volta in volta
Myricae come la poesia delle «umili cose» o come il precorrimento del frammentismo lirico nove-
centesco», ivi, p. 705.
16
’ 1892. La dannunziana negazione del mistero nella poesia pascoliana è sta-
ta capovolta da Bárberi Squarotti, il quale ha definito la poesia di Pascoli proprio «poesia del miste-
ro». Il critico parla di quella «presenza simbolista e spiritualista che in Italia accompagna più che
seguire i trionfi, molto, del resto, precari e tutt’altro che pacifici, del verismo. Il ‘mistero’ è
dell’anima come della natura, delle cose come della vita: proprio l’opposto dell’esigenza, proclama-
ta dai veristi per la letteratura, di arrivare, attraverso l’uso dei metodi della scienza positiva, a chia-
rire i fenomeni della psiche come quelli della natura, i fatti sociali come quelli morali, a una rap-
presentazione chiara ed evidente di tutta la realtà, senza margini d’ombra». Tale «fascino
dell’ignoto, di ciò che sfugge alla ragione» si declina sia nello sbocciare di una letteratura fantastica,
sia in un senso «più decisamente legato ad ascendenze simboliste [...] in rapporto con la concezio-
ne della poesia come la forma di conoscenza meta razionale che è in grado di andare al di là di ciò
. -
È vero che siamo ancora nel 1892, e gran parte delle poesie importanti Pasco-
li doveva ancora scriverle, ma l’incomprensione di fondo rimane comunque abba-
stanza sconcertante e rivela, forse più di tanti commenti positivi, la portata della
novità che il poeta immette nella sua poesia.17
Eppure anche ai tempi del Pascoli c’è stato chi ha colto l’aspetto più moder-
no della sua opera: mi riferisco a Giuseppe Saverio Gargano, «un critico sottile e
colto, oggi ingiustamente dimenticato» il quale, a partire da uno dei Poemetti pa-
scoliani (Il vischio) aveva spiegato ai lettori del «Marzocco» la distinzione tra sim-
bolo e allegoria («lodata dal poeta stesso»), mettendo in luce «l’intraducibilità del
simbolo in termini logico-razionali, la sua costitutiva inafferrabilità, che è quella
stessa del senso perduto nella totalità e inseguito nel frammento».18 Vale la pena di
riportare le sue parole, chiarificatrici oltre che per i contenuti anche per lo stile
con cui il critico si esprime:
che riesce a dire la scienza nell’esplorazione della natura, scoprendo in essa relazioni segrete, analo-
gie, significati, che non possono essere raggiunti dagli strumenti, inadeguati, della scienza, e che
costituiscono un deposito di verità assolutamente indispensabili per la piena comprensione del
senso della vita e della realtà». Secondo Bárberi Squarotti, quindi, «il poeta che, in Italia, meglio e
più costantemente rappresenta la coscienza del ‘mistero’ come il luogo della poesia in quanto for-
ma privilegiata di conoscenza meta scientifica e meta razionale è, naturalmente, il Pascoli», un mi-
stero che il quale ben avverte questo «mistero che più viene indagato e più rimane misterioso (Ale-
xandros). “Il sogno è l’infinita ombra del vero”: è la sentenza che può ottimamente siglare il senso
del reale che ha la poesia del ‘mistero’», , pp. 159-160.
17
Questo, ovviamente, non elimina una certa perplessità, persino un’insofferenza che
ancora oggi si prova di fronte a tanta poesia di Pascoli. Lo aveva già evidenziato Benedetto Croce
nel noto saggio che ha influenzato per mezzo secolo una comprensione obiettiva del poeta. Croce,
nel suo rifiuto quasi totale della poesia pascoliana (in pratica salva solo le prime Myricae) aveva, in
negativo, colto la rottura portata da Pascoli nella poesia italiana, per poi rifiutarla, e aveva anche
colto tutti quegli aspetti che ancora oggi (anzi, oggi ancora di più) non possono che essere giudicati
negativamente: «l’arte del Pascoli par che serbi sempre l’aspetto di un problema. La genialità e
l’artificio, la spontaneità e l’affettazione, la sincerità e la smorfia, appaiono uniti negli stessi com-
ponimenti, nelle stesse strofe, talvolta in un singolo verso. [...] L’impressione del lettore è quella
che io ho notata in principio: l’attrattiva e la repulsione, il rapimento e il disgusto si avvicendano»,
, p. 118.
18
ⁿ 1999, p. 671.
Appare ora più chiaro come, anche in base a quanto detto nel paragrafo pre-
cedente, una poesia così concepita non poteva che portare ad una «tendenza ac-
centuata allo slittamento della poesia verso la musica», ovvero verso l’arte che, per
usare le parole di Mallarmé, è la maggiore dispensatrice di Mistero.20 Tale appro-
priazione del bene della musica avviene in Pascoli attraverso «modi di produzione
del senso di tipo intuitivo-sintetico, di contro alla mentalità logico-analitica della
civiltà industriale»,21 e attraverso una continua forzatura delle strutture poetiche
tradizionali, pur senza infrangerle completamente.22 Mengaldo a questo proposito
parla di una
19
G 1897, in 2, p. 490.
20
Cfr. , Crayonné au Théâtre [1887], in Œuvres complètes, Paris:
Gallimard, 1945, p. 296.
21
ⁿ 1999, p. 703.
22
Ancora Nava sintetizza, sempre in modo chiarissimo, lo sperimentalismo pascoliano:
«la sperimentazione incessante si esercita sulle figure di suono — l’«autonomia del significante» di
G. L. Beccaria —, dagli effetti allitteranti a quelli di consonanza e assonanza alle serie timbriche, sul-
la moltiplicazione e dislocazione degli accenti, sugli esiti di scomposizione e ricomposizione sintat-
. -
tica degli enjambements, che producono quel “farsi prosa senza essere prosa”, segnalato da Schiaffi-
ni, sul plurilinguismo del lessico; ma conserva la rima, come elemento costitutivo e distintivo della
poesia, rispetta la regolarità prosodica del verso, pur variandone il più possibile lo schema accen-
tuativo, e si guarda bene dal sovvertire le forme metriche, anche se quelle più chiuse, come il sonet-
to, il madrigale o la ballata, lasceranno il posto col tempo alle terzine o alle quartine, più narrative»
ⁿ 1999, p. 637.
23
Introduzione a P 1981, pp. 21-22. Per il doppio ritmo v. 1962.
24
Il saggio di Pascoli si può leggere in P 1939-1952, vol. 3, pp. 904-976. Si tratta di
questioni molto vive nell’ultimo scorcio del secolo, soprattutto dopo l’uscita delle Odi barbare
di Carducci (1877). Sull’argomento v. , Ritmo e traduzione: tra ‘barbare’, ‘semirit-
mi’ e sperimentalismo pascoliano, in 2002, pp. 201-224. Proprio dalle Odi barbare del suo
maestro comincia la riflessione pascoliana: «io percepiva in quelle odi due ritmi: uno proprio; uno,
per così dire, riflesso. Era ciò che il poeta voleva: due ritmi. E il primo proprio di per sé non sareb-
be stato piacevole [...]. Ma c’era il ritmo riflesso», P 1939-1952, vol. 3, pp. 905 .
È fondamentale aver chiaro il problema da cui parte qui Pascoli — la traduzione poetica —
e da che punto di vista sia affrontato — non si parla di contenuti, di rendere il significato del testo o
cose simili, ma si parla di ritmo come ‘musicalità totale’ di cui la poesia è fatta.
25
Ivi, p. 939.
26
, p. 229
. -
che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta imprecisione qui con-
dizionata da un’alta precisione, è questo un dato che ricollega Pascoli
al maggior laboratorio simbolistico: diciamo a Mallarmé e alla sua
condanna del «sens trop précis», oppure al programma verlainiano
«De la musique avant tout chose», «De la musique encore et tou-
jours».29
27
Ibidem. Sia il grande esperimento di Wagner che quello di Pascoli sono inseriti dal cri-
tico nell’ambiente culturale del decadentismo e non fanno che confermare le osservazioni del pri-
mo capitolo sugli scambi tra musica e poesia.
28
Ivi, p. 240.
29
Ibidem.
F
in tanto che ci si sofferma sulla musica della poesia, senza toccare diretta-
mente la musica come arte dei suoni, va tutto bene; i problemi e le discus-
sioni cominciano quando a questa poesia così intrisa di musica si associa la
musica vera e propria.30 È la questione che Pizzetti, come si è visto, aveva risolto —
evidentemente troppo semplicisticamente — sancendo la supremazia della musica
nei confronti del testo poetico; anzi, il testo poetico, secondo lui, si compiva defi-
nitivamente solo attraverso un’intonazione musicale. Di diverso parere sono i poe-
ti, i quali concepiscono la loro poesia compiuta in sé stessa, con una musica pro-
pria alla quale non può esserne sovrapposta un’altra.
Per uscire da questo dilemma, è necessario porsi una domanda fondamenta-
le: cosa si intende per musica della poesia? è una musica reale oppure si tratta solo
di una metafora? Soltanto dopo aver risposto a questa domanda si potrà passare
alla questione successiva: cosa succede a questa musica poetica quando interviene
la musica vera?
La risposta può cominciare ad essere suggerita proprio osservando il lavoro
di poeta di Pascoli: è evidente, infatti, che Pascoli abbia compiuto un grandissimo
lavoro musicale nella sua opera poetica, ma non si può affermare con altrettanta
sicurezza che questo lavoro abbia portato al risultato suggerito da Valéry, ovvero
riprendere alla musica un bene che sarebbe stato prima di tutto poetico. Questo
per un motivo forse banale, ma da non dimenticare mai: il bene della musica è un
bene musicale, e non può che rimanere tale, anche quando, in varie modalità, ten-
de a penetrare nei più svariati aspetti della vita umana, in primis nelle altre arti — e,
soprattutto, nella poesia.
Il problema non sembra tanto essere della poesia o dei poeti, ma appare ra-
dicato nella stessa natura della musica, come ha scritto Hans Urs von Balthasar de-
30
Le discussioni teoriche sui rapporti tra musica e poesia (allargate al rapporto più gene-
rale tra musica e parola) sono, come si sa, interminabili e, probabilmente, irrisolvibili. Qui accenno
solamente ad alcune questioni che riguardano più da vicino l’argomento da me trattato, riman-
dando per approfondimenti ad una vasta bibliografia.
. -
31
1995, p. 13.
32
Su questo punto si può non essere del tutto d’accordo con Bianconi, quando afferma:
«Lo sanno tutti che ‘musicalità del verso’ è nulla più d’una metafora letteraria, utile magari per evi-
do si parla di musica riferendosi a qualcosa che non è musica, bisogna sempre sta-
re attenti a non fare confusione.
Sulla musica della poesia si è pronunciato con parole illuminanti uno dei più
grandi poeti del Novecento, Eliot, cogliendo con chiarezza la componente musica-
le di una poesia (senza la quale una poesia non sarebbe tale), ma con altrettanta
chiarezza mettendo in luce che si tratta di una musica sui generis, in quanto scri-
vendo versi siamo pur sempre nell’ambito del linguaggio, con tutte le ambiguità
che un linguaggio come quello poetico genera — da qui, tra l’altro, l’impossibilità
di una parafrasi per spiegare una poesia, in quanto il suo significato sta nella sua
totalità, parole e musica unite indissolubilmente. Ecco come si esprime Eliot:
denziare in un componimento poetico certe qualità intrinseche che, difficili da descrivere altrimen-
ti, non sempre tuttavia e non ipso facto lo predispongono ad una effettiva maggior musicabilità»,
2005, p. 184. È giusto distinguere musicalità da musicabilità, ma mi sembra altrettanto
giusto riconoscere che la musicalità del verso non è una metafora letteraria (o lo è solo in parte),
ma qualcosa di concreto, che si percepisce soprattutto con l’udito.
33
1960, pp. 26-28.
. -
34
Ivi, p. 31.
35
Ivi, p. 37. Osip Brik esprime la stessa idea con altre parole: «Il movimento ritmico è an-
teriore al verso; non è il ritmo che può essere compreso in base al verso ma, all’opposto,
quest’ultimo in base al primo», cit. in 2002, p. 75.
36
, Convivio, Trattato primo, .
37
it. in 2006, pp. 27-30.
38
1981, pp. 23-24.
. -
‘’
U
na prima risposta ci viene data dalla realtà dei fatti: nonostante le ripetu-
te polemiche e dichiarazioni di indipendenza dei poeti, in ogni tempo i
musicisti hanno tranquillamente spogliato le poesie della loro musica,
rivestendole di altri suoni. Questo innanzitutto ci dice che il giudizio sulla musica-
bilità o meno di una poesia non può essere definito una volta per tutte: è il risulta-
to finale, l’intonazione di quella poesia (magari confrontata con altre intonazioni
sullo stesso testo, quando ci sono) che ci permette di dare un giudizio non prede-
terminato. Se si vuole veramente capire cosa significa mettere in musica poesia
non per musica bisognerà, quindi, verificare in che modo la musica della poesia si
salva in questa unione e in che modo la musica vera trasforma la poesia, e quale
rispetto abbia di essa.
In questo senso il lavoro del musicista su di un testo poetico potrebbe essere
paragonato al lavoro del traduttore di poesia;39 il paragone non è nuovo, ma è
sempre rimasto un semplice accenno, utile per spiegare un rapporto controverso.
Recentemente ne ha parlato Bianconi in termini molto interessanti, ma senza ap-
profondire troppo la questione: «Mettere in musica dei versi è come un tradurre
poesia da una lingua in un’altra: operazione notoriamente impossibile, se non
come reinvenzione».40
39
Anche il tradurre poesia è sempre stato considerato impossibile ma — nonostante que-
sta impossibilità che si potrebbe definire ontologica — la poesia si è sempre tradotta, così come si è
sempre intonata poesia non per musica.
40
2005, p. 184.
Giorgio Caproni, parlando della sua esperienza di poeta-traduttore, pone addirittura
sullo stesso piano la composizione di poesie e la traduzione: «Non ho mai fatto differenza, o posto
gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il
tradurre. In entrambi i casi si tratta soltanto di esprimere me stesso nel modo migliore»,
1974, p. 22.
Lo stesso Pascoli ha più volte utilizzato la traduzione come reinvenzione, per esprimere
sé stesso, come ha acutamente osservato Debenedetti nel commentare un’osservazione fatta dal po-
eta a proposito di Catullo che traduce i lirici greci: «“Egli [Catullo] tradusse per esprimere il senti-
Certo, ci sono delle evidenti differenze tra una traduzione musicale e una
traduzione che usa comunque delle parole per dire altre parole: in musica non si
tratta di un passaggio da una lingua ad un'altra (passaggio comunque sempre pro-
blematico), ma, si potrebbe dire, di un’amplificazione di un’opera d’arte attraver-
so un'altra, dell’aggiunta di un nuovo ‘linguaggio’ a quello originario, dove il nuo-
vo tende a prendere il sopravvento sull’altro; forse si potrebbe più propriamente
parlare di trascrizione (si pensi a cosa significa, per esempio, orchestrare un brano
pianistico o comunque riscrivere un brano musicale per un organico diverso da
quello originale), o utilizzare una definizione ibrida come traduzione-trascrizione
musicale. In ogni caso (come acutamente notava Bianconi parlando di reinven-
zione) si ha la creazione di un’opera nuova, che va certo giudicata in base al rap-
porto con l’opera da cui trae origine, ma anche per il suo risultato musicale finale.
Quali aspetti un ‘traduttore musicale’ debba tener presenti nel suo lavoro
credo sia difficile dirlo, allo stesso modo in cui non è possibile definire delle regole
chiare per una buona traduzione poetica.41 Forse si potrebbe partire col verificare
che cosa di una poesia può essere salvato in una sua intonazione musicale, ovvero
scoprire a che livello nasce questa traduzione sui generis. L’idea di fondo mi sem-
bra rintracciabile nella volontà di creare una corrispondenza poetico-musicale tra
il ritmo di partenza e il ritmo di arrivo.
mento nuovo, che l’invadeva tutto, un’ode di Sappho” […] Teniamo presente e commentiamo su-
bito quel tradurre per esprimersi. Prevale nel Pascoli la persuasione che un certo tradurre, o parafra-
sare — come lui farà nei due canti del Solon, e massime nel primo — valga, non solo a disacerbare un
ingorgo dell’animo; ma addirittura ad oggettivare direttamente, come qualche cosa di trovato in
proprio, ciò che un uomo fa di più personalmente suo, e geloso, e irriducibile», 1979,
p. 237, il passo di Pascoli è tratto dalla prefazione alla sua antologia di poesia latina, Lyra.
41
Scrive ancora Caproni: «se è vero che nel corso della mia vita ho molto e perfin troppo
tradotto, in nessun modo mi considero un tecnico o un traduttore di professione. Non ho nessun
laboratorio mentale attrezzato all’uopo, e mi trovo quindi nella mortificante condizione di dover
deludere i miei agguerritissimi ascoltatori con la mia assoluta impossibilità non solo di esporre e
tantomeno proporre teorie, ma di sciorinare una qualsiasi cultura professionale sulla cosidetta “ar-
te del tradurre”» 1974, p. 21.
. -
Il ritmo è, dunque, sia ciò che «designa la forma nell’attimo in cui è assunta
da ciò che si muove, è mobile, fluido […] forma improvvisata, momentanea, mo-
42
Anzi: il ritmo è quell’elemento comune a ogni espressione artistica, «forse l’ultimo e-
lemento che appartiene al linguaggio di tutte le arti, in realtà di tutto ciò che vive, perché tutto ciò
che vive ha un ritmo», intervento di Enrico Girardi in 2006, p. 38.
43
È la concezione preplatonica, messa in luce da Émile Benveniste nel 1951 e poi ripresa
da Henry Meschonnic nella sua ormai decennale opera di poeta, traduttore e filosofo. Secondo Me-
schonnic il ritmo può essere definito come «l’organizzazione del movimento della parola attraverso
un soggetto». Meschonnic, come spiega Frasneri, «parte dall’assunzione che la lingua scritta è uno
degli aspetti estremi dell’oralità, cioè che la lingua scritta è anch’essa voce, fiato, respiro, pausa, ac-
cento, che è, per usare la sua definizione, “ritmo”. Ritmo come parola estremamente sfuggente, na-
turalmente, ritmo come complessità del fatto linguistico, dove insomma senso e suono vanno ine-
sorabilmente insieme e sono indistricabili l’uno dall’altro; non si comunica un senso senza una
precisa architettura di suoni, anche nel dettato della scrittura. [...] il testo scritto non è portatore di
un senso astratto; certo il senso astratto possiamo ricavarlo con le procedure che abbiamo a dispo-
sizione, ma è portatore di un senso che ha una vita, e quella vita è ciò che tentiamo di chiamare,
con un’espressione sintetica, ‘ritmo di un testo’», intervento di Fabrizio Frasnedi in 2006,
p. 38.
44
2006, p. 37.
45
1951, cit. in 2006, p. 38.
46
Anche Gian Luigi Beccaria sottolinea la duplicità del ritmo, che ha portato nel corso
del tempo a definizioni anche opposte tra loro: «Il significato di ritmo è almeno bivalente, poiché
racchiude da una parte un principio di ordine (la regolarità, la ripetizione nell’ordine di una succes-
sione temporale) e dall’altra un principio di movimento (poiché si applica a fenomeni colti nella
loro mobilità, nel loro processo di trasformazione continua; di qui la differenza sostanziale delle
definizioni, privilegianti or l’uno or l’altro polo», , p. 10.
47
Cit. in 2002, p. 9.
. -
La riflessione di Stravinskij può essere una buona sintesi tra ritmo come mi-
sura e ritmo come fluire, in quanto mette in evidenza che il ritmo inteso come or-
dine e il ritmo inteso come flusso non sono in opposizione, ma in continuo rap-
porto, entrambi presenti nell’opera d’arte che si ha davanti, sia essa una poesia, un
brano musicale o altro.49
Nella differenza delle due concezioni di ritmo, due aspetti mi sembra riman-
gano costanti: 1) il riferimento al movimento (tanto più importante per due arti
come la poesia e la musica che vivono attraverso il tempo), sia esso inteso come lo
scorrere eracliteo del fiume o come una regolarità più o meno periodica; 2) il fatto
che il ritmo determina il senso dell’opera, ovvero che, per usare le parole di Me-
schonnic «il ritmo è senso e dice qualcosa».
Allora, se il senso passa attraverso tutta l’opera, tutto il suo ritmo, nel mette-
re in musica una poesia che ha un suo ritmo, il problema diventa quello di tratte-
nere attraverso la musica, come attraverso la traduzione, nel nuovo ritmo il mo-
vimento originario; in altre parole occorre che il ritmo finale sia in analogia con
quello iniziale, ci sia un rapporto di corrispondenza. Come scrive ancora Caproni,
facendo sue parole d’altri:
48
1942, pp. 26-27.
49
Nell’esempio stravinskijano si può addirittura notare come il ritmo emerge più chia-
ramente quanto più il metro è chiaro, è l’ossessione di una regolarità che esalta la fantasia ritmica,
un po’ come avviene nella poesia di Pascoli.
50
1974, p. 28.
Sulla scia di Caproni il poeta Davide Rondoni così sintetizza il problema del
tradurre:
Sono osservazioni che possono essere utilizzate per questa eccezionale tradu-
zione poetico-musicale. Ovviamente, ma è giusto sottolinearlo, questo tentativo di
«salvare il movimento dell’opera», non può essere una passività da parte del musi-
cista; per questo è fondamentale il rapporto che il musicista instaura con la poesia
che ha davanti, il modo in cui è capace di «salvare il movimento dell’opera» con i
mezzi musicali a sua disposizione. Il risultato sarà tanto più elevato quanto più il
compositore saprà creare della musica vera di fronte a una poesia vera, ovvero da
un testo poetico di partenza creare un testo musicale di arrivo capace di vivere di
vita propria pur nella sua originaria dipendenza da ciò che lo precede e lo ha ispi-
rato. Come afferma ancora Rondoni nell’intervento citato:
51
Intervento di Davide Rondoni in 2006, pp. 48-49.
52
Ivi, p. 51.
. -
Allora, la sfida che l’intonare poesia non per musica genera ogni volta può
anche essere vista come una «tensione al senso» che passa attraverso i suoni che
abbracciano le parole: il senso non ha solo parole, ha anche suoni, ritmi, melodie —
musica.53
53
Tutte queste nozioni, forse ora troppo astratte, saranno molto più chiare osservando
ciò che i musicisti hanno fatto con Pascoli: si capisce quando un musicista ha salvato il movimento
della poesia (e, di conseguenza, ne ha fatto esperienza), quando vi si è cimentato riuscendoci però
solo in parte o quando ha deliberatamente forzato (per vari motivi) quel movimento.
.
C
he tra Otto e Novecento in Italia nella musica vocale da camera accada
qualcosa, è un fatto ormai acquisito in sede storiografica; che cosa
esattamente accada o, meglio, come questo cambiamento si declini nella
realtà musicale, è una questione che offre ancora larghi e affascinanti spazi di
indagine. Il fatto, in sintesi, consiste nella transizione dalla romanza da salotto di
fine Ottocento alla lirica da camera che si afferma all’inizio del Novecento. In che
cosa consiste effettivamente questa transizione? È un passaggio graduale tra i due
generi o una rottura radicale? Probabilmente entrambe le cose, anche se la
maggior parte degli studiosi che si sono occupati del fenomeno tendono a mettere
in evidenza più la rottura degli schemi tradizionali da parte di un gruppo di
musicisti considerati all’avanguardia, che tutte quelle zone grigie a cavallo dei due
secoli che hanno, in modo poco appariscente, portato alla lenta estinzione della
romanza.54 Tale schematizzazione è stata recentemente ben rilevata e criticamente
centrata da Adriana Guarnieri Corazzol:
54
Cfr. il capitolo Dalla Romanza alla lirica in ffl 1985, pp. 287-311. Per una
panoramica generale della romanza ottocentesca e della lirica del primo Novecento v.
1997.
55
G 2000, p. 311.
56
Cfr. infra, § 3.
57
G 2000, p. 312
.
Dunque, quasi come una necessità storica, scoppia, da parte di una nuova
generazione di musicisti, una guerra contro la romanza,60 da inserire in un ben più
58
P 1914a e P 1914b.
59
P 1914a, pp. 127-128. Purtroppo Parigi non scriverà l’esposizione promessa, e
anche la panoramica dei compositori di Lieder sarà limitata a Fauré (nella prima parte dell’articolo)
e a Duparc (nella seconda parte, P 1914b).
60
Solo in anni recenti assistiamo alla fine della guerra e a una riabilitazione della
romanza. L’opera probabilmente più importante è stata la pubblicazione nel 2002 di una serie di
saggi dedicati alla romanza italiana da salotto (nati principalmente dal convegno organizzato
dall’Istituto Nazionale Tostiano a Ortona nel 1996). Nel saggio introduttivo Francesco Sanvitale tra
l’altro scrive: «La disattenzione, se non il disprezzo, verso la romanza da salotto italiana data ormai
da molti decenni: le sue radici profonde e solide affondano in quelle posizioni della critica musicale
italiana del primo Novecento che, Ildebrando Pizzetti in testa, consideravano la romanza un genere
inferiore, senza alcuna pretesa artistica» ( 2002, p. 1); poco più avanti sottolinea come la
posizione espressa da Pizzetti e altri (come Parigi) sia stata sostanzialmente ideologica (anche se, in
quel periodo storico, «di una certa validità»). Questo è in parte vero, ma bisogna comunque stare
attenti a non sopravvalutare un genere che era, di fatto, anche nell’Ottocento, considerato un
genere minore (se non inferiore), seppur diffusissimo.
61
Non è questo il luogo per riproporre tutte le problematiche musicali, storiografiche e
culturali riguardanti la musica italiana tra e secolo, che sono comunque state tenute sempre
presenti nel corso del lavoro. Sottolineo solamente che i musicisti impegnati in questo
svecchiamento della cultura musicale italiana erano criticamente consapevoli del loro ruolo
(sebbene non criticamente obiettivi nei confronti di ciò che attaccavano) avvertendo un malessere
che non poteva essere solo musicale.
Adriano Lualdi nel suo libro Il rinnovamento musicale italiano sintetizza il pensiero di
molti musicisti attivi in quegli anni, esponendo forse per primo in modo sistematico le tappe di un
percorso evolutivo della musica italiana, che lentamente si sarebbe emancipata dal melodramma,
incamminandosi sulla via del rinnovamento. Nel far questo introduce una categoria storiografica
divenuta fondamentale nella musica del Novecento: quella di ‘generazione dell’Ottanta’. Proprio
all’inizio del libro propone una significativa diatriba tra Mascagni e Casella sulla musica
contemporanea: Mascagni afferma che «L’arte moderna degli ultimi anni sempre più offende gli
occhi e strazia le orecchie, e le giovani generazioni di ogni paese sono ormai abituate ad un
sentimento ed una comprensione entrambi contrari alla natura umana. […] Il dilagare del
novecentismo non è dovuto che al silenzio fatto intorno alla tradizione»; Casella replica:
«tradizione italiana si diceva da noi, e tuttora lo affermano non pochi individui, quella
melodrammatica, l’unico stile nostro quello del melodramma ottocentesco […] totale
annichilimento di ogni musica sinfonica e da camera […] ma già all’inizio del presente secolo si
faceva strada un’altra verità ben altrimenti importante: la coscienza cioè che la musica italiana
avesse radici assai più profonde, più remote che non il melodramma ottocentesco. […] non la
vittoria attuale dei novecentisti ma bensì quella strepitosa del melodramma fu fatta del silenzio
intorno alla tradizione». Lualdi così commenta: «1863 l’anziano; 1883 il giovane. Vent’anni appena
di differenza d’età, e il grande spazio di un secolo li divide; e uno parla in nome dell’ ’800, l’altro gli
risponde in nome del ’900; l’uno e l’altro, dei due secoli che assai bene rappresentano specialmente
.
P
roprio melodia è il termine che più ricorre come definizione della miriade
di brevi composizioni per voce e pianoforte che vedono la luce in questi
decenni, ancor più di romanza e dei tanti altri termini utilizzati per
definire un genere tanto omogeneo quanto frantumato nelle definizioni.62 Ma per
capire fino a che punto il culto della bella melodia fosse radicato nell’Italia di fine
Ottocento, può essere utile dare uno sguardo alla critica del tempo.
Caso esemplare è quello di Filippo Filippi, uno dei più importanti e
apprezzati critici del secolo, il quale si è occupato spesso di romanze. Nel 1877,
recensendo alcune nuove uscite per Ricordi, fa il punto della situazione,
delineando i connotati del genere. Dopo aver sottolineato che «l’indecisione è il
carattere dominante dell’attuale epoca artistica, tutta di transizione, in cui le
fisionomie sono poco accentuate» (eccetto Verdi, «il solo che domini sicuro»63)
afferma che
negli eccessi e nei difetti, informatissimi portavoce […] l’uno e l’altro appartenenti a mondi
spirituali profondamente diversi […] comprendono e conchiudono […] quasi tutto il dramma
evolutivo della musica contemporanea italiana: da quella dei nostri padri — la generazione del ’60 —
a quella nostra — la generazione dell’ ’80 e oltre», 1931, p. 3.
62
Melodia è la definizione che più ricorre in primis nelle composizioni simbolo della
romanza italiana di Tosti. Per una approfondimento sulla questione (tutt’altro che superficiale)
delle definizioni vedi P , Ballate, preghiere e stornelli. Titoli e generi della romanza da
Mercadante a Respighi, in 2002, pp. 5-54.
63
% 1877, p. 9.
64
Ibidem.
Il critico pone poi in evidenza ciò che può essere tranquillamente definito
un topos critico di tutte le discussioni sull’argomento, ovvero le differenze tra la
musica vocale da camera tedesca e quella italiana:
È per questi motivi che Filippi storce il naso di fronte a composizioni che
prendevano a modello il Lied tedesco e, quindi, non rispettavano la tradizione
italiana della melodia, come si può vedere in questa sua recensione ad alcune
liriche di Mancinelli pubblicata nel 1876:
65
% 1877, pp. 9-10.
.
Se tali giudizi possono apparire poco aperti alle influenze europee del canto
da camera (soprattutto perché scritte da un critico che lottava apertamente per la
sprovincializzazione musicale dell’Italia), Filippi, però, è ancor più severo con
l’ondata di compositori che (con risultati generalmente mediocri) si stavano
gettando a capofitto nel genere della romanza, salvo riconoscere il valore di quei
pochi che, come Tosti e altri, già allora erano considerati al di sopra della media:
66
% 1876, pp. 47-48.
67
% 1881, p. 47.
pei chiassi, di che s’infarciscono dei nostri genii in erba le più di queste
composizioni, le quali invece vorrebbero, invece nobiltà, cultura ed
eleganza di stile.68
68
1876, p. 25.
69
Fino a esagerazioni come queste: «Io vorrei, a parte la mia grande ammirazione pei
Lieder di Schubert e Schumann, che i nostri giovani compositori leggessero a preferenza le Soirées
musicali di Rossini. [...] e si persuadessero che nella musica da camera, tutto quello che si stacca da
questo tipo non è che esotico e di effimera o problematica durata. In una parola intendo di
denunziare, di mettere alla berlina questo preteso avvenirismo da qualche tempo sorto in Italia,
infiltrato anche nella musica da camera, che travia tante belle e giovani nostre intelligenze,
divenuto da qualche tempo il loro Corano, e che non è, nel fondo, se non lo scolatoio dove si
riversano le immondizie, gli impotenti conati di questi eunuchi musicali, che, sfacciati quanto
inetti, tentano di guastare la purezza, la nazionalità, dirò così, della nostra musica», 1882a.
70
Amore ben descritto da Vittorio Ricci: «un amore fittizio, di maniera, un amore di
princisbecco, coi soliti ritorni rettorici su di una morte tanto più invocata quanto meno
sinceramente bramata; coi più solidi sdilinquimenti per le labbra coralline, pei capelli biondi o neri
e per gli occhi bruni, azzurri, cilestri, di fata, di maga, di bambola; o, altrimenti con le eterne
romanticherie attorno ad una natura di cartapesta con la luna che brilla su l’onde o lo zeffir che
spira sul mare», 1917, pp. 495-496.
.
71
1997, p. 146.
72
Ecco un altro esempio (una recensione di Filippi a delle composizioni di Tessarini), tra
i tanti che si potrebbero riportare: «Ci sarebbe da discutere se i sei bellissimi pezzi contenuti
nell’Album appartengano veramente alla musica da camera ch’è fatta per musicisti, non c’è che
dire, ma anche per il gregge assai numeroso dei dilettanti. Il Tessarin non va certo per la comune,
non infila strofe con ritornelli: egli piuttosto tende all’ideale, al drammatico, e la sua musica è di
quelle che più si leggono e più si gustano. Trovo però che qualche volta l’elemento drammatico
soverchia e ci sono delle difficoltà di esecuzione e di interpretazione le quali ammiro in Roberto
Schumann, ma non vorrei vedere adottate dai nostri autori» % 1877, p 18.
Assai illuminante, poi, questa stroncatura che viene fatta a Rotoli quando osa mettere in
musica un famoso sonetto di Dante «La donna mia! Sonetto di Dante. Non c’e esempio di sonetto
riescito in musica. Ne conosco due o tre di autori celebrati che sono vere miserie. Al tempo di
Dante non esisteva arte musicale: vi manca quindi il colore dell’epoca; bisognava averne creato uno
se fosse stato possibile, ma a questo il Rotoli non ci ha pensato. Che il simpatico autore badi a me;
non s’attenti mai più di musicare sonetti», 1882. Evidentemente era successo quello che
Filippi aveva detto chiaramente: era venuto fuori «un mostro dalla testa grossa e dalle gambe
rachitiche».
tipiche e note del genere, ciò che cambia è il tono: non c’è più l’accettazione più o
meno totale (spesso, come si è visto, anche orgogliosamente e nazionalmente
esibita), ma l’insoddisfazione unita al desiderio che le cose cambino:
73
U 1888, p. 220.
.
Una cosa in cui mi sembra ancora regnare lo status quo, è la scelta dei
testi. Questi allora ed oggi sono in buona parte più che mediocri, alle
volte affatto meschini, ridicoli ed uniformi all’eccesso nel tema. Che
sotto tali circostanze la musica ne soffra, e che all’ispirazione vengano
rose l’ali, è naturale; una cattiva poesia non può ispirare il
compositore, ed egli o vi adatterà una melodia bell’e fatta, che forse
farò ai pugni colla poesia, o si troverà una melodia insignificante. Di
qui si spiegano anche certe ripetizioni del testo senza ombra di
ragione, e certi ah ed oh musicali, che invano si cercano nella poesia, e
che hanno solo lo scopo di adattare la musica nel letto di Procuste
della melodia alle volte troppo lunga. Se noi invece consultiamo le
opere di sommi autori di canzoni e ne leggiamo il testo, ci accorgiamo
che il compositore ci si è tanto immedesimato, che dalla poesia stessa è
74
Ibidem. L’articolo di Untersteiner è comunque un’eccezione: gli ultimi anni di vita
della «Gazzetta musicale di Milano» saranno caratterizzati da un livello critico sempre più basso e
le recensioni si ridurranno a promuovere le nuove pubblicazioni dell’editore Ricordi, facendo leva
su di un facile sentimentalismo decadente. Cito come esempio la ‘recensione’ di una romanza di
Enrico De Leva, Triste aprile: «L’ho qui sul leggio del mio vecchio Boisselot — e non so
distaccarmene... La notte di luglio è spossante — sto in mezzo a due finestre, ma le fiammelle delle
candele al pianoforte salgono in aria dritte, immobili, senza una oscillazione. O Enrico De Leva,
solo tu mi salvi dal suicidio stanotte... Poter sognare del mite aprile in questa notte d’inferno sarà
triste... ma è pure la dolcissima cosa... Ed io tutta m’abbandono all’onda molle della tua melodia,
tutta Schumanniana... e la prima frase larga, lunga, bellissima mi culla in una specie di letargo
dolce... e vorrei che non finisse mai... e tutta la fine tristezza del sapiente accompagnamento mi
popola la stanza di larve e fantasime perdute... E risogno, risogno... Ora che vedo la tua dolce
Romanza quasi palpitante di nuova vita ne’ tipi elegantissimi e puri di papà Ricordi — il mago
sapiente dell’arte musicale — ricorro col pensiero ad una fulgida sera dell’anno scorso, quando là, in
riva al mare azzurro di Portici la lanciammo al blando chiarore delle stelle — mentre le belle signore
teneramente illanguidite da canto soave mormoravano un coro di sommesse laudi...», 1891.
Altro appunto che dovrei fare a molte delle nuove canzoni — e che è
un’eredità antica — è la povertà dell’accompagnamento, che per lo più
non è che un semplice appoggio della voce e che segue pedestremente
la melodia.
Anche qui i sommi lirici ci hanno dati ammaestramenti ed esempi
insuperabili. Per loro l’accompagnamento non è cornice disadorna,
ma parte del quadro stesso, ed esso forma l’ambiente nel quale la cosa
principale — la voce — si muove ed agisce. Come il quadro
dall’ambiente prende vita e completa l’assieme, così la parte del
pianoforte inavvedutamente ci mette in quella disposizione d’animo,
produce e prepara quell’impressione che il pensiero della canzone
vuole, disponendo essa di mille e mille mezzi, che colle parole e colla
voce non si ponno esprimere, perché appartenenti a quelle indefinibili
sfumature di sensazione e di pensiero inesprimibili a parole.76
Non è improbabile che tali critiche siano state lette da Pizzetti vent’anni
dopo: si noti solo quanto sia simile all’espressione «vi adatterà una melodia bell’e
fatta» la definizione pizzettiana di «melodie preformate». Ma tutte le critiche che
Untersteiner muove alla romanza (forma stereotipata, sentimentalismo, scarso
valore poetico dei testi, accompagnamento insignificante) saranno variamente
riprese, in toni più o meno polemici, da tutti quei critici e musicisti (Pizzetti in
testa, ma non solo), che si adopereranno nel chiedere un cambiamento per creare
una nuova lirica italiana, artisticamente più elevata della romanza da salotto.
75
Ivi, p. 221.
76
Ibidem.
.
E
il cambiamento lentamente si fa strada: mentre continua a fluire il gran
fiume della melodia, si moltiplicano segnali, tentativi, piccole variazioni
che dicono di una sorgente sotterranea che cerca di venire alla luce. La
critica alle composizioni di Mancinelli del 1876 non è che un minimo segnale di
qualcosa che stava crescendo pian piano; dieci anni dopo Martucci compone il
poemetto lirico La canzone dei ricordi, ormai da tutti considerato il primo grande
segno di cambiamento nella lirica vocale italiana da camera, 77 poi ci saranno i
Canti lirici di Bossi a cavallo dei due secoli, e le composizioni di tanti altri
compositori, spesso minori ma con ruoli importanti nel contesto musicale
dell’epoca, 78 i quali daranno il loro contributo, chi nobilitando la romanza
dall’interno, chi sperimentando soluzioni nuove. Tutta questa novità non poteva
che passare attraverso scelte poetiche di più alto livello: non più (o non solo) versi
per musica dall’insipido sapore, ma poesia di poeti veri, i minori dell’Ottocento
(da Graf a Fogazzaro, da Lorenzo Stecchetti ad Ada Negri) e i grandi del passato
(da Giacomo Leopardi a Dante) e del presente (Giosuè Carducci, Giovanni
Pascoli, Gabriele d’Annunzio).
77
Il poemetto lirico di Martucci all’epoca fu accolto positivamente, pur nella sua novità,
che forse appare più evidente oggi che nel momento in cui fu pubblicato. All’epoca ciò che più
colpì fu la struttura generale del brano, concepita come un ciclo unitario nel quale ogni brano
trova la sua ragion d’essere nel rapporto con tutti gli altri e, quindi, tendenzialmente non ammette
un’esecuzione staccata delle singole composizioni; per questo un commentatore all’uscita del
poemetto scriveva che «nelle sue piccole proporzioni, è il primo lavoro di questo genere che si sia
fatto in Italia», salvo poi affermare che qualche brano «potrebbe anche eseguirsi da solo»
(osservazione che non fa che rimarcare la novità dell’opera di Martucci). Per approfondimenti su
questa importante composizione si vedano due saggi usciti recentemente: 2005 e
2007.
78
Concertisti, direttori d’orchestra, docenti di conservatorio, musicologi, una vasta
gamma di personalità insomma, i cui nomi si ritrovano anche tra i compositori che hanno messo
in musica Pascoli.
79
1897a, pp. 550-551.
.
Ancora una volta si rimane affascinati dai modelli stranieri (Lied tedesco e
mélodie francese), ma appare evidente come non sia possibile trasferire tali modelli
sic et simpliciter nella tradizione vocale da camera italiana, che ha una sua identità
ben precisa (sintetizzabile nel predominio del canto, in qualunque forma lo si
voglia concepire) alla quale non si vuole comunque rinunciare. Se, dunque, si è
tanto severi con l’importazione del Lied, i tratti generali della nuova lirica da
camera europea (così come sono stati esposti, per esempio, da Guglielmo Mauke
nel 1900)81 fanno ancora più fatica a penetrare.
80
1898, pp. 408-409.
81
Guglielmo Mauke pubblica sulla «Rivista musicale italiana» un articolo in due parti
( 1900 e 1901), nel quale traccia un profilo del Lied tedesco contemporaneo e
definisce le caratteristiche generali della nuova lirica europea (che lui chiama nell’articolo «nuova
romanza»): egli considera la lirica come «una emanazione diretta del sentimento, puramente
soggettiva, e racchiusa in una forma d’arte libera [...] la forma, qualunque essa sia, della romanza
non costituisce il dato più essenziale, più o meno sicuro, poiché essa rappresenta il mutevole
riflesso musicale dell’espressione poetica» ( 1900, pp. 354-355). Resta però il problema di
dare unità a questo organismo musicale senza forma, problema che Mauke vede risolto nel
«realizzare, infrangendo la tradizionale “forma chiusa” della romanza, l’intima unità organica della
sua romanza, mediante un motivo pianistico od orchestrale che sia molto fecondo, duttile e
suscettibile di modificazioni, e caratterizzi l’ispirazione fondamentale della poesia: questo motivo
deve seguire passo passo e colorire le singole fasi della declamazione. Quest’ultima, sulle tracce di
questa “guida” dell’espressione, può benissimo essere un discorso elevato dalla passione artistica,
senza che occorra per questo infrangere l’andamento della melodia (ivi, pp. 355-356)». Infine «nella
nuova romanza il canto non è più sorretto da un “accompagnamento” subordinato, ma viene bensì
elevato a più completa espressione artistica, mediante una parte per pianoforte che ha ugual valore
e che talvolta si eleva ad una ricca fioritura polifonica, questo senza soffocare «la parte del canto
con un’illustrazione troppo “pianistica” e pesante del pianoforte» (ivi, p. 356). L’articolo prosegue
poi con riflessioni palesemente di stampo mistico-decadente — «la poesia, nella quale vibri un
Così il primo decennio del secolo in Italia vede musicisti e critici muoversi
come davanti ad un fiume che si vorrebbe oltrepassare, ma di cui non si riesce a
trovare il guado. Una percezione critica più decisa di un cambiamento in atto lo
sia ha in modo evidente solo nel 1914, con il noto articolo La lirica vocale da camera
di Ildebrando Pizzetti, uscito nelle pagine de «Il marzocco». 82 Vale la pena
riprendere brevemente i punti fondamentali dell’articolo (certamente molto più
noto rispetto a quello già citato del 1908, ma che di quest’ultimo è la prosecuzione
e il completamento) in quanto sintesi di un pensiero diffuso, articolo che se non
risparmia critiche alla romanza tradizionale, pone però in luce tutte le perplessità
di fronte a qualcosa che sta nascendo e non ha ancora una sua precisa identità.
Ecco il celebre attacco:
profondo e puro sentimento di unità, nella quale un sentimento personale venga espresso con
densità di pensiero e con parole più che sia possibile astratte, ma con una plastica sensibile e avente
un’azione direttamente associativa, questa poesia spingerà colla massima energia il lirico musicale
ad approfondire sempre più coi mezzi dell’arte sua tutti gli stati d’animo, tutti i sentimenti, tutte le
basi mistiche della sensazione. Da un tale legame sensitivo tra la finezza di sentimento del poeta e
quella del musico non può certamente derivare un’arte popolare, ma solo un’intima “arte per
l’arte” [...] le nuove romanze d’ispirazione devono produrre su di noi l’effetto, ci si permetta la
metafora, di una cristallizzazione sonora dell’anima, anzi di una rivelazione», (ivi, p. 358) — per poi
tracciare un profilo dei principali compositori di nuove romanze in Germania.
82
Forse non è stato messo in evidenza come si dovrebbe il fatto che Pizzetti pubblichi
questo importante articolo nella celebre rivista fiorentina fondata e diretta da Angiolo Orvieto,
rivista che (assieme a «Il Convito» di De Bosis) si è fatta portavoce di una parte significativa del
Decadentismo italiano. Se il nome più noto e influente che si trova dietro tali riviste è quello di
d’Annunzio, non si può non ricordare che anche Pascoli in quelle pagine pubblicò le sue più
importanti poesie, e che un critico come Angelo Gargano (il primo grande critico pascoliano)
sottolineò – anticipando di anni e in polemica con i principali critici letterari del tempo, in primis
Benedetto Croce — il simbolismo del linguaggio pascoliano. Inoltre, non mi sembra un caso che tra
i collaboratori del «Marzocco», ci fosse anche Alfredo Untersteiner, che, come si è visto, già alla
fine dell’Ottocento aveva anticipato le note critiche alla romanza ottocentesca.
.
83
P 1921, pp. 165-167.
84
Comunque Pizzetti esagera nel dire che gli operisti non se occupavano neanche di
tanto in tanto: certo la quantità delle romanze di Verdi, Puccini, Mascagni e degli altri operisti non
è paragonabile a quella degli specialisti del genere, ma qualitativamente queste composizioni hanno
un peso non trascurabile.
85
P 1921, p. 167.
86
Ivi, p. 168.
87
Ivi, p. 168-169.
.
della poesia passo passo, parola per parola. Onde la assenza di larghi
periodi svolti e ritmati secondo la forza germinale di un tema, onde la
continua fratturazione dei temi e delle armonie, onde la frequenza
delle modulazioni, e la grande varietà dei ritmi. Il musicista, ben lo
sentiamo, ha veramente compreso e tentato di rendere il senso e il
significato di ogni parola del testo poetico.88
si direbbe, talvolta, che le parole sian state messe lì soltanto per evitare
all’ascoltatore di smarrirsi in una erronea interpretazione della parte
strumentale [...] e le note che ad esse sono sovrapposte si direbbero
non generate da una necessità di espressione, ma imposte al musicista
dal tessuto strumentale, fra le quattro o cinque costitutive di ogni
accordo, indipendentemente da ogni intento di vera profonda
espressione sentimentale. [...] Le musiche per canto e pianoforte dei
compositori modernissimi [...] non sanno poi offrirci l’espressione di
alcun vero profondo sentimento di umanità. Hanno, recano, un
contenuto straordinariamente ricco di impressioni acute, squisite, ma
sono, d’altra parte, straordinariamente povere di quella profonda
intima vita sentimentale che se davvero esistesse non potrebbe non
essere espressa (in musiche per canto e pianoforte) dal canto, dalla
intonazione musicale delle parole.89
88
Ivi, p. 169.
89
Ivi, p. 170.
90
Zanetti, per esempio, mette in evidenza soprattutto la descrizione della nuova lirica,
mettendo in nota la conclusione dell’articolo, come qualcosa di marginale.
91
P 1921, pp. 171-172.
.
[...] ma sento che nel campo della musica da camera le forme liriche
possono essere, continuare ad essere, potentemente espressive, e
sempre vive, e sempre belle.92
Alla fine, dunque, la nuova strada per mettere in musica poesia non per
musica, in Italia, passa ancora principalmente attraverso il canto, canto non più
concepito come melodia ma il più delle volte come intenso ed espressivo
declamato; canto accompagnato da una parte strumentale (nella maggior parte dei
casi un accompagnamento pianistico) che non è più una comparsa senza volto,
ma ha una sua identità ben precisa, spesso sintetizzata in un tema o un motivo
capace di riassumere, evocare il sentimento generale della poesia. 93 Tale
accompagnamento non deve dunque sostituire il canto, ma esaltarlo, partecipare
all’espressione della poesia, ma senza soffocare la voce. È un equilibrio che non
sempre è stato raggiunto, ma sembra il punto a cui la lirica italiana tende.
92
P 1921, p. 172.
93
Tali caratteristiche della lirica sono stata rilevate fin dall’inizio, come si può vedere
nell’articolo che Guido M. Gatti dedica alle prime importanti affermazioni di Pizzetti nel genere
(Cinque liriche e Due liriche drammatiche napoletane). A proposito de I pastori, ad esempio, scrive:
«Tutta la composizione si impianta su quella ch’è veramente la sostanza, la carne viva del
linguaggio musicale: sul tema. [...] Ma per quanto vario possa esser e potente il tema, quella che
dona la liricità alla composizione è la parte vocale» (G 1919, p. 197). Nell’articolo, prima
riassume (e chiarisce) il ciò che già Pizzetti aveva scritto nell’articolo del 1914, e poi fa un’analisi
delle liriche pizzettiane, nelle quali vede (soprattutto nelle Cinque liriche) il modello della moderna
lirica da camera italiana.
Mi sembra comunque giusto segnalare che l’entusiasmo di Gatti per le liriche pizzettiane
(e per la lirica in generale), non era condiviso da tutti: solo due anni prima la stessa «Rivista
Musicale Italiana» pubblica una breve recensione alle Cinque liriche sostanzialmente negativa:
«rinunciando alla comune forma della romanza il compositore tende all’arte degli impressionisti:
riduce il canto a semplice declamazione e nell’accompagnamento coll’uso costante di certe
figurazioni cerca il colore particolare d’ogni lirica: e fino a un certo punto l’ottiene. Coll’uso di
tonalità insolite, bruschi passaggi d’armonie e anche un po’ di licenza nelle quinte consecutive egli
tenta farsi una maschera originale; ma lo sforzo, che l’artista non riesce a nascondere, attenua
l’impressione complessiva: assai più gioverebbe una più sicura affermazione di pensiero nella
melodia e nella tonalità e anche quella freschezza di getto che subito avvince l’uditore» (.
P 1917). È l’ennesima testimonianza di un difficile cammino.
94
Il quale quasi subito — almeno da Il clefta prigione, se non già nascostamente ne I
pastori — vira su di una lirica drammatica (cfr. ancora G 1919).
.
P
L
e intonazioni di poesie di Pascoli tra Otto e Novecento95 non possono che
presentarsi come un luogo privilegiato per verificare sul campo cosa si-
gnifichi mettere in musica poesia non per musica e, di pari passo, seguire
il percorso compiuto dalla nuova lirica italiana. Come ha scritto Zanetti, questo è
un periodo di
Una ricerca che appare un po’ velleitaria, senza grossi risultati, in quanto,
come scrive ancora Zanetti,
95
Per l’esattezza l’arco cronologico da me scelto va dal 1877 (data della prima composi-
zione su testo di Pascoli a me nota) alla fine degli anni ’10, cioè al periodo in cui si ha la prima e
più importante affermazione della lirica da camera in Italia.
96
ffl 1985, pp. 294-295.
Le mancanze segnalate da Zanetti possono anche essere lette come una for-
mulazione più consapevole del bisogno di vera poesia espresso polemicamente da
Pizzetti nel 1908. Ma è stato proprio così? È proprio mancata un’assonanza tra po-
eti e musicisti o anche in Italia si è verificato qualcosa di simile a quello che acca-
deva in Francia? Forse andare a vedere il rapporto che i musicisti tra Otto e Nove-
cento hanno avuto con la poesia di Pascoli può aiutare a capire meglio e magari
scoprire (senza volere per forza paragoni con il caso francese — certo non trovere-
mo un Debussy che musica Baudelaire — o equiparare i due contesti) che le ecce-
zioni alle illusioni e delusioni (effettivamente presenti) sono più di quanto si possa
immaginare.
Le composizioni su testo di Pascoli, per avere uno sguardo il più ampio possibile,
sono state catalogate secondo diversi criteri:98 1) ordine cronologico di composi-
zione; 2) suddivisione delle composizioni per autore, con tutte le indicazioni bi-
bliografiche che sono riuscito a reperire per ogni brano; 3) suddivisione delle
composizioni secondo la raccolta poetica pascoliana di appartenenza del testo
poetico intonato.
97
Ivi, p. 295.
98
Ho effettuato le ricerche su vari fronti: principali cataloghi on-line; cataloghi cartacei
di alcune importanti biblioteche (in particolare: Conservatorio di Milano, Biblioteca Nazionale
Braidense, Biblioteca Comunale Sormani di Milano); dizionari ed enciclopedie musicali, studi mo-
nografici su compositori; archivi privati.
. P
1903 , Il rosicchiolo
99
Nei casi in cui non mi è stato possibile risalire alla data di composizione ho indicato la
data di pubblicazione, segnalandola con un asterisco vicino al brano musicale.
100
Le datazioni delle composizioni di Zandonai sono tratte da 1999.
101
Le datazioni delle composizioni di Domenico Alaleona sono tratte da 1980.
102
Mi è stato impossibile datare con esattezza questa composizione, pubblicata come
«dono agli abbonati del Mondo artistico». Considerando che Sibella nasce nel 1880 e la rivista ter-
mina le sue pubblicazioni nel 1914, credo il brano si possa comunque inserire negli anni ’10.
. P
, Orfano
, Speranze e memorie
G , Aprile*
, Mare*
, Fides*
, Nebbia
, Nebbia
G ,103 Il sogno della vergine
1914 P , Fiocca al neve*
, Notte104
, Pianto
, Lavandare
, Ninna-Nanna*
, Alba festiva*
, Saffica*
ⁿ, Fra il dolore e la gioia*
, Fides*
P G P, Lontana*
1915 P , Paranzelle*
G P, Alba festiva105
, Speranze e memorie
, Il santuario
, Il bove
, Vagito
, La baia tranquilla
103
Le datazioni delle composizioni di Fano sono tratte dal sito dell’Archivio Guido Al-
berto Fano: www.archiviomusicaleguidoalbertofano.it.
104
La datazione delle composizioni di Fornarini è posta tra parentesi alla fine
dell’edizione a stampa: «Buenos Aires, ».
105 Nell’edizione a stampa, in calce ad ogni composizione, sono riportate le date di
composizione di ciascun brano: 2 febbraio 1915: Alba festiva; 3 febbraio 1915: Speranze e memorie; 9
febbraio 1915: Il santuario; 16 febbraio 1915: Il bove; 24 febbraio 1915: Vagito; 27 aprile 1915: La baia
tranquilla.
, Espressioni melodiche. Quattro Myri-
cae, Roma: Musica, [1911]; ripubblicate con un ordine leg-
germente diverso in c.
1. Notte di neve; 2. Nevicata; 3. Alba festiva; 4. Notte doloro-
sa.107
a , Melodie pascoliane. 108 Creature, Tre
canti per una voce e pianoforte, Milano: Ricordi, 1920.
1. Morto; 2. Orfano; 3. Fides.
106
Ho riportato il numero maggiore di informazioni possibili sui brani musicali: tutti i
manoscritti e le edizioni a stampa di cui sono venuto a conoscenza; per le edizioni più rare e i ma-
noscritti ho segnalato anche la collocazione della copia consultata (o semplicemente segnalata
quando non mi è stato possibile consultarla), utilizzando le sigle Rism (I-Fn, Biblioteca Nazionale
di Firenze; I-Mc, Biblioteca del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano; I-Mcom, Biblioteca co-
munale di Milano; I-Nc, Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli; I-PESc, Biblio-
teca del Conservatorio Gioacchino Rossini di Pesaro; I-VIc, Biblioteca del Conservatorio Arrigo
Pedrollo di Vicenza).
107
Di queste quattro composizioni esistono anche altre versioni: una versione per coro
femminile a due voci e orchestra, e una (solo per Notte di neve e Alba festiva) per coro femminile a
due voci, quintetto d’archi e arpa (cfr. ffl 1980, pp. 42-43)
108
Già nel 1914 su «Dissonanza» si annunciava la pubblicazione di alcune di queste liri-
che (vol. 2: «Nei prossimi fascicoli pubblicheremo, fra l’altro, quattro liriche pascoliane di Dome-
nico Alaleona; vol. 3: « Il quarto fascicolo che uscirà fra pochi giorni conterrà alcune liriche di Do-
menico Alaleona»), pubblicazione che non avvenne mai, in quanto il periodico non andò oltre il
terzo numero. La pubblicazione di tutte le melodie pascoliane fu fatta da Ricordi tra il 1920 e il
1923. Alcune Melodie inoltre (è segnalato in ffl 1980 in modo incompleto) furono pubblicate
su alcune riviste musicali: Orfano, «Harmonia», 1914; Speranze e memorie, «L’Eroica», 1913; Fides,
Mare, Il nunzio, Notte di vento, «Dissonanze».
Segnalo, infine, altri due brani di Alaleona su testo di Pascoli, del 1925: A Roma eterna
(dall’Inno a Roma), per coro di voci bianche e orchestra; Ninna nanna di Natale, nelle versioni per
due solisti e pianoforte (o archi) e per coro misto a cappella (cfr. ffl 1980, pp. 38, 60).
Tutte le Melodie pascoliane nell’edizione Ricordi sono consultabili in I-Mcom.
109
Nel catalogo delle opere presente in ffl 1980, i Canti di neve e di primavera non
figurano assieme alle Melodie pascoliane. Le Melodie raccolgono solo le composizioni per una voce
e sono catalogate come op. 22, mentre i Canti sono catalogati come op. 7. Il numero d’opera non è
assolutamente di Alaleona, ma è stato inserito dal curatore del catalogo delle opere, elencate in or-
dine alfabetico.
110
Le ultime tre Melodie dovrebbero costituire anch’esse un ciclo unico, ma più generico
dei precedenti e denominato in ffl 1980 semplicemente Tre canti. Ricordi, credo giustamen-
te, pubblica i tre brani separatamente. Di questi Tre canti esiste anche una versione per voce e or-
chestra.
111
Il fumo e la neve, come scritto nello spartito, è una «poesia inedita, dono gentile al mu-
sicista della signorina Bice Paoli, per cui il poeta la scrisse».
. P
G
G , Impressioni musicali, Tre cori per voce di
donna con accompagnamento di pianoforte op. 17, Milano-
Leipzig: Carisch & Jänichen, 1913.112
1. Aprile; 2. Mare; 3. Fides.
, Nebbia, aria per una voce con accompa-
gnamento d'Orchestra, ms., 1913.
, Nebbia, riduzione per canto e pianoforte,
ms., 1913.113
. , Myricae, 6 liriche su versi di Giovanni Pascoli,
Milano: Casa Editrice Musicale Italiana, 1908.114
1. Ecco Mariù; 2. Fides; 3. Con gli angioli; 4. Pianto; 5. Notte do-
lorosa; 6. Temporale.
. , Nell’anno mille (Im Jahre tausend), leggenda
medievale in tre quadri e prologo, su visione di Giovanni Pa-
scoli e versi di Luigi Orsini, op. , spartito per canto e pia-
112
Copia consultata in I-Mc.
113
Le due versioni di questa composizione si trovano in I-Nc, non mi è stato possibile
consultarle.
114
Copia consultata in I-VIc.
, Nebbia, per canto e orchestra, ms., 1913.115
G
G , O rondinella nata in alto mare, Vil-
lanella, Firenze: G. Soja, s. d.116
P
P , Fiocca la neve, Bologna: Bongiovanni, 1914.
P , Cinque liriche (IIa serie), Bologna: Bongio-
vanni, 1915. 1.
Paranzelle.117
ff
115
Questa composizione si trova in I-Nc, non mi è stato possibile consultarla.
116
Copia consultata in I-Fn.
117
Le altre composizioni sono: 2. Notte d’estate, poesia di Vittoria Aganoor Pompilj; 3.
Presso una fontana, poesia di Alessandro Costa; 4. Paesaggio, poesia di Vittoria Aganoor Pompilj; 5.
A una rosa, poesia di Agostina Pietrafesa Mendicini.
. P
, Miricae, per canto e piano, Buenos Ai-
res: David Poggi é Hijo, s. d. [ma 1914].120
1. Notte; 2. Pianto; 3. Lavandare.
G
G G, Ventiquattro melodie per canto e pianofor-
te, Bologna: Bongiovanni, 1906.
8. Orfano; 9. Sera Festiva; 10. Con gli angioli; 11. Pianto; 22. Ab-
bandonato; 24. Notte.121
118
Le composizioni di Guido Alberto Fano mi sono state gentilmente messe a disposizio-
ne dall’Archivio Guido Alberto Fano, nella persona del dott. Vitale Fano, che ringrazio per la sua
disponibilità.
119
L’altra composizione è 1. Lungi lungi, poesia di Giosuè Carducci, dal Lyrische Inter-
mezzo Auf Flügeln des Gesanges di Heinrich Heine.
120
Copia consultata in I-Fn.
121
Le altre composizioni sono: 1. Lungi lungi, poesia di Giosuè Carducci; 2. La tua mano
mi posa…, poesia di Annie Vivanti; 3. Domani vado via, poesia di Antonio Fogazzaro; 4. Splende il
sole, poesia di Antonio Fogazzaro; 5. Io sono stanca, poesia di Annie Vivanti; 6. Similitudine, poesia
di Enrico Panzacchi; 7. Ho pianto in sogno, poesia di Antonio Fogazzaro; 12. Lai, poesia di Gabriele
G G, Dodici nuove melodie per canto e pianofor-
te, Bologna, Bongiovanni, 1911.
3. Vagito; 7. Alba Festiva; 8. Morto.
G G, Liriche, Milano: Ricordi, 1919.
1. Mamma e bimba; 2. Alba dolorosa.122
, Sussurrano le mille aure del bosco,
ms. [1877], pubblicato in «Il Corriere Musicale dei Piccoli»,
1 marzo 1925.
d’Annunzio; 13. Miranda, poesia di Antonio Fogazzaro; 14. Selva e mare, poesia di Angiolo Orvieto;
15. Minuetto, poesia di Enrico Golisciani; 16. La lavandaia di San Giovanni, poesia di Giosuè Car-
ducci; 17. La figlia del Re degli Elfi, poesia di Giosuè Carducci; 18. Olaf, il Vecchio re…, poesia di En-
rico Panzacchi; 19. Spes, ultima dea, poesia di Lorenzo Stecchetti; 20. Ultima rosa, poesia di Antonio
Fogazzaro; 21. Aprile, poesia di Angiolo Orvieto; 23. Serenata, poesia di Lorenzo Stecchetti.
122
Le altre composizioni sono: 3. Il tamburino di Macdonald, poesia di Antonio Fogazza-
ro; 4. La rondine degli scogli, poesia di Antonio Fogazzaro; 5. Sal y pimenta, poesia di Gabriele
d’Annunzio; 6. Rondò, poesia di Gabriele d’Annunzio; 7. Rondò pastorale, poesia di Gabriele
d’Annunzio; 8. Eliana, poesia di Gabriele d’Annunzio; 9. Il cavaliere della morte, poesia di Gabriele
d’Annunzio; 10. Rosa morente, poesia di Arturo Graf; 11. Fonte romantico, poesia di Arturo Graf; 12.
La vela, poesia di Arturo Graf.
123
Le altre composizioni sono: 3. Canzone d’oriente, poesia di Giovanni Prati; 4. Sogno
dell’alba, poesia di Antonio Rubino; 5. Ballatetta, poesia di Antonio Rubino; 6. Soglia d’oblio, poe-
sia di Antonio Rubino.
. P
P
, Il sogno di Rosetta, ms.
ⁿ
ⁿ ⁿ, Dalle Myricae di Giovanni Pascoli, op. 2,
Trieste: Schmidl, 1914.
1. Fra il dolore e la gioia; 2. Fides.
G P
P G P, Liriche e ballate (Carducci — Pascoli), To-
rino: Società Tipografico-Editrice Nazionale, 1917.
10. Alba festiva; 11. Speranze e memorie; 12. Il santuario; 13. Il
bove; 14. Vagito; 15. La baia tranquilla.125
P
P a P, Fides, romanza per canto e pianoforte, Fi-
renze: Forlivesi, 1906.
b
P P, Speranze e memorie, duetto per soprano e
contralto con accompagnamento di pianoforte, Firenze: For-
livesi, 1906.
P P, Getta l’ancora amor mio, duetto per sopra-
no e tenore con accompagnamento di pianoforte, Firenze:
Forlivesi, 1907.
P P, Con gli angioli, romanza per canto e piano-
forte, Firenze: Forlivesi, s. d.
126
Copia consultata in I-Fn.
Le altre composizioni sono: 1. Adorazione; 2. Uccello e cuore; 3. Serenata; 4. La sunamite;
5. I diavoli bianchi; 6. Il soldato; 7. Alle rondini; 8. Ne parle pas; 10. Desiderio.
127
La mia datazione si basa sull’edizione di Myricae indicata sul frontespizio delle due li-
riche, la 12°, pubblicata nel 1919; poiché la 13° edizione fu pubblicata nel 1920, la pubblicazione delle
due composizioni di Ravesenga non può che essere avvenuta entro questi due anni. I due spartiti
da me consultati sono conservati presso I-Mc.
. P
, Il brivido, Milano: Ricordi, 1916.128
, Romanze per canto con accompagnamento di
pianoforte, Milano: Carisch & Jänichen, 1912.
Notte di vento.
, Tre liriche [1919], Milano: Ricordi, 1920.129
1. La mia sera; 2. Ultimo canto; 3. Con gli angioli.
G
, Liriche (dal Primo intermezzo lirico) per canto e
pianoforte, Milano: Ricordi, 1922.130
1. Morto; 2. Scalpitio; 3. Orfano; 5. Notte di vento.
ff
ff ff, Due melodie, Firenze: Forlivesi, 1900.
1. Sogno; 2. Tristezze.
128
Copia consultata in I-Mc.
129
Copia consultata in I-Fn.
130
Copia consultata in I-VIc.
ffl
ffl ffl, Il rosicchiolo [1903] in «La lettura», ri-
vista mensile del «Corriere della sera», , 12, dicembre
1933, pp. 1084-1087.
ffl ffl, Melodie per canto e pianoforte, Milano:
Ricordi, 1913.131
5. Lontana; 6. L’assiuolo.132
ffl ffl, Liriche per canto e pianoforte, Bologna:
Pizzi, 1920.
1. Mistero; 2. Notte di vento.133
ffl a ffl, Il ritorno di Odisseo, ms.134
ffl b ffl, Il sogno di Rosetta, ms.135
131
Gli spartiti delle liriche e delle Melodie da me consultati sono conservati in I-VIc. Die-
go Cescotti per le Melodie da notizia di un’edizione precedente: Melodie per canto e pianoforte, Mi-
lano: Associazione Italiana di Amici della Musica, s.d. [1907], 1999, pp. 374-375.
132
Le altre composizioni sono: 1. Visione invernale, poesia di Rocco Pagliara; 2. Ultima ro-
sa, poesia di Antonio Fogazzaro; 3. I due tarli, poesia di M. Mildmay; 4. Serenata, poesia di Grazia
Deledda.
133
Le altre composizioni sono: 3. Mistica, poesia di Ada Negri; 4. Portami via, poesia di
Ada Negri; 5. Sotto il ciel, poesia di Vittoria Aganoor Pompilj; 6. La Serenata, poesia di Vittoria A-
ganoor Pompilj.
134
Il ms. si trova in I-PESc.
135
Il ms. si trova nella la biblioteca civica di Rovereto.
. P
Myricae
Primi poemetti
Canti di Castelvecchio
Poemi conviviali
Odi e inni
Poesie varie
136
Dapprima pubblicata nel racconto La befana, con alcune varianti; la versione di Gan-
dino riprende quella di Poesie sparse, con un cambiamento significativo negli ultimi versi.
137
Nello spartito si indica Myricae, così come il titolo generale della raccolta.
L’
interesse dei musicisti verso Pascoli è stato praticamente costante a
partire dagli ultimi anni del ’9oo, cioè dal momento in cui il poeta co-
mincia a diventare noto.138 Nell’arco di venticinque anni si contano po-
co più di novanta composizioni, anche se più della metà è concentrata negli anni
‘10 (con un incremento notevole al momento della morte del poeta). Si tratta di
un corpus abbastanza consistente, che comprende soprattutto brani per canto e
pianoforte di diversa natura (romanze, liriche e tanti brani a metà strada tra i due
generi) e alcune composizioni per un organico più ampio (solitamente voci, coro e
orchestra).
Un analisi nel dettaglio di ogni composizione non è ovviamente possibile:
farò prima alcune osservazioni di carattere generale sulle scelte poetiche, per poi
soffermarmi sui musicisti più importanti e, infine, nel capitolo successivo, analiz-
zare nel dettaglio alcune tra le intonazioni più significative (in sé stesse e per i vari
problemi emersi nel corso del lavoro).
A livello generale sono quattro gli aspetti che vorrei mettere in evidenza. Il primo
(che ho già anticipato e che emerge chiaramente anche solo scorrendo velocemen-
te gli elenchi precedenti) è la predominanza delle composizioni per canto e piano-
forte.139
138
Unica precoce eccezione è quella di Leoncavallo, il quale mette in musica un testo gio-
vanile del poeta nel 1877. Il brano è affettuosamente ricordato da Maria Pascoli nelle sue memorie:
«Delle poesie di questo tempo [1877-79], egli ricordava soltanto quella Nel bosco perché era stata
musicata dal maestro Leoncavallo, il quale frequentava con gli altri amici suoi il ritrovo carduccia-
no. La musica melodiosa e sentimentale gli era rimasta nell’orecchio e talvolta con la sua dolce voce
la cantarellava sommessamente unita alle parole di qualche strofa.», . P 1961, p. 87.
139
Tale predominanza, pur senza rinunciare ad alcuni accenni ai brani con un organico
diverso, mi ha portato alla scelta di mettere a fuoco solo queste composizioni, con l’intenzione co-
munque di un futuro approfondimento delle ‘eccezioni’ alla regola, che sono in ogni caso musi-
calmente molto rilevanti (come la cantata per baritono, coro e orchestra Il cieco di Marco Enrico
. P
Bossi o il poema per voce e orchestra La mia sera di Guido Alberto Fano). Meno interessanti musi-
calmente, ma comunque importanti le composizioni orchestrali giovanili di Zandonai: Il sogno di
Rosetta e Il ritorno di Odisseo, nelle quali il musicista mette in musica i due testi che, poi inclusi in
Odi e Inni, erano stati ideati da Pascoli per essere messi in musica. A proposito de Il ritorno, nelle
note a questa raccolta poetica Pascoli fa un’interessante osservazione: «Questo poemetto epico-
lirico, che io chiamai già, come il seguente [Il sogno di Rosetta], episodio, e anche cantata, fu musi-
cato dal giovane egregio Riccardo Zandonai, Trentino, allievo di Pietro Mascagni. Le parti narrati-
ve sono interpretate, secondo la mia intenzione, dall’orchestra». Il Sogni di Rosetta, invece, come
scrive ancora Pascoli, «fu musicato dal maestro Carlo Mussinelli di Spezia, un cieco veggente; ed
eseguito molto bene a Barga».
Liuzzi e Fano (la cui breve produzione musicale pascoliana è molto particolare, in
quanto è l’unico a mettere in musica esclusivamente poesie tratte dai Canti di Ca-
stelvecchio e a scrivere un vero e proprio poemetto, Il sogno della vergine).
Uno sguardo più approfondito alle scelte poetiche dei musicisti, alle loro
preferenze iniziali, fa emerge chiaramente il quarto punto: i due terzi delle poesie
messe in musica sono tratte da Myricae; all’interno di questo libro, poi, ci sono
una serie di poesie (e di sezioni poetiche) che ritornano più frequentemente tra le
preferenze dei musicisti.
Quali sono le ragioni di una preferenza così forte? Sicuramente la predomi-
nanza di poesie tratte da Myricae fa eco ad un giudizio critico che per molto tempo
ha identificato Pascoli quasi esclusivamente con la sua prima opera, complice il già
citato giudizio di Benedetto Croce; ma certamente hanno influito anche la brevità
delle poesie, la presenza di strutture (apparentemente) più regolari, di immagini e
contenuti (apparentemente) più immediati, semplici. Dunque, ciò che in queste
intonazioni sembra prevalere è il poeta delle umili cose, dell’infanzia infelice di
Creature o delle varie notti dolorose e nevose di Tristezze. Ma la questione è
tutt’altro che risolvibile così semplicemente, perché, se solo si affonda lo sguardo
appena sotto la superficie (ma anche se si guarda bene in superficie), appare evi-
dente che i risultati musicali vanno oltre queste risposte (tutte pertinenti): innan-
zitutto si può notare come siano poche le poesie meramente sentimentali che ven-
gono messe in musica (penso a poesie come Pianto o Con gli angioli); in secondo
luogo non bisogna mai dimenticare che nelle umili cose Pascoli cercava pur sem-
pre un grande mistero; infine bisogna sempre tener presenti le ambiguità della po-
esia pascoliana a cui si è già accennato, ambiguità di contenuto e di forma (ma for-
se mai come in Pascoli le due cose sono l’uno lo specchio dell’altra), che inevita-
bilmente influiscono sul lavoro del musicista, ne sia più o meno consapevole, sulla
struttura musicale come sul significato complessivo dell’intonazione musicale; in
altre parole, l’inquietudine di questa poesia non può non generare
un’inquietudine anche musicale (di forma e contenuto), inquietudine eliminabile
solamente con delle forzature del testo poetico.
Ma a questo punto mettere a fuoco alcune intonazioni può chiarire meglio
le varie questioni. Nel musicare, ad esempio, una poesia come Morto la tentazione
potrebbe essere quella di mettere in evidenza i risvolti più patetici, ma l’aspetto più
profondo, quelle domande sul destino ultimo dell’uomo che di fronte alla morte
. P
C’è chi, come Alaleona, crea una sorta di ‘ninna-nanna funebre’, in cui il te-
sto è avvolto da un accompagnamento pianistico che, nelle indicazioni del compo-
sitore dovrebbe essere «gelido». 141 In realtà vi è ben poco di gelido, ma solo
un’atmosfera un po’ rarefatta creata nella prima parte da uno scorrere di terzine
che si muove sempre più verso l’acuto (bb. 1-6), e nella seconda dal predominare
di accordi vuoti (senza la terza) di quartine che si concludono nella regione sovra-
cuta del pianoforte (bb. 12-24); in quest’atmosfera i versi più drammatici (3-4) so-
no quasi una parentesi (bb. 7-11) che interrompono per poche battute lo scorrere
del ritmo cullante e consolatorio, che alla fine rimane l’aspetto predominante della
composizione.
Assolutamente più drammatica è la versione di Alceo Toni. Qui non c’è più
nulla di consolatorio, ogni nota del testo musicale contribuisce a creare una sono-
140
«È significativo il fatto che, in Myricae, così spesso la poesia pascoliana lamenti la ra-
pidissima fine di bambini. Non ci troviamo di fronte al patetico più penoso e lamentoso, e più faci-
le, ancora. Il morticino, Il rosicchiolo, Ceppo, Morto, Abbandonato, proprio all’inizio di Myricae,
semplificano nel modo più chiaro e radicale, per il tramite della morte del bambino o della madre
che ha intorno il figlio neonato senza più pane da dargli e nel cuore del gelo invernale, la verità e-
strema e assoluta dell’esistenza e, più in generale, del mondo: la fragilità atroce e disperata e
l’urgere continuo della morte. I bambini sono, nel modo più evidente e radicale, il simbolo della
debolezza assoluta della vita», , Introduzione a P 2002, pp. 11-12.
141
Questa indicazione esecutiva si trova all’inizio e alla fine del brano, nella parte del pia-
noforte: «semplice, gelido», b. 1; «dolcissimo gelido», b. 21.
142
La poesia, come scrive lo stesso Pascoli in una lettera ad Angiolo Orvieto del 19 feb-
braio 1895, «è ispirata da un detto romagnolo (o forse anche toscano): quando alcuno ride da sé
senza ragione, gli si dice: Ridi con gli angioli?... Io ho voluto dipingere l’ora in cui il cielo s’imbeve
di color di rosa e non è più giorno e non è ancor sera, né sono sbocciate le stelle, i fiori d’oro di las-
sù», cit. in P 1980, p. 282.
. P
N
el delineare schematicamente le due strade intraprese dalla romanza da
salotto alla fine dell’Ottocento la Guarnieri giustamente sottolineava
due livelli di cultura: da una parte una cultura che si potrebbe definire
grossolanamente bassa, gravitante dapprima intorno alla romanza e poi (quando
questa si estinse) alla canzone di consumo; dall’altra una cultura alta, che invece va
ad abbracciare i tortuosi sviluppi della lirica. La verità di questa divisione — quan-
do privata da dannose assolutizzazioni, ma tenendo presenti le sfumature, a volte
anche vistose, che la realtà mette in luce — trova una conferma se si osservano più
da vicino i percorsi personali dei compositori elencati, percorsi che si intersecano
in un comune cammino generazionale. Si tratta, infatti, di musicisti nati princi-
palmente tra la fine degli anni ’70, gli anni ’80 e gli anni ’90 e dunque, dal punto di
vista generazionale, o parte integrante della ormai notissima generazione
dell’Ottanta — generazione che (nella musica come in altri campi della cultura e
dell’arte) è testimonianza di un fermento culturale nuovo in Italia, di una voglia di
apertura, rinnovamento, svecchiamento — o appartenenti alla generazione imme-
diatamente successiva. Non è una caso che molti tra questi musicisti scelgano di
mettere in musica anche un poeta come Pascoli, e che in generale dedichino una
parte non trascurabile della loro produzione alla lirica, creando in questo modo
un connubio fra musica e cultura nella concretezza della loro attività di composi-
tori.
L’impatto e insieme la problematicità della divisione culturale appena enun-
ciata emergono già dalle composizioni di fine Ottocento e dei primissimi anni del
Novecento, nelle quali si può notare una certa inquietudine formale nei confronti
di una poesia che si lascia difficilmente incanalare in schemi precostituiti. Così,
per citare solo due composizioni, accanto alla bellissima Sera d’ottobre di Mascagni
. P
(1894), una delicata romanza, musicalmente molto pregevole,143 solo pochi anni
dopo (1901) troviamo un’intensa lirica ormai novecentesca come L’assiuolo di
Zandonai. Ma sarà il caso di vedere più nel dettaglio alcuni di questi musicisti.
Molto interessante, tra i musicisti che fin dalla fine dell’Ottocento hanno messo in
musica Pascoli, è Adolfo Gandino, un compositore che ha avuto per tutta la sua
vita un vivo interesse per la lirica.144
143
Sera d’ottobre è un’eccezione anche nella produzione vocale da camera dello stesso
Mascagni, che si dedica a questo genere soprattutto negli anni giovanili, musicando quasi esclusi-
vamente «poesia d’uso, firmata spesso da amici letterati livornesi o toscani, […] modesti versi,
d’intonazione per lo più sentimentale» ( , p. 147). L’eccezione in questo caso sembra
motivata dalla circostanza in cui nasce questa lirica, «scritta suggestivamente l’ 8 ottobre 1894 per le
nozze di Adriana figlia del conte Florestano de’ Larderel, suo mecenate» (ibidem).
Se quelle di Mascagni sono scelte poetiche che corrispondono perfettamente alla tradi-
zione della romanza, da quella tradizione comunque il compositore si discosta come approccio, al
pari di altri operisti come Puccini e Leoncavallo per i quali «la romanza […] non costituisce […]
una scelta di campo prioritaria ed esclusiva, come per Tosti, ma una sorta di apprendistato leggero
[…] una preparazione verso uno stile di canto di cui far tesoro nelle future produzioni operistiche»
(ivi, p. 148); infatti Mascagni, una volta raggiunta una personale concezione di canto «fuori da una
logica musicale prevedibile, dai modelli di contenitori precostituiti» (ivi, p. 156) praticamente non
scrive più romanze (dagli anni ’90 alla sua morte scriverà solo 7-8 brani per canto e pianoforte),
perché troppo lontane dal «suo modo di concepire il canto teatrale» (ibidem). Tra questi pochi bra-
ni va comunque segnalato Alla luna (1912-1913), lirica dalla caratteristiche novecentesche che rima-
ne un unicum nel catalogo mascagniano.
144
Alcune delle sue composizioni furono pubblicate in alcune raccolte più ampie, le più
note e importanti delle quali sono le Ventiquattro Melodie (1906), le Dodici nuove melodie (1911) e le
Dodici liriche (1919). Ma la maggior parte delle sue restano inedite. Il catalogo del Fondo Gandino
(presso I-Bc) segnala ben 312 liriche per canto e pianoforte, su testi dei poeti più importanti
dell’epoca, da Fogazzaro a Graf, da Panzacchi a Stecchetti, da d’Annunzio a Pascoli, senza dimenti-
care la poesia non italiana; di Pascoli, oltre le composizioni qui citate, si segnala una raccolta ma-
noscritta di 36 liriche intitolata Myricae. Purtroppo, essendo riuscito a prendere contati con il fon-
do solo nelle ultime settimane, non mi è stato possibile consultare tali composizioni (comunque
datate 1938 e quindi fuori dall’arco cronologico da me scelto). I brani inclusi nelle raccolte a stampa
sono comunque sufficienti per poter dare un giudizio sui modi in cui Gandino mette in musica Pa-
scoli.
Nell’arte delle liriche, la musica italiana non ha ereditato nulla dal pas-
sato. È una tradizione chiusa nel ’600. Il compositore italiano odierno,
se è uno spirito colto, o cerca di dare una perfezione artistica alle sue
canzoni, ricalcando i modelli dei contemporanei, per lo più stranieri,
che sono anche i migliori, o di attenersi, se la maggior perfezioni gli sta
a cuore, al consiglio di Brahms di fare e rifare finché non ci sia una no-
ta né di meno né di troppo, finché non ci sia battuta che non possa es-
sere migliorata. Riallacciarsi oggi a un passato italiano egli non può; è
troppo lontano e non vi è via di congiunzione, o è molto oscura.
L’imitazione straniera? È sempre riuscita male; meglio non parlarne.
Non rimane che una sola via d’uscita: rifare tutto da sé. Il compositore
Gandino va, isolato e solo, per la sua via, lo sguardo rivolto al segno
del tempo, il segno della libertà e del progresso. Così l’arte sua, se an-
cora non ha un aspetto particolare, una voce propria, si annuncia però
provandosi di chiamare le cose a modo suo, azzardando poco, senza
troppe licenze, ma senza complimenti. [...]
Egli, dipartendosi nella espressione vocale, dal canto a solo di pura e
semplice ispirazione melodica e di efficacia immediata, ha lasciato via
via sempre maggior libertà alla fantasia ed è passato alle concezioni più
riflesse della musica ordinata come commento libero della poesia, alla
concezione della lirica quale recitazione musicale spontanea.145
Forse il suo approdo alla lirica oggi appare meno innovativo di quanto pote-
va sembrare ai suoi contemporanei, ma questo non deve per forza essere un giudi-
zio negativo. Certo, se soprattutto nelle sue prime composizioni Gandino è soprat-
tutto un bravissimo ‘melodista’ e il suo regno la pagina breve — restando
nell’ambito della piacevolezza di una melodia che, seppur bella, che va poco a fon-
145
1917, pp. 322-323.
. P
do del testo — col tempo cercherà sempre più di superare questo livello e creare
delle liriche pienamente compiute, pur senza pretese avanguardistiche. Anzi, è
probabilmente il suo merito maggiore quello di aver tentato di instaurare un rap-
porto con il testo poetico non superficiale con mezzi musicali semplici.146
Come il suo innovare sia allo stesso tempo nuovo e legato alla tradizione lo
si può notare nell’accompagnamento pianistico: ancora Torchi osserva come non
sia «più un accompagnamento, ma un discorso indipendente e fluido»;147 la verità
in questo caso sta nel mezzo: la parte del pianoforte nei brani di Gandino, anche se
quasi sempre apparentato con formule note, vuol farsi evocatore di un aspetto (a
volte il più evidente) della poesia, oppure creare un’atmosfera che avvolga quel
canto (e non genericamente il canto), anche se non sempre riesce nell’intento, ri-
cadendo in formule d’accompagnamento stereotipate.148
Addentrandosi nel Novecento, dalla fine degli anni ’10 ci si imbatte in una serie di
compositori le cui composizioni tendono alla lirica con più sicurezza, anche se le
contraddizioni non mancano.
Renzo Bossi compone una raccolta molto interessante, Myricae, che com-
prende in un breve album sei poesie di Pascoli: qui il pianoforte ha una parte che
146
In positivo vanno segnalate composizioni come Orfano e Sera festiva, ma non va ta-
ciuto il rischio sempre presente e non sempre evitato di semplificare troppo e banalizzare, come
accade in liriche come Mamma e bimba e Alba dolorosa, il cui testo esigerebbe ben altra intensità
che la piacevole scorrevolezza di cui le riveste il compositore. A conferma di ciò vi è anche il cam-
biamento dei versi finali di Mamma e bimba: «E i piedi, ancor essi… | Io non ce li ho più. | I vermi,
sapessi, | che sono quaggiù! —», che chiudono quello che sembrava solo un lacrimevole dialogo tra
madre e figlia svelando una ben più cruda realtà, cambiati da Gandino in «E i piedi, ancor essi |
non ce li ho più. | Sapessi mammina | che buio è quaggiù…», in questo modo annullando total-
mente non solo l’effetto di sorpresa che questi versi finali provocano nel lettore, ma il senso
dell’intera poesia.
147
1917, p. 323.
148
Ancora Torchi non manca di segnalare che «certe forme stereotipe riproducentisi pe-
riodicamente quali figure d’accompagnamento, per quanto fini e suggestive un tempo, se abilmen-
te toccate, hanno cessato di avere valore. Per fortuna queste applicazioni sono usate con grande so-
brietà», ivi, p. 324.
149
Si potrebbe anche parlare di tema, precisando però che solitamente si tratta di poche
note (raramente abbiamo una svolgimento melodico ampio come, ad esempio, ne I pastori di Piz-
zetti) e dove la funzione armonica e quella melodica spesso sono fuse insieme.
. P
parte, la messa a fuoco di ciò che non va risulta utile quanto gli aspetti maggior-
mente riusciti; per questo ritengo importante soffermarmi su queste Melodie un
po’ più a lungo.
Musicalmente ci sono molti elementi interessanti, ma anche molta disconti-
nuità: accanto ad episodi belli (soprattutto nella raccolta Canti di neve e di prima-
vera) troviamo momenti abbastanza banali; in alcuni brani inoltre Alaleona appli-
ca le sue teorie armoniche, dando spesso la sensazione di qualcosa di calcolato e
freddo, di una sperimentazione un po’ fine a se stessa. I due versanti musicali del
compositore erano stati subito colti all’uscita delle raccolte nel 1920 in questa breve
recensione, apparsa sulla «Rivista musicale italiana», nella quale sono ben sintetiz-
zati i pregi e i difetti del compositore:
150
. 1920.
A proposito della parte pianistica segnalo un’annotazione musicale marginale ma co-
munque importante: se nei frontespizi le composizioni sono tutte indicate per voce e pianoforte,
nel titolo all’inizio del brano accanto all’indicazione «pianoforte» vi è scritto tra parentesi «orche-
stra», quasi ad indicare la destinazione ultima (e più vera) di questi brani (e molti passaggi che pia-
nisticamente sono ripetitivi e banali trovano forse una loro giustificazione in una varietà timbrica
che lo strumento a tastiera non ha). La conferma di questo è data dal fatto che alcune di queste Me-
lodie (Canti di neve e di primavera, Tre canti) effettivamente sono state orchestrate dal compositore,
come è confermato in un’altra recensione sempre del 1920: «Le liriche hanno pure una veste orche-
strale, ch’è tuttavia un vero ricreamento sinfonico», , p. .
. P
Non si può dunque dire che il lato del musicista più aperto allo sperimenta-
lismo sia migliore dell’altro più legato alla tradizione: in entrambi ci sono momen-
ti musicali di valore, ciò che spesso manca è la capacità di sviluppare le idee musi-
cali, la fantasia del compositore.151
Andando a vedere più nel profondo il rapporto che il musicista instaura con
il testo poetico emergono ulteriori, e più complessi, problemi. In un’altra più am-
pia recensione apparsa sempre sulla «Rivista musicale italiana» nel 1920, il recenso-
re sottolinea la
Sull’utilizzo del pianoforte c’è un articolo dello stesso Alaleona, dove il compositore fa
alcuni esempi tratti dalle orchestrazioni di alcune sue Melodie pascoliane ( 1920).
151
Probabilmente proprio per questo i brani più belli sono quelli più brevi, dove le ripe-
tizioni (melodiche, armoniche ma soprattutto ripetizioni di formule di accompagnamento ossessi-
ve — con una predilezione per scale e arpeggi un po’ scolastici) sono più contenute. I brani migliori
sul versante sperimentale mi sembrano quelli di Marine (con richiami, a causa delle scale esatonali
utilizzate ad atmosfere vagamente debussyane), mentre tra le composizioni più tradizionali si tro-
vano in Canti di neve e di primavera.
152
Cesari 1920, p. 729.
153
1920, pp. 728-729.
Faccio solo notare che ciò che al recensore appare come un aspetto positivo — « l’insieme
della lirica vocale ha un interesse esclusivamente di musica; potrebbe cantarsi anche sopprimendo
le parole e vocalizzando» — è uno degli aspetti della romanza che, come si è visto in Untersteiner e
Pizzetti, era maggiormente criticato («La melodia potrebbe anche essere semplicemente vocalizzata
e avrebbe sempre la stessa ragion d’essere», scriveva Pizzetti dando un giudizio assolutamente non
positivo).
. P
perficie, mentre in realtà il compositore mette in corpo «un altro andamento ri-
spetto a quello dettato», non aderisce al senso che c’è, ma ne inventa un altro.
Un esempio di questo credo sia già emerso nella breve analisi di Morto, ma la
questione si potrà capire ancora meglio se si osserva il percorso di alcune raccolte,
dove è evidente una forzatura del ‘pensiero pascoliano’ in chiave ottimistica.
Prendiamo ad esempio Creature: in Myricae si tratta di una breve sezione
composta da 5 poesie, che alternano disperatamente morti di madri e di bimbi; la
sezione è aperta da Fides, dove sembra sussistere ancora un desiderio, una vaga
speranza di un luogo dove trovare pace (il giardino, il nido), ma la bufera incombe
e alla fine, qui come nelle successive poesie, ha il sopravvento su qualsiasi illusione
(pure tenace, sembra dirci Pascoli, ad andare via dal cuore umano). Allora si può
solo dormire o morire (ma le due cose sembrano combaciare) senza nessuna
compassione, anzi in una totale desolazione, come ci dicono gli ultimi versi di Ab-
bandonato che conclude la sezione, in cui anche la prospettiva del paradiso è
l’estrema illusione smascherata: «La notte cade, l’ombra si fa nera; | egli va, desola-
to, in Paradiso». Alaleona mette in musica i tre brani più celebri (e musicati) della
sezione, ma senza rispettare l’ordine originario: abbiamo così Morto, Orfano e Fi-
des. Dunque Fides da brano iniziale è posto come conclusione del ciclo: Alaleona
pone dunque alla fine la poesia meno scopertamente negativa del gruppo (ma an-
che la più ambigua, con la bufera finale che minaccia l’illusione del nido e di quel
giardino che sembra quasi un dolce modo per pronunciare la morte). Inoltre il
compositore decide di ripetere la prima quartina della poesia, e terminare così il
brano (e l’intero breve ciclo) con il «bel giardino», (seppure da cantare sottovoce,
come eco). Evidentemente un procedimento di ripetizione del genere è una forza-
tura notevole nei confronti della poesia, un cercare di risolvere ciò che volutamen-
te Pascoli non risolve.154
Gli stessi problemi di Creature si ripropongono nei Canti di neve e di prima-
vera (che però non si rifanno a nessuna sezione poetica pascoliana preesistente):
anche qui c’è un percorso forzatamente ottimistico (molto più evidente che in
154
La ripetizione dei versi iniziali della poesia alla fine corrisponde a una precisa idea che
Alaleona ha della forma musicale, che si potrebbe definire circolare. Alaleona in altre parole quan-
do può tende a far coincidere l’inizio con la fine e lo fa indipendentemente dal testo poetico into-
nato; infatti se nel caso di Fides (come in altri) ripete musica e testo, in brani come Mare e Brividi
ciò che si ripete è solo l’introduzione pianistica.
Creature) che porta dalla notte all’alba, anche qui i versi iniziali di alcune poesie
(Notte dolorosa e Alba festiva) vengono ripetuti nel finale con le stesse conseguenze
di distorsione del significato complessivo della poesia.155
Un ulteriore chiarimento può venire dal confronto fra due diverse intona-
zioni dello stesso testo, Notte di neve, musicato da Zandonai e da Alaleona in Canti
di neve e di primavera.
La poesia propone immagini tipicamente pascoliane — un cimitero, la neve,
le campane in lontananza — che nascondono tematiche altrettanto radicate nel po-
eta — «la predicazione umanitaria e la consapevolezza del nostro destino di morte,
reso più amaro dall’ombra del mistero che ci avvolge, appena rischiarato da vaghe
illusioni»:156
un marmoreo cimitero
4 sorge, su cui l’ombra tace:
e ne sfuma al cielo nero
un chiarore ampio e fugace.
Pace! pace! pace! pace!
8 nella bianca oscurità.
Nella versione di Zandonai tutto è espresso con essenzialità, ogni nota, ogni
accento trova la sua ragion d’essere nel manifestare sonoramente la contemplazio-
ne dolorosa della poesia: il pianoforte ripropone il suono di campana a morto che
si sente in lontananza, evitando banali effetti onomatopeici, e poi sorregge som-
messamente il canto; la voce oscilla tra un’intensa declamazione del testo e pochi
(ma significati) slanci melodici, per poi spegnersi là dove aveva cominciato a can-
155
In Alba festiva (di cui mi occupo dettagliatamente nel capitolo successivo) è proprio
evidente che il musicista e il poeta corrono su due diverse strade. La poesia in Pascoli ha una con-
clusione tutt’altro che ottimistica: tutto si conclude con «la voce della tomba», mentre Alaleona per
poter finire con una vera alba di festa è costretto a ripetere la prima terzina, tra l’altro su di una
melodia un po’ troppo infantile.
156
P 1980, p. 310.
. P
tare, «nella bianca oscurità» degli ultimi sussulti melodici del pianoforte, nel miste-
rioso suono delle campane con cui tutto era cominciato.
Tra le liriche scritte da Alaleona Notte di neve è musicalmente tra le più belle,
ma di clima completamente diverso da quella di Zandonai: qui spira una serenità
che nella poesia è più un desiderio che una presenza reale. La composizione si di-
vide in quattro parti ben definite. Nella prima sezione vengono intonati i primi
due versi: morbidi arpeggi avvolgono le due voci che cantano un’altrettanto mor-
bida melodia in Fa# maggiore; nella seconda sezione (vv. 3-4) il clima cambia:
l’immagine del cimitero suggerisce al compositore di accelerare l’andamento e
passare nel modo minore; ancora un altro brusco cambiamento nella terza sezione
(vv. 5-6): l’andamento ora è «Vivo, deciso», le due voci intonano velocemente il te-
sto e poi tacciono, lasciando ai trilli del pianoforte il compito di descrivere i chia-
rori ampi e chiarori; l’ultima sezione (vv. 7-8) è una ripresa della prima: la pace
torna e con essa gli arpeggi e il dolce canto, dapprima intonato dalle voci e poi ri-
petuto dal solo pianoforte. Oltre la bellezza di alcune melodie, di alcuni momenti,
il rapporto col testo ancora una volta è superficiale, troppo schematica la forma (la
divisione in sezioni così autonome non fa che spezzare l’unità di una poesia così
breve), addirittura quando il musicista cerca di aderire con più intensità alla poe-
sia (come nella terza sezione) sfiora la musica descrittiva.
Giovanni Pagella ha scritto una raccolta di un certo rilievo, Liriche e Ballate, che
comprende poesie di Carducci e Pascoli, raccolta recensita positivamente anche
dai contemporanei. La recensione pubblicata su «La riforma musicale» mette in e-
videnza, ancora una volta, il distacco di queste composizioni dalla «famigerata ro-
manza», pur riconoscendo che si tratta ancora di composizioni non del tutto
compiute:
Sulla stessa linea è il giudizio della «Rivista musicale italiana» (ma senza la
vena polemica contro la romanza):
Nella sostanza questi giudizi sono condivisibili ancora oggi. Pagella, insomma, si
discosta in modo evidente dalla romanza, tenta di modellare la musica sulle im-
magini del testo, ma i risultati sono discontinui: la sua è una voce nuova ma non
veramente personale; inoltre spesso, quasi per voler aderire in modo troppo vicino
al testo, cade in un descrittivismo e in una frammentazione musicale che non gio-
va all’unità espressiva del brano. Giustamente i brani più riusciti sono stati indivi-
duati nelle «pagine più brevi», dove un’economia di mezzi musicali fa eco alla con-
centrazione espressiva delle poesie di Pascoli, come accade nelle citate Vagito e Al-
ba festiva, giustamente segnalate dal recensore come le liriche più riuscite della
raccolta.
Fernando Liuzzi, noto soprattutto come musicologo, si è dedicato anche alla com-
posizione. Nel corpus delle sue composizioni spiccano alcune raccolte per canto e
pianoforte — Sei Canti ad una voce con accompagnamento di pianoforte (1914), Liri-
che (1914), Tre canti popolari greci (1920), Tre piccoli canti popolari italiani (1922) —
da rivalutare sia per il contributo dato dal musicista all’affermazione e caratteriz-
157
. P 1917.
158
. P 1918.
. P
zazione della lirica italiana del primo Novecento, sia per la bellezza in sé dei brani.
Allievo di Guido Alberto Fano e Max Reger, Liuzzi in queste composizioni prova
ad unire la maggiore complessità armonica della scuola tedesca e francese con la
semplicità della melodia italiana. Certo la sua non è una voce completamente ori-
ginale, ma si tratta pur sempre di un compositore raffinato, che nei suoi momenti
migliori non manca di intensità e inventiva.
Le varie raccolte hanno dei caratteri abbastanza differenti tra di loro: quest0,
se da un lato mostra una certa indecisione stilistica dell’autore, dall’altro ci mostra
sinteticamente le varie tendenze della lirica da camera italiana del tempo. I Sei
Canti sono vere e proprie liriche novecentesche, fortemente imparentate con i
modelli francesi e tedeschi: viene abbandonata la forma strofica per una struttura a
sezioni, tendenzialmente durchkumponiert; l’accompagnamento pianistico ha una
parte di primo piano, con motivi (sia melodici che d’accompagnamento) che ri-
tornano nel corso della composizione a dare unità (formale e di colore) al brano;
la voce mantiene una certa melodiosità, pur non intonando (se non sporadica-
mente) dei temi che si ripetono. Le Liriche sono più tradizionali: la forma è strofi-
ca, la melodia più evidente (più italiana si potrebbe dire), l’accompagnamento
pianistico meno invadente, ma mai banale, insomma una lirica di alto livello che
non asseconda pedissequamente i modelli stranieri, un buon equilibrio tra mo-
dernità e tradizione.159
La figura di Guido Alberto Fano è certo tra le più importanti del Novecento musi-
cale italiano. Non sto qui a enumerare tutte le varie attività musicali che lo hanno
visto protagonista (pianista, compositore, didatta ecc.) ma mi piace ricordare la
sua apertura culturale (si ricorda addirittura un circolo letterario-culturale che nei
suoi anni bolognesi ha visto la partecipazione di artisti come d’Annunzio), apertu-
ra testimoniata soprattutto dalle scelte poetiche elevate delle sue liriche (Pascoli,
159
La differenza di stile tra le due raccolte è ‘confermata’ dalle diverse case editrici che
pubblicano le composizioni: La Carisch e Jänichen per i Canti e la Ricordi per le Liriche.
160
«Le liriche per canto e pianoforte […] attraversano l’arco di tutta la produzione musi-
cale di Fano […]; l’aderenza al testo è sempre ottimale e il canto ricorre spesso a un declamato sil-
labico di grande attualità ed efficacia» 2007, p. 82.
161
Come scrive Nava «I Canti segnano uno sviluppo, un salto di qualità rispetto alla pri-
ma raccolta […]. Nei Canti la misura strofica si amplia […]. Contemporaneamente più ardue e
raffinate si fanno le strutture formali, soprattutto quelle metriche, con un’estrema varietà di solu-
zioni prosodiche e ritmiche, che culminano nei virtuosismi delle rime ipermetre, mentre il fono-
simbolismo si ditacca definitivamente dall’armonia imitativa per accentuare l’allusione a una realtà
“autre”, ricercata nei segreti della vita e del cosmo o interiorizzata nel momento notturno del so-
gno e della visione, nella vita aurorale della coscienza» G ⁿ, Introduzione a P
1983, pp. 9-10.
162
, p. 79.
163
Ivi, p. 81. «Il musicista risponde alle sollecitazioni simboliche e fonosimboliche della
poesia con la ricerca di proprietà sonore inedite, funzionali alla conferma degli analogismi e delle
intuizioni narrative del poema; il lessico musicale assimila idiomi come la scala esatonale,
l’armonia per quarte, un forte cromatismo a tratti atonale, un’indeterminatezza armonica sfuggen-
te e ipnotica, caratteri prossimi al simbolismo musicale di stampo francese. Ma lo stile rivela anche
il tentativo di approfondire una vocazione nazionale; la linea vocale, sostenuta da una forbita scrit-
. P
tura pianistica, si svolge in un declamato melodico molto intenso talora spezzato da ampi salti, ta-
laltra quasi parlato, a tratti interrotto da momenti di cantabilità aperta e distesa. Appare nella mu-
sica l’impegno di evitare la stereotipia e l’abbandono a reminiscenze formulari di generica orec-
chiabilità, che dimostra la sensibilità di Fano nel rispondere alle istanze etiche della modernità, con
quella premura sofferente che ha animato l’intimità dell’officina dei grandi autori del Primo Nove-
cento». 2005, Introduzione.
164
Giuseppe Nava, Introduzione a P 1983, p. 15.
165
Poemi conviviali, Alexandros.
166
1966, p. 31. Ma è anche il regno della musica che, come si ricor-
dava all’inizio, Pascoli vedeva cominciare «dove finisce la realtà pensabile».
È la descrizione del lento immergersi della donna nel sogno, secondo le con-
vinzioni scientifiche dell’epoca:167 oltre le raffinatezze metriche tipiche di Pascoli
(si noti solo la varietà di accenti e ritmi che assume il novenario), questi versi sono
dominati dal lento movimento della luce della lampada, che vediamo letteralmen-
te materializzarsi e muoversi come una essere animato nell’oscurità e passare
dall’ombra della stanza in cui dorme la vergine all’interno dell’anima della vergine
stessa. Sono istanti impalpabili e concreti, il trapasso dal sonno al sogno, dove tut-
to è reale e inesistente allo stesso tempo.
La musica di Fano trasporta sul piano sonoro con grande semplicità ed effi-
cacia la realtà che sfuma nell’irrealtà di questi primi versi. A dominare è
l’«indeterminatezza armonica sfuggente e ipnotica», il ripetersi ossessivo nella par-
te pianistica di un disegno armonico e melodico tonalmente non definibile (si
tratta di una scala esatonale, esplicitata chiaramente dalla melodia della voce nelle
prime battute); anche il ritmo contribuisce a questa indeterminatezza: la regorità
di pulsazioni degli accordi eseguiti dalla mano destra è come annullata
dall’instabilità di un semplice ma efficace movimento melodico discendente della
mano sinistra. Il canto presenta le caratteristiche già enunciate: intenso declamato
e slanci melodici improvvisi (come la quinta diminuita tra la prima e la seconda
battuta su «dorme» e la settima minore discendente alle bb. 7-8 su «tenta»). Il
muoversi della luce si concretizza in gesti minimi (ma ben rilevabili nell’atmosfera
sonora statica che Fano riesce a creare): l’abbassamento di un semitono
167
«Pascoli applica la lezione della psicologia positivistica, e la teoria del doppio stimolo,
esterno (la fiamma della lampada), e interno (un’alterazione nel ritmo del flusso sanguigno), che
Freud esaminerà criticamente nella prima parte dell’Interpretazione dei sogni», P 1983, p.
314.
. P
allo stesso tempo aderenza al testo) si fa simbolo concreto e sfuggente di ciò che la
parola evoca: la musica insomma per un momento riesce a rompere l’invisibile
muro che separa la realtà pensabile dalla misteriosa regione dell’altra poesia.
.
« »
I
l suono che maggiormente risuona nelle poesie di Pascoli è quello delle
campane. Fin dalla famosa Prefazione all’edizione di Myricae del 1894, Pasco-
li parla dei suoi canti definendoli «frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lonta-
no cantare di campane»; le stesse immagini ricompaiono nella Prefazione ai Canti
di Castelvecchio:
Canti d’uccelli, anche questi […] E sono anche qui campane e campani e
campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto;
specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita senza il
pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue
dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.
D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; […] e non
c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir
delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avema-
rie.
Il suono delle campane è uno dei simboli più ambivalenti che compaiono
nel mondo poetico pascoliano,168 tanto che i vari significati assunti da tale suono
possono considerarsi una sintesi dei temi principali attorno a cui ruota tutta
168
Il simbolo (ovviamente, ma è fondamentale tenerlo presente) non è la campana, bensì il
suo suono.
169
«Ciò che il Pascoli rappresenta è la delusione, la sconfitta, il limite, […] il punto a cui
tende tutto il discorso è costituito sempre dal senso dell’inganno che è tutto ciò che è luce e sereno,
dalla delusione dell’uomo che crede di potersi confortare nella contemplazione delle cose, e non
trova in esse che negazioni, fremiti incomprensibili, messaggi non decifrabili, e l’unica evidenza
della morte», , p. 65.
170
Si ricordi questa strofa di Nebbia: «Nascondi le cose lontane | che vogliono ch’ami e che
vada! | Ch’io veda soltanto là solo quel bianco | di strada, | che un giorno ho da fare tra stanco | don
don di campane».
Le campane creano «una specie di atmosfera irreale, di sogno o di fantasia, nella quale
immergersi per sprofondare nello smemoramento e nella dimenticanza del reale» (G b,
p. 51; al simbolismo delle campane sono dedicate le pp. 51-55), dimenticanza collegata quasi sempre
alla rievocazione dell’infanzia. Il simbolo delle campane è associato da Barberi Squarotti al più va-
sto simbolismo degli uccelli: «Gli uccelli, l’elemento aereo […] rivelano da un’altra prospettiva la
condizione secondo cui il Pascoli si determina verso il mondo oggettivo: l’evasione da esso dopo
averne constatato la condizione dispersa di incomprensibilità, in una specie di utopia tutta simbo-
lica dove sarebbe l’incosciente felicità come condizione unica e continua d’esistenza, se non fosse
intervenuto l’elemento terrestre della violenza, che arresta il volo e lo spezza»,
, p. 25. Allo stesso modo le campane «sono sempre un elemento aereo, molto facilmente assi-
milabile, per il valore simbolico-ideologico, agli uccelli: il suono dall’alto, dal cielo, il significato
religioso-simbolico delle varie squille», ivi, p. 27.
171
La poesia compare per la prima volta nella edizione, come l’intera prima sezione del
libro, Dall’alba al tramonto.
. ’
172
Il commento di Gioanola a questo testo mi sembra un po’ forzato, quando afferma che
«le prime cinque strofe propongono il solito tema consolatorio» (G 1991b, p. 54). Certa-
mente (come si è visto) le campane hanno questo ruolo consolatorio di portare il poeta «a una spe-
cie di sonnolenza della mente di fronte ai traumi della realtà e della coscienza», ma in questa poesia
non mi sembra questa la loro funzione principale (lo sarà in un’altra poesia, Sera festiva, che chiu-
de, in un ideale percorso, la prima sezione di Myricae); a me sembra che le campane in queste stro-
fe richiamino il poeta alla realtà più che farlo evadere da essa, facendo emergere il suo desiderio di
vita. Per questo il suono profondo dell’ultima strofa non è semplicemente la rottura di un «fragile
incantamento» (ivi, p. 55), ma una scelta di Pascoli, generata certo dai fatti luttuosi della sua vita e
da una situazione culturale generale di sfiducia nel reale, ma non per questo meno irrazionale di
fronte al richiamo iniziale delle campane che ha generato il suo stupore.
173
E infatti i compositori intonano questo verso come un ottonario, con gli accenti sulle
sillabe dispari. Non è un caso che l’ambiguità cada sulla parola dondolio tanto cara al poeta. E qui
certo compare il tema consolatorio di cui parla Gioanola, il quale giustamente osserva che «dondo-
lio è termine spesso riferito con la stessa denotazione alla culla, una delle figure principali del ni-
do», ivi, p. 54.
174
«All’alba le campane squillano a festa e il poeta ne coglie i timbri diversi con le qualità
foniche delle parole, o meglio con un sapiente montaggio delle sillabe (con — don — do — len — plo —
tin — squill, vv. 7-12) che spesso sembrano scelte per la loro specifica sonorità. La lirica ha quindi un
preponderante valore musicale, anche se nasconde un preciso simbolismo per cui la campana più
sonora (vv. 7-9) è voce di adorazione amorosa, quella più acuta (vv. 10-12) è voce di desiderio, e la
campana più grave (vv. 16-19, con l’ampia sonorità delle rime) è la voce della tomba che porta in
primo piano l’immagine della morte. Nei significati fonosimbolici e nella ricerca fonica, troviamo
in questi versi un’eco abbastanza precisa delle lirica The bells di E. A. Poe», PASCOLI 1981, p. 121.
175
Questo, musicalmente, genera una soluzione ritmica simile per l’intonazione di questi
versi: c’è, insomma, una palese regolarità ritmica che i versi pascoliani richiedono ai compositori,
regolarità che si manifesta chiaramente nelle prime due strofe e nei cambiamenti di ‘tempo poeti-
co’, resi quasi sempre con delle terzine nel canto).
. ’
La versione musicale di Alba festiva fatta da Alaleona non fa che confermare quan-
to detto precedentemente su questo compositore. Il musicista si sforza di aderire al
testo fin nel dettaglio, con un sezionamento eccessivo del testo che frantuma
l’unità del brano, il suo ritmo costante che, sebbene subisca un’evoluzione nel cor-
so della poesia, non viene mai meno. Si tratta, inoltre, di un’adesione al testo che
(nel migliore dei casi) descrive piacevolmente la poesia, ma non riesce a far emer-
gere (salvo pochi momenti) quell’inquietudine, quell’ambiguità che trasmette il
testo poetico pascoliano. Insomma, in due parole: è tutto troppo chiaro e semplifi-
cato.
176
Le versioni musicali da me prese in esame sono quelle di Domenico Alaleona, Giovanni
Pagella e Fernando Liuzzi.
con il senso della poesia. Alaleona insomma, decide apertamente di non rispettare
il movimento della poesia, anteponendo al testo un suo percorso ideale che (in
questa come in altre intonazioni) rimane sostanzialmente estraneo alla lirica pa-
scoliana.
177
Si ricordi quanto scriveva Contini sul fondo indeterminato delle poesie di Pascoli.
178
Tale tinta sonora costante non impedisce al compositore di sottolineare alcune sfuma-
ture del testo con piccoli madrigalismi (se così si possono definire), sempre essere invadente, come
accade per le piccole variazioni del tema delle campane nel corso del brano: alle bb. 16-20 si riduce
ad una nota solamente con un accento più intenso; alle bb. 23-26 si ha un breve salto di registro
verso il grave, mentre nell’ultima parte del brano il movimento nel registro grave è decisamente più
evidente.
verso.179 Anche Pagella non rinuncia a una conclusione più serena della lirica, ma il
suo finale è certamente meno invadente di quello di Alaleona, più pascoliano: il
canto tace e un accordo di La maggiore si espande dal registro grave all’acuto del
pianoforte per quattro battute, in pianissimo — quasi un riverbero (un ricordo lon-
tano) dello scampanare pieno di speranza sentito prima, un voler sommessamente
togliere l’ultima parola alla morte.180
179
In modo analogo a quanto aveva fatto Alaleona, anche Pagella è come se in queste due
battute facesse morire il canto: la stessa cosa farà a suo modo Liuzzi.
180
Mi vengono in mente, di fronte a queste battute, le parole di Pascoli: «Oh! bada. La mia
idea è questa. L’uomo combatte continuamente contro la morte. Esso alla morte deve disputare,
contrastare, ritogliere quanto può. La nostra vita è gelida e noi abbiamo bisogno di calore; la nostra
vita è oscura e noi abbiamo bisogno di luce: non si lasci spegner nulla di ciò che può dare luce e
calore: una favilla può ridestare la fiamma e la gioia. Non si lasci morir nulla di ciò che fu bello e
giocondo», cit. in , p. 237.
. ’
parte di esso; tale figurazione musicale, tenendo premuto il pedale destro del pia-
noforte, crea un alone sonoro corrispondente a quello che si crea con il suono del-
le campane. questo è reso con.
Semplice è il canto,181 un tranquillo movimento melodico quasi esclusiva-
mente per gradi congiunti, che ha il suo primo sussulto sulla parola «oro» (un in-
tervallo di quarta ascendente). Sulla stessa parola muta anche l’accompagnamento
pianistico, passando dalle quartine di semicrome alle terzine di crome che, rallen-
tando il vivace movimento che si era creato portano gradualmente alla sezione
successiva.
In questa seconda parte la musica è più incerta, nel senso che non c’è più
un centro (armonico e melodico) preciso, tutto si muove ma non si va da nessuna
parte: la musica, insomma, per usare una parola cara al poeta (certamente musi-
calmente impropria ma efficace), si dondola. L’andamento è lento e solenne,
scandito dai rintocchi gravi di semiminime al pianoforte, mentre armonicamente
non è possibile dire in che tonalità siamo; anche il canto, seppur sempre semplice,
è più frastagliato.
Ma è una sezione molto breve. Si giunge presto alla terza parte, che muta
ancora registro: il pianoforte ora avvolge il canto con ampi arpeggi in sestine, rin-
tocchi gravi che si espandono nell’acuto e poi ricadono sempre cangianti; la voce,
a sua volta, presenta una melodia sempre più frastagliata, alternando semplici frasi
per grado congiunti a improvvisi salti (un’ottava e una quarta sulla parola «Adoro»
e un’undicesima su «tranquilla»). L’episodio è concluso dal pianoforte solo, che
nelle ultime 6 battute modula in modo sempre più inquieto, sempre più sfuggente:
il suono muta, sta sparendo il cantare a gioia delle campane, lentamente si insinua
il suono più grave.
Siamo alla bella conclusione della lirica, è quasi un recitativo accompagna-
to quello che sentiamo alle bb. 69-71: l’oscillazione degli accordi si fa lugubre,
mentre la voce ha perso la semplicità e spensieratezza iniziali. Ma qualcosa
dell’inizio ricompare: inaspettatamente Liuzzi alla terzultima battuta ci fa risentire
il suono gioioso delle campane, ma non è più esattamente lo stesso di prima, è
come impazzito — prima più veloce, poi bruscamente si fa sempre più lento —
181
Ma è una caratteristica di Liuzzi unire ad un accompagnamento più elaborato, soprat-
tutto armonicamente, una linea vocale che si rifà alla cantabilità italiana.
mentre il canto ha il suo ultimissimo sussulto (ancora il «desio» non sembra spen-
to), ancora una quarta ascendente che però, sul Leitmotiv delle campane che si
spengono, subito precipita senza possibilità di risalita.
Un’altra poesia in cui le campane hanno un ruolo fondamentale è Sera festiva, po-
sta come un controcanto di Alba festiva a conclusione della prima sezione di Myri-
cae, Dall’alba al tramonto. La poesia ripropone infatti, in un tono tra il narrativo e
il popolare, gli stessi temi (ma qui con ancora più pessimismo) della poesia
d’esordio del libro: il cammino dell’uomo porta inesorabilmente dalla vita alla
morte e tutto ciò che è festivo si tramuta in lutto. E ancora le campane assumono
nel variare del loro suono tutta l’ambiguità e il doloroso mistero della vita
dell’uomo: addirittura qui è lo stesso suono che può essere sentito annunciatore di
vita o ricordo di morte, e così le campane che annunciano per tutti la festa immi-
nente, per la madre che ha perduto suo figlio non sono altro che il ricordo di quel
dolore.
La poesia di Pascoli è composta da quattro strofe di sei novenari più un set-
tenario tronco (verso onomatopeico). L’andamento della poesia è molto regolare,
soprattutto nelle prime due strofe, dove i versi si possono unire a due a due (ele-
mento da non sottovalutare in sede di intonazione). Ogni strofa è suddivisibile in
due parti: i primi quattro versi che raccontano (la camicia di lino che il bambino
cerca per la festa nella prima strofa; la descrizione della trepidazione che prende il
mondo esterno per la festa nella seconda) e gli ultimi due che descrivono la dispe-
razione della madre; poi, come accennato prima, Pascoli alla fine della sestina in-
troduce un verso onomatopeico che evoca il suono della campana.
Dalla terza strofa comincia il ricordo della morte del bambino, ricordo ge-
nerato dal suono delle campane che, come adesso, suonavano a festa: è da questo
particolare che nasce nella mente della madre l’associazione tra il suono festoso
che sente e la morte del figlio,182 cosicché quel suono è sempre lo stesso ma non ha
più lo stesso significato.
182
Si noti che la voce narrante della poesia è dell’altro figlio della donna.
Di Sera festiva esiste una versione musicale di Adolfo Gandino. Incluso nel-
la raccolta Ventiquattro melodie, il brano era stato prima pubblicato dagli editori
Giudici e Strada, e in tale edizione era definito Romanza. La semplicità e
l’essenzialità dei mezzi musicali utilizzati nel tradurre in suoni il testo poetico di
Pascoli, fanno di questo brano forse più riuscito tra tutte le intonazioni pascoliane
di Gandino, nonché un eccellente modello dello stile del compositore in generale.
. ’
del rapporto tra metro e ritmo in un brano di jazz, «l’ossessione di una regolarità»
su cui si muove il ritmo del canto. Gandino non ha fatto altro che rendere sempre
udibile ciò nella poesia Pascoli aveva potuto mettere in evidenza solo con un ri-
tornello onomatopeico alla fine di ogni strofa: invece il pianoforte ci propone
dall’inizio alla fine quello scampanare che risuona nelle orecchie della madre e del
figlio, scampanare sempre uguale che viene percepito allegro, festivo, da alcuni,
ma che per altri dentro nasconde un segreto di morte; nella versione musicale di
Gandino quel suono si può dire che diventa veramente un’ossessione (come lo è
per la madre). In questo caso, dunque, la musica ha potuto far sentire — senza ba-
nalizzazioni — ciò che nella poesia poteva essere solo evocato.
Tab. 2: Struttura musicale di Sera festiva nell’intonazione di Gandino. Nella prima colonna
sono indicate le strofe e il numero dei versi della versione originale; nella seconda colonna il
testo, con i versi integrati da Gandino tra parentesi quadre; nella terza colonna la struttura
musicale sintetizzata con lettere e nella quarta le battute del testo musicale. Le gradazioni di
grigio evidenziano le varie sezioni musicali; le linee orizzontali più grosse indicano una sezione
musicale definita più nettamente, quelle sottili una separazione che ha un valore più per
l’analisi che nel fluire del discorso musicale.
U ’…
T
ra le scelte poetiche che non attingono da Myricae, certamente quella di
Liuzzi di musicare alcuni versi dai Poemi conviviali è tra le più importanti
e allo stesso tempo controcorrente. I Poemi conviviali sono un’opera pro-
fondamente inserita nella cultura del tempo, eppure, dopo i primi apprezzamenti,
questa poesia fu presto criticata (il solito Croce apre le danze) e dimenticata. Per
questi motivi la scelta di Liuzzi è importante e controcorrente: importante, in
quanto sceglie uno dei libri pascoliani più esplicitamente aderenti al Decadenti-
smo europeo, e più ignorato.183 I primi poemi cominciano ad essere pubblicati nel
183
È stata soprattutto merito di Debenedetti la riscoperta di un’opera pressoché dimentica-
ta per decenni, con la lettura magistrale data dal critico al primo poema del libro, Solon, (-
1979, pp. 199-264).
. ’
1895 sulla rivista di Adolfo de Bosis «Il convito» e poi in volume nel 1904. Con
quest’opera
I versi scelti da Liuzzi fanno parte del primo poema, Solon. È necessario ave-
re un quadro complessivo dell’intera poesia — che Debenedetti definisce «uno dei
più bei poemi non d’amore, ma sull’amore»185 — anche per meglio comprendere la
realizzazione musicale di Liuzzi.
184
Giuseppe Leonelli, Introduzione a P 1980, p. 23. Dominano «temi, motivi greco-
romani e paleo-cristiani (ma soprattutto greci), scelti fra quelli più significativi della storia dello
spirito classico, rivisitati, e quindi “riletti”, con occhio e coscienza di moderno. […] Come piccole
sinfonie, i vari poemi accordano su antichi temi e motivi classici, di diversa origine [...] un vasto,
polifonico tessuto di citazioni, talvolta intrecciate fra loro secondo una tecnica “contaminatoria”
che ricorda molto la maniera dei poeti alessandrini e che, in sintonia con un carattere profondo
dell’alessandrinismo autentico, celano di frequente dietro le modulazioni formali, dall’apparenza
giocosa di compiaciuta erudizione, un sentimento della realtà, del tempo, profondamente triste,
che giunge a sfiorare gli orli del Nulla», ivi, pp. 26, 29.
185
1979, p. 199. Pascoli «ha difeso, tra tutti i modi dell’amore, la poeticità, la
poetabilità di quello che immunizza dai drammatici confonti dell’io col tu, e garantisce il massimo
di sicurezza; lo stadio […] dell’amore infantile. Solon è un’eccezionale e grandissima poesia
dell’amore adulto, proprio perché il poeta ha potuto viverne e articolarne l’ispirazione, previa ga-
ranzia di essere ormai tutelato, chiuso in un mondo della sicurezza. Si è messo, per dirla alla buona,
in una botte di ferro. […] il Pascoli vive tutti quei sentimenti di amore infocatissimo, ne è perfet-
tamente capace, e ce ne dà una veramente grande, eccezionale poesia: ma a patto che quell’amore
l’abbia vissuto Saffo. Ma intanto ci ha detto che per lui l’amore potrebbe essere quello; ha inverato
quell’amore ardente, spasimante verso un cupio dissolvi, in parole sue, in accenti suoi, in una into-
nazione sovrana e unica, tra la tanta poesia amorosa di parecchi secoli della nostra lirica», ivi, pp.
204, 214-125.
La scena della poesia è un convito in casa del poeta Solone, ormai vecchio e
prossimo alla morte;186 ad allietare i commensali giunge una donna di Eresso (in
cui si potrebbe identificare la poetessa Saffo), la quale intona, accompagnandosi
con un’arpa (la pectide) due canti, uno d’amore e l’altro di morte. Dei due canti
(entrambi in strofe saffiche rimate) il più bello e importante è senza dubbio il
primo, quello intonato da Liuzzi e sul quale lungamente si sofferma Debenedetti:
186
Pascoli si rifà ad un mito raccontato da Strobeo: «Solone l’ateniese figlio di Exekestide,
avendo udito suo nipote cantare durante un banchetto un carme di Saffo, se ne dilettò e chiese al
giovane di insegnarglielo. Avendogli questi domandato per quale motivo lo desiderasse, rispose:
“Per morire dopo averlo imparato”» (cit. in P 1980, p. 79). Il mito (citato da Pascoli nella sua
antologia Lyra) è ripreso negli ultimi due versi: «Questo era il canto della Morte; e il vecchio | Solon
qui disse: “Ch’io l’impari, e muoia”».
. ’
questo canto pare sereno nei versi iniziali: il plenilunio sull’orto, il tremo-
lio d’argento del melo: diventa subito tempestoso; quel vento che sibilava,
scuotendo appena le fronde, si muta in bufera, che porta insieme devasta-
zione e spossamento: poi con trapassi modulatissimi, torna a placarsi in
una sorta di calma, rassegnata ebbrezza della disperazione; l’amore è im-
possibile come vera vicinanza con l’essere amato, felicità di vivere insie-
me: ma c’è un’altra identificazione possibile, ed è intesa come l’abbraccio:
ed è lo sprofondarsi, l’inabissarsi, il confondersi nel mare di luce che
l’amore ha acceso in chi ama, offrire la vita in altro modo. E raggiungere,
per questa via, quella pace dolce, che segue le grandi estasi d’amore.
L’illusione calma, che la pienezza della felicità non sarà più disturbata dal
volgere del tempo. Così come nel crepuscolo, la giornata pare per un at-
timo fermarsi nel chiarore non più emanato dal sole ormai scomparso.
[…] La grandezza — diciamo l’importanza lirica e umana — di questo can-
to d’amore che il Pascoli ha saputo scrivere, dipende da un nudo, quasi
delirante, sentimento tragico dell’amore. […] L’amore […] ci ha illusi di
essere in due, di sdoppiarci nell’oggetto del nostro amore; e poi, alla fine,
ci scopre che eravamo sempre ancora noi, noi soli, prigionieri di noi stes-
si. […] Attraverso la sua Saffo, attraverso quella Saffo che canta per lui e
in nome di lui, il Pascoli rivive alcuni dei maggiori temi dell’amore ro-
mantico.188
187
Ivi, p. 244; «l’incanto di questa lirica […] dipende […] dal rapido succedersi dei contra-
sti, dai trapassi drammatici: insomma dallo schema dinamico», ivi, p. 249.
188
Ivi, pp. 244-246.
quale non si può resistere, ma è anche l’estremo gesto di chi, di fronte alla persona
amata che non può avere, decide di annullare totalmente se stesso:189
Per il Pascoli la leggenda di Saffo, con quella rupe che si imbeve di luce ri-
flessa, con quel mare infinito che dissolve, ma contemporaneamente
permette di celebrare una suprema volontà e voluttà di dedizione, raffigu-
ra la morte come atto d’amore. È negato di identificarsi con l’amato attra-
verso le vie dell’amore umano, di perdersi in lui; ci si perderà ugualmente,
soli: e sarà come perdersi e annullarsi in lui. La disperazione d’amore sug-
gerisce al Pascoli il grande, disperato rimedio romantico; quella che, dopo
Wagner, dopo Tristano e Isotta si chiama Liebestod, la morte d’amore,
raggiunta attraverso la rinuncia alla volontà di vita. […] la Saffo del Pa-
scoli […] ripete in un modo assolutamente lontano dal romanticismo te-
desco, ripete la morte d’Isotta.190
189
E qui Pascoli riprende il famoso mito di Saffo (usato già da Leopardi ne L’ultimo canto
di Saffo) secondo cui la poetessa innamorata non corrisposta di Faone, si toglie la vita gettandosi
nella rupe di Leucade.
190
Ivi, p. 262-263. Sulla conoscenza da parte di Pascoli della morte di Isotta ancora il criti-
co: «Sarebbe azzardato pensare che il Pascoli abbia pensato a Wagner e alla morte d’Isotta. Certo
l’ambiente formativo del pascoli era stata la wagneriana Bologna. […] Certo, nella cultura italiana
degli anni in cui fu costo Solon, si parlava di Tristano e Isotta; se non altro il d’Annunzio aveva da-
to una parafrasi in prosa di quel poema o dramma musicale […] nel romanzo L’Innocente. dunque:
difficile affermare che il Pascoli abbia pensato alla morte di Isotta; difficile anche escludere che ci
abbia pensato», ivi, p. 262.
191
Tristano e Isolda come poema drammatico, in 1924, pp. 203-220. Liuzzi, inoltre,
aveva studiato a Bologna con Martucci, che in quella città nel 1888 diresse la prima italiana di Tri-
stan und Isolde; a Bologna, inoltre, frequenta in università le lezioni prima di Carducci e poi di Pa-
scoli.
. ’
formale, ha certamente attinto, se non a piene mani comunque quanto basta, dal
mondo musicale post-wagneriano.192
La composizione di Liuzzi è quanto di più vicino si possa immaginare in
quegli anni in Italia alle esperienze della lirica musicale europea: impianto certa-
mente durchkomponiert (ma ben salda grazie a preziosi richiami tematici), canto
che poco o nulla concede a piacevoli melodie.
Ma prima di procedere nell’analisi sarà bene chiarire la struttura generale
della lirica:
192
E si sente la lezione di un musicista come Max Reger, il rigore della sua forma unita a
un clima musicale decadente, al quale né lui né Liuzzi potevano sottrarsi.
Tab. 3: Struttura musicale di Saffica. Nella prima colonna sono riportati il testo e gli interventi
del pianoforte; nella seconda colonna il numero delle battute. Le gradazioni di grigio e le linee
orizzontali evidenziano le varie sezioni musicali in cui è possibile dividere il brano; le linee in-
dicano una divisione più netta, i grigi una separazione più sfumata.
esia, ma ha presente la cornice nella quale la donna di Eresso intona i suoi canti:
infatti nello spartito riporta tre versi che precedono il canto d’amore:
Nel calmo plenilunio, il vento sibilava […] C’è già una dissonanza, una
nota irrisolta e forse maligna in quell’armonia di argento e azzurro. Ades-
so la minaccia si precisa: quello stesso vento cambia suono. […] La mo-
dulazione […] subito diviene una trasformazione, un incalzante accele-
rarsi e infittirsi del movimento. […] E frattanto, proprio nella sintassi, il
movimento si è fatto più stretto, concitato. Se la prima strofe era un «lar-
go» qui l’incalzare delle proposizioni brevi, asindetiche (non più legate da
congiunzioni, anzi precipitatesi l’una sull’altra senza respiro), tutte uguali
di durata, quasi a sottolineare con la loro simmetria e somiglianza di dise-
193
Ma forse questa indefinitezza avrà comunque un nome alla fine del brano.
La dissonanza Liuzzi l’aveva posta fin dall’incipit della lirica, ora (bb. 8-14)
asseconda il mutare del movimento: arpeggi più rapidi attraversano la tastiera del
pianoforte, dapprima ancora piano, nel registro medio dello strumento, poi la so-
norità si fa sempre più intensa, e si estende il registro del pianoforte verso il grave,
mentre la voce, seguendo il ritmo della poesia, si fa sempre più concitata (atten-
zione alla b. 12: la linea del canto che intona «mugghia il vento» ricomparirà quasi
uguale poche battute dopo rivelando il suo vero significato). Non abbiamo un pre-
sto di implacabile veemenza, ma certamente ciò che risuona in queste battute è
una bella versione musicale del mutamento di sonorità dei versi pascoliani.
Si giunge così ad uno dei momenti più intensi della poesia: ancora muta
l’andamento e alla tempesta della natura risponde appena un tremito del corpo.
«Ma subito il poeta si affretta a dirci: non crediate alle apparenze, a quell’esiguo
tremore di un piccolo essere: questo è l’amore, investe le radici della vita, come e
più del vento, che si getta contro le solide querce».195 Il tremito si concretizza anche
nella musica di Liuzzi (bb. 15-16), dapprima violentemente e poi «dolcissimo»,
mentre il canto si placa in una sola nota per poi costruire un arco melodico che ha
il suo picco nel sol naturale della parola «amore». Ma l’elemento musicalmente
più importante è la comparsa di quello che si può chiamare il Leitmotiv
dell’amore, ovvero un breve tema di quattro note (due terze minori discendenti,
l’una a distanza di un tono dall’altra — ma a volte nelle ricorrenze successive ci sa-
rà una terza più una quarta) che prima è accennato incompleto nella linea del can-
to (manca la seconda terza, b. 18: lo stesso disegno melodico della b. 12, tranne che
per un intervallo che qui è di tono, Re-Do e prima era di semitono, Sib-La) e poi
ben cantato nella sua forma completa dal pianoforte alla battuta successiva. Quella
di Liuzzi è una soluzione musicale semplice ma efficace e perfettamente in linea
con la lirica di Pascoli: nella poesia il vento, quasi un’epifania naturale dell’amore,
dalla tempesta diventa un soffio nel cuore umano; nella lirica quella terza minore
discendente che prima era sommersa dall’arpeggio impetuoso del pianoforte, si fa
194
1979, pp. 251-252.
195
Ivi, p. 254.
. ’
canto dolcissimo poche battute dopo, di quell’amore simbolo musicale, oltre che
struttura portante dell’intera composizione.
La sezione successiva, al pari della strofa di Pascoli, è piuttosto frastagliata e
non perfettamente riuscita come le precedenti: troppi sono i colori che il musicista
ci offre per così pochi versi. Abbiamo dunque prima 3 battute nella tonalità di Si
maggiore e poi 5 battute in Solb maggiore: il pathos delle battute precedenti si è at-
tenuato, la sonorità va da un piano al pianissimo, il pianoforte si limita a sorregge-
re il canto con discrezione (dapprima con morbidi arpeggi, poi solo con degli ac-
cordi ribattuti, ma sempre, alla fine di ognuna di queste microscopiche sezioni, in-
tonando il tema dell’amore), canto che domina con i suoi arabeschi un po’ forzati,
similmente ai versi un po’ concettosi della strofa.
Dopo alcune battute in cui il pianoforte continua ad immergerci in questa
atmosfera ormai rarefatta, ecco un altro momento musicalmente molto intenso: il
desiderio di annullamento del testo trova un suo corrispettivo musicale nella ri-
presa dell’arpeggio iniziale nella tonalità di Mi maggiore, arpeggio che subito si
trasforma, quasi contorcendosi su se stesso, abbracciando la voce che continua a
salire e mollemente ricadere nelle sue evoluzioni melodiche, per poi arrestarsi sul-
lo scoglio al limitare del mare. Poche battute ancora in cui il pianoforte rallenta
nuovamente il suo ritmo e Liuzzi fa intonare alla voce, quasi affrettatamente, in
contrasto con la gravità, la lentezza del nuovo andamento («Lento, in 8») quel
«Dolce è da te scendere dove è pace»: è il momento, il Liebestod sta per compiersi e
c’è come un’esitazione della musica ad accompagnare l’estremo gesto dell’amante.
Ma l’amore estremo ormai deve fare il suo corso: dai suoni gravi del pianoforte
lentamente si risale fino alla ripresa del motivo iniziale, poi è un ripersi continuo,
sempre cangiante, sempre più estenuato, del canto dell’amore, nel quale anche la
voce, dopo l’estremo dolcissimo «crepuscolare» acuto, si adagia e muore, trapassa-
ta da un liberatorio accordo di Mi maggiore.
… « »
L
a dinamica descritta inizialmente per introdurre Alba festiva, il desiderio
di vita e di amore che viene negato dalla comparsa inesorabile della mor-
te, ha trovato una realizzazione originalissima nel canto d’amore della
poetessa di Eresso, al punto che Solone scambia quel sentimento estremo per la
morte: «“La Morte è questa!” il vecchio esclamò. | “Questo”, ella rispose, “è, ospi-
te, l’Amore”». E certo non aveva tutti i torti, forse anche perché il canto di morte
che ascolta subito dopo non è paragonabile per intensità e bellezza al precedente.
Forse il vero canto di morte pascoliano va cercato altrove, tra i tanti canti e lamen-
ti funebri disseminati nella sua opera; di certo tra questi ne emerge uno: L’assiuolo.
Anche qui, come in Alba festiva e nei versi di Solon, l’inizio è di stupefatta bellezza,
anche qui avviene poi qualcosa che turba l’incanto iniziale — ed è sempre un suono
— una voce che diviene singulto e poi pianto di morte:
Forse è inutile fare un’analisi di una poesia tanto nota e studiata, nella quale
Pascoli raggiunge uno dei vertici della sua produzione poetica. Come ha scritto
Nava
196
ⁿ , pp. 668-669. Sempre Nava nella sua introduzione all’edizione critica di
Myricae ci dà uno stupendo esempio del lavoro poetico di Pascoli riportando alcune varianti: «Il
processo elaborativo offre preziose indicazioni sui criteri di correzione ed anche sulla poetica del
Pascoli: questi sopprime, come di consueto, l’ “io” osservatore, che apriva la prima stesura, sosti-
tuendolo con un costrutto oggettivo, che viene poi problematizzato con il punto di domanda, se-
guito dal “ché” con valore di causale apparente (i versi d’inizio suonavano in origine: “Io non la
vedeva, ma il cielo | notava nell’alba lunare” […] Il poeta conduce un lavoro di rielaborazione fo-
nica […] inoltre sono rafforzati i sintagmi impressionistici e sono sviluppati costrutti analogici. A
questo proposito un esempio che attesta un alto grado di consapevolezza da parte del Pascoli
nell’uso dell’analogia è offerto dall’ultima strofe: in origine essa conteneva una comparazione espli-
cita e dichiarata tra il verso delle cavallette e quello delle cicale, che al loro confronto sembravano
rane, nell’intento di sottolineare con un termine di paragone ravvicinato il tono quasi impercettibi-
le di quel suono: “scotevano i sistri d’argento | minuti così, che | pareva un gracchiare | una rana |
la tarda cicala”. Subito sotto il Pascoli scrisse […] “Sì: ma allora non è più la poesia, ma la spiega-
zione della poesia. Ci vuole abnegazione. Esempio: tintinni a invisibili porte”», Introduzione a P-
, pp. -.
197
, p. 241.
198
Ivi, p. 242.
199
Ivi, p. 244.
. ’
200
Scrive Rossella Pelagalli: «In linea con una nuova stagione culturale, la scrittura
dell’artista trentino rifiuta dunque il vocabolario della normale comunicazione, trasformando la
realtà in immagini di straordinaria intensità evocativa. È l’adesione alla poesia di Pascoli a consen-
tirgli di superare con facilità i confini angusti d’una maniera salottiera, richiedendo un fraseggio
meno ampio, più spezzato, ma certo più adeguato al fluire di un testo che, mancando di coordina-
zione nei particolari, si risolve in una trama di impressioni, apparentemente disordinate nel loro
succedersi, ma legate in realtà da sottili e arcani rapporti», P, Riccardo Zando-
nai, in 2002, p. 443. Sono osservazioni sostanzialmente in linea con quanto detto. Biso-
gna comunque dire che il linguaggio musicale di Zandonai ne L’assiuolo è tipicamente zandonaia-
no (seppure questa è un’opera giovanile del musicista, in quanto scritta nel 1901), la poesia di Pa-
scoli non ha fatto altro che amplificare una tendenza che era già nel compositore e nel clima cultu-
rale-musicale del tempo. Ma tutto questo non va ad annullare il rapporto tra il musicista e il com-
positore, anzi: la somiglianza del procedimento compositivo (musicale e poetico) non è che la con-
ferma di quanto è stato detto precedentemente sui rapporti tra musica e poesia nel Decadentismo-
Simbolismo.
musicali chiare e irrazionali allo stesso tempo, accostamenti sonori fulminei che
tentano continuamente di aprire invisibili porte, il suono non vale più soltanto per
la sua materialità ma per «l’insieme di associazioni inconsce che esso evoca», asso-
ciazioni ovviamente potenziate dalla poesia di Pascoli.
L’incipit è esemplare di questo procedimento: la tonalità è subito affermata
nella prima battuta da un accordo di tonica (Mi minore), ma già nella seconda
battuta troviamo un accordo di sesta eccedente sul sesto grado (con una sospen-
sione accentuata dalla corona) che poi si muove enarmonicamente passando pri-
ma per un momento in Mi maggiore e poi soffermandosi per ben nove battute
sulla dominante, continuamente oscillando tra modo maggiore e minore (anche
qui alla fine troviamo un’altra corona).201 Si tratta dunque di materiale semplice,
riconoscibile, classificabile, ma che disposto in questo modo è tutt’altro che defini-
to. Alla fine l’accordo si muove, ma ci porta dapprima con una cadenza d’inganno
in un luminoso Do maggiore (bb. 14-15) — che porta anche ad un significativo
slancio melodico del canto — immediatamente negato (come luminosa e fugace
era l’apparizione dei soffi di lampi) da «un flusso armonico instabile, privo di in-
tenti evolutivi»202 e dal canto che si contorce in un intenso declamato.
A questo punto la prima strofa è conclusa e compare il canto del chiù,
semplice ed essenziale: una terza minore con l’attacco in levare ripetuta tre volte,
inframmezzata da brevi pause e dagli accordi del pianoforte che non portano da
nessuna parte (e vengono sempre un quarto dopo il canto).
Le strofe successive proseguono sulla stessa linea di quanto detto. La se-
conda è un continuo oscillare tra modo maggiore e minore, un continuo variare
della voce sopra un unico disegno melodico che alla fine si trasforma in un’unica
nota (al limite del silenzio); molto bella è la parte pianistica, che accompagna in
controtempo il canto, e quelle fioriture e cromatismi che evocano (sembrano de-
scrivere ma non lo fanno) i suoni pascoliani («il cullare del mare», il «fru fru tra le
fratte», «il sussulto, com’eco d’un grido che fu»).
Le stesse caratteristiche musicali le troviamo nella terza strofa: il canto che
varia sempre uno stesso disegno melodico (quasi sempre andando a toccare le no-
201
Cfr. anche l’analisi che di queste battute fa Rossella Pelagalli ( P, Ric-
cardo Zandonai, in 2002, pp. 439-440).
202
Ibidem.
. ’
te cardine dell’armonia) e poi si spegne in una sola nota; il pianoforte che prose-
gue a muoversi in controtempo rispetto alla voce. L’immagine sonora più miste-
riosa di tutta la poesia, i sistri d’argento,203 diventa in Zandonai un disegno ostina-
to di terzine nella regione sovracuta dello strumento, reso irregolare dalla mancan-
za del battere e dall’aggiunta delle acciaccature (ma si noti che l’acciaccatura aveva
fatto la sua comparsa poche battute prima, quando «tremava un sospiro di ven-
to»), disegno ostinato accompagnato dagli accordi della mano sinistra che si inol-
trano progressivamente nella regione più grave del pianoforte.
E su questo registro grave si leva l’ultimo canto dell’assiuolo, e qui il silen-
zio è a un passo: «come di lontano» scrive Zandonai nella canto, e nella parte del
pianoforte segna «ppp». Infine la voce termina il suo pianto di morte, ma la lirica
non è finita: c’è un breve epilogo pianistico, estremo simbolo sonoro di tutta la
poesia. Prima è ancora un oscillare stupefatto tra modo maggiore e minore, (pos-
sibile che tutta la bellezza, tutto il desiderio di vita sia scomparso?), poi è il canto
di morte che ritorna, grave fino al limite del rumore e del nulla, al punto che or-
mai forse non è più «pianto di morte», ma di quel pianto eco che piano sprofonda
in un baudeleriano abisso. Qui veramente il simbolismo di cui è intrisa la poesia
trova un suo corrispondente in un simbolismo musicale semplice ed essenziale, al
limite del silenzio, e non possono non tornare alle mente le già citate parole di
Gargano: il poeta (in questo caso il musicista) «ha saputo conciliare in una divina
armonia il Silenzio e la Parola. Quando egli ha fatto ciò, ha creato nell’arte quello
che è vivo nella natura: il Simbolo […] che non lascia se non spiragli aperti al mi-
stero delle cose e non può essere mai rivelato tutto».
203
I sistri, è bene ricordarlo, sono lo strumento che gli egizi utilizzavano nel culto dei mor-
ti per propiziare il passaggio del defunto dalla morte alla nuova vita.
410.
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