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L'Inferno, la prima delle tre cantiche, si apre con un Canto introduttivo (che serve da proemio all'intera

opera), nel quale il poeta Dante Alighieri racconta in prima persona del suo smarrimento spirituale e
dell’incontro con Virgilio, che lo condurrà poi ad intraprendere il viaggio ultraterreno raccontato
magistralmente nelle tre cantiche. Dante si ritrae, infatti, "in una selva oscura", allegoria del peccato,
nella quale era giunto avendo smarrito la "retta via", la via della virtù, e giunto alla fine della valle
(“valle” come “selva oscura” sono allegorie entrambe dell’abisso della perdizione morale ed
intellettuale) scorge un colle illuminato dal sole "vestito già dei raggi del pianeta/che mena dritto altrui
per ogne calle".
Dante descrive con una similitudine il suo stato d’animo, come quello di chi salvatosi dai flutti giunge a
riva e si volge indietro a scrutare le acque pericolose alle quali è appena scampato, così l’animo del
poeta si volge a “rimirar lo passo” che non può essere superato da persona vivente. Ma ecco che, dopo
essersi riposato e poi incamminato lungo la spiaggia deserta verso il colle, mentre si appresta ad
affrontare la salita "quasi al cominciar de l'erta" gli si parano davanti, in sequenza, una lince (lonza) dal
pelo maculato, un leone e una lupa. Le tre fiere sono il simbolo, rispettivamente, di lussuria, superbia e
cupidigia. La lince gli sbarra il cammino, impedendogli di avanzare e quasi forzandolo a tornare sui suoi
passi "‘mpediva tanto il mio cammino/ch'i' fui per ritornar più volte vòlto", il leone pareva andargli
incontro fiero, affamato e ruggente, mentre la lupa, ultima delle tre fiere a pararglisi davanti, incede
verso il poeta, respingendolo indietro, verso l’abisso dal quale Dante sta tentando di allontanarsi. Ed
ecco che, mentre Dante rovina indietro in “basso loco”, gli appare alla vista “chi per lungo silenzio parea
fioco”, qualcuno la cui immagine era resa più flebile dal lungo silenzio, cioè morto da lunghissimo
tempo. Dante invoca aiuto "«Miserere di me», gridai a lui" pur non riuscendo a distinguere se ciò che
scorge è una persona o un’ombra.
L’anima di Virgilio risponde "non omo, omo già fui" e si presenta dichiarando le sue origini mantovane, il
tempo in cui visse e le sue opere, si che Dante lo riconosce. Trovandosi di fronte a cotanto personaggio
Dante, con una punta di vergogna, dichiarandosi suo discepolo e dichiarando l’opera sua figlia
dell’opera Virgiliana chiede aiuto per sfuggire alla lupa "la bestia per cu’ io mi volsi". Importante
sottolineare che l’atteggiamento di Dante nei confronti di Virgilio non è di deferenza ma di ammirazione
vera, Dante ha esplorato e conosce a menadito l’opera Virgiliana e la stessa Divina Commedia vi si
ispira e ne attinge direttamente. Virgilio redarguisce Dante riguardo alla strada che ha imboccato, che
non è quella giusta "a te convien tenere altro viaggio", si sofferma sulla natura mortifera e malvagia
della "bestia" che gli sbarra il cammino e accenna una profezia sibillina circa il "Veltro" che ricaccerà la
lupa nell'inferno dal quale proviene. Profezia che trova riscontro in altre profezie complementari molto
più avanti nell'opera enunciate da Beatrice (Purgatorio XXXIII 34-45) e da San Pietro (Paradiso XXVII
55-63), mentre sul Veltro, indubbiamente figura della provvidenza, innumerevoli teorie sono state
proposte per identificarlo con un personaggio storico definito (Cristo, Cangrande, Dante stesso, ecc.).
Infine Virgilio comunica al poeta smarrito che per il suo bene ("per lo tuo me’ " – dove “me’” sta per
meglio) Dante dovrà seguirlo e Virgilio gli farà da guida “per loco eterno”, prima nell’inferno "ove udirai
le disperate strida", poi in purgatorio "e vederai color che son contenti/nel foco, perché speran di
venire/quando che sia alle beate genti", ma non in paradiso. Essendo un’anima del limbo a Virgilio non
è permesso di ascendere fino a quelle altezze, un’anima più pura lo condurrà nell'ultima parte del
viaggio "anima fia a ciò più di me degna:/con lei ti lascerò nel mio partire" e quell’anima pura è,
ovviamente, Beatrice, sostituita da San Bernardo al termine del viaggio, in paradiso (Paradiso XXXI
105). Il gioco è fatto, Dante in nome di Dio e per salvarsi dalla misera condizione morale e intellettuale
nella quale si trova "a ciò ch'io fugga questo male e peggio" prega Virgilio di condurlo nei luoghi
ultraterreni che gli ha appena descritto "che tu mi meni là dov' or dicesti". L’ultimo verso non ha bisogno
di commenti, è chiarissimo, e ci spalanca le porte dell’opera intera: Allor si mosse, e io li tenni dietro.

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