Sei sulla pagina 1di 38

Psicologia clinica e psicopatologia per l’educazione e la formazione

Capitolo 1: la psicologia clinica nella pratica educativa

La genesi della psicologia clinica e i suoi ambiti di intervento

La psicologia clinica è la dimensione applicativa di tipo clinico della scienza psicologica che si esprime con
interventi di tipo Psico-diagnostico e di aiuto psicologico, i quali vengono attuati utilizzando propri strumenti
e metodi di indagine e specifiche tecniche di intervento. Le finalità sono orientate sia la conoscenza che
all’intervento sulla salute della persona, proponendo di aiutare gli individui a sviluppare le loro potenzialità,
a risolvere i problemi di rieducazione e di adattamento familiare e sociale.
La psicologia clinica ingloba la sofferenza e la malattia con il fine di avvalersi per fornire assistenza e
sostegno agli individui, mirando ad alleviare il loro disagio psicologico.
Nel 1879 la psicologia clinica nasce con Wundt e in quel periodo vengono pubblicati gli studi sull’isteria di
Breuer e Freud.
Nel XX secolo la psicologia clinica si è evoluta fino a raggiungere una grande diffusione dopo la seconda
guerra mondiale. L’impostazione psicometrica, focalizzata sulla misurazione sulla diversità individuali e, in
un primo momento era l’impostazione dominante con i test mentali che godevano di grande considerazione,
in seguito emerse l’impostazione dinamica centrata sulla motivazione, sull’adattamento e sulla modifica
della personalità.
La psicologia clinica si avvale di alcuni canali di informazione, quali quelli derivanti dall’informazione
verbale e dall’osservazione diretta della condotta dell’individuo. Tali fonti informative risultano però
influenzate da variabili relative alla relazione interpersonale, al contesto in cui vengono raccolte,
all’osservatore.
Un’attenzione particolare merita la stanza di consultazione, ovvero in setting in cui il clinico dà inizio al
lavoro insieme al proprio cliente; il setting dovrebbe rappresentare un ambiente personalizzato, rispecchiante
alcune sue caratteristiche, nella cui atmosfera l’utente dovrebbe sentirsi accolto il contenuto e quindi
facilitare la reciproca conoscenza.
L’intervento clinico può essere necessario per prevenire l’insorgenza di situazioni problematiche, per aiutare
le persone a superare problemi già presenti o per favorire negli individui lo sviluppo di abilità personali.
L’intervento può essere richiesto direttamente dal soggetto, oppure dalla famiglia o da un genitore, dalla
scuola o da un’organizzazione sociale. È importante che lo psicologo clinico sia sempre a conoscenza degli
obiettivi dichiarati dal committente di servizi. Vi sono alcune fondamentali tipologie di intervento:
• La psicoterapia è un intervento rivolto ad un individuo, una coppia, un nucleo familiare, finalizzato a
raggiungere un cambiamento nel loro funzionamento mentale che risulta fonte di sofferenza e di
disadattamento, utilizzando una particolare tecnica psicologica che viene impiegata II precise modalità e in
base una determinata concezione teorica. La psicoterapia è una prestazione di tipo specialistico.
• La consulenza psicologica prevede di aiutare un sistema sociale ad acquisire conoscenze abilità indirizzati
al cambiamento del sistema sociale stesso. L’intervento di counselling consiste nel creare una condizione
spazio-temporale nella quale sia possibile, durante la seduta con il cliente, incontrarsi conoscersi allo scopo
di lavorare per individuare il punto focale della situazione psicologica. Il soggetto dovrebbe
professionalmente essere aiutato a percepire alcuni parametri di riferimento al fine di poter egli stesso
valutare come progettarsi tenendo conto delle proprie difficoltà. Tale intervento è finalizzato a migliorare il
benessere dell’individuo, ma è possibile un suo utilizzo anche da parte di altre figure professionali senza
una formazione specifica. Il counselor dovrebbe avere le competenze le conoscenze necessarie per inviare
il cliente ad un altro specialista, nel caso in cui emergano problematiche.

Per chiarire ulteriormente la distinzione tra counseling E psicoterapia, si possono evidenziare alcune
differenze sufficientemente chiare circa obiettivi e finalità.
Il counseling si pone obiettivi più circoscritti e definiti raggiungibili in un tempo relativamente breve; spesso
si tratta di obiettivi pratici, come la necessità di prendere una decisione o risolvere un problema. Nella
psicoterapia, per contro, gli obiettivi possono essere molto più diversificati, più ambiziosi e mirare a
cambiamenti significativi e duraturi nella personalità, nel funzionamento o nell’adattamento dell’individuo.
Solo la psicoterapia può affrontare problematiche connesse con la psicopatologia, mentre la consultazione si
colloca nel campo della normalità.
Ambedue i tipi di intervento comprendono le seguenti fasi:
1
1) fase preliminare (accettazione o non accettazione del caso). Nel caso della psicoterapia, il professionista
valuta la propria capacità e la propria esperienza in relazione alla natura dei bisogni dell’utenza. Nel caso
della consulenza, il consulente esamina i valori della struttura organizzativa che richiede intervento e
verifica se le proprie competenze siano i doni alla situazione o meno.
2) Fase di avvio della relazione.il professionista in entrambi casi si attiva nel percepire comprendere, per
poi stabilire un’appropriata relazione ego-sintonica ed ego-distonica con l’utenza.
3) Fase di valutazione. Nel caso della psicoterapia, il clinico attraverso il colloquio o l’intervista e
l’osservazione, raccoglie i dati necessari ad avere un quadro sul funzionamento della personalità del
soggetto-del sistema sociale.
4) Fase di individuazione delle finalità.in entrambi gli interventi le finalità possono essere sviluppate
progressivamente, costruttivamente, in modo chiaro e collaborativo tra utente e clinico.
5) Fase dell’intervento vero e proprio. la frequenza e la durata dell’intervento psicoterapeutico, i tempi e i
luoghi dipendono dal programma del professionista e dell’utente. Tempo, spazio e durata sono variabili a
discrezione del clinico che dovrebbe usarli in funzione di un programma che ha parzialmente in testa con
l’obiettivo del miglioramento dell’utilità clinica del proprio paziente.
6) Fase finale. Talvolta gli utenti interrompono prima che il clinico ritenga che l’intervento processuale
della psicoterapia abbia raggiunto gli obiettivi pensati all’inizio del percorso. Per arrivare alla
conclusione è utile che, clinico e utente, collaborino nel prendere tale decisione secondo il patto iniziale
condiviso durante i primi colloqui di consultazione. I problemi di separazione sono meno considerevoli
nel caso della consulenza. Anche in questo caso però occorre dedicare un po’ di tempo Per terminare
l’intervento dal momento dell’annuncio dell’opportunità di fermare il lavoro perché non più necessario. I
motivi che convincono il clinico a terminare il lavoro riguardano la valutazione dell’efficacia del suo
intervento. Lo psicoterapeuta dovrebbe escludere gli effetti di variabili differenti dai procedimenti
utilizzati e che possono avere inciso sui cambiamenti osservati nell’utente.

Gli interventi possono essere individuali, di gruppo, sull’ambiente e sulle comunità.


Negli interventi individuali clinico presta aiuto a una sola persona. La psicoterapia individuale può assumere
le seguenti forme:
• Psicoanalitica. Secondo tale approccio l’obiettivo psicoterapeutico Mette in primo piano il processo di
maturazione psichica del paziente, cioè del proprio sé e della propria identità. Non si punta solo alla
consapevolezza di aree conflittuali come in passato.una volta la cura consisteva nel fare riemergere i
traumi a livello della coscienza.oggi la psicoanalisi è evoluta soprattutto nel favorire l’elaborazione dei
conflitti che tendono a ripetersi in situazioni nuove attuali. L’intervento dello psicoanalista non consiste
appunto nella mira operazione di rendere conosci determinati pensieri, emozioni, sentimenti vissuti dal
paziente nel passato, ma in particolare di rivivere all’interno della relazione che si e da parte del paziente
nella relazione di transfer t’verso l’analista, nel qui e ora della situazione.
• Relazionale. Il modello della psicoterapia relazionale si avvicina a quello della psicoanalisi e delle
psicoterapie psicodinamiche e mette in primo piano il gioco delle emozioni che si sperimentano nella
relazione terapeutica.
• Psicoterapia del gioco con i bambini.si basa sull’assunto che attraverso il gioco il bambino può esprimere
le proprie emozioni.gli psicoterapeuti direttivi rivestono un ruolo attivo, stabiliscono le regole, scelgono i
giochi e interpretano. Viceversa gli psicoterapeuti non direttivi.
• Centrata sul cliente.il terapeuta ascoltando attivamente senza pregiudizi, si propone di facilitare il processo
di crescita, l’auto adattamento e la responsabilizzazione del soggetto.quando la persona non riesce essere
in contatto con le proprie esperienze e non sa riconoscere i propri stati d’animo, si verifica un conflitto
interiore.
• Esistenziale.lo psicoterapeuta esistenziale opera dando sostegno ed empatia e inoltre, adottando il sistema
di riferimento fenomenologico dell’individuo, lo aiuta ad esaminare il suo comportamento i sentimenti e le
relazioni con gli altri.lo scopo è quello di rendere più consapevole il paziente delle sue potenziali capacità
di scelta e di crescita.
• Gestaltica. L’individuo e l’ambiente rappresentano un unico ecosistema interagente che si autoregola e
cresce in funzione di ogni elemento che ne fa parte. Tale approccio si occupa soprattutto di osservare
verificare la consapevolezza del processo dei pensieri, dei sentimenti e delle azioni di un individuo.la
relazione terapeutica rappresenta il laboratorio di ricerca ideale in cui una persona può scoprire, osservare e
integrare alcuni aspetti della sua personalità.
• Sulla crisi.gli interventi sulla crisi sono di breve durata, vengono utilizzati nelle situazioni di emergenza.
2
• Comportamentale. Il terapeuta comportamentale non analizza le cause inconsce che motivano il
comportamento del soggetto, vuole aiutare il paziente a modificare i suoi comportamenti-sintomi
problematici.
• Cognitiva. Si propone di modificare comportamenti sentimenti dell’individuo trasformando nei
pensieri.tale terapia si focalizza sui sintomi evidenti e non sulle esperienze infantili.
• Cognitivo-comportamentale.è finalizzata a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i
comportamenti disadattiva dell’individuo, producendo la riduzione e l’eliminazione del sintomo e
apportando miglioramenti duraturi nel tempo.

Negli interventi di gruppo il clinico cerca di aiutare ciascun partecipante impiegando il gruppo come agente
di cambiamento.tali interventi possono coinvolgere persone che non si conoscono e sono alla ricerca di una
terapia o persone già vicendevolmente coinvolte. Il compito del clinico consiste nel favorire il cambiamento
e la crescita aiutando ogni membro a risolvere i problemi. Il gruppo rappresenta uno strumento eccellente per
il cambiamento poiché fornisce regole di condotta.
Gli interventi possono essere di diverso tipo:
• Coppie famiglie. I disagi psicologici, adolescenti o adulti possono essere radicati nei conflitti familiari
irrisolti.la famiglia può rivelarsi inutile risorsa per l’evoluzione psicoterapeutica. La prospettiva sistemica
della psicoterapia familiare e di coppia ipotizza che i nuclei familiari disfunzionali non siano in grado di
dare origine a uno schema interiore di interazione che sviluppi stima di sé e appartenenza dei
comportamenti familiari. La strategia di intervento prevede che il clinico mostri le dinamiche dei
sentimenti, delle aspirazioni e delle credenze di ciascun membro familiare e come gli si pone nei confronti
degli altri.
La prospettiva psicodinamica attribuisce importanza ai conflitti intra psichici risalenti alle precoci
esperienze familiari che potrebbero avere contribuito all’instaurarsi delle problematiche attuali. La strategia
di intervento implica che il clinico aiuti i componenti della famiglia a esplorare i ricordi e i sentimenti
inerenti alle interazioni vissute nella famiglia.
La prospettiva comportamentale invece considera le famiglie disfunzionali caratterizzate dal fatto che le
relazioni positive vengono punite e soffocate, mentre i comportamenti problematici vengono rinforzati.
• Gruppi psicoterapeutici consentono lo sviluppo delle abilità sociali, l’acquisizione di punti di vista meno di
Storti su di sé e sui legami interpersonali, l’apertura verso nuovi sentimenti, comportamenti in aree
problematiche fin dall’infanzia o dall’adolescenza.l’osservazione delle interazioni altrui e di quelle del
gruppo nel suo insieme, permette inoltre di ricavare importanti feedback sulle proprie dinamiche
comunicative e di ruolo, spesso di notevole rilievo clinico.

Gli interventi sull’ambiente e sulla comunità si prefiggono di lavorare con un gruppo che condivide il
medesimo ambiente di vita con l’obiettivo di creare un ruolo migliore dove vivere, cambiare gli ambienti
problematici in una rotta positiva e sviluppare situazioni di vita con opportunità di crescita e gratificazione
personale.gli interventi clinici indirizzati al miglioramento della qualità degli ambienti possono contribuire a
rendere più educativo un ambiente in adeguato creando regole chiare per utenti e personale, educando
personale e utenti a favorire l’apprendimento di abilità.

Il colloquio educativo

Il colloquio costituisce una costante relazione nell’ambito educativo e sottolinea la qualità dell’incontro tra
educatori e uno o più soggetti che desiderano essere aiutati a risolvere una situazione personale difficile da
gestire.
Il colloquio educativo ha il fine di far emergere le risorse della persona, la capacità di individuarle e farne
uso affinché la persona stessa possa divenire protagonista della sua vita, aumentare la consapevolezza di sé,
il grado di autonomia e di integrazione sociale. Ogni educatore sviluppa un proprio stile relazionale che è
esposto a cambiamenti in rapporto all’ambito educativo, relazionale e sociale e alla sua maturità emotiva,
relazionale e professionale.
Le condotte relazionali dell’educatore vengono distinte in dimensione di controllo, dimensione emozionale e
dimensione di congruenza-trasparenza-autenticità.

La dimensione di controllo concerne la gestione del ruolo a livello organizzativo e le condotte dell’educatore
possono essere le seguenti:
3
- autorevoli, quando l’educatore instaura una buona relazione basata sul rispetto vicendevole dei propri
ruoli e delle proprie competenze, attiva la partecipazione e la collaborazione con l’altro.
- Autoritarie, dove le regole sociali e istituzionali vengono imposti rigidamente e le eventuali trasgressioni
vengono punite; viene assunta una posizione di distacco e di superiorità nei confronti dell’utente.
- Antiautoritarie, tali condotte si hanno quando l’operatore educativo si pone in modo simmetrico con
l’utente, evita il conflitto, non si assume la parte di responsabilità della relazione educativa dettata dal
proprio ruolo.

La dimensione emozionale si riferisce alla componente socio affettiva dell’educatore, alle sue capacità di
creare un clima affettivo positivo, ed è dipendente dal grado di maturità psichica conseguita. Buona
immagine di sé, autonomia, stabilità emotiva, motivazione a sostenere gli altri, sono indicatori di adeguata
maturità psichica. L’operatore educativo diventa così una figura vicina e attiva, attenta e collaborativa verso i
bisogni altrui.

La dimensione di congruenza-trasparenza-autenticità riguarda la capacità comunicativa dell’operatore


educativo che dovrebbe essere:
- congruente. È presente una correlazione tra le esperienze, la loro simbolizzazione e la loro
verbalizzazione.
- Trasparente. L’educatore rende nota la situazione educativa agli individui coinvolti nel progetto di
intervento e promuove argomentazioni volte ad analizzare la realtà comunicativa.
- Autentica.l’operatore educativo si mostra responsabile nello svolgimento del suo ruolo di facilitatore della
relazione.

Il colloquio educativo comprende le seguenti fasi:


• La preparazione dell’incontro. È importante che l’educatore predisponga un ambiente funzionale rispetto
alle finalità del colloquio.
• L’accoglienza. È basilare in questa prima fase inviare i messaggi in grado di trasmettere accoglienza,
rassicurazione e interesse verso l’altro, con lo scopo di costruire una relazione significativa.
• La focalizzazione.si propone di circoscrivere il bisogno alla base della motivazione del colloquio,
l’eventuale presenza di richieste e problemi latenti, le aspettative nella richiesta.
• L’approfondimento. Lo scopo in definitiva mira a definire il problema, le strategie e le risorse idonee per la
loro soluzione.
• La conclusione.è auspicabile fare una sintesi di ciò che è emerso; si comunicheranno poi le decisioni prese
in termini progettuali, le modalità di attuazione e di verifica dei futuri interventi e l’eventuale invio ad altre
figure professionali, nel caso in cui l’educatore non sia la figura adatta.

A seconda degli obiettivi dell’intervento, il colloquio educativo può essere distinto in:
- colloquio di consulenza. L’educatore consente all’utente di confrontarsi sulle rappresentazioni della
situazione ritenuta problematica e sulle possibilità volte al superamento dello stato di disagio.
- Colloquio di progettazione.prevede una partecipazione attiva dell’utente al progetto educativo mediante
colloqui atti a ricostruire la sua storia.
- Colloquio di sostegno. L’operatore educativo sostiene gli utenti al fine di monitorare il rinforzo della
motivazione, la valutazione della loro autonomia, dei risultati positivi o negativi.

Nella gestione del colloquio educativo ci sembra basilare che l’educatore si ponga in una posizione di ascolto
attivo, cioè assume un atteggiamento né standardizzato, né tantomeno distratto nei confronti
dell’utente.ascoltare attivamente implica dare vita a un processo di feedback, basato sull’intento di restare in
contatto con l’altro e creare spazi di condivisione.

L’osservazione nei contesti educativi

Osservare l’utente e comprendere come egli si percepisce e come pensa di essere percepito e fondamentale
all’educatore perché permette di conoscere il grado di stima che ha di sé, dei suoi punti di forza e di
debolezza.

4
Un intervento deve essere progettato per ciascuna situazione, è specifico. L’intervento è complessivo i totali
per trasmettere all’utente i messaggi e modalità comportamentali coerenti. Attraverso l’osservazione
l’educatore potrà crearsi un quadro inerenti alla anamnesi Psico sociale, al contesto familiare di origine,
all’ambiente culturale e socio istituzionale, alle richieste e ai bisogni dell’utenza.

L’osservazione è un atto conoscitivo, è una procedura selettiva in cui l’osservatore è indirizzato dalle ipotesi
da lui formulate e si propone di acquisire con precisione le informazioni oggetto del suo interesse.
Se viene svolta mediante procedimenti strutturati, controllati e evitabili e obiettiva, viceversa, si è esposta al
rischio della soggettività e delle distorsioni, non consente una rilevazione del tutto imparziale della realtà.
È importante la scelta del contesto in cui l’osservazione viene effettuata, contesto che deve essere idoneo al
comportamento che si vuole studiare.
L’osservazione può avvenire in laboratorio oppure l’osservazione si definisce naturalistica quando avviene
nell’ambiente naturale in cui ha luogo il comportamento in maniera spontanea. Occorre precisare che si tratta
comunque di un’osservazione artificiosa e il cambiamento di una determinata condotta in un soggetto può
essere attribuito al fatto di essere osservato: si parlerà in tale caso di reattività di un comportamento. La
reattività dei soggetti può essere contrastata attraverso alcune tecniche: il prolungamento delle osservazioni,
l’impiego di tecniche non invasive, lasciare che i soggetti da osservare familiarizzino con la presenza
dell’osservatore, l’osservatore maschera che cosa sta osservando ma non che sta osservando.
Le osservazioni possono essere dirette o video registrate.
Altre possibili fonti di errore che possono invalidare l’osservazione sono dovuta la tendenza dell’osservatore
a fornire dati che supportano le sue ipotesi iniziali e confermano le sue aspettative.

La durata e la frequenza dell’osservazione dipendono dalle finalità che si hanno gli è possibile utilizzare i
seguenti metodi: osservazione diaristica, campionamento temporale, descrizione campione.

La posizione dell’osservatore nell’incontro permette di differenziare tre diverse modalità di osservare:


l’osservazione partecipante quando vi è il coinvolgimento intenzionale dell’osservatore nel contesto
osservative; l’osservazione distaccata quando che serva rileva un fenomeno mantenendosi in posizione
secondaria e distante; l’osservazione critica quando l’osservatore interviene in modi e tempi opportuni
occupando una posizione in parte o del tutto interna al campo.

Le competenze psicologiche dell’educatore

La figura dell’educatore nel mondo classico è colui che è dedito all’istruzione e alla guida dei fanciulli,
conduce fuori le potenzialità del minore mediante formazione teorica ed esperienza di vita.
Educare significa gestire l’esperienza assimilata, accrescere le conoscenze e facilitare i cambiamenti.
L’educazione con Freud è la spinta ad ubbidire al principio di realtà oltrepassando il principio di piacere.
L’operatore educativo interviene su problemi connessi alla malattia fisica e al disagio psicosociale che
include situazioni individuali, familiari, di coppia e di comunità che inducono i soggetti a mostrare sintomi di
sofferenza, problematiche relazionali, problematiche inerenti all’occupazione lavorativa o all’alloggio.
L’educatore deve collaborar e con lo psicologo clinico per raggiungere finalità comuni contribuendo a:
favorire i modelli di autenticità, spontaneità, naturalezza; costruire l’autostima che non corrisponde
esattamente alla fiducia di base; sostenere la costruzione dell’identità; aiutare a tenere il meno possibile il
futuro; riconoscere i propri desideri; tollerare alcune frustrazioni; reagire a quelle frustrazioni che
piegherebbero il carattere della persona; considerare che solo all’interno di un processo educativo graduale è
possibile creare il senso di una situazione strutturante e protettiva; valorizzare gli utenti nei comportamenti
corretti e non punire troppo severamente poiché tale atto può veicolare un’implicita svalorizzazione del sé.

L’educatore dovrebbe far emergere le potenzialità del soggetto e avvantaggiare la manifestazione delle
inclinazioni senza la pretesa di modellare la personalità dell’utente sulla propria immagine.
L’operatore educativo dovrebbe comprendere le componenti psicologiche insite nella persona in ogni stadio
evolutivo. Nell’affrontare situazioni disfunzionali il professionista si assume la responsabilità di
programmare e gestire un intervento con consapevolezza, ricorrendo a risorse e strumenti appropriati per
cercare di risolvere le problematiche e valicare le difficoltà che l’utente non è in grado di gestire.

5
La famiglia costituisce il principale sistema di riferimento del soggetto, il sistema educativo tutto intero
basato su valori e relazioni affettive e familiari. Anche se lo scopo dell’intervento è personalizzato per
l’individuo in stato di disagio psicosociale, la famiglia di origine dovrebbe essere ben valutata dal momento
che può influenzare ogni condotta dell’utente. L’operatore educativo dovrebbe essere in grado di leggere la
situazione e le dinamiche familiari, di comprendere le regole del nucleo familiare, di associare la condotta
della persona e i condizionamenti provenienti da tale nucleo e fronteggiarne gli aspetti problematici.

Si potrebbe definire il gruppo come il contesto nel quale il soggetto appaga il proprio bisogno di
appartenenza, in altre parole rappresenta uno spazio fisico e mentale di confronto rispetto alla definizione del
proprio sè e favorisce la crescita sociale.
Risulta fondamentale per l’educatore conoscere le dinamiche che si strutturano nel gruppo al fine di gestire il
conflitto e mantenere l’equilibrio al suo interno. Per il professionista si tratta di considerare le dinamiche
presenti sia nel gruppo che coinvolge direttamente l’utente, sia nel gruppo prospettato dall’operatore
educativo come parte sostanziale del processo di aiuto. Lo operatore educativo ha il compito di osservare le
modalità di condotta dei soggetti e fornire stimoli positivi, di mantenere chiarezza in relazione al fine da
conseguire.

La comunità è per l’individuo, un ulteriore spazio di azione relazionale.l’educatore dovrebbe padroneggiare


all’interno del proprio campo professionale di azione le dinamiche psicologiche generate dall’interazione tra
soggetto e ambiente sociale.
Relazione e comunicazione sono elementi essenziali dell’azione educativa. La relazione tra operatore
educativo e utenti deve avere finalità ben definite. La capacità comunicativa è una competenza basilare
dell’educatore, idonea a sostenere e ad orientare il cambiamento.
Nella relazione di aiuto è compito dell’operatore educativo sollecitare la persona con disagio psicosociale a
cercare dentro di sé le risorse per fronteggiare la problematica. Ogni idea di mutamento proposta dal
professionista deve essere condivisa e assimilata dall’utente.
Il raggiungimento dei risultati sembra essere determinato dalla capacità dell’educatore di porsi con l’utente
in una posizione di ascolto selettivo per orientarsi meglio all’interno della situazione nella quale si trova.
Nella relazione di aiuto sono importanti i sentimenti dei quali il professionista dovrebbe essere consapevole
per poterli elaborare.ci appare quindi professionale la sensibilità con la quale l’educatore riesce a
differenziare le emozioni dell’utente dalle proprie ed essere cosciente del possibile emergere di ansia
angoscia rispetto alle problematiche altrui. La percezione di onnipotenza e quella di impotenza andrebbero
contrastate perché disfunzionali alla relazione.
È preferibile per l’educatore porsi obiettivi realizzabili, minimi e promuovere piccoli cambiamenti tenendo
in considerazione le risorse disponibili. L’educatore dovrebbe possedere la capacità di: comprendere le
dinamiche relazionali del rapporto tra operatore educativo e utente; progettare strategie di intervento;
sperimentare e verificare i progetti di intervento; adattare i segnali della comunicazione; controllare il
coinvolgimento personale nei casi di investimenti emotivi eccessivi; sapersi mettere in discussione; sapersi
orientare e porre all’interno di situazioni problematiche; essere motivato allo svolgimento del proprio lavoro.
In sintesi, l’educatore struttura la relazione educativa, sceglie gli strumenti tecnici per l’intervento di aiuto,
individua le modalità di azione che permettono il conseguimento degli obiettivi.l’apprendimento della
psicologia clinica quindi si rivela molto utile nell’accrescere competenze di tipo comunicativo e relazionale
nell’operatore, indispensabili per chiunque si occupi di sofferenza umana.

Capitolo 2: Le teorie della psicologia clinica

L’importanza dell’inquadramento teorico nell’attività educativa

La psicologia clinica tenta di integrare le diverse conoscenze derivanti da differenti fonti di studio del
funzionamento della persona, con la finalità di comprendere l’individuo nei suoi aspetti di adattamento e
nelle sue problematiche. La teoria diviene un importante chiave di lettura delle situazioni. La scelta di uno
specifico modello teorico di riferimento serve a determinare il piano interpretativo all’interno del quale porre
l’evento psicologico.

6
Le teorizzazioni inerenti alla personalità, allo sviluppo, all’adattamento, ai gruppi e all’ambiente sociale
costituiscono, per l’operatore educativo, degli schemi di riferimento che gli permettono di utilizzare le
informazioni sugli utenti ai fini di una comprensione complessiva della loro realtà.
Le categorie individuate a livello teorico rappresentano una chiave di lettura delle azioni, dei sentimenti, dei
pensieri dei soggetti.
Nello svolgimento del suo lavoro, suggeriamo l’operatore educativo di prestare attenzione: all’adattamento
cognitivo dell’utenza volta a facilitare le strategie di azione, ai processi emotivi, alle transizioni e i compiti
evolutivi che gli individui devono fronteggiare dall’infanzia alla senilità.
Presentiamo ora i principali modelli teorici utilizzati in psicologia clinica e che riteniamo possono
accompagnare la pratica dell’operatore educativo.

Le teorie della personalità

La psicologia della personalità, vale a dire dell’unità biopsicosociale dell’individuo, integra contributi teorici
derivanti da correnti di pensiero rivolte al funzionamento della mente umana e si sono sviluppate nel campo
filosofico e nel campo medico-biologico.
La personalità si costruisce gradatamente durante lo sviluppo mediante le continue interazioni del soggetto,
avente caratteristiche biologiche e psicologiche proprie, con l’ambiente sociale e culturale in cui è inserito e
vive. La persona, influenzata dal sistema biologico e mentale, funziona come un organismo in interazione
dinamica e reciproca con l’ambiente.
Particolare interesse riveste per l’educatore la comprensione dei fattori di rischio e di protezione che
influenzano il processo di crescita e di evoluzione del soggetto.
I fattori di rischio riguardano situazioni avverse che connotano il contesto in cui, a partire dalle precoci fasi
di vita, una persona cresce; sono condizioni che incrementano la probabilità che una persona sviluppi
difficoltà di tipo biologico, emozionale o comportamentale in un determinato momento della vita. È
importante sapere che i fattori di rischio possono essere: transitori, cioè stati di difficoltà e di stress a breve
termine o continuativi, cioè fattori che influenzano fortemente le condizioni di vita dell’individuo e Per tale
motivo, possono incidere nel tempo sul soggetto e sul suo contesto.
I fattori protettivi sono elementi di sostegno per la persona e per il suo ambiente volti a contrastare il livello
di rischio e concernono condizioni dinamiche in grado di diminuire la vulnerabilità al danneggiamento del
soggetto e del sistema in cui è inserito.
La conoscenza delle teorie della personalità permette agli educatori di interpretare le problematiche
dell’utente e di acquisire una terminologia che sia condivisibile con il gruppo di lavoro. Le teorie della
personalità possono aiutare chi svolge un’attività educativa a conoscere le aree del funzionamento
psicologico degli utenti:
- Area del processo, che si riferisce ai fattori processuali della condotta umana;
- Area della struttura, che riguarda gli elementi più stabili e durevoli della personalità;
- Area dello sviluppo, che rivolge l’attenzione alle cause delle differenze individuali di personalità che
generano diversi percorsi evolutivi tra le persone;
- Area della psicopatologia, che è interessata alle origini di presumibili disfunzioni della personalità;
- Area del cambiamento, che fornisce elementi di valutazione legati alle opportunità della persona di
intraprendere o meno un cambiamento che permetta un maggiore adattamento.

Le principali teorie della personalità sono: l’autorealizzazione, l’apprendimento sociale e la Psico dinamica.

Le teorie dell’autorealizzazione mettono l’accento sui tentativi degli individui di aprirsi alle varie esperienze
al fine di aumentare gli aspetti positivi di se stessi e l’accettazione di sè e degli altri.
Secondo quanto affermato dalla teoria dei bisogni di Maslow, lo sviluppo del massimo potenziale di cui ogni
persona è portatrice e reso possibile solo se viene soddisfatta una serie gerarchica di bisogni. Tra le varie
tipologie ci sono i bisogni carenziali, i bisogni fisiologici, i bisogni di sicurezza, i bisogni di appartenenza e
amore, i bisogni di stima e i bisogni di autorealizzazione. Le persone auto realizzate, secondo l’autore, sono
in grado di percepire la realtà in modo appropriato e di adattarvisi efficientemente.
L’approccio centrato sul cliente di Rogers sostiene che tutte le persone sono motivate a migliorare se stessi e
possiedono le potenzialità per farlo. Sia una condizione matura di adattamento quando un individuo è capace
di riconoscere le caratteristiche della propria persona e le proprie necessità. I rogersiani tendono a lavorare in
7
un’atmosfera terapeutica e calda, sollecita e ricettiva e facilitano l’autorealizzazione del loro cliente avendo
piena fiducia che egli raggiungere i propri fini.
Secondo Rogers, lo psicoterapeuta dovrebbe possedere due qualità fondamentali: congruenza ed
empatia.ogni uomo ha una propria tendenza all’autorealizzazione definita tendenza attualizzante. Chi
conduce un trattamento dovrebbe fornire implicitamente un modello di ciò che il cliente può diventare.
Secondo Rogers un’altra virtù di un valido psicoterapeuta o la capacità di offrire al cliente un’accettazione
positiva incondizionata. Egli lo dovrebbe sostenere per quello che è e dovrebbe trasmettere questo sostegno
anche quando in una prova il suo modo di agire.
L’ultimo importante aspetto, una profonda comprensione empatica, e la capacità di vedere il mondo come il
cliente lo vede, di comprendere i sentimenti sia dal suo personale punto di vista, sia da prospettive delle quali
egli potrebbe essere solo confusamente consapevole.
Le teorie dell’apprendimento sociale enfatizzano lo studio del soggetto nel contesto in cui vive, mediante il
quale egli può apprendere abilità cognitive e comportamentali che gli consentono di autoregolarsi. Secondo
bandura è importante, ai fini dell’adattamento del benessere, la percezione che un soggetto ha della propria
capacità di confrontarsi con le prove e le sfide della vita. L’espressione di auto efficacia percepita viene
utilizzata per riferirsi alla fiducia e alle aspettative che una persona ha di padroneggiare con successo
determinate situazioni.
Le teorie psicodinamiche focalizzano l’attenzione sulle strutture psichiche e il loro funzionamento. Si
suppone che il disagio in generale e i sintomi stessi rappresentino difese parossistiche dell’intero organismo
umano e che tali eccessi condizionino e disturbino il soggetto.

La prospettiva psicodinamica

E il paradigma psicodinamico e centrato principalmente sul contattare le istanze intrapsichiche della


personalità e i rapporti Inter psichici con gli altri. La personalità viene ritenuta come l’esito di una
concatenazione di spinte biopsichiche interne di esterne al soggetto che possono entrare in relazione
conflittuale tra loro.
L’espressione psicodinamica risale alla fine dell’ottocento e si riferisce ad un insieme di fenomeni
riconducibili a fattori psichici del funzionamento della persona e non direttamente disfunzioni organiche o
del sistema nervoso secondo il modello medico-biologico prima dominante.
La visione psicodinamica viene condivisa da numerose prospettive teoriche originati dalla psicoanalisi. Tra
le principali, la teoria dell’attaccamento di boldi, secondo cui il soggetto è motivato da spinte interne alla
costruzione di legami affettivi con le figure significative appartenenti al suo contesto di crescita.
Sia per Bowlby che per Freud è centrale l’idea che l’esperienza infantile non vada perduta, per cui lo
sviluppo procede indipendentemente dalla natura delle prime cure, ma sempre all’interno della cornice
delineata dal precedente schema di adattamento.
Mentre Freud si è interessato dei processi mentali del mondo interno del bambino, Bowlby sposta
l’attenzione sul mondo relazionale esterno comprensivo del bambino stesso, postulando l’ipotesi
fondamentale che lo stringere legami emotivamente significativi a un comportamento istintivo,
biologicamente predeterminato, che svolge una funzione primaria di sopravvivenza e di adattamento.
Il comportamento di attaccamento, proprio perché dovuto a un sistema biologico volto ad assicurare la
sopravvivenza dell’individuo, non è limitato soltanto ai bambini, ma è osservabile anche negli adulti ogni
volta che si trovano in una situazione di stress o di angoscia.
La teoria dell’attaccamento considera la predisposizione a stringere relazioni emotive intime con determinate
persone una componente di base del genere umano, già presente nel neonato. Il legame di attaccamento è una
relazione stabile che si instaura tra il bambino e la persona adulta che si prende cura di lui fino dalla nascita.
Esso garantisce il benessere del soggetto, lo protegge dai pericoli esterni e dalle tensioni interne, favorisce la
sopravvivenza mediante la vicinanza del piccolo con la figura di accudimento.
Lo scopo dell’attaccamento è quello di cercare di raggiungere mantenere uno specifico livello di vicinanza
con l’adulto, soprattutto nelle situazioni di pericolo. Il concetto di base sicura è la base da cui un bambino
parte per esplorare il mondo e a cui può fare ritorno in ogni momento di difficoltà o in cui ne senta il
bisogno. Tale concetto descrive la sensazione di sicurezza fornita dalla figura di attaccamento.
Nell’interazione il bambino costruisce le proprie aspettative, interiorizza le proprie esperienze significative di
attaccamento che vengono incorporate in modelli operativi interni, modelli interni che consistono in una
rappresentazione di sé, dell’altro e della relazione e che si rielaborano e si consolidano attraverso
l’esperienza.
8
Il tipo di attaccamento che gli individui instaurano con la madre e con altre figure significative sono di
particolare importanza ai fini della rilevazione dei fattori di rischio di disadattamento sociale e affettivo.
La funzione di questi modelli operativi interni nel bambino è quella di organizzare le conoscenze acquisite di
sé e della figura di attaccamento, per poter pianificare il proprio comportamento sulla base della previsione
delle probabili risposte degli altri alle sue azioni.
Essi influenzano le percezioni, i pensieri e tutta la personalità dell’individuo.
Le rappresentazioni mentali del sé in rapporto agli altri tendono a essere relativamente stabili nel tempo, a
prescindere dalla loro natura, permettendo di fare previsioni sull’evoluzione futura di comportamenti del
soggetto, poiché ogni persona tende a ricreare esperienze simili alla propria storia relazionale infantile.
Con il procedere del tempo è più arduo che avvengano revisioni dei modelli operativi; in età adulta, solo
eventi con enorme significato psicologico, come relazioni molto intense, possono portare a significative
riorganizzazioni di questi modelli.
Ritornando al modello psicoanalitico, vediamo la teoria di Freud. Freud ritiene che il bambino piccolo tenda
alla gratificazione dei bisogni di cibo, di contatto e di calore. L’autore adotta un approccio di tipo dinamico,
in cui appare interessato alle forze pulsionali che danno energia al comportamento. L’immagine è quella di
un sistema umano di tipo idraulico, avente forza e potenti che si agitano nel corpo nella mente.
L’inconscio riguarda i pensieri sentimenti rimossi, non è in grado di accedere alla coscienza senza che si
verificano sostanziali cambiamenti.
Il preconscio può diventare conscio poiché non è ostacolato attivamente dalla coscienza.
Il conscio si riferisce a ciò di cui un soggetto è consapevole in un determinato momento.
Freud descrive la mente come composta da tre strutture che mediano tra le pulsioni e il comportamento: Es,
l’Io e il Super Io.
L’Es È la sede delle pulsioni su base biologica, è la parte inaccessibile della personalità, è la dimora di
desideri innati e rappresenta la fonte principale dell’energia psichica, che seguendo il principio di piacere,
vuole soddisfazione immediata.
L’Io È il meccanismo di adattamento alla realtà, valuta la situazione attuale, richiama la mente eventi passati,
predice le conseguenze di numerose azioni ed è il mediatore tra mondo interno (Es) e mondo esterno. Le
minacce derivanti dall’Es E dall’ambiente procurano angoscia: quando è possibile l’Io fa fronte al problema
realisticamente ricorrendo alle sue capacità di problem solving, quando però l’angoscia così forte da
intimorire l’Io subentrano i meccanismi di difesa.
Tra i meccanismi di difesa ricordiamo la regressione (tornare a una forma primitiva di comportamento), la
fissazione (rimanere a livello attuale), la rimozione, la proiezione (attribuzione ad altri dei propri impulsi
inaccettabili) e la formazione reattiva (agire in modo contrario rispetto a quello che si prova).
Il Super Io si sviluppa gradualmente nel bambino mediante l’interiorizzazione dei codici comportamentali,
dei valori, dei divieti, delle norme morali dei genitori e successivamente dell’ambiente sociale. Riveste un
ruolo importante nel determinare lo sviluppo dell’autocontrollo del bambino, riflette le leggi e le limitazioni
morali; la sua funzione all’autocritica, la coscienza morale e la costruzione di ideali.
Il Super Io reprime le pulsioni e contrasta l’Io e l’Es.
questi 3 sono in relazione con conscio, inconscio e preconscio. L’Es dimora nell’inconscio, mentre gli altri
due si estendono attraverso i tre livelli.
Secondo Freud lo sviluppo della personalità di base avviene mediante stadi psicosessuali. Ciascun stadio è
definito in relazione alla parte del corpo su cui sono centrate le pulsioni. Nei primi cinque anni di vita si
passa dall’area orale a quella anale, a quella fallica. Segue poi un periodo di latenza prima di giungere allo
stadio genitale dell’adolescenza.
Per Freud l’Io era costretto a Dialogare con 3 interlocutori: Le leggi della realtà esterna, le pulsioni
biologiche e le istanze della coscienza morale. Noi pensiamo invece che più verosimilmente Leo debba
contattare gestire molti più interlocutori interni e non soltanto tre; i tanti interlocutori potrebbero
corrispondere ad altrettanti incontri significativi avvenuti fino dalla nascita.
Si può ipotizzare che Freud come gli scienziati della sua epoca, avesse trascurato le non ben conosciute
funzioni neuro biologiche della corteccia primordiale, cioè del sistema limbico, responsabile degli affetti e
delle emozioni.per Freud le pulsioni biologiche dovevano trasformarsi al più presto ed evolvere in strumenti
del sistema nervoso centrale, il cui portavoce psichico si identificava e si riconosceva nell’io razionale e
cosciente.
L’aspetto cognitivo è proprio il fine opposto per il quale Freud aveva inventato il metodo psicoanalitico.

9
Si pensi a quanto Freud rifiutasse le emozioni dell’analista a proposito del contro-transfer t’che egli
considerava disturbante, mentre insisteva sul concetto di neutralità del medico mirando ad allinearsi al
metodo scientifico indicato dalla fisica deterministica del secolo.
Gli psicoanalisti pertanto, al fine di migliorare la cura nei pazienti con patologia più severa, sono sempre più
convinti che sia vincente il metodo clinico che utilizza il riconoscimento analitico delle emozioni personali
dello psicoterapeuta stesso e che l’ascolto empatico del paziente e del proprio contro transfer t’rappresenti
uno tra gli strumenti principali.l’obiettivo consiste nell’ascoltare profondamente il paziente per lavorare più
proficuamente con lui.non solo le emozioni non dovrebbero essere represse, ma al contrario riconosciute per
mezzo della supervisione e pensate al fine di essere utilizzate per indirizzare la cura verso obiettivi alternativi
e costruttivi per il paziente.
La psicoanalisi, insieme alle neuroscienze e alla psicologia sperimentale, utilizza la memoria implicita che
rivela le emozioni attraverso la amigdala, uno dei centri nervosi del sistema limbico che controlla per
l’appunto le emozioni come la paura.
Inoltre, è noto come una serie di neuroni specializzati, detti neuroni-specchio sia responsabile di alcune
risposte empatiche; di tali cellule gli autistici sembrano privi.

Il modello psicoanalitico e le concettualizzazioni da Freud in avanti rappresentano comunque il punto di


riferimento della psicologia clinica ad orientamento dinamico e della psicoterapia psicodinamica.

La teoria Psico sociale dello sviluppo di Eriksson ha modificato la teoria di Freud e ha ampliato il paradigma
psicoanalitico. L’autore afferma che il bambino tenta di sviluppare un senso di fiducia negli altri, base per le
relazioni future.l’autore ha individuato influenze sociali che sono di grande interesse per lo sviluppo; in ogni
momento dello sviluppo infatti c’è un bilanciamento tra i bisogni del bambino e quelli della società.
In ciascuno degli otto stadi del ciclo vitale da lui descritti a luogo una crisi psicologica per la quale sono
possibili due esiti estremi:
- fiducia-sfiducia (0-1 anno);
- Autonomia-vergogna (1-3 anni);
- Iniziativa-senso di colpa (3-5 anni);
- Industriosità- inferiorità (6-11 anni);
- Identità e rifiuto-dispersione di identità (12-20 anni);
- Intimità e solidarietà-isolamento (20-40 anni);
- Generattività-stagnazione o autoassorbimento (40-65 anni);
- Integrità-disperazione (oltre i 65 anni).
A partire dall’esigenza espressa da alcuni studiosi di considerare le relazioni significative come fonte di
sviluppo di benessere del soggetto, all’interno della corrente psicoanalitica si verifica l’evoluzione del
concetto di io. Tra gli studiosi fautori della psicologia psicoanalitica dell’io, Hartmann descrive un io libero
da conflitti, evidenziando la necessità di considerare i fattori del funzionamento psichico connessi all’ambito
cognitivo e di ricorrere al metodo dell’osservazione diretta del bambino in situazioni naturali con la finalità
di comprendere lo sviluppo normale nel corso della vita.
L’accento posto sull’interazione tra istanze interne ed esterne ha dato vita, nell’ambito del quadro teorico
psicoanalitico, alla teoria delle relazioni oggettuali che sottolinea la rilevanza delle relazioni significative per
la formazione del sé. I sostenitori di tale teoria sostengono che la prima infanzia sia basilare per l’instaurarsi
di una fiducia di base in sé e negli altri.
La costruzione del sé, secondo tale paradigma, si delinea sin dall’inizio della vita dell’individuo sulla base
delle relazioni reali o fantasmatiche del suo mondo interno. Di conseguenza, alla persona viene riconosciuta
la capacità di entrare in relazione con il mondo circostante.

Si pensa che sia importante per l’educatore conoscere la centralità degli schemi relazionali nello sviluppo del
mondo interno dell’individuo. La clinica di Winnicott si presta al lavoro dell’educatore. L’autore focalizza
l’attenzione sulla rilevanza della relazione madre-bambino per lo sviluppo psichico e somatico nei primi due
anni di vita. I concetti di madre sufficientemente buona e preoccupazione materna primaria delineano la
capacità che una madre può possedere o meno per favorire la crescita del bambino.
Il concetto di holding indica la situazione di contenimento: corporeo-fisico e psichico; il concetto di handling
si riferisce al maneggiamento che può aiutare il bambino ad apprendere i codici comunicativi; il concetto di
10
object presenting Riguarda i modi tramite i quali una madre può insegnare al bambino la conoscenza degli
oggetti della realtà.la doppia dipendenza del bambino dalla madre è la capacità di quest’ultima di condurlo
verso la percezione della propria dipendenza e di agevolare la creazione di uno spazio illusorio o
transizionale che serve da palestra in cui la mente del piccolo può esercitarsi.
In altri termini, la madre partecipa al mondo illusorio del bambino, lo conforta di fronte alle paure e alle
frustrazioni e gli offre modalità di riconoscere, controllare e accettare la realtà. È ciò che viene definito
“funzione di reverie”.
Winnicott utilizza il concetto di oggetto transizionale, un qualcosa nella mente del bambino che appartiene al
suo mondo interno ma anche alla sua realtà: è una transizione da un mondo interno fantasmatico ad un
mondo interno in grado di rappresentare quello esterno. L’esperienza transizionale è un fenomeno che si
riscontra nei bambini dai sei mesi ai due anni.
Con la prolungata intrusione di una madre e di un ambiente che ostacolano il mondo illusorio del bambino
avviene una frammentazione dell’esperienza interiore; la conseguenza di ciò è che il bambino finisce con il
sintonizzarsi precocemente e coattivamente con le richieste degli adulti.il bambino perde però il contatto con
il suo sé, con il suo mondo interno e con le sue necessità.
Nella pratica educativa il concetto di falso si può rivelarsi utile a riconoscere e a comprendere persone
socialmente ben adattate, ma incapaci di relazioni interpersonali profonde e autentiche.bisogna però
riconoscere che durante lo sviluppo normale il fanciullo può assumere atteggiamenti che potrebbero apparire
non autentici. Si tratta spesso di un bisogno che i fanciulli appagano allo scopo di non deludere le presunte
aspettative dei genitori.

Il paradigma cognitivo-costruttivista

Tale modello ritiene che la comprensione della persona richieda la valutazione delle sue condotte e dei suoi
processi motivazionali e conoscitivi e, consci e inconsci.
L’approccio cognitivo-costruttivista si focalizza principalmente sugli aspetti della conoscenza personale, cioè
sulle modalità tramite le quali un individuo rappresenta il mondo e ricorda le esperienze della propria vita.
Gli elementi della conoscenza personale vanno a configurare lo stile cognitivo-affettivo e lo stile cognitivo-
interpersonale.
L’approccio cognitivista si accosta alla valutazione delle problematiche psicologiche coniugando il rigore e
la precisione propri dell’osservazione scientifica con l’attenzione alla singolarità dell’individuo e alla sua
unica e irripetibile visione del mondo.
Tale prospettiva non presuppone l’esistenza di modalità più o meno corrette di costruire la propria
esperienza, ma evidenzia come le rappresentazioni soggettive della realtà costruite da ciascuno
corrispondano a specifici processi individuali. Compito del terapeuta è la considerazione e della coerenza
interna delle costruzioni dell’utente alla realtà oggettiva.
La teoria dell’attaccamento viene utilizzata per delineare i processi e le modalità di evoluzione del sé. Tale
approccio teorico può supportare l’educatore nella conoscenza dell’influenza esercitata dalle modalità
affettive e cognitive dell’utente nell’esperire la realtà e nel relazionarsi con gli altri.

Il modello sistemico

Da un punto di vista psicologico, un sistema è un insieme di persone in relazione tra loro.


tra gli anni 50 e 60 alcuni studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di un’interconnessione e di una reciprocità tra
lo sviluppo individuale e le dinamiche relazionali dell’ambiente familiare.
Nel passato lo studio del comportamento umano veniva studiato secondo un approccio di derivazione
medica, ricercando le cause all’interno del corpo e della psiche umana.con l’approccio sistemico si pone
invece l’attenzione non su ciò che succede all’interno della mente, ma sulle relazioni che ogni individuo
instaura con l’ambiente esterno e con gli altri.l’individuo non è più un elemento singolo da studiare a
prescindere, ma fa parte di una serie infinita di sistemi in ognuno dei quali assume dei ruoli, invia e riceve
delle comunicazioni e all’interno dei quali mette in atto determinati comportamenti.
Chi svolge una professione educativa dovrebbe tenere presente che lo sviluppo di un soggetto può essere
spiegato in rapporto al sistema all’interno del quale è inserito. È possibile comprendere la condotta della
persona considerando il contesto in cui ha luogo. Difatti un soggetto è un essere vivente in relazione al
proprio ambiente di vita con il quale non può non interagire.
Ogni singolo individuo sviluppa le proprie risorse mediante uno specifico percorso evolutivo.
11
Nella pratica educativa è necessario avere presente che la famiglia nucleare costituisce il sistema di relazioni
significative per la persona e la sua evoluzione. Il malessere di un componente del sistema è ascrivibile a
dinamiche familiari disfunzionali. Ogni comportamento acquista un suo significato solo se analizzato
all’interno del contesto in cui si manifesta.
Ne consegue che agendo adeguatamente sulle dinamiche familiari sarà possibile incidere sul sintomo stesso.
In tale ottica il sintomo non viene più considerato la manifestazione di un disagio individuale, bensì una
comunicazione che interessa l’ambiente in cui la persona è inserita. L’intervento prevede l’osservazione
delle modalità interattive del contesto familiare allo scopo di modificare l’ambiente in cui è emerso e si è
mantenuto il disagio.
L’educatore, come lo psicoterapeuta, partecipa alla costruzione del sistema che sta osservando. Il contesto
non include solo le interazioni familiari entro le quali insorge e si mantiene il comportamento sintomatico,
bensì l’ambito psicoterapeutico-educativo, il contesto del cambiamento dell’utente.
In conclusione, il paradigma sistemico-relazionale e di fatto strutturato al fine di rispondere a tutte le
difficoltà che gli esseri umani affrontano nell’arco naturale del proprio ciclo di vita.

Metafore dell’operare educativo

L’agire educativo può essere meglio compreso ricorrendo ad alcune metafore.


1. L’attività educativa si svolge all’interno di una situazione psicologica. Tale situazione assomiglia a una
sorta di cornice all’interno della quale gli interlocutori dialogano come se fossero in un teatro.
L’educatore assume un ruolo dinamico e interviene nel palcoscenico dove si trovano uno o più attori,
cioè utenti. L’educatore dovrebbe essere attento ai bisogni urgenti dell’utente e distinguerli dai desideri
fondamentali che si ricavano tramite un’osservazione ottimale e un buon ascolto.
2. L’attività educativa è un viaggio.l’attività educativa è paragonabile a un viaggio che l’educatore e
l’utente intraprendono insieme.l’operatore accompagna nel percorso educativo, e facilitatore di
consapevolezze e dell’espressione emozionale, segue il cammino evolutivo del soggetto, è attento alle
dinamiche educative. L’intervento educativo si propone di incoraggiare l’utente verso la posizione di un
adulto che vive per se stesso e per i propri desideri selezionati nella loro qualità e non per i bisogni
compulsivi urgenti che appagano.
3. L’attività educativa e conoscenza del sé dell’utente. Possiamo equiparare la struttura del sé dell’utente a
un edificio nelle cui fondamenta si trova la relazione caregiver- bambino , Che costruisce la base sicura o
fiducia di base e che influenzerà la sua crescita evolutiva. L’educatore deve sapere che si trova di fronte
a una persona che sta mediando con interlocutori interni che ha conosciuto e che sono significativi.
4. L’attività educativa è uno spazio psichico di libero movimento.l’educatore dovrebbe attuare con l’utente
un percorso personale che faciliti in quest’ultimo la scoperta della propria autostima, delle proprie
qualità, dei propri valori fino ad integrarli funzionalmente nella propria vita quotidiana.l’educatore
potrebbe favorire uno sviluppo attivo della volontà come parte dinamica per coordinare la piena
realizzazione delle proprie potenzialità. L’operatore potrebbe cercare di aiutare l’utente a riconoscere e
utilizzare il potenziamento delle proprie risorse per conseguire l’obiettivo educativo.

Capitolo 3: La conoscenza della psicopatologia nel processo educativo

Psicopatologia: i concetti chiave per le professioni di aiuto

L’educazione è un problema della crescita, sviluppo, realizzazione della persona in ogni età e situazione, ma
è anche una questione sociale.
Per le professioni di aiuto è utile un’approfondita conoscenza del funzionamento mentale normale e
patologico, alcuni concetti chiave della psicopatologia che permettono di riconoscere precocemente segnali
di disagio e sofferenza psicologica.

Definizioni di psicopatologia e disturbo mentale

E risulta importante il fatto che la scelta del modello teorico, del paradigma di riferimento, influenzi ciò che
in un dato periodo storico e in un certo contesto sociale, e come normale o patologico.
La psicopatologia è lo studio sistematico delle esperienze, delle condizioni e dei comportamenti abnormi; e
lo studio dei prodotti di una mente alterata e la disciplina psicologica che indaga il funzionamento normale
12
dell’attività della psiche, nella prospettiva dello sviluppo psichico anziché delle cause organiche, mirando ad
individuarne le cause specifiche; E infine è la teoria delle funzioni psichica mente disturbate della coscienza.
Esse possono essere attribuite alle diverse funzioni della mente: coscienza, attenzione, memoria,…
Ma cosa si intende per anormalità psichica? Il concetto di anormalità psichica è andato evolvendosi nel corso
della storia da ingenuo, magico, terrifico, è divenuto sempre più scientifico e classificato.nell’epoca pre
scientifica tutte le manifestazioni che sfuggivano al controllo umano venivano considerate fenomeni
soprannaturali. Il comportamento anomalo, bizzarro, fuori controllo era oggetto di analoga interpretazione:
veniva considerato cioè il segno dello sfavore degli dei o della possessione demoniaca.
Con la teoria della somatogenesi, secondo la quale i disturbi del soma potevano essere considerati come
causa di disturbi nel pensiero e nell’azione, il disturbo psichico entrava ufficialmente nel campo medico.
Nel 15º e XVI secolo il malato mentale era considerato un pericolo per la società e andava quindi recluso. Si
diffuse la pratica di internare i malati mentali.
Verso la fine del XVIII secolo e per tutto il XIX secolo si incominciò a pensare che la malattia mentale
potesse anche avere un’origine diversa, appunto psicogena. Questi brevi passaggi storico-culturali vogliono
evidenziare come la scelta di un paradigma, di una lettura interpretativa di cosa debba considerarsi sano e
cosa calato e le condizioni storico-culturali abbiano conseguenze importanti sul modo in cui un
comportamento patologico viene definito e trattato.
E ancora oggi, una definizione riconosciuta di comportamento patologico, di disturbo mentale o di malattia
mentale non è presente.
Per le professioni educative è importante riconoscere alcuni fondamentali paradigmi rifinitori del disagio
psichico per poi valutare autonomamente quando sia appropriato ricorrere a un dato modello per leggere la
situazione di disagio dell’individuo e quando altre spiegazioni potrebbero essere più idonee. Vi sono alcuni
modelli teorici principali che definiscono, descrivono e analizzano il disturbo mentale secondo prospettive
diverse.
- modello organo genetico: il disturbo mentale descritto e analizzato secondo il modello meccanico di
malattia. Il sintomo patologico è una struttura, un comportamento che subisce un processo di alterazione a
livello del sistema nervoso centrale.
- Modello socio genetico: il disturbo psichico descritto e analizzato come reazione sana ad una società
malata.
- Modello Psico genetico: il disturbo psichico è descritto e analizzato dal modello psicoanalitico come esito
di un conflitto psichico tra istanze contrapposte che va interpretato. È descritto dal modello
comportamentisti co come comportamento inadeguato frutto di un processo di apprendimento, dal
modello cognitivista come la conseguenza dell’attivazione di un sistema di codificazione più primitivo.
- Modello Bío Psico sociale: in questo modello viene attribuita uguale importanza ai fattori biologici,
psicologici e sociali nel determinare il disturbo mentale. Si rivelano quanto mai necessario dei criteri da
utilizzare per definire quando un comportamento sia da considerare patologico o comunque segnale
indicativo di un disturbo mentale.
In generale, la definizione di un comportamento patologico prende in considerazione diverse caratteristiche
tra cui l’ infrequenza statistica del comportamento, La devianza dalle norme sociali, il disagio individuale,
l’incapacità o disfunzione nello svolgere una qualche attività. I vari criteri utilizzati per individuare una
condizione patologica quindi sono diversi. I criteri comunemente usati per definire un comportamento
patologico sono numerosi e nessuno, da solo, può portare ad una diagnosi di psicopatologia.
Tra i vari criteri ritroviamo:
- la ricerca di aiuto: si rivela poco soddisfacente poiché stabilisce che si possa riconoscere la psicopatologia
osservando chi è in cerca di aiuto per problemi emozionali.
- Irrazionalità-pericolosità: questo criterio è da relativizzare poiché un comportamento irrazionale e fuori
controllo non sempre è indicatore di psicopatologia.
- Devianza: è un criterio spesso utilizzato per definire il comportamento patologico e, nel senso che la
bizzarria, il deviare dalla norma possono essere caratteristiche di persone mentalmente disturbate; unica
obiezione è che la salute mentale viene fatta coincidere con la convenzionalità, e nemmeno questo è un
parametro assoluto. Inoltre, non tutti i comportamenti patologici sono così poi bizzarri e singolari.

Il DSM, ovvero il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nelle sue diverse edizioni, tende a
considerare come disturbo ciò che è definibile da qualsivoglia sindrome comportamentale negativa che possa
essere appropriatamente operazionalizzata.
13
Senza aderire a nessuna posizione estrema, per il nostro scopo è utile pensare che i tre criteri citati possono
fungere da utili indicatori di psicopatologia, ma presentano grossi limiti come criteri definitorie. Tra i criteri
più utili per definire e identificare un disturbo mentale ritroviamo invece il distress emozionale , Cioè la
sofferenza emozionale dell’individuo, il vissuto di disagio soggettivamente sperimentato. Questa sorta di
criterio può avere un notevole potenziale orientativo. Infine, tra i più utili, vi è il criterio del danno
significativo causato da un comportamento patologico che interferisce con il normale funzionamento
dell’individuo.
Un discreto indicatore di psicopatologia è il fatto che una certa condotta o un certo vissuto creino un danno
significativo ad alcune funzioni della persona.

Il continuum normalità-patologia

La psichiatria classica dava per scontato che la salute mentale potesse essere definita come l’opposto della
malattia mentale e l’assenza di una grossolana psicopatologia veniva fatta corrispondere alla normalità. Oggi,
gli psicologi e gli psicopatologia sono molto più prudenti nell’individuare una netta linea di demarcazione tra
malattia e salute mentale.
Prima dell’opera di Freud, la psichiatria classica distingueva con rigidità le persone dette sane da coloro che
erano considerati malati mentali, senza possibilità di zone intermedie, dove normalità e patologia potessero
incontrarsi. Sono state definite alcune condizioni che l’individuo può sperimentare in un continuum dalla
normalità alla patologia.
• Condizione di benessere psichico, caratterizzata da un buon livello di soddisfazione dei bisogni,
soddisfacente qualità della vita, equilibrio e serenità.
• Condizione di disagio psichico caratterizzato da uno stato di sofferenza connessa a difficoltà di varia
natura che si presenta nella vita senza che si instauri nessun sintomo specifico.
• Condizione di malessere psichico, quando raggiunge livelli di entità elevata si manifesta la consapevolezza
di non stare bene anche attraverso sensazioni fisiche.
• Condizione di disturbo psichico, quando il soggetto non trova risoluzione alla sofferenza, quando
raggiunge livelli di intensità tali da essere accompagnata da sintomi clinici o alterazioni del
comportamento.
• Condizione di malattia mentale cronica, quando perdurano nel tempo le alterazioni mentali o del
comportamento e si stabilizzano.

(Parole di Bergeret—> pag. 61): in primo luogo occorre notare come permanga un’area di conflitto psichico
anche all’interno della persona considerata sana. Una personalità ritenuta normale può entrare in qualsiasi
momento della sua esistenza nella patologia mentale, anche nella psicosi, è un malato mentale precocemente
e correttamente trattato conserva tutte le possibilità di ritornare a una condizione di normalità. La salute,
quindi, come la malattia, acquista un senso di relatività e non di assolutezza.
Agli inizi del XX secolo, grazie al pensiero di Freud e all’adozione dell’ottica psicoanalitica nella
psicopatologia, prende piede l’idea secondo cui nella grande maggioranza dei casi le forme di disagio
psicologico e di comportamento patologico sono soluzioni dinamiche che il soggetto si dà in consciamente e
che indipendentemente dal loro aggregarsi in disturbi, sindromi o malattie risultano collocabili lungo un
continuum che unisce normalità e patologia.
Una risposta patologica dipende da numerosi fattori, tra cui le condizioni psichiche della persona al momento
del verificarsi dell’evento, il modo del tutto personale di spiegarsi l’evento all’interno della propria biografia,
il significato personale che la persona attribuisce all’evento stesso.
Nello studio del comportamento normale contro il comportamento patologico, diventa essenziale esaminare
il rapporto tra struttura di personalità e ambiente, per stabilire come l’individuo reagisca e si rapporti a eventi
reali e per analizzare come tali eventi vengano percepiti e quali significati rappresentino per ciascuna
persona.
I criteri utili come indicatori di problematicità sono la pervasività del comportamento sintomatico, quanto
cioè provochi danno allo svolgersi quotidiano della vita del soggetto, il fattore tempo, cioè la frequenza di
dati comportamenti, la dose di malessere soggettivo percepita e quali sono le risorse soggettive disponibili a
farvi fronte.
La personalità può essere vista come una serie di tratti dimensionali, che si combinano tra loro per formare
un profilo per ciascun individuo, evitando così categorie diagnostiche rigide. Normalità e anormalità non
hanno confini rigidi, ma sono in funzione di quella persona, di quel contesto di quel momento evolutivo. La
14
personalità viene concettualizzata come un sistema complesso che si autoregola. La persona che soffre di un
disturbo psichico è generalmente rigida nel modo di percepire, di organizzarsi, di rapportarsi e pensare nei
confronti dell’ambiente e di se stessa.

Relativismo storico e culturale

Gli ambienti e situazioni storico-culturali contribuiscono enormemente ai cambiamenti nelle definizioni di


normalità e patologia. Parlare ai defunti in alcune culture considerato normale mentre in altre potrebbe essere
considerato un segno di disturbo mentale. L’omosessualità negli stati uniti è stata considerata una malattia
mentale fino al 1973.
Si sostiene spesso che listeria, il disturbo che ha contribuito alla nascita della teoria psicoanalitica di Freud,
sia del tutto scomparsa nei tempi moderni.
Il DSM non comprende al suo interno il termine isteria anche se è un insieme di sintomi, simili a quelli
isterici, passa sotto la voce di disturbo di conversione: sintomatologia connessa con le funzioni sensoriali e
motorie volontarie che indica una condizione organica o neurologica concausa psicologica.
Listeria non può essere scomparsa, semplicemente si manifesta in forme diverse nei vari contesti storici e
culturali.
Kraepelin divenne sempre più convinto dell’importanza del ruolo svolto da fattori socioculturali in
psicopatologia. L’autore è stato riconosciuto come il fondatore della psichiatria culturale comparata da parte
di coloro che a partire dagli anni 50 formularne organizzarono questa nuova disciplina sotto varie
denominazioni come psichiatria comparata. Negli ultimi decenni la psichiatria transculturale sto cercando
sindromi culturali nelle società occidentali e ho trovato come caso singolare l’anoressia nervosa. Tale
patologia negli ultimi anni è sempre più in aumento. Fattori economici, come il progresso industriale, il socio
culturali, come relazioni disturbate nella famiglia sono coinvolti nella diffusione della patologia anoressica.
A proposito dell’anoressia nervosa si parla di una sindrome da cambiamento culturale. Per i relativisti
culturali, una sindrome legata alla cultura è un’espressione di angoscia specifica di quella cultura, che non
può essere compresa fuori dal contesto etnografico. E gli universalistico, le sindromi culturali sono
espressioni culturalmente elaborate di fenomeni neuropsicologici o psicopatologici.
Ma allora si può dire che si è folli in rapporto a una data società?
Tra i concetti chiave è fondamentale tenere presente il relativismo culturale comprendendo quanto i fattori
socio culturali possono influenzare il funzionamento mentale, sia normale che patologico.
Siamo tenuti, come operatori della relazione di aiuto, a tenere in conto questi cambiamenti di paradigma nel
modo in cui si spiegano i comportamenti umani e in futuro dobbiamo essere pronti a vedere gli attuali
paradigmi, con cui tendiamo a spiegare i fenomeni.

Tentativi di classificazione psicopatologica

In psicologia clinica il processo di valutazione Psico diagnostica a caratteristiche peculiari che lo


differenziano dalla prassi medica. In psicologia si tratta di dare un senso alle manifestazioni
psicopatologiche, di costruire un’interpretazione plausibile di uno stato di disagio psichico o di un
comportamento disadattivo.
La diagnosi nosografico-descrittiva permette di collocare il disturbo all’interno del quadro noto alla comunità
scientifica; tuttavia questa classificazione diventa strumento parziale per le professioni di aiuto che si
rivolgono primariamente alla persona che soffre. La classificazione va conosciuta come utile fonte di
informazioni da affiancare ad elementi che possono affiorare solo nel contesto dinamico-relazionale con
l’utenza stessa.
Per spiegare la psicopatologia, descriverla e classificarla si possono così distinguere le psicopatologie
interpretativo-esplicative che si basano sui paradigmi teorici dei principali modelli di lettura del disagio
mentale e le psicopatologie noaografico-descrittive.
Nel primo approccio che si basa sul modello psicoanalitico, si enfatizzano le ragioni psicologiche e si
indagano i meccanismi che sono alla base dei comportamenti o dei sintomi patologici. Nel secondo
approccio invece si enfatizza la sintomatologia osservabile e descrivibile, quindi la diagnosi si fa
confrontando i sintomi dell’individuo con criteri specifici.
Le origini della moderna classificazione possono essere rintracciate nella psichiatria del XIX secolo di
Kraepelin che portò innovazioni di notevole interesse con una classificazione di 13 disturbi psichici.

15
L’interesse verso una classificazione dei disturbi psichici aumenta con l’inizio del XX secolo: nasce la
psicologia clinica, la psicoanalisi comincia ad essere riconosciuta livello ufficiale e la psichiatria inizia
interrogarsi rispetto alla sua funzione terapeutica.
Le modificazioni dei sistemi classificatori non sono altro che l’evoluzione di scuole di pensiero che hanno
differenti definizioni del disagio psichico. Le ideologie di base, spesso in conflitto tra loro, rendono
travagliata l’applicazione delle classificazioni e ostacolano la definizione di paradigmi ampiamente
riconosciuti.
Il mondo scientifico comincia ad operare per una classificazione condivisa e, dalla seconda guerra mondiale
in poi, vengono create edizioni sempre più aggiornate e in costante evoluzione di classificazioni
internazionali note con la sigla DSM. I ricercatori esperti propongono un approccio ateorico e si avvalgono
di una valutazione multiassiale tenendo in considerazione cinque dimensioni definite assi e si basano sul
presupposto che i disturbi psichici siano entità discrete.
Il sistema multiassiale è utile per organizzare comunicare l’informazione clinica e per descrivere
l’eterogeneità delle situazioni che si presentano alla diagnosi:
• Asse I: disturbi clinici.
• Asse II: disturbi di personalità. Ritardo mentale.
• Asse III: condizioni mediche generali.
• Asse IV: problemi psicosociali e ambientali.
• Asse V: valutazione globale del funzionamento.

Al DSM-IV È correlata alla 10ª edizione della classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi
psichici e comportamentali pubblicata nel 1992, sistema di codificazione ufficiale europeo (ICD-10).
Il DSM e l’ICD-10 sono usati trasversalmente al fine di ricercare le cause di una data patologia.
—> nel 2010 pubblicazione DSM-V

Il sistema classificatorio è un utile tentativo di pervenire ad un processo diagnostico più rigoroso e


scientifico, ma attenzione a trascurare i limiti intrinseci del metodo empirico trattando il disagio mentale.
È importante che l’operatore acquisisca un modo di pensare rispetto alla psicopatologia, che abbia ben
presenti le varianti del disagio psichico, le diverse forme di disturbo mentale nella consapevolezza che una
classificazione non esaurisce la ricchezza dell’esperienza umana.
È importante precisare che nessun sistema diagnostico interpretativo-esplicativo può essere assunto in modo
assoluto, qualsiasi matrice esso abbia: si tratta di strumenti che richiedono familiarità con chiavi specifiche di
lettura della psicopatologia.
L’attenzione ai sintomi è necessaria, ma non sufficiente; è importante leggere dietro i sintomi per costruire
un’interpretazione.

Conoscere la diagnosi: quale valore aggiunto per le professioni educative?

Riflessione —> pag. 68-69 leggi

Lo psicopatologia deve cercare regole e concetti generali, al fine di essere all’altezza delle esigenze che gli si
impongono nei singoli casi, l’educatore e lo psicologo a me invece di fronte casi del tutto individuali.
Nella psicopatologia è dannoso credere di dover semplicemente a prendere la materia; si deve invece
imparare ad osservare in modo psicopatologico, a porre problemi psicopatologicamente, ad Anita lizzare
riflettere psicopatologicamente.
I pazienti sempre più difficili devono essere aiutati in tempi sempre più ridotti, con un approccio multi
professionale, i nuovi setting costruiti ad hoc.
La valutazione diagnostica è indubbiamente un intervento che appartiene alle competenze psicologico-
cliniche e non è utilizzabile da altre categorie professionali. È tuttavia inevitabile che altri operatori che
praticano la relazione di aiuto si imbattono in situazioni di disagio e sofferenza, talvolta assistenziali data la
loro gravità, rispetto alle quali sono chiamati a cogliere gli eventuali segnali di disagio emotivo e a fornire
quella funzione terapeutica di base che accompagna tutte le relazioni di aiuto. Si tratta quindi di attuare una
comunicazione adeguata ai bisogni dell’utenza, di individuare le reali necessità di chi richiede aiuto senza
distorsioni.

Capitolo 4: L’approccio educativo si disturbi dello sviluppo


16
I contesti di crescita del bambino

Tenendo conto che il bambino è un individuo in continua trasformazione, pensiamo che le manifestazioni
comportamentali del suo cambiamento possono generare apprensione in chi si prende cura di lui.è pertanto
importante possedere adeguate conoscenze e competenze in ambito infantile in modo di riconoscere
abbastanza bene le condotte anche problematiche, transitorie tipiche della tappa evolutiva.
Molti problemi psicologici svaniranno con l’avanzare dell’età, mentre altri potranno perdurare o lasciare
strascichi.
Negli ultimi anni una prospettiva teorica con cui si studia la psicopatologia evolutiva tende a mettere in
relazione a quest’ultima con le fasi dello sviluppo biologico, cognitivo e socio emotivo del soggetto.
Il disturbo psicologico nell’età evolutiva non suppone inevitabilmente continuità nei poiché seguenti; la
manifestazione di una condotta problematica in un determinato momento non rappresenta un elemento
psicopatologico e prognostico nel presente. Nella pratica educativa occorre non dimenticare che il bambino
deve essere considerato unitamente all’intero contesto di crescita in cui avvengono le sue relazioni
quotidiane.
In tale ottica, sia una visione dello sviluppo in termini di adattamento, in cui quest’ultimo è il risultato delle
continue interazioni tra bambino e contesto. L’ambiente ecologico è formato da quattro tipologie di
sottosistemi concentrici che influenzano direttamente o indirettamente lo sviluppo del bambino:
- il microsistema riguarda i contesti nei quali il bambino ha esperienza diretta nella sua vita quotidiana e ne
viene influenzato direttamente (famiglia, scuola);
- Il mesosistema si riferisce alle relazioni tra i differenti microsistemi. Si pensi ad esempio alle
incomprensioni tra casa e scuola che possono arrecare danno al bambino;
- L’ esosistema include i contesti nei quali il bambino non è direttamente coinvolto, ma che incidono sul
suo sviluppo indirettamente (l’orario lavorativo dei genitori);
- Il macrosistema ingloba la cultura e benché il bambino non abbia esperienza diretta con esso, ne viene
influenzato il suo sviluppo.

È possibile rispondere ai diversi bisogni delle famiglie non solo attraverso interventi terapeutici diretti a
modificare le dinamiche interattive ritenute causa della problematica, bensì mediante interventi di
facilitazione di sostegno attuati dall’educatore. Quest’ultimo può infatti intervenire ricorrendo alle risorse
presenti nel nucleo familiare e può rinforzare tali risorse aumentando la competenza dei genitori nel
fronteggiare eventi critici connessi ai figli. I programmi di formazione alle abilità sociali, indirizzati alla
coppia genitoriale, sono un esempio di intervento educativo che prevede il coinvolgimento della famiglia
affinché il bambino possa mantenere nel tempo, i risultati conseguiti durante il trattamento. Il lavoro con la
famiglia è fondamentale in presenza di disagio e malessere in uno dei suoi membri dal momento che si
vengono a creare mutamenti nello stile di vita dei suoi componenti.
È utile soffermarsi sugli stadi evolutivi delineati da Piaget, che consentono alla persona in crescita di
acquisire tutte le potenzialità di pensiero. E noto che la teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget comprende
quattro stadi o periodi, ciascuno dei quali possiede caratteristiche specifiche di pensiero, inerenti
all’acquisizione, alla modificazione e allo sviluppo delle capacità di pensiero:
• Nello stadio sensomotorio (zero-due anni) il bambino comprende il mondo limitatamente alle azioni
fisiche che possono essere esercitate su di esso. L’apprendimento è attivo e concreto. In questo periodo un
oggetto costituisce uno stimolo che genera un riflesso, in seguito diviene una realtà sulla quale è possibile
agire sempre più con intenzionalità.la finalità dello stadio è lo sviluppo della permanenza dell’oggetto, vale
a dire della capacità del bambino di comprendere che gli oggetti hanno una propria esistenza
indipendentemente dal rapporto che gli ha con ognuno di essi.
• Nello stadio pre operazionale (due-sette anni) il pensiero del bambino ancora limitato ma non vengono
eseguiti solo aggiustamenti percettivo-motori su oggetti ed eventi; il piccolo è in grado di usare simboli in
maniera sempre più organizzata per rappresentare oggetti ed eventi. Lo sviluppo delle funzioni
rappresentative favorito dal gioco, dall’attività imitativa e dall’impiego del linguaggio verbale. Il pensiero
avviene a livello intuitivo il bambino può apprendere senza l’uso del ragionamento.
• Nello stadio operatorio concreto (Sette-11 anni) il bambino acquisisce limitate strutture logiche che
consentono di compiere azioni mentali. Inizia considerare il punto di vista altrui poiché il pensiero

17
egocentrico viene sostituito dal pensiero operazionale che comporta l’elaborazione di informazioni. Lo
scopo di tale stadio concerne l’organizzazione e l’ordinamento degli eventi del mondo reale.
• Nello stadio operatorio formale (11-15 anni) ha luogo l’acquisizione del pensiero astratto, del
ragionamento deduttivo e della definizione di concetti.

Il bambino ha predisposizioni biologiche a reagire agli eventi ambientali e all’esperienza affettiva che
influenzano lo sviluppo di modelli di comportamento interpersonali stabili. L’equilibrio emotivo del
bambino può essere disturbato da esperienze di caregiving negative e non empatiche. Risulta quindi
importante riconoscere l’incidenza della relazione madre-bambino e dei fattori di rischio connessi alla
genitorialità quali l’appartenenza a una determinata cultura o a un determinato ambiente sociale.
La discordia parentale e la disgregazione familiare possono generare sentimenti di angoscia di ansia difficili
da elaborare per un bambino e che possono sfociare in condotte patologiche diverse. Inoltre, i bambini che
vivono accanto a genitori con un quadro psicopatologico evidenziano numerosi problemi. Un altro
consistente fattore di rischio per il bambino è costituito dalla psicosi di un genitore che può incidere sul suo
sviluppo. La trascuratezza alimentare o igienico-sanitaria da parte dei genitori può causare difficoltà di
accrescimento del piccolo che diviene oggetto di omissioni e carenze riguardo i suoi bisogni fisici e psichici.
I pattern di personalità si formano nel corso dell’infanzia e seguitano a svilupparsi nel ciclo di vita. Tali
pattern possono rimanere stabili o mutare in relazione ad alcuni fattori: le predisposizioni biologiche, l’età e
la fase evolutiva, la tipologia di famiglia,…
Durante lo sviluppo si presentano azioni difensive e ad attive, consapevoli e non consapevoli, le quali
sostengono il bambino affinché possa padroneggiare le esperienze traumatiche e le normali frustrazioni che
accompagnano il processo di crescita.

Il bambino in difficoltà

L’intervento a favore di bambini in condizioni di disagio psicosociale va progettato prendendo in


considerazione le situazioni specifiche nelle quali il minore si trova. Il progetto di sostegno educativo si
diversifica in relazione agli scopi da conseguire, ma quasi sempre vengono privilegiate nell’educatore le
competenze anima attive utilizzabili nelle strutture ricreative, le competenze Psico relazionali.
Solitamente l’operatore educativo guida il bambino nel suo cammino evolutivo per un periodo di tempo
preciso e lo accompagna nel processo di educazione. L’educatore deve evitare di presentarsi come se fosse
nella posizione di amico e tanto meno di genitore. Tutto ciò potrebbe portare a una gran confusione nel
bambino stesso e a conseguenze negative.
Con il bambino portatore di handicap psicofisici l’intervento educativo può contribuire al miglioramento
della situazione. L’handicap rappresenta un evento imprevisto per la famiglia che viene destabilizzata e si
trova a dover fronteggiare molte difficoltà a partire dei primi anni di vita del bambino. I componenti del
nucleo familiare necessitano di comprensione e sostegno. Il bambino che manifesta tali problematiche viene
sovente escluso dalla vita sociale a motivo delle difficoltà che gli altri hanno nel vagliare le sue potenzialità
interpersonali e affettive.
Si possono creare situazioni di disequilibrio nella relazione tra professionista e famiglia.il progetto
terapeutico-riabilitativo vide impegnati altri operatori dei servizi socio sanitari.
L’educatore è un agente di cambiamento; Per la realizzazione del cambiamento legge il funzionamento
sociale familiare, progetta un intervento, ha una visione ecosistemi Ca’ che ritiene incisivi tutti i
procedimenti di influenzamento della realtà socio familiare e ambientale.
Il mondo educativo osserva il potenziale il bisogno della persona al fine di individuare le attività dirette a
stimolare il processo di crescita e di cambiamento. Gli interventi possono essere:
- psicologico-relazionali, l’operatore educativo agisce sulla capacità della persona di definire il proprio sé e
di relazionarsi con gli altri;
- Intellettuali, il professionista è indirizzato al recupero delle capacità cognitive;
- Manuali-operativi, l’operatore educativo attiva lavori pratici che implicano l’uso delle mani del corpo;
- Espressivo-creative, favorisce l’elaborazione di nuove idee rispetto alla realtà vissuta;
- Culturali, da utilizzare come stimolo nell’attività di recupero;
- Animativi, animare significa aiutare l’individuo a esprimere il proprio sé, stimolare a pensare e ad agire
per il recupero delle risorse idonee all’evoluzione.

18
La psicopatologia evolutiva

Nel tentativo di comprendere il malessere del bambino e di descriverlo, il clinico nell’iter diagnostico si
avvale di alcuni strumenti come il DSM e l’ICD-10.
La psicopatologia evolutiva si propone di comprendere i meccanismi e i processi sottostanti ai rischi, ai
disturbi e all’adattamento. La maggior parte delle teorie psicologiche conferisce allo sviluppo E alle
esperienze infantili un’importanza fondamentale per la salute mentale dell’adulto.
Le psicopatologie dello sviluppo più frequenti possono essere distinte in:
- disturbi esternalizzanti, Che includono comportamenti rivolti primariamente verso l’esterno. Tra questi
ricordiamo il disturbo da deficit di attenzione-iper attività, il disturbo o positivo provocatorio e il disturbo
della condotta.
- Disturbi internalizzanti, che comprendono condotte dirette in maggior misura all’interiorità, come la
depressione, l’ansia e l’isolamento sociale.

I costumi e i valori di una cultura rappresentano punti di riferimento determinanti al fine di definire se un
certo comportamento possa svilupparsi in modo sano oppure debba essere ritenuto un disturbo.
Di fronte a un disturbo psicologico manifestato da un bambino è lecito chiedersi in che misura esso derivi da
caratteristiche innate o da esperienze successive alla sua nascita.
Ci sono differenti approcci che possono influenzare il modo in cui il bambino viene preso in considerazione
nella valutazione nell’intervento.
L’approccio psicobiologico valuta l’incidenza delle componenti genetiche psicofisiologiche sottostanti ai
disturbi psicologici.
L’approccio cognitivista riconosce l’importanza della struttura biologica e dell’esperienza. Le teorie dello
stress evidenziano come una predisposizione al disturbo sbocchi in patologia solo in presenza di situazioni di
particolare stress.
Gli approcci sociale, comportamentista e psicodinamico ritengono in maggior misura determinanti i fattori
esperienziali nell’influenzare la psiche.
In particolare, l’orientamento psicoanalitico riconosce la rilevanza delle esperienze di vita precoci e inconsce
del bambino nella genesi di un disturbo; il comportamentismo attribuisce i problemi di ordine psicologico a
processi sottostanti di apprendimento dall’esperienza; l’approccio dell’apprendimento sociale sottolinea
come i disturbi psicologici siano l’esito dell’interazione tra fattori motivazionali, sociali ed esperienziali.
In varie circostanze l’intervento educativo dovrebbe essere mirato alle realtà urbane a rischio poiché la
condizione di povertà della famiglia non consente di offrire al bambino sicurezze e opportunità, i familiari
non possiedono risorse intellettuali e culturali per fornire stimoli articolati, la famiglia può venire
emarginata.
Possono presentarsi nel bambino molte problematiche che si ritrovano nell’adulto, anche se in alcuni casi
assumono peculiarità specifiche.
Riconosciamo molteplici fattori interagenti che in ogni periodo della crescita possono generare modelli di
funzionamento sani o compromessi. Vediamo che il contesto familiare, culturale sociale in cui il bambino
organizza il proprio mondo influenza il suo adattamento alla vita. I bambini evolvono e cambiano
velocemente. È importante sottolineare che uno specifico disturbo infantile non deve essere considerato in
automatico un precursore dell’omonimo disturbo dell’adulto.

L’educatore si dovrebbe curare di accogliere i bisogni vitali dei piccoli e di compensare le loro richieste di
sicurezza. Nello svolgimento della sua attività l’educatore collabora con i genitori, con altri operatori e con il
personale specializzato del settore sociale e dell’infanzia.

L’equilibrio psicofisiologico nell’età dello sviluppo

È importante focalizzare l’attenzione sul fatto che il processo di integrazione psicofisiologica necessita di un
adeguato contesto di crescita e di una madre capace di adattarsi alle necessità del bambino, per lo sviluppo di
un senso autentico del sé e di una matura personalità di adulto. Se questo non avviene, l’esperienza corporea
non risulta integrata con quella psicologica il soggetto non è in grado di intraprendere esperienze emotive
autentiche.tramite la separazione delle componenti affettive dalle percezioni somatiche, la persona si difende
da un intollerabile tensione mentale può mantenere un’attività di pensiero razionale e normale, ma non ben

19
integrata con le esperienze corporee ed emotive. Tale situazione facilita l’instaurarsi di disturbi fisici, sia
funzionali che organici.
La nascita psicologica non coincide con la nascita biologica, il bambino nelle prime settimane di vita non ha
una percezione della propria individualità e della propria immagine corporea. Egli fa esperienza delle
sensazioni provenienti dalla figura materna come fossero da lui stesso prodotte. Il bambino si trova nella fase
di autismo fisiologico.
Verso i due mesi di vita, subentra la fase simbiotica in cui la madre non viene ancora percepita come
separata e il bambino vive in uno stato di fusione, fondamentale per la strutturazione di un senso del sé.
Affinché il bambino sviluppi una sana percezione di sé è indispensabile la presenza di una madre
sufficientemente adeguata e in sintonia con le differenti esigenze del figlio.
In questa fase può accadere però che la madre non renda autonomo il bambino o che il fanciullo si trovi a
sperimentare carenze educative e affettive, di conseguenza, il bambino non riesce a impossessarsi
psicologicamente del proprio corpo e ad assegnare un significato appropriato alle proprie emozioni.
Intorno ai cinque-sei mesi, nella fase di individuazione-separazione, il bambino nasce psicologicamente e
comincia differenziarsi e a concepire la madre come un’entità separata.
Da uno a due anni circa il bambino attraversa la fase della sperimentazione in cui manifesta molte capacità
motorie, è consapevole del proprio status di individuo, percepisce la separazione dalla madre e la dipendenza
da lei.
Nella fase della costanza dell’oggetto il bambino interiorizza le figure genitoriali che vivono nella sua mente
anche quando non sono presenti fisicamente. Nel corso dello sviluppo successivo il bambino dovrà superare
le tappe fisiologiche verso l’autonomia.
È stato affermato che, dopo una separazione problematica, ogni spinta al cambiamento viene percepita come
minacciosa per la sopravvivenza, di conseguenza l’eccesso di tensione emotiva provocata dall’esperienza di
crescita innescherà meccanismi di difesa corporei aventi una funzione protettiva, nel bambino come
nell’adulto.

Il disturbo da deficit di attenzione-iperattività

Tale disturbo è caratterizzato da persistente grave assenza di attenzione iperattività e impulsività, con una
frequenza e un’intensità superiori a quanto si osserva normalmente nei bambini di una data età. Il bambino
con tale disturbo manifesta difficoltà nel controllare la propria attività in situazioni nelle quali dovrebbe
restare seduto tranquillo.
Egli appare incapace di smettere di parlare o di agitarsi anche quando gli si dice di stare fermo, si rivela
instabile, disorganizzato, prepotente e nella sua attività e nel modo di muoversi è scomposto, disordinato, ha
difficoltà ad andare d’accordo con i pari e a instaurare relazioni amicali.
Vi sono evidenze a sostegno dell’influenza di fattori genetici e neurobiologici nell’Eziologia del disturbo.
Altri fattori di rischio sono il basso peso alla nascita e il fumo della madre. I fattori genetici di vulnerabilità
interagiscono con i fattori familiari.
Pensiamo che l’educatore faciliti il suo scopo di aiuto quando interviene monitorando il comportamento del
bambino e rinforzando le condotte adeguate al fine di migliorare le prestazioni scolastiche, incrementando i
comportamenti più idonei e riducendo quelli disturbanti. Nella progettazione e nell’attivazione di un
percorso educativo È necessario rispettare due condizioni preliminari: la precocità dell’intervento e la
multidimensionalità dell’intervento.
Il comportamento del bambino iperattivo peggiora in maniera drammatica nelle situazioni poco motivanti e
ripetitive.in questi casi è fondamentale fornire al bambino frequenti e consistenti rinforzi, non appena mette
in atto il comportamento desiderato.
La complessità del disturbo esige un approccio valutativo e riabilitativo multidimensionale.tuttavia le
strategie prescelte dovrebbero essere collocate all’interno di un piano globale predisposto tra le varie figure
educative.
È decisiva la cooperazione dell’insegnante relativamente alla raccolta di informazioni su tale argomento,
specialmente quando certi aspetti risultano poco visibili in circostanze tranquille e di relazione a due, mentre
è più evidente negli ambiti di vita quotidiana connotati da tensione emotiva superiore, da richieste di
controllo maggiormente estese e dall’assenza di un’interazione diretta con una figura adulta in grado di
fornire aiuto al bambino.

20
Le tecniche educative utilizzate si basano sulle procedure di rinforzo positivo. In queste tecniche, il rinforzo
viene dato dopo ogni comportamento positivo durante la fase iniziale del trattamento, per poi passare
gradualmente a un intervento più intermittente.

Il disturbo positivo provocatorio

Tale disturbo, che in alcuni casi precede il disturbo della condotta, risulta connotato da una modalità di
condotta ostile, non cooperativa, negativistica e provocatoria nei confronti delle persone che si prendono
cura del bambino. Il bambino con tale disturbo è spesso collerico, vendicativo e rispettoso. E presenta perdita
di controllo, rifiuto di rispettare le regole, liti con gli adulti, scarsa tolleranza alla frustazione, scarsa stima di
sè.
Il bambino sente con facilità che gli altri gli mancano di rispetto e li ritiene moralmente indegni, dal suo
punto di vista il problema è nelle richieste di conformità che provengono dagli altri. Le relazioni familiari e
sociali sono di solito danneggiate da condotte prepotenti, o positive e distruttive.tale disturbo sembra
verificarsi in famiglie dove le pratiche educative sono rigide, incoerenti e l’accudimento del bambino appare
sconvolto dall’alternarsi di caregiver differenti.

Il disturbo della condotta

Tale disturbo è connotato da livelli pervasiva ed elevati di aggressività, avidità, opportunismo, tendenza a
mentire, atti vandalici, furti, crudeltà verso persone e animali e azioni che infrangono le norme sociali e le
leggi.
Il bambino con disturbo della condotta sembra in consapevole dei suoi stati affettivi, non appare responsivo
ai sentimenti altrui, risulta incapace di un adeguato contatto emotivo, esprime impulsività e indifferenza
verso gli altri e prova piacere nel far male al prossimo.
Il disturbo che si manifesta nell’infanzia è un fattore predisponente il manifestarsi del disturbo antisociale di
personalità in età adulta.
È possibile differenziare due tipologie di decorso nei problemi della condotta. Alcune persone sembrano
manifestare un modello comportamentale antisociale che persiste per l’intera vita, mentre altre persone il
loro il disturbo pare essere circoscritto all’adolescenza.
L’interazione di fattori individuali con i fattori socio culturali può aumentare la probabilità che l’individuo
manifesti condotte aggressive precoci e persistenti. L’intervento dell’educatore dovrebbe estendersi ai
sistemi coinvolti nella vita del bambino nell’intento di potenziare al massimo le possibilità che il
miglioramento comportamentale investa la sua vita quotidiana. Dovrebbe inoltre avere la finalità di
ricompensare in modo costante la condotta pro sociale.

I disturbi dell’umore

Il modello di interazione adattiva consente al bambino di adeguare le sue abilità funzionali allo sviluppo e
tramite ciò fa esperienza di molte emozioni. Il bambino emotivamente sano è curioso, assertivo ed
esplorativo.
Il bambino affetto da depressione manifesta bassi livelli di affettività positiva e alti livelli di affettività
negativa. Gli studi sulla depressione nei bambini si sono focalizzati sulla famiglia e sulle altre relazioni quali
potenziali fonti di stress.
Il bambino depresso presenta autosvalutazione, accentuata irritabilità e lamentele per il proprio stato fisico,
disturbi del sonno, modificazione dell’appetito e a scarse abilità sociali e difficoltà relazionali con fratelli e
amici. È stato messo in luce come la presenza di una depressione grave sia provocata dalla deprivazione
della figura materna; il lutto, la tristezza, la depressione sono stati messi in relazione con la perdita
dell’attaccamento alla madre.
La depressione si manifesta nell’infanzia con regressione o ritardo dello sviluppo. I bambini piccoli
manifestano umore depresso con diminuzione dell’interesse per attività tipiche del loro livello di sviluppo, le
interazioni e le iniziative sociali sono ridotte e non reagiscono di fronte alle frustrazioni.
La depressione anaclitica e l’ospitalismo sono forme gravi di depressione infantile derivanti dalle privazioni
della figura materna.

21
A livello linguistico il bambino depresso ha difficoltà a mantenere l’alternanza dello scambio comunicativo
con la madre con un decremento della lallazione o una perdita di competenze linguistiche precedentemente
acquisite. Svanisce il sorriso sociale e di riconoscimento.
La depressione tra uno e tre anni si manifesta conespressione triste del volto, sguardo fisso, ritardo dello
sviluppo motorio. La depressione in questo periodo è legata alla perdita dell’oggetto d’amore, quando cioè il
bambino non ha interiorizzato fermamente l’immagine materna.
Tra i tre e i cinque anni la depressione infantile è caratterizzata da aspetto triste, disperazione, apatia,
irritabilità e pianto frequente. Il gioco con i pari viene ridotto gli aumentano le attività solitarie con
attribuzione agli altri del rifiuto, sono presenti condotte auto aggressive.
Tra i cinque e i 12 anni la sofferenza depressiva viene comunicata attraverso comportamenti di auto
disprezzo e di autosvalutazione con una sofferenza morale espressa direttamente; si presentano condotte
legate all’opposizione alla protesta verso i sentimenti depressivi e l’insuccesso scolastico è in aumento.
La prevenzione sembra un approccio primario: prevenzione nell’ambito della relazione madre-bambino,
prevenzione sociale e prevenzione nelle istituzioni. Nell’approccio educativo ci sembra prioritario sostenere
la famiglia al fine di favorire una migliore attenzione e un miglior ascolto ai bisogni del bambino.

Si può notare come nel bambino gli Stati euforici e di abbattimento melanconico, maniacali e ipo maniacali
si presentino sovente con condotte aggressive o agitazione. Il bambino con disturbo bipolare presenta
instabilità e intensità dell’umore che paiono resistenti ad ogni tentativo di mutamento o di riduzione, reazioni
inaspettate e rapide oscillazioni dell’umore. Risultano compromessi le relazioni familiari e sociali,
l’immagine di sé e le altre attività.
Le oscillazioni dell’umore sono dolorose e sfuggono al controllo del bambino che è inconsolabile e
irraggiungibile. Il bambino bipolare è di regola impulsivo, presenta di frequente estesi episodi di rabbia
imprevedibile, talvolta uniti a condotte violente. Il bambino è sovente iperattivo, appare a disagio con se
stesso e si fa spesso male.
L’educatore può avere una funzione di supporto emotivo e relazionale attraverso la vicinanza affettiva,
l’ascolto partecipe, la comprensione e l’empatia che aiuterebbero il difficile percorso verso il conseguimento
dell’autonomia personale e sociale del bambino.

I disturbi d’ansia

Il bambino piccolo può fare esperienza di livelli persistenti di ansia e paura che ostacolano lo sviluppo di
emozioni e di un funzionamento adeguato all’età. L’angoscia può assumere la forma di preoccupazioni
verbalizzate, determinate paure, condotte di Evita mento, stati di agitazione e disagio, ossessioni. La fonte di
ansia può non risultare sempre chiara.
Nel corso del normale sviluppo le paure e i timori costituiscono un’esperienza che accomuna i bambini. Il
bambino crescendo apprende a riconoscere la sua paura, a valutarla e a gestirla. Si è in presenza di un vero e
proprio disturbo quando le paure compromettono gravemente il funzionamento sociale e scolastico del
bambino e possono impedire l’acquisizione di competenze.
I disturbi d’ansia includono una paura pervasiva e un eccessivo stato di allerta, un’esagerata risposta emotiva
ingiustificata a determinate situazioni. L’ansia può interferire con l’alimentazione, il sonno, l’apprendimento
e le relazioni con i coetanei che possono essere compromesse.
Il disturbo d’ansia generalizzato sia quando il bambino prova ansia esagerata, non transitoria e non
giustificata dal contesto.
Il disturbo ossessivo-compulsivo si presenta quando il bambino ripete di frequente alcune azioni che
provocano tensione e sono di ostacolo al normale svolgimento della vita normale. Il bambino è dominato da
perfezionismo, ordine, controllo mentale e interpersonale a discapito della flessibilità. Gli stati affettivi
comportano un’ansia pervasiva, i pensieri e le fantasie includono preoccupazioni per l’ideazione ossessiva.
Nel disturbo d’ansia da separazione il bambino evidenzia eccessiva e inappropriata ansia da separazione da
casa o dalla figura di riferimento cui è affezionato. Il bambino ha paura di andare a dormire da solo, di uscire
da casa, ha il timore di perdersi e a fantasie o incubi connessi a tali tematiche.
Se il bambino non ha vissuto un buon attaccamento e la separazione è avvenuta in modo inadeguato,
permane l’ansia di essere separato dalla figura di riferimento.
In tali casi sono utili strategie educative mirate a supportare il bambino nelle situazioni scatenanti, alla
rassicurazione del piccolo.

22
Consideriamo che una fobia può svilupparsi proprio quando l’ansia del bambino viene spostata su un oggetto
o su una situazione che normalmente non vengono considerati pericolosi. Gli stati affettivi connessi alle
fobie inglobano la paura provata quando si pensa o si è di fronte all’oggetto o alla situazione fobica.
Il bambino fobico può manifestare sintomi somatici legati all’esperienza o all’anticipazione dell’esposizione
all’oggetto della sua fobia: battito cardiaco accelerato, nausea, mancanza di appetito,…
Una tipica fobia infantile è riconoscibile nella fobia della scuola che può compromettere la funzionalità del
bambino a livello scolastico e sociale.
Obiettivo principale dell’intervento educativo dovrebbe essere quello di favorire il reinserimento scolastico
del bambino senza forzarlo, ma preparandolo all’evento gradatamente. Contestualmente è necessario un
lavoro di aiuto alla famiglia per sostenere comportamenti che favoriscono il ritorno a scuola e che non
agiscano involontariamente da rinforzi delle assenze o della paura. La finalità è di sviluppare nel bambino le
capacità di adattarsi anche in ambienti controversi, accrescendo le abilità socio relazionali utili
costantemente nella vita.
Il bambino con fobia sociale tende a giocare solo con i componenti della famiglia o con i coetanei che
conosce bene, mentre evita gli sconosciuti giovani e adulti.
Generalmente ha rapporti affettuosi e appaganti con i familiari e gli amici di famiglia.
Il bambino con disturbo d’ansia tende a sovrastimare la pericolosità di determinate situazioni e a sottostimare
la propria capacità di farvi fronte, di conseguenza l’ansia provocata da tali atteggiamenti cognitivi
interferisce con l’interazione sociale, spingendo il bambino a evitare i contesti di socializzazione e
ostacolandolo nell’acquisizione di abilità sociali.

Il disturbo postraumatico da stress si presenta nel bambino che è stato esposto a esperienze traumatiche che
implicano una minaccia alla vita e all’integrità della persona e valica le capacità individuali di far fronte alla
minaccia. Sono presenti incubi, flashback, pensieri intrusive che fanno rivivere l’evento, agitazione,
problemi del sonno, distacco emotivo.
Le risposte emotive al trauma dipendono dall’età del bambino al momento dell’evento, dal livello di
esposizione al trauma e dalla sua durata, dal temperamento, dallo stile ad attivo, dal riconoscimento
cognitivo delle esperienze traumatiche. La presenza di una figura sostitutiva, come l’operatore educativo,
può influenzare gli esiti dell’evento traumatico. Si suggerisce un intervento educativo che mira a coinvolgere
la famiglia per ottenere collaborazione nell’ascolto dei bisogni frustrati al fine di alleviare il disagio del
bambino.

Le difficoltà di apprendimento

Le difficoltà di apprendimento si verificano quando il livello di sviluppo di un bambino in una determinata


area delle abilità linguistiche, motorie e scolastiche è inadeguato a quello atteso in relazione al suo sviluppo
intellettivo. I disturbi dell’apprendimento includono:
• Il disturbo della lettura o dislessia, in cui il bambino trova assai difficoltoso riconoscere le parole e
comprendere ciò che legge, oltre che scrivere correttamente le parole. Tale disturbo tende a persistere
anche in età adulta;
• Il disturbo dell’espressione scritta è connotato da compromissione della capacità di comporre testi scritti
mediante calligrafia stentata, errori ortografici, grammaticali, di punteggiatura.
• Il disturbo del calcolo è caratterizzato da difficoltà a riconoscere e ricordare esattamente regole e simboli
aritmetici, a contare con precisione e velocità, a mettere i numeri in colonna.
I disturbi della comunicazione possono riguardare:
• L’espressione del linguaggio in cui il bambino ha difficoltà ad esprimersi, a trovare le parole giuste,
l’utilizzo delle strutture grammaticali è molto inferiore a quello atteso alla sua età;
• Il disturbo della fonazione si nota quando il bambino a un eloquio poco chiaro anche se comprende il
lessico ed è in grado di usarlo congruamente;
• Le balbuzie dove il bambino ripete o prolunga i suoni, fa lunghe Posey tra le parole, ripete un’intera parola
monosillabiche e sostituisce parole difficili con parole più facili.
I disturbi della comunicazione, eccetto la balbuzie, diminuiscono con l’avanzare dell’età.

Il disturbo delle capacità motorie si presenta quando sia una marcata compromissione dello sviluppo della
coordinazione motoria che interferisce con le attività della vita quotidiana del bambino.

23
Un adeguato intervento educativo deve fornire al bambino con tali difficoltà l’opportunità di sperimentare
sentimenti di padronanza e di auto efficacia, accrescere la fiducia in se stesso e la motivazione, ridurre la
frustrazione e insegnare strategie di adattamento sociale ed emotivo.

I disturbi dell’alimentazione, dell’evacuazione e del sonno

Nell’età dello sviluppo è facile riscontrare disturbi inerenti al rapporto con il cibo. L’alimentazione sembra
legata all’interazione precoce tra madre bambino e costituisce il modo tramite il quale il neonato inizia ad
esplorare il mondo circostante.
In ogni circostanza si consiglia di considerare che l’alimentazione costituisce un aspetto basilare
nell’accudimento e nella cura del bambino. Si pensa che il comportamento alimentare sia parte integrante
dello sviluppo della condotta di attaccamento che si rafforza o si debilita mediante l’interazione tra madre
bambino e la sensibilità della madre nel rispondere ai segnali del bambino.
Ci sembra che vari fattori possono essere implicati nella genesi dei disturbi alimentari dell’infanzia,
trattandosi di una fase connotata da modificazioni a livello dello sviluppo biologico, cognitivo e affettivo. I
processi maturative delle capacità senso motorie orali auto regolative del bambino, coinvolti nello stabilirsi
di modelli alimentari appropriati, evidenziano la loro complessità in presenza di una mala adattamento in tale
contesto.
Le relazioni caregiver-bambino influenzano lo sviluppo emotivo e interpersonale del bambino. Anche le
esperienze relazionali passate della figura Di accudimento con le proprie figure possono incidere sui modelli
di regolazione evolutiva e quindi sull’instaurarsi di disturbi alimentari.
I disturbi della nutrizione della prima infanzia e della fanciullezza concernono il continuo rigurgito e
rimastica amento del cibo, l’ingestione di sostanze non commestibili, l’incapacità di consumare cibo in modo
appropriato. Aggiungiamo inoltre i disturbi della condotta alimentare presenti ad ogni età che si riferiscono
all’eccessiva o all’insufficiente ingestione di cibo: bulimia e anoressia.
Si suggerisce all’educatore di prestare particolare attenzione alla relazione madre-bambino al fine di cercare
di affievolire l’angoscia materna; l’invio allo psicologo clinico o al neuropsichiatra potrebbe essere una
buona strategia per rassicurare la figura materna rispetto alla forte ansia che il problema alimentare fa
scaturire.

I disturbi dell’evacuazione inseriscono all’incapacità di controllare l’eliminazione di feci e urina nel bambino
dopo i cinque anni, con frequenza e in assenza di condizioni fisiologiche. Durante il secondo il terzo anno
l’acquisizione della pulizia è uno degli aspetti di transazione nella coppia madre-bambino.
In particolare, nel mancato controllo dell’urina sarebbero implicati fattori fisiologici, genetici e psicologici.
Basti ricordare che è un evento che segna la vita del bambino, conflitti familiari frequenti, carenze socio
economiche,… Possono portare all’insorgenza dell’enuresi.
È importante non accusare e colpevolizzare il bambino e di apportare i correttivi comportamentali necessari,
sovente il sintomo sparisce. È importante la partecipazione del bambino e per aiutarlo è possibile ricorrere
all’informazione sul funzionamento urinario e smitizzare il sintomo.

L’educatore dovrebbe aver presente che i disturbi del sonno possono essere sintomatici di disturbi interattivi
tra figura di riferimento e bambino, possono manifestarsi in presenza di malattie, stress, transizioni evolutive
tendono a risolversi mediante relazioni tranquillizzanti e il ritrovamento della sicurezza. È importante
stabilire degli orari di routine dove il bambino viene messo a dormire in un adeguato orario.

Il ritardo mentale

L’intelligenza è un indice della capacità di elaborare le informazioni. Ritardo mentale in presenza di un


funzionamento intellettivo significativamente al di sotto della media, ovvero un quoziente intellettivo al di
sotto di 70 e di deficit del comportamento adattivo, con esordio prima dei 18 anni di età.
Nel ritardo mentale profondo il livello mentale non supera i due-tre anni. I comportamenti della vita
quotidiana raggiungono un’autonomia limitata, ma possono subire un incremento in presenza di una
relazione positiva. È possibile incontrare alterazioni relazionali come ritiro affettivo o isolamento.
Nel ritardo mentale moderato normalmente il bambino non oltrepassa un’età mentale di sei-sette anni. È
spesso presente ritardo dello sviluppo psicomotorio; è possibile una certa autonomia nelle condotte sociali,
soprattutto se il bambino cresce in un contesto stimolante e ricco di calore.
24
La lettura si limita alla decifrazione elementare e la scolarizzazione è in attuabile, il pensiero rimane allo
stadio preoperatorio.
Nel ritardo mentale lieve l’insuccesso scolastico e ciò che connota il bambino che prima dell’entrata a scuola
ha avuto uno sviluppo psicomotorio nella norma. Il linguaggio non presenta grosse anomalie, l’inserimento
sociale è perlopiù buono. Sono frequenti alterazioni affettive.
Possibili cause del ritardo mentale sono le anomalie genetiche o cromosomiche, le lesioni cerebrali, le
infezioni e le tossine, fattori ambientali come la povertà, la malnutrizione e il contesto disfunzionale.
Si pensa che l’educatore debba focalizzarsi sui punti di forza dei soggetti con ritardo mentale e attuare
interventi educativi volti a valorizzare al massimo le abilità dell’individuo e a modificarne nel modo più
positivo possibile la vita, aiutarlo a migliorare il suo apprendimento.

Il disturbo autistico

Si tratta di un disturbo pervasivo dello sviluppo i cui sintomi basilari sono l’incapacità di relazionarsi con gli
altri, problemi di comunicazione, difficoltà a sviluppare la teoria della mente. Le prime teorie sull’autismo
ipotizzavano che il suo sviluppo dipendesse da fattori psicologici.
Tale prospettiva limitata e non suffragata da prove è stata sostituita da teorie che riconoscono l’influenza di
fattori genetici e neurobiologici.
Il disturbo autistico a un esordio precoce e può manifestarsi nei primi mesi di vita. Le capacità cognitive
delle persone autistiche possono essere nella norma o addirittura avanzate. Tuttavia tali capacità e interessi
hanno un carattere ripetitivo, stereotipato e non implicano tentativi di comunicazione o di condivisione
spontanea.
La solitudine del bambino autistico rappresenta un aspetto caratteristico del suo disturbo. In genere, il
bambino inizia a mostrare segni di attaccamento nei confronti della figura materna verso i tre mesi; tale
attaccamento precoce nel bambino autistico è meno evidente. I bambini autistici di rado si avvicinano agli
altri, eludono il contatto visivo, possono essere attratti da oggetti inanimati o meccanici.
Secondo alcuni studiosi, i bambini autistici non avrebbero sviluppato una teoria della mente; tale teoria è
basilare per entrare in relazione con gli altri e si sviluppa tra i due anni e mezzo e i cinque anni e si riferisce
alla consapevolezza della persona relativamente al fatto che gli altri soggetti possono avere credenze,
desideri ed emozioni diverse. I bambini autistici non sembrano raggiungere questa fase dello sviluppo.
Inoltre tali bambini mostrano sovente problemi linguistici. È possibile riscontrare l’ecolalia: il bambino
ripete ciò che ha sentito dire da un’altra persona. Per quanto riguarda la scarsa empatia, è stato sottolineato il
deficit genetico esercitato dal limite dei neuroni specchio che non consentirebbero il rispecchiamento delle
emozioni interattive.
I cambiamenti nella routine quotidiana e nel loro ambiente inquietano i bambini con autismo e possono
generare crisi di pianto o collera.
In generale alcuni soggetti autistici con un quoziente intellettivo più elevato, in età adulta presentano un
funzionamento quasi nella norma, non necessitano di assistenza residenziale e sono in grado di badare a se
stessi.
Obiettivo generale dell’attività educativa dovrebbe essere quello di creare le condizioni per poter permettere
al soggetto di attivare e sperimentare le risorse adeguate per adattarsi all’ambiente. Soltanto attraverso un
intervento sinergico che presuppone la stretta collaborazione tra famiglia, scuola, istituzioni, servizi e
comunità, si può garantire un effettivo miglioramento della qualità di vita dei bambini con autismo.
Si consiglia fortemente di educare il bambino ad apprendere nel modo a lui più consono, con lo scopo di far
emergere quelle capacità che nel soggetto autistico non emergono spontaneamente, ma necessitano di
interventi Psico educativi. L’intervento educativo diviene centrale nell’approccio terapeutico al bambino
autistico. L’intervento dovrebbe avere come finalità il raggiungimento della massima autonomia possibile
del soggetto, lavorando in modo strutturato sulle aree deficitarie come quella linguistica, comportamentale,
relazionale e motoria.

I disturbi dell’attaccamento e il lutto prolungato

I disturbi dell’attaccamento costituiscono un disturbo del sentimento di sicurezza e protezione del bambino
che provoca angoscia persistente o riduzione del funzionamento. Si tratta di una modalità di relazione sociale
del bambino molto disturbata in relazione al livello di sviluppo riscontrabile in diverse situazioni sociali.

25
I disturbi dell’attaccamento sono maggiormente riscontrabili nei bambini che hanno vissuto una deprivazione
precoce, pensiamo ad esempio a una istituzionalizzazione prolungata o a numerosi affidamenti. In alcuni casi
il bambino mostra di avere una figura di attaccamento preferenziale, ma la relazione con tale figura è
disturbata. È osservabile un’inversione di ruolo nella funzione dell’attaccamento dove il bambino mostra una
esagerata preoccupazione per il benessere emotivo della figura genitoriale.
Infine, nella famiglia che presenta violenza tra i coniugi o abuso, si può osservare una situazione in cui il
bambino mostra comportamenti pericolosi in presenza della figura di attaccamento o condotte aggressive
rivolte verso di sé o verso la figura di accudimento.

Le reazioni ad un evento luttuoso possono svilupparsi nel tempo. Solitamente quando il bambino piccolo
perde una figura di riferimento reagisce al lutto cercando la persona perduta e protestando per la sua assenza.
Il bambino può divenire passivo e chiuso in sé, si possono manifestare ansia e agitazione. Alcuni bambini
evidenziano ansia da separazione, si aggrappano al genitore ancora in vita e non tollerano la lontananza da
lui. La reazione prolungata al lutto si differenzia dalla normale elaborazione del lutto Per la presenza di
regressione nelle acquisizioni evolutive, diminuita tolleranza alla frustrazione, disturbi somatici e disturbi del
sonno e dell’alimentazione.

Il disturbo dell’identità di genere

Il bambino con disturbo dell’identità di genere esprime un forte rifiuto del suo genere e un orientamento
persistente e duraturo di appartenenza al genere opposto al proprio, cioè è convinto di appartenere al sesso
femminile se è maschio o viceversa. Tale identificazione conflittuale può esprimersi nei giochi simbolici,
nell’attività ludica e nella preferenza per i compagni di gioco dell’altro genere.
Il gioco può divenire rigido e il bambino prova vergogna e soffre per la propria diversità, può diminuire la
stima di sé in seguito alle prese in giro e alla disapprovazione degli altri. Può essere presente una
preoccupazione ripetuta per il desiderio di appartenere al sesso opposto.
L’educatore dovrebbe tenere presente che l’identificazione di base dei gruppi misti può portare a una
idealizzazione di un pari, femminile da parte di un maschio maschile da parte di una femmina.

Il disturbo psicotico

Il disturbo psicotico è caratterizzato dalla perdita dell’esame di realtà, dalla presenza di disturbi del pensiero,
dei deliri e allucinazioni. La condizione può essere grave o transitoria. In alcuni casi il bambino può avere un
esame di realtà povero, in altri la compromissione del senso di realtà è conseguente a un grave trauma.
Il bambino psicotico può presentare eloquio incoerente, disturbi dell’affettività e insufficiente cura di sé. A
livello relazionale il bambino può essere esageratamente solitario o smodatamente dipendente. Il pensiero del
bambino psicotico può rispecchiare capacità di giudizio inadeguate, credenze irreali, può essere illogico o
disorganizzato.
La storia evolutiva del bambino psicosi è varia, ad esempio può essere connotata da grave disagio emotivo,
da difficoltà nella modulazione delle sensazioni.
L’educatore dovrebbe cercare l’aiuto e il sostegno di altre figure professionali di fronte a segnali di psicosi
infantile. L’educatore inoltre deve porre attenzione all’ambiente di vita del bambino psicotico che può
necessitare di una più adeguata ricomposizione.

L’operatore educativo “base sicura”

Si suggerisce all’educatore un’attenzione volta a fornire protezione, sostegno e aiuto al minore e al suo
nucleo familiare in difficoltà. La figura educativa si inserisce in quelle relazioni significative in grado di
modificare traiettorie evolutive di disturbo psicologico e relazionale.
Un bambino in relazione con una figura sensibile e responsiva che accoglie, ascolta, ripara e aiuta, si
garantisce l’esperienza della sicurezza, la sensazione di affidarsi all’altro, bisogno e paura con la
consapevolezza di poter fare ritorno alla base sicura in caso di difficoltà, per poi ripartire dopo aver ricevuto
conforto. Per assicurarsi la sopravvivenza fisica e psicologica, il bambino ha bisogno di consolidare il
proprio sentimento di sicurezza mediante l’alternanza tra attività di esplorazione dell’ambiente e attività di
ricerca di contatto emotivo con la figura di riferimento.

26
Tali disturbi psicopatologici hanno la prerogativa di autoguarigione se in un momento successivo dello
sviluppo l’ambiente fornisce al bambino quello che gli è mancato nelle prime fasi di vita.
Si rivela imprescindibile la funzione di scaffolding , Vale a dire impalcatura e di struttura di sostegno in
grado di guidare il minore, che il professionista dovrebbe fornire al bambino affinché questi sia capace di
elaborare una conoscenza di sé e del mondo, di sperimentare nuove esperienze relazionali e di sé. La
relazione base sicura rappresenta il nucleo fondante dell’intervento educativo, il luogo della comprensione e
dell’accettazione in cui vengono fornite nuove opportunità relazionali e sociali.

Capitolo 8: Promozione del benessere e prevenzione

Gli interventi educativi, formativi e riabilitativi

La figura dell’educatore compare i numerosi servizi socio sanitari che operano dove è presente un disagio e
in molti servizi che intervengono per prevenirlo.
Il setting lavorativo viene definito in termini di relazione di aiuto e di promozione nel contesto della vita
quotidiana, indirizzato a individui o a gruppi.
Vi sono due tipologie di operatore: l’operatore socio sanitario e l’operatore socio educativo. L’approccio
dell’operatore verso l’utenza si diversifica quindi in rapporto alla situazione in cui opera.
Gli interventi dell’educatore dovrebbero essere politico-sociali, educativi in ambiti formativi, culturali,
lavorativi, multiprofessionali e multi istituzionali per garantire pari opportunità nel riconoscimento dei diritti
di cittadinanza.
L’educatore può funzionare come un mediatore di significati nel momento in cui tenta di congiungere teoria
e pratica, fatti e conoscenze; è agente di cambiamento al servizio del soggetto che mira al benessere anche in
situazioni di malessere.
Educare può significare lavorare con l’utente allo scopo di trasmettere e favorire la sua stabilità e la sua
autodeterminazione per mezzo di conoscenze, abilità, sensibilità e valori di riferimento.
L’educatore è responsabile:
- nei confronti di se stesso educatore. Inerisce a una capacità che consiste nel saper osservare, ascoltare e
riflettere su se stessi e prendersi cura di sé. Si tratta di confrontarsi con la propria tolleranza alle
frustrazioni per riuscire a impiegare tali errori come un proficuo momento di verifica e di apprendimento.
- Nei confronti dell’utenza. È importante per l’educatore aver affinato le proprie capacità di considerazione
della persona alla quale è rivolto l’intervento educativo con la sensibilità umana adeguata. Alla base di un
approccio correttamente professionale non dovrebbe mancare l’empatia.
- Nei confronti della professione. Si riferisce a vivere la propria professione con avvedutezza impegnandosi
per la sua affermazione ed evoluzione.
- Nei confronti dei colleghi e di altri professionisti. Risultano fondamentali il rispetto e la collaborazione
reciproca.
- Nei confronti della struttura a cui appartiene.
- Nei confronti della comunità. L’educatore non dovrebbe essere all’oscuro delle reali risorse territoriali.
- Nei confronti delle politiche sociali.
Morin propone i sette saperi necessari all’educazione, dei quali l’operatore dovrebbe tenere conto
nell’attuazione degli interventi:
1) la cecità della conoscenza
7) I principi di una conoscenza pertinente
8) La condizione umana
9) L’identità terrestre
10) La gestione delle incertezze
11) La comprensione
12) L’etica del genere umano

(Approfondisci con pag. 190)

La competenza educativa include la competenza personale, metodologica e cognitivo-disciplinare. La


competenza personale sembra radicata in aspetti motivazionali e attitudinali.
27
La competenza metodologica è connessa ad una consapevole capacità operativa concernente, ad esempio, la
progettazione e la valutazione degli interventi. La terza competenza riguarda le conoscenze che guidano
nell’analisi del reale.

L’interesse dell’educatore non si limita a teorie e a modelli inerenti all’educazione e ai processi di


socializzazione e di integrazione, ma si estende ad altri contributi disciplinari come l’apporto giuridico,
l’apporto economico, l’apporto filosofico,…

Descriviamo ora quelle che ci appaiono le componenti essenziali dell’intervento educativo: la relazione tra
educatore e utente, la finalità che ci si prefigge di raggiungere, gli strumenti e i metodi educativi.
Le attività che l’educatore svolge possono avere:
- funzioni dirette, quando hanno come focus la relazione tra educatore e utente. L’obiettivo è di creare una
relazione educativa e giungere a un cambiamento.
- Funzioni indirette, nel momento in cui l’attenzione è posta sull’organizzazione e sui procedimenti
dell’intervento.
- Funzioni di secondo livello, quando le attività di formazione, di coordinamento e di supervisione sono
rivolti ai colleghi, ad altri operatori e a soggetti con funzioni educative.

L’educatore, nella fase lavorativa iniziale, è portatore Sia a livello personale che professionale, di questa sua
esperienza ed opera attingendo dalla propria pratica e da quella altrui. In seguito, si troverà a fronteggiare i
casi educativi che si differenziano dalla realtà a lui nota e incontrerà limitazioni metodologiche che dovranno
essere superate.
L’educatore opera nella scena educativa con un atteggiamento indirizzato alla cura educativa astenendosi dal
voler curare in senso stretto, ma mostrando interesse unicamente in riferimento ai sintomi per giungere a una
diagnosi coerente.
Diventa comprensibile come progettazione e programmazione costituiscano la sorgente di ogni progetto o
programma di intervento educativo. Progettare significa tendere verso un proposito da concretizzare;
programmare implica invece attuare il progetto iniziale ed è questa la fase operativa, organizzativa e
strumentale del piano progettuale. La programmazione include: obiettivi prefissati, fasi di esecuzione,
contenuti da attuare, tempi da rispettare, modalità da adempiere, procedure da applicare, verifiche da
eseguire e valutazione dei risultati.

Il protocollo metodologico e operativo include alcune fasi:


• Preparazione del progetto e relativo programma di intervento. Riguarda la raccolta di informazioni
conoscitive, la formulazione di ipotesi di intervento, l’individuazione di eventuali risorse dei soggetti, dei
contesti e dei partner che potrebbero essere coinvolti e l’elaborazione di un programma definitivo.
• Formulazione delle finalità funzionali al percorso formativo. Vengono tracciati gli obiettivi generali
concernenti quelli derivanti dai progetti della struttura in cui si lavora.
• Intervento educativo. Questa fase centrale prevede l’elaborazione delle attività e degli interventi da attuare,
delle procedure e dei soggetti coinvolti.
• Conoscenza dell’utenza. Risalire al profilo dell’utente o di una determinata situazione permette di captare
gli elementi che connotano l’individuo o quella specifica realtà.
• Scelta degli strumenti di lavoro. Si tratta di selezionare i mezzi adeguati per promuovere progetti ed
interventi.
• Valutazione e autovalutazione. In quest’ultima fase vengono valutati l’efficacia delle attività realizzate, lo
stato di benessere dell’utenza riferito alle percezioni soggettive, alla qualità e all’adeguatezza delle
competenze impiegate, mediante il confronto tra le finalità, gli strumenti e i risultati conseguiti. È
opportuno documentare il lavoro svolto con schede di osservazione, griglie, filmati,…

Riguardo gli spazi nei quali il professionista opera, essi dipendono dal tipo di organizzazione del progetto
educativo; il setting diviene così una parte del contesto che l’educatore crea o nel quale si integra per
realizzare la relazione educativa.
L’intervento non può che essere individuale nel momento in cui l’educatore entra in relazione con un’unica
persona al fine di osservare in modo diretto ed esclusivo ciò che accade tra sé e il soggetto.

28
L’intervento elettivo prevede un setting di gruppo quando l’operatore all’opportunità di relazionarsi con il
singolo osservando anche quello che avviene nelle interazioni tra il singolo e gli altri.
L’intervento sulla famiglia si propone di osservare ristrutturare stili interattivi e organizzativi disagevoli;
l’educatore opera sul nucleo familiare nel corso di colloqui con la famiglia del soggetto.
Gli interventi a favore di una rete di persone possono riguardare ad esempio il lavoro volto a supportare
l’integrazione sociale e scolastica di minori extracomunitari.
Gli interventi possono essere residenziali, semi residenziali, diurni; nell’ambito di questi interventi vi è un
elevato di coinvolgimento del contesto educativo e la relazione educativa è intensa.
L’opera dell’educatore può assumere una connotazione differente in relazione al datore di lavoro per conto
del quale egli svolge l’attività perché lo espone a richieste, vincoli, opportunità diversificate.nel caso di
disabilità gravi o di disturbi psichici severi, l’educatore può lavorare assistendo l’utente per migliorarne la
qualità della vita e generare il cambiamento a lui possibile.
Un compito dell’educatore potrebbe consistere nell’orientare sostenere l’individuo nel viaggio di conoscenza
di sé, nel proporre di avviare nuove finalità, le nuove scelte possibili, le nuove opportunità.
L’educatore è chiamato a rispettare l’individualità e i limiti dell’utente nonostante il rapporto di dipendenza;
una relazione risulta efficace se l’utente conquista la sua autonomia e accetta la separazione.
La buona riuscita del percorso educativo può essere ostacolata da limitazioni inerenti a: difficoltà
dell’educatore ad operare a causa di determinate caratteristiche di personalità; esposizione dell’utente a
modelli relazionali invasivi, debilitanti; risorse materiali ed economiche e incomprensioni che coinvolgono
l’équipe.
In alcuni casi è auspicabile prevedere dei momenti di incontro, di osservazione con l’utente posteriori al fine
del rapporto educativo allo scopo di avere una panoramica più estesa del progetto.
Gli interventi riabilitativi, mediante l’integrazione di competenze mediche, Psico sociali e Psico educative, si
propongono di integrare e accompagnare il soggetto con disfunzioni psicologiche e disturbi verso lo sviluppo
di adeguate modalità relazionali, autonomia, autostima, abilità lavorative. Tali interventi tentano di favorire
la relazione dell’utente con la società cui appartiene predisponendo nel territorio servizi e strutture
alternative.
La famiglia, il posto di lavoro, le comunità terapeutiche costituiscono i contesti nei quali ha luogo la
riabilitazione. Ciascun approccio riabilitativo si prefigge di aumentare il livello di funzionamento
dell’individuo riducendo i deficit e incrementando le potenzialità.
Al centro di ogni intervento riabilitativo si pone la dinamica relazionale che si instaura giorno per giorno tra
educatore e utente. Affinché l’educatore possa svolgere un lavoro efficace all’interno dell’équipe ed eludere
impreviste dinamiche relazionali difficilmente controllabili, deve possedere adeguate caratteristiche per sono
logiche, solide conoscenze teoriche e tecniche.

La risposta emotiva dell’educatore

L’educatore sociale si trova ad operare in una varietà di contesti in cui trasversalmente sono molto utili le
competenze psicologiche che permettono di lavorare nella relazione educativa, che è una forma
fondamentale di relazione d’aiuto.
In ogni relazione di aiuto e di cura le caratteristiche dei singoli individui, coinvolti nella relazione stessa,
hanno un ruolo rilevante nel determinare il percorso fatto con l’utente verso un obiettivo comune.
Ci si ritrova inevitabilmente a fare i conti con aspetti soggettivi che entrano in gioco in situazioni
interpersonali significative: ambizioni, fantasie, aspettative, bisogni,…
Per risposta emotiva dell’educatore si intende quello stretto legame che esiste tra i sentimenti personali di chi
offre aiuto e i suoi concreti interventi e comportamenti professionali.
La parola transfer t’descrive i sentimenti che gli utenti sperimentano nei confronti degli operatori e per
contro transfer t’si fa riferimento a tutti i sentimenti che questi ultimi provano nei confronti degli utenti.
Diviene fondamentale poter riflettere sulla risposta emotiva dell’educatore perché nell’attività lavorativa
spesso: sono i sentimenti degli operatori a determinare la qualità del lavoro fornito, i pregiudizi personali e
familiari possono condurre a prese in carico e a programmazione di attività non sempre adatti alla situazione,
lo stress professionale si verifica con maggiore frequenza quando si trascurano le emozioni degli operatori in
relazione agli utenti, con alcuni utenti i programmi educativi si prolungano indefinitivamente gli altri si
29
interrompono e spesso si tendono ad evitare argomenti delicati che mettono l’operatore in difficoltà anche se
centrali per l’utente.
In psicoanalisi, per intendere la risposta emotiva dell’analista nei confronti del paziente, si parla di contro
transfer t’il rapporto dinamico con il transfer t’di Freud che si presenta nel medico a causa dell’incidenza del
paziente sui suoi sentimenti inconsci.
Freud mette in rilievo che ogni psicoanalista prosegue precisamente fin dove glielo permettono i suoi
complessi e le sue resistenze interne.
Il contro transfer t’conserva un significato negativo per i suoi aspetti deformanti del percorso analitico. La
teoria dell’analista come specchio opaco ha come conseguenza è una paura quasi fobica dei sentimenti
sperimentati dall’analista stesso.
Fenichel ha rilevato relativamente presto che la paura del contro transfer t’può portare l’analista a frenare
ogni spontaneità umana nelle sue reazioni.
Oggi si pensa che il contro transfer t’sia una parte essenziale della relazione psicoanalitica. Il contro transfer
t’rappresenta un meccanismo di ricerca nell’inconscio del paziente. Occorre evidenziare che si tratta di una
relazione tra due soggetti. Ciò che differenzia questa relazione dalle altre non è la presenza di sentimenti in
un partner, bensì in particolare, l’intensità dei sentimenti provati e l’utilizzo che se ne fa, poiché tali fattori
risultano dipendenti tra loro.
Loch aggiunge che usare la nostra soggettività vuol dire renderla consapevole.

Tornando al tema della risposta emotiva dell’educatore è opportuno tenere presente come anche il rapporto
educatore-utente sia asimmetrico, poiché la coppia non si trova sullo stesso livello. Si tratta di un rapporto
dove l’utente ha bisogno dell’aiuto dell’altro. Si ottiene così una situazione di dipendenza dal lato di chi
chiede aiuto.
I sentimenti e le emozioni che un operatore prova nei confronti del suo utente rappresentano un
preziosissimo strumento di lavoro nella relazione. Il vissuto emotivo, che nasce nell’educatore, non deve
essere evitato o eliminato.
Per risposta emotiva dell’educatore intendiamo sentimenti, vissuti ed emozioni necessari ed inevitabili nella
relazione di aiuto; aspetti che se trascurati possono condizionare in modo insidioso la produttività lavorativa
nei suoi aspetti organizzativi e quotidiani.
In molti casi, se gli aspetti emotivi vengono del tutto repressi, possono portare a un vero e proprio crollo
dell’operatore che potrebbe non fidarsi più delle proprie capacità professionali, rinunciando spesso a
svolgere il proprio programma educativo.
Il fallimento di una relazione di aiuto si ottiene quando l’operatore non si limita più a intervenire sulle
difficoltà oggettive dell’utente, ma sconfina nella non consapevole ricerca di appagare personali bisogni
conseguenti a frustrazioni di varia natura.
Per l’educatore le emozioni possono rappresentare qualche volta un pericolo a causa di eventuali
sovrapposizioni di parti di sé con quelle dell’altro. Nel caso di confusività indesiderata con l’utente o con un
intero gruppo di utenti si parla di ego sintonia collusiva.
Per risposta emotiva intendiamo proprio la capacità dell’educatore di cogliere gli effetti emozionali che il
contatto con l’utente evoca a livello di vissuti personali per verificare quanto questi incidano sull’obiettività
della propria risposta professionale e quindi sulla sua capacità empatica di comprensione.
In pratica, conoscere la propria risposta emotivo-affettiva permette di affinare la capacità in chi ascolta, di
prendere consapevolezza di tutti i condizionamenti e dei preconcetti provenienti dalla sua persona.

La rilevanza della supervisione

La capacità relazionale si acquisisce mediante un cambiamento risoluto del nostro agire comunicativo,
tramite un atto di comprensione delle conseguenze che genera il mondo interno sulla nostra consueta
modalità di approcciarci agli altri.ogni condotta comunicativa viene influenzata dalle nostre intenzioni e
dalle nostre rappresentazioni che abbiamo di noi stessi, delle nostre emozioni. Peravere un’efficace
competenza relazionale si deve essere consapevoli di ciò che si è.
I bisogni degli utenti sono importanti, ma si ritengono altrettanto importanti quelli degli operatori che devono
costantemente nutrirsi di una nuova cultura attraverso la formazione permanente. Per l’educatore è difficile
mantenere un livello adeguato di comportamenti di risposta alle richieste dell’utenza.possono essere così
messi in atto comportamenti di fuga, rischiando un sovraccarico emotivo.vi è la necessità di un luogo fisico
Dove poter parlare dell’utente e anche di sè in relazione a lui.
30
La supervisione è proprio il metodo, il luogo di aiuto della relazione di aiuto. Vi sono diverse funzioni della
supervisione:
- riattivare nell’équipe di lavoro una riflessione comune e un pensiero condiviso
- Facilitare un clima di sospensione di tipo associativo, onirico al fine di riflettere
- Cogliere il gruppo un senso di coesione di appartenenza
- Dare accesso e deflusso ad emozioni intense
- Prendere consapevolezza delle situazioni che si verificano
- Esternare vissuti dopo avergli elaborati
La supervisione intende fornire una visione globale delle attività educative, allo scopo di migliorare la
situazione, l’organizzazione lavorativa. Issa risponde ad una serie di funzioni: esamina le dinamiche
psicologiche delle relazioni di aiuto, analizza il rapporto tra queste relazioni e studia come tali relazioni tra i
vari attori si riverberano sull’istituzione.
La supervisione è uno strumento di crescita fondamentale per tutte le professioni di aiuto; la relazione e la
progettualità sovente sono individuate come le caratteristiche distintive dell’educatore, ma queste due sono
competenze trasversali.gli elementi specifici della professionalità dell’educatore sono identificati in alcuni
aspetti della relazione della progettualità.
Per quanto riguarda la relazione educativa si tratta: della condivisione della vita quotidiana; della
stimolazione e della valorizzazione delle risorse personali e del contesto familiare dei soggetti;
dell’attivazione di processi di cambiamento nella prospettiva di una costruzione della comunità locale.
Nella relazione educativa, tale dinamica progettuale accomuna i due soggetti coinvolti e il cammino risulta
essere comune. La quotidianità diventa la caratteristica che differenzia e definisce. Nella pratica quotidiana
l’educatore dovrebbe: valorizzare il proprio sé; produrre e garantire processi di sostegno, di tutela e
orientamento; acquisire e attivare metodologie e tecniche educative pedagogiche; essere attento alle
dimensioni della negoziazione e della mediazione tra le esigenze.

Spesso il mandato istituzionale non appare sufficientemente chiaro ed elaborato. In tale situazione
l’educatore è chiamato spesso a inventare la traduzione operativa di un mandato generico.
La supervisione potrebbe quindi essere orientate riferita a una riflessione sistematica sulla pratica
professionale specifica. La supervisione si configura come dimensione essenziale per lo svolgimento sempre
più qualificato dell’attività educativa; è strumento di lavoro che supporta la crescita personale e professionale
degli operatori educativi.
L’esperienza di supervisione favorisce: la possibilità di riflessione comune e di pensiero condiviso; momenti
di sospensione del giudizio e la possibilità di approfondire meglio ciò che hai da fare; la possibilità di
cogliere un senso di coesione di appartenenza e la funzione narrativa.
L’educatore affinché possa fare un buon lavoro con l’utente, deve trovare uno spazio di contenimento di
sospensione dell’azione dove sia possibile pensare all’azione stessa.acquisire capacità relazionali permette di
gestire consapevolmente le proprie azioni.il gruppo di supervisione è un luogo di osservazione rispetto alla
relazione tra educatore e utente; funge da mente più ampia che può aiutare a riprendere dentro di sé la
possibilità di pensare e di non essere invasi da sentimenti insopportabili.
Indubbiamente centrale è la relazione di aiuto e la quotidianità e la dimensione in cui si dispiega questa
relazione. L’educatore mette in campo uno strumento potentissimo di comprensione e aiuto: se stesso e il
proprio coinvolgimento emotivo. La conoscenza di se stessi diventa paradossalmente la più grande risorsa. In
conclusione, l’educatore deve imparare ad affinare la propria sensibilità fortificandosi però per le relazioni a
venire.

Prevenire il “burnout”

La relazione di aiuto implica un rapporto interpersonale tra un operatore e un individuo in stato di bisogno,
incapace di risolvere situazioni o di badare a se stesso. L’educatore dovrebbe focalizzare l’attenzione
sull’utente al fine di agevolarlo nella comprensione della sua condizione e nell’individuazione di risposte
idonee alla sua risoluzione.
Il pericolo insito nel rapporto di aiuto e che si instauri una relazione priva di equilibrio instabile a livello
emotivo. L’nella relazione l’operatore entra in gioco non solo per competenze e capacità professionali, bensì
in quanto persona nella sua integralità.
31
In una prospettiva di prevenzione, è fondamentale che l’educatore possa usufruire di una rete di sostegno
sociale in grado di fornire supporto nella gestione della sofferenza mentale propria e altrui vissuta nella
relazione.
Il processo di aiuto comporta un forte coinvolgimento emotivo che può portare al burnout (bruciato) ,
Termine che nasce per descrivere una sindrome rilevata in operatori di servizi comunitari, esposti perlopiù
allo stress di una relazione con un’utenza molto disagiata. Con tale termine si fa riferimento a una sindrome
di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali che può presentarsi
nelle figure professionali. Il fattore caratteristico del burnout È che lo stress sorge dall’interazione sociale tra
operatore e utente bisognoso di aiuto.
L’esaurimento emozionale si verifica quando l’operatore è eccessivamente coinvolto a livello emotivo,
finendo schiacciato dalle richieste emozionali che gli altri impongono. La spersonalizzazione riguarda il
ritiro del professionista in un atteggiamento distaccato, freddo.
Il sentimento di una ridotta realizzazione personale è connotato da sensi di colpa per il modo in cui
l’operatore a trattato gli utenti, negatività verso gli altri e verso se stesso.
Il burnout È una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi vissuta da operatori sociali che assumono
atteggiamenti distruttivi e rigidi, rifiutano il lavoro e la finalità dello stesso.
Il burnout È una risposta lo stress cronico quotidiano; la pressione emotiva con il passare del tempo si
modifica nell’operatore e la tolleranza per lo stress perpetuo di volta in volta diminuisce. L’operatore affetto
da tale sindrome cambia la modalità tramite cui vede gli altri. A tale riguardo si propone la metafora del
cortocircuito, secondo cui l’operatore è come corto circuitato.
Secondo Cherniss il burnout nelle professioni di aiuto comprende 3 fasi:
1. L’operatore avverte uno squilibrio tra risorse disponibili e richieste;
5. L’operatore si sente stanco, demotivato e irritabile;
6. L’operatore evidenzia distacco emotivo, cinismo e rigidità e tende a trattare gli utenti secondo modalità
meccaniche.

L’impatto dell’istituzione sulla forma e sul contenuto della relazione di aiuto a un ruolo determinante nel
favorire o nell’ostacolare il burnout.
Quest’ultimo risulta elevato quando l’operatore perde la sensazione di avere sotto controllo l’assistenza che
fornisce. L’impotenza che ne consegue rende il professionista più frustrato, favorisce l’instaurarsi di
sentimenti di inefficienza e di fallimento. Anche le relazioni alterate con i colleghi di lavoro o con i superiori
possono contribuire all’emergere della sindrome.
Alcuni contesti lavorativi possono sbriciolare le migliori intenzioni di una figura educativa che desidera
aiutare gli altri.
I fattori esterni possono alimentare tale sindrome, ma non sono gli unici responsabili della sua evoluzione.
Occorre considerare anche i fattori interni, cioè le caratteristiche personali come autostima, stile personale e
motivazioni, che influiscono sul modo in cui un individuo gestisce le fonti esterne di stress emotivo.
Il burnout È un processo che si sviluppa diversamente nel soggetto a seconda delle caratteristiche del lavoro,
della personalità e del contesto ambientale. Alcuni studi hanno tracciato il profilo della personalità
dell’operatore a rischio di burnout:
- È debole e non assertivo nel trattare con gli altri
- È intollerante e impaziente
- Non ha fiducia in se stesso, è poco ambizioso
- Ansioso, sottomesso, teme il coinvolgimento nella relazione di aiuto
- Non è in grado di controllare la situazione e prova frustrazione collera per ogni ostacolo che incontra
- Tende a proiettare i suoi sentimenti sugli utenti trattandoli in modo spersonalizzato e tende a rassegnarsi
alle situazioni
- Non avverte la sensazione di essere efficiente nel trattare con gli utenti.
Quando si ricorre alla relazione di aiuto per ottenere gratificazioni personali, ci si espone al rischio che ciò
possa interferire con la qualità dell’assistenza prestata.
L’esaurimento emozionale del burnout È spesso connesso al deterioramento del benessere fisico e
psicologico. L’esaurimento fisico include stanchezza, insonnia,… E per gestire questi sintomi fisici
l’operatore può indirizzarsi verso alcol o droghe.

32
A livello psicologico invece il burnout genera alterazione del tono dell’umore, sentimenti negativi e perdita
di autostima. Il vedersi negativamente può indurre a lavorare male, attestando la propria mancanza di valore
personale e di competenza fino ad arrivare all’auto isolamento.
Le conseguenze negative vengono sopportate non solo dalla persona che ne è colpita, bensì dagli utenti, dai
colleghi, dalla famiglia e dagli amici. A volte compare molto presto la connessione tra burnout e perdita di
lavoro.
Un vantaggio rilevante dell’approccio preventivo è l’individuazione precoce del burnout. Colleghi, amici ed
altri costituiscono il miglior sistema di allarme precoce per tale problematica.
Alcuni studi hanno infatti evidenziato che le persone appartenenti a una solida rete di sostegno sociale sono
maggiormente in grado di instaurare buone relazioni di aiuto. Gli operatori che hanno una vita familiare
stabile e positiva lavorano meglio e sono più capaci di gestire lo stress emozionale. I superiori rivestono un
ruolo importante nei programmi di prevenzione ed è necessario che la struttura stabilisca dei periodici
controlli pre-burnout.
Esistono strategie istituzionali per contrastare il burnout: ristrutturazione delle attività, una migliore divisione
del lavoro, modifica delle politiche istituzionali, flessibilità di permessi congedi,…
Il rischio di burnout dovrebbe essere parte integrante trattata nei corsi di formazione degli educatori.
L’assenza di informazioni sulle fonti di stress emozionale e sul rischio di tale sindrome è una grave
omissione in molti programmi di formazione perché alcuni individui potrebbero capire che svolgere
professioni di aiuto non è ottimale per loro e potrebbero quindi rinunciare prima di intraprenderle. Inoltre una
maggiore consapevolezza di tale problematica può motivare il soggetto a prepararsi meglio in anticipo.
Non sottovalutiamo l’importanza del training nelle capacità interpersonali. Gli operatori dell’aiuto ricevono
di frequente una buona formazione inerente le capacità di educare e di formare, ma poche volte vengono
insegnate loro le tecniche di base dell’aiuto. Le tecniche di roleplaying , Aventi l’obiettivo di raggiungere la
conoscenza esperienziale dell’altro, possono essere estremamente utili.

Capitolo 9: Lavoro di equipe e importanza del gruppo

Nozioni di base per lavorare con i gruppi

Il gruppo è qualcosa di più o qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: a una struttura propria, fini
peculiari e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza bensì
la loro interdipendenza.
Lewin evidenzia la portata psicosociale della nozione di gruppo e ne riconosce e valorizza le due componenti
che ne costituiscono la specificità: da una parte gli individui che lo compongono dall’altra al campo sociale
in cui agisce. A questo autore si deve la nozione di gruppo come campo di interdipendenza.
La dinamica di gruppo è una disciplina che a poco più di sessant’anni ed è nata all’interno di una prospettiva
interventista legata alla necessità di individuare modalità scientificamente fondate per la gestione dei conflitti
sociali. Il gruppo inoltre è concepito come un microcosmo sociale con importanti proprietà terapeutiche in
sé.
Il lavoro di gruppo è dotato di una serie di potenzialità che lo rendono un utile strumento-metodo per formare
e formarsi, per migliorare la qualità del proprio intervento professionale.
L’educatore deve possedere un bagaglio di conoscenze ed esperienze che gli permettano di gestire
efficacemente i gruppi, siano essi informali, formali e strutturati.
All’interno di un gruppo di lavoro il conduttore è una variabile in gioco assai rilevante che interagisce con le
dinamiche di gruppo attraverso il suo modo di essere, la sua formazione ed esperienza, le rappresentazioni
implicite e valoriali di se stesso.
In campo psicosociale il gruppo definito come costituito da almeno due membri che interagiscono secondo
norme ben definite e si aspettano determinati comportamenti. Una qualità fondamentale della loro relazione è
l’interdipendenza del compito e la presenza di un obiettivo comune verso cui orientare le loro azioni.
Il piccolo gruppo o gruppo ristretto è un tipo di gruppo particolarmente utilizzato nei contesti in cui si
realizza l’intervento dell’educatore. Il piccolo gruppo è costituito da poche persone, al massimo 12,
accomunate da un obiettivo e unite da intense relazioni di interdipendenza. Nel gestire efficacemente un
gruppo è necessario che l’educatore sia a conoscenza degli elementi base della dinamica di gruppo, sia
formato sui ruoli e sulla leadership.

33
Gli elementi universali necessari e sufficienti per fondare, osservare comprendere il gruppo come strumento
conoscitivo di intervento per la prevenzione, le attività di riabilitazione,… Sono: obiettivo, metodo, ruoli,
leadership, comunicazione e clima.

Per obiettivo si intende il risultato atteso, coerente con le aspettative dell’istituzione. Per metodo si intende
l’insieme dei criteri che strutturano e guidano l’attività di gruppo.
I ruoli indicano le parti assegnate a ciascuno. La leadership è l’espressione della funzione di influenzamento
di un individuo sul gruppo ed essa è determinante per le prestazioni del gruppo.
Gli indicatori del clima del gruppo sono principalmente il sostegno, il calore percepito, il riconoscimento dei
ruoli e l’apertura. Il clima risulta ottimale quando sono presenti il giusto sostegno e calore tra i membri,
quando i ruoli sono riconosciuti attraverso la valorizzazione delle capacità dei membri e quando la
comunicazione è aperta e trasparente.
In questa sede non si parla di gruppo psicoterapeutico, la cui conduzione non è di competenza dell’educatore;
l’educatore è spesso il conduttore di gruppi Psico educativi che possono avere un obiettivo preventivo,
formativo o rieducativo. Il problema iniziale, quando ci si appresta a lavorare con i gruppi, è quello della
composizione del gruppo stesso. Se l’insieme non è stabilito a priori la prima questione affidata al conduttore
è la composizione del gruppo.
L’indicazione di massima e di procedere ad uno o più colloqui preliminari per fornire all’aspirante delle
informazioni aggiuntive e testare la sua motivazione al gruppo di lavoro; riguardo alla composizione si
suggerisce di bilanciare aspetti di omogeneità ed eterogeneità, dove il conduttore deve tenere conto di aspetti
come il sesso, l’età, le caratteristiche di personalità,…
Gli incontri possono variare nella loro cadenza e durata; la durata può variare dall’ora e mezza alle due ore.
All’inizio del lavoro sarà utile esplicitare il contratto del gruppo richiamando i membri alla puntualità, alla
regolarità della partecipazione, alla discrezione in merito al contenuto degli incontri. Il primo stadio del
gruppo è definito di orientamento ed emergeranno insicurezze, ansia, poca naturalezza nelle risposte.
Successivamente si assiste allo stadio del conflitto, dove emergono le iniziative personali, le reazioni sono
critiche e si tende ad affermare il proprio punto di vista.
Infine si perviene allo stadio della collaborazione: le energie vengono veicolati verso il raggiungimento degli
obiettivi, la comunicazione è più aperta e si accetta l’iniziativa personale. Il gruppo si orienta quindi verso la
ricerca e non più verso la richiesta passiva che il conduttore magicamente guidi il processo.
Tuttavia ogni gruppo ha comunque una sua storia e non è possibile prevedere che cosa accadrà di volta in
volta in un incontro poiché le variabili in campo sono molteplici e complesse.

L’educatore e l’importanza del lavoro di équipe

Una persona che soffre per una qualche forma di disagio psicologico o sociale si trova spesso presa in carico
da più operatori. Nei servizi territoriali i modelli organizzativi sono in genere costituiti da équipe o gruppi di
lavoro. Il lavoro di équipe è sostanzialmente la collaborazione tra diversi professionisti per portare avanti un
progetto di aiuto alla persona e al suo contesto. Il lavoro di equipe rappresenta una vera e propria risorsa del
lavoro sociale all’interno dei diversi servizi; è il metodo più efficace di lavoro per favorire il raggiungimento
degli obiettivi professionali e inoltre tutela dal rischio del burnout.
Inoltre, lavorare in équipe permette una continua verifica del proprio operato e di fornire a ogni operatore un
sostegno per la gestione di situazioni difficili. All’interno di un’équipe i diversi professionisti, che prendono
decisioni individuali, condividono un obiettivo comune e si incontrano per comunicarsi e scambiarsi
informazioni.
Alcuni autori affermano che le diversità dei bisogni delle singole persone richiedono l’intervento di diverse
figure professionali e per questo sostengono che l’unico approccio che consente di affrontare tutti i bisogni
degli utenti e quello multidisciplinare. Per lavorare in gruppo con altri professionisti è fondamentale sapersi
confrontare collaborar e con gli altri per offrire prestazioni adeguate ai bisogni dell’utenza.
Vi è la necessità di formare una cultura condivisa che permetta di compiere azioni che si ritengano dotate di
significato.questa necessità si traduce nell’opportunità di acquisire precocemente conoscenze teoriche
comuni, cioè che l’intero gruppo di lavoro svolga un training formativo apposito.
I motivi che possono rendere un’équipe scarsamente efficace o malfunzionante, dipendono dalla difficoltà di
differenziare chiaramente i contributi delle diverse figure professionali. Il fatto di non definire in modo
chiaro le competenze professionali di ogni membro produce deleghe e deresponsabilizzazioni, con il risultato

34
che l’intervento si rivela scarsamente efficace verso l’utenza. È quindi necessario che i membri abbiano una
chiara e definita idea della propria funzione e delle proprie abilità professionali.
È quindi necessaria la condivisione e la costruzione di un linguaggio comune con gli altri operatori, pur nel
rispetto delle specificità della propria formazione teorica. In una comunità terapeutica, contesto in cui
l’educatore si trova spesso a lavorare, gli operatori devono confrontarsi, mettersi in discussione ed essere
aperti al conflitto ma anche all’arricchimento reciproco.
L’obiettivo del gruppo di lavoro è quello di interrogarsi sulla valenza terapeutica e riabilitativa del proprio
operare oltre che di attribuire significati ai gesti, alle azioni, agli agiti degli utenti in un atteggiamento di
accettazione, ascolto e rielaborazione.
Nell’utente, l’équipe deve favorire il raggiungimento della massima autonomia possibile e il superamento
della dipendenza e per fare ciò è necessario mettere in campo un progetto globale che coinvolga anche i
sistemi in cui il soggetto è inserito.il lavoro dell’équipe multi professionale si svolge inizialmente attraverso
la valutazione e l’inquadramento diagnostico del paziente, con la stesura del profilo funzionale, seguita poi
dalla formulazione di un progetto riabilitativo globale personalizzato che necessita di successive verifiche.
Il lavoro di gruppo permette talvolta il superamento dei frequenti sentimenti di impotenza, di frustrazione e
di difficoltà pensare, che gli operatori spesso sperimentano.

La formazione dell’educatore attraverso il gruppo

La nascita della formazione psicosociologica è avvenuta in Italia in primo luogo quale esigenza delle
organizzazioni produttive sottoforma di tecniche per la conduzione di piccoli gruppi. La formazione è
un’attività educativa finalizzata ad incrementare il sapere dei soggetti e quindi può contribuire al
cambiamento organizzativo. Quattro sono le tappe fondamentali di tale processo: l’analisi dei bisogni, la
progettazione, l’azione formativa e la valutazione dei risultati.
Il fine della formazione richiederà di attivare negli operatori risorse soggettive atte a far fronte al rischio
dell’insorgenza di un malessere dei motivante la loro professione.lo scopo dunque sarà finalizzato a fornire
strumenti trasformative che permettono all’operatore di sviluppare un senso di sé funzionale.
All’educatore va riconosciuto il ruolo di educatore-formatore dei suoi utenti, ma egli stesso deve essere il
destinatario di una formazione continua non solo professionale ma anche emotivo-affettiva.
È importante che oltre la teoria ci sia anche esperienza; non c’è didattica senza una partecipazione globale, di
circolazione di pensiero, all’esperienza di apprendimento.
I gruppi di formazione e le esperienze di gruppo si possono considerare le più diffuse ed evolute tecniche
finalizzate a favorire la crescita personale e collettiva nei mondi del lavoro.
La formazione non viene più intesa oggi solo come acquisizione di conoscenze ma come trans-formazione,
cioè apprendimento dall’esperienza che chiama in causa la riscoperta delle dimensioni Inter soggettive, dei
processi di elaborazione dell’immagine di sé e della propria collocazione del proprio spazio-mondo.
Il gruppo spesso promuove una formazione implica attiva come tirocinio professionale. Il gruppo può
rappresentare un laboratorio esperienziale che mira a raggiungere diversi importanti obiettivi: l’aumento
della comprensione della reciprocità, l’apprendimento dei processi relazionali e comunicativi, il
miglioramento delle capacità di lavoro in équipe,…
E di gruppi di formazione devono essere autocentranti, contestualizzate in termini di lavoro qui e ora
mantenendo una permeabilità elaborativa rispetto alle tematiche professionali e organizzative.
Il fine ultimo del lavoro di gruppo di apprendimento e l’attuazione di un pensare insieme, una co-costruzione
della conoscenza, in cui ciascun interlocutore partecipa attivamente all’accumulazione del sapere.

Un esempio di gruppo di formazione con la tecnica dello psicodramma analitico

Lo psicodramma analitico è una psicoterapia di gruppo ad orientamento analitico che utilizza il gioco come
base dell’esperienza clinica.
Per l’educatore e per tutte le professioni che operano con la relazione di aiuto, lo psicodramma analitico
risulta molto utile con finalità formativa alla professione e di supervisione del lavoro con l’utenza. Attraverso
la tecnica del gioco lo psicodramma analitico può rispondere alle necessità, perché si verifichi
l’apprendimento, di vivere la dimensione conoscitiva sulla propria pelle.
L’assunzione di ruoli diversi, così come si realizza attraverso il role playing , Rappresenta una grande
potenzialità dello psicodramma per permettere che vi sia un accrescimento del proprio livello di conoscenza.

35
Il gioco di ruolo a conquistato un posto di primo piano tra i metodi di formazione alla vita sociale e
professionale.
L’obiettivo del gioco psicodrammatico, nella prospettiva della formazione, non vuole migliorare tanto il
funzionamento del ruolo, né ripristinare una collaborazione tra i gruppi e le istituzioni, ma migliorare lo stato
d’animo dell’individuo. Lo psicodramma analitico nasce come tecnica psicoterapeutica ma, anche quando
siamo in campo formativo, attivando gli elementi Pitto grafici del pensiero, sviluppa un campo mobile nel
quale si intrecciano parole dette parole giocate.

Vedi 2 esempi di gioco psicodrammatico —> pag. 223-224

Capitolo 10: La professione di educatore

Le premesse della ricerca

L’educatore è un professionista dell’aiuto che entra in contatto con varie tipologie di utenti che necessitano
di sostegno; egli opera nei contesti di marginalità sociale, di multiculturalità, nei servizi culturali e territoriali
con obiettivi di promozione e di tutela della persona.
Il suo ambito di esercizio professionale è costituito da strutture pubbliche e private aventi funzione
educativa, rieducativa, riabilitativa e di animazione sociale.
Si tratta di situazioni diverse che richiedono differenti modalità di approccio, ma un’unica base di partenza:
la presenza di motivazione, conoscenza, competenza e professionalità. Gli strumenti che l’educatore impara
ad utilizzare affinare privilegiano la relazione empatica, l’osservazione e la capacità di lavorare in gruppo
con figure professionali diverse.
L’intervento dell’educatore è complesso e articolato in quanto comporta la capacità di essere flessibile e in
grado di interagire con diversi interlocutori.è necessario che l’operatore educativo sviluppi una particolare
sensibilità e disponibilità a individuare i bisogni spesso in espressi.
L’aiuto alla persona diretto a procurare a questo benessere richiede l’instaurarsi di una relazione di aiuto, un
processo interpersonale che non si limita ad una semplice prestazione. La relazione di aiuto prevede una
dinamica analoga alla relazione tra bambino e genitore.
Dal bisogno espresso alla risoluzione o alla riduzione del problema c’è un percorso che necessita di tempi,
strategie e metodologie precise e un obiettivo finale teso all’autonomia della persona aiutata.
Il benessere umano corrisponde allo sviluppo della persona, che avviene attraverso la gestione della
relazione, la quale poggia sulla naturale positività dell’essere umano.il compito dell’operatore educativo
deve essere soprattutto quello di fornire sostegno emotivo, di ascoltare comprendere affinché l’educando
trovi l’occasione per superare o attenuare le situazioni di disagio.
Svolgere il lavoro educativo richiede un percorso personale, l’apprendimento e la personalizzazione di
metodi e tecniche della professione, l’acquisizione continua di abilità e di competenze.

Obiettivi dello studio

Finalità principale dello studio è analizzare come viene percepita e vissuta la professione di educatore dalle
persone che operano direttamente sul campo. Il disegno della ricerca prevede di analizzare come la
psicologia clinica e le sue teorie vengano viste e considerate nella pratica educativa, come la conoscenza
della psicopatologia possa aiutare nel percorso educativo.

Descrizione del campione gli strumenti utilizzati

La ricerca ha coinvolto un campione di 222 educatori, con un’età compresa tra i 20 e i 61 anni e le
nazionalità degli educatori sono diverse. Riguardo al livello di istruzione, alcuni hanno il diploma di scuola
media, altri di scuola media superiore e altri la laurea.
Per quanto concerne le fasce di utenza, la metà degli educatori operano con bambini e adolescenti anche a
rischio, l’altra metà con adulti aventi difficoltà fisiche e psico-sociali e una piccola parte con anziani.
Dalle interviste emerge che gli interventi a favore dell’età evolutiva e adolescenziale vengono attivati tramite
appoggio scolastico, assistenza, organizzazione di attività ludiche.quelli diretti all’adulto includono interventi
di sostegno della persona, interventi per l’inserimento lavorativo e progettazione di iniziative
ricreative.all’anziano sono rivolti interventi che hanno funzione assistenziale.
36
Il disegno della ricerca a previsto in una prima fase l’utilizzo di un questionario volto a tracciare un profilo
socio anagrafico-culturale dell’educatore.in una seconda fase, è stata somministrata ad ogni operatore
educativo l’intervista per l’educatore appositamente ideata comprendente domande, riguardanti in particolare
le motivazioni che hanno determinato la scelta di tale professione e le idee e i valori ad essa relativi.

Risultati e discussione

L’educatore lavora per una propria scelta valoriale, in una dinamica di professionalizzazione che richiede
formazione continua, in un contesto di rischio psichico che richiede particolari riconoscimenti operativi
come l’aggiornamento.l’educatore pensa che il suo compito consiste nell’aiutare l’utente a sviluppare le
risorse personali per favorire l’autonomia e migliorare le condizioni di vita; crede che la sua professione
possa aiutare la persona a crescere e a maturare attraverso le proprie capacità di accoglienza, di ascolto e di
analisi dei bisogni.
Per un lavoro etico di educazione egli ritiene che il rispetto per la persona dell’utente sia un principio
imprescindibile. Secondo l’educatore la relazione con l’utente dovrebbe essere basata sull’empatia ed è
primario assumere i comportamenti di rassicurazione, ascolto e sostegno verso l’utente.
Non esiste per l’educatore un setting privilegiato, ma esso dipende dalle caratteristiche dell’utenza,
dall’intervento e dagli obiettivi.
L’educatore lamenta che la sua figura professionale spesso è svalutata in un compresa dalla gente.il rispetto
dell’altro e l’accettazione della diversità sono i valori sui quali l’educatore si basa nello svolgimento della
professione. Tra le varie paure vi è il timore di non riuscire ad aiutare l’utente in modo adeguato.
Le soddisfazioni maggiori derivanti dallo svolgere questa professione sono riconducibili a raggiungimento
degli obiettivi prefissati e nel vedere i progressi compiuti dall’utente. È opinione comune che la psicologia
clinica costituisca un apporto positivo e che le sue teorie siano un valido riferimento nell’attività quotidiana.
L’educatore considera la promozione del benessere e la prevenzione aspetti importanti dell’educazione.

La motivazione ad aiutare l’altro nasce sovente dall’identificazione con la sofferenza altrui e dal bisogno di
sconfiggerla. Si tratta di una scelta di interesse sociale, di dedizione all’altro, alla società.
Le diverse risposte inerenti all’idea di educazione che emergono sono accomunate dalla visione
dell’educazione con un generatore di cambiamento, evoluzione e crescita. Educare appare un’esperienza
affascinante e grande.
I compiti dell’educatore consistono nell’aiutare l’utente a sviluppare le risorse personali per favorire
l’autonomia e migliorare le condizioni di vita. E le principali paure riguardanti lo svolgimento della
professione inseriscono al non riuscire ad aiutare proficuamente l’educando.
Le capacità relazionali, di accoglienza, di ascolto e osservazione vengono indicate come le principali
competenze che l’educatore deve possedere.
È opinione diffusa che la figura dell’educatore risulti caratterizzata specialmente da una costante flessibilità e
capacità di adattamento a mettersi in relazione con differenti interlocutori e diversi contesti sociali e umani.
Gli spazi all’interno dei quali gli intervistati operano risultano essere i più diversi; il setting è quindi una
parte del contesto che l’educatore costruisce e nel quale deve integrarsi per attuare la relazione educativa. Il
setting concretizza la qualità della cura, del sostegno fisico dell’educando, comunica la qualità della
presenza, dell’impegno dell’operatore educativo nella relazione interpersonale.

Parte del disagio è spesso determinato proprio dall’assenza di radicamento nel territorio o dalla perdita di
relazioni significative. L’educatore dovrebbe perciò adoperarsi per individuare risorse significative per
l’utente affinché possa Ri costituire una rete di rapporti sociali utili al superamento o alleviamento del
disagio.
L’operatore educativo diviene un punto di riferimento e si pone in un’ottica di ascolto non giudicante, facilita
lo sviluppo delle relazioni, favorendo l’esprimersi di potenzialità e di progetti da parte dell’utente.

Aspetti importanti dell’educazione risultano essere la promozione del benessere e la prevenzione che si
propongono di migliorare la qualità della vita della persona.

I partecipanti alla ricerca asseriscono che è un buon andamento del gruppo di lavoro, della collaborazione tra
professionisti, permetta un buon risultato del progetto educativo.

37
L’importante è che in un gruppo di lavoro costituito da diverse persone professionali non ci si dimentichi che
si sta lavorando tutti per la medesima persona e comunque per lo stesso obiettivo.per poter sostenere l’urto
delle situazioni senza esserne travolti e per riuscire a trasformarle in occasioni di apprendimento una solida
base di formazione e una continua attività formativa, sono imprescindibili fondamenta della progettazione e
dell’intervento.
Il percorso educativo può essere paragonato a un treno, dove chi guida è rappresentato dall’educatore e c’è
chi sale e chi scende, ovvero l’utenza. Un’altra metafora per paragonare il percorso educativo può essere
quella di paragonare il percorso a un libro. Il libro rappresenta l’unità sintetica del sé corporeo e psichico;
cambiare in modo sano, crescere ed evolvere significa metaforicamente voltare pagina proprio all’interno di
sé. Al contrario, cambiare libro significa fuggire da sé. non aprire il libro significa paura di cambiare e
rimanere statici.

In conclusione si pensa che l’operatore debba possedere: capacità relazionale molto elevata che gli permetta
di instaurare efficaci rapporti educativi; capacità di analisi dei bisogni degli individui nella loro complessità;
capacità di elaborare un progetto di intervento educativo e di attuarlo utilizzando strumenti e tecniche
diversi; capacità di relazione intesa come consapevolezza di vivere, attraverso il proprio coinvolgimento;
capacità di controllo delle interferenze e di realizzare interventi a sostegno di tecniche terapeutico-
riabilitative; capacità di lavoro in gruppo e capacità di cooperare con le famiglie degli utenti per favorire la
compartecipazione del progetto educativo.
Osserviamo infine come questa professione manca ancora di un’immagine definita e diffusa nella società.
Infatti, gli educatori si trovano spesso a condividere una situazione di svalutazione, vengono considerati
professionisti di basso livello e vengono confusi con badanti.

38

Potrebbero piacerti anche