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GIOVANNI PASCOLI

VITA
Pascoli era nato, una vigilia di Capodanno, il 31 dicembre 1855 a San Mauro di
Romagna, la sua famiglia però era piuttosto benestante.

Numerosa anche: Giovanni era il quarto di dieci figli.

Il papà, Ruggero, amministrava una grande proprietà terriera e ciò assicurava a


Ruggero una discreta rendita. Ma questo era un lavoro che attirava molte invidie.
L’invidia per un posto di lavoro ambito e ben ricompensato è il movente dell’evento
fondamentale dell’esistenza di Giovanni Pascoli. Un evento drammatico.
La notte del 10 agosto 1867 suo padre Ruggero sta tornando a casa dal mercato di
Cesena. Qualcuno ha osservato i suoi movimenti e gli ha teso un agguato. venne
ucciso con un colpo di fucile.

Quella morte fu chiaramente un colpo emotivo durissimo per Giovanni e la sua


famiglia. E fu un colpo altrettanto duro per le loro finanze.
L’assassino del padre di Pascoli non fu mai trovato, o meglio, non si volle trovare.
Le indagini si scontrarono con l’omertà degli abitanti del luogo: tutti avevano paura di
parlare.
Su questo terribile omicidio calò il silenzio e il principale sospettato, Pietro
Cacciaguerra, ricoprì il posto che era stato di Ruggero Pascoli.

Quella del padre fu la prima di una serie di morte tragiche per il giovane Pascoli.
Lo seguirono nel giro di pochi anni la sorella, la madre e due fratelli.

ideologia del nido


Pascoli non si rassegnerà mai all’idea di aver perduto gli affetti, e soprattutto non ne
troverà di nuovi con cui rimpiazzarli.
Ma nella sua poesia Pascoli coltiverà l’impossibile sogno di riportare in vita tutto ciò
che la morte prematuramente gli ha tolto.
Pascoli si laurea nel 1882, a ventisette anni, povero e orfano. È andato un po’
fuoricorso ma ce l’ha fatta. Ha avuto qualche problema nel frattempo: il dolore che si
porta dentro e la sua voglia di giustizia sociale lo ha messo a contatto con gli
ambienti studenteschi anarchici. È stato anche arrestato e s’è fatto quattro mesi di
carcere.
Comincia a fare l’insegnante, prima a Matera, poi a Massa.

Nel Fanciullino
parla di un fanciullo interiore, uno spirito della fanciullezza, che vive dentro di noi e ci
accompagna lungo tutto il corso della nostra vita.
C’è un momento in cui il fanciullo interiore e quello esteriore coincidono. È l’età della
fanciullezza, l’età più spensierata, in cui ci lanciamo nel mondo, lo scopriamo, vediamo
tutto per la prima volta, ci meravigliamo. Per Pascoli la fanciullezza è l’età poetica per
eccellenza.

Questa età per la maggior parte degli uomini a un certo punto finisce. Si cresce, si
diventa adulti, la meraviglia viene meno e il mondo diventa ogni giorno più ordinario. Il
fanciullino continua a viverci dentro, ma non ne sentiamo più la voce. Piano piano lo
dimentichiamo.

Per i poeti, ci dice invece Pascoli, non è così. I poeti hanno la capacità di tenere viva
all’interno del loro animo la magica voce di questo spirito della fanciullezza. I poeti
scoprono relazioni nascoste tra le cose, relazione che vanno al di là della ragione.

La ragione non è tutto. Quella ragione che è l’idolo, il punto di riferimento dell’età adulta
dell’uomo e del Positivismo, ossia il periodo storico che l’uomo sta vivendo quando
Pascoli scrive questo libro.

Il Positivismo,
l’età in cui vive Pascoli, parla con il linguaggio della scienza e guarda il mondo
attraverso gli strumenti della logica deterministica, che afferma che a una causa
corrisponde un effetto, senza possibilità di errore.

Ma in questo Positivismo il fanciullino non ci sta. Si ribella e ci dice che per come lui
guarda il mondo non c’è posto per questa ragione, per questa logica. Per lui il mondo
non è chiuso solo in dati, formule e leggi, ma è attraversato da una rete nascosta di
corrispondenze, che collegano l’uomo alla natura.

INTUIZIONE
Bisogna solo scoprirle, queste corrispondenze, con l’intuizione, che si trova prima della
ragione e della logica. Ed è bello scoprirle, perché rende felici sentirsi parte di qualcosa,
essere in armonia con il mondo. È bello soprattutto per chi, come Pascoli, nella
fanciullezza ha sofferto tanto.

DECADENTISMO (D’ANNUNZIO)
lo sguardo del fanciullino è il modo con cui Pascoli arriva al decadentismo, lui però è un
decadente di tutt’altra pasta rispetto a d’Annunzio. Pascoli e D’Annunzio tutti e due
decadenti, ma quanto sono opposti!
Perché la poesia di Pascoli non vuole arrivare a toccare le vette del sublime. Il
fanciullino non desidera gloria, fama, successo, non vuole essere un eroe. Il suo potente
sguardo pieno di meraviglia, la sua capacità di scoprire le relazioni tra le cose, li esercita
sulla realtà quotidiana, bassa e umile di tutti giorni. Sulla realtà contadina, fatta di lavoro,
di stagioni che si avvicendano. Non bisogna cercare chissà dove per scoprire il mistero
profondo della natura. Basta guardarsi intorno, vivere la vita di tutti i giorni. Perché la
meraviglia è negli occhi di guarda, non nelle cose.

D’Annunzio, che ha sempre stimato Pascoli, più tardi gli avrebbe scritto in una lettera
che loro due perseguono lo stesso fine, il bello poetico. Che significa fare risuonare una
voce che non si ferma all’apparenza delle cose, alla superficie, ma scende in profondità
e le scopre, le svela per come sono realmente. Uno stesso fine, una stessa vetta da
raggiungere, ma da due versanti opposti della montagna: Pascoli e D’Annunzio, e il
fanciullino e il superuomo.

Ma il fanciullino è anche altro per Pascoli: perché la fanciullezza è stata l’età dell’amore,
l’età in cui il nido era integro e la famiglia unita.
Per questo tenere viva la voce del fanciullino dentro di sé significa restare legati a quel
passato, significa non dimenticarlo.
Ma... c’è la morte in mezzo, tra Pascoli e il suo passato... e quanta morte!

E allora la sua poesia, la poesia del fanciullino, deve fare questo: andare al di là della
morte e salvare il passato.
Lo sguardo del fanciullino, la scoperta delle corrispondenze, di questa nascosta rete di
legami che unisce e lega gli elementi della natura al di sotto della loro apparente realtà,
la capacità del fanciullino di sentirsi tutt’uno con il mondo deve fare questo: sconfiggere
la morte.
Perché la morte separa e allontana, mentre il fanciullino vuole unire. In nome dell’amore
per chi non c’è più.

MYRICAE
Qualche anno prima della pubblicazione del Fanciullino, nel 1891, a trentasei anni,
Pascoli pubblica 22 poesie in un volumetto di nome Myricae.
È la prima raccolta poetica di Pascoli e diventerà il suo libro più letto e conosciuto.
Pascoli ci lavora per ben dieci anni e nell’edizione del 1900 i componimenti diventano
156. Si trova in questo libro la poesia più conosciuta e più citata di Pascoli, il X Agosto.
I componimenti delle quindici sezioni in cui è divisa sono quasi tutti piuttosto brevi e di
ambientazione rurale, ossia contadina.
C’è la campagna romagnola,Ci sono tutta una serie di figure che appartengono a questo
mondo mitico: i contadini, i carrettieri, le bestie d’allevamento, ci sono una grandissima
quantità di uccelli. Pascoli nomina tutto con grande precisione
Pascoli era appassionato di botanica, ornitologia e anche di astronomia, e quando
parlava di piante, volatili e stelle ci teneva a farlo con grande precisione.
Anzi, si lamentava del fatto che la tradizione poetica italiana era stata sempre troppo
vaga e imprecisa in questi settori.
Ma questo non fa di Pascoli un naturalista, un amante del dato oggettivo. Perché, per
quanto descriva precisamente l’ambiente naturale e nomini con accuratezza gli elementi
del paesaggio, Pascoli va al di là della sua descrizione oggettiva, e lo fa grazie alla
potenza del simbolo.
La sua poesia è una poesia simbolista. Significa che non si limita a descrivere un fiore,
un albero, un uccello o il verso di un animale per quello che è, ma li usa per alludere, per
indicare qualche altra cosa.

L’utilizzo del simbolo trasforma quelli che potrebbero essere semplici bozzetti
naturalistici in paesaggi interiori.
In quella natura di cui parla, Pascoli ha riversato tutto il suo animo, il suo grande trauma,
la morte dei suoi cari, e la sua voglia di ricomporre il dolore e di riscattarlo. Si tratta di
salvare il passato attraverso la poesia, si tratta di recuperare il tempo perduto. Questo è
l’obiettivo di Myricae, questo è l’obiettivo della poesia di Pascoli.
dai suoi versi traspare proprio questa sofferenza.

SINESTESIE, FONOSIMBOLISMO, ONOMATOPEA


Eppure, Pascoli, il fanciullino-poeta, non si arrende, cerca le corrispondenze, cerca
di scendere al cuore della realtà, costruisce metafore e sinestesie. [La sinestesia
è una figura retorica che unisce cose appartenenti a campi sensoriali differenti. Ad
esempio, in un verso di una delle più belle poesie di Myricae, l’Assiuolo, si parla di
“soffi di lampi”. Noi assegniamo il soffio al senso del tatto e il lampo al senso della
vista: “soffi di lampi” è una sinestesia.]
La sinestesia crea collegamenti là dove prima non c’erano. È una figura retorica che
ha una grande potenza espressiva, perché riscopre il mondo e ce lo presenta sotto
una nuova veste.
Nel suo tentativo di dare senso a ciò che vede il fanciullino-poeta inventa il
fonosimbolismo, ossia un simbolismo del suono. Il simbolismo del suono
arricchisce di senso il suono delle lettere di una parola. Il suono della parola significa
allora qualcosa di più della parola stessa, diventa quasi un onomatopea, rende
possibile un profondo legame tra il poeta e la natura.
Di questo parla Myricae di Giovanni Pascoli. È un libro moderno, perché non arriva a
una conclusione, ma resta in bilico: da una parte c’è lo sforzo di sconfiggere la morte
e riappropriarsi del passato, sentirsi vicini agli affetti del nido; dall’altra c’è il fatto che
la morte non si lascia sconfiggere e resta sempre là a ricordare che il passato non
torna più.

pascoli Non tratta poi temi così bassi e umili, Ma ce ne parla attraverso un
linguaggio semplice.

La poesia di Pascoli è lontana dalla tradizione poetica italiana, fatta di un linguaggio


complesso.
È vero che ci sono molti vocaboli tecnici presi dalla botanica, dall’ornitologia, ma ci
sono anche parole dialettali raccolte dalla vita contadina, ma il suo linguaggio resta
sempre semplice. I suoi versi restano sempre quelli della tradizione poetica:
endecasillabi, novenari, settenari, non arriva al verso libero; i suoi componimenti:
sonetti, ballate, madrigali, sestine.

Nei Canti di Castelvecchio,


la raccolta di poesie pubblicata nel 1903, prosegue la ricerca poetica di Pascoli, la
voglia di fare pace col passato. Castelvecchio è il paese in cui si trasferisce a vivere
con la sorella.
Spera che il trasferimento a Castelvecchio possa aiutarlo: almeno qui, lontano da
casa, forse la memoria dei morti lo lascerà in pace.

Nel frattempo è diventato professore universitario. Insegna grammatica greca e


latina a Bologna.
ma a Bologna non ci vuole stare. Preferisce la campagna. Qui può abbandonarsi al
ciclo delle stagioni che si susseguono e si ripetono sempre uguali di anno in anno.

Il ciclo delle stagioni, primavera e autunno, estate e inverno, è consolante per lui
perché così a Pascoli sembra di vivere in un eterno presente che si ripete sempre
uguale a sé stesso. Così non pensa al passato. I Canti di Castelvecchio nascono
con questa idea: una serie di poesie sul ciclo delle stagioni.

Cambia anche un po’ il linguaggio: meno spezzato, più disteso, troviamo meno
quella tensione che attraversava il ritmo dei versi delle poesie di Myricae.
Ma poi succede qualcosa: Il cerchio protettivo costruito sull’avvicendarsi delle
stagioni si spezza.
In una delle più famose poesie di quest’opera La mia sera, il poeta immagina, forse
sogna, l’arrivo della vecchiaia e la fine della sua vita paragonandoli all’arrivo della
sera, calma e tranquilla, dopo la tempesta del giorno, piena di affanni e di dolori.
La poesia finisce con un suono di campane, sempre più debole, che lo culla fino alla
morte. e col suono delle campane sentiva la voce della madre.
quindi la fine coincida con l’inizio. e la morte è il mezzo di ricongiungimento con la
madre. Solo così si può sconfiggere la morte. con un nuovo inizio dopo la morte.

Ancora una volta, però non si arriva a una conclusione perchè pascoli Resta col
dubbio su cosa ci possa essere dopo la morte.

nei Poemetti
era riuscito a costruire il tempo circolare. quest’opera in realtà è divisa in due parti:
Primi poemetti e Nuovi poemetti, con dodici anni di distanza tra la prima edizione
che esce nel 1897 e l’ultima che esce nel 1909.
I poemetti è il racconto di una famiglia di piccoli proprietari terrieri ed è un racconto di
un mondo meraviglioso: qui l’uomo vive in piena sintonia con ritmi della natura e con
il ciclo delle stagioni.
È l’idillio di un mondo che sta scomparendo, quello della piccola proprietà terriera,
ma è l’unico che per Pascoli valga la pena vivere. È il sogno del tempo circolare.
Il racconto si conclude con la figlia del proprietario terriero che scopre di essere
incinta e apre così a un nuovo ciclo generazionale.

Pascoli qui riesce a chiudere il cerchio perché non si tratta della sua vita. Non ci
sono i suoi traumi, i suoi lutti, ma la storia di un’altra famiglia che vive una vita
perfetta e ideale.

I poemetti sono componimenti che riflettono anche l’ideologia degli ultimi anni di vita
del poeta. L’ideologia dell’ultimo Pascoli è un socialismo un po’ ingenuo, come si
vede nel discorso pronunciato poco prima di morire. È il discorso in cui Pascoli
difende l’impresa coloniale dell’Italia in Libia.

Pascoli a partire dal 1905 sostituisce il maestro Carducci alla cattedra di letteratura
italiana a Bologna. All’immagine del poeta fanciullino sovrappone quella di poeta-
vate, di poeta ufficiale. È diventato famoso, e celebrato.

POEMI CONVIVIALI
Nel 1904 pubblica però un ultimo capolavoro: I poemi conviviali. E il registro poetico
si alza di molto rispetto alle precedenti raccolte, perché questa volta l’ambientazione
dei poemi è classica, prevalentemente greca.
Però non si tratta di un’operazione di recupero del filone poetico classicistico, ma di
una riproposizione dei temi della classicità greca in chiave moderna.

Nel bellissimo poema L’ultimo viaggio Pascoli immagina un Ulisse ormai anziano
che, stanco della vita familiare, raccoglie i pochi compagni rimasti e riparte a visitare
i luoghi delle avventure narrate nell’Odissea. UIisse scopre Che non c’è più nulla,
che forse non c’è mai stato nulla e il suo passato grandioso forse se l’è soltanto
immaginato. Il mito è stato svuotato di senso e Ulisse è un uomo qualunque, anzi
non sa più nemmeno lui chi è. Vorrebbe rivivere il passato ma quel passato non è
mai esistito e proprio lui, l’eroe della conoscenza, si avvia alla morte con la
consapevolezza di non aver mai conosciuto nemmeno sé stesso.

È il punto più lontano a cui si spinge la ricerca poetica di Pascoli. e questo è Il suo
risultato più innovativo,. Niente più passato, niente più storia. Il mito svanisce e
l’identità degli eroi si frantuma.

L’ADESIONE AL SOCIALISMO
Dai principi letterari di Pascoli emerge una concezione di tipo socialista, di un
socialismo umanitario e irrealizzabile, che affida alla poesia la missione di diffondere
l’amore e la fratellanza.

Durante gli anni universitari, Pascoli subì l’influenza delle ideologie anarco-socialiste.
L’adesione all’anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali
della media borghesia del tempo, un gruppo che si sentiva minacciato dall’avanzata
della civiltà industriale moderna che toglieva prestigio alla tradizionale cultura
umanistica privilegiando nuovi saperi scientifici e tecnologici. A ciò si univa la
frustrazione per i processi di declassazione a cui erano sottoposti.

In questo quadro sociologico rientrava la figura del giovane Pascoli, anche lui declassato
ed impoverito. Pascoli sentiva soprattutto gravare su di sé il peso di un’ingiustizia
immedicabile, l’uccisione del padre, i lutti familiari, la povertà: tutto ciò gli sembrava
l’effetto di un meccanismo sociale perverso, ma, il suo impegno politico obbediva più al
cuore che alla mente. Perciò trovò sfogo nell’ideologia socialista ed anarchica. Tuttavia,
la sua militanza attiva nel movimento si scontrò con la repressione poliziesca. Venne
arrestato per una manifestazione antigovernativa, venne tenuto in carcere e processato.
Dopo essere stato assolto abbandonò definitivamente ogni forma di militanza attiva.

DAL SOCIALISMO ALLA FEDE UMANITARIA

Questo distacco dal socialismo attivo è causato, oltre che da convinzioni personali,
anche a causa di una crisi socialista.

Pascoli aderì quindi al socialismo marxista che si basava essenzialmente sul concetto
di lotta tra le classi e sullo scontro violento e rivoluzionario. Pascoli era però più
vicino ad un socialismo con ideali di pace, bontà, amore, fraternità e di solidarietà tra gli
uomini e non di conflitti violenti.

Alla base vi era un radicale pessimismo, la convinzione che la vita umana sia solo
dolore e sofferenza, per questo gli uomini, vittime della loro infelice condizione, devono
smettere di farsi del male a vicenda e dovrebbero collaborare ed amarsi per poter
sopravvivere.

Inoltre pascoli dava un valore morale alla sofferenza che è in grado di purificare ed
elevare l’uomo, rendendolo moralmente superiore e privilegiato rispetto agli altri.

LA MITIZZAZIONE DEL PICCOLO PROPRIETARIO RURALE

I principi di solidarietà devono valere non solo tra gli individui, ma anche per i rapporti tra
le classi. Ogni classe deve conservare la sua collocazione nella scala sociale, ma deve
collaborare con tutte le altre, con amore fraterno e spirito di solidarietà. Per fare ciò
bisognava abbandonare il desiderio di ascesa sociale che poteva generare scontri ed
infelicità.

Il segreto dell’armonia sociale consiste nel fatto che ciascuno si accontenti di ciò che
possiede e che viva felice anche del poco. Pascoli incarna il suo ideale di vita nella
figura del proprietario terriero che si accontenta del suo appezzamento di terra.

Così viene a mitizzare il mondo dei piccoli proprietari agricoli come mondo sereno e
saggio in cui vengono difesi i valori fondamentali della famiglia, della solidarietà, della
laboriosità e dei sacrifici. Un mondo che in realtà stava scomparendo.

IL NAZIONALISMO

Il fondamento dell’ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si


raccoglie nella sua piccola proprietà, caratterizzato da affetti, dolori e dai lutti
pazientemente sopportati. A questo piccolo nido, rappresentato dalla famiglia, si affianca
un grande nido rappresentato dalla nazione, dove si pongono le radici del
nazionalismo pascoliano.

Egli sente con tanta partecipazione il dramma dell’emigrazione, che in quegli anni aveva
raggiunto proporzioni impressionanti. L’italiano che lascia la propria patria viene figurato
come colui che viene strappato dal “nido”. La tragedia dell’emigrazione induce Pascoli
a far proprio un concetto corrente del nazionalismo italiano. Esistono nazioni ricche e
potenti, e nazioni povere e deboli. Tra queste vi è l’Italia che non riesce a sfamare i
propri figli ed è costretto ad esportare la mano d’opera costretta ad essere schiavizzata.
Le nazioni povere hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei propri bisogni, anche
con la forza. Per questo Pascoli viene ad ammettere la legittimità delle guerre per le
conquiste coloniali, in modo da dar terra e lavoro ai loro figli più poveri.

Sulla base di questi principi, nel 1911, Pascoli celebra la guerra di Libia come un
momento di riscatto della nazione italiana. In tal modo, Pascoli fonde insieme
socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico.

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