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DIRITTO DEL LAVORO, PROIA

CAPITOLO I: EVOLUZIONE, FONTI E NOZIONI DEL DIRITTO DEL LAVORO

SEZ.I. Dai diritti nazionali del lavoro al diritto del lavoro nell’economia globalizzata

1. Le ragioni della nascita e dello sviluppo del diritto del lavoro

L’evoluzione del diritto del lavoro è segnata da profonde trasformazioni, che seguono il corso

della storia moderna e contemporanea.

Nel corso del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, la prima rivoluzione industriale e

l’avvento del modello capitalistico della produzione di massa hanno dato vita ad un nuovo

rapporto economico-sociale, caratterizzato da una strutturale disparità di forza economica e

contrattuale tra le parti.

Questo rapporto vedeva, da un lato, una classe sempre più estesa di persone che era obbligata

a mettere le proprie energie a disposizione di altri per ottenere un guadagno, e dall’altro, i

capitalisti, detentori dei mezzi di produzioni. Lo squilibrio tra le posizioni era aggravato dal

fatto che l’offerta di lavoro eccedeva la domanda e, quindi, i lavoratori si vedevano costretti ad

accettare le più grame condizioni imposte dal datore di lavoro, anche mettendo a repentaglio la

propria salute.

Nacquero, così, le prime forme di organizzazione sindacale, ossia coalizione spontanee tra

lavoratori che perseguivano finalità di autotutela, mediante azioni concertate di lotta e di

pressione sulle controparti dirette a negoziare collettivamente migliori condizioni di lavoro.

I Parlamenti nazionali guardavano con diffidenza, o addirittura vietavano, il nascente

fenomeno sindacale. Allo stesso tempo, tardavano a dare risposte adeguate alle questioni che

essi sollevavano. I primi interventi della legge furono rivolti soltanto a porre argini minimali

contro le forme più gravi di sfruttamento, o ad alleviare le conseguenze.

Si trattava, quindi, di interventi ispirati da ragioni di “ordine pubblico”, i cui destinatari erano

individuati con riferimento alla loro posizione sostanziale (e in particolare con riferimento al

lavoro manuale prestato dagli operai nell’industria). Successivamente, nella prima parte del

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ventesimo secolo, la crescita del movimento sindacale dei lavoratori e della loro influenza

politica ha consentito la graduale intensificazione delle misure legislative a tutela del lavoro in

tutti i paesi economicamente sviluppati (dando vita, peraltro, alla creazione di una

Organizzazione Internazionale del Lavoro).

Anche in Italia, si ebbe lo sviluppo della legislazione in materia sociale, proseguito senza

interruzioni, pur in un diverso contesto istituzionale, durante il regime corporativo. Si venne,

così, a formare progressivamente un sistema di diritto speciale: un diritto, cioè, che, pur avendo

ad oggetto un rapporto tra privati, presenta rilevanti deviazioni dal diritto comune. Ed apparve

ben presto chiaro che la ratio di tale diritto è costituita dall’esigenza di proteggere il lavoratore

in quanto contraente debole. La codificazione del diritto privato, nel 1942, regolò finalmente il

contratto di lavoro subordinato, dettando per esso una “disciplina particolare”, inserita nel libro

V.

Il lavoro ha ricevuto, poi, un nuovo fondamento valoriale nella Costituzione repubblicana che

attribuisce ad esso un rilievo primario. In particolare, affiancando al principio di eguaglianza

formale quello della eguaglianza sostanziale, pone a carico della Repubblica l’obiettivo di

promuovere “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i

lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In attuazione dei principi costituzionali, il periodo della ricostruzione post bellica è stata

caratterizzato da un univoco, costante ed ininterrotto processo di incremento delle tutele,

processo realizzato sia mediante il miglioramento di quelle già previste dal Codice civile e dalle

altre leggi sopravvissute alla soppressione dell’ordinamento corporativo, sia mediante

l’introduzione di nuove forme di tutela.

Questo periodo ha il suo momento di massima espressione, ma allo stesso tempo si conclude,

con l’emanazione di quello che è comunemente chiamato “Statuto dei lavoratori” (legge 300 del

1970) e con la previsione di una tutela giurisdizionale differenziata per le controversie in

materia di lavoro e di previdenza ed assistenza sociale. In particolare, la legge 300 del 1970

detta norme, ancor oggi fondamentali, non solo a tutela della libertà e della dignità della

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persona del lavoratore, ma anche a garanzia e a sostegno della libertà e dell’attività sindacale

nei luoghi di lavoro, così da rafforzare il sindacato nella sua naturale funzione di “contropotere”

nei confronti dell’imprenditore.

Si può, quindi, affermare che la ragione che ha ispirato la nascita e lo sviluppo del diritto del

lavoro, in tutti i contesti più evoluti, è la necessità di apprestare adeguata protezione al

lavoratore, in quanto egli è parte debole di un rapporto nel quale è coinvolto non soltanto il suo

“avere”, ma il suo stesso “essere”. A ciò, nell’ordinamento italiano, si aggiunge il diretto

fondamento costituzionale assegnato ai diritti personali e al programma di emancipazione che

la Repubblica è impegnata a realizzare. Quindi, il diritto del lavoro costituisce il sistema di

norme diretto a contemperare le esigenze dell’impresa con le finalità di tutela e sviluppo della

persona del lavoratore, anche attraverso il diretto intervento pubblico.

2. La globalizzazione economica e la crisi dello stato sociale

A stretto ridosso dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, tuttavia, si è aperta una

nuova fase della legislazione ancora in corso. Ciò che caratterizza la nuova fase è il mutamento

della situazione socio-economica. Il progressivo allentamento delle “barriere” giuridiche poste a

protezione dei mercati nazionali, unitamente ai progressi scientifici e tecnologici che

favoriscono il superamento delle “barriere” geografiche, hanno realizzato un effettivo mercato

globale che, grazie alla libertà di circolazione assicurata alle merci, ai servizi e ai capitali, sfugge

ai diritti nazionali del lavoro.

Quel mercato, peraltro, si è dotato di regole proprie ed istituzioni volte ad assicurarne

l’autonomo ed efficiente funzionamento, dando vita alla c.d. lex mercatoria e creando

l’Organizzazione mondiale del commercio. Organizzazione che obbliga gli stati aderenti ad

aprire le proprie frontiere commerciali, e dispone, per la repressione delle violazioni, di un

incisivo apparato sanzionatorio e di un organo giurisdizionale per la risoluzione delle

controversie.

La globalizzazione dell’economia compromette l'efficacia regolatoria dei diritti nazionali del

lavoro, sia perché le imprese di altri paesi possono sottrarre porzioni di mercato, riducendo

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l’occupazione e la ricchezza disponibile, sia perché gli stessi capitali nazionali possono operare

altrove alla ricerca di investimenti più redditizi, anche in tal modo depauperando le opportunità

di lavoro e le risorse distribuibili a livello nazionale.

Con un’ulteriore sintesi, si può affermare che la globalizzazione dei mercati subordina la

sopravvivenza delle imprese, e il grado di sviluppo dell’intero sistema produttivo, alla

condizione della loro competitività. Inevitabilmente, le conseguenze di ciò sono state avvertite

da tutte le economie nazionali, sia pure con intensità diversa. I sistemi nazionali di protezione

del lavoro, soprattutto quelli più evoluti, sono entrati, così, in una profonda fase di crisi e

ripensamento, che mette in discussione forme ed intensità di tutele che erano considerate

acquisite in modo irreversibile e, più in generale, mette in discussione l’ampiezza del campo di

azione dello Stato sociale e delle sue forme di intervento. I legislatori nazionali, pur cercando di

conservare livelli di benessere e conquiste realizzate, si sono visti costretti a ricercare nuove

forme per realizzare gli obiettivi di protezione del lavoro.

3. Il diritto del lavoro nazionale nel mercato globale

In Italia, i primi cambiamenti, riconducibili a questa fase, risalgono alla seconda metà degli anni

settanta, e si sono presentati sotto forma di interventi normativi sollecitati da problemi

specifici, così da indurre gli osservatori dell’epoca a considerarli conseguenza di una crisi

congiunturale o di una transitoria situazione di emergenza. Ed invece, nei decenni successivi, il

processo di adeguamento e di revisione delle tecniche e dei contenuti della protezione del

lavoro si è gradualmente intensificato ed ha dato luogo ad una serie ininterrotta di riforme di

ampia portata, sino al recente intervento organico costituito dai provvedimenti noti

all’opinione pubblica come “Jobs act”.

I tratti che caratterizzano questa nuova fase del diritto del lavoro sono diversi. Per quanto

riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro, il tratto caratteristico è che le riforme della legge

non mirano a tutelare soltanto interessi individuali ed a contemperare le istanze di protezione

del singolo lavoratore, contraente debole, con le esigenze del singolo imprenditore. Quelle

riforme, infatti, sono influenzate in modo determinante dal perseguimento di interessi pubblici

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generali, quali sono quelli della salvaguardia e dell’incremento dell’occupazione, e del sostegno

dell’intero sistema produttivo e dell’economia nazionale.

Tali finalità, quindi, ispirano non più soltanto le leggi che hanno ad oggetto la tutela

previdenziale pubblica, ma anche le leggi che hanno ad oggetto la disciplina del rapporto

individuale di lavoro. Ciò perché, in un mercato globale altamente concorrenziale, anche tale

disciplina incide in modo determinante sulla competitività del tessuto produttivo e

dell’economia del Paese. Competitività dalla quale dipende la produzione di ricchezza. Il nuovo

equilibrio tra tutele individuali e interessi generali non implica, necessariamente,

l’arretramento delle prime, bensì una loro diversa riarticolazione, quanto a priorità, contenuti e

modi di realizzazione.

Anche le disposizioni che maggiormente risentono della necessaria considerazione degli

interessi generali non sono mai state orientate al mero ripristino delle regole del libero

mercato e dell’eguaglianza formale. Anzi, continua a rivestire un rilievo centrale il

riconoscimento dei diritti della persona del lavoratore.

Allo stesso tempo, una importanza crescente è assunta dalle riforme volte a rafforzare la tutela

della persona del lavoratore al di fuori del rapporto di lavoro, nella fase, cioè, della ricerca

dell’occupazione o di nuova occupazione, mediante la predisposizione di servizi per l’impiego,

politiche attive per la promozione del lavoro, e strumenti di sostegno del reddito. Per quanto

riguarda la previdenza sociale, infine, le riforme mirano a realizzare l’obiettivo della

sostenibilità della spesa pubblica, tenendo conto dei cambiamenti demografici e dei

cambiamenti occupazionali.

SEZ.II. Fonti e nozioni

4. L’azione dell’Organizzazione internazionale del lavoro

Nel 1919, è stata costituita l’Organizzazione internazionale del lavoro, alla quale partecipano i

governi, le organizzazioni degli imprenditori e i sindacati dei lavoratori di ciascuno stato

membro. Lo scopo perseguito era quello di operare per la realizzazione di un programma di

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giustizia sociale, essendo già allora ritenuto “urgente” il miglioramento delle condizioni di lavoro

“che implicano – per un gran numero di persone – ingiustizia, miserie e privazioni”. “Il lavoro non è una

merce”.

Così declamava la Dichiarazione di Filadelfia del 1944, che ha sancito il diritto di tutti gli esseri

umani, di “tendere al loro progresso materiale ed al loro sviluppo spirituale in condizioni di libertà, di

dignità, di sicurezza economica, e con possibilità uguali”. Pertanto, “il raggiungimento delle condizioni

che permettono di conseguire questi risultati deve costituire lo scopo principale dell’azione nazionale

ed internazionale”. Nel tempo l’azione dell’O.I.L. si è sviluppata principalmente attraverso una

intensa attività di elaborazione di “convenzioni” e “raccomandazioni” dirette ad individuare

“standard internazionali di lavoro” e a promuoverne la diffusione e il rispetto.

Tuttavia, l’efficacia giuridica di tali standard è rimessa ad un processo di volontario recepimento

da parte degli stati aderenti. Il risultato è che, allo stato, la maggior parte delle numerose

convenzioni che nel corso del tempo sono state adottate dall’O.I.L per la tutela di condizioni

minime di lavoro risulta ratificata soltanto da una minoranza dei paesi aderenti. Al fondo di

tutto, va registrata la diffidenza da parte di paesi caratterizzati da differenti tradizioni storiche,

culturali e politiche verso l’imposizione di standard minimi di tutela del lavoro. Diffidenza che si

traduce spesso in ferma opposizione.

Con una realistica presa d'atto delle difficoltà esistenti, l’O.I.L. ha adottato, nel 1998, la

Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, con la quale è stato selezionato e

recepito un numero ristretto di convenzioni aventi ad oggetto quattro core labour standard,

riguardanti, rispettivamente: la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto

alla contrattazione collettiva; l’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato e obbligatorio;

l’effettiva abolizione del lavoro infantile; l’eliminazione delle discriminazioni in materia di

lavoro. Resta, comunque, l’assenza di uno specifico apparato sanzionatorio.

Di fatto, la stessa O.I.L. ritiene che l’affermazione e l’implementazione di tali diritti debba

essere perseguita con azioni di natura promozionale, fornendo assistenza tecnica ed altre

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forme di sostegno a favore dei paesi interessati, e svolgendo altresì un’attività di supervisione

nei loro confronti.

La terza e più recente Dichiarazione, adottata dall’O.I.L. nel 2008, quindi, non ha ad oggetto la

declamazione di nuovi diritti, ma la individuazione di “obiettivi strategici” da perseguire, ossia la

promozione dei diritti fondamentali dell’occupazione, dello sviluppo e del potenziamento degli

strumenti di protezione sociale, del dialogo sociale. Resta, però, profonda la distanza tra

obiettivi dichiarati e strumenti disponibili per realizzarli.

Diverse considerazioni devono essere svolte con riguardo agli effetti del processo di

integrazione europea sul diritto del lavoro nazionale. L’Unione Europea è nata come una

Comunità Economica, perché economico era il suo obiettivo, vale a dire la creazione di un

grande “mercato comune”. Si concordava “sulla necessità di promuovere il miglioramento delle

condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso”, ma veniva allo stesso

tempo precisato che “una tale evoluzione risulterà dal funzionamento del mercato comune, che

favorirà l'armonizzazione dei sistemi sociali”.

Il Trattato istitutivo prendeva in considerazione i lavoratori soltanto per regolarne la “libertà di

circolazione”, per affermare il principio della parità retributiva tra uomini e donne, ed in poche

altre disposizioni in materia di politiche sociali. La fiducia dell'autosufficienza di una logica

puramente mercantile si è venuta, però, man mano incrinando, dando spazio ad una

dimensione “sociale” che ha assunto un rilievo maggiore nel processo di integrazione europea,

sia sul piano dei principi e delle competenze, sia sul piano dei diritti.

Già l’Atto Unico Europeo, con cui il “mercato interno” veniva definito “spazio senza frontiere

interne”, ha introdotto l’impegno da parte degli stati membri di promuovere il miglioramento

“dell'ambiente di lavoro” per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori, stabilendo che

per l’adozione delle direttive in materia fosse sufficiente una maggioranza qualificata. Allo

stesso tempo, veniva istituzionalizzata l’azione della Comunità “intesa a realizzare il

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rafforzamento della coesione economica e sociale”, volta in particolare “a ridurre il divario tra le

diverse regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite”.

Con il Trattato di Maastricht, è stato inserito, tra gli obiettivi, quello di “un elevato livello di

occupazione e di protezione”. Inoltre, tutti gli stati membri raggiunsero un Accordo sulla politica

sociale, il quale, da un lato, ampliava i settori di intervento della Comunità, ed estendeva la

regola della decisione a maggioranza qualificata ad altre materie (quali le condizioni di lavoro,

l’informazione e la consultazione dei lavoratori); dall’altro lato, valorizzava il ruolo del “dialogo

sociale” con le organizzazioni sindacali già riconosciuto dall’Atto Unico Europeo, inserendo la

contrattazione collettiva, sia europea che nazionale, nel processo di formazione riguardante,

rispettivamente, le norme comunitarie e quelle di recepimento da parte degli stati membri.

Successivamente, l’Accordo sulla politica sociale è stato incorporato nel Trattamento di

Amsterdam, divenendo così diritto primario della Comunità.

Nello stesso Trattato, inoltre, è stato introdotto un nuovo titolo sulla “occupazione”, a favore

della quale è stata prevista una “strategia coordinata”, volta in particolare alla “promozione di

una forza di lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai

mutamenti economici”.

Nel 2000, a Nizza, è stata poi elaborata la nuova Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

Europea, contenente un ampio ed “aggiornato” catalogo dei diritti civili, politici, economici e

sociali dei cittadini europei e delle persone che vivono nel territorio dell’Unione.

È rilevante inoltre la riarticolazione degli obiettivi generali effettuata dal nuovo Trattato

sull’Unione Europea, considerato che tra di essi vi è il richiamo ad una “economia sociale di

mercato fortemente competitiva”, che “mira alla piena occupazione e al progresso sociale”,

“combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni”, “promuove la giustizia e la protezione

sociale”, “la parità tra donne e uomini”, e “la coesione economica, sociale e territoriale”.

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Il tutto nell’ambito di un sistema di valori che è rappresentato dal “rispetto della dignità umana,

della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”, nonché dal “rispetto dei

diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. L’esame del diritto

“primario” dell’Unione Europea consente di affermare che essa ha assunto una dimensione non

soltanto economica, ma anche sociale.

Questa dimensione, tuttavia, ha una consistenza limitata e circoscritta, perché opera proprio

sul presupposto che i singoli Stati membri conservino un ruolo da protagonista nella

definizione degli assetti dei sistemi nazionali di welfare. Ed infatti, restano del tutto escluse

dalle competenze dell’Unione Europea alcune materie importanti, quali sono quelle riguardanti

le retribuzioni, il diritto di associazione, il diritto di sciopero e il diritto di serrata.

Mentre la competenza su altre materie, come quelle riguardanti la sicurezza sociale, la

protezione in caso di risoluzione del contratto di lavoro, la rappresentanza e difesa collettiva, è

esercitabile con estrema difficoltà, essendo necessaria la condizione dell’unanimità dei

consensi.

7. Gli effetti dell’integrazione europea sul diritto del lavoro nazionale

L’integrazione tra le fonti sovranazionali e quelle nazionali – che opera tramite il sistema

definito di multilevel governance (articolato su una pluralità di livelli e sul cui coordinamento

esercita un ruolo fondamentale la giurisprudenza) – ha inciso, e incide, significativamente

sull’ordinamento giuridico del lavoro degli stati membri. Però, la direzione in cui opera tale

integrazione è tutt’altro che univoca.

In una prima fase, la Comunità aveva perseguito, nell’ambito delle proprie competenze,

l’armonizzazione verso “l’alto” delle legislazioni nazionali, facendo ricorso a direttive dai

contenuti sufficientemente precisi e imposti inderogabilmente, con lo scopo di eliminare fattori

distorsivi della libera concorrenza o di affermare specifici diritti sociali. Il recepimento di tali

direttive, in Italia, ha consentito di colmare vuoti di tutela all’epoca esistenti.

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Tuttavia, il progressivo allargamento ad altri stati membri e la sempre maggiore

differenziazione delle rispettive condizioni economico-sociali hanno determinato la crisi

dell’azione di armonizzazione che era fondata sull’imposizione di puntuali obblighi giuridici

(secondo la tecnica c.d. di hard law).

Correlativamente, nella seconda metà degli anni ’90, si è affermata una nuova e diversa tecnica

di intervento sulle politiche sociali (c.d. di soft law), che è stata inaugurata proprio con la

“strategia europea per l’occupazione” ed estesa, poi, anche ad altre aree tematiche, quali la

povertà, la sicurezza sociale e l’esclusione sociale.

Questa tecnica di intervento si realizza mediante un “metodo aperto di coordinamento”, che è

fondato sulla cooperazione tra istituzioni europee e stati membri, e dal quale derivano impegni

essenzialmente politici (essendo privi di sanzione giuridica). Le direttive hanno avuto ad

oggetto, prima, il miglioramento dell’ambiente di lavoro e l’istituzione dei “comitati aziendali

europei”.

Inoltre, il metodo del dialogo sociale ha consentito l’emanazione di tre direttive in materia,

rispettivamente, di congedi parentali, di rapporti di lavoro a tempo parziale, di rapporti di

lavoro a tempo determinato. Particolare incidenza sull’evoluzione del diritto del lavoro italiano

hanno avuto, poi, le direttive contro le discriminazioni. Tuttavia, dal 2003 la legislazione

comunitaria in materia di lavoro ha subito un rallentamento, se non un arresto.

Le direttive emanate hanno avuto ad oggetto esclusivamente modifiche marginali, o meri

aggiornamenti, o codificazioni, delle direttive vigenti. L’unica direttiva che ha riguardato un

nuovo ambito, in precedenza non regolato, ha avuto ad oggetto il lavoro tramite agenzia

interinale, e la sua approvazione si è resa possibile solo sulla base di un testo compromissorio

che lascia notevoli spazi di adattamento da parte dei singoli stati membri.

8. Libertà e politiche economiche

Una rilevante influenza sul diritto del lavoro nazionale è esercitata dalle norme dei Trattati in

materia economica, in base all’interpretazione che ne offre la Corte di Giustizia e soprattutto

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all’applicazione che ne è data dalle istituzioni europee. Le più recenti pronunzie della Corte di

Giustizia esprimono un orientamento che porterebbe a delineare un equilibrio tra libertà

economiche e libertà sindacali diverso da quello sul quale è stato fondato lo sviluppo dei

rapporti tra impresa e azienda sindacale.

L’obiettivo di regolare la concorrenza è connaturato all’attività del sindacato, il quale agisce

attraverso strumenti che inevitabilmente incidono sulla libertà economica dell’imprenditore: il

contratto collettivo, infatti, mira ad imporre condizioni minime applicabile a tutti i lavoratori; lo

sciopero mira a piegare le resistenze dell’imprenditore e, per definizione, è normalmente

destinato a creare un danno alla produzione dell’impresa.

La Corte di Giustizia da atto che contrattazione collettiva e sciopero sono diritti fondamentali,

ma afferma che essi, dovendo essere esercitati “conformemente al diritto dell’Unione”, sono

necessariamente sottoposti ad un bilanciamento con le libertà economiche fondamentali, e in

particolare con la libertà della prestazione di servizi e la libertà di stabilimento. La finalità di

tutela dei lavoratori perseguita dal sindacato può costituire una “ragione imperativa di

interesse generale” idonea a giustificare una restrizione delle libertà economiche, ma a

condizione che persegua un legittimo obiettivo e che, in base ad un giudizio di proporzionalità,

non vada al di là di ciò che è necessario per conseguire tale obiettivo.

Il giudice nazionale, quindi, sarebbe chiamato ad accertare: quale sia l’obiettivo dell’azione

sindacale; se esso costituisca reazione ad un comportamento dell’impresa lesivo dei rapporti di

lavoro e delle condizioni contrattuali; se tale reazione sia proporzionata a quanto necessario

per il raggiungimento dell’obiettivo. La giurisprudenza della Corte di Giustizia assume rilievo

anche sotto un ulteriore profilo.

L’Unione Europea ha emanato una direttiva che individua le condizioni minime “di lavoro e di

occupazione” che devono essere applicate ai lavoratori distaccati da uno Stato membro ad un

altro; allo stesso tempo, consente che i legislatori nazionali prevedano l’applicazione di ulteriori

condizioni previste dal diritto interno, se e nella misura in cui “si tratti di disposizioni di ordine

pubblico”.

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La Corte di Giustizia ha affermato, però, che tale facoltà va interpretata in senso restrittivo,

poiché la clausola cd. di “ordine pubblico” può essere invocata “solamente in caso di minaccia

effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività”. Tale

affermazione esclude la possibilità di attribuire indistintamente alle norme nazionali di tutela

del lavoro la natura di disposizioni di ordine pubblico, poiché ciò realizzerebbe una eccessiva

restrizione della libertà della prestazione di servizi da parte delle imprese di altri Stati membri.

Di conseguenza, potrebbero anche sorgere dubbi in ordine alla compatibilità con il diritto

dell’Unione della disciplina nazionale, la quale prevede l’applicazione ai lavoratori distaccati in

Italia di tutte le condizioni previste da disposizioni nazionali di legge o della contrattazione

collettiva.

Sul piano delle politiche, quelle sociali si sono concentrate in prevalenza sulla promozione

dell’occupazione, più che sulla regolamentazione del rapporto di lavoro. Per contro, una vistosa

incidenza sui diritti nazionali del lavoro è esercitata dalle politiche economiche di rigore.

Politiche rese ancora più stringenti, a seguito della crisi economica iniziata nel 2008 che ha

portato all’adozione:

nel 2011, di sei atti legislativi aventi ad oggetto, tra l’altro, un ulteriore rafforzamento della

sorveglianza delle posizioni di bilancio e della sorveglianza e del coordinamento delle politiche

economiche, la prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici e le misure

esecutive per la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nell’area euro;

nel 2012, del “Fiscal Compact”, ossia dell’accordo con il quale gli Stati membri si sono, tra l’altro,

impegnati ad introdurre nei propri ordinamenti l’obbligo del perseguimento del pareggio di

bilancio; nel 2013, di due ulteriori regolamenti diretti, in particolare, al coordinamento e alla

sorveglianza rafforzata nei confronti degli Stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in

gravi difficoltà in relazione alla loro stabilità finanziaria, nonché alla correzione dei disavanzi

eccessivi.

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L’attuazione di tali politiche impediscono agli stati membri di utilizzare la leva fiscale e della

spesa pubblica per sostenere le politiche sociali o per supportare la competitività dei sistemi

produttivi. Ne deriva che l’azione sociale di tali stati tenda a contrarsi e, allo stesso tempo,

tenda a surrogare la riduzione del sostegno economico al sistema produttivo ricorrendo ad

interventi di tipo normativo diretti a consentire il recupero di competitività mediante nuove

regole di gestione dei rapporti di lavoro.

In altri casi, importanti riforme del mercato del lavoro sono oggetto di esplicite richieste, o

prescrizioni, da parte di istituzioni europee. Anche per questa via passa il processo di

redistribuzione della ricchezza tra le nazioni. Così, mentre istituzioni internazionali legano la

concessione di aiuti ai paesi in via di sviluppo al vincolo dell’introduzione dei diritti sociali,

accade che l'Europa abbia condizionato il proprio sostegno alle economie degli stati membri

più colpite dalla crisi alla revisione degli apparati di tutela che essi avevano costruito a favore

dei propri cittadini.

In conclusione, non è configurabile nel diritto comunitario un corpus di regole unitario e

almeno tendenzialmente completo che possa rappresentare un modello di tutela del lavoro,

idoneo ad essere esportato od opposto alle altre economie regionali. Ad oggi, ciò che sembra

faticosamente emergere in ambito europeo è una particolare attenzione per il modello

(definito della flexicurity), variamente adottato da alcuni stati membri, che hanno saputo

coniugare una disciplina più flessibile del rapporto di lavoro con maggiori tutele sul mercato del

lavoro.

Ma la trasposizione di quel modello ad altri stati membri resta affidata alle istituzioni di questi

ultimi, e solleva delicate problematiche sia per la complessità dell’opera di “ristrutturazione”

degli ordinamenti nazionali fondati sulla rigida tutela del posto di lavoro, sia per la ristrettezza

delle risorse pubbliche necessarie al fine di finanziare le tutele compensative di tale

ristrutturazione.

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La Costituzione italiana attribuisce al “lavoro” una speciale posizione, pur senza accogliere di

esso una nozione unitaria e rigidamente determinata. Già l’articolo 1, con una enunciazione di

forte valore simbolico, individua il fondamento stesso della Repubblica nel “lavoro”, intendendo

quest’ultimo nella sua accezione più ampia e comprensiva di qualsiasi attività socialmente

rilevante.

La Repubblica assume il compito di rimuovere gli “ostacoli di ordine economico e sociale”, che

limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, oltreché di promuovere le condizioni

che rendono effettivo il diritto al lavoro riconosciuto a tutti i cittadini. Il titolo III, che riguarda i

“rapporti economici”, si apre con la disposizione di ampia e significativa portata, in base alla

quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. Anche in materia di

lavoro, il ruolo di garante del costante adeguamento alla Carta costituzionale da parte della

legge è affidato alla Corte costituzionale.

Va, però, avvertito che l’attuazione dei principi “lavoristici” deve tenere conto almeno di due

questioni fondamentali. In primo luogo, si deve tenere conto della necessità del

“bilanciamento” con gli altri principi affermati dalla Costituzione e, in particolare, con la libertà

dell’iniziativa economica privata sancita dal comma 1 dell’articolo 41 della Costituzione. Il

“bilanciamento” tra i principi di tutela del lavoro e quello della libertà di intrapresa economica è

necessario in quanto i principi costituzionali non possono comportare la soppressione di uni a

favore degli altri, bensì devono necessariamente essere contemperati tra loro.

Nello specifico, il contemperamento si rivela essenziale al fine di far sì che le leggi dirette a

realizzare i principi lavoristici siano effettivamente idonee a conseguire i loro obiettivi, in

quanto la tutela del lavoro presuppone necessariamente l’esistenza dell’impresa, senza la quale

manca il lavoro da tutelare. Di conseguenza, l’attuazione dei principi lavoristici deve

inevitabilmente tenere conto delle esigenze dell’impresa e, in particolare, di quelle esigenze di

competitività che sono il presupposto perché una impresa possa essere avviata e possa

continuare ad operare sul mercato.

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In secondo luogo, l’attuazione dei principi lavoristici deve tenere conto del problema della

limitatezza delle risorse disponibili. Infine, va ricordato che, continua ad essere oggetto di

legislazione esclusiva dello Stato la disciplina dei rapporti individuali di lavoro, riconducibile

allo “ordinamento civile”, nonché la previdenza sociale e la determinazione dei livelli essenziali

delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il

territorio nazionale.

Rientrano tra le materie di legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni la previdenza

complementare ed integrativa e la “tutela e sicurezza del lavoro”. Appartiene, infine, alla

potestà esclusiva delle Regioni la legislazione in materia di formazione professionale pubblica.

La legislazione in materia di lavoro presenta alcune note caratteristiche. Anzitutto, le

disposizioni della legge hanno, normalmente, carattere imperativo, e sono di conseguenza

inderogabili, essendo dettate a protezione del contraente debole o per il soddisfacimento di

altri interessi pubblici generali. Le eventuali clausole contrattuali difformi sono, quindi, nulle e

vengono sostituite di diritto dalle norme imperative di legge.

In secondo luogo, le disposizioni della legge, quando hanno ad oggetto la disciplina del rapporto

individuale di lavoro, prevedono, normalmente, condizioni minime di tutela a favore del

lavoratore. Ciò significa che l’inderogabilità comporta che le parti del rapporto non possono

concordare condizioni peggiorative di quelle minime, ma restano libere di stabilire condizioni

più favorevoli per il lavoratore. In terzo luogo, e questa è una caratteristica esclusiva, le

disposizioni di legge che regolano i rapporti di lavoro operano, normalmente, integrandosi con

la disciplina dei contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali.

Tale integrazione può avvenire in diverse forme e modalità, ma costituisce una costante del

diritto del lavoro. La necessità di quell’integrazione, invero, è coerente con il riconoscimento

della libertà sindacale, dalla quale deriva anche la libertà di contrattazione collettiva. I rapporti

instaurati tra Stato e sindacati rivestono un rilievo determinante ai fini dello studio del diritto

del lavoro.

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Va tenuto presente che il legislatore ha attribuito anche alle clausole dei contratti collettivi il

carattere dell’inderogabilità. Cosicché anche tali clausole, quando prevedono condizioni

minime di tutela del lavoratore, prevalgono sulle clausole individuali difformi, sostituendole di

diritto. Le disposizioni dettate dalla legge (e dalla contrattazione collettiva) regolano tutti gli

aspetti più rilevanti del rapporto di lavoro, dalla costituzione allo svolgimento sino

all’estinzione. Assai ridotto, quindi, è lo spazio di applicazione che residua per altre fonti del

diritto gerarchicamente sottoordinate, quale gli usi normativi e l’equità.

11. Inderogabilità e autonomia individuale

Il carattere dell’inderogabilità delle leggi in materia di lavoro svolge una funzione essenziale

per garantire l’effettività delle tutele che le leggi stesse prevedono. Oggetto da tempo di

discussione è l’ampiezza del ricorso alla norma inderogabile, tenuto conto che, già negli anni

ottanta, la legislazione del lavoro era stata giustamente definita “alluvionale”, e nel tempo ha

continuato a produrre una fitta rete di regole che disciplina in modo rigido ed uniforme tutti i

profili del rapporto di lavoro.

Il diritto del lavoro aveva lasciato all’autonomia individuale delle parti un ruolo del tutto

marginale nella definizione del regolamento contrattuale del rapporto di lavoro. Nel passaggio,

quindi, al diritto del lavoro nell’economia globalizzata, la legge ha attribuito alcuni ulteriori

spazi di disponibilità all’autonomia privata, sia per soddisfare esigenze di flessibilità

dell’impresa, sia per tenere conto della ulteriore diversificazione dei modi di produrre e di

lavorare, sia per dare rilievo ad interessi individuali del singolo lavoratore.

La prima tecnica utilizzata a questo scopo, ed ancora oggi diffusa, è quella definita della

“deregolazione controllata”, con la quale il legislatore stesso attribuisce alla contrattazione

collettiva il potere di derogare alle disposizioni di legge. Il legislatore ha, poi, riconosciuto

anche all’autonomia individuale un rilevante potere dispositivo, prevedendo la possibilità di

scegliere tra una pluralità di nuovi modelli di contratto di lavoro, che comportano l’applicazione

di discipline parzialmente diverse (e meno rigide) rispetto alla disciplina generale.

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Cosicché, le parti possono sottrarsi all’applicazione di talune delle disposizioni inderogabili

previste dalla disciplina generale. Più recentemente, la rigidità di alcune disposizioni

inderogabili è stata rivista ed attenuata direttamente dal legislatore, il quale, in particolare: ha

modificato la disciplina delle tutele previste in caso di licenziamento illegittimo, riducendo le

ipotesi in cui trova applicazione la tutela cd. reale; ha modificato la disciplina che vieta il

controllo a distanza dei lavoratori, consentendo che in alcuni casi possa avvenire anche senza

un preventivo accordo sindacale o una preventiva autorizzazione amministrativa; ha

modificato la disciplina del mutamento delle mansioni, riducendo i limiti preesistenti, sia

mediante l’estensione dello ius variandi del datore di lavoro, sia prevedendo ipotesi di

derogabilità dei nuovi limiti ad opera tanto dell’autonomia individuale, quanto di quella

collettiva.

Un ulteriore rilievo alla autonomia individuale è stato riconosciuto dalla legge quando la volontà delle

parti sia certificata o assistita mediante apposite procedure svolte nelle sedi abilitate. La procedura di

certificazione è stata inizialmente prevista al fine di ridurre il contenzioso che può sorgere in ordine

alla qualificazione del contratto ed agli effetti che ne derivano. Con tale procedura le parti possono

ottenere la certificazione “dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una

prestazione di lavoro”, e ciò anche nel caso in cui si tratti di “contratti in corso di esecuzione”.

La medesima procedura può essere utilizzata anche al fine di certificare il regolamento interno delle

cooperative riguardante i rapporti di lavoro con i soci lavoratori e il contratto di appalto di opere o

servizi. L’accertamento operato dalle commissioni abilitate alla certificazione può produrre, a richiesta

delle parti, sia effetti civili, sia “effetti amministrativi, previdenziali o fiscali” e, quindi, vincolare non

solo le parti, ma anche i terzi.

Tuttavia, poiché l’atto di certificazione implica un’attività valutativa, esso può essere impugnato non

solo dinanzi al tribunale amministrativo regionale “per violazione del procedimento o per eccesso di

potere”, ma anche dinanzi al giudice del lavoro “per erronea qualificazione del contratto”, oltreché per

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“difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”, o “per vizi del

consenso” in ordine al contratto certificato.

L’impugnazione, però, deve essere obbligatoriamente preceduta da un tentativo di conciliazione,

diversamente da tutte le altre controversie di lavoro in relazione alle quali il tentativo di conciliazione

è stato reso facoltativo. Inoltre, nel giudizio di impugnazione, il comportamento tenuto dalle parti

durante la procedura di certificazione “potrà essere valutato” dal giudice del lavoro ai fini della

definizione delle spese del giudizio o di una eventuale condanna per responsabilità aggravata, ai sensi

dell’articolo 96 del Codice di procedura civile.

La legge prevede, altresì, che le commissioni di certificazione, in alcuni casi, possono svolgere funzioni

di assistenza della volontà delle parti anche nella definizione della disciplina applicabile al rapporto di

lavoro da esse instaurato. Infatti, la certificazione può avere ad oggetto non soltanto la scelta del

contratto e le clausole di esso che rilevano ai fini qualificatori, ma ogni altra clausola relativa al

trattamento economico e normativo che non abbia ad oggetto “diritti indisponibili”.

Anche sotto questo profilo, l’atto certificatorio sarebbe sottoposto al controllo giurisdizionale, poiché

l’individuazione dei diritti indisponibili è oggetto di un’attività interpretativa che, in caso di

controversia, compete al giudice. La certificazione può, altresì, riguardare clausole dei contratti

individuali che prevedono ipotesi tipiche di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, o

“elementi” e “parametri” di determinazione della indennità prevista per il licenziamento non sorretto

da giusta causa o giustificato motivo.

Ma gli effetti della certificazione di tali clausole non sono ben definiti, perché, in caso di controversia, è

previsto soltanto che di esse “il giudice tiene conto”. Infine, mediante la certificazione (richiesta “a

pena di nullità”), le parti possono concordare, nel corso del rapporto di lavoro, una clausola

compromissoria volta a deferire alla decisione di arbitri le controversie che possono sorgere.

La pattuizione di tale tipologia di clausola implica l’esercizio di un rilevante potere dispositivo da parte

del lavoratore e, quindi, il legislatore espressamente stabilisce che le commissioni di certificazione

devono accertare “la effettiva volontà delle parti” e che il lavoratore ha diritto di farsi assistere da un

legale di fiducia o da un rappresentante “sindacale o professionale”.

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13. Disposizioni inderogabili e indisponibilità dei diritti. Le rinunzie e le transazioni

Il carattere inderogabile delle disposizioni della legge (e della contrattazione collettiva)

comporta l’indisponibilità dei diritti da esse previsti, con la conseguente nullità delle pattuizioni

difformi. L’articolo 2113 del Codice Civile prevede, però, una specifica disciplina che ha ad

oggetto “le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro

derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti e accordi collettivi”.

Da un lato, è sancito che tali rinunzie e transazioni “non sono valide”. D’altro lato, però, è

previsto l’onere del lavoratore di impugnarle, “a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di

cessazione del rapporto” (ove la rinunzia o la transazione siano intervenute nel corso del

rapporto di lavoro), ovvero entro sei mesi “dalla data della rinunzia o della transazione, se

queste sono intervenute dopo la cessazione medesima”.

La previsione dell’onere dell’impugnativa da parte del lavoratore ha indotto la dottrina a

ritenere che la “invalidità” disposta dall’articolo 2113 del Codice civile rientri nella categoria

dell’annullabilità e non in quella della nullità. In ogni caso, la previsione del termine di

decadenza comporta che la omessa impugnazione del lavoratore comporta indirettamente un

modo di disporre di diritti che derivano da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti

collettivi.

Si pone, pertanto, il complesso e delicato problema di come distinguere, e coordinare, da un

lato, il campo di applicazione della regola generale della nullità delle pattuizioni contrarie alle

disposizioni inderogabili, e, dall’altro, il campo di applicazione della disciplina delle rinunzie e

transazioni prevista dall’articolo 2112 del Codice civile. Si pone, altresì, il problema di come

spiegare la ratio delle due diverse discipline, apparentemente contraddittorie.

Il legislatore ha inteso comprimere in modo diverso l’autonomia individuale delle parti a

seconda che essa abbia ad oggetto la definizione del regolamento contrattuale volto a

disciplinare le prestazioni da eseguire, ovvero abbia ad oggetto la definizione dei diritti già

maturati dal lavoratore per effetto di prestazioni già eseguite.

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Nella definizione del regolamento contrattuale delle prestazioni da eseguire, i diritti previsti

dalle disposizioni inderogabili sono totalmente sottratti alla disponibilità dell’autonomia

privata, le cui pattuizioni difformi sono nulle e sostituite dalle disposizioni stesse. La

compressione dell’autonomia individuale delle parti, invece, non è assoluta quando tale

autonomia abbia ad oggetto la disposizione di diritti già maturati dal lavoratore per effetto di

prestazioni già eseguite, perché, in tale ipotesi, il legislatore ha tenuto conto di due

considerazioni.

In primo luogo, quando la rinunzia o la transazione riguarda diritti già maturati, il lavoratore ha

conoscenza di quali sono, in concreto, i diritti di cui sta disponendo; invece, quando sottoscrive

un patto che regola le condizioni di esecuzione di prestazioni ancora da svolgere, l’atto

dispositivo ha, normalmente, un contenuto non completamente determinato e, comunque, il

lavoratore non ha tutti gli elementi di conoscenza per valutare quali saranno, in concreto, tutti

gli effetti derivanti dall’atto dispositivo.

Difatti, secondo la giurisprudenza, l’atto dispositivo di diritti non ancora entrati nel patrimonio

individuale del lavoratore è nullo per indeterminatezza dell’oggetto, sia se contenuto in un atto

unilaterale di rinuncia, sia se contenuto in un contratto di transazione.

In secondo luogo, è da ritenere che, per gli atti dispositivi di diritti già maturati, la previsione di

una ipotesi di invalidità meno severa trova spiegazione e giustificazione nella finalità di

contemperare l’istanza di protezione del contraente debole con le esigenze di certezza dei

rapporti giuridici, tenendo anche presente che il termine di decadenza è fatto decorrere

soltanto dopo la cessazione del rapporto di lavoro e, quindi, in una situazione nella quale il

lavoratore non è più sottoposto alla “forza” del datore di lavoro, ed al conseguente metus nei

suoi confronti.

Né, infine, vi è una insanabile contraddizione, o una vera antinomia, tra la disciplina prevista

dagli articoli 1418 e 2113 del Codice civile, in quanto la regola generale posta dalla prima di tali

disposizioni, con la quale è sancita la nullità delle clausole contrattuali contrarie a norme

imperative, fa salva la possibilità “che la legge disponga diversamente”. Infatti, la legge ha

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previsto l’onere dell’impugnazione, a pena di decadenza, anche per altri atti contrarie a norme

imperative quali il licenziamento nullo o la clausola nulla avente ad oggetto l’apposizione del

termine al contratto di lavoro.

Si deve, quindi, concludere che la legge non prevede una indisponibilità assoluta dei diritti

derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi, bensì una

indisponibilità relativa, in quanto il lavoratore può indirettamente disporre di tali diritti

omettendo di impugnare, entro il termine di decadenza previsto, le rinunzie e le transazioni

aventi per oggetto i diritti già maturati.

Vi è, poi, una ulteriore ragione che impone di escludere che i diritti di cui trattasi formino

oggetto di indisponibilità assoluta. Ed infatti, il quarto ed ultimo comma dell’articolo 2113 del

Codice civile stabilisce che le disposizioni che lo precedono non si applicano alle conciliazioni

intervenute in sedi considerate “protette”. Da ciò si desume che le rinunzie e le transazioni

intervenute in tali sedi possano validamente avere ad oggetto diritti derivanti dalle disposizioni

della legge o dei contratti collettivi.

Invero, la ratio della previsione di tale validità non può essere individuata formulando l’ipotesi

che la sede “protetta” consentirebbe di escludere il rischio della dismissione di diritti derivanti

da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi; quella ratio, infatti, deve essere

individuata esclusivamente nella valutazione del legislatore che il lavoratore possa esprimere

la sua eventuale volontà dismissiva in modo consapevole e libero.

14. La conciliazione e l’arbitrato

Il legislatore favorisce la conciliazione delle controversie di lavoro, allo scopo di ridurre il

contenzioso giudiziario e decongestionare gli organi e gli uffici preposti. Ciò si desume,

anzitutto, dalla pluralità delle sedi extragiudiziale presso le quali può essere raggiunta una

conciliazione che è valida ed inoppugnabile. Le sedi abilitate sono: le commissioni di

conciliazione costituite presso le Direzioni territoriali del lavoro; le stesse Direzioni territoriali

del lavoro in relazione alle funzioni di vigilanza loro assegnate; le sedi previste e regolate dai

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contratti collettivi; i collegi di conciliazione e arbitrato appositamente costituiti su iniziativa

delle parti; le Commissioni di certificazione.

È stata modificata la disposizione che prevedeva un obbligo generale di esperire il tentativo di

conciliazione stragiudiziale quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ma tale

obbligo resta però previsto in talune specifiche ipotesi. Inoltre, nella più recente disciplina dei

licenziamenti, è stata introdotta una specifica procedura che intende favorire la conciliazione

stragiudiziale delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, mediante

la detassazione e le decontribuzione delle somme erogate al lavoratore a titolo conciliativo.

Del resto, anche la conciliazione giudiziale è valutata favorevolmente dalla legge, quale

strumento di abbreviazione della durata dei processi. Infatti, nella prima udienza, subito dopo

l’interrogatorio libero delle parti, ma prima di ogni ulteriore atto istruttorio o procedimentale,

il giudice “tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o

conciliativa”. Proposta che ha un rilievo giuridico, esplicito, in quanto il comportamento della

parte che rifiuti di aderirvi “senza giustificato motivo” costituisce “comportamento valutabile

dal giudice ai fini del giudizio”.

Analoghe considerazioni possono essere svolte in relazione all’istituto dell’arbitrato di tipo

irrituale, che ha formato oggetto di ripetuti interventi del legislatore dai quali si desume

l’obiettivo, per ora non realizzato, di favorire la sua diffusione. Anche l’arbitrato irrituale,

infatti, è uno strumento potenzialmente utile per ridurre il sovraccarico giudiziario, poiché, con

esso, le parti deferiscono la decisione della controversia ad arbitri privati, e il lodo emesso

costituisce una determinazione contrattuale che può validamente disporre dei diritti oggetto

di lite.

Ciò spiega il sostanziale disinteresse che il legislatore mostra nei confronti del modello legale

dell’arbitrato rituale. In quest’ultimo, infatti, gli arbitri decidono applicando le norme di diritto,

ed il lodo emesso produce gli effetti della sentenza, cosicché né le parti possono fare

affidamento sulla stabilità della decisione arbitrale, né si realizza l’interesse pubblico alla

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deflazione del contenzioso giudiziale. Le disposizioni relative all’arbitrato rituale non trovano

applicazione all’arbitrato irrituale.

L’arbitrato può essere svolto non solo nelle sedi e con le modalità previste dai contratti

collettivi, ma anche conferendo mandato alle Commissioni di conciliazione istituite presso le

Direzioni territoriali del lavoro, o alle Commissioni di certificazione, ovvero, ancora, ad un

apposito collegio di conciliazione e arbitrato liberamente scelto dalle parti stesse in base ai

criteri prestabiliti dalla legge. È così istituito un collegamento tra conciliazione ed arbitrato

irrituale, che è confermato dalla previsione in base alla quale il lodo arbitrale “produce tra le

parti gli effetti di cui agli articoli 1372 e 2113, quarto comma, del Codice civile”.

Produce, quindi, gli effetti di un contratto, che è valido anche ove comporti la disposizione di

diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi, salvi restando i

generali motivi di impugnazione previsti dall’articolo 808-ter del Codice di procedura civile.

15. La tutela giurisdizionale, amministrativa e penale

Il nucleo centrale del diritto del lavoro, costituito dalla disciplina del contratto e del rapporto di

lavoro e delle forme di assistenza e previdenza previste a favore del lavoratore, è integrato e

completato da una disciplina processuale differenziata delle controversie in materia. Con tale

disciplina è stata perseguita la finalità di favorire l’accesso del lavoratore alla giustizia,

prevedendo in particolare la gratuità del processo, nonché la celerità dei tempi in cui la

giustizia è resa, applicando i principi di oralità, immediatezza e concentrazione.

Il processo è, così, contraddistinto: da un regime di preclusioni e decadenze nella fase

introduttiva del giudizio; dalla lettura del dispositivo della sentenza (immediatamente

esecutivo) nella stessa prima udienza fissata direttamente per la discussione della causa;

dall’ampiezza dei poteri istruttori di ufficio; dalla possibilità che, nel caso in cui il giudizio non

possa essere deciso nella prima udienza, il giudice disponga con ordinanza il pagamento delle

somme non contestate e, a titolo provvisorio, di quelle di cui già abbia accertato il diritto del

lavoratore; dalla possibilità della partecipazione delle associazioni sindacali mediante proprie

“informazioni e osservazioni orale o scritte”; dalle previsioni che collegano alla sentenza di

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condanna al pagamento di crediti di lavoro il diritto del lavoratore al pagamento degli interessi

legali ed al risarcimento del maggior danno subito a causa della diminuzione del valore dei

crediti stessi per il ritardato adempimento, nonché la provvisoria esecutività della sentenza

stessa; dalla liquidazione equitativa della somma dovuta, quando il diritto sia accertato nell’an,

ma non sia possibile procedere alla determinazione del quantum.

Il processo in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie non è più gratuito per

coloro che superano la soglia di reddito fissata dalla legge. E la fiducia nella tutela

giurisdizionale dei diritti del lavoratore appare incrinata dalle disposizioni che mirano, invece, a

favorire la soluzione delle liti in via conciliativa e arbitrale. Anche la pubblica amministrazione

svolge funzioni di notevole importanza ai fini della realizzazione della tutela del lavoro.

In particolare, ad essa è affidata l’attuazione e la gestione dell’intervento pubblico volto ad

agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, a sostenere il reddito dei lavoratori nei

casi di disoccupazione totale o parziale, ad erogare le prestazioni previdenziali ed assistenziali

nelle altre situazioni di bisogno previste dalla legge. Inoltre, all’azione amministrativa è affidata

la vigilanza sulla corretta applicazione della disciplina che regola i rapporti di lavoro, la

previdenza e l’assistenza obbligatorie. La disciplina di tale attività è oggi prevista dalla legge

124 del 2004.

La legge prevede l’applicazione di sanzioni di natura amministrativa e penale (a seconda della

gravità della violazione). Il personale ispettivo, al quale è riconosciuto la qualità di ufficiale di

Polizia giudiziaria, nei casi più gravi configuranti ipotesi di reato, provvede alla trasmissione

della notitia criminis al magistrato competente per l’esercizio dell’azione penale. Anche in

materia di lavoro, vi è una tendenza alla depenalizzazione delle infrazioni ritenute meno gravi.

Tendenza che è, però, motivata non da una volontà di riduzione dell’intensità della tutela, bensì

dalla modesta efficacia dissuasiva e afflittiva che era esercitata dalle sanzioni penali previste

per i reati depenalizzati.

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