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DIRITTO DEL LAVORO, PROIA

CAPITOLO II: IL SINDACATO E LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

SEZ.I. Cenni storici

16. Diritto del lavoro e fenomeno sindacale

L’evoluzione del diritto del lavoro non può essere compresa senza un'adeguata considerazione

dell’apporto rappresentato dal sindacato e dal ruolo che l’ordinamento statuale gli riconosce.

Così come il diritto del lavoro, il fenomeno sindacale nasce con la grande industria. È

nell’industria, come espressione del capitale, che si manifesta quella nuova forma di conflitto

sociale, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi, invece, per vivere può contare solo sulle sue

energie lavorative e si trova costretto a metterle a disposizione di altri.

Ed è nell’industria, come luogo di produzione di massa, che si creano le condizioni perché tra

questi ultimi si sviluppino quelle forme di solidarietà che li porta ad aggregarsi per difendere e

sostenere i propri interessi, nella consapevolezza che, mediante l’unione delle forze, la

debolezza delle posizioni di ciascuno nei confronti della controparte può essere superata o,

quantomeno, attenuata. Il processo di nascita del fenomeno sindacale avviene nella più

assoluta spontaneità ed informalità.

L’autotutela da parte degli stessi lavoratori si è realizzata organizzandosi spontaneamente per

difendere i propri interessi collettivi, e forgiando gli specifici strumenti utili per la realizzazione

di tale scopo: da un lato, lo sciopero, ossia l’astensione concertata dal lavoro per costringere il

datore di lavoro a riconoscere migliori condizioni; d’altro lato, il contratto collettivo, ossia il

contratto che definisce le condizioni spettanti ai lavoratori facenti parti del gruppo

organizzato. Organizzazione sindacale, contratto collettivo e sciopero sono, ancora oggi, gli

architravi che costituiscono quello specifico ramo del diritto del lavoro denominato diritto

sindacale.

Pur nella molteplicità e nella diversità delle esperienze, le origini della fattispecie

“organizzazione sindacale” sono comunemente individuate nella volontà di un gruppo di

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lavoratori di coalizzarsi per meglio difendere i propri interessi. E così, integrano quella

fattispecie anche forme di coalizione rudimentale o occasionale, come quelle costituite

appositamente per attivare i primi conflitti collettivi nei confronti del datore di lavoro.

In Italia, le organizzazioni sindacali potevano operare in una situazione formalmente di

indifferenza legislativa, anche se era chiaramente percepibile un atteggiamento di sostanziale

sfavore. In particolare, lo sciopero poteva configurare reato in base al codice penale sardo del

1859 (esteso all’intero Paese dopo l’unificazione del 1961), il quale puniva “tutte le intese degli

operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”,

stabilendo pene aggravate per i “principali istigatori o promotori”.

SEZ.II. Dalla Costituzione allo Statuto del lavoratori

19. Costituzione e libertà sindacale

La Costituzione repubblicana non soltanto ripudia la concezione autoritaria del fenomeno

sindacale posta a base dell’ordinamento corporativo, ma supera anche l’atteggiamento

diffidente, o di apparente neutralità, che aveva caratterizzato gli Stati liberali. L’articolo 39

sancisce, con formula piena ed incondizionata, che “l’organizzazione sindacale è libera”. Titolare di

tale diritto di libertà è qualsiasi organizzazione qualificabile come “sindacale” e, cioè, in

mancanza di una definizione legale, qualsiasi organizzazione costituita per la tutela di interessi

collettivi di lavoro.

Il principio di libertà sindacale garantisce, innanzitutto, la libertà delle scelte attinenti

l’organizzazione interna del sindacato e la sua azione all’esterno, ivi inclusa la libertà di

contrattazione collettiva. Inoltre, il riconoscimento di tale libertà implica anche la legittimità

dei fini perseguiti dall’organizzazione sindacale ed un apprezzamento dell’idoneità di tale

organizzazione al perseguimento dei fini stessi. Infine, la libertà sindacale implica anche la

libertà del singolo di aderire o meno al sindacato.

È, quindi, riconosciuto anche l’esercizio della libertà c.d. negativa, ossia la scelta di non aderire

ad alcuna organizzazione sindacale. Tuttavia, l’esercizio della libertà negativa non è apprezzato

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dall’ordinamento al pari livello dell’esercizio della libertà positiva, perché soltanto quest’ultima

è oggetto di una disciplina promozionale; lo stesso articolo 39 della Costituzione prevede che

l’attività contrattuale delle rappresentanze dei lavoratori iscritti ai sindacati possa avere

efficacia anche nei confronti dei non iscritti ad alcun sindacato; soltanto i lavoratori che

scelgono di fare parte di una organizzazione sindacale possono proclamare lo sciopero.

I commi 2-4 dell’articolo 39 prevedono un procedimento volto ad attribuire efficacia generale

al contratto collettivo. Tale efficacia è, infatti, riconosciuta al contratto collettivo che sia stato

stipulato da “rappresentanze unitarie” formate, “in rappresentanza degli iscritti”, dai sindacati che

abbiano richiesto la “registrazione presso uffici locali o centrali” e, in tal modo, abbiano acquisito la

personalità giuridica. La dottrina prevalente ha, invero, intravisto in tale procedimento una

insanabile contraddizione con il primo comma dell’articolo 39 Cost.

In particolare, il procedimento è stato accusato di essere inutilmente invasivo, poiché lo stesso

risultato dell’attribuzione dell’efficacia erga omnes potrebbe essere conseguito mediante un

provvedimento statuale di selezione del contratto collettivo al quale conferire efficacia

generale, senza intervenire nella regolazione di quest’ultimo. Inoltre, il procedimento

porterebbe a configurare il sindacato come “organo” di rappresentanza degli interessi di tutti i

lavoratori appartenenti alla medesima categoria, trascurando così di considerare che lo

“interesse primario” del sindacato è esclusivamente quello di difendere i propri soci, ossia gli

iscritti.

Tali critiche hanno contribuito all’inattuazione della seconda parte dell’articolo 39 Cost., non

essendo mai state emanate dal legislatore le norme a tal fine necessarie. Dall’analisi di tali

posizioni emerge che tali critiche hanno privilegiato un’interpretazione per il tramite della

quale sono state poste in rilievo le possibili implicazioni autoritarie della seconda parte

dell’articolo 39, anziché quelle, altrettanto possibili, maggiormente coerenti con il rinnovato

sistema costituzionale.

Inoltre, bisogna tenere conto che qualsiasi sistema legale di attribuzione di efficacia generale al

contratto collettivo determina effetti che incidono non soltanto nella sfera giuridica dei “non

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iscritti”, ma anche in quella delle organizzazioni sindacali non stipulanti e dei lavoratori che vi

fanno parte, limitando la loro autonomia negoziale, e soprattutto la stessa fondamentale

posizione giuridica riconosciuta dall’articolo 39, 1° comma, della Costituzione.

L’obiettivo perseguito dal legislatore costituente, quindi, è in sostanza soltanto quello di

garantire un contemperamento tra l’attribuzione di efficacia generale al contratto collettivo e il

principio di libertà sindacale. Contemperamento realizzato subordinando l’attribuzione di tale

efficacia ad un meccanismo che prevede la possibilità della partecipazione di tutte le

organizzazioni sindacali titolari del diritto sancito dal primo comma dell’articolo 39, al fine di

favorire una correlazione tra di esse che non operi, reciprocamente, ad excludendum, bensì

tenda ad una congiunzione o combinazione delle rispettive valutazioni.

Il che, peraltro, non contraddice l’assunto secondo il quale anche nel contratto efficace erga

omnes l’organizzazione sindacale persegue l’interesse dei suoi membri e non già

necessariamente quello di tutti gli appartenenti alla categoria. È proprio per l’interesse che

spinge l’organizzazione sindacale alla stipulazione del contratto collettivo, che l’attribuzione a

quest’ultimo, da parte dello Stato, di efficacia vincolante anche nei confronti di organizzazioni

che perseguono diversi fini, è stata collegata ad un procedimento volto a favorire la mediazione

tra le diverse istanze e, soprattutto, volto a garantire, nei casi di insuccesso di quest’ultima, che

la soluzione del conflitto avvenga attraverso la verifica del diverso “peso rappresentativo” di

ciascuna organizzazione.

21. Il diritto di sciopero

Ai sensi dell’articolo 40 della Costituzione, “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle

leggi che lo regolano”. Ciò significa che lo sciopero è un diritto, ma, diversamente dal diritto di

libertà sindacale di cui al primo comma dell’articolo 39 della Costituzione, il suo esercizio deve

essere regolato dalla legge. Tuttavia, dell’articolo 40 è stata presto riconosciuta l’immediata

precettività. Di conseguenza, anche in assenza di leggi che ne regolino l’esercizio, il diritto di

sciopero opera direttamente sia nei rapporti tra Stato e cittadini, sia nei rapporti tra privati.

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Per quanto riguarda il primo ambito di tali rapporti, esso configura un diritto assoluto della

persona. Sul piano dei rapporti tra soggetti privati, il diritto di sciopero configura un diritto

potestativo dei lavoratori nei confronti del quale il datore di lavoro si trova in una posizione di

mera soggezione. Ne deriva che lo sciopero, pur consistendo in una astensione dalla

prestazione di lavoro, non determina un inadempimento dell’obbligazione di lavorare, bensì

realizza una legittima sospensione di tale obbligazione, alla quale corrisponde la sospensione

dell’obbligazione di retribuire che grava sul datore di lavoro.

La titolarità del diritto di sciopero è individuale, ma il suo esercizio è necessariamente

collettivo. La dottrina prevalente, però, ritiene che di tale diritto non sarebbero titolari le

organizzazioni sindacali, e tale opinione è basata, in sostanza, su tre assunti: a) lo sciopero può

essere attuato anche da gruppi di lavoratori non organizzati in sindacato; b) anche i lavoratori

non iscritti ai sindacati possono partecipare allo sciopero; c) al di fuori del campo di

applicazione della legge n.46 del 1990, lo sciopero può essere attuato anche senza preavviso.

Tuttavia, pur essendo esatti tali assunti, l’opinione che su di essi è basata non è condivisibile,

perché: anzitutto non tiene adeguatamente conto del fatto che l’attuazione dello sciopero da

parte del singolo lavoratore presuppone necessariamente una decisione collettiva di attuarlo.

Lo sciopero presuppone sempre che vi sia un momento deliberativo o decisionale, che è

concettualmente e naturalisticamente distinto dalla sua attuazione.

Ciò posto, non vi è dubbio che la deliberazione di scioperare non può essere riservata

esclusivamente ai sindacati aventi determinate caratteristiche, e deve essere, quindi,

riconosciuta a qualsiasi collettività di lavoratori, anche organizzata in modo rudimentale ed

occasionale. Ma ad una tale collettività, nel momento stesso in cui essa individua un interesse

collettivo da perseguire con l’esercizio dello sciopero, non può essere negata la qualificazione

di sindacale.

Si deve, quindi, ritenere che il diritto di sciopero, pur essendo individuale, è condizionato ad

una decisione che compete esclusivamente ad una collettività di lavoratori, anche organizzata

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in modo rudimentale, i quali intendano perseguire un interesse economico professionale ad

essi comuni e non già un interesse esclusivamente individuale.

22. Il sistema sindacale “di fatto” e l’organizzazione sindacale

Le cause dell’inattuazione della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione attengono, in

sostanza, al timore diffuso, seppure non del tutto giustificato, del ripristino di concezioni o

strutture ereditate dal ripudiato regime corporativo e dei pericoli che avrebbero potuto

derivarne per la libertà sindacale. Ma certamente ebbe un rilievo anche lo stato dei rapporti tra

i tre maggiori sindacati italiani, i quali mostrarono ostilità nei confronti dell’attuazione di un

procedimento che avrebbe necessariamente distribuito il peso rappresentativo di ciascuno di

essi secondo criteri di tipo proporzionalistico e/o maggioritario, in entrambi i casi implicando la

necessità di andare alla conta tra i propri iscritti e rendendo più difficile la realizzazione di un

percorso unitario.

Da ciò è derivata la precisa opzione di una parte rilevante del movimento sindacale in favore

dell’inattuazione del procedimento costituzionale e della costruzione, invece, di un diverso

sistema, basato su regole liberamente concordate. Tale sistema è stato fondato sulla reciproca

“autolegittimazione rappresentativa” (nel senso che la scelta dei sindacati chiamati a far parte

del sistema delle relazioni sindacali e, in particolare, della contrattazione collettiva è effettuata

dai sindacati stessi d’accordo con le associazioni delle imprese) e sul reciproco riconoscimento

di “pari dignità” tra i sindacati dei lavoratori. Tale opzione è stata, storicamente, coniugata con

quella per l’opposizione alla regolazione del diritto di sciopero, che era ritenuta inevitabilmente

connessa all’eventuale legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.

La situazione che ne è derivata ha fatto sì che il diritto sindacale restasse un “diritto senza

norme”, in cui si è venuto formando gradualmente un “sistema sindacale di fatto” in grado di

funzionare autonomamente. Ciò è avvenuto anche grazie all’opera della giurisprudenza e della

dottrina che hanno ricostruito il quadro di principi e regole necessario per assicurare a quel

sistema la tenuta anche in termini giuridici, facendo sì che il diritto sindacale, pur essendo

“senza norme”, fosse anche un diritto “senza lacune”.

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Fondamentale è stata la scelta interpretativa di ricondurre l’organizzazione sindacale e il

contratto collettivo nell’ambito del diritto comune, considerato garanzia di libertà e strumento

di protezione da tentazioni di “ripubblicazione”, e, in particolare, nell’ambito delle categorie

civilistiche dell’associazione non riconosciuta e del contratto.

Con la figura di cui agli articoli 36 e successivi del Codice Civile, al sindacato è stata

riconosciuta una propria soggettività distinta da quella dei lavoratori, rendendo possibile

un’autonoma imputazione dell’attività giuridica compiuta in attuazione degli scopi fissati nello

statuto e nell’atto costitutivo dagli stessi lavoratori associati. È stato, altresì, consentito al

sindacato di stare in giudizio e avere una autonomia patrimoniale, sia pure imperfetta, atteso

che a rispondere delle obbligazioni assunte è, in primis, il fondo comune, ma anche,

personalmente e solidalmente, chi ha agito in nome e per conto dell’associazione.

Il principio generale di sfavore verso la perpetuità dei vincoli obbligatori, in coerenza con il

principio di libertà sindacale, garantisce il diritto di recesso dall’associazione per il lavoratore

iscritto che non condivida più le politiche, o la gestione dell’organizzazione. Resta salvo, ove

previsto nello statuto, il differimento degli effetti del recesso ai soli fini del pagamento del

contributo associativo, ma senza diritto alla liquidazione di una quota del fondo comune. Il

singolo associato può, peraltro, manifestare il proprio dissenso anche impugnando le

deliberazioni dell’associazione in giudizio, per violazione di legge, dello statuto e dell’atto

costitutivo. Ma non si registra in proposito un contenzioso significato.

Le relazioni fra sindacati possono essere agevolmente spiegate, e ricostruite, in coerenza con il

principio generale sancito dall’articolo 39, comma 1, della Costituzione. È, quindi, riconosciuta

la più ampia libertà di ciascuna associazione sindacale di creare collegamenti di varia intensità

e natura con altre associazioni sindacali. E con la medesima libertà è consentito costituire,

nell’ambito di ciascun sindacato e di sindacati collegati, articolazioni territoriali di vario ambito.

Nell’esperienza italiana, il modello prevalente di organizzazione è stato quello dell’associazione

nazionale di categoria.

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Stante il pluralismo sindacale, riconosciuto dall’articolo 39 Cost. e realizzato di fatto, per ogni

categoria produttiva sono costituite diverse associazioni nazionali (chiamate, solitamente,

federazioni nazionali di categoria), le quali sono riunite tra loro in distinte confederazioni, in

base alle diverse ispirazioni di fondo che le caratterizzano. In caso di conflitto fra le

determinazioni prese da diverse associazioni o distinte articolazioni della medesima

associazione, si pone al giudice l’arduo compito di districarsi nelle maglie della normativa

negoziale e statutaria, alla ricerca del principio risolutore dell’antinomia. Principio che in via di

interpretazione è stato individuato nei criteri gerarchico, cronologico o di specialità.

24. Il contratto collettivo

Con riferimento al contratto, va ricordato come esso sia stato trasposto ed utilizzato, ai fini

della edificazione del sistema sindacale di fatto, attraverso la mediazione della nozione di

interesse collettivo. L’interesse collettivo è stato configurato, secondo una celebre definizione,

come “l’interesse di una pluralità di persone ad un bene idoneo a soddisfare non già il bisogno

individuale di una o alcune di esse, ma il bisogno comune di tutti”.

La stipulazione del contratto collettivo costituisce esercizio di autonomia privata, che è stata

definita collettiva, proprio perché funzionalizzata al perseguimento di interessi collettivi, così

come l’autonomia privata individuale è funzionalizzata al perseguimento di interessi

individuali. La realtà italiana, storicamente fondata su grandi organizzazioni sindacali nazionali,

ha dato vita ad una forte centralizzazione della contrattazione collettiva, che ruota attorno agli

accordi interconfederali ed ai contratti collettivi nazionali di lavoro, i quali dettano la disciplina

applicabile, rispettivamente, alla pluralità di settori produttivi rappresentati dalle

confederazioni sindacali o ai singoli settori rappresentati dai sindacati di categoria.

In particolare, asse portante del sistema contrattuale è il contratto collettivo nazionale di

lavoro, con il quale le associazioni nazionali regolano ogni aspetto riguardante i reciproci

rapporti, ivi compresi i tempi e le procedure per il suo periodico rinnovo, nonché le condizioni

economiche e normative applicabili ai rapporti di lavoro rientranti nel suo campo di

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applicazione. I contratti nazionali, quindi, regolano in modo analitico e minuzioso ogni profilo

ed istituto del rapporto di lavoro in ciascuna categoria.

A causa dell’ostilità manifestata dai sindacati, non è mai stata dettata una disciplina di legge di

carattere generale che regoli l’esercizio del diritto di sciopero. E soltanto nel 1990 è stata

emanata una disciplina in materia limitatamente all’ambito dei servizi pubblici essenziali. Ciò

nonostante, nel sistema sindacale “di fatto”, anche la gestione del conflitto ha potuto svolgersi a

lungo senza rilevanti criticità, e ciò per due ragioni.

Da un lato, i sindacati che avevano un maggior seguito in termini di rappresentanza hanno

mostrato, in concreto, la capacità di esercitare in modo responsabile lo sciopero, osservando

forme e modalità che hanno prestato attenzione a non compromettere i diritti fondamentali

della persona, e la possibilità di sopravvivenza dell’impresa. D’altro lato, in mancanza di leggi,

sono state la giurisprudenza costituzionale ed ordinaria ad individuare i limiti posti al legittimo

esercizio del diritto di sciopero. Un primo ordine di limiti deriva, indirettamente,

dall’individuazione dell’oggetto del diritto tutelato dall’articolo 40 Cost., ossia

dall’individuazione della fattispecie “sciopero”.

Al riguardo, va ricordato come la giurisprudenza abbia accolto una concezione notevolmente

ampia, che fa leva sulla configurazione dello sciopero come diritto assoluto della persona e sul

significato che esso assume nel “comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale”. In questa

prospettiva, la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità anche dello sciopero che non

sia rivolto a sostenere una rivendicazione nei confronti del proprio datore di lavoro, come lo

sciopero di solidarietà nei confronti di altre categorie di lavoratori, e lo sciopero

economico-politico, attuato al fine di tutelare interessi di natura economica nei confronti del

potere politico.

Esso deve comunque consistere in una “astensione collettiva dal lavoro, disposta da una

pluralità dei lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Cosicché lo sciopero avente

esclusivamente fini politici è certamente oggetto di libertà, e non costituisce quindi reato, ma è

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dubbio che possa essere considerato un diritto, idoneo, come tale, a giustificare e legittimare la

sospensione della prestazione lavorativa.

Non possono essere ricompresi nel campo di applicazione dell’articolo 40 della Costituzione

quelle forme di lotta sindacale che realizzano fattispecie oggettivamente diverse da quelle di

una astensione concertata dal lavoro (come l’occupazione della fabbrica, o il cd “sciopero

bianco”, che si realizza non già astenendosi dalla prestazione, bensì adempiendola in modo non

diligente).

Un secondo ordine di limiti deriva dalla necessità di coordinare l’esercizio del diritto di sciopero

con altri diritti che godono anch'essi di garanzia costituzionale ad un livello almeno

pari-ordinato, quali il diritto alla vita e alla salute. Assai problematica, al riguardo, è la

configurazione del rapporto esistente tra il diritto di sciopero e il diritto di iniziativa economica

privata riconosciuto dall’articolo 41, comma 1, della Costituzione. La giurisprudenza ha

elaborato una distinzione tra “danno alla produzione” e “danno alla produttività”, ritenendo che

lo sciopero possa determinare l’arresto della produzione, ma non possa pregiudicare “la

produttività”, ossia “la capacità produttiva” dell’azienda e la possibilità dell’imprenditore di

continuare a “svolgere la sua iniziativa economica”.

27. L’inderogabilità del contratto collettivo

La riconduzione del contratto collettivo nella categoria del contratto di diritto comune, se ha

preservato il sindacato dalla temuta attuazione del procedimento previsto dalla seconda parte

dell’articolo 39 Cost., ha anche riproposto gli stessi problemi di limitata efficacia soggettiva ed

oggettiva. Sotto il profilo della “forza” del vincolo giuridico, anche la disciplina generale dei

contratti, contenuta nel Codice civile, non contiene disposizioni che consentano di affermare

che gli atti di autonomia collettiva abbiano una “forza” superiore rispetto agli atti di autonomia

individuale, posti in essere dai singoli lavoratori.

Di conseguenza, anche i lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti avrebbero potuto pattuire per

sé stessi condizioni peggiorative rispetto a quelle stabilite dal proprio sindacato con il

contratto collettivo. Per evitare tale conseguenza, la dottrina ha tentato di affermare e

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spiegare la prevalenza del contratto collettivo sul contratto individuale, facendo riferimento, in

particolare, alle disposizioni degli articoli 1723, comma 2, e 1726 del Codice Civile (che

prevedono la irrevocabilità del mandato conferito anche nell’interesse del mandatario, o

conferito da più persone per un interesse comune) o individuando nell’atto di adesione

sindacale l’assoggettamento del singolo al potere del sindacato di dettare regole applicabili al

suo rapporto di lavoro.

Si trattava, però, di ricostruzioni non del tutto appaganti. La soluzione di tale problema è stata

offerta dalla giurisprudenza, che ha ritenuto applicabile anche al contratto collettivo di diritto

comune, stipulato da libere organizzazioni sindacali, la disposizione che era stata dettata

dall’articolo 2077 del Codice Civile in relazione ai contratti collettivi corporativi. Per effetto di

tale giurisprudenza, che ha sostanzialmente operato in funzione normativa, il contratto

collettivo di diritto comune non può essere derogato dal contratto individuale se non in senso

più favorevole al lavoratore.

L’interpretazione giurisprudenziale è stata successivamente confermata dal legislatore con

l’articolo 6 della legge 533 del 1973, che ha novellato l’articolo 2113 del codice civile. Secondo

l’opinione prevalente, infatti, tale disposizione, prevedendo la invalidità delle rinunzie e delle

transazioni aventi ad oggetto “diritti” derivanti da “disposizioni inderogabili della legge o dei

contratti o accordi collettivi”, ha implicitamente riconosciuto alla contrattazione collettiva

l’attributo della inderogabilità proprio della legge. Pertanto, si può affermare ormai che le

disposizioni del contratto collettivo, analogamente a quelle della legge, operano come fonte

eteronoma di regolamento dei singoli rapporti di lavoro.

28. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo

Ai sensi dell’articolo 1372 del codice civile, il contratto ha forza di legge tra le parti che lo

hanno stipulato. Quindi, il contratto collettivo di diritto comune è efficace, dal punto di vista

soggettivo, nei confronti delle parti stipulanti (e, cioè, da un lato, le organizzazioni sindacali dei

lavoratori e, dall’altro, le associazioni sindacali dei datori di lavoro o direttamente il datore di

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lavoro), nonché nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro che alle parti stipulanti hanno

conferito mandato.

Inoltre, il contratto collettivo è di regola aperto all’adesione da parte dei datori di lavoro e dei

lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. Di conseguenza, il contratto collettivo è efficace

anche nei confronti delle parti del rapporto di lavoro che, pur non essendo iscritte ai sindacati

stipulanti, abbiano volontariamente aderito alla disciplina del contratto collettivo, o l’abbiano

comunque recepita. Nella prassi, tale recepimento viene solitamente effettuato mediante una

esplicita clausola inserita nei contratti individuali di lavoro, con la quale si fa rinvio alla

disciplina o al trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo nazionale

del lavoro. Ne deriva che il contratto collettivo di diritto comune non ha efficacia ergma omnes.

Esso, infatti, sia in base al principio di libertà sindacale, sia in base ai principi del diritto comune,

non può vincolare i datori di lavoro ed i lavoratori in mancanza di un loro atto di volontà idoneo

a manifestare la comune intenzione di accettare che il rapporto di lavoro tra essi intercorrente

sia sottoposto alla disciplina del contratto collettivo. Tale conclusione determina una duplice

conseguenza. La prima conseguenza è che, nelle realtà ove il sindacato non abbia la forza

necessaria per imporre l’applicazione del contratto collettivo, il datore di lavoro ha la

possibilità di escludere i propri lavoratori dalle tutele e dalle “conquiste” sociali.

La seconda conseguenza è che le imprese che non applicano il contratto collettivo hanno un

vantaggio concorrenziale nei confronti di quelle che, applicandolo, erogano trattamenti

economici superiori e hanno maggiori vincoli da rispettare. Da tale vantaggio emerge non solo

un rischio per la competitività di questa seconda tipologia di imprese, ma anche un fattore di

“indebolimento” per il sindacato dei lavoratori e per la sua azione.

Tali conseguenze sono state valutate negativamente sia dalla giurisprudenza, che dal

legislatore, i quali, nei rispettivi ambiti di competenza, hanno posto in essere nel tempo diversi

interventi diretti all’obiettivo di estendere l’efficacia soggettiva del contratto collettivo. Tali

interventi hanno indubbiamente favorito la diffusa applicazione del contratto collettivo di

diritto comune in tutto il territorio nazionale.

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La giurisprudenza ha ritenuto che la volontà del datore di lavoro di obbligarsi ad applicare il

contratto collettivo possa essere desunta non solo dall’iscrizione all’associazione stipulante o

da un esplicito atto di adesione al recepimento del contratto collettivo, ma anche attraverso

fatti o comportamenti concludenti. Inoltre, la giurisprudenza ha ritenuto che quando il datore

di lavoro stipuli direttamente il contratto collettivo o sia iscritto all’associazione dei datori di

lavoro stipulante, egli, stante il divieto di trattamenti collettivi discriminatori, è obbligato ad

applicare il contratto collettivo a tutti i suoi dipendenti, anche se non iscritti al sindacato che lo

ha sottoscritto.

Il più importante intervento operato dalla giurisprudenza è stato basato su una interpretazione

degli articoli 36 della Costituzione e 2099 del Codice Civile che ha portato ad individuare nella

retribuzione base prevista dal contratto collettivo il “minimo” di retribuzione dovuto a tutti i

lavoratori, anche ove al loro rapporto di lavoro non sia applicabile la disciplina sindacale. Ed

infatti il contratto collettivo è stato considerato il parametro più adeguato per determinare

quale sia la retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” spettante ai sensi dell’articolo 36 della

Costituzione.

Gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza, però, offrono soluzioni parziali, in quanto

essi possono operare soltanto in presenza di una azione giudiziale. Nell’Italia del secondo

dopoguerra, dunque, nonostante gli sforzi della giurisprudenza, il lavoro sottratto alle tutele

sindacali aveva ancora dimensioni molto preoccupanti. Il legislatore, dovendo prendere atto

dell’impossibilità di attribuire efficacia generale al contratto collettivo in mancanza

dell’attuazione del procedimento costituzionale, ha fatto ricorso a tecniche diverse al fine di

favorire, comunque, sia pure in modo indiretto, l’estensione delle tutele sindacali. Così, ad

esempio, è stato imposto che nei provvedimenti di concessione di benefici pubblici e nei

contratti di appalto venga previsto l’obbligo, per il beneficiario e per l’appaltatore, di applicare

ai propri dipendenti condizioni economiche e normative non inferiori a quelle risultanti dai

contratti collettivi.

Ed anche la concessione di altri benefici è stata subordinata alla condizione che l’impresa

applichi i contratti collettivi o trattamenti non inferiori a quelli da essi previsti. Inoltre, è stato

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introdotto l’obbligo che i “contribuiti di previdenza e di assistenza sociale” siano calcolati e versati

sulla base di una retribuzione minima imponibile che non può essere “inferiore” a quella stabilita

dalla legge e dalla contrattazione collettiva, ponendo interamente a carico del datore di lavoro

la contribuzione relativa all’eventuale differenza tra tale retribuzione minima imponibile e

quella inferiore eventualmente corrisposta.

È opportuno ricordare che, con riguardo alla disciplina relativa alla fiscalizzazione degli oneri

sociali, la Corte Costituzionale ne ha affermato la legittimità, ritenendo che l’applicazione delle

condizioni economiche e normative non inferiori a quelle previste dal contratto collettivo non

costituisca un obbligo, bensì soltanto un “onere”, nel senso che il datore di lavoro che si rifiuti di

applicare quelle condizioni non compie un inadempimento contrattuale nei confronti del

lavoratore, né, tantomeno, un illecito di altra natura, ma perde soltanto la possibilità di fruire

dell’agevolazione costituita dalla fiscalizzazione.

30. Il rapporto sistematico tra legge e contrattazione collettiva

Un ulteriore fattore di diffusione dell’applicazione della contrattazione collettiva è

determinato dal rapporto che, con essa, risulta instaurato dalle leggi in materia di lavoro. Ed

infatti, le regole dettate, nel tempo, dal legislatore operano sistematicamente rinvio ai contratti

collettivi non soltanto al fine di consentire un miglioramento dei livelli minimi di tutela fissati

nelle stesse disposizioni di legge, ma anche ai fini della loro necessaria specificazione o

integrazione.

Ancora oggi, la legge considera la contrattazione collettiva una fonte essenziale perché le

disposizioni di legge possano esplicare i loro effetti e, comunque, perché possano essere

determinate le condizioni economiche e normative applicabili ai rapporti di lavoro. In alcune

ipotesi, la legge riserva per sé soltanto una funzione sussidiaria o suppletiva, attribuendo alla

contrattazione collettiva il ruolo di fonte principale, o autorizzandola, addirittura, a

disapplicare disposizioni imperative dettate dalla legge stessa.

I rinvii operati dalla legge alla contrattazione collettiva non determinano una

funzionalizzazione di quest’ultima, né, tantomeno, la trasformazione della natura del sindacato.

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La contrattazione è sempre espressione di autonomia privata, garantita pure essa dal primo

comma dell’articolo 39 della Costituzione, e quindi resta libera, in quanto le parti stipulanti

conservano libertà di scelta sia in ordine all’an (ossia se stipulare o meno il contratto nelle

materie devolute dal legislatore), sia in ordine ai contenuti. Quindi, la legge si limita a fare

propri i contenuti dei contratti collettivi, favorendone l’estensione ultra partes e rafforzandone

gli effetti, ma giammai conferisce al sindacato lo svolgimento di funzioni pubbliche o il compito

di perseguire interessi di natura pubblica.

A ben vedere, i rinvii alla contrattazione collettiva implicano soltanto che il legislatore ha

valutato che il modo in cui le organizzazioni sindacali compongono i loro interessi privati,

ancorché collettivi, corrisponde anche all’interesse pubblico. Eterne, ma sempre accese,

dispute ruotano attorno alla collocazione sistematica del contratto collettivo nel sistema delle

fonti del diritto, che sono innescate proprio dall’ambivalenza dei piani sui quali esso si muove

ed opera. Il contratto collettivo è atto di autonomia, con cui soggetti privati, ancorché di natura

collettiva, regolano i propri interessi.

E, di conseguenza, deve ritenersi che esso non può essere in alcun modo considerato un “atto”

avente forza di legge, la cui stessa configurabilità presupporrebbe l’attribuzione di una potestà

normativa all’autore del fatto, nonché il suo espresso inserimento nel sistema delle fonti. Ma,

allo stesso tempo, se si ha riguardo all’“uso” che il legislatore fa dei risultati dell’autonomia

sindacale, è possibile affermare che essi sono utilizzati in una dimensione diversa e più ampia.

Una dimensione nella quale il contratto collettivo è considerato nella sua “materialità”, ed

assume il rilievo di un “fatto” che è utilizzato pe regolare una materia che il legislatore stesso

non intende, e non può, completamente regolare a livello di fonti primarie, stante la

competenza riconosciuta all’autonomia collettiva dall’articolo 39 della Costituzione.

31. Il sostegno della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro

Il rapporto tra Stato e sindacati ha ricevuto una profonda innovazione ad opera della legge 300

del 1970, con la quale il legislatore ha perseguito l’obiettivo di promuovere la presenza e

l’azione del sindacato nei luoghi di lavoro. La legge ha operato in due direzioni. Per un verso, ha

15
previsto diritti di libertà sindacale a favore, indistintamente, di tutti i lavoratori dell’impresa,

quali: il diritto di ogni lavoratore di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere

attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro; il diritto di raccogliere contributi e di svolgere

attività di proselitismo.

A tutela di tali diritti, ha anche sancito il divieto di atti discriminatori determinati da ragioni

sindacali, e il divieto di sindacati di comodo costituiti o finanziati dai datori di lavoro. Infine, ha

introdotto uno speciale procedimento giudiziale per la repressione della condotta

antisindacale del datore di lavoro, ossia di quei “comportamenti diretti ad impedire o limitare

l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

Per altro verso, il legislatore ha dettato una specifica disciplina “promozionale” volta a

sostenere la costituzione e l’attività di determinate “rappresentanze sindacali aziendali”. Tali

rappresentanze sindacali aziendali erano quelle costituite ad “iniziativa dei lavoratori in

azienda”, “nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente

rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette

confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro

applicati nell’unità produttiva”.

Il legislatore non ha regolato forma e struttura di tali rappresentanze, in coerenza con il

principio della libertà dell’organizzazione sindacale. Per quanto riguarda, invece,

l’individuazione dei sindacati nel cui “ambito” possono essere costituite le rappresentanze

sindacali aziendali, il legislatore statutario operò una chiara opzione a favore di un modello di

organizzazione sindacale non meramente aziendale, e, precisamente, a favore del sindacato di

dimensioni e struttura confederale o, quantomeno, nazionale o provinciale.

In altri termini, entrambi i criteri previsti dall’articolo 19 intendevano selezionare i sindacati

meritevoli del sostegno legale in relazione alla loro rappresentatività, ma la rappresentatività

alla quale veniva attribuita rilevanza non era quella che il sindacato aveva all’interno del

singolo luogo di lavoro. Infatti, la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali veniva

16
consentita ai sindacati aderenti alle “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano

nazionale”.

La giurisprudenza ha chiarito che tale qualificazione discende non solo dal numero degli iscritti

e dall’effettivo esercizio dell’attività di autotutela, ma anche dalla equilibrata presenza in un

ampio arco di settori produttivi e in larga parte del territorio nazionale. Il criterio alternativo

annoverato nella seconda ipotesi richiedeva che il sindacato avesse almeno la capacità di

stipulare contratti collettivi a livello nazionale o provinciale, applicati all’unità produttiva. Alle

rappresentanze sindacali aziendali così costituite sono stati riconosciuti: il diritto di indire

assemblee fuori dell’orario di lavoro e, nel limite di 10 ore annue retribuite, durante l’orario

stesso; di indire referendum su materie inerenti all’attività sindacale, sempre al di fuori

dell’orario di lavoro; il diritto di affissione e, per le unità produttive di maggiori dimensioni,

anche il diritto di avere a disposizione un idoneo locale per l’esercizio delle loro funzioni.

Inoltre, per i dirigenti di tali rappresentanze, sono stati previsti una speciale tutela in caso di

licenziamento e di trasferimento ed il diritto di fruire di permessi sindacali, retribuiti e non

retribuiti. L’insieme di queste tutele e di questi diritti, dai quali derivano corrispondenti obblighi

del datore di lavoro e limiti ai suoi poteri, ha realizzato, così, un intervento deciso

dell’ordinamento statuale volto a modificare i rapporti di forza esistenti, nei luoghi di lavoro, tra

datori di lavoro e sindacato, con l’obiettivo di rafforzare quest’ultimo e la sua attività.

Peraltro, la legge 300 del 1970 ha riconosciuto la competenza delle rappresentanze sindacali

aziendali anche in materia negoziale, prevedendo che, per alcune forme di controllo sui

lavoratori da parte del datore di lavoro, sia necessaria la conclusione di un accordo con tali

rappresentanze. Tenuto conto di ciò, e considerato che l’attività delle rappresentanze sindacali

aziendali è regolata dalla legge ed è destinata a svolgere i suoi effetti su tutti i lavoratori

dell’unità produttiva, in questi nuovi organismi è stata individuata una forma di rappresentanza

assimilabile a quella di natura istituzionale, per distinguerla dalla tradizionale rappresentanze

del sindacato di natura associativa.

17
SEZ.III. I nuovi problemi della rappresentanza sindacale

Nel rapporto tra sindacato e legge, lo Statuto dei lavoratori e gli anni immediatamente

successivi costituiscono un netto “spartiacque”. Se il disegno sotteso allo Statuito dei lavoratori

era quello di sostenere l’azione dei sindacati maggiormente rappresentativi e il loro potere

rivendicativo, l’inversione del contesto economico e i più generali mutamenti connessi alle

trasformazioni della società post industriale ed ai fenomeni della globalizzazione hanno

introdotto questioni del tutto nuove per l’attività di rappresentanza sindacale, che hanno

contrassegnato l’evoluzione successiva sino ai giorni nostri. Anzitutto, in seguito alla grande

crisi iniziata a metà degli anni settanta, è venuto modificandosi il rapporto tra legge e

contrattazione collettiva.

In particolare, è accaduto che, in taluni casi, per il perseguimento di interessi pubblici

preminenti, il legislatore abbia fissato dei “tetti” invalicabili dall’autonomia collettiva. In altri più

frequenti casi, utilizzando la tecnica della deregolazione “controllata”, la legge ha affidato agli

stessi sindacati maggiormente rappresentativi, o alle loro rappresentanze sindacali aziendali, il

compito di gestire le conseguenze della crisi, individuando le ipotesi in cui al datore di lavoro è

consentito applicare condizioni meno favorevoli dello standard legale, o compiere atti che

incidano sfavorevolmente sui singoli rapporti di lavoro.

Inoltre, al fine di acquisire il consenso necessario per realizzare politiche pubbliche che

implicano sacrifici, il Governo ha iniziato a coinvolgere le maggiori confederazioni sindacali

anche nella definizione di scelte di interesse generale, dando così vita al metodo detto dalla

“concertazione sociale”. Senonché, si è verificata una crisi della rappresentatività dei maggiori

sindacati, ricollegabile a diverse ragioni, quali: il venir meno dell’identità socialtipica del mondo

del lavoro attorno al quale le confederazioni “storiche” erano nate ed avevano sviluppato la

propria azione; l’insofferenza delle categorie di lavoratori in possesso di particolari

competenze nei confronti delle politiche egualitarie o solidaristiche, proprie del sindacalismo

18
confederale; una maggiore presenza del sindacalismo autonomo e l’esplosione dei c.d. comitati

di base, in grado di conquistare una particolare visibilità.

La crisi di rappresentatività, a sua volta, ha fatto sentire i suoi effetti sia sulla tenuta del sistema

sindacale di fatto, sia sul modello statutario del sostegno al sindacato maggiormente

rappresentativo. Rispetto ai presupposti che avevano assicurato la tenuta del sistema

sindacale di fatto, da un lato, si è manifestata l’impossibilità di continuare a fare a meno della

disciplina di legge prevista dall’articolo 40 della Costituzione, in quanto il sindacato

confederale non è stato più in grado di continuare ad assicurare l’esercizio responsabile del

diritto di sciopero nei settori nei quali maggiormente attivi erano i sindacati autonomi e i

comitati di base.

D’altro lato, per quanto riguarda la contrattazione collettiva, sono emersi problemi di efficacia

del tutto nuovi rispetto a quelli ai quali la legge, la dottrina e la giurisprudenza avevano in

precedenza trovato soluzione. Anzitutto, una contrattazione divenuta non sempre acquisitiva,

implicando scelte difficili, ha determinato casi di rottura dell’unità sindacale e la stipulazione di

accordi “separati”. Inoltre, una contrattazione collettiva dai contenuti (a volte) peggiorativi, ha

fatto sì che il rifiuto della sua applicazione provenisse non più da quei datori di lavoro che

intendono sottrarsi agli obblighi previsti dalla disciplina sindacale, bensì da parte di lavoratori

che si ritengono penalizzati dalle scelte del sindacato.

Per quanto riguarda le rappresentanze sindacali aziendali, le successive vicende hanno

determinato una totale “riscrittura” dell’articolo 19 della legge 300 del 1970, ed hanno indotto

le stesse confederazioni sindacali a tentare di “autoriformare” tale organismo con l’introduzione

e la regolamentazione delle “rappresentanze sindacali unitarie”. Inoltre, non è stata ritenuta

idonea ad assicurare l’efficacia generale dei contratti collettivi stipulati dai sindacati

riconosciuti maggiormente rappresentativi neppure nei casi in cui il legislatore abbia fatto

espressamente rinvio ad essi.

Tutto ciò, ha riportato al centro del dibattito sia sindacale che politico l’ipotesi di dare

attuazione alla seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione o, comunque previa riforma di

19
quest’ultimo, di dettare una disciplina speciale di legge in materia di rappresentanza sindacale

e di contrattazione collettiva. Di recente, le maggiori confederazioni sindacali sono riuscite a

definire una organica regolamentazione, anche se questa soffre dei limiti di efficacia propri

degli atti di natura contrattuale. Il legislatore ha invece continuato, sino ad oggi, a mantenere al

riguardo un atteggiamento astensionistico.

L’unico elemento di relativa novità appare il graduale abbandono del criterio della maggiore

rappresentatività e il ricorso, in sua sostituzione, alla nozione di sindacato “comparativamente

più rappresentativo”, utilizzata oggi sempre più spesso per individuare i soggetti legittimati a

stipulare i contratti collettivi che hanno il compito di integrare o derogare la disciplina legale.

Va infine aggiunto che, periodicamente, emerge una diffidenza da parte del potere pubblico nei

riguardi del sindacato e della capacità di quest’ultimo di partecipare alla realizzazione degli

obiettivi ritenuti di interesse generale.

E così, il legislatore ha più volte ridotto il ruolo che egli stesso aveva attribuito alla

contrattazione collettiva, ad esempio in materia di autorizzazione alla stipula di contratti di

lavoro flessibile. In altri casi, le disposizioni di legge, pur facendo rinvio ai contratti collettivi,

prevedono che, in caso di inerzia o mancato accordo da parte delle organizzazioni sindacali,

operi uno strumento alternativo o sostituivo in modo da assicurare che la legge stessa possa

produrre i suoi effetti.

In linea più generale, alcune recenti riforme sono state approvate nonostante il dissenso e

l’opposizione sindacale, o di alcuni dei più importanti sindacati. Per le stesse ragioni anche la

concertazione sociale non è riuscita a consolidarsi come prassi stabile di governo. Appare

chiaro, infatti, che il Governo fa ricorso ad essa quando ha bisogno di rafforzare il proprio

consenso, o le confederazioni sindacali sono molto forti ed unite; altrimenti la concertazione è

messa da parte, ed è sostituita dal ben diverso metodo del c.d. “dialogo sociale”, ridotto spesso a

vuoto rito formale, mediante il quale il potere pubblico, pur impegnandosi a coinvolgere i

sindacati, si riappropria interamente delle proprie competenze e delle proprie responsabilità.

33. La regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali

20
Il legislatore ha attuato l’articolo 40 della Costituzione, dettando una disciplina volta a regolare

l’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, al fine di garantire la

salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. I diritti della persona, con i

quali il diritto di sciopero deve essere contemperato, sono il diritto alla vita, alla salute, alla

libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale,

all’istruzione e alla libertà di comunicazione.

E i servizi pubblici, di cui la legge opera una elencazione esemplificativa, sono tutti quelli

essenziali per garantire tali diritti, essendo irrilevante se essi vengano svolti da lavoratori

pubblici o privati, autonomi o subordinati. Da ultimo, tra tali servizi è stata prevista anche

“l’apertura al pubblico regolamentata di musei e altri istituti e luoghi della cultura”. Al fine di

assicurare “l’effettività, nel loro contenuto essenziale”, di tali diritti, la legge prevede obblighi,

procedure e limiti che devono essere osservati in caso di conflitto collettivo.

Anzitutto, i soggetti che proclamano lo sciopero hanno l’obbligo di dare il preavviso, con

comunicazione scritta, che non può essere inferiore a 10 giorni, indicando preventivamente

anche la durata delle singole astensioni dal lavoro, tranne il caso in cui si tratti di sciopero in

difesa dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità o della

sicurezza dei lavoratori. Inoltre, lo sciopero deve essere esercitato “nel rispetto di misure

dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili” per garantire le finalità della

legge.

L’individuazione di tali prestazioni è demandata ai contratti collettivi stipulati tra le

amministrazioni o le imprese erogatrici dei servizi e i sindacati dei lavoratori, ovvero, nel caso

dei lavoratori autonomi, dei professionisti e dei piccoli imprenditori, dai codici di

autoregolamentazione adottati da loro associazioni o organismi di rappresentanza. La

valutazione della effettiva idoneità delle prestazioni così individuate “a garantire il

contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con gli altri diritti della persona” è

demandata ad una autorità amministrativa indipendente (la Commissione di garanzia

dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali).

21
In caso di valutazione negativa, la Commissione stessa formula una proposta alle parti e,

qualora questa non venga accettata, le misure di cui trattasi sono individuate dalla stessa

Commissione con una propria “regolamentazione provvisoria”, che è efficace sino al momento

in cui le parti interessate raggiungano un accordo ritenuto idoneo. La Commissione ha, altresì,

il potere di valutare il comportamento tenuto dalle parti in occasione dello sciopero e, nel caso

di valutazione negativa, di deliberare sanzioni.

Nei confronti dei lavoratori, possono essere comminate sanzioni disciplinari proporzionate alla

gravitò dell’infrazione, con esclusione del licenziamento. Nei confronti delle organizzazioni dei

lavoratori, invece, può essere comminata la sospensione dei permessi sindacali retribuiti e dei

contributi sindacali trattenuti sulla retribuzione, nonché l’esclusione dalle trattative alle quali

partecipino. Nel caso in cui queste sanzioni non risultino applicabili, ossia nel caso in cui si tratti

di organizzazione sindacale che non partecipa alle trattative e non fruisce dei benefici di ordine

patrimoniale, è prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.

Specifiche sanzioni sono, infine, previste anche nei confronti di dirigenti e legali rappresentanti

di amministrazioni pubbliche, imprese ed enti erogatori dei servizi pubblici essenziali, allorché

essi violino gli obblighi previsti dalla legge anche a loro carico. Nel caso in cui dallo sciopero

possa derivare “il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente” per i diritti della

persona costituzionalmente tutelati, è previsto l’intervento del competente organo del potere

esecutivo, che, di propria iniziativa o su proposta della Commissione di garanzia, può anche

ricorrere all’istituto della precettazione.

34. Le modifiche alla disciplina legale delle rappresentanze sindacali aziendali

I criteri individuati dall’articolo 19 della legge 300 del 1970 riservavano il diritto di costituire

rappresentanze sindacali aziendali ai sindacati aventi una effettiva rappresentatività a livello

confederale (o, quantomeno, nazionale e provinciale), rendendo irrilevante se quei sindacati

avessero o no un seguito rappresentativo anche in azienda. La Corte Costituzionale aveva

respinto le questioni di legittimità costituzionale proposte con riguardo all’articolo 19 della

legge 300 del 1970.

22
In particolare, la Corte ebbe modo di affermare che: il criterio selettivo previsto da tale

disposizione è razionale e necessario per evitare il proliferare di organismi costituiti da “singoli

individui” o “piccoli gruppi isolati”; il riferimento alla nozione di “maggiore rappresentatività” a

livello confederale è diretto a “favorire un processo di aggregazione e di coordinamento degli

interessi dei vari gruppi professionali, anche al fine di ricomporre, ove possibile, le spinte

particolaristiche in un quadro unitario”.

Senonché, con la sentenza 30 del 1990, la Corte Costituzionale ha rilevato che “è andata

progressivamente attenuandosi l’idoneità del modello disegnato nell’articolo 19 a rispecchiare

l’effettività della rappresentatività”. La norma statutaria è stata profondamente modificata,

dapprima per effetto del referendum di iniziativa popolare del giugno 1995 e, più

recentemente, della sentenza della Corte Costituzionale n.231 del 2013. Con il referendum del

1995 è stato escluso che l’accesso al sostegno legale dovesse necessariamente passare

attraverso il riconoscimento della rappresentanza sindacale aziendale da parte di un sindacato

confederale o, comunque, nazionale o provinciale.

Ne è derivata una profonda modifica dell’articolo 19 della legge 300 del 1970, che consente la

costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali “nell’ambito delle associazioni sindacali

che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”, e, quindi,

anche di contratti stipulati a livello aziendale. Pertanto, il nuovo testo seleziona i sindacati

nell’ambito dei quali possono essere costituite rappresentanze sindacali aziendali sulla base di

un unico indicatore di rappresentatività effettiva, costituito dalla forza e dalla capacità del

sindacato stesso di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale, prescindendo

dalla sua dimensione organizzativa.

Di qui, la precisazione che, per essere considerati “firmatari di un contratto collettivo applicato

nell’unità produttiva”, è necessaria la partecipazione attiva al processo di formazione del

contratto collettivo; ed è necessario, altresì, che si tratti di un contratto collettivo che regoli i

rapporti di lavoro in azienda, almeno per un istituto o settore importante della loro disciplina.

Sul piano degli effetti pratici, però, considerato che i principali attori della contrattazione sono

le confederazioni storiche e le loro diverse strutture ed articolazioni, la modifica referendaria

23
non ha minimamente scalfito le oramai solide radici del sindacalismo confederale all’interno

degli organismi sindacali aziendali.

Senonché uno dei più clamorosi episodi di rottura dell’unità sindacale ha determinato un nuovo

intervento della Corte Costituzionale, che, con la sentenza 231 del 2013, ha dichiarato

l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19 della legge 300 del 1970 “nella parte in cui non

prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di

associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità

produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali

rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.

La decisione della Corte è stata condizionata dalla particolarità della vicenda, nella quale

l’esclusione di un sindacato certamente rappresentativo dalla possibilità di avere proprie

rappresentanze sindacali aziendali era derivata dal fatto che quel sindacato aveva rifiutato di

sottoscrivere il contratto collettivo stipulato da altri sindacati, ritenendolo non corrispondente

agli interessi dei lavoratori rappresentati. Tuttavia, la nuova disposizione dell’articolo 19 della

legge 300 del 1970, come risultante a seguito della modifica referendaria e della sentenza 231

del 2013, realizza un totale distacco dal testo e dalla ratio originari.

La promozione delle rappresentanze sindacali aziendali, nell’originario testo statutario, era

basata sulla necessaria riconduzione della “iniziativa” della base dei lavoratori nell’ambito di

organismi di livello extraziendale, quale requisito necessario per sostenere l’azione del

sindacato di ispirazione solidarista, nonché evitare sia un’eccessiva frammentazione della

rappresentanza sindacale sia la “aziendalizzazione” di quest’ultima. La sentenza 231 del 2013

ha eliminato l’ultimo elemento di collegamento con l’originario modello statutario, facendo

venire meno la rilevanza dell’attività contrattuale quale criterio selettivo per la costituzione

delle rappresentanze sindacali aziendali.

Dalla motivazione della sentenza 231 del 2013, appare chiaro che, ai fini della costituzione

delle rappresentanze sindacali aziendali, non rileva la mera partecipazione alle trattative, bensì

rileva quella partecipazione alle trattative che derivi da una effettiva rappresentatività del

24
sindacato. Senonché, mancando nel settore privato una disciplina di legge che preveda i

requisiti di rappresentatività dei soggetti sindacali legittimati a trattare, può risultare difficile,

per non dire impossibile, verificare quando la partecipazione alle trattative sia giustificata dalla

effettiva rappresentatività o dipenda da una concessione ingiustificata da parte del datore di

lavoro.

35. Le rappresentanze sindacali unitarie

Le confederazioni sindacali si sono mostrate consapevoli della necessità di introdurre nuovi

strumenti di verifica del consenso per legittimare l’azione delle rappresentanze sindacali

aziendali. E così, anche con l’obiettivo di realizzare una unità di azione almeno a livello

aziendale, con il Protocollo del 2003 e il collegato Accordo interconfederale del 1993 è stata

prevista la possibilità della costituzione di rappresentanze sindacali unitarie individuate con

elezioni aperte a tutti i lavoratori in azienda.

I nuovi organismi avrebbero dovuto sostituire le rappresentanze sindacali aziendali. In

particolare, la partecipazione dei lavoratori alle elezioni configura senz’altro il requisito della

iniziativa da parte dei lavoratori in azienda, mentre il collegamento con i sindacati è assicurato

dal fatto che le rappresentanze sindacali unitarie vengono elette sulla base di liste presentate

dai sindacati che hanno sottoscritto i contratti collettivi nazionali di lavoro applicati nell’unità

produttiva.

Di conseguenza, ai nuovi organismi di rappresentanza unitaria è stata riconosciuta la titolarità

degli stessi diritti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva in favore delle

rappresentanze sindacali aziendali. Tuttavia, la diffusione delle rappresentanze sindacali

unitarie in Italia è, ancora oggi, limitata, poiché in molte aziende non si è proceduto alla

indizione delle elezioni. Peraltro, nei confronti dei nuovi organismi è stata anche mossa una

critica di incompleta democrazia sindacale, poiché la disciplina che li regola prevede che un

terzo dei componenti non sia eletto dai lavoratori bensì sia assegnato direttamente alle liste

25
presentate dalle associazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto collettivo nazionale

di lavoro applicato nell’unità produttiva.

Un tentativo di rilancio e diffusione delle rappresentanze sindacali unitarie è stato, quindi,

previsto dal Testo Unico sulla rappresentanza Confindustria Cgil, Cisl e Uil del 2014.

Quest’ultimo ha dettato una nuova disciplina delle rappresentanze sindacali unitarie,

regolando le modalità di costituzione e di funzionamento, nonché la disciplina delle elezioni, e

attribuendo ad esse anche la legittimazione a concludere contratti aziendali, senza il

necessario coinvolgimento delle organizzazioni sindacali.

36. Regolamentazione negoziale della rappresentatività, titolarità ed efficacia della

contrattazione collettiva.

I ripetuti episodi di “rottura” dell’unità sindacale, e le frequenti manifestazioni di dissenso

collettivo ed individuale nei confronti dei contratti collettivi, hanno posto in crisi i principi

dell'auto legittimazione rappresentativa e della pari dignità reciproca su cui era fondato il

sistema sindacale “di fatto”, sollecitando le maggiori confederazioni sindacali a prevedere,

insieme alla “autoriforma” della rappresentanza in azienda, anche quella delle regole che

presiedono alla contrattazione collettiva.

In particolare, il T.U. sulla rappresentanza del 2014 prevede che sono ammesse alla

contrattazione collettiva nazionale i sindacati di categoria aderenti alle confederazioni

firmatarie che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la

media tra il numero delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori e i voti

espressi in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie. Tuttavia, è stabilito

che, ai soli fini previsti dall’articolo 19 della legge 1970, si intendono “partecipanti alla

negoziazione” le organizzazioni sindacali che, oltre ad avere raggiunto almeno il 5% di

rappresentanza, abbiano contribuito alla definizione della cd. “piattaforma” che ha dato avvio

alla negoziazione stessa.

26
Le parti sociali, inoltre, stabiliscono che i contratti collettivi nazionali di lavoro siano efficaci

quando sono sottoscritti da organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% più uno

dei lavoratori rappresentati, previa “consultazione certificata” di questi ultimi “a maggioranza

semplice”. È, altresì, previsto che i contratti così stipulati siano “pienamente esigibili” nei

confronti di tutte le organizzazioni sindacali che costituiscono espressione delle

confederazioni firmatarie. Per quanto riguarda i contratti aziendali, sono previste due

discipline alternative, a seconda del modello di rappresentanza presente in azienda. Nel caso di

rappresentanze sindacali unitarie, i contratti sono efficaci ed esigibili se approvati dalla

maggioranza dei componenti.

Nel caso, invece, di contratti aziendali sottoscritti dalle rappresentanze sindacali aziendali, è

riconosciuta la medesima efficacia solo se le rappresentanze firmatarie sono costituite

nell’ambito delle associazioni sindacali nazionali che risultano destinatarie della maggioranza

delle deleghe conferite dai lavoratori dell’azienda. È, inoltre, previsto che nel caso in cui ne

faccia richiesta un’organizzazione sindacale espressione di una delle confederazioni firmatarie,

o almeno il 30% dei lavoratori in azienda, il contratto sottoscritto dalle rappresentanze

sindacali aziendali deve essere sottoposto al voto dei lavoratori.

Le nuove regole dettate dalle confederazioni sindacali non sono idonee ad attribuire ai

contratti collettivi efficacia erga omnes, potendo tale efficacia derivare esclusivamente da un

atto che abbia forza di legge. Ciò nonostante, ove gli adempimenti e le procedure previste dalla

nuova disciplina venissero compiutamente realizzati, risulterebbero limiti gli effetti del

dissenso da parte di una o più organizzazioni sindacali rispetto al contratto collettivo stipulate

da altre.

E non vi è dubbio che è proprio il dissenso di natura sindacale che ha rappresentato negli ultimi

anni la causa prevalente delle problematiche legate all’efficacia soggettiva del contratto

collettivo. Resta, però, da valutare, nell’esperienza concreta, l’effettivo funzionamento delle

nuove regole. Ed infatti, da un lato, l’applicazione di tali regole presuppone una serie di

adempimenti, che coinvolgono anche soggetti terzi (quale la convenzione che dovrebbe essere

stipulata con l’INPS per la rilevazione del numero delle deleghe).

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D’altro lato, va rilevato che, trattandosi di una fonte negoziale, l’effettiva “tenuta” delle nuove

regole dipende dalla spontanea accettazione (prima) e osservanza (poi) di quel sistema da parte

delle stesse organizzazioni sindacali, e, in particolare, dei sindacati di categoria, mancando, allo

stato, efficaci sanzioni irrogabili a carico delle strutture che rifiutino di impegnarsi al rispetto

del Protocollo o che, pur dopo essersi impegnati, lo violino. Infine, l’organizzazione sindacale

che non assume in proprio l’impegno di rispettare le nuove regole resta libera di contestare

l’esigibilità del contratto collettivo stipulato dagli altri sindacati e, in sostanza, di promuovere le

conseguenti azioni di contrasto.

Anche l’organizzazione che, invece, si sia impegnata a rispettare quelle regole, potrebbe

successivamente sottrarsi alla loro applicazione, invocando la facoltà di recesso riconosciuta in

via generale dall’ordinamento nei confronti dei vincoli negoziali assunti a tempo indeterminato.

37. Il decentramento contrattuale

La realtà italiana, storicamente fondata su grandi organizzazioni sindacali nazionali, ha dato

vita ad una forte centralizzazione della contrattazione collettiva. Centralizzazione che ha

consentito di assicurare l’applicazione generalizzata di livelli minimi di trattamento economico

e normativo del lavoro nei diversi comparti o settori produttivi. L’applicazione generalizzata dei

contratti collettivi nazionali di lavoro ha consentito di evitare che la concorrenza tra imprese e

la concorrenza tra lavoratori fosse basata sul dumping sociale, ossia la tendenza assunta da

alcune imprese di localizzare le attività più redditizie e produttive in zone in cui sono più

vantaggiose.

In una prospettiva ancora più ampia, il “governo” centralizzato della disciplina sindacale ha

consentito di coniugare coesione sociale e politiche di sviluppo. Da tempo, però, il sistema

centralizzato di contrattazione collettiva non è più in grado di produrre effetti positivi né per le

imprese, né per i lavoratori, in quanto quel sistema – in un mercato divenuto globale – non è più

in grado di svolgere efficacemente il ruolo di regolazione della concorrenza, essendo il suo

campo di applicazione legato al territorio nazionale e non potendo quindi vincolare le imprese

situate all’estero.

28
Ne è derivato che, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, il valore delle retribuzioni è

entrato in una lunga fase di stallo, tuttora in essere, facendo emergere, in tutta la sua criticità,

la questione dell’impoverimento di quote crescenti di popolazione. Tutto ciò, oltretutto, è

avvenuto mentre anche la competitività delle imprese si è andata riducendo a causa dello

scarso incremento degli indici di produttività rispetto ai paesi esteri concorrenti.

Inoltre, è da considerare che l’uniformità della disciplina dettata dai contratti collettivi

nazionali di categoria non può tenere conto delle condizioni specifiche delle singole realtà

aziendali, che risultano sempre più differenziate in relazione ai tipi e metodi di lavorazione,

professionalità utilizzate, mercati di riferimento. Negli ultimi anni, le parti sociali hanno, quindi,

avviato trattative dirette a ridefinire modelli e struttura della contrattazione. Ma gli esiti sono

fortemente condizionati dalle differenti valutazioni che le parti stesse hanno in ordine alla

funzione del contratto nazionale, essendo evidente che l’effettiva diffusione della

contrattazione di secondo livello dipende dagli spazi che le vengono lasciati in materia

retributiva dai contratti nazionali.

Attualmente, in base al Testo Unico sulla rappresentanza Confindustria-Cgil, Cisl e Uil del

2014, è previsto che la funzione del contratto nazionale è quella “di garantire la certezza dei

trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati

nel territorio nazionale”. Di conseguenza, la contrattazione aziendale può essere esercitata

soltanto in relazione alle materie delegate dallo stesso contratto nazionale.

È, però, prevista una generale competenza del livello aziendale ad “attivare strumenti di

articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici

contesti produttivi”, sia pure “nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti

collettivi aziendali di lavoro”. Ed è altresì stabilito che, ove il contratto aziendale non regoli tali

limiti e procedure, le “rappresentanze sindacali operanti in azienda”, sia pure “d’intesa” con le

organizzazioni sindacali territoriali, possono comunque definire “intese modificative con

riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione di

lavoro, gli orari e l’organizzazione del lavoro”, in vista dell’obiettivo di “gestire situazioni di crisi

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o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale

dell’impresa”.

38. Il “sostegno” legale alla contrattazione aziendale

Il legislatore ha iniziato a mostrare un chiaro favore nei confronti della contrattazione di

secondo livello adottando misure volte ad incentivare le retribuzioni legate ad incrementi di

produttività, redditività, qualità, innovazione ed efficienza organizzativa. La ratio di tali misure

è quella di spostare la “distribuzione” della retribuzione correlata alla produttività nei luoghi in

cui quest’ultima può essere effettivamente misurata e dove effettivamente si realizzano i

risultati che possono dare luogo ad un “dividendo” tra i lavoratori.

Successivamente, il legislatore ha tentato di imprimere una decisa accelerazione nella

direzione della “adattabilità” del sistema contrattuale alle esigenze degli specifici contesti

produttivi, con l’articolo 8 del decreto legislativo 138 del 2011. Tale disposizione attribuisce ai

contratti collettivi stipulati a livello aziendale e territoriale la possibilità di sottoscrivere

“intese” efficaci nei confronti di tutti i lavoratori interessati, in relazione ad un ventaglio molto

ampio di “materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione”.

Diversi sono i punti critici dell’intervento del legislatore. La disciplina di legge, infatti, incide

sugli equilibri endosindacali e intersindacali, ed è stata perciò sospettata di essere in contrasto

con il principio di libertà sindacale di cui all’articolo 39, comma 1 della Costituzione, in quanto

estende la gamma delle materie rimesse alla contrattazione di prossimità e conferisce a

quest’ultima un potere di derogare non solo la contrattazione nazionale, ma anche la legge. Si

dubita, altresì, della costituzionalità della attribuzione di efficacia generale alle intese in

questione, poiché tale attribuzione è disposta sulla base di un modello diverso da quello

previsto dall’ultimo comma dell’articolo 39 della Costituzione.

Ma una parte della dottrina obietta che questa ultima disposizione costituzionale

riguarderebbe esclusivamente i contratti di categoria e, quindi, non sarebbe applicabile ai

contratti di diverso livello. Peraltro, il modello dell’articolo 8 del decreto legge 138 del 2001 si

fonda sul principale requisito desumibile dal precetto costituzionale, poiché l’efficacia generale

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delle “intese” è riconosciuta a condizione che esse siano sottoscritte “sulla base di un criterio

maggioritario” riferito alle rappresentanze sindacali legittimate alla loro stipulazione.

Si contesta, infine, l’ampiezza delle materie sulle quali è stato concesso alla contrattazione di

prossimità il potere di derogare la legge, poiché quel potere non è limitato a specifiche ipotesi

come era sempre avvenuto nei precedenti casi in cui il legislatore aveva fatto ricorso al modello

della “deregolazione controllata”, così da suscitare il timore che ciò possa mettere a rischio

l’intero sistema legale di tutela del lavoro. Ma va sottolineato che la delega alla contrattazione

prossimità, per quanto ampia, non ha un “ambito illimitato”, poiché riguarda solo le specifiche

materie tassativamente elencate.

Ed inoltre, quella delega trova un limite invalicabile nella condizione che essa operi nel

“rispetto della Costituzione” e dei “vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle

convenzioni internazionali sul lavoro”; ditalché il timore di uno “smantellamento” della tutela

legale appare infondato. In ogni caso, è da constatare come le polemiche che hanno

accompagnato l’articolo 8 del decreto legislativo 138 del 2011 abbiano determinato una sua

limitata applicazione da parte delle organizzazioni sindacali.

E anche la legislazione successiva sembra non tenere conto dell’esistenza di tale disposizione,

prevedendo norme che prefigurano la volontà di promuovere, indirettamente, la

contrattazione territoriale e aziendale, ma senza prevedere una sovraordinazione di tali livelli

contrattuali rispetto al contratto nazionale. Di particolare rilievo è la tecnica normativa

utilizzata dal decreto legislativo 81 del 2015, avente ad oggetto la “disciplina organica dei

contratti di lavoro”, e la “revisione della normativa in tema di mansioni”.

Ed infatti, dopo aver fatto frequente rinvio ai “contratti collettivi”, tale decreto legislativo

stabilisce che tale rinvio è riferito, indistintamente, ai “contratti collettivi nazionali, territoriali

o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano

nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali

ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

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Da ciò si desume sia una valutazione di pari idoneità dei diversi livelli di contrattazione a

realizzare gli scopi della legge, sia il riconoscimento che, rispetto alla disciplina legale, la

contrattazione aziendale può essere svolta dagli organismi di rappresentanza presenti in

azienda anche senza la “assistenza” o la “intesa” delle strutture aziendali esterne.

40. I diritti di informazione e consultazione

Sia prima che dopo la parentesi del periodo corporativo, le relazioni sindacali in Italia sono

state contrassegnate da una forte impronta conflittuale. La natura precettiva dell’articolo 40

della Costituzione, e la configurazione del diritto di sciopero come diritto assoluto (sul piano

dei diritti della persona) e come diritto potestativo (sul piano dei rapporti obbligatori), hanno

consentito che il suo esercizio fosse liberamente ed immediatamente fruibile, anche in assenza

delle leggi che avrebbero dovuto regolarlo.

La “via” del conflitto ha potuto essere percorsa senza limiti, e talvolta anche poco

responsabilmente a causa della enfatizzazione della teoria della titolarità individuale e, più

recentemente, della frammentazione della rappresentanza sindacale. Ed invece, la natura

programmatica dell’articolo 46 della Costituzione, in mancanza di una legge che fissi “modi” e

“termini” con i quali i lavoratori possono collaborare alla gestione dell’impresa “in armonia con

le esigenze della produzione”, non ha favorito la costruzione della modalità della partecipazione

e l’accesso ad essa.

Le prime forme di partecipazione, giustamente definita “debole”, sono comunemente

individuate nei diritti di informazione e consultazione sindacale, che sono stati introdotti nella

parte c.d. “obbligatoria” dei contratti collettivi e con i quali le organizzazioni dei lavoratori

hanno imposto il loro ruolo di “interlocutori” nei procedimenti decisionali che riguardano la

gestione dell’impresa nel suo complesso, e non soltanto il trattamento dei lavoratori in senso

stretto.

L’introduzione dei diritti di informazione e consultazione fu favorita dal rafforzamento del

sistema di rappresentanza sindacale in azienda voluto dalla legge 300 del 1970. Rafforzamento

che ha reso concretamente esigibili le nuove tipologie di diritti sindacali e che, effettivamente,

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puntava proprio alla realizzazione di un vero e proprio “contropotere” volto a limitare la

discrezionalità dell’imprenditore ed a promuovere la democrazia in azienda.

Si tratta, però, di forme di partecipazione “debole”, perché informazione e consultazione non

implicano “congestione” o “codeterminazione”, né incidono sulla titolarità del potere di

direzione dell’impresa (e sulla responsabilità delle conseguenti decisioni), che è e resta

dell’imprenditore. Sulla stessa scia si muove anche la disciplina comunitaria, che, pur

rivolgendo una particolare attenzione al tema della partecipazione, ha dovuto tenere conto

della eterogeneità delle situazioni nazionali e delle resistenze frapposte dalle rappresentanze

delle imprese anche a livello europeo.

Le crisi ripetute e prolungate del nuovo secolo spingono ora il sistema delle relazioni industriali

verso una nuova stagione che può contribuire ad “inoculare” nel sistema stesso “dosi” di cultura

e pratica partecipativa, riducendo, nel contempo, gli eccessi di una conflittualità esasperata,

coltivati nel malinteso senso di una duplice inattuazione costituzionale. Ed infatti, riducendosi

gli spazi per continuare a realizzare una crescita uniforme a livello nazionale dei trattamenti

retributivi, sia le parti sociali che il legislatore stanno oggi rivalutando il modello partecipativo

non soltanto in una prospettiva, meramente difensiva, di controllo dei poteri dell’imprenditore,

ma anche in quella (espansiva) della partecipazione ai profitti.

La partecipazione dei lavoratori alle performance dell’impresa anche quando sono positive,

oltreché stimolare la competitività e la crescita dei salari reali, può implicare un mutamento

profondo nella cultura e nella prassi delle relazioni tra capitale e lavoro, promuovendo

condivisione di obiettivi e favorendo comportamenti responsabili e cooperativi. A questo fine,

la legge 92 del 2012 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi

“finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso

la stipulazione di un contratto collettivo aziendale”.

La legislazione delegata avrebbe dovuto prevedere, tra l’altro, la partecipazione dei lavoratori

“agli utili o al capitale dell’impresa”, la istituzione di un consiglio di sorveglianza nelle società

per azioni e nelle “società europee”, e “l’accesso privilegiato dei lavoratori dipendenti al

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possesso di azioni, quote del capitale dell’impresa, o diritti di opzione sulle stesse”. Senonché le

previsioni della legge 92 del 2012 sono rimaste inattuate, poiché il Governo non ha esercitato

la delega che gli era stata conferita.

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