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MARIO LENTANO

PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM:


UNA LETTURA DELL’ELEGIA 4, 11

Estratto dal volume :

ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO


CENTRO STUDI POESIA LATINA IN DISTICI ELEGIACI

PROPERZIO FRA
TRADIZIONE E INNOVAZIONE
ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE
Assisi-Spello, 21-23 maggio 2010

a cura di
Roberto Cristofoli, Carlo Santini e Francesco Santucci

ASSISI – 2012
MARIO LENTANO

PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM:


UNA LETTURA DELL’ELEGIA 4, 11

Nell’aprire il mio contributo desidero anzitutto ringraziare l’Accade-


mia properziana del Subasio per il generoso invito a prendere parte a
questa sessione dei suoi lavori. Io mi occupo di antropologia del mondo
antico, ma sono anche un allievo di Paolo Fedeli, i cui meriti nel campo
degli studi su Properzio non hanno bisogno di essere ricordati; l’occa-
sione di questo convegno mi dà dunque modo di far convergere, in una
sintesi che spero non infelice, entrambe le componenti della mia forma-
zione.

1. Il visitatore della splendida cattedrale di Bamberga, nel distretto


bavarese dell’Alta Franconia, voluta dall’imperatore Enrico II nei primis-
simi anni dell’XI secolo, rimane colpito anzitutto dal sepolcro marmoreo
che serba i resti dell’imperatore stesso e di sua moglie, santa Cunegon-
da. Cunegonda era stata incoronata insieme al marito a Roma, nel 1014,
da papa Benedetto VIII; dopo la morte di Enrico e la successiva ascesa
al trono di Corrado II, si ritirò in monastero e lì rimase sino alla mor-
te, avvenuta intorno al 1040. I rilievi che si ammirano oggi intorno al
sepolcro sono però molto più recenti: essi risalgono al primo scorcio del
Cinquecento e rispecchiano la tradizione biografica che si era nel frat-
tempo stratificata intorno alla coppia imperiale. In particolare, uno dei
riquadri del sarcofago mette in scena una Cunegonda sontuosamente
abbigliata, con il viso concentrato ma sereno, mentre si sottopone ad
una prova di chiaro carattere ordalico: l’imperatrice solleva delicatamen-
te la veste e pone i propri piedi nudi su lastre di metallo incandescente,
disposte a costituire una sorta di camminamento; Enrico è presente alla
prova e si prepara a compiacersi del suo felice superamento, che anche
lo spettatore è chiamato a inferire dall’espressione sicura di Cunegonda.
L’accusa dalla quale l’imperatrice si difendeva, come sappiamo dalle fonti
agiografiche, era quella di aver violato il proprio voto di verginità: quello
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tra i due sovrani era stato infatti, per comune consenso, un matrimonio
bianco, e questa circostanza aveva evidentemente propiziato il diffonder-
si di voci e sospetti a carico di Cunegonda. La prova delle lastre ardenti
veniva ora a tacitare quelle insinuazioni e a restituire all’onore della
regina la sua piena integrità 1.
All’indomani dell’anno Mille, il motivo della “prova di verginità” ha
naturalmente una lunga vicenda dietro le spalle, che ha lasciato traccia
cospicua di sé nella tradizione letteraria. Nel Leucippe e Clitofonte ad
esempio, l’avventuroso romanzo di Achille Tazio scritto probabilmente
fra II e III secolo d.C., le prove sono ben due, e riguardano tanto la
protagonista della movimentata vicenda, la bellissima Leucippe, quando
Melite, chiamata a difendersi dall’accusa di infedeltà coniugale. Nel pri-
mo caso l’ordalia è così descritta dal romanziere:
Quando perciò qualcuna è accusata di non essere vergine, il popolo
l’accompagna qui fino alla porta della spelonca, e la zampogna [del dio
Pan] giudica la controversia. La fanciulla entra, parata nella veste rituale, ed
un altro chiude la porta della spelonca. E se è vergine, si ode una musica
melodiosa e divina [...]. Se invece essa ha mentito nel dirsi vergine, al posto
della musica dall’antro esce un lamento, e subito il popolo si allontana e
lascia la donna nella spelonca. Il terzo giorno la vergine sacerdotessa del
luogo entra e trova la zampogna a terra, e la donna scomparsa 2.

Nel caso di Leucippe, invece, deputata a strumento per questo tipo


di prova è la sorgente dello Stige, presso Efeso:
Quando qualcuna è accusata di rapporti venerei – spiega Achille Tazio –,
discesa nella fonte, si lava, ed è piccola la fonte e arriva fino a mezza
gamba. Il giuramento si fa in questo modo: scritta la formula del giuramen-
to su una tavoletta, la donna se l’appende al collo, legata ad una cordicella:
e, se il giuramento che fa non è falso, l’acqua rimane al suo posto, se
invece è falso, l’acqua si gonfia e sale fino al collo e copre la tavoletta 3.

1
Sulla figura di Cunegonda i dati essenziali sono in Gordini (1964), in particolare
coll. 398-99 sulle raffigurazioni dell’ordalia o di Cunegonda con il vomere in mano; secon-
do Gordini, l’attestazione più antica sulla prova dei vomeri ardenti (vomeres candentes) è
costituita dall’anonima Vita della santa imperatrice redatta oltre un secolo dopo la sua
morte, quando il culto di Cunegonda aveva già saldamente preso piede, e leggibile nella
Patrologia latina, vol. CXL, coll. 205-22, in particolare col. 207 per il racconto dell’ordalia.
Cfr. anche i dati e la bibliografia forniti da Bartlett 1986, 16 ss., in particolare 17, nota 11.
2
Achille Tazio, 8, 6, 12-14 (trad. di Q. Cataudella).
3
Achille Tazio, 8, 12, 8-9 (trad. di Q. Cataudella). Sul passo cfr. Sissa 1984, 1122 ss.
e 1992, 73 ss. e ora Castelletti 2006, 270 ss., con numerosi paralleli con altre ordalie
dell’acqua.
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Inutile dire che entrambe le protagoniste del romanzo superano sen-


za difficoltà le rispettive prove.
Il motivo ha poi un’attestazione in Properzio stesso, all’interno di
un’elegia affascinante quanto complessa come la 4, 8, oggetto di una
specifica relazione al convegno assisiate del 2004 e sulla quale non
posso purtroppo qui indugiare: a Lanuvio, all’interno dei riti in onore
di Iuno Sospita, ogni anno una vergine veniva fatta scendere in una
cavità buia e profonda, con una cesta di cibo da offrire a un enorme
serpente celato sul fondo della voragine. Se la fanciulla era illibata,
spiega l’altra fonte che ci ragguaglia sul singolare rito, il poligrafo Clau-
dio Eliano, il serpente accettava l’offerta; in caso contrario i cibi resta-
vano intatti, perché l’animale era in grado di conoscere in anticipo
l’impurità della donna 4.
Direi però che nella tradizione medievale il precedente più imme-
diato per questo genere di racconti è costituito da un episodio relativo
alla Madonna stessa: se infatti nei vangeli canonici la verginità di Maria
appare come un dato non controverso, ben diversa è la situazione nei
testi apocrifi, nei quali invece la purezza della Madonna suscita una
diffusa incredulità e necessita dunque di essere confermata attraverso
una serie di prove. In particolare, gli anonimi autori del Protovangelo di
Giacomo e del cosiddetto Vangelo dello pseudo-Matteo imbastiscono un rac-
conto nel quale dopo il concepimento del Cristo Maria, che insiste nel
dichiarare la propria verginità, viene sottoposta dai sacerdoti del tempio
alla prova dell’ “acqua amara”, un rito appartenente alla tradizione ebrai-
ca e lungamente descritto nel libro vetero-testamentario dei Numeri. Se-
condo le prescrizioni del testo biblico, il marito che sospetta un’infedel-
tà della moglie deve condurla davanti ad un sacerdote; questi darà da
bere alla donna dell’acqua consacrata nella quale è stata disciolta una
certa quantità di polvere raccolta dal pavimento del tabernacolo. Al
termine di un articolato rituale la donna ingerisce la bevanda: se è
colpevole, l’acqua le procura fitte intollerabili; in caso contrario, l’as-
senza di dolore dimostra invece la sua innocenza 5. Naturalmente anche

4
Cfr. rispettivamente Properzio, 4, 8, 3-13 e Claudio Eliano, La natura degli animali,
11, 16. Lo studio cui faccio riferimento, da assumere peraltro con cautela, è Mastroiaco-
vo 2005; per ulteriore bibliografia sul passo mi permetto di rimandare a Lentano 2007,
46-47, nota 35.
5
Cfr. Numeri, 5, ampiamente commentato da James Frazer in un ricchissimo capito-
lo del suo Folk-lore in the Old Testament (Frazer 1918, vol. III, 304-414). Cfr. ora l’interes-
sante contributo di Porter 2008, che alle pp. 56-57, nota 19, reca una vasta bibliografia
sul passo vetero-testamentario.
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la Madonna supera senza alcuna difficoltà la prova, confermando così


oltre ogni dubbio il carattere soprannaturale della sua gravidanza 6.
Cunegonda, insomma, come Maria: un parallelo tanto più invitante
in quanto, come si diceva poc’anzi, anche quello tra l’imperatrice e l’au-
gusto consorte, al pari dell’unione tra Maria e Giuseppe, era stato un
matrimonio non consumato, quello che nella cultura medievale era chia-
mato per l’appunto “matrimonio di san Giuseppe”. Il punto sul quale
vorrei attirare l’attenzione è però la scelta di effigiare la prova dei vo-
meri ardenti sul sepolcro della santa: l’infamante accusa della quale
Cunegonda era stata oggetto non viene in alcun modo occultata; essa
diventa semmai l’occasione che ha consentito all’imperatrice, grazie al
sostegno della divinità, di fugare ogni dubbio circa la sua controversa
castità.

2. Spostiamoci ora di un millennio più indietro, anche se conti-


nuiamo a parlare di sepolcri e della loro complessa interazione con il
mondo dei vivi. Nel suo bel saggio Il folclore a Roma, apparso per la
prima volta nel 1983, Paul Veyne osserva non senza stupore che nelle
epigrafi funerarie latine vizi e colpe del defunto venivano additate al
biasimo del lettore senza troppi infingimenti o attenuazioni, anche sem-
plicemente per ribadire che il dedicatario dell’epigrafe ne era rimasto
immune, e rintraccia il medesimo atteggiamento in numerosi testi lette-
rari, pertinenti ai generi più diversi. Veyne conclude che « Era dunque
un complimento, a Roma, lodare una moglie perché non è adultera e
un adolescente perché non ha costumi equivoci. Bisogna credere che,
per loro, ciò che meravigliava non era il vizio bensì la virtù: si lodava la
gente per il fatto di non avere determinati vizi ». Lo studioso francese
continua quindi rilevando che « la censura dell’opinione pubblica era
dura; essa tendeva, osiamo dire, a dare voti al di sotto della sufficienza.
Tale rigorismo si spiega senza dubbio con l’ideale assai esigente e mai
realizzato che il subconscio collettivo degli Antichi sognava [...]: ogni
cittadino deve considerarsi al servizio della città; egli non è un semplice
governato bensì uno strumento di governo. Il che esigeva da lui le ele-
vate qualità individuali che ci si può aspettare da un soldato di carriera
o da un militante » 7.
In realtà, quella che emerge da un’epigrafe funeraria è solo l’ultima
e definitiva immagine di sé che l’individuo negozia con il contesto che

6
Cfr. rispettivamente Protovangelo di Giacomo, 16 e Vangelo dello pseudo-Matteo, 12.
7
Veyne 1990, 203-204.
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lo circonda e che per tutta la vita lo ha osservato e giudicato. In una


“società del faccia a faccia”, quale è per molti versi quella romana,
uomini e donne si muovono infatti costantemente entro una “foresta di
occhi”, come è stato efficacemente detto, nella quale il comportamento
individuale è esposto in permanenza allo scrutinio dello sguardo altrui;
e non si tratta, di norma, di uno sguardo benevolo o indulgente, tut-
t’altro 8.
È soprattutto il rispetto delle norme che attengono alla sfera della
sessualità ad essere oggetto, com’è prevedibile, di una vigilanza sociale
particolarmente attenta: non a caso si tratta dell’ambito cui si riferisco-
no anche gli esempi citati da Veyne. Prendiamo un tema di grande
rilievo come la legittimità della discendenza: preoccupazione centrale in
una cultura come quella romana, patriarcale e patrilineare, nella quale,
a giudizio di uno specialista come Yan Thomas, due sono le ossessioni
di un padre, quella di vedersi sottrarre il frutto del proprio seme e
quella, speculare, di vedersi assegnare un figlio che non appartenga a
lui 9. Questa preoccupazione si esprime, tra l’altro, attraverso una serie
di racconti che sceneggiano il tentativo da parte di un figlio di confer-
mare attraverso le proprie azioni o il superamento di specifiche prove il
proprio titolo ad appartenere al genus familiare da cui proviene. Tali
prove si realizzano quasi sempre alla presenza di un pubblico, chiamato
a verificarne l’avvenuto superamento; inoltre, il lessico adottato nelle
storie che le raccontano ruota intorno ad una costellazione di termini
tutti legati alla sfera della prova, della testimonianza, della ricerca indi-
ziaria, da argumentum a indicium, da testis a fides a pignus, da probare a

8
Di “società del faccia a faccia” a proposito del mondo antico parla ad esempio
Vernant 2000, X: « In una società del faccia a faccia, in una cultura della vergogna e
dell’onore in cui la competizione per la gloria lascia poco spazio al senso del dovere e
ignora quello del peccato, l’esistenza di ognuno è posta incessantemente sotto lo sguar-
do degli altri. L’immagine di sé si costruisce nell’occhio di chi ci sta di fronte, nello
specchio che questo ci presenta. Non esiste coscienza della propria identità senza questo
altro che ci riflette e si contrappone a noi, fronteggiandoci ». L’immagine della “foresta
di occhi” è invece in Gleason 1990 (= 1995, 55). Interessante, anche ai fini della succes-
siva analisi sull’elegia 4, 11 di Properzio, un passo delle Epistulae ex Ponto ovidiane,
rivolto alla moglie del poeta esule: Quidquid ages igitur, scaena spectabere magna / et pia non
parvis testibus uxor eris. / Crede mihi, quotiens laudaris carmine nostro / qui legit has laudes an
mereare rogat. / Utque favere reor plures virtutibus istis / sic tua non paucae carpere facta volent. /
Quarum tu presta ne livor dicere possit / « haec est pro miseri lenta salute viri » (3, 1, 59-66;
ringrazio qui la dottoressa Beatrice Larosa per la cortese segnalazione di questa pagina
ovidiana).
9
Cfr. Thomas 1987, 200-201.
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explorare a fidem facere. A quanto pare, insomma, nella cultura romana la


legittimità parla il linguaggio del processo e delle prove che in esso
vengono addotte allo scopo di decidere della colpevolezza o dell’inno-
cenza di un imputato; l’accertamento della legittimità di un figlio è
avvertito alla stessa stregua dell’accertamento della verità in un tribuna-
le, come una costruzione a più voci che prevede l’interazione di un
accusato, di un giudice e di un pubblico in grado di valutare gli argo-
menti messi in campo dalle parti. L’ascrizione alla stirpe non appare
come un dato pacifico, né la nascita come tale fornisce, di per sé, alcu-
na garanzia in merito; piuttosto, la legittimità deve essere dimostrata al
termine di un’istruttoria che coinvolge virtualmente l’intera collettività e
nella quale ogni indizio utile è accuratamente soppesato da giudici esi-
genti e sospettosi. Quel che più conta, infine, in questo genere di rac-
conti non sembra funzionare alcuna presunzione di innocenza: al con-
trario, si direbbe che nella cultura romana ogni figlio sia potenzialmen-
te illegittimo sino a quando non abbia potuto dimostrare il contrario 10.
Ora, a me sembra che una percezione analoga, e analogamente so-
spettosa, investa a Roma anche un altro aspetto di grande rilevanza
come la pudicizia femminile, e che questo presupposto consenta di ac-
costarsi con strumenti interpretativi più adeguati ad uno dei testi più
celebrati dell’intero corpus properziano, sul quale ora finalmente concen-
tro la mia attenzione: l’elegia 4, 11, la regina elegiarum, l’elogio funebre
della matrona Cornelia 11.

3. Io credo che oggi nessuno più consideri la 4, 11 la minuta di


un testo da incidere sul sepolcro di Cornelia o ritenga che Properzio
abbia concepito la sua elegia alla stregua di un’iscrizione funeraria 12; e
tuttavia l’elogio postumo della matrona assolve, come spero di dimostra-
re, un ruolo non dissimile da quello che il rilievo con l’ordalia di santa

10
Ho ripreso qui succintamente le conclusioni di Lentano 2007, 235 ss., cui riman-
do per una trattazione più ampia del problema della legittimità e delle relative prove
nella cultura romana.
11
Questa premessa può aiutare altresì a intendere perché il discorso di Cornelia,
nel quale l’elegia 4, 11 in ultima istanza si risolve, appaia una « defensio ohne Anklage »,
come si è detto di recente (Gebhardt 2009, 162): il fatto è che anche nel caso della
pudicizia femminile non vale alcuna presunzione di innocenza, ed è da questo che la
matrona properziana si difende. Preciso che tutte le citazioni properziane presenti in
questo contributo seguono l’edizione teubneriana di Paolo Fedeli (1984), di cui discuto
peraltro, nelle prossime pagine, alcune soluzioni testuali.
12
Ci crede ancora Hallet 1985, 77.
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Cunegonda svolge sulla tomba dell’imperatrice germanica o quello delle


epigrafi che tanto avevano sollecitato l’interesse di Paul Veyne. Già, per-
ché anche l’elegia 4, 11 mette in scena, com’è ben noto, un processo:
un processo nel quale compare un’accusata, che è insieme anche l’avvo-
cato di se stessa, in cui esiste una corte, un presidente della giuria, dei
testimoni, un pubblico chiamato ad assistere al dibattimento, assimilabi-
le alla corona dei tribunali romani e al pari di quest’ultima perentoria-
mente invitato a serbare il silenzio perché l’arringa possa avere inizio 13.
Questo aspetto del carme properziano non è stato, a mio avviso, suffi-
cientemente valorizzato, mentre appare centrale per la corretta interpre-
tazione dell’elegia: le tanto celebrate virtù di Cornelia – il suo statuto di
univira, la cura che esibisce nei confronti dei propri familiari, e soprat-
tutto la pudicitia che ha ispirato il suo lungo matrimonio con Paolo
Emilio Lepido – sono bensì ripetutamente proclamate nel discorso della
donna, ma non appaiono dati pacificamente ammessi e che come tali
possano essere semplicemente enunciati; al contrario, la matrona avver-
te il bisogno di ribadirli e rivendicarli e lungamente difenderli nel corso
di un dibattimento che è pur sempre, almeno virtualmente, aperto alla
possibilità che le ragioni dell’imputata escano soccombenti.
Di che natura sia l’accusa dalla quale Cornelia si difende è chiarito in
versi che sono posti, non a caso, nel cuore stesso dell’elegia (vv. 41-44):

me neque censurae legem mollisse neque ulla


labe mea vestros erubuisse focos.
Non fuit exuviis tantis Cornelia damnum:
quin et erat magnae pars imitanda domus.

L’ultimo commentatore di Properzio, Gregory Hutchinson, ha osser-


vato a proposito di questi versi che l’accumulo delle negazioni nella
frase recante il giuramento di Cornelia (neque... neque... non... quin...)
contrasta con il carattere assertivo dell’analoga assicurazione di fedeltà

13
La natura di arringa difensiva del discorso di Cornelia è stata enfatizzata in
particolare da Cicerale 1978, che rintraccia nelle parole della matrona, non senza qual-
che forzatura, le articolazioni di una vera e propria orazione giudiziaria; cfr. ora Gebhardt
2009 sulle « prozessuale Situationen » nell’elegia latina, in particolare pp. 160 ss. sulla 4,
11. Approfitto per osservare che intento foro, al v. 22, difficilmente significherà « rigorous
court » (così, sia pure con qualche dubbio, Hutchinson 2006); intentus ha piuttosto il
significato che riveste in Virgilio, Eneide, 2, 1 (conticuere omnes intentique ora tenebant), dove
è ugualmente abbinato all’idea del “tacere” (conticuere in Virgilio, taceant in Properzio, al
v. 23). Sul comportamento spesso rumoroso del pubblico durante i processi a Roma cfr.
ora la ricca sintesi di Bablitz 2007, in particolare 133 ss.
118 MARIO LENTANO

prestata da Cinzia nella 4, 7, un’elegia i cui molteplici punti di contatto


con la 4, 11 sono stati da tempo rilevati: Cinzia che rivolgendosi al
poeta afferma senz’altro me servasse fidem 14. Hutchinson non va oltre que-
sta constatazione; ma le diverse espressioni della medesima rivendicazio-
ne non dipendono solo da scelte stilistiche o sintattiche differenti e in
fondo arbitrarie: il fatto è che Cinzia non ha una lex censurae da osser-
vare, Cornelia sì.
È l’adulterio infatti, com’è naturale, la violazione cui Cornelia fa
riferimento in questi versi. La nozione di vergogna cui rimanda un ver-
bo come erubuisse ne è un chiaro segnale: in un bel frammento del
perduto De matrimonio di Seneca, conservato da Girolamo, della donna
che osserva la pudicitia si afferma che essa bene meretur de maioribus, quo-
rum sanguinem furtiva subole non vitiat, bene de liberis, quibus nec de matre
erubescendum nec de patre dubitandum est 15. Qui Seneca coglie con chiarez-
za la posizione della donna come cerniera fra le generazioni, come sno-
do mai del tutto affidabile eppure imprescindibile di un percorso che
connette strettamente antenati e discendenti. Ecco perché la pudicizia
descritta dal filosofo è bifronte, guarda sia verso il passato che verso il
futuro, sia verso gli antenati, da cui la donna riceve, trasmesso attraver-
so le generazioni, il patrimonio di virtù del gruppo familiare, sia verso i
discendenti, cui questo patrimonio va consegnato integro. Ho parlato
non a caso di “patrimonio”, giacché è proprio alla sfera patrimoniale
che fa riferimento un termine come damnum, impiegato da Cornelia al
v. 43: come ha ben spiegato Émile Benveniste, damnum designa in lati-
no anzitutto la spesa, la perdita di denaro, poi più in generale la situa-
zione che consegue ad una menomazione della propria ricchezza 16. Na-
turalmente però il “danno” cui Cornelia si dichiara estranea non intacca
alcun bene concretamente inteso: ciò che la matrona ha preservato è
piuttosto il patrimonio immateriale della stirpe cui essa appartiene, quel
capitale invisibile fatto di onore, prestigio, credibilità pubblica, altrettan-
to essenziale nella definizione dell’identità aristocratica e suscettibile al
pari dell’altro di essere compromesso o senz’altro dilapidato. Come la
sposa pudica di Seneca, anche la matrona properziana, insomma, ha
ben meritato dei propri antenati.

14
Hutchinson 2006, 239, nota al v. 41. Analisi congiunte delle due elegie properzia-
ne sono offerte tra gli altri da Lange 1979; Dimundo 1990, 88-95; Rambaux 2001, 309-
12; Dufallo 2003 e 2007; cfr. anche Ramsby 2007, 66-70; Gebhardt 2009, 162-63.
15
Si tratta del fr. 78 Haase = 50 Vottero.
16
Alludo a note pagine di Benveniste 1979, vol. II, 455-56.
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 119

Proprio i maiores, del resto, sono evocati da Cornelia nei versi imme-
diatamente precedenti come garanti del giuramento che la donna si
accinge a prestare (vv. 37-40):

Testor maiorum cineres tibi, Roma, colendos,


sub quorum titulis, Africa, tunsa iaces,
et Persen proavi s[t]imulantem pectus Achilli,
quique tuas proauo fregit Achille domos.

Sono gli Scipioni che hanno schiacciato l’Africa, è Emilio Paolo che
ha stroncato le velleità di Perseo, cui si allude in un distico testualmente
assai compromesso e sul quale mi soffermo poco più avanti 17. Sono loro
che la matrona prende a testimoni, è alla loro virtù che essa fa appello,
una virtù al riparo da ogni contestazione perché consegnata per sempre
alla memoria collettiva attraverso le imprese che essi hanno compiuto e
che Cornelia succintamente richiama. Che degli exploits bellici siano in-
vocati per ribadire il rispetto della pudicizia coniugale potrebbe appari-
re come l’ennesima conferma della vecchia intuizione di Jean-Pierre Ver-
nant per cui il matrimonio costituisce per le donne ciò che la guerra
rappresenta per gli uomini; ma nelle parole di Cornelia non c’è solo
questo. Nella cultura romana i maiores sono oggetto di divinizzazione:
sono gli dei o divi parentes, o parentum, divinità della famiglia la cui
natura è stata indagata in tempi recenti da una specifica ricerca di Mau-
rizio Bettini 18. Proiezione tra i defunti dei meccanismi di parentela esi-
stenti tra i vivi, gli dei parentes, scrive Bettini, hanno altresì il compito di
« vegliare sulle regole di comportamento sessuale della famiglia », in
quanto ad essi « veniva attribuita la capacità di mantenere un certo con-
trollo sui discendenti vivi ». Questo scrutinio può risolversi in una piena
approvazione del comportamento del discendente, che acquista allora i
tratti di una prova di legittimità felicemente superata: è il caso dei
maiores evocati in un celebre elogium epigrafico, quello di Cornelio Sci-
pione Ispano – siamo dunque ancora una volta nel contesto di una
iscrizione funeraria –, i quali lodano il proprio discendente e si com-

17
Gli Scipioni, e non solo l’Emiliano, perché nell’evocazione delle vittorie in Africa
è alluso implicitamente anche l’Africano, come giustamente interpreta una parte degli
studiosi (cfr. Camps 1965, 158, nota ai vv. 29-30; Spagnuolo Vigorita 2002, 33 e 124,
nota 99; Hutchinson 2006, 238, nota al v. 37; Heyworth 2008, 511; Syndikus 2010, 365,
nota 328); contra Zecchini 2005, 102, che vede inoltre in questi versi della 4, 11 una
« conferma della freddezza di Properzio verso l’Africano », e Scardigli 2008, 156 e 164.
18
Alludo a Bettini 2009, di cui cito più in basso le pp. 119 e 124.
120 MARIO LENTANO

piacciono che egli sia nato da loro 19; ma quel comportamento può an-
che scelerare gli dei parentes, secondo l’espressione impiegata da Catullo,
ovvero imprimere su di essi una labes, come vuole la Cornelia properzia-
na, quando esso non si conforma alle regole culturali delle quali i maio-
res sono considerati depositari e insieme garanti 20.
Mi permetto a questo punto di aprire una brevissima parentesi filo-
logica. Io non saprei addurre nuove proposte testuali per il tormentato
distico 39-40; sono abbastanza incline a ritenerlo un locus desperatus,
come fa la Viarre nella recente edizione Belles Lettres di Properzio; e
tuttavia mi sentirei piuttosto sicuro nell’accettare la variante simulantem
in luogo di stimulantem, accolta da Fedeli nella sua teubneriana, nono-
stante la presunta imitazione del passo properziano da parte di Silio
Italico, che sembra presupporre la lezione trasmessa da quasi tutti i
manoscritti 21.
Io credo infatti che di Perseo Properzio volesse sottolineare proprio
la sua natura di discendente fasullo di Achille, e che il verbo simulo
abbia dunque nel verso della nostra elegia la medesima valenza che si
coglie in un passo di Velleio Patercolo, casualmente relativo ancora alla
casata macedone: « dopo la sconfitta e la cattura di Perseo », spiega Vel-
leio, « lo Pseudo-Filippo, così chiamato dalla menzogna di una discen-

19
CIL I2 15 (= ILS 6 = ILLRP 316 = Courtney 1995, n. 13, con commento alle
pp. 228-29): Virtutes generis mieis moribus accumulavi, / progeniem genui, facta patris petiei. /
Maiorum optinui laudem ut sibei me esse creatum / laetentur: stirpem nobilitavit honor. Ho citato
la bibliografia su questo documento fondamentale della cultura repubblicana latina in
Lentano 2007, 174, nota 49.
20
Cfr. ancora Bettini 2009, 113 ss. L’espressione divos scelerare parentes è in Catullo,
64, 404, labes è al v. 42 dell’elegia properziana.
21
La storia delle cure filologiche ed esegetiche su questo tormentato distico proper-
ziano è lunga e non può essere analiticamente ripercorsa in questa sede; rimando quindi
al Thesaurus criticus di Smith (1970, 335 ss.), al Commentarius criticus di Enk (1978, 355 ss.)
e più recentemente alla Cynthia di Heyworth (2008, 511) e alla ponderata valutazione di
Formicola (2011, 54-55). Numerose anche le proposte di diversa dislocazione dei due
versi: da ultimo Finkenauer 2001 propone di collocarli fra i vv. 30 e 31. Divergenti, come
spesso, le scelte degli editori properziani più recenti: mentre Viarre 2005, come si è det-
to, pone fra cruces l’intero distico, Giardina 2005 ne propone di fatto una vera e propria
riscrittura, stampando et Persei proavo stimulatum pectus Achille / quique tuas, proavus, fregit,
Achille, domos e traducendo « e Lucio Emilio Paolo, che sconfisse l’arroganza di Perseo,
stimolata dall’avere Achille come antenato, / e la tua casata, Achille antenato di Perseo »;
infine, l’oxoniense di Heyworth 2007 stampa et <..., et illum> / qui tumidas proavo fregit
Achille domos. La supposta imitazione di Silio Italico, che fa propendere molti editori per
il mantenimento di stimulantem, è in 14, 93-95 (tam praecipiti materna furori / Pyrrhus origo
dabat stimulos proavique superbum / Aeacidae genus atque aeternus carmine Achilles).
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 121

denza fasulla (simulatae originis) e che dava ad intendere di essere Filip-


po e di appartenere a stirpe regale, laddove invece era di condizione
infima, [...] in breve tempo scontò la pena della sua sfrontatezza »; era
stato questa volta Quinto Cecilio Metello a incaricarsi di smentire le
pretese del Filippo spurio schiacciando la sollevazione di cui questi si
era posto a capo 22. Tanto nel caso del Perseo properziano quanto in
quello dello Pseudo-Filippo di cui parla Velleio siamo dunque di fronte
ad una prova di legittimità mancata: se proprio l’analogia tra le azioni
di un soggetto e quelle dei suoi maiores è il pegno più probante dell’ap-
partenenza ad un certo genus, la mancata rassomiglianza ne costituisce,
per converso, la smentita più secca; l’inettitudine bellica di Perseo, così
come la rapida sconfitta dello Pseudo-Filippo, fungono insomma da di-
sconferma, smascherano la loro abusiva pretesa di discendere dal più
valoroso degli eroi greci e di appartenere alla famiglia regale macedone,
tradiscono la falsità di una costruzione genealogica spuria quanto scioc-
camente pretenziosa.
Non occorre ipotizzare, come qualcuno ha fatto, che Properzio fosse
a conoscenza delle voci secondo le quali Perseo non era figlio di Filippo V,
a differenza del fratello Demetrio, ovvero era nato dalla relazione del
sovrano macedone con una concubina, voci attestate per noi da Livio,
Plutarco ed Eliano 23; secondo lo storico latino, in particolare, Perseo,
« nato da una donna che si dava a tutti, non aveva alcun tratto che
indicasse chiaramente la sua paternità » 24. Naturalmente, è possibile che
Properzio avesse letto da qualche parte questa storia, ma dimostrarlo

22
Velleio Patercolo, 1, 11, 1: Post victum captumque Persen, qui quadriennio post in libera
custodia Albae decessit, Pseudophilippus, a mendacio simulatae originis appellatus, qui se Philip-
pum regiaeque stirpis ferebat, cum esset ultimae, armis occupata Macedonia, adsumptis regni insi-
gnibus, brevi temeritatis poenas dedit. È interessante che secondo la periocha 49 di Livio lo
Pseudo-Filippo – che si chiamava in realtà Andrisco – sosteneva di essere nato da Perseo
e da una concubina (ex paelice se et Perseo rege ortum), replicando forse quanto si raccon-
tava a proposito dello stesso Perseo, cfr. subito appresso nel testo. Aggiungo che difficil-
mente simulantem in Properzio andrà inteso nel senso di « qui tenta d’imiter », come
propone Coutelle 2005, 575.
23
L’ipotesi è formulata da La Penna 1993; le fonti antiche sulla presunta origine
illegittima di Perseo sono costituite da Livio, 39, 53, 3 (citato qui sotto, alla nota 24);
Plutarco, Emilio Paolo, 8, 11; Arato, 54, 7; Claudio Eliano, Varia storia, 12, 43.
24
Livio, 39, 53, 3: nam etsi minor aetate quam Perseus esset [scil. Demetrius], hunc iusta
matre familiae, illum paelice ortum esse; illum ut ex volgato corpore genitum nullam certi patris
notam habere, hunc insignem similitudinem Philippi prae se ferre. Si noti che l’espressione
illum paelice ortum esse è pressoché identica a quella impiegata dalla periocha di Livio a
proposito dello Pseudo-Filippo nel passo citato alla nota 22.
122 MARIO LENTANO

non è in fondo così importante; il poeta elegiaco non intendeva pro-


nunciarsi in merito alla corretta genealogia del sovrano macedone: quel-
lo che gli interessava era contrapporre la mancata rassomiglianza tra
Perseo e il suo presunto avo Achille alla perfetta adeguatezza di Corne-
lia alle virtù dei suoi antenati, anche se ai trionfi di questi ultimi sui
nemici sconfitti fa da pendant, nel caso della matrona, il femineus trium-
phus su quella tendenza all’adulterio che costituisce, nella cultura roma-
na, la cifra più profonda della natura femminile (vv. 71-72):

Haec est feminei merces extrema triumphi,


laudat ubi emeritum libera fama rogum 25.

4. Riprendiamo allora il filo del nostro discorso precedente: il ca-


rattere difensivo del discorso di Cornelia, la sua natura di arringa tesa a
ribadire l’innocenza della matrona, si manifesta infatti anche in altri
punti della lunga elegia. Tra coloro che non dovranno arrossire per lei
sono menzionate infatti anche Quinta Claudia e la vestale Emilia, que-
st’ultima, come osservano tutti i commentatori, appartenente alla mede-
sima gens di Paolo e del suo avo vincitore della Macedonia (vv. 49-54):

quaelibet austeras de me ferat urna tabellas:


turpior assessu non erit ulla meo.
Vel tu, quae tardam movisti fune Cybeben,
Claudia, turritae rara ministra deae,
vel cuius cassos cum Vesta reposceret ignis,
exhibuit vivos carbasus alba focos.

Ora, è significativo che in entrambi i casi Cornelia abbia scelto figure


la cui pudicizia era stata messa in dubbio e che avevano dovuto fugare i
dubbi sulla propria reputazione attraverso prove concettualmente non dis-
simili da quella affrontata dall’imperatrice Cunegonda. Le vicende sono
note e ben attestate nelle fonti: la matrona Claudia libera da sola la
nave che trasporta lungo il Tevere il simulacro della dea Cibele e che
sembrava irrimediabilmente incagliata in una secca del fiume; la vestale
Emilia è accusata di violazione dell’obbligo di verginità dopo che il fuoco

25
I trionfi militari, campo di espressione della virtus maschile, e la pudicizia, in cui
si manifesta invece il “trionfo” femminile, sono affiancati e contrapposti in un altro
interessante frammento del De matrimonio senecano, il n. 79 Haase: Viros consulatus illu-
strat, eloquentia in nomen aeternum effert, militaris gloria triumphusque novae gentis consecrat.
Multa sunt, quae praeclara ingenia nobilitent: mulieris virtus proprie pudicitia est.
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 123

sacro è stato trovato spento, ma viene sciolta da ogni addebito quando


fa nuovamente brillare la fiamma gettandovi sopra la propria veste. Nel-
la versione del primo episodio che si legge in Appiano, contro Claudia è
anzi in corso un vero e proprio processo per adulterio, ma i giudici non
si sono ancora pronunciati sulla colpevolezza dell’imputata; quando gli
indovini proclamano che solo una donna immune dal contatto con uo-
mini estranei (xénoi ándres, che traduce il latino alieni viri) potrà liberare
la nave con il simulacro della Magna Mater, Claudia si fa avanti ed ese-
gue con facilità il compito, dimostrando così l’inconsistenza degli addebi-
ti che le venivano rivolti 26. Nel suo caso come in quello di Emilia è
dunque l’intervento divino, preventivamente invocato, a consentire alle
donne di vedere riconosciuta la propria innocenza. In una versione che
è attestata per noi a partire da Seneca, anche Claudia diventa una vesta-
le sospettata di incesto; l’accostamento con Emilia presente in Properzio
potrebbe far supporre che una tradizione del genere fosse nota già in
età augustea, ma l’ipotesi non è necessaria; ancora in Ovidio Claudia è
una matrona di nobilissima origine, al pari di Cornelia, casta quidem, sed
non et credita; a sollevare dubbi sulla sua pudicizia sono il cultus raffinato,
le acconciature elaborate, un linguaggio giudicato troppo sciolto dai rigi-
di senes dei suoi tempi 27. La sua vicenda, e quella di Emilia, ricordano le
testimonianze relative a un’altra vestale accusata di incesto, Tuccia, an-
ch’essa liberatasi dai sospetti, almeno secondo una parte della tradizione
che la riguarda, attraverso una prova di tipo ordalico: dopo aver invoca-
to Vesta, Tuccia riempie con l’acqua del Tevere un crivello, che reca poi
al tempio della dea senza che una sola goccia d’acqua si spanda dal
contenitore, sorta di inversione di quella pena inflitta negli inferi alle
Danaidi sulla quale dovrò tornare tra breve 28.
Insomma, anche in questo caso Cornelia evoca casi di pudicizia con-
testata, spesso attraverso i rumores di anonimi osservatori – siamo pur

26
Appiano, 7, 56: « A quanto si dice, la nave che recava il simulacro si bloccò in
una secca del Tevere e in nessun modo poteva essere smossa; alla fine, avendo gli
indovini profetizzato che l’imbarcazione avrebbe seguito solo una donna pura dal contat-
to con uomini estranei (êá+ereuvouóá îÝíùí ajídrw`í), Quinta Claudia, che era soggetta ad
un’accusa di adulterio ma non era stata ancora giudicata – e l’accusa era tanto più
credibile per via della sua sregolatezza –, dopo aver a lungo invocato gli dèi a testimoni
della sua innocenza, legò allo scafo la sua cintura, e la dea la seguì ». Ad un processo a
carico di Claudia sembra alludere anche la versione di Erodiano, 1, 11, 4.
27
Il passo di Ovidio cui alludo è in Fasti, 4, 305 ss. Altre fonti e discussione sulla
figura di Claudia e sulle diverse tradizioni che la riguardano in Scheid 1994; cfr. anche
le ricche note di Vottero 1998, 266-68.
28
Sull’episodio di Tuccia cfr. Cantarella 1991, 229-30; Boldrini 1995.
124 MARIO LENTANO

sempre dentro la “foresta di occhi” della quale parlavamo all’inizio –,


talora anche nelle forme ritualizzate del processo, come quello al quale,
nella citata versione di Appiano, sarebbe stata sottoposta la matrona
Quinta Claudia. Non si tratta genericamente di donne fedeli – in questo
ambito Cornelia avrebbe avuto ampie possibilità di scelta, evocando ad
esempio la sua omonima antenata, la figlia dell’Africano, assurta presto a
modello proprio come esempio di moglie univira, prolifica, casta; questa
possibilità era a portata di mano, era anzi la più ovvia, eppure la prota-
gonista dell’elegia 4, 11 la scarta, preferendo esempi di donne (matrone
o vestali) il cui rispetto delle regole culturali era stato messo in dubbio e
aveva potuto risaltare con certezza solo attraverso il superamento di pro-
ve i cui giudici erano stati le divinità stesse, esattamente come le divinità
sono ora chiamate a valutare l’arringa difensiva che Cornelia sta pronun-
ciando di fronte a loro. La pudicizia è una virtù fragile, sempre esposta
al dubbio e proprio per questo oggetto dello scrutinio costante e occhiu-
to della collettività: a torto Seneca, ancora nel perduto De matrimonio,
osserva, a proposito di Quinta Claudia, che il trasporto della nave di
Cibele doveva essere piuttosto il riconoscimento tributato ad una castità
senza sospetti che la conferma di una pudicizia esposta al dubbio; a
torto, perché la sanzione divina si rende invece opportuna per confer-
mare oltre ogni ragionevole incertezza una virtù che per definizione sfug-
ge al preciso accertamento di un occhio umano 29.
L’unica figura femminile incontestabilmente positiva che Cornelia
evoca in relazione a se stessa è richiamata solo ex silentio: posto che
davvero, nell’invocare su di sé la pena delle Danaidi in caso di confes-
sione mendace dei propri meriti, Cornelia intendesse richiamare per
contrasto la vicenda di Ipermestra, e che questa non sia invece un’inter-
pretazione eccessivamente sottile degli esegeti moderni:
ipsa loquor pro me: si fallo[r], poena sororum
infelix umeros urgeat urna meos 30.

29
Seneca, De matrimonio, fr. 80 Haase (= 43 Vottero): Melius tamen, inquit Lucani
poetae patruus, cum illa esset actum, si hoc, quod evenit, ornamentum potius exploratae fuisset
pudicitiae quam dubiae patrocinium. Cfr. anche la bella nota di Reitzenstein 1970 ai vv. 37
ss. Anche Cunegonda, nel racconto del suo biografo, rivolge una preghiera al dio cristia-
no prima di sottoporsi alla prova dei vomeres candentes: Domine deus, creator coeli et terrae,
qui probas renes et corda, iudica iudicium meum et eripe me. Te enim testem et iudicem hodie
invoco, quia nec hunc praesentem Henricum, nec aliquem virum carnali commistione [sic] umquam
cognovi (il testo è quello riportato nella Patrologia latina, citato alla nota 1, col. 207).
30
Cfr. Curran 1968, 136: « in calling down upon herself the punishment of the
Danaids [...] Cornelia thus implicitly associates herself with Hypermestra, the one
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 125

Certo il richiamo al supplizio dell’urna forata, cui la matrona sareb-


be sottoposta se giurasse il falso, non mi pare abbia ricevuto ancora una
spiegazione adeguata; tra i commentatori, non tutti sembrano rilevare il
problema, che invece a mio avviso sussiste: perché un’eventuale violazio-
ne della pudicizia da parte di Cornelia dovrebbe meritarle quella pena,
legata invece, come è noto, ad una vicenda ben altrimenti torbida di
omicidio coniugale plurimo? 31 Probabilmente perché tra i grandi dan-
nati dell’oltretomba, da Cornelia topicamente evocati poco prima – Tan-
talo, Sisifo, Issione –, le Danaidi sono le uniche a essersi macchiate di
un crimine riconducibile, ancora una volta, alla sfera del matrimonio;
senza contare che Lucrezio, in un passo celeberrimo, aveva fatto proprio
delle Danaidi e della pena cui sono sottoposte il simbolo dell’insaziabili-
tà dei desideri umani 32. La spiegazione è forse un po’ debole; riconosco
di non poterne proporre per il momento una migliore, ma credo valga
la pena di sollevare una questione esegetica che, lo ripeto, mi sembra
rimasta un po’ in ombra negli studi su questa elegia 33.

5. Quali prove della propria integrità può addurre Cornelia? Ab-


biamo già menzionato il giuramento compiuto sulle ceneri dei maiores;
ma le donne, si sa, audacter iurant, come osserva nell’Amphitruo di Plauto
il protagonista della commedia allorché Alcmena invoca Giove e Giunone
a testimoni del fatto che « al di fuori di te nessun mortale ha toccato il
mio corpo con il suo per rendermi impudica »; un passo, questo plautino,

Danaid who remained a loyal wife ». L’interpretazione è ripresa da Hutchinson 2006 e


da Vaiopoulos 2009, 209.
31
La più ampia discussione a me nota sul significato delle Danaidi nella 4, 11 è in
Janan 2001, 156-58, che mi lascia piuttosto perplesso. Secondo la studiosa, peraltro, le
Danaidi rappresentano qui l’inaccettabile difesa della verginità, incarnando dunque un
comportamento opposto al potenziale adulterio dal quale Cornelia si difende. Cfr. anche
Johnson 1997, 172-73 e Lowrie 2009, 351.
32
Lucrezio, 3, 1003-1010. Alle Danaidi dedicano non più che un fuggevole accenno
anche i numerosi contributi che si sono occupati specificamente della rappresentazione
properziana degli inferi, cfr. Grimal 1986; Foulon 1996; Jouteur 2006; den Boeft 2008,
che accenna alle pp. 324-25 alla possibilità che Properzio riprenda motivi lucreziani.
Cfr. anche Williams 1968, 394 ss. Prende in considerazione la sola 4, 7 Gärtner 2009.
Una comoda sintesi recente sul tradizionale catalogo dei dannati celebri offre Bordone
2007-2008, in particolare 281 ss. per le Danaidi.
33
Va detto peraltro che in 2, 20, 29 ss. Properzio invoca su di sé la pena di Tizio e
quella di Sisifo se venisse meno alla fides nei confronti di Cinzia, senza che anche in
questo caso si possa rinvenire un nesso preciso fra il tipo di colpa di cui si macchierebbe
il poeta e quelle dei celebri dannati; è possibile dunque che per l’evocazione delle
Danaidi da parte di Cornelia il legame sia altrettanto generico.
126 MARIO LENTANO

di grande interesse ma che nessun commentatore, se ho ben visto, ri-


chiama a riscontro dell’elegia properziana 34. Meglio allora affiancare al
giuramento testimonianze meno sospette provenienti da figure apparte-
nenti all’immediato entourage di Cornelia, in primo luogo le lacrime
provocate dalla sua scomparsa: le lacrime di Paolo, lungamente evocate
nei versi iniziali e poi di nuovo in quelli finali della 4, 11, il pianto
della madre Scribonia e quello dei testimoni al termine dell’arringa di
Cornelia, cui si accenna al v. 99, infine, e soprattutto, le lacrime di
Augusto, lacrime provenienti da un dio, come Properzio non manca di
sottolineare, e capaci dunque di confermare autorevolmente la virtù della
matrona scomparsa: « le mie ossa », sintetizza la stessa Cornelia, « sono
difese dal pianto di Cesare » 35. Defensa: siamo ancora dentro l’immaginario
e il lessico del processo, più precisamente al momento in cui la difesa
convoca il suo testimone decisivo: al culmine di una climax in cui Corne-
lia ha già ricordato il pianto della madre e il cordoglio dell’intera città, a
sancire l’innocenza dell’imputata è ora chiamata la stessa divinità 36.
C’è poi ancora il rigoroso rispetto da parte della matrona di leggi e
norme di comportamento, leges e mores, come avrebbero detto i latini:
termini che non a caso ricorrono ripetutamente nell’elegia. Sono le leges
degli inferi, cui Cornelia è ormai soggetta e cui essa invita perentoria-
mente Paolo ad adeguarsi, ed è la lex della censura, incarnata dal mari-
to e alla quale è stata invece lei a doversi conformare; iura sono defini-
te poi le decisioni, auspicabilmente miti, che i giudici infernali sono
chiamati ad assumere sul suo conto 37. Ma l’idea della soggezione di
Cornelia a vincoli che le sono imposti dall’esterno si esprime anche in
altre forme, ad esempio nella strutturazione degli spazi a lei pertinenti:

34
Si tratta di Plauto, Amphitruo, 831-837 (AL. Per supremi regis regnum iuro et matrem
familias / Iunonem, quam me vereri et metuere est par maxime, / ut mihi extra unum te mortalis
nemo corpus corpore / contigit, quo me impudicam faceret. AM. Vera istaec velim. / AL. Vera dico,
sed nequiquam, quoniam non vis credere. / AM. Mulier es, audacter iuras. AL. Quae non deli-
quit, decet / audacem esse, confidenter pro se et proterve loqui), su cui rimando ancora allo
specifico contributo di Porter 2008.
35
Vv. 57-60: Maternis laudor lacrimis urbisque querelis, / defensa et gemitu Caesaris ossa
mea. / Ille sua nata dignam vixisse sororem / increpat, et lacrimas vidimus ire deo. Nulla su
lacrime e pianto nella 4, 11 nel recente e specifico Fögen 2009.
36
Bene su questo punto Johnson 1997, 168: « the defendant who can show at her
funeral the lamentations of an emperor and the tears of a god needs no further witnes-
ses for her case ».
37
Si tratta rispettivamente dei vv. 3, 41 e 18. Anche per questo leges, al v. 3, non va
toccato (magari sostituendolo con il banalizzante sedes), come da ultimo ribadisce anche
Morelli 2009, 625.
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 127

in vita e in morte, la matrona si è mossa sempre entro coordinate circo-


scritte, in uno spazio che tende a serrarsi intorno a lei, a stringerla, a
chiuderla, che si tratti delle porte degli inferi, dell’onda della palude
stigia, dell’una e dell’altra benda che le hanno cinto la testa, prima
come vergine poi come sposa 38. Persino la sua agency sintattica è limita-
ta: i verbi che di Cornelia si predicano sono ripetutamente al passivo,
da legatur a iungor, da legar a imitanda, da laudor a defensa, da condita
sunt a rapta, da mihi solvitur a detractum est mihi a vehantur 39; soggetto di
parola da morta – ci torneremo –, da viva essa ha rispettato pienamente
la consegna del silenzio imposta dalla cultura romana alla matrona, la-
sciando semmai alla collettività la possibilità di esprimersi sul suo conto
attraverso il riconoscimento di fama e laus.
Soprattutto, il termine lex ricorre in un verso che è la più bella
definizione a me nota di quella idea di continuità generazionale così
profondamente radicata nella cultura aristocratica romana (v. 47): mi
natura dedit leges a sanguine ductas 40. Ci voleva la peculiare caratura della
scrittura properziana per convogliare in un solo esametro una tale den-
sità semantica: l’obbligo di assomigliare ai propri antenati, di preservare
e accrescere il patrimonio immateriale di virtù che da essi si eredita, di
uniformare i propri comportamenti al modello costituito dai maiores, as-
sume il carattere vincolante di una legge che si trasmette lungo gli
anelli della catena generazionale e della quale il sangue costituisce il
tramite concreto e insieme il precipitato simbolico: quel sangue che pro-
prio per questo una donna non deve annacquare attraverso la mesco-
lanza con un sangue altro e diverso, che finirebbe per alterarne irrever-
sibilmente la natura. La sorgente di questa legge è identificata da Cor-
nelia nella natura: natura perché il modello della continuità gentilizia,
costruzione culturale quant’altre mai, intende invece presentarsi con l’evi-
denza di un dato oggettivo, naturale appunto; ma anche natura nel
senso di nascita, dal momento che il termine non perde mai, in latino,
il suo nesso etimologico con il verbo nascor da cui deriva: nascere in
una certa famiglia, ereditare un certo sangue, comporta contestualmente
la sottoposizione alle norme di cui quel sangue è veicolo, implica e

38
Cfr. rispettivamente ianua (v. 2), porta (v. 8), implicat (v. 11, su cui cfr. le belle
osservazioni di Williams 1968, 398-99), catena e sera (v. 26), vinxit e vitta (v. 34).
39
I verbi citati sono rispettivamente ai vv. 14, 35, 36, 44, 57, 58, 64, 66, 69-70,
95, 102.
40
Su questo verso dell’elegia mi è rimasto purtroppo inaccessibile Petersmann 1993;
cfr. comunque la bella nota di Reitzenstein 1970, 35-36 nonché Lowrie 2009, 356.
128 MARIO LENTANO

impone che insieme al patrimonio genetico, per così dire, di un ceppo


familiare se ne acquisisca anche il codice di comportamento.
Del resto, il modello prevede anche una declinazione al futuro. Nel-
l’epigrafe di Cornelio Scipione Ispano, che abbiamo già richiamato e che
costituisce un vero e proprio manifesto dell’etica aristocratica romana, la
generazione di una discendenza (progeniem genui) è menzionata nello stes-
so pentametro in cui si rivendica il merito di aver imitato le gesta pater-
ne (facta patris petiei), a sottolineare che ogni anello della catena gentili-
zia guarda contemporaneamente sia all’indietro che in avanti; allo stesso
modo, anche Cornelia dà rilievo alla propria discendenza, chiamata a
sua volta a riprodurne e accrescerne le virtù. Tale obbligo ricade in pri-
ma istanza sulla figlia; è a lei che viene rivolto infatti l’esplicito invito a
imitare la scelta materna di legarsi ad un unico marito:

filia, tu specimen censurae nata paternae


fac teneas unum nos imitata virum.

Per un istante intravediamo così un brandello di quella conversazio-


ne madre-figlia che doveva essere a Roma fittissima, ma di cui le fonti
non ci parlano quasi mai 41.
Sempre alla figlia di Cornelia è implicitamente rivolto anche il v. 44
(quin et erat magnae pars imitanda domus), nel quale il ricorso al gerundi-
vo rende esplicito l’obbligo di riproduzione di un modello: il fatto che
Cornelia si definisca « porzione della famiglia meritevole di imitazione »
subito dopo aver ribadito il proprio rigoroso rispetto della fedeltà co-
niugale non lascia dubbi sul fatto che queste parole siano dirette anzi-
tutto alla figlia; e del resto il medesimo verbo ricorre nel già menziona-
to v. 68, fac teneas unum nos imitata virum: la coscienza di essere imitanda
diventa nel corso dell’elegia l’auspicio di essere imitata.
Ai tre figli nel loro insieme è invece rivolto l’invito a fulcire genus, a
« sostenere la stirpe » attraverso la generazione di una lunga catena di
discendenti (vv. 69-70):

et serie fulcite genus: mihi cumba volenti


solvitur aucturis tot mea fata meis.

Qui il testo di Properzio presenta nuovamente qualche difficoltà; io


sono d’accordo con quegli studiosi che leggono nel pentametro, sia pure

41
Cfr. Dixon 1988, 219-20. Ad un possibile parallelo tra la 4, 11 e l’elogio epigra-
fico di Scipione Ispano accenna anche Erasmo 2008, 199-200.
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 129

al prezzo di un triplice intervento sul testo tràdito, aucturis tot mea facta
meis. La prima e l’ultima correzione sono accettate da quasi tutti gli
editori; alla seconda viene opposta di solito l’obiezione per cui un ter-
mine impegnativo come facta sarebbe incongruo rispetto alla tipologia
di meriti che Cornelia può rivendicare, meriti che sono di natura etica
più che pragmatica 42. L’obiezione è però tutt’altro che decisiva: in tutta
l’elegia la matrona si appropria di termini e immagini che pertengono
di norma a referenti maschili (al verso successivo, ad esempio, compare
triumphus); nella 4, 11, come è stato detto, « the terminology of male
civic responsibility is incorporated into the sphere of the female » 43. Del
resto, augere fata sarebbe un nesso ai limiti dell’oscurità, come conferma-
no le interpretazioni e le traduzioni assai differenziate proposte dai
moderni; augere facta, come tutti i commenti riportano, si giova invece
del conforto di un distico rivolto da Tibullo al suo patrono Messalla:
« per te, invece, venga su una discendenza che accresca le imprese / del
padre e da vecchio ti circondi, colma di venerazione » 44.
Ma quello con Tibullo non è l’unico confronto possibile; salvo erro-
re, ai commentatori è sfuggito un passo dello Stichus di Plauto nel quale
lo schiavetto Pinacio proclama la propria intenzione di « accrescere le
azioni meritorie dei miei antenati (bene facta maiorum meum / exaugeam) »
(vv. 303-304). L’intento di Plauto era naturalmente quello di suscitare il
riso nel proprio pubblico: per definizione, infatti, uno schiavo non ha
una “identità genealogica” ed è dunque privo di maiores. L’ironia di Pi-
nacio, tuttavia, nulla toglie al valore dell’immagine cui il servo fa ricorso:

42
Fata stampa ad esempio Fedeli, osservando in apparato « ego vero quae sint Cor-
neliae facta intellegere nequeo »; il tràdito fata è difeso inoltre, tra gli altri, da Shackleton
Bailey 1956, 265-66, secondo il quale aucturis mea fata « could properly and appropria-
tely mean ‘bring me glory in death’ », mentre facta « seems scarcely fitting in the mouth
of a Roman matron of the old school ». Facta è difeso invece da Williams nella sua
recensione al volume di Shackleton Bailey (1957, 247), dal commento di Hutchinson
2006, che suggerisce l’ulteriore correzione di mea facta in benefacta (e gli avrebbe fatto
gioco il passo di Plauto che citiamo più in basso nel testo) e infine da Heyworth 2008,
512; alle loro osservazioni aggiungo la ricorrenza di facta a proposito di Fabia, la moglie
di Ovidio, nel passo delle Epistulae ex Ponto citato nella parte finale della nota 8. Segnalo
infine che uncturis, recato da una parte della tradizione manoscritta, è accolto da Richar-
dson 1977.
43
Wyke 2007, 113, ma si tratta di osservazione comune: cfr. tra gli altri Curran
1968; Hallet 1985; Heyworth 2008, 512; Lowrie 2009, 358.
44
Tibullo, 1, 7, 55-56: At tibi succrescat proles, quae facta parentis / augeat et circa stet
veneranda senem (noto tra parentesi che il quadro properziano di Paolo vecchio felice-
mente circondato dalle premure dei suoi figli, ai vv. 93-96, presenta qualche analogia
con il secondo verso di Tibullo).
130 MARIO LENTANO

l’idea di “accrescere le gesta degli avi” designava evidentemente un


aspetto importante della cultura aristocratica, al punto di prestarsi a
rappresentare quella cultura quando di essa si voleva fare la parodia 45.
In ogni caso, quel che più conta è che nelle parole di Cornelia – l’invi-
to alla figlia a imitarne i costumi e, in posizione contigua, quello rivolto
ai figli in generale ad augere i facta della madre – si coglie quel movi-
mento di riproduzione-accrescimento delle virtù della stirpe che sintetiz-
za un intero modello culturale e che un testo come l’elogio di Cornelio
Ispano documenta, ancora una volta, con esemplare nitidezza.

6. Veniamo infine ai mores. Il termine è abbastanza raro in Proper-


zio, con una quindicina circa di occorrenze; tanto più dunque colpisce
che nella nostra elegia esso ricorra due volte. In un caso si tratta chia-
ramente del “modo di fare” che i figli di Cornelia dovranno osservare
nei confronti di un’eventuale matrigna, della quale essi potranno evitare
la proverbiale ostilità a patto di adottare alcune accortezze suggerite
loro da Cornelia (v. 88: capta dabit vestris moribus illa manus). L’altro caso
si trova nel distico conclusivo, a sua volta problematico sul piano testua-
le, e qui invece mores si riferisce senza dubbio al rispetto di norme che
trascendono il singolo e attengono a un modello socialmente ricono-
sciuto e valorizzato, come, nel caso di Cornelia, quello della matrona
romana esemplare (vv. 101-102):
Moribus et caelum patuit: sim digna merendo,
cuius honoratis ossa vehantur avis.

È la consueta dialettica fra una dimensione individuale e una collet-


tiva del mos, della quale parla nella sua relazione Maurizio Bettini: un mos
che è insieme carattere individuale, anche con le sue idiosincrasie – come
nell’espressione morem gerere o nel proverbiale suus cuique mos –, e com-
plesso di valori e modelli di comportamento virtualmente vincolanti per
l’intera collettività 46.
Ai costumi così intesi, osserva conclusivamente Cornelia, « si è aperto
in passato persino il cielo »; a maggior ragione – questa almeno è l’in-
terpretazione più diffusa dell’esametro – il rigoroso rispetto del proprio
statuto da parte della matrona, i suoi mores, che sono poi i mores stabiliti

45
Sul passo dello Stichus mi permetto di rimandare a Lentano 2007, 177 ss.
46
Cfr. il contributo di Maurizio Bettini in questo volume, pp. 99-110. Le riflessioni
dello studioso sulla nozione di mos nella cultura romana si leggono anche in Bettini
2000.
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 131

dal codice culturale romano per le donne del suo rango, potranno me-
ritarle la ricompensa, assai meno impegnativa, di una sentenza benevola
da parte dei giudici inferi 47. A mio avviso, è certo che in questa chiusa
Properzio avesse in mente il Somnium Scipionis ciceroniano, come più di
un commentatore ha suggerito: che i protagonisti del Somnium, ai quali
appunto si è spalancato l’accesso al cielo, siano l’Africano, l’Emiliano e
Lucio Emilio Paolo, e cioè esattamente le figure che anche Cornelia ha
evocato nel corso dell’elegia, è per me sufficiente a fugare ogni dub-
bio 48. D’altra parte, l’auspicio della matrona, giunta al termine della sua
lunga apologia, è quello di ricongiungersi ai propri maiores (se l’ultima
parola dell’elegia è, come io credo, avis e non il tràdito aquis): e dun-
que, contrariamente a quanto si legge di solito, un destino celeste non
è affatto escluso neppure per Cornelia 49.
Con questo auspicio si chiude l’arringa difensiva di Cornelia e insie-
me l’elegia di Properzio. La parola spetta ora ai giudici; ma questo dato
extratestuale viene anticipato nella certezza, manifestata subito prima del
distico finale, che i meriti rivendicati dalla matrona stiano senz’altro per
ricevere un adeguato contraccambio 50. E del resto è lo stesso carme pro-
perziano che testimonia, con la sua esistenza, l’avvenuta assunzione di
Cornelia nel selettivo pantheon degli exempla: la matrona che si definiva, e
si offriva alla propria discendenza, come pars imitanda di una casa e di
una famiglia viene ora proposta all’imitazione di un’intera collettività,
quella cui l’elegia si rivolge; la consacrazione della virtù di Cornelia rag-
giunge, attraverso il poeta che la celebra, una visibilità che essa non avreb-
be mai osato sperare in vita. La sentenza che definitivamente sancisce la
sua innocenza non è pronunciata dai giudici infernali, ma da Properzio 51.
In un solo aspetto questa matrona esemplare sembra prestare il fian-
co al biasimo: in quella sua iniziale, orgogliosa affermazione ipsa loquor
pro me (v. 27), che contrasta frontalmente con il divieto di perorare la
propria causa in tribunale imposto alle donne romane e ribadito in oc-

47
Cito per tutti Richardson 1977, nota al v. 101: « There is emphasis on et: “even
heaven”; what she asks is modest in comparison ».
48
La ripresa del Somnium è generalmente ammessa, insieme a quella dello Scipio
enniano, cfr. per tutti Newman 1997, 331 (che però eccede, a mio avviso, nel ritenere
che il giudizio cui Cornelia si sottopone in Properzio intendesse alludere alla tradizione
dei processi agli Scipioni del II secolo a.C.).
49
Bene Johnson 1997, 171 e Ramsby 2007, 70. Contra, tra gli altri, Camps 1965, 167;
Richardson 1977, 489; Williams 1968, 399; Newman 1997, 337.
50
Vv. 99-100: Causa perorata est. Flentes me surgite, testes, / dum pretium vitae grata
rependit humus.
51
Su Cornelia come exemplum cfr. Lowrie 2008, specie 176 ss.
132 MARIO LENTANO

casione di comportamenti trasgressivi all’epoca di Properzio presumibil-


mente ancora ben presenti nella memoria collettiva, come quelli di Me-
sia Sentinate, di Ortensia e soprattutto di Afrania (o Carfania), morta
nel 49 a.C.: della quale Valerio Massimo ricorda che pro se semper apud
praetorem verba fecit, non perché le mancasse la possibilità di ricorrere ad
avvocati, ma in quanto inpudentia abundabat; al punto che, stando sem-
pre a Valerio Massimo, alle donne inprobis moribus veniva attribuito l’ap-
pellativo ingiurioso di Gaia Afrania 52.
La scelta di parlare personalmente in propria difesa sembra dun-
que gettare un’ombra su Cornelia. In realtà un’espressione esattamente
identica a quella impiegata dalla matrona (pro se loqui) compare sulla
bocca della Alcmena plautina nel contesto dell’Amphitruo che abbiamo
già avuto modo di richiamare in precedenza: « La donna che non si è
macchiata di alcuna colpa », spiega la donna al sospettoso Anfitrione,
« ha il diritto di essere audace e di parlare in propria difesa con piena
fiducia e sfacciatamente » 53. Dunque Alcmena non nasconde che la scel-
ta di prendere la parola rischia di configurarsi, per una donna, come
segno di audacia, confidentia o senz’altro protervia, ma rivendica l’op-
portunità di correre questo rischio quando ci sia in gioco la tutela
della propria pudicizia: in questo campo non può valere alcuna conse-
gna del silenzio 54.
E comunque, a ben guardare, anche l’affermazione di « parlare in
prima persona a propria difesa » non è del tutto vera: perché quella di
Cornelia resta pur sempre una personata vox, una prosopopea o sermoci-
natio, come l’avrebbero definita i latini; attraverso la voce fittizia della
matrona defunta, chi parla è pur sempre Properzio, e dietro di lui i

52
Valerio Massimo, 8, 3, 2: C. Afrania vero Licinii Bucconis senatoris uxor prompta ad
lites contrahendas pro se semper apud praetorem verba fecit, non quod advocatis deficiebatur, sed
quod inpudentia abundabat. Itaque inusitatis foro latratibus adsidue tribunalia exercendo muliebris
calumniae notissimum exemplum evasit, adeo ut pro crimine inprobis feminarum moribus C. Afra-
niae nomen obiciatur. Sull’episodio cfr., tra gli altri, Cantarella 1996, 15 ss.
53
I versi plautini in questione sono citati supra, nota 34.
54
Interessante, in questo senso, una controversia di scuola riportata nella raccolta
di Seneca il Vecchio e molto studiata in tempi recenti, nella quale un marito accusa di
adulterio la moglie che ha taciuto di fronte alle profferte erotiche avanzate da un
mercante alla donna durante l’assenza del marito stesso: in particolare, quest’ultimo
osserva che in un contesto di aperta minaccia alla pudicizia di una donna, il silenzio
può essere molto vicino ad una promessa, o servire senz’altro a stimolare il desiderio
del corteggiatore (cfr. in particolare 2, 7, 6: Quod proximum est a promittente, rogata
stuprum tacet).
PROPERZIO E I VALORI PRIVATI DEL MOS MAIORUM 133

committenti dell’elegia 55. Cosa pensasse davvero Cornelia e quale giudizio


avrebbe dato della sua postuma santificazione non lo sapremo mai – non
più, almeno, di quanto possiamo immaginare cosa avrebbe detto l’impe-
ratrice Cunegonda del rilievo che altri volle porre sul suo sepolcro a
Bamberga.

55
Sulla prosopopea in relazione alla parola femminile cfr. l’importante contributo di
Bettini e Guastella 1995, che si soffermano a lungo proprio su un’elegia di Properzio, la
4, 7; su 4, 7 e 4, 11 come prosopopee insiste anche Dufallo 2003 (= 2007).
134 MARIO LENTANO

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