Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Lezione n.3
Il bilancio d’esercizio è uno strumento di comunicazione fra
l’azienda ed i propri stakeholders ed offre informazioni sulla
situazione patrimoniale e sulla dinamica reddituale e finanziaria
dell’impresa con riferimento a un determinato esercizio
amministrativo, che solitamente coincide con l’anno solare. Gli
stakeholders rappresentano una categoria molto ampia di soggetti
che possono avere interessi molto diversi rispetto all’azienda
stessa, come avviene ad esempio per i fornitori o i creditori, ma
anche per i dipendenti o il fisco.
I documenti contabili che rientrano nel bilancio d’esercizio sono
lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota integrativa, cui
va allegata la relazione sulla gestione. A questi possono essere
aggiunti ulteriori documenti, in alcuni casi previsti dalla legge,
come il rendiconto finanziario, in altri casi contenenti
informazioni volontarie, ad esempio il bilancio sociale o quello
ambientale.
Le norme che disciplinano la redazione del bilancio trovano
origine nel Codice civile, cui si affiancano anche le norme di
prassi contabile [organismo italiano di contabilità] e quelle del
Testo Unico sulle Imposte dei Redditi (TUIR).
La prassi contabile nazionale nasce storicamente dal consiglio
nazionale dei dottori commercialisti e dal consiglio nazionale dei
ragionieri, i quali hanno emesso diversi documenti, alcuni dei
quali ancora oggi in vigore. Il compito dei due consigli nazionali è
stato dal 2001 preso in consegna dall'organismo italiano di
contabilità (OIC). Dei documenti emessi dai Consigli Nazionali
sono rimasti attualmente in uso i documenti dal numero 11 al
numero 30, ai quali si aggiungono i documenti emanati dall'OIC.
Sul piano internazionale la prassi è regolata dagli “international
accounting standards” (IAS) e dagli “international financial
reporting standard” (IFRS). Gli IAS sono 41 documenti, emessi
dall'“international accounting standard committee” (IASC),
rinnovato a “International accounting standard board” nel 2001.
Lo stretto legame fra prassi nazionale e internazionale è
dimostrato dal compito dell'OIC, il quale cerca di armonizzare i
principi contabili italiani con quelli internazionali in modo da
creare un univoco sistema normativo del bilancio.
Queste regole disciplinano tanto gli aspetti formali che quelli
sostanziali del bilancio: i primi sono relativi appunto alla forma
del documento di bilancio ed alla sua struttura, i secondi
afferiscono ai criteri da utilizzare per la quantificazione e la
misurazione dei valori da inserire nel bilancio stesso. Queste
norme sono necessarie per far sì che le informazioni contenute nel
bilancio siano idonee a soddisfare le diverse esigenze conoscitive
degli stakeholders.
I princìpi di bilancio contenuti nel Codice Civile si distinguono in
postulati e criteri specifici:
- I postulati sono regole a carattere generale che definiscono il
modo in cui il bilancio d’esercizio va redatto, costituendo una
cornice di criteri fondamentali volti ad assicurare che il
bilancio assolva la sua funzione informativa (es. principio di
prudenza);
- I criteri specifici sono regole a carattere particolare che
offrono indicazioni riguardo singoli aspetti della redazione
del bilancio; sono volti ad approfondire dal punto di vista
operativo i postulati, indicando al redattore come operare nel
concreto (es. rimanenze di magazzino).
Esiste una relazione gerarchica fra postulati e criteri specifici, con
i primi che occupano una posizione preminente, per cui i criteri
specifici non possono mai stabilire regole che finiscano per
disattendere quanto affermato nei postulati (es. il criterio applicato
per la valutazione delle rimanenze è improntato alla prudenza).
Pertanto, i postulati rappresentano la cornice entro cui si collocano
i criteri specifici, il cui ruolo è quello di rendere operativi i
postulati.
Postulati e criteri possono essere compresi solo una volta
analizzate nel dettaglio le finalità del bilancio, che essi concorrono
a realizzare. È opportuno sottolineare come tali finalità possano
mutare nel tempo, adeguandosi alle diverse esigenze informative
degli stakeholders e rappresentative dell’impresa, così da
cambiare anche i princìpi. Si tende ad esempio a distinguere fra un
bilancio interno, indirizzato ai soggetti interni come i manager, ed
un bilancio pubblico, redatto per tutti gli altri stakeholders, in
particolare per la categoria dei finanziatori (es. azionisti). Questi
ultimi soggetti, non potendo partecipare alle dinamiche aziendali
dall’interno, necessitano di uno strumento conoscitivo chiaro,
corretto e veritiero che gli consenta di prendere decisioni
economiche consapevoli. Le regole di redazione del bilancio,
dunque, sono atte a garantire la qualità delle informazioni su cui
gli stakeholders fonderanno le proprie decisioni, con particolare
riguardo alla categoria degli investitori attuali e potenziali, che
nell’attuale corpus normativo sono considerati come i soggetti
portatori degli interessi meritevoli di maggior tutela. Per decenni
la funzione del bilancio è stata quella di strumento attraverso cui
gli amministratori potevano rendere conto del proprio operato ai
soci, con il rendiconto che evidenziava gli utili distribuibili e le
quote che spettavano ai singoli soci, svolgendo dunque una
funzione orientata più al bilancio interno che a quello pubblico. La
situazione è mutata a partire dagli anni ’70, con una progressiva
affermazione della funzione informativa pubblica del bilancio,
orientato in maniera prevalente all’informazione rivolta ai soggetti
esterni, proprio perché questi non hanno la possibilità di avere
accesso ad informazioni che sono invece a disposizione dei
soggetti interni. Questo mutamento non ha interessato soltanto i
criteri di redazione del bilancio, ma anche l’operato delle aziende
stesse, che hanno cercato di conferire sempre maggior rilievo alle
aspettative dei finanziatori, soprattutto nelle grandi aziende dove
ci sono molti investitori che non hanno possibilità di intervento e
non conoscono approfonditamente le dinamiche aziendali (in
America ad esempio), mentre nelle piccole imprese ci sono
tendenzialmente pochi azionisti che gestiscono direttamente
l’azienda e sono già a conoscenza dei fatti aziendali (come
avviene spesso in Italia).
Il bilancio deve rispondere alle esigenze conoscitive di un’ampia
platea di soggetti, ma non è possibile elaborare tanti bilanci quante
sono le categorie di stakeholders, rischiando di dare anche
un’immagine distorta della realtà ad alcuni di essi, per cui il
legislatore ha optato per un unico documento, nel quale la
soggettività degli interessi coinvolti viene elaborata e tutelata in
base alle regole di redazione. Ciò non toglie che l’azienda possa
volontariamente redigere bilanci ulteriori, ad esempio quello
sociale o quello ambientale, entrambi strumenti informativi di
natura volontaria che si distinguono dal bilancio economico
redatto secondo princìpi e regole prestabilite; hanno infatti una
natura meno rigida, non essendo previsti contenuti specifici,
lasciando alle aziende un più ampio spazio di manovra circa le
informazioni da inserire in essi. Questo ampliamento della
quantità di informazioni risponde a quella che viene definita
“corporate social responsibility”, con il bilancio sociale che
assolve la funzione di informare riguardo l’operato dell’azienda
anche dal punto di vista del capitale umano, ad esempio delle
condizioni dei suoi dipendenti. Il bilancio ambientale, invece,
illustra le strategie e le politiche che l’azienda adotta rispetto alla
sostenibilità della sua attività, ad esempio con riguardo il
packaging o lo smaltimento dei rifiuti industriali, rendicontando
questo tipo di attività.
Il bilancio economico d’esercizio deve rappresentare il patrimonio
aziendale di funzionamento nella sua composizione qualitativa e
quantitativa e le relative variazioni, il reddito prodotto dalla
gestione nel periodo amministrativo in maniera analitica nelle sue
diverse componenti. Gli stakeholders, infatti, hanno interesse ad
ottenere informazioni riguardo la capacità dell’azienda di produrre
utili in un periodo di
medio-lungo termine, nonché sulla solidità dell’azienda stessa,
evidenziando la composizione fra le fonti di finanziamento e il
loro impiego.
I princìpi di bilancio del codice civile (postulati, clausole generali,
princìpi di redazione), definiscono gli attributi che il bilancio deve
possedere per raggiungere le sue finalità e sono indicati
prevalentemente agli artt. 2423 e 2423 bis. Le clausole generali
sono princìpi di ordine generale che fissano criteri fondamentali
cui bisogna attenersi nella redazione del bilancio affinché questo
sia coerente con le sue finalità; tali clausole sono chiarezza, verità
e correttezza.
Chiarezza, in virtù della quale chi legge il bilancio deve poter
comprendere senza fraintendimenti la natura e il contenuto delle
varie voci di bilancio, nonché i criteri di valutazione adottati, sia
con riferimento alla situazione patrimoniale che riguardo la
capacità dell’azienda di produrre reddito; la chiarezza viene
assicurata sia grazie alla forma, attenendosi agli schemi rigidi
dello stato patrimoniale e del conto economico, sia con la
sostanza, grazie a regole che garantiscano una maggiore
uniformità possibile dell’applicazione dei criteri e che consentano
ai soggetti esterni di interpretare correttamente i dati; la chiarezza
diviene quindi il presupposto di quella che si definisce “verifica
intersoggettiva” dei valori di bilancio, cioè del rispetto delle altre
due clausole, della verità e della correttezza. Al perseguimento
della finalità di chiarezza tendono anche altri princìpi previsti dal
Codice Civile, vale a dire quello della significatività e rilevanza
dei dati, quello della verificabilità dell’informazione, nonché
quello della topica legale dell’informazione:
- In relazione alla significatività, l’art. 2423 c.c. stabilisce che
vanno indicate solo le informazioni che possono influenzare
decisioni economiche, evitando così di appesantire il bilancio
con voci che siano irrilevanti al fine di dare una
rappresentazione veritiera e corretta.
- Quando si parla di “topica legale” ci si riferisce al “luogo” in
cui devono essere inserite determinate informazioni, cioè in
quale documento queste debbano essere indicate (es. dati
sulla cassa vanno inseriti nello stato patrimoniale e non in
altro documento). Questo ovviamente giova alla chiarezza,
poiché permette allo stakeholder di sapere dove guardare per
ottenere una determinata informazione.
- La correttezza delle informazioni deve sempre essere
verificabile, anche con il supporto della nota integrativa nella
quale il redattore spiega in che modo sia giunto alla
determinazione di alcuni valori.
Verità, della quale esistono due concetti, uno oggettivo ed uno
soggettivo: per il primo, il bilancio deve rispettare la realtà dei
fatti, cioè non si possono inserire valori non esistenti (es. indicato
un credito quando l’impresa non vanta nessun diritto nei confronti
di un terzo); per il secondo, va ricordato come soltanto alcuni dei
valori di bilancio abbiano dei valori oggettivi, mentre altri sono
soggetti ad una stima inevitabilmente più soggettiva (es. risorse
accantonate nel fondo rischi ed oneri basato sulla stima di eventi
futuri), ma comunque sempre fondate su elementi fattuali reali e
criteri condivisi che disciplinano la redazione del bilancio, senza
mai cadere nel mero arbitrio (es. se svaluto un credito senza che il
debitore manifesti sintomi di insolvenza la stima non è razionale
né credibile). Per garantire la verità esistono obblighi, divieti e
criteri di valutazione ben definiti e non modificabili, tutti elementi
cui il redattore deve far riferimento per determinare le grandezze
da esprimere in bilancio, non potendo discostarsi da tali regole se
non al verificarsi di determinate condizioni che approfondiremo in
un secondo momento.
Correttezza, che può essere articolata in due concetti, cioè
correttezza tecnica o comportamentale: il primo afferisce al
rispetto delle regole di corretta contabilità ed esattezza numerica,
interpretandole correttamente in sede di applicazione, motivo per
cui chi redige il bilancio deve essere in possesso delle adeguate
conoscenze tecniche che gli consentano di applicare tali regole
correttamente, coerentemente con il procedimento complessivo di
formazione del bilancio; il concetto di correttezza
comportamentale afferisce al rispetto pieno e leale del Codice
Civile e della prassi contabile, per cui chi redige il bilancio deve
applicare le regole contabili in aderenza alla finalità informativa
del bilancio ed assicurare la neutralità dell’informazione, senza
favorire alcuna categoria di soggetti a scapito di altre. Neutralità
significa dunque il divieto di far leva sulla discrezionalità per
orientare il comportamento degli stakeholders, seguendo i princìpi
stabiliti dalle norme e dalla prassi contabile per garantire la
neutralità e ridurre tale discrezionalità per quanto possibile,
evitando politiche di bilancio, ossia manovre che favoriscano la
diffusione di una certa immagine della società. Dal profilo
comportamentale il criterio della correttezza pone problemi
deontologici al redattore del bilancio, ovvero richiede che il
bilancio sia redatto seguendo i concetti di buona fede e di lealtà.
La sola applicazione delle norme in senso tecnico infatti non
basta, il redattore deve anche sforzarsi di comprendere lo spirito e
il significato di tali norme, alla luce delle finalità di informazione
di bilancio, evitando così interpretazioni di comodo che
andrebbero a svuotare di efficacia i principi di chiarezza e di
verità.
Il Quadro Fedele: Nonostante la componente di soggettività
presente nella determinazione dei valori di bilancio risulti essere
ineliminabile, l'ampio corredo di informazioni che permettono di
individuare il percorso valutativo del compilatore permette agli
stakeholders di verificare credibilità e neutralità dei vari valori
iscritti nel bilancio. Chiarezza, verità e correttezza risultano in
questa prospettiva indissolubilmente legati e di pari importanza.
Insieme infatti concorrono a definire la condizione essenziale del
bilancio ufficiale di esercizio, e tale espressione viene indicata
come quadro fedele. Il bilancio deve essere redatto quindi in modo
da rappresentare un quadro fedele delle condizioni patrimoniali,
finanziare e reddituali dell'impresa, e la clausola generale rende il
bilancio comprensibile, intelligibile e quindi concretamente utile
al fine delle valutazioni esterne.
Lezione n.4
Come già accennato, i postulati si dividono in clausole generali e
princìpi di redazione, con questi ultimi che costituiscono delle
linee guida che illustrano al redattore come rappresentare i fatti
aziendali e come valutare le singole poste contabili. Tali princìpi
sono: la logica di funzionamento, la competenza economica, la
prudenza, il costo storico, la prevalenza della sostanza sulla forma,
la comparabilità e il divieto di compensi di partite. in particolare,
la logica di funzionamento e la competenza economica sono di
importanza tale da poter essere definiti come “precondizioni
tecnico-contabili” fondamentali per la costruzione del bilancio.
Logica di funzionamento: L’impresa ha un ciclo di vita scandito in
tre momenti fondamentali: nascita, funzionamento, terminale o di
liquidazione. L’impresa è in funzionamento quando si trova in
condizione di equilibrio economico e finanziario che le consente
di continuare la gestione nei futuri esercizi.
Il bilancio riguarda l’impresa nella sua fase di funzionamento,
motivo per cui il redattore deve operare secondo la logica di
funzionamento, cioè come se l’impresa non avesse la necessità né
di ridurre la propria attività né tantomeno di liquidarla, ma
ponendosi nella prospettiva della continuazione di tale attività.
Questa regola è di fondamentale importanza perché il redattore
possa attribuire il corretto valore alle singole poste contabili e
rappresenta una sorta di premessa necessaria, un criterio che deve
ispirare l’applicazione di tutti gli altri princìpi di redazione. Per
questo motivo il redattore deve anzitutto stabilire se l’azienda è in
grado di continuare o meno la propria attività, accertando
concretamente tale prospettiva attraverso tre tipi di indicatori:
finanziari, gestionali ed altri segnali. Tra gli indicatori finanziari si
possono richiamare ad esempio un deficit patrimoniale, un
capitale circolante netto negativo o una difficoltà di rimborsare
prestiti e finanziamenti, tutte situazioni nelle quali potrebbe venir
meno la capacità dell’impresa di continuare la gestione. Indicatori
gestionali possono essere la perdita di mercati chiave, fornitori o
concessioni, ma anche licenziamenti di personale consistenti,
ovvero ancora contenziosi legali in cui l’impresa risulti
soccombente e che questa non sia in grado di sopportare. Gli
effetti del principio della logica di funzionamento influenzano
aspetti tanto di natura formale che sostanziale.
Guardando agli aspetti formali emerge che la struttura dello stato
patrimoniale si divide in immobilizzazioni ed attivo circolante: le
prime sono risorse destinate a rimanere nelle vicende produttive
aziendali e che torneranno in forma liquida in un tempo piuttosto
lungo (es. macchinari o impianti), il secondo (anche detto
disponibilità) si riferisce alle risorse pronte e disponibili in forma
liquida (es. cassa). È evidente che le immobilizzazioni, nella
logica del funzionamento, sono strumentali e indispensabili alla
continuazione dell’attività.
Nella prospettiva sostanziale, la logica del funzionamento impone
di valutare le poste contabili secondo il criterio del valore d’uso: il
valore attribuito ad ogni elemento patrimoniale deve essere
commisurato al contributo che quell’elemento può fornire ai fini
della continuazione dell’attività. Nella pratica, ciò comporta la
necessità di misurare i benefici economici che l’impresa può
ottenere da una determinata risorsa, ad esempio per le scorte di
prodotti si considera il valore di presumibile realizzo, mentre per
le immobilizzazioni è il valore d’uso. Quest’ultimo criterio viene
generalmente utilizzato per le immobilizzazioni, cioè i fattori
produttivi pluriennali e consiste nel valore del flusso dei benefici
economici che sarà possibile ottenere attraverso il loro impiego
nella gestione, cioè il valore attuale dei margini prima degli
ammortamenti. [esempio: viene acquistato un impianto al costo di
1000 la cui vita utile viene stimata in cinque anni, calcolando un
ammortamento a quote costanti di 200 euro l’anno. Al termine
dell’anno successivo la situazione sarà che il costo di acquisto è di
1000, il fondo ammortamento ammonta a 400 (200 alla fine del
primo anno e duecento alla fine del successivo) e il valore netto
contabile (cioè il valore che sarà indicato nell’attivo dello stato
patrimoniale) sarà di 600, cifra che indica che nei successivi tre
anni sono attesi benefici economici pari almeno a tale valore. A
questo punto bisogna anche considerare i flussi di benefici futuri
dell’impianto, che si ottengono sottraendo le spese, come materie
prime e retribuzioni, ai ricavi di vendita attesi negli anni
successivi (l’esempio nelle slide prevede che nei successivi tre
anni i flussi di benefici attesi sono pari a 525). Confrontando il
valore contabile dell’impianto (600) con il valore d’uso (525) ci si
rende conto che il primo è più elevato, ma in bilancio va seguita la
logica della prudenza, che impone di iscrivere in bilancio il valore
minore tra i due.] In sintesi, in ogni esercizio il redattore deve
valutare se il valore contabile dell’immobilizzazione al termine
del periodo può essere mantenuto o deve essere adeguato in base
ai flussi di benefici futuri attesi da quella posta contabile, che può
imporre di ridurlo. Principio fondamentale, dunque, è che solo i
valori che esprimono flussi di benefici dei quali l’impresa potrà
usufruire in futuro possono essere iscritti in bilancio, mentre non
vanno mai indicati valori privi di utilità economica futura.
Competenza economica: Preliminarmente va chiarita la
distinzione fra competenza finanziaria ed economica. Il
presupposto per rilevare contabilmente un’operazione è che
questa, durante l’esercizio, abbia dato luogo ad una
manifestazione finanziaria. Quest’ultima, tuttavia, non è utile a
misurare le variazioni di ricchezza generate, dunque occorre
convertire costi e ricavi dalla loro manifestazione finanziaria alla
manifestazione economica. Nella competenza finanziaria, i costi e
ricavi vengono registrati quando ci sono uscite od entrate
numerarie certe, assimilate o presunte, mentre nella competenza
economica bisogna rifarsi alla teoria funzionale: un costo compete
economicamente all’esercizio in cui l’utilità incorporata nel
fattore produttivo per cui si è sostenuto il costo è stata
effettivamente impiegata nel ciclo della produzione;
analogamente, un ricavo compete economicamente all’esercizio
nel quale le utilità cui il prodotto si riferisce sono state
effettivamente conseguite, cioè il prodotto è stato realizzato e
ceduto. In sostanza, un costo è un sacrificio di ricchezza attraverso
cui la società si dota di risorse, mentre il ricavo consiste nella
rigenerazione della ricchezza attraverso la vendita di beni o
servizi; questi saranno di competenza finanziaria se ne deriva una
variazione finanziaria (entrata od uscita di moneta, insorgere di
debiti o crediti), mentre saranno di competenza economica se si è
manifestato un contributo alla produzione dell’esercizio (il bene è
stato impiegato o ha generato nuova ricchezza). Più
specificamente, per individuare la competenza economica si fa
riferimento al principio della realizzazione dei ricavi e a quello
della correlazione dei costi: sono di competenza economica i
ricavi relativi a beni o servizi per i quali il processo produttivo è
stato completato ed è già avvenuto lo scambio, cioè i beni sono
stati spediti o i servizi sono stati resi; conosciuti i ricavi, è
possibile determinare quali sono i costi correlati secondo un
rapporto di causa-effetto che permette di conoscere quali costi è
stato necessario sostenere per poter ottenere i ricavi realizzati. Dal
punto di vista finanziario questi costi possono essere stati
sostenuti anche in esercizi precedenti, come ad esempio nel caso
in cui si acquisti un macchinario, il cui costo finanziario è relativo
ad un esercizio precedente, ma il costo economico va
diversamente imputato negli esercizi successivi in base alla quota
di ammortamento. Esistono diversi princìpi sulla base dei quali
correlare i ricavi ed i costi; non solo quello di causa-effetto, ad
esempio, ma anche quello fondato sulla correlazione con la
produzione dell’esercizio, come avviene per le spese generali
amministrative (es. quelle del personale dell’amministrazione
dell’azienda) che non sono direttamente correlati a specifici ricavi,
ma che vanno comunque contabilizzati in bilancio secondo un
criterio di competenza economica. In questo caso, la correlazione
è relativa alla produzione dell’intero esercizio, nel quale vanno
contabilizzate tutte le spese funzionali all’attività svolta nel
relativo arco temporale.
Ulteriore criterio di correlazione dei costi è quello mediante
ripartizione sistematica, utilizzato in particolare per impianti e
macchinari, la cui utilità partecipa a più cicli produttivi nell’arco
di più esercizi, rendendo necessario applicare un processo di
ripartizione sistematica nella forma dell’ammortamento,
possibilmente a quote costanti così da ridurre il margine di
soggettività delle valutazioni, salvo ragioni particolari spingano
all’applicazione di metodi diversi.
Infine, l’ultimo criterio di correlazione è fondato sul venir meno
dell’utilità futura, principio che comporta l’inserimento immediato
nel conto economico del costo di un fattore produttivo nel
momento in cui questo non ha più utilità e non può più partecipare
al ciclo produttivo (es. impianto si rompe in modo irreparabile, per
cui il suo valore residuo non sarà più soggetto ad ammortamento
ma andrà interamente contabilizzato nell’esercizio in cui l’evento
dannoso si verifica).
Con riguardo ai costi sostenuti, si distingue fra costi vivi e morti.
In alcuni casi, infatti, le imprese sostengono costi anche per lungo
tempo prima che possano produrre dei ricavi (es. i costi di ricerca
e sviluppo di un’azienda farmaceutica per lo sviluppo di un nuovo
farmaco). Secondo il Codice Civile, il redattore del bilancio deve
determinare quali costi per cui non c’è ancora stato un ricavo
debbano essere capitalizzati nell’attivo dello stato patrimoniale,
per un valore individuato in base a quale potrà essere la futura
utilità che tali costi saranno capaci di generare e se potranno
essere recuperabili in un futuro esercizio. Tale valutazione non
può essere del tutto discrezionale, ma sempre fondata sulla base di
dati concreti che possano assicurare un certo margine di certezza
riguardo le utilità che questi costi potranno generare, facendo
riferimento anche a quella che è la prassi contabile.
Lezione n.5
Prudenza: Il principio di prudenza è già stato accennato
nell’ambito della logica di funzionamento ed impone al redattore
di agire con una certa cautela nella valutazione delle poste
patrimoniali. Difatti, quando in sede di valutazione si presenta un
intervallo di valori, tutti ugualmente razionali e credibili, è
opportuno scegliere in maniera diversa a seconda che si tratti di
attività o passività: per le prime si tiene conto del valore più basso
(es. per le immobilizzazioni sono valori ugualmente razionali e
credibili il costo d’acquisto e il valore d’uso legato al flusso di
benefici futuri che il bene potrà generare nel tempo), poiché
contabilizzare ad un valore più alto significa rischiare di anticipare
al presente utili che sono soltanto sperati; al contrario, le perdite
vanno contabilizzate al valore più alto (es. per un debito
dilazionato nel tempo si può tener conto del valore per il quale è
contratto e quello di presumibile estinzione futura del debito,
eventualmente anticipando al presente delle perdite presunte).
Ancora, le scorte di magazzino si contabilizzano al minor valore
fra quello di costo e quello di mercato. Il principio della prudenza,
dunque, impone al redattore un’asimmetria comportamentale nel
trattamento contabile delle situazioni legate alle attività ed alle
passività.
L’obiettivo del principio della prudenza è quello di tutelare il
capitale netto, preservandone l’integrità. Il patrimonio netto
rappresenta la ricchezza che spetta agli investitori, che mettono a
disposizione il capitale di rischio, nonché un presidio di garanzia
per i creditori, trattandosi di una somma che questi possono
aggredire per ottenere il rimborso dei propri crediti. Il principio
della prudenza, quindi, impone di rilevare le perdite presunte ma
non gli utili attesi, in modo tale da proteggere il capitale netto e i
soggetti che questo tutela dagli eventi pregiudizievoli che possono
venirsi a creare a causa della gestione.
[Esempio delle slide: nel conto economico del primo anno sono
presenti ricavi di vendita per 70 e costi di produzione per 100; si
deve attribuire un valore alle rimanenze finali in magazzino dei
prodotti, per i quali si individuano due valori ragionevoli: il valore
del costo, pari a 30 (costi di produzione meno ricavi), e il valore di
presumibile realizzo, pari a 50 secondo il redattore. Il principio di
prudenza impone di scegliere il valore più basso tra i due, ossia
quello di costo, poiché contabilizzando l’altro valore si finisce per
anticipare nel capitale netto utili soltanto sperati ma non realizzati,
contrariamente anche al principio di competenza economica
secondo cui vanno inseriti soltanto i ricavi effettivamente
realizzati. Questo aspetto è fondamentale, in quanto il capitale
netto contabilizzato ma solamente sperato potrebbe essere
distribuito ai soci e qualora nell’anno successivo non si dovessero
ottenere ricavi pari agli utili attesi si realizzerà una perdita di
esercizio che intaccherà il capitale netto. Diversamente, se il
redattore avesse operato secondo il principio di prudenza non ci
sarebbe stato alcun utile da distribuire, ma non ci sarebbero
neppure state perdite di esercizio nell’anno successivo,
preservando l’integrità del capitale netto.]
Con il principio della prudenza si opera su due poli, da un lato
conservando l’integrità del capitale aziendale, dall’altro
assicurando la neutralità dei dati rilevati e l’applicazione del
divieto delle politiche di bilancio.
Costo storico: Questo principio non è enunciato (come la maggior
parte degli altri) all’art. 2423 bis c.c., ma emerge dalla lettura
dell’art. 2426, nel quale il costo storico viene indicato come uno
dei principali criteri di valutazione delle poste patrimoniali. Il
costo storico rappresenta un metodo semplice per stimare gli
investimenti realizzati dall’azienda, poiché è facile verificare
quale sia il costo di acquisizione di un determinato prodotto,
anche se può essere meno agevole accertare quale sia il costo di
produzione di prodotti finiti, dovendosi sommare quello relativo
all’acquisto delle materie prime e tutte le spese necessarie per il
ciclo produttivo (es. manodopera o quota di ammortamento del
macchinario con cui è stato realizzato). Il costo storico esprime,
almeno in sede di acquisizione, il valore funzionale del bene,
anche se questo potrebbe perdere od acquisire valore nel corso del
tempo rispetto al suo costo, dunque non va considerato come
immutabile.
I parametri cui deve far riferimento il redattore nel momento in
cui deve valutare gli elementi attivi dello stato patrimoniale sono
da una parte il valore del costo storico, certo e determinato,
dall’altra il flusso di benefici dei quali l’impresa potrà usufruire in
futuro. Essendo inserito nelle attività, il valore del costo storico va
periodicamente verificato, generalmente alla fine dell’esercizio,
rapportandolo ad altri parametri per accertare che non esista un
valore più basso cui vada contabilizzato, in osservanza del
principio di prudenza. I parametri (definiti “di controllo”) con cui
il costo storico va confrontato sono: il valore d’uso, cioè il flusso
di benefici futuri che si stima quell’attività possa generare
(utilizzato per partecipazioni societarie ed immobilizzazioni); il
valore di realizzo, ossia il valore recuperabile attraverso
l’alienazione sul mercato del prodotto (utilizzato per scorte di
merci, prodotti finiti e attività finanziarie destinate alla vendita che
dunque non costituiscono immobilizzazioni); il costo di
sostituzione, legato alla valutazione del costo che l’impresa in
normali condizioni di gestione dovrebbe sostenere per riacquistare
o riprodurre una determinata attività (utilizzato per le scorte di
materie prime, soggette a continua sostituzione). Se uno di questi
parametri dovesse essere inferiore al valore del costo storico dovrà
essere inserito in bilancio per il principio di prudenza; se nell’anno
successivo dovessero venir meno i motivi che hanno indotto alla
svalutazione, si dovrà rettificare l’attività che era stata svalutata,
contabilizzandola al minor valore fra il costo storico ed il nuovo
valore del parametro di controllo.
[Esempio delle slide riprende quello delle lezioni precedenti:
impianto acquistato per 1000 con ammortamento in cinque anni
con quota di ammortamento a 200. Al termine del secondo anno
gli ammortamenti stanziati sono pari a 400, dunque il valore netto
residuo è pari a 600. I flussi di benefici attesi, ottenuti sottraendo
ai ricavi di vendita le spese necessarie per le scorte di materie
prime e le retribuzioni, è pari a 525. Confrontando questo valore
con quello del costo storico al netto degli ammortamenti emerge
che il bene si è svalutato e andrà contabilizzato al valore più
basso, quello relativo al flusso dei benefici futuri. Di conseguenza
nel bilancio andrà indicato nell’attivo dello stato patrimoniale un
valore dell’impianto pari a 525, mentre nel conto economico si
dovranno contabilizzare come costi di esercizio i 75 relativi alla
svalutazione. Al termine del terzo anno, pertanto, il costo di
acquisto svalutato del bene sarà pari a 525 e la quota di
ammortamento non potrà più essere di 200 come in precedenza,
ma sarà pari a 175, determinando quindi un valore netto residuo
pari a 350. Tuttavia, i flussi di benefici attesi secondo una nuova
stima sono pari a 440, valore superiore a quello netto
dell’impianto, determinando il venir meno dei motivi che avevano
indotto alla svalutazione, rendendo necessario operare un
ripristino del valore dell’attività, riportando l’impianto al valore
che avrebbe avuto se la svalutazione non fosse intervenuta. Il
valore di costo storico senza svalutazione al netto degli
ammortamenti sarebbe stato di 400 e andrà contabilizzato, per il
principio di prudenza, in luogo del flusso di benefici futuri (che
sono superiori, il ripristino non può avvenire per un valore
superiore rispetto a quello del costo storico non svalutato).
Dunque, nell’attivo dello stato patrimoniale andrà inserito un
valore dell’impianto pari a 400, mentre nei ricavi d’esercizio del
conto economico andrà contabilizzato un valore di ripristino pari a
50. Va ribadito, ancora una volta, che non è possibile attribuire ad
un bene un valore superiore a quello del costo storico, altrimenti
non verrebbe rispettato il principio di prudenza.]
Fair value: Rappresenta un’alternativa che i princìpi contabili
internazionali offrono rispetto al valore del costo storico. Il fair
value è pari al corrispettivo al quale un’attività può essere
scambiata o una passività può essere estinta fra parti consapevoli e
disponibili in un’operazione fra terzi, cioè di fatto il valore di
mercato. Questi valori possono essere stimati ad esempio facendo
riferimento a transazioni simili che sono avvenute sul mercato e
viene utilizzato per strumenti finanziari, attività biologiche,
immobilizzazioni materiali, immobilizzazioni immateriali ed
investimenti immobiliari.
Il nostro legislatore ha preferito il costo storico per la sua
oggettività e facilità di determinazione, mentre lo IASB ha
ritenuto che si trattasse di un valore che non può restituire un
quadro fedele del valore attuale delle attività e delle passività, si
pensi agli strumenti finanziari che sono oggetto di contini
mutamenti di valore (e per i quali il Codice Civile rinvia ai
princìpi contabili internazionali). Evidente differenza rispetto al
costo storico è che questo può essere rideterminato soltanto in
ribasso, mentre il fair value, utilizzando i valori correnti di
mercato, può portare anche ad una rivalutazione in positivo, il che
facilita una valutazione prospettica circa la capacità dell’impresa
di produrre reddito, tutelando in questo modo l’interesse degli
investitori poiché vengono considerati anche gli utili potenziali e
non solo i ricavi effettivamente realizzati, riequilibrando il
rapporto fra prudenza e competenza economica. Dunque, mentre il
costo storico rappresenta un’immagine della situazione attuale
dell’impresa, nell’ottica della determinazione del reddito
distribuibile per tutelare il capitale netto ed i creditori, il fair value
restituisce una valutazione prospettica dell’impresa, permettendo
agli investitori di comprendere le potenzialità dell’impresa. Più
specificamente, per ciò che riguarda le plus/minusvalenze non
realizzate, vanno rilevate nel conto economico quelle relative agli
strumenti finanziari (ad eccezione di alcune voci che vanno
imputate a riserva), alle attività biologiche e agli investimenti
immobiliari, mentre in apposita riserva del patrimonio netto vanno
contabilizzate le immobilizzazioni materiali ed immateriali.
Corso di tributario
Lezione 1 – 16 aprile
Lo Stato può recuperare denaro in due modi, operando come
soggetto privato o realizzando un’azione pubblica, nella forma del
tributo, spesso definiti impropriamente come “tassa”, che è in
realtà solo un aspetto del tributo. La fonte della materia è la
Costituzione, anzitutto l’art. 2, per il quale sono tutelati i diritti
inviolabili dell’uomo, come singolo e nelle formazioni sociali,
richiedendo l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale. Così come formulato, questo
articolo riporta all’art. 53 Cost. 1° co., che fa a sua volta
riferimento al dovere della solidarietà, imponendo a tutti i
consociati di concorrere alle spese pubbliche, in base alla propria
condizione economica, partecipando al finanziamento della spesa
pubblica. Ci si deve chiedere, allora, cosa sia un tributo,
precisando che non se ne trova una definizione legislativa ma
soltanto una dottrinaria: “il tributo è un istituto giuridico che
realizza il concorso di tutti al finanziamento ed alla spesa pubblica
attraverso una prestazione obbligatoria collegata ad un fatto
economico”. Rappresenta perciò il mezzo attraverso cui si attua
quel dovere di solidarietà, conformemente anche ad altri articoli
della Costituzione rispetto a quelli citati finora. Va citato, infatti,
anche il principio di legalità di cui all’art. 23 Cost., per il quale
“nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta
se non in base alla legge”. Di conseguenza, l’unico soggetto cui è
attualmente consentito fissare tributi è il parlamento; in teoria
anche il governo potrebbe, in caso di urgenza, fissare un tributo,
ma il relativo provvedimento sarà comunque sottoposto al vaglio
del parlamento, che dovrà convertirlo o perderà i suoi effetti ex
tunc. Molto spesso nella prassi si ricorre allo strumento del
decreto legislativo per imporre un nuovo tributo, trattandosi di una
materia molto tecnica che può essere più facilmente gestita da un
soggetto con una maggiore competenza, ossia il ministero
dell’economia e delle finanze. È questo il motivo per cui le più
importanti riforme nella materia tributaria sono state realizzate
con decreti legislativi.
A seguito della riforma del titolo V della Costituzione e della
legge quadro si è consentito anche alle regioni di legiferare in
ambito della materia tributaria, vista l’attribuzione dell’autonomia
finanziaria e di spesa.
Altra peculiarità molto importante della legge tributaria è che,
diversamente da come avviene in altri ambiti, come ad esempio
quello penale, è ammessa anche un’efficacia retroattiva. Ci si deve
chiedere dunque in quali casi una legge possa avere effetti
retroattivi e quand’è che essa perde di efficacia.
La perdita di efficacia consegue innanzitutto all’abrogazione e alla
dichiarazione di incostituzionalità, a seconda della motivazione
fornita dalla Consulta, ma anche a causa della successione delle
leggi nel tempo. Bisogna anche interrogarsi circa l’efficacia della
legge nello spazio, in particolare per quanto concerne i tributi
introdotti con legge regionale, che non possono essere estesi al di
fuori dello spazio regionale di appartenenza. Non ci si deve far
ingannare dalla menzione “regionale” che appare in alcuni tributi
(es. IRAP) che sono introdotti con legge statale, poiché in tal caso
è questa la cornice in cui le singole regioni possono poi stabilire le
modalità di applicazione della legge tributaria nazionale, ad
esempio muovendosi all’interno di limiti minimi e massimi per
fissare l’entità dell’imposizione.
La legge tributaria condivide un’importante caratteristica con la
legge penale, in quanto entrambe non sono mai soggette
all’applicazione del procedimento analogico al fine di colmare
eventuali lacune normative. Tra i soggetti che interpretano la
legge tributaria vanno citate in primo luogo la dottrina e la
giurisprudenza, ricordando che a pronunciarsi sulla materia non
sono i tribunali ordinari ma le commissioni tributarie provinciali e
regionali, una sorta di giudice speciale (la Costituzione fa divieto
di istituire giudici speciali, ma queste commissioni esistevano
ancor prima della sua entrata in vigore e permangono tuttora). Va
anche detto che, nel corso del tempo, il processo tributario è stato
completamente riformato e non esistono più le commissioni
tributarie di primo e secondo grado, ma si parla di commissioni
tributarie provinciali e regionali, affidando il terzo grado di
giudizio ad una sezione specializzata della Corte di Cassazione (V
sezione). Esiste però un’altra forma di interpretazione, definita
“autentica”, della quale tratta lo Statuto dei diritti del contribuente,
il quale sancisce che “l’adozione di norme interpretative in
materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e
con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di
interpretazione autentica”, rimettendo questa facoltà al legislatore
stesso, l’unico a poter fornire un’interpretazione vincolante del
tributo che egli stesso ha introdotto. Possono essere qui richiamati
anche altri strumenti interpretativi, come le circolari
dell’amministrazione finanziaria, subordinate alla legge ordinaria
e con valenza solo interna per il personale, o anche gli interpelli,
strumenti amministrativi previsti dallo statuto del contribuente,
che permettono al contribuente stesso di chiedere la giusta
applicazione della norma ponendo un quesito all’amministrazione
finanziaria, ricordando che se questa non risponde entro 90 giorni
vale la regola del silenzio assenso. L’interpello non è mai
generalizzato e si applica esclusivamente al soggetto che interpella
il fisco e non ad altri. In ogni caso, qualora il contribuente si
avvalga dell’interpello ma ottenga risposta negativa potrà
rivolgersi alla commissione tributaria.
Sempre rimanendo nell’ambito interpretativo, vale la pena citare
l’art. 10 dello Statuto, in cui si tratta del legittimo affidamento,
stabilendo che se il contribuente si affida in buona fede
all’interpretazione di una norma (es. circolare contraria a legge
ordinaria) allora non sarà perseguibile. L’art. 12, invece, in
ossequio al principio di legalità sancisce che “nell’applicare la
legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto
palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione
di esse e dalla intenzione del legislatore”.
Tornando ai principi costituzionali, è necessario approfondire
quello sancito all’art. 53 Cost. riguardante la capacità contributiva,
il cui primo comma abbiamo già esaminato e stabilisce che tutti
sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche. Il secondo comma,
invece, afferma che il sistema tributario è improntato ad un
criterio di progressività, come si può notare ad esempio grazie
all’IRPEF, imposta progressiva a scaglioni sul reddito delle
persone fisiche che fissa aliquote più alte per chi ha redditi
maggiori. Quest’articolo è rivolto principalmente al parlamento,
limitando la relativa capacità di legiferare in materia tributaria, cui
si impone di tener conto della capacità contributiva dei singoli.
Corollario di quest’articolo sono i princìpi dell’attualità e
dell’effettività. Il primo prevede che si debba sempre considerare
la capacità contributiva del singolo contribuente nel momento in
cui il tributo entra in vigore (es. viene introdotto un tributo il 10
luglio i cui effetti partono dal 1° luglio, per cui si dovrà accertare
se il soggetto contribuente aveva la capacità economica di
sopportare quel tributo). Il principio dell’attualità è collegato a
quelli di uguaglianza e progressività, di rango costituzionale, ma
anche con il principio sociale del riparto della spesa pubblica.
L’art. 53 Cost. 1° co. utilizza il termine “tutti”, facendo
riferimento alle persone fisiche e giuridiche, nonché a coloro che,
pur non essendo cittadini italiani, svolgono la propria attività in
Italia, poiché producono reddito e sono tenuti al pagamento delle
imposte. Il collegamento, dunque, è fondato sia sulla residenza
che sulla fonte.
Elementi strutturali: Prima di procedere all’esame degli elementi
strutturali del tributo è giusto ricordare che bisogna individuare il
“presupposto”, ossia la particolare situazione di fatto cui la legge
ricollega l’imposta. Esistono anche aspetti negativi del
presupposto, quando cioè la legge prevede esoneri ed esenzioni,
ovvero delle fattispecie di sostituzione del presupposto, quando un
soggetto deve provvedere al pagamento in luogo di altro soggetto.
Gli elementi strutturali del tributo sono i soggetti, la base
imponibile ed il tasso, tutti aspetti che devono essere individuati in
maniera specifica dalla legge, che può rimettere alla norma
secondaria soltanto gli aspetti ulteriori rispetto a quelli ora citati.
Soggetto attivo è il ministero dell’economia e delle finanze, cui
compete l’indirizzo politico dei tributi, al quale si affiancano tutti
quegli enti cui sono attribuite funzioni di controllo, cioè le agenzie
fiscali. Soggetti passivi sono ovviamente i contribuenti, in
relazione ai quali va richiamato il principio di solidarietà, che può
essere “paritaria” o “dipendente”. La solidarietà paritaria può
essere associata all’obbligazione solidale, poiché il fisco può
aggredire il patrimonio di uno qualsiasi dei soggetti tenuti
all’adempimento (es. eredi) e chi adempie ha poi diritto alla
rivalsa verso gli altri co-obbligati. La solidarietà dipendente ad
esempio si ha nel momento in cui si paga la parcella del notaio ed
in essa sono incluse le imposte di registro, che sono dunque
riscosse dal notaio stesso, che poi le verserà allo stato. Infine, in
alcuni casi va individuato un soggetto “sostitutivo”, come quando
si pagano imposte a titolo di acconto o tributi a titolo di imposta:
l’imposta a titolo di acconto si ha ad esempio quando un’impresa
paga la parcella di un professionista ed è obbligata per legge a
trattenere il 20% del compenso, che andrà versato allo Stato,
acconto che verrà poi recuperato dal professionista in sede di
dichiarazione; il tributo a titolo d’imposta può avvenire invece fra
imprenditore e suo dipendente, con quest’ultimo che riceve un
salario sul quale il datore di lavoro è obbligato a trattenere
l’imposta dovuta e la versa allo Stato.
Prima di poter discutere del procedimento di individuazione della
base imponibile, è necessario analizzare l’istituto della
dichiarazione tributaria, da non confondersi con la dichiarazione
dei redditi, che è parte della dichiarazione tributaria, espressione
con cui si riferisce a quella dichiarazione di scienza che
comprende tutte le manifestazioni di volontà in materia tributaria
che il soggetto passivo effettua nei confronti del fisco. Il nostro
sistema tributario si basa infatti sulla autodichiarazione,
imponendo ad ogni contribuente di dichiarare i suoi redditi e beni
al fisco. Quest’ultimo ha comunque a propria disposizione diversi
strumenti di accertamento, tra cui ad esempio l’accertamento
ordinario (controllo sulla dichiarazione), sintetico o induttivo (il
fisco non parte dal reddito dichiarato ma da quello consumato,
quando si suppone che la dichiarazione sia infedele).
Lezione 2 – 21 aprile
Classificazione dei tributi: I tributi si classificano in imposte, tasse
e contributi.
L’imposta è un’obbligazione tributaria finalizzata al
soddisfacimento di bisogni pubblici indivisibili ed è prelevata in
relazione ad un fatto economico che esprima la capacità
contributiva. Con questo tipo di tributo si risponde dunque ai
bisogni dell’intera collettività, ad esempio quelli relativi alla
sicurezza, alla sanità o ad altri servizi indivisibili. Gli indici
economici idonei ad esprimere la capacità contributiva del
consumatore sono il reddito, il patrimonio ed il consumo. Il
reddito è definito come l’incremento, espresso in termini
monetari, della ricchezza di un soggetto in un determinato periodo
di tempo, dunque una variabile di flusso legata ad uno specifico
arco temporale. Contrariamente, il patrimonio è un dato capace di
fotografare in termini monetari la ricchezza in un determinato
momento. Quanto ai consumi, può rilevarsi ad esempio di come in
alcuni casi siano fissate aliquote diverse a seconda del valore del
bene.
Si individuano i seguenti elementi costitutivi dell’imposta:
- Presupposto d’imposta: è il fatto giuridico che determina, in
modo diretto o indiretto il sorgere dell’obbligazione tributaria
(che, si ricordi, non è sinallagmatica, poiché semplicemente
lo Stato preleva somme dai cittadini per finanziarie le sue
spese).
- Soggetto attivo: lo Stato o altro ente pubblico (es. regione o
ente locale) che, in base alla legge, ha la possibilità di
istituire tributi e riscuoterli.
- Soggetto passivo: la persona fisica, giuridica o anche l’ente
che si trova in obbligo e in condizione di pagare l’imposta.
- Base imponibile: la parte quantitativa del presupposto (es.
esistono oneri deducibili dal reddito non soggetti a tributi,
come i contributi previdenziali).
- Aliquota: tasso che viene applicato alla base imponibile per
liquidare l’imposta (es. l’IRPEF è un’imposta progressiva a
scaglioni).
- Fonte: risorsa a cui il contribuente attinge per pagare l’imposta
(normalmente il reddito).
Le imposte si distinguono in dirette e indirette. Quelle dirette
colpiscono la manifestazione immediata di capacità contributiva,
cioè la ricchezza esistente (il patrimonio) o conseguita (il reddito).
Imposte dirette sono: l’IMU, imposta municipale sugli immobili
che colpisce i patrimoni del soggetto; l’IRPEF, che è l’imposta sul
reddito delle persone fisiche; l’IRES, l’imposta sul reddito delle
società; l’IRAP, l’imposta regionale sull’attività produttiva. IRPEF
e IRES sono racchiuse nel TUIR, il testo unico sulle imposte
dirette. Le imposte indirette, invece, non sono commisurate al
reddito, in quanto colpiscono la manifestazione mediata di
capacità contributiva. In questa categoria rientrano: IVA; registro;
accisa; ipotecaria; catastale; bollo; pubblicità.
In relazione alla misura e al modo in cui se ne determina
l’ammontare, le imposte sono distinte in fisse, proporzionali e
progressive. Va qui ricordato che l’art. 53, 2° co., afferma che il
sistema italiano è informato al criterio della progressività, con il
quale si vuole sostenere che più il reddito di un soggetto è alto e
più questi dovrà contribuire alle spese dello stato. L’imposta è
fissa quando il suo ammontare non varia in relazione
all’imponibile, ma è determinato direttamente dalla norma
tributaria in modo che tutti i soggetti saranno tenuti a pagare la
stessa cifra, come ad esempio avviene per l’imposta di registro per
locazioni di immobili. L’imposta è invece proporzionale quando il
suo ammontare aumenta in misura direttamente proporzionale
all’aumentare dell’imponibile. Di conseguenza, qualunque sia
l’imponibile, la percentuale che il soggetto passivo dovrà pagare
sarà la stessa, ma l’importo che sarà tenuto a pagare cresce
proporzionalmente all’aumentare del valore dell’oggetto
d’imposta (ad es. l’IRES ha un’aliquota unica). Infine, l’imposta è
progressiva quando aumenta più che proporzionalmente rispetto
all’aumento dell’imponibile, poiché è l’aliquota stessa a crescere
all’aumentare dell’imponibile, in ossequio a quanto previsto
all’art. 53 Cost (es. IRPEF, che da 0 a 15mila € ha un’aliquota del
23%, mentre salendo fino a 28mila è del 27%). È anche possibile
individuare due diversi tipi di progressività: quella continua
prevede la crescita dell’aliquota ad ogni minimo incremento
dell’imponibile, secondo una funzione matematica; quella a
scaglioni, invece, opera sulla base di scaglioni, cioè di parti in cui
viene suddiviso l’imponibile, a ciascuna delle quali viene
associata un’aliquota che cresce quando si passa da uno scaglione
a quello successivo (appunto, l’IRPEF).
Tasse: La tassa è un tributo che il singolo soggetto è tenuto a
versare come pagamento di una utilità che egli riceve, per sua
necessità, da un ente pubblico, secondo il principio della
controprestazione. Non bisogna sovrapporre quest’istituto alle
tariffe versate dall’utente di un servizio pubblico come il trasporto
ferroviario o la fornitura di gas ed elettricità, poiché in questi casi
i prezzi sono determinati contrattualmente e non legalmente,
diversamente da come avviene per le tasse, che sono tributi e,
come tali, possono essere determinati solo con legge. La
riscossione delle tasse avviene generalmente per via diretta,
attraverso il versamento dell’importo nelle casse pubbliche o la
richiesta di un certificato.
Gli elementi fondamentali della tassa rispetto alle altre
controprestazioni patrimoniali (soprattutto la tariffa) sono:
- Autorità del prelievo: non c’è alcun atto di natura contrattuale
ed il pagamento prescinde dalla volontà del cittadino.
- Posizione di supremazia dell’ente impositore rispetto al
privato.
- Previsione di un adeguato apparato sanzionatorio e di poteri di
controllo in favore del soggetto impositore.
- Immediata esecutività degli atti di imposizione.
- Giurisdizione delle commissioni tributarie.
Diversamente, la tariffa indica il prezzo od il corrispettivo di un
bene o servizio fornito da un’impresa pubblica, generalmente in
regime di monopolio, ovvero da un’impresa privata soggetta a
regolamentazione pubblica. Questo tipo di servizio è liberamente
richiesto, a fronte di un contratto di natura privatistica. I sistemi
tariffari sollevano perplessità, in particolare a seguito della
trasformazione di alcuni tributi locali in tariffe (TARSU, tassa sui
rifiuti), generando incertezze circa la loro reale natura giuridica,
non essendo certo che si tratti di tributi o corrispettivi. Questa
distinzione è di fondamentale importanza, poiché se si trattasse di
un corrispettivo di diritto privato bisognerebbe applicare l’IVA e
la competenza non sarebbe più del giudice tributario ma di quello
ordinario.
Contributo: il contributo è un versamento a favore di enti pubblici,
quasi sempre obbligatorio, che viene e effettuato per ottenere
servizi o vantaggi erogabili in futuro, ad esempio con i contributi
previdenziali (versamenti obbligatori a casse pensionistiche) od
assistenziali (versamenti effettuati all’INAIL).
Conclusioni: L’art. 23 della Costituzione sancisce che “nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in
base alla legge”. Il principio della riserva di legge si applica alle
imposte, alle tasse, ai contributi e ai monopoli fiscali (che,
secondo parte della dottrina, rientrano nei tributi). In tutti questi
casi è necessario che lo Stato o l’ente pubblico competente
introduca questo tipo di tributi attraverso una legge.
L’art. 53 della Costituzione sancisce che tutti sono tenuti a
concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva e che il sistema tributario è informato a criteri di
progressività. In linea di principio, questo articolo si applica ad
imposte e contributi, ma non alle tasse, poiché queste ultime
vengono pagate a prescindere dalla capacità contributiva del
soggetto. Al contrario, imposte e contributi servono a coprire il
costo dei servizi divisibili e indivisibili dello stato, sono
commisurate alla capacità contributiva del singolo e non si
giustificano sulla base di attività svolte a favore del singolo.
Capacità contributiva: La capacità contributiva rappresenta la
forza economica del singolo contribuente e può essere misurata
secondo diversi parametri, ossia il patrimonio, il reddito e i
consumi. Questa forza economica deve essere effettiva ed attuale.
L’effettività richiede che l’imposta debba avere ad oggetto fatti
economici che abbiano un riscontro effettivo nella realtà,
limitando l’utilizzo delle presunzioni (ragionevoli e non assolute)
ovvero di criteri forfettari di determinazione della forza
economica (come studi di settore o coefficienti presuntivi). Il
criterio dell’effettività rappresenta una garanzia per il
contribuente, facendo sì che l’imposizione non arrivi mai a
togliere al singolo i mezzi necessari per il soddisfacimento dei
suoi bisogni essenziali.
Per il criterio dell’attualità la forza economica deve essere
presente nel momento in cui l’imposta si applica, motivo per cui
sono previsti dei limiti per la retroattività delle norme tributarie.
Ancora, l’imposta non può riferirsi ad una imposizione passata
oppure futura. Il tributo dunque non può avere di per sé effetto
retroattivo, ma nel momento in cui entra in vigore la sua prima
applicazione può essere retrodatata e produrre limitatamente
alcuni effetti retroattivi [da approfondire].
Lezione 3
Elementi strutturali dell’obbligazione tributaria: Essi sono il
presupposto (esenzioni, esclusioni e fattispecie sostitutive), i
soggetti, la base imponibile ed il tasso. Tutti questi elementi
devono essere previsti dalla legge, nel contesto della riserva di
legge negativa, in virtù della quale gli elementi essenziali
dell’obbligazione tributaria devono essere previsti dalla legge,
potendo demandare alla normativa secondaria di specificare
elementi ulteriori o di scegliere all’interno di un range attraverso
l’esercizio del potere statutario o regolamentare (es. per l’IMU è
previsto un limite minimo e massimo). Questo potere è conferito
ai comuni dal d. lgs. 446/1997, intervento che peraltro ha dato vita
ad un dibattito dottrinario circa la possibilità per il consiglio
comunale di introdurre tributi facendone richiesta alla regione di
appartenenza, in quanto quest’ultima è un ente legislativo. La
teoria in questione fu poi smentita dalla giurisprudenza che ha
affermò la necessità di una legge di attuazione per ciò che
concerne il titolo quinto della Costituzione [quindi oggi si può?
Boh].
Soggetti attivi: Quando una legge introduce un tributo deve anche
stabilire chi sia il soggetto abilitato a riscuoterlo nonché il
soggetto cui si demanda la funzione di controllo circa le modalità
di riscossione. La funzione di indirizzo politico, e dunque di
soggetto attivo, in merito ai tributi è generalmente attribuita al
Ministero dell’economia e delle finanze, mentre i controlli
vengono effettuati tramite l’Agenzia delle Entrate,
amministrazione pubblica dipendente dal Ministero stesso.
Soggetti passivi: I soggetti passivi sono innanzitutto i contribuenti,
cioè coloro sui quali grava l’onere tributario, individuati secondo
il loro domicilio fiscale. Il domicilio fiscale fa sì che, anche a se
non si è cittadini italiani, ma si lavora in Italia, si possa essere
soggetto passivo di un’obbligazione tributaria, aspetto che
riguarda soprattutto le aziende estere operanti sul suolo nazionale,
che sono tenute ad avere un rappresentante fiscale italiano che si
occupi del pagamento delle imposte.
Rilevante per i soggetti passivi è anche il concetto di solidarietà,
che può essere paritaria e dipendente: la prima si ha ad esempio
fra i coeredi, permettendo al fisco di riscuotere l’intero tributo
anche da un singolo soggetto, che potrà poi rivalersi sugli altri
obbligati; la seconda riguarda le ipotesi in cui il soggetto che è
tenuto a versare il tributo non coincide con quello sul quale
incombe l’onere tributario (es. soggetto acquisisce un bene e va
dal notaio, nella cui parcella viene inclusa l’imposta di registro; il
soggetto obbligato è l’acquirente, ma è il notaio a riscuotere
l’imposta, versandola al fisco egli stesso).
La legge prevede anche fattispecie sostitutive, in cui accanto al
contribuente va collocato anche un sostituto, tenuto per legge a
versare l’imposta per conto del contribuente stesso. Va da sé che,
trattandosi di un obbligo fissato a livello legislativo, il sostituto
non può rifiutarsi di riscuotere l’imposta e di versarla allo Stato
(es. il datore di lavoro, quando eroga lo stipendio al dipendente, è
obbligato a detrarre dalla somma quella relativa all’IRPEF per poi
versarla lo Stato, o andrà incontro a sanzioni penali). Quella
appena descritta viene definita sostituzione a titolo d’imposta, ma
esiste anche quella a titolo d’acconto, che usualmente avviene nei
rapporti fra committente e professionista, poiché sulla parcella di
quest’ultimo il committente deve trattenere il 20% per poi versarlo
allo Stato.
Procedimento di imposizione: Le fasi di cui si compone il
procedimento d’imposizione sono l’accertamento e liquidazione
dei tributi ed il versamento dei tributi, anche se va detto che in
molti casi queste due fasi tendono ad intrecciarsi.
L’art. 10 della L. 212/2000 (Statuto del contribuente) sancisce il
principio di buona fede, cui si accompagna la possibilità di agire
in autotutela, il riconoscimento degli obblighi di informazione e la
non necessarietà della richiesta di atti già in possesso [vedi lezione
1?].
È previsto il principio del contradditorio fra contribuente e fisco,
che il più delle volte non è obbligatorio, anche se sono previste
delle ipotesi di obbligatorietà come per il controllo automatico o
formale delle dichiarazioni, ovvero in caso di elusione d’imposta.
Più specificamente, il contradditorio facoltativo può avvenire
prima dell’accertamento sintetico ovvero prima dell’accertamento
fondato su indagini bancarie, permettendo in entrambi i casi al
contribuente di essere sentito [dall’Agenzia delle entrate?].
Inoltre, al termine della verifica, al contribuente sono concessi
sessanta giorni di tempo per presentare delle memorie.
Riforme tributarie: Quasi sempre le riforme tributarie avvengono
attraverso una delega conferita dal parlamento al governo. La
legge delega 825/1971 viene definita dal professore “rivoluzione
copernicana del fisco” con la quale il parlamento delegò al
governo il compito di emanare una serie di provvedimenti che
potesse riformare l’intero sistema tributario. Nacquero così
l’IRPEF, l’ILOR (oggi IRES), L’IRES, l’IVA e così via, passando
di fatto dalle entrate indirette a quelle dirette. L’IRPEF e l’IRES
furono poi inglobate in un testo unico, detto TUIR (testo unico
sulle imposte dirette) del 917/1986, che comprende appunto le
imposte sul reddito delle persone fisiche e giuridiche.
Altra importante riforma tributaria è quella realizzata con il d. lgs.
446/1997, con il quale si realizzò un riordino dell’imposizione
locale, con l’abolizione di diversi tributi locali, ad esempio
l’ILOR e l’ICIAP, di fatto inglobandoli nell’IRAP, l’imposta
regionale sulle attività produttive. Va precisato che l’IRAP,
nonostante l’utilizzo del termine “regionale”, rimane di fatto un
tributo statale, in quanto introdotto e regolamentato con legge
dello Stato, il quale ha rimesso alle regioni solo la possibilità di
scegliere l’aliquota da applicare, comunque mantenendosi
all’interno di un certo limite minimo e massimo. Con questo
decreto legislativo, infatti, il legislatore concesse agli enti locali
potere statutario e regolamentare, aspetti sui quali influì poi anche
il TUEL, che rappresenta un corpo di princìpi di funzionamento
degli enti locali. A questi ultimi non viene più concesso di
indebitarsi per le spese correnti, ma solo per quelle di
investimento. Ancora, riguardo i tributi, gli enti locali non
possono introdurne di nuovi o prevedere esenzioni, poiché si
violerebbe il principio della riserva di legge, ma gli è al più
concesso di determinare il quantum, purché all’interno dei limiti
fissati dalla legge. In questa cornice, l’organo cui è demandato il
potere di modificare o integrare l’aliquota è il consiglio comunale,
su proposta della giunta comunale, nel contesto di un’imposta che
rimane comunque statale.
Il d.lgs. 300/1999 ha ristrutturato i poteri accertativi, istituendo
quattro agenzie: Entrate, dogane, territorio (nel 2012 incorporata
in quella delle entrate) e demanio. Pur ricevendo in delega alcune
funzioni di controllo da parte del Ministero dell’economia e delle
finanze, le agenzie rimangono comunque sue emanazioni e
restano alle sue dipendenze. Lo scopo era evidentemente di
snellire la burocrazia ministeriale.
La legge delega 80/2003 è stata attuata solo in parte. Il suo primo
obiettivo era quello di creare un codice tributario, che doveva
essere fondato su princìpi mutuati dallo Statuto del contribuente,
tra cui chiarezza, semplicità, irretroattività, divieto di doppia
imposizione, divieto di applicazione analogica, minimizzazione
del sacrificio. Il riordino doveva prevedere cinque imposte: sul
reddito delle persone fisiche, sul reddito delle persone giuridiche,
sul valore aggiunto, sui servizi e sulle accise. Si riteneva di poter
creare una sorta di codice per ognuna di queste imposte e, anche
se il completo riordino non fu possibile per diverse ragioni
politiche, alcune riforme trovarono effettivamente la luce, in
particolare quella che riguarda l’attuale IRES, che colpisce
persone giuridiche, associazioni e fondazioni che svolgono attività
commerciali.
La più recente delle riforme è quella avvenuta a seguito della
legge delega 23/2014, definita “delega al governo recante
disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e
orientato alla crescita”. Fu introdotto l’articolo 10 bis dello Statuto
del contribuente, che riguarda l’abuso del diritto e l’elusione
fiscale, ma fu anche riformato l’articolo 11, relativo al diritto di
interpello, del quale oggi si individuano quattro tipi.
Con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, gli enti
territoriali si sono visti riconoscere dagli artt. 117 e 119 un potere
di imposizione nell’ambito del coordinamento della finanza
nazionale. L’art. 117, co. 3°, in cui si elencano le materie di
competenza concorrente Stato-regioni, viene sancito che la
regione, in concorrenza con lo Stato, può armonizzare i bilanci
pubblici e coordinare la finanza pubblica e il sistema tributario.
Secondo parte della dottrina le regioni potevano già legiferare in
materia, ma un reale riconoscimento si ebbe solo con questo
intervento, anche detto del federalismo fiscale.
Lezione 3-4
L’Iva (imposta sul valore aggiunto) è un’imposta comunitaria,
introdotta con una direttiva CEE e recepita dall’Italia con il DPR
633/72. Si tratta di un’imposta indiretta che si applica sulla
cessione dei beni e sulla prestazione di servizi. [Ad ogni passaggio
(es. produttore/grossista/dettagliante) l’Iva rimane neutra e alla
fine colpirà soltanto il consumatore finale. Questo vale in generale
per le imposte che vengono caricate all’impresa, che farà sempre
in modo di rivalersi sul consumatore].
Parte della dottrina (incluso il professore) considera l’Iva
un’imposta mista. Nell’imposizione diretta, il pagamento del
tributo avviene attraverso l’autodichiarazione e l’unico soggetto
passivo è il contribuente, salvo vi siano sostituti a titolo di imposta
od acconto. Nell’Iva, invece, si individuano due categorie di
soggetti passivi, uno dal punto di vista formale e uno dal punto di
vista sostanziale. È sicuramente un’imposta indiretta poiché
colpisce i consumi, nel momento in cui un soggetto manifesta la
sua capacità contributiva attraverso l’acquisto di un bene o un
servizio. Tuttavia, obbligato a versare l’Iva allo stato è il soggetto
titolare di partita iva (es. imprenditore o professionista), che deve
per legge tenere una contabilità fiscale, che si concretizza nel
registro delle fatture acquisti, in cui vanno appunto indicati gli
acquisti, e nel registro delle fatture emesse, nel quale si registrano
tutte le vendite. Periodicamente (di regola mensilmente, se c’è un
fatturato sotto soglia anche ogni tre mesi), il titolare di partita Iva
è obbligato a realizzare un’autoliquidazione dell’Iva, cioè ad
anticipare allo Stato ciò che egli ha pagato e incassato come Iva.
Dunque, se la differenza tra incasso e pagamento di Iva e positiva
dovrà versarla allo Stato, altrimenti avrà un credito Iva che porterà
in diminuzione nella successiva autoliquidazione. Ogni anno,
inoltre, il titolare della partita Iva deve redigere
un’autodichiarazione di tutte le operazioni Iva effettuate.
Formalmente, allora, il professionista è un soggetto passivo,
essendo tenuto a realizzare una serie di adempimenti formali
coerentemente con quanto avviene per le imposte dirette, mentre
dal punto di vista sostanziale il soggetto passivo è il consumatore,
sul cui consumo finale grava l’imposta, come avviene
normalmente per le imposte indirette.
L’Iva è un’imposta differenziata a seconda del bene o della
prestazione, potendosi individuare tre aliquote: quella ordinaria è
fissata al 22%, quella ridotta al 10% (es. per il turismo) e quella
minima è pari al 4% (beni di prima necessità). Queste aliquote non
tengono conto della capacità contributiva del singolo
consumatore, ma sono semplicemente fissate a seconda del bene
cui si fa riferimento (l’Iva sulla pasta è al 4% a prescindere dalla
capacità contributiva di chi la acquista). Si può affermare, allora,
che la base imponibile è data dal prezzo della merce o dalla
prestazione di servizi. È ovvio che la scelta di applicare l’una o
l’altra aliquota può anche dipendere dalla volontà di incentivare
alcune filiere e settori, come ad esempio si potrebbe ritenere per il
turismo, di fondamentale importanza per l’economia italiana
contribuendovi per circa il 15% del PIL, giustificando così la
previsione dell’aliquota ridotta pari al 10%.
Si tenga sempre a mente che l’Iva è un’imposta comunitaria e che,
per le merci che circolano all’interno dell’UE, si applica nel paese
di destinazione (es. bene prodotto in Italia e indirizzato alla
Francia, l’Iva viene dichiarata e applicata dal rivenditore
francese).
Riassumiamo le caratteristiche dell’Iva:
- Mista, diretta e indiretta (dal punto di vista formale per il
professionista, dal punto di vista sostanziale per il
consumatore finale);
- Proporzionale (il suo importo aumenta all’aumentare della
base imponibile);
- Neutra (non dipende dal numero di passaggi che la merce
compie dal produttore al consumatore);
- Generale (colpisce tutti i contribuenti e prescinde dalla loro
capacità contributiva);
- Sui consumi (grava sui consumatori finali);
- Connessa ad adempimenti amministrativi (attività compiute
nell’esercizio d’impresa di arti e professioni);
- Circa il campo di applicazione, le operazioni si distinguono in
imponibili (cessioni di beni, prestazioni di servizi, prelievi
per autoconsumo), non imponibili (esportazioni) ed esenti
(non soggette per motivi economico-sociali, come ad
esempio le prestazioni mediche).
Lezione 5 - 28 aprile
L’Irpef è oggi racchiusa, insieme con l’Ires, nel Tuir, il testo unico
delle imposte sui redditi emanato con d.p.r. 917/1986.
Si tratta di un’imposta personale e progressiva a scaglioni, poiché
colpisce tutte le persone fisiche sul loro reddito complessivo,
espressione che ricomprende tutto ciò che il soggetto ha
guadagnato nel corso dell’anno precedente. Il sistema tributario
italiano è fondato sul principio costituzionale della capacità
contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione e l’Irpef consente
di valutare la reale attitudine del soggetto a concorrere alle spese
pubbliche.
Il presupposto dell’imposta è indicato all’art. 1 del Tuir e consiste
nel possesso di redditi in denaro o in natura, classificati nelle
seguenti categorie dall’art. 6: redditi fondiari; di capitale; di lavoro
dipendente; di lavoro autonomo; d’impresa, diversi. Nelle singole
categorie vengono inclusi redditi provenienti da omogenee fonti di
produzione, eccetto ovviamente quella relativa ai redditi diversi in
cui semplicemente confluisce tutto ciò che non rientra nelle altre.
Poiché ogni categoria è considerata secondo le proprie peculiarità,
ognuna di esse ha le proprie regole di determinazione del reddito.
Soggetti passivi dell’Irpef sono residenti e non residenti: i
residenti per i redditi interni ed esteri, ovunque siano prodotti (per
i redditi tassati da altro Stato detraendo la percentuale
corrispondente, per il principio del divieto della doppia
imposizione); i non residenti, invece, solo per i redditi prodotti in
Italia.
Il periodo d’imposta dell’Irpef viene disciplinato dall’art. 7 Tuir,
nel quale si afferma che “l’imposta è dovuta per anni solari, a
ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria
autonoma” e che “l’imputazione dei redditi al periodo d’imposta è
regolata dalle norme relative alla categoria nella quale rientrano”.
Ciascun periodo d’imposta ha una propria rilevanza autonoma, cui
corrispondono autonome obbligazioni tributarie e obblighi formali
(es. se nel 2018 sostengo una spesa medica e dimentico di portarla
in detrazione nel 2019, non potrò più farlo nel 2020 perché non è
di competenza di quell’anno solare).
L’art. 9 Tuir riguarda la determinazione del reddito complessivo:
“i redditi e le perdite che concorrono a formare il reddito
complessivo sono determinati distintamente per ciascuna
categoria, secondo le disposizioni dei successivi capi, in base al
risultato complessivo netto di tutti i cespiti che rientrano nella
stessa categoria”. In altre parole, il reddito complessivo è dato
dalla somma algebrica di tutti i redditi, ognuno dei quali viene
determinato secondo le regole tipiche della categoria di
appartenenza. [reddito complessivo – oneri deducibili = reddito
imponibile * aliquota = Irpef lorda – detrazioni = Irpef netta]
L’Irpef è un’imposta progressiva a scaglioni, le cui aliquote sono:
23% da 0 a 15mila; 27% tra 15mila e 28mila; 38% tra 28mila e
55mila; 41% tra 55mila e 75mila; 43% da 75mila in poi. [Imposta
a scaglioni significa che se ad esempio guadagno 50mila euro,
applicherò un’aliquota del 23% fino a concorrenza dei 15mila, del
27% fino ai 28mila e del 38% sulla parte restante. Sommando i
risultati si ottiene l’Irpef lorda.]
Quando si parla di oneri deducibili ci si riferisce all’elencazione
tassativa di cui all’art. 10 Tuir, che riguarda oneri e spese che
incidono sulla effettiva capacità contributiva del soggetto [nella
slide si afferma che è difficile trovare una ratio di questa
elencazione e che possono individuarsi differenti concetti di spesa
con finalità extrafiscali]. Allo stesso modo sono tassativamente
elencate anche le detrazioni, tra cui le più importanti riguardano
quelle per i carichi di famiglia e per i canoni di locazioni (ma ne
sono previste di ulteriori nel Tuir e in altre disposizioni di legge).
La differenza fra oneri deducibili e detraibili è che i primi
rappresentano le spese che possono essere sottratte al reddito
prima di calcolare l’imposta da pagare, mentre i secondi vengono
sottratti direttamente all’imposta stessa, diminuendone l’importo.
Lezione 6 – 30 Aprile
La ITF, imposta sulle transazioni finanziarie, è un’imposta
nazionale introdotta attraverso uno strumento giuridico
comunitario, quello della cooperazione rafforzata. L’art. 117 Cost.
sancisce che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”, dovendosi dunque affermare che anche la potestà
legislativa in materia tributaria è vincolata dai limiti posti
dall’ordinamento comunitario. [boh]
Lezione 7 – 5 maggio
L’iva costituisce la principale imposta indiretta del nostro sistema
impositivo, rappresentando uno dei maggiori gettiti per il nostro
erario. In quanto imposta indiretta, colpisce la ricchezza in
occasione di un consumo, di un investimento o di un trasferimento
patrimoniale. Più precisamente, il D.P.R. 633/72 stabilisce che
l’Iva si applica alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi
effettuate nel territorio dello Stato, nell’esercizio di imprese o di
arti e professioni, nonché alle importazioni da chiunque effettuate.
Il sistema così costruito fa sì che L’Iva colpisca il consumo finale,
rimanendo invece neutrale nei passaggi intermedi di beni e servizi
fra produttori e professionisti, anche se la legge impone alcuni
adempimenti a carico di chi effettua cessioni di beni o prestazioni
di servizi.
L’iva riguarda tre categorie di soggetti: i fornitori (imprenditori o
lavoratori autonomi), i clienti e l’Erario. Questo perché il fornitore
deve addebitare al cliente il tributo, proporzionale al corrispettivo
contrattuale, e provvede a versarlo all’Erario al netto del tributo da
lui corrisposto ai propri fornitori. L’Iva corrisposta ai fornitori di
beni e servizi acquistati nell’esercizio di imprese, arti o
professioni può essere detratta dall’Iva sulle operazioni attive, col
diritto al rimborso di eventuali eccedenze. Per comprendere
meglio il funzionamento si ricordi che il fornitore addebita l’Iva al
cliente e ha un’imposta a debito verso l’erario(?) mentre il cliente
può avere una posizione diversa: se è il consumatore finale paga
l’Iva al fornitore, non la detrae e la tassazione si compie; se è
un’impresa paga l’Iva al fornitore e la detrae dalla propria Iva
sulle vendite ai clienti, con diritto di credito sull’eccedenza. In
questo secondo caso, dunque, il cliente è a sua volta fornitore dei
propri clienti e il meccanismo prosegue finché non si giunge al
consumatore finale. L’Iva si caratterizza, dunque, per la sua
neutralità, poiché i passaggi compiuti dal bene prima di essere
acquistato dal consumatore finale si accompagnano alla detrazione
dell’imposta assoluta sugli acquisti e al diritto al rimborso
dell’eccedenza. In questa catena di passaggi, l’Iva, che non è
soggetta a variazioni e rimane sempre al 22%, è a debito per ogni
soggetto che vende ed è a credito per coloro che acquistano dal
soggetto immediatamente precedente, fino ad arrivare al
consumatore finale, per il quale l’Iva è sempre a debito e non
potrà rivalersi su altri.
Presupposti ed operazioni: L’art. 1 del DPR 633/72 afferma che
sono soggette al regime IVA “le cessioni di beni e le prestazioni di
servizi effettuate nel territorio dello stato nell’esercizio di imprese
o nell’esercizio di arti e professioni e le importazioni da chiunque
effettuate”. Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto le operazioni
si classificano in:
- operazioni nel campo IVA, a loro volta suddivise in operazioni
imponibili, non imponibili (cessioni all’esportazione e
cessioni intracomunitarie) ed operazioni esenti
- operazioni fuori campo IVA, in cui rientrano le operazioni
escluse per assenza del requisito generale ovvero per espressa
disposizione.
Come detto, perché un’operazione sia soggetta al regime IVA sono
necessari tre requisiti: uno è oggettivo, cioè deve trattarsi di
cessioni di beni o prestazioni di servizi; uno è soggettivo, poiché
queste operazioni devono essere effettuate nell’esercizio di
imprese o di arti e professioni; uno è territoriale, in quanto sono
soggette al regime le operazioni effettuate nel territorio italiano.
Peculiare è il regime delle importazioni di beni, sempre soggette
ad IVA indipendentemente dalla sussistenza dei requisiti
precedenti.
Presupposto oggettivo: L’art. 2 specifica ulteriormente il
significato dell’espressione cessione di beni, con la quale si indica
il trasferimento della proprietà, la costituzione reali di godimento
(es. usufrutto, abitazione) e il trasferimento di diritti reali di
godimento sui beni di ogni genere (mobili o immobili, non vi
rientrano brevetti o marchi che costituiscono prestazioni di
servizi). Sono comunque considerate cessioni di beni anche talune
cessioni gratuite, essendo irrilevante il requisito dell’onerosità, tra
cui rientrano: le cessioni gratuite di beni alla cui produzione o al
cui scambio è diretta l’attività dell’impresa; la destinazione dei
beni all’uso od al consumo personale o familiare dell’imprenditore
o del professionista, anche se determinata da cessazione
dell’attività; la destinazione ad altre finalità estranee all’impresa o
all’esercizio dell’arte o della professione, anche se determinata
dalla cessazione dell’attività. Fanno tuttavia eccezione i campioni
gratuiti di modico valore, appositamente contrassegnati. Ancora,
sono considerate cessioni di beni anche le vendite con riserva di
proprietà, le locazioni con clausola di trasferimento della proprietà
vincolante per ambedue le partite (non il leasing) ovvero i
passaggi dal committente al commissionario e viceversa di beni
venduti od acquistati in esecuzione di contratti di commissione
(regola del doppio passaggio). Lo stesso art. 2 individua anche le
eccezioni, stabilendo che non sono considerate cessioni di beni: le
cessioni e i conferimenti in società o altri enti (es. consorzi o
associazioni) di aziende o rami d’azienda; le cessioni di denaro o
crediti in denaro; le cessioni di campioni gratuiti di modico valore
appositamente contrassegnati; i passaggi di beni in dipendenza di
fusioni, scissioni o trasformazioni di società; le cessioni di beni
soggette alla disciplina dei concorsi e delle operazioni a premio.
Nel presupposto oggettivo si includono anche le prestazioni di
servizi, disciplinate all’art. 3 del DPR, secondo il quale ai fini Iva
si considerano prestazioni di servizi le prestazioni verso
corrispettivo dipendenti da contratti in genere aventi ad oggetto un
facere, presentando anche un’elencazione di quali possano essere
(ad es. opera, trasporto, mandato, locazione, mutuo). L’articolo
termina con una disposizione di chiusura che include in via
generale nelle prestazioni di servizi “qualsiasi obbligazione di
fare, non fare o permettere”. Esistono poi operazioni assimilate
alle prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo, in cui
rientrano: le concessioni di beni in locazione, affitto e simili
(leasing); le cessioni, concessioni e licenze relative a diritti
d’autore, modelli e marchi; le somministrazioni di alimenti e
bevande; le cessioni di contratti di ogni tipo e oggetto. In tutte
queste operazioni compaiono al tempo stesso il “fare” e il “dare”.
Inoltre, si considerano prestazioni di servizi anche alcune
prestazioni gratuite, ossia quelle effettuate per l’uso personale
dell’imprenditore ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee
all’esercizio dell’impresa, escluse talune somministrazioni e
prestazioni al personale dipendente (es. servizio mensa). Come per
le cessioni di beni, anche per le prestazioni di servizi sono previste
alcune eccezioni, poiché, anche se solo a titolo esemplificativo,
sono esclusi da IVA: i conferimenti in società ed i passaggi di
servizi in dipendenza di fusioni, scissioni o trasformazioni; le
cessioni, concessioni e licenze di diritti d’autore, invenzioni
industriali, modelli e marchi effettuate direttamente dall’autore
ovvero suoi eredi o legatari; i prestiti obbligazionari.
Presupposto soggettivo: Dal punto di vista soggettivo,
l’operazione di cessione di beni o prestazioni di servizi rientra nel
campo di applicazione dell’IVA se è posta in essere nell’esercizio
di imprese, arti o professioni (c.d. lavoro autonomo). Si considera
come esercizio dell’attività non solo l’insieme di prestazioni
tipiche di una determinata impresa o professione, ma anche tutte
quelle che utilizzano i beni o le strutture imprenditoriali o
professionali (es. commercialista che cede ad un collega
l’utilizzazione di una stanza). Perché sussista il presupposto
soggettivo in una prestazione di servizi devono concorrere due
elementi: l’obbligo deve essere diverso dal “dare”, dunque ad
esempio fare, non fare o permettere; la prestazione deve avvenire
verso corrispettivo, come causa giustificatrice dell’assunzione
dell’obbligo, cioè è una prestazione sinallagmatica.
Per ciò che riguarda l’esercizio d’impresa, ai fini dell’IVA, si
intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non
esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt.
2135 e 2195 c.c., anche se non organizzate in forma d’impresa,
nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa,
dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’articolo
2195. L’art. 4 del DPR prevede comunque una presunzione di
commercialità, considerando in ogni caso effettuate nell’esercizio
d’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da
S.n.c., S.a.s., S.p.A., S.a.p.A., S.r.l., società cooperative, società
estere e società di fatto.
Con l’espressione “esercizio di arti e professione” si vuole
richiamare il lavoro autonomo, o meglio, l’esercizio per
professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività
di lavoro autonomo, cioè attività abituale non rientrante tra quelle
di impresa e non svolta con vincolo di subordinazione. Con
riguardo ai soggetti, il DPR si riferisce alle attività di lavoro
autonomo espletate da persone fisiche ovvero società semplici od
associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone
fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse. Non
si considerano effettuate nell’esercizio di arti e professioni le
prestazioni di servizi inerenti ai rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, a condizione che siano rese da soggetti
che non esercitano per professione abituale altre attività di lavoro
autonomo.
Riassumendo, l’esercizio di impresa è una definizione legata alla
natura del soggetto, poiché per le società commerciali e gli enti
economici si utilizza il criterio formale della presunzione assoluta
di commercialità, mentre per le persone fisiche e gli enti non
economici si applica un criterio sostanziale che impone di
considerare solo l’esercizio per professione abituale, anche se non
esclusiva, delle attività commerciali o agricole, anche se non
organizzate in forma di impresa. Per gli enti non commerciali
sono considerate effettuate nell’esercizio di impresa solo le
cessioni di beni e prestazioni di servizi compiute nell’esercizio
della propria attività commerciale o agricola.
Operazioni soggette: Il momento impositivo viene individuato
diversamente a seconda dell’operazione che si effettua:
- per le cessioni di beni si distingue tra: beni immobili
(momento della stipulazione dell’atto), beni mobili
(momento della consegna o spedizione); sia per beni mobili
che immobili, se precedente agli eventi ora indicati, si tiene
conto del momento di emissione della fattura o del
pagamento del corrispettivo;
- per le prestazioni di servizi si considera il momento del
pagamento ovvero quello dell’emissione della fattura, se
precedente.
Fanno eccezione a quanto detto finora le cessioni e prestazioni
fatte allo Stato, organi dello Stato, enti pubblici territoriali, istituti
universitari, ASL, ed enti ospedalieri, poiché l’IVA afferente a tali
operazioni diviene esigibile solo al momento del pagamento del
corrispettivo da parte del debitore.
Al momento impositivo conseguono alcuni obblighi, poiché al
momento di effettuazione dell’operazione il contribuente deve
emettere la fattura (fatturazione immediata), sempre che questa
non sia stata già emessa anteriormente (ad esempio per acconto).
La fatturazione differita è ammessa solo in determinati casi e
purché sussistano alcune condizioni.
Presupposto territoriale: Il DPR richiama il criterio della
territorialità per l’individuazione delle operazioni soggette,
considerando come effettuate nel territorio dello Stato le
operazioni realizzate nel territorio dello Stato o dell’UE ovvero
ancora con soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato.
Per le cessioni di beni soggette si includono quelle che riguardano
immobili e mobili, mentre fanno eccezione le cessioni di beni a
bordo di nave, treno o aereo nonché le cessioni di gas ed energia
elettrica. Al fine della territorialità delle cessioni rileva il luogo in
cui si trovano i beni, a nulla influendo la residenza delle parti tra
cui avviene l’operazione (es. se cessione è fra due residenti in
Italia ma il bene è all’estero, questa è fuori campo IVA).
Quanto alle prestazioni di servizi, queste si considerano effettuate
nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi
stabiliti nel territorio dello Stato od a committenti non soggetti
passivi da soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato. Con
l’espressione “soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato”
si indica il soggetto passivo: domiciliato nel territorio dello Stato;
residente nel territorio dello Stato e che non abbia stabilito il
domicilio all’esterno; una stabile organizzazione nel territorio
dello Stato di soggetto domiciliato o residente all’estero,
limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute.
Operazioni esenti: Per motivi di ordine socioeconomico l’Iva non
viene applicata ad una serie di operazioni. Tra quelle esenti si
includono ad esempio: operazioni di credito e finanziamento o
dilazioni di pagamento; operazioni di assicurazione; operazioni
relative a valute estere; operazioni relative ad azioni e
obbligazioni; prestazioni sanitarie; locazioni non finanziarie ed
affitti di terreni agricoli di aree non edificabili né adibite a
parcheggio; cessioni aventi ad oggetto beni acquistati o importati
senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta. Per le
operazioni esenti, dunque, la ratio può essere eterogenea,
rispondendo a finalità che possono essere sociali o finanziarie.
Non è previsto un obbligo di rivalsa ma rimangono validi gli
obblighi formali legati alla necessarietà di adempimenti quali la
fatturazione e la registrazione.
Operazioni non soggette fuori campo: Diverse dalle operazioni
esenti sono le operazioni non soggette, nelle quali cioè manchi
almeno uno dei tre requisiti previsti per l’imposizione dell’IVA
(soggettivo, oggettivo, territoriale). A titolo esemplificativo, sono
operazioni non soggette: le cessioni di beni effettuate da soggetti
private (manca il requisito soggettivo), la consegna di merci in
conto comodato (manca il requisito oggettivo), la cessione di beni
esistenti in territorio straniero (manca il requisito territoriale).
Differentemente da quelle esenti, queste operazioni non sono
soggette ad alcun adempimento IVA, ad esempio fatturazione o
registrazione, e non devono comparire nel volume d’affari del
contribuente.
Base imponibile: Questa è determinata con specifico riferimento a
ciascuna operazione ed è costituita dall’ammontare complessivo
dei corrispettivi dovuti al cedente od al prestatore in base al
relativo contratto ed è comprensiva degli oneri e delle spese
inerenti all’esecuzione del negozio. In linea di principio, dunque,
la base imponibile è costituita dal corrispettivo pattuito tra le parti.
Restano comunque esclusi dalla base imponibile ai sensi dell’art.
15: interessi moratori, penalità per ritardi o nell’adempimento
degli obblighi del cessionario o del committente; il rimborso delle
anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché
regolarmente documentate [ce ne sono altre ma la prima è la più
importante].
Più volte viene utilizzata l’espressione “valore normale”, con cui
si indica l’importo che il cessionario o il committente dovrebbero
pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o
prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione
nel tempo e nel luogo della cessione o prestazione. Qualora il
valore normale non si accertabile, si tiene conto del prezzo di
acquisto (in mancanza, di costo) per le cessioni di beni e delle
spese di esecuzione del servizio per le prestazioni di servizi.
Applicazione dell’IVA: L’IVA sulle vendite è quella risultante
dall’adempimento dell’obbligo di rivalsa, con applicazione
dell’aliquota prevista da tariffa o tabella (22%, 10%, 4%) sulla
base imponibile.
Fatturazione: Costituisce fattura ai fini IVA qualsiasi documento,
anche se redatto con forma o denominazione diversa (es. conto,
parcella) nel quale siano riportanti i seguenti elementi: data di
formazione del documento (che può non coincidere con la data di
emissione/trasmissione); numerazione progressiva; nome, ditta,
denominazione o ragione sociale, residenza o domicilio dei
soggetti tra i quali è avvenuta l’operazione; numero e data del
documento di trasporto/consegna in caso di fatturazione differita;
è necessario indicare anche il numero di partita IVA del cedente o
del prestatore. Caratteristiche della fatturazione dunque sono: la
presenza del numero di partita IVA dell’emittente e il suo codice
fiscale; la natura, qualità e quantità dei beni o servizi; i
corrispettivi inclusi nella base imponibile (incluso il valore
normale dei beni ceduti a titolo di sconto rientrati nella base
imponibile); il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto
esclusi dalla base imponibile; l’aliquota; l’ammontare
dell’imposta.
Tra gli elementi formali che l’art. 21 annovera tra gli elementi
essenziali di una fattura sono inclusi la natura, qualità e quantità
dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione, al fine di
far emergere con chiarezza la natura della prestazione
effettivamente resa, evitando descrizioni eccessivamente
sintetiche.
Circa la tempistica, l’obbligo di emissione della fattura si intende
tempestivamente adempiuto qualora venga assolto nel giorno di
effettuazione dell’operazione ossia entro le ore 24 di tale giorno.
La fattura si considera emessa all’atto della consegna o spedizione
all’altra parte o della sua trasmissione per via elettronica. La
certificazione dei corrispettivi avviene con scontrino o ricevuta
fiscale. Per ridurre il fenomeno dell’evasione fiscale, dal 2019 la
fatturazione elettronica è divenuta obbligatoria.
L’art. 22 DPR stabilisce che l’emissione della fattura non è
obbligatoria se non richiesta dal cliente non oltre il momento di
effettuazione dell’operazione, quando si tratti ad esempio di
commercio al minuto, le prestazioni alberghiere, di ristorazione, di
trasporto di persone, di biblioteche o visite di musei. In questi casi
è comunque previsto l’obbligo di emissione dello scontrino fiscale
o della ricevuta nonché l’obbligo di registrazione delle operazioni
attive nel “registro dei corrispettivi”.
IVA per cassa: Una importante deroga alla disciplina del momento
di effettuazione dell’operazione IVA è quella relativa al regime
dell’IVA per cassa, particolarmente rilevante per la cessione di
beni più che per le prestazioni di servizi. Questa regola ammette
l’esigibilità al pagamento del corrispettivo e non nelle ipotesi di
effettuazione
Rivalsa: Esiste un meccanismo di “rivalsa-detrazione”, in virtù del
quale il prelievo non incide sui soggetti IVA, neutrale nei loro
confronti, poiché questi acquisiscono l’IVA sulle vendite dai
propri clienti in sede di rivalsa, per poi recuperare, in sede di
detrazione, quella sugli acquisti da loro versata ai fornitori. Per
contro, il prelievo incide solo sui consumatori finali, che
effettuano acquisti senza rivestire la qualifica di soggetto IVA,
essendo dunque privi del diritto di detrazione sugli acquisti.
La regola è che esiste un obbligo di rivalsa e sono nulli eventuali
patti contrari, ma sono previste alcune deroghe, come ad esempio
quelle relative alle cessioni di beni o prestazioni di servizi
gratuite, all’autoconsumo e alle destinazioni a finalità estranee,
per le quali è prevista soltanto una facoltà di rivalsa.
Detrazione: L’IVA dovuta all’erario dal cedente-prestatore è data
dalla differenza tra l’IVA sulle vendite, addebitata in rivalsa al
cliente, e l’IVA sugli acquisiti, incorporata in via di rivalsa nel
prezzo di acquisto dal proprio fornitore. Non tutta l’IVA su
acquisti è detraibile, richiedendosi alcuni presupposti per la
detraibilità: l’imposta deve essere addebitata con una fattura; deve
essere relativa ad un’operazione inerente all’attività svolta; è
afferente ad operazioni imponibili od equiparate; non rientra nei
casi di indetraibilità; viene esercitato correttamente il diritto alla
detrazione, che sorge nel momento in cui l’imposta diviene
esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con al dichiarazione
relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla
detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della
nascita del diritto medesimo. Anche la fattura ad esigibilità
differita, comunque, va registrata nei termini, poiché l’aliquota
viene fissata al momento dell’emissione ed è solo il versamento
dell’IVA ad essere differito al momento del pagamento della
fattura. L’esigibilità dell’imposta, quindi, è il diritto dell’erario a
percepire il tributo a partire da un dato momento, che coincide con
il momento di detraibilità dell’imposta (con la liquidazione IVA).
Se prima del compimento dell’operazione viene emessa la fattura
o pagato in tutto od in parte il corrispettivo, l’operazione si
considera effettuata limitatamente all’importo fatturato o pagato.
Sono fatti salvi i limiti di detraibilità oggettivi previste dalle
norme di legge, tra cui ad esempio l’art. 19 bis, secondo il quale si
ammette una detrazione del 40% sull’imposta per l’acquisto di
alcuni veicoli purché questi non siano utilizzati esclusivamente
nell’esercizio dell’impresa, dell’arte o della professione. Altri
esempi di indetraibilità oggettiva possono essere gli omaggi e le
spese di rappresentanza, purché di valore inferiore a 25,82 o l’iva
su prestazioni di trasporto di persone a meno che non rientri
nell’attività propria dell’impresa. In sostanza, si parla di
indetraibilità oggettiva quando c’è una limitazione al diritto di
detraibilità dell’IVA, ossia quando il legislatore concede una
detraibilità parziale del suo ammontare.
La detrazione dell’IVA può essere operata sui beni e servizi
acquistati nell’esercizio di impresa, arte o professione ed inerenti
all’attività propria dell’impresa, mentre ciò che non è
riconducibile all’attività commerciale deve ritenersi non inerente.
Lezione 8 – 6 maggio
Registri Iva: I registri previsti dalla normativa Iva sono quelli
relativi a fatture emesse, acquisti e corrispettivi, cui si aggiungono
altri tre registri che sono soltanto eventuali, essendo relativi alle
liquidazioni (le liquidazioni Iva sono mensili, trimestrali o
annuali), alle vendite intracomunitarie e agli acquisti
intracomunitari. Per la tenuta dei registri vanno osservate alcune
prescrizioni stabilite da norme civilistiche e del Tuir, dovendo ad
esempio essere numerate progressivamente le operazioni ovvero
essere privi di abrasioni, cancellature e spazi in bianco. Non è più
previsto l’obbligo di bollatura e vidimazione annuale dei registri.
Si ricordi che le scritture contabili obbligatorie, ai sensi del
Codice civile, vanno conservate per un periodo minimo di dieci
anni.
Iva comunitaria: Nelle operazioni intracomunitarie vale il
principio generale della tassazione nel paese di destinazione
dell’operazione. Per individuare questo tipo di operazioni si
richiede due requisiti, uno di ordine oggettivo ed uno soggettivo:
il primo consiste nel fatto che l’operazione deve riguardare la
cessione di beni che vengano fisicamente trasportati da un paese
all’altro delle UE; il secondo riguarda il fatto che l’operazione in
questione deve essere posta in essere tra due soggetti passivi Iva.
Le operazioni poste in essere con privati sono considerate come se
fossero interne e, dunque, sono imponibili. Lo stesso vale anche
per le operazioni concluse con soggetti residenti al di fuori
dell’UE che non hanno un rappresentante fiscale in alcuno stato
membro.
La normativa vigente stabilisce che l’Iva si applica sugli acquisti
intracomunitari di beni effettuati nel territorio dello Stato,
nell’esercizio di imprese, arti o professioni. Sono definiti “acquisti
comunitari” le acquisizioni a titolo oneroso che comportano il
trasferimento della proprietà di beni, spediti o trasportati da un
altro Stato membro nel territorio dello Stato italiano, da parte del
cedente soggetto passivo d’imposta (ancora una volta si ribadisce
che le parti coinvolte devono essere soggetti passivi Iva).
Reverse charge: L’inversione contabile consiste in una traslazione
degli obblighi sostanziali e formali relativi ad operazioni Iva, che
si trasferiscono dal cedente-prestatore al cessionario-committente.
In relazione alle cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate
nel territorio dello Stato da cedenti-prestatori non residenti in
favore di cessionari-committenti stabiliti in Italia, gli obblighi di
Iva sono imposti a carico di quest’ultimo. In questo caso il
cedente-prestatore emette una fattura senza addebito di Iva,
indicando la causale di non assoggettamento, mentre il
cessionario-committente emette un’autofattura con applicazione
dell’Iva secondo la disciplina interna, registrando la fattura stessa
a credito e a debito. La ratio sottesa a questa disciplina è collegata
alla volontà di evitare il rimborso, tramite la detrazione, da parte
dello Stato del cessionario-committente dell’Iva versata allo Stato
del cedente-prestatore, che è oggetto di rivalsa. Allo stesso tempo
si vogliono impedire le cosiddette “frodi carosello”, nelle quali
l’Iva a credito viene incassata dal cedente-prestatore e se ne
omette il versamento, mentre allo stesso tempo avviene una
detrazione dell’Iva a debito da parte del cessionario-committente.
Liquidazione Iva: La regola generale prevede come obbligatoria la
liquidazione Iva mensile, tuttavia è possibile optare anche per
quella trimestrale se si rientra in alcuni parametri di fatturato e in
determinate categorie, ma in questo caso l’importo a debito verrà
aumentato a titolo di interessi di una percentuale pari al saggio di
interessi legali (0.8%). Ovviamente la scelta è rimessa al soggetto
Iva, che può mantenere il regime di periodicità mensile se lo
ritiene opportuno.
Nel calcolo della liquidazione Iva periodica si distinguono quella
a debito e a credito, includendo nella prima tutti gli importi
incassati dai clienti a titolo d’imposta (es. emessa fattura da 1000€
+ 22%, Iva a debito è 220), mentre nella seconda rientrano tutti gli
importi Iva pagati ai fornitori (es. ricevo fattura da 300 con Iva al
22%, il credito Iva maturato è 66€. Questa è la regola generale,
ma esistono deroghe ed eccezioni, che prevedono una detraibilità
solo parziale od anche totale per alcuni prodotti e servizi, come ad
esempio per le auto o la telefonia.
Per il calcolo della liquidazione Iva si sommano:
- + Iva esigibile sulle fatture emesse nel periodo di riferimento
- + Iva esigibile sui corrispettivi emessi nel periodo di
riferimento
- - Iva detraibile delle fatture di acquisto registrate nell’apposito
registro nel periodo di riferimento
- = Iva a debito / a credito
Si può osservare che l’Iva relativa a fatture emesse e corrispettivi
va a debito anche qualora non si sia proceduto alla registrazione
dei relativi documenti negli appositi registri, mentre l’Iva sugli
acquisti è detraibile solo a condizione che le fatture di acquisto
siano state registrate nell’apposito registro. Qualora da questo
calcolo emerga una posizione debitoria, questa dovrà essere
saldata entro il 16 del mese successivo. Allo stesso modo, se
dovesse emergere una posizione creditoria questa verrà riportata al
periodo successivo. Per il regime trimestrale, l’Iva viene versato il
16 di Maggio, Agosto e Novembre, mentre nel caso del regime
annuale il 16 di Marzo.
Regimi speciali: Chi rientrava nel regime dei minimi non era
soggetto all’aliquota Iva né al pagamento dell’Irpef, ma era tenuto
al pagamento di un’imposta sostitutiva al 15%. Per accedere a
questo regime era necessario possedere alcuni requisiti,
individuati in alcuni parametri quantitativi che non andavano
superati, relativi ad esempio ai volumi d’affari, o alle spese
sostenute per i dipendenti e per l’acquisto di beni strumentali.
A partire dal 1° Gennaio 2019, il regime forfettario, noto anche
come flat tax al 15% per le partite Iva, viene applicato ai
professionisti e alle imprese con ricavi non superiori ai 65mila
euro. L’imposta sostitutiva è pari al 20% per lo scaglione di
reddito compreso tra 65001 e 100mila euro, ipotesi in cui non si è
esonerati dall’obbligo di fatturazione elettronica imposto a tutti i
contribuenti titolari di partita Iva in regime forfettario. Possono
dunque accedere al regime forfettario tutti i contribuenti persone
fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni che nell’anno
precedente hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito
compensi non superiori a euro 65000. Di contro, non possono
accedervi i titolari di partita Iva esercenti attività d’impresa, arti o
professioni che, contemporaneamente all’esercizio dell’attività,
partecipano a S.p.A., associazioni od imprese familiari. Ancora
non rientrano nel regime i titolari di partita Iva che controllano,
anche indirettamente, S.r.l. che esercitano attività economiche
riconducibili a quelle svolte dagli esercenti attività d’impresa, arti
o professioni.
I vantaggi del regime forfettario: esclusione da Iva e Irap; reddito
assoggettato a imposta sostitutiva pari al 15%; calcolo del reddito
imponibile effettuato tenendo conto di diversi coefficienti di
redditività a seconda del codice ATECO, che riducono la misura
della base imponibile.
Ravvedimento operoso: Con questo istituto l’autore della
violazione può rimediare spontaneamente alle omissioni e/o
irregolarità commesse beneficiando di una considerevole
riduzione delle sanzioni amministrative. La ratio è legata al
contemperamento di due elementi, da un lato la volontà di
permettere il ravvedimento del contribuente che riconosce il
proprio comportamento come non conforme alle norme, dall’altro
il vantaggio per l’amministrazione, che risparmia le risorse che
avrebbe dovuto destinare all’accertamento. La riduzione della
sanzione diminuisce con il passare del tempo tra il momento della
violazione e quello del ravvedimento (es. 1/9 entro 90 giorni, 1/7
entro due anni). In ogni caso, il ravvedimento non valido se manca
il pagamento anche di uno solo degli importi dovuti (imposta,
interessi, sanzioni). Per i soli tributi dell’Agenzia delle Entrate il
ravvedimento è operativo sino alla notifica dell’atto di
accertamento o di liquidazione o di comunicazione di irregolarità
(non vi sono preclusioni legate a constatazione di violazioni o
inizio accessi/verifiche), anche in questo caso la riduzione
diminuisce proporzionalmente al tempo trascorso tra il
ravvedimento e la violazione.
Lezione 8 – 7 Maggio
L’Irpef è l’acronimo per “imposta sul reddito delle persone
fisiche”, un’imposta personale e progressiva, espressione del
principio di progressività sancito a livello Costituzionale. Il suo
scopo è quello di assicurare allo Stato un gettito elevato,
rappresentando uno strumento di stabilizzazione dell’economia
che permette di realizzare obiettivi di redistribuzione del reddito.
Presupposto dell’imposizione è in generale il percepimento di un
reddito, sia esso in denaro o in natura. Soggetti passivi sono i
residenti per i redditi prodotti all’interno del territorio dello Stato e
i non residenti per i redditi comunque prodotti in Italia, secondo
due princìpi di tassazione: la residenza del percettore e la fonte del
reddito. Dunque, la base imponibile dell’Irpef è data dalla somma
dei redditi individuali che il soggetto passivo produce, che non
corrisponde al reddito d’entrata né al reddito prodotto. Più nello
specifico, secondo il Tuir, la base imponibile è costituita da sei
categorie di reddito: fondiari, da capitali, da lavoro dipendente, da
lavoro autonomo, d’impresa, diversi.
I redditi fondiari sono quelli derivanti da terreni o fabbricati. Nel
primo caso può trattarsi di reddito dominicale, quando è imputato
al proprietario del terreno, ovvero di reddito agrario, se imputato
all’agricoltore, ossia a colui che coltiva il fondo. Nel caso dei
fabbricati, invece, si tiene conto dell’estensione, delle rifiniture e
dell’ubicazione; secondo questi parametri, per l’abitazione
principale è dovuta la rendita catastale, per le abitazioni non locate
è dovuta l’Irpef solo se si trovano nello stesso comune, per le
abitazioni locate è dovuta l’Irpef ordinaria.
I redditi da capitale includono i proventi da rapporto finanziario,
cioè da rapporto contrattuale, ovvero i dividendi di partecipazione,
cioè i redditi derivanti dalla partecipazione a capitale di rischio.
I redditi da lavoro dipendente e autonomo comprendono anzitutto
i redditi derivanti da rapporto avente per oggetto la prestazione di
lavoro alle dipendenze o sotto la direzione di altri, cioè nei quali è
presente un vincolo di subordinazione; accanto ad essi si
collocano i redditi derivanti dall’esercizio per professione
abituale, anche se non esclusiva di arti e professioni. Nella
categoria si includono anche le pensioni di ogni genere.
I redditi di impresa sono quelli derivanti da: attività industriale
diretta alla produzione di beni o servizi; attività intermediaria
nella circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, acqua o
aria; attività bancaria o assicurativa.
I redditi diversi ricomprendono tutti quelli che non rientrano nelle
altre categorie, ad esempio i redditi da usufrutto di beni immobili
o aziende, indennità e rimborsi di attività sportive dilettantistiche,
plusvalenze da cessione (immobiliari, di contratti a termine ecc.).
Redditi esclusi: Sono esclusi dalla base imponibile i redditi
sottoposti a regimi sostitutivi, soggetti a tassazione separata e i
redditi esenti. È bene ricordare che attualmente i titolari di partita
Iva in regime forfettario beneficiano della tassazione ridotta al
15% sostitutiva dell’Irpef. Vediamo alcuni esempi riguardo i vari
redditi esclusi.
I regimi sostitutivi si applicano attraverso istituti di credito che
erogano finanziamenti di qualsiasi durata in determinati settori
(es. artigianato) in luogo delle imposte di registro, bollo,
ipotecarie e catastali. Questi finanziamenti sono soggetti ad
imposta sostitutiva con aliquota in base alla somma erogata.
La tassazione separata riguarda i redditi formati in diversi anni ma
percepiti insieme in un secondo momento, come ad esempio le
indennità prodotte durante il periodo di attività di un’azienda, che
vengono percepite solamente al momento della sua cessazione.
[altro esempio è il TFR].
Le esenzioni possono essere temporanee o permanenti, ad
esempio quelle concesse alle nuove imprese per 10 anni, e
possono essere soggettive od oggettive. Soggettiva è l’esenzione
dalla vecchia ICI per gli immobili posseduti dallo Stato; oggettiva
è l’esenzione dalla vecchia ICI di tutti i fabbricati classificati in
alcune categorie catastali. [altro esempio, sono previste esenzioni
per chi effettua investimenti nel mezzogiorno].
Determinazione dell’imposta: La sommatoria di tutti i redditi
fornisce il dato del “reddito complessivo”, cui vanno sottratte le
“deduzioni tradizionali” per individuare il “reddito imponibile”. In
ossequio ai princìpi costituzionali della progressività delle imposte
e della capacità contributiva, sul reddito imponibile viene
applicata la scala delle aliquote, determinando così l’imposta
lorda, cui vanno poi sottratte le detrazioni per determinare, infine,
l’imposta netta. Si badi che deduzioni e detrazioni sono concetti
differenti, con le prime che vengono sottratte al reddito imponibile
e le seconde che vengono sottratte all’imposta fiscale lorda per
poter calcolare quella netta.
Esistono numerose deduzioni, ma le principali sono sicuramente i
contributi obbligatori di tipo previdenziale, versati all’Inps dal
lavoratore per beneficiare della pensione, ed assistenziale, versati
obbligatoriamente agli enti di assicurazione sociale dal datore di
lavoro per conto dei lavoratori al fine di garantire una copertura
dei rischi legati ad infortuni, invalidità e malattia. Altri tipi di
deduzioni tradizionali possono essere le liberalità, entro i limiti
stabiliti dalla legge (es. clero, ONG), o anche la rendita catastale
dell’immobile adibito ad abitazione principale (non si può dedurre
la rendita di altri immobili), ovvero ancora le spese mediche e di
assistenza specifica per i portatori di handicap.
[Per le spese mediche superiori a 129,11€ è ammessa una
detrazione del 19%. Anche per le spese sanitarie sostenute per
familiari non a carico affetti da patologie esenti rimane una
franchigia di 129,11€ con un tetto massimo di 6197€. Quando le
spese superano i 15493€ nell’anno di imposta si dovrà provvedere
alla rateizzazione delle spese sanitarie.]
Scala delle aliquote: L’Irpef è un’imposta sul reddito progressiva,
poiché aumenta più che proporzionalmente rispetto all’incremento
del reddito, coerentemente con i principi costituzionali della
capacità contributiva e della progressività. È l’art. 53 della
Costituzione, infatti, ad affermare che tutti sono tenuti a
concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva e che il sistema tributario è informato a criteri di
progressività. Il contribuente dovrà versare l’imposta in funzione
degli scaglioni di reddito nei quali rientra, applicando le aliquote
che attualmente sono disposte su cinque scaglioni e variano da un
minimo del 23% ad un massimo del 43% (si pensi che
originariamente esistevano 32 scaglioni). Gli scaglioni sono così
distribuiti:
- 0/15.000€ - 23% del reddito
- 15.001/28.000 – 3,450 + 27% su reddito superiore a 15.000
- 28.001/55.000 – 6.960 + 38% su reddito superiore a 28.000
- 55.001/75.000 – 17.220 + 41% su reddito superiore a 55.000
- Oltre 75.000 – 25.420 + 43% su reddito superiore a 75.000
Detrazioni: Esistono quattro tipi di detrazioni: per fonte di reddito,
per carichi di famiglia, per oneri personali (19% della spesa), con
finalità incentivanti.
Le detrazioni per fonte di reddito sono decrescenti al crescere del
reddito complessivo e sono differenziate a seconda della posizione
del contribuente, a seconda che questo sia un lavoratore
dipendente, un pensionato, un pensionato over 75 od un lavoratore
autonomo.
Con le detrazioni per carichi di famiglia esiste una
personalizzazione della detrazione, anzitutto secondo un principio
di equità orizzontale, a seconda che si abbiano il coniuge, i figli od
altre persone a carico. Anche in questo caso, è previsto che le
detrazioni decrescano al crescere del reddito complessivo,
applicando il principio di equità verticale.
Le detrazioni per oneri personali (pari al 19% della spesa) hanno
finalità e tetti diversi. Esiste una personalizzazione del prelievo,
come si è già visto in relazione alle spese mediche generiche e
specialistiche (franchigia 129,11€), ed è previsto un intervento su
alcuni prelievi fiscali con limiti sull’importo massimo, ad esempio
per gli interessi passivi sull’abitazione principale, per le spese
scolastiche o le liberalità concesse alle Onlus.
Le detrazioni con finalità incentivanti sono previste per favorire
determinate attività o comportamenti, ad esempio sono previste
per le ristrutturazioni edilizie che rispettano alcune prescrizioni,
con uno sconto Irpef generalmente fissato al 50% fino a
concorrenza di un certo limite.
Lezione 9 – 12 maggio
La principale fonte normativa del processo tributario, una costola
del processo civile, per così dire, è il d. lgs. 546/92, recante
appunto il Codice del processo tributario.
Giurisdizione: La giurisdizione è la funzione dello Stato volta a
dirimere i conflitti. Di essa esistono diversi tipi: civile, fra
cittadini; penale, fra Stato e cittadini; amministrativa, fra cittadini
e autorità amministrativa; contabile, fra Enti pubblici o locali e la
Corte dei conti; tributaria.
La giurisdizione tributaria, ex art. 1 del Codice del processo
tributario, è esercitata dalle commissioni tributarie provinciali e
regionali. Il secondo comma dell’articolo sancisce che “i giudici
tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da
esse non disposto e con esse compatibili, le norme del Codice
civile. Pur essendo previsto a livello costituzionale il divieto di
istituire giudici speciali (più che altro per evitare il ripetersi di
quanto accaduto durante il regime fascista), possono essere fatte
salve le giurisdizioni preesistenti, motivo per il quale le
commissioni tributarie sono state mantenute in vita.
Le commissioni tributarie provinciali e regionali sono organi
giurisdizionali veri e propri, che hanno il potere di emettere
decisioni vincolanti per le parti del processo, nella forma di
sentenze perfettamente equiparabili a quelle emesse ad esempio da
un tribunale o da un Tar. Una sentenza viene spesso definita
“legge fra le parti”, non essendo opponibile né vincolante nei
confronti di terzi. Perché si possa adire il giudice è necessario che
vi sia un interesse, cioè che ci sia stata una lesione di un proprio
diritto o vi sia il pericolo che essa si verifichi. È scontato
affermare che ci si rivolgerà alle commissioni tributarie
ogniqualvolta la res litigiosa riguardi la debenza di un tributo
richiesta da un ente impositore. Con quest’ultima espressione si
indicano gli enti pubblici che per legge hanno la potestà
impositiva, cioè di imporre tributi ai contribuenti. Tra i principali
enti impositori c’è l’Agenzia delle entrate o quella doganale, ma
esistono numerosi enti impositori locali, come le province ma
soprattutto i comuni.
Con il termine processo ci si riferisce ad una sequela di atti
consequenziali, preordinati ad un provvedimento finale; quello
tributario è un processo giurisdizionale, più specificamente
amministrativo, al termine del quale viene emessa una decisione
con valore vincolante per le parti e che, di regola, vale come titolo
esecutivo.
L’art. 2 del Codice, nella sua nuova formulazione, afferma che
“appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie
aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque
denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il
contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le
addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro
accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto
le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata
tributaria.
Vediamo le principali caratteristiche della giurisdizione tributaria.
Essa è esclusiva poiché non ammette equipollenti e ogni pretesa di
natura tributaria bisogna necessariamente adire la commissione
tributaria, anche se si tratta, come visto, di una giurisdizione di
sola cognizione. Esiste anche un altro limite per la giurisdizione
tributaria, cioè che essa è impugnatoria: per poter adire il giudice
tributario deve esistere un atto di imposizione
dell’amministrazione finanziaria (come avviene per gli atti
amministrativi con il TAR), mentre non sono ammesse le
controversie di mero accertamento. L’ultimo limite da affrontare è
che la giurisdizione tributaria non è esaustiva, in quanto non tutti
gli atti sono impugnabili, come espressamente stabilito dal
legislatore nel combinato disposto degli artt. 2 e 19, l’uno riferito
alla giurisdizione tributaria, l’altro contenente un’elencazione
degli atti impugnabili ed oggetto del ricorso. Non è ad esempio
impugnabile il verbale della guardia di finanza, pur contenendo in
astratto una pretesa fiscale, perché non proviene da un’autorità
impositiva e, dunque, non è inserito nell’art. 19. Un atto, per
essere impugnabile davanti alle commissioni tributarie deve
perciò avere due requisiti, deve cioè avere ad oggetto una materia
tributaria e rientrare nei casi previsti dall’art. 19. Importanti sono
le lettere “g”, cioè il rifiuto espresso o tacito della restituzione di
tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non
dovuti, ed “h”, ossia il diniego o la revoca di agevolazioni o il
rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;
cioè ogniqualvolta si chiede qualcosa all’amministrazione
finanziaria e c’è un provvedimento che dovrebbe essere emesso,
ma così non avviene. Inizialmente si riteneva che quell’elenco
potesse essere considerato un numerus clausus, ma ci si rese conto
che non riusciva ad essere esaustivo e si è aggiunta la lettera “i”,
con la quale si è incluso “ogni altro atto per il quale la legge ne
preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni
tributarie”. Di fatto si può ritenere esista un’elencazione
giurisprudenziale di altri atti impugnabili dinanzi alle commissioni
tributarie, tra cui gli avvisi bonari, le intimazioni, le ingiunzioni ed
altri atti contenenti una manifestazione impositiva diretta.
Lezione 10 – 13 Maggio
L’attività amministrativa degli enti impositori consiste
nell’emissione dell’atto finale del procedimento amministrativo
con cui si chiede prestazione tributaria al contribuente, il quale,
una volta ricevuta la notificazione, ha diritto di contestare la
pretesa tributaria proponendo ricorso davanti alle commissioni
tributarie. La notificazione è amministrativa quando è l’ente
impositore a realizzarla con diversi metodi, ad esempio a mezzo
PEC, ufficiale giudiziario o messo comunale.
Il ruolo è un elenco in cui sono iscritti tutti i contribuenti, in un
determinato ambito e per una determinata imposta (es. ruolo
imposta Irpef 2019 per residenti a Napoli). La posizione nel ruolo
del singolo contribuente deve essere notificata a quest’ultimo
mediante la cartella esattoriale, appunto recante la parte del ruolo
che lo riguarda. Chiaramente, se lo ritiene opportuno, il
contribuente è legittimato ad impugnare la cartella, entro il
termine di 60 giorni. La notificazione è uno strumento di
conoscenza legale di fondamentale importanza, poiché se questa è
omessa o è invalida si può eccepire la decadenza della potestà
impositiva.
L’art. 18 del Codice del processo tributario stabilisce che “il
processo è introdotto con ricorso alla commissione tributaria
provinciale”, poiché è quest’ultima ad occuparsi del primo grado
del giudizio tributario, mentre il secondo grado viene affidato alla
commissione tributaria regionale.
Il criterio inderogabile di individuazione della commissione
tributaria provinciale è fissato dall’art. 4 nella competenza per
territorio: “le commissioni tributarie provinciali sono competenti
per le controversie proposte nei confronti degli enti impositori,
degli agenti della riscossione” ed altri soggetti che “hanno sede
nella loro circoscrizione”, aggiungendo che “le commissioni
tributarie regionali sono competenti per le impugnazioni avverso
le decisioni delle commissioni tributarie provinciali che hanno
sede nella loro circoscrizione”. Come accennato, la competenza
delle commissioni tributarie è inderogabile e il vizio di
competenza è rilevabile anche d’ufficio, solo nel grado al quale il
vizio si riferisce, mentre non è ammesso regolamento di
competenza.
Tornando all’atto introduttivo, il ricorso può essere inteso in senso
formale, quale documento, e nel suo significato giuridico, cioè di
strumento attraverso il quale si dà avvio al processo. È pacifico
che il ricorso, dovendo essere notificato, deve essere redatto in
forma scritta. Questo deve contenere necessariamente alcune
indicazioni, elencate nell’art. 18: la commissione tributaria cui è
diretto; il ricorrente ed i suoi dati anagrafici; l’ufficio nei cui
confronti è proposto il ricorso; l’atto impugnato e l’oggetto della
domanda; i motivi; la sottoscrizione del difensore. In assenza o
nell’incertezza assoluta di una di queste indicazioni, il ricorso si
considera inammissibile. Alcune precisazioni si rendono
necessarie.
Circa l’oggetto della domanda, si ricordi innanzitutto che non
sono ammesse le azioni di mero accertamento e che, trattandosi di
impugnazioni, la principale richiesta è quella di annullamento.
I motivi sono le ragioni per le quali un atto viene impugnato, che
devono essere analitiche, ragionevoli e soprattutto fondate. Si badi
che il motivo è cosa diversa dalla motivazione, trattandosi di
elementi che attengono a due momenti e a due parti differenti, il
primo riguardante il ricorso redatto dalla parte o dal difensore e il
secondo attinente all’atto impugnato stesso, redatto dal
funzionario pubblico.
Con riferimento alla sottoscrizione del difensore, la regola nel
processo tributario (art. 12) è che si venga assistiti da un difensore
abilitato, eccetto che il valore della lite sia inferiore ai 3000€, caso
nel quale è comunque ammesso che la commissione tributaria
imponga la nomina del difensore se ritiene che il contribuente non
sia in grado di difendersi (es. non sa cos’è un’eccezione). Per
“valore della lite” si intende l’importo del tributo al netto degli
interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato.
Sono abilitati all’assistenza tecnica, se iscritti nei relativi albi
professionali: gli avvocati; i dottori commercialisti iscritti in
apposita sezione; i consulenti del lavoro; altri soggetti che sono
abilitati solo per specifiche materie che richiedono una elevata
competenza tecnica (es. ingegneri, architetti, agrotecnici). Si
ricordi che il difensore deve allegare al ricorso la procura alle liti e
deve indicare il suo indirizzo PEC, poiché il processo tributario è
divenuto necessariamente telematico. Va da sé che anche
nell’ambito del processo tributario è possibile chiedere la difesa a
carico dello Stato a favore dei cittadini non abbienti.
Le parti si costituiscono in giudizio telematicamente e la
controversia sarà iscritta nel registro generale, che sarà assegnata
dal presidente della commissione ad una sezione (il cui presidente
nomina un giudice relatore), formando d’ufficio un fascicolo e
fissando un’udienza che dovrà essere notificata alle parti almeno
30 giorni prima della celebrazione. La commissione tributaria
decide sempre in composizione collegiale composte all’inizio
dell’anno solare, in ossequio al principio del giudice naturale
sancito a livello costituzionale. La regola è che l’udienza si tenga
in camera di consiglio, con il collegio (presidente e due giudici)
che si riunisce senza la presenza delle parti, che hanno già esposto
le loro ragioni in forma scritta mediante la costituzione in giudizio
e la controdeduzione. Tuttavia, la legge concede la facoltà ad una
parte di chiedere che il processo sia celebrato in pubblica udienza,
in cui le parti saranno ammesse ad esporre le loro ragioni. In
questo caso c’è una breve relazione del giudice relatore, se
presenti gli avvocati sono ammessi alla discussione (solo orale, i
documenti devono essere già stati depositati), dopodiché i giudici
si ritireranno per deliberare.
È principio generale del nostro ordinamento che chiunque avanzi
una pretesa debba dimostrare la fondatezza del proprio diritto.
Allo stesso modo, chi si oppone a tale pretesa deve dimostrare i
fatti impeditivi, estintivi e modificativi del diritto. Nell’ambito
tributario si parla, per così dire, di processo a parti invertite,
realizzando un’inversione dell’onere della prova, poiché il
contribuente agisce in opposizione al provvedimento dell’autorità
impositiva, in maniera simile a come avviene per l’opposizione al
decreto ingiuntivo. Dunque, l’onere probatorio grava sull’ente
impositore e il contribuente dovrà provare i fatti modificativi,
estintivi e impeditivi della pretesa. Si ricordi che nel processo
tributario sono ammesse le sole prove documentali (non lo sono
giuramenti e testimonianze).
Lezione 11 – 14 Maggio
Ai sensi dell’art. 17 bis, per le controversie di valore non
superiore a cinquantamila euro il ricorso produce anche gli effetti
di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con
rideterminazione dell’ammontare della pretesa, producendo una
sospensione dei termini fino alla scadenza di novanta giorni dalla
data di notifica, entro il quale la procedura della mediazione deve
essere conclusa. Prima di tale scadenza, il ricorso non è
procedibile e solo dopo di essa comincerà a decorrere il termine
per la costituzione in giudizio del ricorrente.
Oggetto del giudizio è esclusivamente quanto specificato nella
domanda del contribuente, così ad esempio se questi dovesse
chiedere un rimborso pari a 100 non se ne potrà accordare uno
superiore, altrimenti si incorrerebbe nel vizio di ultra o
extrapetizione.
Tornando alla notificazione, è opportuno sottolineare che essa è il
mezzo di comunicazione dell’atto, dunque costituisce
un’appendice ma non fa parte dell’atto stesso, per cui la i vizi
della notificazione non si riverberano sulla validità dell’atto, ma
comportano solo che questo non ha un’efficacia esecutiva ed è
inopponibile al contribuente. Conseguentemente, se un atto valido
è stato mal notificato, questo potrà essere rinotificato purché non
siano scaduti i termini fissati dalle singole leggi per la notifica a
pena di decadenza.
L’art. 36 del Codice dispone circa il contenuto della sentenza, il
documento cartaceo alla cui emissione è preordinato il processo
tributario. Questa è pronunciata in nome del popolo italiano ed è
intestata alla Repubblica italiana. Deve contenere: l’indicazione
della composizione del collegio (sempre un presidente e due
giudici, è un collegio perfetto), delle parti e dei loro difensori se vi
sono; la concisa esposizione dello svolgimento del processo; le
richieste delle parti; la succinta esposizione dei motivi in fatto e
diritto; il dispositivo.
Con riferimento agli oneri probatori si è detto che nel processo
tributario si assiste ad una inversione, poiché la parte che impugna
un atto impositivo eccepisce una situazione negativa e dovrà
essere l’ente stesso a dimostrare che tutti i presupposti perché si
potesse applicare l’imposizione sussistano (es. se affermo che non
ho mai ricevuto una notifica sarà onere dell’altra parte dimostrare
che l’ho ricevuta). Dunque, è l’amministrazione finanziaria a
dover dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa.
Il dispositivo può rigettare la domanda od accoglierla, in questo
secondo caso specificando quali sono gli
effetti dell’accoglimento, ad esempio annullamento di un atto,
riconoscimento di un’agevolazione o accertamento di una somma
in misura diversa da quella stabilita dall’amministrazione
finanziaria. Non sono mai ammesse sentenze parziali che
decidono solo su alcune delle domande rinviando ad un secondo
momento per le altre. Si badi che la sentenza deve essere sempre
redatta per iscritto, firmata dal presidente e poi depositata.
Alla fine del procedimento si applica il principio che impone alla
parte soccombente di pagare le spese sostenute dall’altra parte del
giudizio, salvo si applichi l’istituto della compensazione, in virtù
del quale le parti sono tenute a pagare le proprie spese. L’istituto si
applica in caso di accoglimento parziale della domanda, poiché a
ben vedere sono entrambe le parti ad essere soccombenti, ovvero
quando sussistano gravi motivi le cui ragioni andranno
adeguatamente indicate in sentenza, come ad esempio avviene
quando la questione riguarda una nuova normativa priva di
interpretazioni o una questione particolarmente complessa.
Chiuso il primo grado di giudizio, l’ordinamento prevede
l’appello ed il giudizio per cassazione, qualora si dubiti della
bontà della sentenza del primo grado. L’appello, secondo il
criterio di competenza funzionale va proposto dinanzi alla
commissione tributaria regionale e avverso la sentenza di
quest’ultima si può proporre ricorso per Cassazione,
esclusivamente per motivi di legittimità, deducendo errores in
procedendo e iudicando. A sua volta, la Cassazione può decidere
sulla questione o rinviare al giudice d’appello o a quello del primo
grado se rileva una situazione di illegittimità che si è verificata in
tali gradi di giudizio. Va ricordato che il giudice tributario si
occupa di tutte le questioni incidentali, ma quanto deciso non può
acquisire il valore di sentenza né formare giudicato, poiché la sua
decisione rileva strumentalmente ai soli fini del giudizio
sull’imposta. Le uniche preclusioni circa le questioni incidentali
riguardano le querele di falso e lo status delle persone, in entrambi
i casi producendosi la sospensione del processo. [La querela di
falso è diversa dalla querela penale e riguarda specificamente la
falsità di un atto pubblico o di una scrittura privata, va proposta
con citazione al tribunale ordinario]. Il giudizio va sospeso anche
nel momento in cui ci sia altra controversia di natura tributaria,
ancora sub iudice, dalla cui definizione dipende la decisione della
causa.
[L’atto può essere impugnato davanti alla commissione tributaria
solo per vizi propri (es. mi viene notificato un accertamento
secondo cui si afferma che la mia abitazione è di 1000 metri
quando il valore corretto è 100, dandomi termine di 60 giorni per
oppormi. Se tale termine decorre e successivamente mi viene
notificata la cartella di pagamento, con 60 giorni per presentare
opposizione, quest’ultima può riguardare solo vizi propri della
cartella, ma non più il valore di 1000 metri che ormai è divenuto
definitivo poiché possono essere messi in discussione solo vizi di
atti precedenti per i quali c’è stato ricorso in commissione.)]
Il giudizio d’appello si chiude con sentenza che può accogliere la
richiesta o rigettarla, cioè riformare o confermare la sentenza del
primo grado. Anche nell’ambito del diritto tributario il giudice
dell’appello può intervenire sulla sentenza nei limiti di ciò che è
stato appellato secondo il principio di devoluzione dell’appello
(tantum devolutum quantum appellatum).
La sospensione e l’interruzione del processo sono eventi
accidentali che conseguono al verificarsi di determinate situazioni.
Si è già detto che il processo si sospende quando è presentata
querela di falsa o deve essere decisa in via pregiudiziale una
questione sullo status delle persone. Il processo si interrompe
quando c’è la morte della o la perdita della capacità di stare in
giudizio della parte o del suo legale rappresentante, nonché in
caso di morte, radiazione o sospensione dall’albo del difensore.
Conseguenza dell’interruzione è che non si potrà realizzare alcun
atto processuale e che il processo entra in uno stato di quiescenza.
Sia il processo sospeso che quello interrotto devono essere
riassunti dagli eredi della parte deceduta (o nei loro confronti)
altrimenti si estinguerà.
L’estinzione del processo consegue a:
- Rinuncia al ricorso: chi rinuncia rimborsa le spese alle altre
parti salvo diverso accordo);
- Inattività delle parti: quando spetta alle parti proseguire,
riassumere o integrare il giudizio e queste non provvedano
entro i termini stabiliti dalla legge o fissati dal giudice; le
spese rimangono a carico delle parti che le hanno anticipate;
l’estinzione può essere rilevata anche d’ufficio solo nel grado
di giudizio in cui si verifica e rende inefficaci gli atti
compiuti;
- Cessazione della materia del contendere: ad esempio se
interviene una conciliazione ovvero se l’ufficio annulla l’atto.
La misura cautelare nel processo tributario può essere concessa
solo una volta notificato il ricorso (non è ammessa ante causam
come nel processo civile) e produce la sospensione degli effetti
che potrebbero essere pregiudizievoli dell’atto impugnato ovvero,
nei gradi successivi al primo, della sentenza. La misura cautelare
si definisce anticipatoria degli effetti della sentenza, dunque per
chiedere la sospensione degli effetti pregiudizievoli bisogna
dimostrare il fumus boni iuris, cioè la fondatezza della domanda, e
il pregiudizio grave, vale a dire che il pagamento della somma di
danaro sottrae risorse ai suoi bisogni quotidiani.
Il giudizio di ottemperanza è quello con cui il contribuente chiede
al giudice tributario di far mettere in esecuzione una sentenza che
non sia eseguita spontaneamente dall’amministrazione. Il ricorso è
proponibile dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto
dalla legge l’adempimento a carico dell’ente impositore ovvero, in
assenza di tale termine, dopo trenta giorni dalla messa in mora a
mezzo ufficiale giudiziario. Il ricorso è indirizzato al presidente
della commissione e deve contenere la sommaria esposizione dei
fatti che ne giustificano la proposizione con l’indicazione precisa,
a pena di inammissibilità, della sentenza passata in giudicato di
cui si chiede l’ottemperanza. Entro venti giorni dalla
comunicazione (di cui si occupa la segreteria della commissione)
l’ufficio può trasmettere le proprie osservazioni ed eventualmente
allegare la documentazione dell’eventuale adempimento. Il ricorso
viene trattato in camera di consiglio, vengono sentite le parti in
contraddittorio e viene acquisita la documentazione necessaria; il
collegio (lo stesso che ha emesso la sentenza oggetto del giudizio)
adotta con sentenza i provvedimenti indispensabili per
l’ottemperanza in luogo dell’ufficio che li ha omessi, attenendosi
agli obblighi risultanti dal dispositivo della sentenza e tenuto
conto della relativa motivazione. Se lo ritiene opportuno, il
collegio può nominare un commissario ad acta.
Lezione 12 – 19 Maggio
[Nella fattura c’è la specifica del bene che viene venduto (non può
essere sintetica, deve indicare il bene, il numero dei colli,
l’imponibile), mentre nello scontrino ci si limita ad indicare il
prezzo pagato.]
Lezione 13 – 20 Maggio
Il bilancio europeo è un bilancio pubblico definito
“autorizzatorio”, poiché con esso l’organo volitivo consente
all’organo esecutivo di incassare le entrate e a spendere le uscite
previste nel bilancio. Questo ha ad oggetto valori finanziari
preventivi, che riguardano ciò che l’Unione intende realizzare nel
corso degli anni successivi. Con riguardo alla sua formazione, la
commissione si occupa di preparare il progetto preliminare di
bilancio al consiglio, il quale adotta tale progetto aprendo
formalmente i lavori e, infine, il parlamento adotta il bilancio
definitivo. Qualora il bilancio non dovesse essere adottato entro il
1° Gennaio, opera il regime dei “dodicesimi provvisori”, che
consiste in stanziamenti mensili pari ai dodicesimi del bilancio
precedente. Nel corso dell’anno la Commissione può anche
presentare un bilancio rettificativo per modificare eventuali
entrate o uscite.
Nell’UE opera il sistema delle risorse proprie, istituito nel 1970,
grazie al quale essa ha acquisito mezzi di finanziamento propri e
indipendenti dagli stati membri, nella forma di entrate
definitivamente assegnate all’Unione per finanziare il suo
bilancio. Le suddette entrate spettano all’Unione di diritto e non
sono necessarie ulteriori decisioni da parte delle autorità nazionali,
essendo fatto obbligo agli stati membri di effettuare questi
versamenti. Le risorse proprie sono quattro:
- I prelievi agricoli, cioè diritti di importazione prelevati sui
prodotti agricoli provenienti da paesi terzi;
- I dazi doganali, percepiti sulle importazioni alle frontiere
esterne in base alla tariffa doganale comune sugli scambi con
i paesi terzi;
- L’aliquota sull’imponibile IVA degli Stati membri, appunto
applicata su ogni incasso dell’IVA;
- La percentuale del reddito nazionale lordo di ciascuno stato
membro.
Tobin Tax: L’imposta sulle transazioni finanziarie, nasce da
un’idea di John Maynard Keynes all’indomani della crisi del
1929. Ritenendo che gli stati dovessero intervenire con decisione
nel mercato finanziario Keynes sottolineò che solo attraverso
l’investimento statale si potessero arginare gli effetti della crisi,
allo stesso tempo limitando i movimenti speculativi nel mercato
finanziario attraverso l’istituzione di una tassa sulle transazioni
finanziarie, così da disincentivare le speculazioni. Con l’instabilità
monetaria del 1971, a causa dell’abbandono del Gold Exchange
Standard da parte degli Stati Uniti, si venne a creare una nuova
situazione di forte instabilità monetaria con numerosi atti di
speculazione finanziaria. Nell’anno successivo, perciò,
l’economista James Tobin rilanciò l’idea di Keynes e propose
un’imposta che doveva essere adottata a livello mondiale su tutte
le transazioni a breve termine, ottenendo il riconoscimento anche
di un premio Nobel, ma senza che la sua idea venisse
effettivamente applicata. Fu solo con il crollo della banca Lehman
Brothers del 2008, inizio di una gravissima crisi finanziaria, che
gli stati cominciarono a prendere seriamente in considerazione la
proposta di Tobin.
L’imposta sulle transazioni finanziarie, oltre ad arginare le
speculazioni finanziarie nel breve periodo, preserva e promuove
l’autonomia nazionale delle politiche economiche e monetarie.
Nell’idea di Tobin andava applicata un’imposta uniforme a livello
internazionale, circa dell’1%, su tutti i cambi a pronti da una
valuta all’altra. Va sottolineato che, secondo Tobin, perché
l’imposta potesse essere efficace dovrebbe essere applicata
universalmente, o quanto meno da un continente con la stessa
valuta. Nell’UE, però, perché si possa imporre un tributo è
necessaria l’unanimità e solo 11 stati furono favorevoli
all’introduzione del tributo, organizzato secondo lo strumento
giuridico della cooperazione rafforzata. Le ragioni
dell’opposizione da parte delle più importanti piazze finanziarie,
come New York o Londra, sono dovute al timore del trasferimento
materiale di operazioni finanziarie verso altri paesi, specialmente
offshore.
Tra i vantaggi della Tobin Tax c’è il fatto che la si può considerare
come un’imposta “etica”, poiché i soldi vengono prelevati dai
mercati e dagli autori da cui nasce la crisi finanziaria stessa, senza
colpire in alcun modo l’economia reale e le singole persone.
Pertanto, se fosse adottata dall’Unione Europea, l’imposta sulle
transazioni finanziarie produrrebbe un gettito di assoluta rilevanza
che darebbe slancio alla giustizia fiscale e all’equità distributiva
dei carichi impositivi. Inoltre, tassare sulle operazioni a breve
termine incoraggerebbe gli investitori a realizzare operazioni a
lungo termine.