La Psicologia Sociale, dunque, è interessata a comprendere i processi di socializzazione e d'interazione sociale. Suo
obiettivo essenziale è spiegare il comportamento individuale nell’ambito delle dinamiche sociali. Detto altrimenti, cerca di
dare una spiegazione psicologica del comportamento sociale. La psicologia sociale ci invita ad interpretare l’essere umano
alla luce delle dimensioni: familiari, lavorative, comunitarie, organizzative, culturali, politiche, etc.
Cenni storici e contributi La psicologia Sociale si sviluppa tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, anche se alcuni contributi
sono già rintracciabili in ambito filosofico. Uno dei contributi entro cui è possibile rintracciare i primi semi di quello che
sarà la Psicologia sociale è l’opera intitolata “Psicologia delle folle” di Le Bon. In questo lavoro sono presenti diversi temi
d’interesse per la psicologia sociale: il ruolo dell’inconscio, il conformismo, la cultura popolare, l’autoalienazione, la
leadership. Wilhem Wundt scrive Psicologia dei Popoli; in quest’opera, Wundt sottolinea il ruolo degli aspetti storici e
socio-culturali (linguaggio, costumi, miti) che influenzano i processi mentali. La nascita della Psicologia Sociale viene
fissata al 1908, anno di pubblicazione di due manuali, rispettivamente di Edward Ross e William McDougall.
Tuttavia, il primo contributo strettamente psicologico allo studio della dimensione sociale dell’individuo è di Floyd
Allport: “Social Psychology”. Egli approfondì i seguenti processi cognitivi: la categorizzazione e la generalizzazione.
Secondo la Teoria di Campo di Kurt Lewin, il comportamento origina da una serie di fattori interdipendenti presenti in una
situazione specifica e in un dato momento. Il comportamento è influenzato dalle caratteristiche individuali, le interazioni
tra individui, le esperienze passate e le aspettative future. Secondo la formula di Lewin – C= f (P, A) – il comportamento è
una funzione della persona e dell’ambiente. Lewin per primo ha approfondito lo studio delle dinamiche di gruppo. Secondo
l’autore, il gruppo non è riconducibile alla sommatoria dei suoi membri ma alla loro specifica interdipendenza, che
costituisce una realtà dinamica.
Nel gruppo emergono diverse dimensioni: i ruoli, la comunicazione, l’influenza sociale, la percezione sociale, la
leadership e l’esercizio del potere. A Lewin si deve l’idea della ricerca-azione. In tale prospettiva, il concetto cardine è la
simultaneità: nel momento in cui si studia un fenomeno, questo si modifica.
Al fine di comprendere le dinamiche di gruppo, bisogna introdurre una modificazione e attivare un processo riflessivo che
porta, da una parte, al cambiamento, e dall’altra all’acquisizione di nuove conoscenze. I T-group, in tale cornice,
rappresentano una delle novità principali introdotte da Kurt Lewin. Essi si fondano sul concetto di riflessività: vivere
esperienze e contestualmente riflettere su di esse. Sono dei gruppi di formazione che si basano sull’esperienza e sulla
risoluzione di problemi concreti. L’obiettivo di tali gruppi è porre ciascun partecipante nella posizione di comprendere le
dinamiche di gruppo e il suo funzionamento generale, al fine di migliorare la sua e l’altrui esperienza di gruppo.
Tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60 assistiamo alla cosiddetta «rivoluzione cognitiva». La Psicologia sociale
cognitiva, in tal senso, si occupa di indagare la formazione dei giudizi personali che si sviluppano attorno ad una
determinata situazione. La psicologia sociale cognitiva è lo studio scientifico dei processi attraverso cui l’individuo
acquisisce informazioni dall’ambiente, le interpreta, le memorizza, le recupera da essa e le utilizza al fine di comprendere
il mondo sociale ed orientare il proprio comportamento (esempi di tali processi sono: la categorizzazione e il ragionamento
di tipo euristico). L’approccio cognitivista, dunque, si basa essenzialmente sull’idea di individuo come «ricercatore di
coerenza ed equilibrio».
La teoria dell’apprendimento sociale, lo studio degli atteggiamenti e la teoria della dissonanza cognitiva costituiscono le
principali aree di ricerca tra gli anni 50 e 60:
· La Teoria dell’apprendimento sociale (Albert Bandura), postula che il comportamento sociale e l’identità individuale
si strutturino a partire dall’insieme di interazioni sociali entro cui l’individuo è calato sin dall’infanzia. Alla luce di
ciò, il modelling rappresenta un concetto cruciale: l’individuo sarebbe portato a ripetere quegli stessi comportamenti
che ha osservato negli altri significativi. L’apprendimento sociale avviene anche senza rinforzi espliciti e diretti
all’attore del comportamento; è sufficiente che l’osservatore percepisca che il modello riceve gratificazioni in
funzione del proprio comportamento. L’apprendimento sociale, dunque, non avviene solo ed esclusivamente
attraverso il contatto diretto tra il soggetto e l’oggetto ma anche in modo indiretto
· Il concetto di atteggiamento indica la disposizione di ogni individuo di produrre risposte cognitive, emotive e
comportamentali nei confronti di un dato oggetto, che viene valutato in base alla sua maggiore o minore positività. Il
concetto di atteggiamento è stato inteso da Allport come il ponte tra opinione e azione. Thomas e Znaniecki
definiscono l'atteggiamento come un processo mentale che determina le risposte effettive e potenziali di ogni
individuo al suo ambiente sociale. In tal senso, l’atteggiamento è interpretabile come una tendenza “verso”
· La teoria della dissonanza cognitiva si basa sull’idea di individuo come ricercatore di coerenza ed equilibrio. Essa
approfondisce l’incoerenza che si genera tra cognizioni (insieme di credenze, idee, valori), comportamenti e ambiente
(esempio di dissonanza cognitiva è rintracciabile nella storia della «Volpe e l’uva»). Al fine di ristabilire la coerenza
cognitiva, l’individuo può agire modificando le proprie cognizioni, il proprio comportamento o l’ambiente circostante.
Un contributo cruciale allo sviluppo della Psicologia sociale deriva anche dall’Interazionismo Simbolico. Precursore di tale
orientamento fu George H. Mead. Secondo tale prospettiva le dinamiche mentali derivano da una dimensione culturale che
si costituisce nell’interazione. L’accento è posto sull’interazione tra individui, piuttosto che sui processi cognitivi
individuali.
La Psicologia sociale europea, a partire dagli anni 50, sviluppa una serie di riflessioni che sottolineano l’importanza del
contesto sociale. Al contrario della tradizione americana, che poneva l’accento sulle determinanti individuali, l’approccio
europeo connette l’esperienza soggettiva ai processi sociali. In tale prospettiva emerge l’importanza del gruppo come
entità costituita dall’insieme delle relazioni tra individui. All’interno della tradizione europea, Tajfel è stato uno dei
maggiori esponenti. Tajfel ha portato avanti numerosi studi legati alla percezione, alla categorizzazione, al pregiudizio,
agli stereotipi sociali, alla discriminazione e al confitto intergruppi. Insieme a Turner ha sviluppato la “Teoria dell’identità
sociale”. Altro protagonista della tradizione europea è Moscovici, cui si devono gli studi sulle rappresentazioni sociali e
sull’influenza sociale.
Successivamente, durante la crisi degli anni 60 e 70, assistiamo alla diffusione della Psicologia sociale applicata. Suo
principale obiettivo è la ricerca e l’intervento in contesti del mondo reale, con lo scopo di comprendere il comportamento
umano e giungere ad una soluzione dei problemi della collettività. I suoi ambiti di applicazione sono: le grandi
organizzazioni, le istituzioni giuridiche, il sistema sanitario. Un’altra area di intervento della Psicologia sociale applicata
ha riguardato l’elaborazione di metodi e strategie per la risoluzione di conflitti al livello interpersonale (mediazione
familiare) intergruppi (mediazione sociale), nel mondo del lavoro (il problema del mobbing, dello stress lavorativo e del
burn-out), fino ad arrivare ai contesti internazionali (come la promozione della pace e della convivenza tra i popoli).
2. Gli atteggiamenti
Gli atteggiamenti possono essere definiti come i giudizi che formuliamo su persone, oggetti o idee. La prima presentazione
di tale concetto è ad opera di Thomas e Znaniecki che ne hanno sottolineato la dimensione sociale e individuale
dell’atteggiamento. Secondo Floyd Allport (fratello di Gordon Allport), l’atteggiamento è quello stato di prontezza mentale
e neurologica che esercita un’influenza dinamica sulle risposte esibite dall’individuo. L’atteggiamento, dunque, può essere
definito come la predisposizione a reagire a classe di stimoli mediante classi di risposte, e l’esigenza di valutare le
situazioni, assumendo una connotazione positiva o negativa generale e durevole.
L’approccio comportamentista ha definito gli atteggiamenti come una catena di risposte implicite, apprese per:
· condizionamento classico (Pavlov), capaci di mediare il rapporto di stimolo-risposta, secondo una funzione
anticipatoria (il cane di Pavlov). Il condizionamento classico afferma che se un certo stimolo che provoca una
reazione fisiologica/emotiva viene avvertito ripetutamente insieme ad uno stimolo neutro che non provoca alcuna
reazione, quest’ultimo tenderà ad assumere le stesse proprietà emotive del primo stimolo
· condizionamento operante (Skinner), che si basa su un aumento o una diminuzione della frequenza del
comportamento che abbiamo deciso di assumere a seconda che esso sia seguito da una conferma positiva o da una
punizione
La struttura degli atteggiamenti Possiamo scomporre gli atteggiamenti individuando tre componenti: emotiva, cognitiva,
comportamentale. La componente emotiva esprime l’insieme di sensazioni e sentimenti rispetto ad un determinato oggetto;
la componente cognitiva rappresenta l’insieme di idee, opinioni, credenze personali; la componente comportamentale
indica la messa in atto degli atteggiamenti, oltreché le dichiarazioni esplicite che riguardano l’intenzione comportamentale.
Gli atteggiamenti possono essere suddivisi in espliciti e impliciti. Gli atteggiamenti espliciti sono di natura consapevole e
che l’individuo può riportare con facilità: quando, ad esempio, qualcuno ci chiede di esprimere l’opinione verso qualcosa o
qualcuno. Gli atteggiamenti impliciti, invece, sono quelli che si basano su valutazioni involontarie, incontrollabili e a volte
inconsce. Diversi studi hanno dimostrato l’esistenza e il ruolo cruciale degli atteggiamenti impliciti, ad esempio nelle
interazioni tra gruppi differenti (differenze di tipo etnico, sociale). Gli atteggiamenti impliciti rappresentano i mattoni che
compongono il pregiudizio e la discriminazione. Alla luce di ciò, il pregiudizio può essere definito come l’atteggiamento
negativo verso specifici gruppi sociali, etnici, religiosi, in assenza di una accurata conoscenza o esperienza relativa all’
oggetto verso cui si nutre il pregiudizio stesso. La discriminazione è la messa in atto di tale atteggiamento negativo.
L’atteggiamento pregiudizievole non segue sempre una logica coerente, ma e connessa a diversi fattori che si frappongono
tra atteggiamento e comportamento; tali fattori sono definiti variabili moderatrici. Le variabili moderatrici che entrano in
gioco nella relazione atteggiamento-comportamento possono dipendere da fattori situazionali o personali. I fattori
situazionali indicano che le persone si comportamento in modo diverso a seconda delle occasioni e dei contesti. I fattori
personali riguardano gli aspetti più stabili legati alle credenze, valori e opinioni dell’individuo, che possono minimizzare il
ruolo svolto dal contesto.
Una teoria che descrive il ruolo dei fattori situazionali e personali nel passaggio al comportamento è la teoria dell’azione
ragionata. La Teoria dell’azione ragionata ritiene che l’intenzione di agire derivi dall’integrazione tra atteggiamento verso
il comportamento e norme soggettive. Il modello propone l’idea che il comportamento sia determinato direttamente
dall’intenzione. L’atteggiamento verso il comportamento è determinato dalle credenze/convinzioni individuali che l’azione
porterà ad uno specifico effetto e dalla valutazione (valore generale) che si attribuisce alle conseguenze del comportamento
stesso. Le norme soggettive derivano dalle credenze relative a come gli altri valutano il comportamento (credenze
normative) e dalla motivazione ad assecondare/compiacere il punto di vista altrui (desiderabilità sociale). La teoria
dell’azione ragionata è stata poi modificata, trasformandosi nella Teoria del comportamento pianificato. Tale teoria
aggiunge l’aspetto relativo al grado di percezione che il soggetto ha rispetto al controllo del proprio comportamento. La
teoria dell’azione ragionata contiene implicitamente due premesse:
a. l’individuo possiede il tempo e le energie per elaborare le informazioni relative ad una data situazione
b. l’individuo deve ritenere importante la situazione o l’oggetto verso cui nutre un atteggiamento
Quando le azioni sono poco rilevanti o il tempo è scarso, la persona può agire secondo il modello dell’elaborazione
spontanea, che ritiene che l’atteggiamento si leghi al comportamento in modo spontaneo e diretto. Ciò avviene in base al
grado di accessibilità in memoria dell’atteggiamento stesso (facilità di richiamo), il quale a sua volta dipende dalla forza
dell’associazione tra l’oggetto e la valutazione a esso inerente.
La formazione Gli atteggiamenti sono appresi durante il processo di socializzazione primaria e di socializzazione
secondaria. Uno dei modelli che spiega come si formano gli atteggiamenti è la Teoria dell’Apprendimento Sociale
(Bandura). Gli atteggiamenti si formano anche a seguito dell’intervento dei gruppi di appartenenza e delle informazioni
divulgate dai mezzi di comunicazione. Influenzano altresì il comportamento sociale, perché rispecchiano i valori e
significati intersoggettivamente costruiti. Tra la creazione degli atteggiamenti e la loro modifica vi è una relazione di tipo
circolare.
Due sono i processi che ne determinano la formazione: l’acquiescenza, adesione superficiale ai punti di vista di una
maggioranza di persone, e l’interiorizzazione che richiede una forte convinzione della validità dei contenuti assunti.
Importante è il contributo di Bandura: se pensiamo a questo autore possiamo intendere i rapporti educativi e formativi
come modalità orientate a promuovere specifici atteggiamenti, rispondenti a valori socialmente condivisi: gli atteggiamenti
si co-costruiscono intersoggettivamente all’interno di un’arena storico-socio-culturale. Nel corso del tempo possono subire
macro-trasformazioni che si riflettono al livello micro-individuale. Essi, dunque, sono a stretto contatto con lo Zeitgeist
(Lo spirito del tempo, la cornice socio-culturale che informa una determinata epoca).
La trasformazione Nella creazione e trasformazione di nuovi atteggiamenti, i mass media svolgono un ruolo fondamentale.
Essi, spesso soggetti all’azione di specifici gruppi di potere, concorrono alla creazione e alla divulgazione di specifiche
rappresentazioni che sono capaci di influenzare gli atteggiamenti. La forma più conosciuta per la diffusione di specifici
contenuti è la propaganda. Durante gli inizi del 900, gli psicologi sociali si resero conto del potere dei mass-media nel
modellare l’opinione pubblica. In tale cornice si collocano gli studi dello statunitense Leonard Dobb. Egli, entrato in
contatto con il nazismo in Germania, definì la propaganda come il tentativo sistematico esercitato da uno o più individui,
al fine di controllare gli atteggiamenti. Un’altra definizione di propaganda è la seguente: il conscio, metodico e pianificato
utilizzo di tecniche di persuasione per raggiungere specifici obiettivi atti a beneficiare coloro che organizzano il processo
(Taylor).
Doob differenziò tra propaganda intenzionale (in cui il soggetto cerca consapevolmente di manipolare il messaggio o di
modificare un atteggiamento) da quella non intenzionale (quando il soggetto trasmette determinate credenze in modo
automatico senza un obiettivo specifico). Un’ulteriore differenziazione è quella tra propaganda manifesta e occulta. Tra le
strategie di persuasione messe in atto dai mass-media, Doob noto che l’efficacia di un messaggio è rafforzata quando esso
fa appello ad atteggiamenti già presenti tra la popolazione target del messaggio. Inoltre, il messaggio si rafforza se viene
ripetuto in modo ridondante, se presuppone che le credenze annunciate siano ampiamente condivise, e se esse trovano
posto all’interno di una cornice di senso che ne faciliti la comprensione.
Gli atteggiamenti tendono a mantenersi stabili, poiché ciò che è conosciuto è preferito alla novità. Tuttavia tramite
l’interazione sociale, le persone possono cambiare i propri atteggiamenti se sono persuase di poter ottenere nuovi vantaggi.
Secondo l’approccio valore-aspettativa, gli individui sono portati al cambiamento selezionando, tra diverse alternative,
quella che risulti più realizzabile e quella che garantisce un guadagno maggiore. All’interno della cornice proposta
dall’approccio valore-aspettativa si colloca il modello del processo di persuasione, secondo cui ci sono 5 fattori che
determinano il cambiamento degli atteggiamenti. I seguenti livelli sono tassonomizzati:
Un ulteriore contributo alla spiegazione della trasformazione degli atteggiamenti è la Teoria della dissonanza cognitiva
(Festinger). Essa si basa sul costrutto di coerenza cognitiva, secondo cui tutte le componenti degli atteggiamenti, nonché il
rapporto tra questi e il comportamento, rispettano l’esigenza di equilibrio e consonanza. La teoria afferma che quando una
persona si trova in una situazione in cui sperimenta una contraddizione tra diversi fattori, vive un disagio al quale tenta di
porvi rimedio modificando gli elementi del conflitto.
Secondo tale teoria, gli elementi principali affinché si generi un conflitto sono: la presenza di una situazione decisionale; la
motivazione a cercare di eliminare il conflitto; la possibilità di risolvere il disagio. Due elementi cognitivi per entrare in
dissonanza devono entrare in connessione secondo un legame di pertinenza, ossia di significatività dell’uno rispetto
all’altro. La pertinenza che determina la dissonanza dipende dalle logiche che organizzano il significato, che a sua volta
dipende dalla dimensione culturale e morale in cui il rapporto tra atteggiamento-comportamento si verifica.
Solitamente la ristrutturazione cognitiva coinvolge l’elemento più debole della dissonanza, il termine meno tenace.
Cambiare gli atteggiamenti: percorsi superficiali e sistematici Diverse ricerche hanno dimostrato che gli esseri umani
possono elaborare o modificare i propri atteggiamenti attraverso ragionamenti complessi, oppure in modo rapido e
superficiale. Per quanto riguarda i primi, si parla di percorso sistematico, per intendere l’applicazione sistematica,
ragionata e motivata nel comprendere un messaggio e nell’attivare modifiche del proprio atteggiamento.
· L’euristica dell’esperto: accordare maggior credito ai messaggi provenienti da persone ritenuta affidabili (per il loro
status sociale, per la propria competenza, per le qualità personali)
· L’euristica delle caratteristiche del messaggio: un messaggio è tanto più credibile quanto più esso è lungo e costituito
da cifre, descrizioni, analisi
3. La comunicazione
Si intende per comunicazione quello scambio di messaggi che avviene tra organismi unicellulari, tra gli animali, tra le
macchine, e tra esseri umani. La funzioni della comunicazione è quella di mettere in connessione i singoli individui, per i
quali è fondamentale comprendere e reagire alle esperienze altrui.
Dal punto di vista strettamente linguistico, ogni parola ha un significante, un significato e un referente.
Il significante cambia a seconda della lingua che si usa, mentre il referente è un concetto associato a quel suono (es.
cavallo = mammifero con certe caratteristiche). In un’accezione più ampia, con il termine significato ci si riferisce
all'insieme di stati d'animo, di esperienze passate, di aspettative che ciascuno di noi associa al referente e quindi varia in
modo soggettivo.
La Denotazione e la Connotazione Sono termini che si riferiscono ai diversi modi di intendere il significato di una parola.
Per denotazione si indica il rapporto tra la parola e l’oggetto che vuole significare; la connotazione, invece, indica il
significato nascosto (metaforico) di una parola.
Funzioni della comunicazione: emotiva, conativa, fàtica, metalinguistica e poetica Ognuno di noi, nel riferirsi ad un
oggetto può al contempo esprimere un’emozione, che a sua volta rimanda all’atteggiamento che il mittente ha verso
l’oggetto a cui si sta riferendo. La funzione conativa esprime l’orientamento verso il destinatario del messaggio. La
funzione fàtica (Malinowski) serve a verificare se il canale funziona, stabilendo, prolungando o interrompendo la
comunicazione (esempio: «pronto, mi senti?»; «sì, ti sento. Tu mi senti?»; «sì, ti sento»). La funzione metalinguistica serve
a comprendere se il mittente e il destinatario usano lo stesso codice (lingua, contesto relazionale). Infine, la funzione
poetica pone l’accento sul messaggio in quanto tale, in sé e per sé.
La comunicazione non verbale Il corpo è un referente simbolico originario sia per l’individuo che per la società. Assume
una forte rilevanza nella formazione dell’identità dei soggetti, nella rappresentazione di loro stessi e nella percezione del
benessere influenzato dalla qualità delle relazioni sociali. La società in cui viviamo oggi può essere definita addirittura una
somatic society, nella quale il corpo assorbe gran parte degli interessi soggettivi, culturali e politici. Per un verso quindi il
corpo è un generatore infinito di significati; per l’altro è esso stesso una metafora sociale.
La difficoltà inerenti al considerare la comunicazione non verbale come un linguaggio è legata al problema della
volontarietà relativa alla produzione di segnali. È possibile operare una distinzione relativa ai segnali emessi dalla
comunicazione non verbale:
· Gesti informativi: non sempre volontari, sono segnali in grado di essere interpretati in modo simile da gruppi di
persone
· Gesti comunicativi: sono consapevolmente prodotti da un individuo che intende trasmettere messaggi a chi lo osserva
· Gesti interattivi: non sempre i volontari, sono utilizzati per influenzare coloro che sono coinvolti nel rapporto di
comunicazione
· i movimenti del corpo, quali gesti, espressioni del viso, «atteggiamenti» posturali
· i fenomeni paralinguali, come riso, sbadiglio, pianto, cambiamento di tono, pause, silenzi
· la prossemica, cioè la posizione dello spazio, la distanza tra sé e gli altri
· la sensibilità tattile e olfattiva, che si determina a distanza ravvicinata
· gli artefatti: abbigliamento, trucco, ornamenti
Tale comunicazione è incastonata all’interno di una specifica cornice culturale, che ne informa le modalità di espressione.
Essa dipende dalla situazione psicologica del soggetto e dalla persona con cui egli entra in contatto. Le funzioni della
comunicazione non verbale sono esprimere emozioni; presentare sé stessi; sostenere, modificare, completare, sostituire il
discorso. Quest’ultima funzione sottolinea il fatto che la comunicazione verbale è insufficiente ad esprimere il messaggio.
Il modello lineare Secondo tale modello, sono quattro i fattori che danno vita alla comunicazione:
Per essere operante, il messaggio ha bisogno di un contesto (detto anche referente), il quale possa essere afferrato dal
destinatario e che sia suscettibile di verbalizzazione. Ha, inoltre, bisogno che vi sia un codice comune al mittente e al
destinatario. Infine, necessita di un contatto, fisico o psicologico – che metta in connessione mittente e ricevente – e di un
canale attraverso cui viaggia il messaggio.
Il modello interattivo Introduce il concetto di “causalità circolare”, ponendo l’accento sugli aspetti di feedback e
retroazione. La retroazione coincide con la risposta specifica orientata del ricevente alla fonte dello stimolo; la reazione
interviene, dunque, come uno stimolo capace a sua volta di modificare ciò che lo ha causato. Rispetto al messaggio, la
retroazione può ampliare la sua portata, oppure decretare la fine dell’interazione. Questa prospettiva suggerisce che l’atto
comunicativo non si esaurisce nel mero passaggio di informazioni.
Il modello dialogico Tale modello propone l’idea che il soggetto non è emittente e ricevente in momenti diversi, ma
assume entrambi i ruoli contemporaneamente; in ogni istante, egli riceve ed emette messaggi.
La comunicazione sociale Ogni comunicazione è un fatto sociale, sia che avvenga tra due persone, sia che avvenga
all’interno dell’individuo stesso. Secondo Buyssens ogni atto di comunicazione costituisce un rapporto sociale: si parla per
informare, per raccogliere informazioni, per dare un ordine, per chiedere all’altro di realizzare un proprio desiderio.
La pragmatica della comunicazione umana “Pragmatica della comunicazione umana” (Watzawick; Beavin; Jackson) è un
testo apparso nel 1967 che ha segnato la storia della psicologia sociale e clinica. Focus di tale opera è l’esplorazione degli
effetti pratici della comunicazione, con particolare attenzione al modo in cui la comunicazione crea e organizza le relazioni
umane.
Assumendo che un messaggio è una singola unità di comunicazione e che una serie di messaggi scambiati tra due o più
persone è definita interazione, la comunicazione è il risultato di un insieme di interazioni. Uno dei concetti di base di tale
teoria è quello di retroazione. Mutuato dalla scienza cibernetica, ribalta il concetto deterministico e lineare del modello
esplicativo di «causa-effetto». La logica lineare afferma che «A» causa «B». In questa teoria è introdotta un tipo di
causalità detta circolare, in cui gli eventi «A» e «B» sono, contemporaneamente, causa ed effetto l’uno dell’altra.
Gli assiomi
Watzlawick, Beavin e Jackson definiscono comunicazione qualsiasi comportamento che accade in presenza di un’altra
persona; non occorre l’intenzione di comunicare in quanto non esiste nemmeno la possibilità di non comunicare. C’è una
proprietà del comportamento assai trascurata perché ovvia: il comportamento non ha un suo opposto. In altre parole, non
esiste un qualcosa che sia un non comportamento, o per dirla più semplicemente non è possibile non avere un
comportamento. Si verifica la distorsione del primo assioma tutte le volte che qualcuno cerca di evitare la responsabilità
che comporta ogni tipo di comunicazione, attraverso tentativi di non-comunicare, finendo per generare un'interazione
paradossale, assurda, nevrotica, "folle”.
2. “Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione. Di modo che il secondo classifica il primo
ed è quindi meta-comunicazione”
Ogni comunicazione non si limita ad inviare un messaggio, ma al contempo si impone un comportamento. In tal senso
Bateson ha distinto, all’interno del processo di comunicazione, l’aspetto di «report» (la notizia) e l’aspetto di «command»
(comando). L’aspetto di notizia trasmette l’informazione, ed è quindi sinonimo nella comunicazione umana di contenuto.
L’aspetto di comando si riferisce a come deve essere assunto il messaggio, e riguarda il tipo di relazione vigente tra i
comunicanti. Dunque ogni atto comunicativo mette in gioco anche i ruoli e le identità degli interlocutori.
3. “La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione fra i partecipanti”
Tale assioma ha a che fare con l’interazione, ovvero con l’insieme di messaggi che i partecipanti si scambiano. Durante
l’interazione, i comunicanti introducono posizionamenti specifici rispetto agli eventi di cui stanno discutendo. Con il
concetto di «punteggiatura della sequenza degli eventi» si intende, dunque, la direzione della catena di causalità (chi ha
influenzato cosa o chi ha influenzato chi) e il punto di origine degli eventi (è cominciato tutto quando…) che le persone
percepiscono. In tale assioma è cruciale l’idea di causalità circolare. Mentre nelle catene causali, che sono lineari e
progressive, ha senso parlare del principio e della fine di una catena, tali termini sono privi di significato in sistemi con
circuiti di retroazione: non c’è fine, né principio in un cerchio. Tuttavia, le persone tendono a vedere i processi
comunicativi come sequenze di scambio lineari. Il disaccordo su come punteggiare la sequenza degli eventi è alla base di
innumerevoli conflitti di relazione.
4. “Gli esseri umani comunicano sia in modo digitale che in modo analogico”
La comunicazione digitale ha a che fare con il codice linguistico e gli aspetti verbali. La comunicazione digitale, dunque,
coincide con la comunicazione verbale. Nella comunicazione analogica, invece, c’è qualcosa che è specificatamente simile
alla «cosa». L’esempio tipico per comprendere la differenza tra la comunicazione digitale e quella analogica è
rappresentato dalla lingua. Infatti, non è possibile imparare una lingua straniera soltanto attraverso l’ascolto della radio,
mentre è possibile comprenderla se osserviamo il linguaggio del corpo e i cosiddetti «movimenti di intenzione» da parte di
una persona con una cultura diversa dalla nostra. Detto in modo semplice, la comunicazione analogica è qualsiasi
comunicazione non verbale. Essa rappresenta il canale comunicativo principale nella espressione delle emozioni. La
comunicazione digitale è fondamentale perché permette di scambiare informazioni sugli oggetti, e perché ha la funzione di
trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. Tuttavia, la relazione si costruisce essenzialmente attraverso la
comunicazione analogica.
Durante la sua ricerca antropologica tra gli Iatmul della Nuova Guinea, l’antropologo Bateson notò un fenomeno di
interazione tra le donne e gli uomini a cui diede il nome di schismogenesi. Con questo termine si riferisce ad «un processo
di differenziazione nelle norme del comportamento individuale derivante dall’interazione cumulativa tra individui». In
altre parole, più gli uomini e le donne interagivano, più si differenziavano rispetto ai propri modi di comportarsi,
atteggiarsi, di organizzare la propria vita sociale. La schismogenesi può essere complementare o simmetrica. Di solito,
però, si parla semplicemente di comunicazione complementare e simmetrica.
Nel primo caso due individui (due gruppi, due nazioni) differenziano il proprio comportamento assumendo posizioni
diverse. Il primo può assumere una posizione di superiorità, primaria (one-up), mentre l’altro può assumere una posizione
inferiore, secondaria (one-down). Tali posizioni non sono fisse o immutabili, ma tendono a modificarsi a seconda del
contesto, delle assunzioni di ruolo. La comunicazione complementare, dunque, è caratterizzata dalla differenza e dalla
minimizzazione dell’uguaglianza. La complementarietà di una relazione può derivare dalle caratteristiche stesse della
relazione, oppure essere socio-culturalmente stabilite (si pensi alle diadi madre-figlio, insegnante-allievo, medico-
paziente).
La comunicazione simmetrica, invece, configura un tipo di relazione basato sull’ uguaglianza; il comportamento di uno
tende a rispecchiare quello dell’altro. Se, ad esempio, notiamo che l’intelligenza è un aspetto valorizzato in un dato
contesto, può accadere che le persone entrino in simmetria tra loro sviluppando comportamento e azioni finalizzate al
riconoscimento del più intelligente. La relazione simmetrica, dunque, è caratterizzata dall’uguaglianza e dalla
minimizzazione della differenza.
Sia la relazione simmetrica sia la relazione complementare possono causare delle problematiche. Per quanto riguarda la
relazione simmetrica, si parla di escalation, per ciò che concerne la relazione complementare si parla di rigidità.
La competenza comunicativa Per competenza comunicativa si intende la capacità di un individuo di utilizzare segnali
codificati e condivisi dalla propria comunità di parlanti, in modo da rendere comprensibili le proprie intenzioni e
comprendere quelle altrui. Tra le competenze comunicative, possiamo identificare:
La competenza comunicativa mette in gioco non soltanto la propria prospettiva e le proprie abilità, ma anche quelle
dell’interlocutore a cui ci si rivolge. In tale prospettiva la perspective taking è quell’approccio che si focalizza sulle abilità
dell’individuo di accogliere, interpretare ed accogliere la prospettiva dell’altro, ovvero il modo di organizzare e dare senso
al mondo e alle situazioni. Alla luce di ciò, Piaget ha parlato di “superamento dell’egocentrismo” da parte del bambino, e
quindi il trascendere il proprio punto di vista soggettivo come riferimento universale. Quando non si riesce ad accogliere la
prospettiva dell’altro si parla di miscommunication.
L’approccio dialogico studia le modalità attraverso le quali gli individui costruiscono un sistema di significati in una
dimensione di intersoggettività, a sua volta connessa ad uno specifico contesto culturale. L’approccio dialogico identifica
tre livelli, implicati nella costruzione intersoggettiva dei significati:
La Social cognition è quella parte della psicologia sociale che si concentra sugli aspetti legati alle attività cognitive, quali:
ricezione, selezione, trasformazione, costruzione di rappresentazioni e strutture di conoscenza. Attraverso queste attività le
persone interpretano, analizzano, ricordano e usano le informazioni inerenti ai fenomeni sociali.
La cognizione sociale descrive le modalità con le quali le persone codificano, elaborano, ricordano e utilizzano le
informazioni nei contesi sociali allo scopo di comprendere il comportamento altrui. In questo caso il contesto sociale è
qualunque scenario, reale o immaginario, compresi i riferimenti a sé stessi o agli altri. Dunque, qualsiasi informazione è
interpretata, ossia è significata tramite la mediazione del contesto sociale, per poi essere analizzata e immagazzinata in
memoria divenendo un ricordo rievocabile.
I processi cognitivi messi in atto nel rapporto tra sé e i fenomeni sociali possono essere articolati come segue:
· Qualsiasi informazione è «interpretata», vi è un’attribuzione di significato tramite la mediazione del contesto sociale
· L’informazione è «analizzata», quindi sottoposta a giudizio
· Infine, l’informazione è «immagazzinata in memoria», diventando un ricordo che può essere rievocato
Percezione sociale e formazione di impressioni La percezione sociale può essere considerata come il processo attraverso il
quale il soggetto conosce e comprende gli altri. La ricerca sulla formazione di impressioni fu inaugurata dal lavoro di
Asch, secondo il quale l’impressione è un prodotto dinamico che coinvolge tutte le informazioni disponibili sulla persona
oggetto di percezione. A seguito di studi, Asch sostenne che il cambiamento di un solo tratto produce una modificazione
fondamentale dell’impressione nel suo insieme; i tratti centrali (caldo, freddo) sono più stabili di quelli periferici (cortese,
brusco) e quindi sono il nucleo che resiste maggiormente ai processi di cambiamento delle impressioni.
L’approccio strutturalista sostiene che la formazione di impressioni possa essere spiegata da modelli matematici lineari, di
cui più semplici sono quelli dell’addizione e della media. Il modello ipotizza una definizione dell’impressione totalmente
guidata dai dati. Il punto di partenza è la considerazione che i tratti di personalità sono soggetti a valutazioni positive o
negative, con gradazioni diverse. Quindi nel calcolo entrano in gioco i vari tratti sulla base dei punteggi loro assegnati, che
possono variare in base alla cultura o al contesto di appartenenza.
Asch, con l’idea dell’impressione come un “tutto organizzato”, rappresenta il primo contributo esplicativo alla formazione
delle impressioni. L’impressione, secondo Asch, è il risultato di tutte le informazioni (tratti o caratteristiche) disponibili su
una specifica persona. Tuttavia, alcune informazioni hanno un’importanza maggiore rispetto ad altre: ci sono tratti ritenuti
centrali e stabili, rispetto a tratti considerati periferici e secondari. I primi influenzano gli altri aspetti legati alla persona,
concorrendo maggiormente alla formazione delle impressioni; i secondi hanno, invece, una scarsa influenza. La
formazione delle impressioni è guidata sia da una teoria personale sia dai dati a disposizione relativi all’oggetto che si
percepisce.
Secondo Bruner e Tagiuri, la formazione delle impressioni si basa su “teorie implicite di personalità” che la persona
possiede nei confronti degli altri, ovvero aspettative che derivano da pochi tratti essenziali. Le teorie implicite di
personalità nascono e si costruiscono all’interno di uno specifico contesto socio-culturale. Sono credenze condivise sulla
stabilità di tratti di personalità che si presume tendano a presentarsi associati in modo relativamente stabile nelle stesse
persone. Gli stereotipi costituiscono una classe particolare di Teorie Implicite di personalità. Essi consistono in un legame
stabile tra l’appartenenza ad un gruppo sociale determinato e il possesso di caratteristiche attribuite a quel gruppo.
Secondo il modello di impressioni come “algebra cognitiva”, i singoli elementi informativi sulla persona vengono sommati
o sottoposti al calcolo della media per giungere ad un’impressione finale generale. Tale modello intende la formazione
delle impressioni come totalmente guidata dai dati, al contrario dei modelli di Asch, Bruner e Tagiuri che affermano che
l’impressione è guidata sia dai dati sia dalle proprie teorie.
La formazione di impressioni è un fenomeno temporale, nel corso del quale interagiscono informazioni remote e prossime.
La ricerca ha dimostrato che esistono due fattori che concorrono alla costruzione dell’impressione:
· Gli effetti di precedenza: tutte le informazioni che raccogliamo appena conosciamo una persona
· Gli effetti di recenza: riguardano tutte le informazioni raccolte più recentemente
Normalmente gli effetti di precedenza sono più frequenti rispetti a quelli di recenza. Ciò accade perché le informazioni
iniziali vanno a creare uno schema che tende a mantenersi stabile nel tempo (così come nella formazione degli
atteggiamenti).
La gestione delle impressioni, le interazioni tra persone e la motivazione a suscitare negli altri un giudizio positivo di noi
ha spinto il sociologo Goffman a parlare di vita sociale come “rappresentazione scenica”. In tale concezione, lo scopo
degli “attori” coinvolti è quello di avere successo nella rappresentazione di sé stessi.
· L’auto-innalzamento è quella strategia che si concentra sulla buona presentazione di sé stessi, attraverso la cura
dell’abbigliamento, del proprio corpo, l’accentuazione di tratti considerati positivi (intelligenza, gentilezza, ecc)
· L’etero-innalzamento rovescia la prospettiva suggerita dall’auto-innalzamento. Essa consiste nel far sentire l’altro
come una persona “importante” (elogiandone, ad esempio, la volontà, l’intelligenza, ecc). Un esempio classico è
l’adulazione
Tali tecniche sono funzionali se adoperate all’interno di un contesto interattivo di cui si è capaci di interpretarne la natura.
Diverse volte le impressioni che ci facciamo sugli altri non sono accurate. Ciò avviene perché ci sono diversi fattori
(stabilità nel tempo, contesto, nostre aspettative e teorie implicite) che creano una distorsione.
· L’accuratezza circoscritta si riferisce a specifici tratti che le persone esibiscono in condizioni altrettanto specifiche
· L’accuratezza globale esige l’abilità di formarsi un’impressione relativa a tratti o caratteristiche stabili nel tempo e che
non dipendano dal contesto o dalle situazioni.
5. La categorizzazione sociale
Strettamente connessa alla formazione delle impressioni, la categorizzazione sociale è quel atto cognitivo che ci permette
di classificare e sistematizzare in categorie cose e persone seguendo i criteri di somiglianza e differenza. È quel processo
che raggruppa gli stimoli in base alla loro somiglianza, mettendoli in contrasto rispetto alla loro differenza. Il processo di
categorizzazione opera in modo gerarchico. Ciò significa che gli stimoli sono classificati secondo un rapporto di
inclusione: categorie più ampie includono le categorie più ristrette.
L’atto di categorizzare risponde, essenzialmente a due esigenze: semplificare il mondo e fornire informazioni. La
classificazione di cose e persone in un’unica categoria è economicamente vantaggiosa, restituendoci un ordine del mondo
in modo semplificato. Più ampio è il livello di generalità di una categoria, maggiore è il numero di elementi che essa può
contenere: non saranno necessarie altre categorie per ordinare il mondo (risparmio di energia cognitiva).
Una volta che uno stimolo è stato classificato in una certa categoria, è possibile inferire le sue ulteriori qualità in base alla
classe di appartenenza. Più le categorie sono ridotte e omogenee, maggiore è il loro potere informativo, in quanto gli
elementi che le compongono condividono diversi attributi e caratteristiche. Le categorie più ampie, dunque, rispondono
alla funzione di semplificazione cognitiva ma non a quella informativa.
· Modello del prototipo: in base a tale modello una rappresentazione “astratta” (prototipo, per l’appunto) definisce le
componenti di una categoria. Qui il prototipo è l’esempio più rappresentativo; ogni stimolo è inserito nella categoria
in base alla somiglianza con esso
· Modello degli esemplari: questo modello sostiene che le persone ricordano esempi concreti di membri inclusi in una
categoria e poi valutano l’appartenenza alla stessa operando un confronto tra i nuovi esempi e il campione di
esemplari ricordati
Entrambi i modelli, con le dovute differenze, basano il proprio modo di categorizzare seguendo un criterio della
somiglianza. La ricerca ha mostrato che le persone tendono a servirsi di entrambi i modelli. I bambini usano più
frequentemente quello degli “esemplari”. Quando bisogna categorizzare gruppi a cui non si appartiene, le persone
utilizzano maggiormente il modello del prototipo. Sembra, dunque, che quando le persone dispongono di poche
informazioni, preferiscono pensare ad un “prototipo” per classificare gli stimoli.
Gli schemi sociali sono strutture cognitive inerenti a oggetti, persone, situazioni inclusi i loro attribuiti e le relazioni che
tra esse intercorrono. Essi semplificano la comprensione della realtà e guidano la costituzione di nuove conoscenze pur
generando distorsione in quanto selezionano le informazioni da ricordare in base alla congruenza con la propria
organizzazione attraverso l’eliminazione di ciò che risulta discordante.
Il concetto di schema è riconducibile a quello di Gestalt, poiché inscrive le singole percezioni all’interno di un contesto
cognitivo. Henry Head e Gordon Morgan Holmes studiarono la percezione delle posizioni del corpo nello spazio,
definendole schemi posturali.
Gli schemi sociali sono conoscenze immagazzinate in memoria, in stretta connessione con il processo di categorizzazione.
Sono particolarmente utili nell’elaborazione dei dati utili a una determinata situazione o momento. La principale funzione
degli schemi sociali è quella di semplificare le situazioni sociali, attraverso il collegamento dei dettagli a concetti generali,
il completamento delle informazioni mancanti, la predisposizione di aspettative relative a ciò che sta per accadere.
L’uso degli schemi può procedere in due modi: “bottom up” (dal basso verso l’alto) o “top down” (dall’alto verso il
basso). Nel primo caso si parla di elaborazione delle informazioni guidata dai dati; nel secondo caso si tratta di
elaborazione delle informazioni guidata dalla teoria.
Tipologie di schemi:
· Schema di persona: relativo alla rappresentazione di differenti tipi di persona, in base ai tratti di personalità, scopi. Gli
schemi di persona, inoltre, contengono anche informazioni relative al contesto (schema relativo alla persona “capo”,
“collega di università”)
· Schema di sé: riguardano generalizzazioni cognitive rispetto a tratti relativi alla propria personalità, sulla base di
informazioni e memorie che riguardano sé stessi
· Schemi di ruolo: identificano un sistema di aspettative rispetto al comportamento di persone che occupano uno
specifico ruolo sociale: madre, insegnante, poliziotto. Possiamo distinguere tra “ruolo acquisiti” e “ruoli ascritti”. I
primi sono legati a posizioni “costruire” (diventare AS), i secondi sono socialmente attribuiti in base al genere, all’età,
all’etnia
· Schemi di eventi o script: fanno riferimento a semplificazioni di situazioni sociali concrete e comuni
· Schemi procedurali: riguardano le regole che indicano i legami tra gli elementi, senza indicarne i contenuti (esempio:
relazioni gerarchiche)
Schemi sociali e impressioni Le euristiche indicano una forma di elaborazione delle informazioni e produzione di soluzioni
altamente parsimoniosa (in termini di sforzo cognitivo), le quali, però, spesso risultano errate. Lo studio delle euristiche
del pensiero si basa sull’idea di uomo come economizzatore di risorse cognitive. Le euristiche spesso sono il risultato di
convinzioni sociali e culturali generali che predispongono l’individuo ad interpretare le situazioni sociali in un determinato
modo. La funzione principale delle euristiche è quella di reagire prontamente agli stimoli sociali.
Le tipologiche di euristiche che entrano in gioco nella formazione delle impressioni sono:
L’euristica della rappresentatività entra in gioco quando le persone vogliono categorizzare qualcosa di nuovo. Essa indica
quel processo attraverso cui le persone o le cose sono inserite in una specifica categoria concettuale in base alle
similitudini tra le loro caratteristiche e quelle rappresentative di tale categoria. Questa tipologia di categorizzazione si basa
su schemi sociali relativi agli stereotipi o prototipi, che ci spingono a classificare le cose in base alla loro somiglianza con
il caso tipico.
L’euristica della disponibilità fa leva sulla facilità di recupero delle informazioni in memoria. In sostanza, il giudizio
dipende dalla salienza (importanza) di alcune informazioni rispetto a ciò sui cui siamo chiamati ad elaborare un giudizio.
Tali informazioni sono il risultato delle nostre esperienze personali e delle conoscenze acquisite.
L’euristica dell’ancoraggio e dell’aggiustamento riassume due processi di valutazione: nella fase di ancoraggio la persona
giudica parte da valori o idee di partenza, le quali sono modificate nella fase di aggiustamento (concernente la valutazione
di nuove informazioni acquisite rispetto all’oggetto di valutazione). Nella fase di accomodamento, tuttavia, gli individui
tendono a mantenere comunque le posizioni iniziali.
I processi di attribuzione (teorie di attribuzione) Sono quelle attività attraverso cui connettiamo gli effetti di un data azione
alle sue cause. Tali processi hanno la funzione di costruire una spiegazione ed un’anticipazione dei comportamenti (propri
e altrui) e degli eventi. Colui che per primo ha dato inizio agli studi sui processi di attribuzione è Fritz Heider. Egli ha
studiato a lungo la cosiddetta psicologia del senso comune (detta anche psicologia ingenua), che riassume tutti quegli
aspetti condivisi dalle persone che sono utilizzati per dare una rappresentazione e spiegazione della realtà sociale.
Il senso comune è inteso come l’insieme di principi inespressi che vengono comunemente utilizzati dalle persone per
rappresentare e spiegare la realtà sociale. Questi principi, altresì, guidano le azioni.
Heider crede che l’uomo sia impegnato, così come lo scienziato, a comprendere i comportamenti a partire dalle cause.
Pertanto, l’uomo, inteso come «scienziato naif», applica specifiche modalità di conoscenza. Come lo scienziato, anche
l’individuo, dotato di capacità logico-razionali, raccoglie i dati necessari alla conoscenza di un certo oggetto e giunge a
conclusioni logiche sui fenomeni.
La principale modalità di conoscenza utilizzata nell’elaborazione dell’attribuzione si basa sulla dicotomia cause personali
(interne) e cause situazionali (esterne). Questa dicotomia è sempre presente quando dobbiamo valutare se le cause di un
dato comportamento sono da attribuire a fattori personali o a fattori situazionali. Sulla base di questa semplice dicotomia
sono state sviluppate diverse teorie. Tra queste:
La teoria dell’inferenza corrispondente si concentra sulle condizioni che portano le persone a compiere attribuzioni
interne. Sulla base di tale teoria, le azioni di un soggetto e gli effetti prodotti dipendono da specifici tratti di personalità.
Alla luce di ciò, dato che i tratti di personalità sono intesi come stabili e duraturi, conoscere le disposizioni di una persona
consente anche di poterne prevedere il comportamento.
1. L’attribuzione di intenzione: in questa fase chi sta osservando il comportamento deve valutare se esso è messo in atto
in modo intenzionale. Bisogna, cioè, capire se la persona sia consapevole delle conseguenze delle proprie azioni
2. L’attribuzione di disposizioni (fattori interni alla persona): in questa fase si compie un’inferenza sui tratti di
personalità a partire dal confronto tra azioni scelte e non scelte. Tale analisi si basa sul principio degli effetti non
comuni, ovvero quelle azioni che producono conseguenze atipiche, non comuni e difficilmente prevedibili
Nell’elaborazione delle attribuzioni spesso entrano in gioco delle distorsioni (bias), ovvero degli errori nella valutazione
delle cause del comportamento. Tali errori possono essere causati dal tipo di coinvolgimento che l’osservatore nutre verso
la persona di cui sta valutando le cause del comportamento. È più facile fare un’inferenza corrispondente quando le azioni
dell’attore hanno effetti positivi o negativi per la persona che sta valutando (rilevanza edonica) o quando le azioni
dell’attore sono direzionate alla persona stessa (personalismo).
La teoria della co-variazione e configurazione. Tale teoria si basa sull’analisi della varianza (ANOVA), una tecnica
statistica che mette in relazione i cambiamenti di una varabile dipendente (gli effetti) alle azioni prodotte dalla variabile
indipendente (le condizioni). Tale teoria prende in considerazione tre fattori: la persona, le circostanze e lo stimolo. Tali
fattori, a loro volta, forniscono diversi tipi di informazione:
La teoria della co-variazione presente diversi limiti, tra cui il fatto di essere troppo complessa e difficilmente applicabile
alle situazioni quotidiane. A volte, infatti, le persone non dispongono di sufficienti informazioni, e in tal caso fanno
riferimento a schemi causali, ovvero a semplificazioni basate sulla personale esperienza di come certe cause producano
specifici effetti.
La teoria attribuzionale della motivazione e dell’emozione è un ulteriore modello che è stato elaborato specificatamente
per la spiegazione del successo e dell’insuccesso. Secondo tale teoria, la motivazione svolge il ruolo di ponte tra una
determinata condizione e la risposta comportamentale. Alla luce di un successo o di un fallimento da cui possono scaturire
sentimenti di felicità o tristezza, la persona metterà in atto differenti comportamenti in base al tipo di attribuzione causale
elaborato. Quando la persona cerca di spiegare il motivo di un successo o di un fallimento prende in considerazione i
seguenti fattori: abilità, sforzo, difficoltà del compito, fortuna. Tali fattori, a loro volta, rispettano tre dimensioni principali:
Quando vogliamo compiere un’attribuzione sulle responsabilità sul soggetto che compie un dato comportamento, facciamo
riferimento all’individuo come «giurista ingenuo» e non più come «scienziato naif». In tale prospettiva, l’interesse è
focalizzato sulla comprensione etica e normativa dei fattori che hanno spinto una persona a compiere un comportamento
che siamo chiamati a giudicare.
Heider individua 5 livelli di responsabilità, sulla base della psicologia del senso comune. Generalmente, la responsabilità
della persona varia a seconda del peso attribuito ai fattori situazionali/ambientali.
1. Associazione: identifica una responsabilità indiretta. La persona è ritenuta responsabile degli effetti che, in qualsiasi
modo, possono essere connessi a lei o che sembrano appartenerle (esempio: azioni compiute dai suoi antenati)
2. Causalità: la persona è ritenuta responsabile degli effetti della sua azione, anche se gli effetti non potevano essere
previsti e senza la presenza di un’intenzione (esempio: investire una persona mentre si guida l’auto)
3. Prevedibilità: la persona è ritenuta responsabile perché gli effetti della sua azione sono considerati prevedibili, anche
se non intenzionali (esempio: investire una persona mentre si guida un’auto a velocità elevata in un centro urbano)
4. Intenzionalità: la persona è ritenuta responsabile sulla base dell’intenzionalità a provocare uno specifico effetto.
(esempio: investire una persona con il proposito di farle del male o ucciderla)
5. Giustificazione: la persona è considerata responsabile tenendo conto dei fattori situazionali. Più quest’ultimi sono
considerati influenti, tanto meno la persona sarà considerata responsabile per gli effetti prodotti (esempio: investire
una persona a causa di una frana improvvisa)
Gli errori di attribuzione Nell’elaborazione delle attribuzioni, le persone spesso compiono delle distorsioni. Il principale
bias attributivo è l’errore fondamentale di attribuzione, secondo cui la persona sopravvaluta il ruolo causale dell’attore a
discapito del contesto o dei fattori situazionali. In tal senso, Heider ha affermato che il comportamento assorbe il contesto.
Un ulteriore bias riguarda le divergenze tra attore e osservatore. Tale bias è dovuto al gap informativo tra chi osserva il
comportamento e chi lo compie. Di solito, chi osserva tende ad attribuire le cause del comportamento a fattori
disposizionali dell’attore. Viceversa, l’attore tende ad attribuire le cause del proprio comportamento a fattori situazionali. Il
bias del falso consenso si riferisce alla tendenza dell’individuo a credere che gli altri individui condividano le sue stesse
credenze, atteggiamenti, comportamenti. Infine, esistono i biases al servizio del sé. Essi entrano in gioco quando bisogna
tutelare la propria autostima. L’individuo tende ad attribuire i successi a cause interne (l’intelligenza), e ad attribuire gli
insuccessi a cause esterne (la sfortuna). Nel primo caso si parla di bias di auto-innalzamento, nel secondo caso di bias di
autoprotezione.
L’importanza del contesto socio-culturale Nella costruzione di un’attribuzione causale, intervengono non soltanto aspetti
cognitivi e motivazionali dell’individuo, ma altresì alcune determinati di tipo socio-culturale. Le attribuzioni possono
essere dunque considerate come una componente delle rappresentazioni sociali, intese come le credenze ampiamente
condivise sulle cause del comportamento umano e degli eventi sociali.
Processi automatici e controllati Quando una situazione si verifica con continuità, la risposta può essere spontanea poiché
è stata talmente interiorizzata da manifestarsi automaticamente. Nell’ambito degli studi sulla cognizione sociale si opera
una distinzione tra pensiero automatico e pensiero controllato. Nel primo caso si parla di processi cognitivi che si
realizzano aldilà del controllo cosciente, quindi involontari, privi di sforzo mentale. Le caratteristiche della seconda forma
di pensiero sono opposte alle prime: consapevolezza, volontarietà, intenzionalità e impiego di sforzo cognitivo. I processi
mentali possono essere collocati su un continuum i cui estremi sono da una parte le attività cognitive più automatiche e
dall’altra parte quelle più controllate. Vi sono due fattori principali che determinano il pensiero automatico o controllato: la
motivazione e la capacità (in presenza di una bassa motivazione è più probabile che funzioni il pensiero automatico, per la
capacità accade lo stesso in quanto se si è abili in un certo settore è più facile mettere in atto pensieri controllati). I processi
di conoscenza non costituiscono sempre e necessariamente un’attività visibile e trasparente al soggetto.
Le rappresentazioni social (Moscovici) Per rappresentazioni sociali si fa riferimento a quell’insieme di valori, idee,
credenze, pratiche che si sviluppano attraverso la comunicazione interpersonale e sociale e all’interno dei processi di
socializzazione primaria e secondaria. Sono visioni di mondo condivise da specifici gruppi-comunità sociali e culturali.
Svolgono due funzioni:
· L’ancoraggio: riportare le nuove informazioni entro categorie sociali già conosciute e in possesso. Tale processo
corrisponde, in realtà, a quello di categorizzazione
· L’oggettivazione: rendere semplici e concrete delle idee complesse e astratte. A sua volta l’oggettivazione avviene
seguendo i seguenti tre passaggi: ontologizzazione (permette di far corrispondere ai video parole delle cose
appartenenti al mondo fisico), figurazione (aggiunta o sostituzione dei concetti con immagini), personificazione (es.
associazione di scoperta scientifica alla persona che la rappresenta).
Il campo delle relazioni sociali studia i rapporti tra persone, partendo dal presupposto secondo cui si inferisce l’esistenza di
una relazione quando il comportamento di qualcuno determina un cambiamento in altri soggetti.
La natura sociale del sé Vi sono due prospettive a riguardo: l’individualismo metodologico e l’olismo metodologico.
Secondo la prima prospettiva la società è il risultato dell’insieme degli individui; la seconda prospettiva, invece, suggerisce
l’idea che l’individuo non esiste senza un contesto sociale, il quale da forma e sostanza all’individualità. La società,
secondo l’olismo metodologico, è il risultato dell’interdipendenza delle varie individualità. È bene ricordare che gli
individui non sono “monadi” isolate le une dalle altre, ma “sistemi” incorporati all’interno della più larga struttura socio-
culturale, che a sua volta ne influenza i valori, le credenze, i significati e le pratiche quotidiane
Dal punto di vista funzionale, le relazioni permettono all’individuo di raggiungere scopi, di conoscere sé stesso, gli altri e
l’ambiente. Se ogni essere umano non può non comunicare, così ogni essere umano è calato all’interno di una trama
relazionale che lo pone in interdipendenza con gli altri. L’interdipendenza delle relazioni è definibile in base a 4
dimensioni:
1. Condivisione comune: la condivisione di un comune sistema di significati e valori attraverso cui i soggetti si
riconoscono l’uno con l’altro, e grazie al quale coordinano la loro esperienza nel mondo
2. Gerarchie di autorità: le relazioni tra le persone sono regolate in base a ruoli gerarchicamente organizzati che
definiscono specifiche distribuzioni del potere
3. Relazioni tra pari: attengono alla reciprocità e ai rapporti tra persone aventi il medesimo status
4. Valutazione mercantile: valutare i rapporti in base a parametri universali di comparazione (esempio: creditore-
debitore)
L’organizzazione delle relazioni Le relazioni sociali sono organizzate attraverso regole, norme e differenziazione di ruolo e
di status. Le regole sono orientamenti che promuovono l’adozione di certi comportamenti, secondo la situazione sociale e
culturale. La norma identifica un tipo di regola descrittiva o proscrittiva-prescrittiva, che indica una certa condotta
(galateo). La norma assolve a due funzioni: comprensione (detta funzione convenzionale) e funzione di giudizio e
valutazione (detta funzione assiologica).
A seconda della posizione assunta in specifiche circostanze, le regole relazionali a cui le persone fanno riferimento sono
differenti. Le aspettative di ruolo e gli status gerarchici, infatti, permeano le modalità con cui ci si relaziona all’altro.
· Differenziazione di ruolo: ogni componente occupa uno specifico ruolo all’interno di un gruppo. In tal senso, ad ogni
individuo sono associate specifiche aspettative di ruolo e compiti da svolgere. Le norme di ruolo sono, dunque, le
condotte che ci si aspetta da un individuo inserito in un gruppo. Tali norme di ruolo dipendono da fattori storico-
culturali (il ruolo del padre nelle società «tradizionali»)
· Differenziazione di status: riguarda le differenze di valore dei ruoli in merito alla possibilità di esercizio del potere di
influenza/controllo sulle persone. Tali differenze sono regolate in base a norme e leggi, e in base ad aspetti culturali
La costruzione della propria identità avviene attraverso i processi di socializzazione primaria e secondaria, attraverso cui
l’individuo apprende le competenze sociali (modi di relazionarsi, valori condivisi da una data comunità, rappresentazioni
sociali). Nel mettersi in relazione all’altro, due sono gli aspetti in gioco: reciprocità, essa si sviluppa nell’interazione
diadica madre-bambino ed attiene alla capacità di modulare le proprie azioni in basse a quando accade nell’altro;
selettività, attiene alla scelta delle persone con cui si instaura e si mantiene un rapporto.
La teoria dell’attaccamento di Bowlby Rappresenta uno dei contributi più noti nella spiegazione della strutturazione della
relazione madre-bambino. L’autore identifica tre stili di relazione del bambino, che definisce attaccamento, ognuno dei
quali possiede specifiche caratteristiche: attaccamento ansioso-evitante; sicuro; ansioso-ambivalente. Tale teoria è
estendibile anche ad altre fasi del ciclo di vita della persona, ad esempio nella creazione del legame di coppia.
La costruzione del sé La socializzazione primaria e secondaria sono quelle fasi entro cui l’individuo si struttura come entità
sociale. La socializzazione è quel processo attraverso cui l’individuo costruisce la propria possibilità di mettersi in
relazione con il mondo, interiorizzando valori, norme, significati che orienteranno la sua esperienza. Al contempo, essa
permette l’individuazione, cioè la possibilità di ogni persona di percepirsi come un essere unico ed irripetibile.
La famiglia gioca un ruolo fondamentale nella socializzazione primaria. Essa permette al bambino di interiorizzare le
regole fondamentali attraverso cui è possibile mettersi in relazione con gli altri. Durante la socializzazione secondaria,
l’individuo entra in relazione con altri individui non familiari, relazioni che non sono sotto il controllo familiare. In tale
fase il soggetto impara nove forme relazionali diverse da quelle apprese all’interno della famiglia.
Il sé è da intendere come una dimensione inter-psichica e non soltanto intra-psichica. Esso identifica le caratteristiche
salienti ed uniche di ogni soggetto, ma al contempo è il risultato del costante dialogo con gli altri individui.
In merito al processo di costruzione del sé e delle relazioni con gli altri, Mead ha parlato, di “altro generalizzato” per
indicare il potere de gruppo di offrire al soggetto un’unità distintiva. Le riflessioni di Mead costituiscono il modello psico-
sociale noto come interazionismo simbolico. Il concetto di altro generalizzato suggerisce il fatto che l’interazione con gli
altri è possibile se si condivide un comune universo simbolico, ove cui è possibile mettersi in relazione in base alle
reciproche aspettative.
· Il Me: parte del sé che riguarda le rappresentazioni che la persona possiede di sé stessa: caratteristiche psicologiche,
fisiche, sociali, che la persona riconosce come proprie
· l’Io: parte del sé relativa all’esperienza soggettiva di continuità spazio-temporale. Coincide con la parte agente
Secondo Mead, il sé è “ciò che può essere oggetto a sé stesso” o quello “che è riflessivo, cioè che può essere soggetto e
oggetto.” Il sé, quindi, rappresenta un’esperienza riflessiva, simultanea l’attività organica e mentale. Solo gli esseri umani
sono capaci di questo. Solo gli esseri umani hanno, e sono, se stessi. La mente non può svilupparsi al di fuori del simbolico
processo sociale: la mente individuale può esistere solo in relazione alle altre menti con significati condivisi.
La pluralità del sé Il sé può essere inteso come l’insieme di schemi che si strutturano durante l’esperienza sociale. Gli
schemi di sé permettono di interpretare le azioni, organizzare ricordi e giudizi. Vengono attivati in base alla situazione,
dando origine ad una vasta fenomenologia della rappresentazione di sé, correlata alle infinite potenzialità del soggetto.
Ulteriori contributi:
La molteplicità del sé dà vita ad infinite possibilità del soggetto: cioè sé possibili. Le aspettative, i desideri, le esigenze
reali, portano l’individuo a sviluppare diverse dimensioni. Ad esempio il sé reale e il sé ideale.
Erik Erikson ha definito l’identità come insieme di dinamiche psicosociali attraverso le quali l’individuo raggiunge la
consapevolezza di sé riconoscendo delle costanti che lo mantengono identico nonostante esperisca diversi eventi
situazionali. Il sé è un costrutto che può essere descritto ricorrendo a due distinte idee di identità.
· L’identità personale: che riguarda l’insieme di caratteristiche individuali, specifiche di ogni individuo
· L’identità sociale: che attiene all’insieme di aspetti con cui la persona si sente parte di un gruppo, di cui ha
interiorizzato aspettative, valori e significati
L’identità personale si articola in tre dimensioni: aspetti fenomenologici (la percezione di sé stessi nelle diverse occasioni
sociali); aspetti comportamentali (l’insieme di azioni – riconosciute dagli altri – che il soggetto compie per il
raggiungimento di un obiettivo); aspetti strutturali: l’insieme di regole e modi di essere sociali che orientano il soggetto in
diverse situazioni.
L’identità sociale emerge dai processi di categorizzazione sociale. Fa riferimento alla consapevolezza della persona di
essere parte di uno o più gruppi, dei quali assume ed interiorizza specifici tratti che contribuiscono alla rappresentazione di
sé.
La costruzione delle relazioni Il concetto di interazione riguarda una realtà su cui si raccolgono delle sequenze di eventi
inerenti a scambi che avvengono tra persone. Le relazioni sociali sono composte da sequenze di interazioni più o meno
complesse e, tra queste, le relazioni interpersonali sono una dimensione estremamente più ampia delle semplici interazioni
che le compongono. Si estendono lungo l’arco della vita, impegnando le persone in una continuità che si protrae nel tempo
e che coinvolge le funzioni del sé.
Le relazioni profonde sono i rapporti d’amore, familiari e amicali. Il grado di intimità in queste relazioni varia in base al
tipo di rapporto, maggiore risulta in quello di amore, minore nell’amicizia e nei rapporti di parentela. Ci sono varie ipotesi
che guidano gli studi sulle motivazioni di base che muovono gli individui gli uni verso gli altri. Un primo orientamento si
fonda sull’idea comportamentista che presenta un’immagine di uomo prettamente edonista, per cui egli è attratto dalle
persone che li procurano gratificazione, ovvero rinforzi positivi. L’altra teoria è quella dello scambio, sviluppatasi intorno
a una rappresentazione di uomo economico, secondo cui le persone nelle loro relazioni tendono a massimizzare i propri
guadagni, minimizzando i costi. In questo modo, gli individui valutano le loro relazioni in base al guadagno raggiunto: la
valutazione avviene confrontando la propria situazione con le precedenti esperienze e con le possibili alternative. Vi è
un’altra prospettiva che si è evoluta come teoria dell’equità: si è notato come specialmente nei rapporti prolungati, non è
tanto il vantaggio individuale che sostiene la relazione, quanto piuttosto l’equa distribuzione dei costi e benefici. I limiti
evidenti di questi orientamenti sono determinati dal considerare le relazioni interpersonali partendo da un’ottica
individualista, senza contare che i comportamenti delle persone sono strettamente interconnessi.
Di recente un nuovo approccio teorico hai integrato differenti contributi fin qui considerati. Si tratta del modello
dell’investimento, secondo cui la dipendenza soggettiva all’interno di una relazione dipende da tre fattori: il grado di
soddisfazione raggiunto, l’importanza delle alternative, il livello di investimento di risorse che sono richieste per
mantenere il rapporto. Secondo alcuni autori è possibile riconoscere delle fasi del ciclo di vita delle relazioni
interpersonali, pur ammettendo che non tutte loro attraversano questo ordine. Tra queste sono state da più parti
riconosciute le seguenti: la conoscenza (fattori: attrazione fisica, frequenza interazione), la formazione e il consolidamento
(dipendono dal coinvolgimento e dalla propensione al disvelamento del sé), il deterioramento e la conclusione (processo
inverso relativo alla frequenza degli incontri, degli aspetti positivi coinvolti ecc.).
Qualsiasi relazione di coppia è caratterizzata da una forte interdipendenza, ovvero ogni partner influenza ed è influenzato
dall’altro in merito alle proprie emozioni, sentimenti, atteggiamenti e comportamenti. Quando una coppia è caratterizzata
dalla reciprocità, i partner sono capaci di alternare relazioni simmetriche e complementari (opposizione e comprensione) in
base alle situazioni e alle sfide che la via di coppia impone.
La capacità di comunicare sulle regole produce il sistema di meta-regole che identifica il modo in cui si strutturano gli
scambi comunicativi.
La famiglia è un gruppo sociale primario, composta da una coppia e dalla sua prole. Essi sono caratterizzati da una
relazione che si protrae nel tempo e da una residenza comune. Tuttavia, il concetto di famiglia, oggi, assume significati
diversificati, per tanto è più utile parlare di “famiglie”. Le principali funzioni della famiglia (tradizionale) sono:
Ogni famiglia, come ogni altro gruppo con storia, è caratterizzata da specifici universi semantici che la differenziano dalle
altre famiglie. Tali modalità riassumono la cosiddetta “capacità autoreferenziale”, ovvero la riconoscenza da parte dei
membri di una propria specificità e totalità. L’autoreferenzialità stabilisce le regole di condotta dei suoi membri e i rapporti
con l’esterno. La famiglia può essere eccessivamente chiusa o aperta al mondo esterno, e ciò può provocare problemi di
sopravvivenza del nucleo. Anche le relazioni familiari sono organizzate secondo regole esplicite, implicite, di transizione.
Il rapporto amicale, per quanto profondo possa essere è differente dal legame amoroso poiché richiede un grado minore di
intimità, implica un contatto a due stabile, condiviso e privilegiato rispetto un gruppo di coetanei, iniziando a presentarsi
fin dall’infanzia. La formazione del sé e la maturazione dei livelli di autostima influiscono sulla capacità di coltivare
rapporti di amicizia profondi. I rapporti umani - parentali, di coppia, amicali e affiliativi - sono una risorsa preziosa per
affrontare le difficoltà dell'esistenza; il sostegno sociale da essi prodotto gioca infatti un ruolo importante nella
costituzione del benessere individuale, coinvolgendo addirittura la dimensione della salute fisica. Il sostegno sociale offre
la possibilità di vivere esperienze di confronto e di rassicurazione, realtà essenziali per migliorare la qualità e la quantità
della vita. L’esperienza della solitudine deriva da una percezione di carenza di sostegno sociale ed è una condizione
esistenziale gravosa. Essa consiste nella discrepanza tra le relazioni di cui una persona può realmente godere e quelle che
invece desidererebbe avere. La percezione di questa deficienza per un verso è soggettiva e interessa la valutazione degli
aspetti qualitativi e quantitativi dei rapporti coltivati, per l’altro verso è oggettiva in quanto si collega a situazioni di
isolamento.
8. L’influenza sociale
Si diventa cattivi? Condizioni affinché possa esserci l’effetto “Lucifero”: compiere il primo passo, senza pensare, deumanizzare gli altri,
de-individuazione (anomia), allentamento della responsabilità personale, cieca obbedienza all’autorità, conformarsi acriticamente alle
norme del gruppo, tolleranza passiva del male (inazione-indifferenza)
Obiettivo degli studi sull’influenza sociale è comprendere come la relazione tra persone che si trovano ad interagire in
merito ad uno specifico oggetto sociale possa influenzare l’azione dell’individuo. I temi che si collegano a tale dinamica
sociale sono: la costituzione di norme, il conformismo, l’obbedienza e l’influenza delle minoranze
F. Allport aveva già dimostrato come la presenza degli «altri» influenzasse in modo positivo la prestazione individuale.
Lavorare in gruppo favorisce l’efficienza grazie al fenomeno della facilitazione sociale: le persone, al fine di dimostrarsi
all’altezza della situazione, tendono ad impegnarsi di più quando è presente un confronto tra sé e gli altri. Tuttavia, altri
studi (Zajonic) hanno mostrato che la presenza degli altri può sortire l’effetto contrario: peggiorare le prestazioni
individuali. Ciò accade perché la presenza degli altri può attivare il timore della valutazione e sollecitare la distrazione
cognitiva. Zajonic ritiene che la presenza degli altri possa facilitare il compito quando esso è semplice o familiare. Al
contrario, la presenza degli altri può complicare la prestazione quando il compito è nuovo o complesso. Altri studi si sono
concentrati sul fenomeno dell’indolenza che coinvolge gli individui quando lavorano in gruppo, rispetto a quando lavorano
da soli. Tale calo dell’impegno è stato definito «inerzia sociale».
È possibile affermare, alla luce di diversi studi, che la prestazione gruppale è preferibile quando si debbano affrontare
compiti semplici. Al contrario, quando bisogna risolvere questioni complesse, la condizione di individualità risulta essere
privilegiata. L’origine e l’eliminazione del fenomeno dell’inerzia sociale dipende strettamente dalla cornice culturale entro
cui il gruppo si trova ad interagire.
L’influenza informativa L’influenza sociale, in realtà, non è frutto della mera presenza degli altri, ma spesso dalla
formazione e azione di specifiche norme che il gruppo si dà. A tal proposito, Sherif ha parlato del fenomeno di
«normalizzazione», indicando quel processo attraverso cui gli individui creano norme per giungere a giudizi condivisi su
un determinato oggetto. Sherif ha dimostrato come il gruppo possa creare dal nulla delle norme che orientano i giudizi e i
comportamenti dei singoli. Sherif riuscì a dimostrare (esperimento effetto autocinetico) che l’influenza sociale del gruppo
si manifesta in quelle occasioni in cui la situazione risulta essere ambigua e priva di riferimenti. Essa spinge le persone a
creare una comune norma di riferimento attraverso cui orientare i propri giudizi. Tale tipo di influenza è definita influenza
informativa: gli altri diventano fonte di informazione per l’individuo.
L’influenza normativa L’individuo non ha solo l’esigenza di raccogliere le informazioni, ma anche di sentirsi accettato e
valorizzato da un gruppo. Asch ha dimostrato (esperimento sul conformismo) che l’individuo, pur di non contrastare con le
norme del gruppo, può arrivare a negare delle evidenze/credenze soggettivamente percepite. Una grande pressione è
esercitata dalla desiderabilità sociale: il non volersi sentire stupidi. Il volersi adeguare alla norma del gruppo, rinunciando
alle proprie credenze, è il frutto della cosiddetta influenza sociale normativa.
Il conformismo può essere, dunque, spiegato ricorrendo ai concetti di influenza informativa e influenza normativa. Il
conformismo può, inoltre, portare ad assumere una condotta che, in altre condizioni, la persona non assumerebbe. Stanley
Milgram ha dimostrato (esperimento di Milgram) come l’obbedienza ad una autorità, la tendenza a conformarsi alle norme
istituzionalizzate, possa portare persone sane (senza alcun tipo di sofferenza psicopatologica) a compiere azioni
estremamente crudeli. Tale evidenza si basa sul potere della situazione in luogo del potere della persona. I due paradigmi
che qui si confrontano sono il «situazionismo» e «personalismo». Una persona, inserita in un sistema autoritario, passa da
uno stato autonomo (autodeterminazione dei propri comportamenti) ad uno stato eteronomico in cui non è più capace di
agire liberamente, ma si considera come un agente il cui obiettivo è soddisfare le richieste di un’autorità. Nello stato
eteronomico, l’individuo non si sente più responsabile delle proprie azioni, definendosi piuttosto come uno strumento nelle
mani altrui. Una condizione essenziale è la «fonte» da cui gli ordini provengono. Si è dimostrato che, quando vengono
manipolati i ruoli, un uomo qualsiasi che vestiva i panni dello sperimentatore non ottiene lo stesso grado di obbedienza.
Gli ordini di una fonte non autorevole non hanno potere.
1. Spiegazione psicoanalitica: i partecipanti fanno ricorso al diniego, inteso come sistema di difesa per gestire l’ansia.
Ciò significa che essi tendevano a negare la realtà delle cose, attenuando così la tensione nell’obbedire agli ordini
2. Coinvolgimento graduale: I soggetti coinvolti iniziano a rendersi conto della gravità della situazione solo dopo un
certo numero di prove
3. De-individuazione: attualizzando idee già presenti nella «psicologia delle folle», si crede che l’appartenenza anonima
di un soggetto ad un gruppo inneschi in lui profondi cambiamenti psicologici che lo rendono meno sensibile alle
norme che inibiscono la violenza
4. Forze vincolanti: si tratta di quegli elementi che in una data situazione legano psicologicamente le persone alla
definizione di realtà fornita da un’autorità. Il potere di queste forse è accentuato dai seguenti fattori: pressione del
gruppo dei pari, l’essere sorvegliati, trovarsi coinvolti in una situazione ambigua, l’esistenza di una catena di
comando, le conseguenze gravose in caso di disobbedienza
5. Personalità autoritaria: l’obbedienza deriva da una particolare personalità caratterizzata da convenzionalismo,
aggressività, stereotipia, ecc. Tali tratti sono personologici, caratteristici di quelle persone che tendono ad essere
obbedienti verso figure che incarnano l’autorità (tale tesi è opposta a quella di Milgram; egli è un situazionista)
6. Teoria dei dormienti: coloro che tendono ad obbedire ad un’ideologia distruttiva sarebbero dei dormienti, individui
con sentimenti aggressivi e forti pregiudizi. In condizioni di pace tengono a freno le proprie disposizioni, che
verrebbero alla luce in condizioni culturali che legittimano la violenza
9. I gruppi sociali
Il gruppo è l’insieme di individui che interagiscono tra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono, più o meno
consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. Esso rappresenta una forma di aggregazione
particolare poiché si fonda sull’interazione tra i membri, aspetto che manca nelle altre forme di aggregazione. I gruppi si
differenziano tra loro in base alla relazione che intercorre tra i membri e al tipo di scopo.
· Nascita e formazione: conoscenza reciproca e costruzione del clima relazionale. Le emozioni in gioco sono
preoccupazione e ansia, legate all’ incertezza dei compiti e alle aspettative degli altri. Le relazioni sono dominate da
formalità e impegno ridotto.
· Confitto: disaccordi dovuti ad aspetti procedurali. Presenza di dinamiche di potere: i membri cercano di influenzarsi a
vicenda e di non subire le azioni degli altri. (si costruiscono coalizioni). Emozioni in gioco: rifiuto e aggressività
· Normativa: i membri del gruppo riescono a costruire regole condivise e ruoli predefiniti con cui orientare in modo
concertato la propria condotta. Un aggregato di persone, così, diventa un gruppo psicologico. I membri creano un
legame (coesione di gruppo). I conflitti sono affrontati mediante la negoziazione e non la contrapposizione
· Esecutiva: il gruppo si impegna concretamente nel raggiungimento degli scopi. Si rafforza il sentimento di coesione
· Conclusiva: il gruppo si scioglie perché i membri hanno raggiunto il loro scopo hanno perso l’interesse
Se il gruppo ha rappresentato una dimensione affettivamente importante per i membri, la sua conclusione può generare
forti sentimenti di perdita, ansia, tristezza.
Processi di gruppo:
· Valutazione: il gruppo e i membri accertano il loro livello di compatibilità reciproco. La compatibilità può essere
definita come accordo tra gratificazioni del gruppo e gratificazioni individuali o accordo tra prototipo del gruppo e
auto-categorizzazione operata dall’individuo
· Impegno: una volta che l’individuo e il gruppo hanno valutato positivamente il rapporto «costo-beneficio», i membri
del gruppo attivano il senso di appartenenza e aumentano l’impegno
· Transizione di ruolo: in base alle capacità e all’impegno degli individui avviene una modificazione dei ruoli che può
portare a promozione-avanzamento; marginalizzazione-esclusione; ridefinizione dei rapporti tra il gruppo e gli
individui
La struttura dei gruppi Ogni gruppo è caratterizzato da ruoli. Inoltre, nel corso del tempo tende a darsi delle norme con cui
orientare la propria esperienza. Le differenziazioni di ruolo sono dovute all’evoluzione del gruppo, un processo graduale
da un tutt’uno indifferenziato alla differenziazione dei ruoli stessa. Sono anche dovute a ruoli predefiniti: cioè a posizioni
già esistenti in un determinato contesto. La differenziazione di ruolo si accompagna alla distinzione di status tra i membri
(gerarchia). Le differenziazioni offrono anche il terreno affinché si possa generare il confronto tra i membri.
La leadership È il processo di influenza tra leader e seguaci, che si esplica sul piano dei pensieri, dei sentimenti e delle
azioni, per raggiungere gli scopi predefiniti. La figura del Leader ha a che fare con le caratteristiche di una persona; la
Leadership con le caratteristiche degli altri membri del gruppo, della situazione, del tipo di compito. Inoltre, la leadership,
si distingue nettamente dalla headship. La prima è spontanea e riconosciuta dai membri, la seconda è
preesistente/strutturata all’interno di un dato contesto. La leadership è differente dall’esercizio coercitivo del potere
Secondo Weber, il leader può far derivare la sua autorità da tre fonti:
Il leader può esercitare la sua influenza anche attraverso le seguenti forme di potere: di ricompensa, di coercizione,
legittimo, di riferimento, di competenza, informativo.
Secondo la Teoria del grande uomo il leader è colui che possiede qualità straordinarie. Tuttavia, la ricerca ha dimostrato
che le sole caratteristiche personali non sono sufficienti a spiegare come si diventa un leader e come si esercita il potere.
Studi successivi hanno sottolineato altri aspetti cruciali, andando a definire i seguenti approcci:
· Stili di leadership (studio sulla manipolazione della leadership di Lewin, Lippitt, White: autoritario, lassista,
democratico)
· Funzioni della leadership: leadership come processo; orientamento al compito VS orientamento socio-emozionale
· La contingenza entro cui si sviluppa la leadership: l’importanza della relazione tra stile di leadership e contesto.
Fiedler
Lo studio della manipolazione della leadership si è posto l’obiettivo di analizzare il comportamento del leader, chiamato
stile, e osservare contestualmente l’influenza esercitata sugli atteggiamenti e sulle azioni degli altri membri del gruppo. Lo
studio fu effettuato su gruppi di adolescenti che si ritrovavano nel tempo libero per svolgere attività ricreative. I gruppi
osservati erano tre con un differente tipo di leader: autoritario, lassista e democratico. Il leader autoritario si comportava in
modo da accentrare ogni decisione, si mostrava severo e stabiliva le cose da fare passo per passo. Il leader lassista lasciava
completa libertà di scelta, forniva poche idee. Il leader democratico assisteva e incoraggiava il gruppo durante le
discussioni in cui si decideva che cosa fare, offriva diverse opportunità, il gruppo stabiliva collettivamente la divisione dei
compiti. I risultati ottenuti dimostrano che gli stili avevano prodotto conseguenze differenziate. La leadership autoritaria
attivava un clima sociale contraddistinto da sentimenti di irritabilità e aggressività, la leadership lassista registrò
aggressività e insoddisfazione, mentre la leadership democratica ridusse l’aggressività e veicolò un clima amichevole e
cooperativo, i membri del gruppo erano soddisfatti del lavoro svolto.
Successivamente, sono state analizzate anche le funzioni della leadership. Nello specifico, sono state individuate due
funzioni: orientamento al compito e orientamento socio emozionale. La prima è assunta da quel leader che è interessato
principalmente al raggiungimento degli scopi del gruppo. La seconda viene svolta dal leader e focalizza l’attenzione sulle
relazioni tra i membri del gruppo e cura il clima interno. I ricercatori hanno riscontrato due categorie del comportamento
da leadership: la considerazione e la struttura di iniziazione. La considerazione riflette il grado in cui il leader mostra
comportamenti che sono indicativi di amicizia, fiducia reciproca e rispetto verso gli altri. I leader che presentano un alto
livello di considerazione incoraggiano i collaboratori e comunicare tra loro e a condividere sentimenti. La struttura di
iniziazione si riferisce al comportamento del leader nel delineare la relazione tra sé stesso e gli altri, e negli sforzi per
stabilire modelli organizzativi, canali di comunicazione e procedure.
La leadership affonda le proprie radici specialmente nel modo in cui sono organizzate le interazioni nel gruppo: reti di
comunicazione. Si distinguono 5 reti di comunicazione: la ruota; la catena, la Y, il cerchio, la rete connessa.
Funzionamento di gruppo In base alla teoria psicoanalitica, il gruppo tende a soddisfare bisogni emotivi, di natura
prevalentemente inconscia. In tale cornice teorica troviamo il contributo di Bion. Egli sostiene che il comportamento di
gruppo va compreso attraverso due livelli:
· Dipendenza: questo assunto dà vita a un gruppo in cui tutti membri, insoddisfatti e sfiduciati, si affidano a un leader
per ottenere protezione sostegno. Il leader viene investito della responsabilità di affrontare la realtà esterna. Il gruppo
può costituirsi e sopravvivere solo se il leader accetta una funzione simile
· Attacco/fuga: questo assunto permette ai membri di trovare coesione in merito alla convinzione che vi sia un nemico
da individuare che minaccia la sopravvivenza del gruppo. È un’opposizione che genera solidarietà
· Accoppiamento: questo assunto è costituito dalla speranza che la coppia (due membri o membro-leader) sia in grado
di rifondare il gruppo
Gli assunti di base agirebbero come meccanismi di difesa, atti a impedire che le angosce primordiali innescati
dall’appartenere a un gruppo possono raggiungere la sfera conscia. Gli stessi non si manifestano contemporaneamente.
Sono stati alla base della costituzione delle istituzioni sociali come la chiesa, l’esercito e l’aristocrazia.
Attualmente la leadership efficace è vista come uno degli esiti determinati dalle situazioni in cui vengono a trovarsi gruppi.
L’accezione “modelli della contingenza” indica i contributi sviluppati all’interno di tale approccio, tra i quali emerge per
importanza quello di Fred Fiedler. Il modello della contingenza si basa su quattro componenti; una riguarda la personalità
del leader mentre le restanti ineriscono alle caratteristiche della situazione. Il modello della contingenza valorizza il
rapporto tra stile della leadership e situazione: è inevitabile considerare quanto la seconda determini la prima.
Secondo il modello della contingenza non esiste il buon leader in senso assoluto, ma il leader migliore per specifiche
situazioni. I leader orientati al compito raggiungono prestazioni migliori quando hanno un controllo della situazione alto
oppure basso, mentre leader orientati alla relazione ottengono risultati migliori nelle situazioni di controllo moderato.
Le persone coltivano teorie implicite di personalità anche rispetto ai leader. Un fattore importante per le relazioni nei
confronti del leader riguarda l’origine della sua autorità, la quale può provenire dall’esterno oppure essere conferita dei
membri. In quest’ultimo caso si parla di leadership vera e propria, mentre nel primo ci si riferisce alla headship. Per
ottenere consenso il leader deve dimostrare di essere competente e di permettere al gruppo di ottenere successo; al
contrario per un capo è sufficiente uno solo dei due requisiti. Un buon leader sa gestire la comunicazione nel gruppo,
interagendo e riconoscendo il valore delle reciproche interdipendenze.
10. Pregiudizio, discriminazione e conflitto intergruppi
Gli autori sostengono che gli atteggiamenti pregiudiziali sono associati a un particolare tipo di struttura psicologica, la
personalità autoritaria, la quale sarebbe esito delle esperienze infantili in una famiglia disciplinata in modo ferreo. La
rabbia e l’ostilità vengono proiettate all’esterno verso figure più deboli. Il pregiudizio sembra connesso alle norme e alle
convenzioni prevalenti in una data società e ai contingenti rapporti tra gruppi sociali.
Secondo Dollard, il pregiudizio dilagante in una società sarebbe l’esito di un diffuso sentimento di frustrazione. Quando
l’aggressività verso la causa della frustrazione non può essere agita direttamente, la stessa viene orientata a obiettivi
sostitutivi disponibili. La formazione di pregiudizi ampiamente condivisi e associata al livello di frustrazione determinano
dei cambiamenti economici: ad esempio, il dilagare dell’antisemitismo in Germania dopo la disfatta della prima guerra
mondiale.
Il limite maggiore di tale prospettiva è costituito dal presupporre che un elevato numero di persone presentino il medesimo
stato di frustrazione per un periodo di tempo estremamente lungo, in quanto i pregiudizi possono godere di una longevità
addirittura secolari.
Gli stereotipi possono essere definiti come credenze condivise secondo cui i membri di un particolare gruppo sociale
presentano determinate caratteristiche. La semplificazione cognitiva che contraddistingue gli stereotipi è determinata dai
limiti intrinseci del sistema umano di elaborazione dell’informazione e non può quindi essere considerata il frutto di
disturbi o solo di bisogni individuali. Dagli stereotipi che connotano negativamente gruppi sociali derivano giudizi,
emozioni e azioni, che si traducono in pregiudizio e discriminazione. Il pensiero controllato può aiutare a prevenire la
stereotipizzazione, in quanto richiede sforzi maggiori e informazioni più consistenti che possono smentire il suo
consolidamento.
· La teoria della deprivazione relativa: la differenza tra ciò che si è effettivamente ottenuto (es. posizione sociale
raggiunta) e le proprie aspettative (es. posizione sociale desiderata) costituisce la deprivazione relativa; più il divario
tra la realtà e aspettative è ampio, maggiore risulta in grado di scontentezza e quindi aumentano le probabilità che il
malcontento sfoci in pregiudizio e conflitto. La stessa dimensione può essere distinta in deprivazione egoistica,
derivante da un confronto soggettivo svantaggioso con altri simili e deprivazione fraternalistica, conseguente a un
confronto tra gruppi. L’idea relativa a un vissuto di ingiustizia condivisa può in parte spiegare l’uniformità di
comportamento che caratterizza il pregiudizio
· La teoria del conflitto realistico: questa teoria sostiene che gli interessi di gruppo influenzano il comportamento degli
individui. Quando i membri di un gruppo credono che un altro gruppo possa procurargli svantaggio, tra le due entità si
sviluppa ostilità accompagnata da pregiudizio e discriminazione
Come ben sappiamo, l’individuo tende a categorizzare: cioè raggruppare stimoli in base alle loro somiglianze, mettendoli
in contrasto in base alle loro differenze. In tale contesto il pregiudizio può sorgere durante l’identificazione in un gruppo e
il confronto sociale. L’individuo, di fatti, per innalzare la propria autostima, tende a mettere in atto specifici errori di
attribuzione: gli ingroup bias. Tende a valutare positivamente il proprio gruppo e ad attribuire una valenza negativa
all’outgroup (eterogeneità dell’ingroup Vs omogeneità dell’outgroup).
La teoria dell’identità sociale (Tajifel e Turner) Per verificare la tendenza dei soggetti a categorizzare, identificarsi in un
gruppo e a compiere un confronto sociale, Tajifel e colleghi hanno creato una serie di esperimenti che fanno capo al
paradigma dei gruppi minimali. Persone estranee venivano assegnate a due gruppi in modo totalmente casuale. Nonostante
nessuna tra le persone si conoscesse o interagisse durante l’esperimento, gli individui tendevano a valutare positivamente
le competenze e il carattere dei membri dell’ingroup. Anche quando le differenze sono minime, l’individuo tende a
favorire il proprio ingroup.
I fenomeni conflittuali tra ingroup e outgroup possono crearsi a causa della competizione economica, politica o di status.
La teoria del conflitto realistico sostiene che quando le risorse sono limitate, si crea un reale conflitto fra gruppi. Questo
tipo di competizione può, a sua volta, dare avvio alla creazione di forme di pregiudizio e discriminazione.
La teoria della categorizzazione di sé (John Turner) Tale teoria seconda spiega le dinamiche di gruppo facendo ricorso
all’idea secondo cui nell’individuo si svilupperebbe una trasformazione della categorizzazione di sé a livello individuale
verso la categorizzazione di sé a livello di gruppo. Per considerarsi appartenente al gruppo sociale l’individuo ricorre alle
rappresentazioni del membro ideale del gruppo: il prototipo. I prototipi sono schemi cognitivi caratterizzati dalla tendenza
per un verso a minimizzare il numero e l’intensità delle differenze relative alle caratteristiche attribuite ai componenti di un
gruppo, per l’altro a massimizzare le differenze tra gruppi. L’effetto è ancora più pronunciato nell’outgroup. La percezione
di sé tende a depersonalizzarsi producendo una riduzione del riconoscimento delle peculiarità personali.
· Ipotesi del contatto, gli atteggiamenti e i comportamenti verso i gruppi esterni possono diventare più tolleranti quando
si entri in relazione con gli stessi. Il contatto deve avvenire tra gruppi che godono di uno stesso status e che
percepiscano e si muovano secondo una logica di cooperazione. L’iniziativa deve essere sostenuta dalle autorità
· Gli scopi sovraordinati, si può ridurre l’ostilità solo in presenza di un certo numero di compiti (a cui entrambe le parti
attribuiscono valore) che richiedono cooperazione. Si è dimostrato però che l’ostilità viene ridotta solo in caso di
successo nel compito. Questa ipotesi non è utile per una risoluzione a lungo termine, come invece è richiesto per
combattere pregiudizio e discriminazione
· La ricategorizzazione, volta a indurre le persone a ricategorizzare sé stesse. Vi sono due tipi: il primo prevede che i
membri di differenti gruppi possono considerarsi come appartenenti a un’unica categoria superordinata, diventando
tutti parte di un solo gruppo. La seconda si basa sull’incrocio di due o più categorie in modo che i rispettivi e
simultanei processi di differenziazione e assimilazione si neutralizzino a vicenda
Razza, cultura, etnia e religione, sono delle categorie sociali costruite e “tenute in piedi” da un accordo intersoggettivo;
non possiedono un significato intrinseco, ma si sviluppano attraverso l’interazione sociale e a contatto con il contesto
storico-politico. Quali tra questi concetti diviene saliente nel definire un’unione mista dipende da un atto creativo sempre a
stretto contatto con lo “spirito del tempo” e con un luogo geografico specifico. Un’unione sentimentale non può essere
definita mista se non in relazione ad un ambito preciso, ad un luogo e ad un’epoca dati, alle altre unioni di quel territorio;
la diversità che la contraddistingue è una differenza aggiuntiva, ulteriore, avvertita come complicata, pesante e difficile
rispetto a quelle visibili e diffuse nella maggior parte delle relazioni sentimentali di quel contesto. Fino agli anni 30 si
discuteva maggiormente di unioni interrazziali; negli anni 40 di unioni interreligiose, negli anni 50 di unioni
internazionali; dagli anni 80 di unioni interetniche o a mescolanza multipla, in cui le differenze di cultura, religione ed
etnia si presentano simultaneamente.
In Italia le categorie concettuali più salienti sono quelle di cultura e religione. Ciò avviene per motivi storico-politici ben
precisi legati sia alla recente esperienza dei flussi migratori che all’importanza rivestita dalla chiesa e dalla religione
cattolica. In tal senso il termine “misto” identifica le coppie interculturali e interreligiose, pur mantenendo una certa
attenzione anche sulle dimensioni interrazziale e interetnico.
“Sono miste tutte le unioni coniugali concluse tra persone di nazionalità etnia e culture differenti se queste differenze
provocano una reazione da parte dell’ambiente sociale” (Bensimond, Lautman).
Gestione delle differenze In una coppia mista l’impalcatura relazionale risulta essere “creolizzata”, nel senso che
all’interno convergono modi di esperire la relazione di coppia e la realtà familiare che appartengono a due universi
culturali diversi. La gestione delle differenze coinvolge, generalmente, le seguenti dimensioni:
· La relazione di coppia
· La relazione con i figli
· La relazione con la famiglia d’origine
· Tensioni relative alle confessioni religiose dei partner e all’educazione culturale/religiosa dei figli
· Identità personale e culturale dei figli, inserimento scolastico e sociale
· Razzismo, pregiudizio e discriminazione
· Disagio migrante e “shock” culturale del partner migrante
Uno dei contributi maggiori è quello di Seshadri e Knudson-Martin che individuano quattro strutture attraverso le quali le
coppie costruiscono le differenze. La prima struttura è quella “integrated”; la voce, l’opinione e il vissuto di ogni partner,
così come la sua cultura, trovano posto nella relazione, e ciascuno sembra disposto ad essere coinvolto nella cultura
dell’altro. La seconda struttura è la modalità “singularly assimilated”; il sistema culturale di un partner è assimilato al
sistema culturale dell’altro. In tale arrangiamento una cultura indietreggia, finendo per occupare un posto “invisibile”. È
interessante rilevare che, secondo gli autori, il partner la cui cultura è stata assimilata non sembra vivere alcun tipo di
sofferenza poiché ritiene vantaggioso seguire e adottare la cultura del partner. La terza modalità è la “ coexisting”; i partner
sembrano voler mantenere le culture separate, che integrano solo raramente. Tuttavia, le differenze, viste come positive e
attraenti, sono nutrite e rispettate. Religione, genitorialità, stile di consumo, cura dei bambini, responsabilità domestiche
fanno riferimento a due paradigmi differenti e separati che trovano un modo per co-esistere. La quarta e ultima struttura è
quella “unresolved”; la coppia sembra non sembra capace di gestire le differenze, che restano separate, ignorate e
svalorizzate.
La capacità di “vedere” ed interpretare i “mondi” culturali di entrambi i partner è stata riassunta efficacemente da Zentella
nell’espressione “speaking both”. D’altro canto, Reenee Singh ha sviluppato delle interessanti proposte teoriche e di lavoro
in merito alla terapia con le coppie miste. Tra queste, l’importanza della riflessività. La riflessività sottolinea il ruolo di
possibili bias culturali e dei pregiudizi del terapeuta che lavora con coppie miste (nelle famiglie non occidentali la diade
primaria non è necessariamente la coppia: a volte a formarla sono padre e figlio, madre e figlio, o diadi basate su altri tipi
di affinità).
Nel corso della relazione di aiuto, l’operatore dovrebbe essere capace di creare un’esperienza in cui la persona, anche se di
altra cultura, sia vista e riconosciuta nella sua autenticità e unicità. L’armonia di coppia si costruisce quando ciascuno
mette nella condizione l’altro di sentirsi “rappresentato” all’interno della relazione. Nella dinamica di coppia dovrebbero
trovare spazio gli universi personali e culturali di entrambi i partner, seguendo una logica comprensiva (“e…e”) e non una
logica esclusiva (“o…o”). Obiettivo dell’operatore è riuscire a «catturare» e interpretate i significati appartenenti
all’universo semantico di ciascun partner, mettendo in moto un dialogo interculturale che faccia tesoro delle reciproche
differenze.
Intercultura e mediazione
1. Intercultura: la differenza in casa
Per intercultura intendiamo tutti i contatti tra culture diverse di cui i fenomeni migratori sono solo un aspetto, anche se
importante. L’intercultura comprende situazioni in cui sono gli italiani ad andare “in casa d’altri” (es. Erasmus), ma anche
ogni genere di scambi di informazioni, idee ed esperienze tra aree diverse del pianeta. Esistono numerosi processi
interculturali che non passano per il nostro paese, e neppure per l’Europa. Non tutti gli scambi vanno dal Sud al Nord del
mondo, e viceversa. L’intercultura riguarda noi stessi, il modo in cui viviamo e guardiamo il mondo.
La prospettiva interculturale vede la pluralità di culture come una ricchezza e per questo motivo non si pone come
obiettivo l’integrazione degli immigrati nel senso che le persone immigrate debbano rinunciare alle loro consuetudini per
abbracciare quelle del paese in cui sono arrivati.
Le teorie multiculturali suppongono che le società umane siano fondate sulla “loro cultura”, che da un lato separa i loro
membri rispetto quelli delle altre società e dall’altro lato li rende simili tra loro. Ma in questo modo si rischia di reificare le
culture come entità separate sopravvalutandone le diversità e l’impermeabilità dei confini. Omogeneità e separazione non
esistono alla luce delle analisi storiche e sociali ma sono dei miti creati e alimentati dai fondamentalisti di ogni fede e
partito.
La prospettiva interculturale respinge il primo presupposto della concezione multiculturale, cioè l’idea che la cultura sia
una realtà monolitica. La cultura è un insieme di narrazioni condivise, contestate e negoziate. Anche il secondo
presupposto della concezione multiculturale, l’idea che le persone abbiano una e una sola identità culturale, viene smentita.
La prospettiva interculturale respinge anche il terzo presupposto multiculturale, l’idea che esistano barriere impenetrabili:
il regno della cultura è tutto distribuito lungo le frontiere e le frontiere sono dappertutto.
La concezione aperta della cultura considera come attori sociali le persone. Il termine agency sottolinea questa centralità.
La cultura fa l’uomo, ma sono gli uomini, le donne, i giovani che fanno la cultura.
Con il concetto di cultura è cambiato anche quello di identità. L’identità è rivendicata dai gruppi che credono di essere
diversi e a rischio di omologazione. La concezione fondamentalista della cultura genera una concezione fondamentalista
dell’identità culturale. La paura della contaminazione giustifica per i fondamentalisti ogni misura a difesa del patrimonio
identitario del gruppo minacciato dalle influenze corruttrici esterne.
La concezione aperta, interculturale, della cultura genera un’idea di identità opposta a quella della concezione
fondamentalista. Le persone non hanno diverse identità, ma le costruiscono nelle relazioni quotidiane con gli altri usando
gli strumenti attraverso cui interagiscono con l’ambiente fisico e sociale: il loro corpo, gli oggetti di cui si servono, le
conversazioni, i discorsi, le narrazioni.
L’attività narrativa è uno strumento per riflettere collaborativamente sulle situazioni e sul loro posto nello schema generale
della vita. Nelle analisi di questo tipo il contenuto e la direzione che le cornici narrative prendono dipendono dai contributi
esplicitati dagli interlocutori. L’identità prodotta dalle narrazioni non è necessariamente coerente. È per questo che le
identità costruite discorsivamente possono essere problematiche: quando le persone parlano di una situazione inattesa o la
vivono spesso non hanno un senso preciso di che cosa sia accaduto e del perché sia accaduto. La frammentarietà, le
incoerenze e i silenzi che compaiono spesso nei posizionamenti discorsivi dei “sé diasporici” sono accettati e compresi
dall’approccio discorsivo.
2. Le religioni migranti
Il Vecchio Continente ha riconosciuto la pluralità delle fedi, pagando due prezzi elevati: da un lato, le guerre di religione
che hanno cristallizzato territorialmente le differenze storiche fra cattolici e protestanti e, dall’altro, la sistematica
persecuzione degli ebrei sino al loro sterminio. I conflitti politici ed economici si sono spesso intrecciati a quelli religiosi.
Quando si parla di pluralismo inedito si allude al fatto che in un’Europa – ormai pacificata per quanto riguarda le storiche
contrapposizioni fra cattolicesimo e protestantesimo – hanno preso forma religioni che erano marginali o lontane ed
estranee rispetto alla stessa storia europea.
È possibile parlare di religioni in movimento in un duplice senso: in primo luogo, l’Europa va ridisegnando la propria
cartografia del sacro e, in secondo luogo, nessuno esce indenne dal mutamento che tale nuova cartografia comporta.
Le religioni possono essere considerate come archivi viventi di simboli collettivi. I simboli circolano all’interno delle
grandi famiglie religiose, finendo per formare una sorta di capitale simbolico liberamente circolante nelle società umane,
per il quale vale più la legge dell’accrescimento che non quella dell’annichilimento. È difficile, infatti, incontrare religioni
allo stato puro. Esse si presentano generalmente come sistemi di credenza che inventano nuovi linguaggi simbolici,
ricomponendo allo stesso tempo strati simbolici preesistenti. I sistemi di credenza religiosa funzionano secondo il
principio che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Gli storici parlano, a tal proposito, di sincretismo.
7. Interculturalismo
L’interculturalismo è una nuova forma di pluralismo culturale, che integra in modo critico il multiculturalismo che l’ha
preceduto. La categoria dell’intercultura deve riguardare la società nel suo insieme, non solo immigrati o minoranze.
L’educazione interculturale valorizza la diversità umana come qualcosa di positivo di per sé, senza esasperare le
differenze, tenendo conto in ogni momento che gli uomini sono accomunati da diversi presupposti eterogeni, anche
socioeconomici.
Come anticipato, per fondare l’approccio interculturalista si deve partire dalle critiche al multiculturalismo e dai suoi
limiti. La chiave sta nel considerare multiculturalismo e interculturalismo come due versioni del paradigma del pluralismo
culturale.
MULTICULTURA: diversità culturale INTERCULTURA: relazioni interetniche
MULTICULTURALISMO: riconoscimento della INTERCULTURALISMO: convivenza nella diversità
differenza
= PLURALISMO CULTURALE
La tipologia di modelli sociopolitici di fronte alla diversità culturale può prendere due strade diverse:
Come prima versione del pluralismo culturale, il multiculturalismo ha dato il suo contributo soprattutto con l’idea del
“riconoscimento” mostrando, però, delle notevoli carenze e limiti rispetto alla capacità di articolare convergenze e
promuovere la coesione sociale e la convivenza civile. D’altro canto, l’interculturalismo può essere inteso come quella
nuova variante del pluralismo culturale che viene stimolata dal vuoto creato dalle limitazioni e punti deboli del
multiculturalismo. L’elemento distintivo e l’apporto specifico dell’interculturalismo rispetto ai modelli anteriori stanno
nell’enfasi del comprendere e promuovere l’interazione socioculturale e tutto ciò che ne comporta.
L’intercultura – o meglio, interculturalismo – è intesa come un progetto pluralista sulle relazioni umane che dovrebbe
esserci tra attori culturalmente differenziati nel contesto di uno Stato democratico e di una nazione pluriculturale,
multilingue e multietnica. La promozione graduale dello Stato e della società civile deve incentivare processi di
interazione positiva che incoraggino relazioni di fiducia, sulla base del principio di cittadinanza, del diritto alla differenza e
di unità nella diversità.
La prospettiva interculturale/ista è contemporaneamente utopia, metodo e processo: utopia che entusiasma e motiva la
prassi, metodo pratico per costruire progetti e alleanze, processo non esente da confini. L’intercultura è una proposta
sociopolitica ed etica, una parte di una concezione dinamica della cultura che riguarda anche l’economia politica. Non è
sinonimo di fusione, tuttavia richiede una buona dose di ibridazione e sintesi socioculturale. In altri termini,
l’interculturalismo è una nuova espressione all’interno del pluralismo culturale che, affermando il diverso ed il comune,
promuove una prassi generatrice di uguaglianza, libertà e interazione positiva nelle relazioni tra soggetti individuali o
collettivi culturalmente differenziati.
8. Applicazioni dell’interculturalismo
Il modello dell’interculturalismo può risultare utile nella formulazione e nell’esecuzione di politiche pubbliche, nella
scuola di fronte alla sfida della diversità socioculturale, nella fondazione e nello sviluppo della mediazione in contesti
multiculturali, nella promozione della convivenza e della coesione sociale nei quartieri multietnici con significative
problematiche sociali e, infine, nell’educazione alla cittadinanza.
Ogni politica pubblica orientata interculturalmente dovrebbe possedere i seguenti requisiti: inclusione, finalità
interculturale, equità e partecipazione attiva. Alcuni degli assi fondamentali su cui si costruisce la cornice concettuale
comprendono le implicazioni per ogni politica pubblica sulle connessioni tra sviluppo umano, cultura e diritti umani e
l’evoluzione dello Stato moderno e il suo ruolo nello sviluppo (welfare, lotta alla discriminazione etnica).
Per ciò che concerne la dimensione scolastica, il punto ineludibile di partenza è il rifiuto reale dell’esclusione. Non si può
avanzare verso l’intercultura sulla base della discriminazione e della segregazione. Non bisogna pensare che
l’assimilazionismo sia superato: è necessario rivedere la propria visione dell’evoluzione e della storia, superando
concezioni unidirezionali. È doverosa un’assunzione coerente del pluralismo culturale, lavorando sulle relazioni tra quelle
che sono differenze e disuguaglianze. Rispetto al multiculturalismo, sarebbe conveniente una posizione di critica
costruttiva, approfittando e non sprecando i suoi importanti contributi educativi.
La teorizzazione della prospettiva interculturale e quella della mediazione interculturale sono andate di pari passo. Con
mediazione interculturale si intende una modalità di intervento di una terza parte, in situazione di multiculturalità
significativa – orientata verso il riconoscimento dell’altro e l’avvicinamento delle parti, la comunicazione e la
comprensione reciproca, l’apprendimento e lo sviluppo della convivenza, la gestione dei conflitti e l’adeguamento
istituzionale – tra attori sociali o istituzionali culturalmente differenziati. Il lavoro sistematico dell’équipe di
mediatori/mediatrici interculturali deve fondarsi su opzioni teorico-concettuali ben definite, su una formazione
universitaria e professionale specifica, sulla continuità nel contesto di intervento. Se le variabili etnoculturali sono
particolarmente rilevanti e superano la capacità linguistica e la competenza interculturale del mediatore o mediatrice, si
ricorre a diverse opzioni: documentarsi, consultarsi, fare co-mediazione, fare équipe riflessiva oppure passare il caso ad
un/a collega più adatto/a. Il modello di riferimento per la mediazione interculturale si sostanzia nella metodologia
multifattoriale che identifica, definisce e caratterizza tre ordini di fattori: personali, situazionali e culturali, implicati e tra
di loro interrelati nei processi di mediazione.
La dimensione locale è decisiva rispetto all’integrazione e alla coesione sociale. La vita locale di città, circoscrizioni,
quartieri e nuclei di vicini è il terreno dove si esprimono quotidianamente buona parte dei processi di inclusione ed
esclusione. La nozione che guida l’applicazione della prospettiva interculturalista ai quartieri è quella della convivenza
interculturale.
Le sfide dei nuovi processi di diversificazione socioculturale sono varie. Nessun livello della vita sociale resta escluso
dalla scommessa di come affrontare o gestire la diversità socioculturale. L’approccio interculturalista nell’educazione alla
cittadinanza prevede lo sviluppo democratico e partecipativo della società, la promozione del rispetto, il rifiuto della
ghettizzazione, del razzismo e della xenofobia. Necessario è pianificare e intraprendere azioni di informazione, formazioni
di leader, animazione di incontri e campagne di sensibilizzazione che siano in grado di formare civicamente le
popolazioni.