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Metodi e tecniche del Servizio Sociale

Assistenti sociali professionisti


1. L’AS e il sistema politico e istituzionale
Il perno su cui è costruito il pensiero del servizio sociale professionale è sempre stato l’uomo con la sua
dignità; l’agire professionale di conseguenza ha puntato a riscattarne le potenzialità e la forza. La professione
ha agito nel tempo sulle cause della marginalità, per ridurre gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di
quella che oggi viene riconosciuta e definita “cittadinanza sociale”.
Il servizio sociale professionale è il complesso di attività fondato su principi, conoscenze, tecniche, metodi,
abilità, comportamenti dell’AS, volto ad affrontare i bisogni/problemi delle persone, dei gruppi, delle
comunità di un determinato sistema sociale per migliorare le condizioni di vita e per promuoverne l’adeguata
realizzazione. Si distingue dai servizi sociali che, diversamente, contemplano organizzazioni semplici o
complesse, strutture tecnico-amministrative di pubblica utilità, rivolte alla generalità dei cittadini e preposte
al loro sostegno e tutela. Qualora si rivolgono alle persone, i servizi sociali assumono il titolo di “servizi alla
persona”; rappresentano il sistema integrato di una rete a disposizione del cittadino, e inoltre includono
l’insieme delle attività che coinvolgono gli operatori in un rapporto diretto con i beneficiari.
L’AS è un operatore sociale che, agendo secondo i principi, le conoscenze ed i metodi specifici della
professione, svolge la propria attività nell’ambito del sistema organizzato delle risorse messe a disposizione
della comunità, a favore degli individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno,
aiutando l’utenza nell’uso personale e sociale di tali risorse. La particolarità della professione di tradurre i
principi e i valori in azioni concrete ha rappresentato il suo punto di forza e, allo stesso tempo, il suo punto di
debolezza. Il punto di forza sta nelle capacità di concretizzare in interventi pratici principi apparentemente
solo filosofici. Il punto di debolezza, paradossalmente, risulta essere proprio quello stesso agire pratico che,
per la sua concretezza nella realizzazione di interventi immediatamente operativi, ha offuscato la forza di
teorie fondate su un profondo apparato valoriale.
L’impegno del servizio sociale professionale ha dovuto rinnovarsi continuamente, sia per contrastare gli
effetti negativi di cambiamenti e trasformazioni sociali, sia per evitare un approccio routinario e burocratico,
come difesa al crescere di una domanda di aiuto sempre più complessa nei contenuti e incerta nelle risposte.
In successione alla crisi del welfare, in Italia l’influenza di paradigmi liberisti, insieme a una riflessione sulle
promesse mancate del welfare state stesso, ha indotto un ripensamento delle politiche sociali. Si profilano
formule organizzative aperte a nuovi attori, quali il mercato e il privato sociale.
La difficoltà di trovare un rapporto organico tra la politica di un ente organizzativo e la progettualità del
servizio sociale in virtù della promozione della persona ha nel tempo fatto centrare l’attenzione su temi
inerenti il mandato istituzionale, professionale e, successivamente, sociale. Questa triplice “committenza”
deve conciliarsi con principi e valori che hanno come riferimento l’uomo e i suoi diritti e la possibilità di
affermarli con le risorse disponibili e con interventi coerenti ed eticamente fondati su principi inviolabili. Da
parte delle istituzioni si sostanzia un mandato agli operatori che ha più livelli e ambiti esplicativi, un mandato
che si salda con i principi costituzionali e con gli obiettivi della legislazione. I vincoli istituzionali
comprimono l’autonomia e l’azione professionale, ma allo stesso tempo ne sostanziano la possibilità e la
capacità di agire. Con l’evoluzione della politica, i mandati conferiti all’AS esercitano una spinta regolativa
tesa a contemperare richieste giuridico-normative, aspettative delle persone e atteggiamenti professionali.
Il mandato è definito come un incarico di svolgere un’azione di pubblico interesse o di eseguire incombenze
private. In particolare, le tre forme di mandato richiamano la tridimensionalità distintiva dell’AS che opera
nell’ottica trifocale. Il mandato risulta un incarico al servizio sociale professionale che si distingue in:
· Mandato istituzionale, complesso delle funzioni che un professionista è tenuto a svolgere sulla base della
normativa generale e specifica, che informa l’organizzazione alla quale appartiene ed alla quale deve
rispondere nel suo operato; indica le competenze, i contenuti, le modalità attraverso i quali può e deve
operare a favore dei fruitori del servizio che eroga
· Mandato professionale, contenuti della professione (principi e valori, metodologia e modelli di
riferimento, livelli di competenza, deontologia) storicamente definiti nella comunità professionale nelle
sue diverse espressioni (comunità scientifica, associazioni, ordine professionale)
· Mandato sociale, indicazioni che provengono da ciò di cui la comunità necessita e ciò che la comunità
richiede attraverso la domanda esplicita o implicita, recepita nel sistema normativo fondato sui principi
Costituzionali, che può essere rappresentata più o meno adeguatamente dalle istituzioni preposte
I tre mandati devono trovare una sintesi, che recuperi il giusto equilibrio tra il sé professionale, l’autonomia
operativa degli AS, e le aspettative di utenti sempre più stretti dall’incalzare di bisogni nuovi nel confronto
con la limitatezza di risorse.
Le professioni sociali sono parte delle professioni d’aiuto e come tali sono rivolte ai singoli, ai gruppi e alla
comunità. Alcuni elementi caratterizzanti la professione sono: dimensione collettiva; adesione a principi e
valori rintracciabili nel codice deontologico; capacità di agire entro margini di autonomia e discrezionalità;
rispetto responsabile del mandato nella sua triplice committenza; identità professionale fondata sulla
consapevolezza di avere un’operatività competente e, nel contempo, di essere capace di modellarsi e
ridefinirsi sulla base di cambiamenti e trasformazioni sociali; cultura professionale quale esito di elaborazioni
teoriche e conoscenze specifiche.
Per deontologia si intende l’insieme delle norme relative a doveri strettamente inerenti l’attività
professionale. I doveri inerenti le professioni sociali d’aiuto non sono solo quelli sanciti dai codici, dalle
leggi nazionali e/o regionali, ma anche quelli morali. Rispetto la deontologia, parlare di etica è più complesso
perché questa riguarda la soggettività del professionista, la sua coscienza e i suoi convincimenti individuali.
Il rapporto con la persona, con l’organizzazione, con i colleghi, con le prassi burocratiche, l’uso delle risorse,
la riservatezza e il segreto professionale, l’autodeterminazione, i pregiudizi ecc. sono sicuramente i nodi etici
con cui oggi l’AS deve fare i conti ogni giorno. Gli atteggiamenti e i comportamenti propri del professionista
AS sono:
· Rispetto: ogni individuo ha diritto a un’uguale offerta di medesime opportunità
· Accettazione: “sentire professionale” che favorisce nella persona una crescita di fiducia in sé stessa,
· Autodeterminazione: facoltà della persona di decidere secondo i propri parametri culturali e sociali
· Individualizzazione: riconoscimento dell’unicità di ogni individuo
Queste premesse fanno sì che il segreto professionale, oltre che un obbligo giuridico e deontologico, sia
anche la giusta corrispondenza verso la fiducia della persona. L’AS intraprenderà una ricerca verso
un’approfondita conoscenza di sé: nel suo percorso formativo e di aggiornamento professionale deve sempre
tendere verso una profonda conoscenza del proprio “sé professionale” per migliorare il proprio “saper
professionale”.
L’etica che sorregge il SSP può definirsi razionale, categorica, universale e immutabile, oggettiva. Razionale
perché la morale è il regno del dialogo razionale tra individualità diverse che, in quanto tali, esprimono
argomenti e valori differenti. Categorica poiché non vaga, ipotetica o impossibile. Universale e immutabile in
quanto rivolta a tutti. Oggettiva poiché definisce un arco di doveri cui tutti devono rispondere.
Il professionista AS è legato da vincoli etici nei confronti della persona, di organizzazioni, della
comunità/società e della professione stessa. Le qualità distintive dell’etica professionale dell’AS possono
rappresentarsi mediante le competenze, la coscienza dei valori e la coerenza del comportamento. Ogni
progetto di intervento deve originarsi dall’incontro con la persona che esprime il bisogno in un dato
momento della sua vita, in relazione al suo ambiente familiare e sociale di appartenenza. L’etica del
professionista AS si compone di regole, atteggiamenti, comportamenti che rappresentano la forza e la
peculiarità di questo professionista.
2. L’AS e la metodologia
Per metodologia si intende quel processo logico che orienta le procedure e le azioni finalizzate alla
conoscenza scientifica o alla realizzazione di un’azione. La metodologia è un contenitore e precede il
metodo. Per metodo si intende un insieme organico di regole e di principi in base al quale si svolge
un’attività teorica o pratica. Operare secondo un metodo significa procedere con un ordine logico,
sequenziale e razionale che non lascia spazio all’intuito o all’improvvisazione.
I tre metodi – group work, case work, community work – composero gradualmente una sorta di tripartizione
metodologica del servizio sociale, con l’obiettivo di dilatare la ricerca oltre le cause psicologiche verso
concezioni sovraindividuali. Ai tre metodi si affiancarono altri due metodi di intervento: l’organizzazione dei
servizi sociali e la ricerca sociale. Il primo era interessato al ruolo dell’AS all’interno dei servizi sociali e
delle politiche sociali, mentre il secondo approfondiva le conoscenze utili per analizzare i bisogni che si
presentavano nei contesti sociali e comunitari. Successivamente ci si allontanò dalla tripartizione
metodologica, verso un approccio olistico e unitario. Con l’introduzione del metodo unitario si è inteso
restituire all’arte dell’aiuto una valenza scientifica, con l’apporto di schemi teorici per la pratica che
permettano di effettuare interventi ripetibili, verificabili e soprattutto trasmissibili, come per le altre
professioni. I principi sui quali si fonda il metodo sono la globalità della persona e l’attenzione al contesto di
tutte le dimensioni in gioco; l’azione dell’AS si sviluppa verso tre dimensioni: persona, organizzazione,
territorio.
L’AS che lavora nei servizi alla persona non può affrontare in solitudine i molteplici aspetti delle situazioni
problematiche. L’integrazione tra professioni diverse rappresenta un mezzo, una metodologia, una risorsa
necessaria per la complessa attività del servizio sociale professionale. Attraverso l’integrazione si possono
raggiungere obiettivi multiformi, evitando l’isolamento professionale e il rischio di burnout. Il professionista
deve ricercare il rapporto con gli altri con senso di autocritica, evitando comportamenti difensivi e
conflittuali. Il lavoro di équipe ha preso forza negli anni ’70, dapprima con l’esperienza dei consultori
familiari, poi con la riforma sanitaria del SSN 833/78 che legittimava l’integrazione tra ambito sociale e
sanitario.
La relazione d’aiuto può essere definita come l’insieme delle azioni professionali indirizzate al rapporto con
la persona, il contesto di appartenenza e l’organizzazione di riferimento, connotandosi in base al rapporto
interpersonale e alle aspettative reciproche di scambio e comunicazione. La relazione d’aiuto nasce da una
domanda che è l’espressione di un bisogno non soddisfatto. La qualità dell’incontro interpersonale tra AS e
utente rappresenta l’elemento portante più significativo in grado di determinare un intervento efficace e
risolutivo. La fiducia permette alla persona di sperimentare un sentimento in grado di abbattere quelle
barriere che ostacolano l’interazione. La fiducia verso l’AS significa riconoscerne la competenza e apre la
strada alla costruzione condivisa del processo di aiuto. La relazione non può essere reciproca; deve porre la
persona al centro dell’attenzione e ciò significa che l’AS deve saper ascoltare più che parlare, tenendo un
atteggiamento empatico e ponendosi al servizio della persona. L’AS deve mantenere un atteggiamento
maieutico, cioè aiutare la persona a esprimere le proprie migliori qualità e potenzialità facendo da specchio,
aiutando l’utente a riflettere oggettivamente sulla situazione problematica. Accettare e non giudicare sono le
parole chiave che stanno alla base di una proficua relazione d’aiuto. L’atteggiamento professionale che l’AS
deve tenere non deve essere direttivo: occorre guidare, indirizzare la persona, attraverso un processo di
autodeterminazione. L’obiettivo è la promozione di autonomia, ma questa la si ottiene in percorsi che
tendono a incrociarsi continuamente nelle relazioni con gli altri.
La relazione d’aiuto si sostanzia nel processo d’aiuto, che è il procedimento attraverso cui il servizio sociale
professionale comprende i problemi e reperisce le soluzioni per risolverli. L’obiettivo del processo d’aiuto è
quello di aiutare gli individui, i gruppi o le comunità ad affrontare e a risolvere ciò che per loro costituisce un
problema nel ricercare e trovare soluzioni adeguate con l’utilizzo di risorse disponibili. È un processo che si
realizza nel tempo, centrato sulla persona, con la sua adesione e il suo consenso. Gli elementi del processo
d’aiuto sono:
· Protagonisti (utente, AS, organizzazione)
· Tempo (durata totale, tempio medio, termine obbligatorio dell’aiuto)
· Spazio (domicilio dell’utente, sede dell’organizzazione)
· Contenuto (problema o stato di bisogno, aiuto)
· Tecniche finalizzate (utilizzo delle risorse, sostegno dell’io, chiarificazione)
Il professionista AS opera secondo un rigore metodologico. Operare secondo un rigore metodologico
significa possedere una solida base organica di conoscenze teoriche e utilizzare, nell’operatività, un
procedimento metodologico riconosciuto e condiviso dalla comunità professionale. Per procedimento
metodologico si intende uno schema di riferimento concettuale che guida scientificamente l’azione
professionale dell’AS, che serve a orientare la sua azione e a qualificare un intervento di tipo professionale. Il
principale obiettivo è produrre un cambiamento sia nel modo di valutare sia nel modo di fronteggiare i
problemi, prevenire la cronicizzazione, promuovere iniziative di solidarietà sociale. Poiché il procedimento
metodologico è uno schema di riferimento concettuale, dovrà tradursi in una forma mentis che l’AS dovrà
utilizzare sempre e dovunque intervenga. Diverse saranno, semmai, a seconda del campo di applicazione, le
conoscenze utilizzate o la legislazione sociale alla quale far riferimento. Nel servizio sociale professionale, di
fatti, si parla di procedimento metodologico unitario e si intende lo svolgimento delle stesse tappe anche se si
tratta di oggetti di intervento diversi. Il procedimento metodologico è induttivo, parte cioè dall’analisi di un
fenomeno della realtà sociale per giungere a eventuali generalizzazioni che servono a formulare ipotesi sul
modo migliore per affrontarlo (teoria del realismo critico). Il procedimento metodologico si caratterizza per
essere unitario, processuale (si realizza sempre insieme ai propri interlocutori), integrato (teoria del realismo
critico), per perseguire la conoscenza per l’intervento.
Il procedimento metodologico si realizza si divide in fasi che fanno parte di un unico disegno di tipo
generale. La sequenza delle fasi, di fatti, viene scandita più a fini di studio o di analisi. Nella pratica queste
fasi possono fondersi o sovrapporsi l’un l’altra in una logica adattiva al sistema sociale e ai problemi a esso
connessi. In ogni caso, le prime due fasi corrispondono al cosiddetto contesto informativo, la terza al
contesto valutativo, la quarta al contesto progettuale/contrattuale, la quinta e la sesta al contesto di
trattamento e l’ultima al contesto valutativo/conclusivo. Le fasi del procedimento metodologico possono
essere così elencate:
1. Accoglienza della domanda e identificazione del problema. Fase conoscitivo-descrittiva; viene definito e
formulato l’oggetto di analisi attraverso l’osservazione, interpretazione e comprensione dei dati raccolti.
È in questa fase che avviene il primo incontro con la persona o con la famiglia. L’AS si adopera per
mettere a proprio agio la persona; sarà necessario chiarire se l’utente si è rivolto spontaneamente al
servizio o se è stato inviato da altri individui. L’AS deve identificare il bisogno e il problema della
persona allo scopo di verificarne la pertinenza con il proprio servizio, con l’area in cui opera e con le
risorse disponibili
2. Studio e analisi della situazione. Fase descrittiva; l’AS raccoglie le informazioni sulla situazione
dell’utente. Occorre raccogliere tutte le possibili informazioni per selezionare quelle significative
all’approfondimento delle condizioni delle persone e della situazione problematica, le notizie relative alla
persona stessa e alla sua famiglia, agli eventi importanti della sua vita, che potranno orientare alla
comprensione del problema. Il principale strumento attraverso cui l’AS effettua la raccolta delle
informazioni è il colloquio professionale. La presa in carico della situazione problematica rappresenta
l’effettiva condizione che vincola l’operatore ad occuparsi del caso specifico. La presa in carico può
essere coatta per mandato dell’autorità giudiziaria
3. Valutazione della situazione. Fase valutativa; vengono valutati i dati, individuati gli obiettivi e formulate
delle ipotesi per la ricerca di strategie attraverso un confronto con le prospettive teoriche e con i modelli
di riferimento. Sulla scorta delle informazioni raccolte, l’AS formula le prime ipotesi, sia in ordine alla
situazione problematica, sia riguardo i procedimenti necessari a contrastarla e a risolverla
4. Definizione ed elaborazione del progetto di intervento e stesura del contratto. Fase decisionale/attuativa;
vengono prese decisioni e viene definito un piano d’azione. Vengono avanzate delle ipotesi concrete e
operative di lavoro e definite le azioni da intraprendere per raggiungere gli obiettivi prefissati. Per fissare
gli obiettivi l’AS fa un raccordo mentale tra dati e realtà, aspettative della persona, risorse istituzionali e
non. Il piano di intervento deve comprendere: strategie operative; costi per l’organizzazione e per
l’utente; tempi di realizzazione dei traguardi intermedi e del progetto complessivo; indicazione delle
persone e delle organizzazioni coinvolte nell’azione; risorse disponibili e attivabili; indicatori di verifica
dei risultati raggiunti. L’elaborazione del piano di intervento dovrà scaturire dalla collaborazione tra l’AS
e la persona, in un patto di reciprocità. La definizione degli impegni reciproci avviene attraverso il
contratto, cioè un accordo tra le due parti in cui vengono stabilite regole da rispettare e azioni da
eseguire. Nel contratto dovranno essere chiarite le reciproche aspettative, definendo che cosa l’AS può
fare e quali possibilità e opportunità può generare una relazione di aiuto condivisa
5. Attuazione del piano di intervento. Fase operativa; viene attivato il progetto di intervento. Si presuppone
la realizzazione di una serie di attività e la messa in opera di specifiche tecniche (colloqui, riunioni) con
l’AS
6. Valutazione dei risultati. Fase di verifica; vengono verificati i risultati raggiunti e l’efficacia delle
strategie attuate. La valutazione è di percorso ed avviene in un’osservazione costante, poiché solo
l’attuazione di un continuo feedback permette di ritornare sulle fasi precedenti qualora siano intervenute
carenze, incertezze
7. Chiusura dell’azione. Fase di conclusione; avviene la conclusione del piano di azione o di un eventuale
formulazione di nuovi piani di fronte a valutazioni negative. La fine dell’intervento professionale può
avvenire per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato o per la conclusione del rapporto professionale
specifico
La metodologia di lavoro per progetti è diventata una condizione necessaria per valorizzare la responsabilità
e promuovere azioni condivise nella comunità locale. L’operatività dell’AS si traduce in un metodo di lavoro
per progetti dove l’operatore predispone, insieme all’utente, un piano assistenziale personalizzato finalizzato
a un miglioramento della qualità di vita e non più solo alla soddisfazione di un determinato bisogno.
Il progetto personalizzato di intervento rappresenta la soluzione negoziale più utilizzata in ambito
sociosanitario per affrontare e prendersi cura di un bisogno complesso di un individuo. La negoziazione è la
metodologia su cui si fonda la buona riuscita di un progetto individualizzato, la strategia per far comprendere
la forza che genera l’interdipendenza. Il progetto individualizzato è un processo di tipo cognitivo che si
caratterizza per:
· Parzialità, valorizzazione dei diversi punti di vista
· Co-costruzione di ipotesi e strategie
· Flessibilità, aggiornamento e modifica di obiettivi e scelte operative
· Ampliamento delle opportunità, offerta alle persone di una varietà di alternative
· Fattibilità, analisi realistica di vincoli e risorse
· Co-progettazione con tutti gli attori coinvolti nel progetto
· Confrontabilità e riproducibilità
· Intenzionalità, il percorso è possibile se è voluto da tutti gli attori e i soggetti coinvolti
· Verificabilità e valutabilità
I passaggi fondamentali per garantire una riuscita positiva sono quelli propri della valutazione; si deve
valutare in itinere per evidenziare la praticabilità e la validità del progetto stesso. Negli ultimi anni sono stati
messi a punto strumenti di controllo in grado di valutare gli esiti del lavoro professionale degli AS, anche
presi in prestito da altri ambiti di ricerca. Uno strumento è la cosiddetta analisi SWOT (strenght, weakness,
opportunities, threats). Questa forma di analisi viene definita come un procedimento logico in grado di
identificare la situazione al momento, con punti di forza e debolezza, le opportunità, le criticità, le minacce.
L’analisi SWOT si rivela utile per lo studio condiviso del problema e per la co-costruzione delle strategie di
intervento in grado di valorizzare le risorse delle persone e delle loro reti e, allo stesso tempo, di contenere le
carenze e le minacce presenti.
3. La relazione professionale d’aiuto
Il colloquio professionale è una forma specializzata di comunicazione, dove l’interscambio comunicativo
interessa almeno due persone dotate entrambe di un sistema di recezione, di elaborazione e di trasmissione. Il
colloquio è caratterizzato dalla presenza di due o più persone, un accordo comune e quindi un’intesa, un
argomento, uno scopo ed un obiettivo da raggiungere.
Nel servizio sociale assume il valore di tecnica specifica con caratteristiche peculiari che lo differenziano dal
colloquio utilizzato dalle altre professioni d’aiuto. È volto instaurare una relazione significativa con la
persona, raccogliere informazioni utili alla conoscenza delle situazioni problematiche, formulare valutazioni
professionale, progettare interventi condivisi con la persona e verificarne in risultati. Buona parte del
colloquio dovrà essere improntata sull’ascolto dell’altro, offrendo uno spazio adeguato al suo modo di
presentarsi e di presentare i suoi problemi. Il colloquio rappresenta lo strumento principale attraverso il quale
l’AS effettua un’analisi approfondita della situazione globale dell’individuo, tenendo nella giusta
considerazione il suo contesto sociale e relazionale.
Il colloquio di servizio sociale non è una semplice conversazione. Nel colloquio, l’interazione è volta a
raggiungere coscientemente un obiettivo. È proprio sull’obiettivo che l’AS stipula il contratto con la persona.
Anche il contenuto del colloquio deve essere scelto per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo. A
differenza di una conversazione, il colloquio professionale è un incontro formalmente organizzato. Si
stabiliscono infatti un momento, un luogo ed un periodo di tempo definiti, al contrario di quanto succede per
una conversazione. Inoltre, nel colloquio devono essere affrontati soprattutto i fatti e i sentimenti spiacevoli.
Il colloquio di servizio sociale non è neanche una discussione. Nella discussione, tra i partecipanti si instaura
una relazione alternativamente di up/down e non si potrà mai avere una vera comprensione tra i partner. Nel
colloquio professionale, tra i partecipanti all’interazione esistono delle differenze: è sempre l’AS che assume
una posizione complementare (up) rispetto alla persona. È quest’ultima che espone la propria situazione e
parla di sé mentre l’AS deve formulare le domande per riuscire a comprende la sua situazione con empatia.
Il colloquio di servizio sociale non è una intervista. L’intervista presuppone una persona che fa le domande
su un certo argomento e l’altro che risponde. Il contesto all’interno del quale avviene l’intervista non è di
comprensione empatica ma soltanto di interesse per ciò che l’intervistato dice. Nel colloquio professionale
l’AS deve saper porre le domande per produrre un cambiamento nella persona, deve porsi in un
atteggiamento di ascolto empatico, elemento essenziale per stabilire una relazione d’aiuto efficace con
l’altro.
Il colloquio di servizio sociale non è un interrogatorio. L’interrogatorio presuppone una situazione di
inferiorità dell’interrogato. Le domande sono solitamente di tipo accusatorio e inducono una reazione di
difesa nell’altro, che non facilita la comunicazione. Nel colloquio professionale l’AS deve saper porre le
domande in modo che la persona non si senta sopraffatta e accusata, ma compresa, senza essere giudicata per
la propria situazione.
Il colloquio di servizio sociale non è una confessione. Il contesto comunicativo nel quale avviene una
confessione implica, da parte del confessore, un giudizio di tipo moralistico. Nel colloquio professionale di
servizio sociale è essenziale, come già detto, non giudicare, ma cercare di comprendere in modo empatico
l’altro.
Il colloquio professionale deve avere dei tempi (il tempo del processo d’aiuto), degli spazi (un setting:
l’ufficio dell’AS, l’abitazione o altri luoghi di vita della persona), un contenuto (l’aiuto centrato sulla
persona). Il primo colloquio con l’utente rappresenta l’inizio di un processo di conoscenza reciproco;
l’efficacia del primo colloquio forgia i successivi contrassegnando positivamente o negativamente la
relazione che si sta instaurando. È possibile suddividere il colloquio in diverse fasi:
· Fase dell’accoglienza; fase iniziale finalizzata nel mettere a proprio agio la persona. Si potrà conversare
brevemente su argomenti generali che permettano alla persona di familiarizzare con l’AS. La
ricostruzione della storia personale e familiare della persona aiuterà a comprendere insieme l’attuale fase
del ciclo di vita e anche a contestualizzare gli eventi significativi e le connessioni con i problemi. Se la
persona non si è presentata spontaneamente al servizio, l’AS dovrà analizzare l’invitante
· Fase dello sviluppo; è il fulcro del colloquio. Qui vengono affrontati e approfonditi gli argomenti sui
quali i due interlocutori si sono accordati. L’AS deve condurre sapientemente l’interazione; non deve
evitare di affrontare gli argomenti spiacevoli, ma deve saperli affrontare se possono contribuire al
raggiungimento dell’obiettivo
· La conclusione del colloquio; è la fase finale. Durante il colloquio, soprattutto se sono stati affrontati
argomenti carichi di tensione emotiva, sarà necessario attuarne l’intensità prima della conclusione. L’AS
dovrà rendere meno vivi sentimenti e contenuti evitando argomenti che implicano una forte carica di
emotività per rendere tranquilla la persona al termine del colloquio. A tale scopo l’AS dovrà ricapitolare
brevemente i temi trattati per mettere in luce gli aspetti che ritiene più importanti e ripuntualizzare il
contratto, quindi i passi da compiere e le procedure da seguire.
I colloqui successivi al primo dovranno avere, con questo, una continuità tematica: l’AS deve assumersi la
responsabilità di dirigere i colloqui, avendo sempre chiaro lo scopo e il metodo per raggiungerlo. Nel caso di
colloquio telefonico, l’AS dovrà prestare maggiore attenzione all’ascolto e alla comunicazione non verbale.
Il colloquio dovrà essere accuratamente preparato prima del suo inizio, organizzato nel tempo e nello spazio
(setting). Qualora l’AS conduca un colloquio con due o più persone contemporaneamente dovrà vigilare sul
proprio e altrui linguaggio non verbale per evitare strumentalizzazioni e alleanze inopportune. Durante un
colloquio è molto importante che l’AS sappia osservare tutto ciò che non viene detto ma che si manifesta con
il comportamento non verbale. È importante notare atteggiamenti e comportamenti ripetitivi, spesso segnali
di disagio, di richiesta d’aiuto o, al contrario, di rifiuto e disapprovazione. Ascolto e osservazione
rappresentano le capacità base per la gestione delle relazioni interpersonali e contribuiscono allo stabilirsi di
rapporti costruttivi. Anche l’interpretazione del silenzio è importante; questo ha sempre un significato e se ne
deve tener conto. Un’altra tecnica molto importante è la chiarificazione. È spesso necessario chiedere
chiarimenti qualora non si sia ben compreso ciò che è stato detto, ma anche qualora si intenda sottolineare
alcuni aspetti importanti per far riflettere sull’argomento. L’AS utilizza anche la tecnica della restituzione,
cioè restituisce al suo interlocutore i messaggi che da lui ha ricevuto, aiutandolo a rivederne i contenuti, i
sentimenti, le riflessioni e i significati seguendo i tempi della persona, senza procedere frettolosamente e
dandole il tempo di riflettere. Anche ricapitolare quanto è stato detto è fondamentale. La ricapitolazione è
una sintesi da effettuare per terminare ogni colloquio, utile per dare senso ai passi compiuti rispetto ai temi
esaminati e per stimolare autodeterminazione e partecipazione attiva.
Esistono diverse tecniche che consento all’AS di formulare domande pertinenti all’interno di un colloquio:
proporre domande di contenuto chiaro e in modo relazionale, controllare il tono della voce. Le domande da
evitare sono quelle che presuppongono una risposta unica o che la suggeriscono, quelle tendenziose o
multiple (cioè più domande insieme).
Vi sono differenti forme di colloquio:
· Colloqui informativi o di segretariato sociale. Si tratta di brevi colloqui finalizzati a decodificare la
domanda della persona, a fornire ai cittadini che le richiedono informazioni pertinenti e aggiornate.
Attraverso il colloquio di segretariato sociale l’AS accoglie, fornisce informazioni, invia la persona al
servizio competente per la presa in carico. Il segretariato sociale costituisce uno dei livelli essenziali delle
prestazioni sociali che deve rispondere all’esigenza primaria della popolazione di avere informazioni
complete in merito ai propri diritti. Il segretariato sociale è incluso nei LIVEAS, disciplinati da legge
328/2000
· Colloqui valutativi. Sono finalizzati all’elaborazione di una valutazione professionale. Richiedono una o
due sedute e vengono svolti nella fase valutativa del procedimento metodologico con l’obiettivo di
restituire alla persona gli elementi della valutazione stessa, illustrandone il percorso e i motivi che la
sostengono
· Colloqui di negoziazione. L’obiettivo è quello di raggiungere un accordo tra due parti che hanno punti di
vista diversi sul modo di vedere o di affrontare una situazione/problema e sulla sua risoluzione. L’AS
assume, in tal caso, la funzione di mediatore
· Colloqui di trattamento psicosociale. Rappresentano la realizzazione di progetti di aiuto
metodologicamente ordinati per la rimozione del disagio dell’individuo operando sul suo contesto di vita
· Colloqui terapeutici. Finalizzati ad effettuare un cambiamento nella persona, migliorandone la
rispondenza alle aspettative sociali, l’AS utilizza i principi e le tecniche derivate dalla psicologia spesso
in collaborazione con altri professionisti per supportare e promuovere cambiamenti comportamentali
· Colloqui di indagine psicosociale. Mirati a un’inchiesta eziologica accurata, con prognosi del problema;
in genere vengono effettuati su richiesta degli organi giudiziari
· Colloqui di consulenza. Deputati a fornire chiarimenti e pareri professionali ai cittadini, a organi
giudiziari, scolastici, istituzioni sociosanitarie, altri operatori.
Importante è il setting in cui il colloquio avviene. Il luogo in cui si svolge il colloquio invia alle persone che
vi entrano messaggi non verbali e deve essere considerato come spazio all’interno del quale avvengono
dinamiche e processi interpersonali. Gli ambienti dove generalmente gli AS effettuano i colloqui sono:
· La sede del servizio; solitamente l’ufficio dell’AS. Questo tipo di colloquio presenta il vantaggio di
controllare l’ambiente fisico adattandolo in favore di un buon andamento del colloquio stesso
· Domicilio della persona/famiglia; in tal caso occorre tener conto di fattori che possono influenzare il
colloquio, come ad esempio la ricerca di familiarità e coinvolgimenti personali
· Strutture ospedaliere, di ricovero protetto, di detenzione; le barriere fisiche (es. carcere) rappresentano un
ostacolo che non deve inibire l’AS, ma solo dirigerlo verso atteggiamenti consoni
Oltre allo spazio, l’altra variabile da considerare il tempo. L’AS dovrà sempre rispettare la puntualità negli
appuntamenti per i colloqui. Il tempo di un colloquio non è infinito e l’AS deve saperlo organizzare e
finalizzare, altrimenti finirebbe sopraffatto dal tempo relazionale della persona.
Terminato il colloquio, fondamentale è farne una registrazione. L’intervallo di tempo fra colloquio e
registrazione deve essere il più breve possibile, affinché non vengano perdute informazioni preziose.
Qualora si renda necessario, l’AS può effettuare una visita domiciliare. L’abitazione della persona, insieme
agli oggetti che ne fanno parte, offrono informazioni preziose per esplorare i particolari della vita quotidiana,
utili non solo a una maggiore comprensione della situazione individuale e familiare, ma molto spesso anche a
rinforzare l’intensità della relazione d’aiuto stessa. La visita domiciliare permette di avvicinare persone
coinvolte nella situazione problematica che difficilmente si sarebbero recate presso la sede del servizio per
impossibilità oggettive. In ogni caso, le visite domiciliari portano con sé alcune perplessità: il timore e la
suggestione che provocano gli interventi fatti a domicilio sono legati sia alla difficoltà di controllare variabili
sconosciute, sia al rischio di in invischiamento in situazioni coinvolgenti per gli AS. Il rischio di situazioni
impreviste e incontrollabili non va sottovalutato; è per questo motivo che ogni visita domiciliare deve
scaturire da un progetto ben pensato. La visita domiciliare fa parte del procedimento metodologico e si
traduce in un intervento professionale che si avvale dell’osservazione e del colloquio come tecniche
fondamentali. Prima di effettuare una visita domiciliare è necessario valutare da chi è richiesta, se la persona
è impossibilitata a recarsi nella sede di servizio per un colloquio, quali effetti può generare alla persona
seguita e alla relazione di aiuto in quel momento e se è opportuno un intervento congiunto di operatori della
stessa professione o di altre discipline. La visita domiciliare, inoltre, dovrebbe essere effettuata solo dopo
aver conosciuto la persona e aver instaurato una relazione che configuri un processo di aiuto. La visita
domiciliare è generalmente finalizzata ad integrare le informazioni ottenute tramite precedenti incontri,
osservare l’ambiente sociale e familiare. In caso di visita domiciliare presso strutture protette, l’AS dovrà
ricomporre un clima favorevole a una relazione costruttiva, per promuovere e sostenere il diritto dell’utente
ad esprimersi, ad affermare la propria dignità e a strutturare relazioni efficaci anche in condizioni speciali di
esistenza.
4. La documentazione come strumento professionale
Per il SSP è fondamentale documentare poiché agisce in un’organizzazione amministrativa che usa la forma
scritta per trasmettere informazioni, atti, ordini e regolamenti. Così come nella comunicazione, anche nella
documentazione è presente una fonte o emittente, un codice, un messaggio, un contesto, un mezzo e un
ricevente. Per comunicare adeguatamente attraverso la documentazione, l’AS deve tenere presente che ogni
documento deve avere un contenuto, un destinatario e un fine. Deve saper utilizzare la documentazione per
favorire sia processi di verifica della propria azione, sia processi di valutazione. La verifica, oggettiva, è un
atto che mettere in rapporto situazioni diverse; la valutazione, soggettiva, sviluppa un lavoro di analisi e
giudizio.
Documentare permette un’effettiva circolazione delle esperienze e del materiale prodotto all’interno dei
servizi, affina le capacità dell’operatore di comprendere le esperienze degli altri confrontandole con le teorie
e le scelte metodologiche. Documentare diventa una possibilità di dialogo tra professionisti in una comunità
di persone che, pur avendo diversi mestieri, hanno dei punti di incontro e degli obiettivi comuni.
Documentare scrivendo può diventare per l’AS un atto di autoriflessione che può aiutarlo a mantenere una
posizione di maggiore equilibrio rispetto alle difficili posizioni in cui è collocata e rispetto ai percorsi di aiuto
che sperimenta.
Lo strumento di raccolta dell’informazione sociale più importante è la cartella sociale. La documentazione
professionale è uno strumento per garantire la qualità delle prestazioni e degli strumenti professionali, perché
è memoria delle informazioni necessarie per il governo del sistema sociosanitario. È possibile classificare la
documentazione del servizio sociale professionale attraverso diversi sistemi:
· Documentazione di esercizio. Rappresenta il processo di aiuto; è volta a facilitare soluzioni di problemi e
a tenere sotto controllo l’intervento professionale. Ha anche una funzione di monitoraggio. Gli strumenti
di questo tipo di documentazione sono la cartella del SSP individuale o familiare, i verbali e le relazioni
· Documentazione di governo. Attiene all’organizzazione della struttura in cui è inserito il SS; contiene i
regolamenti, i piani, le istruzioni, i progetti, i protocolli operativi. Questi ultimi consistono in un
complesso di norme e di regole che definiscono e indicano comportamenti e modalità per l’esecuzione di
interventi.
In riferimento alla documentazione, l’AS ha due responsabilità. La responsabilità verso l’utente dove la
documentazione deve avere uno stile comunicativo trasparente e non ambigua; la responsabilità verso
l’organizzazione dove la documentazione deve essere più formale.
In sintesi, è possibile individuare due tipi di documentazione:
· Documentazione orientata a facilitare l’esercizio professionale dell’AS, dunque documentazione
professionale e documentazione d’esercizio
· Documentazione orientata a produrre informazioni utili per il governo del servizio e dell’organizzazione,
nonché la documentazione di governo
In ogni caso, la documentazione di maggior rilievo è quella relativa alla rappresentazione del processo di
aiuto, la quale svolge una funzione di monitoraggio. Esistono diversi tipi di documenti che possono essere
ricondotti alla documentazione per rappresentare il processo d’aiuto. Questi sono:
· Cartella sociale; contiene e descrive tutto ciò che riguarda la persona e in essa si devono evidenziare la
costruzione di ipotesi, proposte progettuali, percorsi di intervento. Rappresenta lo strumento essenziale
nella raccolta delle informazioni utili per la valutazione della situazione dell’utente. È uno strumento su
cui annotare ciò che si sta facendo, ciò che si è fatto, ciò che si farà. È fonte di informazioni in merito alla
storia sociale passata e presente, rappresenta la sintesi del piano di intervento individualizzato ed è un
importante filo conduttore del percorso assistenziale quando questo coinvolge più operatori o istituzioni.
La cartella sociale deve essere facilmente fruibile e disponibile per tutti gli operatori, le informazioni
contenute devono essere chiare e comprensibili. In sintesi la cartella sociale è l’insieme di una
modulistica di gestione che funge da contenitore di diario, relazioni, documenti a uso degli operatori; una
modulistica di flusso che traccia le procedure di rilevazione dell’informazione sociale; una modulistica
interprofessionale (di gestione di flusso, appunto) per la ricostruzione multidimensionale
· Relazione professionale; è un resoconto scritto che contiene i fatti che si vogliono o si devono far
conoscere a qualcuno. Una copia di questo documento deve essere inserita nella cartella sociale per
mantenere traccia e memoria delle richieste effettuate e delle informazioni fornite. L’AS durante lo
svolgimento della propria attività produce vari tipi di relazione che si diversificano tra loro in base agli
obiettivi che si intendono perseguire (relazioni di apertura di un caso, atte a riferire un’indagine svolta –
solitamente richiesta – o di aggiornamento). La relazione può avere fini conoscitivi tra i servizi,
informativi per i responsabili dei servizi, di segnalazione di situazioni che necessitano sorveglianza e
diffusione di notizie. Rispetto alle finalità, dunque, all’interno di una relazione si incontrano elementi
informativi, valutativi, descrittivi, propositivi, amministrativi. Lo scopo della relazione è assolvere al
mandato professionale, istituzionale e sociale poiché rappresenta uno strumento finalizzato a interpretare
i fatti e operare di conseguenza. Le caratteristiche che deve possedere una relazione comprendono la
costruzione sistematizzata e il più possibile completa di informazioni; la rappresentazione fedele dei fatti
e delle situazioni; pertinenza e significatività; definizione chiara e sintetica dei contenuti e dell’intera
struttura del testo; capacità del testo di far compenetrare i contenuti in maniera efficace
· Registrazione del colloquio; è uno strumento documentale, con finalità di analisi, rielaborazione e
riflessione che effettua collegamenti e interpretazioni. Anche questo strumento è parte integrante della
cartella sociale e la sua funzione è quella di raccolta dati e informazioni da utilizzare per il monitoraggio
del processo di aiuto e per la valutazione dell’efficacia degli interventi. Registrare un colloquio significa
descrivere, a posteriori, le interazioni avvenute durante lo stesso. È anche importante riportare le
osservazioni rispetto alla comunicazione non verbale
· Diario dell’attività giornaliera; corrisponde all’agenda del singolo professionista, ma in collegamento
all’agenda del servizio. All’interno del diario, l’AS registra quotidianamente i fatti principali, le proprie
riflessioni, le idee da sviluppare, le varie comunicazioni da fare. Le caratteristiche principali di questo
strumento sono la descrittività e la sinteticità delle annotazioni. È quel contenitore in cui si può esprimere
la soggettività dell’AS e risulta utile soprattutto per riflettere sulle dinamiche relazionali, sui propri limiti,
sui propri stereotipi e pregiudizi
· Verbale; si intende una descrizione scritta che riporta ciò che è stato detto in una riunione, in un incontro
all’interno dell’organizzazione del servizio o presso altri enti. Deve contenere i nomi die presenti, la data,
il luogo, l’orario, l’ordine del giorno, il nome di chi presiede o modera, il nome di chi lo redige. Ha uno
scopo descrittivo e non deve rilevare valutazioni. Questo strumento può avere anche una funzione di
verifica e valutazione svolta da un gruppo di lavoro rispetto agli obiettivi assegnati ai vari componenti
Il sistema informativo può essere definito come un insieme finalizzato e organizzato dei processi atti a
gestire informazioni. È definibile come l’insieme di metodi, delle procedure e degli strumenti necessari a
gestire l’informazione sociale, dove per gestione si intendono le operazioni di raccolta, classificazione,
associazione, conservazione e reperimento dell’informazione sociale. Un SI si articola in due componenti
essenziali: metodi e procedure formali (scritte, strutturate) e informali (es. memoria dell’operatore). Il SI
opera a diversi livelli e in diverse fasi, deve produrre le informazioni necessaria a ogni livello ossia a chi
necessità dell’informazione per operare (livello operativo), valutare (livello dirigenziale), decidere (livello
politico). Possiede funzioni di esercizio e di governo.
L’AS, in quanto referente tecnico di vaste aree di bisogno, è l’operatore privilegiato per la raccolta
dell’informazione sociale. Egli, per il suo inserimento nei livelli operativi, è inserito in un complesso sistema
di rapporti che influiscono e condizionano la sua attività:
· Rapporti con l’utente, con la sua famiglia e con l’ambiente sociale in cui vive
· Rapporti con gli altri operatori
· Rapporti con la direzione e gli amministratori
Gli obiettivi che un sistema informativo (o SISA, sistema informativo servizi socio-assistenziali) nel SSP
deve possedere sono qualificare e quantificare l’utenza, le problematiche sociali, gli interventi sociali, le
risorse disponibili. Migliorare il servizio al cittadino e programmare servizi, risorse e interventi.
Nei servizi di assistenza sociale i soggetti che interagiscono con l’informazione sono la comunità portatrice
di bisogni, di informazioni e di risorse attraverso i cittadini e il privato sociale e l’ente erogatore di
prestazioni. Quest’ultimo agisce attraverso operatori territoriali (AS) che corrispondo al livello operativo,
operatori amministrativi che corrispondono al livello burocratico-amministrativo, dirigenti (AS specialisti e
altri dirigenti professionisti) che corrispondono al livello dirigenziale) e amministratori che corrispondono al
livello politico. Ciascun livello dovrà avvalersi di supporti informativi e di informazioni diverse, in quanto
differenti sono le competenze.
Il complesso sistema di pianificazione ed erogazione di interventi e attività ha necessità di informazioni
specifiche costantemente aggiornate che solo un buon sistema informativo può dare. La modificazione
continua degli ambienti di vita e dei bisogni richiede un aggiornamento continuo di dati esatti e di
informazioni in tempo reale. Il SSP, pertanto, deve tenere il passo e accogliere favorevolmente il prezioso
aiuto che può portare un sistema informativo.
5. L’AS verso un approccio globale e riflessivo: interdisciplinarità e lavoro di gruppo e con i gruppi
L’integrazione è un approccio globale che non permette supremazie né di persone, né di enti. L’integrazione
interdisciplinare si realizza tra professionisti, competenze, funzioni, aree differenti nella consapevolezza che
nella frammentazione non si garantisce la salute e il benessere. La costituzione di équipe professionali ha
facilitato l’operatività deli AS che ricercavano la disponibilità di altri professionisti, e anche di altre
istituzioni, per poter progettare interventi coordinati e personalizzati. L’équipe è un gruppo di compito in cui
intenzionalmente sono aggregati soggetti che hanno diverse competenze e diverse funzioni da integrare le
une con le altre. La prospettiva interdisciplinare permette di saldare l’incontro tra teorie e metodi cui
attingono le varie professioni attraverso il dialogo. La prospettiva interdisciplinare realizzata tra professioni
diverse accoglie la natura globale del bisogno, dà ragione della sua complessità e della necessità di superare
un’ottica settoriale.
L’AS deve pensare sistematicamente, deduttivamente, criticamente di fronte alla realtà delle situazioni
sociali. L’approccio riflessivo è dunque condizione necessaria non solo per ragionare su che cosa e come si
fa, ma anche per pensare criticamente sui presupposti concettuali della stessa attività pratica, per creare
intenzionalità e dar senso all’intervento professionale. La pratica riflessiva spinge il SSP a superare la
routine, a non dar niente per scontato, a ricercare e rilegge la stessa propria conoscenza, a indagare come si
costruiscono una pratica professionale e una relazione con l’utente dei servizi, un rapporto con un gruppo o
una comunità.
Qui, l’AS trova la sua peculiarità nella sua capacità di intermediazione tra bisogni e risorse, territorio e
istituzioni. Il ruolo dell’AS si afferma nella polivalenza e sulla plurifunzionalità in grado di ascoltare e
riconoscere la complessità dei bisogni sociali delle persone nel loro ambiente di vita, di rendersi parte attiva
per ricercare e coinvolgere risorse, di sensibilizzare e far crescere le persone per trasformarle da destinatari di
interventi a soggetti titolari della salute e del benessere sociale.
Il lavoro di gruppo ha una diretta derivazione anglosassone e in Italia fu introdotto nel piano di studi delle
scuole di servizio sociale a fine degli anni ’50. La dimensione del lavoro di gruppo è parte della metodologia
del SSP, che se ne avvale per integrare punti di vista diversi, per concentrare piani di lavoro integrati, per
accompagnare soluzioni che richiedono il coinvolgimento di soggetti diversi. Dare spazio al protagonismo
dei cittadini non esime l’AS dall’interpretare un ruolo più attivo proprio all’interno dei gruppi. Saper
condurre un gruppo, una riunione, significa dar spazio ai diversi punti di vista, senza tuttavia perdere mai la
centratura sull’obiettivo che l’ha determinata. Ogni riunione o incontro deve avere un tema, uno spazio sia
per la discussione di tutti sia per l’elaborazione di ipotesi e di proposte anche intermedie. La conclusione
deve tradursi nella definizione di accordi e di impegni reciproci e con ipotesi circa eventuali successivi
incontri. L’impronta metodologica si sposta verso un approccio trasversale che implica un percorso che va
oltre la stessa pratica professionale e organizzativa. In questo senso prende spazio il cosiddetto lavoro per
percorsi, il quale presuppone condivisione di responsabilità e capacità di dialogare con servizi, famiglie e
cittadini per garantire un aiuto sociale in grado di affrontare le complessità dei problemi nel rispetto delle
differenze di ciascuno.
Negli attuali sistemi di welfare, si assiste a una incongrua divisione dei gruppi in aree di lavoro che in parte
sono calibrate sul ciclo di vita delle persone (minori, adulti, anziani) e in parte sulle difficoltà e/o problemi
(handicap, malattia mentale, tossicodipendenza). La divisione per aree fondate sul ciclo di vita scaturisce una
nuova frammentazione che rischia di mettere a repentaglio l’unitarietà del SSP. Tuttavia, la divisione per
aree di intervento connesse alle fasi del ciclo vitale facilita la visione trasversale del bisogno e contribuisce a
una presa in carico globale. Le principali aree di intervento in cui sono divisi gli attuali servizi sociosanitari
sono:
· Handicap · Tossicodipendenza
· Anziani · Minori
· Salute mentale · Adulti
I principali gruppi operativi multidisciplinari negli attuali sistemi di welfare sono così definiti:
· Gruppo per intervento sulla disabilità; in una situazione di handicap, laddove non fosse presente un
servizio apposito, la domanda di aiuto viene rivolta al medico specialista. La presa in carico avviene da
parte del gruppo multidisciplinare che, dopo una prima valutazione e diagnosi, elabora un progetto
d’intervento
· Unità di valutazione multidimensionale per gli anziani; in base al bisogno – sanitario o sociale – la
persona verrà indirizzata verso il medico o verso l’AS che definirà il piano di intervento per l’attivazione
delle prestazioni stabilite. Spesso è difficile definire il bisogno poiché ricorrono problematiche
trasversali. È in tal caso che si attiva l’intervento del gruppo multidisciplinare
· Gruppo per intervento sulla malattia mentale; non si deve intervenire solo in termini di cura e di terapia
medica, ma si devono mettere in atto interventi volti a una presa in cura complessiva. Tutti gli interventi
rivolti alla persona con disagio psichico dovranno essere predisposti e concordati all’interno del gruppo
multidisciplinare, al fine di curare e prendersi cura, riabilitare, prevenire e promuovere
· Gruppo operativo per le tossicodipendenze; i SERT rappresentano dei moduli organizzativi a carattere
interdisciplinare ad hoc per affrontare il problema della dipendenza da sostanze stupefacenti. Il SERT ha
sede nel distretto sociosanitario e comprende le competenze professionali del campo medico, sociale,
psicologico ed educativo. L’intervento sociale si identifica in attività di prevenzione e socioriabilitative
· Gruppo sull’area minori e famiglie; ci si riferisce a tutti quei gruppi multidisciplinari che affrontano le
problematiche sempre più complesse di abuso, maltrattamento e abbandono di minori, nonché delle
situazioni di disagio delle famiglie o di adozione. A tal proposito si attuano azioni di promozione,
prevenzione e tutela. Tali azioni vanno a concretizzarsi in interventi che prevedono sostegno alle famiglie
teso a garantire i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e interventi per l’età adulta (es.
accompagnamento per le coppie che intendono adottare un bambino, corsi di preparazione per le famiglie
affidatarie).
6. Lavoro di rete e servizio sociale professionale
La crisi dei sistemi di welfare e l’inadeguatezza degli operatori sociali rispetto alla complessità dei bisogni
attuali hanno sollecitato attenzione alle reti sociali.
Contributi teorici:
· Teoria matematica dei grafi · Sociologia relazionale · Tesi di Donati

Il modello di rete che negli ultimi anni ha trovato un ampio consenso sia fra gli AS sia fra gli altri
professionisti dell’aiuto si sviluppa nell’evoluzione del modello del problem solving e di quello cognitivo-
umanistico. Con questo modello si possono potenziare e integrare risorse diverse e, contemporaneamente,
rinforzare e promuovere abilità e competenze di tutti i soggetti della rete. Queste competenze e abilità
costituiscono la premessa per la messa in atto di particolari progetti di soluzione di problemi che vedono
impegnati più attori. Il progetto è formulato con l’utente e monitorato dall’AS. L’operatore diventa una guida
relazionale che accompagna le persone e le stesse reti verso relazioni positive per conseguire il benessere. Le
reti sociali, pertanto, rappresentano occasioni per rivitalizzare il territorio come ambito di risorse e
competenze e non solo come ambito di contraddizioni e problemi.
Concretamente, la rete è definita come insieme di punti rappresentati dalle persone e collegati da linee
relative alle interazioni esistenti. La rete è ciò che attraversa la società, gruppi, famiglie, equipe di lavoro.
Facendo riferimento alle interazioni nell’organizzazione interna della famiglia, è possibile distinguere due
reti: reti a maglia chiuse in cui i soggetti si frequentano e sono pochi; reti a maglie aperte in cui, al contrario,
sono molti coloro che si frequentano.
Le reti sociali includono tutti i rapporti che una persona instaura con gli altri e si orientano, in un contesto di
influenza reciproca, a qualificare queste relazioni come possibilità per affrontare e risolvere i problemi. Il
concetto di rete sottende che l’uomo è un soggetto in interazione con altri, capace nello stesso tempo di
influenzarli e di esserne influenzato.
Si distinguono le reti temporali (relazioni tra diverse generazioni di una famiglia estesa) e spaziali (relazioni
tra amici, vicini di casa, colleghi di lavoro). La rete temporale e la rete spaziale costituiscono la rete sociale
di un individuo. Solitamente si fa riferimento alla seguente classificazione:
· Reti informali o primarie; familiari, amici, colleghi. Rapporti basati su reciprocità
· Reti secondarie formali; istituzioni ed enti pubblici. Rapporti di tipo asimmetrico
· Reti secondarie informali; volontari appartenenti alle reti informali primarie che sentono la necessità di
unire le proprie azioni per offrire aiuto e sostegno
· Reti artificiali; appendici delle reti informali, comprendono gruppi auto mutuo-aiuto
· Reti non profit; includibili nelle reti informali, comprendono organizzazioni non profit
Una rete particolarmente utile all’aiuto sociale è il reticolo personale. Questo rappresenta la persona nella sua
nicchia esistenziale, in cui può riconoscere la sua identità, la sua autonomia, la sua socialità, nella sua
distanza/vicinanza con gli altri. Nell’approccio di rete il reticolo personale riveste un’importanza cruciale
poiché permette di comprendere il disagio e i problemi in una visione relazionale, conoscere le risorse
possibili e potenziali della persona e del suo ambiente ecologico ed evidenziare i legami ambivalenti, quali
possibili generatori di disagio.
Infine, è possibile poi individuare:
· Rete coesa e omogenea; un solo grande gruppo indifferenziato comprendente famiglia estesa, amici,
colleghi di lavoro e vicini di casa. Rete chiusa e poco disponibili ad apprendere nuovi comportamenti
· Rete frammentata; composta da sottogruppi relativamente indipendente gli uni dagli altri e la cui
conoscenza è condizionata dall’appartenere al medesimo sottogruppo. Contatti poco frequenti
· Rete dispersa; la maggior parte delle persone che ne fanno parte non si conoscono fra loro. Si tratta di
una rete dove le relazioni tra persone tendono a non durre e ad essere unilaterali
Secondi alcuni studiosi, le reti sociali sono una medaglia a doppia faccia: da una parte sono occasioni di
miglioramento delle condizioni di vita delle persone attraverso interventi di aiuto e di sostegno; d’altra parte
possono creare dipendenza, rinforzare lo stigma sociale, l’emarginazione e gli atteggiamenti devianti.
Il lavoro di rete è l’insieme di interventi di connessione tra risorse e strategie, tese a produrre concatenazioni
di relazioni significative e finalizzate a migliorare il benessere delle persone e della collettività. Il lavoro di
rete è considerato un’attività di sviluppo e conoscenza, realizzabile solo attraverso lo scambio comunicativo
e le interazioni fra attori formali e informali che, insieme, realizzano un nuovo sapere comune. Lavorare in
rete significa coinvolgere, mobilitare, senza isolare i bisogni individuali, bensì rendendoli collettivi per creare
le premesse del benessere sociale. Fare lavoro di rete consiste nell’operare per creare e rinforzare legami, per
promuovere integrazioni e nuove opportunità di comunicazione fra persone, istituzioni, e altre risorse allo
scopo di farle tutte convergere in azioni condivise, creando quelle che sono definite partnership sociali.
Per quanto riguarda l’orientamento metodologico si possono distinguere quattro indirizzi:
· Lavoro a indirizzo terapeutico; la rete è una realtà curante e curabile (terapia di rete, sostegno, curante)
· Lavoro a indirizzo organizzativo; indica le reti come unità di risorse e si identifica con il lavoro sul
territorio
· Lavoro a indirizzo comunitario; si riferisce alle pratiche di community care e di social networking
· Lavoro a indirizzo relazionale; si riferisce all’intervento di rete che mira a favorire cambiamenti nella
rete sociale di una o più persone, aprendo nuovi canali e possibilità per superare il problema
In riferimento al SSP, l’AS non è più l’operatore solitario che fronteggia la complessità dei problemi delle
persone, bensì è in grado di agire in sinergia con altre figure attive, quali psicologici, psichiatri, educatori. In
questo modo si è superata l’incertezza e l’esasperazione di interventi troppo sbilanciati sul versante
individuale, come il casework, e gli AS hanno potuto acquisire una propria dimensione. Il ruolo così definito
si è dimostrato particolarmente affine con il paradigma di rete, che richiede professionisti disponibili a “farsi
da parte” per favorire occasioni di aiuto e di crescita degli individui, stimolandone l’autodeterminazione e la
partecipazione. Nel modello di rete, l’AS rappresenta la figura in grado di esplorare la presenza di risorse
umane, di intrecciare le relazioni utili a creare un supporto a chi esprime un disagio.
In riferimento al modello di rete l’AS può avvalersi di una serie di strumenti e tecniche specifiche che in una
prospettiva di lavoro più ampia indirizzano il cammino per la costruzione dell’aiuto sociale:
· Diario di bordo; documento per registrare colloqui, impressioni, osservazioni
· Lista degli attori; redazione di un elenco dei soggetti chiamati a farsi carico in prima persona del percorso
di aiuto e che sono parte integranti delle reti
· Carte di rete; ipotesi grafiche per individuare le categorie di rete, le relazioni fra le reti, utili per tracciare
una rappresentazione globale della situazione su cui si interviene
Il lavoro di rete, in conclusione, rappresenta la sintesi di un approccio di aiuto che combina la riparazione e la
cura con azioni di potenziamento e di sviluppo di risorse.
Il concetto di community care rappresenta la capacità di autocura, cioè la cura della comunità verso sé stessa.
Il lavoro sociale di rete è uno dei mezzi per promuovere lo sviluppo di comunità, tanto da renderla capace e
competente a farsi carico di sé stessa. La community care si basa sul concetto di normalizzazione, mutuo
aiuto ed empowerment. La normalizzazione è il tentativo di reinserire il disagio nella rete di appartenenza,
nella collettività, per offrire condizioni e opportunità che lo reintegrino nella vita normale. Il mutuo aiuto ha
come finalità quella di produrre aiuto e sostegno da parte di coloro che vivono una stessa condizione o
problema, basandosi sull’interazione e sulla condivisione sia per dare che ricevere un aiuto supplementare.
L’empowerment, definibile come acquisizione e consapevolezza di contare di più, promuove nella comunità
la comprensione, la coscienza, la capacità e la possibilità di influenzare le decisioni e le azioni che hanno un
rifesso sulla vita della comunità stessa. L’empowerment potrebbe provocare la ridistribuzione degli interventi
e delle risorse, attraverso la partecipazione attiva e consapevole di coloro che appartengono alla comunità.
7. AS e lavoro con la comunità
La comunità è una realtà composita, dinamica, in continua trasformazione; in essa si intersecano e convivono
interessi e valori talvolta diversi che devono ridefinirsi per trovare una sintesi in grado di produrre
comunanza di intenti, valorizzando la diversità, in un processo evolutivo. L’antinomia fra comunità e società
viene superata da una visione dinamica che vede entrambe in un processo di reciproco influenzamento.
I moderni welfare e i servizi alla persona si confrontano in una dimensione plurale e le istanze societarie si
relazionano con quelle comunitarie in una ricerca di sintesi tra:
· Riconoscimento e responsabilizzazione delle differenti sfere sociali
· Valorizzazione dei saperi locali e ambientali
· Attribuzione di senso al vivere civile
Il Convegno di Tremezzo ’46 riconosce il servizio sociale di comunità come strategia sia di promozione e
sviluppo di processi democratici sia di responsabilizzazione della comunità nei confronti dei suoi problemi.
L’ambito locale e municipale è individuato come ideale per la pianificazione e la realizzazione di interventi
coerenti con i reali bisogni dei cittadini, i quai devono essi stessi concorrere al proprio benessere. È
enfatizzato il concetto di sussidiarietà anche orizzontale e la partecipazione collettiva risulta un veicolo
determinante per impostare concrete azioni volte alla salute. L’individuazione di uno spazio comunitario
realmente operativo apre la strada a un rinnovamento dell’intero impianto dei servizi territoriali, dove
l’organizzazione stessa dei servizi alla persona stessa si realizza sulla base di una prospettiva territoriale. Il
lavoro sociale di rete, l’abitudine e lo sviluppo di collaborazioni con nuovi soggetti prima solo destinatari di
interventi sono adesso stimolo verso forme di community care. La legge 328/2000 enfatizza la concezione
sussidiaria tra tutte le componenti e i soggetti della comunità, in particolare promuove azioni di
potenziamento e coinvolgimento delle famiglie come soggetti primari capaci di iniziativa e di scelta.
Gli elementi fondamentali che definiscono una comunità sono il territorio e i legami sociali. Da un punto di
vista metodologico e operativo, per leggere una comunità ci si può rifare a sette profili che descrivono le
caratteristiche della stessa:
· Profilo territoriale, analizza gli elementi che definiscono la comunità dal punto di vista morfologico,
fisico
· Profilo demografico, descrive le caratteristiche della popolazione della comunità sia da un punto di vista
strutturale (ammontare della popolazione, densità e affollamento) sia da un punto di vista dinamico
(mortalità, natalità, movimenti migratori)
· Profilo delle attività produttive, analizza la comunità da un punto di vista economico
· Profilo dei servizi, descrive le caratteristiche istituzionali ed organizzative dei servizi che costituiscono
un indicatore significativo del grado di civiltà di una comunità
· Profilo istituzionale, individua la struttura politico-amministrativa che influisce in modo determinante
sull’organizzazione sociale della comunità
· Profilo antropologico-culturale, descrive la storia della comunità oggetto di studio che si ottiene
raccogliendo dati significativi circa i valori culturali, usi e costumi
· Profilo psicologico e sociale, analizza le dinamiche affettive delle persone che compongono la comunità
La community care è un processo dinamico che trae forza dal potenziamento della capacità e delle risorse dei
membri di un determinato territorio. La comunità non viene intesa come bacino di utenza, bensì come
soggetto e attore del proprio processo di sviluppo. Ciò significa creare condizioni di progresso sociale ed
economico attraverso il reale sviluppo della comunità (community development). L’AS assume un ruolo di
animatore, promuovendo non solo lo sviluppo delle capacità individuali dei soggetti, ma soprattutto il loro
senso di comunità. Promuovere senso di comunità significa sviluppare l’appartenenza, il senso del noi, ma
anche il potere inteso come possibilità di produrre o impedire cambiamenti. Il servizio sociale assume un
ruolo di guida, operando non più su qualcosa o per qualcuno, bensì con qualcuno per favorire la crescita e
l’autonomia. Concretamente, il servizio sociale si impegna nel promuovere l’empowerment comunitario.
8. Lavorare per progetti
Le trasformazioni del welfare hanno sviluppato i concetti di pianificazione, programmazione e progettazione.
· Piano: attiene all’individuazione degli obiettivi generali, con la definizione di strategie per conseguirli
· Programma: attiene all’individuazione degli obiettivi specifici attraverso un uso appropriato di risorse
· Progetto: insieme di attività predisposte per realizzare un obiettivo specifico entro un lasso di tempo
L’interconnessione tra programmazione e progettazione è indispensabile per la regolazione del sistema, per
definire un insieme coerente di obiettivi, per formulare progetti coordinati che si rinforzano reciprocamente.
La progettazione rappresenta la prefigurazione dell’azione: significa ideare, immaginare iniziative volte al
futuro, elaborate nel presente ma basate anche su esperienze passate.
Il lavoro per progetti, in una società complessa e in evoluzione continua, permette l’individuazione e l’analisi
dei bisogni reali, la proposizione di interventi definiti all’interno di vincoli normativi, organizzativi,
economici e strutturati con un ordine temporale, in modo tale da risultare efficaci. I moderni welfare si
trovano nel magma della complessità sociale; devono coniugarsi con l’innovazione come opportunità per
garantire risposte adeguate ai bisogni dei cittadini, affrontando le nuove sfide di una società in continua
evoluzione. Pianificazione, programmazione e progettazione sono parole chiave per creare quel continuum
tra politica, servizi e cittadini, per realizzare compiutamente forme di sussidiarietà verticale e orizzontale. La
progettazione sociale permettere di evitare l’appiattimento su servizi e interventi e facilita la loro de-
burocratizzazione.
Il lavoro per progetti permette agli AS di dare spazio alla propria dimensione organizzativa, per
accompagnare e guidare percorsi volti al miglioramento e allo sviluppo di territori quali ambito di rischio e di
disagio sociale. La dimensione collettiva degli AS permette di coordinare azioni di cambiamento di tipo
micro all’interno di programmi di aree di livello macro. L’approccio metodologico che viene a instaurarsi è
di reciproco influenzamento. Il lavoro per progetti nel servizio sociale trova coerenza con principi e valori,
quali l’autodeterminazione, adattandosi perfettamente per la co-adesione agli scopi da raggiungere e alla loro
graduazione nel tempo.
Sul piano metodologico, il progetto ha un inizio e una fine e si configura come un insieme di attività definite,
intenzionali e limitate, basato sulla relazionalità di soggetti diversi, attraverso i quali affronta problemi anche
inediti con interventi innovativi, sinergici, rivolti a coloro che beneficeranno degli esiti. Il progetto è
orientato sui compiti e coniugato al futuro. La relazionalità e la sussidiarietà che supportano il progetto nella
sua evoluzione non esimono dall’individuazione di un responsabile/coordinatore che ha il compito di guidare
e accompagnare l’intero percorso progettuale.
L’approccio alla progettazione può diversificarsi rispetto alle sue stesse fasi di sviluppo. I differenti approcci
tracciano una sorta di continuum che va dalla massima pre-strutturazione alla massima apertura:
· Approccio sinottico razionale; si riferisce a un orientamento di tipo meccanicista la cui tappa centrale è la
progettazione. Ipotizza che sia possibile programmare e prevedere il cambiamento in base a nessi di
causalità lineari. Si è sviluppato nell’ambito dell’approccio classico della scelta razionale elaborata dalle
scelte economiche. Questa impostazione comporta un’accentuata stilizzazione e semplificazione delle
situazioni che il progettista si trova ad affrontare. Tuttavia, la razionalità assoluta rivela la sua
inadeguatezza, in particolare qualora si applica alla realtà dei servizi la cui molteplicità di decisori che
intervengono nel processo progettuale rende necessaria apertura e flessibilità continua
· Approccio concertativo partecipato; è caratterizzato dall’interazione di tutti i soggetti impegnati in ogni
fase del progetto e in esso assume forza il concetto di partnership. Configura un insieme eterogeneo di
teorie afferenti ad ambiti disciplinari diversi, che affermano l’assunto secondo cui la conoscenza si basa
sulle costruzioni di un osservatore. La realtà non viene scoperta, ma inventata, poiché generata da un
costrutto personale, un modo particolare di osservarla. Il processo di interazione tra gli attori coinvolti
nella progettazione si svolge in tutte le tappe e ogni attore, pur condividendo un impianto logico comune,
continua a essere portatore di posizioni di potere differenti. Tale approccio enfatizza il ruolo dei servizi e
degli operatori
· Approccio euristico; qui la tappa centrale è costituita dall’attivazione e la progettazione rappresenta il
prodotto di un percorso che può sviluppare diversi nuclei progettuali connessi tra loro. Non vengono
individuati obiettivi specifici, ponendo in primo piano l’attenzione verso i processi, cioè sul “come” si
realizzano le cose
I tre approcci descritti promuovono processi di progettazione diversi, ciascuno dei quali si traduce in una
sequenzialità di cinque diverse tappe o fasi:
1. Ideazione, si ipotizza la messa in opera di una iniziativa
2. Attivazione, si verifica l’iniziativa ipotizzata sulla base della sua fattibilità
3. Progettazione, si riferisce all’elaborazione cartacea e alla redazione del progetto (tempi, mezzi, materiale)
4. Realizzazione, si dà inizio alle attività ipotizzate
5. Verifica, tappa fondamentale per accertare l’avvenuta conclusione del progetto
Dopo aver definito le tappe della progettazione, è necessario precisare che cosa si deve fare per la concreta
stesura. Essa rappresenta l’esplicitazione e la formalizzazione del progetto, definendone l’intero percorso. La
stesura del progetto risponde al requisito di logicità e congruenza tra le diverse parti che lo compongono. Può
essere così rappresentata:
· Definizione e analisi del problema · Modello di intervento usato e attività che
· Identificazione degli obiettivi verranno svolte
· Beneficiari dell’intervento · Valutazione
· Mezzi e risorse
Requisiti del progetto Un progetto si costruisce fin dalla sua denominazione o titolo, che deve in qualche
modo rappresentarlo, nel contenuto e nelle azioni, rendendolo interessante e conoscibile. Si passa a
descrivere il contesto in cui matura il progetto, delineandone la storia e le ragioni. Risulta poi fondamentale
indicare a chi si rivolge, chi sono coloro che ne beneficeranno. Ogni progetto, nel rivolgersi a un target
influenza anche una fascia di popolazione in maniera indiretta (subtarget). Grande importanza assume la
committenza; il committente è il soggetto ordinatore del progetto. Nei servizi alla persona può essere una
istituzione come il Comune. Il progetto deve possedere degli obiettivi, chiari e condivisi. Questi possono
essere generali o specifici. I soggetti coinvolti devono essere ben individuati e con azione si intende l’attività
mediante la quale si realizzano i risultati attesi. Devono essere descritti tempi e fasi per indicare i periodi nei
quali le attività si svolgeranno così come dovranno essere indicate le risorse disponibili. La verifica dei
risultati attesi spetta agli indicatori ad hoc, quali strumenti qualitativi e quantitativi. Infine, il piano
finanziario rappresenta il bilancio economico del progetto, che definisce la sua concreta fattibilità.
Nell’ambito dei servizi alla persona, la valutazione rappresenta uno strumento di riflessione sugli esiti di
programmi e progetti per comprenderne l’efficacia e l’appropriatezza. Valutare significa analizzare se
un’azione intrapresa per uno scopo corrispondente a un interesse collettivo abbia ottenuto gli effetti
desiderati o altri. la valutazione fa parte del processo e disegno progettuale, rappresenta un giudizio rispetto a
un programma al suo avvio, al suo svolgimento e al suo completamento.
All’interno dei progetti personalizzati, la valutazione assume la funzione di esplicitare l’intero percorso di
presa in carico, fin dalla domanda di aiuto. Si ha così una valutazione che si svolge nel tempo dei risultati e
una valutazione rispetto al contenuto. Nelle diverse fasi del processo di aiuto la valutazione va sempre
condivisa con la persona/utente.
Il processo valutativo si realizza sia attraverso l’utilizzo di strumenti quali scale, focus group, questionari sia
con metodologie tipo l’analisi SWOT. L’indicatore deve risultare chiaro, comprensibile e, nel contempo,
capace di rappresentare il fenomeno. Vi sono indicatori di tipo valutativo che misurano il raggiungimento
degli obiettivi ed indicatori di processo che valutano le modalità di implementazione del progetto. Vi sono,
infine, indicatori di esito utili alla valutazione finale, a loro volta suddivisi in indicatori di efficacia, impatto
ed efficienza.
Nel corso degli anni, l’attribuzione di funzioni manageriali agli AS si è rinforzata e questi operatori hanno
sviluppato un metodo di lavoro che ha conciliato le esigenze dell’operatività con quelle organizzative e di
coordinamento partecipativo. La funzione del case manager, spesso conferita agli AS, risponde
efficacemente alla sua capacità di ricomposizione del bisogno e degli interventi. Il case management è la
metodologia fondamentale per l’applicazione delle politiche di decentramento e territorializzazione
dell’assistenza che vanno sotto il nome di community care. I servizi di case management sono attività volte
ad assicurare il collegamento tra la rete dei servizi e il destinatario e a coordinare le differenti componenti
della rete per fornire un servizio adeguato al destinatario. I compiti fondamentali del case manager sono:
risolvere problematiche; assicurare la continuità delle cure; contrastare la frammentazione dei servizi;
rendere accessibili le cure. Il case manager si propone come strategia non solo capace di erogare prestazioni
coordinate, ma di rispondere a esigenze qualitative, le uniche capaci di far funzionare davvero una risposta,
poiché tarate sui bisogni. Vi sono vari modelli di case management definiti come management
imprenditoriale, di intermediazione, multiprofessionale, ovvero management medico, integrato, di
brokeraggio.
I nostri sistemi di welfare hanno introdotto la figura del case manager in specifiche aree di complessità
sociale e socio sanitaria per facilitare l’accesso ai servizi da parte delle persone interessate e per ricondurre a
unità interventi calibrati su bisogni da parte di professioni diverse.
Gli AS sono chiamati, da recenti normative sia nazionali che locali, ad assumere il ruolo di case manager in
particolari situazioni di disagio. Qui, il cosiddetto pacchetto assistenziale diventa la predisposizione
individualizzata di strumenti e azioni che sviluppano e connettono le risorse in virtù di una funzione di
intermediazione tra persone, servizi e competenze diverse. L’AS è in definitiva una guida della rete che
collega, vigila e accompagna l’intero percorso progettuale, rappresentando gli interessi degli utenti e delle
loro famiglie, evitando, tuttavia, la dipendenza assistenziale.
9. La complessità del lavoro sociale nella società contemporanea
Le nuove complessità richiedono un rinnovato dialogo tra cittadini, politica e servizi. I moderni welfare
devono apprendere sistemi di conoscenza capaci di leggere la relazionalità per interpretare la complessità dei
bisogni, affermando il concetto che la persona è ontologicamente intersoggettiva. L’autoreferenzialità dei
sistemi di welfare deve lasciare il testimone a modelli organizzativi a rete, in grado di sviluppare processi
evolutivi per interventi aperti e flessibili in una prospettiva di equità e universalità propria dei valori del SSP.
Il SSP è parte attiva nello scenario della complessità sociale. La vulnerabilità di persone e comunità, infatti,
rendono fragili gli stessi sistemi dei servizi e con essi i professionisti dell’aiuto. Complessità è un termine
che sta ad indicare lo stato di un sistema caratterizzato da un numero tanto elevato di relazioni componenti
tali che non si da o non è reperibile un’unica descrizione del sistema stesso. Complessità è quindi sinonimo
di irriducibilità a un unico criterio di indagine conoscitiva. I professionisti AS possono assumere la sfida
della complessità costruendo un sapere aperto, diffuso, generatore di competenze inedite, evitando la
residualità di ruoli che confinano questi operatori in un’arena dove convivo malamente con coloro che
portano il disagio.
La sindrome del burnout è caratteristica delle cosiddette professioni di aiuto, a cui appartengono, oltre gli
AS, anche i medici, gli infermieri, gli psicologici, gli educatori, cioè tutti quei professionisti che lavorano con
persone in una relazione d’aiuto, terapeutica o pedagogica e di controllo sociale. Burnout indica uno stato di
insoddisfazione lavorativa, in termini fisici, psicologici, secondaria al mancato raggiungimento di un
obiettivo prefissato dal soggetto.
I modelli teorici più esplicativi sul fenomeno del burnout sono quelli elaborati da Cherniss e da Maslach e
Jackson. Il primo lo definisce come strategia di adattamento che ha conseguenze negative sia per la persona
sia per l’organizzazione. Il modello proposto da secondi, invece, scompone il concetto di burnout in 3
dimensioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. Questo costrutto teorico
enfatizza i fattori personali e le relazioni sociali come cause del burnout; da tale teoria è derivato il Maslach
Burnout inventory, il primo e ancor oggi più accreditato strumento diagnostico per la rilevazione del burnout.
La sindrome del burnout è un processo che segue tre frasi:
· Stress lavorativo
· Basso riconoscimento rispetto gli altri professionisti
· Stereotipi attribuiti
Gli AS vivono spesso una condizione di solitudine operativa che neppure progetti di aiuto concordati e
condivisi riescono a evitare. La supervisione professionale rappresenta quell’aiuto competente in grado di
ricostruire la stessa mappa cognitiva per orientare la pratica professionale. L’etimologia della parola
supervisione evoca la funzione di accompagnamento maieutico esercitata da un’autorità riconosciuta
nell’analisi di un fenomeno, di un problema, di un progetto, di un intervento professionale. I progetti di
supervisione sono dunque sempre più richiesti nei servizi e favoriti dalle stesse istituzioni che ne intravedono
anche un mezzo per sostenere organizzazioni deboli e/o per modificare strutture operative obsolete, per
perseguire qualità.
Per gli AS la supervisione risulta così uno spazio di riflessione ove si rende possibile recuperare il senso e gli
obiettivi del mandato professionale creando un ponte virtuale con quello istituzionale, nella piena
affermazione di un giusto mandato sociale. La supervisione diventa quindi un investimento per
l’organizzazione del lavoro, un plusvalore per i professionisti e una garanzia di offerta qualificata per le
persone/utenti.
Nei servizi alla persona si tende spesso a confondere la formazione con la consulenza e la supervisione. La
formazione è quella effettuata in servizio, indispensabile per aggiornare e approfondire tematiche particolari.
Essa ha il compito di colmare lacune di conoscenze teoriche-metodologiche per riorientare la cultura verso
problematiche del lavoro quotidiano. La consulenza entra direttamente nella pratica operativa e viene
effettuata da colleghi esperti anche di altre professioni. La consulenza si riferisce a una consultazione su
segmenti dell’agire professionale per suggerire passi, è caratterizzata da brevità temporale e specificità di
contenuti e obiettivi. La supervisione è invece lo strumento che permette la rielaborazione e
l’approfondimento dell’esperienza personale, in un contesto separato da quello caotico dell’operatività
quotidiana. È un modo di favorire negli operatori la riflessione sul proprio agire in rapporto al suo significato
per l’utenza e alla correttezza metodologica. Rappresenta un processo di accompagnamento professionale
che porta gli operatori fuori dalla compulsività del fare.

Il metodo del Servizio Sociale


1. Le coordinate per una riflessione sul metodo
Il metodo deve essere pensato in relazione alla core mission (missione principale) del servizio sociale. Ci
sono delle prospettive principali per comprendere le scelte metodologiche:

1. La tridimensionalità del lavoro sociale e dell'approccio unitario


2. La visione della conoscenza (il testo assume un’ottica costruttivista)
3. Il rapporto tra teoria-pratica (il testo presenta un approccio critico-riflessivo)
4. La prospettiva etica

La tridimensionalità si connette con la scelta dell'approccio unitario ormai da anni dominante in Italia. Negli
anni '50, ai differenti livelli di bisogno veniva fatto corrispondere uno specifico metodo di servizio sociale:
case work, group work e community work. In quegli anni le teorie di servizio sociale vengono importate
dagli Stati Uniti. Da questo processo di "colonizzazione culturale" deriva una percezione di distanza tra le
metodologie insegnate e la realtà operativa. Negli anni 1968-70, nel periodo della cosiddetta contestazione, si
è passati ad una fase di rifiuto del sapere e delle metodologie del servizio sociale. In particolare si criticava il
case work poiché psicologizzava i problemi sociali; in questo modo problematiche come la povertà venivano
ricondotte a carenze o difficoltà degli individui.

Negli anni '70 la scelta italiana va nella direzione di un pieno riconoscimento della complessità del lavoro
sociale e dei problemi che il servizio sociale affronta, e in questa chiave si può comprendere l'affermarsi
dell'approccio unitario. A questo si riferisce la tridimensionalità, ovvero quella prospettiva che assume
sempre contemporaneamente tre vertici di osservazione: il punto di vista dei singoli soggetti, la prospettiva
della società/comunità e quella istituzionale. Infatti, analizzare in modo isolato le domande che arrivano ai
servizi rischia di scaricare la responsabilità dei problemi sociali sui singoli individui.

La dimensione di ricerca Nel campo del servizio sociale il movimento nella direzione di un rafforzamento
del rapporto tra pratiche di intervento e ricerca è stato uno dei fenomeni più interessati degli ultimi quindici
anni.
Il servizio sociale da una parte considera nella propria pratica i risultati della ricerca scientifica e, dall'altra,
cerca di applicare un procedimento metodologico rigoroso e quindi scientifico nell'operatività quotidiana.
Ci sono differenti linee di pensiero sul senso e la qualità di questo rapporto:

 Evidance-Based Practice:
L’EBP si sviluppa intorno agli anni '80 e propone l'idea di un lavoro sociale che fondi le proprie pratiche e i
propri interventi sull'evidenza empirica. Vuole applicare un metodo scientifico e l'utilizzo della conoscenza
scientifica nella pratica. Le ragioni del successo sono un'esigenza di accountability della professione.
L'evidenza è costruita attraverso la ricerca scientifica. Gli stimoli all'origine di questo approccio derivano
dalla contestazione di:

· una grande variabilità nelle pratiche


· un divario tra gli esiti delle ricerche e gli interventi attuati
· una pressione economica che porta ad una ricerca di interventi più efficaci e meno costosi
· rilevazione che la disseminazione degli esiti delle ricerche non funziona adeguatamente
Una delle maggiori critiche è la lontananza dalla realtà del lavoro nei servizi.

 Practice Reaserch:

Il secondo approccio ha messo al centro le pratiche, quindi costruisce conoscenza a partire dalla saggezza
pratica degli operatori e dell’expertise maturata da chi vive direttamente i problemi. Propone uno sviluppo
delle pratiche attraverso la valorizzazione critica e la sistematizzazione dei saperi maturati sul campo dagli
AS, attraverso una ricerca scientifica che si sviluppi a partire dagli interrogativi che emergono nelle pratiche.
La prospettiva della practice research si contrappone a quella dell’EBP in quanto si colloca in modo critico
rispetto l’auspicio di un cambiamento nelle pratiche attraverso l’applicazione di ricerca scientifica sviluppata
altrove.

Recentemente la tensione tra i due approcci si è in parte stemperata e si va affermando una terza posizione
ovvero la Evidence-Informed Practice: essa coniuga i due approcci precedenti e apre sia a una valorizzazione
dei saperi nelle pratiche, sia a un utilizzo del sapere scientifico.
La dimensione di riflessività Il servizio sociale si muove su terreni incerti e ambigui. In questo senso si parla
di professione intrinsecamente di ricerca, dove l'intreccio tra ricerca e pratiche richiede processi di riflessione
e pensiero. L'idea della riflessività è introdotta da Schön; si parla di riflessività perché l’AS non può
"chiamarsi fuori" da qualsiasi scenario egli costruisca, nella consapevolezza che nel momento in cui produce
un'interpretazione della realtà già agisce su di essa.

In tale ottica ha senso un approccio inclusivo della conoscenza, dove per inclusività si intende il
riconoscimento della parzialità di qualsiasi fonte di sapere. Le fonti di conoscenza del servizio sociale
possono e debbono essere molteplici e comprendono i saperi delle persone che si rivolgono al servizio, i
saperi di chi pratica e i saperi derivati dalla ricerca qualitativa e quantitativa.

Vi è una tipologia che permette di collocare il modello riflessivo entro quattro tipi di relazione tra
metodologia e pratiche, tipi che si costruiscono dall'incrocio di due dimensioni. La prima è il rispetto di un
metodo, la seconda dimensione è l'attenzione alla peculiarità della situazione o viceversa agli aspetti generali.

Le quattro tipologie sono:

· burocratico: bassa attenzione alle regole di metodo e tendenza a categorizzare tutte le situazioni secondo
procedure e classificazioni delle organizzazioni burocratiche; la modalità di lavoro è legata alle
procedure dell'ente e alle norme dell'organizzazione. La burocratizzazione è il risultato di forti pressioni
esterne. A volte può rappresentare un vantaggio: alleggerire alcune tensioni legate all'incertezza inscritta
nella professione e alla pesantezza legata al coinvolgimento emotivo
· elastico: modalità abbastanza tipica del servizio sociale che tende ad adattarsi alle situazioni dove c'è
assenza di regole metodologiche e alta attenzione alla peculiarità della situazione. In questi casi, gli AS
sembrano non avere un metodo o un approccio con cui confrontarsi. Si parla di modalità elastica, più che
flessibile, in quanto rischia sempre di rompersi. La rottura si manifesta come burn-out di un operatore
che vive sempre in una situazione di massima tensione
· rigoroso: attenzione forte alle regole di metodo con categorizzazione delle situazioni. Il tipo di lavoro
rigoroso si avvicina al modello tecnico-razionale delineato da Schön. In tempi recenti il filone che si
avvicina di più a questo modello è l'evidence-based practice. Il principio guida dell'EBP è che la pratica
possa essere organizzata rigorosamente e che possa mettere in atto gli esiti della ricerca
· flessibile/riflessivo: attenzione alla peculiarità delle situazioni senza rinunciare a una riflessione teorica e
ad uno sforzo di organizzare e dare una struttura alla pratica. Le due dimensioni vengono qui tenute
insieme attraverso il fatto che il metodo orienta la riflessione sull'intervento, più che direttamente
l'azione. Ogni intervento non può che essere un tentativo e solo la messa in atto potrà illustrare gli effetti
positivi o negativi sulla situazione. Qui i modelli metodologici sono rilevanti non come regole da
applicare ma come sequenze di domande attraverso cui organizzare e dare sistematicità al pensiero su
pratiche e azioni

La dimensione etica Il codice deontologico rappresenta una sorta di garanzia che la professione offre ai
propri utenti e alle persone riguardo al fatto che il potere verrà utilizzato in modo corretto e a vantaggio delle
persone stesse. Da una parte è, dunque, una forma di esplicitazione dell'identità professionale poiché dichiara
i principi ispiratori e, dall'altra, è una forma di autocontrollo e autoregolazione della professione stessa in
relazione al potere di cui dispone. La dimensione etica accompagna il processo metodologico ed ha alcuni
tratti distintivi:

· non riguarda considerazioni pratiche rispetto alla riuscita di una certa azione;
· non riguarda interessi particolari che possono essere coinvolti in una determinata azione;
· riguarda il confronto fra un certo corso di azioni e un sistema di valori e principi tradotti in regole.

Punti fondamentali del codice: rispetto della persona e della sua dignità, che indica il diritto a essere
rispettato e a essere riconosciuto come implorante, al valore della giustizia sociale e all'impegno di una
formazione costante e a uno sviluppo della conoscenza; accettazione (che non equivale a essere d’accordo
ma significa accogliere la diversità senza entrare nel merito) e non giudizio; rispetto e promozione
dell'autodeterminazione (possibilità di scegliere la modalità con cui affrontare le situazioni che si presentano
nel corso dell’esistenza); promuovere e garantire la tutela della comunità e fare tutto ciò che è in proprio
potere per proteggere i soggetti più deboli.

2. L’avvio dell'intervento: accesso ai servizi e interazioni iniziali


Il primo contatto è uno dei momenti più importanti dove si definisce la relazione con le persone, i significati
che essa assume e le possibilità di collaborazione. La prospettiva unitaria dà all'intervento profondità e
significatività e consente al professionista di assumere un ruolo di effettiva mediazione tra istanze
individuali, dimensioni istituzionali e risorse ambientali.

Dimensione istituzionale L'accesso ai servizi è regolato da specifiche leggi e regolamenti che definiscono i
diritti delle persone, le competenze e i limiti degli specifici servizi. Segue gli indirizzi di politica sociale così
come vengono espressi dalla legislazione. Un approccio interessante è quello di Clarke che identifica tre
modelli (o meglio ideal-tipi) di accesso ai servizi in relazione ai modelli di welfare identificati da Anderson:

· Modello neoliberista; propugna una massima limitazione degli interventi dello Stato a supporto degli
individui e identifica un ruolo minimale e residuale per i servizi sociali, i quali sarebbero chiamati e
intervenire soprattutto in relazione a situazioni di grave rischio. La concezione che sottende è che i
problemi sono una questione individuale, riguardano i singoli, non l'intera società
· Modello attivo-paternalistico; è tipico dei sistemi di welfare tradizionali. In questo caso i servizi
promuovono l'incontro con le persone in difficoltà secondo una propria definizione di bisogno. I servizi
hanno il mandato di cercare in tutti i modi di agganciare la persona in difficoltà secondo le loro
definizioni e di "forzarla" ad accettare le soluzioni che sono state approntate
· Modello attivo-trasformativo; è tipico dei sistemi di welfare universalistici. Lo Stato si fa carico del
benessere dei cittadini e del rispetto dei loro diritti sociali e umani. Comporta un movimento attivo per
promuovere i diritti delle persone e per offrire risposta ai loro bisogni. Riconosce ai singoli di partecipare
alle scelte e propone un sistema di servizi flessibile e duttile

La legislazione specifica il mandato istituzionale del professionista che definisce qual è il ruolo che gli si
chiede di ricoprire nelle relazioni. L'AS deve comunicare alla persona informazioni che possono portare a
una complicazione del proprio lavoro, poiché è un dovere etico informare le persone rispetto ai diritti che la
legge riconosce loro. La base per informare consiste nella conoscenza approfondita della legislazione e delle
sue specifiche regole.

A partire dall'accesso, il professionista è chiamato ad avere uno sguardo critico sulle politiche e sulla
legislazione e una capacità di negoziare per le persone, di sviluppare advocacy e di assumere un ruolo attivo
al livello della costruzione di linee di politica sociale. È fondamentale che l'AS si chieda fin da subito se i
diritti delle persone sono rispettati e come ci si può muovere per far sentire la loro voce se necessario.

Dimensione organizzativa Un altro livello da considerare nella riflessione metodologica dell'accesso è quello
organizzativo del servizio e della rete di risorse disponibili. È fondamentale che l’AS sia consapevole del
contesto organizzativo in cui lavora. L'informazione è centrale perché le persone possano accedere ai servizi
e abbiano la possibilità di rendere effettivi i loro diritti; l'informazione è una precondizione essenziale per la
fruizione delle risorse. Le persone che si trovano in situazioni di difficoltà sono anche svantaggiate dal punto
di vista della conoscenza delle opportunità. Quindi l’AS deve studiare i modi che il servizio ha per farsi
conoscere e di valutare se le informazioni e i mezzi utilizzati per farle circolare sono i più adeguati per
raggiungere il target di popolazione del servizio e i soggetti più vulnerabili.

Ovviamente oltre alla distribuzione ineguale dell'informazione, un'altra barriera all'accesso può essere
connessa alla distorsione di informazione e ad un'immagine non positiva dei servizi. Infatti nel pregiudizio
comune essi non sono sempre associati a interventi di aiuto, anzi spesso vengono accostati ad azioni di
intrusione come l’allontanamento di bambini dalle loro famiglie.

In Italia i servizi sociali hanno una certa autonomia nell'organizzare l'accesso. Individuiamo modalità:

· distribuita e frammentata; il cittadino si trova ad entrare in contatto con un servizio specifico ed


eventualmente orientato ad altre strutture se gli operatori lo ritengono necessario. Il rischio è che gli
operatori dello specifico servizio non sappiamo dare l'informazione adeguata
· organizzata e unitaria; il cosiddetto sportello unico o porta unica di accesso. Le persone che entrano in
contatto vengono accolte e hanno la possibilità di presentare la propria situazione, quindi sono indirizzate
alle strutture competenti. Questa organizzazione dovrebbe garantire una maggiore trasparenza e
un'omogeneità nelle modalità d'accesso
Un'ipotesi alternativa allo sportello unico potrebbe essere una valorizzazione del ruolo dell’AS nei diversi
servizi come il professionista dell'accesso, che sia in grado di orientare e mettere in rete i soggetti e le
domande. La complessità o semplicità delle norme e dei criteri di accesso sono uno degli aspetti che
permettono di classificare un servizio come a bassa o ad alta soglia: a bassa soglia è quello in cui il contatto è
semplice e diretto e non richiede alcun passaggio.

Le modalità di accesso al servizio secondo Ferrario:


1. spontaneo: le persone sulla base di informazioni ottenute da fonti diverse scelgono di recarsi al servizio
per chiedere aiuto o consiglio. Questa può sembrare la situazione più semplice dal punto di vista
professionale in quanto esistono una richiesta e una volontà da parte della persona di entrare in contatto
con l’AS, tuttavia è noto che i percorsi per arrivare a chiedere aiuto sono complessi. La ricerca di Mayer
e Timms mostra che quando le persone si presentano al servizio è raramente una scelta spontanea: in
genere tentano prima di cavarsela da soli o cercano il supporto delle proprie reti e si presentano ai servizi
quando ciò non è possibile. Ciò ha diverse ragioni come l'adesione a modelli sociali di autonomia, la
paura di perdere la faccia, la convinzione che i soggetti della rete non possano aiutare, sfiducia nel
soggetto della propria rete e risposte inadeguate da parte della rete. Inoltre questi autori hanno indagato
come le persone vengono a conoscenza dei servizi: molto spesso sono i conoscenti o i soggetti incontrati
occasionalmente a dare informazioni
2. indotto: sono le persone stesse che si avvicinano al servizio su consiglio o pressione di soggetti che
hanno un certo potere su di loro, in questo caso i soggetti non necessariamente sono convinti del passo
che hanno intrapreso
3. attraverso intermediari: la persona non si presenta direttamente al servizio ma qualcun altro ha segnalato
la sua situazione. Spesso la persona stessa non sa di questo contatto e tuttavia l’AS ha il compito di
esplorare il caso per verificare la presenza di un bisogno o di un caso a rischio. L'intermediario può anche
essere il Tribunale. In questo caso bisogna trovare un modo perché la persona stessa chieda un
intervento; se questa non accetta, l'operatore si trova a dover valutare se sussiste un rischio per la persona
o per altri, oppure no. Nel primo caso deve segnalare alla procura. Nel secondo, anche se coglie segnali
di disagio, deve accettare la scelta del singolo di non volere aiuto
4. coatto: le persone non hanno la possibilità di decidere se entrare in contatto con il servizio o meglio la
scelta di non relazionarsi con l’AS

Durante la fase di accesso ma anche durante tutte le altre è importante il punto di vista della persona. Platt fa
emergere che bisogna fare attenzione e bisogna avere sensibilità nel comunicare aspetti che possono essere
sgradevoli; le cose vanno dette con un'attenzione al punto di vista e ai vissuti dell'utente e vano dette
onestamente e apertamente; è fondamentale l'ascolto attivo.

Dopo l'accesso si arriva al primo incontro tra professionista e la persona. Ci si pone tre interrogativi:

a. Come avvicinare la persona in modo che questa si senta rispettata e trattata con dignità, tenendo conto
della sua libertà di scelta?
b. Come entrare in contatto in modo da riconoscere e accogliere i vissuti e anche le difficoltà che le
persone stanno attraversando?
c. Quanto i nostri modi di avvicinare sono consoni al nostro ruolo di servizio sociale e creano un contesto
di professionalità?

Uno degli elementi su cui porre l'accento è che per entrare in una relazione collaborativa con le persone
bisogna comprendere e accettare il loro punto di partenza. Rispetto a ciò le dimensioni da considerare sono
due: la relazione e la situazione che la persona attraversa.

Una premessa d’obbligo riguarda il fatto che il rapporto tra singoli e istituzioni possiede elementi di
conflittualità in quanto il singolo vede come unica la propria situazione; inoltre, vi è uno squilibrio di potere
tra utente e AS che crea tensioni. Coloro che arrivano al servizio, sebbene lo facciano di propria scelta, e
tanto più se sono obbligati, spesso considerano la relazione con l'operatore una sorta di male necessario, un
passaggio obbligato per ottenere una risposta ai propri bisogni e non invece come qualcosa di utile per un
potenziale cambiamento. Quindi le persone che arrivano ai servizi arrivano con una motivazione estrinseca
(l'interesse per l'attività è strumentale o connessa a paura. Motivazione intrinseca = l’attività è considerata
importante per noi --> continuum).
Essendo la situazione considerata dalle persone pericolosa, queste possono attivare dei meccanismi di
protezione individuati da McClelland e rispresi da Dal Pra Ponticelli. Questi meccanismi sono:

· evitamento: trovare un modo di sfuggire alla comunicazione (tacere, dare risposte chiuse)
· seduzione: tentare di ingraziarsi l'interlocutore (ci si protegge cercando di piacere all’avversario)
· attacco: si esplicita la situazione di conflitto e si dichiara che l’interlocutore è un potenziale nemico.
Va considerato che le persone si proteggono dall’AS perché colgono una situazione di potenziale pericolo e
tale pericolo è effettivo. I professionisti hanno un forte potere nei confronti delle persone. Sono i gatekeepers
rispetto all’accesso a risorse di cui l’utente ha bisogno, hanno canali di comunicazione privilegiati con coloro
che hanno potere decisionale sulle loro vite. Se non siamo in grado di comprendere il punto di partenza della
persona e di valutarne la positività, rischiamo di non poter svolgere il nostro lavoro.

La ricerca di Lishman ha messo a fuoco per la prima volta i rischi di divario delle prospettive tra operatore e
utente. La prima sfida è di comprendere la prospettiva delle persone e rapportarsi con questa tenendo conto
che l'arrivo ai servizi spesso avviene in un momento di urgenza e grave disorientamento per le persone e le
loro famiglie. La relazione di fiducia è fondamentale; l'AS deve comprendere ciò che maggiormente agita la
persona, il bisogno o i bisogni che vengono percepiti in modo impellente e fare qualcosa in tal senso.

Dopo i primi contatti si aprono due strade: la presa in carico e il segretariato sociale. Quest’ultimo consiste
in un lavoro di informazione e orientamento rivolto a tutti i cittadini che ne hanno bisogno e alla comunità
nel suo complesso. Il segretariato è una specifica funzione che richiede preparazione, competenza e
professionalità. La legislazione in generale parla del diritto di informazione nell'art. 21 della Costituzione;
altri riferimenti sono la legge 142/1990 che riordina le autonomie locali e sancisce il diritto/dovere
all'informazione per la pubblica amministrazione; la 241/1990 nota come la legge sulla trasparenza e la 328
del 2000 che include l'informazione e l'orientamento tra i livelli essenziali di assistenza. Il segretariato
assume un'importanza anche etica in quanto si riferisce al riconoscimento del diritto delle persone ad avere
uguali opportunità nell'accesso alle strutture. Il segretariato è un servizio a bassa soglia. Viene definito come
lo spazio apposito al quale si può accedere con estrema facilità in cui i cittadini possono ricevere
informazioni sull'accesso ai servizi e informazioni sulle risorse formali e informali che intervengono nel
settore sociosanitario; informazioni circa i propri diritti; consulenza rispetto ai propri problemi in relazione
alle risorse disponibili e orientamento e accompagnamento nel sistema dei servizi.

Strumenti: il primo colloquio e il colloquio motivazionale Il colloquio motivazionale può essere utile nelle
prime fasi del lavoro proprio per le considerazioni sulla motivazione presentate prima. Esso è uno strumento,
ma forse sarebbe più opportuno definirlo un approccio, sviluppatosi negli anni ‘80 e che gode di un successo
in continua crescita. A fondamento del colloquio motivazionale, c'è il concetto che le persone che si
avvicinano al servizio abbiano in sé stesse le basi e la conoscenza per modificare in meglio la propria
situazione di vita. L'elemento centrale del colloquio motivazionale è la fiducia. Il colloquio motivazionale
nasce nel contesto degli interventi con persone con problemi di alcolismo e dipendenza da droga. I punti di
partenza di questo colloquio sono due: non è vero che le persone vogliono mantenere i comportamenti
dannosi (cambiamento) e le persone sono sempre in parte orientate al proprio benessere. I principi su cui si
basa sono la collaborazione, il far emergere un'auto-motivazione e il supporto all'autonomia.

La tecnica, secondo Miller e Rollnick, consiste in quattro elementi chiave:

· Esprimere empatia: far capire alla persona che si comprende il suo punto di vista
· Mostrare alla persona gli elementi della sua ambivalenza in termini positivi, riflettendo sul fatto che
esiste un desiderio di stare meglio e di uscire dalla situazione, anche se ci sono spinte contrapposte
· Accettare e lavorare anche con la resistenza, cercando di capire origini e ragioni
· Valorizzazione l'autoefficacia che si ottiene infondendo fiducia e speranza nelle persone e nella loro
forza
Gli strumenti che vengono utilizzati prevalentemente sono le affermazioni di valorizzazione dell'esperienza e
delle capacità della persona, riformulazioni o riflessioni utili a riprendere il discorso della persona e la sintesi
fondamentale per mettere insieme gli aspetti emersi. Il colloquio motivazionale ha come obiettivo il
cambiamento e si fonda sulla considerazione della persona come esperta della propria situazione.

5. Valutazione degli interventi e ricerca come componenti della pratica

La questione della valutazione è estremamente complessa. In primo luogo non è per scontato che si possa
arrivare ad una definizione condivisa di che cosa si intenda per efficacia degli interventi. In secondo luogo la
valutazione è complessa perché le pratiche di servizio sociale sono spesso state poco definite, quindi è
difficile identificare gli elementi del processo di lavoro e comprendere cosa ha funzionato e cosa non ha
funzionato. Infine la valutazione non può prescindere da riflessioni di natura etica quindi non ci si può
limitare a considerare solo se l'intervento è stato efficace, ma è fondamentale valutare quanto le azioni e i
processi messi in atto siano congruenti con i valori del servizio sociale e con i principi del codice
deontologico.

Inizialmente la valutazione nel servizio sociale nasce con l'intento di costruire una pratica professionale
efficace e legittimata. Veniva utilizzata una valutazione di tipo sperimentale e quantitativa ma tali valutazioni
non davano elementi per capire che cosa in specifico non aveva funzionato e perché.

Gli approcci quantitativi infatti tendono ad oggettivizzare il processo di lavoro, a isolare aspetti significativi
per schedare problemi e interventi. Non si riesce a cogliere e rispettare la natura olistica del servizio sociale e
il suo adattarsi alla complessità della soggettività e dei processi di vita delle persone.

Si sviluppa così il filone di valutazione qualitativa che mira a colmare il vuoto di quella quantitativa e quindi
a "illuminare" non solo gli esiti finali ma anche i passi che hanno condotto a tali esiti. Questo tipo di
valutazione consente di cogliere i diversi punti di vista e percezioni in relazione agli interventi di servizio
sociale. Gli elementi caratterizzanti di una valutazione qualitativa sono:

· immersione nei contesti in cui si effettua la ricerca


· corrispondenza ad un approccio olistico che mira ad una comprensione di insieme dei processi e delle
culture in cui tali processi si generano
· focalizzazione sui processi e sul rapporto tra processi e risultati in termini di significati attribuiti dagli
attori, quindi, si colgono anche gli esiti non previsti
· comprende le visioni dall'interno e cioè come la situazione appare dal punto di vista dei protagonisti
· la non pretesta di essere avulsa e neutra alle dimensioni valoriali che riconosce come intrinseche nella
valutazione e semmai da esplicitare

Per cogliere i significati che gli attori e i soggetti coinvolti danno alle pratiche di lavoro servono degli
strumenti di raccolta delle informazioni che consentono di rilevare le prospettive diverse, quindi strumenti
aperti e non standardizzati. Quando si fa una ricerca qualitativa ciò che ne legittima la validità è che vengano
dati gli elementi perché altri possano controllarne i processi e i risultati; inoltre è fondamentale pensare ad
essere pronti a giustificare come viene operata la scelta dei soggetti coinvolti e con quali criteri.

Gli strumenti qualitativi sono sempre stati criticati per la loro scarsa attendibilità, cioè la loro capacità di
esplicitare sempre gli stessi risultati. Per aumentare l'attendibilità (capacità di esplicitare sempre gli stessi
risultati) si può utilizzare il metodo della triangolazione, quindi si mettono a confronto dati raccolti con
differenti strumenti di rilevazione oppure si mettono a confronto le letture della situazione di più
intervistatori o osservatori.

Un elemento fondamentale per l'attendibilità è che i dati devono essere raccolti in modo da poter rimanere a
disposizione ed essere consultati ex post da altri ricercatori; bisogna inoltre tener conto dei possibili
preconcetti o pregiudizi di chi ha raccolto i dati in modo da ridurre le interpretazioni fortemente personali e
idiosincratiche. Infine è fondamentale mettere in chiaro i limiti rispetto alla realtà cui si applica e rispetto a
quali aspetti vengono considerati.

Processi di monitoraggio del lavoro:

· Processi di valutazione partecipata: la progettazione stessa della valutazione deve coinvolgere quelli che
si considerano i più rilevanti stakeholders, questo significa attivare tavoli di lavoro misti in cui vengano
negoziati gli obiettivi, gli oggetti della valutazione e gli strumenti
· Spazi di autovalutazione: l'EBP ha promosso un modello di autovalutazione della pratica fondato sui
principi della sperimentazione denominato Single System Evaluation Design che dovrebbe consentire a
ciascun AS di soppesare in modo scientifico gli esiti dei propri interventi. Ma alcuni sostengono che ciò
sia impossibile perché richiede un'operazionalizzazione degli obiettivi nella fase iniziale

Esiste anche l'autovalutazione spontanea quando ci si trova di fronte ad un'impasse, ovvero nel momento in
cui non si sa come andare avanti o quando gli interventi sembrano non essere più efficaci. Una delle strade
tradizionali per avviare un'autovalutazione è la supervisione cioè un processo condotto da un esperto esterno
che guida la riflessione critica o sui casi o sul procedimento. Tra i nuovi modi per inserire la valutazione
nelle pratiche quotidiane una che merita attenzione particolare è il metodo studiato da Luigi Gui che si
chiama l'altervisione (confronto con un gruppo di professionisti su una situazione in modo tale da facilitare
l'acquisizione di capacità per riconoscere e condividere un sapere esperto e poliedrico già presente negli AS,
ulteriormente acquisibile e moltiplicabile per mezzo del confronto).

Altri metodi per l'autovalutazione sono specifici questionari che un operatore si può autosomministrare,
l'auto-osservazione e l'auto-etnografia.

Anche l’AS può diventare ricercatore perché è possibile attivare percorsi di ricerca estremamente
significativi anche a partire da pochi casi e da una rilevazione limitata, purché condotta in modo rigoroso. A
volte per gli AS non è necessario nemmeno raccogliere nuovi dati. L'operatività offre moltissimi materiali
che si prestano a essere utilizzati come dati di ricerca. Questo tipo di lavoro porta alla produzione di
conoscenze dinamiche, che sono alla base per il continuo rinnovamento richiesto da un'operatività riflessiva e
in grado di confrontarsi con il panorama in movimento dei problemi sociali.

Il Servizio Sociale di Comunità


2. I fondamenti teorici e metodologici del servizio sociale di comunità
Un elemento che caratterizza il lavoro dell’AS è la paziente tessitura della vita associativa e la formazione e
la crescita dei gruppi. Il compito dell’AS è quello di fornire stimoli ed eliminare gli ostacoli affinché la
comunità si sviluppi autonomamente. La dimensione comunitaria è un elemento cruciale e imprescindibile
per gli AS, i quali lavorano nel e con il contesto relazionale delle persone.

La comunità può indicare:

· Un gruppo di persone che hanno origini, idee, interessi e consuetudini di vita comune
· Una struttura o un’istituzione di cura e di recupero
· Soggetti che abitano e vivono nello stesso territorio
· Cerchie di persone con interessi simili aggregate attraverso i media e i social network

È difficile formulare una definizione onnicomprensiva di significati della comunità a causa del carattere
multidimensionale e polisemico. Spicca il riferimento alla necessità di un senso di appartenenza consapevole
e condiviso, da parte dei suoi membri, perché una comunità sia considerata tale. La comunità è caratterizzata
da un modo di sentire comune, reciproco, associativo, alimentato non solo da affetto, fiducia, solidarietà ma
anche da conflitti, interessi e dinamiche di potere.

La comunità locale è una popolazione di dimensioni ridotte che vive stabilmente entro un territorio
delimitato e riconosciuto come suo sia all’interno sia all’esterno, sufficientemente grande, differenziato e
attrezzato da poter abbracciare tutti i principali aspetti della vita associata: lavoro, famiglia, educazione ecc.

La comunità può ancora essere definita come un insieme di persone che abita lo stesso territorio con certi
legami e con certi interessi in comune. Il rapporto di interdipendenza che nasce dalla condivisione di aspetti,
problemi, e risorse di un territorio è alla base del processo di sviluppo del senso di comunità, senza il quale è
difficile raggiungere obiettivi di miglioramento della qualità di vita.

Il senso di comunità è un sentimento che gli individui hanno di appartenenza e di essere importati gli uni per
gli altri. Una fiducia condivisa che i bisogni dei membri saranno soddisfatti dal loro impegno di essere
insieme.

È individuabile un’articolazione in quattro dimensioni del concetto di senso di comunità:

· Senso/idea di appartenenza: sentimento di far parte di una comunità


· Influenza: possibilità̀ del singolo di partecipare e dare il proprio contributo alla comunità
· Soddisfazione di bisogni: possibilità per l’individuo di soddisfare bisogni in ragione dell’appartenenza
· Connessione emotiva condivisa: definita dalla qualità dei legami sociali e dalla condivisione di una storia
comune
Si evidenzia che il senso di comunità non coincide con il senso di appartenenza (che costituisce uno degli
aspetti che lo compongono). Il senso di comunità è costituito da un insieme di percezioni e sentimenti che
potenziano un legame affettivo e permettono alle persone di sentirsi parte di un tutto, di avere l’idea di essere
importanti per gli altri e di poter trovare soddisfazione ai propri bisogni grazie all’appartenenza.

Il servizio sociale di comunità è l’approccio complesso che il servizio sociale adotta per concorrere allo
sviluppo della comunità locale, utilizzando le conoscenze, il metodo, gli strumenti e le tecniche specifici
della professione e adattando le proprie funzioni all’esigenza del territorio oggetto di intervento. Attraverso
l’analisi, la ricerca, la progettazione promuove iniziative con la collettività e collega persone e gruppi tra loro
poiché intraprendono azioni utili a fronteggiare problemi/ conflitti comuni.

L’analisi e l’intervento sono centrati sull’insieme di opportunità e strumenti che la comunità locale mette a
disposizione dei suoi membri per costruire il benessere sociale. La domanda che arriva al servizio non è solo
un problema del singolo, ma deve esser vista come un problema del territorio e al territorio va restituita.

L’obiettivo è quello di sensibilizzare la popolazione al senso di appartenenza e di comunità; promuovere


partecipazione alla costruzione del benessere sociale affinché i problemi individuali vengano considerati
anche come problemi sociali; lavorare per coinvolgere le persone in modo che siano in grado di diventare i
protagonisti. Considerando il carattere complesso dell’approccio e del soggetto di intervento è evidente la
necessità di integrare sia il punto di vista di diverse discipline (sociologia, psicologia, servizio sociale) sia
differenti professioni sociali e sanitarie.
Aspetti critici:

· Strategie più opportune per mantenere la dimensione territoriale e comunitaria come contesto operativo
del servizio sociale;
· La necessità di stringere alleanze tra professionisti.
Per approfondire i temi del servizio sociale di comunità è bene tenere in considerazione due prospettive: La
prospettiva teorico-metodologica e quella etico-politica.

La prospettiva teorico-metodologica Esistono due temi sottesi alla definizione proposta di servizio sociale di
comunità: il metodo unitario e la tridimensionalità.

Il metodo unitario del servizio sociale segna da un lato il distacco dell’influenza americana e anglosassone, e
dall’altro, la continua connessione con le politiche sociali e lo sviluppo dei servizi. Il servizio sociale
americano aveva individuato cinque metodi adottando come criterio di riferimento i destinatari
dell’intervento: case work, group work, community work, il metodo della ricerca sociale, il metodo
dell’organizzazione dei servizi.

Il servizio sociale italiano assume la sfida di collegare i diversi livelli e le differenti dimensioni
dell’intervento elaborando l’idea di unitarietà del metodo e adottando una prospettiva multidimensionale, in
seguito declinata nei termini di tridimensionalità o trifocalità.

La prospettiva tridimensionale garantisce l’analisi delle situazioni da tre angolature:

· Singolo · Contesto ambientale · Istituzione


(comunità) (organizzazione)

La prima operazione da compiere è quella di definire, sulla base degli approcci teorico-metodologici, qual è
il problema e quali sono gli elementi che lo compongono. Tra i fondamenti teorico-metodologici del servizio
sociale di comunità, un primo riferimento è l’approccio sistemico-relazionale, che ha rivoluzionato il modo
di studiare la relazione, il contesto, in una prospettiva ecologica connessa al concetto di complessità e a
quello di autoreferenzialità dell’osservatore.

Un secondo orientamento è costituito dall’approccio di rete: può identificare sistemi di risorse sia
istituzionali, sia naturali all’interno del territorio. Tra i diversi approcci teorico-metodologici, è importante
considerare quello relativo alla partecipazione nello sviluppo di comunità e quello relativo all’empowerment
di comunità che unisce la conoscenza all’impegno sociale.

La prospettiva etico-politica Se i problemi e le risorse sono sociali, allora sono di tutti, ossia pubblici e gli
attori in gioco possono responsabilmente e intenzionalmente agire in tale significato. Il servizio sociale deve
orientare la propria attenzione anche alla dimensione collettiva che comprende tutti coloro che vivono in un
territorio. L’importanza dell’impegno etico-politico del servizio sociale è ribadita dalla definizione
internazionale di servizio sociale: Il servizio sociale è una professione basata sulla pratica e una disciplina
accademica che promuove il cambiamento sociale e lo sviluppo, la coesione e l'emancipazione sociale, nonché
l’empowerment delle persone. Principi di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle
diversità sono fondamentali per il servizio sociale. Sostenuto dalle teorie del servizio sociale, delle scienze
sociali, umanistiche e dai saperi indigeni, il servizio sociale coinvolge persone e strutture per affrontare le sfide
della vita e per migliorarne il benessere.

Sono tre le pratiche individuate che sostanziano la prospettiva etico-politica del servizio sociale:

· La pratica antioppressiva o antidiscriminatoria mira a contrastare lo svantaggio che colpisce gli


individui, i gruppi e le comunità. Riconosce gli squilibri di potere e tenta di ridurli al minimo. È
un’azione che si rivolge contro le altre che tendono a opprimere le minoranze etniche, le donne e gli
utenti a rischio. La pratica anti-oppressiva mira al cambiamento socio-culturale per modificare gli
atteggiamenti sociali negativi
· Advocacy: rispetto alle persone oppresse. È compito dell’AS dar loro la voce, cioè tutti quei dispositivi
utili a rappresentare il loro punto di vista nei confronti delle istituzioni e dell’organizzazioni alle quali si
rivolgono, e ad assicurare un aumento del riconoscimento dei diritti
· Policy practice ovvero l’insieme delle attività svolte dagli AS per influenzare lo sviluppo, la produzione
legislativa, l’attuazione e la conservazione delle politiche di welfare. Gli interventi di policy practice
devono essere incorporati in maniera strategica nel lavoro di ogni AS, indipendentemente dal contesto in
cui opera
·
Modelli teorico-operativi di intervento nella comunità Nella prospettiva teorico-metodologica, il carattere
unitario del metodo di servizio sociale tenta di ricomporre fratture che si esplicano a diversi livelli: nella
relazione tra individuo, famiglie, gruppi e relativamente alla comunità̀ locale nella funzione di mediazione
del servizio sociale tra bisogni e risorse. In questa logica, la domanda che arriva al servizio da una persona va
intesa come un segnale della comunità locale, alla quale il problema stesso va restituito.

Ross definisce il primo orientamento sviluppo di comunità, finalizzato a promuovere il miglioramento delle
condizioni di vita degli abitanti attraverso l’incremento delle risorse interne; la seconda è l’organizzazione di
comunità che mira a coordinare la capacità della comunità di fronteggiare i propri problemi con
un’auspicabile integrazione delle iniziative e delle risorse.

Dal Pra Ponticelli afferma che è possibile individuare due filoni:

1. Considerare la popolazione come principale soggetto a cui riferirsi sia rispetto alle funzioni di sviluppo
delle reti di solidarietà sia rispetto alla partecipazione alle decisioni e agli interventi in favore della
comunità
2. Assumere le istituzioni e le organizzazioni di servizi come principali interlocutori, incaricati di progettare
e pianificare i servizi
Nella realtà il confine tra sviluppo di comunità e organizzazione di comunità è piuttosto sfumato, perché si
sposta lungo il continuum tra questi due poli opposti.

I modelli più consoni alla realtà italiana sono: community care e community development. Con community
care si intende un orientamento idealtipico delle politiche sociali moderne che suggerisce di procedere
all’organizzazione delle misure assistenziali (care) a favore delle categorie più deboli (anziani, disabili..),
attribuendo priorità alla fondamentale esigenza di queste persone di vivere entro i confini della comunità di
appartenenza. L’AS deve essere capace di connettere le azioni di care in the community, ossia gli aiuti forniti
da organizzazioni pubbliche e private con gli interventi di care by the community, ovvero gli aiuti emergenti
della comunità stessa. Si tratta di aiutare le persone che hanno problemi e interessi analoghi a collegarsi tra di
loro e a intraprendere azioni comuni.

Il principale rischio è la necessità di aumentare l’impegno del settore non pubblico e del volontariato
nell’organizzazione di risposte ai bisogni, riducendo la spesa pubblica per il settore sociale.

Il community development (modello sviluppo di comunità e servizio sociale) si fonda sull’idea che in ogni
comunità vi sono risorse nelle persone e nel territorio che non sono sufficientemente valorizzate. Chavis e
Florin definiscono lo sviluppo di comunità come un processo di collaborazione o di auto-mutuo-aiuto tra i
residenti di una comunità locale impegnati nel miglioramento delle condizioni sociali, economiche e fisiche.
La finalità è di accompagnare le persone, i gruppi, nella definizione dei bisogni e nella realizzazione delle
risorse presenti da incrementare per diventare una comunità competente.
L’AS insieme ad altri professionisti lavora a livello collettivo sia per potenziare le reti di solidarietà sia per
promuovere nuove iniziative in favore della comunità. Lo stile di intervento dovrebbe essere non direttivo
per evitare di condizionare le scelte dei cittadini rispetto alle iniziative da intraprendere.

Il servizio sociale di comunità consiste:

· Facilitazione di processi di responsabilizzazione collettiva


· Attivazione e sostegno a processi di collaborazione fra gli attori di un sistema
· Facilitazione di processi di partecipazione degli attori al governo del sistema
· Sviluppo di relazioni che rinforzino la dimensione della fiducia, del senso di appartenenza e di comunità
· Sviluppo di competenze da parte dei membri della comunità

4. Cambiare prospettiva

Lavorare nella comunità locale implica un cambiamento di prospettiva. È necessario predisporre contesti
cooperativi e di confronto, potenziare conoscenze, sviluppare competenze e risorse per uno sviluppo di
comunità sostenibile e duraturo. È necessario distanziarsi dalle azioni tradizionali attraverso l’esplorazione di
aspettative, norme, strutture di potere locale e influenza che hanno questi fattori sulla vita degli individui.

Per cambiare paradigma di riferimento bisogna partire dalla definizione di “bisogno” delle persone tenendo
conto che il servizio sociale si svolge entro un continuum: dal singolo, al gruppo, alla comunità.

Il focus di intervento sociale si estende progressivamente, allargando il campo di osservazione in ragione


degli obiettivi di miglioramento della situazione generale. Si evidenzia un continuum che va dall’intervento
con la persona al servizio sociale di comunità. Vi è necessità di un cambiamento di prospettiva da riparativa a
preventiva, promozionale e inclusiva. Un cambiamento può avvenire solo uscendo dai servizi e lavorando
con le persone nel territorio.

Avvio del processo Esistono diverse alternative possibili per attivare processi partecipativi nella prospettiva
del servizio sociale di comunità. L’elemento scatenante può essere determinato dalla domanda di un
amministratore locale, da un servizio o da associazioni. È opportuno considerare 3 concetti:

1. Comunità locale
2. Relazione
3. Partecipazione
Lavorare per potenziare relazioni in una comunità locale significa ampliare la qualità e la quantità dei gruppi,
associazioni che possono costruire reti sociali, soprattutto rispetto a nuove situazioni di emergenze.
Successivamente, si tratta di potenziare connessioni tra realtà diverse e aumentare visibilità e informazioni.

Affinché possa avviarsi un processo, sarà importante:

· Creare gruppo di coordinamento delle attività · Conoscere esperienze già sperimentate


· Conoscere caratteristiche della comunità · Curare processi e relazioni con confronto
· Creare contatto e conoscenza tra attori

La ricerca-azione partecipata La ricerca-azione partecipata tende a equilibrare il rapporto tra conoscenza


(ricerca) e l'applicazione (azione) attraverso un processo ciclico che alterna conoscenza a intervento. Ricerca-
azione è un termine introdotto da Lewin per definire un tipo di ricerca-azione che tende a promuovere
l’azione sociale. La ricerca azione partecipata è uno strumento importante nel lavoro di comunità. Gli
interrogativi cognitivi sono orientati in misura maggiore ad una prospettiva di intervento, ossia alla ricerca di
possibili soluzioni ai problemi della comunità. Obiettivi e funzioni della ricerca azione sono la conoscenza,
l’apprendimento e il cambiamento. Questi tre aspetti sono interdipendenti, perché la ricerca-azione
partecipata integra intervento, formazione e ricerca di una azione sinergica finalizzata al cambiamento.

Outreach: raggiungere gli altri, fuori È un approccio usato nei processi di progettazione partecipata su diversi
temi. Gli incontri di outreach consistono nell'andare fuori a incontrare gruppi di interesse locali e singole
persone per discutere di questioni e ascoltare suggerimenti. Molto spesso le persone in difficoltà non si
presentano spontaneamente al servizio quindi è necessario procedere in senso opposto: uscire dai servizi e
andare a cercare persone. L’obiettivo è quello di attivare una relazione di fiducia che promuova il processo
evolutivo della persona. Gli strumenti necessari comprendono:

· Distribuire materiale informativo


· Articoli su giornali e pubblicità
· Interventi informativi emirati di scambio
· Strutture mobili e punti informativi
Inoltre, l’outreach permette di raggiungere persone che altrimenti non potrebbero partecipare (troppo
occupate o con disabilità).

5. Il servizio sociale di comunità in pratica

Esistono innumerevoli tecniche e strumenti sperimentati per conoscere i contesti, sollecitare la partecipazione
nelle decisioni che riguardano il futuro della comunità locale, per fronteggiare i conflitti.

Conoscere il contesto: i profili di comunità Conoscere il contesto è condizione essenziale per imprimere
intenzionalità e direzione alle energie e per governare qualsiasi processo di cambiamento. La vastità del
contesto e le molte variabili interagenti possono costringere a operazioni cognitive utili. È il caso della
costruzione partecipata dei profili di comunità. I profili di comunità costituiscono un modo per organizzare
l’osservazione e lo studio della comunità, aggregando dati provenienti da diverse fonti e integrandoli con
l’apporto di coloro che conoscono il territorio.

Il profilo di comunità considera gli aspetti demografici, produttivi, urbanistici, dei trasporti, l’offerta dei
servizi educativi, dei servizi sanitari, sociosanitari e socioassistenziali, ecc. Analizza bisogni e risorse
presenti nell’ambito sociale; può sollecitare a delineare il profilo del futuro. La raccolta dati avviene
mediante dati istat, analisi dell’utenza dei servizi, analisi dei bisogni e delle risorse e potenzialità presenti
nella comunità. Gli attori in gioco comprendono: l’ufficio di piano, i professionisti dei servizi, i
rappresentanti delle organizzazioni del terzo settore, i gruppi (es. familiari), i cittadini. Gli strumenti che
possono favorire una lettura partecipata dei bisogni della comunità sono: incontri nel contesto territoriale,
riunioni dei tavoli tematici, camminata di quartiere, photovoice, world cafè, open space technology.

Originariamente ideati in Italia da Martini e Sequi, i profili di comunità sono stati integrati da Tomai,
Francescato e Girelli. La sequenza presentata segue un criterio logico:

· Profilo territoriale, mira a rilevare gli aspetti geografici e territoriali sia rispetto alla struttura fisica sia
riguardo alla rete di comunicazione
· Profilo demografico, analizza le informazioni sulla popolazione quali i dati generali sui residenti, divisi
per sesso, età, occupazione
· Profilo delle associazioni, concerne la rilevazione del numero e della tipologia delle associazioni presenti
nei diversi ambiti. Possono essere utilizzati criteri come la presenza, l’ubicazione, la facilità di accesso in
relazione alle esigenze della comunità
· Profilo delle attività produttive concerne i dati sulla presenza e sullo sviluppo dei diversi tipi di attività
presenti sul territorio
· Profilo dei servizi rileva la tipologia e il numero dei servizi presenti
· Profilo istituzionale raccoglie e analizza i dati relativi all’organizzazione politico amministrativa, degli
enti locali al decentramento statale
· Profilo psicosociale analizza la comunità come insieme di gruppi e le relazioni tra di essi
· Profilo storico e antropologico-culturale mira a raccogliere dati sulla storia della comunità
· Profilo del futuro è costituito dai dati relativi alle aspettative, timori, desideri, capacità di immaginazione
rispetto al futuro della comunità

Camminata di quartiere La camminata di quartiere è una tecnica di conoscenza del territorio che valorizza i
saperi non esperti (i saperi e le competenze di chi vive o lavora in un determinato quartiere).

Risponde ad alcuni requisiti:

· Deprofessionalizzazione (non sono solo i professionisti a dare forma al futuro quartiere)


· Decentralizzazione del processo decisionale
· Demistificazione (la pianificazione è un processo concreto)
· Democratizzazione (le persone che vivono o lavorano in un contesto sono coinvolte attivamente nella
pianificazione)

La camminata di quartiere avviene per piccoli gruppi, non più di una trentina di persone, formate da abitanti
della zona, che guidano i professionisti in un giro di perlustrazione dell’area prescelta in un determinato
giorno e a una determinata ora. Durante la camminata è opportuno che emergano domande, osservazioni,
criticità rispetto all’uso degli spazi. I professionisti ascoltano, pongono domande, propongono riflessioni
sulle potenzialità e i nodi critici dell’area che stanno osservando. La camminata si conclude in un luogo
prestabilito a cui consegue solitamente un rinfresco nel quale scambiare idee e riflessioni. È opportuno
rendere visibile il processo attraverso depliant informativi.

Photovoice è una tecnica che rientra nella metodologia della ricerca-azione partecipativa e si focalizza sul
potere evocativo di rappresentazione dei punti di vista di coloro che spesso non riescono a comunicare le loro
idee. Il carattere innovativo della tecnica so esplica su due piani: la ricerca (permettere la conoscenza della
realtà sociale com’è percepita è rappresentata dai partecipanti) e l’intervento (maggior consapevolezza e
senso di responsabilità). Alcuni riferimenti teorici sono l’empowerment sociale finalizzato allo sviluppo delle
competenze della comunità, gli approcci narrativi e autobiografici che pongono attenzione a punti di vista
differenti e permettono a chi racconta di attivare processi cognitivi ed emotivi rispetto all'immagine di sé e
della propria esperienza.

Fasi:

· La prima fase riguarda l’ingaggio dei partecipanti che avviene in relazione agli obiettivi. Può essere utile
dare priorità al target di persone che si intende coinvolgere oppure al tema che si intende affrontare
· La seconda fase concerne sia la concettualizzazione di un tema o un problema che interessi la comunità
da esplorare, sia la sensibilizzazione rispetto al metodo. Utili sono le domande che favoriscono processi
di riflessione nel gruppo
· Nella terza fase sarà opportuno stabilire un periodo di tempo durante il quale i partecipanti scatteranno le
foto e le selezioneranno
· La quarta fase prevede la presentazione delle immagini scelte da ogni partecipante, una didascalia scritta
od orale e la discussione in gruppo. Alcuni ricercatori svolgono anche delle interviste individuali. Questa
fase può esser ripetuta in relazione ai contenuti emersi
· L’ultima fase concerne una sintesi critica dei risultati sia in forma fotografica sia in forma verbale e
scritta e di immagini con conclusioni e proposte
World Cafè L’idea centrale è attuare conversazioni importanti in modo leggero, creativo e non
convenzionale, ragionando su problemi complessi in maniera concreta, divertente, produttiva. È una tecnica
che intende ricreare il clima dei caffè, luoghi in cui discutere in modo rilassato, sorseggiando una bevanda.
Essa mira a stimolare discussioni autogestite dai partecipanti, guidate da alcune domande all’interno di un
quadro di riferimento comune. Le tre parole chiave sono il contesto, la domanda e il processo.

· Contesto: tavoli con tovaglie di carta attorno ai quali si siedono i partecipanti


· Domanda: può esser proposta una sola domanda per stimolare la discussione e consentire ai partecipanti
di esplorare temi utili a trovare soluzioni concrete. La scelta delle domande è cruciale: esse devono essere
semplici, chiare, finalizzate a stimolare il dibattito
· Processo: la discussione avviene in tre o più turni successivi della durata massima di 30’. Le persone
sono invitate a scrivere idee, appunti, ecc sulla tovaglia. Quando le persone arrivano trovano ad
attenderle un facilitatore (padrone di casa) che ha il compito di stimolare la discussione e sintetizzarne i
contenuti. Al termine dei 30’ il padrone di casa rimane al tavolo mentre gli altri partecipanti
(ambasciatori di significato) si spostano negli altri tavoli. Chi si sposta porta con sé i temi della
discussione precedente. Il processo si conclude con un’assemblea plenaria

Open space technology è una tecnica di gestione di gruppi di discussione che consente di rendere fruttuoso
lo scambio su temi complessi (numero di partecipanti varia da 5 a 1000 persone e le sessioni possono variare
da 1 a 3 giorni). Rispetto al metodo, gli OST sono organizzati a partire da un tema concreto e contingente
proposto sotto forma di domanda rivolta «a tutti coloro che sono interessati». La partecipazione è volontaria.

La scansione delle fasi è molto precisa:

· Nella prima mezz’ora i partecipanti apprendono le regole per creare una propria conferenza. Chi intende
proporre un tema lo segnala e si assume la responsabilità di organizzare la discussione
· Scelto il tema ogni gruppo ha un’ora e 20’ di tempo per discutere
· La sessione termina con un gong: ogni gruppo chiude la discussione e redige una sintesi.
· In conclusione vi è un Incontro in plenaria

La regolazione delle attività è ispirata a quattro principi e una legge (Owen, 2008):

· Chi partecipa è la persona giusta


· Qualsiasi cosa accada è l’unica che poteva accadere
· Quando comincia, è il momento giusto
· Quando finisce, è finita
La legge dei due piedi prescrive a ogni partecipante di valutare il proprio apporto al confronto in atto. Se una
persona si trova a discutere di un argomento e ritiene di non poter essere utile o non interessata, è meglio che
si alzi e si sposti in un altro gruppo dove il suo contributo può essere più utile.

Animazione culturale-sociale È spesso attivata dai C.A.G. (centro di aggregazione giovanile), dai centri
sociali, dai laboratori di quartiere. L’animazione è intesa come pratica sociale finalizzata alla presa di
coscienza e allo sviluppo del potenziale represso. L’approccio pedagogico di Freire verso la liberazione dalle
oppressioni è considerato uno dei principali riferimenti per animatori, educatori ecc. La spinta verso la
riscoperta della comunità locale come ambito privilegiato per rivitalizzare i processi di socializzazione si
declina attraverso azioni e progetti che aiutano le persone a sviluppare un senso di appartenenza verso i
luoghi che abitano.

Laboratori di teatro In Italia, l’efficacia del teatro come forma di arte espressiva applicata in un contesto di
disagio sociale è stata confermata da sperimentazioni sul campo. Le attività teatrali comportano benefici
personali, culturali e sociali. Il lavoro artistico teatrale migliora la capacità di memorizzazione, l’autostima e
l’identità.

Facilitare, Mediare e Negoziare Lavorare con e nella comunità implica confrontarsi con interessi e dinamiche
di potere che a volte possono convergere o divergere.

· Facilitare secondo Schwarz La facilitazione è il processo in cui la persona neutrale, accettata da tutti i
membri del gruppo, fa diagnosi e interviene per migliorare il gruppo nella risoluzione dei problemi. Il
compito del facilitatore è quello di aiutare il gruppo ad aumentare la sua efficacia, migliorandone il
processo e la struttura. Il processo si riferisce al modo in cui il gruppo lavora insieme. La facilitazione è
connessa alle funzioni dei diversi tipi che possono attivarsi nella comunità. Maisonneuve individua tre
funzioni: di produzione relativa alle informazioni che il gruppo assume e produce per la risoluzione
problema; di facilitazione connessa sia alle relazioni sia al metodo di lavoro e all’assetto organizzativo;
di chiarificazione utile al gruppo per comprendere la propria evoluzione rispetto alle possibilità di
miglioramento. Chi conduce o coordina la discussione deve esercitarle tutte
· Mediare secondo Bonafè-Smith È quel processo con cui una terza persona neutrale tenta, attraverso uno
scambio tra le parti, di farle confrontare e risolvere conflitto che le oppone. Il mediatore deve essere
neutrale, autorevole e deve avere fiducia dalle parti. L’approccio multidimensionale sotteso implica il
concetto di complessità. È un termine che sta ad indicare un tipo di analisi basata sulla relazionalità e non
più sull’illusione di poter comprendere e definire oggetti semplici
· Negoziare A differenza della mediazione, l’interazione non prevede la presenza di un terzo neutrale nel
processo di ricerca di una soluzione. La negoziazione è l’interazione tra due o più parti finalizzata al
raggiungimento di un accordo mutualmente vantaggioso oppure può essere definita come la decisione in
cui più parti cercano di comporre interessi opposti. Vi sono due tipi di negoziazione: quella distributiva
(dividere la posta in gioco) e quella integrativa (più adatta ai processi partecipativi tipici del lavoro di
comunità) che si divide a sua volta in duro e morbido

Sono state identificate quattro parole chiare per spiegare il metodo di negoziazione di principi:

· Persone; è strategico scindere le persone dal problema


· Interessi; è opportuno concentrarsi sugli interessi di ognuno
· Opzioni; è necessario garantire una gamma di possibilità
· Criteri; stabilire criteri oggettivi su cui basare la negoziazione.
Il risultato finale sarà una soluzione nuova che risponde a interessi di entrambe le parti, non un
compromesso.

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