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Le politiche di welfare

1. TEORIE DEL WELFARE


Contesto storico Il welfare state è un’invenzione delle società a economia capitalistica. Il suo atto di nascita
fu siglato nel 1881 dallo stato tedesco, il Reich, mediante la costruzione del sistema obbligatorio di sicurezza
sociale. Il welfare state costituì una novità rivoluzionaria nello scenario delle società industriali di fine ‘800.
Se da un lato, protagonista fu la crescita e la diffusione dell’economia capitalistica, dall’altro emersero nuovi
bisogni sociali, conseguenti alla formazione di un’ampia classe operaia soggetta a difficili condizioni di
lavoro. La solidarietà comunitaria e la beneficienza privata non fu più sufficiente; la creazione di nuove
misure sociali – inizialmente assicurazioni sociali – promosse dallo Stato, costituì una risposta ai nuovi
bisogni creati dallo sviluppo capitalistico, ma anche un modo per costruire un consenso sociale intorno alle
classi dirigenti. Lo stato divenne intervista in maniera economica (reclamando risorse economiche sempre
più ingenti, attraverso la tassazione, per poter finanziare i propri programmi sociali).
Il welfare state nacque storicamente anche come l’esito delle due grandi rivoluzioni che caratterizzarono il
sorgere delle società moderna: la nascita delle democrazie nazionali sull’onda della rivoluzione francese, e il
forte sviluppo del capitalismo a partire dalla rivoluzione industriale. Gli sviluppi dei decenni successivi
confermarono e rafforzarono il ruolo del welfare state, che divenne un elemento irrinunciabile delle società
dell’Europa occidentale. Durante la seconda guerra mondiale, Lord Beveridge formulò i principi di base di
un moderno stato sociale capace di fornire sicurezza sociale ai cittadini. Esso comprendeva: servizio
sanitario obbligatorio e universalistico, misura di reddito minimo in grado di garantire la sopravvivenza
indipendentemente dall’occupazione lavorativa, sistema di assicurazioni sociali (pensione, invalidità,
disoccupazione e malattia) completo e accessibile a tutti i cittadini.
Un nuovo evento segnò un brusco cambiamento: nel 1979 Margaret Thatcher, leader del partito
conservatore inglese, salì al governo. Il suo programma era fondato sull’idea di smantellare l’intervento dello
stato in campo economico e sociale allo scopo di promuovere i principi della libera concorrenza e
dell’individualismo morale (si era troppo dipendenti dallo stato). Il Thatcharismo sancì una tendenza
evidente da alcuni anni, cioè che la fase di espansione del welfare state stesse esaurendo, e che a essa sarebbe
subentrata una fase controversa, in cui si sarebbero intrecciati due movimenti opposti: uno verso il ritiro
dello stato sociale, e l’altro verso una ristrutturazione del welfare state che lo rendesse di nuovo adeguato alla
mutata realtà sociale ed economica.
Allo scioglimento dell’intreccio tra welfare e capitalismo corrispose anche una mutazione profonda dei
bisogni sociali diffusi nelle popolazioni dei paesi europei. La disoccupazione si radicò come un fenomeno
cronico in tutti i sistemi europei, portando con sé un aumento della povertà e dell’esclusione sociale.
L’emancipazione femminile sconvolse l’organizzazione sociale della vita quotidiana; l’equilibrio
demografico delle società si ruppe in seguito all’invecchiamento della popolazione e allo sbilanciamento dei
rapporti tra le generazioni.
La crisi del welfare state innescata negli anni ’80 fu originata dal dilemma fondamentale tra l’esigenza di
ridurre il costo pubblico dei programmi sociali e quella opposta di offrire protezione contro l’emergere di
nuovi rischi sociali. Sino agli anni ’70, la tensione tra aumento della spesa sociale pubblica e aumento dei
rischi sociali fu mantenuta in equilibrio grazie alla sostenuta crescita economica del dopoguerra, che
contribuì ad aumentare le risorse pubbliche disponibili per lo sviluppo di politiche sociali sempre più
generose ed estensive. L’esaurirsi di questa fase di crescita fece entrare gli stati europei in una nuova fase
economica, dove necessario era un contenimento della spesa. Più avanti nel tempo, lungo il corso degli anni
’90 e del primo decennio del nuovo secolo, l’esigenza della contrazione della spesa pubblica restò pressante,
a causa del basso livello di crescita economica e dell’elevata pressione fiscale. Il welfare state evitò di
entrare in una spirale di fortissima riduzione, almeno sino alla grande crisi del 2007-2008.
La storia sociale e politica dell’Europa negli ultimi vent’anni è caratterizzata da numerosi tentativi di
ristrutturare il welfare state. L’evolversi del welfare aveva determinato una forte istituzionalizzazione delle
politiche sociali, che le ha rese non facilmente modificabili. Nonostante tutto, il welfare state rimane ad oggi
un elemento centrale nell’organizzazione degli stati contemporanei.
Che cos’è il welfare state L’espressione identifica nel benessere dei cittadini la finalità costitutiva del
welfare state: non si limita a proteggere i cittadini dai rischi più gravi, ma intende promuoverne le migliori
condizioni di vita possibili. Il welfare state viene identificato da Briggs nell’intervento dello stato in materia
economica allo scopo di perseguire tre finalità sociali fondamentali: la lotta alla povertà; la protezione contri
i rischi sociali e le loro conseguenze negative; la promozione delle pari opportunità e del benessere
individuale e sociale.
Per raggiungere questi obiettivi, il welfare state interviene nei processi di distribuzione delle ricompense
sociali secondo modalità differenti, rispettivamente in via diretta e in via indiretta. In via diretta attraverso
l’erogazione di prestazioni di welfare (dall’erogazione di pensioni a quella di sussidi monetari di vario tipo) e
in via indiretta attraverso agevolazioni fiscali, forme di regolazione dell’economia e dei rapporti di lavoro,
sostegno alle capacità di autoaiuto dei cittadini e delle famiglie.
Il welfare state viene assicurato ai cittadini attraverso l’intervento dello stato, il funzionamento del mercato e
l’organizzazione delle famiglie. Tra gli attori presenti in questo sistema vanno considerate anche le imprese
private e le reti informali fondate su legami familiari. Le imprese private contano nel sistema di welfare in
quanto erogatrici specializzate di servizi privati di welfare. Le reti familiari hanno rivestito un ruolo
fondamentale all’interno del welfare state in quanto il funzionamento di quest’ultimo presuppone
implicitamente il lavoro non retribuito delle donne nella fornitura di servizi di cura specifici. A cominciare
dagli anni ’90 a questi tre meccanismi fondamentali si è andata aggiungendo un’attenzione crescente verso
una quarta componente, che viene a completare quello che è stato definito il “ diamante del welfare”: i
servizi di welfare prodotti nell’ambito del terzo settore.

Il welfare è un complesso sistema istituzionale che lega stato, mercato, famiglie e società. Costituisce un
insieme di politiche e di istituzioni pubbliche – orientate all’assistenza ai deboli, alla copertura dei rischi
sociali e alla riduzione delle disuguaglianze – che persegue tali finalità attraverso regolazione del mercato e
delle famiglie, redistribuzione di rilevanti risorse finanziare ai cittadini e produzione diretta di servizi di
welfare.

Evoluzione del welfare state I programmi di welfare nacquero per dare risposta alla nuova questione sociale
indotta dall’industrializzazione. Secondo Baldwin la protezione fornita dal welfare costituisce un
meccanismo istituzionale attraverso cui diversi gruppi sociali trovano conveniente mettere in comune alcune
risorse allo scopo di assicurarsi contro i rischi cui sono sottoposti. Il welfare divenne un sistema di solidarietà
fondato sulla condivisione dei rischi – risk pooling – dove tale condivisione non riguardò più cerchie limitate,
ma si estense sino a comprendere cerchie sociali più ampie. I rischi vennero così socializzati.
Baldwin considera la situazione attuariale (cioè che ha relazione con le assicurazioni sulla vita) dei diversi
gruppi sociali per comprendere quale sia la convenienza di ciascun gruppo a promuovere la costruzione di un
sistema nazionale di protezione contro i rischi. La situazione attuariale di un gruppo dipende da due aspetti:

 L’esposizione ai rischi, risk incidence


 La capacità di self-reliance, ovvero il grado di autosufficienza nel fronteggiare tali rischi

Storicamente il ruolo di traino nelle domande di welfare fu giocato dalla classe operaia; tuttavia è importante
considerare che anche frazioni del ceto medio furono favorevoli al welfare allo scopo di ridurre il loro grado
di incertezza. La redistribuzione dei costi dell’insicurezza è avvenuta primariamente in senso orizzontale
(redistribuendo i costi lungo il corso della vita o tra categorie di rischio trasversali rispetto alle classi sociali:
dai malati ai sani, dagli adulti ai giovani, dai disabili agli abili) e non in senso verticale (tra classi sociali o
gruppi di reddito). In ogni caso, l’equilibrio non fu destinato a restare lo stesso. Ciò dipese anche dal fatto
che i profili di rischio dei gruppi sociali cambiarono, così come mutò la capacità dei gruppi sociali di
fronteggiare l’insicurezza.
Il welfare state, si trova proprio oggi ad affrontare un nuovo problema di carattere attuariale, derivante
dall’esistenza di conflitti tra diverse categorie a rischio. Inoltre, i sistemi tradizionali di welfare hanno a
lungo presupposto una divisione sessuata dei compiti, caratteristica delle famiglie male breadwinner, ovvero
fondate sul lavoro retribuito dell’uomo e sul lavoro non retribuito della donna. Questo modello si è rilevato
nel tempo assai fragile, via via che le donne hanno acquisito un ruolo occupazionale in misura più diffusa. Di
qui l’emergere di ulteriori nuovi rischi sociali, connessi alle difficoltà di conciliare lavoro retribuito e cura
dei figli. Il passaggio da un sistema di welfare centrato sui vecchi rischi sociali a uno capace di proteggere
anche i nuovi richiede la riduzione delle disparità di genere sostenendo la transizione delle famiglie dal
“male breadwinner” al “dual adult worker”.

Il welfare state svolge un ruolo fondamentale anche per ciò che concerne lo sviluppo dell’economia di
mercato capitalistica. Il concetto di welfare capitalism (1° approccio) oppure welfare keynesiano è stato
utilizzato per indicare che lo sviluppo del welfare ha avuto profonde implicazioni per l’assetto complessivo
dell’economia, alterandone le dinamiche. L’idea di Keynes era che l’instabilità ricorrente dell’economia
dovesse essere controllata attraverso l’intervento dello Stato. L’intervento pubblico non era finalizzato alla
riduzione delle disuguaglianze, ma al rendere più efficiente e stabile il sistema economico fondato su principi
capitalistici.
Wilensky riprese le teorie keynesiane, pervenendo alla conclusione che la crescita economica e le sue
conseguenze fossero le cause fondamentali dell’emergere del welfare state. La funzione economica di
quest’ultimo è quella di stabilizzare l’economia di mercato, provvedendo alla fornitura di quei beni pubblici
che il mercato non è in grado di fornire autonomamente. Sono quindi i fallimenti del mercato a rendere il
welfare state una necessità funzionale dell’economia capitalistica.
All’idea di Wilensky si sono contrapposte due teorie fortemente contrastanti tra loro:
1. La prima teoria è quella neoliberista. Alla base di tale critica sta l’idea che l’interventismo pubblico
limiti lo sviluppo del capitalismo. Il welfare state è cresciuto eccessivamente, sottraendo risorse
finanziare alle imprese, investendole in attività a scarsa produttività. Welfare e capitalismo sono
disfunzionali: il ritiro del primo costituisce la condizione necessaria per la crescita del secondo. Secondo
la teoria neoliberale, le politiche di sostegno della domanda, che puntano sull’aumento dei salari
industriali per incentivare il consumo, hanno minato la competitività del sistema economico, esponendo
le società occidentali alla delocalizzazione delle loro attività manifatturiere. Ciò ha causato una riduzione
di occupazione manufatturiera, esponendo i paesi ad una elevata disoccupazione. Inoltre, l’aumento della
spesa pubblica, come “terapia” nelle fasi di stagnazione economica, ha generato centri di spesa
impossibili da ridurre. La soluzione alla crisi fiscale consisterebbe, per le teorie neoliberali, nella
riduzione della spesa pubblica e nel tentativo di ricondurla a essere un elemento variabile del sistema
economico.
2. La seconda teoria è quella neomarxista. Secondo questa interpretazione lo stato espleta due funzioni nei
confronti del sistema capitalistico: l’accumulazione e la legittimazione. Da un lato, lo stato mantiene
condizioni favorevoli all’accumulazione di capitale privato, attraverso investimenti pubblici e forme di
assicurazione sociale che riducono il costo di riproduzione della forza lavoro. Dall’altro, garantisce il
consenso attraverso la spesa sociale, volta a garantire un minimo vitale ai gruppi sociali marginali e
potenzialmente conflittuali. Sono soprattutto le spese sociali funzionali alla legittimazione che entrano in
collisione con le esigenze di accumulazione del capitale, perché assorbono sempre più risorse private
attraverso il sistema di tassazione, per interventi che non producono alcun vantaggio al processo di
accumulazione. Il welfare state, benché nasca per garantire la mercificazione della forza lavoro, finisce –
a causa dell’espansione della spesa sociale – ad agire come elemento di demercificazione. Non solo
assorbe una parte rilevante delle risorse prodotte dal mercato, ma le utilizza anche per rispondere ai
bisogni sociali fondamentali della popolazione. Ciò finisce per indurre la crisi fiscale dello stato e una
generalizzata crisi di legittimazione, connessa all’aumento delle richieste di supporto e di tutela sociale.
L’esito è una situazione perdurante di crisis management.
Entrambi gli approcci sono stati criticati per il loro determinismo economico. Dietro imperativi funzionali e
assetti di potere esistono soggetti sociali e politici che hanno sviluppato strategie specifiche di altra matrice.
Fenomeni come l’espansione del lavoro precario e la perdurante presenza di disoccupazione o l’irrigidimento
del mercato del lavoro, caratteristici della fase più recente di evoluzione del welfare, sembrano rompere
definitivamente la sinergia tra welfare e sviluppo capitalistico. I programmi di welfare dovrebbero assumere i
caratteri propri di un investimento sociale, ovvero di spese sociali destinate a creare, soprattutto attraverso
investimenti nel capitale umano, nuove occupazioni di qualità.
Il passaggio da sudditi a cittadini determinò – insieme allo sviluppo capitalistico – la spinta fondamentale a
far sorgere e sviluppare lo stato sociale. Attraverso la cittadinanza moderna hanno ottenuto riconoscimento
giuridico e costituzionale tre tipi diversi di diritti:
 Diritti civili, concernenti la sfera della libertà e dell’inviolabilità individuale, che consentono il pieno
dispiegarsi dell’economia di mercato;
 Diritti politici, che sono a fondamento della partecipazione democratica e riguardano i processi elettorali
e la libertà di azione delle organizzazioni sindacali e politiche;
 Diritti sociali, che riguardano la tutela sociale dei bisogni fondamentali delle persone realizzata
attraverso il welfare state;
L’approccio fondato sull’influenza delle coalizioni di classe si differenzia rispetto a quello fondato sulla
nozione di welfare capitalism su due aspetti. In primo luogo, esso parte dall’idea di “politics matters”, ovvero
che il welfare state sia più l’esito dell’ascesa dello stato democratico che la semplice traslazione istituzionale
del gioco economico degli interessi. In secondo luogo, le teorie politiche hanno adottato una prospettiva
conflittuale: al centro delle decisioni inerenti le politiche sociali c’è sia il conflitto di interessi tra classi
sociali, sia quello tra politica ed economia. L’approccio delle coalizioni di classe (2° approccio) è stato
criticato per aver sopravvalutato il ruolo giocato dai partiti dei lavoratori nell’espansione del welfare state.
Innanzitutto il Power Resource Model – modello che identifica nella crescita di influenza politica dei partiti
dei lavoratori il fattore decisivo per spiegare la crescita del welfare state nei paesi occidentali – ha assunto
che il welfare state fosse l’esito di un processo progressivo che ha condotto alla codifica di diritti sociali e
universalistici; l’evoluzione di molti sistemi nazionali di welfare non è invece stata così coerente: in molti
paesi europei, l’organizzazione dei programmi di welfare non è stata fondata su principi universalistici,
quanto sulla base di una differenziazione per categorie sociali e/o professionali. Successivamente, l’evidenza
empirica ha mostrato che in molti paesi il welfare state sia stato favorito più da regimi autoritari oppure da
partiti moderati, che non dai partiti socialisti o socialdemocratici.
Esping-Andersen si preoccupa di affrontare le critiche mosse all’approccio delle coalizioni di classe. Egli
sostiene che non sia stata tanto la forza politica ed elettorale del movimento operaio a spiegare la crescita del
welfare state, quanto la sua capacità di tessere coalizioni politiche più ampie, capaci di coinvolgere altre
forze politiche. Andersen effettua, inoltre, una revisione più profonda dell’idea di welfare capitalism.
Secondo il sociologo, il welfare state è ben più di una semplice erogazione di denaro pubblico. Per Andersen
la demercificazione identifica la quota di benessere degli individui, che non dipende dalla posizione occupata
nel mercato del lavoro, ma dal loro status di cittadini. Nella sua analisi, Andersen considera diversi aspetti: i
requisiti che rendono possibile ai cittadini l’accesso ai benefici (regole di eleggibilità); il grado di generosità
dei benefici in rapporto al salario mediamente percepito (tasso di sostituzione); l’ampiezza dei rischi sociali
da cui il welfare offre protezione (estensione dei benefici).
Insieme alle dinamiche sociali, economiche e politiche, altri fattori sono intervenuti nella dinamica del
welfare. Da considerare è la dinamica istituzionale (3° approccio). Il welfare state implica una
trasformazione profonda dello stato, della sua struttura, delle sue funzioni, della sua legittimità, infatti, il
modello di welfare ha potuto prendere avvio soltanto una volta costituita una moderna burocrazia pubblica e
un sistema politico-istituzionale stabilizzato. Lo stato moderno ha seguito alcune tappe fondamentali che
hanno reso possibile la costruzione dei moderni sistemi nazionali e statuali di welfare. Queste hanno visto
susseguirsi: la formazione dello stato militare e fiscale con nascita della burocrazia fiscale annessa; la
costruzione dello stato nazionale; la diffusione della partecipazione democratica e la redistribuzione
pubblica, ovvero l’istituzione della cittadinanza sociale.
Una volta stabilito, il welfare state, si sviluppa rispettando la sua path dependency, ovvero in modo coerente
con l’assetto, le forme di legittimazione e di realizzazione preesistenti. L’approccio istituzionale ha assunto,
a partire dall’importanza attribuita alla path dependency, una grande importanza nella discussione attuale
sulla crisi e le trasformazioni del welfare. La risposta fornita dai teorici istituzionalisti si fonda sull’inerzia
strutturale, ovvero la tendenza delle istituzioni ad autoriprodursi attraverso adattamenti continui, la causa
principale di resistenza al cambiamento. La path dependency riduce le possibilità di cambiamento agendo
così: una volta prese le decisioni iniziali riguardo un nuovo programma sociale, si stabilisce un network
composto dagli attori impegnati nella sua programmazione, che promuove e difende il nuovo programma; i
costi iniziali creano forti aspettative verso il raggiungimento di specifici risultati, prolungando nel tempo
l’implementazione dei programmi stessi. Nell’insieme, questi fatti agiscono come meccanismi di auto-
rinforzo del sentiero istituzionale intrapreso, aumentando i costi di un eventuale cambiamento di rotta. La
path dependency non blocca tanto il cambiamento, quanto lo condanna a realizzarsi per via incrementale e
solo raramente attraverso la distruzione degli assetti precedenti.
2. IL MODELLO DI WELFARE NELL’EPOCA D’ORO
Le questioni fondamentali da considerare per valutare la consistenza complessiva del welfare state sono:
quanto (ammontare della spesa sociale); chi (beneficiari del welfare), che cosa (generosità dei benefici resi
disponibili dai programmi di welfare). La misura più semplice per verificare quale sia stata l’evoluzione nel
tempo del welfare state è la spesa pubblica investita dallo stato in programmi sociali. Gli analisti rapportano
l’importo complessivo della spesa sociale al PIL, fornendo una misura che illustra il peso del welfare in
rapporto alla performance complessiva del sistema economico.
Da fine 800 sino ad oggi, la dinamica espansiva della spesa pubblica non ha mai conosciuto inversioni di
rotta. L’impennata più consistente della spesa avvenne durante il trentennio successivo alla fine della
seconda guerra mondiale (trenta gloriosi). In questa fase storica la spesa pubblica crebbe a una velocità
ancora superiore, arrivando ad assorbire una quota superiore al 40% della ricchezza nazionale prodotta in un
anno. La crescita della spesa è stata molto contenuta negli anni ’70, per poi assumere una rotta decisamente
espansiva nei decenni successivi, sino allo scoppio della grande crisi del 2007-2008.
Negli anni trenta e molto più massicciamente nel secondo dopoguerra fu la spesa pensionistica ad essere la
più rilevante, assorbendo una quota crescente del PIL. Le cause furono molteplici: l’aumento della
popolazione anziana per effetto dei miglioramenti in campo igienico e sanitario; l’impegno dei governi a
combattere la povertà costruendo grandi sistemi nazionali di assicurazione contro il rischio della vecchiaia.
Anche i sistemi di istruzione pubblica conobbero nello stesso periodo un grande aumento della copertura.
L’unico programma che ebbe uno sviluppo più limitato fu quello degli ammortizzatori sociali a protezione
della disoccupazione, che in molti paesi restarono limitati a specifiche categorie di lavoratori. Nel complesso
il welfare si trasformò da sistema di solidarietà limitato a una cerchia molto ristretta di lavoratori industriali a
sistema nazionale di solidarietà in grado di garantire la quasi totalità della popolazione attiva. La spesa per il
welfare assorbe attualmente circa 2/3 della spesa pubblica.

Per quanto riguarda l’Europa occidentale, il modello sociale europeo – modello di welfare consolidato – si è
potuto affermare grazie ad una serie di processi. Innanzitutto, tutti i principali paesi furono caratterizzati da
processi di industrializzazione, dove fu possibile stabilire un regime prolungato di piena occupazione quasi
totale. Il sistema sociale fu caratterizzato da una chiara distinzione tra le classi sociali, ma con una precisa
tendenza alla riduzione delle disuguaglianze. L’organizzazione sociale fu caratterizzata da una rigida
divisione del lavoro per genere, con la grande maggioranza degli ultimi adulti impegnati in attività lavorative
retribuite e la grande maggioranza delle donne adulte gravate di compiti relativi alle responsabilità familiari.

L’insieme di queste caratteristiche costituì quello che Crouch ha definito il modello di compromesso sociale
di mezzo secolo: un assetto organico di relazioni sociali e politiche, di assetti economici e organizzativi, che
diede stabilità alle società occidentali all’epoca dei trenta gloriosi, per poi entrare in una fase di tensione e di
progressiva instabilità a cominciare dagli anni ’70. Il compromesso sociale fu contraddistinto dal tentativo di
equilibrare gli aspri conflitti sociali tra lavoratori e datori di lavoro. Da un lato, i rapporti di lavoro furono
regolati attraverso norme e accordi tra le parti sociali finalizzati a tutelare la continuità del posto di lavoro
(introducendo vincoli alla libertà di licenziamento) e a garantire una migliore qualità delle condizioni di
lavoro all’interno delle fabbriche. Dall’altro lato, i conflitti industriali furono moderati attraverso la
diffusione di accordi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali, i rappresentanti degli imprenditori e i
governi. Il regime di occupazione che caratterizzò il compromesso di mezzo secolo fu raggiunto solo per la
manodopera maschile; così come una parte rilevante dei benefici furono garantiti in misura diffusa e
generosa soprattutto alla popolazione maschile.
Il modello consolidato di welfare state dominante al termine dei trenta gloriosi si fondò su un equilibrio
stabile tra un modello tradizionale di famiglia ancora imperniato su una rigida divisione tra uomini e donne,
e una struttura economica caratterizzata da una rigida divisione di classe e dalla ricerca della maggiore
efficienza possibile.
Sono tre i rischi sociali attorno cui si sono costruiti i sistemi di protezione sociale tipici del modello
consolidato di welfare state: la vecchiaia (e l’invalidità), la disoccupazione e la malattia.
Sistema pensionistico Gli obiettivi sono quelli di assicurare contro i rischi connessi alla longevità,
permettendo il mantenimento di un certo livello di benessere durante la fase della quiescenza e contrastare il
rischio di povertà dell’anziano. Queste funzioni non sono espletare da tutti i sistemi pensionistici allo stesso
modo. Ogni sistema pensionistico di tutela della vecchiaia deve scegliere come regolare una serie di aspetti
fondamentali:
 La logica alla base della concessione della pensione, quanto cioè essa debba avere una natura
previdenziale o una natura assistenziale
 Le modalità di finanziamento del sistema, distinguendo tra un finanziamento proveniente dalla fiscalità
generale e uno ottenuto tramite i contributi sociali versati dai lavoratori e dalle aziende che li assumono
 Il metodo di calcolo dell’importo della pensione, distinguendo fra pensioni a somma fissa, calcolate in
base al criterio retributivo, calcolate in base al criterio contributivo
 Il numero di anni necessari per avere accesso alle prestazioni pensionistiche, distinguendo fra sistemi in
cui occorre arrivare a una soglia in termini di anni anagrafici o una soglia in termini di versamenti di
contributi
 Il grado di frammentazione o integrazione fra categorie e gruppi occupazionali, distinguendo fra modelli
altamente comprensivi o fortemente frammentati
 La presenza e il ruolo di uno o più pilastri pensionistici, distinguendo fra sistemi affidati a schemi
pubblici obbligatori (primo pilastro) e sistemi in cui la protezione della vecchiaia è affidata a un mix fra
schemi pubblici di base e schemi privati, distinti a loro volta tra un secondo (rivolta cioè solo ai
lavoratori di un determinato settore economico) e un terzo pilastro (pensioni acquistate volontariamente
presso istituzioni finanziarie)
Prima del secondo dopoguerra erano presenti sostanzialmente due modelli di sistema pensionistico. Il
modello bismarckiano, basato sul solo pilastro pubblico, finanziato tramite contributi e costruito attorno alla
funzione di redistribuzione forzosa dei consumi durante il ciclo di vita piuttosto che a quella di lotta alla
povertà; il modello beveridgiano, la funzione primaria del sistema pensionistico era alleviare i rischi di
povertà in età anziana, tramite una pensione minima pubblica dall’importo fisso, finanziata tramite la
fiscalità generale.
I modelli pensionistici nell’epoca d’oro vengono invece classificati in: modello a sistema monopilastro,
basati su schemi assicurativi pubblici, obbligatori, inclusivi, generosi, gestiti a ripartizione e con prestazioni
collegate alle retribuzioni. Dentro questo primo raggruppamento confluirono Germania, Francia, Italia e
Spagna (precedentemente associati al modello bismarckiano) e i paesi scandinavi (con l’eccezione della
Danimarca, precedentemente associati al modello beveridgiano); modello a sistema multipilastro, legati al
precedente approccio beveridgiano, prevedeva una protezione sociale minima universalistica tramite gli
schemi pubblici. Dentro questo secondo raggruppamento confluirono paesi anglosassoni, Danimarca e Paesi
Bassi
Politiche del lavoro Anche i sistemi di protezione contro i rischi di disoccupazione possono essere
organizzati seguendo logiche differenti. Le principali dimensioni attorno cui tali sistemi possono essere
classificali sono:
 La volontà o l’obbligatorietà per il lavoratore dell’iscrizione a un’assicurazione
 Il grado di frammentazione o integrazione fra categorie e gruppi occupazionali, distinguendo fra modelli
altamente comprensivi e modelli fortemente frammentati
 I requisiti per poter accedere ai benefici delle prestazioni assicurative, distinguendo i vari sistemi sulla
base dei requisiti contributivi richiesti o dell’anzianità assicurativa
 Il grado di generosità delle prestazioni offerte dal pilastro assicurativo, legato sia alle modalità di calcolo
dell’importo delle stesse, sia della temporale durata del beneficio
 La presenza o meno di schemi di integrazione del salario nel caso di sospensioni/riduzioni delle attività
lavorative per via di crisi aziendali congiunturali o del settore economico
 L’articolazione della protezione su uno o più livelli, distinguendo fra sistemi che si basano su un solo
pilastro assicurativo e sistemi che affiancano al pilastro assicurativo anche uno assistenziale
I programmi assicurativi in Europa potrebbero essere così classificati: assicurazioni volontarie sussidiate
dallo stato (prestazioni a somma fissa di limitata entità e accesso al beneficiario iscritto), assicurazioni
obbligatorie comprensive (prestazioni a somma fissa) e assicurazioni obbligatorie corporative (indennità
legata ai redditi pregressi, differenza tra lavoratori in base alla loro posizione nel mercato del lavoro).
Politiche sanitarie Nei sistemi sanitari i paesi possono adottare diverse opzioni rispetto a una serie di scelte:
 Il meccanismo di finanziamento, distinguendo fra premi assicurativi, contributi o prelievo fiscale
 Il soggetto gestore dei fondi ed erogatore di prestazioni, distinguendo fra modelli basati su mutue
assicurative, assicurazioni private e stato
 Il grado di ricorso a fornitori privati di prestazioni, distinguendo fra sistemi in cui in prevalenza vi sono
erogatori pubblici piuttosto che erogatori privati
 Il grado di centralizzazione o decentramento del sistema, distinguendo fra sistemi in cui le decisioni per
l’allocazione delle risorse vengono concentrare a livello nazionale o delegate agli attori locali
 Il principio in base al quale una persona è coperta dai rischi relativi alla salute, distinguendo fra principi
basati sulla copertura volontaria tramite il mercato (pagando cioè un’assicurazione), sulla copertura
obbligatoria tramite il contratto di lavoro o sulla cittadinanza
Tali criteri tendono a intrecciarsi fra loro e finiscono per configurare dei modelli differenziati di sistema
sanitario: l’assicurazione privata di malattia (basato su copertura volontaria grazia al mercato), il sistema
mutualistico (o assicurazione sanitaria obbligatoria, si chiede a lavoratori e imprese di assicurarsi prevedendo
contributi che questi soggetti versano a casse mutue, le quali rimborsano prestazioni e servizi offerti) e il
servizio sanitario nazionale (SNN, basato sul principio di cittadinanza e finanziato dalla fiscalità generale).
Sistema di istruzione pubblica Occorre prendere in considerazione una serie di caratteristiche di tali sistemi
per distinguere i vari paesi:
 Il livello complessivo di investimento pubblico nel campo dell’istruzione
 Il ruolo attribuito alla formazione tecnico-professionale rispetto a quella generalista
 Il ruolo delle aziende nel sistema scolastico in relazione ai percorsi di transizione scuola-lavoro
 Il ruolo dello stato e degli attori privati nel finanziamento, nell’amministrazione e nell’offerta di
istruzione
 La presenza di forme di segregazione nei percorsi di studi, ovvero la forte differenziazione dopo il primo
ciclo di studi fra curriculum più di tipo accademico-liceale rispetto a quelli di natura professionalizzante
A partire da queste dimensioni si possono distinguere tre macro-profili: paesi dell’Europa
centrosettentrionale (modello scandinavo, ottica di intervento volta a fornire chance di istruzione in maniera
ugualitaria ai giovani; modello continentale-francofono, livello di spesa pubblica e tasso di accesso
all’istruzione più ridotto rispetto al modello scandinavo, ma con gli stessi presupposti; modello continentale-
germanico, forte coinvolgimento delle aziende nei percorsi professionalizzanti); paesi dell’Europa
mediterranea (Italia, caratterizzato dal ritardo con cui le generazioni nate a cavallo nel primo dopoguerra
avevano accesso alla scuola secondaria di secondo livello e livello medio di spesa pubblica); paesi
anglosassoni (si dava spazio limitato alla formazione tecnico-professionale, basandosi maggiormente sulla
produzione di competenze di tipo accademico, livello intermedio di spesa pubblica).
Regimi di welfare Andersen utilizza il concetto di regime volendo mettere a fuoco l’interazione delle
politiche sociali pubbliche con i meccanismi di regolazione del mercato e della famiglia. Egli propone una
classificazione dei sistemi di welfare a partire da quali esiti sono stati prodotti rispetto alle due dimensioni da
lui considerate fondamentali:

 Grado di demercificazione, ovvero la capacità dei sistemi di welfare di sottrarre un individuo dalla
dipendenza dalla sua collocazione nel mercato del lavoro per soddisfare le sue necessità essenziali
 Grado di destratificazione, ovvero la misura in cui l’intervento del welfare state limita l’impatto che le
differenze di classe sociale possono avere nel soddisfacimento dei bisogni
A partire da questi due concetti egli individua 3 differenti regimi di welfare:

Regime Liberale (Stati Uniti e Regno Unito) è minore è il grado sia di demercificazione sia di
destratificazione. Lo stato interviene limitatamente nel welfare e concentra i suoi interventi in maniera
selettiva su coloro che sono maggiormente in difficoltà, mentre il mercato viene visto come fonte primaria
per rispondere ai bisogni degli individui. Dentro tale regime si configurano dei veri e propri sistemi di
welfare separati fra persone di status socioeconomico differente

Regime Conservatore-Corporativo (Germania e Francia, secondo Andersen anche Italia) mostra un grado
medio di demercificazione, mantenendo un basso grado di destratificazione. Lo stato interviene tramite
schemi assicurativi obbligatori che mettono parzialmente a riparo i lavoratori dai principali rischi sociali.
Tali schemi assicurativi pubblici sono collegati alla posizione occupazionale: ne deriva che il sistema tende a
mantenere invariate le differenze fra lavoratori e famiglie appartenenti alle varie classi sociali

Regime Socialdemocratico (paesi scandinavi) intende assicurare un grado di demercificazione e di


destratificazione alto, basandosi su programmi di tipo universalistico che hanno come riferimento il
cittadino/residente e non la persona a basso reddito, né il lavoratore come nei regimi precedenti
Nel tempo si sono sviluppati vari filoni critici di integrazione o di revisione del modello dei tre regimi, tra
cui:
 Critica femminista rispetto al ruolo della famiglia nei regimi di welfare. Tale critica ha messo in luce
come l’analisi di Andersen si concentrasse sul nesso fra mercato e stato, trascurando il ruolo e i compiti
attributi alla famiglia. È stata introdotta una terza dimensione, il grado di defamilizzazione, ovvero la
capacità di attenuare la dipendenza dalla famiglia, consentendo agli individui di disporre di risorse e
opportunità a prescindere dalla solidarietà e dagli obblighi familiari e parentali
 Proposte di integrazione e di revisione dei regimi, considerando con più attenzione il welfare dei servizi.
Tale critica ha messo in luce come l’analisi di Andersen abbia dedicato meno attenzione al fatto che
buona parte dei rischi e dei bisogni venga coperta tramite servizi: dall’istruzione alla sanita ai servizi alla
persona
 Proposte di integrazione e di rivisitazione sul numero e sulla composizione dei regimi. Dentro questo
filone si collocano gli studi di Ferrara sull’esistenza di una quarta Europa Sociale, comprendente Italia,
Spagna, Portogallo e Grecia. Ferrera ha argomentato come i paesi sudeuropei presentino una serie di
specificità: modello di intervento pubblico misto, che si basa su programmi assicurativi legati alla
posizione occupazionale in campo pensionistico e sistemi di tipo universalistico in sanità; scarso
sviluppo delle politiche assistenziali e di supporto contro il rischio di povertà; forte dualismo, cioè
un’accentuata differenziazione nell’accesso al sistema di welfare pubblico sulla base della collocazione
nel mercato del lavoro, con figure più tutelate dalle politiche sociali da un lato e dall’altro figure meno
tutelate; elevato particolarismo, dai tratti clientelari, legato a come la concessione di benefici del welfare
state sia stata utilizzata dai partiti politici a fini di costruzione del consenso politico e di micro-scambio
con diverse categorie sociali; forte familismo o basso grado di defamilizzazione, per cui implicitamente
molti compiti sono affidati alle famiglie. Secondo i termini di Andersen, il regime sudeuropeo si
caratterizzerebbe, oltre che per un basso grado di defamilizzazione, anche per una demercificazione
asimmetrica e per un basso livello di destratificazione.
3. LE TRAIETTORIE ATTUALI DI CAMBIAMENTO
Contesto socioeconomico ed emergere di nuovi rischi sociali Il compromesso di mezzo secolo era fondato
su un forte tasso di crescita del PIL nazionale, che consentì l’incremento salariale e l’estensione dei
programmi di welfare. La svolta dei primi anni ’70 comportò un generale rallentamento dei tassi di crescita.
La nuova fase fu caratterizzata da una forte divaricazione tra redditi alti e bassi, conseguenza di una struttura
salariale polarizzata tra occupazioni ad alta e bassa qualificazione. Crebbe il livello della disoccupazione, che
raggiunse negli anni ’80 e ’90 un livello molto elevato. Solo nella seconda metà degli anni ’90 e nel primo
decennio di questo secolo, la disoccupazione è diminuita, grazie all’aumento dei lavori precari e flessibili,
per poi riprendere a crescere con la crisi finanziaria del 2007.
Negli ultimi decenni si è assistito a una profonda ristrutturazione del sistema produttivo mediante la
riduzione dell’organico, il ricorso massiccio all’esternalizzazione dei servizi e delle attività, l’introduzione di
processi produttivi fondati sulla massima flessibilità dell’organizzazione e dei rapporti di lavoro. La
conseguenza più evidente è stata l’aumento dell’occupazione temporanea. Un grande cambiamento ha
riguardato l’occupazione femminile, anche se l’Italia ha un tasso di partecipazione femminile inferiore di 10
punti percentuali a quello medio europeo. L’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro,
parallelamente alle difficoltà di redistribuire i carichi familiari sugli uomini, ha comportato un aumento della
domanda di servizi alla persona. Altre trasformazioni rilevanti hanno interessato la struttura demografica e
familiare della popolazione europea: l’invecchiamento della popolazione e la pluralizzazione delle forme
familiari, come ad esempio famiglie composte da genitori soli con figli minorenni, più vulnerabili sul piano
reddituale.
Ad oggi, i nuovi rischi sociali emergono a causa di due fenomeni fondamentali: le trasformazioni nel
mercato, che comportano un aumento della precarietà occupazionale e della vulnerabilità economica; la
riduzione delle capacità di protezione sociale delle famiglie per effetto dell’aumentata occupazione
femminile e dell’invecchiamento demografico. A queste due dinamiche vanno poi aggiunti i processi di
riorganizzazione in atto in altri due sistemi: il sistema abitativo e il sistema di mobilità internazionale. Il
problema abitativo è diventato cruciale a causa dell’aumento del costo di accesso all’abitazione. Altrettando
la mobilità in quanto, non essendo un fenomeno transitorio, ha portato con sé non pochi problemi di
integrazione sociale.
Trasformazioni del welfare nella fase di austerità permanente A partire dagli anni ’80 e soprattutto negli
anni ’90 si sviluppa una fase storica di austerità permanente. Secondo Pierson tale austerità è dovuta alla
crescente pressione sulle finanze pubbliche derivante dai cambiamenti socioeconomici. I sistemi consolidati
di welfare ereditati dall’Epoca d’oro devono affrontare nuove sfide: contenere i costi crescenti associati ai
vecchi rischi sociali, evitando che tale opera di contenimento si traduca nello scontento della popolazione;
adattare i tradizionali sistemi di welfare ai nuovi rischi sociali. Le interpretazioni attorno alle traiettorie di
cambiamento in epoca di austerità sono essenzialmente due:

 “Retrenchment”, interpretazione basata sul taglio del welfare state, a cui si è contrapposta
un’interpretazione alternativa basata sul concetto di capacità di resistenza dello stesso “resilience”

I sistemi di welfare sono dotati di capacità di resistenza al cambiamento e ai tagli, grazie a una serie di
meccanismi politico-istituzionali (Pierson). Un primo meccanismo è legato al fatto che i cittadini (elettori) si
oppongono ai tagli perché sono avversi al rischio: preferiscono proteggere e mantenere i loro costosi sistemi
di welfare piuttosto che tagliarli, risparmiare e ottenere eventuali miglioramenti solo in un futuro più lontano.
Un secondo meccanismo è di natura istituzionale e collegato ai fenomeni di path dependency, che rendono
difficile introdurre e implementare i tagli. La resilience esclude di conseguenza la possibilità che avvengano
profondi cambiamenti nei sistemi di welfare, anche nella direzione di tagli sostanziali. I governi che
intendono tagliare il proprio sistema di welfare pubblico – volendo evitare di essere puniti dagli elettori –
possono adottare alcune strategie: diluire nel tempo le conseguenze negative delle riforme o ridurre la
tracciabilità delle scelte politiche effettuate. All’analisi di Pierson ora citata ci si è opposti mostrando come
in realtà nei paesi occidentali delle politiche di taglio siano state adottate mediante il retrenchment esplicito o
nascosto.
Vari studiosi hanno mostrato come, in specifiche condizioni socioeconomiche, politiche di contenimento dei
costi e di taglio passano essere presentate all’elettorato in termini di credit claiming (chi le introduce non
viene punito, ma anzi viene tollerato o premiato; adozione di retrenchment esplicito).
Accanto a tagli implementati apertamente, nel corso degli ultimi decenni, è stato portato avanti dai governi
un programma, non dichiarato esplicitamente, di privatizzazione dei rischi sociali (adozione di retrenchment
nascosto). Nel corso del tempo il sistema di protezione sociale ha infatti ridotto la sua capacità complessiva
di coprire la popolazione da rischi rilevanti non offrendo risposte adeguate ai profondi cambiamenti sociali
avvenuti. È possibile trasformare e tagliare un sistema di welfare non ricorrendo a politiche frontali ed
esplicite di retrenchment, adottando quella che si definisce una strategia di cambiamento graduale. I
cambiamenti dagli effetti profondi si possono ottenere anche attraverso l’accumulazione nel tempo di una
serie di piccole trasformazioni nel funzionamento dei programmi di welfare pubblici.

 “Recalibration”, interpretazione basata sulla ricalibratura del sistema di welfare, a cui si è contrapposta
un’interpretazione alternativa fondata sul retrenchment o sulla resilience
La ricalibratura può essere considerata come una strategia adattiva di risposta dei welfare state ai profondi
cambiamenti socioeconomici avvenuti negli ultimi decenni. Si tratta di un rimodellamento del sistema di
welfare lungo una serie di dimensioni:
 Funzionale, concerne i tipi di rischi coperti dal welfare state e i bisogni lasciati scoperti;
 Istituzionale, riguarda il disegno delle istituzioni e a quali livelli vengono prese le decisioni;
 Distributiva, riguarda il ribilanciamento della copertura sociale fra diversi gruppi di beneficiari,
limitando la copertura per le categorie più garantite e aumentando quella delle categorie meno garantire;
 Normativa, fa riferimento a quei tentativi volti a sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici
verso la necessità di inquadrare in maniera differente le finalità e il funzionamento rispetto al passato,
evitando di rimanere intrappolati nello status quo.
Alla dominanza dell’orientamento neoliberista, volto a privilegiare il retrenchment, si è contrapposta una
prospettiva alternativa, che insiste sull’idea che una riforma del welfare debba essere ispirata ai principi del
social investment. Secondo questo approccio lo sviluppo di una società fondata sulla conoscenza rende
cruciale la capacità dei sistemi sociali di investire nel capitale umano disponibile in futuro. Questo sistema
promuove le pari opportunità fondandosi sulla valorizzazione del merito e sulla riduzione delle
discriminazioni legate alla classe di appartenenza, e riequilibra i sistemi attuali di welfare spostando risorse e
investimenti sulle nuove e future generazioni (invertendo la tendenza dei welfare tradizionali a scaricare su
queste ultime solo i costi necessari a finanziare i benefici distribuiti alle generazioni più anziane).
Il social investment è stato criticato per il suo approccio troppo produttivistico, che considera la necessità del
welfare solo in funzione della produzione del capitale umano e non per la protezione che offre dai rischi
sociali.
Trasformazioni dei sistemi di welfare: politiche rivolte ai vecchi rischi sociali… Linea comune a gran
parte dei paesi europei è stata quella di contenere la spesa nei tre grandi settori tradizionali della protezione
sociale: pensioni, disoccupazione, sistemi sanitari.
Ciò è stato realizzato attraverso vari meccanismi e processi di riforma, portando a risultati differenti a
seconda del paese e del tipo di politica. Sono individuali tre forme principali di trasformazione: cambiamenti
nelle finalità attraverso riforme strutturali, che modificano gli obiettivi delle politiche in modo permanente e
determinando una progressiva privatizzazione del sistema di welfare; cambiamenti nella struttura
istituzionale e organizzativa, che modificano l’attribuzione dei poteri politico-amministrativi fra i diversi
soggetti e livelli di governo nella direzione di un decentramento delle competenze; cambiamenti negli
strumenti di policy o interventi parametrici, volti a rivedere singole regole di funzionamento/parametri (es.
requisiti per l’accesso ai benefici, generosità dei benefici).

Riforme del settore pensionistico Gli ultimi decenni hanno visto affermarsi in molti paesi un mix fra
interventi parametrici sottrattivi e riforme strutturali. Spesso i governi sono intervenuti ripetutamente per
assicurare la sostenibilità finanziaria di lungo periodo degli schemi. Gli interventi parametrici hanno
comportato un irrigidimento delle modalità di accesso e della generosità del sistema tramite un insieme di
misure:
 Diminuzione dell’importo reale delle prestazioni
 Innalzamento dell’età pensionabile volta a ridurre la platea dei beneficiari
 Istituzione di un più stretto legame fra contributi versati e prestazioni erogate
Le riforme strutturali, invece, sono state indirizzate a trasformare l’assetto complessivo dei sistemi multi-
pilastro, favorendo il passaggio verso gli schemi a capitalizzazione. l risultato è che per coloro che andranno
in pensione nei prossimi decenni, la generosità complessiva dei sistemi pubblici sarà molto più contenuta.

Riforme contro i rischi di disoccupazione Anche in tal caso si è agito tramite interventi parametrici e riforme
di sistema. Tre sono state le trasformazioni che si sono andate delineando a partire dalla metà degli anni ’90:
 Ri-categorizzazione dei rischi
 Omogeneizzazione e standardizzazione dei sussidi erogati
 Attivazione dei beneficiari attraverso interventi di supporto alla ricerca e ottenimento di un lavoro

Riforme in campo sanitario Gli interventi sottrattivi sono andati in due diverse direzioni: da un lato si sono
introdotte e aumentate forme di compartecipazione dei cittadini ai costi dei servizi (ticket), dall’altro gli
interventi sono avvenuti anche sul lato dell’offerta. Ciò è stato effettuato fissando tetti di spesa agli erogatori
di prestazioni (ospedali) razionalizzando e riorganizzando le strutture e il personale (prevedendo
accorpamenti) monitorando con più attenzione il livello delle prescrizioni per i farmaci, accertamenti e
ricoveri, così come la diffusione di nuove tecnologie di diagnosi e di cura.
… e politiche rivolte ai nuovi rischi sociali I principali sviluppi hanno interessato i seguenti aspetti:
 Reddito minimo e lotta alla povertà: politiche finalizzate a sostenere il numero crescente di persone che
sperimentano una condizione di povertà attraverso varie misure di reddito minimo o di sostegno fiscale.
Questi programmi, rivolti a soggetti a rischio, lavoratori o altri soggetti poveri, non si limitano più alla
mera erogazione di sussidi, ma sono finalizzati a facilitare e sostenere l’inserimento delle persone nel
mercato del lavoro
 Transizione istruzione-lavoro: politiche che mirano a integrare i percorsi scolastici e professionali delle
persone con il loro ingresso nel mercato del lavoro, nella prospettiva di sostenerne l’inserimento e
l’attivazione diretta; l’obiettivo delle politiche è quello di coordinare gli investimenti pubblici nella
formazione di capitale umano
 Conciliazione cura-lavoro: politiche finalizzate a promuovere la conciliazione tra lavoro retribuito da un
lato, e compiti di cura e accudimento dei figli dall’altro, nella prospettiva di favorire l’occupazione
femminile, garantire a tutti i bambini una condizione di pari opportunità nell’accesso ai servizi per
l’infanzia
 Long-term care: politiche di tutela della non autosufficienza, sviluppate in reazione all’aumento della
disabilità connessa all’invecchiamento e alla riduzione delle capacità di cura delle famiglie
 Inclusione sociale degli stranieri: politiche di sostegno all’inclusione sociale della popolazione straniera,
aumentata notevolmente nei paesi europei come conseguenza dei flussi migratori degli ultimi due
decenni
 Politiche abitative: politiche finalizzare a sostenere l’accesso alla casa
Nonostante l’austerity abbia dominato negli ultimi vent’anni sia il contesto finanziario che politico, le
innovazioni appena descritte sono avvenute lo stesso. Ciò è stato possibile grazie a tre forme di
cambiamento, quali: trasformazioni nelle finalità, nella struttura e organizzazione, negli strumenti delle
politiche sociali.

Riforme strutturali Tali trasformazioni sono paradigmatiche e segnando un punto di rottura. Nelle politiche
per i nuovi rischi sociali sono diversi i casi in cui sono state introdotte vere e proprie riforme strutturali. È il
caso delle misure di reddito minimo e di inserimento sociale, che hanno introdotto non solo un diritto
universale a essere sostenuti, ma anche l’idea che le misure di welfare non debbano limitarsi a un sostegno
finanziario ma debbano sostenere il reinserimento sociale dei soggetti nel mercato del lavoro attraverso una
serie di misure di attivazione.

Cambiamenti nella struttura istituzionale e organizzativa: rescaling e partnership pubblico-privato I


cambiamenti nei valori e nelle finalità hanno trovato forti ostacoli nel clima generale di austerity. Per questo
motivo, gran parte delle trasformazioni è avvenuta attraverso cambiamenti riguardanti la struttura
organizzativa e gli strumenti delle politiche, attraverso manovre di aggiustamento oppure mediante
l’aggiunta di nuove misure. È avvenuto un processo di decentramento delle responsabilità finanziare e
organizzative a favore degli enti locali (rescaling). Le politiche rivolte ai nuovi rischi sociali, inoltre, si sono
sviluppate intessendo relazioni di collaborazione con attori privati. La partnership con i soggetti privati ha
consentito di aumentare la flessibilità dei programmi sociali, di modulare gli interventi in funzione delle
esigenze dei beneficiari, nonché di ridurre i costi e le difficoltà amministrative dell’innovazione.

Interventi negli strumenti di policy Nel campo delle politiche di reddito minimo e di cura, l’approccio più
praticato è consistito nell’introduzione di una maggiore libertà di scelta e autonomia degli utenti dei servizi,
cui si è accompagnata l’apertura di una maggiore competizione tra i fornitori dei servizi stessi. Diversi
strumenti sono stati introdotti per favorire questi sviluppi: dall’erogazione di voucher alla promozione di una
competizione tra i fornitori privati per il convenzionamento con il settore pubblico, sino alla distribuzione di
sussidi economici poi utilizzabili dai beneficiari per organizzare la cura come meglio ritengono. Nella logica
di migliorare l’occupabilità delle persone, sono state introdotte nuove forme di transizione dalla scuola al
lavoro e ne sono stati rafforzati i programmi, come l’apprendistato. In linea generale, i nuovi rischi sociali
hanno ottenuto un riconoscimento crescente nelle politiche di welfare. In alcuni casi è stata introdotta in
diversi paesi europei una forma di universalismo selettivo, che stabilisce il diritto di tutti i cittadini, in
possesso di specifici requisiti, a una protezione pubblica (long-term care). Nel campo dei servizi per
l’infanzia e della conciliazione tra lavoro e cura, così come nelle misure di attivazione e di inserimento nel
mercato del lavoro, è stata ottenuta una notevole estensione dei servizi e dei programmi di welfare. D’altra
parte, però, le misure di reddito non consentono ancora di abolire totalmente il rischio di povertà. Altro
settore rimasto indietro per quanto riguarda l’investimento della spesa pubblica è quello concernente le
abitazioni e l’accesso alla casa. In molti paesi è stato ottenuto un rilevante aumento dei servizi, a scapito
degli standard qualitativi degli stessi.
Gli effetti dei tentativi di ricalibratura I sistemi di welfare europei potrebbero essere interpretati secondo 4
configurazioni, a seconda che la protezione dei vecchi rischi venga ridotta oppure resti inalterata o che la
protezione verso i nuovi rischi sociali non venga attuata oppure diventi oggetto di politiche specifiche.
1. Politiche di espansione. Sia le politiche verso i vecchi rischi sia quelle verse i nuovi aumentano.
L’espansione coincide con la crescita dei programmi rivolti ai nuovi rischi sociali e il mantenimento del
livello raggiunto dai programmi tradizionali. Riguarda i paesi scandinavi di tradizione socialdemocratica.
2. Retrenchment. Il taglio ai programmi di welfare non viene compensato da una maggiore copertura per i
nuovi rischi sociali. Si tratta di uno scenario caratterizzato da una riduzione generalizzata della
protezione sociale e dalla dominanza di un paradigma di tipo neoliberista. Riguarda i paesi anglosassoni.
3. Ricalibratura funzionale. Esistenza di un trasferimento di risorse e investimenti dal settore tradizionale
delle politiche di welfare verso la protezione dei nuovi rischi sociali. Alcune riforme sono finalizzate a
una ricalibratura distributiva, nella misura in cui cercano di offrire copertura a quella platea crescente di
individui che sempre meno corrisponde all’immagine tipica del lavoratore dell’epoca industriale.
Riguarda paesi di tradizione conservatore-corporativa.
4. Politiche di conservazione. Il sistema di welfare è sottoposto a una forte inerzia istituzionale, che non
rende possibile alcun aggiustamento, ma soltanto il mantenimento delle risorse e degli investimenti che
insiste sul sentiero istituzionale già battuto. Riguarda i paesi sudeuropei.
In ogni caso, capita che le diverse configurazioni si intreccino tra loro. I processi di retrenchment sono
accompagnati da dinamiche espansive oppure di conservazione. A sua volta, il retrenchment può coinvolgere
tutte le politiche, determinando un vero e proprio smantellamento del welfare, oppure può coniugarsi con
andamenti compensativi in altri settori di policy, assumendo l’aspetto della ricalibratura funzionale.
La crisi finanziaria globale degli ultimi anni ha contribuito ad aumentare la vulnerabilità sociale dei gruppi
più svantaggiati. In tale contesto, le politiche di retrenchment, diversamente da quelle espansive, hanno
accelerato l’aumento delle disuguaglianze sociali, esponendo gruppi in precedenza tutelati al rischio di
povertà e di esclusione sociale. Le politiche di conservazione hanno avuto effetti di dualizzazione sociale,
poiché negano protezione ai portatori di nuovi rischi sociali mantenendo inalterata la protezione nei confronti
degli insider tradizionali di welfare. Anche le politiche di ricalibratura funzionale possono innescare un
processo di dualizzazione, in cui il rischio di povertà e di precarietà diventa molto forte ed esteso.
4. LE POLITICHE CONTRO LA POVERTÀ
La povertà non costituisce un nuovo rischio sociale. essa ha accompagnato la storia dell’Europa sin dalle sue
origini. Sino alla metà del secolo scorso, la povertà costituiva non solo uno stato ampiamente diffuso nella
popolazione europea, ma anche una situazione caratterizzata dalla mancanza dei mezzi fondamentali per la
sussistenza. I principali studi sulla povertà condotti nella prima parte del XX secolo descrissero la povertà a
partire dalla nozione di “povertà assoluta”, che identificava la mancanza delle risorse minime necessarie per
la sopravvivenza quotidiana delle persone. La crescita nella società salariale coincise con il tentativo di
eliminare questo genere di povertà. Una forte riduzione della povertà assoluta non coincise tuttavia con
l’eliminazione tout court della povertà in tutte le sue manifestazioni. In questo contesto prese forma il
concetto di “povertà relativa”, intesa come l’assenza di beni primari necessari alla riproduzione sociale degli
individui in relazione al tenore di vita medio della popolazione di cui essi fanno parte.
Evoluzione dei rischi sociali All’inizio dell’età moderna la povertà assunse la forma del “pauperismo”,
ovvero di una situazione diffusa di estrema insicurezza e deprivazione materiale dovuta sia alla crisi dei
sistemi tradizionali di solidarietà fondati su base comunitaria, sia all’avvio della Rivoluzione industriale.
Dopo una lunga fase caratterizzata dalla diffusione di gravi povertà urbane nelle città maggiormente toccate
dall’industrializzazione, la maturazione crescente della società salariale modificò le condizioni della povertà,
riducendone gradualmente l’impatto e l’intensità. Durante i Trenta gloriosi, la povertà si ridusse
notevolmente e divenne sinonimo di esclusione dal mercato del lavoro: le fasi di disoccupazione connesse
alle crisi cicliche dell’economia di mercato furono meno protette in quasi tutti i paesi europei. La povertà,
pur se ridotta numericamente, rimase un fattore strutturale anche nelle società salariali, colpendo soprattutto i
disoccupati di lunga durata. Solo verso la metà degli anni ’90, una volta compiuta la transizione verso
un’economia postindustriale, i paesi europei cominciarono a riassorbire la disoccupazione, riducendo nel
contempo la povertà a essa connessa. Questa svolta non è avvenuta indolore. Allo scopo di aumentare
l’occupazione e facilitare le assunzioni in un contesto sempre più dominato dalla competizione
internazionale, la tendenza prevalente è stata quella di ridurre i livelli salariali minimi, oltre che di introdurre
robuste iniezioni di flessibilità nel mercato del lavoro. Da un lato, è aumentato il lavoro atipico, a tempo
determinato e con contratti flessibili; dall’altro, riducendosi i salari, si è creata una massa rilevante di
working poors, lavoratori occupati stabilmente ma con salari troppo bassi rispetto alle necessità della
riproduzione sociale. Il rischio di cadere in povertà ha cominciato a diffondersi in gruppi sociali
precedentemente considerati garantiti, semplicemente perché protetti dal fatto di lavorare. Per effetto della
riduzione dei salari e della diffusione dei lavori atipici, è cresciuta un’area definita disaffilation sociale, di
cui fanno parte soprattutto giovani, donne, lavoratori a bassa qualificazione, immigrati. Una popolazione,
cioè, vulnerabile che pone nuovi problemi ai sistemi contemporanei di welfare. D’altro canto, il sistema di
welfare esistente, fondato sull’assicurazione contro i rischi tradizionali della vecchiaia e della disoccupazione
industriale, non si è dimostrato capace di offrire una protezione adeguata contro questi nuovi rischi. Un
ulteriore problema che ha influenzato il quadro generale della povertà in Europa è il diffondersi dei fenomeni
di segregazione sociale e urbana. Le trasformazioni del mercato del lavoro si sono incrociate con la creazione
di diffuse periferie urbane a bassa qualità abitativa e più recentemente con la tendenza a un aumento dei
prezzi nel mercato abitativo. Oltretutto, le forti ondate migratorie degli ultimi due decenni hanno finito per
determinare in queste aree un accumulo di problemi occupazionali, reddituali e spesso di discriminazione
etnica.
La povertà relativa è considerata come una situazione in cui il reddito è inferiore a una soglia stabilita,
chiamata linea di povertà, sotto la quale si ritiene che il livello di vita delle persone sia inferiore a quello
accettabile dalla società in cui si vive. Anche se la quota dei poveri è differenziata per paese, sono in paesi
mediterranei, tra cui l’Italia, a mostrare i tassi di povertà relativa più elevati. In ogni caso, nel complesso, le
differenze tra pesi sembrano rispecchiare i diversi assetti di welfare e anche le diverse politiche anti-povertà
attuate.
Durante la crisi economico-finanziaria cominciata nel 2007 la distanza tra le aree ricche e quelle povere del
continente è aumentata, a causa soprattutto della crescita della disoccupazione. L’aumento della povertà è
stato registrato dagli indicatori che misurano lo stato di deprivazione assoluta delle persone, e non da quelli
inerenti la povertà relativa. Una profonda trasformazione è avvenuta nei profili e nelle condizioni di povertà
degli ultimi due decenni. Sono due gli elementi di maggiore novità: il primo è costituito dall’aumento delle
posizioni precarie nel mercato del lavoro e dalla maggiore instabilità familiare, che hanno allargato l’area
degli individui in condizioni economicamente vulnerabili. Per molti individui la vulnerabilità economica
dipende dall’aumento delle spese da sostenere in relazione alle complesse esigenze di organizzazione della
loro vita quotidiana. Di qui la diffusione di deprivazione materiale, ovvero di situazioni di vita caratterizzate
dall’assenza di beni o di opportunità considerate ormai acquisizioni standard nelle società odierne. La
crescita dei lavori flessibili ha inoltre aumentato la quota di persone che sperimentano una situazione a
cavallo tra inclusione ed esclusione. L’identificazione degli individui che sperimentano queste situazioni di
deprivazione materiale oppure di scarsità del lavoro ha consentito a diversi ricercatori di notare che queste
situazioni di vulnerabilità economica comprendono una quota considerevole di persone che non sono povere
sul piano reddituale. L’implicazione di questa scoperta per le politiche è evidente: se il reddito è solo uno
degli elementi della povertà, le politiche devono rispondere ampliando gli strumenti a disposizione in modo
da sostenere forme complesse e diversificate di compressione del tenore di vita. Un secondo elemento di
cambiamento è la diffusione della povertà transitoria. La diffusione di carriere lavorative precarie e di
percorsi familiari instabili ha ampliato anche la quota di persone che sperimentano la povertà per una fase
momentanea. In alcuni casi l’oscillazione sopra e sotto la linea della povertà è ricorrente, a indicare un
rischio di povertà permanente. Distinguendo tra i diversi regimi di welfare, non solo la diffusione ma anche
la durata della povertà cambia a seconda del regime di welfare considerato. Nei paesi a regime
socialdemocratico la povertà è certamente diffusa ma costituisce il più delle volte un episodio contingente e
ciò dipende in gran parte da politiche che sono in grado di sostenere un miglioramento netto della situazione
reddituale nell’arco di un solo quinquennio. Nei paesi a regime liberare o sudeuropeo la povertà ha una
maggiore probabilità di stabilizzarsi. In questo caso la capacità dei sistemi di welfare di sostenere la ripresa
delle persone e di prevenire la cronicizzazione della povertà appare molto più limitata. Nei paesi a regime
conservatore-corporativo sia la diffusione della povertà sia la sua cronicizzazione si collocano in una
situazione intermedia.
Nelle società industriali gran parte della povertà si concentrava tra le famiglie molto numerose e le persone
escluse in modo permanente dal mercato del lavoro. Oggi si aggiungono nuove figure: single a basso salario,
giovani lavoratori precari, famiglie monoparentali, anziani soli con una modesta pensione, capifamiglia che
perdono il lavoro in età matura.
Strumenti di policy I principali sono indennità di disoccupazione, reddito minimi e reinserimento
lavorativo.
Indennità di disoccupazione Finalizzate a proteggere gli individui dal vecchio rischio sociale della
disoccupazione, svolgono una funzione di prevenzione della caduta in povertà a seguito della perdita
dell’occupazione. In tutti i paesi europei esiste un’indennità di disoccupazione di tipo contributivo (IDC),
finanziata dai contributi sociali versati dai lavoratori, e dunque riservata a coloro che hanno lavorato e
versato contributi nel periodo precedente l’episodio di disoccupazione involontaria. A queste indennità di
tipo contributivo in molti paesi si affianca un’indennità di disoccupazione assistenziale (IDA), finanziata
dalla fiscalità generale e destinata a tutti i disoccupati al di sotto di un certo livello di reddito. Coloro che
esauriscono il proprio diritto alle indennità di disoccupazione senza essersi ricollocati sul mercato del lavoro,
non cadono a livello di reddito zero, grazie all’esistenza di una rete di ultima istanza, rappresentata dal
reddito minimo (RM). In molti casi, è possibile accedere all’IDA una volta esaurito l’IDC. Le relazioni tra i
due campi di policy variano basandosi su due dimensioni principali: l’architettura istituzionale specifica di
ogni paese, cioè quali misure di protezione esistono e come sono definite; lo status del lavoratore, ossia il
tipo di contratto stipulato e le garanzie di protezione sociale cui esso dà accesso.

Reddito minimo Strumento volto all’integrazione del reddito di coloro che non dispongono di risorse
autonome sufficienti a garantire standard di vita considerati minimi in ogni contesto. Questi schemi
definiscono un diritto soggettivo a ricevere un trasferimento economico. Tale diritto è garantito sulla base del
principio dell’universalismo selettivo, garantito cioè a tutti i cittadini su fronte di una verifica
dell’insufficienza dei loro mezzi economici (test dei mezzi, ossia confronto tra reddito accertato e soglia di
reddito). La soglia di reddito serve a stabilire l’entità del trasferimento, che corrisponde alla distanza tra il
reddito disponibile e la soglia stessa. Viene calcolata sul singolo e adattata alle diverse dimensioni dei nuclei
familiari attraverso una scala di equivalenza, che attribuisce a ogni membro un determinato peso. Per quanto
riguarda le misure di ultima istanza, il criterio di accesso è quello reddituale. A esso se ne affiancano altri,
per ognuno dei quali si osservano differenze tra le misure nazionali: la residenza e la nazionalità, l’età, la
disponibilità a intraprendere percorso di reinserimento socio-lavorativo. Oltre che per i requisiti di accesso, i
redditi minimi nazionali si differenziano anche per generosità e durata.

Percorsi di reinserimento socio-professionale L’attivazione di tali misure investe sia le politiche del lavoro
sia quelle di assistenza sociale. I servizi all’impiego gestiscono i casi con maggiori risorse individuali e
opportunità occupazionali, mentre ai servizi sociali restano in carico i casi più svantaggiati e più
difficilmente collocabili nel mercato del lavoro. I percorsi di inserimento professionale comprendono: corsi
di formazione e riqualificazione, per coloro che hanno titoli di studio deboli o competenze divenute obsolete;
orientamento e “counselling”, volti a spiegare le tecniche di ricerca del lavoro (es. come scrive un CV);
esperienze di lavoro protette che consentono di sperimentare le competenze professionali acquisite,
arricchendo il proprio curriculum; mediazione e accompagnamento in azienda; “matching” domanda/offerta
specializzato per i casi con fragilità sociale; sostegno all’autoimprenditorialità. Inoltre, i percorsi di
promozione all’autonomia personale prevedono, se necessario: sostegno psicologico, sostegno alla
genitorialità, recupero o completamento dell’obbligo scolastico dei diversi membri familiari, definizione di
piano per il rientro dai debiti. Per accedere al sostegno economico non è più sufficiente che la condizione di
bisogno sia accertata, ma occorre anche che i beneficiari si dimostrino disponibili a restituire qualcosa alla
collettività in cambio del sostegno ricevuto. In questo quadro si sviluppa e assume nuovi significati nella
gestione degli strumenti assistenziali l’uso del contratto, uno strumento che sancisce in modo formale la
condivisione del percorso individuale di reinserimento da parte dell’assistente sociale responsabile del caso,
vincolando il beneficiario al rispetto dei vari passi individuati per il raggiungimento degli obiettivi
concordati.
Esistono misure assistenziali di sostegno del reddito anche per coloro che sono occupati, ma dal proprio
lavoro ricavano un reddito troppo basso (woorking poors). L’obiettivo di queste misure è promuovere
l’occupazione e prevenire le trappole della povertà, rendendo il lavoro retribuito conveniente rispetto al non
lavoro. Tali misure prevedono trasferimenti monetari, ma anche la possibilità di accedere ad una serie di
servizi: servizi sanitari, di trasporto, di cura e di conciliazione.
Modelli di policy Benché la tempistica specifica vari da paese a pese, si possono individuare tre ampi
periodi nell’evoluzione delle politiche contro la povertà ravvisabili in Europa, tre generazioni di politiche
contraddistinte da diversi principi regolatori e specifiche caratteristiche.
 La prima generazione di politiche contro la povertà ha inizio tra la fine del XVI e l’inizio del XVII
secolo. L’Act for the Relief of the Poor, emendato nel 1600 dal parlamento inglese, riconobbe per la
prima volta che tutti i cittadini avevano il diritto di vivere e stabilì che le autorità locali erano
responsabili di sostenere le persone in stato di bisogno. L’assistenza era fornita su base locale, mediante
la rete parrocchiale. Le leggi inglesi distinguevano gli indigenti in categorie, cui indirizzare diversi tipi di
intervento. Si trattava, dunque, di politiche sociali “negative”, repressive e stigmatizzanti, finalizzate al
controllo sociale
 La seconda generazione di politiche è afferente al processo di formazione del welfare state moderno.
Con le prime assicurazioni sociali obbligatorie contro infortuni, malattia e vecchiaia, introdotte dalla
seconda metà del XIX secolo, vennero poste le basi di una protezione sociale gestita pubblicamente.
Durante i trent’anni successi alla seconda guerra mondiale, vennero poi introdotte delle misure di
sostegno per quelle fasce di individui e famiglie che non godevano di una partecipazione continuativa al
mercato del lavoro. Si trattava di misure id ultima istanza, che intervenivano solo una volta che gli altri
schemi di protezione si esaurivano. Prendevano, dunque, in carico solo un numero limitato di soggetti,
appartenenti a una fascia marginale di popolazione, per la quale era difficoltoso raggiungere
l’indipendenza economica
 La terza generazione di politiche comincia a svilupparsi a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Il
combinato disposto dell’aumento della disoccupazione connessi ai processi di deindustrializzazione da
un lato, e dell’introduzione di riforme restrittive degli ammortizzatori sociali per contenere la spesa
sociale dall’altro, portarono a notevoli incrementi della domanda di sostegno economico assistenziale.
Con obiettivi diversi, nella maggior parte dei paesi vennero introdotte riforme che stabilivano una
relazione più stretta tra sostegno del reddito e programmi attivi di inserimento sociale e lavorativo.
Le politiche contro la povertà vengono classificate considerando i diversi paesi europei.
 I paesi scandinavi e i Paesi Bassi hanno sviluppato più di tutti l’approccio della sicurezza sociale, basato
su politiche e servizi universalistici cui accedono tutti i cittadini. Le indennità di disoccupazione sono
generose sia per condizioni di accesso, sia per entità degli importi. Il rischio di povertà ha un’incidenza
bassa. Di conseguenza le misure di assistenza sociale hanno un ruolo residuale: il numero dei beneficiari
è limitato e le misure di reddito minimo si limitano a integrare il reddito di coloro che già accedono ad
altri programmi di sostegno. Lo sviluppo delle misure di attivazione è significativo, con elevati livelli di
condizionalità nell’ambito degli ammortizzatori sociali, e maggiore orientamento all’empowerment
individuale nell’ambito dell’assistenza sociale
 I paesi anglosassoni hanno sviluppato un sistema di protezione sociale meno inclusivo e generoso. Le
politiche assistenziali hanno assunto un ruolo più importante rispetto agli altri paesi europei, mentre
nell’ambito delle misure contro la disoccupazione l’indennità contributiva è limitata e poco generosa. Lo
sviluppo di politiche attive non è molto avanzato, mentre la condizionalità è differenziata per tipo di
misura: elevata per le indennità di disoccupazione e quasi assente nel caso di reddito minimo
 Nei paesi continentali il cuore della protezione sociale è affidato a schemi di tipo contributivo; e infatti
questi paesi spendono più degli altri per le indennità di disoccupazione contributive, ovvero concesse
solo ai disoccupati che hanno pagato un ammontare minimo di contributi assicurativi. Le politiche attive
sono ampiamente sviluppate, con livelli di condizionalità piuttosto elevati
 I paesi del Sud Europa adottano un impianto di welfare contributivo, eccetto che per la copertura
sanitaria gestita in modo universalistico. Le indennità di disoccupazione sono poco inclusive, la loro
generosità è scarsa e la loro durata ridotta. Il sostegno di ultima istanza è quasi del tutto assente. Le
politiche di attivazione sono poco sviluppate e limitate, tanto nell’efficacia quanto nella condizionalità,
dal fatto che la domanda di lavoro è particolarmente scarsa in ampie aree territoriali (sud dell’Italia e
della Spagna).
 Nei paesi ex comunisti le indennità di disoccupazione sono poco inclusive e generose e fortemente
condizionate alla disponibilità a lavorare e a cercare lavoro. Una misura di reddito minimo esiste in tutti i
paesi dell’Est entrati a far parte dell’Unione Europea, anche se con importi molto bassi.
Conseguenze delle politiche implementate Le politiche anti-povertà, tra cui soprattutto le misure di reddito
minimo, ad oggi, non sono in grado di abolire la miseria in alcun paese europeo. Le misure di reddito
minimo raggiungono una quota di beneficiari assai variabile da paese a paese. La copertura è piuttosto bassa
e anche tra le persone in condizioni di estrema povertà, una parte ne resta esclusa in molti contesti. La
mancata inclusione è dovuta alle condizioni di accesso, ma anche a fenomeni di isolamento sociale o
mancanza di informazioni. Per quanto riguarda i sussidi garantiti, si è notato che tale ammontare risponde a
un criterio generalizzato di differenziazione. Il criterio della differenziazione, cioè che quanto più si è poveri,
tanto maggiore è l’importo del sostegno pubblico, non è in grado di chiudere il divario tra il reddito percepito
e quello corrispondente alla linea di povertà. Ancora una volta, le indennità servono più a ridurre l’intensità
della povertà, che ad eliminarla del tutto. Anche i beneficiari delle misure di reddito minimo restano poveri.
Le cause di questi risultati parziali sono molteplici: in primo luogo, contano le dimensioni della povertà nei
singoli paesi europei (paesi con elevata povertà dovrebbero investire grandi quantità di denaro nell’assistenza
a queste persone), nonché la sua intensità (quante risorse le persone necessitano per uscire dalla povertà). In
secondo luogo, gioca un ruolo importante la configurazione del mercato del lavoro: quanto più il mercato è
segmentato, tanto più ampie dovrebbero essere le politiche anti-povertà per ridurre il numero dei lavoratori
poveri. In terzo luogo, conta il disegno istituzionale delle misure del reddito minimo, che può escludere
specifici gruppi di persone oppure definire modalità d’accesso molto restrittive, riducendo la platea degli
avanti diritto.
5. LE POLITICHE ABITATIVE
Possiamo definire le politiche abitative come quell’insieme di interventi che assicurano l’accesso a
un’abitazione adeguata, in termini di qualità in base alla numerosità della famiglia, a tutti quei nuclei che non
riescono ad accedervi da soli o che vedrebbero incidere in maniera significativa le risorse destinate
all’abitare sul proprio reddito se dovessero sottostare alle sole condizioni di mercato.

6. LE POLITICHE DI SOSTEGNO ALLE TRANSIZIONI ISTRUZIONE-LAVORO


Con l’espressione transizioni dalla scuola al lavoro si fa riferimento al periodo che va dal completamento
della scuola dell’obbligo all’ottenimento di un’occupazione a tempo pieno e indeterminato. Piuttosto che
focalizzare gli interventi sul sistema dell’istruzione, la caratteristica storica dei sistemi di welfare europei è
stata quella di dare maggiore spazio alla protezione sociale tramite politiche passive a sostegno di quanti
avevano perso il proprio impiego, mediante una forte regolazione del mercato del lavoro e la fuoriuscita
anticipata di lavoratori tramite il sistema pensionistico. La messa in discussione di tale modello porta il tema
dell’inserimento dei giovani nel mercato a intrecciarsi con quello del funzionamento del sistema
dell’istruzione e dell’accumularsi di capitale umano. Le politiche rivolte all’inserimento dell’istruzione al
mercato del lavoro sono molteplici perché intervengono su tre sfere articolate e tra loro interconnesse:
 Quella della formazione di competenze nel mondo dell’istruzione
 Quella del sostegno di occupabilità e di stabilità del reddito per i giovani già entrati nel mercato del
lavoro
 Quella della regolazione dei contratti di lavoro, in particolare per i soggetti interessati dalle fasi di
transizione fra istruzione e mercato del lavoro
Evoluzione dei rischi sociali Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al doppio, al triplo e in alcuni paesi
sino a quattro volte quello registrato per gli adulti. Il tasso di disoccupazione è calcolato mettendo in
relazione il numero di giovani tra i 15 e 24 anni in cerca di impiego con il numero di giovani della stessa
fascia di età che sono attivi sul mercato del lavoro, cioè quelli che sono occupati o che cercano attivamente
lavoro.
Dato che il livello di istruzione della popolazione italiana è molto cresciuto negli ultimi decenni, una quota
elevata di persone in età compresa tra 15 e 24 anni sta ancora studiando e quindi non è attiva nel mercato del
lavoro. Accanto al problema della mancata integrazione nel mercato del lavoro dei giovani, vi è una fascia di
popolazione che non ha un impiego e non è inserita nel sistema formativo, i cosiddetti NEET, not in
employement, education or training. In questo insieme rientrano figure molto diverse: disoccupati, coloro
che sono disponibili a lavorare ma non hanno svolto attività di ricerca e coloro che sono inattivi per altre
ragioni. Un ulteriore tema viene spesso richiamato quando si discute di disoccupazione giovanile, ovvero il
fatto che questa sarebbe anche “disoccupazione intellettuale”. Per misurare la disoccupazione intellettuale è
necessario rilevare una penalizzazione connessa al titolo di studio, cioè osservare tassi di disoccupazione più
elevati per gli istruiti rispetto ai meno istruiti. Il livello di istruzione conta moltissimo nel proteggere dal
rischio di disoccupazione. Nel recente periodo di recessione, la situazione dei meno istruiti è peggiorata
molto più di quella dei più istruiti, quindi in termini relativi il vantaggio dei laureati è aumentato. Tuttavia,
comparando l’Italia e gli altri paesi europei, l’Italia è uno dei paesi in cui è minore il ritorno del differenziale
nel livello di istruzione a fini occupazionali. I paesi mediterranei (Italia e Spagna) si caratterizzano per una
penalizzazione molto più marcata dei giovani nel mercato del lavoro, a prescindere dal titolo di studio. Il
quadro europeo appare abbastanza differenziato con ai due estremi la Germania, in cui l’inserimento dei
giovani rimane meno complicato, e l’Italia e la Spagna dove, invece, gli svantaggi per questa fascia della
popolazione sono accentuati.
Strumenti di policy Negli ultimi decenni è emerso il tentativo di investire in politiche e strumenti che
favoriscano e accompagnino i giovani nella transizione fra sistema educativo e mercato del lavoro. La mano
pubblica può agire su tre leve per favorire la transizione dei giovani fra istruzione e lavoro:
1. Sistema formativo, composto soprattutto dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Si
guarda alla formazione di capitale umano specifico che quella di capitale umano generale. Si può operare
sull’occupabilità dei giovani facendo in modo che, a competenze trasversali generaliste, si accompagnino
competenze specifiche da spendere in ambiti occupazionali predefiniti
2. Regolazione dei contratti di lavoro (contenuti, durata, retribuzione), al cui interno si può distinguere la
regolazione degli aspetti più generali attinenti alle modalità di assunzione e licenziamento e quella
specificamente mirata a definire i contratti a causa mista (rapporti di lavoro che prevedono formazione
dei giovani e attività lavorativa contemporaneamente)
3. Politiche di sostegno dei giovani una volta entrati nel mercato del lavoro, che possono essere passive (di
supporto al reddito nel caso di disoccupazione) sia attive (volte ad aumentare l’occupazione di categorie
di soggetti in difficoltà e favorire l’occupabilità

1. Sistema formativo Al suo interno si generano parte delle conoscenze e competenze dei giovani, utili nel
mercato del lavoro. Cinque sono i tratti rilevanti rispetto il tema della transizione al mondo del lavoro:
 Lo spazio attribuito alla formazione tecnico-professionale rispetto a quella di stampo generalista. Vi sono
sistemi rigidi che prevedono una netta ripartizione al termine della scuola primaria fra indirizzi di studio
di tipo generalista-accademico e quelli tecnico-professionali. Nei primi si promuoverebbe la formazione
di capitale umano generale, nei secondi di capitale umano specifico
 Sistemi in cui sono presenti indirizzi tecnico-professionali. I paesi possono adottare scelte differenti in
termini di coinvolgimento delle aziende nella formazione degli studenti. Vi sono sistemi che contano sul
coinvolgimento delle imprese, tramite periodi di percorsi di studi svolti in loco (stage curriculari), e altri
che prevedono una formazione, anche di tipo tecnico-professionale, svolta più nelle aule degli istituti
 Segmento specifico della formazione professionale. Si fa riferimento a quei percorsi di formazione che
prevedono una durata degli studi limitata, centrati su materie pratico-specialistiche e finalizzati al
raggiungimento di una precisa qualifica professionale
 Scelta in termini di curriculum formativo. Tra i sistemi di istruzione rigidi, alcuni rendono difficile
cambiare la propria scelta, all’opposto vi sono paesi in cui vi è una forte flessibilità per lo studente nelle
possibilità di muoversi fra curriculum diversi, dove la scelta del percorso formativo avviene più tardi
 I vari paesi si possono distinguere sulla base di quanto investono in politiche di istruzione e di
formazione
2. Regolazione dei contratti di lavoro Un tema centrale per facilitare la transizione dei giovani al mercato del
lavoro è stato quello di introdurre contratti che rendano più semplice per i giovani fare esperienze lavorative
e ridurre il divario rispetto agli adulti. Due strumenti sono particolarmente rilevanti sotto tale profilo:
 Contratti a causa mista di formazione e lavoro. Lo strumento maggiormente diffuso a livello
internazionale è l’apprendistato. L’apprendistato è un sistema rivolto ai giovani, basato su un contratto di
lavoro, per cui il datore di lavoro si impegna a offrire al lavoratore, oltre che un salario, anche un
percorso formativo professionalizzante e di durata temporale. In cambio della formazione, l’apprendista
accetta in genere condizioni contrattuali meno favorevoli rispetto a un’occupazione standard
 Contratti di lavoro a tempo determinato. Sono considerati da molti come il principale strumento per
aumentare la possibilità d’ingresso per coloro che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro
in contesti ad alta rigidità dello stesso. Tali misure hanno ridotto i vincoli e ampliato i margini di
flessibilità delle forme contrattuali non standard, determinando una deregolazione parziale e selettiva. Ci
saranno quindi interventi che, con l’intento di contrastare lo svantaggio dei giovani in ingresso nel
mondo del lavoro, in realtà lo aggravano, generando nuove forme di disparità sociale su base
generazionale.

3. Politiche attive e passive In caso di disoccupazione gli strumenti di policy sono suddivisi in attivi e
passivi. Le politiche attive consistono in interventi volti ad aumentare l’occupabilità di categorie di soggetti
in difficoltà, fra cui i giovani che sperimentano un percorso problematico di entrata o di permanenza sul
mercato del lavoro. Le politiche passive del lavoro hanno come fine il sostegno del reddito nel caso di
disoccupazione o difficoltà di prima entrata sul mercato del lavoro. Il sistema di sostegno del reddito si può
basare su due principi: uno di tipo assicurativo rispetto a un rischio (in tal caso, disoccupazione) e uno di tipo
assistenziale, legato al riconoscimento di uno stato di bisogno. Nei paesi europei possiamo trovare tre forme
di sostegno del reddito:
 Sistema assicurativo contro il rischio di disoccupazione
 Sistema assistenziale contro il rischio di disoccupazione
 Sistema assistenziale contro il rischio di povertà
Il primo sistema è stato sviluppato in tutta l’UE, il secondo e il terzo non sono presenti in tutti i paesi. Ad
esempio, il secondo e il terzo sono assenti in Italia. Nel nostro paese il sostegno al reddito è indirizzato a quei
soggetti che hanno lavorato in passato e hanno quindi maturato il diritto a forme di sussidio di
disoccupazione. Per un giovane, i criteri di eleggibilità al sistema assicurativo rischiano di essere punitivi e
severi: vi è il rischio che il ragazzo non abbia accumulato un periodo sufficientemente lungo di contributi per
poter avere accesso ai benefici del fondo oppure che i contributi accumulati siano insufficienti. Per i giovani,
che hanno concluso gli studi ma non riescono a transitare nel mercato del lavoro, può generarsi una
situazione di assenza di sostegno che scarica sulle famiglie di origine la necessità di fornire supporto ai figli.
Modelli di policy I modelli di regolazione del sistema di istruzione e formazione professionale in un’ottica
di sviluppi di skills (abilità) comprendono:
 Modello statalista. Si caratterizza per un forte impegno pubblico nell’istruzione e nella formazione
professionale a fronte del quale si registra un limitato intervento del mondo delle aziende. La scuola
secondaria offre corsi di studio professionalizzanti, che permettono la reversibilità delle scelte e il
passaggio a corsi di studio di tipo accademico-generalista. Il ruolo delle imprese rimane limitato
all’eventuale offerta di stage e tirocini
 Modello liberale. Si caratterizza per un sistema di istruzione che tende a dare spazio limitato alla
formazione tecnico-professionale, basandosi sulla produzione di competenze di tipo generalista-
accademico. Le imprese preferiscono formare sul lavoro i propri lavoratori, dopo che hanno concluso gli
studi, a seconda delle loro esigenze produttive specifiche
 Modello collettivo duale. Tale modello vede un forte investimento pubblico in scuole tecniche e
professionali, basandosi sull’integrazione tra scuole tecniche e professionali e lavoro in azienda. Entro
questo modello il sistema formativo è rigido: gli studenti, una volta scelto uno dei due indirizzi, avranno
difficoltà nel cambiare rotta. La stratificazione sociale e la sua riproduzione mostra che modelli
caratterizzati da tracking forte e precoce tendono a presentare livelli più elevati di riproduzione della
disuguaglianza sociale.
I modelli di intervento di sostegno al reddito e di regolazione dei contratti di lavoro comprendono:
 Modello liberale. Si caratterizza per una regolazione dei contratti di lavoro che prevede un basso utilizzo
di contratti a causa mista e una forte flessibilità del lavoro, basata su una regolazione di quello a tempo
indeterminato che permette di licenziare facilmente. Le politiche di sostegno dei giovani in difficoltà
sono molto limitate e poco generose, però vi è un forte investimento quantitativo nel personale dei centri
per l’impiego, che deve supportare la ricerca del lavoro
 Modello socialdemocratico. Si caratterizza per una limitata diffusione di contratti a causa mista e un
discreto livello di flessibilità. A maggior flessibilità sul mercato del lavoro corrisponde un insieme di
politiche di sostegno attive e passive molto generoso. Il termine coniato nei paesi appartenenti a questo
modello per indicare tale mix tra flessibilità sul mercato del lavoro e generosità delle politiche di
sostegno del reddito è “flexsecurity”
 Modello conservatore-corporativo. Qui i contratti a causa mista tendono a essere diffusi. Il livello di
flessibilità nella regolazione del mercato del lavoro è medio-alto in termini di diffusione di contratti non
standard. Le politiche passive di sostegno al reddito sono relativamente generose nell’aiutare i giovani
 Modello sudeuropeo. È caratterizzato da una discreta diffusione di contratti a causa mista, cui si affianca
un livello non particolarmente alto di protezione del lavoro a tempo indeterminato. Il tratto tipico di
questo modello è il trattamento duale e fortemente differenziato fra insider e outsider per cui il grado di
protezione per coloro che sono insider è molto più elevato che per coloro che sono outsider.
Il passaggio da un contesto economico manifatturiero a uno terziario richiede lo sviluppo di competenze in
parte differenti rispetto al passato: da quelle tecnico-professionali, si passa a quelle più generaliste
trasversali. Anche a tal proposito si adopera il concetto di accademizzazione della scuola, cioè quel
fenomeno per cui gli studenti preferiscono, nel momento della scelta delle scuole superiori, percorsi di studio
di tipo generalista-accademico piuttosto che tecnico-professionale. La preparazione generalista tende a
favorire l’ammissione e il conseguimento del titolo universitario. Tale processo finisce, d’altra parte, per
indebolire i percorsi tecnico-professionali, che hanno minore richiamo e attraggono studenti meno capaci e
motivati.
Oltre al fenomeno dell’accademizzazione, un processo a cui le politiche devono rispondere è quello della
flessibilizzazione dei mercati del lavoro, avvenuta dagli anni ’90 ai giorni nostri. Gli stessi strumenti di
regolazione dei contratti di lavoro pensati per favorire un mix tra formazione ed esperienza lavorativa
possono essere utilizzati in maniera distorta, nascondendo la volontà da parte delle imprese di assumere
giovani a condizioni più vantaggiose senza investire effettivamente in attività formative da cui i giovani
possano trarre beneficio. Le politiche di sostegno al reddito hanno dovuto far fronte, negli ultimi decenni, a
una doppia sfida: l’aumento dei tassi di disoccupazione e la difficoltà dei bilanci pubblici nel sostenere i costi
economici delle politiche passive. Tutto ciò ha posto sotto stress i sistemi di risposta pubblica e alcuni
cambiamenti sono noti. Innanzitutto, il tema della transizione del sistema formativo al lavoro ha assunto un
ruolo crescente nel disegno delle politiche scolastiche. Buona parte dei paesi, ha cercato di introdurre dentro
i curriculum percorsi ed esperienze di maggiore collegamento fra imprese e istituti scolastici. Si è cercato di
rivedere e potenziare lo strumento dell’apprendistato, ampliandone la portata. In molti paesi si sono
rafforzati corsi e istituzioni post-scuola secondaria di taglio professionalizzante, che rappresentano una sorta
di continuazione dei percorsi di studio di tipo tecnico-professionale. Accanto all’apprendistato, si sono
diffusi altri strumenti che cercano di coniugare attività formative e lavoro, che si differenziano
dall’apprendistato per l’assenza di un salario (stage).
Nel campo delle politiche di sostegno del reddito, invece, i cambiamenti sono stati più espliciti e rilevanti in
quanto hanno riguardato non solo i giovani ma target più generali delle politiche del lavoro e assistenziali. In
Europa, si è cercato di ampliare la gamma di interventi delle politiche attive del lavoro, investendo
maggiormente anche nei servizi di orientamento e sostegno offerti da quelli che in Italia prendono il nome di
centri per l’impiego, con il tentativo di favorire un approccio di flexsecurity.
In molti paesi europei si è dato spazio agli attori e alle amministrazioni locali nella convinzione che
decentrando fosse più facile far interagire domanda e offerta di lavoro, meglio modulando il sistema
educativo e la formazione rispetto alle esigenze di giovani, studenti e lavoratori, e imprese.

Casi nazionali La Germania si basa sul modello duale a cui si intreccia un ricorso a mezzi come
l’apprendistato e un modello corporativo in campo di protezione sociale e regolazione dei contratti. I giovani
nel mercato del lavoro sono tutelati in maniera simile ad altri lavoratori sia dal pilastro assicurativo sia da
quello assistenziali.
La Svezia adotta un modello statalista, in cui l’investimento in formazione tecnico-professionale avviene
all’interno del sistema scolastico, a cui affianca un modello socialdemocratico nella regolazione dei contratti
di lavoro e di protezione sociale. Questo paese investe sulle politiche attive del lavoro. La protezione del
reddito risulta più svincolata che altrove dalla condizione occupazionale e dalla carriera lavorativa pregressa.
Il Regno Unito adotta un modello liberale sia in campo formativo sia nella regolazione del mercato del
lavoro e della protezione sociale. Il livello di flessibilità passa soprattutto tramite la relativa facilità con cui si
possono chiudere rapporti di lavoro, mentre il livello di generosità e copertura assicurativa contro il rischio di
disoccupazione è limitato. È complessivamente il gioco del mercato a governare i fenomeni.
La Francia adotta un modello statalista in campo formativo e uno corporativo nella protezione sociale e nella
regolazione dei contratti. Il forte investimento in formazione tecnico-professionale avviene all’interno del
sistema scolastico e in parte tramite la formazione professionale. Il sistema di apprendistato risulta
abbastanza diffuso e a esso viene affiancato un mix di politiche attive e passive del lavoro. Vi è un medio
livello di flessibilità, che passa soprattutto tramite la diffusione di contratti a tempo determinato.
L’Italia adotta un modello misto fra liberale e statalista nel campo delle politiche formative. Nel campo
dell’istruzione vi è una radicata storia di istituti tecnico-professionali, con scarso collegamento con il mondo
delle imprese. Nel campo della regolazione dei contratti e della protezione sociale ci si trova in un tipico
modello sudeuropeo: diffusione dei contratti a causa mista, flessibilizzazione che passa tramite la diffusione
dei contratti a tempo determinato, scarso investimento in politiche attive del lavoro, bassa copertura tramite il
pilastro assicurativo e l’assenza di uno schema assistenziale di sostegno del reddito. Una volta usciti dal
sistema scolastico, i giovani sono lasciati a sé stessi e alle risorse private (familiari) che riescono ad attivare.
Conseguenze delle politiche implementate Per quanto riguarda la regolazione e il funzionamento del
sistema formativo, tutti e tre i modelli presentano una serie di punti di forza, ma anche di debolezza. Il
modello statalista prevede una forte integrazione fra sistema pubblico dell’istruzione e formazione
professionale, ma non riesce a creare un rapporto robusto e diretto di collaborazione con il modello delle
aziende, finendo per non offrire né le competenze professionali necessarie ai giovani, né l’opportunità alle
aziende di suggerire e di proporre integrazioni ai curriculum adatte alle loro esigenze. Il modello liberale da
un lato offre flessibilità e capacità di adattamento ai cambiamenti, dall’altro rischia di deprofessionalizzare
coloro che aspirano a occupazioni di stampo manuale sul mercato del lavoro. Così pare possibile lo sviluppo
di scuole che preparino eccellentemente alla prosecuzione degli studi, ma non di scuole che facciano
altrettanto nella direzione delle formazioni a lavori manuali. Il modello duale appare quello che sembra
meglio assicurare un livello elevato di qualificazione professionale degli studenti e uno stretto rapporto fra il
mondo della formazione e quello del lavoro. Rischia però di essere rigido e lento nell’adattarsi ai
cambiamenti nel contesto socioeconomico.
I tre modelli di funzionamento possono essere valutati anche sotto altri due punti di vista: la capacità di
fornire conoscenze e competenze essenziali agli studenti e il livello di stratificazione o destratificazione che
tendono a creare e le conseguenze che ciò può avere in termini di traiettorie di carriera lavorativa.
Per quanto riguarda i termini di flessibilità dei contratti di lavoro il modello liberale inglese è quello che
assicura i tempi di ingresso nel mercato più brevi, seguito da quello socialdemocratico svedese. All’opposto,
nel modello sudeuropeo, in particolare nel caso italiano, i tempi di attesa sono molto più lunghi e
praticamente doppi rispetto a quelli di Svezia e Regno Unito. Quello che più preoccupa del caso italiano è la
durata dell’attesa per i laureati e per i diplomati. La Francia si situa in una situazione intermedia fra quelle
precedenti. La Germania ha tempi di attesa molto contenuti, simili se non inferiori a quelli inglesi, grazie al
sistema duale.
Nei paesi dell’Europa meridionale la prevalenza dei giovani nei contratti a temine è molto accentuata e va
aumentando nel tempo. Ridurre i vincoli all’uso dei contratti a tempo determinato può far aumentare le
assunzioni e, soprattutto nei paesi dove i giovani fanno più fatica a entrare nel mercato del lavoro, facilitare
la transizione istruzione-lavoro, ma allo stesso tempo può accrescere i rischi di disoccupazione, se determina
un aumento forte della quota di occupazione a tempo determinato o, ancor peggio, processi di sostituzione di
contratti stabili con contratti instabili. Le politiche di deregolazione del mercato del lavoro italiano hanno
causato un aumento della quota di occupazione a tempo determinato, che ha riguardato soprattutto i giovani.
Gli unici strumenti di protezione sembrano essere incentrati sulla figura del maschio adulto capofamiglia,
sulla base dell’assunto che siano i nuclei familiari di origine a offrire sostegno ai giovani disoccupati o in
condizione di elevata precarietà, i quali mostrano tendenze di prolungamento della convivenza con i genitori
molto più accentuate che altrove. Il percorso di flessibilizzazione, imboccato dai paesi dell’Europa
meridionale, al fine di ridurre la disoccupazione giovanile non accompagnato da una parallela trasformazione
del sistema di welfare, finisce per influenzare l’intero processo di transizione alla vita adulta, sottoponendo le
famiglie a forti tensioni.
Nel caso italiano, non sorprende che, in situazioni di difficoltà di funzionamento delle istituzioni pubbliche
che dovrebbero aiutare le transizioni fra istruzione e lavoro, le famiglie e i canali informali abbiano una
centralità che non si riscontra in altri modelli, anche in termini di strumenti utilizzati per cercare lavoro. La
situazione svedese risulta diversa: nel modello scandivano i due strumenti principali utilizzati dai giovani
sono i servizi pubblici e il contatto diretto con l’impresa. Nel modello liberale, invece, i giovani fanno
ricorso a una molteplicità di strumenti, formali e informali, pubblici e privati. Il modello francese e tedesco si
presenta come un mix fra i due precedenti: vi è un forte ricorso ai servizi pubblici, ma vengono utilizzati
anche molti altri metodi per cercare lavoro. Il modello sudeuropeo vede l’assoluta prevalenza del tentativo di
contatto diretto con le aziende e, soprattutto, dei canali informali ovvero delle reti e del capitale sociale.
7. LE POLITICHE DI CONCILIAZIONE DI CURA E LAVORO
I problemi della conciliazione lavoro-cura nascono nell’intreccio tra dinamiche occupazionali e
demografiche inerenti procreazione e organizzazione delle famiglie. Anche l’invecchiamento ha effetti sui
problemi di conciliazione, nella misura in ci incentiva l’abbandono del mercato del lavoro da parte delle
figlie di persone anziane non autosufficienti. Due fattori hanno contribuito a creare una domanda sociale di
conciliazione:
a. Aumento dell’occupazione femminile. L’aumento dell’occupazione femminile rappresenta una tendenza
di lungo periodo che trova spiegazione nel complesso di mutamenti economici e culturali che hanno
interessato tutte le società avanzate del dopoguerra. Hanno contribuito senz’altro i cambiamenti
intervenuti nella struttura produttiva delle società postindustriali, giacché la crescita del settore dei
servizi ha originato una domanda più ampia di lavoro per le donne. Ha contato, soprattutto dagli anni
’90, l’esigenza delle famiglie di disporre di due redditi per coprire la precarizzazione del lavoro
giovanile.

Sino agli anni ’70 il lavoro femminile costituiva un’attività prevalentemente discontinua e instabile,
segnata da una posizione inevitabilmente marginale. In Italia, un livello relativamente elevato
dell’occupazione femminile era individuabile fino alla soglia dei 30-35 anni, cui seguiva una forte
riduzione determinata sia dalla maternità sia dall’impossibilità a rientrare nel mercato del lavoro. Mentre
nei primi anni ’80 i paesi scandinavi e la Francia erano già in grado di sostenere l’occupazione
femminile, la Germania insieme al Regno Unito e ai Paesi Bassi hanno compiuto il grande balzo nei
decenni ’80 e ’90, mentre l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa hanno accorciato le distanze soltanto
nell’ultimo decennio. La rimonta del lavoro femminile non ha tuttavia risolto i problemi della
conciliazione cura-lavoro, ma li ha dislocati dentro il mercato del lavoro, dove gran parte del lavoro
femminile è utilizzato per un tempo di lavoro parziale, e sotto-remunerato rispetto a quello maschile.

b. Caduta tendenziale del tasso di fertilità. Le tensioni originate dalla difficile integrazione nel mercato del
lavoro si sono scaricate sull’altro versante del sistema di conciliazione: la fertilità. Mentre durante gli
anni ’70 il calo della fertilità fu comune a tutti i paesi, all’inizio degli anni ’80 le traiettorie nazionali
cominciarono a divergere. In Francia il crollo della natalità si interruppe e il tasso di fertilità si stabilizzò
appena al di sotto della soglia dei 2 bambini per donna, per poi conoscere una ripresa con il nuovo
millennio. In Danimarca nei Paesi Bassi ci fu un calo più radicale, cui seguì un recupero che ha
consentito loro di raggiungere tassi di fertilità simili a quelli della Francia. La fertilità sembrava
aumentare proprio nei paesi in cui la partecipazione femminile al mercato del lavoro era più elevata. La
ragione di questo apparente paradosso fu trovata nella capacità di questi paesi di sviluppare politiche di
conciliazione molto generose ed efficaci. In Germania, Italia e Spagna, invece, il trend negativo della
fertilità ha continuato più a lungo. Solo la prima decade del nuovo millennio ha visto una timida ripresa,
dovuta alla maggior presenza di donne immigrate.

Gli ultimi vent’anni hanno visto un grande cambiamento nei modelli familiari. Uno dei fenomeni più
evidenti è la deistituzionalizzazione del matrimonio, che si riferisce a un aumento dell’instabilità delle
coppie, alla formazione di tipologie diversificate di famiglia e all’abbandono del modello tradizionale di
famiglia. Il fenomeno più vistoso connesso a questo processo è la crescita della quota di bambini nati
fuori dal matrimonio. Nei paesi mediterranei l’aumento della quota di bambini nati fuori dal matrimonio
è rimasta bassa fino alla fine degli anni ’90, per poi aumentare gradualmente. In questi paesi la
permanenza di valori tradizionali inerenti matrimonio e ruoli sessuali rende difficile lo sviluppo di forme
innovative di organizzazione della famiglia, fondate su relazioni più paritarie tra i sessi e, di
conseguenza, dove la concezione tradizionale di famiglia resiste maggiormente, la natalità rimane
compressa. Qui il grado di corresponsabilità dei padri nei compiti di gestione familiare è modesto,
caricando soprattutto sulle donne il peso della conciliazione. Conseguenza della deistituzionalizzazione
del matrimonio è anche il diffondersi di famiglie composte da figli con un solo genitore. La presenza di
famiglie monogenitoriali pone gravi problemi alle politiche: non solo i bisogni di conciliazione sono più
difficili da gestire, ma anche il rischio di povertà e vulnerabilità finanziaria è più elevato.

Strumenti di policy Gli strumenti di intervento che danno forma alle politiche di conciliazione sono:

Congedi Consistono nella possibilità di astenersi dal lavoro per un certo periodo mantenendo il diritto al
proprio posto di lavoro. I diversi congedi variano da paese a paese per lunghezza, flessibilità, livello di
compensazione economica, dando luogo a pacchetti diversificati. Storicamente, il primo tipo di congedo
introdotto, al fine di proteggere la salute delle lavoratrici del settore industriale e dei loro figli prima e dopo
la nascita, fu il congedo di maternità. Attraverso questo istituto si è protetta la maternità come funzione
sociale, non solo impedendo il licenziamento della madre in prossimità del parto, ma consentendole anche di
poter accudire i figli astenendosi totalmente dal lavoro. In quasi tutti i paesi è obbligatorio.
In tutti i paesi europei è stato introdotto un secondo congedo definito congedo parentale, che offre ai genitori
l’opzione di astenersi dal lavoro dopo il termine di congedo obbligatorio di maternità. Il congedo parentale
ha caratteristiche diverse da paese a paese: cambia la titolarità (coppia o individuale), così come il grado di
flessibilità nell’uso (tempo pieno o parziale), varia anche la durata massima (dai 6 mesi sino a 3 anni). Sono
le madri a ricorrere più spesso e più a lungo al concedo parentale, non solo perché i padri percepiscono
spesso una retribuzione più elevata, ma anche per ragioni culturali e per le resistenze organizzative delle
aziende.
In molti paesi esiste anche il congedo di paternità, destinato ai padri, che prevede una compensazione
analoga a quella del congedo di maternità, anche se è di durata decisamente inferiore. La conciliazione, in
questo senso, diviene sempre più una questione di parità di genere e non solo di armonizzazione di maternità
e lavoro.
Servizi pre-educativi e di cura Le esigenze di conciliazione si sono coagulate intorno alla scuola
dell’obbligo, (nonostante sia nata prima che il problema della conciliazione emergesse) e itorno all’età
prescolare.
La strutturazione di questi servizi varia da paese a paese. In Italia, i servizi prescolari sono organizzati in due
cicli successivi. Il ciclo che si pone immediatamente prima della scuola dell’obbligo (scuola dell’infanzia o
scuola materna) nate tra fine ‘800 e inizio ‘900 sulla base di diverse teorie pedagogiche, e il ciclo dei servizi
per bambini più piccoli, sino ai 3 anni. Quest’ultimo comprende i nidi d’infanzia, nei quali i bambini sono
accuditi collettivamente per un certo numero di ore al giorno. Ad oggi i nidi sono intesi come ambienti sicuri
ma anche ricchi di stimoli, nei quali i bambini sono accuditi e al tempo stesso guidati in attività pre-
educative. Questi servizi rispondo sempre più a diversi obiettivi: favorire la conciliazione famiglia-lavoro dei
genitori, sostenere le capacità di apprendimento dei bambini e ridurre le disuguaglianze sociali, se l’accesso a
tali servizi viene incentivato per i bambini provenienti da famiglie svantaggiate, che possono trovarvi stimoli
e strumenti meno presenti nel loro ambiente familiare. I servizi per i piccolissimi, specialmente se di buona
qualità, hanno costi elevati. La loro diffusione è disuguale da paese a pese e, in molti casi, anche all’interno
dei singoli paesi. Ciò ha favorito processi di esternalizzazione della gestione di questi servizi a enti privati e
del privato sociale. In molti paesi si è sostenuto lo sviluppo di servizi più economici, spesso organizzati su
base domestica (tate registrate).
Part time e sostegni economici Negli ultimi due decenni il processo di destandardizzazione dei contratti di
lavoro ha interessato tutti i paesi europei, benché in modi differenziati, e ha aumentato la disponibilità di
posti di lavoro a tempo parziale, con implicazioni sia positive, sia negative. Da un lato sono molti coloro che
lavorano a tempo parziale involontariamente, che accettano tale modalità non trovando alternative a tempo
pieno. Dall’altro, gli orari di lavoro a tempo parziale si conciliano meglio con gli orari delle scuole e dei
servizi prescolastici. I lavoratori con contratto part time sono, non a caso, in larga parte donne.
In molti paesi esistono schemi detti “cash for care”. Essi consistono in trasferimenti monetari, voucher o
sgravi fiscali destinati ai genitori di figli piccoli. In alcuni casi essi sono offerti per i pagamenti di servizi, in
altri possono essere utilizzati liberamente, ad esempio per coprire il mancato reddito del lavoro del genitore
che si prende cura dei propri bambini. Pur non essendo misure di conciliazione vere e proprie, sostengono
indirettamente la possibilità di acquistare servizi di cura. La copertura è universalistica se vi accedono tutti i
nuclei con bambini sino a una certa età, selettiva se destinati solo ai nuclei con reddito sotto una certa soglia.
Modelli di policy e la loro evoluzione Il modello male breadwinner, fondato sul maschio percettore di
reddito, offre un’immagine delle differenze che sussistevano tra i paesi europei tra la fine degli anni ’80 e i
primi anni ’90. Il generalizzato aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro ha allontanato
tutti i paesi europei dal malebreadwinner model, avvicinandoli ai modelli:
 One-and-a-half, che favorisce l’occupazione delle donne a tempo parziale
 Adult-worker model, che sostiene l’occupazione di padri e madri
 Dual-earner/ dual-carer model, che promuove una maggiore parità di genere anche nei compiti di cura
Una diversa concettualizzazione riguarda la misura in cui le politiche sostengono l’esternalizzazione delle
responsabilità di cura al di fuori della famiglia. Le politiche possono sostenere la defamilizzazione, oppure
sostenere la delega di responsabilità di cura alla famiglia attraverso congedi e trasferimenti monetari. Si ha,
invece, il familismo per default, in quei contesti dove le politiche non forniscono alternative praticabili alle
responsabilità familiari, né offrono alcun reale sostegno alle famiglie stesse.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, i discorsi di impronta neoliberista favorevoli alla riduzione
della spesa sociale divennero dominanti. Gli ambiti relativi alla conciliazione ne furono tutt’altro che esenti.
Si diffuse la cosiddetta “malattia dei costi crescenti”, ovvero l’impossibilità di ottenere la riduzione dei costi
senza deprimere la qualità dei servizi. Si cominciarono ad osservare cambiamenti negli approcci e nelle
modalità con cui le politiche venivano realizzate. Da un lato, furono sviluppati gli strumenti di policy che
permisero ai genitori di accudire i propri bambini. Misure cash for care vennero introdotte o ampliate in
molti paesi e la durata complessiva dei congedi venne allungata. Dall’altro, fu favorito in vari modi lo
sviluppo dell’offerta privata: attraverso il sostegno economico ai fornitori oppure tramite contributi agli
utenti per abbattere il costo della retta o ancora mediante l’affidamento della gestione di strutture pubbliche a
soggetti privati.
Dalla fine degli anni ’90 la nuova priorità venne individuata nell’aumento della base occupazionale al fine di
garantire la sostenibilità economica dei sistemi di welfare. Inoltre, vennero identificati dei livelli target di
copertura dei servizi all’infanzia, da raggiungere entro una data prestabilita. L’Europa ha posto un focus su
quest’ultimo obiettivo in quanto la spesa per le misure di policy che possono avere ritorni economici futuri
va considerata non come un mero costo, ma come un vero e proprio investimento pubblico. I servizi per la
prima infanzia permettono, infatti, ritorni economici in un duplice senso. Da un lato, la loro funzione in
termini di conciliazione consente ai genitori di lavorare. Attraverso il loro reddito da lavoro i genitori non
pesano sui conti pubblici, versano tasse concorrendo ad ampliare le risorse pubbliche disponibili. Dall’altro
lato, se di qualità, i servizi pre-educativi sostengono lo sviluppo cognitivo.
I cambiamenti adesso elencati si sono stratificati in complesse configurazioni nazionali.
 Primo cluster: paesi scandinavi, combinano un impianto universalistico delle politiche sociali con una
precoce attenzione alle pari opportunità di genere. Le famiglie con figli godono di trasferimenti
economici consistenti e di congedi parentali con elevati livelli di indennità
 Secondo cluster: paesi anglosassoni. I servizi prescolari finanziati dal pubblico sono concentrati nelle
aree territoriali deprivate e riservati alle famiglie svantaggiate. I congedi sono lunghi, ma le indennità
sono poco generose. La conciliazione famiglia-lavoro è stata a lungo considerata un ambito da
demandare alla negoziazione tra datori di lavoro e lavoratori. Triangolandosi con essa, in tempi più
recenti la regolazione pubblica ha promosso il sostegno economico che i datori di lavoro forniscono ai
propri lavoratori per far fronte ai costi della cura. In questi paesi la defamilizzazione si realizza
attraverso il ricorso al mercato
 Terzo cluster: i paesi continentali, che hanno in comune un approccio definito di sussidiarietà attiva:
responsabilità di cura e di redistribuzione sono demandate alle famiglie, sostenute dallo stato con
generosi trasferimenti monetari. In questo campo di policy si distinguono due sottogruppi: Francia e
Belgio, noti per uno sviluppo precoce e articolato delle strutture pre-educative; Austria e Germania,
caratterizzati da un’offerta di servizi di cura marginale per i bambini più piccoli. La fornitura di servizi
per l’infanzia è demandata a enti del terzo settore. Le politiche hanno a lungo incoraggiato l’accudimento
da parte di uno dei genitori. La Germania, col tempo, si è discostata da questo percorso, adottamento
pienamente la strategia di attivazione, e gli obiettivi europei a essa connessi sull’espansione dei servizi
all’infanzia
 Quarto cluster: paesi sudeuropei, contraddistinti dal carattere passivo della relazione si sussidiarietà che
intercorre tra stato e famiglia, ovvero dal fatto che questa non è adeguatamente sostenuta dai
trasferimenti pubblici come avviene nei paesi continentali. I congedi parentali prevedono basse
indennità, con utilizzo limitato. L’offerta di servizi forniti o finanziati pubblicamente è differenziata per
fascia d’età
 Quinto cluster: paesi ex socialisti e nuovi entranti nell’UE. Ciò che li unisce è l’esperienza di
un’economia pianificata combinata con l’obiettivo ideologico della parità di genere. I livelli di copertura
dei servizi alla prima infanzia non erano però omogenei
Conseguenze delle politiche implementate L’impatto più identificabile è quello relativo all’occupazione
femminile. Sembra evidente che l’esistenza di politiche di conciliazione contribuisca a favorire e tutelare
l’occupazione femminile. L’impatto è tuttavia differenziato da paese a paese e a seconda dello strumento di
policy adottato. Per comprendere come mai l’impatto occupazionale delle politiche di conciliazione sia
diverso da paese a paese, è necessario considerare due meccanismi attraverso cui le politiche di conciliazione
sostengono l’occupazione femminile e una maggiore parità sul lavoro tra uomini e donne. Da un lato, le
politiche consentono alle madri di stare nel mercato del lavoro nonostante il fatto di avere figli, attraverso
strumenti di protezione della maternità o di flessibilizzazione del lavoro. Dall’altro, le politiche consentono
di esternalizzare l’accudimento dei figli al di fuori della famiglia, attraverso servizi di childcare: un processo
definito di defamilizzazione della cura. I modelli di conciliazione analizzati hanno impatti differenziati
sull’occupazione femminile a seconda della loro capacità di sostenere la mercificazione del lavoro e delle
donne e la defamilizzazione della cura dei bambini. Le politiche ritenute più efficaci per sostenere
l’occupazione femminile sembrerebbero quelle fondate sull’offerta di servizi all’infanzia full time o la
disponibilità di lavori part time. In questo caso il potenziale di mercificazione è elevato, ma anche quello di
defamilizzazione (anche se il part time può avere effetti disincentivi, se le retribuzioni sono troppo modeste
per garantire un tenore di vita adeguato alle famiglie).
Le politiche di conciliazione, rivolte a garantire l’occupazione femminile durante la maternità, finiscono per
produrre paradossalmente uno svantaggio per le donne, traducendosi in un danno per la loro posizione sul
mercato del lavoro. L’effetto è diverso se l’utilizzo dei congedi è condiviso tra madri e padri, e se la
conciliazione si basa sull’offerta di servizi childcare. Questi servizi consentono alle madri di poter lavorare a
tempo pieno e senza periodi eccessivi di assenza per maternità. Oltretutto, le donne, se sostenute da una
divisione più paritaria delle responsabilità familiari, potrebbero dedicare investimenti ed energie maggiori
nel mercato del lavoro, riducendo il rischio di segregazione in settori occupazionali marginali. In
conclusione, è possibile affermare che gli effetti positivi delle politiche di conciliazione sono correlati
soprattutto all’offerta dei servizi per l’infanzia e, solo successivamente, alla diffusione del part time e dei
congedi parentali.
La conciliazione si propone anche di sostenere la natalità. Le misure più efficaci sono l’offerta di servizi per
l’infanzia e la concessione di benefici economici a sostegno delle famiglie per l’accudimento dei figli. La
fertilità si rinforza soprattutto quando l’inserimento nel mercato del lavoro e le politiche di conciliazione
sono in grado congiuntamente di sostenere la maternità nel medio-lungo periodo, offrendo alle madri una
sostanziale stabilità di reddito e di garanzie.
8. LE POLITICHE DI LONG-TERM CARE
La non autosufficienza costituisce una situazione di vita caratterizzata da limitazioni croniche nello
svolgimento autonomo delle funzioni quotidiane fondamentali. A partire dagli anni ’90 la non
autosufficienza esplose come problema pubblico in tutti i paesi del mondo occidentale. Fu considerata come
l’emergere di un nuovo rischio sociale, la cui tutela richiede una ricalibratura dei sistemi di welfare. Gli
individui venivano considerati come persone dipendenti da familiari, ma al contempo le responsabilità di
cura assunte dai familiari non erano considerate meritevoli di sostegno pubblico. Il problema del care deficit
esplose in Europa non appena l’invecchiamento della popolazione divenne un problema pervasivo.
L’aumento dell’età incrementò il numero di persone affette da malattie oppure invalidità croniche, bisognose
anche di assistenza per lo svolgimento dei compiti più semplici della vita quotidiana. A fronte di questi
problemi e per via della riduzione parallela delle capacità di cura delle famiglie, i servizi pubblici di cura e
assistenza allora disponibili si mostrarono inadeguati. È a partire da queste tensioni che le politiche di long-
term care sono diventate una delle aree in cui l’innovazione istituzionale è maggiormente avvenuta negli
ultimi vent’anni.
Evoluzione dei rischi sociali Alla base dell’esplosione dei bisogni di cura sta innanzitutto l’aumento del
numero assoluto delle persone non autosufficienti. Gran parte dell’aumento nel numero degli invalidi deriva
dall’invecchiamento della popolazione europea. L’impatto più evidente di questo processo riguarda
l’aumento dei “grandi vecchi”, ovvero della popolazione over 80. Se l’invecchiamento accresce la presenza
di persone con disabilità gravi, è vero anche che la loro situazione di vita contribuisce ad aumentare il
bisogno di cura. L’invecchiamento della popolazione, insieme alla diffusione di valori individualistici, ha
infatti determinato un incremento dei grandi anziani che vivono soli e una riduzione progressiva dei nuclei
multigenerazionali, in cui gli anziani convivono con uno o più dei loro figli. I processi di individualizzazione
minano le solidarietà familiari ed espongono le persone più anziane al rischio della solitudine e
dell’isolamento progressivo.
Altri cambiamenti sociali hanno avuto conseguenze molto rilevanti sulle condizioni di vita delle persone non
autosufficienti. in tutti i paesi europei la fonte principale di cura è da sempre costituita dai familiari, siano
essi conviventi o meno. Le tendenze in atto nelle forme familiari segnalano un generale indebolimento del
caregiving familiare, che deve essere così sostituito oppure completato da strutture residenziali.
L’indebolimento delle reti familiari dipende innanzitutto dallo squilibrio demografico determinatori a causa
del contemporaneo aumento della popolazione anziana, della stabilità della popolazione adulta e della
progressiva riduzione della popolazione giovanile per via del calo delle nascite. È evidente che, di questo
passo, l’equilibrio tra le generazioni sarà sempre più compromesso, risultando in una notevole presenza di
anziani nei confronti degli adulti che possono prendersene cura.
Ai cambiamenti demografici si aggiungono altri processi che rendono sempre più arduo immaginare che le
famiglie possano assolvere ai crescenti compiti di cura. L’aspetto più importante è l’aumento costante della
propensione delle donne a lavorare e a mantenere la posizione lavorativa per tutto l’arco della loro età
lavorativa. In passato, molte donne lasciavano il mercato del lavoro allorché si trovavano di fronte a compiti
di cura. Inoltre, i sistemi pensionistici erano generosi nel favorire l’uscita dal mercato del lavoro prima o
attorno ai 60 anni. Le difficoltà di conciliazione conducevano così all’inattività lavorativa.
A fronte dell’aumento del bisogno di cura, si è ristretto il serbatoio di popolazione tradizionalmente
impegnata in compiti di cura, disponibile in passato a dare priorità alle responsabilità di cura piuttosto che
all’occupazione e alle prospettive di carriera. L’ultimo aspetto da considerare riguarda gli orientamenti
culturali della popolazione verso la cura, e in particolare verso il fatto di attribuirvi priorità a dispetto del
lavoro. In Europa, se da un lato i valori della solidarietà familiare sono ancora forti e sentiti, dall’altro le
soluzioni concrete sono quelle che vedono la disponibilità di servizi di cura in grado di non delegare
totalmente la responsabilità alle famiglie. Emerge la consapevolezza che la solidarietà familiare non sia più
sufficiente a fronteggiare i bisogni di cura, e che lo spazio delle politiche sia destinato a diventare sempre più
importante, non solo per la cura delle persone non autosufficienti, ma anche per sostenere e coadiuvare le
stesse reti di aiuto familiare.
Gli strumenti di policy I problemi della non autosufficienza sono stati affrontati dalle politiche pubbliche
dispiegando un’ampia gamma di interventi. Tali politiche vengono chiamate long-term care. Gli strumenti di
policy più utilizzati sono raggruppabili in due tipi:
 Fornitura pubblica diretta o mediata attraverso l’utilizzo di agenzie specializzate private o non profit, di
servizi di cura quali strutture residenziali e l’assistenza domiciliare professionale
 Prestazioni monetarie finalizzate a finanziare l’attività di cura prestata da familiari o da personale
specializzato direttamente impiegato dai beneficiari, oppure finalizzato a sostenere l’acquisto di servizi
di cura sul mercato privato
In alcuni paesi a tali prestazioni si affiancano forme di regolazione dell’acquisto del lavoro di cura prestato
da lavoratori individuali in gran parte costituiti da donne immigrate. Altri interventi riguardano la fornitura di
alloggi protetti indipendenti, i servizi di sollievo (finalizzati a sollevare dalla cura i parenti per periodi
transitori), i centri diurni, i servizi di sostegno alla mobilità delle persone disabili. Tutti i paesi europei
prevedono l’erogazione di pensioni di disabilità, finalizzata a garantire un reddito adeguato a persone
costrette a non lavorare a causa del loro stato di invalidità cronica.
La misura più tradizionale di assistenza long-term è il ricovero della persona presso una struttura
residenziale. L’istituzionalizzazione fu considerata come la soluzione più semplice ed economica per le
persone con dipendenze gravi. Nel tempo, si sviluppò una progressiva differenziazione tra le strutture
residenziali a elevata intensità sanitaria, rivolta a persone non autosufficienti in condizioni di forte
dipendenza, e strutture più simili ad alberghi, a bassa intensità sanitaria, ma con attenzione molto più delicata
alla dimensione relazionale e al comfort. Entrambi i tipi di residenza diventarono ben presto molto costosi,
proprio per la necessità di integrare tutti i servizi al loro interno. La strategia di esternalizzarne la gestione ad
enti privati comportò soltanto un aumento spropositato dei costi pubblici, costringendo le autorità pubbliche
a diverse forme di razionamento per contenere le spese. A partire dagli anni ’90, in tutti i paesi europei si è
diffusa la tendenza a ridurre la fornitura di servizi residenziali allo scopo di limitare i costi pubblici e di
rispondere alla domanda di molti disabili (e dei loro familiari) di poter restare nelle loro abitazioni.
L’assistenza domiciliare era efficace nel ritardare l’istituzionalizzazione delle persone disabili e nel ridurre i
costi assistenziali, soprattutto per la possibilità di integrare l’assistenza specializzata con quella informale
fornita da familiari vicini e amici. L’istituzionalizzazione in strutture residenziali specializzate resta uno
strumento fondamentale per l’assistenza ai disabili più gravi e per i disabili soli senza reti familiari di cura.
A cominciare dagli anni ’80 e, soprattutto ’90, in Europa si è diffuso un movimento di opinione a favore
dell’ageing in place. L’obiettivo era la deistituzionalizzazione degli anziani e la promozione di strumenti di
policy finalizzati a mantenere le persone non autosufficienti nel loro contesto sociale di vita quotidiana e a
promuoverne l’autonomia e la socialità. La possibilità di mantenere le persone nel loro ambiente di vita fu
anche vista come una riduzione di costi. In linea generale, l’assistenza domiciliare prevede standard
professionali e prestazionali meno elevati rispetto l’assistenza istituzionale, in modo da consentire una
maggiore flessibilità dei servizi. Anche i contratti di impiego per gli operatori domiciliari sono impostati su
base temporanea, e con pochi riconoscimenti di carriera, sempre in nome della flessibilità d’offerta e del
desiderio di assecondare le esigenze degli utenti, aprendo in realtà uno spiraglio per una progressiva
dequalificazione del lavoro di cura. L’inevitabile lievitazione dei costi pubblici connessi a servizi offerti a
un’ampia platea di utenti condusse, a cominciare dagli anni ’90, all’introduzione di criteri di economicità e
risparmio anche in questo servizio. Le strategie adottate si orientarono attorno ad alcuni concetti e strumenti:
 Il targeting, accompagnato dal focusing, delle prestazioni sulle funzioni centrali ridussero il numero
degli utenti concentrando l’attenzione e le ore di assistenza solo sui casi più gravi
 La pluralizzazione dell’offerta e la competizione di mercato fra diversi providers, attraverso
l’introduzione di una distinzione tra “funzioni di acquisto” e “funzioni di offerta diretta” dei servizi,
l’autorizzazione a fornitori privati e non profit di fornire servizi domiciliari
 Forme di universalismo selettivo, fondate sulla priorità di accesso alle prestazioni ai cittadini più poveri
e/o l’introduzione del co-payment commisurato al reddito, per tutti gli altri utenti
L’assistenza domiciliare costituisce attualmente il caposaldo dei sistemi nazionali di long-term care. La sua
diffusione ha reso possibile: la permanenza a casa di milioni di anziani europei, secondo i principi
dell’ageing in place; lo sviluppo di un’offerta diversificata, flessibile e maggiormente adeguata alle esigenze
variabili nel tempo degli utenti; il sostegno alle reti informali di aiuto attraverso prestazioni professionali e
affidabili.
Si tratta di un efficace strumento di policy, pur con alcuni limiti ben chiari. La limitazione delle ore di home
care professionale offerte non rende questi servizi realmente alternativi al ricovero in istituti per i casi più
gravi. La flessibilità degli standard professionali e prestazionali ha consentito ai policy makers di modulare
questi interventi senza modificare i diritti d’accesso all’assistenza; se questa flessibilità costituisce un
elemento di attrattività per i politici, contribuisce anche a render poco definita la qualità dell’assistenza
domiciliare.
Lo strumento di policy che ha avuto il maggior sviluppo è il cash for care, cioè un sostegno finanziario dato
ai soggetti disabili per sostenere i costi connessi alla cura e all’assistenza. I trasferimenti monetari sono
diffusi e riconosciuti perché si tratta di misure di semplice implementazione, poiché non richiedono alcuna
particolare infrastrutturazione organizzativa, il che consente anche una notevole rapidità nelle procedure di
applicazione. Oltretutto, consentono di ridurre i costi rispetto a misure equivalenti che si traducono
nell’offerta di servizi. Consentono di allargare la platea di beneficiari anche a soggetti con un grado parziale
di dipendenza, commisurando le risorse concesse a diversi stadi di invalidità. Infine, lasciano notevole
autonomia ai beneficiari di organizzare il sistema di cura secondo i principi della libertà di scelta e
dell’autonomia del cittadino.
Vi è una distinzione fondamentale tra prestazioni cash che non pongono alcun vincolo al beneficiario
sull’uso delle risorse monetarie concesse e prestazioni cash che possono essere utilizzate soltanto per gli
scopi e le funzioni stabilite dall’amministrazione che li concede.
 Il primo tipo viene definito “trasferimento senza vincoli d’uso” ed è caratteristico dell’Italia, Regno
Unito, Germania e Austria. Il trasferimento monetario è continuativo, mensile, di ammontare medio-
basso e concesso sulla base di una valutazione medica e sociale. Non viene prevista alcuna prescrizione
riguardo l’utilizzo del trasferimento monetario, che resta nella piena e libera disponibilità dei beneficiari.
I principali rischi insiti in tale strumenti sono tre: la concessione del beneficio non garantisce ovviamente
che i beneficiari siano in grado di utilizzarlo in modo adeguato per assicurarsi una cura di buona qualità;
il beneficio può essere usato in modo non appropriato o illegale, ad esempio assumendo personale di
cura senza contratto; la concessione di un beneficio monetario scarica l’intera responsabilità della cura
sulla rete familiare e può disincentivare i caregivers informali dalla ricerca o dal mantenimento del
lavoro, intrappolando soprattutto le donne in compiti di cura spesso indesiderati.
 Il secondo tipo, sviluppato nei Paesi Bassi, in Francia e nel Regno Unito, è costituito da trasferimenti
condizionati nell’uso, ovvero da somme di denaro, definite in base al grado di disabilità, che possono
essere utilizzate solo per acquistare i servizi di cura prestabiliti oppure per organizzare la cura
componendo insieme uno specifico pacchetto di servizi. Spesso questa misura equivale ad un voucher,
ovvero un titolo che può essere speso scegliendo tra diversi fornitori dello stesso servizio di cura. Poiché
spesso si ritiene che la capacità di scelta dei cittadini, soprattutto se anziani e disabili, sia ridotta, in
alcuni paesi il voucher viene reso disponibile soltanto una volta steso un piano assistenziale, che prevede
il tipo di servizi utili nel caso specifico e che viene supervisionato da un case manager, ovvero un
operatore sociale specializzato. Rispetto alle misure cash non vincolate, questa misura evita il rischio di
un utilizzo improprio. L’esperienza concreta di applicazione di questi sistemi ha tuttavia segnalato alcuni
problemi: la scarsa informazione disponibile ai cittadini su servizi prestati e sulla professionalità dei
fornitori di servizi rende molto debole il loro potere di scelta; lo stesso problema acuito dall’assenza di
controlli pubblici rende difficile ai cittadini verificare direttamente la qualità dei servizi di cura erogati
dalle agenzie cui essi si rivolgono.
L’ultimo strumento è lo sviluppo di forme di regolazione nel mercato del lavoro e in materia di
immigrazione che consentono la diffusione di servizi di cura forniti da assistenti domiciliari privati, in
maggioranza lavoratori stranieri assunti direttamente dalle persone disabili. In contesti come quello italiano
quasi due terzi di questi lavoratori svolgono la loro attività senza un contratto regolare d’impiego, e spesso
senza nemmeno un permesso di soggiorno. L’assistenza viene spesso prestata sulla base di un impiego
quotidiano praticamente continuo lungo l’intera giornata, con il lavoratore domiciliato presso la residenza
dell’assistito e inserito a pieno titolo nella sua rete familiare. Il successo del sistema è legato alla mutua
convenienza economica: le persone non autosufficienti ottengono una cura a basso prezzo, che consente loro
di restare nella propria abitazione anche in assenza di servizi pubblici domiciliari e/o di una rete familiare di
supporto, mentre i lavoratori di cura, essendo per lo più immigrati di prima generazione, trovano una
soluzione al tempo stesso residenziale e lavorativa, e comunque retribuita meglio di quanto sarebbero in
grado di trovare nel loro paese d’origine.
Il particolare contratto, spesso neanche scritto, tra disabili e lavoratori stranieri della cura si regge su due
aspetti regolativi cruciali. Da un lato, la legislazione sul lavoro non prevede un contratto specifico per lo
svolgimento di queste attività di cura; si è creato così un vuoto regolativo che ha consentito ampio spazio
all’aggiramento di norme e diritti contrattuali, oppure alla diffusione di contratti “grigi”, in cui ai lavoratori
viene riconosciuto un ammontare di ore inferiore a quello effettivamente svolto. Dall’altro lato, l’irregolarità
dei contratti di lavoro, la temporaneità degli impieghi e l’assenza di una precisa qualificazione professionale
sono elementi che non permettono ai lavoratori stranieri della cura di poter ottenere il permesso di soggiorno,
rendendoli ancora più deboli e ricattabili nei confronti dei loro datori di lavoro.
Si parla di regimi migratori della cura per indicare che questi sistemi di cura, e i rapporti di convenienza
reciproca che si instaurano tra lavoratori e datori di lavoro, sono il frutto di regimi di regolazione dei flussi
migratori che mantengono i lavoratori stranieri in una posizione svantaggiata nel mercato del lavoro.
Modelli di policy I sistemi di long-term care dell’Europa presentano caratteristiche molto differenziate nella
loro configurazione istituzionale. Il punto di partenza comune è rappresentato dalla tipologia di Andersen. Il
modello dei welfare regimes – com’è noto – è pero costruito intorno al rapporto tra stato e mercato, e non
attribuisce importanza al ruolo giocato dalle famiglie e dalla divisione sessuale nel lavoro nel fornire servizi
di welfare. Questa mancanza appare rilevante nell’analisi dei sistemi nazionali di cura. Di conseguenza, a
partire da questa critica, sono state elaborate diverse tipologie alternative di care regimes allo scopo di
incorporare il nesso famiglia-welfare nell’analisi comparata tra paesi.
Il concetto che meglio di altri interpreta quale sia la caratteristica principale del nesso welfare-famiglia che
trova declinazioni diverse dei differenti sistemi nazionali di long-term care è il concetto di defamilizzazione.
I regimi di welfare, e dunque anche quelli di cura, possono essere identificati in base alla loro capacità di
creare sistemi di diritti o di prestazioni in grado di liberare le famiglie da obbligazioni specifiche.
Osservando come in diversi paesi vengono trattate le obbligazioni familiari, è possibile distinguere tre regimi
fondamentali:
1. Regimi di defamilizzazione, in cui i diritti alla cura sono attribuiti su base individuale e conducono alla
realizzazione di una rete di servizi dotata di notevole completezza, riducendo le obbligazioni familiari
2. Regimi di familismo sostenuto dove l’intervento pubblico, fondato su misure di cash for care, sostiene e
in parte sostituisce le obbligazioni di cura sia finanziariamente sia tramite servizi sociali
3. Regimi di familismo implicito in cui le politiche pubbliche non offrono alternative alle famiglie né sono
in grado di garantire loro un adeguato sostegno economico, limitandosi a interventi precari

Sviluppo delle politiche nel contesto europeo I primi passi nello sviluppo dei moderni sistemi di long-term
care furono compiuti nei paesi scandinavi e nei Paesi Bassi, dove le politiche sociali rivolte agli anziani
iniziarono a svilupparsi già a partire dagli anni ’50 e continuarono a espandersi sino ai primi anni ’90.
Gli anni ’90 videro un rapido succedersi di riforme e cambiamenti. La Germania fu l’apripista attraverso
l’introduzione di una nuova assicurazione obbligatoria su base nazionale e tale esempio fu seguito subito da
altri paesi europei, Austria e Lussemburgo. Nel resto d’Europa il caso tedesco fu osservato con attenzione e
favorì l’elaborazione di nuove politiche nazionali di long-term care, nel 2001 la Francia e nel 2007 la
Spagna. Gli unici due paesi dell’Europa occidentale in cui l’innovazione istituzionale fu nulla furono Regno
Unito e Italia. In Italia ogni tentativo di riforma complessiva del sistema fu sistematicamente bloccato
dall’impossibilità di riformare il sistema senza includere nella revisione anche le risorse finanziare pubbliche
sino a quel momento investite nell’indennità di accompagnamento. Le proteste delle potenti associazioni dei
disabili e dei sindacati, interessati al mantenimento di questa misura, hanno congiurato per una sostanziale
inerzia del sistema e più o meno analogamente successe così anche nel Regno Unito. In questa situazione,
l’aumento della domanda di cura è stato affrontato della popolazione ricorrendo alla misura cash esistente
senza innovazioni alcune.
La linea di tendenza dominante in Europa negli ultimi due decenni è stata quella del riconoscimento del
bisogno di cura connesso alla non autosufficiente come di un rischio sociale che dà accesso a servizi di cura
forniti dal servizio pubblico. I programmi di long-term care sono considerati come un diritto sociale che va
garantito a tutti i cittadini. Al riconoscimento di questo diritto ha fatto seguito una notevole espansione della
spesa per i programmi di long-term care, e lo sviluppo di nuovi servizi di cura, soprattutto di tipo
domiciliare.
Conseguenze delle politiche implementate Nel volgere di due decenni in tutti i paesi europei i sistemi di
long-term care sono diventati componenti stabili e riconosciuti dei sistemi di welfare nazionali. Le pressioni
sociali determinate dall’invecchiamento demografico, dall’aumentata partecipazione femminile al mercato
del lavoro e dalle trasformazioni avvenute in seno alle famiglie hanno contribuito a questo sviluppo.
La nuova generazione dei programmi di long-term care ha favorito, direttamente e indirettamente, la
privatizzazione dell’offerta dei servizi long-term care e una sorta di rifamilizzazione della cura. In molti
paesi la competizione tra fornitori di servizi ha favorito l’ingresso del settore di agenzie private che hanno
cominciato a offrire servizi supplementari a quelli finanziati tramite i sostegni monetari pubblici, aprendo la
strada alla creazione di un vero e proprio mercato privato della cura. La conseguenza di ciò ha dato vita ad
una privatizzazione nascosta dei sistemi pubblici, con il rischio generalizzato di deterioramento della qualità
dei servizi forniti, realizzando un welfare povero destinato solo ai poveri. Oltretutto, le misure cash for care
sono state finalizzate a promuovere direttamente le reti informali di cura, in gran parte fondate
sull’attivazione di reti familiari. I trasferimenti monetari sono stati diffusi non solo per sostenere
finanziariamente la cura prestata da familiari, ma anche per attribuire ai caregivers familiari alcuni diritti
sociali fondamentali, quali la copertura della loro contribuzione previdenziale e una forma di riconoscimento
del lavoro svolto. Queste misure hanno contribuito a una parziale formalizzazione del lavoro di cura svolto
dai familiari, considerato tradizionalmente come un’obbligazione morale implicitamente attribuita alle
donne. In molti paesi ciò ha consentito di ridurre l’offerta di servizi sociali, finendo per determinare una
parziale rifamilizzazione delle responsabilità di cura. Ciò rappresenta una situazione ottimale in una fase di
crisi finanziaria, ma che rischia di fallire se le reti informali di cura subiranno un progressivo indebolimento
nel tempo. In Europa la cura delle persone non autosufficienti resta così ancora un diritto debole, non
compiutamente riconosciuto e tutelato.
9. LE POLITICHE PER GLI IMMIGRATI
Le migrazioni in Europa non sono un fenomeno nuovo. Sia nel periodo a cavallo delle guerre mondiali sia
nei decenni successivi alla seconda guerra i paesi europei sono stati interessati da massicci fenomeni di
migrazione. Le politiche sociali rivolte a stranieri immigrati si presentano in maniera differente da quanto
avveniva per l’immigrazione del dopoguerra.
Innanzitutto è cambiato il quadro socioeconomico all’interno del quale tale immigrazione si colloca.
L’immigrazione attuale è sempre più caratterizzata dalla presenza delle seconde, se non delle terze
generazioni di immigrati, cioè di persone nate nel paese in cui risiedono ma da genitori (quindi nonni)
immigrati dall’estero. Dal secondo dopoguerra agli anni ’70 ciò che accumunava paesi come Germania,
Francia e Paesi Bassi era l’idea che le migrazioni fossero un fenomeno momentaneo legato alle carenze sul
mercato del lavoro. La prima risposta fu l’attuazione di politiche di incentivo al ritorno degli immigrati nei
paesi di origine (adottate politiche del doppio binario: non favorire ingressi nuovi, ma favorire l’integrazione
degli stranieri già presenti). Fu solo negli anni successivi che questi paesi presero coscienza degli insuccessi
delle politiche finalizzate e iniziarono a valutare il tema dell’integrazione di tali soggetti nei paesi di arrivo.
È in questo senso che le politiche per gli immigrati sviluppate a partire dagli anni ’90 in Europa occidentale
sono nuove, in quanto inquadrano il fenomeno migratorio sotto una luce diversa: non più quella momentanea
dei lavoratori stranieri, ma quella di famiglie e comunità destinate a permanere, aventi bisogno di integrarsi.
Infine, l’immigrazione è sempre più transnazionale, caratterizzata cioè dal mantenimento di legami e forti
rapporti con i luoghi di origine.
Evoluzione dei rischi sociali Prima di analizzare i rischi sociali, occorre definire chi sia un migrante. Si
possono adottare due grandi criteri: l’essere nati all’estero, potendo acquisire la cittadinanza del paese in cui
si vive, o il vivere in un dato luogo senza possederne la cittadinanza, pur essendovi nati. Il problema di quale
definizione adottare si pone in modo particolare per le seconde generazioni. Dato che non tutti i paesi attuano
la medesima legislazione in materia di naturalizzazione dello straniero, le statistiche basate sulla cittadinanza
hanno il limite di essere parzialmente fuorvianti. È pertanto opportuno definire i migranti considerando sia il
dato sulla nazionalità, sia il dato sul paese di nascita.
In Europa ed anche nel nostro paese si è concluso il passaggio fondamentale da un flusso migratorio
composto da individui adulti (in prevalenza maschi) a uno più articolato attorno alle famiglie. La
femminilizzazione delle migrazioni e il passaggio a una presenza di famiglie di immigrati rappresentano due
elementi che pongono domande più complesse alle politiche pubbliche. Queste domande riguardano i rischi
relativi alla povertà e all’esclusione sociale, il funzionamento del mercato del lavoro, l’accesso all’abitazione
e il funzionamento del sistema scolastico. Sotto il profilo della partecipazione al mercato del lavoro, la crisi
ha aggravato i problemi occupazionali degli stranieri ma in termini relativi la loro posizione non è peggiorata
rispetto ai cittadini: in Italia, l’aumento della disoccupazione ha interessato tutti coloro che sono presenti sul
mercato del lavoro. Se l’integrazione degli stranieri nel mercato del lavoro mostra dati in linea o leggermente
inferiori a quelli di altri paesi europei, il quadro italiano diventa più critico nel momento in cui si sposta
l’attenzione sulla presenza di lavoratori a rischio di povertà. Nel nostro paese, infatti, la crisi ha colpito
duramente gli stranieri, molto più che i cittadini italiani: in Italia, quasi un quarto dei lavoratori stranieri è
considerabile working poor. Per quanto riguarda l’accesso alla casa, le criticità reddituali e sul mercato del
lavoro trovano corrispondenza anche in termini abitativi. Il sovraffollamento abitativo e il peso dei costi si
fanno sentire fortemente sulle spalle degli stranieri, in Italia spesso ben più che altrove. Infine, per ciò che
concerne l’integrazione scolastica, in gran parte dei paesi europei anche l’inserimento degli alunni stranieri
appare problematico. A eccezione del Regno Unito, in tutti gli altri paesi gli alunni stranieri appaiono molto
più in difficoltà degli studenti con cittadinanza. L’Italia, assieme alla Svezia, è il paese con il più basso
punteggio ottenuto dagli stranieri, così come è più forte la distanza rispetto alla performance degli alunni con
cittadinanza (indagine Eurostat e PISA dell’OCSE).
Strumenti di policy Necessario è differenziare le politiche per gli immigrati, finalizzate all’inclusione
sociale ed economica, dalle politiche per l’immigrazione, finalizzate alla programmazione e al governo dei
fenomeni migratori. Nonostante siano strumenti di policy diversi, capita che vengano attuate sinergicamente.
Tema di particolare rilievo per le politiche di immigrazione riguarda lo status di immigrati senza regolare
titolo di soggiorno. Ci sono paesi dove l’irregolarità non pregiudica l’accesso ad alcuni diritti di base, in
genere relativi a salute e istruzione dei minori. Il concetto di integrazione degli immigrati è complesso da
definire, dato che raccoglie più dimensioni. Esso è stato declinato in maniera diversa in Europa occidentale.
Una prima distinzione fondamentale è quella fra “integrazione strutturale” e “integrazione socioculturale”.
 L’integrazione strutturale riguarda la dimensione economico-politica e indica il grado con cui gli
stranieri possono partecipare in misura equa alle principali istituzioni di una società
 L’integrazione socioculturale fa riferimento al grado di tutela, accettazione e rispetto degli elementi
distintivi culturali dei vari gruppi di immigrati, favorendo lo sviluppo di relazioni sociali con la società di
arrivo e l’adattamento alla cultura di quest’ultima
Bisogna poi distinguere fra “politiche dirette” e “politiche indirette”
 Le politiche dirette sono esplicitamente ed esclusivamente dedicate all’utenza immigrata: uno sportello
immigrazione, un servizio di mediazione linguistico-culturale, classi scolastiche solo per figli di migranti
 Le politiche indirette sono rivolte a una platea più generale, a cui accedono anche i cittadini stranieri:
queste misure sono rivolte a tutti gli abitanti di un paese, cittadini o meno
Un’ulteriore distinzione è quella fra “politiche sulla carta” e “politiche in pratica”. Si possono verificare
situazioni di discriminazione istituzionale, ossia un trattamento disuguale che si concretizza nelle procedure,
nelle norme e nelle politiche di organizzazioni pubbliche. La discriminazione istituzionale può essere:
a. Diretta, se esclude esplicitamente i membri di una minoranza
b. Indiretta, se criteri, norme e pratiche finiscono per escludere implicitamente potenziali aventi diritto
Un ultimo elemento che può differenziare le politiche per gli immigrati riguarda il coinvolgimento o meno
della società civile, sia delle organizzazioni che operano in favore degli stranieri sia di quelle composte da
stranieri, spesso su base di appartenenza etnica.
Fatte tali distinzioni, i tre pilastri dell’integrazione degli immigrati sono: lavoro, scuola, casa. Gli strumenti
di policy in queste tre aree possono essere analizzati a partire da alcuni aspetti:
 Presenza o meno di interventi di supporto specifico agli stranieri per favorirne l’integrazione
 Presenza o meno di misure che contrastino o puniscano la discriminazione degli stranieri
 Presenza di una normativa che riconosce o meno agli stranieri l’accesso paritario alla specifica
istituzione
 Presenza di una normativa che riconosce o meno agli stranieri uguali diritti nelle situazioni in cui
abbiano bisogno di prestazioni specifiche di welfare

Mercato del lavoro È il principale pilastro fondante dei processi migratori contemporanei. I diritti associati
alla condizione occupazionale variano a seconda che la presenza del lavoratore stranieri sia regolata come
temporanea oppure di lungo periodo: nel primo caso le politiche sono minimali, tese a garantire l’efficacia
dell’inserimento occupazionale senza troppo investire sull’associazione fra partecipazione economica e
partecipazione sociale; nel secondo caso l’inclusione nel mercato del lavoro si collega più facilmente ad altri
strumenti di integrazione, sia di tipo abitativo sia di tipo sociale. Si hanno diverse forme di regolazione:
 La prima forma di regolazione consiste nell’individuare o meno barriere all’accesso ad alcune
professioni. Pubblico impiego, settori in cui i cittadini presidiano posizioni di vantaggio, settori
considerati delicati per la sicurezza dello stato possono essere interdetti agli stranieri
 La seconda forma di regolazione riguarda l’accesso paritario o differenziato alle misure indirette, cioè
alle prestazioni pensate per tutti i residenti nel caso perdano il lavoro. In primis, le politiche passive, cioè
le provvidenze economiche come il sussidio di disoccupazione
 La terza forma di regolazione riguarda gli interventi esplicitamente diretti alla popolazione immigrata.
Nell’ottica di agevolare l’inserimento lavorativo, in molti paesi viene prevista una formazione linguistica
dedicata oppure forme di mediazione fra domanda e offerta di lavoro
 La quarta e ultima forma di regolazione è quella che interviene per limitare la discriminazione degli
immigrati sul mercato del lavoro. In alcuni paesi anglosassoni le politiche pubbliche si sono orientate
nella direzione delle discriminazioni positive (affirmative actions): si tratta di misure volte a dare una
preferenza di accesso a servizi alle minoranze classificate svantaggiate, al fine di rimediare alle
condizioni discriminatorie che ne possono limitare la partecipazione sociale ed economica

Istruzione Secondo pilastro fondamentale per l’integrazione. Emerge con l’evoluzione del ciclo migratorio e
la crescita di nuove generazioni figlie dell’immigrazione.
 L’accesso al sistema scolastico nel suo complesso è assicurato a prescindere dalla nazionalità o
dall’origine etnica. I sistemi universalistici presentano una bassa differenziazione dei percorsi e un lungo
ciclo primario, in cui tutti gli studenti condividono gli stessi spazi educativi. Al contrario, i sistemi
selettivi hanno una precoce differenziazione dei percorsi in base alle competenze e al profilo
professionale, creando di fatto una discriminazione che colpisce anche gli alunni di origine immigrata
 Un altro strumento di regolazione dell’accesso alla scuola è la zonizzazione scolastica, cioè la
definizione dei bacini d’utenza degli istituti scolastici. Negli ultimi anni l’introduzione dei principi della
libertà di scelta della scuola ha prodotto in molte città il cosiddetto white flight, cioè la fuga della
maggioranza bianca dalle scuole dove si concentrano le minoranze etniche. D’altro canto, anche le
politiche di zonizzazione hanno finito per incentivare la segregazione, nella misura in cui i distretti
scolastici ricalcano la concentrazione abitativa delle minoranze
 Per quanto riguarda le politiche direttamente dedicate, gli alunni immigrati sono oggetto di specifici
accompagnamenti linguistico-culturali per ridurre gli eventuali divari di partenza, con tre modelli
organizzativi diversi: l’accompagnamento in classe durante le ore di lezione, l’accompagnamento fuori
dalla classe in orario extrascolastico e l’accompagnamento fuori dalla classe in orario scolastico
 Nelle politiche educative possono esistere politiche di discriminazione positiva: negli USA le affirmative
actions sono nate per tentare di garantire un reclutamento delle minoranze nel sistema universitario. Fra
le azioni indirette e dirette possiamo collocare lo sviluppo della didattica interculturale: misura indiretta
perché applicata a tutti e diretta perché comporta una sensibilizzazione al decentramento dei saperi che si
sviluppa a seguito della diversità culturale nella scuola

Abitazione Le normative si distinguono in maniera saliente fra la predisposizione di interventi abitativi


specifici per gli immigrati, oppure il loro eventuale inserimento dentro politiche rivolte a platee più ampie di
beneficiari.
 Fra gli interventi mirati rientrano strutture di prima accoglienza e la predisposizione di alloggi
temporanei
 L’accesso paritario all’edilizia residenziale pubblica e a forme di sostegno della domanda di abitazioni
come le housing allowances è lo strumento principale di politica indiretta, che si concretizza soprattutto
con la progressiva familizzazione del processo migratorio (ricongiungimenti, matrimoni, nascite)
Modelli di policy Sono presenti tre differenti modelli di inclusione: temporaneo, assimilativo, pluralista.
 Di immigrazione temporanea, si basa sull’assunto che il fenomeno migratorio non necessariamente si
protrarrà nel tempo. L’aspettativa è quella di lavoratori immigrati destinati a rientrare nei paesi di origine
dopo un periodo di permanenza all’estero. L’intervento pubblico nel campo dell’insegnamento della
lingua è limitato a offrire agli adulti le basi per comunicare nel paese di accoglienza e per l’integrazione
scolastica non vengono sviluppate particolari politiche. Il sostegno abitativo è ridotto ad assicurare
condizioni minime di vivibilità. Le politiche per il mercato del lavoro sono orientate ai bisogni delle
imprese
 Assimilativo, si focalizza sull’assicurare che gli immigrati possano omologarsi rapidamente, anche sotto
il profilo culturale, ai tratti fondamentali della società ospitante in un’ottica di integrazione paritaria. Le
politiche sociali, da un lato, sono fortemente centrate attorno all’apprendimento della lingua e al
funzionamento della scuola, all’offerta di condizioni abitative accettabili, così come di uguale
trattamento nel mercato del lavoro; dall’altro, tendono a non svilupparsi in quanto politiche per gli
immigrati: se l’obiettivo è l’assimilazione, si evitano o si limitano gli interventi mirati, proprio perché si
vuole evitare il formarsi o il rafforzarsi di diversità etnico-culturali
 Pluralista o multiculturale, punta all’integrazione paritaria partendo dall’assunto che l’inserimento degli
immigrati debba avvenire tenendo e accettando le differenze culturali. In questo modello le politiche
educative favoriscono l’apprendimento della lingua e delle norme culturali del paese di arrivo e anche il
mantenimento della lingua e di molte tradizioni del paese di origine. Le altre politiche sviluppano una
serie di interventi che cercano di tutelare gli stranieri in quanto tali, investendo sia in affirmative actions
sia in misure specifiche: da quelle del mercato del lavoro a quelle per l’accesso all’abitazione
Accanto a questi tre modelli è possibile individuarne un quarto, definibile modello implicito o modello di
non-policy. È tipico di quei paesi che hanno visto svilupparsi flussi di immigrazione recentemente e che
hanno avuto difficoltà a elaborare una coerente concezione di fondo in merito al ruolo degli immigrati.
L’incertezza circa la posizione da tenere nei confronti degli immigrati ha comportato l’adozione di un
modello caratterizzato da elementi che appaiono non congruenti fra loro. La scarsa congruenza degli
obiettivi, accompagnata da un limitato investimento di risorse per misure specifiche di integrazione,
restituisce un modello in cui si mescolano obiettivi ambiziosi di integrazione in un’ottica
pluralista/multiculturale e pratiche concrete molto più carenti.
Il modello temporaneo è entrato in crisi per ragioni di natura sociodemografica. Di fronte a questi
cambiamenti, i paesi di più vecchia immigrazione hanno risposto scegliendo il modello assimilativo o quello
pluralista/multiculturale, mentre quelli di nuova immigrazione, come Italia e Spagna, hanno spesso adottato
il modello implicito/di non policy. Già dalla fine degli anni ’90, però, risultava chiaro che ulteriori
cambiamenti stavano avvenendo. Pur rimanendo centrale la distinzione fra questi due differenti tipi di
modelli, alcuni fattori contribuivano a far mutare nuovamente gli approcci adottati.
A partire dal nuovo secolo quattro elementi contribuiscono ad assottigliare le differenze fra i modelli:
1. Un primo elemento che ha messo sotto pressione le politiche migratorie, in particolare quelle
pluraliste/multiculturali, sono le conseguenze sociopolitiche degli attentati terroristi iniziati nel settembre
2001 negli Stati Uniti, così come quelli avvenuti successivamente in Europa a opera di organizzazioni
riconducibili al fondamentalismo islamico. Sono aumentate le pressioni, da parte di larghe fasce di
opinione pubblica e di molti partiti politici, per tornare a modelli di integrazioni basati sulla conformità e
sull’adesione da parte degli immigrati ai valori e alle istituzioni delle comunità ospitanti
2. Un secondo elemento riguarda i limiti che l’approccio pluralista/multiculturalista ha incontrato in fase di
applicazione. Una serie di effetti negativi inattesi si è verificata vanificando una parte degli obiettivi di
integrazione che il modello si era dato. Fra questi il rischio di congelare gli immigrati in termini di
specificità e appartenenza culturale, rendendo paradossalmente più difficile la loro integrazione e più
facile il consolidarsi di stereotipi etnici
3. Un terzo elemento deriva dalle pratiche concrete seguite a livello locale nel campo delle politiche per gli
immigrati. Queste politiche hanno rivestito un ruolo importante nei processi di inserimento degli
immigrati. Ciò che cambia nei decenni più recenti è il crescente potere attribuito ai governi locali, anche
nel campo delle politiche degli immigrati, a seguito dei processi di rescaling e di decentramenti di
compiti politico-amministrativi che trasferiscono più responsabilità a questo livello di governo.
4. Un quarto elemento di cambiamento attiene al ruolo dell’Unione Europea. Se sino agli anni ’90 le
politiche migratorie sono state di competenza nazionale, il processo di integrazione sta offrendo anche
alle istituzioni dell’Unione Europea un crescente spazio di intervento. Una serie di raccomandazioni,
direttive e indirizzi riconosce l’importanza delle migrazioni, sia fra stati membri sia dall’esterno
dell’Unione, quale fenomeno che può aiutare la crescita economica
A livello generale si delinea una convergenza verso una tendenza neoassimilazionista in cui tornano le
richieste per l’apprendimento della lingua, la conoscenza della storia e delle istituzioni dei paesi di
accoglienza e in cambio vengono offerte maggiori possibilità di integrazione. De deriva un rafforzamento
della legislazione contro le forme di discriminazione, accompagnato, però, dalla richiesta di maggiori
conoscenza e adesione ai valori delle società locali e da un minor sostegno agli interventi di riconoscimento
della diversità culturale. In molti paesi europei si sta diffondendo una linea di policy che considera utili
“preparare l’integrazione”: si tratta di misure per selezionare maggiormente gli immigrati da ammettere nei
vari paesi sulla base della loro capacità di inserirsi sotto il profilo socioculturale ed economico. Si assiste a
una convergenza dei paesi europei verso un modello ibrido, che innesta alcuni correttivi nelle relative
tradizioni di policy. Dunque, accade che:
 La Francia ha mantenuto il modello assimilazionista ma adottato in alcuni contesti locali e per alcuni
temi, negli ultimi anni, una prospettiva volta all’integrazione civica e al pluralismo etnico
 La Germania, i Paesi Bassi e il Regno Unito, a partire dal decennio scorso, hanno iniziato ad adottare un
modello assimilazionista all’integrazione civica
 La Svezia appare il paese in cui, nonostante le crescenti tendenze xenofobe e le forme emergenti di
disuguaglianza etnica, il modello multiculturale rimane ancora dominante
 Spagna e Italia hanno incontrato difficoltà nello sviluppare modelli che andassero oltre quello
implicito/di non policy. In anni più recenti questi due paesi hanno adottato un modello integrazionista,
basato su una riluttante accoglienza della diversità e una retorica interculturale che non considera
plausibile o desiderabile né l’assimilazione delle minoranze né l’accettazione della diversità culturale
Conseguenze delle politiche implementate I modelli multiculturali e assimilazionisti sono risultati
fallimentari, incapaci di garantire coesione sociale e di ridurre le disuguaglianze. Da un lato permane
l’evidenza generalizzata della riproduzione nel tempo delle disuguaglianze per i membri delle minoranze di
origine migratoria, in termini de deprivazione materiale, povertà, istruzione e occupazione; dall’altro si sono
avute reazioni violente che evidenziano processi radicati di malessere, con rivolte urbane dove i protagonisti
sono giovani di seconda e terza generazione. L’assimilazionismo fallisce perché non riesce a prendere
adeguatamente in considerazione i bisogni specifici di cui gli immigrati sono portatori e ripone una fiducia
incondizionata nella capacità delle agenzie di socializzazione di includere la diversità. Il modello
multiculturale fallisce perché il riconoscimento della diversità diventa un etichettamento astratto,
discriminatorio e stigmatizzante, che mantiene le minoranze in un limbo, se non in un ghetto sempiterno.

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