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DIRITTO COMMERCIALE VOL 1 – DIRITTO DELL’IMPRESA

INTRODUZIONE

Il diritto commerciale

Il diritto commerciale è quella branca del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa.

Si tratta, dunque, di una particolare disciplina dettata appositamente per gli “imprenditori”, ossia per coloro che
esercitano professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o
servizi. La scelta di dedicare un’apposita normativa all’impresa e a coloro che la esercitano si basa sul fatto che il nostro
ordinamento giuridico riconosce sia la “libertà d’iniziativa economica” (art.41 Cost.), sia la proprietà privata (art.42
Cost.), proprio per garantire la realizzazione di quel modello di sviluppo economico noto come “economia di mercato”,
basato sulla libertà dei privati di soddisfare i bisogni materiali della collettività, potendo perseguire un interesse
personale volto al massimo guadagno, nonché sulla presenza simultanea di vari operatori economici in competizione tra
loro. I vari interventi del legislatore limitativi di tali libertà garantiscono, inoltre, la realizzazione del benessere
collettivo (già l’art.42 Cost. comma 2 parla dell’impossibilità dell’iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o di ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana).

L’aggettivo “commerciale”, dunque, non deve trarci in alcun modo in inganno, poiché il “diritto privato delle imprese”
non ha a oggetto solo “commercio e commercianti”, da un lato perché riguarda tutte le imprese, anche quelle NON
dedite al commercio (a tal proposito è l’art.2195 del codice a fungere da “norma delimitativa delle attività
giuridicamente commerciali”), dall’altro perché tutti gli imprenditori, nessuno escluso, sono soggetti a uno statuto
professionale generale, sebbene meno ampio di quello dettato per gli imprenditori commerciali.

Due sono le peculiarità del diritto commerciale: è un diritto SPECIALE, perché costituito da norme diverse da quelle
valevoli per la generalità dei consociati; è un diritto tendente all’UNIFORMITA’ INTERNAZIONALE, in quanto
molto simile, o a tratti identico, in tutti quei Paesi a economia di mercato.

L’evoluzione storica del diritto commerciale. Il diritto statuario dei mercanti

Il diritto commerciale nasce nel Basso Medioevo, precisamente intorno al XII secolo, quando la popolazione europea
torna a crescere, dopo i primi e oscuri secoli medievali, e inizia l’abbandono delle campagne, con conseguente
ripopolamento delle città che si organizzano in Comuni. La figura che più di tutte incarna la rinascita del XII secolo è
quella del “mercante”: si passa rapidamente da un’economia curtense di sussistenza, dove nei mercati sono barattati i
soli prodotti locali, a una società mercantile, in cui fioriscono i commerci tra le varie città, torna a circolare la moneta
come mezzo di scambio e nascono le aggregazioni in Corporazioni di Arti e Mestieri cui chi esercita la mercatura è
regolarmente iscritto.

A dominare il panorama giuridico in questo periodo è il diritto comune, figlio della rielaborazione del diritto romano e
dell’influenza del diritto canonico, il quale si dimostra da subito inadatto al sistema mercantile, in quanto le esigenze
operative dei mercanti non possono rimanere ancorate alla solennità

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delle forme negoziali o all’atteggiamento di favore per il debitore: la soluzione delle controversie fra mercanti è pertanto
affidata a organi di giustizia (i consoli) propri delle rispettive corporazioni, che decidono secondo un diritto
consuetudinario all’inizio trasmesso oralmente e in seguito trascritto negli statuti delle corporazioni, dando vita allo ius
mercatorum, prima vera forma di diritto commerciale nella storia d’Europa, distinto e indipendente dal ius civile.

Nascono nuovi istituti destinati a rimanere, seppur con diverse variazioni, nella storia del diritto commerciale: basti
pensare al contratto di assicurazione, alla disciplina della concorrenza, alle scritture contabili, al concetto di par
condicio creditorum e alle prime forme di società, al fallimento, tutto al fine di agevolare i traffici commerciali.

Il diritto commerciale delle origini è dunque caratterizzato dalla “specialità formale”, in quanto alla sua applicazione
provvedono degli specifici organi di giustizia, e dalla “specialità sostanziale”, perché frutto di regole e principi del tutto
distinti da quelli del ius civile. E’ un diritto di classe, scaturente dai mercanti, ma che non tutela solo gli “interessi di
classe”, bensì favorisce lo sviluppo generale della ricchezza ed ha una “vocazione universale” in quanto uniforme a
livello internazionale, pressoché identico in tutta Europa.

Segue: Il diritto degli atti di commercio e dei commercianti

Con la nascita dei primi embrioni di Stati moderni, intorno al XV-XVI secolo, inizia una vera e propria evoluzione del
diritto commerciale: l’attività economica viene vista come uno strumento di potenziamento dello Stato e di espansione
coloniale, motivo per cui il diritto commerciale inizia a essere diritto “nazionale”, dato che lo Stato comincia a
intervenire in materia economica. Il periodo delle corporazioni mercantili è finito e iniziano a sorgere i primi prototipi
di “società per azioni”, ossia le grandi compagnie coloniali, costituite dagli stessi monarchi, in cui vige la responsabilità
limitata dei soci e la suddivisione del capitale sociale in azioni.

Chiariamo subito che in questo frangente storico diritto commerciale e diritto civile sono ancora distinti, tanto che nel
nostro Paese, dopo l’unificazione, vengono emanati due codici nel 1865, quello civile e quello commerciale,
quest’ultimo sostituito nel 1882. La competenza giurisdizionale viene unificata solo nel 1888, quando vengono
soppressi i tribunali di commercio.

Il nuovo codice di commercio, però, segna un netto taglio rispetto al passato: non si ha più un’impostazione soggettiva,
un diritto speciale riferito a una determinata categoria di soggetti, i commercianti, bensì una visione “oggettiva”, dove
assume rilevanza l’atto di commercio, da chiunque posto in essere. Da qui emerge la distinzione tra “atti oggettivi di
commercio”, elencati dal codice e riferibili anche a chi non è commerciante o a chi li compie occasionalmente, “atti
soggettivi di commercio”, compiuti da un commerciante nell’esercizio della propria attività, e “atti di commercio
unilaterali”, ossia quelli ritenibili come commerciali per una sola delle parti, comportanti però l’assoggettamento al
codice anche dell’altra parte.

Segue: Il diritto privato delle imprese

Quindi alla fine del XIX secolo, in Italia, abbiamo un sistema completamente dualistico del diritto privato: da un lato il
codice civile, con atti e obbligazioni civili, dall’altro il codice di commercio, con atti e obbligazioni commerciali. Con la
riforma legislativa del 1942 tale dualismo cessa di esistere

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definitivamente: dall’idea originaria di modificare e attualizzare entrambi i corpi normativi, si passa ben presto
all’unificazione e all’emanazione di un unico codice, ancora oggi in vigore. Sono diverse le innovazioni di cui il “nuovo
e unico” testo si fa portatore: la categoria degli atti di commercio sparisce del tutto e viene sostituita dalla disciplina
dell’imprenditore commerciale, intorno alla cui figura ruota l’intera normativa a riguardo. Il codice, in tal senso, tende a
riflettere la realtà del Paese, in cui a primeggiare in tutti i settori economici sono nuovi organismi complessi fondati su
capitale e lavoro, le “imprese”; è per questo motivo che l’imprenditore commerciale prende il posto del vecchio
commerciante.

La seconda innovazione del codice è rappresentata dal superamento della storica distinzione tra industria-commercio e
agricoltura-artigianato: il legislatore non si limita a dettare una disciplina apposita per l’imprenditore commerciale, ma
lo rende una species del più ampio genus degli “imprenditori”, di cui fanno parte anche le imprese agricole, artigiane e
pubbliche. Accanto allo “statuto SPECIALE dell’imprenditore commerciale”, contenente le norme che regolano il
registro delle imprese, le scritture contabili, la rappresentanza commerciale, il fallimento e le altre procedure
concorsuali (questi ultimi disciplinati con legge speciale separata), ritroviamo anche lo “statuto GENERALE
dell’imprenditore”, applicabile a tutte le forme d’impresa e riguardante la disciplina dell’azienda, dei segni distintivi e
della concorrenza. Quindi, chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata allo scambio o
alla produzione di beni o servizi è definibile come IMPRENDITORE, mentre se tale attività rientra tra quelle elencate
all’interno dell’art.2195 c.c. siamo dinanzi ad un IMPRENDITORE COMMERCIALE.

La terza innovazione del codice risiede nell’unificazione della disciplina di obbligazioni e contratti: se prima esistevano
obbligazioni e atti civili e commerciali, adesso la disciplina è unitaria ed è contenuta tutta all’interno del Libro IV del
codice; tra l’altro la materia delle obbligazioni viene completamente “commercializzata”, nel senso che tende ad
avvicinarsi maggiormente alle vecchie obbligazioni commerciali e non a quelle civili.

Il diritto commerciale, nonostante la presenza di un unico codice, resta pur sempre un diritto speciale, in quanto
composto da norme applicabili solo a quei soggetti definibili come imprenditori e solo nello svolgimento della propria
attività.

Il diritto commerciale attuale. Prospettive

Diversi sono stati i cambiamenti intervenuti dal ’42 a oggi, da un lato dovuti al mutamento del quadro politico-
istituzionale, basti pensare alla caduta del regime fascista e alle innovazioni introdotte dalla Carta costituzionale,
dall’altro dettati dal cambiamento del sistema economico, che ha visto dapprima un interventismo pubblico esasperato e
in seguito una privatizzazione di imprese pubbliche disastrose.

Molti aspetti del diritto commerciale, dunque, sono notevolmente cambiati col passare del tempo: anzitutto l’istituto
della società per azioni, un tempo considerata come tipo unitario, dopo la L.216/1974 tende a differenziarsi tra società
quotate e società non quotate, tra l’altro con l’introduzione del modello intermedio, a partire dal D.lgs. 6/2003, delle
società non quotate che fanno comunque appello al mercato del capitale di rischio; sono stati introdotti nuovi organismi
di raccolta e investimento collettivo del risparmio, quali le Sicav e i fondi comuni; anche le procedure concorsuali sono
state riviste, con l’introduzione dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e la

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soppressione dell’amministrazione controllata; è stata, infine, dettata un’apposita disciplina nazionale per la
concorrenza.

Pian piano, all’interno del nostro ordinamento, sono entrati nuovi istituti frutto della prassi commerciale, come il
leasing, il factoring e il franchising, in seguito disciplinati anche dal legislatore ma comunque manifestanti l’autonomia
del diritto commerciale come “diritto privato delle imprese”, da sempre tendente all’uniformità internazionale, il che è
stato garantito anche dalla nascita dapprima delle tre Comunità e in seguito dell’Unione Europea, vera e propria
organizzazione sovrannazionale con competenza esclusiva o concorrente in diversi settori.

Diritto commerciale e diritto delle imprese

Niente da segnalare.

Piano dell’opera

Il primo volume prende in considerazione le diverse figure di imprese e lo studio degli istituti che formano lo statuto
generale dell’imprenditore e quello speciale dell’imprenditore commerciale, eccezion fatta per le procedure concorsuali
trattate nel terzo volume, insieme ai contratti di impresa e ai titoli di credito. Il volume intermedio, ossia il secondo,
tratta invece dei vari modelli di società presenti all’interno del nostro ordinamento, attuando una distinzione tra società
di persone e società di capitali (le prime oggetto di Diritto commerciale 1, le seconde di Diritto commerciale 2).

CAPITOLO PRIMO – L’IMPRENDITORE

Il sistema legislativo. Imprenditore e imprenditore commerciale

Abbiamo detto che una delle innovazioni più significative del codice del ’42 risiede nell’eliminazione del concetto di
“atti di commercio”: tutto ruota, per quanto concerne la disciplina delle attività economiche, attorno alla figura
dell’imprenditore, la cui definizione generale è contenuta all’interno dell’art.2082 c.c.

Il codice civile distingue diversi tipi di imprenditori (e quindi di imprese) in base a tre criteri di selezione:

 “Imprenditore commerciale” (art.2195 c.c.) e “imprenditore agricolo” (art.2135 c.c.), prendendo in


considerazione l’OGGETTO dell’impresa;
 “Piccolo imprenditore” (art.2083 c.c.) e “medio-grande imprenditore”, tenendo presente le
DIMENSIONI dell’impresa;
 “Imprenditore individuale”, “società” e “impresa pubblica”, in base a quella che è la NATURA
del soggetto esercente l’attività di impresa.

I tre criteri discretivi, in realtà, servono cumulativamente a identificare una determinata impresa al fine di assoggettarla
o meno a una specifica disciplina, quella dell’impresa commerciale.

Abbiamo già anticipato, infatti, che il codice prevede uno statuto generale dell’imprenditore (figura generale),
comprendente le norme sull’azienda, sui segni distintivi, sulla concorrenza e sui consorzi e uno statuto “speciale”
dell’imprenditore commerciale (species del genus), inerente le norme

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sull’iscrizione nel registro delle imprese, sulle scritture contabili, sulla rappresentanza commerciale, oltre che sul
fallimento e sulle altre procedure concorsuali (disciplina, quest’ultima, contenuta in una legge apposita, il r.d.267/1942).

Le poche norme riguardanti l’imprenditore agricolo, il piccolo imprenditore e la distinzione tra impresa individuale,
società e impresa pubblica servono per lo più a ESCLUDERE tali imprese dall’applicazione, quantomeno integrale,
dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale: l’impresa agricola e quella piccola, anche qualora sia
commerciale, sono esonerate dalla tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali,
così come lo erano inizialmente dall’iscrizione nel registro delle imprese, poi prevista seppur con una funzione diversa;
anche gli enti pubblici commerciali sono sottratti all’applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale.

Lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale, dunque, può definirsi almeno in linea generale come “statuto
dell’imprenditore privato (e non pubblico) commerciale (e non agricolo) medio-grande (e non piccolo)”. E’ doveroso,
tuttavia, partire con la definizione di IMPRENDITORE contenuta nell’art.2082 del codice, in quanto l’imprenditore
commerciale è prima di tutto un imprenditore.

La nozione di imprenditore

“E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi”.

E’ l’art.2082 del codice a fornire questa nozione di imprenditore, definizione giuridica molto simile a quella economica.
Anche gli economisti definirebbero gli imprenditori nella medesima maniera, ma c’è una differenza sostanziale tra le
due scienze in questione: quella economica analizza la funzione intermediaria e organizzativa dell’imprenditore,
secondo cui quest’ultimo si trova a metà strada tra chi dispone dei fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi,
motivo per cui dirige e organizza il processo produttivo, assumendo su di sé il rischio che i costi sopportati possano
superare i ricavi (rischio di impresa) ed è legittimato, proprio per l’assunzione di tale rischio, a mirare al massimo
guadagno, ossia a un’eccedenza dei ricavi rispetto ai costi (profitto). La scienza giuridica, invece, ha il compito di
fissare i requisiti minimi necessari dell’imprenditore, utili per assoggettarlo a una determinata disciplina legislativa: in
questa prospettiva possiamo capire che l’impresa è anzitutto ATTIVITA’, ossia insieme di atti coordinati unificati da
una funzione unitaria, caratterizzata tra l’altro da uno specifico SCOPO, la produzione o lo scambio di beni o servizi, e
posta in essere con particolari MODALITA’ DI SVOLGIMENTO, ossia l’organizzazione, l’economicità e la
professionalità, tutte citate nell’art.2082 c.c.

Oltre a ciò occorre analizzare se altri elementi non citati nell’articolo codicistico, quali lo scopo di lucro, la destinazione
al mercato di beni e servizi e la liceità dell’attività svolta, siano o meno da considerarsi come “requisiti” dell’impresa
(lo vedremo più avanti).

Teniamo presente, inoltre, che quella dell’art.2082 è la definizione di imprenditore in campo privatistico, all’interno
della disciplina commerciale facente parte, come abbiamo già detto, del diritto privato. Altri rami della scienza
giuridica, basti pensare al diritto tributario o a quello comunitario, offrono dell’impresa una diversa definizione, a
seconda dello scopo da raggiungere e degli interessi da

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regolare, motivo per cui è necessario concludere che il termine impresa assume, all’interno del medesimo campo
giuridico, diverse accezioni.

L’attività produttiva

Primo requisito che deve sussistere affinché si possa parlare di impresa è l’ATTIVITA’, ossia la serie di atti coordinati
e finalizzati alla produzione o allo scambio di beni (cose che possono formare oggetto di diritti secondo quanto dispone
l’art.810 del codice) o di servizi. Si deve trattare, in sostanza, di un’ATTIVITA’ PRODUTTIVA, volta cioè a produrre
(direttamente) beni/servizi o a incrementarne l’utilità tramite lo scambio, lo spostamento nel tempo e nello spazio.

Ovviamente affinché un’attività possa definirsi come produttiva appare del tutto irrilevante la “natura” dei beni e servizi
prodotti o scambiati, in quanto essenziale è soltanto l’esistenza degli altri requisiti di cui all’art.2082 c.c.

Anche l’attività di godimento di beni o di un patrimonio può essere attività produttiva: non lo è sicuramente nel
momento in cui si tratta di un’attività di MERO godimento (pensiamo al proprietario di un immobile che lo cede in
locazione), in quanto in tal caso non vi è la “produzione” di nuovi beni o servizi, che invece sussiste in altri casi di
attività di godimento (pensiamo al proprietario che trasforma il proprio edificio in un albergo, offrendo servizi
supplementari, oppure al proprietario del fondo che lo coltiva per venderne i prodotti agricoli). Addirittura il contrasto
tra attività produttiva e attività di godimento non sussiste neanche nell’ipotesi di amministrazione del proprio
patrimonio, qualora quest’ultima comporti “produzione”, intesa come circolazione di beni e denaro (basti pensare
all’attività finanziaria o di investimento).

L’organizzazione

Il secondo requisito essenziale dell’imprenditore consiste nell’ORGANIZZAZIONE dell’attività produttiva posta in


essere: si deve trattare, come abbiamo visto, di una serie di atti finalizzati alla produzione o allo scambio di beni e
servizi, ma essi devono essere tutti PROGRAMMATI dall’imprenditore. Occorre, dunque, che l’imprenditore impieghi
in maniera COORDINATA i fattori produttivi “capitale” e “lavoro”, propri o altrui non importa.

Solitamente ciò avviene attraverso la creazione di un apparato produttivo stabile, formato da persone e beni strumentali
(locali, macchinari ecc.); inoltre lo stesso imprenditore esercita il proprio potere di direzione, controllo e disciplinare sui
propri dipendenti e organizza quel complesso di beni necessari per l’esercizio della propria attività e che prende il nome
di azienda. Questo è tutto ciò che avviene normalmente nelle imprese e che manifesta l’organizzazione dell’attività
produttiva da parte dell’imprenditore.

Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui tutto ciò manchi si può avere organizzazione: basti pensare all’imprenditore che
sfrutta soltanto il capitale (proprio o altrui) e il PROPRIO lavoro, senza avvalersi di dipendenti e collaboratori, o al caso
in cui manchi del tutto un complesso aziendale materialmente percepibile, magari perché l’imprenditore gestisce
soltanto il capitale finanziario (proprio o altrui) come fattore produttivo per porre in essere un’attività di investimento.

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Possiamo concludere, riducendo il tutto ai minimi termini, dicendo che si ha ugualmente ORGANIZZAZIONE
dell’attività produttiva anche quando mancano lavoro altrui e azienda, ma persiste l’etero-organizzazione dei fattori
produttivi capitale e lavoro.

Segue: Impresa e lavoro autonomo

Etero-organizzazione significa “coordinamento di diversi fattori” e ciò appare indispensabile affinché, nel nostro
ordinamento, si possa parlare di attività produttiva ORGANIZZATA.

Ecco, dunque, che emerge la distinzione tra lavoratori autonomi (prestatori autonomi d’opera manuale, come gli
idraulici, o di servizi, come gli agenti di commercio) e imprenditori.

Anche il lavoratore autonomo gestisce il proprio lavoro, adoperando gli strumenti necessari, sia quelli che possono
tornare utili per qualsiasi attività lavorativa (come il telefono o l’automobile), sia quelli indispensabili per lo
svolgimento della propria (come la borsa degli attrezzi), ma in questa ipotesi è di AUTO-organizzazione che stiamo
parlando, perché il soggetto organizza semplicemente il PROPRIO lavoro, senza coordinare quello di altri individui o
gestire altri fattori produttivi come il capitale.

L’imprenditore, invece, organizza una serie di elementi che, in connessione tra loro, permettono l’esercizio di
un’attività economica finalizzata alla scambio o alla produzione di beni e servizi: egli non si limita a organizzare il
proprio lavoro, ma gestisce quello degli altri, decide dove investire per ampliare o mantenere la propria attività, si
occupa dell’azienda. L’art.2083 c.c. dispone che per “piccolo imprenditore” si debba intendere anche “colui che esercita
un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”, ma è di
PREVALENZA del lavor o proprio che si parla e non di ESCLUSIVITA’ di tale fattore: quel “prevalentemente”
contenuto all’interno del dettato codicistico manifesta l’esistenza di altri elementi di secondaria importanza, ma pur
sempre presenti.

In conclusione di imprenditore si può parlare nel momento in cui viene superata la soglia dell’auto- organizzazione del
proprio lavoro, perché al di sotto della stessa siamo dinanzi ad un lavoratore autonomo.

Economicità dell’attività

Un altro requisito dell’impresa, contenuto all’interno dell’art.2082 c.c., è l’ECONOMICITA’: sebbene una parte della
dottrina creda che “attività economica” e “attività produttiva” siano espressioni indicanti la medesima cosa, il requisito
dell’economicità è elencato separatamente all’interno del dettato legislativo e pertanto gode di una propria autonomia.

Sebbene l’attività economica debba avere un fine produttivo, quindi volto alla produzione o allo scambio di beni e
servizi, è altrettanto vero che determinante è il metodo con cui tale attività viene svolta: il METODO ECONOMICO.

Un’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico quando mira al procacciamento di entrate remunerative
dei fattori produttivi utilizzati, motivo per cui non è configurabile come imprenditore chiunque eroghi beni o servii
gratuitamente, così come chi gestisce attività a prezzo simbolico: in questi casi, infatti, è evidente che i costi non
verranno coperti in alcun modo dai ricavi e

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pertanto si può parlare di attività produttiva, ma svolta SENZA metodo economico, escludendo di fatto l’esistenza di un
imprenditore.

La professionalità

L’ultimo requisito affinché si possa parlare di impresa è quello della PROFESSIONALITA’: l’attività produttiva si può
configurare come imprenditoriale nel momento in cui l’esercizio della stessa appare “professionale”, ossia ABITUALE
e NON OCCASIONALE.

Pertanto non si può parlare di impresa nel momento in cui viene compiuta una singola operazione di compravendita,
così come non si ha impresa nell’ipotesi di atti economici coordinati (attività) quando è evidente che si tratti di attività
sporadica (organizzazione di una singola manifestazione).

Occorre sottolineare che la professionalità non comporta né l’unicità/esclusività dell’attività svolta, né tanto meno la
continuità della stessa: anche il professore o l’impiegato che gestiscono un albergo contemporaneamente alla propria
attività di lavoro dipendente sono configurabili come imprenditori; stessa cosa per quanto concerne le attività stagionali,
come gli stabilimenti balneari.

Abbiamo appena precisato che occorre un’attività abituale e non occasionale. Questo non significa, però, che essa
manchi del tutto nello svolgimento di un UNICO AFFARE: se vi è una serie di atti economici coordinati e un apparato
produttivo tale da escludere il carattere occasionale dell’attività produttiva, allora si può parlare di impresa (è l’ipotesi
della realizzazione, da parte di un costruttore, di un singolo edificio).

Attività di impresa e scopo di lucro

Esaurita la trattazione dei requisiti tipici dell’imprenditore (attività produttiva, organizzazione, professionalità ed
economicità), in quanto citati all’interno della definizione codicistica, occorre prendere in considerazione quelli che una
parte della dottrina ritiene essere altri elementi necessari, sebbene l’art.2082 c.c. non faccia alcun riferimento agli stessi.

Partiamo con lo “scopo di lucro”, ritenuto da alcuni studiosi come essenziale per qualsivoglia impresa: ovviamente
qualsiasi imprenditore tende a realizzare il maggior profitto grazie alla propria attività, ma una cosa è parlare di ciò che
normalmente avviene, altro è individuare un requisito senza il quale non si potrebbe parlare di impresa.

Abbiamo avuto modo di vedere come l’imprenditore debba svolgere l’attività produttiva con metodo economico, ossia
con quel particolare metodo che mira quantomeno al pareggio tra costi e ricavi; il metodo lucrativo, invece, prevede la
tendenza alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi (lucro oggettivo), da dividere tra i soci in presenza di un contratto
di società (lucro soggettivo).

Secondo l’autore Campobasso è da escludere che lo scopo di lucro sia presupposto dell’impresa: gli elementi distintivi
dell’imprenditore, infatti, debbono potersi applicare a tutte le imprese e noi sappiamo che le imprese pubbliche non
devono mirare alla realizzazione di un profitto, né necessariamente né di regola; potremmo osservare, inoltre, che le
società mirano al lucro oggettivo e soggettivo, ma che tra le stesse figurano le cooperative, che perseguono uno scopo
mutualistico che nulla ha a che vedere con la realizzazione di ricavi eccedenti i costi; infine si potrebbe citare l’impresa

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sociale di cui al D.lgs.155/2006, cui è fatto esplicito divieto di distribuzione degli utili, sebbene sia prevista l’attività
d’impresa.

Volendo concludere, possiamo affermare con certezza che non potendo essere classificato come presupposto di tutte le
imprese, ma solo di talune di esse, lo scopo di lucro non sia in alcun modo da annoverarsi tra i requisiti dell’impresa.
Anche in assenza dello stesso, pertanto, si applica la disciplina legislativa a riguardo.

Il problema dell’impresa per conto proprio

Un altro elemento che dovrebbe essere considerato, secondo parte della dottrina, come un requisito essenziale affinché
si possa parlare di impresa, benché non citato all’interno dell’art.2082, è la DESTINAZIONE AL MERCATO DI BENI
E SERVIZI PRODOTTI: abbiamo già avuto modo di vedere come la nozione giuridica e quella economica di
imprenditore coincidano e di come la seconda scienza guardi a quest’ultimo come un intermediario tra chi possiede i
fattori produttivi e chi consuma. Secondo questo ragionamento sarebbe impossibile parlare di imprenditore in assenza di
un rapporto con terzi, ossia di una mancata destinazione al mercato di beni e servizi prodotti, dinanzi a quella che viene
solitamente definita come IMPRESA PER CONTO PROPRIO.

Partiamo col dire che non sempre si può parlare di impresa per conto proprio solo perché manca il rapporto con terzi: la
cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci, ad esempio quella edilizia, fa si che gli stessi fruiscano di beni
generati dalla società in forza di un rapporto di scambio interno alla cooperativa stessa e pertanto non si è in presenza di
un’impresa per conto proprio; stessa cosa per quanto riguarda gli enti pubblici che producono beni e servizi che, dietro
corrispettivo, vengono forniti esclusivamente all’ente di pertinenza, perché vi è uno scambio tra strutture del medesimo
ente pubblico.

Al massimo, come impresa per conto proprio, potremo considerare la “coltivazione diretta del fondo mirata al
soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della propria famiglia” e la costruzione di appartamenti NON destinati
alla rivendita (costruzione in economica): qui manca totalmente la destinazione al mercato di beni prodotti, ma questo
non significa che non si possa parlare di impresa: la verità è che tale destinazione non può in alcun modo configurarsi
come un requisito dell’imprenditore, in quanto da un lato vi è la destinazione POTENZIALE (l’agricoltore, per
esempio, potrebbe in qualsiasi momento decidere di alienare a terzi i propri prodotti) e dall’altro è impossibile indagare
ab origine quelle che sono le intenzioni di un soggetto senza poterlo definire, da subito, come imprenditore (è
impossibile sospendere l’applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale nei confronti del costruttore in
economia, aspettando il momento in cui egli deciderà di vendere l’immobile o di tenerlo per se).

La verità è che nei due casi di impresa per conto proprio che abbiamo citato ricorrono ugualmente tutti i requisiti di cui
all’art.2082 c.c. e pertanto dovremo parlare di imprenditori in tutto e per tutto, dando luogo all’applicazione
dell’apposita disciplina.

Il problema dell’impresa illecita

Ultimo elemento da analizzare tra i tre non citati nell’art.2082 ma considerati da parte della dottrina necessari per
parlare di impresa è la LICEITA’ dell’attività svolta.

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Partiamo col dire che per impresa illecita si intende quella esercente un’attività in contrasto con norme imperative di
legge, col buon costume o con l’ordine pubblico: basti pensare al contrabbando di droga, allo sfruttamento della
prostituzione o anche allo svolgimento di vendita al dettaglio senza licenza amministrativa o all’esercizio di attività
bancaria di fatto, ossia non autorizzata dalla Banca d’Italia.

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: l’illiceità dell’attività preclude l’esistenza dell’impresa?

E’ ovvio capire che l’illecito, di qualsivoglia tipo, andrà sempre represso e sanzionato, oltre che non tutelato in alcun
modo; sotto un diverso profilo, però, è utile osservare come l’impresa ILLEGALE, ossia quella che opera senza le
autorizzazioni e le concessioni richieste dalla legge, così come l’impresa IMMORALE, quella in cui illecito è lo stesso
oggetto dell’attività, sono portate a stringere accordi, a stipulare contratti e a intrattenere rapporti con terzi ignari di tali
violazioni di legge e che pertanto il legislatore non può ignorare o evitare di tutelare.

Quindi anche l’impresa illecita, qualora rispetti i requisiti tipici di cui all’art.2082 del codice, si configurerà come
impresa a tutti gli effetti: la liceità dell’attività svolta, dunque, NON è in alcun modo requisito dell’impresa. Una parte
della dottrina temeva che assicurando la qualità di imprenditore al contrabbandiere di droga o a chi sfrutta la
prostituzione si potesse applicare anche una disciplina di favore nei confronti di questi soggetti, oltre che apprestare una
tutela verso i terzi ignari dell’illecito: così non è, in quanto l’autore dell’illecito non riceverà alcuna protezione in merito
alla disciplina della concorrenza o dell’azienda o dei segni distintivi. Vige la regola della “non invocabilità della
qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito”: chi ha svolto attività d’impresa illecita sarà soggetto alla
disciplina dell’impresa, ma non riceverà tutela di alcun tipo. E questo anche nell’ipotesi in cui l’attività sia lecita ma
miri comunque alla realizzazione di un disegno criminoso, come il riciclaggio di denaro sporco (pensiamo all’impresa
mafiosa).

Impresa e professioni intellettuali

Durante tutta la trattazione di questo primo capitolo abbiamo avuto modo di vedere come si possa parlare di
imprenditore SOLO in presenza dei requisiti dettati dall’art.2082 c.c. (esercizio professionale di attività economica
finalizzata allo scambio o alla produzione di beni e servizi) e di come l’assenza di altri elementi (scopo di lucro,
destinazione al mercato di beni e servizi, liceità dell’attività svolta) non determini l’esclusione della qualità di
imprenditore.

Tuttavia, è lo stesso legislatore a prevedere un singolo caso in cui la disciplina dell’impresa non si applica, benché
possano sussisterne i requisiti: stiamo parlando delle PROFESSIONI INTELLETTUALI. Esse non vanno considerate
come esercizio di attività di impresa per “libera opzione del legislatore”, neanche nell’ipotesi in cui ricorrano tutti gli
elementi dell’art.2082 c.c. e neanche nel caso in cui il professionista si avvalga di una schiera di collaboratori e/o di un
complesso di beni strumentali alla propria attività. La medesima regola vale per gli artisti e gli inventori.

L’art.2238 comma 1 del codice, infatti, prevede che la disciplina dell’impresa vada applicata ai professionisti
intellettuali “SOLO se l’esercizio della professione diventa elemento di un’attività organizzata in forma di impresa”: la
professione, in questo caso, diviene particella di una più ampia attività, quella imprenditoriale e a tal proposito basti
pensare al medico che esercita nella propria clinica, al professore che insegna nella propria scuola privata o al cantante
che organizza i propri

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concerti. In tutti questi esempi si applica sia la disciplina dettata dal codice per l’imprenditore, sia quella per la specifica
professione intellettuale.

E’ lo stesso art.2238, al comma 2, a prevedere che l’impiego di ausiliari o sostituti comporti semplicemente, per il
professionista intellettuale, l’assoggettamento alla disciplina del lavoro nell’impresa, ma non a tutto il resto: ciò
significa che il professionista non sarà soggetto in alcun modo a fallimento, ma non potrà d’altro canto beneficiare della
disciplina dell’azienda o dei segni distintivi.

Un’ultima precisazione è doverosa: si è in presenza di professione intellettuale nel momento in cui lo svolgimento della
stessa si può evincere dai servizi prestati e non dalla sola etichetta legislativa dettata dall’iscrizione a un albo: il
farmacista, per esempio, è un imprenditore commerciale benché figuri tra i professionisti intellettuali, in quanto la sua
attività prevalente è quella di intermediario tra case farmaceutiche che realizzano i farmaci e clienti che ne necessitano e
pertanto li acquistano, non quella di fornire consulenze circa la salute dei suoi clienti.

CAPITOLO SECONDO – LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI

A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE

Il ruolo della distinzione

Abbiamo già detto che gli imprenditori possono essere distinti in base a tre criteri ed è opportuno adesso approfondire le
diverse definizioni.

Il primo criterio discretivo che prendiamo in considerazione riguarda l’OGGETTO dell’impresa: in base ad esso
ritroviamo all’interno del codice la distinzione tra imprenditore COMMERCIALE (art.2195 c.c.), al quale si applica
uno “statuto speciale” contenente le norme sull’iscrizione nel registro delle imprese con la funzione di pubblicità legale,
l’obbligo di tenuta delle scritture contabili e l’assoggettamento alle procedure concorsuali, e imprenditore AGRICOLO
(art.2135 c.c.), soggetto solo allo “statuto generale dell’impresa”.

Ciò significa che l’individuazione dell’imprenditore agricolo serve soltanto a escluderlo dalla disciplina dell’impresa
commerciale e a restringere il campo di applicazione delle norme su di essa: l’imprenditore agricolo, infatti, è esonerato
dalla tenuta delle scritture contabili (art.2214 c.c.) e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali (art.2221 c.c.),
così come lo era inizialmente dall’iscrizione nel registro delle imprese, poi prevista a partire dalla l.580/1993 con la sola
funzione di pubblicità notizia e successivamente anche con funzione di pubblicità legale grazie al D.lgs.228/2001, che
ha anche modificato l’originaria nozione di imprenditore agricolo.

Una parte della dottrina ritiene, inoltre, che accanto all’imprenditore agricolo e a quello commerciale, sempre in base
all’oggetto dell’impresa, dovrebbe figurare l’imprenditore CIVILE, non rientrante in nessuna delle due categorie
suddette, soggetto solo allo statuto generale dell’imprenditore.

L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali.

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La definizione di imprenditore agricolo la troviamo all’interno dell’art.2135 del codice, ma è stato il D.lgs.228/2001,
come già anticipato, a modificarla rispetto al testo originario, il quale aveva creato non pochi dubbi in merito alla
distinzione tra attività agricole e attività ritenibili come commerciali. Spieghiamoci meglio.

Il testo originario recitava:

“E’ imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all’allevamento
del bestiame e attività connesse.
Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano
nell’esercizio normale dell’agricoltura”.

Questa definizione poteva ritenersi adeguata nel 1942, ma con l’evolversi dell’agricoltura “industrializzata e
meccanizzata” e col progresso tecnologico che ha portato ad avere prodotti agricoli tramite coltivazioni “artificiali o
fuori terra”, oltre ad “allevamenti in batteria” (condotti in capannoni industriali e con mangimi chimici), è diventato
particolarmente difficile capire se per “impresa agricola” dovesse intendersi quella volta alla produzione di specie
vegetali o animali, indipendentemente dalle modalità, oppure quella comportante lo “sfruttamento della terra e delle sue
risorse”, ritenendo pertanto commerciali gli imprenditori produttori di specie vegetali o animali in modo svincolato dal
fondo agricolo.

E’ per questo motivo che nel 2001 il legislatore ha rivisto la nozione di imprenditore agricolo:

“È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di
animali e attività connesse. Per coltivazione del
fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo
biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il
fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione,
conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano a oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla
fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente
impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale
e forestale, ovvero di ricezione e ospitalità come definite dalla legge.”

Come possiamo notare la nuova nozione mantiene la distinzione tra ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI e
ATTIVITA’ AGRICOLE PER CONNESSIONE, ma si spinge oltre, in quanto specifica cosa debba intendersi per
attività agricole essenziali, eliminando qualsiasi dubbio a riguardo: è sufficiente la produzione di specie vegetali e
animali, indipendentemente dal legame reale con il fondo agricolo. Anche la coltivazione in serra o in vivaio, la
floricoltura e l’orticoltura, l’allevamento in batteria e quello di animali da corsa o da pelliccia, persino la cinotecnica
(volta all’allevamento e alla selezione di razze canine), sono da considerarsi come attività agricole. All’imprenditore
agricolo, infine, è stato equiparato in tutto e per tutto quello “ittico”, ossia quello che pone in essere un’attività di pesca
professionale.

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Segue: Le attività agricole per connessione

Abbiamo anticipato che imprenditore agricolo non è solo chi pone in essere un’attività agricola essenziale tra quelle
elencate dal comma 1 dell’art.2135 c.c., ma anche chi da luogo a un’attività agricola PER CONNESSIONE, la cui
definizione è mutata in forza del D.lgs.228/2001.

Andavano intese come attività agricole per connessione, nel testo originario del codice, tutte le “attività dirette alla
trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli se rientranti nell’esercizio normale dell’agricoltura”.

Oggi, invece, il comma 3 dell’art.2135 c.c. ritiene che si debbano reputare come attività agricole per connessione quelle
“dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti
PREVALENTEMENTE da una delle attività agricole essenziali (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di
animali) ovvero quelle dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione PREVALENTE di attrezzature o
risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata”.

Quindi, affinché si possa parlare di attività agricola per connessione occorre:

 Che a esercitarla sia un imprenditore agricolo e che ci sia COERENZA tra l’attività agricola essenziale e quella
per connessione (CONNESSIONE SOGGETTIVA): è imprenditore agricolo, per esempio, il viticoltore che
produce vino, perché esiste un legame tra la produzione di uva e quella vino; al contrario, non è ritenibile come
attività agricola per connessione la produzione di formaggio da parte del viticoltore, perché manca una
connessione tra l’attività essenziale, la produzione di uva, e quella che dovrebbe configurarsi come “connessa”,
ossia la produzione di formaggio. In tal caso il soggetto viene ritenuto come imprenditore agricolo per la prima
attività e come imprenditore commerciale per la seconda. Fanno eccezione le cooperative e i consorzi di
imprenditori agricoli, i quali sfruttando i rapporti di scambio interni producono beni differenti dall’attività
agricola essenziale: essi sono da ritenersi ugualmente come imprenditori “agricoli”;
 Che vi sia una connessione non solo tra il soggetto esercente e l’attività in questione, ma anche tra le due
attività che egli esercita (CONNESSIONE OGGETTIVA). Il criterio adoperato è quello della PREVALENZA:
l’attività connessa deve sfruttare prodotti provenienti per lo più dall’attività agricola essenziale o beni e servizi
forniti maggiormente grazie all’utilizzazione di attrezzature o risorse dell’azienda agricola. In poche parole,
l’attività agricola essenziale deve essere PREPONDERANTE (prevalere) rispetto quella secondaria/per
connessione.

L’imprenditore commerciale

E’ IMPRENDITORE COMMERCIALE secondo l’art.2195 c.c. colui che esercita una delle seguenti attività:

1. Attività INDUSTRIALE diretta alla produzione di beni o servizi (settore INDUSTRIALE);


2. Attività INTERMEDIARIA nella circolazione dei beni (settore del COMMERCIO);
3. Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
4. Attività bancaria o assicurativa;
5. Altre attività AUSILIARIE delle precedenti.

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Se analizziamo bene l’articolo menzionato, possiamo renderci conto di come la definizione delle attività ritenibili come
giuridicamente commerciali sia contenuta all’interno dei primi due numeri: l’attività industriale realizza quella
“produzione di beni di beni e servizi” di cui si parla all’interno dell’art.2082
c.c. inerente la definizione di imprenditore; l’attività intermediaria realizza, altresì, quello “scambio di beni e servizi”
previsto sempre nello stesso articolo. Praticamente è sufficiente realizzare lo SCOPO dell’impresa affinché si possa
parlare di imprenditore commerciale, eliminando ovviamente i casi in cui si tratta di impresa agricola.

Nei numeri 3 e 4 dell’art.2195, invece, vengono semplicemente citate “l’attività di trasporto per terra, per acqua o per
aria”, la quale non è altro che un’attività produttiva di servizi e pertanto inglobata all’interno del numero 1 dell’articolo,
e “l’attività bancaria o assicurativa”, l’una definibile come attività di intermediazione nella circolazione del denaro e
pertanto rientrante nel numero 2 dell’art.2195 e l’altra (quella assicurativa) ritenibile come produttiva di un servizio e
quindi abbracciata dal numero 1.

Il numero 5, infine, prevede che siano attività commerciali anche quelle AUSILIARIE alle altre attività commerciali di
produzione o scambio (ossia a quelle industriali o intermediarie).

E’ su due termini, però, che dobbiamo porre l’attenzione per comprendere bene le imprese giuridicamente commerciali:
gli aggettivi “INDUSTRIALE” e “INTERMEDIARIA”, anche perché è solo grazie a questi che possiamo capire se vi è
spazio, nel nostro ordinamento, per le imprese civili cui abbiamo accennato all’inizio del capitolo.

Il problema dell’impresa civile

Le imprese CIVILI dovrebbero essere, secondo coloro che ne suppongono l’esistenza, delle imprese non qualificabili né
come agricole, perché non inquadrabili all’interno dell’art.2135 c.c., né commerciali, in quanto non rientranti in una
delle caselle di cui all’art.2195 c.c.

Il dibattito dottrinale inerente l’esistenza delle imprese civili, dunque, ruota tutto attorno alle definizioni di “attività
INDUSTRIALE” e “attività INTERMEDIARIA”: chi ne ammette l’esistenza, infatti, sostiene che per attività
industriale dovrebbe intendersi qualsiasi attività di “trasformazione di materie prime, grazie all’opera dell’uomo, in
nuovi beni” e che sarebbe da ritenersi come attività intermediaria “SOLO quella comportante l’acquisto e la successiva
vendita di beni”, non quella riguardante la vendita di beni propri. Secondo questa tesi, quindi, andrebbe preso in
considerazione il significato tecnico dell’aggettivo “industriale”, motivo per cui non sarebbero imprese commerciali, ma
civili, quelle minerarie, data la mancanza della successiva trasformazione, e quelle produttive di servizi, data l’assenza
di materie prime; allo stesso modo, attività intermediaria e attività di scambio non dovrebbero intendersi come sinonimi
e pertanto le imprese finanziarie che erogano credito con mezzi propri dovrebbero ritenersi come imprese civili.

La dottrina prevalente, però, non abbraccia in alcun modo questa tesi ed esclude l’esistenza delle imprese civili: il
legislatore ha utilizzato l’aggettivo industriale per identificare tutte quelle attività NON agricole, così come ha utilizzato
la definizione di “attività intermediaria” come equivalente di “attività di scambio”. Le definizioni contenute
nell’articolo 2195, dunque, non vanno in alcun modo

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sopravvalutate o smisuratamente interpretate, in quanto volte ad accentuare la sola bipartizione che il codice conosce,
quella tra imprese commerciali e imprese agricole.

B. PICCOLO IMPRENDIOTORE. IMPRESA FAMILIARE.

Il secondo criterio che adoperiamo per attuare una differenziazione di disciplina tra imprenditori è quello riguardante le
DIMENSIONI dell’impresa e in tal senso occorre attuare una distinzione tra PICCOLO IMPRENDITORE e medio-
grande impresa.

Anche la disciplina dettata dal codice per il piccolo imprenditore, al pari di quella dell’impresa agricola, non serve ad
altro che a restringere il campo di applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale: la piccola impresa,
infatti, non è soggetta a procedure concorsuali (art.2221) ed è esonerata dalla tenuta di scritture contabili (art.2214
comma 3), mentre è prevista l’iscrizione nel registro delle imprese ma con la sola funzione di pubblicità notizia. E tutto
ciò anche se si tratta di impresa commerciale.

Una definizione diversa di piccolo imprenditore, però, è stata per lungo tempo contenuta all’interno della legge
fallimentare, il che ha dato luogo a notevoli difficoltà nell’individuazione delle piccole imprese. Il problema è stato
risolto solo ultimamente, ma è opportuno comunque analizzare le diverse discipline.

Il piccolo imprenditore nel codice civile

L’art.2083 del codice, che ci fornisce la definizione di piccolo imprenditore, recita:

“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano
un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.

Sebbene da una prima lettura l’articolo sembrerebbe individuare tre tipologie di piccoli imprenditori (coltivatori diretti,
artigiani e piccoli commercianti), per poi inserire una categoria residuale, ossia quella di tutti gli altri imprenditori
esercenti un’attività caratterizzata dalla prevalenza del lavoro proprio o di quello dei familiari, la situazione non è
realmente così: la prevalenza del fattore lavoro (proprio o della famiglia) rispetto agli altri fattori produttivi, ossia il
lavoro altrui e il capitale (proprio o altrui), è determinante affinché si possa parlare di piccolo imprenditore, in tutti i
casi, anche in quelli espressamente citati. Tale non è, per esempio, il gioielliere che investe ingenti capitali nell’impresa,
in quanto il fattore capitale, anche se proprio, è evidentemente preponderante rispetto al suo lavoro. Occorre, dunque,
sottolineare il concetto di PREVALENZA sotto il profilo qualitativo-funzionale e leggere l’articolo come se recitasse:
“La prevalenza del lavoro proprio o familiare costituisce carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori”.

Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare

Oltre alla definizione contenuta all’interno dell’art.2083 del codice, un’altra nozione di piccolo imprenditore era un
tempo contenuta all’interno della legge fallimentare, il cui art.1 comma 2 recitava: “Sono considerati piccoli
imprenditori quelli esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini
dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato
l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile,

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sono considerati piccoli imprenditori quelli esercenti un’attività commerciale nella cui azienda è stato investito un
capitale non superiore a lire novecentomila”. La stessa norma prevedeva l’impossibilità di considerare piccoli
imprenditori le società commerciali, pertanto sempre soggette al fallimento.

I parametri presi in considerazione nella legge fallimentare, in sostanza, erano solo e solamente monetari (reddito di
ricchezza mobile accertato o, in mancanza, capitale investito), del tutto diversi da quello di “prevalenza del lavoro
familiare” fissato dal codice, motivo per cui si rischiava di riconoscere un imprenditore come “piccolo” seguendo il
dettato codicistico per poi escluderne tale dimensione e assoggettarlo al fallimento in forza del r.d.267/1942,
semplicemente perché titolare di un reddito superiore a 480.000 lire, che era il minimo imponibile nel 1973. Nel ’74, tra
l’altro, l’imposto di ricchezza mobile venne sostituita dall’Irpef, rendendo tale criterio non più applicabile e lasciando in
piedi solo quello inerente il capitale investito, poi a sua volta dichiarato incostituzionale nel ’89, in quanto divenuto
ridicolo a causa della svalutazione monetaria, oltre che inutile per fare una distinzione tra imprenditori soggetti al
fallimento o meno.

Venuti meno entrambi i criteri della legge fallimentare, però, non si poteva far dipendere l’assoggettamento al
fallimento dal solo requisito codicistico dei piccoli imprenditori (quello della prevalenza del lavoro proprio o familiare),
in quanto troppo sfuggente. Ecco perché la riforma del diritto fallimentare del 2006 e il decreto correttivo del 2007
hanno rivisto l’art.1 comma 2 del r.d.267, introducendo nuovi parametri per l’assoggettamento al fallimento MA
evitando di dare una nuova definizione di piccolo imprenditore.

In forza dell’odierna disciplina NON è soggetto al fallimento:

 Chi ha avuto nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività
se di durata inferiore) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo INFERIORE a euro
trecentomila;
 Chi ha realizzato, nei tre esercizi precedenti (o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore), ricavi lordi per un
ammontare complessivo annuo INFERIORE a euro duecentomila;
 Chi possiede un ammontare di debiti, anche non scaduti, INFERIORE a euro cinquecentomila.

Il superamento di uno dei limiti suddetti espone automaticamente al fallimento e l’onere della prova, ossia di dimostrare
il possesso congiunto dei tre requisiti, grava sul debitore. Anche le società commerciali, un tempo escluse
dall’applicazione di tale disciplina, possono ottenere oggi l’esonero dal fallimento, ammesso che rispettino anche esse
tali limiti.

L’impresa artigiana

Il nostro legislatore, al fine di agevolare lo sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato, è più volte intervenuto nel corso
del tempo in materia tributaria, creditizia, lavoristica, proprio per tutelare le piccole imprese e spingerle verso la
crescita. Tutte le leggi speciali a riguardo, però, non hanno in alcun modo intaccato il concetto civilistico di piccolo
imprenditore, utile per l’esonero dall’applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale, né tanto meno
sono entrate in contrasto con la disciplina della legge fallimentare.

Una sola eccezione si è avuta, per lungo tempo, in materia di IMPRESA ARTIGIANA. La legge sull’artigianato n°860
del 1956 prevedeva, infatti, che l’impresa rispondente ai “requisiti fondamentali”

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nella stessa fissati fosse da ritenersi artigiana “A TUTTI GLI EFFETTI DI LEGGE” (art.1 comma 1) e pertanto anche
in materia civilistica e fallimentare. La nozione speciale, dunque, non andava ad affiancare quella generale per
agevolare l’artigianato in un determinato settore giuridico, ma sostituiva del tutto quella contenuta all’interno
dell’art.2083 e quella del r.d.267/1942.

La legge 860, infatti, dopo aver sottolineato il carattere “artistico o usuale” dei beni/servizi prodotti e il rispetto di alcuni
limiti per il personale dipendente, riteneva l’impresa SEMPRE artigiana e pertanto sottratta al fallimento, anche
nell’ipotesi in cui capitali e lavoro altrui fossero preponderanti rispetto al lavoro dell’imprenditore.

Inoltre le SOCIETA’ ARTIGIANE, purché cooperative o in nome collettivo, composte da una maggioranza di soci
lavoratori e all’ulteriore condizione che il lavoro fosse prevalente rispetto al capitale, erano da considerarsi SEMPRE
come artigiane, sfuggendo in qualsiasi ipotesi al fallimento.

La situazione ha creato problemi per lungo tempo fino a che la l.860 è stata sostituita dalla l.443/1985, la quale non solo
ha fornito una nuova definizione di imprenditore artigiano, ma si è limitata a fungere da legge speciale, valevole solo
per agevolare lo sviluppo dell’artigianato e in alcun modo applicabile ai fini civilistici o fallimentari. In sostanza, la
nuova definizione di imprenditore non vale “a tutti gli effetti di legge”.

La nuova definizione di impresa artigiana non prende in alcun modo in considerazione il carattere usuale o artistico dei
beni e servizi prodotti, ma semplicemente l’OGGETTO dell’impresa, che consiste nella produzione di beni e nella
prestazione di servizi, escluse le attività agricole e i servizi commerciali di intermediazione, e nel RUOLO
dell’artigiano, il quale deve svolgere il proprio lavoro nel processo produttivo, sebbene NON in misura prevalente
rispetto agli altri fattori (capitale e lavoro altrui). Permane il limite al numero massimo di dipendenti e la necessità che
essi siano diretti dall’artigiano, il quale può essere titolare di una sola impresa artigiana.

La qualifica artigiana spetta anche alle società cooperative o in nome collettivo in cui la maggioranza dei soci svolge il
proprio lavoro e in cui il lavoro ha funzione prevalente rispetto al capitale (“il lavoro in genere e non quello dei soci”,
sottolinea il Campobasso).Tale qualifica è stata estesa anche alle s.r.l. unipersonali e alle s.a.s., purché siano rispettati i
requisiti dell’imprenditore artigiano da parte del socio unico e dei soci accomandatari, i quali non devono essere
contemporaneamente soci di altri s.r.l. o s.a.s. Stessa qualifica spetta alle s.r.l. pluripersonali nel caso in cui la
maggioranza dei soci svolga il proprio lavoro nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale del capitale
sociale.

Ribadiamo il punto essenziale della nuova legge-quadro sull’artigianato: essa non detta una definizione valevole a tutti
gli effetti di legge, ma solo dei principi direttivi ai quali le regioni devono attenersi per emanare la normativa di
dettaglio. Questo significa che essere “artigiano” per l’imprenditore non equivale a essere un piccolo imprenditore, il
che spiega perché possa essere assoggettato allo statuto speciale dell’impresa commerciale; stessa cosa per il fallimento,
l’assoggettamento al quale dipende da limiti dimensionali di cui all’art.1 comma 2 della legge fallimentare.

L’impresa familiare

La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha avuto il merito, tra le tante innovazioni, di introdurre all’interno del codice
l’art.230-bis, il quale disciplina la cosiddetta IMPRESA FAMILIARE, ossia quella

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particolare impresa in cui i familiari dell’imprenditore lavorano continuativamente, senza intrattenere con lo stesso
alcun rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione autonoma. I familiari che ne possono far parte sono i parenti
entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo (fino ai cognati), praticamente la famiglia “nucleare” (una
gran parte della dottrina è propensa a includere anche il convivente more uxorio).

Chiariamo da subito che l’intervento del legislatore del ’75 non è in alcun modo connesso alla nozione di piccolo
imprenditore: l’’impresa familiare può essere anche medio-grande, così come la piccola impresa non è detto che sia
familiare. La riforma ha voluto semplicemente tutelare tutti quei soggetti che prestano le proprie energie lavorative, in
maniera continuativa, all’interno dell’impresa di famiglia e che un tempo non erano in alcun modo protetti, in quanto le
prestazioni in questione venivano considerate come eseguite a titolo gratuito.

Oggi, invece, i familiari hanno diritti di tipo patrimoniale e diritti amministrativi: sotto il primo profilo spetta il diritto al
mantenimento, alla partecipazione agli utili conseguiti con il proprio lavoro, il diritto sui beni acquistati con tali utili, in
proporzione sempre al lavoro prestato, e il diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di
trasferimento della stessa, oltre ad una liquidazione in denaro per il lavoro eseguito da erogare al momento della
cessazione del rapporto; sul piano gestorio spetta altresì ai familiari prendere a maggioranza le decisioni in merito alla
gestione straordinaria dell’impresa, tanto che se l’imprenditore non si adegua è tenuto a pagare il risarcimento del
danno.

Dobbiamo, però, sottolineare un aspetto fondamentale dell’impresa familiare: non si tratta in alcun modo di un’impresa
collettiva, ma sempre e comunque di un’impresa individuale. L’imprenditore resta uno e uno soltanto, tanto che la
gestione “ordinaria” spetta allo stesso, così come nell’ipotesi in cui non si adegui alle decisioni dei familiari inerenti la
gestione straordinaria, gli atti posti in essere restano comunque validi e vincolanti verso terzi (è dovuto solo il
risarcimento ai familiari). Esposto al fallimento, pertanto, è il familiare-imprenditore e NON ogni soggetto che fa parte
dell’impresa in questione.

C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA.

L’impresa societaria

Il terzio criterio distintivo delle imprese che andiamo ad analizzare riguarda la NATURA GIURIDICA del soggetto
esercente l’attività di impresa: a tal proposito il codice distingue l’impresa INDIVIDUALE, l’impresa SOCIETARIA e
quella PUBBLICA.

Anche tale differenziazione, al pari delle altre, comporta l’assoggettamento, più o meno ampio, allo statuto
dell’imprenditore commerciale.

L’imprenditore commerciale non piccolo “persona fisica” (impresa individuale) è sempre esposto all’intero statuto
dell’impresa commerciale e, pertanto, alle norme in materia di iscrizione nel registro delle imprese con funzione di
pubblicità legale, alle norme inerenti le scritture contabili e a quelle riguardanti l’assoggettamento alle procedure
concorsuali.

Diversa è la situazione nel caso delle società, le forme associative TIPICHE MA NON ESCLUSIVE di esercizio
collettivo dell’attività di impresa (non esclusive perché l’attività di impresa può essere svolta anche da associazioni e
fondazioni, consorzi tra imprenditori con attività esterna e gruppo europeo di

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interesse economico). In questa sede è utile soltanto anticipare che all’interno del nostro ordinamento esiste una netta
distinzione tra la società semplice, utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciale, e le altre società, definite
sempre come “commerciali”, ma tra le quali viene comunque attuata una seconda divisione in società di tipo
commerciale con OGGETTO AGRICOLO (pensiamo alla società che porta avanti l’allevamento del bestiame) e società
di tipo commerciale con OGGETTO COMMERCIALE (pensiamo alle società per la fabbricazione di utensili).

Venendo all’aspetto che più ci interessa, ossia l’applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale,
dobbiamo dire che le norme sull’iscrizione nel registro delle imprese e sulla tenuta delle scritture contabili si applicano
a qualsiasi società commerciali, indipendentemente dall’attività svolta, mentre le norme sul fallimento e sulle altre
procedure concorsuali si applicano SOLO alle società commerciali con oggetto commerciale. Inoltre, per quanto
concerne le società in nome collettivo e quelle in accomandita semplice la disciplina dell’imprenditore commerciale si
applica soltanto nei confronti dei soci a responsabilità ILLIMITATA, ossia verso tutti nella prima e verso gli
accomandatari nella seconda.

Le imprese pubbliche

Anche lo Stato e gli altri enti pubblici possono svolgere attività d’impresa, ma l’assoggettamento allo statuto speciale
dell’imprenditore commerciale non è scontato in tutti i casi.

Anzitutto partiamo col distinguere tra:

 IMPRESE ORGANO: si tratta di tutte quelle ipotesi in cui lo Stato o gli altri enti territoriali svolgono attività
di impresa direttamente, ma tale attività deve configurarsi ovviamente come secondaria e accessoria, in quanto
primaria e principale è sicuramente l’attività istituzionale;
 ENTI PUBBLICI ECONOMICI: si tratta di enti di diritto pubblico istituiti con il fine “esclusivo e principale”
di porre in essere attività di impresa. Le imprese pubbliche, sino agli anni ’90, assumevano per lo più questa
veste (pensiamo a Enel, Eni, Banco di Napoli ecc.), sino a che il legislatore non ha avviato una
“privatizzazione formale”, trasformandole in società per azioni a partecipazione statale, per poi attuare una
“privatizzazione sostanziale”, comportante la dismissione delle partecipazioni pubbliche;
 SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA: sono società appositamente costituite per l’esercizio di
attività di impresa, in cui lo Stato o altri enti pubblici hanno partecipazioni di maggioranza, di minoranza o
totalitarie.

Nel caso delle società a partecipazione pubblica lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale si applica nei casi
che abbiamo già analizzato nel paragrafo precedente per le società.

Nell’ipotesi di enti pubblici economici, invece, vi è l’assoggettamento allo statuto generale dell’imprenditore e a quello
speciale dell’imprenditore commerciale nella sola ipotesi di attività “commerciale”, ma con un’eccezione: essi non sono
soggetti a fallimento e concordato preventivo, bensì alla liquidazione coatta amministrativa e alle altre procedure
previste in leggi speciali.

Il caso delle “imprese organo”, invece, è più complicato, dato che l’art.2093 comma 2 c.c. prevede che le disposizioni
del libro V, ossia quello relativo al lavoro e in cui è contenuta la disciplina dell’impresa, si applichino alle imprese
organo (il codice parla di enti pubblici NON INQUADRATI), ma il comma 3

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dispone allo stesso tempo che siano fatte salve le diverse disposizioni di legge. Ciò significa che le imprese organo,
avendo l’attività di impresa scopo solamente accessorio e secondario, non sono soggette a iscrizione nel registro delle
imprese (prevista solo per enti pubblici con oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale dall’art.2201 c.c.),
oltre ad essere esonerati dalle procedure concorsuali (art.2221 c.c.). La maggioranza della dottrina è quindi concorde
nell’affermare che le imprese organo, oltre ad essere soggette allo statuto generale dell’imprenditore, debbano esserlo
anche a tutte le norme dettate per gli imprenditori commerciali, escluse quelle da cui sono esonerate (l’altra parte della
dottrina le esclude, invece, integralmente dalla disciplina dell’imprenditore commerciale).

Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni

Noi sappiamo che le associazioni, riconosciute e non, e le fondazioni altro non sono che enti privati con fini ideali o
altruistici, di cui si occupa il libro I del codice. A essi, in passato, veniva negata la possibilità di esercitare attività
d’impresa, partendo dal presupposto che l’impresa stessa fosse caratterizzata dallo scopo di lucro, assente in tali enti.
Abbiamo visto, però, che per potersi parlare di “impresa” non occorre lo scopo di lucro, ma solo l’osservanza del
metodo economico nell’esercizio dell’attività produttiva, il che permette oggi agli enti privati di poter esercitare tale
attività.

Non esiste tra l’altro alcuna differenza di disciplina per ciò che concerne gli enti il cui oggetto esclusivo o principale è
costituito dall’esercizio di attività commerciale e quelli in cui tale attività è solo accessoria: in entrambi i casi l’ente
acquista la qualità di imprenditore commerciale, rimanendo assoggettato a tutta la disciplina dell’impresa commerciale,
anche perché non esistono norme di esonero a riguardo.

L’unica puntualizzazione che occorre fare riguarda il fallimento: se fallisce un’associazione non riconosciuta ciò non
comporta, in alcun modo, il fallimento degli associati illimitatamente responsabili.

Segue: l’impresa sociale

Si definisce IMPRESA SOCIALE quella particolare organizzazione privata che esercita professionalmente un’attività
economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi di UTILITA’ SOCIALE, per tali
intendendosi quelli tassativamente elencati dal D.lgs.155/2006 che regola la materia.

L’impresa sociale non è un nuovo tipo di ente, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato (associazioni, società,
fondazioni ecc.) possono assumere rispettando determinate condizioni. Anzitutto, oltre all’oggetto particolare
(produzione/scambio di beni e servizi di utilità sociale), per le imprese sociali è fondamentale l’ASSENZA dello scopo
di lucro: l’impresa sociale è prima di tutto un’impresa, motivo per cui occorre che operi con “metodo economico”, ma
questo non significa che non possa produrre un avanzo di gestione, ossia ricavi superiori ai costi; vietata è solo
l’AUTODESTINAZIONE DEI RISULTATI DELLA GESTIONE, in quanto utili e avanzi devono essere destinati
all’attività

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statutaria o all’incremento del patrimonio dell’ente, patrimonio su cui comunque grava un vincolo di indisponibilità,
dato che esso non può formare oggetto di divisione tra coloro che fanno parte dell’organizzazione, né durante la vita
dell’ente né al momento dello scioglimento dello stesso.

Alle imprese sociali è concesso un privilegio civilistico notevole, ossia quello di poter adottare qualsiasi tipo societario,
sebbene manchi lo scopo di lucro. Non possono essere imprese sociali le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni
che erogano beni e servizi solo a favore dei propri soci, associati o partecipi.

Un altro privilegio riguarda la possibilità dell’impresa sociale di poter LIMITARE LA RESPONSABILITA’


PATRIMONIALE DEI PARTECIPANTI, anche qualora il modello societario impiegato preveda la responsabilità
illimitata di tutti i soggetti che ne fanno parte: se l’impresa ha un patrimonio di ALMENO 20.000 euro delle
obbligazioni sociali risponderà, in qualsiasi caso, SOLO l’organizzazione con il proprio patrimonio; se, però, si ha una
riduzione per perdite di oltre un terzo al di sotto di tale limite (quindi se il patrimonio scende a meno di 13.333 euro),
delle obbligazioni sociali rispondono coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa, ma non gli altri soci,
indipendentemente (lo ripetiamo) dal modello societario utilizzato.

Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell’impresa sociale, essa deve iscriversi in un’apposita sezione
del registro delle imprese e deve redigere le scritture contabili. E’ sempre soggetta, in caso di insolvenza, alla
liquidazione coatta amministrativa e NON al fallimento. L’atto costitutivo deve rispettare la forma dell’atto pubblico e
deve individuare l’oggetto sociale, rientrando nelle attività previste dal D.lgs.155/2006, indicare la denominazione
dell’ente con l’aggiunta della dicitura “impresa sociale”, enunciare l’assenza dello scopo di lucro, fissare i requisiti per
la nomina delle cariche sociali, disciplina le modalità di ammissione ed esclusione dei soci e prevedere forme di
coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività sociale, che possono andare dalla semplice consultazione a
forme attive di partecipazione all’attività decisionale.

L’impresa sociale, inoltre, è soggetta al:

 “Controllo contabile” da parte di uno o più revisori contabili iscritti nel registro tenuto presso il Consiglio
nazionale dei dottori commercialisti;
 “Controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione” da parte di uno o
più sindaci, che possono dar luogo anche a ispezioni;
 “Controllo esterno” del Ministero del lavoro, che può disporre la perdita della qualifica di “impresa sociale” se
difetta una delle condizioni per il riconoscimento (natura privata dell’ente, settore di attività sociale ecc.) o se
gli organi direttivi non hanno posto fine a comportamenti illegittimi dopo aver ricevuto una diffida per
violazioni della disciplina legislativa. Ne consegue la cancellazione dal registro e l’obbligo di devolvere il
patrimonio a enti non lucrativi previsti dallo statuto.

CAPITOLO TERZO – L’ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI IMPRENDITORE

Premessa

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Affinché si possa applicare l’intera disciplina dell’impresa occorre prima che il soggetto possa definirsi “imprenditore”
e per far si che ciò avvenga occorre che l’attività in questione sia a lui giuridicamente imputabile.

E’ per tal motivo che il capitolo va ad analizzare l’acquisto della qualità di imprenditore, partendo dall’imputazione
dell’attività di impresa, analizzando quando può dirsi “iniziata” tale attività e quando cessa del tutto, concludendo con la
disciplina dell’esercizio dell’attività da parte di soggetti totalmente o parzialmente privi della capacità d’agire.

A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ DI IMPRESA

Noi sappiamo che l’attività di impresa consta di una serie di singoli atti giuridici, coordinati tra loro e posti in essere
dall’imprenditore. Nel nostro ordinamento per l’imputazione degli effetti attivi e passi di atti negoziali vige il principio
della SPENDITA DEL NOME, in forza del quale gli effetti di un atto ricadono sul soggetto il cui nome è stato “speso”
(ossia fatto) nel traffico giuridico.

Questa regola emerge chiaramente nella disciplina del “mandato”: se il mandato è SENZA rappresentanza e il
mandatario agisce in nome proprio (anche se per conto del mandante) gli effetti degli atti posti in essere ricadranno su di
lui e occorrerà un nuovo negozio giuridico per girarli al mandante, in quanto è il mandatario ad acquistare i diritti e ad
assumere gli obblighi derivanti dagli atti compiuti; se il mandato, invece, è CON rappresentanza, il mandatario è
autorizzato, nei rapporti con terzi, a “spendere” il nome del mandante, ossia ad agire in nome di un altro soggetto (il
mandante appunto), motivo per cui gli effetti degli atti posti in essere ricadranno da subito nella sfera giuridica del
mandante.

La regola della spendita del nome, ovviamente, vale anche in tema di attività di impresa: imprenditore è chi esercita
personalmente l’attività di impresa, compiendo in nome proprio i relativi atti. Se gli atti vengono compiuti da un
rappresentante volontario o legale (pensiamo a un genitore autorizzato dal tribunale a gestire l’impresa del figlio
minore), l’imprenditore resta pur sempre il rappresentato di cui si è speso il nome (il minore nel nostro esempio).

Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. La teoria dell’imprenditore occulto

Ma che succede nel momento in cui il soggetto che pone in essere gli atti d’impresa, spendendo il proprio nome e
acquistando la qualità di imprenditore, differisce dal reale interessato, ossia da colui che somministra i mezzi finanziari,
dirige l’impresa e fa propri i guadagni?

In questa ipotesi occorre distinguere l’imprenditore PALESE o PRESTANOME, ossia colui che spende il proprio nome
nel traffico giuridico, dall’imprenditore INDIRETTO o OCCULTO, il soggetto realmente interessato all’attività posta
in essere.

Il problema non si pone sino a che gli affari vanno bene e i creditori vengono regolarmente pagati, ma si presenta nel
caso in cui gli affari vadano male, in quanto il più delle volte l’imprenditore è una persona fisica nullatenente o una
società per azioni o a responsabilità limitata di comodo (o etichetta), avente un capitale irrisorio. Secondo il criterio
della “spendita del nome” è l’imprenditore a dover fallire, quindi il prestanome e non il “dominus” dell’impresa, ossia
chi sta dietro le quinte: è certo che i creditori potranno rifarsi sull’imprenditore, ma è altrettanto ovvio che essi
rimarranno insoddisfatti proprio

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perché non potranno aggredire il patrimonio del dominus, non potendo provocare il fallimento di quest’ultimo che
imprenditore NON è.

Secondo una parte della dottrina occorre superare il principio della spendita del nome, andare oltre, sottolineando la
responsabilità CUMULATIVA dell’imprenditore palese e del dominus, in forza della TEORIA
DELL’IMPRENDITORE OCCULTO: chi gestisce di fatto l’impresa, investendo il proprio capitale e facendo propri i
profitti, deve rimanere esposto al fallimento al pari di chi spende il proprio nome risultando imprenditore. Il controllo e
la gestione dell’impresa, dunque, renderebbero il dominus imprenditore, nonostante lo stesso non agisca e non figuri nei
rapporti con terzi. Tale teoria sarebbe giustificata, secondo i suoi sostenitori, da una norma della legge fallimentare
contenuta nel vecchio testo dell’art.147 comma 2, oggi confluita nel comma 4. Già il comma 1 dell’art.147 prevede che
il fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata comporti il fallimento anche di tali soci; il comma 4
(ripetiamo: nel vecchio testo era il comma 2) prevede che il fallimento si estenda anche ai soci la cui esistenza venga
scoperta in un secondo momento (FALLIMENTO DEL SOCIO OCCULTO DI SOCIETA’ PALESE). Proseguendo su
questa linea logica, il comma 5 prevede che falliscano anche i soci occulti dell’imprenditore individuale con cui lo
stesso ha creato una società occulta, ossia la cui esistenza non è stata esteriorizzata.

La teoria dell’imprenditore occulto estende per analogia questo ragionamento all’ipotesi che a noi interessa, ossia al
caso in cui il dominus gestisca l’impresa indirettamente, avvalendosi di un imprenditore palese di cui viene speso il
nome: il primo dovrebbe pertanto fallire insieme al secondo, dato che è suo il controllo dell’attività posta in essere.

Segue: critica. L’imputazione dei debiti di impresa

La teoria dell’imprenditore occulto, però, non può essere condivisa, dato che le tre situazioni esaminate (socio occulto
di società palese, socio occulto di società occulta e imprenditore occulto) sono totalmente diverse tra loro.

Nell’ipotesi di socio occulto di società palese, l’esistenza della società non è in alcun modo i n dubbio, ma
semplicemente è stata scoperta in seguito la partecipazione di un dato soggetto alla stessa, che pertanto deve fallire al
pari di tutti gli altri.

Nel caso del socio occulto di società occulta, invece, i soci hanno cercato di aggirare le norme inerenti la responsabilità
illimitata prevista nelle s.n.c., al fine di sfuggire al fallimento, imputando l’attività di impresa a un imprenditore
individuale, mentre avrebbero dovuto optare per uno dei modelli societari che prevedono la responsabilità limitata dei
soci: qui il legislatore intende colpire l’uso distorto della forma societaria (quella della società in nome collettivo) ed è
per questo che prevede il fallimento di tutti gli altri soci occulti. Tuttavia, neanche in questo caso si può negare che una
società esista una società tra determinati soggetti, sebbene occulta.

Veniamo ora all’imprenditore occulto e al suo rapporto con il prestanome. Tra questi due soggetti non esiste alcuna
società perché essi non provvedono a dividere gli utili e non pongono in essere un’attività in comune. Né tantomeno il
potere di gestione del dominus può giustificare da solo l’acquisto della qualità di imprenditore, dato che occorre sempre
che vengano rispettati dei requisiti formali e

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oggettivi (come la spendita del nome). Quindi l’imprenditore occulto non è responsabile e non può fallire, diversamente
da ciò che avviene per l’imprenditore palese.

Segue: una tecnica per reprimere gli abusi

Concludendo possiamo dire che il dominio di fatto su un’impresa individuale o societaria, imputabile formalmente ad
altro soggetto, non comporta in alcun modo la responsabilità per i debiti di impresa: il dominio di fatto, in sostanza, non
implica la responsabilità e il fallimento di un soggetto che sfrutta, per i propri fini, le vie d’uscita messe a disposizione
dall’ordinamento, muovendosi nei margini della legalità.

Diversa, invece, è la situazione di chi abusa del proprio dominio all’interno di un gruppo di società o di una società di
capitali: tipico è l’esempio del socio tiranno, colui che disprezza le regole del diritto societario e agisce come se la
società fosse cosa proprio, confondendo i patrimoni, dando luogo a una direzione di fatto, finanziando la società con
continui prestiti ecc. In questa ipotesi la giurisprudenza ha ipotizzato che tale attività possa configurarsi come un’
impresa autonoma del socio, definita come impresa FIANCHEGGIATRICE, di finanziamento e/o gestione a latere della
o delle società di capitali dominate e che pertanto possa fallire in caso di insolvenza.

B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA

L’inizio dell’impresa

La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa da parte del soggetto
interessato. La sola intenzione, così come l’insieme di tutti gli atti preparatori, non sono in alcun modo condizioni
sufficienti affinché si possa parlare di imprenditore, essendo necessario lo svolgimento dell’attività produttiva di cui
all’art.2082 c.c.

Il principio di effettività non subisce alcuna deroga, neanche nell’ipotesi delle società: una parte della dottrina aveva
sottolineato come le società, diversamente dalle persone fisiche che possono svolgere qualsivoglia attività oltre a quella
di impresa, siano costituite appositamente per l’esercizio di attività imprenditoriale, motivo per cui la verifica delle
condizioni di organizzazione e professionalità di cui all’art.2082 c.c., al pari dell’effettivo inizio dello svolgimento
dell’attività di impresa non dovrebbero essere condizioni necessarie per l’acquisto della qualità di imprenditore.

In realtà il dettato dell’articolo 2082 è abbastanza chiaro quando parla di “esercizio” e NON di mera intenzione di
esercitare attività di impresa: la costituzione della società altro non è che una dichiarazione di voler avviare un’attività
imprenditoriale, del tutto vana se non si da luogo alla fase attuativa.

Segue: Attività di organizzazione e attività di esercizio

Ma quando si ha l’effettivo inizio dell’attività di impresa?

Occorre fare una distinzione tra i casi in cui gli atti di produzione o scambio di beni o servizi sono preceduti da una fase
“organizzativa” oggettivamente percepibile e i casi in cui tale fase preparatoria manca: nella prima ipotesi, essendoci
una stabile organizzazione aziendale, è sufficiente un solo atto di impresa affinché l’attività possa ritenersi iniziata;
nella seconda, invece, è necessaria la ripetizione nel tempo di atti di impresa omogenei e funzionalmente coordinati,
ossia occorre il rispetto del requisito di

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professionalità dell’attività produttiva, il quale prevede (ricordiamolo) che essa sia abituale e non occasionale.

La dottrina si è poi interrogata sulla possibilità che l’attività di impresa possa o meno iniziare ancor prima di compiere
un atto di GESTIONE: in sostanza, si può essere imprenditore compiendo solamente atti di ORGANIZZAZIONE?

Anche l’organizzazione della produzione è attività tipicamente imprenditoriale, che pone esigenze di tutela del credito,
diretta a un fine produttivo e che pertanto espone al fallimento: sarà sufficiente che tali atti di organizzativi manifestino
lo stabile orientamento dell’attività verso un determinato fine produttivo, sia pure non ancora realizzato, affinché si
possa già parlare di “imprenditore”. In breve, gli atti di organizzazione devono manifestare quella professionalità
necessaria dell’impresa: questo vuol dire che alla persona fisica non basterà porre in essere un singolo atto preparativo
(pensiamo all’affitto di un locale) o anche più atti non funzionalmente coordinati (pensiamo all’affitto di un locale e
all’acquisto di un camion), mentre ciò sarà sicuramente sufficiente per una società, già di per sé organismo costituito per
lo svolgimento dell’attività imprenditoriale (pensiamo all’acquisto di un suolo da parte di una società alberghiera).

La fine dell’impresa

Un altro punto controverso e su cui si dibattuto a lungo, specialmente in passato, è quello inerente la FINE dell’impresa:
se per gli imprenditori individuali continuava ad applicarsi, secondo la dottrina, il principio di effettività, essendo
necessaria l’effettiva cessazione dell’attività, per le società la questione era totalmente diversa, in quanto occorreva la
cancellazione dal registro delle imprese. Il tutto, comunque, ruotava intorno all’applicazione dell’art.10 della legge
fallimentare, il quale prevedeva che “l’imprenditore commerciale potesse essere dichiarato fallito entro un anno dalla
cessazione dell’impresa”.

La cessazione è sempre preceduta dalla liquidazione, durante la quale vengono definiti tutti i rapporti pendenti,
licenziati i dipendenti, vendute le giacenze ecc., fase in cui vengono poste in essere le stesse operazioni attuate durante
l’esercizio dell’impresa. Solo con la chiusura della liquidazione e la completa disgregazione del complesso aziendale,
poteva considerarsi definitiva la cessazione dell’attività di impresa.

In realtà, per l’imprenditore individuale non occorreva definire tutti i rapporti pendenti, ossia riscuotere tutti i crediti e
pagare tutti i debiti, altrimenti ciò avrebbe comportato l’esistenza dell’impresa sino al completo pagamento delle
passività e, di conseguenza, l’impossibilità di applicare l’art.10 l.fall. Pensateci bene: se l’impresa cessasse di esistere
solo con il pagamento di tutti i debiti, allora l’anno che decorre dalla cessazione dell’impresa, entro il quale dichiarare il
fallimento e di cui parla l’art.10 l.fall., sarebbe divenuto inutile. Quindi, all’imprenditore individuale l’art.10 si
applicava senza problemi, essendo possibile provocar il fallimento dell’imprenditore che, al momento della cessazione
dell’impresa, aveva ancora dei debiti.

Per le società, invece, la situazione appariva completamente diversa: occorreva la cancellazione dal registro delle
imprese per perdere la qualità di imprenditore e decretare in tal modo la fine dell’impresa. La cancellazione, a sua volta,
presupponeva la disgregazione del complesso aziendale e

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l’INTEGRALE PAGAMENTO DELLE PASSIVITA’ ad opera dei liquidatori. In conclusione, essendo pagati tutti i
debiti al momento della cancellazione dal registro delle imprese, l’art.10 della legge fallimentare diveniva inapplicabile
alle società. La conseguenza di tutto questo ragionamento era particolarmente pesante: se emergevano creditori dopo la
cancellazione dal registro delle imprese, la giurisprudenza riconosceva le società come esposte al fallimento, fino al
pagamento dell’ultimo debito e senza rispettare l’annualità di cui parlava la legge fallimentare (potevano passare anni
dalla cancellazione dal registro delle imprese e dalla cessazione di ogni attività imprenditoriale, eppure le società
rimanevano esposte al fallimento).

Ovviamente la disparità di trattamento tra imprenditori individuali e società ha determinato la dichiarazione di


incostituzionalità dell’art.10 e l’intervento del legislatore, con le riforme del 2006 e del 2007. Il nuovo testo dell’art.10
l.fall. recita:

“Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro
delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo.

In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il
creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il
termine del primo comma.”.

Dopo la modifica, dunque, non solo la cancellazione dal registro delle imprese è divenuta condizione necessaria per
beneficiare del termine annuale per la dichiarazione di fallimento, sia che si tratti di imprenditore individuale che di
imprenditore collettivo, ma il debitore non può neanche dimostrare di aver cessato la propria attività prima della
cancellazione per anticipare il decorso del termine, neanche nell’ipotesi di persona fisica. Società irregolari (non iscritte
nel registro delle imprese) e società occulte, di conseguenza, rimangono esposte al fallimento senza limiti di tempo
finché hanno debiti insoluti, data la mancanza del decorso del termine annuale.

Tuttavia, la sola cancellazione dal registro, pur essendo condizione necessaria per beneficiare del termine annuale, non è
altrettanto sufficiente nel caso di “imprenditori persone fisiche e società cancellate d’ufficio”, in quanto occorre anche
la disgregazione del complesso aziendale e l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa (quindi continua a valere il
principio di effettività).

C. CAPACITA’ E IMPRESA

Incapacità e incompatibilità

La CAPACITA’ all’esercizio dell’attività di impresa si acquista, nel nostro ordinamento, con la piena capacità d’agire, a
sua volta conseguita al compimento del diciottesimo anno di età. Si perde, invece, con l’interdizione o l’inabilitazione,
due degli istituti previsti dalla legge a tutela delle persone prive in tutto o in parte di autonomia. Ricordiamo che per
“capacità di agire” si intende l’idoneità di un soggetto a porre in essere in proprio atti negoziali con effetti nella propria
sfera giuridico-patrimoniale.

L’esercizio di attività imprenditoriale in violazione delle norme di tutela degli incapaci non determina l’acquisto della
qualità di imprenditore, ma solo l’applicazione delle norme inerenti i singoli atti compiuti.

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I divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di chi ricopre determinati uffici o esercita determinate
professioni, invece, costituiscono semplici INCOMPATIBILITA’, che non vanno a intaccare la capacità d’agire:
violando tali divieti si acquista ugualmente la qualità di imprenditore commerciale, ma ci si espone a sanzioni
amministrative e a un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento.

L’impresa commerciale dell’incapace

Nel nostro ordinamento l’esercizio di attività d’impresa per conto e nell’interesse di un incapace (interdetto o minore) o
da parte di un limitatamente capace (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno) è
consentita purché vengano rispettate le norme appositamente previste per l’attività commerciale, mentre per quella
agricola si applicano le norme di diritto comune inerenti il compimento di atti giuridici da parte di tali soggetti.

Noi sappiamo che in linea generale l’interdetto e il minore, essendo privi della capacità d’agire, vengono sostituiti in
tutto e per tutto da un rappresentante legale (genitore o tutore), legittimato a compiere gli atti di ordinaria
amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione è necessaria l’autorizzazione, atto per atto, da parte
dell’autorità giudiziaria, chiamata a valutare la necessità e l’utilità degli stessi. La medesima cosa vale per i soggetti
limitatamente capaci (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), i quali però
agiscono in prima persona sebbene con l’assistenza di un curatore.

E’ evidente che l’attività commerciale si configura come un’attività anzitutto rischiosa e che non può essere inquadrata
nello schema di ordinaria o straordinaria amministrazione e soggiacere, per la rapidità di decisioni necessaria,
all’autorizzazione atto per atto: è per tal motivo che l’autorità giudiziaria autorizza all’esercizio dell’impresa il
rappresentante legale o il soggetto con l’assistenza del curatore una sola volta, senza intervenire per i singoli atti posti in
essere.

E’ possibile, inoltre, autorizzare la sola CONTINUAZIONE dell’esercizio di impresa commerciale preesistente e non
l’INIZIO dell’esercizio di tale attività da parte dell’interdetto, dell’inabilitato e del minore (quindi fatta eccezione per il
minore emancipato).

Analizziamo le varie situazione nel dettaglio.

Il MINORE non può in alcun modo iniziare una nuova attività d’impresa commerciale e non può farlo neanche il suo
rappresentante legale in nome del minore stesso. Quindi, il minore può soltanto ricevere in eredità o per donazione
un’azienda commerciale e il rappresentante legale (genitore o tutore) deve essere autorizzato dal tribunale a gestire
l’attività d’impresa nel nome e nell’interesse del rappresentato. Intervenuta l’autorizzazione il rappresentante può
compiere tutti gli atti che rientrano nell’esercizio dell’impresa, di ordinaria quanto di straordinaria amministrazione,
fatta eccezione per quelli che non sono in rapporto di mezzo a fine per la gestione (esempio: vendita dell’immobile in
cui ha sede l’impresa).

Le medesime regole analizzate per il minore valgono anche per l’INTERDETTO.

L’INABILITATO, invece, è un soggetto la cui capacità d’agire è limitata agli atti di ordinaria amministrazione, ma per
l’esercizio di impresa commerciale è del tutto parificato a minore e interdetto:

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ciò significa che non può avviare alcuna impresa, ma solo proseguirla, sebbene con regole diverse rispetto ai casi già
analizzati. Se autorizzato alla continuazione dell’impresa, infatti, l’inabilitato la gestisce in prima persona con
l’assistenza del curatore e con il consenso di quest’ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione. Il tribunale può
anche prevedere la nomina di un INSTITORE (direttore generale), fatta dallo stesso inabilitato col consenso del
curatore.

Il MINORE EMANCIPATO, invece, può sia iniziare che continuare l’impresa commerciale se autorizzato dal tribunale.
In caso di autorizzazione, inoltre, egli può compiere autonomamente anche gli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione che esulano dall’esercizio dell’impresa, oltre a gestire la stessa SENZA l’assistenza del curatore.

Quella del BENEFICIARIO dell’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, infine, è una situazione particolare: è il


giudice tutelare, nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, a decidere quali atti il beneficiario possa
compiere autonomamente e per cui conserva capacità d’agire e quali siano, invece, quelli per cui occorre la
rappresentanza esclusiva o quantomeno l’assistenza dell’amministratore. Quindi la possibilità di iniziare o proseguire
un’attività commerciale dipende dalla decisione del giudice e dal caso specifico.

In tutti i casi analizzati i provvedimenti di autorizzazione e quelli di revoca della stessa sono soggetti a iscrizione nel
registro delle imprese.

E’ importante precisare che ad acquistare la qualità di IMPRENDITORE è SEMPRE il soggetto rappresentato o


assistito, che si espone pertanto al fallimento in caso di insolvenza e su cui ricadono gli effetti patrimoniali dello stesso.
Per quanto concerne il minore e l’interdetto la dottrina e la giurisprudenza cercano da lungo tempo di trovare un modo
per non far ricadere su tali soggetti incapacità personali e sanzioni penali in caso di fallimento, in quanto gli stessi
risponderebbero sotto un profilo diverso da quello patrimoniale per qualcosa indipendente dalla loro volontà e frutto
dell’operato di un genitore o di un tutore, comunque non ritenibili come imprenditori. Se per le sanzioni penali del
fallimento, grazie ad un ragionamento volto a non dare rilievo al diverso nomen giuridico, è possibile applicare la
disciplina dell’institore paragonandolo in tutto e per tutto al rappresentante legale, estremamente difficile risulta
sottrarre il minore o l’interdetto alle incapacità personali (esempio: esclusione dalla professione di notaio,
commercialista, avvocato ecc.) derivanti dal fallimento.

CAPITOLO QUARTO – LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE

Premessa

Abbiamo già anticipato che nel nostro ordinamento esiste uno statuto generale dell’imprenditore, applicabile a tutte le
imprese indipendentemente dall’oggetto delle stesse, e uno statuto speciale dell’imprenditore commerciale, valevole
solo per chi esercita una delle attività di cui all’art.2195 c.c.

In questo capitolo viene analizzata una parte dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale, ossia quella
riguardante la pubblicità legale, le scritture contabili e la rappresentanza commerciale, mentre il fallimento e le
procedure concorsuali verranno analizzate nel terzo volume (nella terza dispensa).

A. LA PUBBLICITA’ LEGALE

La pubblicità delle imprese commerciali

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Per chi opera sul mercato è fondamentale rapportarsi, nei propri affari, con imprese di cui, tramite una semplice ricerca,
è possibile avere informazioni veritiere e non contestabili. Ciò rende il mercato un posto sicuro per lo svolgimento e la
conclusione delle contrattazioni, evitando noiose e lunghe liti giudiziarie.

Proprio per tal motivo il legislatore del ’42 ha previsto un sistema di PUBBLICITA’ LEGALE riguardante le imprese
commerciali (in seguito esteso anche a quelle agricole): tale imprese devono obbligatoriamente rendere di pubblico
dominio determinate vicende, che vanno iscritte all’interno del REGISTRO DELLE IMPRESE con funzione di
“pubblicità notizia”, ossia per far si che chiunque possa accedervi, e con la funzione di pubblicità/conoscibilità legale, al
fine di rendere tali atti o fatti OPPONIBILI a terzi.

Il codice del ’42, però, prevedeva all’art.99 delle disposizioni attuative la necessità di un intervento del legislatore per
far entrare in funzione il registro delle imprese, arrivato solo nel 1993. Sino a quel momento si sono applicati gli
art.100, 101 e 108 delle disposizioni attuative, i quali hanno fatto in modo che per lungo tempo l’iscrizione con il fine di
pubblicità legale avvenisse presso i “registri di cancelleria dei tribunali” e SOLO per le società (esclusi dunque
imprenditori individuali ed enti pubblici). Nel ’69, tra l’altro, per le società di capitali venne introdotta la necessità di
pubblicazione di determinati atti nel Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata (Busarl), poi
estesa alle società cooperative nel 1973 con la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei
consorzi di cooperative (Busc).

Per chi esercitava l’industria, il commercio o l’agricoltura, inoltre, era anche prevista l’iscrizione nel Registro delle ditte
presso le Camere di commercio, sebbene con la sola funzione di pubblicità notizia.

Questo sistema disorganico è stato eliminato a partire dall’emanazione della L.580/1993, la quale ha istituito il registro
delle imprese, estendendo la necessità di iscrizione anche alle imprese agricole, ai piccoli imprenditori, alle società
semplici e a quelle tra avvocati con la funzione di pubblicità notizia, poi prevista come pubblicità legale per i soli
imprenditori agricoli a partire dal 2001. Nel ’97, inoltre, si è avuta la soppressione di qualsivoglia altra forma di
pubblicità. La tenuta del registro è stata affidata alle Camere di commercio, escludendo di fatto le cancellerie dei
tribunali dall’intera procedura. Il registro è tenuto con tecniche informatiche ed è pubblico, accessibile a tutti, in quanto
chiunque può ottenere dall’ufficio preposto certificati e copie di atti tratti dagli archivi.

Il registro delle imprese

Il registro delle imprese è istituito in ogni provincia presso le Camere di commercio, è retto da un conservatore
(segretario generale o dirigente) e l’intero ufficio opera sotto la vigilanza di un giudice delegato nominato dal presidente
del tribunale.

Il registro è suddiviso in una sezione ORDINARIA e in quattro sezioni SPECIALI. Nella

sezione ordinaria vanno iscritti:

 Imprenditori individuali commerciali NON piccoli;


 Tutte le società, anche non commerciali, escluse quelle semplici;
 I consorzi tra imprenditori con attività esterna;

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 I gruppi europei di interesse economico con sede in Italia;
 Gli enti pubblici aventi come oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale;
 Società estere con sede amministrativa in Italia o che hanno nel nostro Paese l’oggetto principale della loro
attività.

Nella prima sezione speciale vanno iscritte tutte quelle imprese che, secondo il dettato del codice, ne erano escluse e per
cui l’iscrizione è stata introdotta, con la funzione di pubblicità notizia, solo nel 1993: stiamo parlando di imprese
agricole, piccoli imprenditori e società semplici, oltre agli imprenditori artigiani (se non sono piccoli imprenditori o se
si tratta di società artigiane l’iscrizione deve avvenire nella sezione ordinaria).

Nella seconda sezione speciale vanno iscritte le società tra professionisti: attualmente si tratta delle sole società tra
avvocati.

La terza sezione è dedicata ai “legami di gruppo”, pertanto contemplando al suo interno società ed enti controllanti e
quelli controllati. Tali società, inoltre, vanno iscritte anche singolarmente nell’apposita sezione a seconda dell’attività
svolta.

L’ultima sezione speciale riguarda, infine, le imprese sociali.

E’ la legge a specificare quali atti o fatti vadano annotati nel registro: dati identificativi dell’imprenditore (nome, ditta,
sede, oggetto ecc.) e dell’imprese, specie se societaria (atto costitutivo, amministratori ecc.). Anche le modificazioni di
questi elementi vanno annotate, mentre è impossibile iscrivere atti non contemplati dal legislatore.

L’iscrizione va effettuata nel registro provinciale in cui l’impresa ha sede, il quale va indicato anche in atti e
corrispondenza dell’impresa per agevolare i terzi.

E’ l’interessato a domandare l’iscrizione nel registro, ma in caso non vi provveda può avvenire anche d’ufficio, sempre
qualora sia obbligatoria. Anche la cancellazione può essere disposta d’ufficio se l’imprenditore non si attiva in tal senso
nell’ipotesi in cui non vi sia più alcuna attività svolta.

L’ufficio, al momento dell’iscrizione, deve controllare la presenza di tutta la documentazione inerente il fatto o l’atto da
iscrivere, oltre a verificare che lo stesso debba essere annotato, in forza della legge, all’interno del registro e che esista e
sia veritiero (legalità formale), mentre alcun controllo deve essere svolto in merito alla “validità” dell’atto/fatto (legalità
sostanziale).

L’inserimento dei dati nel registro avviene entro 10 giorni dalla data di protocollazione della domanda.

L’ufficio può anche rifiutare l’iscrizione con provvedimento motivato, impugnabile entro 8 giorni dall’interessato
dinanzi al giudice del registro, il cui eventuale e ulteriore rifiuto avviene con decreto, impugnabile a sua volta dinanzi al
tribunale.

Se non si provvede all’iscrizione obbligatoria nel registro delle imprese, oltre ad andare incontro a sanzioni pecuniarie,
vi sono anche altre sanzioni “indirette”, come il mancato decorso del termine annuale per la dichiarazione di fallimento
in caso di cessazione di attività. Al contrario di ciò che avveniva in passato, invece, l’iscrizione non è più requisito
necessario per l’ammissione al concordato preventivo.

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Per ciò che concerne gli effetti dell’iscrizione nel registro delle imprese, occorre precisare che essi variano a seconda
che l’iscrizione avvenga nella sezione ordinaria o in una delle sezioni speciali.

L’iscrizione nella sezione ordinaria ha funzione di PUBBLICITA’ LEGALE, in quanto oltre a rendere conoscibili i dati
pubblicati (pubblicità notizia), può avere anche efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.

Possiamo dire che l’iscrizione nella sezione ordinaria ha di regola funzione DICHIARATIVA, ossia serve per
l’OPPONIBILITA’ a terzi degli atti o fatti iscritti, il che comporta l’impossibilità degli stessi di poter provare la
mancata conoscenza di una vicenda iscritta. Al contrario l’omessa iscrizione permette comunque all’imprenditore di
provare che l’atto o fatto fosse effettivamente conosciuto dai terzi.

In altri casi tassativamente previsti dalla legge, invece, l’iscrizione ha efficacia COSTITUTIVA, valendo in questo caso
per la validità dell’atto o fatto: basti pensare all’iscrizione dell’atto costitutivo delle società di capitali all’interno del
registro, dato che esse non esistono sino a quel momento (efficacia costitutiva totale) oppure alla registrazione della
deliberazione di riduzione del capitale sociale di una Snc, in mancanza della quale la riduzione stessa non produce
effetti verso i creditori (efficacia costitutiva parziale).

In altre ipotesi, poi, l’iscrizione può avere efficacia NORMATIVA, in quanto necessaria per l’assoggettamento a un
determinato regime giuridico: pensiamo alle Snc e alle sas che possono operare anche senza registrazione, sebbene
come società irregolari, con l’applicazione del regime patrimoniale più gravoso delle società semplici.

L’iscrizione nelle sezioni speciali del registro delle imprese, invece, serve solo per la certificazione anagrafica e come
pubblicità notizia: il fatto o atto viene reso conoscibile a terzi, ma in alcun modo opponibile in forza della sola
iscrizione.

Il D.lgs.228/2001 ha tuttavia previsto, per le sole imprese agricole anche piccole e per le società semplici esercenti
attività agricola, che l’iscrizione nel registro abbia la funzione di pubblicità legale, al pari di ciò che avviene per le
imprese commerciali.

La pubblicità delle società di capitali e delle cooperative

La L.580/1993 aveva lasciato inalterato il regime di duplice pubblicità previsto per le società di capitali e per quelle
cooperative, riguardante la pubblicazione di una serie di atti nel Busarl e nel Busc in aggiunta all’iscrizione nel registro.
Dopo l’informatizzazione dei registri a metà anni ’90, un intervento del legislatore del 1997 ha fatto si che venissero
soppressi i Bollettini ufficiali suddetti e che rimanesse in piedi il solo sistema d’iscrizione nel registro delle imprese.

Permangono, in merito alle società di capitali e cooperative, due semplici differenze: gli atti iscritti di società di capitali
non divengono opponibili ai terzi da subito, ma solo decorsi 15 giorni dall’iscrizione; per specifici atti tassativamente
elencati dal legislatore rimane la necessità di pubblicarli in Gazzetta Ufficiale (pensiamo alla convocazione
dell’assemblea delle S.p.A.).

B. LE SCRITTURE CONTABILI

L’obbligo di tenuta delle scritture contabili

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Qualsiasi imprenditore è portato nello svolgimento della propria attività a doversi soffermare, periodicamente, su quella
che è la consistenza monetaria del proprio patrimonio, valutando i costi sopportati e i ricavi realizzati in un determinato
arco temporale, al fine di valutare se ha conseguito un utile o subito una perdita.

Le SCRITTURE CONTABILI sono appunto i documenti all’interno dei quali vi è la rappresentazioni in termini
quantitativi e monetari dei singoli atti d’impresa, della situazione patrimoniale e del risultato economico dell’attività
svolta.

Se, però, le scritture contabili si configurano come “utili” per tutti gli imprenditori, occorre precisare che per taluni di
essi il legislatore eleva l’utilità a necessità, prevedendo all’art.2214 c.c. che gli imprenditori commerciali siano obbligati
alla tenuta delle stesse.

L’obbligo riguarda tutte le società, salvo quelle semplici, indipendentemente dall’oggetto dell’impresa e quindi anche se
non esercenti attività commerciale; riguarda altresì le imprese sociali e gli enti pubblici, mentre non si estende ai piccoli
imprenditori, anche se commerciali, esonerati dall’art.2214 comma 3.

Le scritture contabili obbligatorie. Regolarità e controllo

Le scritture contabili che l’imprenditore commerciale deve obbligatoriamente tenere sono individuate dall’art.2214 del
codice e sono:

 Il LIBRO GIORNALE, registro cronologico-analitico in cui vanno annotate giorno per giorno, o quantomeno
in ordine cronologico, le operazioni relative all’esercizio dell’impresa;
 Il LIBRO DEGLI INVENTARI, registro periodico-sistematico che va redatto quando inizia l’attività e
successivamente ogni anno, in grado di fornire informazioni inerenti la situazione patrimoniale dell’impresa.
Deve contenere indicazione e valutazione di attività e passività, anche estranee all’impresa, e si chiude con il
bilancio e il conto dei profitti e delle perdite, ossia con un bilancio comprendente stato patrimoniale e conto
economico. Praticamente in questo registro possiamo ritrovare la situazione complessiva annuale dell’impresa,
con utile e perdite conseguite in quest’arco temporale.

Solo per le società per azioni il legislatore ha dettato un’apposita disciplina in materia di contenuto del bilancio e criteri
di valutazione delle singole voci, ma il comma 2 dell’art.2217 prevede che in ogni caso tutti gli imprenditori debbano
fare riferimento a tale disciplina per quanto concerne i soli criteri di valutazione.

Il comma 2 dell’art.2214 c.c., inoltre, prevede un principio generale fondamentale per individuare quali scritture
contabili siano obbligatorie, in quanto dispone che debbano essere tenute “le altre scritture che siano richieste dalla
natura e dalle dimensioni dell'impresa”, oltre all’obbligo di conservare l’originale della corrispondenza ricevuta e una
copia di quella inviata.

Il nostro legislatore ha anche previsto, al fine di garantire la veridicità delle scritture contabili, una serie di
FORMALITA’ da osservare: anzitutto i libri in questione devono essere numerati in ogni pagina progressivamente,
sebbene siano stati soppressi la vidimazione annuale e l’obbligo di bollatura foglio per foglio da parte dell’ufficio del
registro o da un notaio.

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Non sono ammessi, inoltre, spazi bianchi, interlinee, abrasioni e cancellatura non leggibili, sebbene sia ammessa la
tenuta delle scritture con sistemi informatici.

Scritture e corrispondenza vanno conservate per dieci anni, anche su supporti informatici.

La regola generale vuole che le scritture contabili non siano soggette a controlli esterni, ma essa subisce una deroga in
tema di società con azioni quotate in borsa, per cui dal ’75 è ammesso il controllo di una società di revisione, poi esteso
anche alle società per azioni non quotate dal 2003, soggette al controllo anch’esse di un revisore.

L’imprenditore che non osserva l’obbligo di cui all’art.2214 c.c. non va incontro ad alcuna sanzione diretta, sebbene
non possa utilizzare le scritture come mezzo di prova a suo favore e vada incontro a sanzioni penali per i reati di
bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento (sanzioni indirette).

La rilevanza esterna delle scritture contabili. L’efficacia probatoria

Di regola le scritture contabili, appartenendo all’imprenditore e riguardando la propria attività, dovrebbero rimanere
segrete. Tuttavia, tale principio subisce una deroga in diverse occasioni in cui prevale un interesse pubblico: il bilancio
di società di capitali e cooperative deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese; il segreto, per le
sole società con azioni quotate in borsa, non esiste nei confronti della Consob, ossia dell’autorità di vigilanza; le
imprese soggette al controllo pubblico, come quelle bancarie e assicurative, non possono mantenere segrete le proprie
scritture nei confronti dell’organo preposto alla vigilanza, per esempio la Banca d’Italia o l’Isvap.

Ecco, dunque, che in tutte queste ipotesi le scritture contabili assumono rilevanza esterna, che si amplifica ancora di più
sul piano probatorio: le scritture possono essere utilizzate contro l’imprenditore e dallo stesso come mezzo di prova,
sebbene seguendo regole differenti.

Se vengono utilizzate CONTRO l’imprenditore non importa che siano regolarmente tenute, ma il proprio contenuto non
può essere diviso: in sostanza, chi le utilizza non può estrarre le parti che vanno a proprio beneficio e trascurare tutto il
resto, che magari è favorevole in una controversia all’imprenditore.

Se, invece, è l’imprenditore a voler utilizzare le propri scritture come mezzo di prova, allora devono ricorrere tre
condizioni: si deve trattare di scritture regolarmente tenute; occorre che la controparte sia un imprenditore obbligato
anch’egli alla tenuta di tali scritture; è necessario che la controversia riguardi l’esercizio dell’impresa. Ad ogni modo è il
giudice a dover valutare l’efficacia probatoria di tali documenti e a chiederne, anche su istanza di parte, l’esibizione in
giudizio, che può essere solo parziale, ossia riguardare singole scritture; in tre casi specifici il giudice può ordinare che
TUTTE le scritture siano consegnate alla controparte: controversie riguardanti lo scioglimento della società, la
comunione dei beni e la successione mortis causa.

C. LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE

Ausiliari dell’imprenditore commerciale e rappresentanza

L’imprenditore, nello svolgimento della propria attività produttiva, è normalmente portato ad avvalersi della
collaborazione di una serie di soggetti, alcuni di essi facenti parte dell’organizzazione aziendale e

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pertanto ritenibili come AUSILIARI INTERNI o SUBORDINATI, altri invece legati all’impresa in forza di un
contratto specifico (mandato, commissione, agenzia ecc.) e che potremmo definire come AUSILIARI ESTERNI o
AUTONOMI.

La collaborazione degli ausiliari, in entrambe le ipotesi, potrebbe riguardare anche la conclusione di affari con terzi in
nome e per conto dell’imprenditore: siamo dinanzi ad un rapporto di rappresentanza.

Della rappresentanza il codice civile si occupa negli artt.1387 e successivi: non è sufficiente che un soggetto dichiari,
nel compimento di atti giuridici, di agire in nome e per conto di un altro, in quanto occorre che il terzo contraente
verifichi sempre che il rappresentante sia stato autorizzato a contrattare in forza di una “procura”, la quale fissa anche
quelli che sono i limiti del potere di rappresentanza (art.1388) e deve essere conferita rispettando la forma prevista dal
contratto che si intende concludere (art.1392). Tutti questi controlli devono essere compiuti dal terzo contraente, in
quanto è sullo stesso che ricade il rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo ed è per questo motivo
che l’art.1393 c.c. dispone che “Il terzo che contratta col rappresentante può sempre esigere che questi giustifichi i suoi
poteri e, se la rappresentanza risulta da un atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata.”. Al terzo contraente
“sprovveduto” che conclude affari con il falsus procurator, senza effettuare alcun controllo, non rimane che chiedere
allo pseudo-rappresentante il risarcimento del danno per l’affidamento nella validità del contratto (art.1398).

Tutte queste regole riguardanti la disciplina generale della rappresentanza, però, non valgono per quanto concerne
alcune figure di ausiliari interni dell’imprenditore: stiamo parlando degli institori, dei procuratori e dei commessi e, più
in generale, del concetto di RAPPRESENTANZA COMMERCIALE. L’art.1400 c.c., infatti, prevede che vadano
applicate, per queste forme di rappresentanza, alcune norme “speciali” del libro V, riferendosi in sostanza agli articoli
dal 2203 al 2213 del codice. I rappresentanti commerciali che abbiamo citato non necessitano di una procura per poter
agire in nome e per conto dell’imprenditore perché il loro potere di trattare con terzi è insito ex lege nella loro qualifica,
nella collocazione all’interno dell’impresa voluta dallo stesso imprenditore; tra loro, invece, queste figure si
differenziano proprio per la portata del potere rappresentativo. Anche nell’ipotesi di rappresentanza commerciale,
tuttavia, l’imprenditore può modificare il contenuto legale tipico del potere degli ausiliari, ma deve farlo rispettando le
forme previste dalla legge, il che comporta che il terzo contraente debba semplicemente verificare, trattando con gli
ausiliari, che non vi sia alcun atto espresso e reso pubblico dell’imprenditore volto a modificare i poteri del
rappresentante.

L’institore

“E' institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa commerciale. La preposizione
può essere limitata all'esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare dell'impresa.
Se sono preposti più institori, questi possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente disposto.”

Questo è ciò che prevede l’art.2203 c.c. nel fornire una definizione di INSTITORE: stiamo parlando di un soggetto che
nel linguaggio comune viene identificato come “direttore generale o di filiale o di un settore produttivo”, ossia di colui
che è posto al vertice della gerarchia del personale, dell’intera impresa o di una parte di essa, motivo per cui nel primo
caso risponderà solo e solamente

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all’imprenditore, mentre nel secondo potrebbe risultare sottoposto ad altro institore. L’institore è comunque posto al
vertice dell’impresa (o di una parte di essa) in forza di un ATTO DI PREPOSIZIONE dell’imprenditore: anche se il
codice in più occasioni parla di “procura”, occorre chiarire che la stessa non è in alcun modo necessaria, o meglio lo
diviene SOLTANTO nel momento in cui l’imprenditore intende LIMITARE i poteri dell’ausiliare. In sostanza,
l’institore ha potere di rappresentanza generale (sostanziale e processuale) anche in assenza di un’apposita procura e per
il solo fatto di ricoprire questo determinato ruolo all’interno dell’impresa, mentre procura e pubblicità legale della stessa
mediante iscrizione nel registro delle imprese divengono necessarie solo quando l’imprenditore intende limitare i poteri
institori fissati dalla legge.

Il solo fatto di essere “institore” in forza di un atto di preposizione, dunque, fa si che tale ausiliare abbia non solo un
“potere di gestione generale”, ma anche un potere di rappresentanza tanto SOSTANZIALE, in quanto l’institore può
compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa (o della sede o del ramo cui è preposto) e non è legittimato a
compiere atti che esorbitano dall’esercizio stesso (come vendere immobili aziendali), quanto PROCESSUALE, potendo
essere sia convenuto che attore (rappresentanza processuale passiva e attiva) per obbligazioni dipendenti da atti
compiuti nell’esercizio dell’impresa, anche se compiuti non direttamente da lui ma dall’imprenditore.

La REVOCA dell’atto di preposizione, al pari della modifica dello stesso, sono opponibili a terzi solo se pubblicate o se
l’imprenditore ne prova la conoscenza da parte loro.

L’institore, inoltre, è tenuto CONGIUNTAMENTE con l’imprenditore all’adempimento degli obblighi inerenti
l’iscrizione nel registro delle imprese e la tenuta delle scritture contabili, così come in caso di fallimento, benché solo
l’imprenditore possa essere dichiarato fallito e solo su di lui possano ricadere gli effetti personali e patrimoniali, anche
l’institore sarà esposto alle “sanzioni penali” del fallito.

Noi sappiamo altresì che in materia di rappresentanza vige il principio della CONTEMPLATIO DOMINI, secondo cui
il rappresentante deve sempre esplicitare al terzo contraente che agisce in nome e per conto di un altro soggetto, ossia
deve in sostanza “spenderne il nome”, altrimenti obbligato rimane solo il rappresentante e il terzo non può rivolgersi in
alcun modo al rappresentato. L’art.2208 c.c., in tema di rappresentanza institoria, prevede una deroga parziale a tale
principio: è vero che l’institore rimane personalmente obbligato se non precisa al terzo che tratta per il preponente, ma è
altrettanto vero che ANCHE il preponente, ossia l’imprenditore, rimane solidalmente obbligato se l’atto risulta
pertinente all’esercizio dell’impresa.

I procuratori

La seconda figura di ausiliari interni che andiamo ad analizzare è quella del PROCURATORE, colui che in base
all’art.2209 c.c. “in base a un rapporto continuativo, ha il potere di compiere per l'imprenditore gli atti pertinenti
all'esercizio dell'impresa, pur non essendo preposto ad esso”.

Ciò significa che il procuratore figura come ausiliare subordinato di grado inferiore rispetto all’institore, anzitutto
perché non è posto al vertice dell’impresa o di un ramo della stessa ed in secundis perché il suo potere decisionale è
limitato ad un “settore operativo” (direttore reparto acquisti, dirigente del personale ecc.).

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E’ lo stesso art.2209 a precisare che al procuratore si estenda l’applicazione degli artt.2206 e 2207, riguardanti
rispettivamente la pubblicità della procura institoria e la modica e revoca della stessa: anche in questo caso, dunque,
andranno pubblicizzate solo vicende limitative del potere dell’ausiliare, in quanto il procuratore gode del potere di
rappresentanza generale dell’imprenditore, sebbene vincolato alla “specie di operazioni” per la quale ha potere
decisionale.

Da un altro punto di vista, invece, il procuratore non ha rappresentanza processuale dell’imprenditore e non è tenuto
congiuntamente allo stesso all’iscrizione nel registro delle imprese e alla tenuta delle scritture contabili. Non si applica
l’art.2208 c.c.

I commessi

I commessi sono ausiliari interni cui vengono affidate mansioni esecutive e materiali che li pongono in contatto con
terzi.

La nozione è contenuta nell’art.2210 c.c.: “I commessi dell'imprenditore, salve le limitazioni contenute nell'atto di
conferimento della rappresentanza, possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle
operazioni di cui sono incaricati. Non possono tuttavia esigere
il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti che non sono d'uso, salvo che
siano a ciò espressamente autorizzati”.

Essi non possono, in forza dell’art.2211, derogare alle condizioni generali di contratto o alle clausole stampate sui
moduli dell'impresa, se non sono muniti di una speciale autorizzazione scritta dell’imprenditore, così come i commessi
preposti alla vendita nei locali dell'impresa possono esigere il prezzo delle merci da essi vendute, salvo che alla
riscossione sia palesemente destinata una cassa speciale. Fuori dei locali dell'impresa, inoltre, non possono esigere il
prezzo, se non sono autorizzati o se non consegnano quietanza firmata dall'imprenditore (art.2213).

Possono anche chiedere provvedimenti cautelari nell’interesse dell’imprenditore (art.2212 c.c.)

Per ampliare o limitare il potere dei commessi occorre un intervento dell’imprenditore, sebbene non sia prevista alcuna
forma di pubblicità legale, ma la sola necessità di portare tale modifica a conoscenza di terzi tramite “mezzi idonei”
(esempio: cartelli affissi nei locali di vendita).

CAPITOLO QUINTO – L’AZIENDA

La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento

“L’AZIENDA è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Nella definizione
appena fornita di cui all’art.2555 del codice, notiamo subito come azienda ed impresa siano tra loro strettamente
collegate: l’azienda altro non è che il “mezzo” strumentale al raggiungimento di quel particolare “fine” che è l’attività di
impresa.

Stiamo parlando, dunque, di un complesso di beni eterogenei (macchinari, locali, immobili ecc.) strumentali all’attività
imprenditoriale, necessari per quel particolare fine che è lo scambio o la produzione di beni e servizi. Occorre, però,
porre l’accento sul fatto che si tratti di beni ORGANIZZATI: è il coordinamento degli stessi da parte dell’imprenditore
a far emergere l’unità funzionale di beni che non si perde neanche quando, col passare del tempo, essi tendono a variare.

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E’ proprio questo “complesso” di beni, questa considerazione unitaria degli stessi, ad attribuire loro un “rilievo
economico” ed un “valore di scambio” superiori a quelli che avrebbero singolarmente: ecco che dobbiamo introdurre il
concetto di AVVIAMENTO, ossia “l’attitudine di un’azienda a consentire la realizzazione di un determinato profitto
(ricavi eccedenti i costi)”. L’avviamento non è né un bene né un diritto, quanto piuttosto una qualità dell’azienda
valutabile patrimonialmente e giuridicamente tutelata. Dovremo pertanto parlare di “avviamento OGGETTIVO”
quando tale attitudine al maggior profitto risulta indipendente dalla figura dell’imprenditore e strettamente collegabile al
complesso di beni (pensiamo alla capacità di un complesso industriale di produrre a costi competitivi sul mercato),
mentre sarà necessario parlare di “avviamento SOGGETTIVO” quando tale attitudine dipende dall’abilità
dell’imprenditore nell’operare sul mercato e dalla sua capacità di formare, conservare ed accrescere la clientela,
necessaria per accrescere i ricavi determinando il profitto.

Questa unità economica dell’azienda emerge, sotto il profilo giuridico, nella disciplina codicistica del “trasferimento
d’azienda”, del tutto derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune dei trasferimenti a titolo definitivo o
temporaneo dei singoli beni. Al trasferimento d’azienda, infatti, conseguono specifici effetti ex lege volti a favorire la
conservazione dell’azienda e del suo avviamento.

Gli elementi costitutivi dell’azienda

Analizziamo la nozione di azienda contenuta all’interno dell’art.2555 c.c.: “L’azienda è il complesso dei beni
organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa”.

Si parla di BENI organizzati DALL’imprenditore, non di beni di sua proprietà, il che ci dice anzitutto che
IRRILEVANTE è il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare il bene nel processo produttivo, in quanto
ciò che conta è l’impiego nell’attività di impresa: di conseguenza non sarà bene aziendale l’abitazione
dell’imprenditore, in quanto non strumentale all’esercizio dell’impresa; allo stesso modo dovrà essere considerato bene
aziendale quello di proprietà di terzi ma di cui l’imprenditore possa disporre in base ad un valido titolo giuridico (locale
preso in locazione per esempio).

Oltre a questo, dobbiamo aggiungere che una parte della dottrina aveva ipotizzato che nel termine “beni” di cui
all’art.2555 c.c. dovessero essere ricompresi, oltre alle cose materiali, tutti gli elementi patrimoniali facenti capo
all’imprenditore: rapporti di lavoro, rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, crediti, debiti e lo stesso
avviamento. Si intendeva fissare, dunque, un concetto omnicomprensivo di azienda, che però non è in alcun modo
condivisibile, in quanto “BENI” sono “le cose che possono formare oggetto di diritti”, come ben dispone l’art.810 del
codice e non vi è alcun supporto normativo per ipotizzare l’esistenza di una diversa accezione in materia di impresa.

L’azienda fra concezione atomistica e concezione unitaria. Azienda e universalità di beni

Un argomento che ha scatenato, soprattutto in passato, un notevole dibattito in dottrina è sicuramente quello inerente la
“natura giuridica dell’azienda”, da cui è scaturita una disputa tra due scuole di pensiero: da un lato i sostenitori della
concezione UNITARIA, che hanno sempre visto l’azienda come un bene “immateriale”, rappresentato
dall’organizzazione stessa, o in tempi più recenti come un’universalità di beni, dato che l’imprenditore avrebbe un
“diritto di proprietà unitario” sull’azienda, del tutto indipendente rispetto ai diritti reali ed obbligatori sui singoli beni;
dall’altro lato i sostenitori della concezione ATOMISTICA, intenti a guardare all’azienda come una semplice “pluralità
di beni”

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funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore avrebbe diritti diversi (proprietà, diritti reali limitati ecc.).

Anzitutto partiamo col dire che, dovendo effettuare una scelta DI BASE tra le due teorie, non possiamo che abbracciare
maggiormente quella atomistica: è impossibile concepire l’azienda come un bene unico, frutto dell’organizzazione dei
singoli beni, e di ciò troviamo riscontro in tema di trasferimento d’azienda, quando l’art.2556 comma 1 del codice ci
dice che “occorre rispettare le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono
l’azienda”, il che ci testimonia l’assegna di una normativa di circolazione dell’azienda come bene unico.

La concezione atomistica più recente, tra l’altro, non esclude né contesta l’unità funzionale dell’azienda, motivo per cui
si lascia maggiormente preferire, addirittura guardando alla stessa come un’universitas rerum o facti, ossia come
un’universalità di beni, alla quale tra l’altro viene parificata nell’art.670 del codice di procedura civile in tema di
sequestro giudiziario, che però è l’unico articolo nel nostro ordinamento ad attuare tale paragone.

L’universalità di mobili, secondo l’art.816 c.c., è definibile come una “pluralità di cose che appartengono alla stessa
persona e hanno una destinazione unitaria”: questi aggregati di cose mobili (pensiamo alle biblioteche) vengono
assoggettati parzialmente alla disciplina dei beni immobili, parzialmente perché permane l’applicazione di talune norme
riguardanti i beni mobili (pensiamo alla possibile costituzione in pegno).

Occorre, dunque, domandarsi se la disciplina dell’universalità di mobili sia applicabile all’azienda: l’applicazione
diretta è impossibile, in quanto i beni che formano l’azienda non hanno sempre un medesimo proprietario e, tra l’altro,
non sono tutti beni mobili. Ne’ tantomeno possiamo classificare l’azienda come un’universalità “mista”, dato che la
disciplina delle universalità mobili non è applicabile ad altre universalità. L’unica applicazione possibile della disciplina
delle universalità di mobili all’azienda può avvenire PER ANALOGIA, dato che si tratta in entrambi i casi di aggregati
di cose a destinazione unitaria e finalizzati alla produzione di un’utilità complessiva nuova e diversa da quella dei
singoli beni. Partendo da questo presupposto possiamo capire perché i beni mobili aziendali di proprietà
dell’imprenditore sfuggano alla regola “possesso vale titolo”, valida invece per i singoli mobili, perché i beni mobili
aziendali possano essere acquistati per usucapione ventennale, invece di quella decennale prevista per i beni mobili
singoli e perché l’imprenditore possa esperire l’azione di manutenzione anche per tutelare il complesso di beni mobili
aziendali.

La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi

L’azienda può essere oggetto di conferimento in società, di vendita, di donazione e di tutta una serie di atti di
disposizione e di costituzione di diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi.

E’ opportuno, pertanto, distinguere gli atti di disposizione dei singoli beni aziendali, che soggiacciono alla disciplina dei
singoli contratti, da quelli che invece vanno intesi come “trasferimento d’azienda”, cui si applica la disciplina
appositamente dettata.

Partiamo col dire che la distinzione tra trasferimento d’azienda e trasferimento di singoli beni deve essere operata in
base a criteri oggettivi, ossia guardando il risultato di una o più operazioni e non al

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loro nomen giuridico. Non è necessario, tra l’altro, che l’atto di trasferimento riguardi tutta l’azienda, potendo
interessare anche un ramo particolare, purché dotato di organicità operativa. Ciò che interessa è che i beni trasferiti
siano idonei potenzialmente ad essere utilizzati strumentalmente all’esercizio di attività d’impresa, anche se magari
devono essere integrati da altri fattori produttivi.

Una volta accertato che si tratti, in base ai criteri oggettivi suddetti, di trasferimento d’azienda, passiamo ad analizzare
le forme previste dalla legge per attuare tale trasferimento: l’art.2556 prescrive ad substantiam “l’osservanza delle
forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda”; questo significa che in caso
di vendita di beni immobili, per esempio, occorrerà la forma scritta, così come nell’ipotesi di conferimento dell’azienda
in una S.p.A. occorrerà l’atto pubblico.

Questo per ciò che concerne la VALIDITA’ del trasferimento di ogni tipo d’azienda, sia essa commerciale o agricola.
Lo stesso art.2556, però, prevede che per il trasferimento delle SOLE imprese soggette a registrazione sia necessario ad
probationem, quindi ai soli fini probatori in giudizio, la forma scritta: la mancanza della scrittura non invalida il
trasferimento, ma in un’eventuale controversia giudiziaria rende impossibile per le parti avvalersi della prova per
testimoni volta a dimostrare l’esistenza del contratto. Il comma 2 dell’art.2556 c.c., tra l’altro, prevede che i contratti di
trasferimento dell’azienda di imprese soggette a registrazione debbano essere stipulati per atto pubblico o scrittura
privata autenticati e depositati, ad opera del notaio rogante, per l’iscrizione nel registro delle imprese entro 30 giorni.

La vendita dell’azienda. Il divieto di concorrenza dell’alienante

Accanto agli effetti concordati tra le parti all’interno del contratto, l’alienazione dell’azienda produce degli effetti ex
lege riguardanti:

 Il divieto di concorrenza dell’alienante (art.2557 c.c.);


 I contratti (art.2558 c.c.);
 I crediti (art.2559 c.c.);
 I debiti aziendali (art.2560 c.c.).

Partiamo ovviamente dal divieto di concorrenza imposto all’alienante di un’azienda commerciale, il quale per un
determinato periodo di tempo dal trasferimento, 5 anni al massimo, non può in alcun modo avviare un’impresa che per
“oggetto, ubicazione o altre circostanze” possa sviare la clientela dell’azienda ceduta (art.2557 comma 1): questo perché
da un lato si vuole tutelare l’acquirente, il quale ha pagato un prezzo in cui, sicuramente, si è tenuto conto
dell’avviamento soggettivo dell’azienda e pertanto ha diritto a conservare la clientela precedente al trasferimento; sotto
un diverso profilo, però, non si può limitare ulteriormente la libertà d’iniziativa economica dell’alienante, tanto che
sebbene il divieto abbia carattere relativo e derogabile, potendosi estendere anche ad attività non direttamente
concorrenziali, esso rimane comunque vincolato nel tempo, nel senso che non può eccedere i 5 anni suddetti. In caso di
azienda agricola il divieto opera soltanto per le attività connesse e per cui, comunque, sia possibile uno sviamento di
clientela. Inoltre il divieto in questione si applica anche nell’ipotesi di vendita coattiva dell’azienda (pensiamo alla
vendita del complesso aziendale del fallito da parte degli organi fallimentari).

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Occorre adesso analizzare se il divieto di concorrenza vada applicata anche in altre tre ipotesi specifiche:

 Divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda in successione ad uno degli eredi;


 Assegnazione dell’azienda come quota di liquidazione di un socio in caso di scioglimento della società;
 Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione di controllo in una società di persone o di
capitali che comporti l’attribuzione, indiretta, dell’azienda.

Su questi tre casi la dottrina è divisa: nei primi due casi vi è trasferimento d’azienda, ma non tra gli eredi o tra i soci,
quindi non una parte della dottrina non vede il motivo di imporre il divieto di concorrenza; gli stessi sostenitori di tale
teoria sottolineano anche che nel terzo caso il trasferimento è assente dato che oggetto della vendita non è l’azienda ma
le azioni o le quote.

Tuttavia, secondo altri esponenti della dottrina l’avviamento dell’azienda sarebbe uno dei criteri di valutazione
economica in sede di divisione ereditaria e in sede di scioglimento della società (primi due casi), motivo per cui non è
da escludere l’applicazione per analogia del divieto di cui all’art.2557 c.c. anche agli altri eredi o soci. Nella terza
ipotesi esaminata, invece, si ha l’acquisto di una partecipazione sociale che produce un risultato economico pressoché
identico all’alienazione dell’azienda: volendo ignorare la diversità formale dei negozi, dunque, il divieto deve applicarsi
anche al socio alienante.

Concludiamo ponendo l’accento sul fatto che il divieto di concorrenza impone all’alienante di NON avviare, per un
periodo di tempo, alcuna impresa concorrente e ciò vale sia direttamente che INDIRETTAMENTE: per eludere il
divieto, infatti, si ricorre spesso a espedienti di diverso tipo, quali il ricorso ad un prestanome per avviare una nuova
attività o l’assunzione dell’alienante come dirigente in un’impresa concorrente, tutti casi in cui comunque si entra in
concorrenza con l’acquirente, sebbene occorra provarlo volta per volta.

Segue: La successione nei contratti aziendali

Al fine di tutelare l’unità funzionale dell’azienda, l’art.2558 c.c. prevede un altro effetto ex lege scaturente dal
trasferimento della stessa, ossia la SUCCESSIONE AUTOMATICA NEI CONTRATTI AZIENDALI, disciplinata
diversamente da quanto previsto dall’art.1406 c.c. in materia di cessione dei contratti.

L’art.2558 recita: “Se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per
l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia
recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in
questo caso la responsabilità dell'alienante. Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti
dell'usufruttuario e dell'affittuario per la durata dell'usufrutto e dell'affitto”.

Occorre sottolineare alcuni aspetti dell’articolo in questione: la successione nei contratti da parte dell’acquirente
avviene AUTOMATICAMENTE, senza la necessità di un’espressa pattuizione, necessaria invece qualora l’acquirente
non intenda subentrare nei contratti dell’alienante; il subentro automatico dell’acquirente, inoltre, riguarda SOLO i
contratti “stipulati per l’esercizio dell’azienda NON a carattere personale”, il che significa che sono esclusi tutti quelli
per cui le qualità personali

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dell’imprenditore alienante sono state determinanti per ottenere il consenso del terzo, il quale non è disposto a
continuare il contratto con altri soggetti: quali siano i contratti a carattere personale va stabilito di volta in volta, in
quanto non si può far coincidere tali contratti di cui all’art.2558 c.c. con quelli comunemente definiti “intuitu personae”
(mandato, commissione, agenzia, appalto ecc.); il terzo contraente, infine, non riceve la tutela allo stesso apprestata dal
diritto comune all’art.1406 in materia di cessione dei contratti, laddove è previsto che il terzo contraente ceduto debba
acconsentire alla cessione: in questo caso il consenso del terzo non è necessario e lo stesso potrà recedere dal contratto
entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento, SOLO se sussiste una giusta causa, determinando tra l’altro non il ritorno in
capo all’alienante del contratto, ma lo scioglimento dello stesso, con eventuale richiesta di risarcimento danni al vecchio
contraente (l’imprenditore alienante) se ne riesce a provare la mancanza di cautela nella vendita dell’azienda.

Segue: I crediti e i debiti aziendali

La successione nei contratti aziendali appena esaminata riguarda, come abbiamo potuto intuire, SOLO i contratti a
prestazioni corrispettive tra imprenditore alienante e terzo contraente non integralmente eseguiti al momento del
trasferimento dell’azienda. Se, invece, il contratto è stato eseguito SOLO dall’imprenditore alienante è ovvio che esista
un credito nei propri confronti, così come se ad eseguire la prestazione è stato il terzo, è altrettanto ovvio che
l’imprenditore ha nei suoi confronti un debito. In queste due ipotesi (crediti e debiti) si hanno degli effetti ex lege
scaturenti dal trasferimento d’azienda, in deroga a quanto previsto in tema di cessione di crediti e successione nei debiti
dal diritto comune, MA non si applica l’art.2558, bensì gli articoli 2559 e 2560 del codice.

L’art.2559 c.c. riguarda i crediti aziendali: in questo caso non occorre, come normalmente previsto, la notifica al
debitore ceduto o l’accettazione da parte dello stesso della cessione, ma solo una notifica collettiva nei confronti dei
terzi, la quale avviene tramite l’iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento d’azienda. Il debitore è comunque
liberato se paga in buona fede all’alienante e la disciplina vale solo per le imprese soggette a registrazione nella sezione
ordinaria e per le imprese agricole (anche se iscritte, come sappiamo, in una sezione speciale), mentre per le altre si
applica la disciplina generale di diritto comune.

Della successione nei debiti aziendali, invece, si occupa l’art.2560 c.c., il quale prevede che i creditori dell’imprenditore
debbano comunque acconsentire alla liberazione dell’alienante conseguente al trasferimento, in quanto il debitore non
può MAI mutare senza il consenso del creditore, principio valevole anche nella disciplina di diritto comune.

Il comma 2, però, prevede: “Nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente
dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. Indipendentemente dalla mancanza di un patto d’accollo e
per le sole ipotesi di trasferimento di azienda commerciale e di debiti risultanti dai libri contabili obbligatori, dunque, si
ha una deroga al principio secondo cui “ciascuno risponde solo delle obbligazioni da lui assunte”, in quanto l’acquirente
si ritrova ad essere solidalmente responsabile con l’alienante, sebbene si tratti di debiti contratti anteriormente al
trasferimento.

Attenzione ad un piccolo ma fondamentale dettaglio: il codice tratta, per debiti e crediti in caso di trasferimento
d’azienda, dei rapporti esterni ma non di quelli interni tra acquirente e alienante, che non

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vengono in alcun modo disciplinati. E’ per tal motivo che la dottrina è pressoché concorde nell’affermare che crediti e
debiti non si trasferiscano automaticamente con l’azienda, essendo necessario un’espressa pattuizione a riguardo,
sebbene il progetto di codice di commercio del 1940 voleva anche in questa ipotesi un passaggio automatico.

Usufrutto e affitto dell’azienda

L’azienda può formare oggetto di quel particolare diritto reale su cosa altrui che è l’USUFRUTTO e di quel particolare
diritto personale di godimento che si ha con l’AFFITTO.

In caso di usufrutto d’azienda si applica l’art.2561 del codice, che riconosce all’usufruttuario ampi poteri-doveri al fine
di gestire al meglio l’impresa e di tutelare l’interesse del concedente, al quale la stessa dovrà tornare alla fine del
rapporto.

Anzitutto l’usufruttuario deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, senza poterne modificare la
destinazione e mantenendone l’efficienza organizzativa e degli impianti. Oltre a godere dei beni aziendali, inoltre,
l’usufruttuario può anche disporne, oltre a poter immettere nell’azienda nuovi beni: tutto ciò comporta la necessità di
provvedere a redigere un inventario sia all’inizio che alla fine del rapporto, in maniera tale che possa essere regolata la
differenza in denaro.

L’art.2562 c.c. prevede che la medesima disciplina si applichi anche all’affitto d’azienda. Chiariamo da subito che
l’affitto del complesso aziendale non ha nulla a che vedere con la locazione di un immobile destinato all’esercizio
dell’attività d’impresa, sebbene i due casi possano essere comunque confusi.

All’usufrutto e all’affitto d’azienda si applicano gli articoli 2557 in tema di divieto di concorrenza e 2558 per quanto
concerne la successione nei contratti, mentre l’art.2559 si applica solo all’usufrutto e il 2559 a nessuna delle due ipotesi.

CAPITOLO SESTO – I SEGNI DISTINTIVI

Il sistema dei segni distintivi

Noi sappiamo che all’interno del mercato operano diversi imprenditori, in concorrenza tra loro, i quali producono e
scambiano beni e servizi identici e similari. E’ per questo motivo che assume rilevanza l’utilizzo di fattori di
individuazione, definiti come SEGNI DISTINTIVI, in grado di distinguere un imprenditore rispetto a un altro.

La ditta, l’insegna ed il marchio sono i tre segni distintivi TIPICI per eccellenza, in quanto non solo sono i più
importanti, ma sono anche quelli espressamente disciplinati dal legislatore. I segni distintivi non costituiscono un
numero chiuso e pertanto l’imprenditore può avvalersi di tutta una serie di simboli di identificazione sul mercato, a cui
si applica quantomeno la disciplina generale di quelli tipici.

La ditta rappresenta il “nome commerciale” dell’impresa e contraddistingue la persona dell’imprenditore; l’insegna


individua i locali nei quali viene svolta una determinata attività d’impresa; il marchio, di gran lunga il segno distintivo
più importante, identifica i beni e servizi prodotti da un determinato imprenditore. Un rilievo crescente sta acquisendo
anche il “nome a dominio”, che identifica il sito internet aziendale di una determinata impresa.

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I segni distintivi, oltre a fungere come “collettori di clientela” perché spingono il pubblico a riconoscere un determinato
operatore sul mercato, hanno anche un valore economico per l’imprenditore, che ne tiene conto nel momento in cui
intende cederli. Anche per i terzi che entrano in contatto con le imprese assumono notevole importanza i segni
distintivi, in quanto utili per non essere ingannati in merito alla provenienza di un prodotto. L’interesse di gran lunga
più importante, tuttavia, rimane quello inerente il corretto e leale svolgimento della competizione concorrenziale, tanto
che la materia dei segni distintivi altro non è che un aspetto specifico della disciplina della concorrenza.

Sebbene ai tre segni distintivi tipici siano dedicate apposite norme, va comunque sottolineato come per essi valgano dei
principi generali riguardanti:

 La LIBERTA’ NELLA FORMAZIONE degli stessi, sebbene vincolata alla verità, alla novità e alla capacità
distintiva;
 Il DIRITTO ALL’USO ESCLUSIVO, diritto relativo e strumentale alla funzione distintiva e non assoluto,
pertanto rendendo impossibile l’uso da parte di chi non può provocare, per la differenza di attività svolta,
sviamento di clientela o confusione nei terzi;
 La LIBERTA’ DI TRASFERIMENTO, anch’essa limitata per evitare di trarre in inganno il pubblico.

I segni distintivi, infine, possono essere definiti come BENI IMMATERIALI, su cui il titolare ha un vero e proprio
diritto di PROPRIETA’, sebbene “limitato e funzionale”: la legge parla di PROPRIETA’ INDUSTRIALE.

A. LA DITTA

Formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta

Il primo segno distintivo tipico che andiamo ad analizzare è la DITTA, la cui disciplina è contenuta negli artt.2363-
2367 c.c.

La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore e si configura come un segno necessario, tanto che la mancata scelta
da parte del titolare comporta l’adozione del nome civile dell’imprenditore stesso.

La scelta della ditta è fondamentalmente libera, sebbene vadano osservati il requisito della VERITA’ e quello della
NOVITA’.

Il limite della verità viene rispettato diversamente a seconda che si tratti di ditta ORIGINARIA o di ditta DERIVATA:
nel primo caso è l’imprenditore a scegliere la ditta, la quale deve contenere almeno il cognome o la sigla del soggetto,
accompagnati da qualsivoglia aggiunta; nel caso di ditta derivata, ossia formata da altro imprenditore e ricevuta insieme
all’azienda, il requisito della verità viene rispettato senza neanche integrare il segno distintivo col proprio cognome o
con la propria sigla, in quanto il tutto si riduce ad una “verità storica”.

Del principio di novità, invece, si occupa l’art.2564 c.c., il quale prescrive che la ditta non deve essere “uguale o simile
a quella usata da altro imprenditore” e tale da “creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è
esercitata”. Quindi è il soggetto che per primo ha adottato una certa ditta ad avere diritto all’USO ESCLUSIVO della
stessa, potendo costringere chiunque ne faccia uso successivamente ad integrarla o modificarla, anche qualora si tratti di
ditta PATRONIMICA (ossia

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contenente nome e cognome dell’imprenditore) o qualora l’uso di tale segno sia stato sopportato per lungo tempo dal
soggetto che per primo lo ha utilizzato. Ovviamente “per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione o
modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore”, secondo quanto
previsto dall’art.2564 comma 2.

E’ necessario sottolineare che l’obbligo di differenziazione inerente la ditta esiste solo nell’ipotesi in cui ci sia un
rapporto di concorrenza tra i due imprenditori, tale che l’uso di due ditte identiche possa comportare una confusione
presso il pubblico e presso terzi in generale. Se due imprese non sono, e non potranno mai essere né per ubicazione
territoriale né per settore, in concorrenza tra loro, è ovviamente permesso l’utilizzo di due ditte identiche, in quanto il
diritto all’uso esclusivo è un diritto RELATIVO.

Ricordiamo, inoltre, il PRINCIPIO DI UNITARIETA’ DEI SEGNI DISTINTIVI, in forza del quale non solo un
imprenditore non può adottare una ditta identica a quella di altra impresa concorrente, ma non può neanche scegliere
una ditta che corrisponda a qualsivoglia altro segno distintivo altrui (insegna o marchio per esempio), dato che il diritto
di esclusiva si estende a tutti i segni distintivi di altri imprenditori.

Il trasferimento della ditta

L’art.2565 prevede la possibilità di trasferire la propria ditta ad un altro soggetto, sebbene SOLO unitamente
all’azienda: se il trasferimento avviene per atto tra vivi occorre il consenso dell’alienante; se avviene mortis causa,
allora il trasferimento è automatico, almeno che non ci sia un apposito divieto all’interno del testamento.

Il collegamento ditta-azienda permette al titolare di monetizzare il valore di avviamento connesso alla ditta e tende a
tutelare il pubblico dei consumatori, che possono facilmente riconoscere i beni e servizi prodotti da un medesimo
complesso aziendale, sebbene con diverso imprenditore.

Tuttavia, sussistono anche dei pericoli per i terzi, i quali potrebbero non accorgersi del cambiamento dell’imprenditore,
non essendo l’acquirente costretto ad integrare o modificare la ditta derivata, il che potrebbe comportare dei seri
problemi per fornitori, finanziatori e più in generale per i creditori dell’impresa: ecco perché, nel silenzio del legislatore,
la giurisprudenza ha previsto una sorta di responsabilità solidale dell’alienante per debiti contratti dall’acquirente
spendendo la ditta derivata, sempre che il terzo abbia potuto credere ragionevolmente di trattare col cedente, ipotesi
possibile solo per le imprese non commerciali, il cui trasferimento di azienda e ditta non è soggetto ad iscrizione nel
registro delle imprese. Tale orientamento giurisprudenziale spinge oggi gli alienanti ad imporre all’acquirente la
modifica della ditta.

Ditta e nome civile. Ditta e nome della società

Abbiamo già anticipato che la ditta può coincidere con il nome civile dell’imprenditore, ma non per questo dobbiamo
confondere le due cose: il nome civile, composto da prenome e cognome, identifica la persona fisica dell’imprenditore
in tutti gli aspetti della sua vita, non solo nello svolgimento dell’attività produttiva; è, inoltre, unico ed indisponibile,
essendo un attributo della personalità. La ditta, invece, è il

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“nome commerciale” dell’impresa, identificativo dell’imprenditore nello svolgimento della propria attività, o delle
diverse attività, il che rende possibile avere anche più ditte. E’ trasferibile, come abbiamo detto, unitamente all’azienda
ed è tutelata come mezzo di attrazione della clientela avente valore patrimoniale.

La medesima differenza appena descritta esiste anche tra ditta e nome delle società (ragione sociale delle società di
persone e denominazione sociale delle società di capitali): dobbiamo osservare, differentemente da ciò che la dottrina ha
creduto per lungo tempo, che la ragione/denominazione sociale corrisponde al nome civile dell’imprenditore individuale
e non va di per sé confusa con la ditta. Alla luce di quanto abbiamo appena detto, possiamo comprendere l’art.2567 del
codice, il quale prevede che la ragione e la denominazione sociale, oltre ad essere soggette alla disciplina specifica delle
varie società, non possano essere simili o identiche a quella di altra società concorrente, dovendosi applicare l’art.2564
c.c. che vieta una scelta in tal senso. Badiamo bene che nell’art.2567 si parla di ragione e di denominazione sociale, non
di ditta: questo significa che esiste una differenza sostanziale tra il nome della società (corrispondente al nome civile
dell’imprenditore persona fisica) e la ditta (che corrisponde alla ditta/nome commerciale dell’imprenditore persona
fisica), e che solo al primo vada applicato l’art.2567. Anche le società, di conseguenza, possono avere una proprio ditta
originaria, ma anche più di una e anche derivate, da affiancare al proprio nome.

B. IL MARCHIO

Nozione e funzioni del marchio

Il MARCHIO è quel particolare segno distintivo identificativo di beni e servizi di una determinata impresa.

Il marchio nazionale è disciplinato negli artt.2569-2574 c.c., oltre che nel D.lgs.30/2005 contenente il Codice della
proprietà industriale, il quale ha sostituito la legge marchi risalente al r.d.929/1942. Nel 1993 un regolamento europeo
ha istituito anche il “marchio comunitario”, un marchio unico valevole per tutti i Paesi dell’Unione Europea, ottenibile
tramite una sola procedura. Due Convenzioni della fine del XIX secolo, inoltre, continuano a disciplinare, sebbene con
modifiche apportate nel 1989, il “marchio internazionale”.

Il marchio nazionale, quello comunitario ed il marchio internazionale riconoscono tutti al titolare il diritto all’uso
esclusivo del segno distintivo, il quale non è essenziale come la ditta, ma è sicuramente più importante della stessa
all’interno del mercato, dove lo stesso prodotto viene offerto da una moltitudine di imprese in concorrenza tra loro,
rendendo fondamentale la distinzione di beni e servizi provenienti da una medesima impresa.

Oltre alla funzione distintiva dei prodotti, il marchio serve anche come “indice di provenienza” dei prodotti: in realtà
l’intervento del legislatore nel 1992 ha fatto venire meno il divieto di circolazione del marchio separatamente
dall’azienda, il che ha comportato che uno stesso marchio possa essere utilizzato da più produttori; gli stessi, tuttavia,
sono obbligati ad adottare un identico standard qualitativo, motivo per cui il segno distintivo in questione conserva
sempre la funzione di indicatore di provenienza.

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Il marchio non assolve, invece, la funzione di “garanzia della qualità” dei prodotti: anche se il pubblico è portato a
credere che vi sia un legame tra i vari marchi, soprattutto quelli blasonati, e la qualità del prodotto, questo non è affatto
vero, in quanto non vi è alcuna norma di legge che obblighi il produttore a mantenere inalterata nel tempo la qualità di
quanto produce, sebbene sia vietato trarre in inganno i consumatori sull’origine e sull’aspetto qualitativo (ben poca
cosa).

E’ necessario ricordare, infine, che molti marchi hanno assunto col passare del tempo una “funzione attrattiva” nei
confronti dei consumatori che va tutelata oltre i limiti di quanto necessario per evitare la confusione tra prodotti affini: il
legislatore ha capito l’importanza di tale funzione ed ha recepito la distinzione tra marchi ordinari e marchi celebri.

I tipi di marchio

I vari tipi di marchio possono essere raggruppati in base a classificazioni di diverso tipo.

In forza della “natura dell’attività svolta dal titolare del marchio”, possiamo distinguere il marchio DI FABBRICA,
applicato dal produttore, da quello DI COMMERCIO, apposto da chi il prodotto lo commercializza, sia egli un grossista
o un rivenditore al dettaglio. A tal proposito, sia l’art.2572 c.c. che l’art.20 comma 3 del c.p.i. (codice della proprietà
industriale) prevedono il DIVIETO DI SOPPRESSIONE del marchio apposto dal produttore ad opera del rivenditore.
Sempre in base al medesimo criterio di distinzione, inoltre, ritroviamo anche il MARCHIO DI SERVIZIO, riguardante
le imprese di servizi (pensiamo ad un’impresa di trasporti).

Un’altra distinzione è quella tra marchio GENERALE, utilizzato dal titolare per tutti i propri prodotti, e marchio
SPECIALE, di cui il titolare si serve per differenziare, all’interno della sua stessa produzione, un prodotto da un altro: è
una pratica molto utilizzata per esempio dalle case automobilistiche, che hanno un loro marchio generale (Volkswagen,
Audi ecc.) a cui affiancano un diversi marchi speciali per le varie vetture prodotte (Golf, Polo, A3, A4 ecc.).

Una volta rispettati i requisiti di validità di cui parleremo nel prossimo paragrafo, il marchio può essere composto da
qualsiasi segno suscettibile di rappresentazione grafica, dalle sole parole (marchio DENOMINATIVO) a figure, lettere,
cifre e disegni (marchio FIGURATIVO), sino alla composizione di una moltitudine di questi elementi (marchio
MISTO), passando anche per un motivo musicale, un suono. Anche la forma, purché non sia imposta dalla natura del
prodotto e non sia comune a tutti i prodotti di quella categoria, può essere distintiva di un determinato marchio (marchio
di FORMA o TRIDIMENSIONALE): basti pensare alle ampolle dei profumi, che hanno delle forme identificative di un
determinato produttore o addirittura di una particolare fragranza.

Una trattazione separata merita, invece, il marchio COLLETTIVO: in questo caso ad utilizzare il segno distintivo non è
il titolare dello stesso, il quale lo concede in uso ad altre imprese limitandosi ad effettuare un controllo sull’origine e
sulla qualità dei prodotti commercializzati; tutta la produzione che reca il marchio collettivo, infatti, deve rispondere ad
un certo standard qualitativo, in assenza del quale il titolare del marchio può anche inibire l’uso da parte
dell’utilizzatore, perché magari ha violato le regole stabilite (basti pensare al marchio “prosciutto di parma”, che deve
essere prodotto in una determinata maniera, indipendentemente da quelli che sono i vari produttori).

I requisiti di validità del marchio

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Al fine di ricevere piena tutela giuridica, il marchio deve rispettare i seguenti requisiti:

 LICEITA’ (art.14 lett.a c.p.i.): non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon
costume, così come stemmi e altri segni protetti da convenzioni internazionali, da diritto d’autore o lesivi
dell’altrui proprietà industriale; non deve sfruttare immagini e ritratti altrui senza il consenso dell’interessato o
dei suoi eredi, mentre il “nome” può essere sfruttato liberamente se appartenente a persona non nota, purché
non lesivo di fama, credito e decoro del soggetto, mentre per le persone note o famose occorre il consenso, dei
loro eredi nel caso di soggetti deceduti;
 VERITA’ (art.14 lett.b c.p.i.): il marchio non deve contenere segni idonei a trarre in inganno il pubblico circa
la natura, l’origine e la qualità dei prodotti o servizi”;
 ORIGINALITA’ (artt.12 e 13 c.p.i.): il marchio deve permettere di distinguere ed identificare il prodotto di
una certa impresa dagli altri prodotti simili o addirittura identici, comunque facenti parte della stessa categoria
merceologica, presenti sul mercato. Questo significa che non sono ammesse “denominazioni generiche” del
prodotto o servizio, come il solo uso di nomi comuni identificativi del tipo di prodotto (esempio: “calzature” o
“scarpe” accompagnate dalla figura di una scarpa), così come non sono consentite le “indicazioni descrittive”
di caratteri essenziali dei prodotti, delle loro prestazioni e della provenienza geografica (fatta eccezione per i
marchi collettivi); allo stesso modo è escluso, sempre per rispettare il requisito di originalità, che possa trattarsi
di “segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente”, come le parole super/extra/lusso ed altri suffissi e
prefissi. Si vuole evitare, in sostanza, che una parola di uso comune, conosciuta da tutti e facilmente
associabile ad una categoria di prodotti, venga monopolizzata da una determinata impresa perché utilizzata
come marchio; questa motivazione cessa di esistere, legittimando l’uso di un determinato segno comune a tutti,
nel momento in cui lo stesso viene utilizzato per un prodotto totalmente diverso da ciò che il segno stesso
rappresenta: pensiamo alla parola “aeroplano”, accompagnata dalla figura di un aeroplano, utilizzate da
un’impresa che produce calze. Un’altra distinzione che dobbiamo fare in merito all’originalità del marchio
riguarda il “livello di fantasia” utilizzato nel modificare parole di uso comune o denominazioni generiche: se la
leggera modifica di una parola è sufficiente per escludere la confusione con altri marchi, allora il marchio
viene definito DEBOLE (pensiamo ad Amplifon e Udifon), mentre nel caso in cui neanche una notevole
modifica sia sufficiente ad evitare la contraffazione allora si parla di marchio FORTE (Buondì, per esempio,
per cui si è ritenuto che il marchio “Bonnj” costituisse contraffazione). Proprio a proposito della distinzione tra
marchi deboli e forti, occorre aggiungere che può benissimo capitare che un marchio inizialmente debole, in
quanto dotato di scarsa capacità distintiva, diventi col tempo “forte” in forza della notorietà dei prodotti o della
pubblicità fatta agli stessi: in tal caso si parla di SECONDARY MEANING, il quale può attribuire capacità
distintiva ad un segno che inizialmente ne era completamente privo, rendendo possibile la registrazione del
marchio;
 NOVITA’: il marchio, oltre che valido, lecito ed originale, deve essere anche NUOVO, ossia non deve essere
già utilizzato da nessun altra impresa per prodotti identici o affini, qualora si tratti di marchio ORDINARIO, o
addirittura non deve essere adoperato neanche per prodotti con cui manchi un’affinità se si tratta di marchio
CELEBRE, ossia divenuto così tanto noto che anche l’utilizzo in altro settore merceologico o di mercato
attribuirebbe un indebito vantaggio al secondo utilizzatore (pensiamo ad un’impresa che produce scarpe che
utilizzi il marchio

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Ferrari: manca l’affinità tra automobili e scarpe, ma per il produttore delle secondo vi sarebbe comunque un
vantaggio).

Il difetto di uno dei quattro requisiti del marchio ne provoca la NULLITA’ a norma dell’art.25 c.p.i., che però non può
essere dichiarata qualora si tratti di difetto di novità, nel caso in cui il richiedente la registrazione sia in buona fede ed il
titolare del marchio ne abbia sopportato l’uso per 5 anni; allo stesso modo non può essere dichiarata la nullità del
marchio per difetto di originalità se lo stesso ha acquistato capacità distintiva (caso di secondary meaning) prima della
proposizione della domanda volta ad ottenere una pronuncia di nullità.

Il marchio registrato

Il titolare di un marchio rispondente ai requisiti di validità appena descritti ha diritto all’USO ESCLUSIVO del marchio
prescelto; tuttavia la tutela apprestata al titolare contro l’altrui utilizzo ha una portata diversa a seconda che si tratti di
marchio registrato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi o di marchio di fatto, così come differente è la disciplina
dipendentemente dal fatto che si tratti di marchio ordinario o celebre.

Partiamo col dire che la registrazione del marchio attribuisce al titolare il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il
territorio nazionale, ANCHE qualora egli operi solo a livello locale (per esempio solo in Puglia): il titolare può impedire
che vengano commercializzati e pubblicizzati prodotti della stessa categoria merceologica aventi il proprio marchio, in
quanto ciò comporterebbe un rischio di confusione per il pubblico, sebbene l’art.21 c.p.i. specifica che possa essere
nominato un determinato marchio quando si tratti di accessori o pezzi di ricambio destinati ai prodotti recanti quel
marchio (esempio: l’impresa Farina produce batterie per cellulari LG, quindi può nominare il marchio LG nelle proprie
pubblicità). La tutela del marchio registrato, inoltre, si estende anche alle categorie merceologiche affini, ossia quelle
destinate alla medesima clientela (esempio pratico: se Ariston produce solo lavatrici e frigoriferi, il marchio riceve
tutela anche per quanto concerne le lavastoviglie, che sono comunque elettrodomestici, perché se si permettesse
l’utilizzo di tale marchio da parte di un’altra impresa che produce lavastoviglie si creerebbe comunque confusione nel
pubblico). Questo, però, non significa che lo stesso marchio non possa essere utilizzato per prodotti totalmente diversi,
almeno che non si tratti di un marchio CELEBRE, ossia divenuto così importante e conosciuto che anche l’utilizzo in
settori diversi creerebbe un indebito vantaggio per l’utilizzatore e un potenziale danno per il titolare (in caso di prodotti
scadenti): ecco perché il legislatore prevede che la tutela all’uso esclusivo del marchio celebre si estenda anche a
prodotti e servizi NON affini.

Ricordiamo anche il già citato PRINCIPIO DI UNITARIETA’ DEI SEGNI DISTINTIVI, in forza del quale i segni
utilizzati nel marchio di un’impresa non possono essere adoperati neanche nella ditta o nell’insegna di altra impresa che
produce prodotti o servizi affini, nonché da qualsivoglia altra impresa, nei propri segni distintivi, qualora si tratti di
marchio celebre.

Il diritto di esclusiva sul marchio registrato, inoltre, decorre dal momento della PRESENTAZIONE della domanda di
registrazione all’Ufficio brevetti e marchi, quindi in molti casi la tutela inizia ancora prima dell’utilizzo del marchio, per
cui da quel momento nessuno può utilizzare o presentare domanda di registrazione per lo stesso marchio, perché
difetterebbe il requisito di novità.

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La registrazione nazionale, poi, è requisito per l’ottenimento del marchio internazionale tramite la registrazione presso
l’Organizzazione mondiale per la proprietà industriale (OMPI); per la registrazione del marchio comunitario, valevole
in tutto il territorio dell’Unione, non serve quella nazionale, essendo sufficiente la presentazione della domanda
all’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno (UAMI) con sede ad Alicante.

La registrazione del marchio, sia esso nazionale, internazionale o comunitario, ha validità decennale ed è sempre
rinnovabile. Il diritto all’uso esclusivo viene meno solo in caso di dichiarazione di NULLITA’ del marchio per difetto
ORIGINARIO di uno dei requisiti di validità oppure in caso di DECADENZA (art.26 c.p.i.), la quale avviene per:

 VOLGARIZZAZIONE: il marchio è divenuto DENOMINAZIONE GENERICA di un determinato prodotto,


non essendo più idoneo a distinguere quello proveniente da una determinata impresa (pensiamo a “Biro”,
inizialmente marchio di una determinata impresa e poi divenuto, nel linguaggio comune, identificativo della
penna a sfera in generale, NON più di quella particolare penna a sfera prodotta da quella specifica impresa).
Non basta, però, che il marchio sia divenuto denominazione generica di un prodotto, ma occorre anche che ciò
sia stato diretta conseguenza dell’ATTIVITA’ o INATTIVITA’ del titolare, il quale non ha fatto alcunché per
difendere il proprio marchio (anche il marchio Aspirina stava per volgarizzarsi, ma la casa farmaceutica
titolare del marchio ha agito in sua difesa, facendo in modo di conservare l’uso esclusivo);
 Sopravvenuta INGANNEVOLEZZA del marchio;
 MANCATA UTILIZZAZIONE entro 5 anni dalla registrazione o SOSPENSIONE dell’utilizzo per un eguale
periodo di tempo;
 MANCATI CONTROLLI volti a regolare l’uso del SOLO marchio collettivo.

Tra le azioni a tutela del marchio e del suo uso esclusivo ritroviamo anzitutto l’AZIONE DI CONTRAFFAZIONE, da
esperire nell’ipotesi di altrui utilizzo del marchio registrato e volta ad ottenere l’inibizione alla continuazione degli atti
lesivi del proprio diritto, oltre alla rimozione degli effetti tramite distruzione di cose materiali a cui il marchio
contraffatto è stato apposto. In taluni casi il giudice può prevedere la pubblicazione della sentenza su uno o più
quotidiani. Altra azione a tutela dell’uso esclusivo è la registrazione di uno o più marchi PROTETTIVI, simili nei segni
(nel nome o nella forma o nel suono) a quello effettivamente utilizzato, la cui creazione ha il fine di evitare che altri
imprenditori utilizzino marchi che assomigliano al proprio: l’azione di contraffazione può essere esperita anche a tutela
di un marchio protettivo, categoria per la quale, tra l’altro, non si ha decadenza per non uso.

Il marchio di fatto

Il diritto di esclusiva sul marchio, oltre a valere quando per lo stesso viene richiesta ed ottenuta la registrazione,
riguarda anche l’ipotesi di marchio DI FATTO, ossia quello non registrato, la cui tutela è contenuta nell’art.2571 c.c. e
nell’art.12 comma 1 lettera b del c.p.i.

L’art.2571 c.c. dispone: “Chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante
la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”. Ciò significa che la tutela del marchio
non registrato è direttamente proporzionale all’uso di fatto e alla notorietà che lo stesso ha raggiunto nel corso del
tempo: se il marchio ha avuto diffusione nazionale, il

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titolare ne potrà impedire l’utilizzo per prodotti identici da parte di altre imprese ma NON per prodotti affini, così come
potrà ottenere che venga dichiarato nullo un marchio confondibile successivamente registrato, purché agisca entro 5
anni ed eviti la convalida dello stesso; se il marchio di fatto, invece, ha avuto solo diffusione locale, la tutela apprestata
al titolare è di gran lunga più ristretta, in quanto chi ha registrato tale marchio potrà utilizzarlo in via esclusiva sul
territorio nazionale, mentre al titolare di fatto non rimarrà altro che adoperarlo nel limite del pre-uso.

Le azioni esperibili a protezione del marchio non registrato, inoltre, non sono quelle previste in caso di registrazione,
ma quelle contemplate in via generale in tema di concorrenza sleale.

Il trasferimento del marchio

Il marchio è trasferibile, in forza degli artt.2573 c.c. e 23 c.p.i., sia a titolo definitivo che a titolo temporaneo tramite la
cosiddetta LICENZA DI MARCHIO. Chiariamo da subito che non occorre alcuna forma particolare per il
trasferimento, per cui è prevista soltanto la trascrizione nel registro dell’Ufficio brevetti e marchi, ma con la sola
funzione di pubblicità dichiarativa, ossia per l’opponibilità a terzi e NON per la validità dell’atto, differentemente per
ciò che avviene in caso di trasferimento del marchio comunitario, per cui occorre ad substantiam la forma scritta.

Il titolare di un marchio, dunque, può liberamente trasferirlo, determinando il prezzo in base alla capacità attrattiva della
clientela, e a partire dalla riforma del 1992 può farlo anche disgiuntamente rispetto all’azienda, ossia senza trasferire la
stessa o un ramo di essa (obbligo previsto in passato). Il trasferimento a titolo definitivo può riguardare anche solo una
parte dei prodotti, così come è possibile concedere una LICENZA NON ESCLUSIVA, facendo in modo che concedente
e concessionari utilizzino il marchio contemporaneamente per i medesimi prodotti: in questa ipotesi, però, il concedente
ha l’obbligo di svolgere dei controlli nei confronti dei licenziatari, i quali sono chiamati ad assicurare il medesimo
livello qualitativo dei prodotti realizzati dal concedente, anche perché sia la norma del codice civile che quella del
codice della proprietà industriale prevedono la necessità che dal trasferimento o dalla licenza non scaturisca inganno nei
confronti del pubblico.

Se il concessionario realizza gli stessi prodotti del concedente in forza di una licenza non esclusiva, ma si discosta
qualitativamente dagli stessi, si può avere decadenza del marchio per sopravvenuto uso ingannevole, sanzione che oltre
al soggetto in questione finisce per colpire anche il concedente e gli altri licenziatari.

C. L’INSEGNA

Nozione e disciplina

L’insegna è quel particolare segno distintivo che contraddistingue i locali dell’impresa o, più in generale, l’intero
complesso aziendale. Ad essa è dedicato l’art.2568 c.c., il quale prevede l’applicazione anche all’insegna dell’art.2564
comma 1 riguardante la ditta, laddove è previsto che non debba essere uguale o simile a quella usata da altro
imprenditore e non debba creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui viene esercitata, altrimenti va
integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. Si applica altresì l’art.22 c.p.i. che estende all’insegna il
principio di unitarietà dei segni distintivi, già descritto in precedenza.

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Nonostante all’insegna siano dedicati solo due articoli, la dottrina è concorde nell’affermare che anche tale segno
distintivo debba rispettare i requisiti di liceità, verità ed originalità, oltre a quello di verità espressamente richiamato.
Allo stesso modo si ritiene che anche l’insegna sia trasferibile ed anche per essa sia possibile una licenza non esclusiva
che ne comporti il couso, come avviene nei contratti di franchising (è sufficiente pensare a catene come Cartier,
Benetton o Zara).

CAPITOLO SETTIMO – OPERE DELL’INGEGNO. INVENZIONI INDUSTRIALI

Le creazioni intellettuali

Il nostro legislatore dedica un’ampia disciplina, tanto all’interno del codice civile quanto in appositi interventi
normativi, alle CREAZIONI INTELLETTUALI, per tali intendendosi sia le OPERE DELL’INGEGNO, idee creative in
campo culturale che possono formare oggetto del DIRITTO D’AUTORE, sia le INVENZIONI INDUSTRIALI, idee
creative nel campo della tecnica, alternativamente oggetto del BREVETTO per invenzioni industriali, del brevetto per
MODELLI D’UTILITA’ o della REGISTRAZIONE PER DISEGNI E MODELLI.

Principi ispiratori della disciplina

Nell’emanazione della disciplina inerente le creazioni intellettuali il nostro legislatore, come quelli degli altri Paesi, ha
dovuto contemperare due esigenze contrapposte: da un lato è stato necessario tutelare l’attività creativa dei privati al
fine di consentire e di non frenare lo sviluppo culturale e tecnologico; dall’altro si è voluta evitare la creazione di
posizioni di monopolio, rendendo possibile a tutti fruire del progresso raggiunto.

Il primo interesse, quello volto a tutelare il creatore dell’opera o dell’invenzione, è stato sanato riconoscendo allo stesso
il DIRITTO ESCLUSIVO DI SFRUTTAMENTO ECONOMICO, esercitabile direttamente o tramite cessione a terzi
attraverso il DIRITTO DI PRIVATIVA: si tratta, in ogni caso, di un diritto di proprietà “particolare” avente ad oggetto
un bene immateriale, l’opera o l’invenzione.

L’esigenza di garantire a tutti di poter fruire delle opere e delle invenzioni create è stata perseguita in diversi modi:
anzitutto prevedendo (art.45 c.p.i.) tutta una serie di creazioni dell’intelletto non suscettibili di tutela, su cui pertanto
non si acquista alcun diritto; in secundis dettando una regolamentazione del diritto di esclusiva inerente le modalità di
acquisto, il contenuto e la durata, il tutto al fine di eliminare o quantomeno limitare effetti monopolistici di
sfruttamento. Per questo motivo il legislatore ha previsto la necessità di brevettare le invenzioni industriali, il che
riconosce il diritto di esclusiva all’inventore ma permette la circolazione del contenuto della creazione, così come ha
limitato nel tempo il diritto d’autore (70 anni dalla morte dell’autore stesso) e i diritti scaturenti dal brevetto (venti, dieci
e cinque anni a seconda che si tratti di invenzioni industriali, modelli di utilità o disegni/modelli). E’ stato altresì
disciplinato l’ONERE DI ATTUAZIONE, che obbliga il creatore a dar applicazione alla sua invenzione, in quanto dopo
il decorso di un periodo di tempo pari a tre anni è possibile concedere licenze obbligatorie per l’uso, anche se non
esclusive.

Possiamo concludere dicendo che il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto funzionale e limitato:
si parla di PROPRIETA’ INDUSTRIALE per indicare tutti i diritti sulle opere dell’ingegno, sulle invenzioni e sui segni
distintivi che già abbiamo esaminato.

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A. IL DIRITTO D’AUTORE

Oggetto e contenuto del diritto d’autore

Oggetto del DIRITTO D’AUTORE sono tutte le opere dell’ingegno frutto della creatività umana e pertanto le opere
scientifiche, letterarie, musicali, teatrali e cinematografiche, figurative e così via, indipendentemente dalla loro utilità o
dal loro pregio: l’unico requisito che tali opere devono rispettare è quello inerente il CARATTERE CREATIVO, ossia
l’originalità oggettiva rispetto ad opere preesistenti dello stesso genere, originalità che può consistere anche nella
particolare esposizione o nella rielaborazione di un’altra opera.

Il diritto d’autore nasce con la creazione dell’opera, quindi sin dal momento in cui la stessa viene composta, realizzata e
gode di una tutela sia morale che patrimoniale.

Il diritto morale d’autore permette di rivendicare la paternità dell’opera nei confronti di chiunque, di decidere se
pubblicarla o meno (diritto di inedito) e se provvedere alla pubblicazione col proprio nome o in anonimo, di opporsi a
modificazioni di qualsivoglia genere e di poter ritirare l’opera dal commercio: stiamo parlando di una serie di diritti
irrinunciabili e inalienabili, esercitabili anche dagli eredi dell’autore dopo la sua morte, salvo che per il diritto al ritiro
dal commercio.

Il diritto patrimoniale d’autore, invece, riguarda l’UTILIZZAZIONE ECONOMICA ESCLUSIVA dell’opera “in ogni
forma e modo, originale o derivato”, riguardante anche parti dell’opera stessa o singoli personaggi che ne fanno parte;
tale diritto ha durata limitata a 70 anni dopo la morte dell’autore (inizialmente erano 50) e spetta, in caso di opera frutto
dell’attività creativa di un solo soggetto, all’unico autore.

Può capitare, però, che l’opera sia frutto del lavoro di diversi soggetti e a tal proposito è utile distinguere:

 L’opera COLLETTIVA, composta dai contributi autonomi e separabili di diversi soggetti, poi coordinati e
riorganizzati da un direttore, riconosciuto come vero autore, mentre i diritti di sfruttamento economico
competono all’editore. Ogni singolo soggetto che ha offerto il proprio contributo figura, ovviamente, come
autore della proprio parte;
 L’opera IN COLLABORAZIONE, frutto del lavoro omogeneo, indivisibile e non distinguibile di diversi
autori, tra cui si instaura un regime di comunione; ad ognuno di essi spetta disgiuntamente il diritto morale,
mentre per modificare o pubblicare l’opera occorre l’accordo di tutti o l’autorizzazione sostitutiva del consenso
da parte del tribunale, ottenibile in caso di ingiustificato rifiuto;
 L’opera COMPOSTA, a metà strada tra quella collettiva e quella in collaborazione, in quanto frutto di diversi
contributi eterogenei e distinti tra loro che vanno, tuttavia, a creare un tutt’uno inscindibile, un’opera unitaria
(pensiamo ad un’opera lirica composta musica, testi, coreografia). In tal caso si instaura ugualmente un regime
di comunione tra i vari autori, ma solitamente viene individuato un solo soggetto a cui spetta l’utilizzazione
economica dell’opera ed il cui contributo è stato preponderante rispetto agli altri, così come vengono indicate
quelle che sono le quote nei proventi dei vari partecipanti-autori.

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Accanto al diritto d’autore, infine, vi sono i cosiddetti DIRITTI CONNESSI, riconosciuti ad interpreti di opere
dell’ingegno, a produttori di dischi, ad autori di fotografie non artistiche e così via, a cui viene pagato un equo
compenso da parte di chi utilizza la loro seppur diversa opera creativo-interpretativa.

Trasferimento del diritto di utilizzazione economica

Partiamo col dire che il diritto di utilizzazione economica delle opere dell’ingegno è LIBERAMENTE TRASFERIBILE
sia per atto fra vivi, sia mortis causa.

Nell’ipotesi di trasferimento tra vivi è richiesta la forma scritta ad probationem e il trasferimento può essere definitivo o
temporaneo; possono essere utilizzate forme contrattuali atipiche o quelle tipiche del contratto di edizione o di
rappresentazione ed esecuzione. Il contratto DI EDIZIONE prevede la concessione “in esclusiva” ad un editore del
diritto di pubblicare l’opera, a spese proprie, con l’obbligo di stamparla e di commercializzarla, corrispondendo
all’autore un compenso “a forfait”, se stabilito già inizialmente, o proporzionale alle copie vendute. Il contratto può
avere durata massima ventennale e prevedere un numero determinato di edizioni (contratto per edizione) o la facoltà
dell’editore di eseguire le edizioni necessarie (contratto a termine). Il contratto di rappresentazione ed esecuzione,
invece, attribuisce in via non esclusiva ad un soggetto diverso dall’autore il diritto di rappresentare l’opera, ovviamente
a proprie spese.

Le opere dell’ingegno possono, infine, essere oggetto di plagio e contraffazione, oltre che di utilizzazione, riproduzione
e diffusione abusiva, motivi per cui il legislatore ha previsto sanzioni civili, pecuniarie e penali a carico di coloro che
pongono in essere tali condotte. Il titolare del diritto d’autore, inoltre, può chiedere che venga accertato in giudizio il
proprio diritto e che vengano inibite le condotte lesive dello stesso, così come il giudice può disporre la distruzione di
tutto il materiale contraffatto e la pubblicazione della sentenza su più giornali, oltre allo scontato risarcimento del
danno.

Al fine di garantire una tutela internazionale del diritto d’autore, una moltitudine di Stati, tra cui quello italiano, hanno
aderito alla Convenzione internazionale di Berna e a quella Universale sul diritto d’autore di Ginevra.

B. LE INVENZIONI INDUSTRIALI

Oggetto e requisiti di validità

A differenza delle opere dell’ingegno, che sono idee creative in campo culturale, le INVENZIONI INDUSTRIALE
sono idee creative nel campo della tecnica, che offrono una soluzione originale per la risoluzione di un problema
tecnico applicabile nel settore della produzione di beni e servizi. Differentemente da ciò che avviene per le opere
dell’ingegno, il diritto di utilizzazione economica si acquista, per ciò che concerne le invenzioni industriali, con la
concessione del BREVETTO da parte dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, sebbene anche le invenzioni non brevettate
ricevano una minima tutela.

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Distinguiamo le invenzioni industriali in:

 INVENZIONI DI PRODOTTO, aventi ad oggetto un nuovo prodotto materiale (per esempio un nuovo
macchinario);
 INVENZIONI DI PROCEDIMENTO, consistenti in un nuovo modo di produzione di beni già noti, in un
nuovo processo o metodo di lavorazione industriale;
 INVENZIONI DERIVATE, derivanti da un’invenzione precedente e a loro volta distinguibili in:
o Invenzioni di combinazione, se dalla combinazione di invenzioni esistenti se ne ricava una del tutto
nuova;
o Invenzioni di perfezionamento, se si apporta una miglioria consistente ad un’invenzione già esistente;
o Invenzioni di traslazione, consistenti nella nuova “utilizzazione” di una sostanza o di un composto già
noto.

Per espressa decisione del legislatore NON possono formare oggetto di brevetto le seguenti invenzioni:

 Le scoperte, le teorie scientifiche ed i metodi matematici;


 I piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali o di gioco o commerciali ed i programmi per computer (i
software, che possono formare oggetto del diritto d’autore);
 Le presentazioni di informazioni;
 I metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi agli stessi
applicati;

Tutti i trovati industriali non rientranti nelle categorie escluse da brevetto devono rispondere ai requisiti di LICEITA’ e
NOVITA’, oltre a dover prevedere un’ATTIVITA’ INVENTIVA (originalità) e l’idoneità all’APPLICAZIONE
INDUSTRIALE (industrialità).

Un’invenzione è “nuova” quando non è “compresa nello stato della tecnica”, ossia quando non è stata ancora conosciuta
e divulgata.

Un’invenzione è altresì “originale” quando implica un’attività inventiva tale da rendere il trovato industriale
“incomprensibile ad una persona esperta del ramo che fa ricorso alle sue ordinarie capacità e conoscenze della tecnica”.

Un’invenzione è idonea all’applicazione industriale nel momento in cui può essere fabbricata e utilizzata in qualsiasi
genere di industria, anche in quella agricola, mentre non sono brevettabili le invenzioni non sfruttabili a livello
industriale.

Il diritto al brevetto

Anche le invenzioni industriali, al pari delle opere dell’ingegno, sono tutelate a livello giuridico sia sotto il profilo
morale, che si acquista nel momento in cui si crea l’invenzione, sia sotto il profilo patrimoniale, in quanto l’inventore
non solo ha il diritto di conseguire il brevetto (diritto AL brevetto), ma anche all’utilizzazione economica esclusiva
dallo stesso scaturente (diritto SUL brevetto).

Tuttavia vi sono delle ipotesi in cui l’inventore ed il soggetto legittimato allo sfruttamento economico non coincidono,
magari perché si tratta di invenzioni fatte nell’esecuzione di un rapporto di lavoro dipendente. A tal proposito
distinguiamo:

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 Invenzioni DI SERVIZIO: l’attività inventiva è oggetto del contratto di lavoro, il quale prevede anche una
specifica retribuzione, motivo per cui il diritto AL e SUL brevetto compete al datore di lavoro, il quale si è
accollato sin dall’inizio i rischi ed i costi dell’attività di ricerca;
 Invenzioni AZIENDALI: anche in questo caso l’invenzione viene fatta nell’esecuzione di un rapporto di
lavoro, ma non è contemplata alcuna retribuzione per l’attività inventiva, motivo per cui tutti i diritti
continuano ad appartenere al datore di lavoro (AL e SUL brevetto), che però deve un “equo compenso”
all’inventore in caso di ottenimento del brevetto;
 Invenzioni OCCASIONALI: l’invenzione rientra nel campo di attività dell’impresa, ma risulta indipendente
dal rapporto di lavoro, motivo per cui i diritti patrimoniali competono al lavoratore, salvo la posizione di
favore riconosciuta al datore, il quale ha diritto di prelazione, da esercitare entro tre mesi dalla comunicazione
di conseguimento del brevetto, per l’uso dell’invenzione, l’acquisto del brevetto e la brevettazione all’estero,
sempre che paghi un corrispettivo al lavoratore, concordato con lo stesso o fissato da un collegio di arbitri o dal
giudice in caso di disaccordo.

Tutta la disciplina esposta si applica anche nell’ipotesi in cui il brevetto venga richiesto dal lavoratore entro un anno
dalla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto egli non può dimostrare l’assenza di connessione con la precedente
attività svolta.

Inoltre, se l’inventore è un ricercatore universitario l’invenzione è brevettabile solo dallo stesso, mentre all’università o
alla pubblica amministrazione spetta soltanto una partecipazione ai proventi derivanti dallo sfruttamento economico,
sempre che venga lasciato almeno il 50% all’inventore. Se, tuttavia, la ricerca che ha portato all’invenzione è stata
finanziata da privati o da altro soggetto pubblico diverso dall’ente di appartenenza, si continuano ad applicare le norme
generali sopra espose.

Per ciò che concerne i contratti di ricerca in cui l’inventore è un lavoratore autonomo, i diritti di sfruttamento
economico competono al committente sia nel caso di finanziatore privato, sia nell’ipotesi di committenza pubblica.

L’invenzione brevettata

Competente a concedere il brevetto per un’invenzione industriale è l’Ufficio italiano brevetti e marchi, il quale vi
provvede sulla base di una domanda presentata dall’interessato, la quale deve contenere ad substantiam una descrizione
del nuovo trovato industriale tale che un qualsivoglia esperto del ramo riesca ad attuarla. La domanda può avere ad
oggetto una sola invenzione e deve contenere la cosiddetta “rivendicazione”, ossia l’indicazione dell’oggetto per cui si
richiede il brevetto.

L’Ufficio brevetti svolge un controllo inerente la regolarità formale della domanda e verifica la sussistenza di quelli che
sono i requisiti dell’invenzione (novità, originalità, industrialità e liceità). Contro le decisioni dell’Ufficio si può fare
ricorso ad apposita Commissione ed è importante sottolineare come alcun controllo venga svolto inerentemente alla
titolarità del diritto AL brevetto da parte del richiedente.

Il brevetto ha durata ventennale e non è possibile ottenerne il rinnovo. Esso conferisce al titolare il diritto
all’utilizzazione esclusiva dell’invenzione, che lo stesso può perdere prima della scadenza in caso di dichiarazione di
nullità o di decadenza. Il brevetto, dunque, dà la possibilità di trarre profitto

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dall’invenzione, fabbricandola o commerciandola, anche se “l’esclusiva di commercio” si esaur isce con la prima
immissione in circolazione nell’Unione Europea del prodotto, al fine di evitare situazioni monopolistiche (si ha il
cosiddetto “esaurimento del brevetto”). Per le invenzioni di procedimento, il brevetto copre solo la messa in commercio
del prodotto ottenuto con il nuovo metodo e non, ovviamente, la commercializzazione dello stesso prodotto ottenuto
con altri nuovi o vecchi metodi.

Il brevetto sulle invenzioni industriale è liberamente trasferibile per atto inter vivos o mortis causa,
INDIPENDENTEMENTE dal trasferimento d’azienda. Sullo stesso brevetto possono essere costituiti diritti reali di
godimento o di garanzia, così come è possibile concedere “licenza d’uso” CON e SENZA esclusiva di fabbricazione a
favore del licenziatario. Al titolare viene riconosciuto dal licenziatario una percentuale sui prodotti venduti (royalties) o
una partecipazione in percentuale agli utili. Molto diffusa è la licenza senza esclusiva di cui si avvale la grande industria
per creare una forma di dipendenza dei licenziatari e situazioni palesemente di monopolio.

A tutela dell’invenzione brevettata può essere esperita l’azione di contraffazione qualora l’invenzione sia stata
abusivamente sfruttata, la quale può portare all’inibitoria della fabbricazione, alla distruzione delle invenzioni
contraffatte, alla pubblicazione della sentenza su uno o più giornali e all’ovvio risarcimento del danno.

Brevettazione internazionale. Brevetto europeo. Brevetto comunitario

Il diritto di esclusiva derivante dal rilascio del brevetto da parte dell’Ufficio italiano brevetto e marchi ha valore solo nel
nostro Paese. Ciò significa che per ricevere tutela a livello internazionale occorre richiedere il “brevetto internazionale”,
presentando una domanda per ciascun Paese aderente alla Convenzione di Unione di Parigi del 1883: la “novità”
dell’invenzione è valutata con riferimento al primo deposito nazionale, purché le altre domande vengano presentate nei
successivi dodici mesi. Ciò che il richiedente ottiene è una serie di brevetti nazionali.

Ad un risultato simile conduce il conseguimento del “brevetto europeo”: in questo caso il richiedente presenta un’unica
domanda all’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco e viene seguita un’unica procedura per il rilascio del brevetto.
Tuttavia, il diritto di esclusiva resta vincolato alle singole legislazioni dei Paesi membri, il che significa che il brevetto è
uno, ma corrispondente ad un fascio di brevetti nazionali.

La situazione sarebbe di gran lunga diversa se tutti i Paesi europei avessero ratificato la Convenzione di Lussemburgo
del 1975 inerente il “brevetto comunitario”: in tal caso sarebbe già in vigore un’unica disciplina inerente il diritto di
esclusiva, ossia quella contemplata dalla stessa Convenzione, seguendo in ogni caso una procedura per il rilascio
identica a quella del brevetto europeo.

L’invenzione non brevettata

Se due presentano una domanda per ottenere il brevetto sulla medesima invenzione è ovvio che tra i due prevalga chi
tale domanda l’ha consegnata per primo. Tuttavia, un soggetto può anche scegliere di utilizzare la sua invenzione in
segreto, senza chiedere il brevetto e rischiando che altri soggetti arrivino al medesimo risultato, ottenendo il
riconoscimento del diritto di esclusiva sull’invenzione.

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In realtà la legge tutela l’invenzione non brevettata nei limiti del preuso, ammesso che sia stata utilizzata nei dodici mesi
anteriori alla presentazione della domanda per il brevetto. La facoltà di continuare ad utilizzare l’invenzione è
addirittura trasferibile, sebbene unitamente all’azienda e tenendo conto che l’onere di dimostrare il preuso permane.

C. I MODELLI INDUSTRIALI

Modelli di utilità

I MODELLI INDUSTRIALI sono creazioni intellettuali nel campo della tecnica, di minor rilievo però rispetto alle
invenzioni industriali. Sono disciplinate dal codice della proprietà industriale e dagli artt.2592-2594 c.c..

Si distinguono in “modelli di UTILITA’”, destinati a conferire maggiore funzionalità, ossia efficacia o comodità di
applicazione, a macchine, strumenti, utensili e oggetti d’uso, e in “DISEGNI e MODELLI”, i quali hanno sostituito i
disegni ornamentali e sono “nuove idee destinate a migliorare l’aspetto dei prodotti industriali”. In sostanza, i modelli di
utilità riguardano l’aspetto funzionale dei prodotti, mentre i disegni e modelli riguardano l’estetica. In alcuni casi è
addirittura possibile ottenere sia il brevetto come modello di utilità che la registrazione come disegno o modello, perché
magari il nuovo trovato ha sia una migliore funzionalità che una diversità estetica rispetto ai precedenti.

I modelli di utilità sono oggetto di brevetto, il che vuol dire che agli stessi si applica la medesima disciplina prevista per
le invenzioni industriali, con l’unica differenza che il brevetto ha durata decennale. Sotto un diverso profilo va osservato
come non sempre sia semplice distinguere i modelli di utilità dalle invenzioni industriali, sia perché la differenza
qualitativa non basta, anche se specifica che il modello di utilità ha sempre ad oggetto il miglioramento della
funzionalità di un prodotto preesistente, sia perché in certi casi non è agevole comprendere quando si tratti di nuovo
prodotto o di rielaborazione di uno già esistente (l’esempio del libro rende l’idea: una nuova ala di aeroplano con
maggiore aerodinamicità è da considerarsi come “nuova ala” o come “rielaborazione dell’ala stessa”?).

Disegni e modelli

In materia di disegni e modelli il nostro legislatore è recentemente intervenuto con il D.lgs.95/2001, il quale ha rivisto la
disciplina a riguardo. Essi possono essere oggetto di REGISTRAZIONE, e non di brevetto, con durata quinquennale,
rinnovabile per un massimo di 5 volte (sino a coprire 25 anni), SOLO qualora siano NUOVI ed abbiano carattere
INDIVIDUALE tale da suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione diversa da altri disegni o modelli già
conosciuti. Non devono più, come invece era previsto in passato, avere una funzione “ornamentale” del prodotto.

Tuttavia, la nuova disciplina ha eliminato il divieto di cumulo tra la tutela del diritto d’autore e la tutela dei modelli
industriali, il che ha comportato una confusione inerente le “opera d’arte applicate all’industria”, oggetto molto spesso
del diritto d’autore, come i multipli di sculture o le riproduzioni in oro di quadri: si applica la disciplina del diritto
d’autore quando tali realizzazioni hanno carattere creativo e valore artistico, non rappresentando semplicemente
un’innovazione estetica.

Alla registrazione nazionale, che da diritto all’utilizzo esclusivo del modello o disegno, si è affiancata recentemente la
disciplina europea inerente la “registrazione comunitaria” presso UAMI di Alicante e

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la tutela di modelli e disegni non registrati per un periodo massimo di tre anni dalla data del primo utilizzo nel territorio
comunitario.

CAPITOLO OTTAVO – LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA

Concorrenza perfetta e monopolio

Il modello di sviluppo basato sull’economia di mercato prevede la presenza di diversi operatori in concorrenza tra loro,
aventi tutti lo scopo di soddisfare quelli che sono i bisogni materiali della collettività dedicandosi all’attività di impresa,
ossia alla produzione e allo scambio di beni e servizi. Tutto ciò dovrebbe comportare un abbassamento generale dei
prezzi, a loro volta determinati dalla domanda del pubblico, ossia dalla richiesta di un determinato bene o servizio sul
mercato. Gli operatori, pur di emergere gli uni rispetto agli altri, dovrebbero infatti abbassare i prezzi e alzare il livello
qualitativo di prodotti, dando la possibilità a tutti di acquistare e a loro stessi di trarne profitto, senza peraltro saturare il
mercato o generare situazioni di monopolio.

Questo modello appena descritto prende il nome di CONCORRENZA PERFETTA: notiamo subito, dando uno sguardo
alla realtà che ci circonda, che si tratta di un modello utopico e irrealizzabile. Nella realtà in cui viviamo la libertà di
iniziativa economica garantita dall’art.41 della Costituzione resta molto spesso lettera morta, perché una cosa è avere la
libertà di iniziare un’attività, altro conto è averne i mezzi: in un mercato che spinge sempre più verso l’unione tra
imprese piccole per la realizzazione di imprese macroscopiche è ovvio che occorrano ingenti capitali e manodopera
specializzata per poter emergere; e tutto ciò senza trascurare la diversa distribuzione delle risorse, che rende difficile
l’ingresso in settori dove le materie prime appartengono a pochi. Ecco perché gli imprenditori preferiscono rischiare di
meno e dar luogo ad “intese”, veri e propri accordi sui prezzi da praticare e sulla spartizione dei mercati. Sui mercati è
frequente scontrarsi con situazione di oligopolio, in cui il prezzo di un prodotto non è determinato dall’incontro tra
domanda e offerta MA dal controllo dell’offerta da parte di poche imprese, che in sostanza il prezzo minimo al quale il
pubblico deve necessariamente acquistare. Per non parlare delle ipotesi in cui una singola impresa riesce a creare “il
vuoto” attorno a se, generando una situazione di monopolio.

Va considerato, tra l’altro, che il modello utopico di concorrenza perfetta non sarebbe così perfetto neanche qualora
fosse possibile realizzarlo: una concorrenza spinta al limite potrebbe benissimo comportare più danni che benefici in
tempi di crisi e le intese tra imprenditori potrebbero servire per evitare eccessi di produzione che il mercato non sarebbe
in grado di assorbire.

Ecco perché i legislatori dei Paesi industrializzati hanno dovuto orientare la propria azione verso un modello di
CONCORRENZA SOSTENIBILE, volto a perseguire il “pubblico interesse”, da un lato vietando situazioni di
monopolio, punendo la concorrenza sleale tra operatori sul mercato, evitando le intese volte a recare un pregiudizio al
commercio, disciplinando il divieto di concorrenza scaturente da determinati contratti e dall’altro consentendo la
creazione di monopoli legali in specifici settori e permettendo alle parti contrattuali di prevedere limiti negoziali della
concorrenza stessa.

Fondamentale, a livello europeo, è stata l’instaurazione di un mercato comune e di regole volte a disciplinare il
comportamento dei vari operatori, così come basilare nel nostro ordinamento è stata la

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L. 7/1990, che dopo lunghi anni di attesa ha introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale, dettando norme
per la tutela della concorrenza e del mercato, affiancatesi a quelle comunitarie in materia.

La disciplina italiana e comunitaria

Tanto la disciplina antimonopolistica italiana quanto quella comunitaria hanno un solo scopo: quello di mantenere un
regime di concorrenza pressoché stabile all’interno dei rispettivi mercati, non permettendo alla libertà d’iniziativa
economica e alla competizione tra imprese di creare instabilità.

Disciplina italiana e disciplina comunitaria tendono, dunque, a reprimere le medesime condotte anticoncorrenziali:
intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni. La disciplina europea in merito è contenuta negli artt.101 e 102
TFUE (vecchi artt.81 e 82 TCE) oltre che in svariati regolamenti, mentre quella italiana è tutta inserita all’interno della
L.287/1990, affiancata da leggi speciali per quanto concerne il settore dell’editoria e radiotelevisivo. Per quanto
concerne l’Unione, poi, a vigilare sull’applicazione delle norme antimonopolistiche, oltre che ad indagini ispettive e
controlli provvede la Commissione, mentre a livello nazionale è stata istituita l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, contro i provvedimenti della quale è competente il Tar del Lazio, mentre dei provvedimenti d’urgenza e delle
cause inerenti il risarcimento danni se ne occupa la Corte d’appello competente territorialmente.

A regolare i rapporti tra la normativa comunitaria e quella italiana provvede il “principio della barriera unica”, in forza
del quale la nostra legislazione interna ha solo carattere residuale, il che significa che qualora una pratica
anticoncorrenziale rechi un pregiudizio al commercio tra gli Stati membri o un danno al mercato comune competente
sarà l’organo comunitario e non quello nazionale. Ciò nonostante la Commissione, col passare del tempo, tende sempre
a cedere maggiormente all’applicazione decentrata, permettendo agli organi dei vari Stati di decidere direttamente,
sebbene rifacendosi al diritto comunitario.

Un particolare: nella nozione di impresa a livello europeo non esiste la distinzione tra imprenditore e professionista
intellettuale, in quanto quest’ultimo è a tutti gli effetti un imprenditore, il che vuol dire che per quanto concerne la
SOLA disciplina antitrust, tanto interna quanto europea, dovrà essere trattato al pari di qualsivoglia altro soggetto di tale
categoria, senza che venga applicata alcuna disciplina differenziata, come invece avviene solitamente.

Le singole fattispecie. Le intese restrittive della concorrenza

Come abbiamo già anticipato sono tre i fenomeni rilevanti per la disciplina antitrust: le intese lesive della concorrenza,
gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni.

Partiamo col dire che per INTESE si intendono tutti gli accordi tra imprese volti a limitare la propria azione sul
mercato, determinando di fatto un danno per la concorrenza. L’intesa si configura in caso di:

 Accordi fra imprese;


 Decisioni, raccomandazioni e consigli di organizzazioni di imprenditori, associazioni o consorzi volti ad
adottare un comportamento comune lesivo della concorrenza;

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 Pratiche concordate, categoria a carattere residuale nella quale rientrano tutti i comportamenti paralleli
concordati a livello diretto o indiretto, anche senza un vero e proprio accordo.

Ovviamente non tutte le intese sono vietate, semplicemente quelle “che abbiano per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare in maniera CONSISTENTE il gioco della concorrenza all’interno del mercato (comunitario o
nazionale) o in una sua parte rilevante “. Se un’intesa, in sostanza, non incide sulla concorrenza nel mercato, allora non
può e non deve essere vietata.

La legge prevede anche un elenco di intese espressamente vietate (ripartizione dei mercati e delle fonti di
approvvigionamento, limitazione della produzione, degli sbocchi al mercato e degli investimenti, conclusione di
contratti subordinata all’accettazione di prestazioni supplementari prive di connessione con i contratti stessi ecc.) ma
esso ha carattere esemplificativo, non esaurendo in alcun modo i comportamenti che possono configurare un’intesa.
Oltre alle intese orizzontali (tra produttori oppure tra distributori), ossia quelle tra soggetti appartenenti alla stessa fase
del ciclo produttivo, sono vietate anche quelle verticali (tra produttore e distributore).

Chiunque può agire in giudizio per far accertare un’intesa, in quanto le intese vietate sono NULLE ad ogni effetto: in tal
caso l’Autorità provvederà ad accertare le infrazioni tramite apposita istruttoria, a far cessare i comportamenti vietati e a
comminare le sanzioni dovute, almeno che non vi sia l’eliminazione da parte delle imprese interessate dei profili
anticoncorrenziali dell’accordo. L’Autorità stessa, tra l’altro, può concedere delle ESENZIONI temporanee “individuali
o per categoria” qualora ritenga che da un’intesa possa scaturire un beneficio per il mercato e per i consumatori, o
magari un miglioramento qualitativo delle produzione o della distribuzione: basilare è che non vi sia lesione della
concorrenza.

Segue: Abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica

Il secondo fenomeno preso in considerazione dalla disciplina comunitaria e nazionale antimonopolistica riguarda
l’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE.

Chiariamo subito alcuni punti chiave: un’impresa acquista una posizione DOMINANTE sul mercato nel momento in
cui riesce ad esercitare sullo stesso, in particolare sui consumatori, un’influenza preponderante rispetto alle imprese
concorrenti, tale da poter agire senza tener conto dei comportamenti delle imprese rivali. L’acquisto di posizione
dominante NON è in alcun modo vietato: non ci sarebbe motivo di vietare un comportamento legittimo, ossia quello
inerente l’acquisizione della posizione di leader sul mercato grazie ad una serie di fattori (amministratori competenti,
manodopera specializzata, giusti investimenti ecc.). Vietato è l’ABUSO di tale posizione, che si configura nel momento
in cui l’impresa agisce col solo fine di recare un danno ai concorrenti o ai consumatori, pregiudicando la concorrenza.

Tra l’altro, per avere rilevanza comunitaria l’abuso deve risultare “PREGIUDIZIEVOLE al commercio tra gli Stati
membri”, non essendo sufficiente l’abuso di posizione dominante a livello locale (per esempio solo in Puglia o anche
solo in Italia).

A livello nazionale, invece, è ovvio che a risultare compromessa dall’abuso in questione è la concorrenza nel mercato
italiano. I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono

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gli stessi individuati per le intese, ma anche qui l’elenco ha valore esemplificativo, non esaurendo le ipotesi di abuso:

 Nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non
eque;
 Nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;
 Nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti,
determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;
 Nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni
supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei
contratti stessi.

E’ fondamentale, per riscontrare se vi è stato abuso di posizione dominante, individuare il “mercato rilevante”, ossia il
settore merceologico-geografico in cui opera l’impresa o il gruppo di imprese.

La violazione del divieto da luogo, anche in questo caso, all’intervento dell’Autorità che, accertata l’infrazione, ne
ordina la cessazione, irroga le sanzioni previste e può decidere anche per una sospensione dell’attività di impresa sino a
30 giorni in caso di reiterata inottemperanza.

Al pari dell’abuso di posizione dominante è punito anche l’abuso di DIPENDENZA ECONOMICA, il quale si
configura nel momento in cui un’impresa dipende da un’altra in misura tale da generare, nei rapporti reciproci, un
eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi, determinato dall’impossibilità di alternative soddisfacenti sul mercato.

Segue: Le concentrazioni

Ultimo fenomeno che prendiamo in considerazione analizzando la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria
è sicuramente quello delle CONCENTRAZIONI, disciplina dalla L.287/1990 a livello interno e dal reg. CE 139/2004 a
livello europeo.

Si ha concentrazione in tre ipotesi distinte:

 Quando due o più imprese danno luogo ad un’operazione di fusione, unendosi in un’unica impresa
(concentrazione giuridica);
 Quando due o più imprese, pur rimanendo indipendenti sotto il profilo giuridico, danno vita ad un’unica entità
economica, sottoponendosi ad una direzione unitaria (concentrazione economica);
 Quando due o più imprese danno vita ad “un’impresa comune” (si applica la disciplina delle intese se lo scopo
dell’impresa comune è quello di coordinare i comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti).

La concentrazione, dunque, può realizzarsi tramite fusione, scissione, acquisto d’azienda, acquisto di una
partecipazione di controllo, praticamente tramite diversi strumenti giuridici tutti volti a raggiungere il medesimo scopo,
ossia la riduzione del numero di imprese in concorrenza sul mercato.

Chiariamo che le concentrazioni non sono di per sé vietate ma lo divengono nel momento in cui, superando un
determinato FATTURATO, danno luogo ad un’alterazione del regime concorrenziale italiano o comunitario. E’ per tal
motivo che queste operazioni vanno comunicate preventivamente

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all’Autorità italiana o alla Commissione dell’Unione Europea, le quali valuteranno se autorizzare la concentrazione.

L’Autorità italiana, per ciò che ci interessa in questa sede, provvede ad aprire apposita istruttoria con durata massima di
45 giorni, al termine dei quali prende una decisione: può autorizzare la concentrazione, autorizzarla a determinate
condizione (per esempio la vendita di un ramo produttivo) o negarla. Qualora sia stata già posta in essere, la
concentrazione non è MAI nulla, perché nulle non sono le operazioni eseguite per attuarla (fusione, scissione ecc.), ma
l’Autorità detta quelle che sono le misure necessarie affinché venga ripristinata la concorrenza effettiva sul mercato,
misure alle quali le imprese interessate devono adeguarsi immediatamente per non andare incontro a pesanti sanzioni
pecuniarie. Ai terzi, dato che la concentrazione si è comunque concretizzata, non resterà che chiedere il risarcimento del
danno.

B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA

Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali

L’art.41 della nostra Carta costituzionale, dopo aver sancito al comma 1 che “l’iniziativa economica privata è libera”,
prevede al comma 2 che essa “non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. Il comma 3 aggiunge che essa debba essere indirizzata a “fini sociali” da
parte della stessa “legge”

L’art.2195 del codice, inoltre, dispone “La concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia
nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”.

Come possiamo notare tanto la Costituzione quanto il codice prevedono, in sostanza, che la libertà economica possa
essere “limitata” per fini di UTILITA’ SOCIALE, limitazione che deve provenire dalla legge, intendendosi quella
ordinaria (vi è quindi una riserva di legge).

Tutto ciò comporta un controllo pubblico sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori in determinati settori, come
quello bancario o assicurativo, per cui occorre un’autorizzazione per iniziare ad esercitare quelle particolari attività
produttive; allo stesso tempo tali settori, reputati come di rilievo economico e sociale, vengono costantemente
controllati, al pari dell’intero mercato, all’interno del quale il CIP (Comitato Interministeriale Prezzi) può addirittura
fissare “prezzi di imperio” per determinati beni o servizi (come i giornali o i medicinali).

In casi estremi ed in settori individuati dall’articolo 43 della Costituzione, il nostro legislatore può addirittura eliminare
del tutto la concorrenza all’interno di un determinato settore del mercato, tramite l’instaurazione di MONOPOLI
PUBBLICI: occorre sempre una legge ordinaria ed è necessario che l’intervento sia mirato a fini di utilità generale,
molto spesso coincidenti con il bisogno dello Stato di garantirsi determinate entrate (monopoli fiscali).

Segue: Obbligo di contrarre del monopolista

Lo Stato o l’ente pubblico o l’imprenditore privato che gode di una concessione esclusiva che operano in regime di
monopolio legale NON sono soggetti in alcun modo alla normativa antitrust.

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Tuttavia, l’art.2597 c.c. pone a carico del monopolista l’obbligo di “contrattare con chiunque richieda le prestazioni
oggetto dell’impresa” e l’obbligo di rispettare la “parità di trattamento” fra i diversi richiedenti, il che comporta il
rispetto dell’ordine cronologico nell’evasione delle richieste, la ripartizione proporzionale delle quantità disponibili fra i
vari richiedenti in caso di richieste simultanee e l’adeguamento delle condizioni contrattuali, modalità e tariffe, alle
condizioni del pubblico. Applicare la parità di trattamento, infatti, non significa in alcun modo assoggettare tutti gli
utenti alle medesime condizioni, ma fare in modo che chiunque possa fruire dei beni e servizi prodotti, oltre che
rispettare le condizioni contrattuali rese note in precedenza, le quali vengono fissate dal legislatore e sottoposte ad
approvazione amministrativa.

Gli obblighi in questione non si applicano, però, al “monopolista di fatto”, ossia a colui che senza autorizzazione alcuna
ha acquisito una posizione dominante sul mercato rendendo la produzione di un proprio bene o servizio insostituibile.
Pertanto l’art.2597 c.c., che comunque rappresenta una norma eccezionale che deroga al principio generale della libertà
contrattuale, non troverà alcuna applicazione.

I divieti legali di concorrenza

Accanto ai limiti alla concorrenza fin qui esaminati, il legislatore detta anche quelli che vengono definiti come DIVIETI
LEGALI DI CONCORRENZA: si tratta di divieti posti a carico di una delle due parti contrattuali all’interno di specifici
contratti individuati dalla legge.

Pensiamo all’art.2105 c.c. che tratta del divieto di concorrenza imposto al lavoratore subordinato finché dura il contratto
o pensiamo al diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia o al già esaminato divieto di concorrenza posto a
carico di chi aliena un’azienda commerciale. Nonostante possa mancare un’espressa pattuizione, il divieto in questione
vale comunque, sebbene sia convenzionalmente derogabile.

Limitazioni convenzionali della concorrenza

Passiamo ad analizzare quelle che solitamente vengono definite come LIMITAZIONI CONVENZIONALI della
concorrenza, in quanto non sono frutto di un’imposizione del legislatore ma di una libera scelta delle parti contrattuali.
Di esse si occupa in linea generale l’art.2596 c.c. il quale prevede: “Il patto che limita la concorrenza deve essere
provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può
eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la
durata di un quinquennio”.

Quindi il patto limitativo della concorrenza deve osservare tre regole: forma scritta ad probationem, limite territoriale o
settoriale e limiti di durata. Tali requisiti hanno il compito di tutelare uno o entrambi i soggetti del contratto, evitando
che essi limitino eccessivamente la loro libertà d’iniziativa economica, ma non vogliono in alcun modo, né tantomeno è
considerabile come obiettivo dell’art.2596, preservare la struttura concorrenziale del mercato o impedire monopoli di
fatto, motivo per cui tali accordi sono soggetti all’intera disciplina antimonopolistica.

Una differenza che dobbiamo attuare tra gli accordi limitativi della concorrenza è quella tra patti autonomi e patti
accessori.

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Si parla di PATTI AUTONOMI nel momento in cui l’accordo limitativo della concorrenza è contenuto in un apposito
documento contrattuale, il quale può contemplare “restrizioni unilaterali”, ossia a carico di una sola parte, e “restrizioni
reciproche”, a carico di entrambi gli imprenditori, Tali accordi prendono il nome di CARTELLI o INTESE e possono
riguardare un accordo circa la quantità da produrre e la quota spettante a ciascuno (cartello di contingentamento), la
ripartizione delle zone di distribuzione (cartello di zona) o i prezzi di vendita da praticare (cartello di prezzo), nonché
varie combinazioni tra queste (cartelli misti).

Qualora il cartello preveda restrizioni unilaterali, siamo ovviamente nell’ambito di applicazione dell’art.2596 del
codice; nel caso di restrizioni reciproche della concorrenza, però, non sempre si è in presenza di un cartello, che è un
contratto innominato, potendosi trattare di un “contratto di consorzio”, avente la medesima finalità ma che prevede
un’organizzazione comune fra gli imprenditori e non ha alcun limite di durata, diversamente dal cartello che può
comunque durare al massimo 5 anni. Quindi, se manca l’organizzazione comune e vi è comunque una restrizione
reciproca, allora siamo in presenza di un cartello di cui all’art.2596 c.c., mentre per eludere il limite quinquennale sarà
sufficiente dar luogo ad un’organizzazione comune tra i partecipanti all’accordo, configurando di fatto un consorzio.

Si parla di PATTI ACCESSORI, invece, nel momento in cui l’accordo restrittivo della concorrenza è contenuto
all’interno di un contratto avente finalità diversa: anche in tal caso si possono avere restrizioni reciproche o unilaterali,
così come restrizioni orizzontali, tra soggetti appartenenti allo stesso livello del ciclo produttivo, o verticali, qualora
avvenga tra soggetti appartenenti a livelli diversi. I patti accessori possono essere addirittura NOMINATI, qualora
disciplinati direttamente dal legislatore: pensiamo alla “clausola d’esclusiva” in un contratto di somministrazione, che
estende la propria durata a quella del contratto base; al “patto di preferenza” a favore del somministrante, della durata
massima di 5 anni; al “patto di non concorrenza” con cui il prestatore di lavoro si obbliga a non esercitare attività
concorrente al datore successivamente alle dimissioni, per un periodo massimo di tre anni (cinque per i dirigenti), che
deve rispettare la forma scritta ad substantiam (e non ad probationem come nel caso dell’art.2596 c.c.) e prevedere un
compenso per il lavoratore, pena la nullità; al patto con cui si limita la concorrenza dell’agente dopo lo scioglimento del
contratto di agenzia, che deve rispettare anch’esso la forma scritta, deve essere limitato allo stesso tipo di attività, alla
medesima zona e alla stessa clientela e non può avere durata superiore ai due anni. In tutti questi casi si tratta di patti
accessori nominati che sfuggono all’applicazione dell’art.2596 c.c., il che ci porta a concludere che il suddetto articolo
valga solo per i patti accessori innominati.

Quindi, secondo tutto ciò che abbiamo detto, possono esserci accordi restrittivi della concorrenza, convenzionali in
quanto voluti dalle parti, che non ricadono nell’ambito di applicazione dell’art.2596 c.c., non dovendo di fatto rispettare
la durata quinquennale o dovendo osservare la forma scritta sotto pena di nullità e non ai soli fini probatori.

Una parte della dottrina aveva ipotizzato, inoltre, che l’art.2596 potesse applicarsi ai soli patti orizzontali e non a quelli
verticali, avendo questi ultimi effetti verso terzi e non tra le parti, diversamente da quanto previsto dall’articolo in
questione. Tale teoria non può essere accettata, perché parte dall’errato presupposto che gli accordi verticali non
producano effetti restrittivi per i contraenti, limitazione che invece tende sempre a manifestarsi.

C. LA CONCORRENZA SLEALE

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Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza

In un sistema basato sull’economia di mercato come modello di sviluppo economico è fondamentale che il mercato non
venga in alcun modo falsato e che la competizione tra gli imprenditori, in concorrenza tra loro per conquistare il
pubblico con i propri beni e servizi, si svolga in maniera corretta e leale. Ecco dunque che diviene necessaria una
distinzione tra gli atti leciti, volti non solo ad attrarre la clientela ma anche a sottrarla ai propri concorrenti in un sistema
fondato proprio sulla necessità di prevalere, e gli atti illeciti, definiti anche come sleali e pertanto vietati all’interno
dell’ordinamento.

Il codice di commercio del 1882 non prevedeva alcunché a riguardo, motivo per cui la lacuna venne ben presto sanata
dalla giurisprudenza ricorrendo alla disciplina dell’illecito civile. Il codice del ’42, invece, contiene negli artt.2598-2601
proprio la disciplina della CONCORRENZA SLEALE, la quale prevede che gli imprenditori concorrenti debbano
servirsi di mezzi e tecniche conformi ai “principi di correttezza professionale”, motivo per cui atti e comportamenti che
violano tale regola (e il legislatore ne individua alcuni: atti di confusione, di denigrazione ecc.) configurano un
ILLECITO CONCORRENZIALE.

Badiamo bene che “illecito concorrenziale” ed “illecito civile” presentano diverse affinità tante quante sono le
differenze: l’illecito concorrenziale si configura anche in assenza di “dolo e colpa” e viene represso, nonché sanzionato,
anche qualora sia SOLO potenziale, ossia in assenza di un danno, essendo sufficiente che l’atto sia idoneo a
danneggiare l’altrui azienda; le sanzioni scaturenti dall’illecito concorrenziale, inoltre, sono l’inibitoria alla
continuazione degli atti sleali e la rimozione degli effetti prodotti, mentre il diritto al risarcimento è solo eventuale, dato
che occorrono anche l’elemento psicologico (dolo o colpa) e il danno patrimoniale attuale. Analizzate le differenze,
però, non possiamo fare a meno di sottolineare come anche l’illecito concorrenziale, al pari di quello civile, sia volto a
prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto, sebbene con una tutela più energica e mirata.

E’ doverosa una precisazione: la disciplina della concorrenza sleale non è dettata per tutelare gli interessi dei
consumatori, che sono il tassello finale del ciclo produttivo dipendendo da essi la vita o la morte delle imprese, bensì gli
imprenditori. E’ ovvio che una protezione delle imprese volta a far si che tra le stesse si instauri una concorrenza leale e
corretta non fa altro che salvaguardare indirettamente anche i consumatori, ma questa è soltanto una conseguenza
positiva della disciplina in questione e tra l’altro non sempre si configura: è sufficiente pensare alle pratiche di
“dumping”, ossia alle vendite sottocosto finalizzate all’annientamento della concorrenza, che portano un vantaggio per i
consumatori ma che permangono tra gli atti di concorrenza sleale.

Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale

I requisiti necessari affinché un atto possa ricadere nel campo di applicazione della disciplina della concorrenza sleale
sono due:

 La QUALITA’ DI IMPRENDITORE di entrambi i soggetti, ossia di quello attivo che pone in essere l’atto e di
quello passivo che lo subisce: anche se l’art.2598 c.c. adopera la formula “compie atti di concorrenza sleale
CHIUNQUE” essa va interpretata restrittivamente, così come va tenuto conto che l’autore dell’atto può porlo
in essere anche “indirettamente”, avvalendosi di collaboratori o ausiliari.

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 L’esistenza di un RAPPORTO DI CONCORRENZA ECONOMICA tra chi pone in essere e chi subisce l’atto:
soggetto attivo e soggetto passivo devono offrire, nello stesso ambito di mercato, beni o servizi volti a sanare il
medesimo bisogno del pubblico. Può trattarsi, tra l’altro, anche di concorrenza POTENZIALE, in quanto
valutando l’esistenza del rapporto di concorrenza occorre tener conto della prevedibile espansione territoriale o
di settore merceologico di chi subisce l’atto. Allo stesso tempo il rapporto di concorrenza può essere anche
VERTICALE, ossia sussistere tra soggetti appartenenti ad un diverso livello del ciclo produttivo.

Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie tipiche

L’art.2598 del codice si occupa di individuare, tanto in forma specifica quanto generale, gli atti di concorrenza sleale:
delle pratiche di concorrenza sleale tipiche si occupano i numeri 1 e 2 dell’articolo, mentre il numero 3 detta una regola
generale di chiusura volta ad individuare TUTTI gli atti di concorrenza sleale e pertanto caratterizzante (la regola)
anche quelli tipici, che ne rispecchiano i requisiti di slealtà.

Partiamo, dunque, dal numero 3 dell’art.2598 c.c., il quale prevede che compia atti di concorrenza sleale chiunque “si
vale direttamente o indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l'altrui azienda”. Ciò vuol dire che un qualsiasi atto di concorrenza sleale DEVE da un lato contrastare con
la correttezza professionale e dall’altro danneggiare, anche solo potenzialmente, altre imprese. E ciò vale, come già
anticipato, anche per le fattispecie tipiche di cui ai numeri 1 e 2 dell’articolo in questione, per le quali tali valutazioni di
idoneità a ledere l’altrui azienda e di violazione della correttezza professionale vengono fatte “a priori” dal legislatore,
eliminando qualsivoglia dubbio in capo all’interprete: stiamo parlando degli ATTI DI CONFUSIONE (n.1) e degli
ATTI DI DENIGRAZIONE E APPROPRIAZIONE DI PREGI ALTRUI (n.2).

E’ atto di concorrenza sleale tipico, in forza del numero 1 dell’art.2598 c.c., ogni atto idoneo a creare confusione con i
prodotti o con l’attività di un concorrente, ossia volto a confondere il pubblico tramite l’utilizzo di segni distintivi fin
troppo simili a quelli “legittimamente usati” da altro imprenditore (in caso di segni distintivi tipici trova applicazione
anche la specifica disciplina già esaminata) o tramite l’imitazione servile, che consiste nella pedissequa riproduzione
delle forme esteriori dei prodotti altrui, imitazione che ovviamente deve riguardare le forme caratterizzanti di un
prodotto e non quelle necessarie (per esempio nel campo dei profumi si deve imitare la famosa bottiglia di Jean Paul
Gaultier e non una qualsivoglia bottiglia, contenitore necessario per contenere un liquido). La categoria appena
esaminata è quella degli ATTI DI CONFUSIONE, tra cui rientra anche qualsivoglia altro mezzo idoneo a creare
confusione con i prodotto o l’attività di un’impresa concorrente (formula generale di chiusura dei soli atti di
confusione).

Sono altresì da considerarsi atti tipici di concorrenza sleale, in quanto contemplati dal numero 2 dell’art.2598 c.c., gli
ATTI DI DENIGRAZIONE, volti alla diffusione di notizie e informazioni su prodotti concorrenti al fine di screditarli, e
l’APPROPRIAZIONE DI PREGI appartenenti ad altra impresa: nel primo caso vi è denigrazione e danneggiamento
della reputazione commerciale, mentre nel secondo il fine è proprio quello di avvantaggiarsi di tale reputazione,
facendola propria.

Tra gli atti di denigrazione possiamo ricomprendere le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte
di concorrenti prive di qualsivoglia fondamento, non veritiere, volte soltanto a

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screditare le imprese in questione, così come ritroviamo anche la pubblicità IPERBOLICA (o superlativa), volta a far
credere che solo il proprio prodotto abbia determinati pregi, mancanti in tutti gli altri della medesima categoria e
provenienti da imprese concorrenti (esempio: solo il latte FOXSHARK ha proprietà curative). La pratica pubblicitaria
del “puffing”, invece, rimane lecita, consistendo nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri
prodotti (esempio: quello della FOXSHARK non è UN latte ma IL latte).

Tra gli atti configuranti un’appropriazione di pregi altrui, invece, ritroviamo la “pubblicità parassitaria” (o per
sottrazione), consistente nell’attribuzione a propri prodotti di qualità, caratteristiche e riconoscimenti che appartengono
ad altre imprese, e la “pubblicità per riferimento” (o per agganciamento), volta ad equiparare i propri prodotti a quelli
ben più noti di altra impresa concorrente (esempi: tipo Fiat, come Cartier, tipo Armani).

Non è invece vietata in maniera assoluta, ma solo quando risulta ingannevole, la pubblicità COMPARATIVA,
disciplinata dal D.lgs.145/2007, ossia quella volta a comparare (e non ad equiparare, come avviene invece nell’ipotesi
di pubblicità per riferimento) i propri prodotti con quelli di altre imprese sulla base di indagini e approfondimenti svolti
da terzi imparziali.

Segue: Gli altri atti di concorrenza sleale

Abbiamo già anticipato come il numero 3 dell’art.2598 c.c. contempli una regola generale di chiusura valevole per tutti
gli atti di concorrenza sleale, sia per quelli individuati dai numeri 1 e 2, sia per tutti gli altri atipici. Il numero 3 dispone:
“compie atti di concorrenza sleale chiunque… si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme
ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.

Ciò significa (lo ripetiamo ancora una volta) che un atto per configurarsi come di concorrenza sleale deve violare i
principi della correttezza professionale e poter creare un danno potenziale ai concorrenti: spetta all’interprete, e quindi a
dottrina e giurisprudenza, analizzare QUANDO e COME vengano superati i confini della correttezza professionale.

Possiamo considerare atti di concorrenza sleale:

 La PUBBLICITA’ MENZOGNERA, ossia quella che trae in inganno il pubblico tramite la falsa attribuzione ai
propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad altro concorrente. Non vi sono gli estremi per poter
parlare di appropriazione di pregi, ma senz’altro vi è un danno potenziale per le imprese concorrenti, dato che
l’attribuzione non veritiera rende il prodotto in questione “migliore” degli altri o quantomeno “unico” nel suo
genere. La pubblicità menzognera venne dapprima vietata dagli stessi imprenditori tramite l’adesione al Codice
di autodisciplina pubblicitaria e successivamente bandita dal d.lgs.74/1992, sostituito dal d.lgs.145/2007 in
materia di pubblicità ingannevole. Le stesse considerazioni valgono per le PRATICHE COMMERCIALI
SCORRETTE di cui parla il codice del consumo;
 La CONCORRENZA PARASSITARIA, che si configura nel momento in cui un’impresa imita
sistematicamente i comportamenti sul mercato di un concorrente, senza creare confusione e distinguendo i
propri prodotti, ma sfruttando comunque l’altrui creatività;

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 Il BOICOTTAGGIO ECONOMICO, sia esso individuale (posto in essere da un’unica impresa) o collettivo
(attuato da un gruppo), consistente nel rifiuto ingiustificato ed arbitrario di rifornire determinati rivenditori dei
propri prodotti, al solo fine di escluderli dal mercato;
 Il DUMPING, vendita sistematica sottocosto dei propri prodotti attuata col solo scopo di eliminare le imprese
concorrenti ed acquisire una posizione di monopolio. Una nota: è l’unica procedura che non crea danni ai
consumatori, ma si configura come ugualmente sleale, il che manifesta la dissociazione tra lesione degli
interessi dei consumatori e slealtà di una pratica commerciale;
 La SOTTRAZIONE DI COLLABORATORI E DIPENDENTI ad un’impresa concorrente, posta in essere col
solo scopo di indebolire la stessa e attuata con mezzi scorretti, per esempio divulgando falsità sull’impresa per
la quale un soggetto lavora. Una nota anche qui: non basta allettare economicamente i dipendenti altrui per
convincerli al cambio di datore di lavoro;
 La VIOLAZIONE DI SEGRETI AZIENDALI, ossia la rivelazione a terzi di informazioni aziendali non note.

Le sanzioni

Il legislatore ha previsto due mezzi per la repressione degli atti di concorrenza sleale, ossia l’INIBITORIA e il
RISARCIMENTO DEL DANNO, rispettivamente contemplati agli artt.2599 e 2600 del codice.

L’AZIONE INIBITORIA è volta a far cessare le turbative subite da una o più imprese in forza degli atti di concorrenza
sleale posti in essere da un concorrente: va accertato l’illecito concorrenziale, inibita la continuazione per il futuro e
vanno disposti i “provvedimenti reintegrativi” a carico della controparte. Inibitoria e sanzioni sono indipendenti,
dunque, dall’elemento psicologico (dolo o colpa) e dal danno patrimoniale attuale, essendo sufficiente quello
potenziale; se, tuttavia, sussistono anche questi due elementi, si può ottenere il RISARCIMENTO DEL DANNO a
norma dell’art.2600 c.c., il quale prevede che si presuma la colpa del danneggiante una volta accertato l’atto di
concorrenza sleale.

Un’ulteriore misura risarcitoria è rappresentata dalla possibilità di ottenere la pubblicazione della sentenza su uno o più
giornali, decisione che spetta al giudice e che porta notevole vantaggio all’impresa o alle imprese che hanno subito
l’atto di concorrenza sleale.

Legittimati ad esperire le relative azioni repressive della concorrenza sleale sono l’imprenditore o gli imprenditori che
hanno subito tali atti, oltre alle associazioni professionali di categoria. Le relative azioni, invece, non competono ai
singoli consumatori o alle associazioni rappresentative dei loro interessi.

Le pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori

Nei precedenti paragrafi abbiamo precisato come la disciplina della concorrenza sleale sia inidonea a tutelare i
consumatori, motivo per cui il nostro legislatore, in attuazione anche di una sostanziosa normativa comunitaria, ha
preferito tutelare direttamente tale categoria, dapprima con l’emanazione del d.lgs.74/1992 in materia di pubblicità
ingannevole e comparativa illecita, poi modificato dal d.lgs.145/2007, in seguito con il codice del consumo
(d.lgs.206/2005) e ancora con il d.lgs.146/2007

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inerente la repressione delle PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE FRA IMPRESE E CONSUMATORI.

Per “pratica commerciale” si intende qualsiasi condotta del “professionista” in relazione alla promozione, alla fornitura
e alla vendita di un prodotto ai consumatori: si tratta pertanto di attività realizzate prima, durante e dopo un’operazione
commerciale (esempi: nella promozione di un prodotto, nell’informazione durante la vendita e nell’assistenza post-
vendita), così come può trattarsi di “omissioni” di informazioni rilevanti. Una pratica commerciale diviene
SCORRETTA nel momento in cui “non è conforme al grado di diligenza che il consumatore dovrebbe ragionevolmente
attendersi dal professionista in base ai principi di correttezza e buona fede” e “risulta idonea a falsare il comportamento
economico del consumatore medio spingendolo ad assumere decisioni che altrimenti non avrebbe preso”. Maggiore
attenzione viene prestata, inoltre, alle pratiche commerciali scorrette poste in essere nei confronti delle categorie di
consumatori più deboli, come bambini e anziani, dove va tenuto conto della capacità di discernimento degli appartenenti
a tale categoria.

Se, da un lato, è sufficiente che una pratica commerciale rispetti i due requisiti descritti per potersi definire scorretta, da
un altro lato è lo stesso legislatore a definire due tipologie di pratiche commerciali scorrette tipiche: stiamo parlando
delle pratiche INGANNEVOLI, contenenti informazioni non veritiere o elementi atti a trarre in inganno il consumatore
tanto da falsarne il comportamento economico, e delle pratiche AGGRESSIVE, ossia quelle che mediante molestie o
coercizione fisica o morale limitano la libertà di scelta del consumatore, anch’esse influenzandone il comportamento
economico.

La legge prevede, inoltre, una serie di pratiche che sono automaticamente da considerarsi “ingannevoli o aggressive”,
sebbene il “catalogo degli orrori” in esame non sia in alcun modo tassativo.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, d’ufficio o su istanza degli interessati, interviene per inibire le
pratiche commerciali scorrette, eliminarne gli effetti e comminare le dovute sanzioni pecuniarie, sebbene un accordo
con il professionista, volto al ripristino della situazione antecedente all’infrazione, possa evitare le sanzioni in questione.
Può essere disposta anche la pubblicazione della decisione su uno o più giornali. Va detto, infine, che la citata
regolamentazione pubblicistica si affianca ai sistemi di autodisciplina a cui imprenditori e associazioni rappresentative
degli stessi danno vita, come il Giurì di autodisciplina pubblicitaria, il ricorso al quale non preclude in alcun modo
l’intervento dell’autorità giudiziaria.

Segue: La pubblicità ingannevole e comparativa

Al fine di reprimere le forme pubblicitarie ingannevoli e, più in generale, contrarie ai principi di correttezza e buona
fede, a partire dalla metà degli Sessanta i più importanti mezzi di pubblicità si sono dati delle regole da seguire,
contenute all’interno di un “codice di autodisciplina”, il quale vieta espressamente la pubblicità ingannevole. A vigilare
sull’osservanza di tale codice e a fungere da organismo di giustizia privata provvede il Giurì di autodisciplina, con sede
a Milano, l’azione dinanzi al quale può essere promossa da chiunque sia stato leso da pubblicità contraria al codice, le
cui decisioni sono insindacabili ma al tempo stesso limitate a coloro che hanno aderito all’autodisciplina in questione.

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Il d.lgs.74/1992 e le relative modifiche, invece, hanno assoggettato la pubblicità ad una specifica normativa, prevedendo
che debba essere “palese, veritiera e corretta”, in quanto per “pubblicità ingannevole” si deve intendere quella “idonea a
trarre in errore le persone alle quali è rivolta, oltre che a viziarne il comportamento economico o a ledere un
concorrente”: questo significa che potranno adire l’autorità garante della concorrenza e del mercato non solo i
consumatori, ma anche gli imprenditori concorrenti, nonché le rispettive associazioni di categoria.

CAPITOLO NONO – I CONSORZI FRA IMPRENDITORI

Nozione e tipologia

La nozione di CONSORZIO è contenuta all’interno dell’art.2602 del codice, così come modificato dalla L.377/1976, e
dispone: “Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo
svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”. Partiamo col dire che la disciplina dei consorzi è contenuta
negli artt.2602-2620 c.c. e che in questa sede trattiamo i “consorzi per il coordinamento della produzione e degli
scambi”, punto che va precisato dato che all’interno del nostro ordinamento il termine “consorzio” viene utilizzato per
indicare diversi fenomeni, privatistici quanto pubblicistici (pensiamo ai consorzi di bonifica o a quelli comunali o a
quelli portuali), assumendo pertanto accezioni differenti da quella che a noi interessa.

Esistono, in forza della nozione codicistica, due tipologie di consorzi: quelli ANTICONCORRENZIALI, in cui
l’organizzazione comune ha il solo fine di limitare la concorrenza tra le imprese che ne fanno parte, le quali svolgono la
medesima attività o attività similari; e quelli DI COORDINAMENTO (o di cooperazione interaziendale), il cui fine è
anche (o solo) quello di “svolgere in comune determinate fasi delle rispettive imprese”, indipendentemente dal fatto che
le stesse siano o meno in concorrenza tra loro, dato che l’obiettivo è la riduzione dei costi di ciascun impresa.

Il nostro legislatore, ovviamente, tende a tenere sotto controllo i consorzi con funzione anticoncorrenziale, in quanto
essi potrebbero spingere la limitazione della concorrenza oltre i limiti della disciplina antimonopolistica, mentre è solito
agevolare la formazione dei consorzi di coordinamento, i quali permettono alle imprese, soprattutto piccole e medie, di
sopravvivere e di accrescere la loro competitività. Ciò nonostante la disciplina a riguardo è unica.

Sul piano civilistico, infine, occorre distinguere i CONSORZI CON SOLA ATTIVITA’ INTERNA, il cui compito
“esclusivo” è quello di regolare i rapporti tra i consorziati senza entrare in contatto con terzi, ed i CONSORZI CON
ATTIVITA’ ESTERNA, i quali prevedono l’istituzione di un ufficio comune che svolge attività con i terzi
nell’interesse delle consorziate.

Il contratto di consorzio

Il contratto di consorzio può essere stipulato SOLO fra imprenditori, sebbene la legislazione speciale preveda in
determinati casi la partecipazione di enti pubblici e di enti privati di ricerca, mentre non è necessario nessun’altro
requisito. E’ un contratto “formale”, in quanto deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità (forma prescritta
dall’art.2603 comma 1), “volontario”, ossia frutto della libera iniziativa delle parti, sebbene la legge preveda in taluni
casi la costituzione di consorzi obbligatori, e “di durata”, sebbene nel silenzio sia valido per dieci anni, derogando
pertanto alla durata quinquennale di cui all’art.2596 c.c. per ciò che concerne anche i consorzi anticoncorrenziali.

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Il contratto deve indicare, a norma del comma 2 dell’art.2603 c.c., l'oggetto e la durata del consorzio, la sede dell'ufficio
eventualmente costituito, gli obblighi assunti e i contributi dovuti dai consorziati, le attribuzioni e i poteri degli organi
consortili anche in ordine alla rappresentanza in giudizio, le condizioni di ammissione di nuovi consorziati, i casi di
recesso e di esclusione e le sanzioni per l'inadempimento degli obblighi dei consorziati.

Il contratto di consorzio, inoltre, è un contratto associativo e pertanto ha struttura potenzialmente aperta, motivo per cui
potranno col tempo aderirvi altri imprenditori, rispettando quelle che sono le condizioni di ammissione di nuovi
consorziati fissate nel contratto. Nel silenzio dello stesso, tuttavia, il consorzio ha struttura chiusa e l’adesione di nuovi
soggetti è vincolata al consenso di tutti i consorziati, fatta eccezione per l’ipotesi di cui all’art.2610 c.c., il quale prevede
che il trasferimento d’azienda comporti l’automatico subingresso dell’acquirente nel consorzio. Nell’ipotesi, però, in cui
sussista una giusta causa e il trasferimento sia avvenuto inter vivos, gli altri consorziati possono escludere l’acquirente
entro un mese dalla notizia dell’avvenuto passaggio dell’azienda.

Qualsiasi consorziato può recedere dal consorzio, così come può esserne escluso, in ogni caso rispettando le cause
fissate dal contratto, anche se nel silenzio dello stesso è comunque ammessa l’esclusione per gravi inadempienze o nel
caso previsto dall’art.2610 c.c. già citato. Al consorziato receduto o escluso spetta la liquidazione della quota di
partecipazione al fondo patrimoniale consortile, necessario tuttavia nei soli consorzi con attività esterna.

L’intero contratto di consorzio, invece, si scioglie nelle ipotesi di cui all’art.2611 c.c. (per il decorso del tempo stabilito
per la sua durata, per il conseguimento dell'oggetto o per l'impossibilità di conseguirlo, per provvedimento dell'autorità
governativa, nei casi ammessi dalla legge, per le altre cause previste nel contratto) che prevede tra l’altro lo
scioglimento con delibera maggioritaria dei consorziati se vi è giusta causa o con decisione unanime in assenza della
stessa.

I consorzi con attività interna. L’organizzazione consortile

Elemento necessario in qualsiasi consorzio è l’ORGANIZZAZIONE COMUNE di cui parla l’art.2602 c.c., che si
estrinseca nella presenza di un organo con funzioni deliberative al quale prendono parte tutti i consorziati,
l’ASSEMBLEA, e di un organo con funzioni gestorie ed esecutive, l’ORGANO DIRETTIVO.

Tutta la disciplina a riguardo, tuttavia, è rimessa all’autonomia contrattuale dei consorziati, almeno per quanto concerne
i consorzi CON SOLA ATTIVITA’ INTERNA, ossia quelli che non entrano in alcun modo in contatto con terzi.
Solitamente, nel silenzio del contratto, l’assemblea delibera a maggioranza per l’attuazione dell’oggetto consortile, e le
delibere saranno impugnabili entro 30 giorni davanti all’autorità giudiziaria dai consorziati dissenzienti e assenti, e
all’unanimità per la modifica del contratto.

L’organo direttivo, nei consorzi con attività interna, si limita ovviamente a controllare che i consorziati adempiano le
obbligazioni assunte a livello contrattuale, non dovendo in alcun modo entrare in contatto con terzi.

I consorzi con attività esterna

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Gli articoli dal 2612 al 2615ter del codice sono appositamente dedicati ai CONSORZI CON ATTIVITA’ ESTERNA,
ossia a quelli per cui è necessaria la formazione di un ufficio comune con il compito di trattare con terzi. Notiamo
subito come tali consorzi, quantomeno nell’ipotesi di consorzi di cooperazione interaziendale, svolgono di per sé
un’attività imprenditoriale commerciale inquadrabile tra quelle ausiliarie di cui all’art.2195 num.5, motivo per cui
costituiscono una delle possibile forme organizzative per l’esercizio collettivo di attività d’impresa. Il contratto di
consorzio, pertanto, deve essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese entro trenta giorni dalla
stipulazione, così come sono soggette ad iscrizione le modifiche dello stesso contratto.

Annualmente, in tali consorzi, va redatta la situazione patrimoniale, osservando le norme per il bilancio d’esercizio
delle S.p.A., la quale deve essere depositata presso l’ufficio del registro delle imprese.

Dettagliata appare anche la disciplina dell’organo direttivo, dato che il contratto deve prevedere a chi spetti la
presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio, con successiva iscrizione nel registro delle imprese.
Presidente e direttore, oltre ai soggetti rappresentanti, hanno rappresentanza processuale passiva del consorzio.

Il consorzio con attività esterna deve NECESSARIAMENTE avere un fondo patrimoniale consortile, costituito dai
contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati grazie agli stessi: esso costituisce “patrimonio
autonomo” rispetto ai singoli patrimoni dei consorziati, il che significa che è aggredibile solo dai creditori del consorzio
fino alla durata dello stesso, periodo in cui non è possibile una divisione tra i consorziati. L’art.2615 c.c. individua due
tipi di obbligazioni che possono gravare su tale fondo: quelle ASSUNTE IN NOME DEL CONSORZIO dai suoi
rappresentanti, per cui risponde ESCLUSIVAMENTE il consorzio con il suo patrimonio e non chi agito in nome dello
stesso, e obbligazioni ASSUNTE DAGLI ORGANI DEL CONSORZIO PER CONTO DI SINGOLI CONSORZIATI,
per cui rispondono SOLIDALMENTE il consorziato o i consorziati interessati ed il fondo consortile. In quest’ultima
ipotesi, qualora il consorziato sia insolvente, il suo debito si ripartisce pro quota tra gli altri consorziati, mentre il fondo
consortile ha solo funzione di garanzia: qualora sia il consorzio a pagare, esso avrà azione di rivalsa nei confronti del
consorziato o, se insolvente, di tutti gli altri consorziati.

Le società consortili

Partiamo col dire che consorzi e società sono due istituti diversi all’interno del nostro ordinamento. Se questa differenza
è evidente quando il consorzio svolge solo attività interna, mancando del tutto l’esercizio in comune di un’attività
economica, essa diventa più sottile nell’ipotesi di consorzi con attività esterna, dato che essi, al pari delle società,
svolgono attività imprenditoriale e tendono a realizzare uno scopo “egoistico” dei partecipanti.

Ma è proprio nello scopo che sta la differenza.

Il fine del consorzio NON è quello di produrre beni o servizi per cederli a terzi e conseguire degli utili, bensì consiste
nel destinare tali beni o servizi prodotti alle imprese consorziate. Di conseguenza lo scopo che anima i partecipanti al
consorzio non riguarda il ricavo diretto di un utile, bensì la sopportazione di minori costi o il conseguimento di maggiori
ricavi usufruendo di beni o servizi messi a

72
loro disposizione dall’impresa consortile. Nelle società, invece, lo scopo è proprio inerente la divisione di utili, da
raggiungere ponendo in essere un’attività di produzione o scambio di beni o servizi.

Di regola, dunque, una società acquista merci per rivenderle a terzi, in modo da produrre utili da dividere tra i soci,
mentre un consorzio acquista merci per rivenderle a prezzo agevolato ai consorziati, anche se ai consorzi non è fatto
divieto di svolgere attività lucrativa.

Si potrebbe obiettare, dopo queste osservazioni, che i consorzi sono identici alle società cooperative, dato che anche
esse perseguono lo scopo mutualistico, volto a procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto e non a dividere gli
utili tra gli stessi. Tuttavia, lo scopo mutualistico delle cooperative può essere di vario tipo, mentre lo scopo
mutualistico dei consorzi è SPECIFICO e TIPICO, consistendo nella riduzione dei costi di produzione o nell’aumento
dei ricavi delle rispettive imprese.

Dopo aver tracciato le differenze, però, dobbiamo aggiungere che l’art.2615-ter del codice permette a tutte le società
lucrative, fatta eccezione per la società semplice, di “assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall’art.2602
c.c.”, ossia di perseguire lo scopo consortile. La dottrina ha esteso tale norma anche alle società cooperative.
Differentemente da ciò che avveniva in passato, dunque, oggi è possibile per una società avere come scopo esclusivo
quello consortile. Rimane un unico dubbio: alle società consortili va applicata la disciplina delle società o una disciplina
mista? Sebbene una parte della dottrina sostenga la seconda tesi, essa non è in alcun modo accettabile, in quanto non
sarebbe agevole individuare fino a dove adottare una disciplina legislativa e iniziare ad applicare l’altra. Le società
consortili sono SOCIETA’ a tutti gli effetti, sebbene con uno scopo specifico, e pertanto ad essere va applicata la
disciplina prevista per il tipo di società scelto. Resta possibile, in ogni caso, inserire nell’atto costitutivo specifiche
pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria alla specifica finalità consortile, purché esse non siano incompatibili
con norme inderogabili del tipo societario.

CAPITOLO DECIMO – IL GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO

Caratteri generali

Il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE) è un nuovo istituto introdotto dal regolamento CE 2137/1985 con il
fine di garantire e agevolare la cooperazione economica transnazionale, ossia tra imprese appartenenti a Paesi diversi
dell’Unione.

La disciplina base del regolamento è poi integrata dalle singole discipline nazionali nei punti lasciati alla libertà di
scelta dei singoli legislatori dallo stesso regolamento: in Italia l’istituto è stato reso operativo grazie al D.lgs.240/1991.

Il Geie somiglia molto ai consorzi di cooperazione con attività esterna, in quanto anch’esso è un organismo associativo,
autonomo centro di imputazione, con il compito di agevolare e sviluppare l’attività economica dei suoi membri, SENZA
poter realizzare profitti per se stesso. I suoi componenti devono essere obbligatoriamente persone fisiche o giuridiche
esercenti attività economica, ma non necessariamente imprenditori, come invece è previsto per i consorzi. E’ necessario,
inoltre, che almeno due membri del gruppo appartengano a Paesi diversi dell’Unione, non essendo il Geie uno
strumento giuridico utilizzabile tra imprese dello stesso Stato.

La disciplina

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Il contratto costitutivo del GEIE deve osservare ad substantiam la forma scritta ed è soggetto a pubblicità legale,
mediante iscrizione nel registro delle imprese e successiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Repubblica, di cui
viene data comunicazione anche nella GU delle CE. L’iscrizione nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva,
mentre la pubblicazione in GU ha mera funzione dichiarativa: prima dell’iscrizione il Gruppo non esiste e non può
essere titolare di diritti ed obbligazioni, motivo per cui rispondono solidalmente e illimitatamente colo che hanno agito
in nome di un gruppo che ancora non esiste, salvo che lo stesso non si assuma in un secondo momento tutti gli obblighi.

Il contratto deve contenere: la denominazione del Gruppo seguita dalla dicitura GEIE, l’indicazione della sede
all’interno dell’UE, l’oggetto, il nome dei membri e la durata, che può essere anche a tempo indeterminato.

Sono cause di nullità del contratto quelle generalmente previste dal diritto comune (art.1418 c.c.), data l’applicazione
della disciplina nazionale e il silenzio del nostro legislatore a riguardo. Gli effetti della nullità, invece, sono dettati dal
legislatore comunitario e ricalcano quelli previsti per le società di capitali: mancanza di effetto retroattivo, validità degli
atti compiuti, operatività come causa di scioglimento ex lege del gruppo e nomina dei liquidatori all’interno della
sentenza di nullità, nullità sanabile.

Sebbene l’organizzazione del Geie sia rimessa all’autonomia privata, sono comunque previsti due organi obbligatori:
l’ASSEMBLEA, composta da tutti i membri a cui spetta un singolo voto, salvo diversamente previsto nel contratto, che
decide all’unanimità su alcuni argomenti individuati dal regolamento o addirittura su tutti gli argomenti se il contratto
tace in merito alle maggioranza richieste; gli AMMINISTRATORI, i quali hanno la rappresentanza del gruppo e a cui è
affidata la gestione dello stesso.

Il Geie è obbligato alla tenuta delle scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali, anche se svolge attività
agricola. Sono gli amministratori a redigere il bilancio, che deve essere approvato dai membri, per poi depositarlo nel
registro delle imprese entro 4 mesi dalla chiusura dell’esercizio.

Non potendo il Geie avere profitti propri, gli stessi, così come le perdite, andranno ripartiti tra i membri del gruppo in
proporzione secondo il dettato contrattuale, altrimenti in parti uguali.

Il Geie non deve avere obbligatoriamente un fondo patrimoniale, né qualora lo abbia esso va elevato automaticamente a
patrimonio autonomo: delle obbligazioni di qualsivoglia genere assunte dal Gruppo rispondono ILLIMITATAMENTE
e SOLIDALMENTE tutti i membri, sebbene solo dopo che i creditori abbiano chiesto al gruppo stesso di pagare e il
pagamento non sia stato effettuato. I nuovi membri rispondono anche delle obbligazioni antecedenti al loro ingresso nel
gruppo, così come i vecchi membri rispondono delle obbligazioni anteriori alla loro uscita, anche dopo lo scioglimento
del Geie e per un periodo di 5 anni.

L’ammissione di nuovi membri e la cessione della quota di partecipazione di uno di essi richiedono una decisione
unanime. Le cause di recesso ed esclusione devono essere fissate dal contratto, anche se è ammesso il recesso per giusta
causa o con l’accordo unanime degli altri componenti. Sono esclusi “di diritto” i membri che perdono i requisiti per la
partecipazione al gruppo e quelli assoggettati a

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procedura concorsuali. Chi esce dal gruppo per recesso o per esclusione ha diritto alla liquidazione della sua quota di
partecipazione.

Il gruppo si scioglie per:

 Scadenza del termine;


 Conseguimento dell’oggetto o impossibilità di conseguirlo;
 Venir meno della pluralità o della diversa nazionalità dei membri;
 Pronuncia del giudice in presenza di giusta causa.

Dopo lo scioglimento si apre la liquidazione del gruppo, disciplinata secondo le regole delle società di persone.
Teniamo presente, inoltre, che il Geie insolvente è esposto al fallimento, ma che non falliscono automaticamente i suoi
membri, sebbene illimitatamente responsabili. Gli organi fallimentari, tuttavia, potranno chiedere ai membri le somme
necessarie per estinguere i debiti.

CAPITOLO UNDICESIMO – LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE

La collaborazione temporanea ed occasionale fra imprese

Le ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE (o RAGGRUPPAMENTI temporanei di imprese o JOINT


VENTURES) sono forme di cooperazione temporanea ed occasionale fra imprese poste in essere al fine di realizzare
un’unica grande opera o un affare complesso: si tratta di opere la cui realizzazione è divisibile in compartimenti stagni,
tali da garantire che ciascuna impresa possa ultimarne i lavori, o necessita di una moltitudine di prestazioni specifiche
diverse, tali che ogni impresa possa svolgere la prestazione per la quale è competente. Pensiamo alla realizzazione di
un’autostrada, che può essere divisa in tratti da costruire, o alla costruzione di un quartiere per cui occorrono
competenze di vario genere (elettriche, idrauliche, murarie ecc.).

Sul piano giuridico, tuttavia, per realizzare tali opere non conviene costituire una società o un consorzio, anzitutto
perché ciò risulterebbe inutile nel caso di mancata vittoria della gara d’appalto e anche perché, pur vincendo la gara
d’appalto, sarebbe comunque il consorzio (o la società) a risultare obbligato alla realizzazione di tutti lavori, sottraendo
alle singole imprese un’autonomia che le stesse non sono disposte a perdere: le varie imprese vogliono collaborare,
vogliono essere collegate, presentare un’offerta congiunta e obbligarsi ad eseguire l’opera complessiva affidando alla
“capogruppo o capofila” la gestione dei rapporti col committente e il coordinamento della fase esecutiva MA non sono
per niente disposte a perdere la propria singolarità. Ecco, dunque, che viene in soccorso l’associazione temporanea di
imprese, configurabile sotto il profilo giuridico come contratto associativo innominato, possibile e lecito in forza
dell’autonomia contrattuale delle parti di cui all’art.1322 del codice e pertanto non ancora disciplinato dal legislatore,
che ha regolato solo taluni aspetti di alcune forme tipiche di cooperazione: accordi internazionali per la produzione di
opere cinematografiche, contitolarità per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi o minerari, associazioni
temporanee di imprese per la partecipazione ad appalti pubblici di lavori, forniture e servizi.

Le associazioni temporanee per la partecipazione agli appalti pubblici

Analizziamo adesso la disciplina dettata per gli appalti pubblici, su cui è necessario soffermarsi dato il particolare
rilievo economico.

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Il Codice degli appalti pubblici (d.lgs.163/2006) prevede la possibilità che una singola grande opera, così come la
prestazione di forniture o servizi, siano appaltate ad una pluralità di imprese, che conservano la loro individualità ma
che conferiscono ad una “capogruppo o capofila” un MANDATO COLLETTIVO GRATUITO CON
RAPPRESENTANZA, tramite scrittura privata autenticata, in forza del quale tale impresa è legittimata non solo a
presentare un’unica offerta, in nome e per conto proprio e delle altre imprese, ma conserva per tutta la durata dell’opera
la veste di rappresentante. Derogando alla disciplina di diritto comune, inoltre, il mandato risulta irrevocabile e la
revoca per giusta causa non ha effetto nei confronti dell’appaltante, neanche in presenza di una decisione unanime delle
mandanti. La capofila, inoltre, ha la rappresentanza processuale “esclusiva” delle altre imprese.

Una distinzione di rilievo che dobbiamo tener presente è quella tra APPALTI NON SCORPORABILI, ossia quelli
inerenti opere non divisibili in parti assestanti e che danno vita ai cosiddetti RAGGRUPPAMENTI ORIZZONTALI,
tanto che TUTTE le imprese rispondono solidalmente per l’intera opera in quanto la divisione dei lavori ha solo
rilevanza interna, e APPALTI CON PARTI SCORPORABILI, riguardanti opere che l’ente committente stesso dichiara
divisibili in più parti e che danno vita a RAGGRUPPAMENTI VERTICALI, con la responsabilità della SOLA
capogruppo per tutta l’opera mentre le altre imprese, sempre solidalmente con la capofila, rispondono solo per la parte
di propria competenza.

Chiariamo inoltre che in caso di morte, interdizione o inabilitazione del titolare della capogruppo o nell’ipotesi in cui la
stessa vada in fallimento, il committente è libero di sostituire tale imprese con altra capofila o di recedere dall’appalto;
se uno di questi eventi, invece, riguarda altra impresa facente parte dell’associazione temporanea o il suo titolare, allora
spetta alla capogruppo sostituire tale impresa o provvedere direttamente ad eseguire la prestazione rimasta scoperta,
senza in ogni caso rendere necessario il consenso del committente.

Resta ferma la libertà del gruppo, dopo essersi aggiudicato l’appalto, di costituire una società, anche consortile, per
l’esecuzione UNITARIA totale o parziale dell’opera e che subentra automaticamente nei lavori: punto centrale, però,
rimane la salvaguardia del committente, motivo per cui viene mantenuto il regime di responsabilità esposto in questo
paragrafo.

FINE

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77
CAPITOLO 1 – LE SOCIETA’

1. IL SISTEMA LEGISLATIVO

Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dall’autonomia privata per l’esercizio in comune di un’attività
produttiva. Sono le strutture tipiche previste dall’ordinamento per l’esercizio in forma associativa dell’attività di impresa
(impresa collettiva). Il legislatore prevede vari tipi di società fra le quali le parti posso scegliere il tipo societario più
rispondente alle loro specifiche esigenze operative. I tipi previsti sono:

- Società di persone:
o società semplice;
o società in nome collettivo;
o società in accomandita semplice;
- Società di capitali:
o società per azioni;
o società in accomandita per azioni;
o società a responsabilità limitata;
- Società cooperativa;
- Mutue assicuratrici.

Il diritto comunitario prevede: società europea; società cooperativa europea.

A. LA NOZIONE DI SOCIETA’

2. IL CONTRATTO DI SOCIETA’
Anche se il legislatore prevede vari tipi di società,ma un’unica nozione di CONTRATTO DI SOCIETÀ, previsto dall’art. 2247: “Con
il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo
di dividerne gli utili”. L’art. 2247 ha il compito di fissare i caratteri minimi comuni del fenomeno societario, cioè i caratteri che un
ente associativo di diritto privato deve necessariamente presentare per poter essere qualificato come società e che perciò
devono essere presenti in tutti i tipi di società.
Le società sono, in base all’art. 2247, degli enti associativi a base contrattuale, in quanto nascono dall’accordo di due o più parti
per costituire e regolare fra loro un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale, art. 1321.

Sotto il profilo contrattuale, le società possono essere inquadrate nella categoria dei contratti associativi o con comunione di
scopo. Questi contratti si caratterizzano e si differenziano rispetto ai contratti di scambio, in quanto, nei contratti associativi
l’avvenimento che soddisfa l’interesse di tutti i contraenti è unico, cioè l’esercizio in comune dell’attività economica che
forma oggetto del contratto mentre, nei contratti di scambio l’avvenimento che soddisfa l’interesse di una delle parti è diverso
dall’avvenimento che soddisfa l’interesse dell’altra parte.

Da ciò derivano alcuni caratteri strutturali dei contratti associativi e del contratto di società:

a. Nei contratti associativi, le prestazioni di ciascuna parte (i conferimenti) possono anche essere di diversa natura e di
diverso ammontare; infatti essi non devono rispondere a un rapporto di corrispettività con un’altra
controprestazione. Tutte le prestazioni hanno uno scopo comune, l’esercizio dell’attività, e tutte trovano il loro
corrispettivo nella partecipazione ai risultati dell’attività comune.
b. Il contratto associativo è un contratto potenzialmente plurilaterale ed aperto, cioè può essere stipulato da più parti e
da un numero illimitato di parti.

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CAPITOLO 1 – LE SOCIETA’

1. IL SISTEMA LEGISLATIVO

Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dall’autonomia privata per l’esercizio in comune di un’attività
produttiva. Sono le strutture tipiche previste dall’ordinamento per l’esercizio in forma associativa dell’attività di impresa
(impresa collettiva). Il legislatore prevede vari tipi di società fra le quali le parti posso scegliere il tipo societario più
rispondente alle loro specifiche esigenze operative. I tipi previsti sono:

- Società di persone:
o società semplice;
o società in nome collettivo;
o società in accomandita semplice;
- Società di capitali:
o società per azioni;
o società in accomandita per azioni;
o società a responsabilità limitata;
- Società cooperativa;
- Mutue assicuratrici.

Il diritto comunitario prevede: società europea; società cooperativa europea.

A. LA NOZIONE DI SOCIETA’

2. IL CONTRATTO DI SOCIETA’
Anche se il legislatore prevede vari tipi di società,ma un’unica nozione di CONTRATTO DI SOCIETÀ, previsto dall’art.
2247: “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività
economica allo scopo di dividerne gli utili”. L’art. 2247 ha il compito di fissare i caratteri minimi comuni del fenomeno
societario, cioè i caratteri che un ente associativo di diritto privato deve necessariamente presentare per poter essere
qualificato come società e che perciò devono essere presenti in tutti i tipi di società. Le
società sono, in base all’art. 2247, degli enti associativi a base contrattuale, in quanto nascono dall’accordo di due o
più parti per costituire e regolare fra loro un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale, art. 1321.

Sotto il profilo contrattuale, le società possono essere inquadrate nella categoria dei contratti associativi o con
comunione di scopo. Questi contratti si caratterizzano e si differenziano rispetto ai contratti di scambio, in quanto, nei
contratti associativi l’avvenimento che soddisfa l’interesse di tutti i contraenti è unico, cioè l’esercizio in comune
dell’attività economica che forma oggetto del contratto mentre, nei contratti di scambio l’avvenimento che soddisfa
l’interesse di una delle parti è diverso dall’avvenimento che soddisfa l’interesse dell’altra parte.

Da ciò derivano alcuni caratteri strutturali dei contratti associativi e del contratto di società:

a. Nei contratti associativi, le prestazioni di ciascuna parte (i conferimenti) possono anche essere di diversa natura e
di diverso ammontare; infatti essi non devono rispondere a un rapporto di corrispettività con un’altra
controprestazione. Tutte le prestazioni hanno uno scopo comune, l’esercizio dell’attività, e tutte trovano il loro
corrispettivo nella partecipazione ai risultati dell’attività comune.
b. Il contratto associativo è un contratto potenzialmente plurilaterale ed aperto, cioè può essere stipulato da più
parti e da un numero illimitato di parti.
c. Il contratto associativo è un contratto di organizzazione di una futura attività. Ne consegue che il contratto di
società non esaurisce la sua funzione con l’esecuzione delle prestazioni (i conferimenti) in quanto fissa le basi
organizzative della futura attività comune e predetermina le modalità di partecipazione individuale all’attività del
gruppo ed ai risultati della stessa.
Speciale disciplina prevista per i contratti associativi:la nullità, l’annullabilità, la risoluzione che colpiscono il vincolo di
una delle parti non comportano la nullità, l’annullabilità o la risoluzione dell’intero contratto, salvo che la partecipazione
venuta meno debba considerarsi essenziale.

3. I CONFERIMENTI
Le società sono enti associativi che si caratterizzano per la contemporanea presenza di tre elementi:
a. i conferimenti dei soci;
b. l’esercizio in comune di un’attività economica, scopo-mezzo;
c. lo scopo di divisione degli utili, scopo-fine.
La contemporanea presenza di tali elementi consente di distinguere le società dagli altri fenomeni associativi
(associazione in partecipazione, comunione, consorzi).

I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano. Essi costituiscono i contributi dei
soci alla formazione del patrimonio iniziale della società, detto capitale di rischio, per lo svolgimento dell’attività di
impresa. Col conferimento ogni socio destina stabilmente (per tutta la durata della società) parte della propria ricchezza
personale all’attività comune e si espone al rischio di impresa, cioè a rischiare di non ricevere nessuna enumerazione se
non ci sono utili, o di perdere, in tutto o in parte, quanto apportato se la società subisce perdite. Diversi, da socio a socio,
possono essere sia l’oggetto sia l’ammontare del conferimento. In riguardo all’oggetto dei conferimenti,
l’art. 2247 stabilisce genericamente che essi possono essere costituiti da beni e da servizi: denaro, beni in natura
trasmessi in proprietà o in godimento, prestazioni di attività lavorativa, ecc. Cioè, può costituire oggetto di conferimento
ogni entità suscettibile di valutazione economica che le parti ritengono utile o necessaria per lo svolgimento della comune
attività di impresa. In realtà, questo principio va coordinato con la disciplina dei singoli tipi societari. Trova riscontro solo
nelle società di persone e, dopo la riforma del 2003, nella srl. Ma, per le società per azioni e nelle società cooperative per
azioni, l’art. 2342, 5° comma, stabilisce espressamente che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni
d’opera o di servizi.

4. PATRIMONIO SOCIALE E CAPITALE SOCIALE

Il patrimonio sociale è il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società. Esso,
inizialmente, è costituito dai conferimenti eseguiti o promessi dai soci, successivamente subisce continue variazioni
qualitative o quantitative in relazione alle vicende economiche della società. La consistenza del patrimonio sociale è
accertata periodicamente attraverso la redazione del bilancio di esercizio. La differenza fra attività e passività è detta
patrimonio netto.
Il patrimonio sociale costituisce la garanzia generica principale od esclusiva dei creditori della società:

- sarà garanzia principale, se per le obbligazioni sociali rispondono anche i soci con il proprio patrimonio.
- sarà garanzia esclusiva, se per le obbligazioni sociali risponde solo la società col proprio patrimonio.

Il capitale sociale nominale è, invece, la cifra che esprime il valore in danaro dei conferimenti quale risulta dalla
valutazione compiuta nell’atto costitutivo della società. Indica, quindi, il valore delle attività patrimoniali che i soci si
sono impegnati a non distrarre dall’attività di impresa e che perciò non possono liberamente ripartirsi per tutta la durata
della società. I soci potranno ripartirsi solo la parte di patrimonio netto che supera l’ammontare del capitale sociale. Il
capitale sociale nominale rimane immutato nel corso della vita della società fin quando, con modifica dell’atto costitutivo,
non se ne decide l’aumento o la riduzione. È quindi un valore storico. Il capitale sociale è una
quota del patrimonio netto non distribuibile fra i soci e perciò assoggettata ad un vincolo di stabile destinazione
all’attività sociale, funzione vincolistica. Infatti, il valore del capitale sociale è iscritto in bilancio insieme alle passività.
La funzione vincolistica del capitale sociale si risolve per i creditori in una garanzia patrimoniale supplementare, in
quanto potranno soddisfare i loro crediti su un attivo patrimoniale eccedente le passività (passività che devono
corrispondere almeno al valore del capitale sociale).

Il capitale sociale nominale ha poi una funzione organizzativa, cioè è un termine di riferimento per accertare
periodicamente se la società ha conseguito utili o ha subito perdite. Questo ruolo organizzativo è più accentuato nelle
società di capitali, in quanto in esse, il capitale sociale funge da base di misurazione di alcune fondamentali situazioni
soggettive dei soci, sia di carattere amministrativo (diritto di voto), sia di carattere patrimoniale (diritto agli utili ed alla
quota di liquidazione). Infatti, tali diritti spettano a ciascun socio in misura proporzionale alla parte del capitale sociale
sottoscritto. In
conclusione : il capitale sociale è sì una cifra numerica, ma è anche un termine di riferimento per un ordinato e corretto
svolgimento della vita sociale.

5. L’ESERCIZIO IN COMUNE DI ATTIVITA’ ECONOMICA


Il secondo elemento delle società è l’esercizio in comune di un’attività economica, detto scopo-mezzo del contratto di
società.
Con il termine Oggetto sociale si definisce la specifica attività economica che i soci si propongono di svolgere. Tale
attività deve essere predeterminata nell’atto costitutivo della società ed è modificabile nel corso della vita della stessa solo
con l’osservanza delle norme che regolano le modificazioni dell’atto costitutivo.

In tutte le società l’oggetto sociale deve consistere nello svolgimento di un’attività (cioè una serie coordinata di atti) e di
un’attività economica, o meglio di un’attività produttiva, cioè un’attività a contenuto patrimoniale, condotta con metodo
economico e finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Essenziale per aversi società è che l’attività
produttiva sia esercitata in comune. Perché un’attività economica possa definirsi comune a più soggetti è necessario che
essa sia preordinata alla realizzazione di un risultato unitario e comune. Cioè di un risultato giuridicamente imputabile al
gruppo in quanto tale, in modo che tutti i soci sia partecipi del risultato positivo o negativo della stessa attività. Inoltre, è
necessario che i singoli atti di impresa siano prodotti secondo modalità che ne consentano l’imputazione al gruppo
unitariamente considerato. È necessario che chi agisce nei rapporti esterni sia abilitato ad agire per conto del gruppo ed
agisca in nome dello stesso, rendendo così palese tale sua posizione.

Il carattere comune dell’attività consente una distinzione fra società e associazione in partecipazione. Contratto
quest’ultimo con il quale “l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o
più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”, art. 2549. Nell’associazione in partecipazione l’attività in
impresa resta propria ed esclusiva dell’associante; i singoli atti di impresa possono e debbono essere posti in essere solo in
suo nome e a lui sono giuridicamente imputabili, anche se compiuti dall’associato.

6. SOCIETA’ E IMPRESA. LE SOCIETA’ OCCASIONALI


L’attività delle società presenta di regola tutti i caratteri propri dell’attività di impresa, art. 2082, cioè un’attività
produttiva esercitata in modo professionale ed organizzato. Quindi, alle società è applicabile la disciplina dell’attività di
impresa, perciò se l’attività esercitata è un’attività commerciale, la società è esposta al fallimento. Ma, la società può
essere utilizzata anche per l’esercizio di attività produttiva a carattere non imprenditoriale. Esempi ne sono le società
occasionali e le società fra professionisti.

SOCIETÀ OCCASIONALI: L’art. 2247 richiede che l’attività delle società abbia carattere produttivo, ma non fa cenno al
requisito della professionalità richiesto dall’art. 2082 per l’acquisto della qualità di imprenditore. Perciò, è legittimo
ritenere che l’esercizio in comune di un’attività non professionale, occasionale, è sufficiente per dar vita ad una società,
ma nel contempo non da vita ad un’impresa per difetto del requisito della professionalità.

Alle società occasionali è applicabile la disciplina del tipo di società prescelto, ma non la disciplina dell’impresa. In
particolare, se l’attività è commerciale, la società occasionale è sottratta al fallimento.

Non si ha né società né impresa quando due persone realizzano insieme un affare che si risolve nel compimento di un
solo atto economico o anche più atti non coordinati da un disegno unitario. In tal caso difetta il requisito fondamentale
dell’attività, serie di atti coordinati, essenziale per aversi sia società, sia impresa.

Sia ha sia società sia impresa quando due persone